Delirium di Lusivia (/viewuser.php?uid=798011)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Se non lo prendi sul serio, non può farti del male. ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** La Vecchia Regina Templare ***
Capitolo 4: *** Quando il fato prese a girare ***
Capitolo 5: *** L'inaugurazione ***
Capitolo 6: *** Un bicchiere con l'Assassino ***
Capitolo 7: *** L'odore del sangue ***
Capitolo 8: *** 8.Rosso cremisi ***
Capitolo 9: *** 9.Un sentimento incontenibile. ***
Capitolo 10: *** 10.L'ultima lacrima del cielo. ***
Capitolo 11: *** 12.Non si è mai veramente soli. ***
Capitolo 12: *** 11. Deus dedit, deus abstulit ***
Capitolo 13: *** 13.Volere più tempo. ***
Capitolo 14: *** 14.Il passato non svanisce mai. ***
Capitolo 15: *** 15.Questione di fiducia. ***
Capitolo 1 *** Se non lo prendi sul serio, non può farti del male. ***
Desclaimer
: Il racconto presenta l’inserimento di personaggi
inediti (copyright di Lusivia),cui vicende s’intrecciano con
quelli presenti nella storyline originale della Ubisoft.
L’opera non ha alcun scopo di lucro.
Capitolo 1
Se
non lo prendi
sul serio, non può farti del male.
Ciò che non è preso sul serio, non può
farti del male.
Certo
che no, altrimenti i vampiri nascosti nell’armadio, i
mostri sotto il letto e i troll che vivono nel sottoscala
dimezzerebbero la popolazione infantile nell’arco di una sola
notte, e nessuno potrebbe dare una spiegazione logica a tutto questo,
perché, si sa, i mostri sono solo le manifestazioni
incorporee delle nostre paure.
Eppure,
per i bambini e tutto così reale.
Loro
li vedono, i mostri, e sono convinti di sentirli sussurrare nella
notte, anche se i loro genitori hanno controllato sotto i loro letti
almeno un centinaio di volte, e, nonostante la scienza smentisca ogni
possibilità che accada una cosa simile, la stanza si tramuta
all’improvviso in un oscuro regno di ghiaccio.
C’è
una grande paura in ciò che non si
riesce a capire, o controllare, specialmente se ci si accorge che esso
vive solo nella tua testa e che nessuno, neanche i tuoi genitori,
possono impedirti di provare nelle viscere
quell’indescrivibile senso d’angoscia.
Poi,
un bel giorno, capisci che ciò che non va sei solo tu.
E
questo fa molto più paura di qualsiasi volto mostruoso che
fa capolino sul bordo del letto.
La
paura ha una soglia ben precisa che deve essere superata,
perché oltre essa, il nostro corpo reagisce al gelo
paralizzante con un caloroso impeto di difesa.
Ci
si convince, insomma, che ciò che vedi non è
reale, anche se è lì, davanti a te, con tutta la
sua logica implacabile.
Se
non lo prendi sul serio, non può farti del male, e se
diventa un gioco non potrà mai toccarti oltre il confine tra
realtà e finzione.
Peccato
che, nel mio caso, quel confine fosse stato cancellato da
tempo.
Una
folata d’aria frizzante portò con
sé l’aroma del bosco circostante e dei bei fiori
d’Aprile, che avevano invaso la vallata e popolato il grande
giardino di casa mia, giungendo sulla cima del tetto assieme al fruscio
lussureggiante degli alberi e l’odore distante di pioggia.
Per
una frazione di secondi le sue gentili raffiche mi gonfiarono i
capelli come vele, la maglietta grigia si sollevò
all’altezza dell’ombelico e le braccia si aprirono
per assorbire l’impatto senza perdere l’equilibrio
nelle gambe, tutte avvolte da un paio di jeans scuri.
Mi
travolse per pochi attimi, portando con se i frammenti della foresta
circostante e gli echi delle grandi rocce innevate di confine tra il
Bel Paese e il Vecchio Mondo, nel cui mezzo c’era una certa
valle immersa nel verde e custodita dai grandi occhi grigi dei giganti
di pietra tutt’intorno, nonché miei amabili vicini
di casa.
Non
appena le raffiche cessarono, riaprii gli occhi iniettati di
bellezza e li rivolsi sull’immensa distesa
incontaminata che era la mia dimora dal giorno in cui venni
al mondo, provando subito un immenso senso di smarrimento come ogni
volta che salivo sul tetto.
Imparare
è sempre molto difficile, soprattutto se non si
hanno mentori ma solo un disperato bisogno di vedere il mondo
dall’alto, in una prospettiva meno squallida, tuttavia,
nessun polso slogato o costole incrinate valeva la vista del mio primo
crepuscolo riflesso sulle tegole rosse del tetto.
Improvvisamente,
proprio sul filo dell’orizzonte tra il bosco
e casa, comparve sul selciato una macchina grigia metallizzata che
prese ad avvicinarsi a tutta velocità.
Come
poteva esser già qui!
Un
tumulto lungo la colonna vertebrale risvegliò i miei
piedi e subito cominciai a percorrere in discesa le tegole lisce del
tetto, rischiando per due volte di scivolare prima di arrivare a
bloccare i talloni sulla grondaia, dunque approfittai del precario
equilibrio e ritornai ad avanzare verso la veranda di camera mia.
Allungai
la mano per aprire il gancio della finestra, quando il piede
destro perse la presa sul tetto e mi ritrovai a scivolare per un
instante interminabile prima di aggrapparmi con tutta la forza al tetto
della mansarda più in basso.
Il
contraccolpo contro la sporgenza mi spezzò il fiato in
due, per una frazione di secondi pensai di lasciare la presa, ma non
appena abbassai gli occhi sotto di me capii che sarebbe stato un errore
fatale.
La
macchina, nel frattempo, si era fermata in prossimità
dell’uscio di casa e una figura in nero era appena uscita dal
suo abitacolo.
La
guidatrice era una donna con la carnagione scura e liscia, con gli
occhi fulgidi e talvolta sfacciatamente sensuali che lasciavano
chiunque interdetto quando, superato l’incanto iniziale delle
sue movenze pacate e ben misurate, abbassavano lo sguardo sul suo corpo
snello e incappavano nell’abito grigio dell’ordine
delle Canossiane.
Suor
Agata era una donna decisamente troppo smaliziata per indossare il
velo, erudita tanto quanto sfacciata, un po’ saputella e
decisamente severa, soprattutto con la sua figlioccia appesa tra la
vita e la morte sul tetto di casa.
Prima
che potessi rischiare d’incappare nel suo sguardo
vagante, ritornai con il collo dritto e feci tutta la forza che avevo
per issarmi di nuovo sul tetto, dunque, corsi verso la finestra della
mia camera. Entrai con un balzo sgraziato, la caviglia si
piegò e in meno di un secondo mi ritrovai con la faccia
schiacciata contro il pavimento, ma, per lo meno, salva.
Mi
alzai sui gomiti con un rantolio dolorante, cercai un appiglio sul
davanzale e, una volta ritrovato l’equilibrio sulle mie
gambe, richiusi le vetrate per abbandonarmi contro la loro superficie.
La
mia camera era molto simile a quella in miniatura di una bambola, le
pareti erano color nocciola e i tendaggi di un tenue panna che si
allineava con i drappeggi del letto in noce chiaro e il piccolo angolo
da tè con tanto di poltrone e cuscini in pizzo sangallo.
Era
calda e accogliente, un ottimo luogo dove poter rimuginare in
solitudine senza sentirmi necessariamente in obbligo di fingere un
sorriso, perché solo quando ero lì, coccolata
dall’aroma di vaniglia e quello secco dei libri, potevo
davvero sentirmi come qualsiasi altra ragazza della mia età.
Mi
diressi un po’ zoppicando verso l’armadio con
specchio e spalancai le ante con un braccio, facendo subito balzare
fuori i tessuti pomposi e i pizzi costosi degli abiti provenienti dalle
boutique dei centri storici delle più grandi
città del mondo; Londra, Francia, Amsterdam…
Odiavo
ogni singolo capo.
Armata
di tanta pazienza, infilai le braccia tra la marea di tessuti e
bottoni alla ricerca dell’abito regalatomi il giorno del mio
diciottesimo compleanno, quello blu scuro dalla linea semplice e le
rifiniture nere. Se non ricordavo male, quello proveniva da una
boutique francese.
Non
appena sentii il suo tessuto sotto le dita, tirai fuori il vestito
e lo appesi allo specchio per potermi spogliare velocemente, ma, non
appena mi ritrovai con il solo intimo addosso, provai un enorme senso
di disagio.
Durante
la crescita non mi ero mai confrontata con i canoni estetici
tra i miei coetanei, perché non avevo mai frequentato una
scuola pubblica, giacché c’era Suor Agata a
provvedere per la mia istruzione sin da quando ero una bambina, ma, ora
che ero diventata una giovane donna, non potevo non chiedermi se
andassi bene così com’ero.
Ero
molto alta e pallida, i fianchi prorompenti e le curve morbide e
generose, per nulla filiformi, ma le scappatelle frequenti sulla cima
del tetto avevano contribuito a rendere i muscoli tonici e in forma,
per lo meno.
I
capelli, poi, erano eccessivamente lunghi, una cascata di cioccolato
fondente che arrivava fino in vita, mentre gli occhi, belli grandi e
pieni di ciglia folte, rendevano il mio sguardo sempre un po’
troppo melanconico. Mi sforzai di tirare gli angoli della bocca
all’insù, esponendo il diastema tra gli incisivi,
ma neanche il mio riflesso credeva a quel sorriso; ormai, aveva
imparato a guardare oltre la fessura dei denti e a scendere nella
profondità del mio animo, lì dove c’era
sempre un gran rumore.
Un
rumore assordante, crepitante, sofferente, ma non sapevo se fosse
mio o della bestia che mi crescevo dentro e che divorava sempre
più spazio, schiacciando giorno dopo giorno il sussurro
flebile del mio spirito fino a piegarlo del tutto.
Ma,
per mia fortuna, il dolore era stato un buon insegnante: mi aveva
tenuto nelle sue grinfie finché non avevo imparato a non
provare più nulla, neanche il suo effetto.
Grazie
a lui, adesso mi sentivo un po’meno responsabile della
mia vita e potevo guardarmi tutti i giorni nello specchio senza odiare
ciò che avevo scelto di diventare: me.
Un
improvviso rumore di passi nel corridoio catturò la mia
attenzione.
Senza
indugiare oltre sui miei inutili vaneggiamenti, indossai
l’abito appeso sulla gruccia e, una volta richiuso
l’armadio, m’infilai sotto le coperte esattamente
un istante prima che Suor Agata aprisse con la sua solita irruenza la
porta della mia camera.
–
Buon giorno, Laura. – mi salutò
educatamente. – Hai fatto colazione?
Il
mio diastema fece capolino con un sorriso. – Buon giorno,
Agata. Sì, ho fatto colazione e anche messo da parte della
pizza per te, se ti va più tardi.
La
donna si chiuse la porta alle spalle, dunque avanzò con
la borsa di pelle nera per i libri scolastici stretta sotto
l’ascella. – Pizza? – domandò
sorpresa – Di prima mattina?
Io
feci spallucce. – Visto che devo provvedere da me per la
colazione e il pranzo, almeno mangio qualcosa che non sia verde e dal
sapore amaro.
–
La verdura ti fa bene, Laura, e devi mangiarla. –
disse, prendendo la sedia dalla mia zona di studio.Rimase a sguardo
chino sulle sue ginocchia per un po’, poi tornò a
guardarmi con aria complice. – La pizza di cui
parliamo… per caso è alle acciughe?
Risi
di gusto. – Ovviamente, che pizza sarebbe,
sennò?
Anche
la donna accennò a un sorriso entusiasta, ma lo
pressò subito dopo tra le sue labbra scure e carnose.
–Magari la mangeremo dopo aver svolto il nostro dovere.
Allora, Laura, sapresti farmi un riassunto della lettura per oggi?
–
Lettura? Oh… sì, certo, la lettura!
Ecco, c’è stato un contrattempo:
l’impasto della pizza era finito ovunque, sul piano cottura e
sul pavimento, insomma un disastro per scrostarlo via.
Aggrottò
la fronte con scontento. – Sicura?
Perché, sai, ho quasi avuto la ridicola impressione che tu
fossi appesa sul tetto, qualche istante fa.
Nascosi
il nervosismo con una risata sguaiata – Io?
È ridicolo! Insomma, il mio polso non si è ancora
ripreso dall’ultima caduta sulla mansarda!
La
suora non parve molto convinta del mio viso serafico ma anche quella
volta non mancò di sciogliere la sua gelida compostezza in
una cauta apprensione.
–
Laura, lo sai come la pensa tua madre. Non vuole che tu
faccia sforzi inutili mentre è via per affari,
né, tantomeno, che tu ti arrampichi sui tetti scivolosi di
casa. – mi ammonì e spinse la sedia difronte al
mio letto, dunque si accomodò e prese dalla tracolla il
libro arancione di filosofia.
Io
la guardai tra l’insofferente e il rassegnato, consapevole
di non poter nulla contro la parola autoritaria della padrona di casa,
la pluripremiata scienziata cui servigi erano così preziosi
da esser richiesta ogni mese in un posto diverso del globo, e li
rimaneva per settimane, se non mesi.
Mia
madre si chiamava Erica, ed era la donna che tutti avrebbero voluto
essere: alta e snella, maestosa come una leonessa dalla chioma bionda e
fiera come una regina, intelligente, con abiti sofisticati e un
invidiabile capacità di rimanere in equilibrio sui tacchi a
spillo per ore.
Incantava
tutti, perfino me, sua figlia, ma a conti fatti ero
pressoché un’estranea che la osservava da lontano
solo sette giorni al mese e che anelava per esser come lei.
Non
sarei mai stata come lei, perché qualcos’altro
aveva deciso così per me.
–
Dove sei arrivata con la lettura di Hegel? –
domandò Agata mentre sfogliava il suo libro.
Io
feci un sospiro distratto – Alla biografia. –
dissi e mi allungai a prendere il mio volume di testo sulla scrivania.
–
Ma… è la prima pagina, Laura!
Mi
strinsi nelle spalle e agguantai la matita nel portapenne.
–
Va bene… resta concentrata, per cortesia. Oggi
abbiamo parecchio da fare. – decise di lasciar passare la mia
mancanza con una paziente scrollata di spalle, dunque prese la pagina
bloccata dal segnalibro e cominciò a leggere.
*
* *
Scoprii
di aver la schizofrenia all’età di cinque
anni.
Un’età
fortunata, per così dire,
perché ai bambini è concesso di smussare gli
spigoli dolorosi di un’esperienza troppo complicata da poter
esser compresa da una mente così semplice, e, in effetti, la
mia mente riuscì benissimo a salvarmi dalla triste
realtà per un bel po’.
Ancora
adesso, i ricordi si mescolavano in continuazione, creando brevi
lampi di lucidità troppo distorti e imprecisi per poterci
fare un’analisi psicologica, ma con l’esperienza
avevo imparato a tradurre i sogni d’infanzia in
ciò che erano realmente: i sintomi di una malattia.
Comparve
la prima volta un po’ per caso, durante una di
quelle serate in cui fuori pioveva e mia madre era in sala da pranzo a
sparecchiare la nostra cena per due, e in quell’occasione si
presentò con un volto umano.
Stavo
giocando alla conta delle scale e saltavo i gradoni con un solo
piede per rendere la cosa più interessante, quando, arrivata
in cima alle scale, mi voltai esultando e incappai in una figura
estranea al centro dell’atrio di casa.
I
miei piedini si bloccarono sul pianerottolo, la bocca si dischiuse
per lanciare un allarme, quando il ragazzo sorrise e pressò
l’indice sulle sue labbra, istigandomi a tacere.
Aveva
degli abiti strani, come se fossero fatti di luce bianca, e la
pelle era scura come quella della terra in ombra, sui cui spiccavano
due sfere dello stesso colore della brina azzurra che si posava sui
pini attorno casa nella stagione invernale.
Quando
poi mia madre entrò in corridoio per chiedermi di
prepararmi per il bagno serale, il giovane intruso si era dissolto nel
nulla, lasciandomi paralizzata nel mio stesso sgomento.
I
giorni successivi tornò spesso a farmi visita e, anche se
io lo ignoravo, lui continuava a seguirmi per le aree della casa,
talvolta sostando cavalcioni su qualche mobile per osservarmi mentre
giocavo distrattamente con le bambole, nella speranza che sparisse come
la prima volta.
La
cosa m’infastidiva, ma allo stesso tempo mi riempiva il
cuore di una tiepida gioia, perché, compresi man mano, la
casa era meno silenziosa grazie ai suoi saltelli da un mobile
all’altro.
Alla
fine, supponevo avesse conquistato la mia simpatia a furia di
smorfie e sorrisi inattesi che mi rivolgeva se alzavo lo sguardo su di
lui, e immancabilmente distoglievo il volto con espressione stizzita,
senza rendermi conto che il mio viso arrossiva, il respiro accelerava e
il mio piccolo cuoricino tremava un po’.
Suor
Agata diceva che dovevo esser una bambina speciale, se un certo
signore che viveva oltre le nuvole aveva deciso di mandare per me il
suo angelo più bello, e ,alla fine, finii col crederci
anch’io.
Allora,
non potevo di certo sapere che ogni sua visita mi stava
portando un passo più vicino al giorno in cui il dolce sonno
della mia infanzia si sarebbe tramutato in un incubo rosso.
–
La morte non è altro che la rinascita dalle
macerie.
Sollevai
di scatto gli occhi dal foglio e impiegai qualche istante per
metter a fuoco il volto spigoloso di Suor Agata, che mi fissava come se
fosse in attesa di qualcosa.
–
Come? – balbettai.
Lei
alzò gli occhi al cielo – Hegel, Laura. La
concezione filosofica della morte intesa come rinascita di un nuovo
uomo. – riassunse brevemente il contenuto della lettura che
aveva appena fatto, ma che io non avevo ascoltato minimamente.
–
Ah…sì, morte. Giusto. Creiamo un
superuomo che vinca la morte.
–
Cosa? Ma hai sentito ciò che ti ho detto per
quasi un ora?
Serrai
le labbra con imbarazzo, poi scossi piano la testa e tornai a
guardare il foglio bianco su cui avevo preso a scarabocchiare per
ammazzare il tempo.
Trasalii
dalla testa ai piedi quando realizzai di aver ritratto per
metà il volto sbiadito dell’angelo dagli occhi
gentili e per una manciata di secondi fui presa da un vago senso di
panico.
Stava
iniziando.
Mi
umettai le labbra con nervosismo, dunque lanciai il disegno e il
libro di filosofia in un angolo del letto. – Credo di dover
prendere le medicine. Comincio a disegnarlo.
Era
sempre così; ogni volta che la schizofrenia incalzava,
cominciavo a disegnare gli occhi dell’allucinazione ; non
sapevo perché, ma spesso mi ritrovavo con il ritratto per
metà realizzato senza che me ne rendessi conto.
Onestamente,
la cosa mi turbava sempre molto.
–
Oh, beh, allora, vai pure. Ehi, ripassa la lezione, mi
aspetto per domani un riassunto dettagliato e, possibilmente, degli
schemi scritti.
–
Va bene.
Mi
alzai di peso dal letto e sorpassai Agata mentre questa aveva
cominciato a cercare sull’indice del libro gli argomenti
della prossima lezione, quando un pensiero sbadato uscì
dalla sua bocca.
–
Un tempo, sorridevi spesso, ed eri piena di meraviglia e
amore. – osservò – Cosa è
successo a quella bambina radiosa?
Mi
bloccai in prossimità dell’uscio, dicendo
– Vorresti forse che tornassi al periodo in cui parlavo la
lingua del demonio? O, aspetta. Erano solo i deliri della schizofrenia.
–
Non osare nasconderti dietro la tua acidità,
ragazzina. Io voglio solo parlare.
–
Non è acidità, la mia, ma
negativismo, un altro ricordino della schizofrenia. Ricordi? Scusami,
ma ora devo proprio andare. – tagliai corto e aprii la porta
sul corridoio.
–
Parlavi con le allucinazioni, Laura, e desti a una di loro
anche un nome.
Esitai,
tirai un sospiro e dissi – No, ti sbagli.
L’unica allucinazione con cui parlavo aveva già un
nome, e fu proprio lui a dirmelo.
Detto
questo, uscii a passo svelto in corridoio e mi lasciai alle
spalle il pianerottolo per percorrere le scale verso il piano
inferiore, superando le grandi stanze della piccola magione di famiglia
mentre erano ancora immerse nel loro perenne silenzio surreale.
Entrai
nell’ufficio di lavoro di mia madre, una stanzetta con
le pareti di un rosso acceso provvista di scrivania, un enorme quadro
raffigurante un veliero sul camino e almeno mille tomi di medicina,
astronomia, storia e cucina disposti nella libreria.
Essendo
rilegata in casa da praticamente una vita, avevo riletto tutti
i miei libri e mi ero cimentata perfino sui volumi di fisica
quantistica che mia madre consultava ai tempi
dell’università, quindi potevo ben dire di avere
una conoscenza enciclopedica.
In
ogni caso, non mi sarebbe servita a niente, giacché ero
abbastanza convinta che mia madre e la suora avessero preparato per me
una vita da monastero, ma dubitavo ugualmente che le altre novizie
avrebbero voluto una ragazza che parlava fluidamente la lingua
infernale.
Mi
portai pigramente verso la scrivania della stanza e aprii
il cassetto in basso a destra, presi dal suo fondo un flacone
trasparente con l’etichetta blu e spostai la poltrona
girevole con un calcio, abbandonandomi di peso con l’amarezza
sul volto.
Analizzai
distrattamente le piccole sferette bianche che riflettevano
attraverso la superficie, deglutendo il loro pessimo sapore ancor prima
di saggiarle, giacché, oramai, ero così abituata
al loro sapore amaro da poterlo sentire ogni volta in bocca con
l’esatta consapevolezza che quella fosse l’ennesimo
tassello di una catena infinita.
Il
primo anello della serie, però, lo ricordavo
perfettamente: arrivò in un pomeriggio di fine primavera e
aveva il colore lucente del sangue vivo, cui riverbero
accecò per sempre la mia innocenza, strappandomi per la
prima volta dall’illusione in cui avevo vissuto fino a quel
giorno.
La
schizofrenia si era finalmente mostrata con il suo vero sguardo, ed
era giallo come la paura, che mi schiacciò in un baratro che
più profondo di così non si poteva.
La
mia mente si era aperta in due, le immagini davanti a me si
creparono e deformarono fino a diventare illeggibili, tuttavia,
qualcosa di quel ricordo era riuscita a sopravvivere dopo tutti quegli
anni. Gli occhi spalancati dell’angelo raggomitolato in un
angolo della stanza, mentre, esanime in una pozza di rosso, guardava
impotente l’uomo che lo aveva ucciso avvicinarsi a me con gli
artigli zuppi di sangue.
I
ricordi di quel momento s’interrompevano un attimo prima
che quella mano assassina arrivasse ad acchiapparmi sul letto, ma
ancora ricordavo il passo pesante di quegli stivali consumati e
scoloriti.
Qualcosa
era cambiato, da quel giorno, e sia io che mia madre avevamo
capito nella maniera più feroce che la nostra
normalità ci era stata strappata via in pochi, irripetibili
istanti.
Poi,
un giorno, la speranza si riaccese con l’arrivo a casa
di una scatola piena di psicofarmaci.
Bastava
che continuassi a prendere le compresse, ed io e mia madre
avremmo potuto tornare come un tempo. Bastava che ingoiassi quelle
sferette bianche nel flacone, e tutto sarebbe andato per il meglio.
Io
non ero pazza. E mia madre sarebbe stata di nuovo felice di starmi
accanto.
Sì,
era così.
Però,
adesso, ero di nuovo sola.
–
Dovresti metter più spesso
quell’abito, sai? L’ho pagato davvero molto ed
è un peccato che tu lo preferisca a quelle squallide
magliette dell’Hard Rock.
Alzai
lo sguardo quasi per inerzia, attirata dalla voce in direzione
della porta, e fu allora che incrociai gli occhi verde brillante di mia
madre.
Come
sempre, anche dopo un estenuante viaggio in aereo, era
impeccabile: i tailleur grigio non erano per niente spiegazzati, il
volto roseo freddato in un’espressione composta e i capelli,
portati corti da qualche anno, erano raccolti in una crocchia perfetta.
Ma
come, era passato già un mese?
–
Beh? – chiese. – Non vieni ad
abbracciare tua madre?
Esitai
per poco dietro la scrivania, dopo di che mi alzai e andai ad
abbracciarla.
–
Ben tornata, mamma. – sussurrai contro i suoi
vestiti.
Lei
non disse nulla, solo mi baciò la fronte e mi tenne
stretta a se per un altro po’, mentre io ero completamente
paralizzata dal timore di rovinare quell’evento
così timido e impacciato.
Il
collo alla diplomatica della camicia era impregnata
dall’aroma di forza e autonomia, ma anche da un velo di
tristezza e maternità.
–
Agata è qui? – domandò poi.
Mi
allontanai per vederla meglio in volto e notai che i suoi begli
occhi verdi erano gonfi per la stanchezza. – Sì,
abbiamo appena terminato una lezione. Mamma, sembri stanca. La
conferenza in Spagna è stata stressante?
–
Ah, niente d’ingestibile! –
cercò di rincuorarmi con un sorriso sfatto. – Sai
come funziona, Laura: loro propongono le proprie ricerche credendo di
aver fatto una grande scoperta, e poi arrivo io, che ridicolizzo i loro
risultati come fossero scolaretti di prima elementare.
–
Insomma, la solita modesta.– sorrisi.
La
donna ricambiò il sorriso con una carezza sui miei
capelli, finché il suo sguardo non ricadde volontariamente
sull’etichetta azzurra degli psicofarmaci.
–
Vedo che abbiamo quasi finito la dose di questo mese.
– osservò, facendo scivolare la mano con
pesantezza – Sei stata precisa nel prendere le compresse
negli orari prestabiliti? Sai che non puoi tardare, Laura, altrimenti
cominci di nuovo a star male.
Ecco
che lo faceva di nuovo. Non appena avevamo qualche minuto per noi,
lei erigeva un muro impenetrabile e concentrava tutti i suoi pensieri
sulle scorte a disposizione in casa.
Poggiai
stizzita la mano sul suo braccio, indietreggiando di due passi
verso la libreria. – Tranquilla, mamma, sto male solo se
prendo i farmaci. In oltre, Suor Agata è scrupolosa almeno
quanto te. Mi controlla per bene e si assicura che prenda fino
all’ultima compressa.
–
Laura, per favore, non iniziare.
–
Iniziare cosa?
–
A parlare senza la giusta misura o riguardo, come quella
volta che spiattellasti ai quattro venti che eri diventata atea,
così, senza tatto per Suor Agata.
–
È una mia scelta personale, mamma, ma non per
questo non rispetto la spiritualità altrui.
–
Non è questo il punto, Laura. Sai, dovresti
smetterla di nasconderti dietro la scusa del negativismo e riflettere
sulle conseguenze delle tue azioni, perché coinvolgono anche
gli altri. Non sei più una bambina, lo capisci?
Non
risposi, solo mi presi qualche minuto per assorbire il colpo con
totale indifferenza, come ogni volta che aprivamo
quell’argomento, o ci trovavamo in disaccordo su qualcosa;
praticamente, sempre.
–
Hai bisogno di qualcosa, mamma? Perché io dovrei
studiare. – cercai di tagliare corto alla discussione,
indirizzandomi a passo spedito verso la grande libreria a sinistra.
Sentii
la donna sbuffare sonoramente mentre prendevo a passare in
rassegna con l’indice il dorso dei tomi di medicina, fingendo
di cercarne uno in particolare solo per evitare di affrontarla
direttamente.
Poi,
dei tacchi a spillo che si avvicinavano alla scrivania e, subito
dopo, il peso di un corpo slanciato che si abbandonava stanco sulla
poltrona girevole.
–
Laura, guardami.
Alzai
lo sguardo dallo scaffale in basso, esitai, poi le gettai
un’occhiata da sopra una spalla.
Adesso
che la sua postura era un po’ più sciolta,
diventava evidente quanto Erica fosse provata per il viaggio, infatti
si era appoggiata con i gomiti sulla scrivania e teneva la testa tra il
pollice e l’indice tirato sulla tempia.
–
Va bene. – dissi e mi girai ad affrontarla di
petto – Scusami, sono stata maleducata. Ma sai quanto divento
nervosa se non prendo gli psicofarmaci.
Annuì
distante. – Capisco. Ebbene, ti
porterò via poco tempo. Durante il mio viaggio di lavoro, ho
incontrato un vecchio amico che non vedevo da tanto tempo. Abbiamo
lavorato insieme, in passato, e adesso avrebbe una grossa
opportunità di lavoro in Scozia, ma è un lavoro
complicato che richiede parecchio tempo.
–
D’accordo…
–
Ciò che sto cercando di dirti, Laura,
è che mi ha offerto la possibilità di visitare i
nuovi centri di ricerca vicino ad Aberdeen. Sai, lì avrei la
possibilità di confrontarmi con nuove e geniali menti, per
non parlare degli strumenti di laboratorio…
–
Ma.. è meraviglioso, mamma! E dimmi, quando
parti?
La
donna esitò, visibilmente nervosa. –
Ecco… una settimana prima della vigilia natalizia.
Silenzio.
Poi,
una risata tesa vibrò nella mia gola.
–
Ma… ma è poco prima del mio
compleanno, mamma.
Erica
deglutì la secchezza alle fauci. – Lo so.
Mi
staccai dalla libreria, le unghie si conficcarono nervosamente sui
palmi e il petto venne pervaso da una ramificazione dolorosa, che
alzò di un’ottava la mia voce quando esclamai
– Non puoi farmi questo! Ti rendi conto che, se manchi tu, io
festeggerò il mio diciannovesimo compleanno totalmente sola?
–
Non saresti sola, Laura. Ci sarà Agata con te,
come tutti gli anni.
–
Non provare a rabbonirmi! Ho accettato per anni la tua
assurda condizione sui compleanni, ho festeggiato ogni singola
candelina in solitudine nella sala da pranzo di casa, senza nessuno che
mi cantasse gli auguri, né amici, né parenti,
perché tu hai deciso così!
Erica
spinse indietro la sedia con le ginocchia, tendendosi nella mia
direzione con il dito puntato su di me. – Ne abbiamo
già parlato, mi pare. Non l’ho deciso io tutto
questo, Laura. Né io né tuo padre…
Il
mio cuore s’incrinò dolorosamente.
–
Non nominarmi quel bastardo codardo!
Il
boato di uno schiaffo su una guancia indifesa, e subito avvertii la
carne arrossarsi nell’esatto punto in cui Erica mi aveva
compito senza pietà, ciononostante non versai una sola
lacrima, non ci riuscivo.
Faceva
male, ma non fisicamente: era qualcosa di più vecchio
e profondo.
La
donna era ancora immobile in quell’atto brutale col petto,
che respirava affannosamente ed occhi lucidi, quando, rabbrividendo, si
pentì della sua azione e provò a rimediare con un
abbraccio, tuttavia le sue braccia andarono a vuoto perché
non le permisi neanche di sfiorarmi.
Fu
un duro colpo da mandar giù per lei e la ferì
abbastanza da indurla a infliggermi un ultimo, micidiale colpo.
–
Laura, Maria, Gaia di Chiaravalle: tu sei mia figlia e sei
la discendete dei Chiaravalle, il casato di tuo nonno, lignaggio
dell’illustre Bernardo il francese. Io ti ho partorito, io ti
ho cresciuto e non ti ho fatto mai mancare nulla, tuttavia, non posso
costringerti a portare rispetto per un uomo che non ti ha voluto fare
da padre. Ma non scordare che, nolente o volente, lui fa parte di te. E
faresti meglio ad accettarlo, come ho fatto io a mio tempo.
Detto
questo, Erica uscì dalla stanza coi suoi tacchi a
spillo, lasciandomi nel silenzio dei miei stessi pensieri.
*
* *
Sull’etichetta
delle indicazioni, gli psicofarmaci
neurolettici provocavano rigidità dei muscoli, rallentamento
dei riflessi, impotenza, pressione alta e altri disturbi di cui non
ricordavo neanche l’iniziale.
Ero
abituata a sentir soffocare il mio corpo e per questo, quando
cominciai a provare una strana pressione contro la mia fronte, non ebbi
il benché minimo sospetto, almeno finché non mi
resi conto che avevo la mente completamente svuotata.
C’era
solo una fittissima nebbia che oscurava ogni cosa.
All’improvviso,
dei lacci caldi come la carne attorniarono le
mie braccia e spinsero verso l’alto come per issarmi su dei
ganci, dunque cominciai ad avanzare senza che il mio corpo fosse in
grado di farlo, anzi, era del tutto penzoloni mentre veniva trascinato
di peso lungo una superficie vischiosa e bagnata.
Iniziai
a distinguere dei brusii, uno sciame di luci e colori imprecisi
che si mescolavano in un'unica, grande macchia lucente, poi le prime
sagome alte di palazzi e quelle umane di passanti,
finché il mondo non si aprì dinnanzi ai
miei occhi.
Strizzai
gli occhi per focalizzare meglio i due individui che mi
stavano trascinando di peso lungo la via, un brivido ridestò
le gambe dal loro torpore e, prima che potessero accorgersi del mio
risveglio, affondai di scatto i piedi nella fanghiglia e mi liberai
dalla loro presa con uno strattone deciso.
Lo
slancio del corpo mi mandò a sedere con uno scroscio
sonoro in una pozzanghera, l’abito
s’inzuppò d’acqua impantanata e subito
la bocca si spalancò per ansimare la sbigottimento, quando
delle risate mi portarono a sollevare le ciglia umide verso
l’alto.
Alcuni
passanti si erano fermati ad osservare la scena e non avevano
resistito all’occasione di perdere un po’ del loro
inutile gironzolare per additarmi e deridermi apertamente,
scombussolandomi ancor più di quanto quella doccia fredda
non avesse fatto.
La
fisionomia dei loro volti mi era totalmente nuova, dai tratti
marcati e scuri, lucenti perle nere nascoste da una folta coltre di
ciglia e dita scure che mi additavano da abiti rozzi e bislacchi,
lunghi fino alle caviglie sia per gli uomini che le donne.
Vedevo
turbanti, copricapi colorati, sandali sudici di fango e strada,
ed ebbi la netta sensazione che ci fosse qualcosa di estremamente
sbagliato. Era chiaro come il sole che i miei abiti stonassero
nell’ambiente circostante.
Non
sapevo dov’ero, ne come ci fossi finita. Ero bagnata e
spaventata. Desideravo solo riscaldarmi e trovare un angolo buio dove
potermi nascondere.
Mentre
ero ancora atterrita dallo schiamazzare della folla, uno dei
miei sequestratori si chinò cauto verso di me e tese la mano
in segno di clemenza, ma, non appena poggiai gli occhi sulle lamine
lucenti del suo guanto corazzato, arretrai col sedere di almeno due
salti.
I
due uomini che mi avevano catturato, notai, non erano dei briganti
qualsiasi, bensì cavalieri
vestiti
di calzettoni scuri e lunghe tuniche bianche con sopra una
croce scarlatta, spade appuntite ai fianchi e camaglio coronato da un
elmetto. Avevano un aspetto vissuto, forte, ma allo stesso tempo erano
spaventati dall’essere in abito blu che avevano davanti.
–
Arrivano, arrivano! – qualcuno nella folla
cominciò a strillare.
La
guardia inginocchiata a offrirmi aiuto si voltò indietro,
completamente sbiancato in volto, e, non appena intuì il
pericolo, cercò lo sguardo del suo compare quando lui era
già scattato con il guanto sull’elsa della spada.
–
Arrivano, sono sui tetti! – ripeté
qualcun altro e, in quel preciso istante, un’ombra sul tetto
vicino corse sui miei occhi, obbligandomi a sollevare di scatto il
mento all’aria.
–
Assassini, Assassini, Assassini!
Una
donna scappò gridando, l’uomo al suo fianco
piroettò freneticamente su se stesso e il suo vicino lo
spinse via per darsi la fuga, finché quella reazione a
catena non si diffuse a macchia d’olio; da un istante
all’altro, la strada ghermita di gente si tramutò
in una rete da mattanza.
Non
sapevo cosa stesse accadendo, ma in quel momento ero
così spaventata che volevo solo sparire da lì.
Dunque,
approfittando della confusione di corpi e della distrazione
delle guardie, mi rimisi a malapena in piedi sulla pozzanghera e diedi
una grossa spinta alle mie gambe in direzione del sentiero di fuga
comune.
Durante
quegli istanti, tutto ciò che riuscii a pensare era
correre.
Corri.
Spinsi
una o due persone in prossimità di un imbocco verso
una strada secondaria e fu a quel punto, mentre gli occhi si alzavano
distrattamente verso il cielo plumbeo e umido, che vidi le
facciate estranee di un complesso di case basse con finestre
di legno forato. Qualcosa nella mia testa cominciò a suonare
come una sirena, ma non riuscii a capire perché.
Qualcosa
non andava.
Non
dovevo trovarmi lì, non ero al mio posto.
Distolsi
lo sguardo stravolto dagli edifici, la bocca si
spalancò per prendere aria ma ciò che
uscì fu un lamento sottilissimo, dunque costrinsi le mie
gambe a tentare un ultima, disperata corsa.
Il
flusso di fuga era diminuito notevolmente quando imboccai la via
chiassosa di un mercato locale, che colpì in pieno viso i
miei sensi per le infinite varietà di spezie colorate e per
i tendoni dipinti a mano sulle centinaia di strutture in legno.
Anche
lì, fui testimone del rovesciamento del pigro
equilibrio dei passanti.
Le
guardie di prima erano arrivate correndo nella strada, ferite e
tutte imbrattate di sangue, una di esse si lanciò al centro
della piazza e ordinò alla folla di disperdersi, quando,
proprio sotto i miei occhi, qualcosa calò giù dal
cielo e uccise il soldato davanti agli occhi di tutti.
Di
nuovo, vidi la folla di persone tramutarsi in un orda di animali in
fuga.
Non
volli neanche sapere cosa fosse stato, né se
l’uomo fosse ancora vivo, tutto ciò che volevo in
quel momento era sottrarmi alla forza d’urto della gente che
si strattonava, così incanalai tutte le mie energie nel
setaccio delle bancarelle. Finalmente, inciampai nel telo arancione di
una bancarella di spezie e, senza esitare oltre, corsi verso di essa.
Scivolai
sotto l’impalcatura e lì, nascosta dietro
il tendaggio, assistetti impietrita al turbine convulso di piedi e
polvere, dunque udii i grugniti di un combattimento, il cozzare di
lame, il sussulto di una gola sgozzata, poi la calma.
Un
silenzio surreale.
Socchiusi
la bocca a stento, per lasciare che la tensione spirasse
assieme all’anidride carbonica dalle mie labbra, poi un
rumore improvviso richiamò i miei occhi sul telo,
lì dove, adesso, si proiettava l’ombra di un
essere umano.
Non
fiatai, non accennai neanche il benché minimo movimento
quando, a filo dell’orlo arancione, vidi un paio di stivali
di cuoio consumati fermarsi a qualche metro da lì.
Lentamente,
staccia la mano dal petto e la portai all’altezza
della bocca, premendo con abbastanza forza da uccidere il gemito che
stava per erompere dal mio povero petto tremante.
In
quel momento, desiderai disperatamente strappare il velo oscuro
steso sulla mia memoria, sugli ultimi istanti di lucidità
nell’ufficio rosso di casa, ma non ci riuscii, non potevo,
ero terribilmente bloccata.
Mi
tappai le orecchie con i palmi e chiusi gli occhi nella ricerca di
un luogo sicuro, lontano da lì.
Una
cameretta avvolta dall’antico lumino da notte
cominciò a formarsi dietro le palpebre, qualcosa si fece
strada nella penombra dei miei ricordi. Le labbra di mia madre
che bisbigliavano certe parole vaporose.
“Non
devi aver paura, Laura. Ricorda che ciò che
non prendi sul serio, non può farti del male, quindi, anche
se per la tua mente tutto è lecito, bada: non è
reale.”
–
Nulla è reale… – sussurrai.
– Ma tutto è lecito.
Spalancai
gli occhi, proiettandoli in una nuova e sbiadita
consapevolezza, ma prima che potessi acciuffarla totalmente,
prima che potessi risvegliarmi da quel sonno indotto, un guanto di
cuoio scivolò sotto la bancarella e mi acchiappò
la caviglia.
Strillai
e mi dimenai come una pazza sul terreno, tenendo le palpebre
sudate ben chiuse mentre venivo trascinata fuori dal mio nascondiglio
buio e umido,
La
prima cosa che vidi fu un bianco accecante, che circondava per
intero una figura umana, poi una gran quantità di grigio
cenerino che si appoggiava su delle spalle e saliva fino a una testa.
Per
un momento credetti d’aver davanti un fantasma, o,
peggio, ma, non appena la mai vista si riabituò alla luce
naturale, mi resi conto con stupore che la famigerata ombra dei tetti
non erano altro che un ragazzino incappucciato.
Non
seppi dire con esattezza cosa ci trovai in quel volto nascosto per
metà, bruno e sbarbato come quello di un sedicenne, ma lessi
sulla sua bocca dischiusa in un respiro che doveva esser confuso almeno
quanto me.
–
Tu… chi sei? – chiese e il suo
accento, chissà perché, mi parve subito strano.
La
mia bocca rimase impastata, completamente bloccata,
finché qualcun altro giunse nei pressi della bancarella con
la sua spada intinta di sangue fresco.
–
Che cosa hai trovato, Novizio?
Il
giovane difronte a me non si alzò dalla sua posizione
acquattata, bensì guardò l’uomo in
avvicinamento da sopra una spalla – Ecco, è una
fanciulla, Altaïr. Credo d’averla vista dal tetto
mentre scappava dalle guardie.
La
grande ombra bianca bloccò i suoi stivali consumati a
pochi metri da noi, la barbetta gli si increspò in un
sorriso lascivo e, con superba abilità nel braccio possente,
ripose la spada insanguinata nella fodera al fianco.
Quell’individuo
era visibilmente più maturo del
suo giovane amico, con un corpo possente e ben disciplinato
nell’arte del combattimento corpo a corpo così
come con la spada, come ben si poteva intuire dal numero notevole di
armi che portava con se, in oltre, differentemente dal ragazzo, che
aveva un cappuccio cenerino, sul suo capo ne torreggiava uno bianco
latte.
–
Ebbene, allora dovrebbe tornare a casa dal suo maritino,
questa bella colombella smarrita. – convenne l’uomo
bianco, schernendomi con un cenno del mento che fece rabbrividire me e,
di conseguenza, ghignare lui.
–
Non dovremmo, innanzitutto, assicurarci che stia bene?
– osservò il ragazzo in grigio.
Quello
schioccò la lingua sotto il palato. – Da
quando in qua ti prodighi per le puttane?
–
Puttana? A chi hai dato della puttana, brutto pezzo
d’asino!
I
due guerrieri calarono gli occhi sconcertati su di me,
l’uno avvampato in volto, l’altro con il giovane
volto ammutolito per lo stucco.
–
Oh, ma guarda, parla, allora. –
commentò con una smorfia Altaïr – E anche
troppo, direi, per una donna del lupanare. Comincio ad essere curioso.
Ehi, ragazzina, da dove vieni?
Cappuccio
grigio fece per dire qualcosa, ma il dubbio impresso sulla
sua bocca lo costrinse ad ingoiare e ad attendere sott’occhio
la mia reazione, che tardava ad arrivare, perché, se
inizialmente ero spaventata a morte, adesso desideravo solo capire.
–
Come ci sono finita in questo posto? Cosa sta succedendo?
– domandai scossa.
–
Non dovresti rispondere a una domanda con
un’altra domanda. – ribatté saccente
quello – È sintomo d’insicurezza. Stai
forse nascondendo qualcosa?
–
Altaïr, è solo una ragazza…
– cercò di acquietarlo l’altro.
Quello
rispose con una scrollata di spalle, allargando le narici in uno
sbuffo mentre faceva incontrare le braccia sotto la grossa gabbia
toracica. Io lo osservai, sentendo perfettamente il suo sguardo
perforare il lembo di stoffa bianco calato sui suoi occhi e setacciare
il mio volto con accuratezza.
Qualcosa
lo contrariò profondamente, e di questo se ne
accorse anche il compare, che decise a quel punto di intervenire con
più dolcezza.
–
Ascoltami. – si rivolse a me con un sorriso tenue
– Comprendo il tuo spavento, di certo non dobbiamo essere
troppo rassicuranti con questi cappucci e le armi, ma non ti faremo del
male, hai la mia parola d’onore.
–
Certo che no, sarebbe da codardi! – irruppe
Altaïr, sciogliendo le braccia lungo i fianchi. – Ma
è meglio non rischiare. Allora, vediamo un po’
cosa riesco a leggere su quel tuo bel visino?
Con
un irruente spintone del polso, mandò a terra cappuccio
cenerino e prese il suo posto dinnanzi a me, sedendosi sui
talloni così speditamente da non permettermi di ritrarmi il
tempo necessario per svincolarmi dalle sue dita uncinate.
Le
ginocchia affondarono nella terra e il mio peso cedette in avanti,
sorretto dai palmi aperti, mentre cappuccio bianco mi tirava a se con
l’intenzione di spogliarmi l’anima velo dopo velo.
In
un attimo, mi ritrovai con la mandibola intrappolata e gli occhi
costretti a guardare l’anima giallastra dei suoi occhi,
evanescenti e spettrali sul volto del bellissimo uomo siriano.
Fu
come se l’anima mi stesse bruciando in petto.
D’un
tratto, vidi i suoi occhi assottigliarsi in
un’espressione disorientata. –
Interessante…
Difronte
al suo sorriso lascivo, cappuccio grigio si fece coraggio e lo
afferrò saldamente per una spalla, provando a dissuaderlo.
– Adesso basta, mentore, lasciala stare…
Mossi
il ginocchio in fretta, un colpo secco all’altezza
dell’inguine dell’uomo appena distratto, e
immediatamente sentii le sue dita contorcersi per il dolore sulla mia
mandibola.
Non
appena quello mi ebbe offerto il suo fianco corazzato, su cui si
dispiegava una fila di coltellini da lancio, gli sottrassi goffamente
una lama.
L’uomo
si voltò con gli occhi gialli che
lampeggiavano, tese il corpo in un ringhio animalesco e immediatamente
reagii gettando in avanti il pugnale stretto in mano, che si
scontrò con la sua bocca e lo costrinse a indietreggiare.
Il
suo compare ebbe appena il tempo di strabuzzare che vide il
più vecchio piegarsi su se stesso e con la mano insanguinata
stretta sulla bocca, sicché non riuscì a reagire
quando mi vide strisciare via e rimettermi a malapena in piedi contro
la bancarella, dove cercai sostegno mentre setacciavo il mercato per
una via di fuga. Fu a quel punto che vidi i cadaveri delle due guardie,
crocifisse ai piedi della fontana allagata del loro stesso sangue.
L’impatto visivo fu brutale, i polmoni si svuotarono per il
terrore e ,non appena catturai il movimento cauto del ragazzo in
grigio, che stava procedendo con il palmo aperto in avanti, crollai
fragorosamente.
–
Non osare avvicinarti a me, omicida! – strillai e
agguantai un’oggetto alla cieca disposto sul bancone,
tirandoglielo addosso con tutta la forza che avevo.
Il
ragazzo schivò l’arancia volante con
agilità, esclamando – Ti prego, non aggravare di
più la tua situazione!
Invece
di prestargli ascolto, gettai un’occhiata veloce sopra
la spalla per individuare un’oggetto più pesante
e, quando trovai un coccio pieno di curcuma in polvere, non esitai a
lanciarlo con tutto il suo contenuto, che si cosparse sul corpo di
quello in una nube soffocante.
Senza
lasciare il pugnale con la lama tinta di sangue, mi lasciai alle
spalle il mercato e scappai da quei due mentre erano ancora storditi
dai miei tiri mancini, rifugiandomi nella zona est della
città, su ponte di un putrido canale di scolo.
Mi
fermai quando vidi Altaïr fermo dall’altra parte
della sponda, con le grosse spalle tese nell’attesa di un mio
prossimo scatto.
Come
aveva fatto a precedermi così in fretta?
Le
ginocchia mi tremarono per la paura, tentai di ripiegare indietro e
finii col scontrarmi nel petto di cappuccio grigio, anche lui
misteriosamente comparso dal nulla e ricoperto di polvere gialla . In
un attimo, mi disarmò del pugnale e lo gettò a
terra, dunque mi afferrò per i polsi prima che potessi
ritentare qualsiasi tiro mancino.
–
Cosa hai detto, prima, sotto la bancarella? –
domandò svelto, con l’interno della bocca sporco
di polvere gialla.
–
Cosa? – balbettai.
–
La frase che hai pronunciato! Chi te l’ha detta?
–
Di quale frase stai parlando? Lasciami, dannazione, mi fai
male!
Mi
diedi una spinta con la schiena e riuscii a liberarmi da lui
abbastanza per arretrare di pochi passi, finché non
inciampai nel parapetto del potte con le ginocchia.
Il
ragazzo mi agguantò per il braccio, io lo trascinai nel
peso della caduta e in un attimo ci ritrovammo entrambi a sprofondare
nelle acque putride del canale.
Angolo
autrice:
Suppongo
che siate confusi, o addirittura contrariati. Torno dopo tutti
questi mesi, e che faccio? Riprendo da capo la storia? Ebbene, lasciate
che vi spieghi quale diavolo mi abbia preso per arrischiare un progetto
simile. Mi rendo perfettamente conto che è una mossa
pericolosa la mia, perché potrei apparire insicura del mio
lavoro, o noiosa, chissà, ma lasciate che vi dica quanto
questo progetto sia stata una meraviglia per me, dalla sua nascita fino
a questo punto. Non avrei mai pensato di arrivare fin qui, davvero.
Avevo paura di lasciarmi andare troppo, credevo che sarebbe stato tempo
perso, ma poi ho visto i primi commenti, le critiche, che mi hanno
aiutato tanto a crescere ( chi sa capirà! ^^) e
,improvvisamente, mi sono ritrovata con dei lettori veri, scadenze e
aspettative che non volevo assolutamente deludere. Potrà
sembrare sdolcinato, ma mi sono affezionata a voi e, soprattutto, a
questa storia, a cui purtroppo ho dedicato troppo poco tempo, ma ora
capito che potevo far di meglio.
So
che vi sto chiedendo molto, ma spero che mi seguirete in
quest’ultimo, folle atto, altrimenti, sono comunque
orgogliosa di ciò che ho fatto finora, perché
proviene direttamente dal mio cuore.
Sostituirò
man mano i vecchi capitoli con la nuova versione
( li distinguerete da quelli che non ho ancora aggiornato
perché avranno l’immagine di copertina, in oltre,
v’informerò direttamente dalla descrizione ), con
la promessa, però, che la storia non subirà
cambiamenti dal punto di vista narrativo. Andrò solo ad
aggiustare e aggiungere dove servirà, ma non preoccupatevi,
la storia è sempre quella ;)
Grazie.
Di tutto.
E,
con questo, ricominciamo.
Baci,
la vostra Lusivia.
|
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Capitolo 2 *** Prologo ***
Capitolo
2
Prologo
Il
corpo precipitò verso il richiamo delle acque, il calore di
quelle braccia estranee che mi stringevano, il vento, un tonfo, il
ticchettio del pendolo che scoccò le sei del pomeriggio.
Un
gran mal di testa.
Aprii
gli occhi molto lentamente, sentendo la punta di un pugnale immaginario
spingere sempre più in profondità da tempia a
tempia, finché non riconobbi il frusciare famigliare dei
drappeggi damascati attorno al letto e, poco più in
là, lo scroscio di una pioggerella sottile bagnare il
davanzale della finestra.
Rimasi
a fissare i vetri lucidi per qualche istante, poi distolsi lo sguardo e
richiusi gli occhi in un sospiro dolorante.
Ero
di nuovo a casa…?
O
forse, non ero mai partita? Che fosse stata un’allucinazione?
Così reale?
Scostai
via le lenzuola, scivolando sul pavimento accompagnata
dall’ondeggiare del pigiama in lino beige, dunque mi diressi
indolenzita verso la finestra e riagganciai l’uncinetto di
ferro al suo posto.
Una
volta messo a riparo il pavimento dalla pioggia, piroettai sui talloni
e m’incamminai verso il corridoio del piano, passando
velocemente davanti allo specchio.
Non
ricordavo di aver messo la mia camicia da notte di velluto color
lavanda, né d’esser andata a letto alle sei del
pomeriggio.
Uscii
nel pianerottolo tappezzato di quadri e porte, procedendo in punta di
piedi lungo il corridoio rosso, il volto rivolto verso le scalinate,
poggiai il piede sul primo gradino di marmo e il bisbiglio delle travi
cigolanti mi richiamò.
Analizzai
silenziosamente gli usci delle numerose camere vuote finché
una, in particolare, non accattivò la mia
curiosità. La riconobbi anche se ero lontana,
perché emanava un calore proprio, come se al suo interno
bruciasse costantemente un incendio fantasma. Deglutii, dunque girai i
piedi sul parquet e mi avvicinai alla porta, bloccandomi solo quando
fui a un palmo da essa.
Negli
ultimi tempi, stava diventando sempre più difficile
ignorarne il divampare rovente lungo le mura, fin dentro la mia stanza,
lusingandomi nel suo vortice con un richiamo antico, che sapeva di fumo
e nebbia nera tra i ricordi manomessi della mia infanzia.
Era
stato un incidente. Un inutile, maledettissimo incidente avvenuto
tredici Natali fa.
Ricordavo
che c’era tanta gente per casa, molti adulti e pochi bambini,
e che la sala era stata invaso dalle loro risate e i brindisi tra le
luci soffuse, un’enorme tovaglia rossa e le stelle natalizie
disposte sul camino scoppiettante.
A
giudicare dall’altezza dell’albero natalizio di
quell’anno, dovevo esser alta poco più di uno
scricciolo in abito rosso e rigonfio di pizzo bianco, con grandi occhi
profondi e un viso tondo della luna, già allora circondato
da un’aura stregante.
Buffo
a dirsi, all’epoca amavo che mi si facesse vestire come una
bella bambolina d’esposizione, fagocitata da tutti quei
fiocchetti legati tra i capelli fini e le calzamaglie candide, ma quel
giorno Erica aveva dato una particolare attenzione ai dettagli, per
presentarmi al meglio a quella massa d’individui nella sala
da pranzo di casa mia.
Non
ricordavo i loro volti oltre quelle interminabili colonne che erano le
loro gambe, tuttavia, c’era qualcosa nei loro sguardi che mi
faceva sentire preziosa, i loro occhi estranei che mi studiavano, le
bocche che bisbigliavano all’orecchio del vicino, perfino
quei bambini composti che non avevo mai visto prima d’ora mi
guardavano con aria di rivalità.
Ed
io, con animo puro e incontaminato, che li giustificavo e ricordavo a
me stessa che non avrei sminuito il giorno del mio compleanno per
inutili invidie.
Mia
madre voleva che ogni cosa andasse per il verso giusto, quella sera, ed
era visibilmente in ansia, tuttavia, dissimulava i suoi pensieri con
sorrisi laccati di rosso ciliegia e movenze lente del bicchiere di
spumante tra le sue dita pallide, osservando tacitamente le persone in
quella stanza come fossero uno sciame di vespe velenose.
Erica
prese a parlare di fronte ai presenti con il bicchiere colmo di
spumante quando oramai mancava poco allo scoccare della mezzanotte e, a
quel punto, la sala si sarebbe riempita dello scoccare assordante del
grande pendolo. Mentre i pesi d’ottone spostarono le lancette
sull’ultimo rintocco, io mi ero già rifugiata nei
piani superiori, tra le ombre tremule riflesse dai lampadari di
cristallo nell’ingresso.
Ricordavo
della carta damascata color crema, molto simile a quella nella stanza
di mia madre.
Una
porta laccata di bianco nascosta tra la finestra e il mobile.
Poi,
brandelli di una luce insolita, un gran dolore alla testa ,il tepore
accogliente della festa nel salone di casa.
Nessuno
sapeva cosa fosse successo nella stanza quella notte, né io,
né anima razionale.
Forse
un’ombra minacciosa proveniente dall’esterno, o la
rielaborazione esagerata di un rumore sinistro emesso dalle travi di
casa, rimaneva, comunque, che qualcosa i miei occhi l’avevano
davvero vista, ed era stato così terribile da far collassare
la mente in se stessa.
Passò
quasi un mese prima di ricollegare l’incidente al debutto
della schizofrenia.
Mia
madre era sconvolta. Non poteva perdonarsi per ciò che mi
era successo, si riteneva responsabile in qualche modo e
finì col chiudersi nella solitudine della sua stanza,
perfino la mia situazione catatonica non riusciva a farle prendere una
posizione di fermezza.
Per
quasi due anni io e mia madre fummo incapaci di riprendere il controllo
sulla nostra vita.
E,
quando mi risvegliai dal mio sonno, mi resi conto troppo tardi che lei
aveva già deciso ogni cosa al posto mio.
Non
mi fu più concesso andare a trovarla nel letto durante i
temporali invernali, né entrare in camera sua per cercare il
rossetto color ciliegia che metteva sempre, quella porta divenne il
capolinea oltre cui il mio corpo non poteva spingersi,
perché respinto da un’aura indecifrabile.
A
pensarci bene, non sapevo come avessi deciso di non tornare
più là dentro. Mi sembrava illogico aver paura,
perché, se non lo prendi sul serio, non può farti
del male.
Allungai
la mano molto lentamente, con l’ombra di un inquietante
presentimento sul collo, e pressai le dita sulla superficie liscia,
sentendo subito una strana pressione risalire lungo il mio braccio.
Attesi
qualche attimo e non accadde nulla, anzi, mi sentii abbastanza sciocca
da volermi allontanare subito, prima d’esser vista da
qualcuno, ma, non appena richiamai il braccio a me, sentii che le dita
erano rimaste incollate.
C’era
qualcosa, sotto i polpastrelli.
Tesi
il collo per analizzare lo strano liquido rossastro più da
vicino e avvertii subito un pungente odore di ferro infilarsi nelle
narici.
Sangue.
Tirai
la mano indietro e la porta lasciò andare volentieri le mie
dita, indietreggiai di scatto e andai a sbattere violentemente contro
il muro, spostando il quadro sopra la mia testa di qualche centimetro.
Portai
le dita all’altezza delle pupille dilatate e il mio cuore si
zittì all’istante.
Non
c’era niente sui polpastrelli. Neanche la benché
minima traccia di sangue, neppure sulla porta.
Sentivo
che il corpo tremava ancora tutto quando vidi la porta della stanza
aprirsi sul corridoio, facendo emergere la testolina bionda di mia
madre, così indaffarata con le rotelle della sua valigia da
non accorgersi che la stavo fissando.
Notai
che aveva un abbigliamento insolitamente sciolto, una camicetta rossa
dallo scollo accennato e un pantalone a vita alta che esaltava la sua
figura esile e muscolosa.
Erica
sollevò lo sguardo per un istante, incrociò il
mio volto pallido e immediatamente le sue dita divennero come di
ghiaccio, facendo cadere la valigia sul tappeto del corridoio.
–
Mamma…– sussurrai – dove stai andando?
Un
leggero panico le riempì gli occhi, poi si chinò
per raccogliere l’impugnatura della valigia e, sorpassandomi
con una piroetta perfetta, disse – C’è
stato un contrattempo, amore mio. La mamma deve partire prima, ma stai
tranquilla, tornerò prima della fine di questa settimana.
–
Settimana? – ripetei, andandole subito dietro sulle scale
– Ma i tuoi viaggi di lavoro non durano mai una settimana. E,
soprattutto, non vai a un congresso conciata così.
Mamma. Che sta succedendo?
–
Torna in camera tua. – mi ammonì e
cominciò a trascinare la valigia verso il portico.
–
Neanche per idea, non senza una dannata spiegazione! Avanti, cosa
è successo, perché stai scappando? Mamma!
Sbatté
la valigia in prossimità della porta.
–
Niente, niente, non è successo niente, Laura! –
sbottò, colpendo col suo tono rabbioso con abbastanza
precisione da lasciarmi ammutolita per qualche istante.
Era
evidente che qualcosa non andava, glielo si leggeva suo volto, ora
contorto in una rabbia ingiustificata, e sulle mani, rosse e nervose
mentre scorticavano la fronte, ma ciò che non vedevo era
quanto fosse spaventata in quel momento.
–
Ascoltami, ti prego... ho bisogno della tua comprensione. –
sussurrò sotto i capelli. – Rimani qui con Agata.
Continua a fare tutto normalmente e non chiederti dove sono,
né cosa sto facendo, nulla.–
singhiozzò. – Buonanotte, Laura.
–
Ma…ma dove vai? Mamma!
Cercai
di afferrarla per la manica prima che superasse la soglia di casa, ma
non fui abbastanza svelta e mi ritrovai con un pugno d’aria.
La
vidi salire su un fuoristrada verde muschio appostato lungo il
sentiero, parecchio distante da casa, quindi ebbi tutto il tempo di
vederla trascinarsi con la valigia, aprire la portiera e saltare sul
veicolo un attimo prima che il suo conducente sgommasse verso il bosco.
Da
quando mio padre l’aveva abbandonata, Erica non dava
più l’addio a nessuno, invece, augurava la
buonanotte, perché la notte, diceva, non può
durare per sempre.
Per
la prima volta, vidi davanti a me la notte più lunga di
sempre.
*
* *
Erano
passati cinque giorni da quando avevo lasciato che mia madre salisse su
quel fuoristrada parcheggiato lì da chissà quanto
tempo, l’avevo vista sparire su di esso mentre ero ancora
affacciata sulla soglia di casa e, la cosa peggiore, fu che non potevo
far nulla.
Mi
sentii tagliata fuori dalla sua vita, dalla nostra, e questo mi fece
sentire più sola che mai.
Quella
stessa sera, Agata arrivò a casa con il suo valigione,
sempre pronto per ogni partenza improvvisa della padrona di casa, e mi
trovò nel pieno dei miei esperimenti culinari, spesso tacita
valvola di sfogo per pensieri tarlanti che non avevano il coraggio di
esprimersi apertamente.
Durante
la nostra breve cena io non dissi molto e la suora, dal canto suo, non
tentò d’indagare sul mio umore neanche una volta;
più semplicemente, si limitò a sparecchiare e a
rifilarmi la compressa prima di andare a dormire.
–
E non osare mai più saltare l’assunzione,
signorina. Sai, preferirei non trovarti di nuovo svenuta
nell’ufficio, quando, invece, dovresti esser sulla lettura di
Hegel. Laura, sul serio. Non provarci mai più.
Anche
quel giorno, annuii meccanicamente, in una nauseata accondiscendenza
che aveva portato stanchezza, non quella tipica della lotta,
bensì era più simile ai dolori del prostrarsi ai
voleri di qualcun altro.
Fissavo
il rifratto della luce su quella piccola sferetta bianca, e pensavo,
sempre più stanca, sempre più avvilita, sempre
più incapace di capire quando fosse iniziato.
Quand’è
che avevo deciso di non lottare più?
Ma,
soprattutto, quand’è che mia madre aveva
cominciato ad avere dei segreti con me?
–
Dovresti impegnarti in letture meno frivole. Se non sbaglio, ti avevo
assegnato un passo dell’Antigone, perché leggi le
follie di quel romanzetto per bambini?
Sollevai
gli occhi dal libro azzurro poggiato sulle mie gambe, sapientemente
avvolte dal gonnellone nero, e sorrisi al profilo austero del suo naso
infilato in uno dei suoi saggi tascabili, quelli che sfilava dalla sua
veste ogni qualvolta avesse un po’ di tempo a disposizione.
–
Cos’hai contro Alice? – chiesi, fermando un segno
con il pollice.
La
donna scrollò le spalle con diffidenza. – Quale
ragazza seguirebbe un coniglio col panciotto dentro una tana un
po’ ambigua?
Sollevai
le spalle attraverso la blusa bianca.– Io lo farei. Giusto
per dare un’occhiata.
–
Laura, sul serio. È ridicolo.
Risi
a denti scoperti, poi tornai nella narrazione con una scrollata di
spalle. – Sarà, però,
chissà, la sorella maggiore di Alice mi ricorda una certa
suora…
Lei
esitò per un po’ sul mio volto con espressione
lievemente spazientita, dopo di che fece scivolare gli occhi in un
sospiro pensieroso, lasciando che facessi come mi pareva
Quel
pomeriggio, Agata aveva preparato un angolo lettura nel giardino sul
retro, sistemando un telo a scacchi rosso sul praticello fresco e
dispiegando un’enorme quantità di the, biscotti e
libri tutti sparsi attorno a noi come un tappeto di foglie gialle.
Molto
simile a un paradiso terrestre, il vivaio era stato edificato come un
parco monumentale di siepi ad arco e lunghi corridoi tappezzati di
fiori di ogni specie, dalle selvatiche rose canine alla soffice lavanda
nelle aiuole.
Star
lì mi faceva bene in quel momento, perché zittiva
il pullulare costante di quegli strani pensieri che si erano
impossessati della mia testa, sostituendoli, invece, con le vibrazioni
potenti della siepe, dell’erba, delle montagne, dei libri
distesi a pancia all’aria sul prato attorno a noi.
Almeno
in quegli attimi, sentivo il mio corpo fondersi con il cuore del
giardino e, con esso, anche la sofferenza si acquietava per un
po’. Era da un po’ che avevo smesso di prendere i
farmaci, e la cosa cominciava a pesarmi un po’.
Ultimamente,
mi sentivo malata. Davvero, malata.
–
Vado a prendere altri biscotti. – annunciò
d’un tratto la suora, alzandosi agilmente da terra mentre mi
chiedeva –Tu vuoi qualcosa in particolare, Laura? Cioccolata,
caffè…?
Scossi
la testa senza staccare gli occhi dalla lettura, quindi, sentendosi
ignorata, Agata si allontanò a passo mogio fino alla veranda
dell’ufficio, ove sparì per qualche minuto.
Alzai
la testa un po’ di sottecchi, cercando con lo sguardo la sua
figura grigia in qualche vetrata, poi sospirai e piegai la fronte sulla
carta profumata del libro, dove rimasi finché lo ritenni
opportuno.
Quel
ronzio, non voleva proprio cessare.
Sollevai
la testa con uno scatto deciso, dunque mi sporsi su un fianco e
cominciai a cercare tra la pila di libri accatastati a destra, nella
speranza di distrare la mia mente abbastanza da non sentirlo
più.
Rovistai
superficialmente le copertine lucide e così ben curate, che
finirono inevitabilmente col far risaltare un vecchio tomo verde tutto
consumato, che pareva quasi ammiccare sotto la catasta.
Ubbidendo
subito al suo richiamo, m’inginocchia sull’erba e
scartavetrai la superficie di volumi fino ad arrivare a vedere
“Il Milione” di Marco Polo, il primo compagno
d’avventure che ebbe mai il dono di trasportarmi dalla mia
stanza in luoghi lontani.
Avevo
letto, anzi, divorato quelle pagine, nella speranza di diventare io
stessa la carta tinta di mappe, terre e volti umani che avevano
decorato i diari dell’avventuriero veneziano, ma alla fine
dovevo sempre tornare nelle mie pallide membra umane.
Fu
una fortuna ritrovare lì quel libro, visto che Agata lo
aveva sottratto dalla mia libreria personale da diversi anni, e lo
presi come un segno del destino.
Iniziai
a sfogliare il bordo delle pagine con cautela, sentendo le immagini
riesplodere dietro i miei occhi riga dopo riga, le voci delle antiche
metropoli riprender vita e i possenti castelli riedificarsi nella mia
testa, ma la loro rinascita venne rasa al suolo da un piccolo,
seghettato dettaglio.
Una
pagina era stata brutalmente strappata dall’insieme,
lasciando orfano di un intero capitolo un piccolo appunto di poche
righe, probabilmente il finale di qualcosa di ben più
complesso e interessante.
Rimasi
per un momento a carezzare il taglio frastagliato a destra della pagina
così crudelmente amputata, immaginando chi mai avrebbe
potuto compiere un tale atto. La risposta mi colpì come un
fulmine violaceo dal cielo.
Agata
odiava quel libro, ma non avevo mai capito perché. Possibile
che fosse stata lei? E perché mai, d’altronde?
Bisognosa
di risposte, le cercai tra le righe sopravvissute. La descrizione
meravigliosa di un eden fiorito da qualche parte tra le montagne
siriane, lì dove si erigeva la rocca di un potente signore,
mago, teologo, mistico, che era riuscito ad affondare le radici di
un’antica setta nel lontano medioevo, era tutto
ciò che rimaneva su quel libro.
Nessun
nome, neanche un accenno sul luogo, ma solo un incerto interrogativo
che si espandeva attorno a quella mistica figura persa nel tempo:
“Il Veglio della Montagna”, lo chiamava Marco Polo.
Strinsi
le labbra in una smorfia insoddisfatta, muovendo il pollice sul bordo
per chiudere il libro prima del ritorno della suora dalla cucina,
quando qualcosa di viscido fece scivolare il polpastrello lungo la
pagina.
Notai
per la prima volta la presenza di un alone vischioso, lucido come
inchiostro rosso, maleodorante come una vecchia ferita lasciata a
cuocere sotto il sole. Chinai il naso sulla pagina, tirando un unico,
chiarificante respiro.
Il
petto tremò in un respiro mozzato, il mento si
alzò impettito ma gli occhi rimasero piegati in basso,
atterriti, increduli, curiosi.
Pigiai
l’unghia contro la macchia rossa, scorticandola molto
delicatamente.
In
quel preciso attimo, qualcosa di incredibilmente pesante
piombò sulla mia gonna e la bagnò di rosso vivo.
Non urlai, non mi chiesi nulla, solo lasciai che le braccia si
slanciassero a lanciare via il libro maledetto, che atterrò
qualche metro più in la sull’erba tinta di sangue
vivo.
Mi
portai una mano al cuore, sentii di dover guardare sulle mie gambe, ma
non ci riuscii.
–
Laura, va tutto bene?
La
voce di Agata riemerse come una macabra rielaborazione di un incubo e,
percependola come tale, non riuscii a strappare i miei occhi da
quell’incanto finché non sentii il ronzio nella
mia testa cessare definitamente.
La
suora era lì, davanti a me, con un vassoio di biscotti alla
vaniglia, e mi osservava con una velata preoccupazione.
Guardai
titubante qualche metro più in là, aspettandomi
di trovare un lago di sangue attorno al libro, ma le pagine avevano
smesso magicamente di sanguinare, anzi, non ve n’era la
benché minima traccia, né sulle mie gambe
né altrove.
Strinsi
le dita contro il tessuto della blusa, ma non riuscii a calmare il
respiro. Non me l’ero immaginato, le pagine
avevano… avevano preso a sanguinare.
Una
mano delicata carezzò la mia spalla, poi afferrò
anche l’altra, finché Agata non mi ebbe
intrappolato nel suo sguardo profondo e burrascoso, che premette sulla
mia pelle in un’espressione mortificante, di chi aveva
l’amaro in bocca per la frustrazione.
–
Che cosa stai combinando, piccola ingrata? –
sibilò a denti stretti – Cosa credi di dimostrare,
non prendendo più gli psicofarmaci, eh? Credi di essere
grande, così?
Sussultai
– N… no…
–
Pensi di essere così spavalda da poter gestire una cosa del
genere da sola?
–
Io…– deglutii con fermezza. – Senti da
che pulpito! Come osi farmi la predica quando tu stessa mi nascondi le
cose?
–
Di che stai parlando?
–
Mia madre, Agata! Mia madre è sparita da un momento
all’altro su un fuoristrada appostato fuori la magione, ed
è come se non fosse mai accaduto! È questo che ti
ha detto di fare? Di fingere che andasse tutto bene, che questo fosse
un altro dei suoi improvvisi impegni di lavoro?
–
Non dovresti fare queste domande, Laura. Lo sai bene.
–
Perché? – sbottai – Perché
no? Cosa c’è di così terribile da non
potermi dire?
–
Sei un’ingrata! – la sua voce scoppiò di
rabbia, ma la sua espressione era disperata, di chi aveva le spalle al
muro. – Ho votato la mia esistenza alla tua protezione,
ragazzina, per proteggerti, e tua madre… lei ha dovuto
affrontare scelte difficili, piene di sacrifici, perché non
sei abbastanza forte, e questo tuo comportamento ne è la
prova! Come possiamo proteggerti, se ti ribelli così?
–
Proteggermi da cosa? Dal mostro sotto il letto? Dalla
possibilità di rompermi il collo quando sono sul tetto? O
dal demonio che mi sta divorando il cervello, Agata! Da quello chi mi
salva? Voi? O quelle fottutissime caramelle al gusto di limone con cui
mi avete imbottito un’intera vita?
–
Basta così! Vai in camera tua, sei in punizione per il resto
della tua vita, mocciosa arrogante! – sputò e, con
quest’ultime parole, mi lasciò andare, puntando
risoluta l’indice destro verso casa.
Con
la gola ancora piena di rabbia e il cuore pesante, sgusciai via dal suo
sguardo arcigno, afferrai per un lembo il gonnellone nero e mi misi a
correre in direzione del suo braccio teso. Arrivai
all’entrata dell’ufficio rosso e per poco non
inciampai nei miei stessi piedi, allungai la mano verso la veranda.
Presi la maniglia con forza.
Un
colpo tremendo all’altezza delle gambe, poi comincia a
piegarmi sulle mie stesse ginocchia un istante troppo tardi per i miei
riflessi.
Le
braccia della suora arrivarono alle mie spalle come una folata di vento
improvviso, sorreggendomi forti mentre appendevo la testa in avanti,
spalancando la bocca in un singhiozzo spezzato a metà.
–
Laura! Laura, cos’hai?
Immobile
com’ero a mezz’aria, provai a spiegarle la dolorosa
sensazione di bruciore al centro della fronte, ma, non appena
focalizzai le parole, sentii di nuovo quel fastidioso ronzio
mordicchiarmi nei timpani.
Sentivo
che stavo per andarmene. Che da un momento all’altro il mio
corpo sarebbe schizzato fuori.
E
di questo se ne accorse con orrore anche Agata.
Con
uno strattone deciso, ella mi tirò su di peso e
allacciò prontamente il braccio attorno alla mia vita,
mentre, con l’altra mano, mi teneva il polso oltre le spalle.
Cominciò
a trascinarmi verso la veranda un saltello dopo l’altro,
tremando ogni volta che vedeva la mia testa penzolare in balia delle
vertebre distese, cercò di trascinarmi dentro
l’ufficio ma il peso legato alle mie caviglie divenne
talmente insostenibile da crocifiggerla sulla soglia, impotente e
frustrata.
A
stento riuscii a capire l’imprecazione che aveva lanciato
dalla bocca di una tale suora licenziosa, provando un leggero dolore
alle tempie quando, ridendo debolmente, abbandonai il capo contro la
sua clavicola destra.
–
Sai, adesso, me lo ricordo… – sussurrai.
La
donna mi guardò spazientita. – Cosa? Stai dando di
matto, ragazzina!
Feci
girare la testa contro la sua clavicola, socchiudendo gli occhi il
tempo necessario per vedere la sua espressione alla mia risposta.
–
Kadar. Aveva detto… di chiamarsi Kadar.
Poi,
il buio calò davanti ai miei occhi.
Finalmente,
il brusio era cessato.
*
* *
Percepii
qualcosa di caldo carezzarmi la guancia, poi, uno spiraglio si
aprì nel buio e lasciò che il calore stantio e
secco della camera trafiggesse il pulviscolo sulla finestra incrostata.
Le
gambe erano addormentate in posizione fetale e la faccia sprofondata
nel groviglio della mia chioma, le coperte bollivano del tempore
pastoso del sonno e non si udiva altro nell’aria se non il
mio dolce respiro.
A
riattivare i miei sensi fu la presenza di un profumo estraneo sul
cuscino, un misto di paglia e oli profumati, con un accento aspro,
chiaramente virile.
Faticai
a scollare le palpebre e ancor più a mettere a fuoco la
trama ruvida del guanciale su cui ero appoggiata, dunque, mi sollevai
pesantemente sui palmi e raccolsi la manica per strofinarla sugli occhi.
Mi
bloccai quando vidi steso sul mio braccio il tessuto sottile del lino,
ramificato lungo il mio corpo in una sottoveste pulita e perfettamente
aderente a ogni centimetro nudo del mio corpo, ad eccezione delle mani
e dei piedi, nudi e liberi.
Scesi
le gambe dal letto con molta circospezione, traballando un istante
prima di aggrapparmi al tavolo della toilettatura, smuovendo
l’acqua nella bacinella, per ritrovare una parvenza
d’equilibrio, ma non ero ancora soddisfatta, avevo bisogno di
alzare lo sguardo sulla stanza per capire che il mondo si era
letteralmente rovesciato sotto sopra.
Ero
evidentemente in un alloggio abitato, grigio e asettico nonostante gli
evidenti affetti personali del suo ospite, come un calamaio imbrattato
di nero sullo scrittoio, i vestiti che fuoriuscivano dalla bocca
socchiusa della cassapanca, un letto sfatto e imbottito di paglia.
Se
solo avessi avuto la prontezza nel reagire, probabilmente mi sarei
lasciata cadere di nuovo sul letto, ma non lo feci, ero paralizzata
sulle mie gambe.
Dove
mi trovavo?
Improvvisamente,
dalla finestra risalì il rumore di un corpo ferroso che
cozzava con qualcosa di sottile e veloce, in uno schema di colpi che
illuminò la mia mente come una lampadina.
Il
rumore di un combattimento.
Una
fitta alla tempia.
Un
mercato. Delle guardie, il fango, poi tanto bianco e sangue.
Un
risucchio, e la mia mentre rientrò nel corpo con un
sussulto.
Puntai
lo sguardo sulla finestra e non pensai molto prima d’imporre
ai miei piedi di scattare in quella direzione, spalancando le vetrate
impolverate con un colpo solo.
La
pressione del vuoto mi colpì sotto il naso senza alcun
preavviso, le orecchie vennero ferite dal grido di uno stormo di
uccelli in volto sopra la torre e gli occhi rimasero incantati dalla
maestosità di una catena montuosa, giganti a protezione
della vallata.
Fu
grazie alla traiettoria degli uccelli, che sorvolarono in volo i
profili delle antiche mura grigie, delle possenti file di bastioni,
delle torri e torrette di controllo, se trovai il coraggio di
percorrere tutta la magnificenza del castello in cui mi ero
risvegliata, ma ancora non ero in grado di dirmi sveglia o al centro di
un sogno medievale.
Di
nuovo, il rumore di spade che cozzavano risalì dal campo
diversi metri in basso e, inibita dalla vista, mi sporsi dalla torre
quasi dimenticandomi dell’altezza.
Oltre
la ramificazione di finestre e merlature, al centro di un modesto
recinto polveroso, alcune ombre pallide si addestravano con le spade,
gridando e grugnendo a ogni fendente che andava a segno o cascava nel
vuoto assoluto.
Notai
uno, in particolare, che gonfiava le sue spalle erculee e sfidava le
punte di ferro dei suoi avversari come un vero sbruffone.
All'improvviso,
qualcosa lacerò il buio nella mia testa, mandandomi indietro
sul bordo della torre, nell’aria statica e stantia
dell’alloggio.
Altaïr.
Mi
ricordavo di lui. Cosa voleva dire la sua presenza, lì? Che
mi avesse trascinato nel suo covo, tra la sua gente fantasma?
Mi
pulii gli angoli della bocca con un gesto della mano, adocchiai sul
pavimento un paio di sandali femminili accanto alla cassapanca e mi
precipitai a infilarli, portandomi davanti ai chiavistelli della porta
pesante con un fastidioso bisogno di risposte.
Mi
affacciai nell’androne del castello, scontrandomi subito con
l’odore dolciastro d’incenso e quello floreale
delle piante dentro i vasi, che facevano a gara con le grandi finestre
gotiche sull’altra sponda, arrivando con lo sguardo fino al
balcone affacciato sul giardino del castello.
Non
mi era ancora chiaro se fossi effettivamente in
un’allucinazione, ma per adesso non potevo far altro che
indagare con prudenza.
Sgattaiolai
lungo i muri, cercando di non far troppo rumore nonostante la
scomodità di quei dannati sandali, quando, giunta in
prossimità dell’arcata, udii gli schiamazzi di due
ragazzini provenire dalla gola del corridoio adiacente.
Feci
appena in tempo ad appiattire la schiena contro il muro che vidi i due
sparire sui gradoni di marmo delle scale, spingendosi e scherzando fino
a quando le loro voci riuscirono a rimanere a galla tra le viuzze della
rocca, dunque, tornò di nuovo la calma.
Se
quei due scapestrati erano così frettolosi, probabilmente
era perché volevano assistere a un po’ di sana
violenza, ragion per cui decisi di seguirli giù per le
scalinate, seguendo gli echi dei loro schiamazzi come un vecchio
marinaio col canto delle sirene.
Grazie
a loro, giunsi tra le librerie di un ufficio abbandonato con soli due
giri nell’ala ovest, dunque, lasciai che le mie guide ignare
mi precedessero verso la piazzola esterna, da dove proveniva un gran
baccano di voci e lame.
Arrivai
sotto il portale di pietra appena in tempo per assistere alla clamorosa
vittoria di Altaïr sui suoi due avversari.
Altaïr
aveva isolato ognuno di loro in un angolo del recinto, per affrontarli
singolarmente, e la cosa stava funzionando, perché, se il
più giovane col cappuccio grigio era paralizzato vicino alla
palizzata, quello più grosso era sfinito e boccheggiava col
sudore che grondava copiosamente giù per la mandibola.
Sapeva
che avrebbe perso entro tre colpi, per cui, l’omaccione
decise di provare un’ultima, disperata difensiva.
Tentò
di caricare un montante e Altaïr schivò il colpo
spostandosi agilmente a destra, il bestione grugnì rabbioso
e cercò di colpirlo il fianco, ma anche quella volta
riuscì a parare il colpo prendendolo solo
sull’avambraccio corazzato.
Una
volta assorbito l’impatto del pugno, senza perdere
l’equilibrio perfetto neanche un istante, Altaïr
cominciò a sommergere il suo avversario di colpi
all’altezza della testa, stordendo le orecchie di quello il
tempo sufficiente per lasciarlo inerme a un calcio sulla milza, che lo
mandò definitivamente a terra.
Dovevo
ammetter d’esser rimasta senza fiato per
quell’impressionante successione di agilità e
brutalità, ma capii ben presto che l’incontro non
era ancora giunto al termine. Difronte la sconfitta del più
vecchio, il ragazzo attaccò impavido Altaïr,
approfittando della guardia bassa per riprendere del fiato.
Per
un istante credetti che non sarebbe riuscito a schivare il colpo e,
invece, mi ritrovai di nuovo a sorprendermi quando lo vidi piroettare
indietro, ghermendo il braccio steso del rivale e storcendolo fino a
costringerlo con le ginocchia a terra.
Le
grida agghiaccianti del ragazzo arrivarono fin dentro il castello, ma
,un secondo dopo, vennero zittite del suo brutale avversario, che
piantò il gomito sulla sua terza vertebra con precisione
pressoché medica.
Il
giovane stramazzò sconfitto a terra, il combattimento si
concluse e i ragazzini accorsi lì per vedere inneggiarono il
vincitore con fischi e applausi.
Altaïr
si risollevò sullo sconfitto con un sorriso vittorioso e il
mento superbamente puntato in alto, si riempì della piccola
gloria di quel momento ma, allo stesso tempo, continuava a cercare con
lo sguardo il prossimo rivale, la prossima vittima da umiliare.
Era
come un animale addestrato per aizzarsi con il minimo pungolo al
fianco.
–
Cosa ci fai tu, qui, in questo stato, senza pudore! Avrebbe potuto
vederti qualcuno o, peggio, il Gran Maestro!
Qualcuno
arrivò correndo alle mie spalle, afferrandomi il polso
così rapidamente che rimasi completamente spaesata quando
incappai nel volto avvampato del giovane cenerino incontrato in
città, scioccato per qualche ragione.
Socchiusi
la bocca in un tremito viscerale, sentendo subito i miei sensori logici
vacillare sotto la presa di quella mano, così forte e calda,
ma non appena ricordai d’aver il polso bloccato esplosi in un
ringhio d’avvertimento.
–
Non toccarmi con quella mano, lurido omicida! – sbottai,
dando uno strattone forte, senza successo.
–
Dove pensi di andare in giro, con addosso solo l’intimo?
– replicò scioccato lui, arrossendo
così violentemente sotto il cappuccio da spingerlo a
distogliere lo sguardo e lasciare la presa.
Abbassai
lo sguardo con aria scettica. – L’intimo?
– ripetei, sbirciando sotto lo scollo della veste e
imbarazzandomi quando appresi d’esser totalmente nuda
lì sotto.
Lui
annuì nervosamente mentre controllava che nessuno
sopraggiungesse dalle scale, o fosse affacciato dai piani superiori.
– Sì, l’intimo! – insistette
– Cos’è, non l’hai mai
indossato una sottoveste, prima d’ora? Eppure,
l’abito che portavi a Damasco non sembrava così
differente!
–
Damasco? – sentii le braccia cadermi lungo i fianchi.
– Un attimo. Intendi… quella Damasco?Quella,
quella?
Lui
si voltò a guardarmi e piegò la testa di lato,
azzardando un’occhiatina innocente lungo tutta la mia figura
pallida, come quella di uno spettro notturno.
Osservandolo
adesso, mi resi conto che non era molto più alto di me, ma i
muscoli gonfi e la spada al fianco lo facevano sembrare decisamene
più minaccioso di ciò che era, forse anche troppo.
–
Non credo ci siano altre città in tutta la Terrasanta con
quel nome. – osservò ironico lui e stranamente la
sua postura si addolcì di poco – Suppongo che tu
sia confusa, adesso. Strano, credevo che sapessi almeno dove fossi
approdata.
Sollevai
gli occhi tra le rughe delle sopracciglia, chiedendo a fil di voce
– A… approdata? Ma come ci sono finita qui? Un
momento… sono… sono una prigioniera? Dove mi
trovo? È… è uno scherzo, vero? Suor
Agata vi ha assoldato per metter su questa buffonata, per farmi
spaventare?
La
sua bocca di dischiuse in un lieve imbarazzo. – Non ho idea
di chi sia questa suora, ma hai l’aria spaventata.
Tranquilla, qui nessuno ti farà del male, sei al sicuro.
Calmati.
Un
senso di spossatezza mi ghermì la bocca dello stomaco, presi
un intenso respiro, dunque tentai di far un po’ di ordine nel
pantano di domande che avevano ostruito i miei pensieri. Ci riuscii.
–
Cosa sei, tu? – chiesi.
Lui
aprì le braccia sui lati, dicendo – Ciò
che vedi. Un giovane uomo incappucciato con un insolito interesse per
la fanciulla in azzurro che guizzava via come una biscia nel disordine
di un’imboscata.
–
Imboscata? Parli di quei poveracci che avete massacrato come porci al
mercato?
Lui
fece una risata nasale. – Un fragile fiore come te non
dovrebbe intromettersi in argomenti così delicati.
Piuttosto, cosa sei tu? Sei una popolana? Una viaggiatrice? Una
pellegrina? – esitò. – Una puttana?
–
Come osi!
–
Perdonami. È che i tuoi abiti…sai, non dovresti
mostrare le ginocchia in quel modo. La prossima volta, potresti davvero
finire nelle gattabuie di qualche città.
Camuffai
la stizza con un broncio esemplare. – Adesso basta, ne ho
piene le tasche. Sputa il rospo, cappuccio grigio! Dove mi
trovo? Come ci sono finita qui, veramente? Chi diavolo siete,
voi?
Il
ragazzo rimase fastidiosamente impressionato dalla mia perseveranza.
– Ma guarda, sei un tipetto insistente, eh. Non ti hanno
insegnato da bambina a non molestare chi ha una spada? O forse, dove
sei stata cresciuta tu, ti hanno insegnato a usarla, la spada?
– il suo volto s’incupì –
Perché non mi dici da quale terra sperduta provieni?
Gettai
istintivamente un’occhiata in basso, sull’elsa che
sbucava al suo fianco, la sua bocca si tese in un’espressione
spazientita e fece per parlare, quando fummo interrotti dal richiamo
graffiante di una voce umana.
–
Ah, vedo che la nostra giovane ospite è sveglia. Eppure,
avevo dato precise disposizioni di non lasciarla girovagare sperduta
nel castello… soprattutto con addosso la sola sottoveste.
Sulla
cima delle scale, una presenza oscura aveva appena infestato
l’atrio, manifestandosi in lunghi abiti neri e con la barba
che scendeva candida dal cappuccio, dispiegandosi sul suo petto come un
centrino.
Immediatamente,
il giovane al mio fianco fu percorso da un timore inspiegabile e subito
si affrettò a colpirsi il petto con il pugno, rimanendo con
lo sguardo fermo e i piedi uniti per tutto il tempo in cui il vecchio
uomo scese le scale.
Procedeva
imperioso tra le rifiniture damascate dei suoi abiti, decisamente
più preziosi di quelli dei giovani nella fortezza, e,
sebbene il suo corpo fosse evidentemente provato
dall’età, c’era qualcosa nel suo petto
che ostentava un antico passato da guerriero. Si fermò al
centro dell’atrio, squadrandoci dall’alto in basso
con il suo occhio cieco solcato da una cicatrice violacea.
–
Mi è stato detto che parli fluidamente la nostra lingua,
quindi, non avrai problemi a capirmi se non indugio troppo sulle
parole. – cominciò disponibile.
Deglutii
la secchezza alla gola, quindi mi sforzai di sostenere lo sguardo
profondo delle sue pupille senza lasciare che il panico mi
sopraffacesse.
–
Lingua? – mormorai. – Perché, che lingua
parlate? In che lingua parlo… io?
Il
vecchio sollevò il sopracciglio con scetticismo, dunque
posò lo sguardo meditabondo sul ragazzo e quello
reagì con un irrigidimento involontario dei muscoli.
–
Al Mualim…
–
Credevo di averti detto di vegliare su di lei finché non si
fosse destata, ragazzo. È evidentemente disorientata.
Il
ragazzo arrossì. – Non potevo immaginare che
sarebbe uscita senza neanche coprirsi.
–
E questo perché sei stato incauto, Novizio! Ti sei fatto
abbindolare dal suo aspetto rassicurante, hai ignorato la mia
raccomandazione di tenerla d’occhio, esponendo, in tal modo,
le attività dei tuoi confratelli agli occhi curiosi di
questa donna!
–
Non era mia intenzione ficcanasare in giro, solo ero alla ricerca di
un’uscita. – mi affrettai a precisare, seccata.
L’occhio
grigio del vecchio si posò ferino sul mio capo, facendo
rabbrividire il ragazzo in grigio fino alle ossa. – Mentore,
la prego, lasci che la porti via senza punizioni…
La
mano rugosa del vecchio si alzò per ridurlo in silenzio e
quello ubbidì con un singulto sommesso.
–
Mi sono state riferite molte cose su di te, ragazza. –
cominciò, abbassando lentamente gli artigli ossuti lungo le
sue vesti scure. – Che hai attaccato i miei uomini senza
alcun riguardo della loro posizione. Che hai osato sottrare
l’arma a un uomo. Che, addirittura, li hai sopraffatti con
bassi metodi, evirandoli e ricoprendoli di curcuma, neanche fossero
mocciosi alle prime armi! Ebbene, mi chiedo, chi diavolo
sarà mai questa donna!
Sia
io che il ragazzo vibrammo al trono penetrante della sua voce e mi ci
volle un secondo prima di ritrovare il coraggio in fondo alla gola.
–
Io voglio solo tornare a casa. Lasciatemi tornare a casa, per favore.
– conclusi asciutta, negli occhi nessun accenno di paura, e
ciò sembrò solo accentuare l’amarezza
del vecchio.
Ora,
aveva il volto contorto in una grottesca maschera teatrale.
–
A questo punto, direi che la nostra conversazione è a un
punto morto. – borbottò – E, supponendo
che neanche tu abbia tempo da perdere, direi che è giunto il
momento degli addii.
Con
queste parole cupe, l’uomo colpì i suoi abiti per
fargli compiere una ruota perfetta e risalì
nell’ufficio sovrastante, ma, prima di pestare sotto gli
stivali l’ultimo gradino, tornò a guardarci da
sopra la spalla destra.
–
Ma, maestro… – obbiettò incerto il
ragazzo –… e il deserto?
–
Lo attraverserà, così come ha fatto per arrivare
qua.
–
Però potrebbe perdersi.
A
quel punto, l’uomo sbatté spazientito il palmo sul
parapetto massiccio delle scale e, con occhi fiammeggianti,
gridò – Ho accettato che tu portassi quella donna
in casa mia e, non solo, ho messo a disposizione per lei il mio medico
personale giorno e notte, in nome dell’alta considerazione
che ho di tuo fratello maggiore! Ma questo castello non è un
ospedale, né un luogo per donne, ed è arrivato il
tempo di rimettersi a lavoro! Così è deciso e
così si farà, senza discussioni!
Non
appena il soprabito nero di Al Mualim svanì al piano
superiore, l’eco del suo imperativo fu risucchiato dalle mura
e sia io che il ragazzo ci riscoprimmo ad aver trattenuto il respiro
per tutto il tempo.
*
* *
Le
cantine del castello erano davvero immense, lunghi corridoi avvolti
dalla penombra di qualche sporadica lanterna posta tra
un’arcata di pietra e l’altra, sotto cui distinsi i
profili illuminati di provviste di grano e botti piene del loro
contenuto, che, a giudicare dall’odore, non era solo acqua.
Il
cappuccio cenerino camminava spedito nel sottosuolo della montagna,
mischiando i suoi passi con una perdita da qualche parte in quel posto
tetro, ed io lo seguivo a una certa distanza di sicurezza badando,
però, a non rimanere mai troppo indietro.
La
luce aveva cominciato a diradare la nebbia, finalmente.
Ricordavo
il mio nome per intero, il volto di Agata e a voce gentile di mia
madre, il giardino fiorito dietro casa, il
“Milione” e il fiume di sangue sul prato vergine,
ma per il resto solo un’enorme voragine.
–
Non volevo che le cose andassero così.– disse
d’un tratto.
Alzai
lo sguardo con fare distratto. – Scusami?
Il
ragazzo davanti a me scrollò le spalle, spiegando
– Il maestro è solitamente un uomo paziente, ma
capisci bene che non è possibilità di un adepto
contraddire il suo volere, per quanto ingiusto sia.
Sospirai
appena. – Non importa. Ciò che desidero, adesso,
è tornare da mia madre.
Il
giovane sbirciò alle sue spalle con aria incuriosita.
– Dalla tua espressione, direi che non sei molto felice di
tornare a casa. Devo pensare che ci sia qualcosa lì, che ti
ha costretto a fuggire lontano. Allora, è così?
No, perdonami, non sono affari miei.
Sorpassammo
una catasta di sacchi abbandonati su del fieno e un ratto
guizzò veloce da un angolo all’altro prima che la
luce della fiaccola lo illuminasse col suo bagliore tremulo, squittendo
nel buio fino a quando non ci ebbe superato del tutto e la sua voce
divenne solo un cinguettio lontano.
Non
osavo neanche immaginare quanti topi ci fossero lì sotto.
–
Come… come ti chiami?– domandò
d’un tratto.
Alzai
gli occhi di sottecchi, soppesando attentamente la risposta da dare.
–
Laura, Maria, Gaia di Chiaravalle. Ma puoi chiamarmi Laura, se ti va.
Si
voltò di scatto, la bocca dischiusa in un gemito sorpreso.
– Una… una discendente dei Chiaravalle? Qui?
Indietreggiai
di un passo, calando un velo perplesso sulla mia fronte.– Per
caso ci conosciamo, noi due?
Anche
il suo volto si scurì, ma in un pensiero più
profondo, impossibile da carpire per colpa dei solchi d’ombra
proiettati dalla fiaccola in mano.
–
Incredibile… non si sentivano notizie del casato del monaco
di Cîteaux da quasi trent’anni. – un
lampo balenò sul suo volto, che si trasformò in
un amareggiato epilogo. – Ora capisco tutto. Sì,
ora… tutto ha un senso.
Il
giovane compì un passo verso di me, gelandomi per un istante
il sangue nelle gambe.
Lo
fissai lì dove avrebbero dovuto esserci due occhi umani, e
una sensazione di pericolo m’assalì.
–
Di cosa stai parlando? – ebbi il coraggio di tirare fuori la
voce.
–
Cos’eri venuta a fare a Damasco, straniera? –
sibilò nell’oscurità e compì
un altro, impercettibile passo verso di me.
Avvertii
le mie budella tremare per la tensione e, improvvisamente, mi fu chiaro
che dovevo andarmene via da lì.
Fuggi
nelle viscere buie del corridoio a destra.
Non
sapevo dove andare, mi sentivo come un topo in trappola. Correvo,
sentivo il mio respiro, alle mie spalle solo
l’oscurità.
La
fiaccola era stata spenta, per rendere più facile la caccia
al predatore.
Mi
schiantai con la spalla sinistra in una porticina, cascai fuori dalle
cantine e, immediatamente, un fendente di luce rossastra mi
ferì gli occhi. Sbattei via le lacrime con foga,
riconoscendo le feritoie interne di una delle torri di controllo,
dunque alzai il naso all’aria, scorgendo un’arcata
splendente da dove potevo intravedere il cielo.
I
piedi andavano veloci sui gradoni scivolosi, incuranti della tromba
delle scale che s’infossava man mano che mi avvicinavo al
bagliore della libertà.
Entrai
nel teschio della torre e il mio corpo accaldato trovò
subito refrigerio dalla brezza proveniente dalle montagne, ora coronate
da un bagliore rossastro, che soffiava attraverso le aperture
circostanti.
A
coronare il tutto, come spine di una corona, quattro ballatoi si
affacciavano sul burrone circostante, scricchiolando e resistendo al
vento con temeraria forza.
Un’ondata
gelida sopraggiunse dalle stanze, portando con sé
l’immagine di un giovane fantasma silenzioso. Lo sentii
arrivare, ma non ebbi il coraggio di voltarmi per la paura.
Si
appostò dietro di me, sentivo il suo respiro infrangersi
contro i miei capelli.
–
Ucciderai anche me… come quelle guardie al mercato?
– sussurrai a voce secca.
Lui
non rispose subito.
–
Forse lo farò, ma non senza averti dato un’onesta
possibilità di aver salva la vita. Tu parlerai. E ti
difenderai, figlia dei Chiaravalle.
In
meno di un secondo, la sua mano spinse sul mio petto e
ghermì lo scollo dei vestiti fino a sformarlo, io tentai di
gridare ma l’innesco cupo di un meccanismo dal suo polso
destro spezzò le mie corde vocali all’istante.
Dal
bracciale legato al polso, vidi sotto gli occhi la figura slanciata di
una lama raffinata e la sua punta, pressata contro la mia giugulare con
una delicatezza quasi surreale se paragonato al fervore scoppiettante
nella vena sul collo del giovane.
Il
suo cappuccio mi guardò diritto negli occhi, sbarrati in un
baratro senza fondo, e immediatamente la sua bocca manifestò
disprezzo.
–
Che cosa sta succedendo? – fu la sua prima domanda.
– Cosa ci fa una dannata Chiaravalle qui, in Terra Santa?
Come avete osato presentarvi di nuovo ai nostri mercati, nelle nostre
città? Cos’è, avete trovato di nuovo
terra dove affondare le vostre radici velenose?
Sebbene
la paura mi avesse sottratto la voce, l’orgoglio del sangue
fu più forte di ogni cosa e dimenticai per un istante di
avere una lama alla gola. – C… come ti permetti?
La mia famiglia discende da un uomo buono, di chiesa, Bernardo di
Chiaravalle! Chi ti credi d’essere, per infangarci
così?
–
Ma guarda, hai l’indole tipica di un dannato Templare, eh.
– schioccò la lingua con aria annoiata.
A
quel punto, richiamò il pugnale nel polso e
lasciò che il mio corpo potesse tornare a muoversi libero.
Subito strinsi la gola per assicurarmi che non ci fossero tagli e
sospirai flebile nel sentire che fosse tutto intatto, ma potevo ancora
avvertire quella gelida sensazione di morte appuntata al collo.
–
Di cosa stai parlando? – incalzai con tutto il coraggio che
avevo. – Cosa diavolo hai contro la mia famiglia, si
può sapere?
Lui
rise amareggiato. – Dì un po’, hai
almeno la benché minima idea di dove ti trovi, Laura di
Chiaravalle? O hanno una così bassa considerazione della tua
vita, quelli del tuo Ordine, da mandarti nella tana del nemico senza
informarti del pericolo? Scommetto che ti hanno imbarcato nella prima
nave per Damasco senza neanche una valida spiegazione. Sbaglio?
Quelle
ultime parole contribuirono a imprimermi un persistente, insostenibile
senso di nausea. Fu come avere il presentimento di una tempesta, ancora
troppo lontana per esser avvista, ma l’elettricità
era già nell’aria e si sentiva a pelle.
Ovviamente,
ignorai il presagio come si farebbe con una mosca fastidiosa.
–
Chiudi quella dannata bocca! Non osare insinuare cattiverie sulla mia
famiglia, noi non abbiamo niente da nascondere, loro… loro
non mi nascondono niente! Niente, hai capito? E ora, col tuo permesso,
me ne torno a casa, e non me ne frega dei vostri stupidi protocolli per
la sicurezza, io ci torno adesso!
Detto
ciò, diedi le spalle al ragazzo e mi tesi in direzione delle
scale.
–
“Nulla è reale, tutto è
lecito”. Sono le parole che hai pronunciato al mercato, o
sbaglio?
Indugiai
sui piedi per pochi secondi, dunque marciai verso di lui con gli occhi
fissi su quell’inquietante, improvviso pensiero che aveva
preso a battere in un angolo recondito della mia testa.
–
Come conosci queste parole…? – sussurrai.
–
La domanda è… come le conosci tu, Laura di
Chiaravalle.
Lo
fissai.
Poi,
mi diressi a grandi falcate verso di lui, gli occhi spalancati sul suo
volto celato per metà, il cuore che infuriava in petto, il
mondo aveva preso a vorticarmi improvvisamente attorno.
Allungai
la mano verso la sua testa quand’ero ancora lontana, un
ultimo passo e cappuccio grigio mi bloccò per il polso,
costringendomi a fermarmi a pochi centimetri dal tessuto sulla sua
testa.
–
Tutto questo… non è reale.
Sospinsi
un po’ più in là le dita, riuscendo ad
acciuffare il cappuccio ruvido.
Lo
calai sulle sue spalle e capii che la mano del ragazzo non oppose
resistenza, invece, mi accompagnò in quella scoperta.
–È…
solo delirio.
Un
paio di occhi azzurri.
In
quell’istante, la nebbia si diramò dai miei occhi,
fui travolta dalla conferma di una verità inaspettatamente
ovvia e sentii il mondo capovolgersi sotto i miei piedi, come se la
realtà fosse oltre il filo d’acqua su cui ero
affacciata io.
Ero
in un’allucinazione.
Angolo
autrice:
Ben
ritrovati a tutti! Allora, avrete di certo notato
l’inserimento di una storia famigliare per Laura, con un
capostipite molto famoso, Bernardo di Chiaravalle. Tanto per essere
chiari, io sono come la Ubisoft. Qualsiasi manipolazione del
personaggio storico, aldilà del mio credo personale,
è mirata a uno scopo prettamente creativo e non
c’è intento informativo, perché,
chiaramente, tutto cadrà casualmente a fagiolo per lo
sviluppo delle nostre vicende.
Per
chi ha letto la prima versione, potreste trovare il Kadar di questo
capitolo un po’ brusco, sostanzialmente perché non
si fidi della giovane forestiera bianca, ma non disperatevi, il suo
carattere affabile tornerà presto alla carica. Ne approfitto
per ribadire che la storia non è cambiata, solo…
determinati avvenimenti avverranno in maniera più
“casuale”. Con questo, vi saluto e al prossimo
aggiornamento!
Baci,
Lusivia.
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Capitolo 3 *** La Vecchia Regina Templare ***
Capitolo 3
La Vecchia Regina Templare
– Mamma, mamma, mi racconti di nuovo la favola dei Sette
Fratelli?
– Cosa, di nuovo?… Laura, per favore, non saltare
così sul letto, ti farai male! Mi hai sentito? Non salire
lì, accidenti!
– Perché?
– Perché lo dico io! Laura Maria Gaia di
Chiaravalle, scendi immediatamente da lì!
In bilico sull’intarsio della colonna in legno di noce, volsi
le pupille brune oltre la sottile spalla ingombrata dai tessuti
plissettati della camicia da notte azzurro- polvere, fissando la donna
seduta sul bordo del letto un po’ contrariata.
Col portamento di una ballerina appena adagiata in posizione di riposo,
una gamba distesa sul materasso e l’altra piegata
internamente sulla coscia, Erica Temperance di Chiaravalle era radiosa
nel suo pigiama di seta azzurro coi ricami argentati e aveva raccolto i
suoi dorati capelli in una treccia che era completamente priva
d’errore nell’elaborazione, una scultura a tutti
gli effetti.
Per contro, la sua adorata figlioletta di sette anni pareva,
più che altro, una scimmietta arruffata con grosse
guanciotte color rosso fuoco, un bruno caschetto sgangherato sulla
testa e un’apertura fischiettante lasciata dai due incisivi
da latte qualche settimana fa, tutta avviluppata sulla colonna con le
unghie e le dita nude.
– Forza, – ribadì la donna –
scendi da lì.
– Se scendo da qui, mi racconti la storia, mamma? –
avanzai di nuovo la mia richiesta tediante.
Erica abbandonò pesantemente la testa in avanti, sbuffando
via tutta la sua contrarietà per non esplodere in una
reazione poco gradevole.
– Va bene. – drizzò il capo –
Se ti racconto la tua dannata storiella, andrai a dormire senza fare
capricci, che la mamma domani mattina ha da fare? Ti prego.
Annuii con vigore e dispiegai i denti in un sorriso sgangherato.
– D’accordo, allora. Fammi spazio,
scimmietta.
Improvvisamente buona e ubbidiente, saltai giù dalla colonna
e con tre balzi fui sotto le lenzuola di flanella ricamate, dunque lei
si sdraiò al mio fianco, e con mollezza nel braccio, si
apprestò a rimboccarmi la piega sul corpicino, guardandomi
attraverso la coltre di ciglia con un sorriso negli occhi.
Lasciò che i primi minuti scorressero placidi. Poi,
cominciò a narrare con voce calda e leggera come il fumo.
– Tanto, tanto tempo fa, una nobile vergine venne data in
sposa a un virtuoso signore della Borgogna e la loro unione fu gradita
al Cielo e benedetta col dono di sette figli virtuosissimi. Il paziente
Guido, il giusto Gerardo, il saggio Bernardo, il colto Andrea,
l’ambizioso Bartolomeo, l’impavido Nivardo, la
gentile e dolce Umbelina erano i fanciulli più nobili e
caritatevoli mai visti alla Fontaine-lès-Dijon. Tra i sette,
però, Bernardo spiccava per le infinite qualità e
l’instancabile devozione all’Altissimo, che lo
volle prima monaco cistercense, poi fondatore dell’abbazia di
Clairvaux. Accadde poi che, all’indomani del suo
ventinovesimo compleanno, il buon Bernardo avesse un tremendo incubo
notturno in cui un pellegrino era attaccato alle porte del Santo
Sepolcro da tre fiere feroci, due nere e una rossa, con
l’intento di divorarlo. Un attimo prima di finire sotto
quelle tremende fauci, un baleno di luce purissima arrivò
galoppando dalle spalle del pellegrino e tra lampi e clangori di ferro
riuscì a disperdere le bestie infernali. Dietro quella
grande luce, Bernardo vide un monaco e un cavaliere coesistere su di un
corpo solo, due teste distinte, un rosario, una spada celeste. Questi
furono gli incubi del monaco per cento notti. Accadde poi che un giorno
arrivasse all’Abbazia un barone dalla foresta orientale con
tutto il seguito della sua corte, che chiese di parlare con Bernardo,
sicché, quando i due s’incontrarono, il monaco lo
riconobbe e lo accolse con grande gioia. Il barone, che Hugues de
Payns, era, infatti, un caro amico di Bernardo e un uomo molto pio, per
questo, quando raccontò del sogno del cavaliere a due teste,
il monaco non ebbe più alcun dubbio: il loro
ricongiungimento non era stato un caso, ma un disegno divino.
Erica s’interruppe perché volle controllare il mio
livello d’attenzione e mi trovò con gli occhietti
bruni spalancati e ardenti di trepidante curiosità.
– Continua, per favore. – la esortai a voce piccina.
– Beh, il resto lo sai, Laura. Bernardo e de Payns andarono
in Terrasanta e nel 1119 fondarono l’Ordine dei Cavalieri
templari, il primo, come Consigliere e guida, il secondo, come Gran
Maestro. E con questo, ho concluso la storia di Bernardo di
Chiaravalle.
Quasi sospirando di sollievo, Erica provò a sollevarsi dal
letto facendo leva sui gomiti, ma io la bloccai per la manica e con
sguardo contrariato le imposi fermamente di non lasciare quel letto.
– E il resto della storia? Dov’è? Io
voglio sentirla.
– Ma Laura, la conosci già… –
osservò.
– Non importa. – le feci un sorriso – Per
favore, raccontami il finale. Poi vado a dormire. Te lo prometto.
Erica non parve molto convinta, ma alla fine fu persuasa dalla mia
irresistibile malia, e mi accontentò. –
… E va bene.
Si sdraiò nuovamente e questa volta cominciò a
carezzarmi i capelli, la sensazione delle sue dita era rilassante e il
lieve profumo di pepe rosa impregnato sul colletto del pigiama quasi
stordente. Era come esser vittima di una trance, ma era dolce e
m’invogliava a scivolare nel sonno senza troppe resistenze.
– Pochi anni dopo il suo più grande operato al
servizio del Signore, il Consigliere Bernardo ricevette
un’altra visita notturna. – Erica riprese il ritmo
naturale del racconto. – Un angelo in abiti di fanciullo, che
gli predisse il volere dell’Altissimo di donare al monaco
sette figli propri, che non solo avrebbero comparato il padre nelle
qualità e nella grandezza morale, bensì avrebbero
dimostrato di non avere eguali in tutta la terra. Accadde come predetto
dall’angelo. Eh, altroché se i sette dimostrarono
sin da tenera età le loro sensazionali attitudini. Quando
poi morì il loro santo padre, Giustino, Prudentia, Furio,
Fidelio, Temperantia, Carite ed Elpidio, questi erano i nomi dei figli,
decisero di prestare servizio alla Causa di Bernardo e in pochi anni
furono addestrati a servire l’Ordine Templare.
– Ed erano… bravi cavalieri? – mugugnai
a occhi chiusi.
– Sì, molto. Erano rispettati e ammirati da tutti,
nessuno escluso, soprattutto Giustino, che era il più probo
dei fratelli, sarebbe diventato Gran Maestro. Insieme, i sette
costituivano il casato più antico di tutti. Insieme, erano
un’unica entità antica e inarrestabile. Insieme, i
Sette Fratelli erano la “ Vecchia Regina Templare”.
La prima famiglia. La più sacra e potente mai esistita nella
storia dell’Ordine. Questo, fino al 1161.
Poi, la donna si tese verso il comodino e spense la luce giallastra del
lume. Calò l’oscurità attorno a noi,
pesava come fosse cemento armato e schiacciava e comprimeva quel poco
di lucidità che mi rimaneva, ma non per questo dimenticai.
– Mamma… – tentai di fermarla nonostante
fossi ormai in uno stato di dormiveglia. – …cosa
accadde in quell’anno, mamma…?
Erica inspirò in profondità, lo sentii
nell’aria.
– Accadde, Laura, che in quell’anno furono traditi
da coloro che chiamavano confratelli.
*
*
*
Riemersi da quell’elaborazione onirica a occhi aperti con un
singulto improvviso, e proprio come il giorno fa riemergere la nave dai
vapori del mare e ne disperde i fantasmi scricchiolanti, cominciai a
scorgere un volto dall’altra parte di quel sogno.
Scorsi con mia assoluta consapevolezza il volto di un giovane uomo. Mi
stava parlando.
Se prestavo attenzione, la sua voce era confusa, sfumata da un profondo
turbamento che perlopiù passò in secondo piano
quando il mio occhio silenzioso ricadde sulla fila di perle tonde e
bianche che teneva tra l’arco prominente di un paio di
labbra, così squisite che avrei detto appartenere a una
fanciulla.
Poi notai che quel ragazzo mi stava anche tenendo per le spalle e che
le sue mani erano callose ma caute al tempo stesso, la piattaforma
attraverso cui riuscivo a percepire la tensione sbalorditiva dei suoi
tendini duri e ramificati alla perfezione all’interno delle
sue braccia.
Che strano. Un fantasma non dovrebbe avere corporeità.
Eppure, lui l’aveva. Avvertivo la tangibilità del
suo nervosismo nel modo in cui teneva la mascella tirata, attraverso i
sussulti nervosi delle ciocche corvine, richiuse a spirale lungo il suo
volto squadrato e perfettamente levigato dalla luce del tramonto, e fu
allora che la mia mente si frantumò su se stessa.
Lasciai andare un singulto strozzato.
– Tu… sei vivo. – sussurrai e i miei
occhi erano sgranati sino a luccicare di dolore, il cuore batteva, la
gola era completamente seccata.
Il bel giovane, che non aveva smesso per un solo istante di tenermi per
le spalle e guardarmi diritto negli occhi, si ammutolì
all’istante e con fare confuso piegò la testa su
di un lato, scrutandomi interrogativo per tutto il tempo in cui il mio
colorito cambiò da bianco gesso a rosso acceso, e di nuovo,
dal purpureo sconcerto al terrore cadaverico.
Poi, come presa da un raptus folleggiante, ingoiai un gridolino
eccitato e mi lanciai a far cozzare i nostri corpi in un abbraccio che
tolse a entrambi il respiro e ci riempì il petto di una
guizzante carica elettrostatica che ci trapassò le costole e
finì diritta a spezzarci il cuore.
– Perdiana vergine cacciatrice! – esclamai.
– Non posso crederci, non posso crederci, sei vivo!
– Mi stai strangolando! – rantolò basso.
– Non dovresti essere vivo! Ero… sicura, che tu
fossi morto, Kadar! E per tutto questo tempo, ho accettato la tua
scomparsa senza sapere che eri al sicuro qui, e che stavi bene!
Lui fece una tosse secca proveniente dalla trachea. – Un
momento soltanto, Chiaravalle. – provò a infilare
una mano tra di noi e spingermi via. – Ma che accidenti vai
blaterando?
Col cuore in ardore e gli occhi colmi di felicità
elettrostatica, mi scostai quel tanto che bastava per guardarlo in viso
senza che le braccia si slegassero dalla sua vita, inspessita dalla
corazza dell’armatura, e incrociando il suo sguardo oltre la
coltre di ciglia nere, ebbi l’impressione di fare un tuffo
nelle profondità di un lago cristallizzato.
E il gelo mi penetrò in petto, che si strinse sino a
richiudere la gabbia toracica sopra il mio fragile cuore di ghiaccio.
– Tu… brutto farabutto bastardo!
Con uno slancio inaspettato del braccio, tirai la mano oltre la mia
testa e subito caricai un ceffone che non solo colpì in
pieno volto Kadar, ma lo ribaltò indietro di almeno due
passi brevi, lasciandolo totalmente ammutolito nel suo rossore
improvviso lungo tutto il giovane volto.
– Questo è per avermi fatto credere nella tua
morte! – giustificai sudata e stizzita. –
Maledizione, Kadar, come hai potuto? Per tutti questi anni, i sensi di
colpa mi hanno lacerato l’anima, ed è stato
orribile, maledizione, orribile!
Lo spinsi e lui non reagì, ma rimase a capo chino sul
pavimento e con i riccioli neri penzoloni sul volto. Lo guardai e la
sua passività mi montò ancora più
rabbia.
– Tu… hai idea di quanto sia stato difficile, mh?
Di quanto io…abbia sofferto…se solo avessi saputo
che eri qui. Se solo tu non ti fossi nascosto, come se fosse solo un
dannato gioco. Kadar. Kadar, guardami! Perché non dici
nulla, perché ti ostini nel tuo silenzio?
Un altro disperato spintone e come prima ottenni la stessa pacata
reazione, ad eccezione di una vena sul collo, che si era ingrossata
vistosamente nel rimuginare il nervosismo.
– Kadar, accidenti, parlami! Parlami, e dimmi cosa diavolo
sta succedendo! Ti prego, io… sento che sto per impazzire!
Ma lui non rispose. Semplicemente, si limitò a drizzare di
poco lo sguardo e scrutarmi con i capelli sulla fronte e lo sguardo
denso di pensieri, mentre io rimasi fuori, stremata e afflitta nei miei
tremori convulsi lungo le dita delle mani e nel petto che si alzava e
abbassava in respiri svelti.
– I miei complimenti. Davvero. Molto brava. –
esordì così.
Il colpo mi mandò indietro di mezzo passo. – Che
cosa hai detto? – sibilai.
Improvvisamente, il giovane si trasformò sotto i miei occhi
in un mastodontico gigante tutto muscoli e tendini in titanica
tensione, o forse erano solo gli effetti del tramonto di sangue alle
sue spalle, che gli evidenziava i muscoli sino
all’inverosimile, ma l’effetto fu davvero
scoraggiante e mi spensero il coraggio in un istante.
– Hai messo su una bella sceneggiata, davvero, per poco non
mi avevi convinto! – sbottò mentre si tendeva
minaccioso.
– Cosa? Kadar, ma che ti è preso? – mi
ritrassi sempre più spaventata.
Di punto in bianco, lui si slanciò verso il mio braccio e
afferrò il polso, attirandomi in uno strattone contro il suo
grande petto febbricitante.
– Scommetto che sarai contenta, adesso. –
soffiò sul mio volto. – Adesso conosci la strada
per arrivare al Gran Maestro, sapete come colpirlo, e questo stupido
idiota col cappuccio che ti ha salvato a Damasco, non ti serve
più.
– Ma cosa dici? – strattonai decisa col polso.
– Io non ti ho ingannato!
Kadar fece un sorriso impietosito e lentamente ricacciò un
ciuffo lungo la mia guancia sinistra, accompagnandolo nella sua
naturale linea sinuosa sin sotto la mandibola. Arrossii vistosamente,
ma attribuii l’azione inopportuna del mio corpo
all’ira che incalzava dalle viscere.
– Sono sicuro che sarebbero stati orgogliosi del tuo
risultato, i tuoi signori, piccola Chiaravalle.Peccato,
però, che non uscirai più da qua per riferire.
Un istante dopo, mi ritrovai a piroettare su me stessa e a esser
costretta di spalle con i polsi stretti dietro la schiena, tuttavia,
quella posizione causò presto la sofferenza dei miei tendini
tirati, che cominciarono a opporsi e a lottare rabbiosamente per
ritornale nella loro naturale dimensione.
In verità, la lotta fu breve, perché Kadar perse
subito la pazienza e, per farmi capire che non scherzava,
cacciò fuori il suo pugnale a molla e me lo
appuntò nel solco della schiena, scatenando una vera e
propria tempesta elettrostatica che incendiò i miei nervi
spinali e li costrinse a uno slancio, un grido fisico che
però venne subito schiacciato sotto il peso di una grande
mano olivastra.
– Calma, – sussurrò – non ti
farò del male, basta che ti comporti bene…
Non concluse la frase, perché il dolore dei miei incisivi
affondati nella sua carne lo costrinsero subito ad allontanare la mano
e a guaire di dolore.
– Cazzo…!
– Aiuto, qualcuno mi aiuti! Kadar è impazzito!
– Accidenti a te, Chiaravalle!
– Aiuto!
Mi zittì con uno strattone deciso. – Basta, tanto
a nessuno qui interessa di una Templare, lo vuoi capire o no?
Riuscii a malapena a rivolgergli un’occhiata alle mie spalle,
gli occhi erano iniettati di puro panico elettrostatico. Ma cosa?
– Io non sono una Templare!
– Certo. Come no.
– Kadar, ti prego, devi credermi! C’è
stato un enorme sbaglio, lascia che ti spieghi!
Lui non disse una sola parola. Invece, rafforzò la presa
quel tanto che bastava per non farmi fuggire e con spintarelle decise
cominciò a dirigermi verso le scale interne della torretta.
L’effetto del tramonto proiettato lungo le pietre era
caleidoscopico, le feritoie illuminavano le scale in squarci di luce
rossastra e l’aria risaliva dal basso verso l’alto
solo per rimanere incastrata sotto il tetto, producendo un rombo tetro
che faceva vibrare tutta la torre come se fosse sul punto di crollarci
addosso.
Con l’invito della lama, Kadar mi costrinse a iniziare la
discesa. Di nuovo, la nube elettrostatica
s’insidiò tra le mie vertebre, ma quella volta, fu
la miccia che riaccese il mio ardore combattivo e mi fece piantare i
talloni a terra.
– Fermati, fermati, fermati! – sbottai.
Lui obbedì un po’ di malavoglia.
– Che cosa ti prende adesso, eh, Templare? Devi liberarti la
vescica?
– No, no, no! Ascoltami, io non sono una Templare, accidenti,
non so neanche perché tu insita tanto con
quest’assurda storia! Io non… non dovrei neanche
essere qui!
Lo sentii chioccare la lingua sotto il palato. – Ma per
favore.
Allora provò a farmi riprendere la marcia, ma io mi opposi a
costo d’infilarmi l’intera lama nella schiena,
riuscendo, con notevole sforzo dei tendini, a scorgere il volto
annoiato di Kadar oltre la mia spalla sinistra.
Un pensiero mi trapassò la mente, lasciandomi a dir poco
senza parole.
– È perché sono una Chiaravalle, che mi
tratti così? – domandai – È
per questo, che… credi che io sia una Templare? E per questo
che ti comporti da folle?
Un sorriso aguzzo fiorì tra le sue belle labbra. –
Esattamente. Perché sei una Chiaravalle, e tutti qui
conoscono la storia dei Chiaravalle. Tutti conoscono la Vecchia Regina
Templare e di ciò che le accadde. –
Rifletté. – Fu sulla strada per il Regno? O al
mercato di Gerusalemme?
Il sangue mi si raggelò nelle vene. –
Cosa…?
– Ah, ora ricordo. – finse di sorprendersi.
– Fu al mercato di Gerusalemme. Nel 1161, esattamente
trent’anni fa da adesso. Quel giorno fu disastroso per la tua
famiglia, eh. Il maggiore dei sette, condotto dai suoi stessi
confratelli in un’imboscata fatale. Quanto tempo ci misero
gli altri, a morire ammazzati? Cinque, sei giorni?
Non provai neanche a rispondergli. La Vecchia Regina Templare, i Sette
Fratelli, l’imboscata al mercato. Era tutto come aveva sempre
raccontato mia madre.
Improvvisamente, mi ritrovai bloccata tra i venti impazziti che mi
frullavano in testa, che mi rimescolarono e rimescolarono ancora,
ininterrottamente, fino a farmi tornare all’alba della mia
esistenza.
Io avevo sempre saputo.
Che i Chiaravalle erano stati cavalieri del Tempio, Erica non me
l’aveva mai tenuto nascosto, ma aveva sempre raccontato le
cose come stavano un millennio fa.
I Chiaravalle erano stati la più grande famiglia Templare
che sia mai esistita. E questa, era un’altra cosa con cui non
avrei mai retto il confronto, né eguagliato nelle
aspettative.
– Come fai a sapere tutte queste cose, Kadar? – la
mia voce fu un sussurro scioccato, sul mio viso era evidente la
confusione che mi stava rimescolando l’anima in quel momento.
Lui drizzò il busto con serena indifferenza, lo sguardo era
freddo come il ghiaccio. – Non preoccuparti di questo.
Piuttosto, pensa a cosa farai quando sarai di nuovo al cospetto di Al
Mualim.
*
*
*
Tornammo tra le mura del casello in totale silenzio, e appena in tempo
per l’ora di cena.
I corridoi, resi caldi e accoglienti dai tappeti damascati appesi come
quadri, profumavano di spezie e carne arrosto sulla legna delle grandi
fornaci attive, i draghi di pietra e legno che tenevano in vita il
castello con i loro respiri infuocati e le luci, che di notte
illuminavano l’intero castello sino a renderlo visibile sulle
montagne fumose.
Kadar aveva deciso di consegnarmi al suo Gran Maestro,
perché era convinto che, essendo io una Chiaravalle, fossi
ancora al servizio dell’Ordine dei Templari, proprio come un
tempo lo furono i miei illustri antenati. Ma era il passato. I
Chiaravalle non erano più cavalieri da un millennio e il
nostro titolo di Vecchia Regina Templare era decaduto da
così tanto tempo che era impossibile dare una data. Allora,
perché Kadar era così convinto della mia
colpevolezza?
Un momento.
Perdiana.
Damasco. A Damasco avevo incontrato dei cavalieri. Fratelli del Tempio
in pattuglia.
No, non… non poteva essere. Dovevo essermi confusa, di certo.
Però.
E se non mi fossi sbagliata? E se, partendo da trent’anni fa,
come diceva Kadar, io mi ritrovassi ora a vivere
l’anno… 1191? Allora, avrebbe avuto ragione a
credere che fossi una Templare, perché la Terrasanta era nel
pieno della Terza Crociata, in quell’anno.
No. Ma come…?
Ero finita nella… Terza Crociata?
Perdiana. Che accidenti stava succedendo?
– “Nulla è reale, tutto è
lecito”. Hai detto proprio questo, a Damasco. Lo ricordo
molto bene.
Senza rallentare il passo di marcia, mi rigirai un po’ sul
fianco sinistro, incrociando lo sguardo buio di Kadar che vegliava
sulla mia nuca. Il corridoio in cui stavamo procedendo era quasi in
penombra e la fila di vetrate a destra creavano mutevoli giochi di luce
sui nostri corpi, distanziati da una lama e mezzo polso.
– Kadar…
– Sai perché ti ho portato qui, dopo che cademmo
nel canale, Laura di Chiaravalle? – domandò a
bruciapelo.
Feci cenno di no col capo.
– Perché mi ero ripromesso che, al tuo risveglio,
ti avrei domandato il motivo per cui conoscevi il nostro Credo. Quello che sembri conoscere tanto bene, e per cui ho pazientato oltre il tempo concessomi.
Silenzio. – Il vostro Credo? Di… di cosa stai
parlando, adesso?
All’improvviso, Kadar mi spinse contro le vetrate e
l’impatto del mio corpo le fece vibrare pericolosamente su di
noi, ma questo passò in secondo quando, riaprendo gli occhi
per riprendermi dallo spavento, mi ritrovai col pugnale a molla premuto
nella pancia.
– Ti do una sola possibilità, quindi vedi di
pensare attentamente alla risposta, Laura di Chiaravalle.Allora, chi ti
manda, veramente?
Pose quella domanda preciso e deciso, dalla sua espressione
s’intuiva che non scherzava, ma proprio come prima, la paura
mi aveva totalmente pietrificata nel mio corpo, rendendomi impossibile
evitare la sua reazione contrariata.
Infatti, Kadar aggrottò subito la fronte e, seppur a
malincuore, accennò a una lieve pressione sulla pancia, un
avvertimento, chiaramente, che però riuscì a
provocarmi i brividi incontrollati di un’impennata sulle
montagne russe, con conseguente discesa in corsa e ginocchia molli come
fatte di creta sciolta.
– Te lo ripeto di nuovo. – l’espressione
del ragazzo era tesissima – Chi ti ha mandato da me, Laura di
Chiaravalle, ah? Come fai a conoscere il mio nome? Chi ti ha detto il
Credo? Un amico? Un traditore, una spia, i Saraceni, chi?
Sebbene ancora sotto shock, riuscii a focalizzare nella nebbia un
pensiero ben preciso e che si rivelò decisivo in quella
situazione. Kadar era completamente impazzito, o, per lo meno, non si
ricordava più di me.
Non sapevo cosa accidenti stesse succedendo, né
perché mi trovassi nella Terza Crociata, né la
causa oscura per cui la pressione della lama nello stomaco mi
provocasse i sudori e i conati di vomito, ma di una cosa ero certa. Non
era la solita allucinazione. Quella volta, era vera, e riusciva a farmi
sentire delle cose come se fossero vive sulla mia pelle.
Ad esempio, l’imminente sentore che stesse per succedere
qualcosa di molto brutto, se non mi affrettavo ad assecondare quella
situazione e, soprattutto, Kadar.
– Se… se te lo dicessi, tu non mi crederesti mai.
– biascicai incerta, completamente in balia
dell’evolversi improvvisato degli eventi.
Subito l’attenzione di Kadar si riaccese, e disse –
Avanti, allora, ti ascolto.
– M-mia madre. Quand’ero piccola, lei…
lei mi diceva questa frase per farmi passare i brutti sogni, ecco. So
che è stupido, ma funzionava.
– … Mi stai forse prendendo in giro?
– Cosa?
– Dico, ti sembra che io abbia la faccia di un cretino, Laura
di Chiaravalle?
Indugiai troppo sulla risposta e lui se ne accorse. Tuttavia, fu
abbastanza abile a nascondere l’imbarazzo e montò,
invece, un’aria di finta sufficienza dietro quel rossore
verginale sulle gote.
– È impossibile che tua madre sapesse del nostro
Credo. – biasciò secco. – Esso
è il principio sacrale su cui si fonda l’intero
Ordine e il suo agire, viene tramandato al momento
dell’iniziazione e nessuno, eccetto il Gran Maestro
e l’Iniziato, è autorizzato a presenziare in quel
momento. Quindi la tua affermazione è semplicemente
ridicola.
– Invece ti ho detto la verità.
– Non è vero. Sei una Templare, è
naturale che tu menta.
– Allora, se sei così sicuro, perché
hai scelto la via più lunga per riportarmi al tuo Gran
Maestro?
La verità, ben studiata durante il cammino nella fortezza,
lo colpì con la forza di una raffica di vetri appuntiti.
Vittima della confusione e di un angosciante dubbio, il giovane dal
cappuccio cenerino mi afferrò con forza le spalle e fece
compiere al mio corpo un breve volteggio lattescente, che avrebbe dato
al sensazione di una danza, se solo non mi fosse ritrovata a esser
lanciata contro la vetrata a destra. Le finestre tremarono
spaventosamente, il fiato mi si spezzò in gola e nel
drizzare lo sguardo mi ritrovai il volto di Kadar vicinissimo, i miei
occhi bruni rimandavano il riflesso del mio viso nei suoi, duri come il
ferro.
– Tu…– sussurrò. –
Tu stai giocando col fuoco.
– Io non ho paura di ciò che mi farai.
– Stolta.
Gli strinsi forte l’avambraccio, ribadendo sicura –
Io non ho paura. Kadar, guardami, non ho paura, perché so
che presto finirà ogni cosa. Come sempre. Come deve.
Percepii le sue irridi dilatarsi per la paura, ma forse, era il
riflesso del mio viso.
– Laura. Laura… di Chiaravalle. –
pronunciò il mio nome come se d’un tratto si fosse
ricordato di me, e questo, seppur debolmente, mi diede una nuova
speranza.
– Kadar. – mi sporsi verso di lui, la mano sinistra
tesa verso la sua guancia.
La lama che pressò pericolosamente sul mio stomaco.
Impietrita nel colorito, tornai lentamente contro le vetrate.
– Kadar…?
– Non voglio sapere chi tu sia. –
mormorò deciso. – Non voglio sapere
perché conosci il mio nome. Non voglio sapere
perché… guardarti mi provochi tanto turbamento.
Non voglio… fidarmi di una Templare. Ciò che sto
per fare, lo faccio per proteggere i miei fratelli.
Sentii la lama spostarsi sulla mia gola, di lungo sul filo tagliente.
Non ho paura, non ho paura. Ma comincia a far male, la
pressione…
No, no, ciò che non prendi sul serio, non può
farti del male, Laura. Non è reale, non è reale,
neanche questo dolore, questa sensazione terrificante...
Un rivolo di sangue scivolò sull’orlo del vestito
immacolato. Un intenso bruciore. Un istinto. Un’idea. Una
speranza. L’unica.
La bugia che mi avrebbe salvato da un destino ben peggiore della morte.
– Sono tua sorella, Kadar!
A quel punto, la pressione alla mia gola cessò bruscamente.
Scivolai dalle inferriate col fiato corto e prosciugata nelle forze, il
sangue mi pompava come un treno nelle vene e le dita dei piedi e delle
mani scottavano, e seppur titubante m’imposi di guardare in
faccia Kadar.
Era visibilmente sconvolto, stava tremando come in preda alle febbri e
il suo viso era pallido come un lenzuolo, ma i suoi occhi, quelli erano
vigili e inchiodati su di me, immobili,
fantasmi.
Mio dio.
Che cosa avevo fatto?
*
* *
Uno spicchio di luce lacerò il velo
d’oscurità e penetrò attraverso le
membra sottili delle mie palpebre, risvegliando, poco a poco, tutti i
miei sensi principali.
Il naso infreddolito captò l’odore inconfondibile
del legno e quello più difficile della paglia, un gran bel
covone, a giudicare dall’intensità del profumo, e
il tatto mi suggerì che era molto vicino, direi impastato
sulla mia guancia con la saliva di un’intera nottata.
Poi, le orecchie cominciarono a captare scricchiolii e fruscii
distanti, mentre le membra si risvegliavano e riprendevano le loro
naturale vibrazioni, tendendosi e stirandosi lentamente sotto i
venticelli caldi che entravano dalla finestra.
Quella domenica mattina, notai subito, era particolarmente calda e
umida abbastanza da incollarmi i vestiti addosso, ma quello era
l’ultimo dei miei problemi. Infatti, l’abitudine mi
aveva insegnato che, se c’era una finestra aperta di domenica
mattina, Agata doveva essere già nei paraggi a sbrigare le
faccende di casa.
Così, iniziai il mio piagnisteo per convincerla a lasciarmi
riposare un altro po’.
– Agata, ti prego, ho avuto una nottata agitata e sono
davvero decisa a non svegliarmi prima dell’ora di cena.
Lasciami dormire…
– Cena? Ma dove accidenti credi di essere, in un ostello di
Gerusalemme?
Una voce cavernosa, calcata nello sforzo di camuffare un forte accento
inglese. Una voce che, decisamente, non poteva esser di Agata.
Colta nella confusione del primo risveglio, non mi resi conto
d’esser sdraiata su un covone di fieno e finii col cascare
sul terriccio cosparso da pagliuzze dorate, impedita dalla sottana
arrotolatosi tra le mie ginocchia. Col fiato grosso per la sorpresa,
andai subito a sbrogliare il groviglio che mi bloccava a terra, quando
il nitrito di un cavallo riecheggiò nell’aria e fu
allora, mentre drizzavo gli occhi confusi verso l’entrata,
che incrociai lo sguardo burbero di un omaccione con una folta barba
bruna e la stazza colossale di un lottatore.
Indecisa su come reagire dinanzi a quel perfetto sconosciuto, dovetti
passare in rassegna i suoi indumenti, scarselle di pelle in vita e
stivaloni consunti, per stabilire che egli era un mastro fabbro, o
più probabilmente uno stalliere, ma non ebbi tempo di
pensare ad altro, che quello si avvicinò con tre falcate
ampie e si chinò a riporre qualcosa sul pavimento.
Abbassando gli occhi, vidi che si trattava di una tavoletta di legno
con sopra un po’ di pane speziato e un grappolo
d’uva verde e turgida d’acqua zuccherina.
– Spero che tu abbia fame, ragazzina, perché Kadar
si è raccomandato calorosamente che tu divorassi fino
all’ultimo boccone. – commentò mentre si
rimetteva in piedi.
Guardai incerta l’offerta di cibo per un altro po’,
poi rivolsi l’attenzione sull’uomo e,
oltrepassandolo, verso il corridoio alle sue spalle, illuminato dai
fasci caldi del primo giorno, e fu allora che mi tornarono alla mente
brevi barlumi della notte scorsa. Il profumo dell’ebra
carezzata dalla brezza notturna, piccoli puntini luminosi nel cielo,
poi un grosso casolare di legno e una lanterna sbiadita appesa sopra
una grande porta.
– Queste sono le scuderie del villaggio… dei
cappucci bianchi, non è vero? – domandai con un
fil di voce.
L’uomo arcuò le sopracciglia scarmigliate.
– Mangia, o Kadar mi romperà i coglioni per tutto
il dannato giorno. – fu tutto ciò che
disse.
Quando l’uomo uscì dallo scomparto per ritornare
ai suoi affari, decisi all’istante che l’avrei
seguito, dunque arrancai svelta per rimettermi in piedi tra la gonna e
il fieno secco e mi precipitai in corridoio.
Una gran luce e pulviscoli d’oro che fluttuavano
nell’aria, poi il muso scontroso di uno stallone color Sauro
che s’impennò sulle robuste zampe posteriori e
gridò all’intruso, sbattendo così forte
gli zoccoli contro il divisore del suo recinto da mandarmi a terra
senza emetter fiato.
Sbattei con forza il sedere, contorcendomi per il dolore con la bocca
stretta e gli occhi puntati sull’enorme bestia che continuava
ad agitarsi e calciare in preda al panico, neanche fossi una serpe
emersa dal fieno, quando un ragazzino in tunica grigio proiettile
entrò di corsa nella mia visuale e si precipitò a
calmare il cavallo prima che facesse saltare via le giunture dalla
porta.
Non seppi perché, ma la sola vista della sua mano che si
tendeva verso i denti della bestia mi fece balzare sulle ginocchia.
– Per la miseria, ragazzino, allontanati subito di
lì, o ti farai male! – esclamai e mi tesi ad
acciuffarlo.
Ma non ce ne fu bisogno.
Infatti, assistetti con meraviglia alla magia quel moccioso, poco
più che undicenne, che riuscì a domare il Sauro
con poche carezze gentili e svelte. In pochi istanti, il cavallo si
acquietò ed io rimasi lì, ammutolita e stupefatta
in mezzo al corridoio delle recinzioni.
– Eh, hai paura dei cavalli, pulzella. E comunque, non te la
prendere per il ragazzo, è sordo come una campana.
Voltai leggermente il capo a sinistra, scrutando con la fronte
sconvolta finché non vidi lo stalliere mentre era intento a
svolgere il suo poco rimunerato lavoro, quello d’inforcare la
paglia, sollevarla e dividerla equamente tra i cavalli, che avrebbe poi
strigliato, pulito e curato, finché un cavaliere non sarebbe
andato lì e gli avrebbe richiesto di separarsi da una delle
sue preziose creature.
Sbuffai. Maledizione. Ero ancora bloccata in quel sogno.
– Non so bene cos’abbia. –
continuò poi. – Credo che abbia le orecchie
otturate da qualche tipo di male, ora non sto qui a raccontarti quale,
perché, insomma, non sono un dannato medico, ma un
guardiano. – borbottò.
– Ve l’ha detto lui? – domandai mentre mi
rimettevo in piedi.
– Magari. Manco parla, quello là. –
tagliò corto e riprese a inforcare il foraggio dei cavalli.
– Ma che t’importa di un comune garzoncello, se
posso chiedere?
Non risposi subito, perché il mio sguardo deviò
per un attimo sul moccioso, beatamente chiuso nella sua bolla di
silenzio mentre continuava a coccolare il cavallo, dunque tornai sullo
stalliere e sbuffai. Non dispiacerti, Laura. È solo un
sogno.
– Avete detto che è stato Kadar a portarmi la
colazione, questa mattina. – dissi a quel punto.
– Non proprio. Ho detto che mi avrebbe annoiato se, venendo
qua, ti avesse trovato ancora addormentata e senza nulla nello stomaco.
A proposito, che hai contro l’uva, perché non vai
a mangiare?
Diedi uno sguardo alle mie spalle, deglutendo a vuoto. In effetti,
avevo un piccolo languorino…
Un attimo, ma cosa andavo a pensare?
– Dì un po’, sei l’amante di
Kadar? – fece quella domanda a bruciapelo.
Drizzai lo sguardo con un rossore stizzito lungo il naso. –
È questo che vi ha raccontato? Che sono la sua amante?
L’uomo si fermò dallo spalare, scrutandomi tra il
pensoso e l’incerto. – No. No, non l’ha
detto. In verità, non ha detto granché sul tuo
conto. Solo che dovevo trattarti bene, e di non perderti
d’occhio neanche per un istante.
– Capisco. – sospirai. – Per cui,
sarò bloccata in questo posto ancora per molto, suppongo.
Bene.
– Accidenti, deve farti davvero schifo Masyaf.
– Ma…Masyaf?
– È il posto in cui ti trovi, dolcezza. Ma non
farti impressionare dal puzzo di culo d’asino e la noia di un
piccolo villaggio di montagna, perché, se consideri che la
guerra qui non arriva, e che le estati sono belle fresche, allora,
vedrai, Masyaf non è peggiore di Acri, o Arsuf.
Rimasi in silenzio mentre l’uomo riprendeva a inforcare nel
fieno, assimilando, seppur a fatica, le nuove informazioni acquisite e
sempre più complesse. Di tutte le epoche in cui potevo
capitare, dovevo proprio finire nelle Crociate?
– Voi non sembrate di qui. – osservai poi, tanto
per fare conversazione.
– No, infatti. Nel mio sangue ci sono le praterie
verdeggianti del Sussex e le acque incontaminate del fiume Crawley,
dove passavo le estati della mia infanzia a giocare con mia sorella, la
piccola Bessie. – raccontò con un mezzo
sorriso. – Lei è rimasta a casa, povera donna, a
curare quel vecchio bastardo e violento di nostro padre. Io, invece, me
la sono squagliata con la prima nave verso Damasco. Credevo di trovare
fortuna, là. – poi, indicò
col mento il ragazzino. – E invece, ho trovato lui.
– Cosa vi è accaduto?
– Mi sono ritrovato ad accettare questo lavoro come spala
merda, mentre il ragazzino mi è venuto dietro
perché era rimasto solo al mondo. Così, eccomi
qua, a curare queste belle bestie, e di tanto in tanto affitto uno
scomparto ai ragazzi su al forte che vogliono dedicarsi ai giochi
concupiscenza, di tanto in tanto vengo a sapere qualche
segretuccio…
– Che voi, Richard Frye, stalliere e amico gradito
alla Confraternita, non direte mai ad anima viva, non è
vero? – una voce s’intromise da bordocampo,
entrando ben presto anche nella nostra visuale.
Kadar arrivò col cappuccio ardesia calato sul viso, sicuro e
ammaliante mentre incedeva a noi nei suoi abiti cavallereschi,
sicché anche il garzoncello venne attirato dalla sua fulgida
persona e ne rimase ammirato, ed anche io, che avrei dovuto sperare di
non vederlo mai più, mi ritrovai con lo stomaco
scombussolato da uno strano formicolio caldo.
Per contro di noi giovani, l’attempato Richard
squadrò Kadar con cruccio tutt’altro che pacifico.
– Ma guarda, chi non muore si rivede, eh. –
brontolò infatti, sporgendosi verso di lui mentre
bisbigliava – Dannazione, Kadar, eravamo rimasi che saresti
stato qui al suo risveglio, io non so trattare con le ragazzine, te
l’ho detto!
Il giovane, però, sminuì la cosa ritraendosi
dall’alito acidulo dell’uomo con un sorrisino
puerile.
– Suvvia, Richard, non mi dirai che ti sei fatto mettere alle
strette da una ragazzina. – poi lanciò
un’occhiata vispa al garzone che lo fissava ininterrottamente
dal suo arrivo, aggiungendo – In oltre, confidavo che il
moccioso l’avrebbe tenuta impegnata sino al mio arrivo. Mi
sembrava così entusiasta, ieri, all’idea di avere
una bella ragazza per le scuderie.
Uno scambio strano di sguardi e movimenti delle sopracciglia, poi il
garzoncello tirò un’espressione imbarazzata e,
guardandomi di sfuggita, tornò di spalle con uno scatto
impacciato. Il più grande dei due gongolò
soddisfatto.
– Lascia in pace il garzone, razza di disgraziato.
– Richard non esitò a difendere il suo pupillo.
– Piuttosto, va’ a calmare quelle scimmie
ammaestrate che chiamate Professi, che non la smettono di scorrazzare
per il villaggio a creare confusione. Quando diavolo andranno nel
recinto?
Messo un po’ alle strette dall’incalzare tedioso
dell’uomo, il ragazzo prese respiro calandosi il cappuccio
sulle spalle, scoprendo, con mia sorpresa, un volto teso e stanco,
probabilmente i segni di una nottata insonne passata a rigirarsi
convulsamente nel letto.
– Presto, Richard, presto. – lo
rassicurò sereno.
– Lo spero. – bofonchiò, aggiungendo
prima di congedarsi – Ah, e vedi di risolvere con la tua
ragazza, Kadar, perché non posso tenere le stalle chiuse
ancora per molto. Domani ci sono dei rientri.
Kadar sorrise. – Lo so.
Quando il burbero custode si allontanò nelle scuderie, il
ragazzo si rivolse al garzoncello, che era rimasto in dispare nel
tentativo di leggere la discussione sulle nostre labbra, e con un
buffetto gentile gli fece cenno di lasciarci soli. Il ragazzino
obbedì senza storie e si dileguò alla svelta nel
corridoio.
– Mi guardi con aria trucida, Laura di Chiaravalle.
– esordì di punto in bianco.
Colpita nel vivo, mi raddrizzai svelta sul busto. –
Non… non ti guardavo trucida. – balbettai.
Lui roteò le irridi cristalline su di me, dicendo con un
sorriso – Va bene. Tranquilla. Hai il diritto di guardarmi
così. Ma abbi pazienza, è stato tutto
molto… veloce. Ed io mi sento ancora confuso, molto,
confuso. Capisci?
– Sì, capisco. – e abbassai la testa.
Perdiana, che cosa avrei dovuto fare, adesso? Dovevo tirare di nuovo in
ballo la storia che ero sua sorella? O far finta di nulla, sperando che
la cosa scivolasse da sola nel dimenticatoio?
Ma soprattutto, se gli avessi raccontato quella menzogna, che mi ero
studiata così attentamente prima di crollare sul letto di
fieno la notte prima, ebbene, ci avrebbe creduto?
– Ascolta, Kadar, io devo dirti una cosa…
– Sai, quando avevo dodici anni, ogni giorno,
all’ora del tramonto, mi recavo sul bastione e incontravo un
mio caro amico per trastullarci nel gioco degli scacchi. –
cominciò a raccontare soprappensiero. – Era un
ragazzino decisamente competitivo e di solito io perdevo in poche
mosse, ma quella volta riuscii a strappargli un’esigua somma
di denaro e lui non resse la sconfitta. Sferrò due spinte
innocenti, nulla di che, ed io inciampai nel parapetto del bastione.
Impiegai tre mesi prima di riprendere a zoppicare nel cortile, sei ad
abbozzare una camminata pulita. Ma un dolore occasionale alla gamba
è un prezzo ragionevole per aver avuto salva la vita quel
giorno, non credi, Laura di Chiaravalle?
Indugiai. – Perché mi dici questo?
Mi guardò. – Perché quel giorno mi
venne data una seconda possibilità. Quindi, avanti, racconta
pure. Raccontami pure la tua storia. “Sorellina”.
*
* *
Non ero mai stata una brava bugiarda, ma quando mentivo ci mettevo di
fantasia, forse, anche troppa. Quella volta, però, confidai
che la mia tendenza all’esagerazione mi avesse fruttato una
buona storiella da raccontare a Kadar, qualcosa su cui potesse ricamare
ciò che volesse, senza però poterne mai trarre
delle conclusioni soddisfacenti.
Odiavo mentire, ma non vedevo come avrei potuto convincerlo a fidarsi
di me. Così, misi su un bel affresco bucolico e avvolsi una
matassa di vicende assurde, così intricate che, alla fine,
Kadar non avrebbe potuto far altro che fidarsi, o condannarmi per
sempre.
– Provengo da un villaggio modesto, dove il tempo
è sempre buono e le pestilenze non arrivano grazie
all’inverno freddo che ne impedisce la diffusione.
– raccontai. – Le campagne vicine davano ogni anno
un raccolto vigoroso e la gente cresce allo stesso modo, piano e in
ombra sotto l’abazia della collina. I monaci erano dei
santoni schivi e riservati, che studiavano dalle enormi vetrate la vita
di sotto e passavano la maggio pare del loro tempo a studiare nello
scriptorium, piegati come campanule tristi sui cinquanta leggii. La
loro riservatezza aveva scatenato qualche pettegolezzo di pauese su
presunti rapporti sacrileghi e riti magici, così, quando si
venne a scoprire che a turno i monaci venivano nella nostra casa per
portarci noci dall’albero del chiostro e utensili per la
casa, le dicerie si triplicarono. Da quando ne ho memoria, io e mia
madre abbiamo sempre dovuto provvedere alla nostra sopravvivenza, ma
tutto sommato ci riusciva bene, questo anche grazie all’aiuto
dei monaci.
– Perché i monaci vi aiutavano? –
domandò Kadar.
– Il monastero risaliva al periodo della fondazione
dell’ordine cistercense, e i suoi seguaci avevano ancora un
profondo rispetto per il capostipite dei Chiaravalle, anche se ormai
eravamo ridotti in povertà. Ci vendevano i manufatti
dell’abazia a poco prezzo e noi li rivendevamo il doppio al
mercato, perché, checché se ne dica, chi
disprezza compra, e molto anche. Durante il pomeriggio, poi, andavo
alla collina, per le lezioni dei maestri nel giardino.
– Sapevi che i Chiaravalle avevano servito l’Ordine
Templare, quando erano in Terrasanta?
– Sì. E credo che i monaci mi avessero accettato
alle loro lezioni perché, in cuor loro, speravano di veder
risorgere la Vecchia Regina.
Mi presi un minuto di pausa, respirando e cercando ispirazione
nell’area circostante. Richard Frye era fuori assieme al
garzoncello per rifornire alcuni secchi al pozzo, i cavalli stavano
sgranocchiando il foraggio e la sentinella al forte aspettava
l’arrivo di qualcuno per avere il cambio nella sesta ora del
giorno, quando l’aria si fa così pesante da
rallentare l’intera vita circostante, anche
nell’immaginario villaggio di Masyaf. Noi eravamo seduti poco più in là, sotto la finestra difronte all'entrata.
– Andava tutto alla grande, davvero. – dissi.
– Poi, neanche un anno fa, mia madre si è ammalata
irrimediabilmente di una febbre letale.
Il giovane, che fino a quel momento era rimasto in silenzio meditativo
su una pagliuzza di fieno che rigirava tra le dita, si volse su di me
con uno sguardo perso e con la fronte gridava alle condoglianze.
– Mi dispiace. Davvero.
Per contro, lo rassicurai dandogli uno schiaffetto distratto sul
ginocchio.
– L’inverno scorso è stato uno dei
più difficili della mia vita. – ripresi.
– Nessuno voleva più comprare da me, mi scansavano
come un’appestata, e, come se non bastasse, i monaci avevano
perso la speranza di veder risorgere la Vecchia Regina Templare.
Interruppero i miei studi, si tennero tutti i segreti che avevano
promesso di svelarmi per loro, e, quando andai sotto le loro porte per
delle spiegazioni, tutto ciò che dissero fu: “ la
Vecchia Regina non può rinascere dal ventre freddo di una
ragazzina che non conosce nemmeno il suo passato.” Allora,
capii che sapevano qualcosa, ma ne ebbi la conferma solo quando, un
giorno, mentre rovistavo nel baule nella stanza di mia madre, trovai
una pila di vecchie lettere.
Kadar rimuginò intensamente, poi chiese – Una
committenza d’amore?
Annuii senza pensarci, quasi precipitandomi per paura che trasparisse
l’incertezza nel ricamare filo dopo filo la tela velenoso
della mia lingua.
– Alcune lettere erano davvero vecchie, risalivano a un anno
prima della mia nascita. – spiegai. – Certe erano
davvero difficili da interpretare, perché non erano scritte
nella mia lingua. Credo fosse un sistema per tenere il contenuto
privato, scrivere in lingue diverse. Comunque, ho maneggiato quelle
lettere almeno mille volte, ma era impossibile capirci qualcosa
conoscendo solo metà della committenza.
– Per cui? – domandò Kadar, non senza un
certo snervato scetticismo. Deglutii.
– Decisi di recarmi nell’abazia, alla ricerca di
qualcuno che potesse tradurmi l’altra parte della
committenza. Ma ogni monaco, dal primo all’ultimo, non appena
ascoltava del mio ritrovamento, mi scacciava come se avesse il diavolo
in corpo. Solo uno dei maestri che faceva lezione nel giardino, e che
frequentava la casa assiduamente quando mia madre era ancora in vita,
ebbe il coraggio di concedermi udienza nello scriptorium. Sebbene la
sua relativa giovinezza, il monaco era tra i più eruditi in
fatto di lingue e seppe tradurmi alla perfezione l’altra
parte della committenza, ma non fece solo questo. Mi disse che mio
padre aveva dovuto allontanarsi da mia madre quando era incinta, che
era ripartito con la nave su cui era arrivato tempo prima,
perché il loro desiderio di famiglia era irrealizzabile in
questa vita. Ciononostante, lei non smise mai d’aspettarlo.
Senza tradire la traiettoria del mio sguardo, vidi
sott’occhio Kadar che rimuginava intensamente su
un’immagine esatta.
Una nave che solcava mille leghe d’acqua salata, le coste
salmastre di un’antica terra di limoni e conchiglie, e
lì, sulla riva di una spiaggia straniera, vide una donna che
aspettava con la sua figlioletta in braccio.
Quell’immagina non apparteneva ai suoi ricordi, ma era
comunque bellissima, e lo toccò più di quanto
avrei creduto possibile, più di quanto avrei potuto sperare.
– Io non sapevo della vostra esistenza, Kadar. –
incalzai ora che il ferro era caldo. – Anzi, non…
non so neanche cosa facciate, voi incappucciati, né
perché ce l’abbiate tanto coi Templari, o la mia
famiglia. Ma so che mia madre ha amato uno di voi, e che questo non
andava bene. So che ci ha lasciate perché doveva. E so,
Kadar, che quell’uomo era tuo padre.
– Come puoi dirlo con certezza?
– Le lettere, Kadar. Parlavano anche di te. Proprio non vuoi
vederlo? Il Credo, il nostro incontro a Damasco, tra milioni di persone
in cui avremmo potuto perderci… ci siamo ritrovati proprio
noi. È stato il destino, a volerci riunire. Fratello.
Guardami. Tu mi credi, non è vero?
Gli presi il viso tra le mani e Kadar fu costretto a guardarmi negli
occhi.
Era sul punto di crollare, ormai. Le crepe avevano minato la fortezza
della sua mente, era solo questione di attimi e mi avrebbe dato ragione
su tutto. Ed eccolo, che dischiuse le labbra, e dirmi…
– Io non ti credo.
Il colpo mi finì incastrato in gola. Ritirai le braccia
lungo il corpo, fissandolo ammutolita mentre mi portavo un pugno
stretto al cuore.
– Kadar…
Non mi diede il tempo che si alzò di scatto sulle gambe.
Tirò il cappuccio sulla sua chioma corvina, nascose i
lacrimoni che gli avevano inondato gli occhi e
s’incamminò prima che iniziassero le mie grida.
– No, Kadar, Kadar! Non puoi andartene così! Non
puoi lasciarmi, non puoi! – ruggii.
Gli corsi dietro nel tentativo d’aggrapparmi alle sue vesti,
ma lui mi scivolò tra le dita, come fumo bianco.
– Non puoi abbandonarmi così! Non di nuovo! Kadar!
Kadar!
Lui, però, m’ignorò e
spalancò l’uscio scricchiolante con un solo
braccio. Un ultimo, disperato slancio verso le sue mani, e ricevetti il
rimando della porta in faccia.
*
* *
Quando il manto notturno scese e portò con sé il
fresco aroma delle piante lungo il pendio, e quello speziato della cena
dalle cucine, mi tornò alla mente il ricordo di Agata che si
arrotolava le maniche della tunica fin sopra i gomiti e faceva saltare
la frittata di uova e cime di cipolla nella padella, una, due, tre
volte, prima di serviva a cena con del vino, rigorosamente, un Brunello
di Montalcino trafugato dalla preziosa enoteca di mamma.
Ma quella, era per adesso un’altra vita.
Dopo averlo convinto che stavo bene, e che gli occhioni rossi non erano
dovuti al pianto, Richard Frye si sincerato di potermi lasciare da sola
per andare ubriacarsi di cibo e chiacchierare con degli estranei nella
locanda in fondo alla strada, mentre il garzoncello, che mi sembrava
meno sincero a lasciarmi sola, alla fine si dileguò senza
neanche curarsi di chiudere la porta principale.
Un po’ sospettai che la sua non fosse stata semplice
sbadataggine, che avesse intuito le mie intenzioni nel corso della
serata, quando mi aveva intravisto mettere la colazione di quella
mattina in un fazzoletto da viaggio, e che avesse deciso di rendermi le
cose più facili, costringendomi a cogliere quella che forse
sarebbe stata la mia unica occasione di fuga.
E così stavo facendo.
Avevo raggiunto il recinto del Sauro, stretta nei modesti abiti con una
mano al petto e l’altra alta a sorreggere la lampada a olio,
nel mio scomparto avevo già pronta una sella con le bisacce
piene per il viaggio. Mi sincerai che il corridoio fosse deserto,
dunque mi rannicchiai sulle ginocchia e illuminai con la
flebile luce la serratura del recinto.
Non sapevo cosa stavo facendo, in verità. L’unica
cosa che riuscivo a pensare era che dovevo andar via.
Via da Masyaf, via da Kadar, via da tutta quella follia e da un passato
che stava risalendo con gli artigli dalla parte più oscura
della anima, lacerando, spezzettando, dissolvendo…
Il rumorino del gancio a uncino che era scivolato con successo dal
chiavistello, mi riportò alla realtà.
Rincuorata, mi affrettai nel buio a tirare fuori il cavallo dal
recinto, quando, all’improvviso, giunsero dal fondo del
corridoio flebili nitriti allarmati. Lentamente, decisi di agganciare
la lampada al muro vicino. Scrutai un po’ nel
buio…
E il cuore mi piroettò in petto. Un ombra.
Col rischio di torcermi una caviglia nello slancio, mi precipitai di
corsa a nascondermi in uno scomparto vuoto, aggrappandomi in scivolata
al muro e schiacciandoci subito il petto sopra per farmi piccola
piccola, un insetto così minuscolo da rendersi invisibile
nel buio…
Captai dei passi.
Passi cauti, e decisi allo stesso tempo, che stavano avanzando a
invadere il corridoio, mentre i cavalli nitrivano e si ritraevano
terrorizzati nel fondo dei loro recinti.
Rimasi in attesa finché non sentii quei passi fermarsi
davanti al recinto del Sauro, pochi metri più in
là, c’ero io, rannicchiata a pregare con la fronte
e le ginocchia sul muro.
Drizzai lo sguardo solo perché avevo paura di perdere del
tutto fiato, e fu allora che notai sopra la mia testa una fessura a
forma di crisalide, che avrebbe potuto darmi una visuale sicura sul
corridoio.
Con l’adrenalina che mi pulsava nelle tempie, riuscii a
drizzarmi quel tanto che bastava per sbirciarci dentro.
C’era un uomo massiccio fermo davanti al recinto, con il
cappuccio calato sulla testa e il corpo sinuoso in posizione di riposo,
mano poggiata sull’elsa intarsiata della spada e stivali
divaricati a terra, che ispezionava con le sue rote di fuoco ogni
centimetro, ogni ombra, ogni granello che fluttuava nell’aria
immobile delle scuderie.
Riconobbi l’inconfondibile portamento altezzoso di
Altaïr, giunto fin lì in quel che mi parve una
esser battuta di caccia notturna, forse, una missione di recupero per
conto del demone Caronte, che era ormai troppo vecchio e stanco per
correre dietro alle anime fuggiasche dall’inferno,
così mandava lui, che era di gran lunga il più
spaventoso, il più veloce e letale tra tutti i suoi figli, a
compiere il lavoro sporco.
Ma se Altaïr fosse lì per me non era qualcosa che
volevo scoprire in quella vita, che, d’altronde, si trattasse
di sogno o realtà, era l’unica che mi era stata
data, così optai per la scelta più saggia; una
silenziosa e vile fuga.
Il fato volle, però, che, mentre io mi raccoglievo per
correre verso la porta alla prima occasione, il giovane uomo si calasse
il cappuccio con un movimento fluido, intingendo sotto la flebile luce
i suoi capelli, irti e di un caldo biondo scuro, e la pelle
ambrata, e la barbetta lungo il volto asciutto, perfino la sensuale
vena sul lato destro del collo, che si stese in tutta la sua lunghezza
quando si girò a guardare il recinto del Sauro.
Di certo, tra tutti i figli di Caronte, Altaïr doveva essere
anche il più affascinante, perché il cuore mi si
bloccò in petto, indeciso su quale lato dover cadere.
Fu allora, quando avvertii le guance tingersi di rosso e il petto venir
smosso da uno strano calore, che due lacci di carne uscirono
sparati dall’oscurità e afferrarono il petto del
giovane con impudente sicurezza e paralizzante sensualità,
cominciando così a carezzarlo, a ghermirlo, a sedurlo come
solo le mani dolci di una femmina esperta potevano
fare.
Infatti, dalle possenti spalle dell’uomo emerse una creatura
dall’aspetto modesto e con una cascata di peccaminosi ricci
scuri che le ricoprivano l’intero corpo opulento,
un’odalisca di miele e seta verdognola, che
cominciò ad arrampicarsi come un’edera lungo tutto
il corpo Altaïr.
Lo toccava, e lo stuzzicava strofinando i seni sul suo petto, infilando
le dita tra la sua chioma, muovendo le ciglia e guardandolo diritto
negli occhi mentre le sue labbra sussurravano parole svelte, promesse
che non riuscii a carpire. Poi, proprio sotto i miei occhi,
Altaïr, cui natura rimaneva pur sempre umana,
soccombé a lei e si lasciò andare ai bisogni
della carne.
La prese per i fianchi e se la incollò al bacino, provocando
il sorrisino compiaciuto di lei mentre lui si sporgeva e addentava il
primo, intenso bacio di una lunga serie, la più perversa,
avida, violenta successione di baci che avessi mai visto con i miei
occhi vergini.
Persino lo schiocco delle loro lingue, che si scontravano e
arrovellavano, riuscì a provocarmi imbarazzo e disgusto per
me stessa.
D’un tratto, qualcosa cambiò nello schema di
potere. La donna provò a infilare le mani nei suoi pantaloni
e, nel mentre, saggiare la nuova cicatrice sulla bocca di
Altaïr, ma lui la interpretò come
un’invasione e subito la spinse contro il muro,
sopraffacendola in tutta la sua enormità.
Le slacciò i vestiti contro la sua volontà,
affrettò le cose e se la caricò subito subito sul
bacino, tenendola forte a se per le gambe brunastre, ma proprio quando
lei stette per gridare allo stupro, Altaïr
cominciò a baciarle il collo, e a carezzarle le gambe, la
coscia il sedere, a respirare dolcemente il profumo lungo quella
mandibola sottile, a desiderarla piano…
Qualcosa si mosse dentro il mio stomaco. Era… invidia.
Quando poi il loro amoreggiare andò ben oltre le
capacità d’immaginazione di una sciocca
verginella, decisi di distogliere lo sguardo, e di scivolare a terra a
stringermi forte le gambe al petto.
All'improvviso, avevo voglia di vomitare.
Angolo autrice:
E concludiamo con questa bella immagine di Altaïr, che si gode
la vita da scapolo ora che può ( avrà sempre meno
occasioni, in futuro, di fare quello che gli pare! ).
Allora, I Chiaravalle, o la “Vecchia Regina
Templare”, come erano famosi all’epoca, erano
templari, e Laura lo sapeva, eh! Certo, neanche io avrei voluto
trovarmi nella fortezza degli Assassini di Masyaf se fossi stata in
lei, ma questo ancora non lo sa, quindi, vedremo come
reagirà, quando scoprirà che “nulla
è come sembra”! E Kadar? Beh, di certo
la notizia di avere una “presunta sorella”
l’ha scombussolato parecchio, ma è ancora presto
per cantare vittoria, e Laura dovrà conquistarsi la sua
fiducia, e non sarà il solo… “ci
saranno dei rientri!”
Ricordo che quest’opera è di finzione e che la
discendenza di Laura è inventata, per cui, la
“genesi” della famiglia all’inizio del
capitolo, i Sette Fratelli ecc… sono solo frutto della mia
fantasia (ad eccezione delle informazioni sull’infanzia di
Bernardo, su quelle mi sono informata xD).
Detto ciò, mi scuso per la lunghezza del capitolo, spero
d’esser riuscita a proporvi qualcosa di decente e di non
avervi fatto aspettare troppo! ^^”
Post scriptum: Sì, lo so, “Richard
Frye”. Consideratelo l’antenato ignoto dei gemelli
Frye! ;-)
Baci, Lusivia.
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Capitolo 4 *** Quando il fato prese a girare ***
Capitolo 4
Quando il fato prese a
girare
Dovevo far presto, presto.
Agata poteva arrivare da un momento all’altro, e se mi avesse
trovata lì nel bel mezzo della notte, allora sì,
che si sarebbe arrabbiata sul serio. Mi aveva avvisata, quella mattina,
di lasciar perdere, ma a me era sembrata più una minaccia.
Perché? Perché prendersi tanta noia per un libro?
Entrai nello studio rosso di mamma facendo ben attenzione a socchiudere
la porta per permettermi di avvertire i passi della suora nel caso
arrivasse, e con un click ebbi acceso la luce della torcia, usandola
per farmi spazio nella semioscurità della stanza.
Se avessi avuto un telefono, forse avrei usato la lucina incorporata,
ma Erica era stata categorica e aveva deciso che un telefono collegato
all’unica rete nel raggio di mille chilometri fosse
più che sufficiente per le nostre comunicazioni telefoniche
quando lei era via.
Ma tornando a quella notte, l’aria era colorata da uno strano
chiarore lattiginoso della luna, fredda e lontana nel cielo, e le ombre
che si storcevano e si allungavano nella stanza, mentre il bosco si
agitava e sibilava avvertimenti su quel luogo, su
quell’ufficio; mi diceva di tornare a letto, di non sfidare
la sorte, ma ormai ero lì, e ciò che cercavo era
proprio davanti a me, su qualche scaffale della libreria.
Così, mi misi la torcia tra i denti, presi saldamente la
scala con entrambe le mani e cominciai a salire, piano e con calma,
verso il ripiano più alto, lì dove era
più probabile che Agata lo avesse nascosto,
perché consapevole del mio problema di vertigini.
Se solo fosse capitato qualche anno più tardi, allora, sarei
anche salita sul tetto per leggere quel libro in santa pace.
Come previsto, scorsi la rilegatura verdognola tra alcuni libri
impolverati che risalivano, probabilmente, al tempo della costruzione
di quella casa, quando i Chiaravalle avevano ancora un po’ di
quel mitico tesoretto all’epoca del servizio templare in
Francia. Ma quella era un’altra storia.
Agguantai il Milione di Marco Polo di tutta fretta e lo misi
nell’elastico dei pantaloni della tuta, per evitare che il
suo ingombro minasse il mio già delicato equilibrio durante
la discesa, dunque, quand’ebbi finalmente la sensazione della
terra di nuovo sotto i piedi, ripresi il tomo in mano e senza perdere
altro tempo corsi verso la porta.
A pochi passi dalla maniglia, però, mi accorsi che qualcuno
stava sopraggiungendo dal corridoio.
Pensai in fretta; spensi la luce della torcia, corsi verso la finestra
illuminata e subito mi nascosi sotto la scrivania, raggomitolandomi col
libro schiacciato tra il petto e le ginocchia, in elettrica attesa.
Un cigolio, il rintocco di passi dentro la stanza.
– Non dovresti essere ancora qui, è tardi.
Era la voce della padrona di casa, Erica.
– Lo so, ma dovevo parlarti di una cosa.
– Da non poter aspettare a domani, Agata?
– Si tratta di Laura.
I passi si fermarono sul pavimento. Dovevano essere vicino al
sofà, proprio davanti al tavolino da tè.
– Parla, allora, che cosa aspetti.
– È stato lui, non è vero, Erica?
Gliel’ha portato lui, il Milione.
Una risatella bassa. – Era il regalo dell’anno
scorso.
– Dannazione, Erica, è già abbastanza
difficile controllare la situazione così. Non ci pensi, alla
nostra Laura?
– La mia, vorrai dire. Lei è mia figlia, Agata,
non scordarlo. E comunque, ha solo undici anni.
– Non sottovalutare Laura, rimarresti sorpresa.
– Intendo dire che ha bisogno di questo. Non posso
nasconderglielo per sempre, insomma, è un po’
ingombrante, come segreto.
– Certamente, se quello là continua a gironzolare
intorno alla magione come un bastardo randagio…
– Qual era la cosa che eri venuta a dirmi? –
improvvisamente, sembrò aver fretta.
La suora trattenne il respiro, era evidente quanto la seccasse essere
interrotta.
– Laura ha trovato il libro, Erica, proprio questa mattina.
Silenzio.
Un breve scorrere di passi, poi, il singulto soffocato di un cuscino
che cedeva sotto il peso di un corpo gentile.
– Quella piccola malandrina. L’ha visto, alla fine
... – Erica sospirò, dal rumore intuii che stesse
scaricando la tensione con la gamba. – Accidenti, ho perso la
scommessa. Ora mi toccherà offrirgli una cena.
– Non scherzare, non è affatto divertente, sono
preoccupata. Laura potrebbe iniziare a chiedersi da dove viene quel
libro, farebbe delle domande, e allora …
– Dov’è adesso?
Silenzio. – Nascosto.
– Bene. Provvedi affinché non lo trovi mai
più.
Il sofà scricchiolò di sollievo, ci fu un breve
gioco di tacchi sul pavimento, poi diritto verso la porta.
– Erica.
Un cigolio. – Cosa?
– Semmai dovesse capitare, che le dirò la prossima
volta?
Ma Erica non le diede mai una risposta.
– Vieni, Agata, pariamo da un’altra parte.
Contai fino a dieci, mentalmente. Poi riemersi dalla scrivania
lentamente, come una marmotta ai primi disgeli nella prateria, e vidi
che la stanza era di nuovo vuota.
Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo.
Tirai su il libro, lo aprii e cominciai a sfogliarlo accuratamente,
pagina per pagina, finché l’effetto calamitante di
quell'oscuro richiamo non riportò i miei occhi sulla stessa
pagina di quella mattina. E le righe d'inchiostro cominciarono di nuovo
a mischiarsi e a pulsare davanti ai miei occhi, riaccendendo in me la
miccia della curiosità.
Agata non le aveva detto che quella mattina io le avevo fatto una
domanda ben precisa. Forse, perché se n’era
già scordata. Ma se solo Erica avesse saputo.
– Non preoccupatevi, Marco Polo. – sussurrai
all’inchiostro di quella pagina – Non
lascerò che mi comandino, io faccio quello che voglio, non
importa se a loro non piace il vostro libro, io vi credo comunque.Sul
mio onore,
messere, io scoprirò chi sono. Scoprirò chi sono
i vostri Assassini.
Era il ricordo di una notte di sette anni fa.
Ed io non avevo ancora capito qual era la verità.
* * *
Non seppi dire che ora fosse quando mi risvegliai nelle scuderie di
mastro Frye.
Le cinque, forse le sei del mattino, difficile dirlo con quel poco di
luce che riusciva a scalfire il nembostrato nero- grigiastro.
Fuori aveva diluviato per tutta la notte, ma adesso, con
l’arrivo dei primi chiarori, gli ululati che avevano
infestato la notte erano cessati e il picchio furioso della pioggia era
divenuto un pigro, luminoso sgocciolare dai bordi di legno delle
finestre e sul pavimento scricchiolante delle stalle.
Anche dopo che il sole si fece più chiaro nel cielo nemboso,
io rimasi rannicchiata nel mio angolo a stringermi nei tessuti scarni,
infreddolita e sfibrata dalla scarsa qualità del sonno e del
ricordo continuo e incalzante della pioggia, del vento, dei fischi e
degli strilli di quella notte.
Quando poi riemersi da quell’elucubrazione, mi raccolsi negli
abiti e senza abbandonare il pallore al volto uscii in corridoio.
L’aria era densa e pesante, carica di
quell’elettricità tipica della quiete dopo la
tempesta, la paglia sul pavimento era divenuta una poltiglia informe e
viscida su cui era difficile camminare. I cavalli avevano trovato nella
tempesta
ristoro nel fondo del loro recinto e la porta principale era spalancata
dalla notte scorsa, ma non avevo avuto il coraggio di andare a
chiuderla prima, così decisi di farlo adesso.
Mi presi un attimo per far scivolare lo sguardo all’esterno,
tra le strade impantanate e i carri affondati ai margini del mercato
semi-distrutto, poi scivolai di nuovo dentro e con una spinta decisa
ebbi richiuso l’uscio massiccio.
Terzo giorno a Masyaf, anno 1191. Terza Crociata. Terrasanta.
Probabilmente, era un lunedì.
Dovevo portare il conto, era importante. Dovevo ricordare qual era la
verità.
Mi lavai la faccia con l’acqua piovana di un barile quattro
volte, sciacquando come potei anche il corpo, ma rinunciai quasi subito
per l’aria gelida che spirava dalle travi, ragion per cui,
preferii indugiare qualche attimo in più coi palmi sui bordi
di legno e la testa abbandonata sul petto, a fissare sospettosa
l’immagine sul pelo dell’acqua.
Le irridi avevano l’aspetto di una sfera opaca e smorta, la
bocca era un mare di grinze e i capelli si erano tramutati in un grande
nido cresposo per pidocchi e piccolissimi insetti del fieno, il petto
respirava affannato e i capezzoli erano ritti e visibili sotto il
leggero tessuto della sottana.
Guardai un po’ meglio.
C’era qualcosa sull’epidermide della mia gola. Un
taglietto, in linea orizzontale.
Sottile come un filo d’argento, invisibile sulla superficie
torva
dell’acqua, ma perfettamente evidente sotto i polpastrelli.
La lama di Kadar aveva lasciato il segno.
Mi sembrava di sentirla ancora, l’ombra gelida e affilata, il
pressare prepotente
contro la cartilagine, quell’indescrivibile senso di
dispersione, come se la mia anima potesse scappare fuori alla minima
apertura della sua fragile scorza.
Quando avevo capito che quel giovane sotto il cappuccio cenerino era
Kadar, proprio il mio, ebbene, il mio cuore era divenuto gonfio
d’indescrivibile felicità mista a qualcosa di
più tagliente e bruciante: un presentimento che,
purtroppo, m'investì con la gelida forza di un maroso nato
dal nulla.
Kadar non era reale. Era solo un’allucinazione;
l’idea di una nevrotica personalità schizofrenica,
un corpo incorporeo, un essere creato da me e me soltanto, quel sintomo
profetico prima della follia più violenta.
La prova che nulla lì fosse reale.
Tuttavia, quando avevo sentito il suo polso muoversi sulla mia gola,
avevo visto il mio stesso grido nelle fonti cristalline dei suoi occhi,
quello che non avevo ancora scagliato, ma che era già
risuonato nella mia testa, e aveva aperto uno scorcio nella mia testa.
Io avevo paura di morire.
Non importava se il corpo fosse fittizio o meno, se mi ero preparata
allungo al giorno in cui, finalmente, dopo tanto soffrire e combattere,
la mia anima si sarebbe lasciata naufragare su coste più
serene; io volevo vivere.
E così avevo fatto. Avrei vissuto, accidenti, non importava
in che modo, io avrei vissuto per tornare a casa e arrivare, un giorno,
con le mie gambe su quelle coste tranquille.
Non c’era altra scelta.
Dovevo continuare a mentire, dovevo far credere a Kadar che io fossi
sua sorella.
Era un’idea ridicola, presuntuosa e folle, un disastro
preannunciato. Ma non potevo immaginarmi di meglio.
Solo un villaggio immaginario di nome Masyaf. E Kadar.
Scivolai via dai bordi con un sospiro affranto, scrutando attorno
finché non scorsi alcune cianfrusaglie indistinte e
abbandonate contro il muro, tra cui anche un secchiello rovesciato, che
mi parve subito utile al mio intento.
Andai lì, lo presi, m’incamminai di nuovo in
corridoio.
Cercavo un angolo tranquillo, dove poter improvvisare una
toilette e svuotare le viscere secondo norma naturale. Ed ecco che lo
sentii.
Il rumore del fato che prendeva a girare senza alcun preavviso.
E me lo mise anche davanti, il suo girare, affinché non
potessi fraintendere le sue intenzioni, ma, anzi, lo vedessi mentre
dormiva nello scomparto a destra su del fieno scrosciante, incurvato
nella
linea naturale della schiena sinuosa e del suo corpo mastodontico,
offerto integralmente nell’innocenza del sonno più
armonioso e perfetto di sempre.
Vette, colline, avvallamenti, depressioni, tendini, muscoli tesi nel
concerto del corpo umano, pelle,
capelli, occhi richiusi, scultura candida e sensuale, terra selvaggia e
scura.
Quel giorno, il mio destino mi si era presentato davanti. E aveva le
sembianze di Altaïr.
Ma era nudo.
All’improvviso, il mio corpo diventò un incendio.
Non pensai, ero al centro di una tempesta emotiva, invece, volli subito
di allontanarmi da lì, prima che la mia povera mente
annebbiata realizzasse ciò che quella notte era accaduto a
pochi passi da me senza che me ne accorgessi, ma soprattutto, prima che
mastro Richard
tornasse e mi beccasse in quello stato pietoso. Sarebbe stato un
fraintendimento difficile da spiegare.
Indietreggiai di un passo e andai subito a sbattere contro qualcosa.
Un tonfo, due sussulti strozzati, un ragazzino che si allontanava e si
strofinava la fronte larga con aria risentita.
– Per la barba di Al Mualim, che male maledetto!
Colta clamorosamente alla sprovvista, ci misi un po’ a
riprendermi dallo scompiglio e andare oltre quegli abiti freschi di
bucato, oltre quel buon odore di pelle pulita e dei capelli spazzolati,
oltre il viso asciutto e ripulito con un balsamo a buon mercato.
E quando ebbi tralasciato tutto questo, ebbene, faticai a credere di
ritrovarmi davanti proprio il garzoncello sordo-muto di Richard Frye.
Per un istante infinito nell’aria volarono gli sguardi
più disparati. Terrore, sgomento, pentimento, ira,
perplessità, curiosità.
Poi, vidi quel ragazzino gettare un'occhiata accesa su Altaïr.
Accadde tutto molto in fretta.
Lui spalancò la bocca e riempì i polmoni per
svuotarli con un grido, ma io fui su di lui e in un attimo gli ebbi
serrato la bocca e ghermito le costole, riuscendo a trascinarlo via
contro il suo volere. Ci fu una breve ma intensa lotta, che
però avevo vinto in partenza, e per me non fu difficile
portare il garzone fino all’ufficio di mastro Frye,
lì dove
c’era un tavolo su cui a volte mangiava o faceva il conteggio
del denaro e delle spese, ma anche, teneva gli arnesi di pulizia e i
finimenti da aggiustare.
Una volta al sicuro tra quelle tre mura, rimisi giù il
ragazzino e mi preparai per dargli una sonora sgridata,
quand’ecco che quello colse l’occasione e, dandosi
uno strattone, mi addentò tra l’indice e il
pollice della destra.
Il dolore funse da molla, e in un istante ebbi sciolto il ragazzino
dalla presa.
– Tu piccolo…!
– Giuratelo! – s’impose con fermezza e
decisione. – Giuratelo sul vostro onore che non svelerete a
nessuno il mio segreto!
– Cos...?
– Giuratelo, o io strillerò! Strillerò
così forte che l’Assassino si
sveglierà, e allora vi troverà, e vi
ucciderà!
Scagliò quelle parole come una lugubre profezia, tuttavia,
si ritirò impaurito quando mi vide allungarmi per
afferrargli le spalle. Allora, lo strinsi. Lo strinsi per quelle sue
esili ossa finché non fui sicura di rivedere il mio volto
sconcertato nei suoi occhi spalancati.
– Hai detto… Assassino?
In quel momento, il ragazzo colse il suo secondo errore.
– Lasciatemi andare.
– Dimmelo.
– Vi prego.
– Dimmi la verità.
– Io non conosco nessuna verità.
– Ti prego. Ti prego, tu devi aiutarmi ...
Lui si portò i palmi sulle orecchie, dicendo – Non
vi sento, io non vi sento, e non parlo! Io non vi parlo, signora!
– No, no, aspetta! Tu… tu sei una specie di anima
psicopompa, non è vero? Sì, devi… devi
essere un messaggio. Un messaggio… del mio passato?
– Trasalii appena, ora rinvigorita in viso. –
Sì, deve essere
così, Perdiana! Le Crociate, la mia famiglia in Terrasanta,
gli… gli Assassini! Tu vuoi farmi vedere qualcosa!
È per questo, no... che mi hai portato qui? Per... per
mostrarmi! Non è vero? ...
Il ragazzo aveva finito la sua cantilena già da un pezzo, e
ora mi fissava, pallido come una tomba.
Quel suo sguardo. Non aveva capito una sola parola del mio discorso
delirante.
Stavo perdendo la testa. Stavo perendo il controllo.
Sganciai le mani da lui con un sospiro stanco, indugiando su quel volto
senza pensieri per la testa, come se fossi divenuta
all’improvviso un semplice ammasso di cenere spenta,
abbandonata, fredda.
Sparsa nel vento.
– Signora. – trovò il coraggio di
parlare.
– Ho sbagliato… ho sbagliato ogni cosa.
Girai i tacchi senza emettere fiato, trascinandomi inerme verso un
cantuccio silenzioso.
Mi sedetti, raccolsi le ginocchia al petto, respirai l’aria
secca e gelida.
– Il problema… il problema sono io. –
continuai piano. – Io… sono io, il problema, il
motivo
per cui non posso risvegliarmi…
– Signora.
– Gli Assassini….
cosa sono, gli Assassini,
ragazzo? Cosa… cosa sono?
Quello indugiò nel disagio.
– Scusate, ma proprio non posso dirvelo, o finirò
in un mare di guai.
Drizzai gli occhi sul ragazzino, lo fissai in un misto di odio e
tenerezza, poi tornai a sprofondare la fronte sulle ginocchia, e
lì ci rimasi.
Dopo poco, udii un rumore di tessuti grezzi che strusciavano
l’un
l’altro, ritrovandomi la presenza silenziosa del ragazzino
accanto, tutto assorto nel suo cipiglio e con le ciglia serrate
per la concentrazione.
– Scusatemi. Non… non volevo farvi male, signora.
– si riferì al morso di prima.
Rimasi in silenzio.
– Perché hai detto una bugia a tutti quanti?
– mormorai a quel punto.
Lui rimuginò intenso. – Voi sapete cosa fanno, i
creditori, alle persone che non pagano? Io lo so, perché il
mio papà non aveva pagato un conto di gioco. E un giorno
sono venuti degli uomini, a casa mia, hanno distrutto e sconquassato
ogni cosa. Quando poi uscii dal mio nascondiglio, capii che ero rimasto
solo. – Indugiò dentro quel ricordo, riemergendo
inorridito. Mi guardò, aveva gli occhi sbarrati dal terrore.
– Mastro Frye era uno straniero, non sapeva la lingua e ha
dovuto faticare molto per adattarsi, ma io lo aiutavo e gli insegnavo
ciò che sapevo, anche se a volte la gente ci lanciava
addosso i cocci perché pensavano che lui fosse un Crociato.
Il popolo odia i Templari, perché sono dei conquistatori
venuti in Siria a uccidere chi si oppone a loro, rubano le ricchezze
dei nostri mercati e ci costringono a fare quello che dicono loro.
Perché è giusto, dicono loro. Ma non sono tutti
così, ad esempio, io non farei mai la guerra con il signor
Richard, perché lui è mio amico, non importa se
io sono mussulmano e lui cristiano. Perché l’uno
non esiste senza l’altro.
Io non seppi che dire. Semplicemente, rimasi colpita dalla naturalezza
con cui quel piccolo straccione si trasformava sotto i miei occhi nel
sovrano più saggio e giusto di tutti i regni conosciuti.
Aveva il sole nell'anima.
– Scusami se ti ho spaventato, prima. – la mia voce
era rauca mentre tiravo su col naso umido.
Lui scrollò le spalle. – Non fa niente.
– Ho perso il controllo. E non avrei dovuto.
– Siete spaventata, lo vedo bene. Anch’io avrei
mentito, se fossi stata al vostro posto, e forse avrei detto la vostra
identica bugia.
– Q… quale bugia?
– Che siete la sorella di Kadar. So che non è vero
Gli lanciai un’occhiata scioccata. – Come fai
a…?
– Voglio dire, voi siete una straniera, e avete il volto
pallido degli inglesi, dei Crociati, come il signor Frye. A proposito,
voi
come l’avete imparato, l’arabo? No, non importa.
Comunque, Kadar non poteva credervi, siete troppo diversa da lui.
Troppo bella.
– Ah. – sbuffai e mi grattai la testa. –
Lo prenderò come un complimento.
– Ma nonostante lui non vi abbia creduto, a voi piace lo
stesso Kadar. Non è vero?
Il cuore mi piroettò in petto, le guance
s’imporporarono di palpitante vergogna.
– Sì. – ammisi. –
Sì, a me lui piace tanto, ragazzino, perché mi ha
aiutata a stare meglio quando non stavo bene. – Gli
sorrisi.– Un po’ come te e il signor Frye.
Quello ricambiò sorridendo da orecchio a orecchio.
Poi, si
voltò a guardare il piccione appena appollaiatosi sul
cornicione, e non disse più nulla per un tempo che mi parve
un’eternità bianca.
Tutto ciò che sentii fu il tubare del pennuto grassoccio, il
mio sospiro stanco, i sospiri pensosi del bambino.
Poi, una fiamma
rianimò il garzone e lo fece scattare in piedi sulle gambe
come una molla.
– Rubiamo i vestiti all’Assassino.
– C…cosa?
– La notte scorsa volevate svignarvela, non è
vero? Beh, allora, rubiamo i vestiti all’Assassino, adesso,
mentre dorme. Così potrete indossarli per fuggire e tornare
a casa vostra. Le sentinelle all’entrata non noteranno la
differenza, vedrete.
– Ah, ecco… non credo che sia una buona idea.
– Non volete forse tornare a casa vostra?
– Sì, ma non per questo sono disposta a rischiare
la vita in quello scomparto! Perdiana, è assolutamente fuori
discussione!
* * *
La giubba color fuliggine, la tunica bianca, i borselli e i guanti di
cuoio, le brache, le cinghie, la cintola, gli stivali con la
suola rinforzata.
Raccolsi tutto ciò che trovavo sparso sul pavimento senza
distinzione, senza sapere dove metterlo o come andava indossato, ma
avevo seguito le indicazioni del garzone in corridoio come meglio
potevo sotto la pressione incalzante della paura, che lievitava ogni
volta che i centimetri tra me e quel colossale corpo dormiente si
accorciavano.
Non vedevo l’ora di uscire da lì, così,
quando credetti di aver preso tutto, non esitai a volgermi velocemente
verso l’uscita. Ma il garzone mi fece segno di fermarmi.
Lo guardai interrogativa, e lui mimò un cappuccio sulla sua
testa. Il cappuccio bianco di Altaïr.
“ Dove?” , chiesi con lo sguardo.
M’indicò il corpo sdraiato a terra. –
Forse, l’ha schiacciato! – bisbigliò.
Mi girai a guardare l’uomo nella paglia, e subito scolorii in
volto. Perdiana.
Rimuginai nervosamente, mi dondolai nevroticamente, passai
più volte le dita tra i capelli, il cuore era diventato un
treno a vapore pronto a schiantarsi da un momento all’altro.
Ma dovevo farlo. Non c’era altro modo.
Così, avanzai verso Altaïr, piano e in punta di
piedi, gli occhi erano fissi sul suo corpo e pronti a recepire come
minaccia
anche il più piccolo movimento muscolare.
Mi chinai su di
lui, e cominciai a cercare.
Evitai accuratamente di scendere più in basso del livello
della cintura mentre tastavo e setacciavo nella paglia, invece, tendevo
ad ostinare lo sguardo in un punto morto, sicché,
effettivamente, andavo completamente alla cieca. Ma qualcosa di
liscio e spesso come un filo di lana finì col catturare il
mio sguardo
in basso.
Rimasi completamente senza parole nello scoprire la quantità
di cicatrici che ricoprivano la schiena di Altaïr.
Tutta la superficie della sua pelle, le braccia, il collo,
persino i polpacci erano segnati da linee argentee e frastagliate; non
mi era difficile immaginare il verso della lama
al momento del veloce contatto, perché era ancora
lì, l’aspra ombra del ferro, a ricordargli il
numero esatto delle anime che lo avrebbero voluto
morto. Decisamente, erano tante.
Probabilmente, un totale di quindici anime che il suo corpo si sarebbe
portato per sempre addosso.
E in tutto questo, il suo viso era sereno, beatamente immerso nelle
dolcezze dei suoi sogni di latte e donne di miele. Come poteva quel
pacifico ragazzo essere la stessa persona che da
sveglia incuteva tutto quel viscerale terrore e ossequioso rispetto?
Ma soprattutto, quale orribile passato nascondevano le cicatrici di
quell’uomo?
D’un tratto, qualcosa si allacciò al mio bacino.
Il tempo di abbassare lo sguardo verso il braccio muscoloso che mi
aveva ghermito, che mi ritrovai schiacciata sotto il peso del corpo di
Altaïr, il quale, forse credendomi la sua amante, mi strinse
al suo fianco nudo e senza troppi complimenti infilò la mano
nella scollatura del mio
vestito, lambendomi la pelle morbida in una morsa salda e poderosa che
mi troncò il fiato in due.
Le sue dita iniziarono a toccarmi, a stuzzicarmi in un modo che mai
avrei creduto possibile. Ed erano callose, graffianti, decisamente,
esperte.
Infatti, in pochi secondi la mia mente venne ammantata da una nebbia
allucinogena, la pelle mi si accapponò e le corde giuste
vennero smosse, risvegliando col loro canto sconosciuto un demone
rimasto in letargo dentro di me per quasi diciotto anni.
La situazione cambiò vertiginosamente quando il garzone fece
capolino dalla spalla di Altaïr.
Per fortuna,
la situazione lo divertì a tal punto che non si accorse
più di tanto del mio scombussolamento improvviso, dandomi in
tal modo la possibilità di ricompormi e, subito, iniziare a
supplicarli silenziosamente aiuto. Lui non se lo fece ripetere due
volte.
Lavorammo assieme e, dopo poche spinte da parte di entrambi, riuscimmo
a spostare Altaïr
sul fianco opposto, dove si riaccoccolò con un ronfo
risonante.
Finalmente libera, sgusciai via da quella morsa soffocante e schizzai
di corsa in corridoio, raggiungendo il muro appena in tempo per
aggrapparmi al suo
sostegno e crollare contro di esso senza più fiato,
vittima della sensazione indescrivibile che aveva arroventato il mio
corpo e mandato completamente sottosopra.
Reale o meno, non avrei mai
più dimenticato quell’esperienza.
– Signora! – il garzoncello mi chiamò
con voce sottilissima.
Voltandomi, vidi che sventolava orgogliosamente nella mano un cappuccio
bianco.
* * *
– Siete molto convincente, così, signora. Vedrete,
non se ne accorgerà nessuno. – disse fiducioso il
garzone quando mi vide con gli abiti di Altaïr addosso.
Un po’ scettica, sollevai lo sguardo dal tessuto bianco che
avevo lambito per analizzarne la manifattura. Avevo scoperto con mio
stupore che il materiale era fresco e leggero, fatto per proteggere dal
caldo africano, ma anche fitto e resistente, contro le tempeste di
sabbia.
Quando drizzai lo sguardo, notai che il garzone mi stava studiando
seduto sul tavolo da
lavoro del signor Richard, diviso tra un’estasiata
ammirazione e un lieve sentimento d’invidia che,
però, ricacciò subito indietro con un sorriso
storto.
– Non funzionerà mai. – brontolai,
invece, per l'ennesima volta.
Mi chinai per prendere l’armatura adagiata a terra, dunque me
la issai sul ventre con un mezzo grugnito e tenendolo su con il
ginocchio tentai di allacciarmelo alla cieca dietro la schiena. Il
ragazzino notò la mia difficoltà e non
esitò a balzare giù per aiutarmi con le cinghie,
permettendomi così di abbassare le braccia sui fianchi e
abbandonarmi in un agonizzante sconforto.
– Questi abiti mi vanno troppo larghi. – continuai
a lamentarmi.
– Non più del necessario, signora. – mi
tranquillizzò.
– Finirò col perdere i pantaloni mentre cammino.
– E voi stringete di più la cintura.
Mi sfuggì una risata sconsolata, grattandomi con nervosismo
il sopracciglio sinistro.
Quando, poi, il garzone finì con l’armatura,
sinceratosi che non mi sarebbe caduta sui piedi, andò svelto
a prendere il cappuccio sul tavolo e me lo portò con grande
serietà e concentrazione. Si fermò e capii che
avrebbe voluto tenere quell'oggetto con se ancora un po'.
– Sapete, ogni singolo capo di vestiario degli Assassini
è un prodotto di alta qualità e inestimabile
esperienza sartoriale. – cominciò a spiegare
grave. – Gli antichi sarti di Alamut cuciono e lavorano un
tessuto speciale e bianco come il latte, che viene prodotta nella
bottega di un mastro egizio con due bambini orfani di madre. Dunque, la
merce pregiata viene portata ad Alessandria e lì caricata
sui carri diretti a Masyaf, dove attendono i sarti indaffarati. Sempre
ad Alessandria, poi, un vecchio orbo fa le sue calzature famose in
tutta la Terrasanta per la loro resistenza e robustezza, e da lui vanno
Assassini e Templari, Saraceni e inglesi, sultani e ricchi schiavisti
del mercato nero di Damasco, senza distinzione di prezzo. In fine, un
fabbro persiano forgia le corazze e le spade solo per gli Assassini,
che a loro volta si riforniscono solo da lui, che ha la loro fiducia e
preziosa amicizia.
Detto ciò, il garzone mi porse il cappuccio con espressione
intensa, come se mi stesse offrendo la testa di San Giovanni Battista.
Lo presi e lo infilai con cura sulle spalle, stendendone le pieghe
sotto le dita morbide finché non ebbi memorizzato la sua
forma sul mio corpo; era stranamente confortante.
Alzai lo sguardo pensoso sul garzone e lo scoprii nel pieno di una
delusione emotiva, forse perché sperava di potermi ammirare
a travestimento concluso.
Fino a che punto questo
travestimento la proteggerà?, era la domanda che non aveva
il coraggio di porsi.
Ma non dovevo pensarci, non in quel momento.
Mi tesi verso il tavolo sotto la finestrella, volta nell’atto
di prendere il pugnale a molla di Altaïr, racchiuso nello
scrigno di lamine e cuoio duro, ma il ragazzino fu più
svelto e me lo rubò da sotto il naso.
– No, questo no!
Lo guardai strabuzzata. – Perché?
Lui indugiò. Poi fece un sospiro snervato e
poggiò di nuovo l’arma richiusa nel suo involucro,
carezzandone le placche di ferro con aria
aleatoria.
– Perché voi conoscete gli Assassini, signora?
– ribaltò la domanda.
Allacciai le braccia sotto il seno, scrutandolo con una sensazione di
colpevolezza nello stomaco.
– Anche tu credi che io sia un Templare, ragazzino?
– No, quello no. Ma Kadar vi ha lasciato stare anche dopo
quella vostra bugia, quindi, dovete essere speciale, forse siete
veramente sua sorella. Voglio dire, come fareste a conoscere tutte
queste cose segretissime, sennò?
– Tu mi credi?
– No. Ma il destino agisce in modi strani, signora,
più spesso di quanto dovrebbe, o di quanto noi uomini
potremmo tollerare.
Indugiai sulle sue parole un bel po’. Piegai la testa
indietro, sospirai, tornai diritta.
– Conosco gli Assassini dai racconti di un viaggiatore
veneziano. – ammisi. – Un uomo curioso, intrepido,
perseverante. Lo stimavo molto, e avrei tanto voluto essere come lui.
Si accigliò. – E poi?
– Poi… poi, ho scoperto che era un bugiardo.
– Su cosa ha mentito?
– È difficile spiegarlo. Penso d'aver realizzato
che non avrei mai potuto eguagliarlo. Allora, ho iniziato a odiarlo,
perché lui poteva andare via quando voleva, e io no.
Già, era successo esattamente questo. Ma allora,
perché ero così ossessionata dal suo libro?
La risposta aprì in due la mia coscienza:
Assassini.
– Ma adesso siete qui, signora. E siete libera di fare
ciò che volete.
La voce del bambino mi riportò all'attimo presente. Mi stava
sorridendo. Da quanto tempo non vedevo qualcuno sorridermi in quel modo.
Come se sarebbe andato tutto bene.
– Come ti chiami, ragazzino? – domandai a quel
punto, sul mio volto un debole sorriso.
Lui indugiò, sospettoso. – Voi?
Non si fidava. Bravo.
– Il mio nome è Laura. il tuo?
Lui saltò sul tavolo e iniziò a muovere i piedi
penzoloni nel vuoto, avanti e indietro.
– Nadim. Io mi chiamo Nadim.
* * *
Salutai il garzone all’entrata della scuderia, ma solo dopo
che mi ebbe promesso che sarebbe fuggito da lì prima del
risveglio di Altaïr. Di sicuro non avrebbe gradito
scoprire che qualcuno gli aveva rubato i vestiti, ed era meglio non
essere nei paraggi quando sarebbe accaduto.
Fu un po' difficile lasciare Nadim, perché non potevo sapere
se ci saremmo rivisti di nuovo, e temevo che si sarebbe perso nel
flusso imprevedibile
del delirio. Come uno dei tanti granelli di sabbia.
Ma dovevo andare avanti.
Durante la nottata, Masyaf era stata letteralmente devastata dalla
pioggia e
con l’avvento del giorno era calata una sottile nebbiolina
bianca, cui afosità mi fece tutta un bagno di sudore nei
miei nuovi abiti.
Le case erano affondate nella melma e i tetti riflettevano
l’umidità come se fossero fatti della stessa
consistenza porosa dei funghi, i carri erano affondati nella
salita del mercato e i teloni, appesantiti dai depositi
d’acqua piovana, si riflettevano gravidi nelle pozzanghere
bianchicce e tremule.
Se si aguzzava la vista, si poteva intravedere il castello nascosto
dietro un manto fumoso, rendendo difficile dire quanto fosse lontano in
quel momento.
Allo stesso
modo, sarebbe stato pressoché impossibile trovare
l’esatta
ubicazione delle porte di Masyaf, se solo le voci delle sentinelle non
mi avessero indicato la loro posizione, circa quaranta metri a nord.
Presi un respiro profondo nel petto.
Poi, pizzicai l’orlo del
cappuccio tra l’indice e il pollice e lo tirai su con uno
scatto secco. E da un momento all’altro, l’intero
universo alzò il volume della sua voce.
Non ci misi molto a capire che fosse la struttura interna del
cappuccio, che ,come diceva Nadim, era stato studiato dai sarti
più eccelsi di una certa zona di nome Alamut, ad amplificare
i suoni circostanti, tuttavia, per
quanto quella nuova apertura al mondo mi avesse stimolato i sensi, non
dimenticai ciò che dovevo fare.
Così, cominciai a camminare, spedita e terrorizzata al tempo
stesso.
Alamut, Alamut… dov’è che
l’avevo già sentito?
Giunsi sotto il forte, lì dove le guardie avevano iniziato
già da qualche ora la prima ronda della giornata.
Mi
avvicinai a una sentinella con una casacca giallognola di calda lana
sopra gli abiti bianchi, la sua identità era protetta da
cappuccio e da un fazzoletto bianco tirato sul naso, ma non avanzai
oltre.
Evidentemente, le
sentinelle preferivano nascondere i loro volti ai viaggiatori
indiscreti, che si trattasse del carro con l’asino
proveniente da Damasco, o di un manipolo di pattuglie Crociate troppo
vicine ai loro confini.
E se il signor Frye diceva che Masyaf era stata preservata dalla
guerra, ebbene, adesso che guardavo da vicino con quanta attenzione le
guardie pattugliavano l’esterno, comprendevo bene il
perché.
Mentre rimuginavo e rimandavo il momento in cui mi sarei avvicinata
alla sentinella che mi stava davanti, un altro uomo si
affacciò
dalla passerella in alto e con gran voce cominciò a gridare
di aprire le porte per far passare. E tutti sul forte si mobilitarono
all’istante.
Le catene vennero tirare, il legno cigolò sofferente,
l’entrata si spezzò in mezzo per lasciar passare
uno stallone nero in tenuta da viaggio.
La bestia, quel giorno, riportava un uomo a Masyaf.
Angolo autrice:
Salve a tutti, e ben tornati nel favoloso mondo di “
Delirium”!
*Coriandoli che volano*
Prima di iniziare con le mie solite ciance, ci tenevo a informarvi che
ho inserito un piccolo incipit nel capitolo terzo, che comprende una
specie di “genesi famigliare” dei Chiaravalle
(inventata da me), che dovrebbe chiarire meglio il quadro generale,
sperando di non aver combinato un pastrocchio. In oltre,
c’è un piccolo scorcio in cui Laura, mentre viene
portata da Al Mualim, realizza il periodo storico che sta vivendo:
Kadar dice che i Chiaravalle sono spariti dalla Terrasanta da
trent’anni, e il 1161 è un anno fondamentale per
la famiglia, perché è l’ultima volta
che sono stati avvistati a Gerusalemme… ma vi
sarà più chiaro quando andrete a leggere
l’incipit!
In pratica, 1161 + 30 =1191. Terza Crociata.
Lo so, è seccante il mio continuo inserire dettagli,
però è per questo che mi volete bene! (ma anche
no… xD)
Prometto che la smetto.
Ad ogni modo, tornando a questo capitolo, ho pensato che, essendo stato
l’ultimo così denso ed esteso, questo doveva
rappresentare una sorta di “ spazio in pausa”, una
parentesi prima che la storia prenda finalmente un ritmo spedito.
Per coloro che conoscono la versione precedente, ho inserito il
personaggio del garzone, Nadim, per dare un volto a questo particolare
nome, che si rivelerà tanto prezioso, per la nostra piccola
vagabonda sfortunata… spero che vi piaccia l’idea.
Vorrei star qui a dire quanto mi sia piaciuto descrivere la
nudità di Altaïr, e di quanto mi sia sbellicata
nell’immaginare la reazione di Laura quando lui inizia a
“palparla” nel sonno, ma per questo ci vorrebbe un
altro spazio a parte.
Pertanto, vi lascio con questo grattacapo: chi sarà mai,
l’uomo arrivo a Masyaf ?
Di nuovo, vi ringrazio per la pazienza e l’inestimabile
affetto che mi dimostrate. Vi amo immensamente e, giuro, un giorno vi
ringrazierò uno per uno (tanto per mettervi in imbarazzo
ù.ù). Sempre grata a tutti voi,
la vostra amica
Lusivia.
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Capitolo 5 *** L'inaugurazione ***
Capitolo 5
L’inaugurazione
Il
primo stallone arabo entrò a Masyaf a trotto.
Lo
conduceva un uomo austero e dal cruccio stanco, con una barba di un
crespo color arancio, l’unica cosa che sbucava da sotto il
bianco cappuccio, e coi fianchi asciutti ben corazzati e forniti di
un’amplia gamma di armi piccole e grandi. Il secondo
destriero arrivò subito dopo e portò con
sé un pivello della confraternita, un giovane di poco
più di vent’anni, che esibiva in testa il
copricapo grigio e portava sul corpo una limitata serie di armi e
protezioni.
I
due coi cavalli erano lontani qualche metro, ma la funzione conduttrice
delle condense d’acqua sospese nell’aria e la
struttura recettiva del miracoloso cappuccio mi permisero di ascoltare
quando la sentinella si avvicinò a loro per parlare.
“
Sicurezza e pace, fratello mio”, li accolse.
Il
più anziano sorrise e scese da cavallo lentamente, oserei
dire quasi con fatica. “ E così sia per ognuno di
noi. Fratello mio, quest’oggi la fortuna ci ha
sorriso.”, annunciò.
“
Che vuoi dire?”
Barba
crespa lanciò un’occhiata d’intesa al
sottoposto, allora quello smontò da sella,
raggirò il cavallo e si protese ad acciuffare qualcosa che
se ne stava nascosto, trascinando fuori un uomo coi polsi legati da una
spessa corda. Il giovane gli diede una spintarella, per incitarlo a
procedere, ma l’uomo era ridotto troppo male e quel piccolo
stimolo bastò per mandarlo rovinosamente con le ginocchia a
terra, avvilito, stanco, sconfitto.
“
Lo abbiamo trovato ai nostri confini, non molto lontano dalle rovine
del terremoto.”, spiegò il giovane, asciutto e
stretto tra le spalle. “ Dev’essere un esploratore,
o qualcosa del genere.”
A
quel punto, mi presi un istante per studiare quel residuo umano piegato
su se stesso come un fantoccio.
Aveva
i capelli biondi e i tratti facciali tipicamente occidentali, ma il
naso pronunciato e la carnagione olivastra mi fece pensare a un
abitante dell’Europa del sud, forse, un uomo delle coste
elleniche. O magari era solo la scottatura del deserto, a farlo
sembrare così scuro.
Indossava,
inoltre, abiti comodi e adatti a sopportare le calure asfissianti di
quei posti, segno che non era venuto lì impreparato, ma
aveva intenzione di fermarsi allungo; sommando poi un fisico forte e
ben disciplinato, era ragionevole pensare che fosse effettivamente un
soldato.
La
sentinella squadrò il detenuto con aria infastidita,
commendando, “ È ridotto male.”
“Fu
un degno avversario.”, rispose barba crespa. “
Strano, però, che si siano spinti così oltre sui
nostri confini. Non trovi?”, aggiunse con voce cupa.
I
due si scambiarono un’occhiata eloquente, dunque si
allontanarono per parlare in separata sede, ai margini del campo, ma
prima, barba crespa si assicurò che il suo sottoposto se la
sentisse di sorvegliare tutto solo il prigioniero. Alla fine, il
pivello vide l’uomo allontanarsi, e
dall’espressione che fece mentre, stringendo la corda fino a
farsi divenire le nocche bianche, guardò la nuca del soldato
inginocchiato, ebbene, fiutai della paura.
–
Di cosa è colpevole, quell’uomo? –
gettai quella frase così. Senza riflettere.
A
quel punto, il sottoposto mi notò per la prima volta sulla
parte alta della strada, ma anche strizzando gli occhi difronte a tutta
quell’accecante luce lattiginosa, non riuscì a
distinguere bene i contorni del mio volto. Invece, individuò
quasi per istinto un cappuccio bianco e l’elsa bruna di una
spada, e immediatamente ogni suo dubbio venne fugato dalla cieca
fiducia per quei simboli.
–
State parlando con me, Priore? – domandò,
indicandosi il petto.
Indugiai,
poi mi guardia alle spalle. La strada era deserta, non c’era
nessuno oltre a me.
Tornai
a guardare il ragazzo, ora con una nuova scintilla negli occhi. Pensava
che io fossi un suo superiore. Perché? Non
m’interessava. Non era quella la cosa che volevo sapere
adesso.
–
Il prigioniero. – insistetti snervata. – Che cosa
ha fatto per esser ridotto in questo stato pietoso?
Il
ragazzo si accigliò. – Signore, mi state chiedendo
delle spiegazioni sull’accaduto, o…?
Trasalii,
maledicendomi silenziosamente.
–
Mi chiedevo solo se fosse giustificato il suo arresto. Tutto qui.
– arrabattai una scusa, ma in verità avrei voluto
che il ragazzo sciogliesse lo strano groviglio che mi sentivo nello
stomaco.
Sarebbe
bastata una semplice risposta: sì, è un Templare,
no, non è un Templare.
Prima,
però, che il ragazzo potesse chiarire la sua confusione, il
prigioniero irruppe con una risata roca, uno misto tra il sapore amaro
della rassegnazione e quello ancora appuntito dello scherno, e alzando
il capo mi sorrise sprezzante, ostentando un occhio livido e il bollo
violaceo del pomolo di spada in mezzo alla fronte.
E
continuò a ridere, e a ridere, e ridere, fino a farmi
vergognare di essere lì.
Il
sottoposto, invece, non fu altrettanto paziente. Tirò un
sorrisetto e serrò gli occhi fino a farli divenire piccoli
quanto la punta di una lancia.
–
Giustificato o meno, – commentò snervato
– questo bastardo Templare mi ha rotto il cazzo col suo
continuo sghignazzare folle! – E gli diede un calcio che lo
fece andare in avanti, di faccia nella fanghiglia grigia e
gorgogliante.
In
un istante, tutto il sangue mi salì al cervello.
Agguantai
la tunica del ragazzo con intrepida follia, lo guardai in faccia mentre
l’ombra della paura si manifestava nei suoi occhi, e preparai
un pugno da scaricare contro il suo muso. Purtroppo, una presa
arrivò a fermarmi un istante prima della violenza.
Volsi
lo sguardo oltre la mia spalla sinistra, gli occhi che ardevano del
fuoco di mille diavoli, e fu allora che lo incontrai per la prima volta.
Un
uomo congelato nel suo stesso involucro di carne e tessuti lattei sotto
un mantello di lanetta grigia, un paio di occhi di pece, due labbra
piene, un naso che metteva subito in chiaro la sua forte
personalità, la sua grossa mano che stringeva sul mio polso
col vigore e la severità che si riserverebbe solo a un uomo;
evidentemente, non si era accorto del mio inganno.
–
Non è con le sferze, che si addestra un novizio. Se hai un
problema con un tuo sottoposto, ebbene, non picchiarlo con la tua mano.
Ma puniscilo insegnandogli cos’è il vero rispetto.
Parlò
che era risoluto e fermo nella voce, e quant’era vero che la
sua presenza aveva trascinato l’atmosfera in un soffocante
disagio, oscurato il cielo e fatto volare via perfino le impavide
aquile, d’un tratto, sentii le dita divenirmi di pastafrolla.
Quell’uomo, aveva la mostruosa capacità di
metterti al tuo posto con un semplice sguardo.
–
Malik! – era la voce di barba crespa.
Non
seppi cosa scattò tra i nostri corpi in
quell’istante, ma una qualche forza invisibile ci costrinse a
sciogliere quel nodo di mani e braccia all’istante. Vidi che
il sottoposto che avevo terrorizzato per quei pochi secondi sotto
l’ombra del mio punto si ritrasse col respiro mozzato,
dunque, si affrettò a raccogliere il prigioniero da terra,
appena in tempo per eclissarsi con lui ai margini della scena, evitando
così di farsi vedere dal suo comandante di ritorno.
In
meno di tre falcate impazienti, quello ci ebbe raggiunto con le
braccione spalancate ai lati e un enorme sorriso incastonato nella
barba rubina.
–
Malik! Malik Al-Sayf, figlio di Faheem, Signore di Spade! Che il Cielo
ci protegga, sei tornato, e con tutt’e due le braccia!
Occhi
di pece accolse un po’ impacciato l’abbraccio
vigoroso del confratello, che lo strizzò per bene tra i
bicipiti e poi lasciò che ricadesse con un singulto
strozzato.
–
Jameel. – tentò di abbozzare un sorrisino mentre
lo salutava, e si ritraeva di mezzo passo. – Quale felice
accoglienza, non me l’aspettavo!
Quello
scoppiò in una risata grassoccia. – Quando sei
arrivato, fratello?
–
Proprio oggi. Che fortuna, eh, a tornare a casa con le piogge.
–
Beh. – gli diede una pacca gentile sulla spalla,
sorridendogli – Tu porti il buon umore, Malik! E comunque,
sei arrivato appena in tempo. Si farà festa grande al
castello. Vedrai, come si spaccherà in due il recinto!
Il
tale di nome Malik accennò un sorriso e guardò il
confratello mentre si allontanava verso il sottoposto e il prigioniero.
Un pensiero lo fece sghignazzare sommesso.
–
Non vedo l’ora. – disse troppo tardi, che barba
crespa aveva già reclamato il prigioniero dal sottoposto.
Insieme,
poi, si diressero verso il pendio più alto di Masyaf.
–
Non avreste dovuto interferire!
Ero
scattata con tale foga contro quell’uomo col mantello che
nemmeno mi preoccupai di dosare il timbro della mia femminea voce. E
lui non mancò di accigliarsi con una vaga intuizione negli
occhi, neri e irretenti come una pozza di catrame.
–
Prego?
–
Avete capito bene, signore! Perché vi siete ficcato in
mezzo? Non ne avevate il diritto!
–
Un momento. Mi stai riprendendo? – Fece un verso strano, che
stava a metà tra il pensieroso e il seccato. Poi, mi
scrutò per pochi secondi. – Sai, il tuo volto mi
è nuovo tra i ranghi dei Priori. –
osservò allora – E sei anche terribilmente
giovane, non c’è che dire. Quanti anni hai? Venti?
Ventuno? E già così tanto potere e tante
responsabilità nelle tue mani. Credevi davvero di avere il
diritto di schiaffeggiare così quel novizio, non
è così?
Arrossi
per la vergogna. – No, non è così!
–
E allora? Perché volevi punire quel ragazzo?
Lo
guardai con la bocca stretta e un misto d’indecisione e
frustrazione. Perché aveva osato picchiare uno della mia
gente. Un Templare. Proprio sotto quegli stessi occhi che avevano visto
l’amore e la devozione nei gesti, nelle parole, nei respiri
di Erica.
E
per quanto io volessi negarlo, rimanevo pur sempre una Chiaravalle.
–
Quel ragazzo ha calciato quel pover’uomo in catene!
– lo accusai con voce grave.
Lui
ci rimase di stucco. – È questo, allora? Volevi
far giustizia per quel Templare?
–
È stato crudele!
–
È la guerra. – ribatté aspro.
– E la guerra è sempre crudele.
–
Ma le guerre si combattono contro gli eserciti in campi di battaglia,
non infierendo su un uomo che è già in
catene! E se tu fossi stato un vero uomo, avresti protetto
quel prigioniero, anche se era un Templare, perché
è questo ciò che deve fare chi ha il potere
d’agire! Proteggere chi non può più
farlo!
Finalmente,
la prosaica superficie dei suoi occhi di pece venne squarciata da un
sentimento dalla parvenza quasi umana. Ma non capii la sua natura,
almeno, finché quel tale dagli occhi neri non fece un passo
in avanti.
–
Mi stai dando del codardo, ragazzino?
Un
sussulto mi sconquassò tutta dentro. – N- non
è quello che intendevo. – balbettai.
Da
un momento all’altro, quello mi afferrò per
entrambe le spalle. Ma poi scoprii che non voleva picchiarmi, e che il
suo broncio scuro si era straordinariamente trasformato in un sorriso
di trentadue perle perfette.
–
Hai le palle, fratello.
Lo
fissai. Mi accorsi solo allora, lo spavento mi aveva gelato le
dita.
–
C-cosa?
Lui
scoppiò a ridere. – È da tempo che
qualcuno non mi sfidava in questo modo, accidenti! Sei piccolo, ma hai
cuore, ragazzo mio!
–
N… non sei arrabbiato?
–
No. – E mi lasciò andare, senza abbandonare il
sorriso. – Ma devo comunque darti una lezione, e lo
farò proprio oggi, all’Inaugurazione.
Lo
seguii con lo sguardo mentre mi superava con un movimento fluido,
posizionandosi all’imbocco del pendio. –
Inaugurazione?
–
Niente ma, ragazzino! – mi zittì puntandomi contro
l’indice. – Dici che sono un codardo? Ebbene, io
non credo che il simbolo che porti con tanto orgoglio sulla testa
è meritato. – si riferì al cappuccio.
– Dimostrami che Al Mualim non si è sbagliato a
nominarti Priore, sebbene la tua giovane età, e battimi nel
recinto. Eh! Non sarà facile!
–
Io non ti affronterò, ho da fare... ehi! Dove vai? Non
posso, mi hai capito?
Ma
lui era già bello che andato. Finché non lo
rividi torcersi sul busto e guardare in dietro dalla cima della strada.
–
Quasi dimenticavo! Devi dirmi il tuo nome, ragazzo!
Sul
mio volto scese il silenzio. Perdiana. Un nome? Voleva un nome? E quale
accidenti avrei dovuto dargli?
–
Beh? – incalzò a gran voce – Non mi
dirai che te lo sei dimenticato?
–
N-Nadim. – dichiarai, incerta – Io sono…
Nadim!
Sì,
poteva andar bene. In oltre, ero sicura che il piccolo Nadim mi avrebbe
perdonato se avessi rubato la sua identità per un
po’. In fondo, non avrebbe potuto lamentarsi con nessuno, no?
Mi
parve di vederlo sorridere. – Bene, Nadim! Io sono Malik Al-
Sayf, figlio di Faheem, Maestro di Spade, e quest’oggi
sarò il tuo avversario nei giochi
d’Inaugurazione!
Detto
questo, quel tale, quel Malik, si voltò e con passo sicuro
sparì lungo la via per il castello, lasciandomi a guardare
il retro svolazzante del suo mantello finché la sua sagoma
non divenne altro che un’ombra tra altre mille.
Quella
mattina, capii che c’era qualcosa di molto strano in
quell’uomo che avevo appena conosciuto, qualcosa che poi
m’indusse a fare la sciocchezza di quel giorno, ma non avrei
scoperto il motivo per cui il volto di Malik Al-Sayf mi era tanto
famigliare sino al pomeriggio.
*
*
*
Iniziavo
a pensare che ci fosse una fattura sopra quel villaggio.
Un
sortilegio che annebbiasse la mia coscienza a tal punto da farmi
perdere di vista qualsiasi residuo di buonsenso, e indurmi a fare cose
stupide. Già, doveva essere quello, altrimenti,
perché adesso starei salendo al castello sulla montagna,
tesa e confusa, mentre la schiena mi sudava come un peccatore in
Chiesa?
Allora,
giustificai così la mia insensata attrazione verso quelle
mura di bianco gesso splendente, ma la verità era che nel
mio sangue scorreva il sangue dei Chiaravalle, e nolente o dolente,
sarei sempre tornata al luogo in cui tutto era iniziato. Ma andiamo per
gradi.
Giunsi
alle immense porte del castello che non avevo la benché
minima idea di ciò che avrei trovato.
In
quel momento, sentivo solo un gran trambusto di suoni, e colori, e
odori, da quello pungente del sudore a quello acre delle spade che
cozzavano e stridevano con ferocia. Quando, poi, entrai nel castello,
capii che ciò che avevo visto la mattina del mio risveglio
era solo un assaggio di ciò che era davvero la vita
là dentro.
L’intero
piazzale interno era stato riempito da un numero sproporzionato di
adepti e gruppi in addestramento, alcuni correvano in stormi compatti
sotto le ombre merlate delle mura di cinta, altri si erano raccolti per
partecipare a una lezione di tiro con l’arco presieduto da un
omaccione con la pelata e le spalle ad armadio.
Chi
combatteva a corpo a corpo, chi sfidava il suo vicino a un breve
scambio di fendenti, chi si refrigerava sotto
l’ombra delle scalinate bevendo da otri gonfie
d’acqua scintillante: sembrava proprio che tutti gli
incappucciati fossero lì quel giorno.
Deglutii
un sorso a vuoto quando vidi un tale bagnarsi la fronte con
dell’acqua dalla ghirba, trassi una boccata d’aria
per cercare di rinfrescarmi la gola e lentamente scoperchiai di poco i
bordi soffocanti del cappuccio. All’improvviso,
ciò che sembrava esser iniziata come una fredda giornata
autunnale si era tramutata in un mezzogiorno di fuoco.
Ed
ecco che accadde.
Un
fischio sottile che sfrecciava dentro il mio raggio d’azione.
Il
mio corpo si mosse in una maniera che non pensavo possibile,
l’istinto prese il sopravvento nelle vene e
m’indusse a spostarmi immediatamente a sinistra. Qualcosa si
conficcò nella polvere dinanzi a me. La nube si
diramò, e vidi l’elsa di ferro di un pugnale da
lancio. Un solo istante dopo, e mi sarei ritrovata la sua lama
conficcata nella spalla.
–
Ahi, ahi, ahi! – qualcuno cominciò a schiamazzare
– Per poco, e ti avrei beccato!
Drizzai
gli occhi dal pugnale, avvampata dalla testa ai piedi mentre strillavo
– Brutto bastardo! Esci fuori, che ti gonfio di botte!
Poi,
un fischio attirò la mia attenzione verso la scala che
portava alle passerelle sovrastanti.
Sospeso
furbetto come un gatto grigio, il lanciatore dal volto coperto mi
scoccò un gran sorriso sussiegoso e con falsa riverenza mi
fece un cenno con la mano, scatenando in me una gran collera.
–
Che ti è saltato in mente? Stronzo! –
gridai.
–
Oh! Non fare storie! Non è colpa mia se sei capitato nella
mia strada, stupido di un … – Sbiancò
di botto. – Porca puttana, tu sei un Priore! –
sibilò e con una torsione impressionante riuscì a
issarsi sulla sporgenza più vicina, sparendo sulle mura come
un acrobata.
Avrei
potuto seguirlo fin la su, e gonfiarlo di botte. Ma qualcosa mi
afferrò prima che potessi iniziare ad arrampicarmi.
Una
piroetta su me stessa, e mi ritrovai inchiodata sotto lo sguardo
accusatore di Kadar, senza il cappuccio tirato in testa, quel giorno.
–
Che diavolo significa? Perché sei qui, Laura? –
sbraitò sottovoce, gli occhi erano sgranati e brillavano
come il fuoco.
Forse,
il mio spettacolino con l’acrobata aveva attirato
l’attenzione più del previsto.
–
Io… io sono venuta a vedere il recinto! –
balbettai.
–
Che?
–
Ho incontrato uno dei tuoi, c’era un Templare, poi mi ha
detto di venire al recinto…
–
Che? – mi strattonò appena per le spalle
– Ti sei messa a parlare con qualcuno? Dico, hai perso la
testa! E dove hai preso questi vestiti? Laura! Non li avrai
mica… rubati?
Lo
fissai con gli occhi di una civetta spaventata.
–
Laura!
–
Non se n’è nemmeno accorto. – farfugliai.
–
Laura! – pronunciò di nuovo il mio nome, ma con
tono più grave – Laura, a chi li hai rubati,
questi abiti? Era un Priore, accidenti!
Il
mio sguardo si animò appena. – Altaïr
è un Priore?
Kadar
si strinse le labbra talmente forte che gli divennero quasi livide.
Aveva detto troppo.
–
Devi andartene. Adesso, prima che ti vedano! –
ordinò e con uno scatto mi ebbe girata di faccia verso
l’entrata.
Non
opposi resistenza mentre Kadar mi portava via quasi di peso, sentivo
che le mani gli tremavano per l’agitazione sulle mie scapole.
Evidentemente, stava per succedere qualcosa.
Ma
non avrei mai creduto di vederlo accadere proprio davanti a me.
Un
uomo arrivò dal pendio quasi in corsa, si
piantonò davanti a noi e con la mano artigliata mi
agguantò per il bavaro della tunica. Neanche fossi targata
di rosso scarlatto.
Rimasi
esterrefatta quando riconobbi il volto aquilino di Altaïr, ora
perfettamente distinguibile nelle chiare indorature del
giorno, e quasi non mi curai dei suoi abiti, così poco
raffinati per uno come lui, una camicia di lino grezzo e dei pantaloni
marroni sdruciti. Notai quasi subito, però, forse per un
ancestrale istinto a cogliere i pericoli, gli oggetti che avevo
lasciato nella scuderia: una spada lunga, troppo pesante da portarmi
dietro nella fuga, e la lama celata sul bancone del laboratorio di
mastro Richard.
–
Tu, donna. Vieni con me. Adesso!
–
Altaïr, ti prego, posso spiegare! – Kadar
provò pietosamente a placare la sua nube funesta, ma senza
successo.
Il
più grande lo spinse via con una bracciata e lo
mandò diritto contro lo spigolo della volta, io provai a
oppormi ma l’impossibilità di strillare a
squarciagola difronte a tutti mi privò dello slancio
goliardico necessario per resistergli, sicché fu una
bazzecola per i muscoli di Altaïr trascinarmi per tutto il
campo sotto gli occhi stralunati di alcuni spettatori.
Mentre
venivo trascinata contro la mia volontà per i cunicoli e gli
svincoli della roccaforte buia, riuscii a emettere dalla gola solo
qualche debole grugnito, una o due maledizioni sputate tra i denti, un
pallido tentativo di svincolamento e, finalmente, la drammatica
rassegnazione.
Mi
avrebbe picchiata a morte per avergli rubato i vestiti, oppure, si
sarebbe divertito a farmela pagare per quella ferita ancora viva al
lato del suo labbro.
Fui
condotta in un cortile con archi e pavimentazione in muratura bianca,
al centro c’era un albero solitario piantato in
un’aiuola fiorita e, immediatamente difronte al punto da cui
eravamo entrati, si erigeva il tetto di ciò che mi parve, di
primo acchito, una piccola cappella.
Capii
che si trattava di un’armeria solo quando venni mandata
dentro a spintoni, e scagliata contro una rastrelliera di spade rivolte
verso il basso, per mia fortuna.
–
Spogliati! Muoviti! – ordinò e con un gesto mi
strappò via il cappuccio dalla testa.
Istintivamente,
mi coprii i capelli con entrambe le mani. – Tu,
brutto… bruto!
Altaïr
m’afferrò per il bavaro del cappuccio, increspando
il taglio alla bocca mentre ribadiva – Non te lo
ripeterò più, donna! Togliti da dosso i miei
vestiti, prima che decida di fartela pagare per il tuo scherzetto a
Damasco!
–
No! Non ti permetterò di molestarmi come questa mattina alle
stalle!
–
Cosa… ma che vai blaterando, femmina?
–
Lo sai benissimo! Hai profanato le mie… il mio, tu
hai… – Le guance s’incendiarono, il
cuore fece un tonfo. – Tu mi ha palpeggiata, razza di
depravato schifoso! – gridai furiosa.
La
mia accusa lo fece arrossire dalla rabbia. – Adesso basta!
– e iniziò a provare a spogliarmi con la
forza.
Ovviamente,
non me ne stetti lì indifesa, e subito iniziai a dimenarmi,
a scivolare e a sgusciare tra le sue braccia che tentavano di bloccarmi
in tutti i modi, finché, esasperato, il ragazzo non fu
costretto a rinunciare con un grugnito. Appena in tempo,
perché qualche altro secondo e mi sarei abbandonata
sconfitta contro la rastrelliera. Fu allora che mi resi conto di averlo
colpito ripetutamente sullo zigomo mentre mi dimenavo, e adesso quel
lato del suo viso era rosso come un pomodoro.
–
Tu sei… un’arpia isterica ! –
sbroccò ansimante. Quand’è che il
sudore gli aveva imperlato la fronte e i capelli biondi, rendendolo
così… strano?
–
Prova a toccarmi di nuovo. – mormorai senza fiato –
E io strillerò così forte che mi sentiranno
tutti.
Non
seppi se fu per il mio aspetto scompigliato, o se per la voce
arrocchiata dalla lotta, fatto sta che Altaïr
andò appena su di giri, improvvisamente intrigato dalla sua
nuova posizione di potere.
Avvertii
il suo pollice calloso carezzare il tessuto della mia manica destra.
Gli occhi gli vibravano, inquietanti.
–
E cosa vorresti fare, piccolo uccellino? – sibilò
malizioso. – Chiedere ai falchi di salvarti dagli artigli di
un’aquila?
Deglutii
un boccone a vuoto, all’improvviso, l’idea di
strillare non mi pareva più così buona.
–
Tu fai tanto il gradasso, perché sei un Priore.
Perché… sei un Assassino, Altaïr. Non
è così?
Fu
in quel preciso momento, che vidi l’idea malsana nei suoi
occhi eclissarsi in un soffio freddo. Adesso, non poteva far altro che
lasciare andare la presa su di me, e indietreggiare con una nuova, cupa
consapevolezza nello sguardo. E me lo chiese.
–
Sei una Templare?
Sì,
no. Sono una Chiaravalle. E sapevo che lui era un Assassino,
perché mi trovavo ad Alamut. La mitica
roccaforte siriana narrata nei sogni di Marco Polo.
–
No, no non sono una Templare. – fu la mia risposta
definitiva.
Mi
fissò per un tempo impreciso. Sembrava spaventato. Come se
non riuscisse a capire che cosa avesse esattamente davanti.
–
Te l’ha detto Kadar? – Fece un passo avanti.
– È stato lui, a dirti queste cose?
Indugiai.
Troppo. E alla fine, Altaïr si persuase che fosse
così.
–
Va bene. – Mi agguantò con forza sotto il braccio.
– Forza! Andiamo a cercare quel tuo amante disgraziato!
Vedrai, come lo gonfierò di botte!
–
Kadar non è il mio amante! Lascialo stare!
Provai a svincolarmi dimenandomi come un’anguilla sulla
battigia, ma era tutto inutile. Quel bastardo aveva una bella presa..
– Non è stato lui a dirmi queste cose, ti prego,
non fargli del male a causa mia!
Finalmente,
Altaïr mi permise di guardarlo in volto. – E allora,
chi diavolo è stato?
–
Messer Marco Polo! Lui mi ha detto di voi, lui… mi ha
raccontato degli Assassini di Alamut!
–
E chi diavolo sarebbe, questo Messer Polo?
Avvertivo
che il mio cuore stava soffrendo nel petto, andava a più di
cento battiti a minuto, tantissimi. – … Il
Milione…è... è questo!
–
Cosa?
Drizzai
gli occhi su di lui, vacui, ma finalmente coscienti. – Nulla
è reale… ma tutto è lecito. Questo non
è un incubo qualunque. Questo… è il
Milione!
Per
un istante, pensai davvero che il delirio si sarebbe interrotto
lì. Come quando, arrivato alla massima estensione temporale,
l’astrale tessuto onirico viene squarciato dal freddo raggio
d’acciaio, e in un attimo siamo di nuovo nel mondo
reale.
Ma
quello non era un sogno. Era un’allucinazione. E le
allucinazioni, sono realtà a occhi aperti.
–
Tu… – Altaïr faticò a celare
lo sconcerto – che cosa accidenti sei?
–
Laura è mia sorella, Altaïr. E ti pregherei,
adesso, di toglierle le mani di dosso.
*
*
*
Non
appena Kadar ebbe pronunciato quelle fatidiche parole, il volto di
Altaïr divenne pallido come il cerone, la fronte si
rilassò di botto e anche le venature tra il marrone e
l’ocra dei suoi occhi si ridussero a una quiete surreale.
La
sagoma di Kadar era luminosa, avvolta dai chiarori
dell’entrata, ma se ci si soffermava sul suo volto scoperto,
si poteva leggere un dipinto di chiaroscuri e pensieri torbidi in
quegli occhi celestiali, tonde sfere luminose incastonate nelle
palpebre bronzee.
Kadar
era molto stanco. Chissà perché, ma me ne resi
conto solo a quel punto.
–
Lei è mia sorella, Altaïr. –
ripeté, spento. – È figlia di Faheem.
Di mio padre. – Mi guardò. –
Nostro.
Il
borioso Assassino non reagì subito. Dapprima, si
staccò da me, lentamente, poi, liberò la tensione
con un denso respiro, infine, abbandonò le braccia lungo i
fianchi che ancora stringeva nella mano il cappuccio strappatomi via
dalla testa.
–
Che diavolo stai dicendo? Lei… tua sorella? –
gettò fuori quelle parole come se fossero una blasfemia.
–
Kadar, scusami, non avrei dovuto…
Ma
lui mi mise subito a tacere. – Laura, ti prego, va’
fuori. – me lo chiese con gentilezza, ma era chiaro che non
mi avrebbe perdonato più di quando fosse stato
già fatto, se avessi osato contraddirlo. Per questo, obbedii
da brava bambina silenziosa.
Ma
prima, mi ripresi il cappuccio dalla mano di Altaïr,
l’ultimo dispetto prima di scappare di corsa fuori e
lasciarmi l’armeria alle spalle.
Attesi
nel cortile in muratura per chissà quanto tempo.
Avevo
anche provato a origliare i loro discorsi standomene
disinteressatamente di spalle al muro accanto alla porta, ma Kadar era
uscito e con voce piatta mi aveva chiesto di aspettare sotto
l’albero. Il punto più lontano per orecchie troppo
curiose. Sbruffando, mi ero quindi allontanata ciondolando come una
bambina capricciosa, ma troppo colpevole per obbiettare
alcunché.
Non
avevo proprio il fegato di contraddirlo.
Probabilmente,
Kadar non aveva neanche dormito quella notte, tanto erano stati i pensieri
che gli frullarono in testa.
Dopo
venti minuti di annoiata attesa sprecata su e giù per la
pavimentazione assolata, decisi di andarmi a sedere sotto le fronde
dell’albero fresco, ma ero talmente stanca che, alla fine,
finii col sdraiarmi e, sotto le sferze calde del vento, mi addormentai.
Sognai,
addirittura, e nell’universo onirico all’interno
della mia testa ero di nuovo una bambina. Correvo per un campo di
girasoli, il mio corpo era leggerissimo, gli abiti impalmabili sotto le
sferze amorevoli del vento, i capelli corti si gonfiavano ogni volta riaffondavo tra gli steli del campo dopo un saltello felice. Rotolai
tra l’erba, ridendo, e istintivamente guardai a destra,
sapendo di trovare un bambino dai grandi occhi di zaffiro. In cuor mio,
sapevo che era Kadar a otto anni.
Poi,
qualcosa nell’aria cambiò. Girò il
vento, il cielo s’illividì, lentamente, i girasoli
si piegarono su se stessi.
Davanti
a noi, adesso, c’era un uomo. Ed era affascinante, quel tipo
di bellezza artefatto dai ghirigori infiocchettati dei sogni,
ciononostante, qualcosa in lui faceva anche molta paura. Erano gli
occhi. Gialli, come quelli del demonio.
L’uomo
mi chiamò a se con un gesto della mano, sembrava volermi
afferrare con la sola forza del pensiero. Per qualche ragione, io mi
alzai, e gli andai in contro. Allora, Kadar mi fermò, e
improvvisamente mi resi conto che non eravamo più dei
bambini, e che i suoi occhi, belli e splendenti, erano divenute due
fosse luttuose.
“
Devi andartene di qui. O ti ucciderà. ” disse e la
sua voce era straformata, una mescolanza indistinta di esseri
ancestrali.
Chi?
Chi mi ucciderà?
Kadar
aprì la bocca per un’ultima profezia. E dai suoi
denti uscì uno sciame di vespe nere.
Mi
risvegliai sotto le frasche parlanti nel cortile, sdraiata col volto
all’aria e il cappuccio di Altaïr adagiato sulla
pancia. La porta dell’armeria era socchiusa, ma riuscivo a
vedere il braccio di Kadar, o forse, era di Altaïr.
Ci
volle un po’ affinché il mio laccio mentale
scattasse a riadattarsi sulle rigide forme del mondo reale, ancor
più tempo a ravvedermi, e alla fine tutto ciò che
ottenni fu solo un’enorme confusione.
Ricorda,
Laura: terzo giorno a Masyaf, anno 1191. Terza Crociata. Terrasanta.
Era
un lunedì, forse… sì, era
lunedì.
Ancora
intontita dal sogno, feci leva sulle ginocchia per alzarmi da terra,
quando un suono fragoroso, simile alla risacca che s’infrange
sulle rocce, piombò dal cielo nel cortile, rimbombando tra
le sue mura.
Impiegai
meno di mezzo secondo per riconoscere il clangore di una folla in
delirio.
Ma
da dove veniva?
Istintivamente,
il mio sguardo si vibrò oltre la mia testa. Il tempo di
prendere quella decisione, che già mi stavo arrampicando su
per l’albero, arrivando, grazie all'azione improvvisa
dell’adrenalina, tra i rami più alti in meno di
trenta secondi.
Considerando
che non mi arrampicavo su un albero da sei anni, era un nuovo record
personale.
Da
lassù, provai a sbirciare oltre le mura del cortile, ma i cornicioni di pietra, gli innalzamenti della struttura e
la grossa torre nord ostruivano completamente la mia vista per almeno
tre chilometri.
All’improvviso,
il ramo sotto di me si piegò in un crepitio agghiacciante.
Riuscii
a malapena a trattenere un urletto dal petto, mi slanciai
disperatamente in avanti ed ecco che fluttuai nel vuoto per gli otto
secondi più lunghi di tutta la mia vita.
Le
ossa emisero un singulto strozzato quando atterrai sul tetto
dell’armeria adiacente, rotolando via da lì per
qualche metro, finché, finalmente, il mio corpo si
fermò in un gran polverone. Il dolore fu
più acuto del previsto, ciononostante non mi commiserai
allungo nel mio stato agonizzante, e con un rantolio riuscii a tirarmi
in piedi.
Sentivo
che il volto era graffiato, i palmi scorticati, il cappuccio stretto in mano macchiato da un rivolo di sangue fuoriuscito da una ferita superficiale sulle nocche.
Poi,
mi accorsi che da lì sopra riuscivo a vedere lo scorcio in
lontananza di una gran folla nella piazzola all’entrata
della roccaforte, ma nulla più che potesse chiarirmi le
idee. Dovevo avvicinarmi di più.
E
giacché ero lassù, magari avrei potuto sfruttare
la nuova via per velocizzare i tempi.
Così,
mi concentrai sulle sensazioni stimolanti in circolo nel mio corpo: il
sangue che pompava adrenalina, il prurito alle dita, il cuore che
frullava con la potenza di un colibrì. Ecco, proprio così.
Sorrisi,
dunque, infilai il cappuccio sopra la testa. Mi piegai in posizione di
scatto.
Non
dovevo far passare quelle sensazioni.
Ed
eccolo lì, quel recondito istinto primordiale a riposo nel
mio petto, che arrivò ad avvolgermi nel vento della sua
follia.
Un
colpo d’ali. E schizzai in corsa.
Per
i primi metri ci andai piano, di tanto in tanto accennavo a un saltello
per poi atterrare sulla cima del muretto in posizione raccolta, ma le
ali sotto la mia pelle fremevano, volevano uscire a prender
più aria, e così accelerai. Decisi che non avrei
atteso per tentare qualche tirata più ardita.
Così,
percorsi le impalcature e le ossature in pietra tra un’area e
l’altra del castello quasi in volo, più di una
volta rischiai di scivolare giù e una volta accadde anche,
ma il fato volle facilitarmi il compito e mise la volta a crociera di
un porticato. E a mano a mano che lo sciamare di suoni e rumori
aumentava, anche i miei battiti cardiaci acceleravano sensibilmente,
diventando un tutt’uno col fremito impercettibile delle mie
ali al vento.
Quand’era
stato, che avevo smesso di correre in quel modo, a rischiare la pelle,
a tentare di spiccare il volo?
Per
mia fortuna, gli ardori della folla raccolta nel piazzale interno
esplosero davanti a me appena in tempo per impedire alla mia frenesia
crescente di procurarmi un qualche serio danno. Finalmente, potei
fermarmi a riprendere fiato sul tetto.
L’intera
area era stata ghermita da un numero spropositato di guerrieri e alcune
sentinelle, accorse lì per assistere
all’inaugurazione dell’arena al centro del
piazzale, molti erano sul bastione difronte, altri, invece, accalcati
attorno alla recinzione allestita.
Sapevo
che nessuno mi avrebbe notata lì sopra, perché
erano troppo presi dall’isteria collettiva, e
l’ombra della torre mi nascondeva bene sul
tetto.
Così,
potei assistere tranquillamente all’entrata in scena di Al
Mualim, tutto avvolto nei suoi abiti raffinati, che si
affacciò dal suo balcone a presiedere come giudice
onnisciente sulla baraonda variopinta dei cappucci.
Il
Veglio fece un breve discorso preparatorio, che però non
sentii a causa del riecheggio della sua voce strozzata, ma capii
quand’ebbe finito perché ci furono grandi applausi
e poi l’entrata al recinto di due guerrieri in
bianco.
Questi
si diedero battaglia con vigore e ammirevole determinazione, i colpi
che si scambiarono erano di fuoco e producevano scintille violacee che
erano visibili fino al mio punto. Poi, uno dei due cedette alla
controffensiva dell’altro, e accasciandosi a terra
alzò il braccio all’aria. Al Mualim
dichiarò a gran voce il combattimento concluso.
A
quel punto, una nuova serie di combattenti si preparò per il
recinto.
–
Ah, beh! Non male, la vista da qui! Ottima scelta, ragazzina.
Riconobbi
la voce di Altaïr ancor prima di guardare alle mie spalle, e
allora lo vidi che a braccia conserte mi scrutava senza abbandonare il
sorrisetto sornione delle sue belle labbra.
–
Come ci sei arrivato qua sopra? – domandai, sorpresa.
Stiracchiò
lo sfregio alla bocca in un sorrisetto. – Io? Ma
guarda. E pensare che credevo fosse strana una fanciullina in abiti da
uomo, e invece, addirittura si arrampica come un ladruncolo da porto!
Arrossii
tutta sotto il cappuccio. – Io non sono una fanciullina. Ho
diciotto anni, accidenti.
–
Ad ogni modo. – E mi guardò come se aspettasse una
qualche spiegazione.
Non
so bene perché lo notai solo in quel momento, ma tutto
d’un tratto il colore insolito dei suoi occhi mi disturbava
molto. Gialli. Come quelli di un demone.
–
Sono venuta a vedere cos’era tutto questo baccano.
– risposi velocemente, forse per levarmi dalla testa quel
ridicolo pensiero che, però, si era infilato molto in
profondità nella coscienza.
–
Un’amante della violenza?
Lo
scrutai, offesa. Poi, guardai alle sue spalle, e chiesi –
Dov’è Kadar?
Anche
lui si guardò indietro. – Ah. –
sospirò – Non lo so. Suppongo ti stia cercando.
–
Capisco. – e tornai a guardare il combattimento nel recinto.
Quand’è che erano divenuti tre i combattenti?
Avevo mica perso un round?
–
Mh.
Spiai
sopra la mia spalla destra. – Mh, cosa?
Altaïr
si avvicinò di due passi, poi stese il braccio in avanti e
mi sfilò il cappuccio dalla testa. I capelli ricaddero
fluidamente lungo la schiena, riversando dolci riverberi
castano-rossicci, lo stesso colore dei miei occhi.
Dall’espressione che gli colorì il volto, capii
che Altaïr si fosse appena ricreduto sulla mia inopinabile
femminilità.
–
Beh, non c’è dubbio che tu sia una donna.
– commentò mentre s’infilava il
cappuccio in testa, e tornava a essere il cupo mietitore senza volto
che era sempre stato. Forse mi sbagliavo, ma ero pronta a dire che non
fosse del tutto a suo agio coi capelli di grano sparsi al vento, e che
le ombre fossero più confortevoli per lui. – E
pure una bella donna, a essere onesti. Ma sai , “ figlia di
Faheem ”… – Si accovacciò al
mio fianco, sorridendo. – Io sono un tipo un po’
seccante. E per quanto il tuo bel faccino, quell’aria da
straniera… riesca a irretire il buon senso di un qualsiasi
essere con un pene, ebbene, io sono un po’ più
aspro, lì sotto. E non m’incanti. Kadar, forse,
può anche essersi bevuto l’idiozia che gli hai
propinato, che sei sua “sorella”… ma io
e te sappiamo che è una bugia. Non è vero?
Per
un istante infinito, il mio petto rimbombò a tempo di
tamburi di guerra.
Che
cosa gli aveva raccontato, Kadar, con esattezza? Che cosa si erano
detti in quella maledetta armeria?
Possibile…
che lui, proprio lui, mi avesse tradito? Che avesse rivelato il mio
scomodo segreto, che mi avesse venduto a quel terribile uomo dagli
occhi di gatto come la figlia dell’odiatissima prosapia dei
Chiaravalle?
Non
trovai la risposta alle mie domande quel giorno, giacché
l’arrivo di due combattenti all’arena
attirò l’attenzione dell’Aquila come un
paio di furetti in mezzo alla neve.
–
Oh! – esclamò sardonico – Guarda un
po’, chi sta per entrare nel recinto adesso!
Nemmeno
il tempo di abbassare lo sguardo tra la folla, che la sagoma di Kadar
spiccò luminosa tra altre centinaia. E proprio al suo
fianco, c’era qualcuno che avevo già avuto il
piacere di conoscere, giù alle mura.
Quel
tale impiccione, quel Malik Al-Sayf, esibiva orgogliosamente il
cappuccio bianco degli Assassini mentre conduceva Kadar al recinto, per
combattere contro due temibili avversari, già in posizione
nell’arena: uno mingherlino con l’aria di una spada
lesta, l’altro, invece, un toro alto due metri con una
vecchia cicatrice di battaglia sulla pelata e l’espressione
eccitata di un boia poco prima dell’esecuzione.
–
Che cosa sta facendo Kadar? – Senza accorgermene, ero
già saltata in piedi.
–
È un’usanza del recinto. –
spiegò tranquillo Altaïr. – I membri
più valorosi dell’Ordine inaugurano il campo col
sangue, si fa per dire, per prepararlo ai Professi. I Professi non sono
parte effettiva dell’Ordine, perché non hanno
ancora giurato fedeltà alla Causa, ma hanno dato il loro
promissorio e quest’oggi, finalmente, dopo due anni di
preparazione, sono pronti per il giuramento assertorio. Sai, ci sono
alcuni su cui non punterei nemmeno una moneta, tipo quello
là in fondo.
–
Perdiana, chi se ne frega dei tuoi Professi! Quello là nel
recinto non è un uomo, è un toro! Kadar si
farà ammazzare!
–
Tranquilla, donna. Tuo
fratello si
assicurerà che non si faccia male. Come sempre.
Quando
poggiai di nuovo i miei occhi su di lui, erano divenuti lucenti come
una pietra nera.
–
Fratello…?
Il
suo volto s’accese di una luce sinistra. – Oh-oh.
Non lo sapevi?
Poi,
Altaïr disse qualcos’altro, ma la mia mente era
tornata già ai due ragazzi, ora così
simili e vicini, che mi rimproverai per non essermene accorta prima. Il
profilo deciso del naso, il taglio degli occhi, il modo che entrambi
avevano di alzare le sopracciglia.
“
Figli di Faheem”.
Malik
e Kadar erano fratelli.
Angolo
autrice:
Ed
eccomi di ritorno, con un nuovo aggiornamento! Yeeep!!! Questa volta
sono riuscita a pubblicare in una tempistica decente! :D
Ad
ogni modo. Tornando seri. * Si fa per dire *
Laura
ha finalmente capito che si trova tra gli Assassini, ma, soprattutto,
che Malik e Kadar sono fratelli! Però, lei è
convinta che ciò che sta vivendo è solo la
rielaborazione di ciò che ha letto sette anni fa nel libro
di Marco Polo. Mh.
C’è
ancora molto lavoro da fare con questa nostra miscredente.
Chissà come la prenderà, quando
scoprirà che non erano tutte fantasticherie di un mercante
veneziano, i racconti attorno al Veglio e i suoi seguaci
bianchi…
Nel
prossimo capitolo arriverà un nuovo personaggio, che alcuni
di voi forse conosceranno già, e che ha già fatto
la sua piccola comparsata.
E
l’uomo con gli occhi gialli del sogno?
Beh,
diciamo solo che nulla è come sembra… ma che
tutto è lecito! Vi avevo promesso delle migliorie in questa
storia, no? Ebbene, ho in mente un bel progetto… ma, ok, sto
spoilerando. Basta, dovrete scoprirlo assieme a Laura! :p
Grazie
a tutti coloro che passano di qui e lasciano un segno, che sia con una
recensione, o con una semplice visita. So che per voi non è
nulla, ma vedere il numerino del contatore che sale è di
grande incoraggiamento per me. Questa storia esiste solo grazie a voi,
e vi AMO. <3
Baci,
Lusivia
|
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Capitolo 6 *** Un bicchiere con l'Assassino ***
Capitolo
6
Un
bicchiere con l’Assassino
Kadar
fu il primo a sguainare
l’arma bianca dal fodero.
Il
suo avversario era Spada Lesta, che
alla prima offensiva deviò il fendente
dell’avversario e, roteandogli attorno come una ballerina
della morte, tentò un affondo che andò quasi a
segno.
Se
solo il giovane cenerino fosse stato
uno sprovveduto alle prime armi; in verità, Kadar era una
combinazione formidabile di scaltrezza e velocità.
Colpiva
energicamente, raggirava il suo
avversario e lo centrava senza alcuna pietà, in una sequenza
di movimenti assieme fluidi e brutali, e per un istante mi
ritornò in mente quel pomeriggio assolato della mia
infanzia; avevo rotto un vaso giù in salotto, uno di quelli
azzurri e bianchi di una certa dinastia cinese, e adesso mia madre mi
stava cercando furibonda per tutta la casa. Kadar apparve dietro le
tendine in cui ero nascosta, e sorridendomi mi suggerì di
fuggire sul tetto di casa.
A
guardarlo adesso, quel feroce
guerriero nell’arena non aveva nulla a che fare col mio dolce
fratello angelo.
Nel
frattempo, Malik aveva
già ingaggiato uno scontro col minaccioso Uomo Toro.
Allo
stesso modo del primo, il maggiore
dei fratelli Al-Sayf non tardò a manifestare
un’innata grazia e mirabile tecnica sin dal primo cozzare
delle possenti spade.
Notai
subito che prediligeva attacchi
precisi e rapidi sui punti ciechi del suo massiccio avversario, quelli
che aveva silenziosamente individuato mentre incassava i primi colpi
dello scontro, e che adesso si manifestavano ai suoi occhi come una
mappa di fili rossi.
Il
suo schema di combattimento era
pressoché perfetto.
Rovescio,
parata, guardia alta. La spada
scatta, un tentativo di affondo in avanti, reso nullo da una spazzata
di lama, la polvere si alza e spande nell’aria. Una piroetta,
di nuovo in posizione, i polmoni tossiscono fuori la terra, i denti
digrignano, i capelli sudano, era un ritmo incalzante.
Ovviamente.
Perché, me ne
resi conto solo ora, i ranghi che portava addosso Malik erano
splendenti come quelli dei priori.
–
Mi sembri turbata.
– la voce saccente di Altaïr arrivò
graffiante alle mie spalle. – Che c’è, bimba? Per caso gli
spargimenti di sangue turbano la tua timida sensibilità?
Magari,
se fossi stata in vena, gli
avrei risposto che avevo visto più ossa rotte di qualsiasi
altra fanciulla borghese rinchiusa nella foresta di una valle sperduta,
tant’erano state le volte in cui ero scivolata dal tetto.
Ma
ora avevo qualcosa, ramificato nello
stomaco. Qualcosa di appuntito, e freddo, e pruriginoso come
l’edera. Qualcosa come il sentimento cocente del tradimento,
e m’impediva di parlare.
–
Kadar… non ha
fatto altro che mentirmi su chi fosse realmente. – la mia
voce era sofferente, il lamento di una donna tradita dal suo
uomo.
Rido,
adesso. Perché mi rendo
conto che dell'epoca il mio cuore sapeva già ogni cosa, ma
la mia mente era ancora troppo spaventata per ammettere un qualcosa di
così sconvolgente, qualcosa a cui non ero ancora pronta.
–
Presuntuoso, detto da una
che sostiene d’esser sua sorella! –
esclamò ridendo.
Irritata,
alzai lo sguardo verso la
macchia bianca del suo cappuccio, straordinariamente luminoso con il
sole di mezzogiorno, pareva un’aureola in testa a un
bellissimo demonio.
–
Come ha fatto Kadar a
corromperti? Perché ancora non corri a denunciarmi al
Veglio, eh? – domandai a quel punto, cupa in viso.
Mi
diede due buffetti gentili sui
capelli. – Questi non sono affari tuoi, bimba.
Gli
schiaffeggiai via la mano.
– La smetti di chiamarmi bimba? Io non sono tua figlia, non
sono una bambina e non sono nemmeno tua amica!
Colpito
dalla mia propensione naturale
all’insolenza, l’Assassino sollevò la
mano dalla mia testa e fece un passo indietro, quasi per paura di
essere morso. – Mia figlia? Suvvia, non sono poi
così vecchio, tesoro! – Poi mi squadrò
per mezzo secondo, ed esordì – Lascialo perdere,
che è meglio.
Il
suo volto era un’ombra
piatta, ma la voce tradiva un sentimento di fastidio.
Mi
accigliai. – Di che cosa
stai parlando? – chiesi scocciata.
–
Di Kadar. Lascialo perdere,
o non farai altro che renderglielo più complicato.
–
Complicato, cosa?
Lui
scosse la testa con un sorriso
biasimevole. – Sei carina, ma non troppo arguta, eh. Tu
continui a carezzarlo e a stordirgli la mente col profumo inebriante
delle tue bugie, forse perché ti annoi, o magari hai un
doppio fine, questo non lo so. Ma se continuerai a rimbecillirlo in
questo modo, ebbene… – Indugiò per un
attimo. – Kadar è solo un ragazzino, bimba. Non
illuderlo di potersi fidare di te.
–
Io non lo tradirei mai.
– sibilai piccata, profondamente offesa.
–
Certo che no. Ma dimentichi
una cosa.
Vidi
Altaïr chinarsi al mio
fianco e sedersi sui talloni, incrociando le dita mollemente sospese
tra le sue ginocchia. Adesso, potevo vedere la sua ferita, ancora
vivida sulla bocca, aguzzarsi in un sorriso impaziente.
–
Indipendentemente da chi tu
sia, o da cosa sei venuta a fare a Masyaf, Kadar è prima di
tutto un Assassino. È cresciuto tra queste mura che era solo
un moccioso in fasce, ha massacrato il suo corpo negli addestramenti
per anni e, un giorno, ha votato la sua esistenza per il Credo. E il
Credo viene prima di tutto.
Allora,
tese la mano con la lama celata
verso di me. Sussultai, ritraendomi troppo tardi.
Prese
un ciuffo dei miei capelli tra le
dita e l’arrotolò pigramente attorno alla prima
falange, mentre i suoi occhi si divertivano a farmi cambiare il
colorito del mio volto, da bianco a rosso cangiante.
All’improvviso,
avevo il
respiro grosso.
–
E il Credo viene prima anche
prima di te, bimba. Per cui, quando quel giorno arriverà,
vedi di non fare la gelosa, d’accordo?
In
altre circostanze, probabilmente gli
avrei dato un pugno in faccia, e magari lui l’avrebbe anche
rimandato sul mio naso per istinto, tanto era abile. Ma quella volta
accadde qualcosa di assordante nella mia testa.
Qualcosa
che squarciò
definitivamente qualsiasi mia dorata illusione e mi lasciò
lì, intontita.
Per
Kadar sarei sempre, solo stato un
peso, un fastidio che non valeva nemmeno la pena di raccontare a suo
fratello, una pena, un’intrigante ragazzina che si era
ficcata in testa di potergli scombussolare così la vita
senza neanche la decenza di dirgli grazie.
In
quell’istante, decisi che
sarei partita da Masyaf quel giorno stesso, dopo aver convinto mastro
Frye a cedermi uno dei suoi puledri, avrei salutato il piccolo garzone
e mi sarei persa per dieci giorni nel deserto, prima d’esser
trovata dai briganti o, se ero fortunata, d’intravedere le
alte porte di una qualsiasi metropoli siriana.
E
lo avrei fatto, perché
d’un tratto non volevo più stare accanto a Kadar.
Tuttavia,
il destino aveva disposto
altri tasselli nel mio percorso.
Era
stato improvviso. Una freccia che mi
trapassò trapassato il cervello, il grido del dolore
lacerante della carne che si tagliava.
Scattai
sul bordo del tetto
così in fretta che per poco non scivolai in avanti, forse
Altaïr mi tenne per la cintola rossa, ma in quel momento
avrebbe potuto anche prendermi a calci, io non avrei sentito nulla.
Kadar
era finito ai bordi dello
steccato, completamente disarmato dall’ultimo fendente del
Toro, la spalla gli sanguinava copiosamente e ciò
m’impediva di stabilire la gravità della ferita,
gettandomi in un panico cieco.
Allora,
vidi Malik tentare di raggirare
Spada Lesta per soccorrere il fratello, ma l’altro era deciso
a volersi vantare di aver sconfitto un priore e pertanto
tagliò a Malik la strada con la sua lama, costringendolo a
finire l’incontro con lui. Quello digrignò,
saltò indietro e fu costretto a combattere per parare gli
attacchi incalzanti.
A
quel punto, guardai disperatamente Al
Mualim, pallido fantasma guardiano che svolazzava al vento coi suoi
abiti scuri, e sperai che intervenisse per bloccare quella
follia.
Ma
non lo fece. Non si mosse di un solo
muscolo. Rimase lì, inespressivo, a guardare mentre Uomo
Toro prendeva ad avanzare verso Kadar.
Sapeva
che era uno scontro dispari. Ma
voleva che il giovane novizio dimostrasse di poter affrontare qualsiasi
avversario.
E
Kadar, fiero e impavido
com’era, non mancò di combattere strenuamente fino
alla fine.
Deviò
i feroci fendenti del
Toro con coraggio, schivò gli affondi nonostante il sangue
che sgocciolava qua e là sulla sabbia rovente,
riuscì perfino a lacerare il tessuto sopra la spalla, mentre
Malik lo incitava e si sgolava sotto gli schiamazzi goliardici della
folla.
Tuttavia,
l’uomo contro di cui
Kadar combatteva era più brutale e forte
d’energie, e alla fine riuscì a prendere il
sopravvento.
Il
vecchio infortunio di Kadar alla
gamba gli giocò un brutto tiro e lo costrinse a mettere un
piede in avanti quando non avrebbe dovuto, facendolo scivolare sul suo
stesso sangue. Cadde di mento a terra, e ancora intontito
riuscì comunque a deviare il colpo in arrivo. Neanche Malik
poté aiutarlo a quel punto, perché gli attacchi
sconnessi di Spada Lesta gli impedivano di aprirsi un
varco.
–
Altaïr, aiutalo!
– gridai nella foga del momento, ma mi fu subito chiaro che
non avrebbe alzato un solo dito.
In
quel momento, qualcosa
scattò in me.
Sfilai
il cappuccio dalla testa
Altaïr con uno scatto fulmineo, probabilmente strappandogli
via anche qualche capello, e scampando per un pelo ai suoi artigli mi
calai sull’estrema tegola del tetto.
Non
avevo mai fatto una cosa del genere,
soprattutto, non così velocemente, e, infatti, il peso del
mio corpo piombò su di me tutto d’un botto,
trascinandomi rovinosamente sul terreno sottostante.
Un
dolore lancinante per tutto il corpo,
Altaïr che mi malediceva dal tetto, il terreno girò
vorticosamente sotto la mia guancia schiacciata per qualche secondo,
poi, la volontà di qualche forza divina che
m’impose di rimettermi subito in piedi.
Iniziai
a correre verso la calca quasi
zoppicando, ormai, le intimidazioni rabbiose dell’uomo sul
tetto me l’ero lasciate alle spalle. Mi aprii una breccia tra
la baraonda di corpi muscolosi, sulla testa avevo già la
rassicurante ombra del cappuccio.
Spinsi,
sgomitai, gridai
affinché mi lasciassero passare, e alla fine qualcuno si
girò anche, pronto a iniziare una rissa in piena regola, se
solo il suo vicino non gli avesse ammonito di non rovinare
l’Inaugurazione.
Poi,
finalmente, i bordi del
campo.
Kadar
adesso era a terra, la sua spada
troppo lontana perché potesse riprenderla, il braccio gli
sanguinava molto ma ormai non se lo reggeva più; ora era
l’ultimo dei suoi pensieri. Infatti, il Toro era pronto a
porre fine al loro incontro.
Chinai
lo sguardo sul tizio davanti a
me, sotto il suo gomito sbucava il pomo di una spada.
Non
pensai. Gliela sfilai. E anche se
pesava terribilmente, in quel momento l’adrenalina fu
più forte di tutto e narcotizzò i miei parametri
di giudizio.
Saltai
nel recinto, le suole
schiacciarono il sangue rappreso nella polvere, corsi incontro a Kadar
e il Toro, storsi il corpo fino all’esasperazione, i tendini
si stirarono e il corpo divenne di legno mentre tentava di tenere
diritta la spada dinanzi a Kadar, nelle mie orecchie c’era
solo il frullo assordante della folla.
Qualcosa
che piombava a peso morto sul
filo della lama. E mi ritrovai a cadere sotto l’urto della
collisione, ruzzolando sul terreno mentre la spada mi schizzava via
dalla mia mano, come se qualcuno l’avesse appena calciata
via.
L’aria
era immobile.
Io
ero stesa al centro
dell’arena, Uomo Toro fermo difronte a me, la sua spada
ancora spostata di lato per la deviazione improvvisa di quella lama
fantasma sbucata tra lui e Kadar esattamente nel momento giusto. La mia
lama.
L’aria
era immobile.
La
folla non esultava più,
non incitava più alla battaglia, all’improvviso,
anche lo scontro tra Spada Lesta e Malik si era fermato, tanta era
l’assurdità di quanto appena accaduto sotto i loro
occhi.
L’aria,
finalmente, era
immobile.
E
capovolta
all’ingiù, potei vedere lo sguardo rovescio del
Gran Maestro fissarmi fortemente contrariato. Come se mi avesse
riconosciuto.
–
Tu, brutto infame
guastafeste! – fu il ruggito del Toro, offeso e umiliato
dalla mia intromissione, a frantumare quella stasi sulla scena.
Mentre
ero ancora intontita a terra, lo
vidi slanciarsi verso di me, enorme come una montagna, allora ebbi
appena il tempo di sentire Kadar urlarmi di scappare, che qualcosa di
molto simile a una breccia d’aria si fiondò nella
coscia del Toro, rallentandolo per qualche secondo.
Un
pugnale da lancio.
Alzai
lo sguardo in alto, verso i tetti,
e posso giurare di aver visto Altaïr salutarmi prima di
dileguarsi verso i cortili interni, lasciandomi lì con un
timido sorriso inebetito, quasi commosso, e stupidamente distratto.
Thud!
Qualcosa mi colpì in piena faccia.
Caddi
di guancia nella polvere come una
pera cotta, paralizzata dalla stessa adrenalina nel mio corpo. Dolore.
Un immenso dolore al centro della faccia. Così grande che
non ricordavo di averlo mai sentito in tutta la mia vita.
Rammento
che Kadar si lanciò
urlando su Uomo Toro, che lo atterrò sotto il suo corpo
minuto e iniziò a colpirlo, e che a Malik ci vollero altri
tre uomini per riuscire a separare quei due, che nonostante le loro
condizioni si davano ancora addosso come due mastini.
L’ultima
cosa che ricordo
è l’ombra delle vesti di Al Mualim, che senza
proferire parola si dileguò sul balcone.
*
* *
Malik
era molto apprensivo verso il
futuro, soprattutto di suo fratello, e a volte manifestava
un’eccessiva tendenza al controllo.
Che
si trattasse di stoltezza, protervia
o saggia lungimiranza, qualsiasi decisione lui prendesse era stata
prima attentamente studiata, ponderata e macchinata per un totale
minimo di venti secondi con un cruccio intenso sul viso e la bocca
storta tra le dita; venti secondi, il tempo necessario, diceva lui, per
scongiurare scelte prese di foga e agire sempre nel meglio di noi
stessi.
A
quei tempi, la sua mania del controllo
mi ricordava molto Erica.
E
adesso, che guardo con dolcezza a quei
giorni passati, mi rendo conto di quanto quei due fossero dannatamente
simili; forse, fu per questo che legammo così bene.
Non
ricordo com’è
che finii dentro il refettorio sotto i portici fioriti, né
com’è che Kadar si ritrovò col braccio
fasciato, o di chi era il volto che mi aveva passato lo straccio
bagnato d’acqua fredda per tamponare l’emorragia al
naso, gonfio e rosso come un peperone, ma per qualche stupida ragione
non potei mai dimenticare il profumino delizioso dell’impasto
di grano alle erbe che la servetta stava lavorando in cucina poco
più dietro.
Probabilmente,
era perché non
mangiavo da tre giorni, che lo stomaco mi tormentava con immagini
succulente e invitanti.
–
Chi di voi due ha avuto
quest’idea? – la voce di Malik era profonda, ma
straordinariamente cristallina mentre ci scrutava con snervata
impazienza.
Dopo
qualche esitazione, Kadar
sollevò lo sguardo dalle sue ginocchia divaricate, posandolo
appena su di me. Anch’io lo fissai, celata tra
l’orlo del cappuccio e la stoffa del canovaccio inzaccherato
di sangue, ma se solo avrebbe indagato un po’ più
affondo, allora avrebbe visto nel mio corpo la tensione sfiancante
dell’attesa.
Il
ragazzo si rivolse al fratello, che
attendeva ricurvo coi palmi sul tavolo, e gli rispose.
–
Abbiamo fatto una scommessa.
Chi di noi due sarebbe riuscito a rubare i vestiti di un priore si
beccava un dīnār.[1]Nadim
non voleva, ma io l’ho costretto. Mi assumo tutte le
responsabilità.
Scioccata,
abbassai lo strofinaccio
sulle ginocchia, stringendolo forte attorno al pollice fino a farlo
diventare bianco. Perché quello stupido si stava prendendo
la colpa per entrambi?
Ma
soprattutto, per quale ragione Malik
non ci stava ancora strillando addosso?
Se
ne stava lì, in piedi, a
scrutarci con l’espressione compassionevole di chi aveva
capito fin troppo bene la presenza di un tacito accordo di
collaborazione e protezione, ma a differenza di quanto pensava, non era
l’alleanza di due compagni di bravate, il nostro, strano
legame.
Poi,
senza alcun preavviso, il priore
scavalcò la panchetta una gamba per volta e si sedette
difronte a noi.
–
Pensaci bene prima di
assumerti questa responsabilità. – lo
invitò paziente il fratello. – Ascoltami. Mufeed
è stato ferito da un pugnale vagante, ha un tendine rotto ed
Al Mualim è molto arrabbiato di aver perso uno dei suoi
Assassini migliori per le missioni del prossimo mese. Se non vuoi
mettere in mezzo Nadim, almeno, non prenderti la colpa per quel lancio.
Dimmi chi è stato, Kadar.
–
Non conosco il volto del
lanciatore. – Ed era la verità.
Lo
sguardo d’onice
dell’altro s’indurì. – Non
osare mentirmi! Lo so che a Rauf piace lanciare i suoi pugnali sui
novizi per spaventarli, non mi sarebbe difficile credere che si sia
intromesso per aiutarti da qualche tetto!
–
Non è stato Rauf.
–
La tua lealtà
vale per caso più della promozione? Perché
è a questo che stai rinunciando adesso, alla
possibilità di conquistarti un rango!
Kadar
fece una smorfia di dolore, per un
momento sembrò vacillare. – Non importa. Ormai, ho
preso la mia decisione, Malik. – decretò alla
fine, ormai, era deciso ad andare fino in fondo per la strada che si
era scelto.
–
No, Kadar, aspetta.
– bisbigliai al suo orecchio, affinché solo lui
potesse sentire la mia supplica disperata, ma quando provai a
prendergli una mano sotto il tavolo lui la ritrasse.
Malik,
a quel punto, si trovò
diviso tra due emozioni: i sentimenti del cuore e il dovere dei propri
ranghi; doveva studiare un attimo la questione. Allora,
intrecciò le dita davanti al suo naso, pressò i
pollici contro la sua barbetta scura e, con un freddo animo
machiavellico, iniziò a elucubrare, intenso, contrariato,
sconcertato.
Passarono
i venti secondi. E
,finalmente, Malik riemerse con la risposta scritta nello sguardo.
–
E va bene. Recita il Credo
degli Assassini, Kadar.
Sulle
prime, rimasi colpita dalla
richiesta di Malik, quasi gli stesse chiedendo di confessarsi ai piedi
dell’altare, e fu proprio con quello spirito che Kadar
rispolverò le vecchie cantilene con cui lo avevano ammorbato
dalla fanciullezza all’età del sacro rito,
recitando, seppur un po’ intimidito dalla mia presenza, la
preghiera degli Assassini.
– Quando gli altri seguono
ciecamente la verità, ricorda: nulla è reale.
Perché la società è una creazione
umana, imperfetta e fragile, e tocca a noi essere i pastori della
nostra stessa civiltà. Quando
gli altri si piegano alla morale e alle leggi, ricorda:
tutto è lecito. Perché l’uomo
è nato libero e uguale al suo fratello, e come tale
è l’architetto del proprio destino. Ciò
vuol dire prendere consapevolezza delle proprie azioni e convivere con
le loro conseguenze, che siano essere gloriose, o tragiche. Nulla
è reale. Tutto è lecito.
Finito
di parlare, Kadar rimase con
Malik sospeso nella solennità di quelle parole che ancora
alleggiavano nell’aria, mentre io… io avevo un
terremoto dentro, uno stupore, un indescrivibile stato di shock, un
senso di vago smarrimento.
Quella
che era una filastrocca per i
brutti incubi, all’improvviso, mutò di significato
sotto i miei occhi.
Mutò
le forme e i colori e le
sagome e il sapore, entrandomi nella pelle, invadendomi i polmoni,
contaminando ogni globulo rosso, scrivendosi lungo ogni centimetro del
mio corpo, sopra i miei vestiti, fino ad aderire ai miei pensieri e
gonfiarmi la testa come un pallone elettrostatico, pieno
d’aria compressa.
Perché,
all’improvviso, mi sentivo di aver frainteso ogni cosa?
Perché,
adesso, ero convinta
più che mai che Altaïr avesse detto la
verità su di me e Kadar,
sull’ineluttabilità del nostro triste destino,
come una profezia, una finestra su ciò che sarebbe accaduto?
All’improvviso,
sentii la
panchetta sobbalzare. Il giovane cenerino era in piedi dietro di me,
stava raggirando il tavolo per andare nell’ufficio del Gran
Maestro. Voleva consegnarsi.
Presa
da un impeto che veniva dal
profondo, gli corsi dietro per acchiappargli la manica della giubba.
–
Non farlo, non consegnarti
al vecchio. Ti punirà. – lo supplicai a fil di
voce.
Lui
mi scrutò, aveva gli
occhi più chiari del solito, quasi trasparenti. –
Non lo faccio per te. – disse e con uno strattone gentile
riuscì a liberarsi, uscendo dalla stanza senza
più voltarsi. Fu come se mi avessero strappato dal fianco un
pezzo di carne.
*
* *
Malik
chiamò una delle
ragazze in cucina perché portasse del vino da condividere
con me, come tra amici, come se avesse in qualche modo avvertito il mio
improvviso senso di smarrimento lasciato dal profumo agro del fratello.
Ma
quello che portò la
servetta dalla pelle lucida e le braccia tintinnanti non era semplice
vino del mercato di Masyaf, bensì, un rosso corposo e fresco
di mattinata giunto dai carri di Shiraz, una lontana cittadina nel Fars
[2]
governata
dalla dinastia turca dei Selgiuchidi, di cui conoscevo la raffinatezza
e la passione per i vini più ricercati di tutto il Levante
da una ricerca che feci per Suor Agata sotto
Natale.
Ovviamente,
la pacata gentilezza che
l’Assassino mi mostrò quando, con un gesto
affabile, m’invitò a unirmi a lui al tavolo, mi
lasciò terribilmente spiazzata, specialmente ora, che avevo
appena mandato suo fratello a incolparsi al posto mio, non capivo come
potesse volere la mia compagnia.
Che
stesse pianificando di farmi
ubriacare per bene, prima di riempirmi di botte e trascinarmi di peso
da Al Mualim a confessare ogni cosa?
Di
questo non potevo esserne certa.
Allora, cos’altro avrei dovuto fare, se non indossare
un’ultima volta gli abiti del giovane e misterioso Nadim,
sedermi al tavolo difronte all’Assassino dagli occhi neri e
brindare a coppa alta alla Confraternita?
Semplicemente,
avrei dovuto essere
accondiscendente, brindare e resistere fino all’arrivo di
Kadar, così Malik non si sarebbe insospettito troppo.
Sospirai.
Se Kadar
sarebbe
tornato a prendermi.
–
E allora, Nadim. –
fu Malik ad aprire i giochi, cortese e onnisciente nel suo ruolo
d’anfitrione. – Quando non vai in giro a rubare i
ranghi dei priori, di solito indossi gli abiti del novizio?
È così che hai conosciuto mio fratello, no? Negli
allenamenti.
Il
vino mi finì di traverso,
staccai la coppa dalle labbra con uno scatto e iniziai, tra un colpo di
tosse e l’altro, a picchiarmi il pugno sul petto.
–
Sì. –
gracidai, senza più fiato. – Sì,
è … è esatto. Ci siamo conosciuto
lì. Accidenti, questo vino è davvero
forte…
–
Mh. E ti piace indossare il
cappuccio in ogni momento? – incalzò saccente.
Avvampai,
pensai svelta. – Ho
una brutta cicatrice sulla fronte.
–
Capisco. –
Oscillò il contenuto della sua coppa tra le dita,
almanaccando con lo sguardo perso nel vino.
–
Perché mi hai
invitato a bere con te? – lo studiai affondo prima di porgli
quella domanda, quasi sperando di trovare un suo punto debole, una leva
di emergenza da tirare al primo segnale di pericolo.
Malik
alzò gli occhi, neri e
lucenti come la notte stellata, e notai che avevano una strana
sfumatura argentea, come le foglie di ulivo, che donavano al suo
sguardo un nonsoché di estremamente melanconico.
–
Non ti hanno insegnato a
portare rispetto ai tuoi superiori, novizio? – mi riprese per
aver usato il tu. – O magari, credi di poter cacciare la
testa solo perché non ti ho punito per questa mattina,
quando mi hai offeso, quando mi hai sfidato?
Colpita,
serrai forte le labbra tra
loro. Malik ruotò leggermente il mento sulla spalla,
ridacchiando.
–
Cos’è
quella faccia seria? Avanti, stavo solo scherzando, tranquillo!
–
Ah. – Mi
accigliai. – Ma allora…?
Lasciò
che un sospiro stanco
gli allentasse il corpo rigido, diede un breve sorso. –
Quello che oggi mi ha affrontato alle porte non era un novizio
qualunque, un servile leccapiedi che cerca la protezione dei
più anziani nell’Ordine, ma un ragazzo fiero e
senza alcun maestro, che non si è fermato difronte ai ranghi
per difendere un uomo in quel momento debole. – Mi
guardò. – Un ragazzo che mi ha colpito sin dal
primo istante.
Colpita
e confusa dai suoi occhi, chinai
lo sguardo dentro il vino. – Quello, quello non era
nulla…
–
No, Nadim. Era tutto.
Gli
occhi schizzarono su, anche lui mi
stava fissando, pensoso. Deglutii e senza abbassare lo sguardo bevvi un
sorso dalla coppa. Il vino piombò come un mattone nel mio
stomaco vuoto di tre giorni, ma cercai di non darlo troppo a vedere.
Dovevo
mantenere la mente lucida,
concentrarmi sulla parte, dovevo fargli credere che stesse parlando col
ragazzo che lo aveva impressionato quella mattina alle porte.
–
Qual è la tua
storia, Nadim? – la sua domanda era seria, e come tale
riflettei con cura alla riposta. – Insomma, non voglio
credere che sei sbucato fuori dal nulla!
No,
certo che no!, pensai ironica.
– Non ho una storia che valga la pena raccontare. –
mugugnai invece, sprofondando con un sospiro frustrato.
–
Suvvia, tutti hanno una
storia da raccontare! – ribatté divertito lui.
Lo
guardai negli occhi. – Beh,
io non ce l’ho.
Malik
tacque per un periodo che mi
sembrò infinito. Rigirò tra le dita il vino
scintillante nella coppa di legno, mentre con sguardo indagatore mi
sondava e scrutava, ed io sostenni il contatto visivo senza il
benché minimo tentennamento, conscia, ormai, di essere
l’oggetto indiscusso del suo ermetico interesse.
–
Allora, Nadim, se me lo
permetti, voglio raccontarti una storia io. –
iniziò, tenendosi a versarmi un secondo giro di vino.
– Quando avevo tredici anni, mio padre morì
all’improvviso mentre serviva il nostro Ordine,
nell’isola di Cipro. Poco tempo dopo la sua morte, a Masyaf
tornò il confratello che aveva accompagnato mio padre in
missione, e che lo aveva visto morire tra le sue braccia.
Quell’uomo era Umar Ibn-La'Ahad.
Sgranai
gli occhi, riavvicinando
lentamente la coppa verso di me. – Il padre di
Altaïr?
Lui
annuì, e con un gesto
stanco ebbe riappoggiato il fiasco sul tavolo. – Bada,
però, che Umar era un Assassino onorevole e umile, nulla a
che fare con quel suo figlio degenere, così abituato a
venerare se stesso che non s’accorge più quando il
suo agire supera la soglia sottile che sta tra il dovere e
l’infame tracotanza. Fu lui a riportarmi questo, sotto
esplicita supplica di mio padre.
Allora
Malik estrasse dalla fodera alle
sue spalle un pugnale di ferro nero con
l’estremità del manico leggermente ricurva
all’indietro e il pomo decorato dalla testa di un leone
d’oro, mentre spirali verdi e neri avvolgevano
l’elsa e la impreziosivano di orientale raffinatezza e
eccellente fattura.
Mi
mise l’arma davanti al
volto, affinché potessi ammirarla in tutta la sua
inquietante bellezza, e per qualche ragione ne fui subito intimorita,
se non perversamente affascinata.
–
Questo era il pugnale di mio
padre. – annunciò, un po’ melanconico.
– Lo avrebbe voluto dare a Kadar, ma lui era troppo piccolo,
aveva solo cinque anni quando morì, e quindi volle darlo a
me, come pegno di una promessa. Anche se non pianse mai per nostro
padre, quasi fosse già un giovane uomo, io sapevo che Kadar
aveva ancora bisogno di una figura paterna, di un modello, una colonna,
una certezza, sapevo che dipendeva da me. E allora, mi presi cura di
lui. L’ho istruito al Credo, l’ho addestrato,
l’ho educato, l’ho fatto diventare un Assassino
degno di questo nome. Perché è così
che nostro padre avrebbe voluto.
Detto
ciò, Malik rimise la
lama nel fodero sulle spalle, sospirando mentre si tirava in dietro
sulla panchetta, e con la mano destra riafferrava la coppa ancora piena.
All’improvviso,
avevo capito
dove volesse andare a parare con quella storiella, e chissà
perché non ne rimasi affatto sorpresa.
–
Pensi che io possa mandare a
monte i tuoi sforzi di questi anni, il lavoro che hai fatto con tuo
fratello?
–
Penso che Kadar sia solo un
diciassettenne, – m’interruppe con
l’indice appena sollevato dal ripiano del tavolo –
che ha un carattere difficile e che in questo momento vuole solo
divertirsi e fare bravate coi suoi amici, senza suo fratello maggiore a
seccargli le palle.
–
Quindi?
–
Tu sei fedele a Kadar.
Avvampai,
forse troppo. – Cosa?
–
Sei fedele a Kadar.
Altrimenti, non avresti tentato di dissuaderlo dal consegnarsi.
–
… E se
così fosse?
–
Se così fosse.
– Picchiò l’indice sul tavolo.
– Dovrai promettermi di non tradire mai mio fratello, Nadim.
Promettimi che gli guarderai le spalle e che lo aiuterai, come oggi lui
ha aiutato te. Puoi farlo?
Lo
fissai, stringendo le mani attorno
alla coppa. – È per questo che non sono davanti ad
Al Mualim, a confessare tutte le mie colpe?
–
Per questo, e
perché hai rubato i vestiti a quell’idiota di
Altaïr. – ammise ridente, tirandosi indietro mentre
portava la coppa alla bocca. – E per tutti i diavoli,
qualunque uomo abbia il coraggio di fare una cosa simile si
guadagnerebbe il mio rispetto. – ammise sottovoce, prima di
affogare un sorrisetto dentro il vino.
Per
un momento non seppi davvero che
dirgli, ma rimasi così, a fissarlo, con le dita strette
attorno alla coppa di legno. Poi, trincai giù il vino tutto
d’un fiato, sbattei il polso sul tavolo e con lo sguardo
fisso su Malik gli allungai il contenitore vuoto.
–
Non lo faccio per te, non lo
faccio per fifa. – dichiarai, ferma. – Lo faccio
perché ho un debito verso Kadar. Ora e sempre.
Malik
si sforzò di ritenersi
soddisfatto della mia risposta, tirando un sorriso sbilenco.
–
Sei proprio come mi eri
apparso la prima volta, Nadim. – disse e mi versò
altro vino. – Stupido. E con un forte senso
dell’onore.
Grazie
al vino, di lì a poi
la conversazione scivolò più agilmente, che quasi
ci dimenticammo di Kadar e non ci accorgemmo che stava calando la sera.
Malik
prese a raccontare i dettagli
della sua ultima missione che lo aveva tenuto lontano da Masyaf per un
mese intero, e tra una pennellata e l’altra della sua lingua
chiacchierina, tra una sfumatura e l’impercettibile tocco
delle sue espressioni ancora esaltate da ciò che aveva
vissuto nemmeno un mese fa, Malik dipinse una vastità di
mercati, edifici, chiese e moschee, cortili, fontane e strade affollate
di vita, antiche mura bianche ammantate dal sole di mezzogiorno dentro
uno scrigno di oasi e miglia e miglia di cunette desertiche.
Dapprima,
pensai a quella come
un’occasione di constatare una volta per tutte quanto
c’era di vero nei racconti di Marco Polo, ma poi Malik
riuscì a trascinarmi nel turbine delle sue immagini, dei
suoni, delle voci, perfino di sapori mai saggiati con la lingua, e
all’improvviso mi dimenticai di tenere i piedi per terra.
Diceva
che gli Assassini erano sciolti
dagli obblighi comuni, che potevano consumare alcolici, mangiare carne
di maiale e adorare qualsiasi dio loro volessero, che disprezzavano i
limiti del buon senso comune e sfidavano la morte con arrampicate folli
su per altezze indicibili, lì dove la terra e il cielo
s’incontravano e le aquile facevano il nido, affidando la
propria vita a una scricchiolante, precaria sporgenza di legno.
O
almeno, questo era ciò che
mi ero figurata quando Malik si vantò di com’era
riuscito a fuggire sopra una torre in mezzo alla città
mentre aveva una freccia conficcata nella spalla e tutte le guardie nel
quartiere ovest alle calcagna, lì dove tornò
qualche ora dopo andare in un bordello a mangiare carne di maiale, bere
vino e godersi i piaceri voluttuosi di una cortigiana.
A
parte quell’ultima immagine,
che scacciai un po’ imbarazzata dalla testa, i racconti di
Malik mi avevano totalmente stregato, sicché, non appena lui
finì di raccontare quella storia, io gliene chiesi subito
un’altra, una più vecchia, magari in
un’altra città.
Allora,
mi disse di Acri, e di quella
volta che si era intrufolato in una chiesa cristiana per scovare un
mercante di schiavi tebano, che conduceva i suoi loschi traffici coi
Templari da quasi un anno, e nemmeno lì mancò
l’incontro con una donna, una cristiana che lo aveva aiutato
ad infiltrarsi tra gli eruditi nella cappella, e che lo
consolò dalle stanchezze quella stessa notte nel suo letto.
Poi,
rimembrò un inverno a
Gerusalemme e di quella ferita da spada lo aveva costretto per un certo
periodo in un posto che non disse, tra i libri di filosofia e medicina,
ma, soprattutto, tra le braccia paffute della figlia del pescivendolo
in fondo alla strada.
E
i suoi racconti andarono sempre
più affondo nel vino, fino a far riemergere il ricordo di un
giorno di mezz’estate, quando un giovane novizio dagli occhi
truci e la coscienza sporca del primo omicidio venne rincuorato dalle
parole e dalle pacche vigorosi del suo priore, che per fargli passare
il malumore decise di ricompensarlo con una notte al bordello di
Damasco, tra l’odore rintronante d’incenso e quello
seducente dei tessuti di seta e unguenti per il corpo.
Forse
era l’alcool a parlare,
ma giurai di aver visto nei suoi occhi perfettamente lucidi
dell’amorevole affetto per quella prima donna che ebbe il
piacere di sentire sulla sua giovane pelle, una cortigiana dai lunghi
capelli intrecciati e con una passione per le poesie provenzali; Malik
gliene recitò due, sforzandosi di ricordare le lezioni di
provenzale che, assieme al greco, latino e saraceno, viene impartito
agli Assassini nei loro primi anni di addestramento, per assicurarsi un
giorno contatti in tutto il mediterraneo, e grazie a quel provenzale
rozzo e scadente le gambe della cortigiana si aprirono per lui come le
porte di una chiesa.
Mi
piaceva come raccontava le storie
Malik, c’era sempre un risvolto romantico, anche se romantico
non era esattamente come lui avrebbe descritto la sua debolezza per la
carne, ma forse era giusto così.
Lui
era un uomo forgiato tra le
battaglie e il sangue, di tanto in tanto si concedeva qualche bella
puttana di borgo, io, invece, una giovane ragazza impregnata
dell’odore dei libri e delle aiuole fiorite dietro casa
Chiaravalle, ancora molto ingenua e, sì, anche un
po’ bimba, che pensava solo a ritornare nella sua vera vita.
Eppure,
qualcosa era scattato in me,
quel giorno. Qualcosa si era
risvegliato.
Già
quel pomeriggio
nell’arena, quando avevo indossato la mia maschera eroica e
avevo fronteggiato il “ Toro” con una spada che
riuscivo a malapena a tenere in mano, sentivo qualcosa di diverso, come
se, all’improvviso, provassi la voglia di mettere alla prova
l’elasticità della mia amica schizofrenia, vedere
quanto riuscisse a seguirmi, a come avrebbe risposto
all’evolvere inaspettato dei miei capricci.
Fu
allora, che quella consapevolezza si
affacciò nella mia mente.
Il
fatto di aver detto a Malik di non
aver nessuna storia che valesse la pena raccontare, era vero. Laura
Maria Gaia di Chiaravalle non aveva nessuna storia, nessun passato,
nessun presente, nessun dannatissimo futuro all’infuori di
casa Chiaravalle.
Ma
Nadim… Nadim era un foglio
bianco, l’inizio di un libro che non era ancora stato scritto
ma che si era aperto quasi per caso sulle mie gambe, e io avevo la
penna in mano.
Chissà,
forse fu proprio per
questa improvvisa consapevolezza di possibilità che
scattò il primo anello della catena, il primo dei tanti
eventi inarrestabili che avrebbe scosso le fondamenta della mia casa,
il motivo per cui mi ritrovo adesso a scrivere questa storia.
Lo
sentivo.
Lì,
adesso, assieme al vino
che incalzava nella testa e un leggero sentimento di affezione verso
quei sorrisi stretti, quasi nascosti dietro un muso lungo, le alzate di
spalle e gli occhi argentati di Malik, adesso, lo sentivo.
E
mentre fuori la luna solitaria
illuminava coi suoi fasci le porte spalancate nei portici quieti, e
l’aria scivolava sul pavimento di pietra fino a solleticare i
nostri piedi sotto il tavolo, un Assassino armato fino ai denti
brindò con me l’ultimo bicchiere di quella sera,
lasciando che le nel castello vaghe voci parlassero ancora di
ciò che era accaduto quella lontana mattina di ottocento e
venticinque anni fa, quando un certo ragazzo, in un certo castello di
un certo villaggio medievale, aveva mandato a monte un Inaugurazione
per la prima volta in mille anni.
Quello
che sentivo, era l’eco
lontano della libertà.
Angolo
autrice:
[1]
= Il dīnār è una moneta
d’oro diffusa nel mondo islamico in epoca classica. Fino al
12°sec. reca iscrizioni islamiche e il suo peso è
l’equivalente di 20 carati da 0,2125 g di oro a titolo
elevato. Ho pensato che una moneta d’oro fosse il prezzo
giusto per una scommessa tanto rischiosa! ;)
[2]
= Il Fars fu culla della
civiltà e della cultura persiane, e il centro dell'immenso
impero achemenide, il primo impero persiano. In epoca islamica la
provincia passò da una dinastia all'altra, da quella
saffaride (IX secolo) a quella buwaihide (934-1062), da quella
selgiuchide (XII secolo) a quella muzaffaride (XIV secolo), per essere
infine sottomessa dai Safavidi ai primi del XVI secolo.
Benvenuti
a tutti in questo nuovo
aggiornamento!<3
Bene
bene; avrete notato che nel
capitolo ho tentato di soffermarmi po’ su Malik, sperando di
aver creato un bel quadro del suo personaggio, che ho voluto
rappresentare in maniera un po’ più spigliata e
rilassata per la prima parte della storia. Infatti, avrei in progetto
di raccontare una sorta di “evoluzione” del suo
personaggio, quindi vedrò di dargli lo spazio che si merita
tra una sventura e l’atra della nostra eroina, senza
soffocare Altaïr, chiaro ^-^
(
Ma ora che ci penso, sarebbe
pressoché impossibile nascondere dalla scena
Altaïr. Perché lui è dappertutto. E
s’infila in ogni dannata situazione. Sarà
l’ombra di Laura. Beata lei! xD )
E
a proposito di Laura, ha iniziato
a scoprire qualche cosa in più sugli Assassini,
sulla loro “ preghiera”. Chissà cosa le
è passato in mente, quando ha sentito quelle parole
così famigliari interpretare in quel modo da Malik e Kadar?
Le
rotelle nella sua testa iniziano a
girare, scricchiolare, quanto fumo che faranno, i suoi neuroni
atrofizzati dentro i nodi costretti della beata ragione!
Che
sia un meccanismo di difesa, il suo
eccessivo scetticismo scientifico? Mhmh…
Grazie
a tutti i miei lettori,
silenziosi e non, a cui dedico ogni mio capitolo.
Baci,
Lusivia
|
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Capitolo 7 *** L'odore del sangue ***
Capitolo
7
L’odore del
sangue
– Domani ti riporto a Damasco.
Aveva detto
esattamente così. Senza la benché minima cura,
senza neanche sforzarsi di sembrare almeno un po’ costernato
mentre m’ignorava per una catasta di dispacci vuoti, che
ricurvo come un vecchio librario si apprestava a spostare e osservare
sotto la luce tremula di una candela, l’unica luce in tutta
la piccola stanzetta.
Riuscii a distinguere
sulla superficie anche un paio di libri dalla rilegatura sottile e un
calamaio con l’inchiostro secco, ma non ne ero sicura.
Quando
esordì con quella frase, io ero seduta sul ciglio del letto,
il suo, con esattezza, a fissarlo contrariata e vagamente alticcia
mentre colle dita stropicciavo l’orlo liscio della camicia da
notte con cui mi ero appena cambiata.
Sentivo, poi, che la
schiena era bagnata, che i capelli pesavano e che i piedi erano
ghiacciati e ritratti sul pavimento, non sopportavano il contatto: che
mi fossi anche lavata in quel buco nero che per la mia testa erano i
dieci minuti precedenti a quel momento di ritrovata lucidità?
In verità,
non me ne curai, perché adesso stavo riconoscendo le mura
anguste e umide della stanza a celletta, i vari suppellettili adombrati
nella notte, una porta massiccia più in fondo, il lavamano e
gli specchi di luce lunare che dalla finestra si proiettavano a
intermittenza nella stanza di Kadar.
Poi, di punto in
bianco, mi alzai dal materasso imbottito di paglia e schiarendomi la
voce andai incontro al novizio con falcate decise.
Lui si
voltò sotto lo strattone della mia mano, mostrandomi il
fianco su cui teneva stretto gli abiti di Altaïr e, penzoloni
al fianco, la spada del temuto Assassino. Quand’è
che li avevo tolti per darli a Kadar, affinché provvedesse
alla loro sostituzione al legittimo proprietario?
Prima o dopo quel buco
di dieci minuti?
Ci misi un
po’ prima di riuscire a sciogliermi la lingua in quel
pensiero.
– Che cosa
vuol dire… che domani mi riporti a Damasco? –
sibilai torva e con l’alito che puzzava di vino, gli occhi
serrati nel tentativo inutile di mettere a fuoco la sua espressione
oltre la foschia leggera e la già poca luce della candela.
Kadar
indugiò sul mio volto per un bel po’ prima di
decidersi a parlare. Forse, stava ripensando a quello che gli avevo
detto di ritorno al refettorio, subito dopo esserci congedati dal suo
fratello per dirigersi nelle sue stanze.
Già,
cos’è che gli avevo detto…?
– Oggi
abbiamo rischiato troppo. – esordì a testa china.
– Ho già mentito per te al mio Gran Maestro, a
Malik, ad Altaïr ... – Indugiò, facendosi
sfuggire una smorfia mentre si scostava dalla traiettoria del mio alito
imbevuto di vino. – Non ti sembra che abbia già
fatto abbastanza per coprirti?
Prima che potessi
obbiettare, mi raggirò con uno scatto perentorio,
continuando a concedermi solo le sue grandi spalle mentre scivolava
sfuggente verso la finestra inondata di luce lattea.
– Al Mualim
è stato comprensivo e mi ha dato un’occasione per
rimediare all’insubordinazione di quest’oggi.
– spiegò, volgendosi a guardarmi quasi per
sbaglio, come se non avesse saputo resistere. Si corresse subito e
tornò diritto, un vero soldato. – Mi ha chiesto di
adare a Damasco per raccogliere informazioni per un mio superiore, e tu
verrai con me. Sarai Nadim per l’ultima volta,
così, quando saremo dentro le mura della città,
noi ci separeremo. Definitivamente.
Faticai sinceramente a
rimettere apposto i pensieri e anche dopo non riuscii a non guardarlo
con totale smarrimento, come se, all’improvviso, mi fosse
appena giunto uno schiaffo dal cielo ed io non riuscissi a capire da
quale lato fosse arrivato.
–
Stai… stai scherzando, spero! – esclamai a fil di
voce, non riuscendo a trattenere lo slancio del mio corpo che
andò in avanti. – Non vorrai davvero mollarmi
lì, accidenti!
Ma lui rimase
impassibile dentro il riflesso alla finestra.
– Damasco
è tappezzata da drappelli templari, non sarà
difficile per te convincerli a darti la loro protezione. –
Poi mi lanciò un’occhiata malevola, aggiungendo
– In fondo, sei brava a manipolare il volere degli altri. Non
sarà questa gran cosa per te ottenere da loro una
complicità forzata.
Colpita. Distolsi lo
sguardo con gli occhi stretti e le labbra serrate, sbruffando.
– Sei tu che
hai voluto mentire a tuo fratello, Kadar. – gli ricordai
allora io, rivolgendo un’occhiata severa ai suoi spostamenti
dentro la stanza. Ora stava passando vicino al letto, lo aveva guardato
ed era andato avanti. – Sei tu che hai insistito per
assumerti tutte le responsabilità difronte ad Al Mualim, e
sempre tu hai convinto Altaïr che ero tua sorella, anche
quando tu stesso dici di non crederci. Non io!
Senza alcun preavviso,
Kadar si bloccò nel bel mezzo della camera, sopracciglia
arcuate e aria fastidiosamente basita mentre, per la prima volta da
quando lo conoscevo, alzava di poco la voce.
– Tu guarda
che faccia tosta! Se io non avessi raccontato tutte quelle bugie, a
quest’ora tu staresti accucciata come un cane sul pavimento
di una cella ad aspettare la tua esecuzione! Non saresti mai
sopravvissuta senza di me!
Sentendomi attaccata,
serrai i pugni lungo i fianchi, ringhiando – Vuoi che ti dica
grazie? D’accordo! Eccoti servito: grazie per avermi accusato
di essere una Templare, grazie di non avermi sbattuto ingiustamente in
prigione per poi farmi giustiziare nel piazzale del castello il
dì seguente! Davvero, grazie di cuore!
– Certo,
certo che devi ringraziarmi! Non ero dovuto a fare tutto questo, ma
l’ho fatto, razza d’ingrata, cocciuta egoista di
una Templare!
Di nuovo quella
parola. Iniziavo davvero a odiarla.
– Quante
volte devo ripeterlo? – avanzai di un passo mentre scandivo a
gran voce – Io non sono una Templare, maledizione, smettila
di accusarmi come se avessi fatto qualcosa di orribile!
– Adesso
basta! Tu farai come ti dico! Sono tuo fratello e decido io!
– Ma io sono
più grande di te di un anno, quindi non puoi comandarmi, non
puoi!
Le sue guance si
accesero subito di rosso, dovevo appena aver colpito il suo orgoglio
maschile.
– Di tutte
le donne che ho incontrato, tu sei in assoluto la più
cocciuta e arrogante!
– Ah,
sì? – e feci un altro passo avanti, sfidandolo.
– Puoi
scommetterci! – ribadì e si tese inavvertitamente
verso di me, una pura presa di potestà, ma in qualche modo
non fu affatto intimidatorio, anzi. Mi avvicinai ancora di
più, inesorabilmente attratta da quel suo sorriso sornione.
Ma forse era l’alcool a farmelo vedere.
– E di
quante donne stiamo parlando, mio caro fratellino?
Lui rise appena,
distolse lo sguardo e si pulì gli angoli della bocca col
pollice e l’indice, dunque, tornò a guardarmi con
aria scostante. – A te che importa, sorellina?
Chiusi gli occhi
acquosi e alticci, sospirando – M’importa. Molto.
Lui mi
fissò. All’improvviso, aveva preso la cosa
seriamente.
Con un ultimo tratto,
Kadar divorò la distanza minima che correva dal mio petto al
suo, ritrovandomi a dover drizzare il collo per riuscire a tenere il
confronto, che ora volgeva a suo favore con quei dieci centimetri in
più della sua altezza. Provò a nasconderlo, ma
lui si gongolò di quel piccolo vantaggio e sorrise, un mezzo
ghigno che donò un nonsoché di mellifluo alla sua
voce quando mi sussurrò in faccia il suo divertimento.
– Sei
gelosa?
Annuii, ma me ne
pentii subito.
La candela
bruciò per un po’ sui nostri volti, fermi e ora
compressi in sentimenti che non riuscivamo bene a capire ma che, era
evidente, ci avevano scombussolato a tal punto da far calare il
silenzio nella stanza.
C’era un
buon profumo, ora che il suo collo era così prossimo al mio
naso. L’odore frizzante di salsedine e quello leggero della
spuma di mare.
Poi, accadde.
Il compimento in
pensiero di quella che era la mia paura più grande e
profonda. La caduta di quella goccia che fece straripare un mare di
sentimenti ed emozioni soppresse per diciotto anni.
Io amavo Kadar.
Lo amavo
quand’ero solo una bambina, l’ho amato anche dopo,
quando se n’era andato, e adesso, anche adesso che sapevo di
aver difronte l’idealizzazione di un corpo incorporeo, morivo
dalla voglia di stringerlo a me come se fosse fatto di carne, e
affondare nelle sue labbra come se potessi sentirne il sapore, e,
sì, farci l’amore, come se quella notte sarei
diventata finalmente una donna.
– Kadar
…
Mi allungai appena
verso il suo volto, sentii l’attimo in cui il respiro gli si
mozzò in gola, atterrito. Avvertii il vago richiamo della
sua carne calda in prossimità della bocca. Ma
all’improvviso lui si ritrasse.
Riaprii gli occhi e
non appena mi rividi riflessa nei suoi sbarrati, viso tondo e naso
rosso per il vino, ebbene, quell’idilliaca sensazione di
rivelazione e accettazione che avevo provato per pochissimi attimi mi
franò in testa come il tetto di una casa.
Ora tutto
ciò che sentivo era l’acuto sentimento del disagio
e di un orgoglio ferito.
–
Domani… domani il gonfiore del tuo viso dovrebbe esser
diminuito. – Kadar faticò a riprendere la
naturalezza della conversazione, ma lo sguardo puntato in basso e
l’improvvisa ritrosia del suo corpo gli facilitarono di
parecchio il compito. – La gente potrebbe insospettirsi del
tuo aspetto, capirebbe che sei una donna e Nadim solo un travestimento.
Ancora confusa, mi
sforzai di non scoppiare a piangere mentre col volto accaldato mi
allontanavo e tenevo la fronte tra le dita, per nascondermi ai suoi
sguardi impacciati, quelli di chi non sapeva bene come comportarsi ora
che le cose avevano preso una piega troppo compromettente.
–
C… concordo. – risposi quasi per dovere, spingendo
le mani dietro i fianchi mentre, volgendomi di scatto, tiravo un
sospiro per rischiararmi i pensieri. Dannazione.
Dannazione,
dannazione, dannazione!
– Ci
conviene partire prima che il sole sorga, quando le sentinelle faranno
il cambio di ronda, per evitare d’incrociare controlli alle
porte. – affermò poi, un po’ teso,
tirandosi gli abiti ripiegati sottobraccio e sistemandosi la spada
d’Altaïr al fianco, forse
nell’inconsapevole ricerca di un
incoraggiamento. – Passerò verso
l’alba per portarti abiti nuovi e mangeremo qualcosa a
cavallo, forse dovremo fermarci a qualche sorgente prima di addentrarci
nel deserto e riempire anche le borracce delle tue
bisacce.
Non si volse nemmeno
una volta a guardarmi mentre impartiva i suoi ben chiari ordini, e non
lo fece nemmeno difronte alla porta aperta, invece, mi
liquidò con queste semplici parole, come se non vedesse
l’ora di liberarsi di me.
–
È tutto chiaro?
Chiarissimo. Mi
lasciai sfuggire un singhiozzo dentro il sorriso, chinando la testa sui
miei piedi nudi e bianchicci, mentre dentro iniziava a bruciare.
Sì, Kadar. La prima lacrima fuoriuscì e cadde sul
mio alluce.
Ora è
perfettamente chiaro.
– Sparisci ... sparisci dalla mia
vita.
Un sussurro.
Impercettibile. E in qualche modo, Kadar lo sentì.
Rimase con un piede
nella stanza e l’altro già in corridoio per
chissà quanto tempo, in equilibrio tra la voglia di
sbattersi dietro quella porta e andarsene, oppure, rientrare dentro e
chiedermi che cosa intendessi, perché continuavo a
trattenerlo con tutte quelle subdole bugie e, poi, gli intimavo di
sparire per sempre dalla mia vita.
Ma non ci riuscii.
Non riuscii a
spiegargli il complesso motivo per cui non riuscivo ad accettare i miei
sentimenti per lui, e anche se ci fossi riuscita, lui non mi avrebbe
mai creduto.
Quindi, Kadar se ne
andò. Nessuna parola, nessun tentativo di capire.
Semplicemente, ero di
nuovo sola.
*
*
*
Ricorda,
amore mio. Nulla di quel che ritieni esser vero è reale, ma
tutto quello che ti sembra impossibile e assurdo, ebbene quello
sì, quello è reale.
Ricordati, Laura.
Nulla è
reale, ma tutto è lecito.
Ricordatelo. Devi
ricordarlo.
Laura.
Mi risvegliai di
soprassalto e lo sbilanciamento del sussulto mi colpì in
pieno stomaco, rovesciando il suo contenuto con una capriola che
mandò tutto sottosopra.
Resistetti pochi
secondi con le mani pressate sul grembo nel penoso tentativo di far
passare gli spasimi e i dolori lancinanti, poi scivolai oltre il bordo
del letto e scaraventando le ginocchia per terra mi chinai subito a
recuperare il vaso da notte vuoto sotto il letto. Appena in tempo.
Liberai lo stomaco di
tutto il vino ristagnante nel fondo del mio stomaco e quando ebbi
finito l’odore di fermentazione e del cibo misto ai succhi
gastrici mandò il mio cervello indietro, costringendomi a
trovare appoggio contro l’angolo del letto.
Rimasi seduta a terra
per un bel po’, quasi priva di una coscienza vigile e con gli
occhi chiusi nella confusione di una sbronza che faticava a scemare e
un gran mal di stomaco, forse perché avevo mangiato, anzi,
fagocitato avidamente tutto ciò che sulla tavolata imbandita
aveva un benché vago odore di cibo dopo quasi due giorni di
digiuno.
Solo adesso mi rendevo
conto di quanto fosse stata stupida l’idea di finire da sola
un piatto considerevole di carne d’agnello che divisi Malik,
il quale la sbocconcellava tra un racconto e l’altro e ne
inzuppava grossi pezzi in una strana salsa nera, rompeva gusci di noce
color del miele e me ne offriva, consapevole che non avrei rifiutato. E
nel frattempo bevevo, bevevo interi bicchieri di vino per mandare
giù i grossi bocconi che nemmeno masticavo tale era
l’euforia di risentire i gusti dopo un periodo di assoluta
aridità per il mio povero stomaco.
Mi pentivo
d’essermi ingozzata senza pensare che potessi avere
un’indigestione, mi pentivo d’aver bevuto tutto
quel vino solo perché la conversazione era scorrevole e
piacevole, ma più di tutto, mi pentivo di non esser riuscita
a tenere a bada i miei sentimenti difronte a Kadar, mettendolo nella
scomoda posizione di rifiutare sua
sorella.
Mi pentii di tutto.
Tutto quanto.
Gli avrei chiesto
scusa nell’indomani, quando sarebbe venuto a prendermi per
partire. Avrei incolpato l’alcool. Sì. Poteva
andare.
Quando poi mi sentii
un po’ meglio, e riuscii ad aprire gli occhi senza che
provassi un forte senso di vertigine, mi feci leva sul materasso e
anche se un po’ barcollante riuscii a rimettermi in piedi e a
recuperare il vaso pieno di vino fermentato, che buttai fuori dalla
finestra e già lungo la torre buia.
Storsi il naso e volsi
il viso da un’altra parte mentre sbattevo il vaso sul muro
esterno, per scrollare via qualsiasi residuo, e fu allora, mentre
riportavo il braccio dentro e mi apprestavo a richiudere le vetrate,
che notai la pesante cappa di elettricità che ricopriva
l’intero cielo.
Difficile dirlo, ma
doveva essere notte fonda. Forse le due, le tre di notte.
Richiusi la finestra
con un sospiro, e giacché avevo una certa sete andai diritta
verso il lavamano in un angolo della stanza, ma quando sbirciai dentro
il tinello di rame lo trovai vuoto, così come la caraffa
poggiata sul fondo.
Sbuffai, abbandonando
il vaso da notte sulla superficie spoglia e buia e mettendomi in
equilibrio sui palmi aperti lungo il bordo di legno. Che stupida. Mi
ero dimenticata di averla usata tutta per lavarmi, anzi, strofinarmi
via la sporcizia di quei tre giorni.
Ora mi sarebbe toccato
cercarne dell’altra.
Lo ammetto,
l’idea di uscire fuori non mi esaltava molto. In
verità, il pensiero di tutti quei cunicoli, corridoi,
passaggi segreti e atri deserti mi metteva addosso una certa tensione,
o forse era proprio fifa.
Insomma, chi mai
avrebbe avuto l’ardire di addentrarsi in un castello
medievale del dodicesimo secolo a notte fonda, con tutto il rischio
d’incappare in qualche spirito o fantasma di passaggio cui
esistenza, per quanto ridicolizzata dalla mia fede incrollabile per
tutto ciò che era razionale e scientificamente spiegabile,
era comunque tenuta in vita da quel minuscolo timore nel mio cuoricino,
ovvero che, sotto sotto, le antiche leggende e gli incubi
dell’ottuso immaginario medievale non era poi tanto
immaginario?
Nessuno. Ma io avevo
una gran sete e, come già detto, in quella dannata
allucinazione le sensazioni e i bisogni fisiologici erano
più vere che nella realtà.
Quindi, mi feci
coraggio e uscii fuori dalla zona sicura della camera di Kadar,
addentrandomi nel cuore del castello addormentato.
Tutto taceva, i
corridoi erano vuoti e le lanterne illuminavano gli archi che dalla
cima delle scalinate si proiettavano sulla fronda frastagliata di un
albero di arancio in un giardino murato, la cucina era chiusa e i
tavoli nel refettorio desolati, la maggior parte degli Assassini era
nei loro alloggi o sulla passerella delle mura esterne e tra i merli
dei torrioni, dove vegliavano sul villaggio e i confratelli
addormentati.
Grazie alla chiamata
alle ronde non trovai nessuno a sbarrarmi il cammino dentro il castello
e passai da un’ala all’altra del castello,
indisturbata ma non per questo meno tesa, perché temevo
sempre di ritrovarmi davanti al fantasma di una fanciulla caduta dalla
torre, o del suo cavaliere senza testa.
E tanto fui presa da
questa improbabile possibilità che non mi resi conto di aver
sbagliato completamente direzione.
Non andai alle cucine,
come invece avevo deciso di fare, ma proseguii per delle scale strette
tra due mura a spirale, scendendo giù di qualche metro.
Intuii subito che qualcosa non andava, ma quando pensai di tornare
indietro era già troppo tardi.
Due guardie, ferme
sotto un’arcata di pietra, erano sbucate dal pavimento
dinanzi a me come dei veri e autentici fantasmi, sbarrandomi il cammino
appena entrai in corridoio.
Il corpo
balzò subito indietro, a cercare riparo contro
l’angolo e lì rimasi con lo sguardo sbarrato nel
terrore per chissà quanto prima d’accorgermi che
le due guardie erano belle che addormentate sul posto di lavoro,
braccia conserte e mento affondato sul petto bianco.
Tuttavia non uscii
subito allo scoperto, invece, rimasi cautamente affacciata dal mio
nascondiglio e soppesai il rischio di tentare seduta stante di
sgattaiolare via, prima che le guardie si svegliassero. Però
non riuscivo a non chiedermi cosa ci fosse dall’altra parte
di quell’arco per essere sorvegliato da due Assassini. Forse,
le segrete del castello?
Un lampo mi
trapassò la testa.
E se … ?
Scossi il capo,
schernendo quell’idea con una risata sommessa. No,
decisamente, non era il caso.
Feci così
per tornare indietro nel corridoio, salii i primi due gradini e mi
bloccai al terzo. Resistetti un bel po’alla tentazione prima
di cedere e sbirciare oltre la mia spalla sinistra, tormentata dal
volteggio angosciante di pensieri che proprio non volevano lasciare la
mia testa.
E se non fosse stato
un caso, che quella mattina al villaggio fosse giunto un Templare
proprio mentre me la stavo squagliando da Masyaf?
E se ci fosse un
disegno dietro il nostro incontro accidentale, avvenuto per uno scarto
di pochi minuti oltre il quale non ci saremmo mai incrociati,
un’intenzione nel farmi indugiare alle porte il tempo
necessario per vedere quel novizio alzare la mano contro di lui, lo
scopo esatto di riscuotere in me un sentimento assopito,
quell’antica identità sepolta nelle
profondità del mio sangue?
E se quel Templare, il
fantasma di un Ordine tramontato da secoli oramai, fosse la risposta a
ciò che mi stava succedendo?
L’unico modo
per saperlo era superare le guardie e scendere direttamente nella bocca
dell’inferno.
*
*
*
Quando
giunsi nelle
segrete, l’aria viziata e muffosa mi penetrò fino
ai polmoni, fu come se mi avessero gettato in faccia un panno di lana
nel bel mezzo di una camera ardente e, in effetti, quel posto aveva
tutta l’aria di esserlo, con quelle rare fiaccole che
ardevano sulle colonne fiancheggianti il lungo cammino buio e il
soffitto nero per il fumo delle torce.
Procedetti con cautela
per tutto il tempo, temendo il momento in cui, invece della pietra
vischiosa e fredda, avrei calpestato la coda di uno di quei topi che
correvano sul pavimento, e mentre avanzavo verso la fila di celle che
si perdevano a vista d’occhio su entrambi i lati del
corridoio ebbi quasi la sensazione che lo spazio si stesse restringendo.
Provai subito un certo
fastidio, perché ero claustrofobica, e l’odore
secco dei trefoli di canapa in combustione sulla cima delle torce non
mi aiutava. Poi, di punto in bianco, mi accorsi che non c’era
solo l’anidride carbonica e il puzzo di fumo
nell’aria.
Da qualche parte
lì sotto nelle segrete, si udiva l’eco di un
canticchiare sommesso.
Raggelai
all’istante. Uno spirito infestante?
A quel punto, fui
davvero tentata di tornare di corsa indietro, e quasi lo feci,
incoraggiata dalla menzogna che non fuggivo perché avessi
paura di trovarmi difronte uno spettro ma perché
lì sotto l’aria era davvero troppo malsana ed io
avevo bisogno di una boccata più fresca.
Ma poi riconobbi in
quella spettrale litania il ritmo vivace del greco, le
quantità secce e le stoccate scandite, venendo subito colta
dal ricordo spiazzante di una magione, di una finestra aperta sulle
montagne e del Critone in cui Platone immortalava il ricordo affettuoso
del suo amato maestro.
Fu come udire il
ricordo di una voce della mia infanzia e senza più paura
percorsi spedita l’ultimo tratto che mi avrebbe condotto
verso l’ultima cella a destra.
Lì,
finalmente, mi fermai.
Il Templare che era
arrivato a Masyaf quella mattina era un uomo davvero colossale, di
circa mezza età e col portamento fiero di un leone
solitario, e fu a dir poco deprimente vederlo accucciato nella sua
celletta mentre, ricurvo e di spalle, sbocconcellava un tozzo di pane
raffermo mentre, con la bocca piena, singhiozzava melanconico il
conforto di un’antica ninnananna della sua terra.
Enίa dé toi paides
enί, trághe, foinikόeanta, téntes….
kaì lasίo fimà perì
stόmati… ίppia paideύousi teou perì
naòn áetla… [1]
Di punto in bianco, la
nenia morì e la susseguì un teso silenzio in cui
rimasi immobile, a fissare l’ombra delle grosse vertebre
sotto la camicia tirata del Templare attraverso le grate.
– Ma guarda,
l’Assassino di questa mattina è venuto a farmi
visita… oh, un momento. – Sbirciò
indietro ed ebbi l’impressione che avesse sorriso sardonico
mentre esclamava col suo terribile accento arabo – Per tutti
i numi, ma… siete una donna!
Mi ritrovai a ingoiare
un grumo improvviso di saliva, sentendo tra i denti il sapore della mia
stessa paura.
– Ditemi:
conoscete un po’ di greco? – chiese poi, tornando a
dare le spalle al corridoio. – Perché ho davvero
molto fastidio a parlare arabo, è una favella un
po’ rozza, a parere mio.
Ci misi un
po’ prima di rispondere.
Non ero esattamente
quella che si poteva definire una persona coraggiosa o sicura di
sé, di solito non mi piaceva conoscere gente nuova, anche
perché non ero abituata, e difronte a qualcuno che non fosse
Agata o Erica mi sentivo non solo come se perdessi immediatamente la
lingua, ma avessi perfino difficoltà a esprimermi. Io, che
senza troppi problemi avevo tenuto testa ad Altaïr,
chiacchierato della vita di un perfetto sconosciuto come Richard Frye,
bevuto in compagnia di Malik, fatto cacciare la lingua a un ragazzino
che da una vita aveva smesso di parlare con chiunque, solo
perché non ero la vera me,
quella che nella vita vera viveva rinchiusa da diciotto anni dentro una
villa sperduta nel nulla.
Già. Forse,
era proprio questo il problema.
Perché
esattamente come il piccolo Nadim anch’io avevo paura di chi
avevo davanti, ma non appena ero divenuta qualcun altro, il grande
Nadim novizio spregiudicato, ebbene, era come se avessi indossato una
maschera dietro cui mi sentivo perfettamente protetta, e parlare non
era più stato un problema.
Forse, era questo che
dovevo fare: indossare la maschera di Nadim, fingere di essere ancora
lui.
E funzionò.
La mia lingua si sciolse come ghiaccio al sole, così.
– Io
… io non sono molto brava in greco, in realtà.
L’ho studiato, ma non lo parlo. – ammisi infine, un
po’ incerta. – Però, io…
Non finii di parlare,
che lui mi schernì con un versetto di sberleffo, quindi,
addentò vorace il misero tozzo di pane e se lo
masticò rumorosamente.
Quel suo gesto di
palese insofferenza colpì in pieno il mio orgoglio di
Chiaravalle e in un batter di ciglia mi ritrovai a gestire a stento un
atteggiamento volitivo e di ritrovata fierezza, che espressi col corpo,
schiena diritta e narici dilatate, mentre per la prima volta parlavo a
voce limpida.
– Non parlo
greco, ma parlo bene il latino, messere!
– esordii, gettando fuori quelle parole quasi correndo per
paura che potesse interrompermi di nuovo.
Non mi aspettavo che
tornasse a guardarmi e ora che mi aveva concesso una piena visione del
suo viso potei vedere che il bollo stampato sulla sua fronte quella
mattina si era modificato, adesso sembrava a tutti gli effetti un
brutto livido circondato da capillari rotti. Anche l’occhio
destro era gonfio, completamente richiuso su se stesso, mentre
l’altro, ben aperto e naturalmente tendente a una forma
triste, mi stava scrutando con fare sospettoso.
Poi, senza alcun
preavviso, l’uomo balzò in piedi e corse a
scagliarsi contro le grate, producendo coi suoi palmi un rumore che
rimbombò per tutte le segrete e che mandò
indietro il mio coraggio di tre passi.
– Sentiamo,
allora. – sussurrò, con l’alito pesante
di uno che non mangiava da svariati giorni.
Io arricciai il naso,
distogliendo lo sguardo contrariato per pochi secondi. Allora, quando
ebbi ricordato a me stessa la ragione per cui ero lì,
rispolverate le noiose lezioni della suora, con un certo sforzo mentale
iniziai a parlare.
–
Sciebasne… sciebasne essem muliere? – Sapevate che
ero una donna?, domandai guardandolo fisso.
La sua bocca si
squarciò in una risata fragorosa, colpendomi in pieno volto
col suo alito pestilenziale e con una risposta ben evidente.
– Papae!
Vere Latine loqueris! – Diavolo! Parli davvero latino!
Serrai le mani a
mo’ di pugno. – Sciebasne! – Lo
sapevate!, mi riferii al nostro primo incontro sotto le porte.
Lui mi
schernì con una smorfia della bocca, staccandosi dalle grate
e mettendo su un’espressione divertita.
– Hashashin
qui defendetur Miles Templi? – Un Hashashin, che difende un
Templare? – Dementis est! – Cose da pazzi!
– Immo. – Anzi. – Muliebriter!
– Da donna!
Si spostò
all’interno della cella e per un istante lo persi
nell’oscurità della notte. Mi avvicinai un poco
alla cella, strizzando gli occhi nella ricerca di qualche ombra.
– Tunc,
quare tacuisti in conspectu Hashashin? – Allora,
perché avete taciuto difronte agli Assassini?, chiesi piano,
guardando affondo nella stanzetta.
Da così
vicino, fui investita dall’odore poderoso di feci e piscio
che proveniva dal fondo della prigione, quand’ecco che due
orbite luminose si volsero a guardarmi, trapassandomi l’anima
con la velocità di un proiettile.
– Hodie
tibi, cras mihi, dominae mea. – Oggi a te, domani a me, mia
Signora.
Poi, il Templare
sorrise e tornò a girovagare per la cella e a passare il
pezzo di pane da una mano all’altra, lasciandomi
completamente ammutolita per un tempo che parve logorante alle mie
corde vocali.
– Ditemi,
Signora mia, da quanto tempo siete in queste terre barbare? –
fu lui a riprendere la parola, mantenendo la stessa disinvoltura anche
mentre strappava un pezzo del suo pane e lo lanciava al topo che si era
affacciato dal buco nel muro. – Siete stata data in moglie a
qualche barbaro Saraceno [2] quando eravate
ancora una bimba ?
– Non sono
sposata, né ho in progetto di farlo prima dei miei
sessant’anni.
– Ma sarete
cristiana, suppongo. – provò allora, storcendo il
naso quando continuò – Una donna cristiana che
parla la lingua templare [3], favella in
saraceno e indossa abiti da Assassino. È straordinario anche
per questi rozzi uomini. Decisamente, qualcosa di non
convenzionale, che una donna pensi
così tanto.
– Beh, io
penso. – ribattei saccente, un sopracciglio completamente
arcuato nella stizza. – E non sono cristiana. In
realtà, l’unica cosa in cui credo è la
realtà dei fatti.
– Ah!
– il suo motteggio mi giunse forte dal muro in fondo.
– Abbiamo una scettica! La conversazione si fa finalmente
stimolante.
– Se volete
convertirmi, – lo schernii con un mezzo sorriso, –
perderete soltanto tempo…
– Parlavo
della vostra diffidenza. Di solito è sintomo di grande
intelligenza, o immensa stupidità. La vostra qual
è?
– Vi trovo
un gran cafone.
–
Perdonatemi. – Sorrise sotto i baffi. – Allora,
permettetemi di rimediare. Vorrei comprendere quanto è
intelligente la mia Signora, che di certo deve essere una donna
speciale, ponendovi difronte un mio piccolo grattacapo. Una questione,
se vogliamo, da cui dipenderà la nostra …
amicizia!
Arcuai un sopracciglio
con fare scettico. – Io non sono qui per la vostra amicizia.
Ma. – Sospirai. – Vi ascolto.
–
Sarà questione di un attimo.
Con un movimento
fluido e scattante il Templare si accoccolò per terra a
gambe incrociate, e quasi si aspettò di vedermi fare
altrettanto, se solo non fossi rimasta cocciutamente in piedi a
fissarlo con quell’espressione che sta a metà tra
lo scherno e l’indifferenza. Insomma, alla fine io rimasi
dov’ero e l’uomo, rinunciatoci, iniziò a
parlare.
– Cosa
sapete voi degli Assassini, mia Signora?
Incrociai le braccia,
sbuffando.
– Non molto,
in realtà. – risposi breve. – Solo che
sono molto eruditi, che hanno un complesso sistema gerarchico e che
sono estremamente agili, che la loco capacità di
arrampicarsi anche sui punti più impervi costituisce per
loro un notevole vantaggio sui nemici. Ecco perché sono
così letali e, soprattutto, pericolosi.
– Tutto
giusto. Ma avete dimenticato la cosa più importante.
– Alzò l’avambraccio sinistro, piegando
tutte le dita della mano eccetto l’anulare. – Avete
mai notato che tutti gli Assassini mancano di questo dito?
Non risposi.
– Certo che
sì. – sorrise, riportandosi la mano sul ginocchio.
– E saprete anche che è per utilizzare meglio la
loro adorata lama celata, un infido pugnale nel loro bracciale che quei
codardi usano per uccidere il loro bersaglio senza affrontarlo, che
amputano l’anulare a tutti i neonati, figli di puttane e
ladre mandate al rogo nella piazza della città? Certo, a
volte non trovano pargoli della sfortuna da raccattare dalle strade e
allora entrano nelle case, uccidono le loro famiglie e prendono i
piccini per portarli a Masyaf, dove vengono massacrati dagli
allenamenti, picchiati, costretti a gettarsi giù dalle torri
al minimo ordine del loro Maestro …
– Dove
volete arrivare?
– Non so
cosa vi abbiano detto qui, ma non sono i Templari i cattivi di questa
storia. Gli Assassini lo sono.
–
Spiegatevi.
Vidi un sorrisetto
moderatamente soddisfatto fiorire sul suo volto magro. Sapeva di avermi
attirato nella sua trappola ed ora, ora poteva davvero parlami con la
sicurezza che lo avrei ascoltato fino all’ultima sillaba.
– Sapete,
mia Signora, quella tra Assassini e Templari è una storia
davvero molto antica. Nessuno sa con esattezza
quand’è che tutto cominciò,
né se i nostri Ordini fossero in principio uno soltanto, ma
eravamo antichi e uniti dal sangue come Caino e Abele: fratelli,
individui uniti dalla volontà di tenere questo mondo lontano
dalle Grandi Tenebre. Dei campioni della Luce. Ma poi,
purtroppo…
– Poi sono
iniziate le gelosie e i primi screzi. – conclusi io per lui
con saccente ovvietà, forse troppa. Lo vidi guardarmi torvo
e subito mi morsi la lingua a testa china.
–
Già, accadde proprio questo. – riprese a parlare,
ma questa volta senza guardarmi in faccia, sbirciando lungo il
corridoio con aria distante. – Cominciammo a pensare non
più come un’unica, bianca entità, ma
come tante piccole testa d’ombre e chiaroscuri,
all’improvviso, non ci trovavamo più in accordo su
nulla. Gli Assassini non riuscivano ad accettare l’idea che
l’umanità fosse ormai compromessa, si ostinavano a
credere che ci fosse del salvabile, che era ancora possibile una
redenzione. Ma la loro è una mera illusione. Il Padre della
Comprensione ci ha dato concesso una preziosa occasione e noi
l’abbiamo scialacquata. L’ordine ha ceduto il posto
al caos, adesso i fratelli uccidono i propri fratelli, i bordelli sono
affollati e le strade costellate di figli della guerra, bambini che
piangono ai piedi del ricco che passeggia col suo seguito tra le strade
di Acri, e gli Assassini, loro non vogliono alzare un dito per cambiare
questa situazione! Loro sono la schiatta del male, impediscono ai
Templari di ripulire il mondo da queste terribili atrocità!
E se per cambiare le cose dovremo immergerci nel sangue di quelli che
un tempo erano i nostri fratelli fino alle ginocchia, se per farlo
dovremo estirpare la feccia dell’umanità, ebbene,
e così sia!
Terminata la sua
sentita apologia, il Templare si tirò in piedi e diede due
colpetti di palmo per ripulirsi i pantaloni sdruciti ai lati, quindi,
si alzò quasi aspettandomi di trovarmi con
quell’espressione tesa, labbra strette e braccia conserte
mentre mi lambiccavo il cervello con furiosa inconcludenza.
– Ebbene?
– il Templare era impaziente di sentire la mia opinione.
– Voi
… siete un pazzo! – fu tutto ciò che
riuscii a strapparmi via dai denti. – Estirpare il genere
umano, rigenerare il mondo dalla ... feccia ! Voi vi
credete Dio!
Lui
rabbrividì come di stizza, dicendo – Mia Signora,
avete completamente frainteso! Sono gli Assassini quelli che giocano ad
essere Dio, uccidendo e dissacrando il dono della vita umana!
– E voi non
fate forse lo stesso, signor Templare?
–
Sì, è vero. Ma le nostre azioni sono per una
Causa onorevole. Noi uccidiamo perché dobbiamo.
– Dobbiamo? – ripete, stizzita. – Ma vi sentite? Nessuna
Causa vale la vita
delle persone, nemmeno la più giusta!
Vidi il suo volto
aprirsi gradualmente in un sorriso ironico.
– Voi mi
attaccate, – disse, – ma non riuscite a
non essere d’accordo con me. Sapete che
l’umanità non ha più alcuna speranza.
Non è vero?
Avrei tanto voluto
obbiettare, sputargli addosso che non era così, che non
avrei mai approvato una simile follia, perché …
beh, era semplicemente folle.
Ma la
verità era che, sotto sotto, mentre lui elencava le
ingiustizie che, sapevo fin troppo bene, pullulavano in questo mondo
indisturbate da fin troppo tempo, il mio sangue era ribollito, avevo
sentito il peso dell’impotenza schiacciarmi e subito dopo lo
slancio della rabbia rimontarmi, portandomi, seppur per un brevissimo
secondo, ad approvare l’idea di una depurazione.
Ma era sbagliato.
Era sbagliato pensare
di condannare un’intera umanità e questo gli
Assassini lo sapevano.
– Non sono
venuta qua per farmi prendere in giro da voi, signor cavaliere.
– borbottai a denti stretti.
– Siete qui
per chiedermi della Vecchia Regina. Lo so.
Silenzio.
Un inaspettato,
soffocante pezzo di silenzio andatomi di traverso giù per la
gola. Ed ora mi ritrovai ad indietreggiare, colpita
dall’improvvisa consapevolezza che ciò che pensavo
era vero. L’arrivo di quel Templare era prescritto, il nostro
incontro voluto dal destino, il mio arrivo lì, a Masyaf
… doveva accadere.
– Chi siete
voi, veramente, signor Templare? – scandii quelle parole con
perfetta lucidità ma il cuore che mi pulsava nelle tempie,
spiazzata dalla possibilità che, forse, avevo trovato
l’uomo che mi avrebbe dato delle risposte.
– Chi sono
io non ha affatto importanza. – mi liquidò invece
lui, sbrigativo. – Ma se fossi in voi rinuncerei a cercare i
vecchi signori templari, per il vostro bene.
– Cosa
volete dire ?
Rimuginò
con fare indeciso.
– Voi
credete agli spiriti, mia Signora?
Colpita, mi ritrassi
subito col busto, il pugno era corso al petto e lo stringeva mentre
sotto il cuore scalpitava.
–
Spiriti…? – ripetei quasi balbettando.
– Sapete,
questo castello ne è pieno zeppo, di spettri che vagano
nella notte.
– Smettetela.
– Tra i
corridoi, negli atri… qui, nei sotterranei…
– Adesso
basta! Non ho tempo per queste vostre assurdità! Se non
volete parlare con me, ebbene…
– Voi siete
qui perché pensate io possa dirvi dove sono i Chiaravalle.
– esordì, schiacciando lo zigomo contro le grate
con fare quasi annoiato. – Ma state perdendo solo
… come si dice? Tempo.
A quel punto, ero
pronta per scappare, davvero. Ma poi riempii i polmoni di tutta
l’aria disponibile, trattenni il respiro, e contai.
Uno, due,
tre… fino a dieci. Finiti i numeri, il battito cardiaco si
era più o a meno regolarizzato. Adesso avevo i pensieri
più lucidi e ordinati, potevo pensare senza che
l’aria attorno mi soffocasse con le sue oscure presenze.
–
D’accordo. – Mi volsi con tutto il corpo verso le
grate, i pugni stretti lungo i fianchi, lo sguardo deciso. –
Ammettiamo… ammettiamo che io stia cercando la famiglia
Chiaravalle. Perché sarebbe una perdita di tempo?
Nessuna risposta.
– Dovete
andare. – all’improvviso, aveva fretta di
concludere la nostra conversazione.
– Cosa? No,
aspettate! Cosa accadde davvero quel giorno di trent’anni fa
al mercato di Gerusalemme? Chi tradì i Sette Fratelli?
È vero ciò che si dice, o è solo una
leggenda? Vi prego, ditemelo!
– Non
dovreste rievocare la memoria dei defunti. È pericoloso, ed
è proibito.
– Proibito?
E da chi?
– Avete
finito il tempo a vostra disposizione. Ora andate.
Spazientita, andai
spedita alle grate e le afferrai con entrambe le mani, opponendomi a
gran voce.
– Io non me
ne vado di qui finché non risponderete!
Rumore improvviso di
ciottoli che rotolavano sul pavimento.
Il cuore mi
saltò in gola, l’occhio corse verso il corridoio
buio e all’improvviso sentii che stavo tremando, tremavo
così forte che non riuscivo più a tenere le dita
allacciate attorno alle grate. Come se fossi divenuta di pastafrolla.
Mi sentivo molle.
–
Voi… voi avete risvegliato la maledizione.
– la voce del Templare, riemerso
dall’oscurità come un derelitto dal mare, mi
riportò su di lui, ed ora, sì, sentivo che avevo
gli occhi sgranati dalla paura.
Un’indescrivibile,
viscerale paura dal profondo del mio petto.
Eppure, riuscii, in
qualche modo, ad aggrapparmi a quell’ultimo, disperato
barlume di ragione scientifica che ancora non era stato spento dai
venti freddi di un primitivo incubo, e stendendo la mano in avanti
riuscii ad agguantare la mano del Templare sull’inferriata.
– Quale
maledizione? – sussurrai rotta. – Quale…
è per questo… che non riesco più a
tornare a casa? È per questo … ?
Nessuna risposta, solo
i suoi occhi che mi fissavano, comprensivi, quasi amici. Poi, stese la
mano sul mio volto, carezzandomi con dolcezza il profilo della
mandibola da parte a parte.
–
È … dentro di voi.
Mi scostai appena
dalle sue dita, allibita.
– Cosa?
– sussurrai.
Lui mi
afferrò per un braccio, tirandomi verso di lui con violenza
tale che andai a sbattere contro le grate con la pancia, ritrovandomi
faccia a faccia col suo grosso, flaccido volto. Aveva gli occhi stretti
in due fessure, da folli.
– Il sangue
dei Chiaravalle. – sussurrò. – Sento il
suo odore… nelle vostre vene.
Qualcosa fece rumore
alle mie spalle.
Fu un istante.
Una lama che sbucava
nel mio campo visivo. Poi, del sangue schizzò sul pavimento.
*
*
*
Correvo.
Correvo e non sapevo
dove nascondermi.
Correvo, e nonostante
ciò le mie orecchie continuavano a sentirlo. Un ronzio
d’insetti sciamanti che mi rincorrevano tra le pareti come
l’ombra di un incubo.
Correvo, e le
ginocchia tremavano ogni volta che toccavano il pavimento reso
terribilmente scivoloso dal sangue che avevo sotto i piedi, sulla
camicia da notte, lungo il petto fino all’orlo di cotone
bianco, schizzato sulla punta dei capelli, mentre la mano non bastava
più a contenere il sangue che scivolava dal collo al polso,
lasciando sul pavimento i segni del mio passaggio.
Era stato il Templare.
Avevo abbassato la
guardia per un solo minuto, soltanto uno, e non mi ero resa conto di
quell’ombra di morte che incombeva sulle mie spalle. Avevo
abbassato la guardia solo per un fragilissimo secondo …
Poi, la sua mano che
mi spingeva via, scagliandomi contro il pilastro appena in tempo ma non
abbastanza in fretta per impedire a quel pugnaletto di graffiarmi il
lato destro del collo, dalla mascella all’orecchio,
stillandomi fiotti di sangue rubino.
Non mi resi subito
conto che stavo perdendo sangue. In realtà, non sentii
più nulla per quasi trenta secondi.
Ero rimasta
lì, immobilizzata sotto la torcia in cima al pilastro, come
ingoiata da una bolla del suono; né rumori, né
dolore, solo il Templare che lottava dall’altra parte della
cella per tenere un uomo avvolto da strati di stoffa verdi e dorata
contro le grate.
E tra le sue callose
dita scure, il pugnaletto che aveva stillato sette gocce del mio sangue.
Un sicario, un
fantasma, un assassino: un nemico, un amico, non importava. Aveva
tentato di uccidermi, e se il Templare non mi avesse spinto via in
tempo, ci sarebbe anche riuscito.
– Correte,
dannazione, correte!
Furono le urla
rabbiose del Templare a crepare la superficie della bolla, e in un
attimo, i rumori mi riesplosero in faccia, e con essi, quel ronzio
tartassante.
Vespe.
– Adesso!
– urlò di nuovo l’uomo –
Correte, mia Signora!
Ricordo a malapena a
cosa pensai mentre percorrevo di corsa le scale verso la superficie.
Forse, che per la prima volta avevo davvero paura di morire in
quell’allucinazione. Poteva essere.
Quando poi proruppi
sotto l’arco all’entrata delle segrete e trovai le
due guardie stese in una pozza di sangue, morte sgozzate nel sonno,
ebbene, la pressione schizzò alle stelle dietro i miei
occhi, rendendo il ronzio un cupo, straziante grido nero.
Mi mossi troppo in
fretta, volli scansare la mano morta della guardia più
giovane mentre scattavo in corsa e invece scivolai nel loro sangue coi
palmi e le ginocchia, schizzandomi il volto e i capelli di quel
nauseabondo, indelebile puzzo di morte che mai, mai avrei dimenticato
da quella notte.
Non emisi nemmeno un
gridolino, non potevo, bensì, raccolsi l’orlo
della sottoveste e ripresi subito a correre, trascinandomi come se
fosse uno strascico nero il brusio sciamante.
Mentre vedevo gli
ambienti schizzare ai miei lati in una sorta di galleria distorta e
piena di luci, realizzai che avrei potuto urlare, avrei potuto
svegliare l’intero castello e dare l’allarme per
salvarmi la vita. Ma questo voleva dire farsi scoprire, e,
potenzialmente, far condannare a morte Kadar per alto tradimento, lui,
l’unica persona che mi aveva protetto dall’inizio
di quella storia.
No, non ero disposta a
correre quel rischio, non lo avrei tradito.
Mi ritrovai a dare una
spallata a una porta piazzata sulla mia strada, irrompendo quasi in un
ruzzolone tra tre corridoi deserti, difronte a me la distesa blu notte
dall’altra parte delle vetrate tremolanti di luce. Danzavano,
mi distraevano dall’avanzata imminente dello sciame su per le
scale da cui ero appena giunta. Per un istante mi persi.
Poi, il plop di una goccia
di sangue sul collo niveo del mio piede, rinvenni.
Ecco il contatto.
Sapevo cosa fare.
Fuggire
all’esterno, andare via dal castello. Cercare mastro Frye.
Lui mi avrebbe aiutato, era l’unico che sapesse la
verità ed era sufficientemente forte per proteggermi.
Sì.
Mi sarei salvata.
Non recuperai neanche
del tutto il respiro che raccolsi l’orlo della lunga veste in
mano, liberandomi le gambe da ogni intralcio per correre a cercare
salvezza fuori dalle mura labirintiche della fortezza. Non ci misi
molto che la memoria di qualche giorno fa mi riportò in una
loggia pervia a diversi metri da terra, finendo con l’essere
travolta dal pungente vento della notte che attraversava la passerella
da un arco all’altro di pietra.
Il gelo
colpì il mio già precario equilibrio,
costringendomi a crollare sul pavimento.
Non ce la facevo, non
riuscivo più a continuare.
La paura
… mi stava letteralmente prosciugando le energie.
E quel ronzio m’impediva di pensare.
Ero al limite.
Basta.
Vi prego.
Voglio svegliarmi!
– A
… aiuto…
Gettai la mano tentoni
sul parapetto e trovai l’appiglio di uno stendardo velato
dalle ombre. Feci forza col braccio, macchiando lo stendardo col mio
sangue, ma fu inutile. Non avevo presa sufficiente per rimettermi in
piedi.
Così, con
le lacrime agli occhi, cercai dentro di me la forza per cercare
soccorso.
–
A… aiuto! – finalmente, il suono della mia voce
rimbombò tra i pilastri e le pietre, ritornando a me con
più convinzione. – Aiuto… aiuto, aiuto,
vi prego, qualcuno mi aiuti!
Qualcuno
arrivò davvero.
Era risalito dal fondo
delle scale dopo aver fiutato la scia del mio sangue, quindi, si era
affacciato nella loggia con la silenziosità di una lince
affamata, ed io, io ero il piccolo pettirosso a cui stava dando la
caccia quella notte.
Non appena riconobbi
sotto gli occhi il verde brillante dei suoi abiti mi gettai subito sui
gomiti per trascinarmi via di lì, ma la salvezza era a una
porta più in la e le caviglie strette nel nodo della paura,
troppo pesanti per permettermi di arrivarci.
Non so cosa il sicario
vide in quella fanciulla zuppa di sangue che gli stendeva la mano per
implorargli pietà, mentre lui, invece, avanzava col coltello
riverso indietro, il pomo d’oro che risplendeva nei miei
occhi spalancati, ma per un secondo, un impercettibile nanosecondo, mi
rividi ardere nelle fiamme del suo sguardo.
Povera. Povera,
piccola ragazzina spaventata. Ti avrebbe uccisa, e non avresti potuto
far nulla per impedirlo. Accidenti.
Il brusio si stava
facendo più forte.
Battei le ciglia.
… No.
No, non sarebbe finita
così.
Io non sarei morta
lì.
La lama
scintillò fredda sul mio viso, il vento fischiò
alla sua calata, quand’ecco che, con un ruggito disperato,
strappai con forza lo stendardo dal muro. In un batter
d’occhio tutto divenne bianco, udii l’uomo
sbraitare e tirare il tessuto da ogni dove, con l’unico
risultato che rimase ancora più impigliato di prima. Non
persi tempo, con una bracciata riuscii ad aprirmi un varco e non appena
fui fuori ripresi subito a correre.
Scesi le scale,
svoltai l’angolo per passare sotto due archi, quando udii dei
passi alle mie spalle.
Mi sentii agguantare
per i capelli, urlai ferocemente lottando per liberarmi da quella mano
che tentava di tirarmi indietro e nel frattempo una voce gutturale
sbottava in saraceno: “ Ferma, ferma!”
Un Moro. [4]
Al terzo scatto,
finalmente, riuscii ad alzare abbastanza il gomito per colpirlo in
faccia, riuscendo a fargli allentare la presa il tempo necessario per
svincolarmi e fuggire ansimante dentro l’ufficio di Al
Mualim. Sbucai difronte all’enorme vetrata buia e alle alte
librerie attorno alla scrivania, poi piegai per la scalinata a
sinistra, non riuscendo, tuttavia, ad impedire che il sangue impregnato
sotto i piedi rendesse il primo gradino scivoloso.
Ruzzolai
giù per le scale e lo slancio della caduta mi
scagliò lungo il pavimento dell’atrio immerso nel
liquido lunare, arrestandomi a pochi passi dal portone spalancato, dove
iniziai a guaire e a contorcermi dolorante.
Sentivo tutte le ossa
rotte, forse mi ero spaccata il labbro inferiore e come se non bastasse
all’improvviso erano tornate tutte le fitte
post-combattimento col Toro, con l’unica differenza che ora
erano triplicate, insopportabili.
Ma c’era di
peggio.
Il Moro aveva sceso le
scale con pochi balzi, aveva riposto il coltello nel suo fodero sulla
schiena e adesso stava marciando verso di me. Non provai a strisciare
via, ormai non avrebbe fatto altro che inferocirlo ancora di
più, ed ora il mio corpo non poteva sopportare altro dolore.
Entrò nel
chiarore artefatto della luna, si fermò e gli abiti
sbatterono contro le sue gambe, mostrando in quella nuova luce la
fattura pregiata dei suoi abiti verdi, dei decori color oro che
colavano sugli orli e i drappeggi, della raffinata foggia del turbante
di mussolina sceso a coprirgli il volto, su cui spiccavano solo gli
occhi contornati di nero fuliggine.
Con quegli occhi lui
mi guardò, e mi fece capire che ormai non potevo
più sfuggirli.
Non ricordo se mi
avesse strappato la gonna mentre mi forzava ad aprire le gambe, se si
fosse già slacciato i pantaloni quando sentii quel contatto
terribilmente spiacevole, o quando mi colpì
perché gli avevo morso la mano nel tentativo di liberarmi la
bocca e strillare, ma ormai, che importava? L’unica cosa che
potevo fare era chiudere gli occhi, per proteggere almeno loro da
quella bestiale violenza, e sperare che il brusio impazzito nella mia
testa mi risucchiasse via dal mio corpo abbastanza in fretta da non
sentire nulla.
Vi prego.
Voglio uscire da
questo incubo.
Poi, di punto e in
bianco, sentii il corpo del Moro scattare indietro, sollevandosi dal
mio ventre nello stesso istante in cui spalancavo la bocca e riempivo i
polmoni d’aria pulita. La sua mano lasciò
l’impronta di un sapore salato, spiacevolmente stampato sulla
mia bocca screpolata.
Spostai la testa tra
mille e più dolori, riuscii a guardare oltre
l’osso del mio ginocchio, e per un istante credetti di aver
visto delle ali.
Lunghe, bianche
soffici penne carezzevoli piantate tra le sue scapole scolpite, che
vibravano e s’imbevevano le punte sul sangue del
Moro morto lungo il pavimento dell’atrio illuminato, e
ciononostante, erano splendenti, così pure che perfino
l’aria intorno di morte attorno a lui si purificava e cantava
di luce.
Non avevo mai visto un
angelo stare così bene nel sangue.
Angolo
autrice:
[1] = Ἡνία δή τοί
παιδες
ἐνί, τράγε
φοινικoέντα
θέντες
καὶ λασίῳ
φιμὰ περὶ
στόματι
ἵππια
παιδεύουσι
θεου
περὶ ναòν
ἄεθλα ; Trad.
“Alcuni fanciulli, o capro, misero nella tua bocca ispida
briglie di porpora e un morso, e ora giocano alle corse dei cavalli
davanti al tempio del dio.” _ (Anite, A.P. VII, 312)
La ninnananna cantata dal Templare è tratta
dall’epigramma 312 di Anite di Tegea, poetessa greca vissuta
nel III sec. a.C. che scriveva di scene di vita privata, scorci agresti
e memorie del mondo infantile, come nel caso della filastrocca del
capro.
[2] = Il termine “ Saraceno ” fu usato a partire
dal II sec. per tutto il Medioevo per indicare gli arabi in special
modo.
[3] = La lingua ufficiale dei Templari era il latino.
[4] = Il termine “ Moro ” era usato in un contesto
non-mussulmano per indicare le popolazioni mussulmane, specialmente
berberi.
Dunque, dunque… capitolo con molte postille, eh. Scusate la
mia noiosa pignoleria, ma ricordo molto poco dei miei studi liceali,
quindi, perdonatemi se il mio greco e latino è un
po’… morto stecchito … ? Ad ogni modo,
non sono mai stata brava con le lingue antiche, ma ci ho provato!
xP
Se vi accorgete di qualche errore nelle traduzioni, vi prego, ditemelo,
così correggo!
Ed ora, torniamo ai nostri cari personaggi.
Mh, vediamo…
Kadar che vuole riportare Laura a Damasco, Malik che crede che lei sia
un lui, Laura ubriaca che tenta di baciare Kadar e viene respinta,
l’incontro notturno col misterioso Templare nelle segrete e
la rivelazione: Assassini e Templari in origine erano Ordini fratelli e
lavoravano per lo stesso obbiettivo, garantire l’equilibrio,
ma poi qualcosa si è incrinato; è scoppiata la
guerra e adesso una ragazza del ventunesimo secolo si ritrova nel bel
mezzo della Terza Crociata, immischiata in una storia ben
più grande di lei e della sua semplice richiesta: tornare a
casa.
Ma il passato della sua famiglia la segue come un fantasma. E se i
Sette Fratelli e la Vecchia Regina non fossero solo una leggenda? Se le
origini mitiche della famiglia Chiaravalle fossero vere? E se davvero
ci fosse una maledizione che grava sulla loro famiglia?
E chi è quel sicario in verde? Cosa era andato a fare nel
castello di Masyaf, come aveva riuscito ad entrare?
Ma soprattutto. Cos’è quel rumore che Laura
sente?
Come sempre, vi ringrazio infinitamente per avermi dato la
possibilità di raccontavi questa storia, e raccontarmi.
Baci,
la vostra amica,
Lusivia.
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Capitolo 8 *** 8.Rosso cremisi ***
Capitolo 8
Rosso
cremisi.
Il materasso sudicio squittì sotto il peso del mio corpo e,
sebbene avessi i brividi di disgusto, non disdegnai di raccogliere quel
poco di calore che il modesto giaciglio della cella mi offriva contro
il freddo di quella notte.
Ma l’oscura umidità delle segrete aveva
completamente prosciugato le mia energie.
Tollerare i primi quattro giorni era stato abbastanza facile, anzi, ero
quasi orgogliosa di poter testare i miei limiti, di vedere quanto
sarebbe passato prima che cedessi del tutto.
Non dovetti attendere molto.
Al sesto giorno, infatti, il bisogno di sentire sulla pelle il tiepido
soffio del vento era diventato un’agonia, la sensazione di
elasticità dei muscoli un miraggio, la fame continua che mi
divorava lo stomaco una amica dolorosamente presente.
Per lo meno la prigionia era riuscita ad acquietare un po’
gli animi, soprattutto di Rauf, che decise di oziare sulla branda della
cella dinanzi alla mia per tutta la durata della detenzione.
Ogni tanto mi lanciava occhiate truci, ma preferivo quelle che il
silenzio inspiegabile di Kadar.
Si era chiuso in se stesso da quando eravamo arrivati lì.
Mi misi a sedere sul materasso con un lungo sospiro, indugiando su una
crepa del muro prima di tentare un’ultima volta di spronare
il prigioniero dall’altra parte.
-Kadar, sei sveglio?- mormorai flebile.
Silenzio.
-Stai tranquillo, puoi parlare, non ci sente nessuno.
Ancora silenzio.
Esattamente come la notte prima, e quella ancora, e quella ancora.
Come se la mia voce fosse solo un fastidioso fantasma errante che
rimbalzava sulle mura.
A quel punto, mi misi in ginocchio e provai a sentire un suo movimento
dall’altra parte poggiando l’orecchio sulla parete,
poi picchiettai le nocche sulla superficie, sperando in un rimando.
Ma, proprio come le volte precedenti, l’unica risposta che
ricevetti fu il bisbigliato del fuoco che scoppiettava nel braciere.
Il cuore mi si gonfiò di sentimenti contrastanti, tra cui
anche una voglia matta di prendere a calci il muro e inveire a vanvera,
ma se davvero fossi stata sincera con me stessa avrei ammesso che, in
verità, avevo un disperato bisogno di conforto.
Rassegnata ormai all’idea di dover passare la settima notte
chiusa lì dentro, mi accucciai a terra come un cane
rabbioso, passando la mano tra il lerciume dei miei capelli con un
gesto stizzito.
Così, lasciai che i minuti mi scivolassero addosso, almeno
fino a quando l’ombra di un Assassino fermatosi davanti alla
mia cella riuscì a catturare la mia curiosità.
L’oscurità m’impedì di
riconoscere i suoi lineamenti celati nell’ombra della cappa
lattea, ma poi un guizzo vivace della brace alle sue spalle gli
illuminò il viso e riconobbi nel buio il riverbero dorato
degli occhi di Altaïr.
-Come diavolo sei entrato qui?-domandai a bassa voce- Ci sono delle
guardie in giro, a controllarci!
-Nulla che non possa abilmente raggirare- Altaïr
s’inneggiò con tono asciutto, poi
guardò velocemente attorno a se e tornò a fissare
lo sguardo sulla mia sagoma, continuando- Ed ecco che, infine, sei
finita dietro le sbarre gelide di una cella. Mi chiedo, a questo punto,
che cosa tu abbia combinato perché l’ira di Al
Mualim si scagliasse su di te.
Ci mancava solo lui con la sua fastidiosa ironia.
-Non vedo il motivo per cui debba interessarti- brontolai, decidendo in
quell’istante che avrei scaricato tutto il nervosismo su di
lui.
Quello tirò un sorriso irrisorio, affermando- Sai, Laura, il
mio interesse nei tuoi confronti è più accentuato
di quanto tu possa mai immaginare.
Improvvisamente, un cigolio anomalo mi portò ad abbassare lo
sguardo sulle sue dita che erano intente ad aprire la cella con un
mazzo di chiavi, sgraffignato a qualche guardia un po’
sbadata.
Egli entrò nella modesta celletta con passo felpato, si
piantò dinanzi a me si sedette sui propri calcagni.
Poi, senza staccare lo sguardo dal mio, sfilò un foglietto
sgualcito dalla cintura.
E sventolò la lettera del Templare Thorpe tra le sue dita
con la stessa soddisfazione di un giocatore d’azzardo che
spiattella la sua vittoria.
Istintivamente, portai il busto in avanti e provai a strappargliela di
mano ma Altaïr si ritirò e la ripose al sicuro
nella sua cintura, soffiandomi sulla fronte la sua risata roca.
-Come l’hai avuta?- mormorai, ritirandomi in buon ordine, con
le unghie conficcate nel cuoio morbido dei guanti senza dita.
-Non ha importanza. Allora, siccome mi sento magnanimo ti concedo il
beneficio del dubbio- iniziò lui, puntando i gomiti sulle
sue ginocchia aperte, e con aria intimidatoria riprese - Ti do dieci
secondi per spiegarmi il motivo per cui mi hai mentito riguardo alla
lettera. E ti consiglio di essere molto persuasiva, perché
inizio seriamente a credere in un tuo coinvolgimento
dell’assassinio del Rafiq Samir.
-Cosa?- balbettai sconcertata.
-Sette secondi.
-Io non sono una Templare, se è quello che stai insinuando!
Andiamo, Altaïr, non crederai davvero che io sia una spia?
-Quanto parli. Tre secondi.
Grugnii, serrando i pugni sulle gambe-Non ci posso credere! E va bene,
vuoi che ti racconti la verità?
-Se non ti è di disturbo.
-Eccoti accontentato. Prima di morire, Samir mi ha supplicato di
distruggere la lettera, ma non so se fosse a conoscenza del suo
contenuto - esitai, analizzando il suo sguardo asettico, e per un
momento mi sembrò quasi che stesse attendendo il momento
giusto per scagliarmisi contro.
Invece, la sua reazione fu molto pacata- L’hai letta?-chiese.
Esitai, poi annuii. -Io…io non so perché abbia
scelto proprio me-aggiunsi sconcertata- Non so come
spiegarlo…ma era come se lui…mi stesse
aspettando. Ecco, ora crederai che sono pazza.
Altaïr serrò la mandibola, picchiettando
nervosamente le dita della sinistra contro il suo ginocchio-Si, penso
che tu sia pazza. Cionondimeno, i tuoi occhi dicono la
verità. Forse, i miei occhi sono troppo stanchi, troppo
logorati a causa della continua ricerca di un nemico cremisi, troppo
avvezzi al rosso per vedere oltre il colore…
-Che intendi dire?
Tuttavia, egli preferì non rispondere, invece si
alzò dai talloni e si diresse all’uscita,
affrettandosi a richiudere la cella prima che le guardie rifacessero il
giro di controllo.
-Aspetta. Prima di andare, dimmi: cosa farai adesso, Altaïr?-
chiesi a quel punto, piantando le mani attorno alle sbarre- Se hai
letto il contenuto della lettera, dubito che quella sia
un’informazione che terresti nascosta ad Al Mualim. O sbaglio?
Egli si fermò a un passo dall’arcata nel
corridoio, lanciandomi uno sguardo lampeggiante. - No, in effetti, no-
disse sicuro.
Chiusi gli occhi- Certo…
-Laura.
Alzai lo sguardo verso di lui e lo vidi che mi fissava intensamente,
come a volermi mettere bene a fuoco, come se qualcosa di me non gli
fosse ancora chiaro, come se non si fidasse di ciò che
vedeva.
-Non ho mai dubitato dei miei occhi e loro non hanno mai fallito. Ma
ora arrivi tu, Laura, e metti tutto in discussione. So che mi
pentirò d’averti protetto per una seconda volta.
Così, Altaïr sparì, dissolvendosi come
un gelido vento che tra le mura della fortezza addormentata.
*
* *
Stavo male.
Stavo tanto, troppo male.
Era iniziato quella stessa notte, dopo che Altaïr se ne era
andato.
Qualcosa di molto simile a una coltre soffocante e fumosa aveva preso a
risalire dall’oscurità del mio animo fino al petto
e lo aveva invaso, ostruendomi le vie respiratorie.
All’inizio provai a resistere, a ignorare quella strana
presenza che lentamente s’impossessava di me, che si
espandeva, che cresceva come un mostro nel mio grembo vergine, che si
divertiva a scorticare la linea sottile che mi separava dalla rottura.
Sperai che alla fine si sarebbe annoiato di mescolare la
realtà con la finzione nella mia testa e che mi avrebbe
lasciata andare, come faceva sempre.
Ma quella volta non fu così.
Sembrava quasi deciso a distruggermi una volta per tutte.
Arrancai un’altra volta verso il materasso, pensando di
volermi sdraiare un momento per far smettere alla cella di vorticarmi
attorno, ma poi temetti che potessi addormentarmi, così mi
girai e mi abbandonai a pochi passi dal muro.
Sentivo che tra non molto non avrei più visto nulla.
Dischiusi le labbra livide e abbassai le palpebre esauste, in un ultimo
e disperato tentativo di chiamare Kadar, ma la mia voce era stata
rubata da quel mostro che aveva cominciato a salirmi in gola con i suoi
artigli neri.
No, dovevo restare sveglia e riprendere il controllo del mio corpo.
Svegliati.
Quella voce.
No, non adesso, non ero ancora pronta!
Scossi vigorosamente la testa, piantando i palmi sulle orecchie- Taci,
non voglio sentirti! Vai via!
Il tempo è arrivato, devi svegliarti.
-No!- cercai di mantenere la voce bassa, ma sentivo che la mia gola era
sul punto di squarciarsi in un urlo disperato. - Non sono ancora pronta!
Malgrado le mie suppliche, però, quel processo non si
arrestò, anzi, saldò la presa sul mio corpo e lo
scagliò un silenzio di luce, sicché per un
momento non fui né lì né qui.
Ero sospesa nel vuoto della mia mente.
Ma non faceva paura.
Torna nel tuo corpo, Laura.
E fui scagliata nel vuoto.
Spalancai gli occhi e le braccia si gettarono nel vuoto, cercando di
arraffare un lembo di quella luce per evitare di cadere nel buio, ma
ciò che sentii fu solo il tessuto soffice delle lenzuola in
cui mi ero risvegliata.
A riaccogliermi nella mia vita, il battito sordo del pendolo tedesco di
noce chiaro nella mia camera, che pareva non aspettasse altro se non il
mio ritorno per intonare il suo canto gioioso.
Ero a casa.
-Ben tornata, tesoro mio.
Spostai lo sguardo verso la porta e vidi una donna che ritornava dalla
cucina con un vassoio di biscotti, una teiera fumante di un the
all’arancia e limone e due tazzine decorate con delle
coccinelle.
Era vestita con abiti disinvolti, una camicia borgogna, da cui
sbucavano delle scure spalle muscolose, e un pantalone stretto che
finiva in un paio di scarponi grigio topo.
-D’accordo…sono in un sogno o in un futuro dove le
suore indossano jeans e camicette?- balbettai scioccata e Suor Agata
sorrise, poggiando il vassoio sul tavolino a sinistra.
In quelle nuove vesti, ella pareva più giovane di quanto non
fosse mai stata nel suo velo grigio.
-Non temere, sei sveglia e nel presente, Laura- rispose, versando il
contenuto fumante in una delle due tazze.
-Ah. E perché sei vestita come una di quelle attrici
ammazza-zombi?
Riuscii comunque ad abbozzare una battuta di spirito che allentasse i
miei nervi tesi, ma che riuscì anche a provocare la sua
risata trillante, ma si ricompose quasi subito.
Agata si voltò per offrirmi il thè, ma si
bloccò quando vide che stavo piangendo come una bambina.
- Laura- immediatamente, la donna ripose la tazzina sul tavolino e si
precipitò a cingermi in un abbraccio di conforto.- Laura,
non piangere. Sei al sicuro, non ti faranno più del male- mi
sussurrò all’orecchio, strofinando il palmo lungo
la mia schiena per incoraggiarmi a smettere di singhiozzare in maniera
incontrollata.
Eppure, non sapevo perché stessi piangendo così.
Ero tornata a casa, finalmente, lontana da tutte quelle lotte e sangue.
Allora perché mi sentivo così triste?
-Dov’è mamma?- chiesi a quel punto, staccandomi da
lei quel tanto che bastava per fissarla diritta negli occhi, ora
così seri e turbati.
La donna sospirò- Laura, prima mangia, hai dormito per
così tanto tempo che il tuo corpo qui è quasi
deperito…
-Dimmi dov’è- insistetti, con la voce gonfia a
causa del pianto trattenuto.
-Lei…lei è ancora in viaggio. Starà
via per molto, questa volta. Davvero, davvero molto.
-Dov’è andata?
Agata tacque, gelata in una cupa tensione.
Non l’avevo mai vista così seria.
Un po’ m’intimorì.
Poi, la donna si alzò e si diresse verso
l’entrata, fermandosi solo per invitarmi con espressione
risoluta a seguirla.
-Vieni.
La solenne freddezza con cui pronunciò quelle parole
m’indusse ad alzarmi all’istante, come se dalle sue
labbra non fossero uscite parole ma incantesimi oscuri a cui non poti
resistere.
La seguii in un silenzio religioso verso i piani inferiori, dove le
ampie stanze erano tinte dai primi chiarori dell’aurora, e ci
fermammo davanti allo studio di casa.
Agata spalancò le porte scorrevoli ed entrò,
trascinandomi con lei come se qualcosa d’invisibile mi
tenesse legata per la vita.
Non avevo mai notato quanto fossero le pareti di quella stanza fossero
rosse.
Rosse come il sangue…
-Comunque- Agata si schiarì la gola, prendendo a salire su
una scala a ridosso della libreria in cedro-Se il mio abbigliamento ti
fa ridere, dovresti vederti un po’ allo specchio- disse
e prese a passare con l’indice il dorso dei libri
più in alto, quelli sulla chimica organica che mamma usava
quando andava all’università.
Fu in quel momento che notai di aver addosso una delle pompose camicie
da notte in seta , souvenir dei viaggi di mia madre, e storsi il naso
con un mezzo sorriso.
Quando ebbe trovato ciò che cercava, la donna si
calò giù dalle scale con inaspettata
agilità, poi mi fece cenno di aprire entrambi i palmi.
Eseguii l’ordine e Agata fece piombare un libro grigio sulle
mie mani.
Arcuai un sopracciglio e sotto il suo invito aprii il libro, facendo
scorrere le dita fino al frontespizio decorato con le miniature di due
cavalieri in sella a un destriero, che marciavano circondati da un
cerchio che formavano le parole “sigillum militum”.
Al centro della pagina nivea, una frase spiccava sulla carta come se
fosse fatta di fuoco e bruciò dietro i miei bulbi oculari,
potandomi a cercar sollievo negli occhi neri di Agata.
-Pauperes commilitones Christi templique Salomonis- ripetei
memonicamente, chiudendo il libro in uno scatto quando aggiunsi-Questa
è un’incisione Templare. Perché
è su queste pagine?
-Sei sempre stata molto brava in latino- Agata rigirò la
discussione con una scrollata di spalle e si portò verso la
grande finestra. –Mi sarebbe piaciuto, però, che
tu avessi messo lo stesso impegno nello studio del greco.- poi rise,
poggiando i palmi sul bordo della scrivania- Del resto,
però, il Padre della Comprensione semina in noi le
abilità che meglio possono permetterci di servire la sacra
Causa.
-Sacra Causa?- mormorai sconvolta- Di che Causa stai parlando? I
Templari sono solo una vecchia favola dei secoli bui, il loro ordine fu
annientato secoli addietro grazie al re di Francia!
All’udire di quelle parole, la donna si voltò a
guardarmi e lanciò un’occhiata carica di
disapprovazione, portandomi a ritrarmi di un passo.
-Non annientato. Solo momentaneamente addormentato.
Detto ciò, la donna sfilò il ciondolo che le
pendeva dal collo e costrinse ad accoglierlo sul palmo stringendo poco
la presa su polso, che tremò alla vista quel simbolo rosso,
del vessillo Templare.
Toccare quella croce cremisi ebbe lo steso effetto di un feroce
uragano: il castello di carta in cui avevo vissuto fino a quel momento
si dissolse nella polvere, le fondamenta delle bugie della mia
esistenza furono distrutte, e mi ritrovai a precipitare giù
dal burrone.
-Laura, per anni ho sopportato i sensi di colpa perché non
potevo salvarti, perché eri troppo piccola per impedire che
comparissero nella tua testa. Ma ora…ora la tua mente
è abbastanza forte. Nel tuo sangue scorre la linfa di un
Ordine antico, che ti ha scelto nel grembo di Erica quando eri solo un
feto. Adesso, però, ti reclama a sé, come sua
legittima proprietà. I Templari t’invocano in
battaglia per combattere l’ombra
dell’umanità. Gli Assassini.
* * *
Agata mi stava fissando dall’altra parte della stanza, con le
mani conserte e le spalle rivolte verso la luce che filtrava dalla
finestra.
Io, invece, ero seduta immobile sul divano poco più in
là, con i pugni serrati sulle ginocchia e quel groppo alla
gola che ancora mi dissuadeva dall’intento di iniziare una
discussione, poiché di certo avrei emesso solo rantolii
incomprensibili.
Ma i colpi ansiosi del suo piede continuavano a distrarmi.
-Potresti essere un po’ paziente? Sai, ho appena scoperto che
tutta la mia vita era una menzogna.
Il piede di quella si fermò all’istante, il petto
si alzò impercettibilmente in un sospiro teso.
-Se vuoi, adesso puoi farmi delle domande- disse a quel punto-
Cercherò di essere quanto più esauriente
possibile, promesso.
Io strinsi le labbra, un po’ restia.
-Sei una Templare?- avanzai la prima domanda con tono incerto.
-Si- rispose- E sono anche una suora. In verità,
è un po’ complicato.
-Bene- deglutii impercettibilmente- Mia madre. Anche lei è
una Templare?
-Si.
-Da quanto?
-Da quando aveva quindici anni. I giovani dell’Ordine vengono
ammessi ufficialmente a sedici anni, ma Erica era…speciale.
Sarebbe stata un membro di prestigio nella confraternita, era scritto
nel suo destino.
Agata sembrò voler aggiungere altro, ma alla fine fece
cadere il suo pensiero e attese la mia prossima domanda, che
tardò un po’ ad arrivare poiché non
sapevo bene come formularla.
-Quindi, questo fa di me una proprietà dei Templari?- non
nascosi il mio disappunto.
Lei annuì- Sì, direi. Il tuo sangue è
Templare.
-Non sono d’accordo- esordii e mi alzai dal divano,
cominciando a girovagare distrattamente nella stanza, tutto sotto
l’occhio vigile della mia tutrice. - Un’altra
domanda. Mio padre sapeva di mia madre?
Silenzio.
Gettai un’occhiata alla donna da sopra una spalla e la
sorpresi che mi fissava con occhi gravidi di oscuri pensieri, tuttavia
non mancò di celarli con uno dei suoi soliti sorrisi morbidi.
-Diciamo solo che ne era a conoscenza- ammise semplicemente.
-Ah- mormorai, ma non volli sapere altro, perché di lui non
mi era mai importato nulla.
Invece, cominciai a scrutare tra gli scaffali.
-Prima, hai detto che gli Assassini mi hanno contaminata da quando ero
solo una bambina- ripresi a parlare, sfiorando appena il dorso del
volume I Promessi Sposi. – Cosa intendevi dire?
-Che comparivano nelle tue allucinazioni, ovvio.
Spostai il mio sguardo scettico su di lei, osservando- Erano solo
allucinazioni. Io non sapevo che fossero
Assassini…né che il loro Ordine esistesse!
A quel punto, la donna si staccò dalla finestra e
cominciò ad avanzare lentamente verso di me, intensificando
il suo sguardo serio man mano che le distanze diminuivano tra di noi.
-Te l’ho detto. Ti hanno contaminato senza che te ne
accorgessi. Ma non è propizio parlare di questo adesso, lo
faremo quando verrà il tempo- si bloccò a pochi
passi da me, che la fissavo freddamente, e con un sorriso aggiunse. -
Ma per fortuna, alla fine, la tua mente si è liberata dalla
menzogna.
-Intendi dire che sono caduta vittima della mia mente!
Agata scoppiò a ridere.
-Sei uscita dalla tua prigione, invece!- esclamò gioiosa,
allargando le braccia scure in un sorriso colmo d’orgoglio-
Non capisci? Finalmente hai lasciato che la tua mente ti mostrasse la
guerra millenaria che solo pochi eletti conoscono, tra cui
hai un posto anche tu, Laura! Sei strisciata alla luce con il marchio
dei Templari impresso nel tuo destino e morirai facendo ciò
per cui la Confraternita è nata: uccidere gli Assassini.
Per quanto le parole di Agata fossero ben misurate, calme, cariche di
una verità quasi ovvia, non riuscii a crederle.
-Quindi, ora dovrei entrare ufficialmente nell’Ordine di
famiglia e stanare gli Assassini per ucciderli?-chiesi.
Ella annuì.
-E…se io mi rifiutassi?- continua a voce flebile.
Lei si fermò a riflettere, tirando su
un’espressione indecifrabile.
- Avresti gettato via ogni sacrificio che tua madre e tuo padre hanno
sempre fatto per te- brontolò- Che io ho fatto per te.
Davvero vuoi questo? Davvero vuoi vivere nell’ignoranza, non
sapere mai la verità?
Se avessi risposto di getto, sicuramente avrei detto di sì,
perché accettare tutto quello significava perdere la mia
libertà, quella che avevo da poco riscoperto tra gli
Assassini, e sarei finita con l’essere ingoiata nelle viscere
di un Ordine che era piombato nella mia vita dal nulla.
Ma una parte di me esitava.
Colei che mi aveva messo al mondo e colei che mi aveva cresciuto
pazientemente, sperando, un giorno, di poter accogliermi nella
Confraternita di famiglia, erano Templari e bugiare.
-Non…non lo so, sono confusa- balbettai.
-Confusa perché i tuoi Assassini ti hanno convinta che i
Templari sono un nemico, che vogliono piegare la volontà
altrui. - Agata s’animò di una controllata ironia-
Quelli ti hanno solo mostrato le cose attraverso la lente distorta del
loro Credo. Ma se tu me lo consentirai, Laura, ti mostrerò
che l’Ordine è mosso dal volere della Giustizia.
Fidati di me.
Fidarsi.
Non sapevo più di chi potevo fidarmi.
Templari, Assassini, complotti, guerre segrete affogate nel
sangue…
Non ero interessata a quelle cose.
Non era ciò che volevo.
-No.
-Cosa?
-Ho detto di no! – strillai e mi gettai fuori dalla porta.
Corsi verso le scale, Agata mi venne dietro e tentò di
bloccarmi per un polso, allora mi voltai e provai a divincolarmi con
tutta la forza che avevo.
Le sue dita allentarono la presa sotto il mio strattone più
facilmente del previsto e mi ritrovai a incespicare i piedi contro il
gradino, finendo con il perdere l’equilibrio.
Provai a mantenermi al corrimano, ma l’angolo aguzzo
arrivò più velocemente.
Il clangore di una spada che colpiva il ferro della mia cella e
immediatamente ripresi conoscenza sul pavimento dei sotterranei di
Masyaf, intontita più che mai e con la sensazione della fame
che mi perforava lo stomaco.
Ero tornata nel sogno.
O forse avevo solo immaginato di tornare nel presente e la discussione
con Agata non era mai avvenuta?
Strizzai gli occhi mentre mi rimettevo a sedere nell’angolo,
mettendoci un po’ per schiarire le siluette di una guardia
Assassina che si stava accingendo a infilare le chiavi nella serratura
della mia cella.
-Forza, fuori. - disse la voce cavernosa della guardia.
-Sono passate già due settimane?- chiesi incredula mentre
uscivo all’esterno, faticando per mantenere
l’equilibrio sulle gambe improvvisamente pesanti.
-No, sconto di pena.
Nel frattempo, una guardia aveva aperto la cella di Kadar e gli aveva
fatto cenno di uscire, provocando la curiosità di Rauf, che
si era svegliato per il baccano e ora era piantato dietro le sbarre con
il naso infilato tra le aste e gli occhi curiosi che analizzavano la
scena.
Kadar uscì dalla prigione confuso, chiedendo al confratello
perché mai fossimo fuori prima della scadenza della
punizione, e gli indicò l’Assassino che ci stava
aspettando con le braccia conserte all’entrata.
Altaïr.
-Cosa significa?- domandò a gran voce Kadar, mentre
l’altro si avvicinava disinvolto.
-Siamo usciti prima del previsto, come è possibile?-
borbottai stringendomi con loro per evitare che le guardie curiose
sentissero la nostra conversazione.
-Ho ben pensato di aiutare due sciagurati a ricevere la grazia- ci
schernì lui.
-E il prezzo?- chiese il ragazzo.
-Sostegno in missine. Un nostro fratello è stato bloccato da
un drappello Templare che batteva la strada verso Acri ed è
stato fatto prigioniero. Ma non indugiamo oltre, seguitemi.
Così, Altaïr ci guidò
all’esterno delle segrete, su, all’aria aperta, e
con mia grande gioia potei finalmente sentire sulla pelle il vento
tiepido di mezzogiorno.
Stirai le braccia verso l’alto e rivolsi
un’occhiata a Kadar, che stava meditando assorto sulla mia
figura, l’espressione di chi avrebbe tanto voluto avere il
coraggio di parlare per primo.
-Laura…
-Non ora, Kadar- lo freddai in un attimo e continuai a seguire il
nostro cicerone verso l’armeria.
Non sapevo bene perché, però mi sentivo
stranamente infastidita dalla sua presenza, e per ora preferivo
ignorarlo.
Kadar recuperò le armi e l’armatura, che ci era
stata tolta durante la perquisizione, mentre io dovetti accontentarmi
degli strumenti a disposizione per il mio rango, ovvero una spada
leggera presa dalle rastrelliere al muro.
Uscimmo da Masyaf velocemente, prendendo i cavalli che già
erano stati preparati all’entrata, e battemmo un sentiero
sdruccioloso che conduceva ad un passo di montagna.
Mentre procedevamo lungo il sentiero, Kadar, che fino a quel
momento era rimasto all’estremità del caravan,
diede un colpetto ai fianchi dell’animale e si
portò alla mia destra.
-Laura, ho bisogno di parlarti- disse.
-Ti sembra il momento?- ribattei, indicandogli con lo sguardo
Altaïr poco più avanti.
Lui mi guardò deciso-Si.
Sospirai, stringendo le redini in grembo, certa che sottrarsi non
avrebbe fatto altro che incaponirlo ancor di più.
-D’accordo, parla, ti ascolto.
-Io non volevo ignorarti nelle celle, te lo giuro.
-Ah, sì? Perché è quello che hai
fatto.
Colpii le costole della cavalla e questa accelerò un
po’ il passo, ma subito il destriero rossiccio del Novizio si
frappose fra me e la strada, bloccandomi dall’andar dietro al
cavallo di Altaïr.
-Laura, tu non capisci. Io non volevo abbandonarti, non lo avrei mai
fatto. Ma ero confuso e avevo bisogno di starti lontano.
Sorrisi amaramente –Perché,
t’infastidisce avermi intorno?- borbottai offesa.
Ma le mie parole lo allietarono soltanto, perché
percepì invero il desiderio capriccioso di
un’amante inappagata.
Sorridendo amabilmente, egli si sporse dalla sella e poggiò
la fronte sulla mia, facendomi sobbalzare da un fremito smanioso, che,
però, ingioiai in un baleno.
- Perché averti vicino m’incasina incredibilmente.
E i pensieri vertono immancabilmente su di te.
Titubai, emozionandomi un poco. - Non prendermi in giro, per favore-
mugolai.
-Perché mai dovrei prenderti in giro?- esclamò
piano lui- Laura, forse il mio bacio non è stato abbastanza
sincero? Credi forse che lo abbia fatto solo per sedurti e spingerti
verso il mio letto?
Kadar tese le labbra calde verso le mie, io trattenni il respiro e
girai la testa di lato, facendo scontrare la sua bocca con la mi
guancia incandescente.
Lui si ritrasse sulla sella, l’espressione accorata.
-Ci vuole più di un bacio per farmi entrare in un letto!-
grugnii risentita, poi mi affrettai ad aggiungere-In oltre, sei un
grande arrogante se credi che avrei ceduto così facilmente
alle tue lusinghe.
-Non mi aspettavo che tu le accettassi.
Riportai lo sguardo su di lui, che aveva rigirato il cavallo e ora
guardava dinnanzi a se per nascondere il suo orgoglio ferito,
poiché conscio, ormai, di aver tirato troppo la corda.
-Mi pento di averti baciato, non avrei mai dovuto cedere a
quell’impulso. Dimentica il mio gesto, te ne prego. In
cambio, ti assicuro che nessuno verrà mai a sapere del
nostro fraintendimento, nemmeno Malik. Mi limiterò a essere
un fratello per te, Laura, e non ti turberò più
in alcun modo.
Si congedò con un mezzo inchino del capo, dopo di che
strattonò il cavallo e riprese ad avanzare lungo il cammino.
Già, forse era giusto così.
Forse.
Raggiunsi i due Assassini quando questi avevano già legato i
cavalli all’ombra degli alberi e si erano appostati a pochi
chilometri da dove si poteva osservare l’intero accampamento
dall’alto. indisturbati all’accampamento poco
più avanti, dove delle guardie pattugliavano il perimetro e
bloccavano l’accesso.
Lasciai anch’io la cavalla e mi riunii a loro, che nel
frattempo avevano cominciato ognuno per conto proprio a passare in
rassegna con lo sguardo potenziali punti deboli per trovare una breccia
nella pattuglia esterna.
-Faremo così- fu Altaïr, ovviamente, a prendere in
mano la situazione- Kadar, tu proverai a penetrare il fianco
dell’accampamento e sabota le sentinelle. - poi si
voltò a guardarmi, con aria incerta- Quanto a te, non
saprei…in effetti, sarebbe meglio se rimanessi a guardare i
cavalli.
-Allora perché mi hai portato qui, scusa?- rimbeccai
irritata.
Quello alzò le spalle, focalizzando l’attenzione
su una guardia distratta che si era allontanata dalla sua postazione. -
Visto la tua bravura nell’eccitare gli uomini, potresti
sempre travestirti da prostituta e distrarre le guardie.
-Che stronzo…- brontolai a denti stretti.
Kadar ingoiò una risata strofinando una nocca contro il
naso, appagato, in fondo, dal mio atteggiamento critico nei confronti
di un altro uomo all’infuori di lui.
Contrariamente a quanto mi aspettavo Altaïr ingoiò
il boccone con ironia. -Mi sta bene. Allora, lingua lunga, verrai con
me e proveremo a raggiungere la tenda dove è ostaggio
l’Assassino.
A Kadar, però, non piacque l’idea di lasciarmi con
lui -Un momento, magari è meglio se vado io con
lei…
-No, si fa come ho deciso io- Altaïr, però,
ignorò l’evidente gelosia del ragazzino e
andò avanti, costringendomi a seguirlo per evitare di
rimanere indietro.
C’infiltrammo nell’accampamento mantenendo il
profilo basso e prendemmo ad aggirarci circospetti tra le tende,
cercando, tra la fuga da un gruppo in pattuglia e l’altro, di
trovare la tenda interessata.
-Sei sicuro di sapere dove andare?- chiesi, vedendo che Altaïr
aveva preso a scrutare il terreno, come un segugio nero che fiutava
impronte invisibili sulla polvere.
Senza alcun preavviso, egli stese il braccio ed io andai a sbatterci
contro.
Notai che con l’altra mano mi stava indicando una tenda blu
da cui erano appena usciti tue soldati.
-Fammi indovinare, i tuoi occhi possono vedere anche attraverso le
cose?- domandai in un mezzo sorriso.
-No, però mi mostrano i bersagli.
Sgattaiolò veloce verso il tendone e si acquattò
in un angolo riparato da una fila di casse, poi alzò
di poco il bordo e spiò all’interno,
dopo di che, assicuratosi che la via fosse sicura, mi
segnalò con un fischio di raggiungerlo.
Nell’oscurità del tendone un uomo in
bianco era piegato su se stesso, immobilizzato ai polsi da catene
massicce e bendato con una fascia sgualcita e sporca di sangue che,
notai dopo, proveniva dalla ferita sul suo sopracciglio scuro.
Una volta riabbassato l’orlo del tendone, Altaïr mi
fece cenno di rimanere in silenzio, poi si avvicinò furtivo
al suo confratello e lo osservò con aria assorta, quasi
indeciso se liberarlo o no.
Alla fine, però, allungò il braccio con un
sospiro e strappò la benda intorno alle tempie di quello,
che subito chiuse gli occhi feriti dalla luce improvvisa e si
ritirò con un grugnito, mettendoci un po’ prima di
riconoscere il familiare cappuccio bianco della sua setta.
-Che ci fai tu qui?- domandò l’uomo, increspando
le labbra sotto la folta barba nera.
-Sono venuto a salvarti Abbas. Non sei felice di vedermi?- lo
punzecchiò l’altro, prendendo a girare attorno
alla colonna di legno, poi si drizzò seccato quando
capì che l’unico modo per liberarlo era trovare le
chiavi.
Abbas rise graffiante, sfoderando un carattere scontroso e ostile. -
Preferisco leccare il deretano di un Templare piuttosto che farmi
aiutare da te- sputò veleno.
-Potrei anche lasciartelo fare, sai?- sminuendo l’ira
dell’uomo legato, Altaïr tornò al mio
fianco e dando le spalle ad Abbas cominciò a mormorarmi il
piano – Laura, devo trovare la guardia che ha le chiavi. Tu
rimani qui, con Abbas, e nel caso in cui qualcosa vada
storto…
Altaïr sfilò la balestra che portava alle spalle e
la ripose tra le mie braccia goffe, che la sorressero a stento mentre
quello cominciò a illustrarmi fiducioso il suo utilizzo.
-Presta attenzione- incatenò il mio sguardo nel suo, poi
m’indicò un meccanismo a gancio-Come prima cosa,
tendi la corda con il crocco, ci vuole un po’ di
forza-cominciò- Poi bloccalo con la noce, infine, tira
giù il piolo e la freccia farà il resto. Hai
capito?
Rigirai l’arma tra le braccia, calibrando la sua pesantezza,
poi la strinsi al fianco e brontolai- Sì, credo di aver
capito.
Lui mi fissò per un istante, poi annuì e mi diede
una pacca di incoraggiamento sulla spalla.
Una volta che quello sparì fuori dalla tenda, caricai
l’arma come mi aveva mostrato e mi nascosi vicino
all’entrata, con il cuore che palpitava forte e le dita umide
che contavano i minuti pesantemente appollaiati nell’aria.
-Oh, Novizio- la voce di Abbas provenne roca nella semi
oscurità della tenda, portandomi ad alzare di scatto la
testa dalla balestra.- Sei il nuovo protetto di Altaïr
?-domandò incuriosito.
M’incupii, stringendo la presa sulla balestra- No, il mio
maestro è Malik Al-Sayf- dissi, dando le spalle
all’entrata. - Altaïr mi ha solo chiesto di
accompagnarlo in questa missione. In verità, non ci
sopportiamo molto.
-Lo vedo- l’Assassino si accomodò sul terreno a
gambe incrociate, poi arcuò un sopracciglio, precisando
– Tuttavia, quell’idiota non porta mai nessuno con
sé in missione. È troppo pieno delle sue fottute
convinzioni per ammettere di aver bisogno, ogni tanto, di qualcuno che
gli pari il culo dalle frecce Templari. Evidentemente, devi essere
speciale per lui.
Speciale, io?
Non direi proprio, piuttosto, iniziavo a credere che avesse richiesto
la mia presenza lì solo per tenermi d’occhio.
Era plausibile, tutto sommato, che sospettasse di me.
Chi poteva assicurargli che quel giorno, sul ponte di Damasco, il
nostro incontro fosse stato solo frutto del destino?
Per quando ne sapeva lui, potevo anche essere una spia Templare mandata
lì, proprio in quell’istante e in quel carro, per
far sì che venissi salvata da loro e portata nel covo degli
Assassini.
E forse era davvero così.
Chissà, la mia presenza lì poteva essere davvero
un piano architettato dal giorno in cui ero nata.
Presa com’ero dal flusso dei miei pensieri, quasi non mi resi
conto della guardia che si era affacciata nella tenda e che, adesso,
stava sguainando la spada, avanzando a grandi falcate alle
mie spalle.
Fu l’avviso di Abbas a farmi voltare, inducendomi a puntargli
la frecci alla gola proprio quando la lama lucente del cavaliere era
sollevata sulla mia testa, bloccata in un attimo fatale.
Sebbene i miei occhi lucidi lo stessero guardando diritto negli occhi,
il soldato tenne ostinatamente la guardia alta, spavaldamente incurante
del fatto che mi sarebbe bastato un semplice scatto del dito per
trapassargli il pomo d’Adamo.
A quel punto, uno dei due sarebbe morto.
Restava solo da vedere chi.
Ma premere il grilletto era per me impossibile.
Non potevo uccidere quell’uomo.
Non ci riuscivo.
-Che cazzo stai aspettando?-ringhiò agitato Abbas- Uccidilo,
presto!
Mi umettai le labbra, cercando di controllare il respiro, ma non mossi
le braccia né il dito.
Non m’importava se agli occhi dell’Assassino ero
una pavida o una traditrice, doveva esserci un modo per farlo arrendere
senza ucciderlo, magari colpendolo alla tempia…
Ma, proprio mentre aprivo la bocca per intimarli di lasciare la spada,
uno zampillio vischioso schizzò dal collo della guardia e
finì sulla mia guancia cerea, mentre una lama lucente
fiorì davanti ai miei occhi come una rosa rossa.
Rabbrividii d’orrore quando sentii la lama celata di
Altaïr continuare a lacerare a ogni suo più flebile
spostamento la carne e le vene di quell’uomo, mentre un
cascata rossa prese a scivolare dal suo collo e ad esplodere in gocce
rosse sul terreno.
Per quanto quella visione mi ripugnasse, non potei far a meno di
accompagnare l’uomo nei suoi ultimi ansimi di vita,
quando, finalmente, la lama venne sfilata dalla carne e quello
cascò a peso morto nella pozza del suo stesso sangue.
Ero ancora rapita dal riverbero cremisi del liquido che continuava a
dilagare sotto il cadavere quando Altaïr mi gridò
contro di preparare la balestra e coprirgli le spalle, per poi
precipitarsi a liberare Abbas.
Cercando di rinvenire dal mio stato di confusione, alzai la balestra
tra le braccia molli e la puntai verso l’entrata, pronta a
scoccare il dardo se avessi scorto anche solo un’ombra.
Infatti, da lì a poco scorsi qualcuno avvicinarsi di corsa
alla tenda, così preparai velocemente il colpo e avrei
lasciato andare il meccanismo se Kadar non fosse entrato con
le braccia all’aria, boccheggiando- Non uccidermi, sono io!
Abbassai l’arma all’istante, esclamando con aria
sconvolta-Kadar, maledizione !Avrei potuto ucciderti!
Il Novizio sfoderò uno dei suoi meravigliosi e inappropriati
sorrisi innocenti, quando un guardia si precipitò alle sue
spalle con la spada tratta e gli occhi furenti di ira cieca,
scagliandosi su di lui troppo velocemente perché quello
potesse schivarlo.
Così, mossa dall’istinto cieco di che voleva
salvare la vita del ragazzo a tutti i costi, sollevai la balestra
e lanciai un urlo a Kadar, che si chinò appena in
tempo per evitare che l’arma gli colpisse le tempie.
Il Templare rimase tramortito dalla botta e rotolò al fianco
di Kadar, che si scansò con espressione ammirata e allo
stesso tempo sbigottita dal pensiero che quello a terra avrebbe potuto
essere lui.
Nel frattempo, Abbas era stato liberato e, una volta riacquistato il
suo equipaggiamento, ci aveva raggiunti in prossimità
dell’uscita assieme ad Altaïr.
- Altaïr, la prossima volta assicurati che il Novizio sappia
usare la balestra, così non la dimenerà a caso in
aria!- Abbas non mancò di farmi pesare il comportamento di
poco prima, spingendomi via per uscire all’esterno della
tenda.
-Che gran simpaticone- brontolai- Mi ricordate perché lo
abbiamo liberato?
Sia Kadar che Altaïr sospirarono, dopo di che il primo
uscì in strada e il secondo mi chiese indietro la balestra,
che fui ben felice di restituirgli, poiché avrei in tal modo
potuto correre senza impedimenti.
All’esterno l’accampamento era scoppiato in un
turbine folle di grida e piedi che battevano di qua e di là,
ogni singolo soldato Templare ci stava cercando.
Ma noi eravamo già spariti.
Angolo autrice:
Cavolo, non posso crederci, finalmente sono riuscita ad aggiornare!
Questa settimana è stata un parto, davvero. Mi scuso tanto
per aver tardato così, per questo motivo avviso che molto
probabilmente il capitolo nove arriverà la settimana
prossima, quando i miei impegni dovrebbero essersi sfoltiti (almeno
spero)!
Allora… Hai capito a Laura, eh, fa la doppiogiochista!
Poverina, mi diverto proprio a metterla in situazioni complicate,
vediamo come se la sbriga adesso!
Come sempre, colgo l’occasione per ringraziarvi
tutti, ragazzi.
Sono sempre felicissima di condividere con voi questa follia!
Baci, Lusivia.
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Capitolo 9 *** 9.Un sentimento incontenibile. ***
Capitolo
9
Un
sentimento incontenibile.
Stiracchiai le braccia all’aria, accolta dal calore tiepido
del carro del dio Apollo, che era salito alto nel cielo di quella
mattina per permettere al cocchiere di gettare sul mondo tutta
la luce raccolta nel suo mantello dorato.
Mi spogliai canticchiando una canzone dal motivetto improvvisato,
preparai il tinello che tirai sotto la finestra e m’immersi
nei liquidi aurei, che si riflessero tremolanti lungo il mio corpo
pallido risalendo fino ai miei occhi.
Una volta immersa, feci oscillare giocosamente le ginocchia, unica
parte del corpo rimasta asciutta, prendendo un bel respiro prima di
incurvare la schiena e bagnare anche i capelli, che pesarono quando
riemersero dall’acqua.
Un bagno caldo era ciò che ci voleva per pensare in
tranquillità.
Non avevo dormito molto la notte prima, forse perché ero
ancora in pensiero per ciò che era successo dopo esser
tornati assieme ad Abbas.
Al Mualim ci aveva convocato nel suo ufficio non appena varcammo la
soglia del villaggio, ma non sapemmo del perché fino a
quando non lo incontrammo sulle scale, con le mani dietro la schiena e
un sorriso insolitamente gentile che li alleggiava in volto.
Come prima cosa, il Gran Maestro ordinò che Abbas fosse
curato da due governanti di mezza età , dopo di che, quando
congedò anche Kadar, rimanemmo solo io e Altaïr.
Rimasi in una nervosa attesa per tutto il tempo, gettando di tanto in
tanto occhiate all’Assassino al mio fianco.
Che avesse a che fare con la lettera di Thorpe?
Invece, con mio grande sollievo, Al Mualim annunciò, visto i
miei progressi, che era arrivato il momento d’essere affidata
alle cure del suo Priore prediletto, colui che , da quanto avevo
capito, sarebbe diventato il suo erede: Altaïr.
Non avrei voluto abbandonare Malik così, giacché
passavamo la maggior parte della giornata insieme, prima tra i
riscaldamenti, poi con la pausa pranzo e lo studio, finendo con
l’abituaci in un’apatica rutine l’uno
della presenza dell’altro.
Ma discutere con Al Mualim era come combattere con dei mulini a vento,
così avevo preferito ingoiare quella pessima notizia senza
contestazioni, abbozzando un inchino di congedo.
Osservai per un po’ il mio palmo che carezzava il pelo
dell’acqua dorata, poi presi un bel respiro e
m’immersi completamente nella tinozza, dove fui inghiottita
dai fluttui ovattati come un sasso che va a picco.
< Nel tuo sangue scorre la linfa di un Ordine antico, che ti ha
scelto nel grembo di Erica quando eri solo un feto. Adesso,
però, ti reclama a sé, come sua legittima
proprietà. I Templari t’invocano in battaglia per
combattere l’ombra dell’umanità. Gli
Assassini>
Le parole di Agata erano come fantasmi pallidi nella mia testa,
mettevano i brividi sebbene fossero solo ricordi; eppure, erano
così vivide e forti.
Superato lo sdegno iniziale, avevo iniziato ad analizzare la situazione
con più calma, ed ero arrivata alla prima conclusione che
ammettere l’esistenza dei Templari spiegava molte cose, prime
fra tutte il motivo per cui Erica spariva spesso nel corso di un solo
mese.
Per uccidere qualche Assassino nascosto a New York, o a Vienna, o a
Tokyo…
Eppure, qualcosa non mi tornava.
Qualcosa che ancora non riuscivo ad afferrare, che picchiettava
nell’angolo della mia coscienza per farsi notare, che mi
chiamava in un ululato lontano, qualcosa, insomma,
d’importante.
Qualcosa…ma cosa?
I polmoni si contrassero nel petto, sentii che l’ossigeno
stava per finire, dunque mi aggrappai ai bordi della bacinella e mi
tirai su, riemergendo a bocca spalancata per riprendere immediatamente
fiato.
-Mi hai bagnato tutto…- la voce di Kadar sfiorò
in una carezza accattivante la mia schiena, facendomi voltare con gli
occhi spalancati e le labbra lucide semiaperte.
Il ragazzo dal cappuccio cenerino era entrato nella mia stanza,
silenzioso come un gatto, e si era tenuto in disparte accanto alla
porta per osservare la scena indisturbato, finché, forse per
impazienza, forse per maliziosa curiosità, aveva deciso di
farsi notare.
In un primo momento lo fissai, quasi incredula di vederlo
lì, poi smossi in un movimento brusco tutta
l’acqua e strinsi le ginocchia al petto, cercando di coprirmi
con i capelli incollati lungo la schiena.
-Kadar!- esclamai a voce debole, prendendo a guardare nervosamente
attorno, alla ricerca di qualcosa con cui coprirmi.
Egli sorrise sornione, forse divertito dal mio imbarazzo, esitando un
momento prima di lanciarmi un telo che afferrai al volo.
-Perdonami, ma non ho resistito. - ammise, voltandosi di faccia contro
il muro. - Dovresti tenere la porta chiusa quando fai le abluzioni,
Laura- aggiunse poi- Qualche malintenzionato potrebbe entrare e
afferrarti quando meno te lo aspetti.
Stesi il telo davanti ai miei occhi, alzando un sopracciglio in segno
di scherno-Vedo…- borbottai.
Riemersi dall’acqua e velocemente mi fasciai il corpo,
strizzai i capelli nella tinozza e scavalcai la bacinella, schizzando
ovunque acqua e bagnando il pavimento a tal punto che i miei piedi
squittirono fastidiosamente.
-Avresti dovuto bussare- gli feci notare a quel punto, spostando i
capelli per scollarli dal collo sinuoso e dalla schiena bianchissima.
Lui gettò un’occhiata curiosa da sopra la spalla,
osservando quel movimento con un brivido.
-Avrei dovuto. - mormorò profondo.
Avvertendo la vergogna impossessarsi delle mie guance, mi affrettai a
raccogliere gli abiti, dopo di che gli stesi sul letto e attesi a testa
china che Kadar uscisse in corridoio.
Ma lui non si mosse.
-Sei molto bella, Laura- non riuscì a tenersi quel commento
per sé.
I nostri occhi s’incrociarono come due calamite attratte
l’una dall’altra, io deglutii per inumidire la gola
improvvisamente secca, lui sorrise spensierato e tornò a
guardare il muro, sospirando leggermente.
-Ti aspetto in corridoio- annunciò e lasciò la
stanza, chiudendo accuratamente la porta alle sue spalle.
Mi aveva visto nuda, suppongo.
Sorrisi timidamente.
Una volta che fui di nuovo pronta per mescolarmi tra gli uomini della
fortezza, legai in una coda i capelli umidi e li coprii con il
cappuccio, dopo di che raggiunsi il Novizio lungo il pianerottolo, che
era immerso nei fasci caldi di quel mattino.
Lo raggiunsi e , senza batter ciglio, Kadar mi scortò nei
piani inferiori, dove ero attesa da Altaïr per il mio primo
allenamento sotto la sua potestà, forse il più
duro della mia vita.
Di sicuro, se proprio doveva farmi da baia, almeno si sarebbe divertito
a tormentarmi un po’.
Mentre procedevamo lungo la nostra strada, Kadar, che se
n’era stato in silenzio a rimuginare fino a quel punto, si
fermò improvvisamente nel bel mezzo della via.
-Laura, posso farti una domanda?-chiese a quel punto lui, con aria
molto seria.
Mi accigliai, poi annuii.
Lui si voltò a guardarmi-Quella volta, a Damasco, tu ti eri
nascosta nel carro perché due guardie
t’inseguivano. - iniziò.
-Sì, è così.
-Quando ti sei nascosta poco distante da me, spaventata e tremante come
un pulcino che si copre con i fili del nido, ebbene ti ho udito dire
una frase ben precisa. Una frase che mi ha lasciato un po’
interdetto, a esser sincero.
Arcuai un sopracciglio, spostando il peso sul piede destro-
Quale?-chiesi.
-“Nulla è reale, tutto è
lecito”- rispose asciutto Kadar- Sono le parole del nostro
Credo. Parole che solo gli Assassini conoscono perché
pronunciate il giorno della loro iniziazione nella Confraternita dal
nostro Mentore. Parole…che tu non dovevi conoscere.
L’ultima affermazione gli lasciò un amaro in bocca
che gli impedì di aggiungere altro, ma non ce
n’era bisogno, perché capii quale dubbio lo avesse
assalito.
Si limitò invece ad analizzarmi con aria disperatamente
fiduciosa.
Esitai, fissandolo a testa alta, poi mi portai davanti a lui, vedendolo
mentre espirò via il fiume insensato di pensieri che avevano
riempito la sua testa.
Potevo dirgli ciò che volevo, lo sapevo.
Lui si sarebbe fidato comunque.
-La prima volta che sentii queste parole ero solo una bambina e le
disse mia madre-dissi - Ma non sapevo cosa significassero
finché non ho incontrato voi, gli Assassini.
Finché… non ho incontrato te, Kadar. In
verità, è da quando ti ho incontrato che ho
iniziato a capire tante cose.
Come previsto, Kadar non mise in dubbio per un solo momento le mie
parole.
-Parli come se fossi importante per te.- osservò
inespressivo.
Socchiusi poco gli occhi- Lo sei. Ma, se credi che stia mentendo,
allora non credere a nulla di quello che ti dico.
-Lo so- affermò precipitosamente, poi torse il busto a
destra per sfilare dalla sua casacca un oggettino lucente che mi
offrì sul suo palmo aperto.- Per questo, ti darò
qualcosa che ti leghi indiscutibilmente a me.
Era un bracciale in oro fino, lucente e ben definito, decorato alle
estremità da due incisioni floreali e impreziosito al centro
da una scheggia verde pallido screziata di piccoli globi neri e
lucenti: un turchese.
Con aria un po’ impacciata, Kadar mi prese con delicatezza il
polso e lo rigirò tra le sue dita scure, dopo di che
infilò il bracciale con cura e precisione e
rigirò la mia mano verso l’alto.
La pietra turchese era liscia e levigata, sembrava quasi fatta per
splendere sulla mia pelle.
-L’ho visto questa mattina presto al Suk e ho pensato
che…sì, insomma…a me non piacciono
queste cose, perché sono maschio….- stava
balbettando- Però, tu sei una donna…e alle donne
piacciono queste cose un po’ frivole, no?
Un sorriso pizzicò gli angoli della mia bocca e abbassai lo
sguardo sulla sua mano, che ancora teneva la mia per le dita.
-Non che tu sia frivola, Laura!- Kadar rettificò
immediatamente la sua frase, imbarazzato, e strinse la presa con
entrambe le mani-Assolutamente! Anzi, sei molto temeraria e forte e
bella e coraggiosa e ….
-Va bene- cercai di trattenere il mio cuore che stava esplodendo in un
pianto incontrollato, ma non potei impedire ai miei occhi di divenire
lucidi. - Lo accetto… di cuore, Kadar- sussurrai piano.
A quel punto, il mio corpo si tese impercettibilmente verso di lui,
come un magnete, come un pianeta bisognoso di gravità.
Kadar mi guardò attraverso le sue folte ciglia, ma non
riuscì a fare altro se non osservare immobile le mie labbra,
che avevo preso a mordicchiare nervosamente.
Che buon odore aveva, così caldo e dolce…
Chiusi gli occhi in un respiro intenso, attendendo.
Sentii il suo alito infrangersi sulla mia bocca, ma per una risata.
-Sai, avevo creduto che fosse stato nostro padre a insegnarti il Credo.
Ecco perché ti avevo portato qui, ecco perché ti
avevo creduto quando mi dicesti d’essere tuo fratello.
– ammise frustrato Kadar, allontanandosi di qualche passo per
regalarmi uno sguardo pieno di fredda indifferenza.
Lo guardai allibita mentre lui si bloccava a un passo
dall’angolo, poggiando una mano contro la parete e fissandomi
distrattamente, come se fosse sul punto di scappare via il
più lontano possibile da lì, il più
lontano da me.
Arcuò le sopracciglia-In ogni caso, ho intenzione di
mantenere fede alla mia promessa- concluse.
-Quella di ignorarmi?- chiesi confusa.
-Quella di proteggerti, Laura. Sempre e comunque.
* * *
-Proteggermi, proteggermi… che diavolo significa? Non ho
bisogno di protezione, diamine!
Era qualche minuto, ormai, che continuavo a borbottare tra me e me,
mentre con cruccio avevo preso a liberarmi del cappuccio e di qualsiasi
tipo di protezione, ad eccezione dei bracciali e degli schinieri.
Non c’era bisogno di proteggermi, non ero una bambina.
Gettai in un angolo della terrazza la roba e mi voltai verso
Altaïr mentre era intento a liberarsi della sua pesante
armatura, con quel solito cipiglio capriccioso che non permetteva di
capire se era arrabbiato, affamato o semplicemente annoiato.
Diciamo che quella era la sua espressione standard per qualsiasi
occasione.
-La pianti di brontolare cose senza senso?- disse d’un tratto
lui, lanciandomi un’occhiata intensa da sotto il suo
cappuccio. - Sei irritante, ragazzina.
Io, però, ignorai il suo malumore. - Perché mi
hai fatto spogliare dell’armatura? Fa parte
dell’esercizio?
L’Assassino sfilò dal suo polso la lama celata e
la ripose delicatamente in cima alla catasta, guardandomi curioso,
quasi come un bambino.
Poi, Altaïr sogghignò -Esercizio?- sorrise e si
sfilò la cintura rossa dai fianchi, tendendola tra le sue
mani mentre avanzava. - Non era questo ciò che avevo in
mente, in vero.
Indietreggiai di un passo, sbiancando in volto, ma lui fece scivolare
la fascia dietro la mia nuca e mi bloccò la ritirata.
Vidi la pelle sottile della sua cicatrice tendersi in un sorriso, poi
le sue dita scivolarono ruvide sul tessuto accanto al mio orecchio e
risalirono fino alle tempie, trascinando con loro la stoffa che mi
coprì gli occhi.
Non appena la vista si scurì, gli altri sensi si acuirono.
Come se l’aria si fosse riempita di palloni elettrostatici
che vibravano ad ogni mio spostamento.
-Io non faccio “esercizi”, Laura- la voce di
Altaïr era chiara, limpida, penetrante mentre parlava - Io
educo il mio corpo a sopportare il dolore e la fame, le lame e la
fatica, il caldo e il gelo. Lo educo a obbedirmi. E lo stesso
farò con il tuo corpo.
I suoi polpastrelli scivolarono via sul tessuto in uno struscio
fastidioso, che grattò all’interno delle mie
orecchie sensibili.
-Maniaco del controllo- brontolai.
Lo sentii ridere-Forse. Ora, però, presta attenzione.
Ciò che voglio da te è che tu affini le tue
percezioni “non visive”, quelle che non dipendono
da altro se non dalla tua abilità più pura di
controllare te stessa e il mondo attorno, a prescindere da
ciò che i tuoi occhi vedono.
Scrollai le spalle con sufficienza-Non che le mie percezioni visive
siano un granché…
-Non preoccuparti. L’addestramento darà i suoi
frutti. Prima o poi.
-Oh, grazie- feci una smorfia ironica- Allora, che intenzioni hai? Vuoi
forse colpirmi alla cieca finché non bloccherò il
tuo colpo da bendata?
Altaïr non rispose alla mia provocazione.
-Altaïr…?
Quel silenzio improvviso mi agitò parecchio.
Per un momento rimasi in ascolto dell’aria, con le gambe
leggermente piegate e i palmi serrati verso il basso, pronta a reagire
a qualsiasi spostamento d’aria, a qualsiasi respiro, a
qualsiasi rumore improvviso.
Ma non sentii nessuno movimento, nessun sogghigno, nessun piede che si
avvicinava di soppiatto.
Era come se fosse sparito dalla stanza.
Poi, improvvisamente, un rombo sordo giunse alla mia sinistra e, prima
che potessi far qualcosa, un’asta di legno mi
colpì la coscia, facendomi ritrarre in un gridolino
soffocato.
-Che cazzo era?- sbottai spaventata.
-Una spada, una lancia, una freccia…Decidi tu, Laura, tanto
non attenuerà il dolore.
Avvertii la voce dell’Assassino ma non la sua presenza,
ciò mi gettò nel panico.
-Non ti avrò fatto tanto male, vero?
–chiese poi- Ci sono andato leggero, infondo.
-N...no, ma mi hai spaventato a morte!
-Agitarti non farà altro che rendere più facile
al tuo avversario tagliarti la gola.
Un altro colpo giunse a colpirmi il braccio, ma questa volta alla mia
sinistra, e benché fossi ben preparata a reagire
all’istante non riuscii ad acciuffare l’asta.
-Non ci siamo, Laura.
Mi voltai a destra, convinta di aver sentito la sua voce provenire in
quella direzione.
-Dammi il tempo di capire dove sei!-sbottai.
-E che addestramento sarebbe?- esclamò stupito e mi diede un
colpo al fondoschiena.
Grugnii esasperata, prendendo a indietreggiare con il corpo bloccato in
una posizione impacciata e le mani che tastavano l’aria a
casaccio, quasi sperando di incappare nel suo braccio o fianco.
Era frustrante essere in balia della situazione, ma soprattutto ero
terrorizzata dalla possibilità di ricevere un altro colpo al
sedere.
Dovevo stanarlo, capire la sua posizione, ma l’Assassino era
ben accorto a rimanere ben nascosto nel silenzio della stanza.
Forse, però, potevo indurlo a indicarmi lui stesso dove
fosse.
-Non hai parlato ad Al Mualim della lettera. Perché?-
iniziai, sperando di aver stimolato la sua attenzione abbastanza da
aprire un varco.
Lui non rispose subito. – In verità,
l’ho fatto. Ma lui non ha voluto discuterne con me.
– ammise frustrato.
Altaïr era alla mia destra.
Mi spostai un po’ di lato, tenendo le mani pronte a bloccare
un colpo frontale.
Infatti, l’asta arrivò proprio dove avevo
previsto, così riuscii, seppur non completamente, a parare
il colpo con il bracciale di cuoio.
Essendo stato respinto, Altaïr si allontanò
all’istante per impedirmi di individuarlo, schivando le mie
mani tese ad acciuffarlo per i vestiti.
Sbuffai.
In ogni caso, farlo parlare funzionava.
-E come mai?- incalzai, questa volta rimanendo immobile
dov’ero. – Insomma, nella lettera non
c’era nessun’informazione utile…giusto?
-Concentrati.
L’asta arrivò in picchiata sul fianco, mi resi
conto del contatto imminente, tuttavia i riflessi non furono
altrettanto scattanti e mi beccò in pieno.
Indietreggiai, piegandomi in due dal dolore, ma non esitai oltre in
quella posizione vulnerabile e mi rimisi subito diritta, pronta a
bloccare un altro attacco.
-Notevole. - Altaïr sembrò compiaciuto di me-
Ancora, forza.
Parai un altro colpo, questa volta con più precisione e
forza, riuscendo a rimandarlo indietro.
-Magari, la questione non è di tua competenza,
Altaïr- continuai imperterrita.
Lui grugnì.-Non dire baggianate.
Questa volta la sua voce era molto vicina.
Forse, era il momento giusto.
Dovevo solo spingerlo a parlar un’ultima volta.
-Forse, Al Mualim crede che questa sia una cosa che tu non puoi
risolvere da solo.
Lui schioccò la lingua contro il palato in segno di
disapprovazione, dandomi finalmente la sua posizione.
Regolai il respiro con molta attenzione, tenendo il corpo pronto a
scattare alla più piccola sollecitazione di fronte a me, e
attesi un suo attacco a sinistra.
Inaspettatamente, però, Altaïr si spostò
alle mie spalle e mi colpì un polpaccio con intento
provocatorio, portandomi ,effettivamente, a reagire senza calcolare
bene l’eventualità di una sua reazione.
Per l’appunto, in meno di un secondo, l’Assassino
fece scivolare l’asta dietro la mia schiena e mi
bloccò contro di lui, arginando il contrattacco prima che
questo arrivasse a fracassargli il naso.
La sua presenza mi travolse ancor più ora che i miei sensi
erano così eccitati, per un momento fu come se potessi
vedere il suo profilo aquilino oltre la stoffa rossa.
Poi, con la voce scura di un incubo, Altaïr parlò.
-Io sono l’Assassino migliore di tutti. Il più
forte. Il più veloce. Il più abile. E di certo
non sarà una stupida missione nel tempio di Salomone a
cambiare le cose.
Con uno scatto stizzito, Altaïr allontanò
l’asta e mi liberò dalla gabbia delle sue braccia,
permettendomi così di sfilare la benda legata attorno alle
tempie e tornare ad avere il controllo di ciò che mi
circondava.
Le mie irridi faticarono a riadattarsi al mondo della luce, ma, quando
finalmente misi a fuoco le figure circostanti, vidi che ero rimasta
sola.
Altaïr si era di nuovo dileguato nel nulla.
Avrei tanto voluto capire per quale dannato motivo facesse
così.
Dato che il mio maestro se l’era data a gambe, raccattai la
roba con la fastidiosa consapevolezza di esser così poco
rilevante da esser mollata nel bel mezzo dell’allenamento,
come se non vedesse l’ora di cogliere l’occasione
migliore per liberarsi di me.
Giacché il sole era al suo zenit ed io ancora non avevo
messo sotto i denti un pasto, lasciai il terrazzo a capo coperto per
recarmi nelle cucine, percorrendo a grandi falcate il tragitto
già pregustando la colazione tanto agognata.
Camminando, avevo preso a controllare di tanto in tanto il gioiello
d’oro al polso, ben nascosto sotto il bracciale di cuoio, e
sentii il sangue ribollirmi ulteriormente nelle vene quando pensai che
quello stupido di Altaïr avrebbe anche potuto scheggiare la
pietra.
Quello era un regalo prezioso da parte di Kadar, un pegno.
Già, ma un pegno di cosa proprio non lo avevo capito.
Quando giunsi nella sala da pranzo, trovai la figura austera di Malik
intenta a sfogliare un libro dalla rilegatura marroncina,
così rapito dalla lettura da aver abbandonato in un angolo
il piatto della colazione.
-Salute e pace, fratello- mi annunciai prima di sedermi di fronte a
lui, allungandomi per rubare una manciata di noci all’angolo
del piatto.
Lui alzò lo sguardo metallico dalle pagine un per istante,
poi arcuò le sopracciglia e tornò alla sua
lettura.
-Come è andato l’allenamento con il
Prescelto?-chiese apatico.
-Mi ha colpito con un bastone più e più volte-
dissi e lanciai in bocca una noce.
-Mi dispiace.
-Non mi ha fatto male. Mi ha fatto incazzare.
-Immagino.
Alzai gli occhi al cielo, cercando con il dito la noce più
grossa tra quelle che avevo sul palmo- Non credevo che un essere umano
potesse avere una capacità tale di sintesi dialettica.
M’impressioni ogni volta, Malik…-borbottai
sovrappensiero.
A quel punto, finalmente, l’uomo si decise a chiudere il
libro, che spostò all’angolo della tavolata, e
piantò i gomiti sulla superficie, incrociando le dita
davanti alla sua bocca.
-Se devi chiedermi qualcosa fallo e basta, sorellina- notai una certa
forzatura nell’ultimo termine.
Ah, allora l’aveva capito che ero andata da lui per un motivo.
Dimenticavo quanto fosse sagace.
-È…è possibile che un Templare conosca
il Credo degli Assassini, Malik?
-…Perché mi fai questa domanda?
Esitai.
-Curiosità.
Lui si accigliò un poco, passando distrattamente il pollice
sul labbro inferiore con sguardo attento.
Stava cercando di vedere ciò che mi passava per la testa.
Lo faceva spesso, avevo notato.
- In teoria, no. Però…
-Però?
-Può darsi che un Templare sia venuto a conoscenza di questo
dettaglio con qualche sordido mezzo di persuasione. Sai, non tutti gli
Assassini sono coraggiosi e impavidi di fronte a una lama. A volte, la
morte fa troppo paura per andare fino in fondo e qualcuno
preferisce….
-Tradire?-la voce carnosa di un uomo arrivò
dall’inizio della sala, facendoci voltare
all’istante.
Abbas era in piedi vicino alla fornace dormiente e stava segnando
distrattamente con le sue dita scure dei cerchi nella cenere, ma i suoi
occhi ardevano come se ci fosse proiettato dentro il fuoco vivo.
Malik si drizzò sul posto e prese ad analizzare di sottecchi
l’Assassino appena entrato nella conversazione, mentre io
alternai lo sguardo interrogativo prima su di lui, poi su Abbas.
-Per caso ti riferisci a qualcuno in particolare,
Al-Sayf?-domandò Abbas.
-La mia era solo una constatazione di una verità comune,
ritengo- rispose misurato lui.
Abbas tirò un sorriso inquietante, alzando, finalmente, lo
sguardo buio su di noi- Certo, fratello.
A quel punto, Malik agganciò lo sguardo di quello nel suo e
per un momento i loro occhi sembrarono stridere in un grido di metalli
e ferro nero.
Nei loro animi, era come se due titani fremessero da tempo per
imperversare in una battaglia a cielo aperto.
Ma non era ancora giunto il momento.
Almeno, non ora.
-Vieni, Nadim- Malik mi richiamò con un cenno degli occhi e
l’intesa fu immediata.
Mi alzai dalla tavola, lui prese il suo libro e mi seguì
fuori dalla stanza, dove la nube nera sulla testa di Abbas aveva ormai
appestato l’aria con il suo peso asfissiante.
-Che diavolo. - sbottai, svoltando l’angolo del corridoio- Si
può sapere che ha quel tizio? È perfino
più seccante di Altaïr!
Malik si strinse nelle spalle, balzando a sedere sul davanzale di una
finestra. - Credo sia normale esser così astioso, se tuo
padre è stato accusato di tradimento e abbia mandato a morte
un caro amico- osservò, riaprendo il libro sulle sue
ginocchia.
Io mi accigliai- Chi?
-Umar Ibn-La’Ahad- mormorò, con il naso ficcato
tra le pagine del volume.
-…Il padre di Altaïr?
-Venne giustiziato dai Saraceni proprio davanti alle mura della
fortezza, sotto gli occhi di suo figlio. Allora, Altaïr aveva
solo undici anni.
Non sapevo se a causa della fame che incalzava o se per un sentimento
improvviso di pietà, ma sentii il mio stomaco ribaltarsi in
gola.
Che cosa orribile, vedere il proprio padre venir sgozzato come un
animale davanti ai tuoi occhi.
Cosa avrà provato quel bambino?
Si sarà sentito spaventato? Solo…?
Avrà pianto?
Altaïr che piange.
Quell’immagine provocò in me un lieve sentimento
di compassione.
-Laura- Malik mi chiamò di nuovo. - Non impicciarti nella
vita di nessuno. Chiaro?
Risi tesa, stringendo distrattamente il pugno contro il mio stomaco. -
Non avevo in mente di farlo!-esclamai, ma con l’altra mano
incrociai le dita dietro la schiena.
* * *
Suor Agata diceva che avevo una sensibilità che pochi
possedevano, una capacità di condividere istantaneamente il
dolore di qualcun altro nella speranza di alleviare le sue pene, di
poter dividere il peso.
Ma diceva anche che quella sarebbe stata la mia rovina, se avessi
dimenticato di preoccuparmi innanzitutto di me.
Ecco perché avevo deciso di ricoprirmi con
quell’armatura impenetrabile.
Perché così nessuno mi avrebbe mai ferito.
Eppure, nonostante tutto, continuavo a preoccuparmi degli altri,
perfino per Altaïr.
Ecco perché adesso lo stavo cercando in giro per la fortezza.
D’accordo, ma che diavolo credevo di fare?
Non potevo di certo dirgli che ero venuta a conoscenza della sua
tragica storia e che ora mi faceva pena, innanzitutto perché
questo sarebbe stato un durissimo colpo per il suo ego smisurato e
ciò lo avrebbe di sicuro portato ad assumere un
atteggiamento aggressivo.
E a me non andava affatto di farmi fulminare dal suo sguardo ferino.
Mi bloccai lungo le scale, grugnendo esasperata - Sono
un’idiota!- e nello stesso secondo girai i tacchi verso i
piani delle stanze.
Meglio seguire il consiglio di Malik e lasciar perdere.
Scesi le scale tenendo lo sguardo basso, finché, prossima
alla mia camera, notai un Novizio che si era poggiato in maniera
scomposta contro la porta di legno, mentre con le mani rigirava
nevroticamente un foglietto ripiegato su se stesso.
Kadar non si accorse di me, quindi misi alla prova gli insegnamenti del
mio vecchio maestro dallo sguardo severo e sgattaiolai alle sue spalle
senza far troppo rumore.
Quando gli fui abbastanza vicino, lo acchiappai per il cappuccio e
glielo tirai fino a sfiorargli il naso.
-Non sai che è da maleducati sostare davanti alle camere
altrui?- lo rimproverai bonaria, osservandolo con gli occhi che
brillavano silenziosi mentre lui si riabbassava la cappa sulle spalle,
con le gote improvvisamente rosse.
Kadar provò a nascondere il foglietto tra le mani, mentre,
con gli occhi bassi, farfugliava. - Laura, ecco, non credevo
che…insomma, non pensavo di incontrarti…ecco,
sto…- sbuffò, schiaffeggiandosi la fronte-Ora me
ne vado- brontolò tra i denti.
Si girò dall’altra parte, sospirando sconsolato,
ma la mia mano giunse a bloccarlo per il lembo dei vestiti e Kadar si
voltò nuovamente verso di me.
-Cos’è quello?- chiesi, indicando il foglietto
accartocciato. - È per me?
-Eh? Oh, niente, nulla d’importante…
Io lo fissai e lui fece altrettanto.
-Non è…era solo una stupida frase- insistette.
Io sorrisi un poco- Posso vedere?-domandai gentilmente, stendendo la
mano verso di lui.
La richiesta lo lasciò spiazzato ma, non appena comprese che
non avrei accettato scuse, cedette alla mia offerta con espressione
arrendevole.
Prese delicatamente la mia mano e aprì le dita con le sue,
invitandomi con una carezza a prendere il foglietto, dopo di che si
allontanò di qualche passo, permettendomi così di
analizzare in tranquillità il piccolo messaggio ripiegato su
se stesso.
Alzai di sottecchi lo sguardo, un po’ indecisa, e lo sorpresi
a fissarmi intensamente, così tornai sul foglietto e cercai
d’aprirlo strusciando i polpastrelli sull’orlo
sottile.
Ma la mano di Kadar mi bloccò il polso.
Sebbene adesso le distanze tra noi si fossero accorciate
improvvisamente, non mi curai del fatto che gli sarebbe bastato un
centimetro per arrivare a toccarmi, bensì ciò che
mi turbò fu quella luce misteriosa che adesso gli
lampeggiava negli occhi limpidi.
Era desiderio famelico.
Molto lentamente, Kadar fece scivolare le mani verso i miei fianchi,
poggiò i palmi con riguardo lungo la mia schiena e,
approfittando del mio sgomento iniziale, riuscì ad accostare
completamente il suo corpo slanciato al mio.
Mi diede un po’ fastidio quel contatto così
intimo, dunque feci un po’ di resistenza con i polsi, ma
qualsiasi spirito belligerante venne meno quando arrivò il
suo respiro timido a scaldarmi l’orecchio, portandomi a
tremare un po’.
Una volta tastato la mia soglia di tolleranza, i suoi muscoli si
allentarono un po’ e, una volta umettosi le labbra,
cominciò a strusciarle lungo il mio orecchio, facendomi
sentire il suo fiato corto, reso più insistente dalle pareti
interne della mia cappa.
Quando la cartilagine finì, passò al collo, fino
a saggiare l’inizio della clavicola sinistra, poi
risalì con un ansimo fino al lobo e lo mordicchiò.
Un sussulto interiore mi portò ad aggrapparmi alle sue
braccia, mentre la mia bocca era ostinatamente serrata, decisa a
contenere il respiro divento fastidiosamente grosso, ma distinguevo
chiaramente che un calore improvviso aveva preso a smuovere tutto
dentro di me.
Ed era imbarazzante.
-K…Kadar…no!- mugolai, maledicendomi
all’istante per quell’insulsa vocina da ragazzina
in preda agli ormoni.
Ma quell’ammonimento servì solo ad esaltarlo
ancora di più, infatti, Kadar rafforzò la presa
sul mio corpo e lo strinse a se così forte da
farmi temere che mi sarei ritrovata il giorno dopo con dei lividi.
Eppure, cavolo se era piacevole quel dolore.
-Fanculo…- lo sentii improvvisamente sussurrare.
-Cosa?-ansimai.
A quel punto, Kadar mi spinse contro la porta e prese a baciarmi con
una violenza incontrollata, affamata, esasperata, mordendo e succhiando
senza curarsi del fatto che mi stesse facendo male, toccando avidamente
la forma delle cosce, dei fianchi, delle spalle…ed io che
tremavo sotto le sue carezze spudorate.
-Fanculo a tutti gli altri…- ripeté-
Fanculo… alla
promessa…Fanculo…a…tutto
ciò che non sei tu, Laura…!
Prima che potessi iniziare a gridare, Kadar mi spinse dentro la camera
e richiuse la porta con un calcio netto, tagliando così il
resto del mondo fuori da quel piccolo angolo d’estasi
rarefatta e impetuosa.
Senza smettere di baciarmi, il ragazzo mi condusse di prepotenza verso
il letto.
Sebbene avessi cominciato a opporre seriamente resistenza, non potei
impedirgli di infilare un ginocchio tra le mie gambe e gettarmi di
violenza contro il materasso.
Caddi in un tonfo sordo tra le lenzuola, cercai di riemergere con le
unghie e i denti ma Kadar arrivò su di me e
m’immobilizzò sotto il suo peso.
Finalmente, riuscì a bloccarmi le braccia sopra la testa,
dove non lo avrebbero più respinto o graffiato, e solo
allora si concedette un momento per riprendere fiato da quella lotta
senza esclusione di colpi.
Adesso che eravamo faccia a faccia, notai un rossore violaceo che gli
pizzicava le guance scure e gli occhi, normalmente gentili e puri,
erano sbarrati in un baratro di perversioni e istinti animaleschi,
impossibili da controllare ora che avevano raggiunto il limite.
Ma Kadar era anche spaventato.
-Non...non so che mi sia saltato in mente…-
iniziò a giustificarsi, socchiudendo le ciglia folte per
nascondere gli occhi lucidi- Io...non ho idea di cosa stia facendo,
davvero- aggiunse imbarazzato- Ma sento che sono arrivato al limite. E
adesso, Laura, voglio fare l’amore con te.
Le sue parole colpirono i miei timpani come l’eco di un
campanellino tra la neve.
Poco dopo, sentii che una strana emozione, soffocante e gioiosa, aveva
preso ad avanzarmi in petto fino a far male e non potei evitare di
lottare per trattenere quell’esplosione indescrivibile che
adesso infuriava nel mio petto.
Kadar mi desiderava.
-Ma io sono tua sorella- ribattei, tuttavia la mia voce parve incerta
perfino a me stessa.
Lui si accigliò- Non mi importa.
Sgranai gli occhi, paralizzata, e lui si chinò sulla mia
scapola, sfiorandola con il naso.
E io tremai tutta a quel contatto, perché ero spaventata.
Lui m’intimoriva.
Era per questo, allora, che mi veniva da piangere?
Il brivido sottile che smosse la mia spalla indusse Kadar a sollevarsi
un poco, piantando i suoi occhi lampeggianti su di me. -Laura,
non…non è una costrizione, io non ti farei mai
nulla contro il tuo volere. Lo sai, vero?- esclamò piano, ma
era evidente quanto fosse turbato per la mia reazione.
Mi sforzai di annuire, tuttavia preferii chiudere gli occhi e
nascondere il volto contro il mio braccio.
Maledizione, dovevo calmarmi.
Non appena ebbi riordinato i pensieri, finalmente, lasciai che la bocca
si muovesse. -Non…non sono preoccupata che tu mi violenti,
Kadar. Non è per quello che mi viene da piangere.
-E per cosa, allora?- ora era davvero esasperato.
Presi un bel respiro, rigirando la testa per guardarlo diritto in viso.
- È che…è imbarazzante.
-…Imbarazzante?
Annuii fiacca- Si. Insomma, l’ho notato sai, che
sei… eccitato. Ecco.
Quella parola lo fece avvampare fino alla cima delle orecchie, tuttavia
Kadar cercò lo stesso di mantenere il suo orgoglio puramente
mascolino facendo finta di nulla, come se quella pressione dietro la
toppa dei suoi pantaloni non esistesse nemmeno.
-S…scusa- brontolò impacciato.
-Scusa? – il nervosismo fu tale che non riuscii a trattenere
una risata-Non devi scusarti, diamine!
-È che non ho la più pallida idea di quello che
sto facendo!-rimbrottò risentito lui.
-Neanche io!
La sincera genuinità della mia risposta lo
ammutolì all’istante, confondendolo a tal punto
che per qualche secondo non riuscì a far altro se non
studiarmi. - Ah, no?- balbettò poi.
Io arrossii, traendo un bel respiro per calmare i nervi, tesi come la
corda di violino.
-No, non ho mai…avuto un ragazzo.
-Oh.
Kadar esitò, seriamente combattuto su cosa dire o fare, come
se sapere d’essere il primo a toccarmi gli facesse avvertire
una responsabilità maggiore, che lo avrebbe reso custode di
un legame indissolubile, per sempre.
Ma poi, quando sentì sotto le dita il bracciale con il
turchese legato al mio polso, tutta la sua ansia scivolò in
un sorriso dolce e il volto tornò calmo.
Così, il giovane Assassino si chinò su di me e
baciò teneramente la punta del mio naso, inchiodando i suoi
occhi magnetici nei miei nell’esatto scopo di demolire quel
poco di resistenza che ancora c’era attorno al mio cuore.
-D’accordo, ricominciamo da capo- disse, sorridendo- Laura,
io credo…anzi, sono sicuro di provare sentimenti fortissimi
nei tuoi confronti, che non ho mai provato per nessuno in tutta la mia
vita. E sono molto, molto spaventato. Quindi scusami se mi sono
comportato come un idiota e se ti ho terrorizzato- si
bloccò, prendendo un bel respiro-Vuoi che me ne vada?-chiese
poi.
L’ultima domanda fu accompagnata da uno sguardo ammiccante,
che mi lasciò piacevolmente confusa.
Kadar era sempre stato presente nella mia vita, già da
bambina lo conoscevo senza saperlo.
E anche lui sembrava conoscermi da sempre, quasi mi avesse visto nella
sua mente già tempo fa, prima di quel giorno fatidico a
Damasco, prima di sapere il mio nome.
Ed ora, era come se mi stessi affidando alle mani amiche di una persona
che si era presa cura di me dal giorno in cui avevo compreso
d’esser rimasta sola.
Sapevo che non avrebbe fatto altro se non farmi stare meglio.
Così, scossi la testa e chiusi gli occhi, tirando la testa
indietro in un invito a Kadar di far ciò che volesse.
Lui non tardò.
Avvertii la sua mano carezzarmi la guancia, pressando il pollice sotto
la mia mandibola, poi Kadar poggiò le labbra bollenti sulle
mie.
La lingua entrò vogliosa e solleticò la mia, le
mani strinsero forte le forme morbide, poi scivolarono verso i suoi
vestiti e cominciò a slacciarli.
Le mie mani si avvinghiarono alla pelle affusolata dei suoi addominali
non appena lui gettò a terra la casacca, cominciando a
baciarmi il collo, mentre io tastai curiosa il groviglio di nervi e
sangue che formavano i suoi pettorali.
-Laura…- mi chiamò e si diede una leggera spinta
con tutto il corpo.
Un gemito mi sfuggì dalla bocca e subito la punii affondando
un canino nella sua carne, girando la testa di lato mentre avvertivo un
imbarazzante senso di colpa pervadermi tutta, finché un gelo
improvviso all’altezza dell’ombelico mi fece capire
che Kadar aveva raggomitolato la casacca lungo il mio ventre.
Esitò quando giunse in prossimità dei seni,
mordicchiandosi le labbra mentre riprendeva silenziosamente fiato.
Il cuore mi stava esplodendo, lo stomaco era un viluppo di nervi.
Sentivo che da lì a poco sarei svenuta.
O avrei vomitato.
Quando ormai Kadar ebbe lasciato definitivamente ogni tentennamento, la
sua espressione divenne più decisa e mosse i polsi verso
l’alto, tuttavia non riuscì mai a vedere
ciò che vi era sotto il tessuto poiché venne
bloccato da un rumore estraneo, che ci spezzò il fiato in
due.
Entrambi ci girammo verso la porta, fissando la maniglia come se da un
momento all’altro qualcuno potesse entrare lì
dentro e pizzicarci così.
Come due ragazzini confusi da una tempesta ormonale che aveva
fatto perder loro completamente la ragione.
Ma ora l’incanto si era spezzato.
E quella vaga felicità aveva lasciato spazio alla muta
consapevolezza d’esser scampata dall’errore
più grande della mia vita.
Il bussare di nocche alla porta riecheggiò di nuovo nella
stanza, facendoci sbiancare ancor più.
-Chi…è?- cercai di schiarire la voce quanto
più possibile.
-Laura, potresti uscire in corridoio?- era la voce di Malik-
È urgente.
Dannazione.
-…Certo!
A quel punto, senza riuscire a incrociare lo sguardo di Kadar, spostai
il ragazzo di lato e quello si sedette sul bordo del letto senza batter
ciglio, fissandomi come un segugio mentre mi rialzavo e sistemavo gli
abiti come meglio potevo.
Accidenti, perché mi fissava con quell’espressione
insoddisfatta?
Andai alla porta con passo veloce e mi fiondai in corridoio, dove Malik
era piantato in mezzo alla via, nascosto nella semioscurità
di quella nottata così agitata.
Notai che era un po’ teso.
Meglio, così non avrebbe notato la mia espressione
stralunata.
-Qualcosa non va?- domandai, avvicinandomi.
-Ecco…in verità, si- iniziò insicuro-
Qualche ora fa, sono stato convocato da Al Mualim e ho incontrato
Altaïr, anche lui diretto nell’ufficio del Maestro.
-Oh- deglutii a vuoto. - E di cosa voleva discutere il Mentore?
Lui indugiò.
-Malik, mi stai facendo preoccupare.
-La lettera di Heron Thorpe, quella che Altaïr ha trovato sul
suo cadavere, alquanto pare conteneva un’informazione
più importante di ciò che sembrava. Al Mualim
stava osservando da tempo i traffici nascosti di Roberto di Sable e
Thorpe era l’intermediario ignaro che ci avrebbe condotto
diritti alle mappe segrete del suo Signore. Ma ora l’abbiamo
trovato.
-Cosa?
-Ti spiegherà tutto il Mentore. Sai
dov’è Kadar?
Sbiancai- …No!-risposi con troppa vemenza.
E Malik se ne accorse.
-Non importa, lo troverò per conto mio.
*
* *
-L’Arca dell’Alleanza?- brontolai incredula-
Ma…non era solo una leggenda?
-Leggenda, mistificazione, verità…Non
è L’Arca ciò che ci interessa.
Al Mualim stava frugando distrattamente tra dei fogli sparsi sulla
scrivania massiccia, tra cui anche la lettera che avevo trovato addosso
a Thorpe, ingobbito nella sua figura arcigna mentre una fiammella
coraggiosa illuminava la sua schiena e le mani venose.
Malik era qualche passo più in dietro, come a guardarmi le
spalle.
Altaïr, invece, mi stava davanti e osservava con religiosa
attesa la prossima decisione del suo Maestro, come un cane pronto a
obbedire a qualsiasi comando, sia pur assurdo, del suo addestratore.
Alla fine, aveva avuto ciò che voleva.
Avere la fiducia di Al Mualim.
-Alquanto pare, i Templari hanno trovato dentro quella cassa di legno
ingentilita da oro e vezzosità un manufatto, che potrebbe
dar loro un vantaggio incolmabile su di noi. - spiegò Al
Mualim, alzando lo sguardo per condividere la visione lugubre
proiettata nei suoi occhi allucinati.- E se ciò dovesse
accadere, allora nessuno, neanche noi, potrebbe più
contrastare il loro Ordine. Ecco perché domani tu, Malik e
Altaïr partirete in missione verso il tempio di Salomone: per
recuperare il manufatto nascosto nell’Arca.
Angolo autrice: Salve a tutti i miei gentilissimi e amatissimi
lettori!!!Dunque…descrivere le scene un po’
più “spintarelle” è stato
decisamente divertente, ma anche difficile, devo dire. Comunque, ho
fatto la brava e ho cercato di non esagerare…per ora.
Al prossimo aggiornamento con il primo capitolo a due cifre, che deve
la sua venuta al mondo soltanto al vostro fantastico sostegno!
Ps: Solo a me il capitolo 10 fa tremare un po’ le
ginocchia…?
Baci, Lusivia.
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Capitolo 10 *** 10.L'ultima lacrima del cielo. ***
Capitolo 10
L’ultima lacrima del cielo.
-Io non la voglio nella missione!-sbottò Altaïr,
indicandomi con gesto sprezzante a Malik, il quale aveva taciuto
davanti alla sua sfuriata bisbigliata nella tromba delle scale con un
sopracciglio arcuato.
Io, intanto, mi ero seduta qualche gradino più in basso, con
il cappuccio tirato sulle spalle, e giocherellavo nevroticamente con il
bracciale di Kadar, mentre i due erano poco più su lungo la
torre.
A occhio e croce, poteva essere l’una di notte.
-Perfetto, vuoi dirlo tu al Mentore che Nadim non viene con noi? Oh,
già, dimenticavo!- bisbigliò tagliente Malik-
Nadim è in verità una ragazza!
-E allora la portiamo con noi al tempio?-l’altro
indietreggiò, contrariato.
-Non dire assurdità, certo che non la portiamo con noi.
-Perciò?
Malik scosse la testa, guardando fuori dalla stretta feritoia al muro,
da cui tirò un vento gelido che gli pietrificò il
volto severo, e meditò.
Non c’era nessuna soluzione, lui lo sapeva bene, ma per
l’alta considerazione che aveva della sua intelligenza
s’intestardì di poter trovare ugualmente una
soluzione, di poter salvare tutti con un unico lampo di genio.
Io lo guardai speranzosa fino alla fine ma ogni mia fantasia fu
spazzata via dal sospiro che fuoriuscì dalle sue labbra,
mentre con la sinistra si stropicciava gli occhi sotto i polpastrelli
del pollice e dell’indice in un gesto di resa.
Ormai, ero rassegnata. - Sono fottuta, dunque. - brontolai, tornando a
capo chino sui miei piedi.
-No che non sei fottuta!- obbiettò svelto Altaïr-
Nessuno di noi è fottuto fino a quando non
arriverà domani mattina.
Malik alzò lo sguardo sul suo confratello così
cocciutamente raccolto nella riflessione, dicendo con aria assennata-
Altaïr, non potremo proteggerla se le cose si metteranno male
lì.
-Lo so.
-In altre parole…- ribadii-…fottuta.
I due Assassini mi osservarono, ma questa volta non trovarono una
ragione valida per obbiettare.
-Perché…?Perché Al Mualim mi ha
chiesto di accompagnarvi in una missione così importante per
la Confraternita?
-Che missione?
Kadar era in basso alle scale, un piede sullo scalino successivo e una
mano poggiata sul suo ginocchio, che ci stava fissando con
l’aria spaesata di chi era stato escluso da qualcosa di molto
importante.
La sola vista del suo volto mi scosse completamente, mi alzai in piedi
troppo velocemente e nel movimento feci cadere il bracciale, che
cascò in un clangore ferroso sul gradino davanti a lui.
Il rumore attirò anche l’attenzione di Malik e
Altaïr, che scrutarono di sottecchi il ragazzo mentre questo
si chinava a recuperare l’oggetto e poi, con un sorriso
gentile, me lo rendeva.
Indossai il bracciale a testa china, dopo di che appiatti le spalle
contro il muro e lasciai che Kadar parlasse direttamente con gli altri
due dietro di me.
-Di che missione stava parlando Laura?-il ragazzo riformulò
il quesito per una risposta più precisa.
Malik esitò-Al Mualim ci ha convocato nel suo ufficio due
ore fa per dare disposizioni su una missione.
-D’accordo. E per dove?- incalzò Kadar.
-Non- balbettai- Non devi preoccuparti di questo, Kadar. Non
è nulla.
-Si, invece- la voce profonda di Altaïr entrò nella
discussione e prese ad agitare l’indice in tocchi secchi
nell’aria, puntandolo poi verso il Novizio più in
basso mentre rifletteva - Lui potrebbe sostituire Laura, domani, prima
di raggiungere le scuderie. Nessuno se ne accorgerebbe, sono alti
uguali.
In verità, Kadar era qualche centimetro più alto
di me…
-Non se ne parla proprio!-Malik si oppose stizzito.
-Sono d’accordo con lui- mi aggiunsi anch’io- Non
voglio coinvolgerlo in questa storia, Kadar rischierebbe troppo se
fossimo scoperti…
-Oh, allora è meglio gettarti in pasto alle spade Templari,
Laura?- Altaïr parve sdegnato dalla mia codardia.
-No, ma non voglio che Kadar si faccia male.
-Non mi farò male.
Mi voltai a guardare Kadar, che aveva assunto un’espressione
risoluta mentre con calma palpabile si avvicinava a Malik e poggiava la
mano sulla spalla di quello, il quale guardò preoccupato il
suo fratellino, quasi spaventato da quella luce nuova che vedeva nei
suoi occhi.
-Non mi farò male, lo sai benissimo fratello mio. Mi hai
addestrato tu, ricordi? Abbi fiducia delle mie capacità, di
ciò che mi hai insegnato quando eravamo rimasti soli al
mondo.
L’Assassino più anziano rimase turbato dalla
risolutezza con cui il giovane si propose, così, con maggior
premura, disse- Kadar, lo sai che se sarai scoperto rischi di esser
punito molto duramente da Al Mualim?
-Ne sono consapevole.
-Potresti anche esser cacciato dall’Ordine- aggiunse
distaccato Altaïr.
Kadar esitò, poi annuì.
Malik lo scrutò con la sua solita attenzione medica,
cercando, scavando, e riemerse dallo sguardo di quello con
un’espressione nuova, di chi aveva visto una luce
incredibilmente forte brillare nel baratro più profondo
dell’universo, rimanendone abbacinato.
Con un sospiro teso, dunque, egli poggiò entrambi le mani
sulle sue spalle e affondò lo sguardo nero in quello limpido
del fratello, serio e composto come sempre.
-Sei cambiato, stupido ragazzino- mormorò.
Quello sorrise un poco- Lascia che io la protegga. - disse Kadar.
Nel medesimo momento in cui Malik lasciava cascare le braccia in
giù, con aria rassegnata, l’Assassino cui volto
era sfregiato a vita dal segno della mia lama si girò per
guardarmi, squadrandomi così intensamente che
m’imbarazzo.
Altaïr aveva improvvisamente afferrato qualcosa che fino a
quel punto gli era completamente sfuggito a causa della sua arroganza,
della sua sicurezza d’aver il controllo su ogni cosa,
compresa me.
Quello fu il primo segnale che qualcosa stava cominciando a sfuggire al
suo controllo.
*
* *
Altaïr fu il primo ad accomiatarsi verso le sue stanze, mentre
Malik mi domandò di lasciare lui e Kadar soli, per parlare
meglio della missione al tempio.
In verità, era chiaro dalla sfumatura inqueta dei suoi occhi
che l’assennato Assassino era preoccupato per la leggerezza
con cui il Novizio aveva preso quella faccenda.
Ma quella di Kadar non era leggerezza, bensì determinazione
di proteggere qualcosa che era suo.
E ora che rigiravo il bracciale tra le mie mani, vedendo e immaginando
le sue decorazioni e la pietra liscia sotto i polpastrelli, capii che
il legame di cui parlava Kadar era di protezione.
Nel silenzio della mia stanza, seppellita sotto le coperte ormai
impregnati del mio odore, attendevo in una statica attesa che le ultime
ore della notte si consumassero in fretta.
Una risatella soffocata.
-Lasciami in pace…Non ho voglia di ascoltarti ora, stupida
mente malata. - mormorai debolmente, ma forse non parlai affatto e
quella fu solo la mia immaginazione.
Sorprendentemente, però, quella vocina infida
tornò nell’angolino umido del mio cervello da cui
era uscita.
Almeno per quella notte, non mi diede altre noie.
Verso l’inizio del giorno, sentii dei passi scorrazzare lungo
il corridoio e conclusi che fosse qualche ragazzino di ritorno al
villaggio, magari dopo un incontro con una giovinetta sfuggita per
un’ora dal controllo di casa.
Lo scalpiccio lì fuori si allontanò velocemente,
facendo tornare il silenzio nel pianerottolo.
Sospirai, affondando nel cuscino con un sospiro intenso.
Sei una traditrice, lo sai, vero? Hai tradito l’Ordine che ti
ha cresciuto in grembo.
Maledizione era tornata alla carica.
-Zitta…-l’ammonii.
Ti sei alleata con i nemici della tua famiglia…
Rabbrividii, affrettandomi a contestare. -Io non ho tradito i Templari,
perché non sono una di loro!
Ah! D’accordo, se la metti così,
allora…che ne dici del tuo Assassino dagli occhi color del
cielo?
Schiusi poco gli occhi. - Kadar?- mormorai.
Lui si è offerto al tuo posto, rischierà il tutto
e per tutto in nome di un sentimento che tu neanche ricambi e non hai
fatto nulla per impedirlo. Sei un’affarista, Laura…
-Non…non è vero!
Lui si sacrificherà.
E tu sarai responsabile di ciò che gli succederà.
-Non gli succederà nulla!
Menti a te stessa. Tu hai già visto il sangue e la morte nel
suo futuro il giorno in cui lo abbandonasti.
Un colpo secco alla porta spezzò il ciarlare insensato della
mia mente, facendomi riemergere dal tepore delle lenzuola con una
strizzata d’occhi, così gonfi che a stento riuscii
a tenerli aperti.
Sebbene il mio metabolismo fosse ancora confuso per quella nottata
insonne, tirai fuori le gambe lattiginose dal letto e mi misi in piedi,
stiracchiandomi per bene mentre mi dirigevo verso la porta.
Aprii un’apertura nel corridoio e scorsi il profilo di Malik
che cercava di risvegliare il suo corpo stropicciandosi furiosamente
l’avambraccio contro gli occhi, un po’ gonfi e
arrossati.
In principio, Malik mi era sempre sembrato un ragazzo accorto ai suoi
movimenti, misurato, ma con il passare del tempo avevo scorto anche
barlumi di gentilezza, leggiadra ironia e una lieve mania della
perfezione.
In oltre, scoprii con meraviglia che era anche uno squisito racconta
storie.
-Buongiorno Malik.- brontolai rauca. - Che ore sono?
-La quinta ora della notte- bofonchio piano- Fai in fretta, dobbiamo
recarci alle scuderie prima del custode.
Dopo che ebbe chiuso la pota, m'affrettai a indossare gli usuali abiti,
l’armatura e gli stivali, ma calai il cappuccio sulla testa
solo quando raggiunsi Malik in corridoio, dove mi attendeva un
po’ più sveglio di prima.
Il campo d’allenamento era avvolto dal silenzio celestino
delle prime luci del giorno, gli attrezzi di legno usati per
l’addestramento giacevano immobili, l’unico suono
che si udiva a quell’ora del mattino era e il grido lontano
di alcuni uccelli che sorvolavano la fortezza con le loro ali nere.
In prossimità delle mura di cinta, Altaïr ci
attendeva, tutto rannicchiato su se stesso mentre strofinava le mani
l’una contro l’altra, cercando di riscaldare
abbastanza da muovere le dita senza provare dolore.
Gli abitanti di Masyaf non erano abituati a quelle temperature
insolitamente rigide.
Quando ci congiungemmo con lui, Altaïr gettò un
saluto a denti stretti e a braccia incrociate tornò a
guardare il cielo, forse pensando che quella gelata era un chiaro
capriccio di una divinità annoiata che aveva deciso di
divertirsi un po’.
Lasciammo la fortezza per percorrere il pendio verso il villaggio,
ancora immerso nel sonno che tutto ferma, quando, in
prossimità delle scuderie, scorgemmo un Novizio che
girovagava nervosamente davanti alle porte.
Alla sua sinistra, notai che tre cavalli erano già pronti
per partire.
-Buongiorno. - Kadar ci salutò con un sorriso teso.- Siamo
pronti?-chiese poi.
Malik annuì- Ti ha notato qualcuno, mentre uscivi dalle tue
stanze?
-No.
-Tagliamo corto- Altaïr aveva fretta di chiudere la faccenda
il prima possibile, così mi spronò a procede con
un colpetto al gomito.- Svelta, dagli la roba.
Io obbedii senza esitazione e consegnai a Kadar le armi che avevo
prelevato dall’armeria con Malik, cercando, nel frattanto, di
ignorare le occhiate insistenti del ragazzo.
Consegnai la spada e i pugnali da lancio ma, quando arrivò
il momento di un pugnaletto dall’elsa tozza e argentata,
decisi all’ultimo di tenerlo nascosto nella cintura.
-Siate prudenti. – dissi e mi allontanai di qualche passo.
Kadar sospirò davanti alla mia indifferenza, poi
spostò l’attenzione sulla spada che stringeva
nella mano e ne calibrò il peso, mentre Malik non mi
risparmiò un severo ammonimento prima di partire.
- Non parlare con nessuno. - cominciò con sguardo assente. -
Bada a non farti vedere da Al Mualim. Esci dalla stanza solo se
necessario. Non fare sciocchezze.
Era sempre così nervosamente tirato quando si sforzava
d’esser gentile.
-E tu vedi di non rimanerci secco- risposi tranquilla.
Lui ghignò.
-Malik. Riporta Kadar qui sano e salvo. - aggiunsi seria.
-Ovviamente.
Detto ciò, l’Assassino tirò sui lucidi
capelli neri il cappuccio immacolato e raggiunse i cavalli con Kadar,
mentre Altaïr era già in sella e pronto per partire.
Quest’ultimo fu il primo a lasciare il villaggio, poi Malik e
infine Kadar, che fecero scattare i destrieri con un colpo dei talloni
lungo il pendio.
Rimasi immobile davanti all’entrata per un po’.
Dopo non so quanto tempo, marciai verso le scuderie e preparai la
cavalla con le bisacce piene di rifornimenti e acqua per il viaggio.
Montai in sella come mi aveva insegnato Malik, strinsi le redini tra le
dita e le schioccai nell’aria per condurre il cavallo in
prossimità dell’uscita, ma esitai davanti alla
distesa di terreno che si apriva aldilà del villaggio.
Era una pazzia, certo, ma non ero mai stata brava a prendere scelte
saggie.
Colpii i fianchi della cavalla, quella nitrì infastidita e
procedette lungo il sentiero battuto.
Masyaf era ormai alle mie spalle.
* * *
Il viaggio durò cinque giorni.
Dopo aver lasciato Masyaf, rincontrai i tre a pochi metri lungo il
cammino, così feci decelerare l’andamento della
cavalla e procedemmo a passo, prestando massima attenzione a non
entrare nel loro raggio visivo per tutto il viaggio.
Quando giungeva la sera, loro si accampavano come meglio potevano e lo
stesso facevo anch’io, raggomitolandomi contro il ventre
caldo dell’animale e lasciando che la notte passasse il
più velocemente possibile.
Alla vigilia del quinto giorno, cominciai a pensare a ciò
che stavo facendo, alle motivazioni per cui mi ero gettata al loro
inseguimento senza neanche riflettere.
La risposta fu sempre la stessa: perché avevo abbandonato
Kadar, tanto tempo fa.
Era stata quella vocina della notte scorsa a ricordarmelo.
Il giorno in cui iniziai ad avere visioni di morte e sangue ero poco
più che una bambina, troppo piccola perché
capissi cosa mi stava succedendo, e il terrore fu tale che cominciai a
mandare giù le compresse come fossero caramelle al gusto di
limone nella speranza di far tacere le allucinazioni definitivamente.
E così, molto lentamente, passo dopo passo, le visioni si
affievolirono, il sangue diminuì, i periodi in cui rimanevo
confinata nel mio delirio sempre più brevi,
finché, un giorno, mi alzai senza alcun ricordo di
ciò che era stata la mia vita fino a quel momento.
Sparirono le allucinazioni, sparì Kadar, e per un
po’ credetti di vivere una vita normale, più o a
meno, solo se continuavo ad affidarmi alla scienza.
Almeno, così avevo creduto fino al giorno in cui mi ero
ritrovata in un mondo sottosopra, lontana da casa secoli e secoli, sola
e spaventata.
Forse, però, quella era la mia punizione per aver ucciso con
le medicine l’unico essere che si fosse mai interessato a me,
o per lo meno il divertimento perverso di qualche dio che aveva deciso
di farmi compiere viaggio senza senso solo per trastullarlo un
po’.
Non sapevo dove sarei andata, ma una cosa era certa: non avrei mai
più rinnegato me stessa.
Arrivò la fine del viaggio nel pomeriggio del quinto giorno.
Il tempio di Salomone era poco più di un tugurio fatiscente
all’esterno, nulla a che fare con le mie aspettative di
splendore e antico mistero, che avrebbe dovuto impregnare
l’aria di quelle arcane emozioni e leggende sussurrate nelle
notti oscure della Mezzaluna fertile.
Ma ora, tutto ciò che rimaneva di quell’antica
gloria era il riflesso sbiadito di uno specchio troppo vecchio.
Notai un certo nervosismo nei movimenti di Altaïr quando si
fermarono a qualche metro dall’entrata per legare i cavalli,
tuttavia dissimulò ogni cosa non appena fu raggiunto da
Malik e Kadar.
I più anziani si scambiarono qualche parola veloce, vidi
Malik che scuoteva con dissenso la testa e ammoniva Altaïr
attorno a qualcosa, ma quest’ultimo si divincolò
dalle litanie del confratello con uno scatto snervato delle spalle ed
entrò per primo nel tempio.
Kadar alzò il petto in un sospiro, poi diede una pacca di
conforto sulla spalla di Malik.
Il fratello maggiore si voltò a guardarlo, sbuffò
e avvolse la spalla del fratello con il suo braccio lungo, borbottando
una battuta che sembrò sbollentare la tensione per entrambi.
I due risero assieme, come due normalissimi fratelli che commentano il
passaggio pavoneggiato di una bella donna al mercato locale,
finché quel piccolo scorcio di tranquillità non
fu interrotto da Malik, il quale fece scivolare il braccio dalla spalla
di Kadar e tornò concentrato sulla missione.
Senza indugiare oltre, i due calarono il cappuccio sui loro visi e si
addentrarono nelle viscere della struttura.
Passai qualche minuto nascosta dietro un masso a pochi metro di
lì, fissando con gli occhi sgranati l’entrata del
tempio, mentre la cavalla brucava libera alle mie spalle.
Una volta raccolto il coraggio, mi alzai dal nascondiglio e corsi verso
l’entrata, piantando i piedi in una frenata brusca quando fui
a pochi centimetri dall’entrare del tunnel.
Lì dentro l’aria era umida, muffosa, e si sentiva
anche l’odore vago di chiuso.
Ma, allo stesso tempo, c’era qualcosa di indescrivibile che
trasudava dalle pareti e appestava l’aria circostante in
maniera opprimente.
No, decisamente quella non era una delle mie idee più
ponderate.
Distesi le dita nei guanti di cuoio e ispirai affondo, soffocai il
senso di stanchezza e di fame, poi flettei le gambe e in un movimento
scattante fui dentro il tempio.
Man mano che mi addentravo nel buio, calpestando e schivando grosse
pozzanghere formatosi tra i valli della sabbia, notai di tanto in tanto
delle torce appese e intuii che non fossimo soli.
Giunsi in prossimità di una svolta e attenuai il passo,
arrivando poi ad arrestarmi completamente quando estrassi il pugnale
dalla cinta e lo portai vicino al petto, esponendomi con circospezione
dall’angolo in cui ero nascosta.
Controllai rapidamente che non ci fosse nessuna guardia a sbarrarmi il
cammino, udendo soltanto lo scorrere debole di un fiumiciattolo
formatosi da una perdita nel muro, finché qualcosa
accasciato a terra mi portò a chinare lo sguardo in basso.
Un sacerdote del tempio era riverso al suolo con la gola sgozzata,
ritratto in una smorfia di orrida sorpresa e con le dita di una mano
contratte verso quel fiumiciattolo, che, adesso, si era mischiato con
il sangue vischioso.
L’odore di morte era così forte che lo stomaco mi
si ribaltò in gola ma per fortuna non c’era nulla
da rigurgitare, perciò gettai indietro il disgusto e superai
velocemente il cadavere per riprendere la corsa.
Di sicuro quella firma cupa sulla gola del sacerdote era opera di
Altaïr.
Mi chiesi se la morte di quell’uomo era necessaria.
Seguii il percorso fino a giungere nei piani superiori della struttura,
in una serie di cunicoli e travi che formavano ciò che un
tempo doveva essere una stanza, e mi portai a qualche metro dal
pavimento che era crollato per metà.
Così presi a osservare lo spazio sottostante.
Sotto di me si stendevano i resti della gloriosa sala che un tempo era
ornata da oro e fregi preziosi, strappati via dalle sue mura per
lasciarle spoglie e fredde, ed era illuminata da alcuni bracieri accesi
da due soldati di guardia all’altare.
D’un tratto, un gruppo di uomini in armature lucenti
entrò nella zona con una cassa sulle spalle ricurve e,
sebbene fosse consumata e spoglia di qualsiasi fregio, capii che si
trattava dell’Arca.
Davanti al gruppo, un uomo dalla statura colossale e gli abiti da
condottiero indicava loro di poggiare l’Arca
sull’altare poco più in alto, scrutando
severamente i sottoposti con gli occhietti grigi mentre eseguivano
l’ordine.
Dal suo aspetto, quell’uomo si sarebbe detto essere nativo di
qualche paese Europeo, la corporatura era massiccia e forte, gli occhi
piccoli ma intensi, la pelle della cute lucida e segnata da alcune
cicatrici e vene azzurre.
Era il Templare più alto di tutti, forse di qualsiasi uomo
avessi mai visto, e l’aura che emanava intimoriva tutti
quelli he gli erano attorno.
Di sicuro era il capo.
Nel frattanto che i sottoposti Templari riponevano l’Arca, io
presi a scrutare tra le travi e i resti attorno a me, cercando le vesti
bianche e svolazzanti dei miei confratelli in missione, ma non li vidi.
Dubitavo d’esser nel posto sbagliato.
Dovevano essere lì, da qualche parte, soltanto i miei occhi
inesperti non riuscivano a vederli.
-E tu che fai qua?- un Templare giunse alle mie spalle, prendendomi
totalmente di sorpresa.
Provai a scappare ma quello mi colpì con il gomito in mezzo
alle spalle, facendomi stramazzare al suolo con il respiro bloccato in
gola.
Mi rigirò per un piede a pancia in su, io provai a ferirlo
al viso con il pugnale ma quello mi bloccò le gambe e
lanciò un pugno sulla mia tempia destra, stordendomi il
tempo sufficiente per rendermi innocua e strapparmi dalle mani
l’arma.
Cominciai a riprendere conoscenza quando ormai ero stata portata nella
sala sottostante e gettata a terra, poco distante dai piedi
dell’uomo dagli occhi gelidi.
Lui si voltò a guardarmi in un misto di sufficienza e
disgusto.
-Dove l’hai trovato?- domandò e notai che aveva un
lieve accento francese.
-Era nascosto nel piano superiore, il bastardo- rispose il soldato- Che
faccio? Lo ammazzo?
Capendo d’essere spacciata, provai disperatamente a scattare
in piedi ma lo stivale del sottoposto si piantò sulla mia
schiena e mi spinse con il ventre verso il suolo, sventando qualsiasi
piano di fuga.
Il colosso scosse la testa con dissenso, poi fece cenno con il mento al
soldato di alzarmi da terra e quello obbedì, sebbene a
malincuore, bloccandomi saldamente le braccia dietro la schiena.
-Sai chi sono io?- il comandante fece la sua prima domanda.
Indugiai, poi scossi la testa.
Lui gongolò estasiato. - Di solito, gli Assassini che
schiaccio sotto i miei stivali tremano come cani bastardi, con lo
sguardo superbo ma il corpo piegato, eppure tu mi sfidi senza neanche
sapere chi diavolo stai cercando inutilmente di far fuori.
Poi, senza indugiare oltre con quelle inutili moine, il comandante mi
afferrò di malo modo il cappuccio e lo tirò via
dalla mia testa, esponendo così il volto delicato e i lunghi
capelli castani che cascarono sul mio petto come radici di un albero.
Mentre intorno a noi si levarono bisbigli sorpresi o confusi, io fui
immobilizzata per la mandibola tra la cotta pruriginosa dei guanti
dell’uomo, che mi scrutò deliziato mentre con
fermezza diceva. - O il mio vecchio amico è uscito
completamente di senno oppure Al Mualim si diverte a mandarmi in bestia
con questa offesa immonda e decisamente crudele. Allora, ragazza, non
mi dirai che adesso reclutano anche le donne tra quei cani?
Tacqui.
-D’accordo, taci, se ti va. Tanto non cambierà la
sorte dei tuoi compagni quando li troverò e li
massacrerò uno a uno.
La codardia delle sue parole m’infiammò gli occhi
neri di puro odio, tuttavia lui si crogiolò tra quelle
fiamme con indifferenza e, anzi, mi lasciò andare la
mandibola con la stessa delicatezza che si riserverebbe a una bambina
innocua.
-Mettila in catene!- ordinò al soldato dietro di me- La
porteremo con noi, una volta finito qui.
-No!-gridai, ma lui mi aveva già dato le spalle per tornare
alle sue faccende.
Il soldato obbedì e cominciò a trascinarmi
nell’altra stanza mentre io mi dimenavo come una furia e
tentavo di allontanargli la mano pressata sulla mia bocca,
finché, ormai rassegnata al mio destino, lo sentii
sobbalzare per qualcosa che si era appena piantò tra le sue
scapole.
Il soldato stramazzò immediatamente a terra e ciò
mi diede la possibilità di appiattirmi contro il muro e
riprendere grandi boccate d’ossigeno, realizzando allora che
ad ucciderlo era stato un pugnale.
Fu in quel momento, quando di Sable era tutto intento a impartire
ordini qua e là con le braccia enormi, che qualcosa di
veloce e incolore piombò sul Templare dalle travi
sovrastanti e sfoderò in un click la lama retrattile al
polso.
Una frazione di secondi e Altaïr gli avrebbe trapassato il
cranio.
Ma qualcosa andò storto.
Con un movimento estremamente fluido ma anche implacabile, Di Sable lo
afferrò a mezz’aria e gli strinse le mani attorno
alla trachea, sballottandolo un po’ mentre
l’Assassino ringhiava e cercava di liberarsi da quella presa
letale, finché, stanco di quel giochetto, il Templare lo
lanciò all’aria.
A stento l’Assassino riuscì ad attenuare la caduta
sul terreno, rotolando per qualche metro prima di riacquistare la
stabilità e ancorarsi al suolo, ma quando si
fermò non poté sopprimere
un’espressione di sgomento che gli varcò in un
baleno il volto.
Era terrorizzato, anzi, bloccato completamente in quella posizione
accovacciata mentre il suo avversario ordinava ai soldati di disporsi
per la battaglia.
Di Sable lo aveva appena scaraventato via come una bambola di pezza,
come un insetto, come un bambino indifeso che aveva creduto di poter
affrontare con una spada di legno il drago nascosto nel castello, e
questo lo aveva spaventato.
Nulla gli era mai sfuggito dal suo controllo, nulla.
E adesso, con una sola manata, Altaïr era stato sopraffatto.
Fortunatamente, l’Assassino rinvenne in tempo per reagire
all’attacco di un soldato, deviandone il colpo con la sua
spada corta e tagliandoli di netto la gola con la lama celata.
Il soldato esalò mentre cadeva ai suoi piedi e quella
piccola vittoria lo rincuorò sufficientemente da spingerlo a
rialzarsi, con le lame a portata di mano per affrontare lo schieramento
davanti a lui.
Nell’esatto momento in cui Altaïr
ingaggiò il combattimento contro tre guardie, il clangore di
lame alle mie spalle mi portò a voltarmi verso lo scontro in
corso qualche metro più in là.
Malik aveva neutralizzato un avversario tagliandogli i tendini della
gamba sinistra, costringendo il soldato ad accasciarsi il tempo
sufficiente per permettergli di finirlo velocemente e in dolore, e
adesso passato al Templare successivo con un cambio di lama, usando il
pugnale a molla a posto della spada per forargli i polmoni sotto il
costato.
Kadar, invece, aveva una tecnica meno definita della sua: affrontava
più nemici alla volta, ferendoli man mano con colpi secchi e
precisi nei punti più vitali, e li portava a morire per
dissanguamento ancor prima che il duello iniziasse.
Era veloce, aggraziato, ma Malik doveva sempre assicurarsi che i colpi
inferti dal fratellino fossero letali al terzo movimento, altrimenti
sarebbe intervenuto lui per porre fine al duello.
Notai che Malik stava avanzando nella mia direzione e che Kadar lo
stava aiutando a raggiungermi, mentre, al contrario, l’Aquila
era stata così presa da quella tremenda offensiva del suo
nemico che non si era neanche accordo della mia presenza al tempio.
Capendo d’esser proprio al centro di due fuochi, corsi via
dal mezzo della sala e mi portai accanto all’altare, dove
potevo avere una visuale completa della scena, e il mio spostamento non
sfuggì a un soldato che abbandonò il
combattimento con Altaïr per raggiungermi lì.
L’Assassino, però, non si accorse che uno dei suoi
bersagli era appena sfuggito al suo controllo perché troppo
impegnato a uccidere un soldato che teneva stretto per il collo sotto
il suo braccio e poi, una volta gettato il cadavere, ingaggiare
finalmente il combattimento con il Gran Maestro dei Templari.
Il soldato era davanti a me, nel panico cercai invano il pugnale perso
nel soppalco superiore, e la sua lama mi avrebbe ucciso se Malik non lo
avesse afferrato e scagliato al suolo, dando così il tempo a
Kadar di finirlo.
-Perché sei qui, Laura?- sbraitò Malik,
completamente fuori di se e con i capelli che schizzavano sudore da
sotto la cappa grigia, mentre con il gomito mi spingeva al sicuro
contro l’angolo.
-Sono qui per aiutarvi!- dissi ma non fui convincente.
-Non sei divertente!-ribatté.- Cazzo, sei una stupida
testarda! Devi andartene, adesso!
-Tu non sei più il mio maestro, non decidi per me!
-Ma sono tuo fratello maggiore e ti dico che devi smammare alla svelta!
-Io non…Malik!
L’Assassino si voltò a seguire la direzione
indicata dal mio braccio teso e vide che Kadar era caduto a terra e che
era stato disarmato proprio quando giungevano i rinforzi Templari.
Senza pensarci due volte, Malik mi lasciò la sua spada e
fece scattare il meccanismo al polso, correndo alle spalle di un
soldato e gettandolo a terra prima che questo tagliasse di netto il
braccio di Kadar.
-Fratello, stai bene?- chiese mentre si parava davanti al minore,
respingendo i Templari che avanzavano.
-Sì!-rispose, rialzandosi da terra e recuperando
l’arma, poi guardò l’altro e con tono
supplichevole disse- Ti prego, Malik, devo portare Laura via di qui!
Il Novizio voltò le spalle al suo superiore per raggiungermi
all’altare, dopo di che afferrò la mia mano e mi
scortò verso l’uscita nel tunnel.
-Kadar, mi dispiace!- sbottai con il fiato corto.
-Dovevi rimanere a casa, Laura! Che cosa farei se tu dovessi morire qui
con noi, oggi?
Nel frattempo, lo scontro si stava spostando a favore dei Templari, che
approfittavano del loro numero per soffocare con attacchi coalizzati le
fiamme divampanti a ogni attacco scagliato dai due Assassini, tuttavia
ciò non avrebbe cambiato l’esito imminente dello
scontro.
Ci fermammo davanti all’entrata del tunnel e invece di
proseguire bloccai Kadar, che era già pronto a tornare al
combattimento, strattonandolo verso di me.
-Tornate a casa con me!- gridai- Morirete se rimarrete qui, quindi
lasciate perdere quella stupida Arca e scappate!
I suoi occhi color del cielo mi fissarono impotenti, per un momento fu
tentato di farlo davvero.
Ma scosse la testa.
Avvertii il bruciore delle lacrime pizzicarmi gli occhi. -Ti
prego…Ho…ho un brutto presentimento.
-Laura…Abbi fiducia nel destino.
E, lentamente, si svincolò dalla mia mano.
Kadar mi guardò, poi si accigliò e mi
afferrò la nuca per baciarmi intensamente.
Io non riuscii a ricambiare, perché quel gesto era la prova
che nulla sarebbe andato bene.
Come se lui già sapesse come sarebbe finita.
E gli stava bene così.
Ma a me no.
Con la leva di un solo braccio, spinsi contro il petto di Kadar e lo
allontanai il tempo sufficiente da lasciarlo perplesso e raggirarlo a
destra, prendendo a correre verso l’altare senza curarmi
delle lame che mi sfrecciavano accanto e dietro.
-Laura, no!-Kadar mi corse dietro, cominciò a salire le
scale, ma io ero già a metà strada.
Giunsi sulla cima con il fiato corto, mi bloccai e osservai la scena
che si apriva sotto di me con muto orrore.
C’erano molti cadaveri sparsi a terra e per fortuna sia Malik
che Altaïr erano ancora in piedi, quando d’un
tratto, proprio sotto i miei occhi, Di Sable schivò il colpo
dell’Assassino e , con un solo braccio, lo
scaraventò così lontano da farlo finire contro le
travi di un’uscita in rovina.
Il colpo di schiena di Altaïr fu tale che le travi cedettero e
gli precipitarono addosso, dandogli pochi secondi per strisciare
indietro e scampare al crollo dell’entrata.
Il rimbombo improvviso spezzò l’aria in due e allo
stesso modo anche la concentrazione di Malik
s’incrinò, schivando per un soffio
l’offensiva di uno dei suoi tre avversari.
In quei pochi secondi di confusione generale, sentii il grido di un
soldato quando questo era già alle mie spalle, tuttavia i
riflessi furono incredibilmente pronti e sfilai la spada abbastanza
velocemente da far cozzare le lame e rigettare l’uomo a terra.
Kadar era arrivato in cima alle scale, io riposi l’arma ma
non lo aspettai, invece mi precipitai verso l’Arca e mi
gettai al suo fianco, affondando le dita sui bordi per tirare su il
coperchio.
Dovevo recuperare quello stupidissimo manufatto o quei due sarebbero
rimasti lì fino alla morte.
Non appena ebbi ricavato spazio sufficiente, infilai il braccio nella
cassa e tastai il fondo oscuro, finché le mie dita
sfiorarono qualcosa.
Così lo tirai in superficie.
Ma non appena il bagliore lucente di quell’oggetto
scappò dal panno che lo ricopriva, un senso indescrivibile
di vertigine mi portò a mollare la presa sul manufatto e
senza volerlo cominciai a strillare.
Non potevo chiudere la bocca, non ci riuscivo, ma avrei tanto voluto
che quelle grida insensate cessassero, che Malik non si fosse distratto
per voltasi nella mia direzione e che Kadar non si fosse precipitato da
me senza rendersi conto che il Templare di prima si era rialzato da
terra.
Fermatevi.
Fermatevi.
Fermatevi!
La vocina rise: ups!
Un gemito alle mie spalle, la sensazione che qualcosa di estremamente
prezioso si era appena versato sul terreno empio.
La bocca, finalmente, tacque, ed io fui libera di voltarmi indietro.
Kadar aveva lo sguardo chino sulla rosa scarlatta che si stava
lentamente formando sul suo petto candido, dispiegandosi come ali
attorno al ferro crudele della lama del Templare alle sue spalle.
Il ragazzo toccò la ferita, macchiandosi le mani, poi
alzò lo sguardo su di me.
In quel momento, qualcosa si frantumò.
O forse, era solo il grido straziato di Malik.
I secondi successivi furono veloci, come il battito d’ali di
una farfalla.
Il soldato estrasse la lama dal petto di Kadar, che gemette e
gettò le ginocchia a terra, poi si preparò ad
affrontarmi con la stessa lama macchiata del sangue di quel giovane che
ora era piegato a terra.
Il pulsare doloroso del mio petto fu il generatore collegato
direttamente alle mie braccia, che si mossero così
velocemente da non permettere al soldato di prevedere la loro direzione.
Rimase del tutto spiazzato quando sentì la mia lama
conficcarsi sotto il suo sterno.
Fissai diritto negli occhi l’uomo mentre la spada gli
stillava via la vita, e ci godetti.
Lui doveva morire.
Per ripagare il sacrificio di Kadar, quell’uomo doveva morire.
Così, quando alla fine l’emorragia interna lo
portò a sanguinare dalle orecchie, estrassi via la lama
nella maniera più dolorosa possibile dalla sua carne rossa.
Eppure, non appena quell’uomo spirò sui miei
stivali, il dolore incontenibile dovuto alla consapevolezza che
quell’uccisione era poco più che una mera vendetta
mi soffocò.
Mi voltai verso Kadar, sperando, pregando per la prima volta in vita
mia dio indifferente di trovare i suoi occhi a guardarmi vitali.
Ed eccoli lì.
Mi stavano sorridendo, come sempre.
Ma questa volta, era per dirmi addio.
Una lacrima di paura gli riempì l’occhio sinistro,
poi cadde dal suo cielo per sempre puro per l’ultima volta.
Passò qualche secondo.
Poi i minuti.
Ormai, c’era solo silenzio.
Qualcuno giunse alle mie spalle, ma non me ne curai.
Quell’uomo si fermò accanto a me, ammutolendosi
quando posò lo sguardo scuro sul cadavere del ragazzo.
Degnai di uno sguardo quell’individuo solo perché
le mie narici si riempirono di un pungente odore di sangue, misto anche
a sudore e lacrime.
Malik era gravemente ferito sul fianco sinistro e il braccio di quel
lato era completamente ricoperto di rosso, abbandonato inerme lungo il
suo corpo sfatto e sull’orlo del cedimento.
Di Sable era sparito con i pochi uomini rimasti, sotto di noi giacevano
molti morti e Altaïr ci aveva abbandonati alla morte.
Malik mantenne il suo animo intatto per qualche secondo.
Poi, rigettò con un grido viscerale le lacrime lungo le sue
guance ferite.
Lo guardai impotente mentre si gettava sul sangue del suo fratellino,
tremai quando lo vidi accasciarsi disperatamente sul suo cadavere e
stringerlo con l’unico braccio che riusciva a muovere, piansi
quando capii che tutto per me era taciuto nell’attimo in cui
avevo compreso di aver già visto quella scena.
Come un film che era stato già proiettato nel mio personale
cinema degli orrori.
Angolo autrice:
Alla fine di questo capitolo ero emotivamente ridotta a uno straccio,
quindi, detto tra noi, ho dovuto vedere un video stupido su youtube per
risollevarmi un po’ il morale.
Mi scuso se vi ho depresso con questo episodio così triste,
ma mi sono resa conto che la morte di Kadar non poteva davvero essere
evitata. Non so come spiegarlo, ma è come se risparmiandolo
avrei inquinato la verosimiglianza della storia.
Dall’undicesimo capitolo cambieranno molte cose, quindi credo
che prenderò una pausa un po’ più lunga
per riordinare le idee e distanziare gli avvenimenti finora accaduti
con la nuova sezione della storia.
Grazie come sempre per l’incredibile sostegno che date al mio
lavoro!
Baci, Lusivia.
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Capitolo 11 *** 12.Non si è mai veramente soli. ***
Capitolo ispirato alla cover by Fismoll della canzone “
Breathe Me – Sia”.
Capitolo 12
Non si è mai
veramente soli.
Malik intrappolò il suo nemico all’interno delle
sfere nere nei suoi occhi, quasi fosse la cosa più naturale
del mondo.
Allargò il petto in un respiro per calibrare il lancio,
socchiuse le irridi luminose dietro le ciglia, umettò la
bocca carnosa con la lingua, e lasciò che la lama schizzasse
diritto verso il suo obiettivo.
Il dardo affondò in un tonfo strozzato nel panciotto di
paglia del bersaglio, il colpo andato a segno provocò la mia
usuale ammirazione e, come sempre, non mi astenni da fargli un fischio
d’apprezzamento che lo imbarazzò.
Ricordavo che quel pomeriggio di fine Aprile Kadar era stanco e che per
questo mi chiese di rimandare gli allenamenti, nulla sapendo che in
questo modo aveva dato l’occasione perfetta a suo fratello
maggiore di tenermi come ostaggio per un’intera giornata di
allenamenti e studio in biblioteca.
– Dovrai imparare a farlo anche tu. –
intimò austero lui mentre tornava a sedere, freddando
all’istante qualsivoglia tentativo da parte mia di entrare un
po’ più in confidenza con il mio maestro.
Annuii apatica mentre lui si sedeva al mio fianco e reclamava con la
mano tesa la borraccia d’acqua, dunque gliela porsi
sovrappensiero e, mentre Malik si dissetava, io mi concedetti un
momento per rilassarmi sotto l’ombra rinfrescante
dell’armeria.
Premesso che la scoperta sulla mia identità non era avvenuta
nel migliore dei modi per lui, Malik si era comunque impegnato con
Kadar di cucirmi addosso la scomoda veste dell’Assassino cui
ruolo stavo interpretando, nonostante ciò non fu raro che
mordesse il freno a causa della mia cocciuta resistenza
nell’imparare.
All’inizio il nostro rapporto non fu affatto facile, spesso
mollavo l’allenamento con la scusa del caldo o del dolore
alle gambe quando, in verità, scappavo da lui e dal suo
inflessibile programma d’allenamento e ciò
provocò parecchie discussioni con suo fratello minore, che
invece insisteva sul mio presunto talento naturale.
Alla fine, Malik capì che avrebbe preso più
mosche con il miele che con l’aceto e decise che mi sarebbe
venuto in contro spostando le lezioni in orari in cui il sole non era
al suo zenit, ovvero quando la leggera frescura di prima mattina
colpiva la fortezza da nord, e concedendomi pause più lunghe
ed esercizi meno serrati.
Superati i dissapori iniziali, finimmo con il funzionare come un
meccanismo perfetto: lui riusciva a tirare fuori il mio lato
competitivo alternando richiami con sporadici incoraggiamenti, si
sforzava di ripulire le spiegazioni delle definizioni tecniche e
azzardava del contatto fisico qualora fosse necessario per mostrarmi
una posizione, ed io rispondevo con cocciuto impegno, entusiasmo,
concentrazione e voglia di mettermi alla prova.
Ciononostante, nessuno dei due si curò mai di conoscere
affondo l’altro, soprattutto Malik.
Dovendo rimanergli accanto per la maggior parte della giornata, scoprii
che il più grande degli Al-Sayf era un tipo decisamente
riservato, dedito al lavoro e poco incline ad intrattenersi con le
donne, come dimostrò un pomeriggio quando rifiutò
davanti a me una giovane badante che si era invaghita dei suoi bei
occhi metallici e aveva tentato invano di attirare la sua attenzione in
corridoio.
Sapeva che erano molte le donne di Masyaf che spasimavano per lui,
tuttavia Malik preferiva di più la gioia di un combattimento
che quella concessa da un paio di cosce.
Iniziavo a pensare che fosse un essere asessuato.
– Quando m’insegnerai a lanciare con i pugnali,
Malik? – domandai nell’osservare ammirata la
precisione con cui il suo pugnale era affondato nel fantoccio.
Lui allontanò la borraccia dalla sua bocca, deglutendo prima
di dire – Per oggi hai fatto abbastanza. Non sforzare il tuo
corpo oltre i suoi limiti, altrimenti starai male.
– Ce la faccio.
– Kadar mi uccide se stai male, quindi, preferirei rimandare
a domani. O la nostra piccola favorita dell’Ordine non vuole
aspettare?
Lo squadrai mentre riponeva il contenitore al suo fianco, fronteggiando
il suo sguardo intimidatorio come ormai avevo imparato a fare se volevo
tenergli testa.
– Attenderò. – brontolai dunque.
Lui mi scrutò tenendo i gomiti puntati sulle ginocchia e i
piedi che deviavano in direzioni opposte, per qualche motivo rimase
piacevolmente colpito da quell’umile bagliore di fierezza nel
fondo dei miei occhi e per questo mi concedette un’amichevole
pacca sulle spalle.
Istintivamente toccai il punto colpito con aria offesa e lui rispose
sogghignando.
– Devo ammetterlo, hai fegato. Una donna non dovrebbe
fronteggiare così un uomo, eppure tu lo fai senza timore.
Non so se esserne irritato o compiaciuto, sorellina.
Schernii quella sua affermazione con aria sprezzante.– Solo
perché sono donna, dovrei stare in casa e fare figli, invece
di esser qui, a imparare a combattere?
– Certo. Una donna non dovrebbe combattere, non gli si
addice, invece tocca all’uomo prendersi cura di
lei.– replicò austero, riuscendo a solleticare il
mio orgoglio a tal punto che a stento seguii ciò che
blaterò dopo.– Non so cosa ne pensiate voi
cristiani, ma qui l’uomo ha il dovere di curare la
fragilità della sua sposa e lei deve ripagarlo con la sua
dedizione. Siamo diversi, ed è giusto così. Ma tu
sei una straniera, quindi può anche passare il tuo
comportamento.
– Quindi, non mi consideri una tua pari, Malik?
Lui fece spallucce. – Cosa ti renderebbe così
diversa dalle altre da convincermi a trattarti come mia pari?
Lo squadrai con fare di scherno.
– Puoi anche non farlo. – dissi – A me
non importa, perché io so chi sono e non ho bisogno della
tua approvazione. Ma, a mio avviso, saresti un idiota.
Visibilmente contraddetto, Malik arcuò un sopracciglio e
nascose la smorfia della bocca pressando su di essa con la punta delle
dita, dunque mi schernì con una vaga sfumatura
d’ammirazione e, infine, sorrise.
– So che è male dare la possibilità a
una donna di ciarlare a sproposito, ma non posso negare
d’esser fastidiosamente intrigato dai tuoi modi, Laura.
–ammise, picchiandosi la coscia con il palmo– Kadar
ha ragione, ne vali la pena. Credevo che insegnarti poche sciocchezze
sarebbe bastato per metterti a tacere, tuttavia, adesso, sarebbe un
enorme spreco non insegnarti tutto ciò che
c’è da sapere. Ma richiederà il doppio
dell’impegno fin ora messo.
– Io mi sono sempre impegnata. Sei tu che non mi ha mai presa
sul serio.
– Vero, ma adesso mi sono ricreduto. Che ne dici, Laura? Puoi
concederti di abbassare per un attimo la tua impenetrabile difesa e
fidarti del tuo maestro?
Finsi di meditarci su – Una resa incondizionata, eh?
– Puoi anche rinunciare, se vuoi.
A quel punto, la mia sicurezza cominciò a vacillare:
accettare significava prendere un impegno verso di lui, verso di me,
verso l’Ordine degli Assassini, insomma, significava prendere
una direzione.
Rinunciare, invece, dare la conferma della mia inettitudine.
– D’accordo. Posso provarci, per Kadar.
Malik ghignò malevolo, tuttavia ero sicura d’aver
scorto una favilla d’orgoglio nei suoi occhi.
* * *
Riemersi da quel ricordo luminoso con un sobbalzo, chinando lo sguardo
in basso mentre cercavo di zittire i borbottii capricciosi del mio
stomaco che reclamava qualcosa di commestibile, e sbuffai.
Era passata all’incirca un’ora da quando avevo
avuto quella discussione con Al Mualim dopo che mi ero ritrovata nella
stanza di Kadar, priva di sensi e con un bel bernoccolo in testa, ma
non passò molto prima che venisse a visitarmi un medico.
Era un uomo sulla cinquantina, con un paio di occhi verde ceruleo e
folte sopracciglia brizzolate, che mi visitò con zelo e
rispetto per la mia persona, commentando, alla fine della visita, la
mia mirabile impudenza nell’aver ostacolato la mano punitrice
del Gran Maestro.
Io non risposi, mi limitai a sospirare distratta mentre quello
raccattava la sua roba e si licenziava con un cenno della mano.
Attesi pochi attimi, il tempo sufficiente perché il medico
si fosse allontanato, poi gettai di lato le coperte, infilai i piedi
negli stivali, riposizionai il mio cappuccio sulla testa e uscii dalla
camera.
Girovagai per un po’ tra i corridoi, sgusciando e correndo da
una copertura all’altra per evitare alcuni Assassini che
confabulavano tra di loro sugli ultimi avvenimenti della giornata, tra
cui, senz’altro, spiccava la punizione di Altaïr e
la scioccante scoperta sulla vera identità di quel Novizio
sbucato fuori dal nulla.
Per fortuna, mentre vagavo smarrita lungo i portici del giardino di
palme nell’ala sud, una badante mi aveva riconosciuto, ormai
anche lei a conoscenza di quanto accaduto dalle voci di corridoio, e
con un cenno incerto della mano m’invitò ad
accostarmi.
– In nome del cielo, cosa ci fai qui? –
domandò angosciata.
– Cerco mio fratello, Malik Al Sayf. Sai
dov’è?
Lei spalancò le irridi marroni. – Sì,
lo so. È lì, vedi? Terza porta in fondo al
portico, nell’infermeria. Ma non so se sia sveglio.
Scrutai da lontano la porta scrostata che mi aveva indicato, tornai
sulla ragazza e la ringraziai con un sorriso interrotto al centro dal
diastema, dopo di che marciai verso l’uscio.
L’infermeria era semibuia e appestata dall’odore di
disinfettanti e sangue secco che era assorbito in parte dalla presenza
di erbe mediche e profumate riposte in alcune ceste sugli scaffali a
destra, mentre sotto la finestra erano illuminati degli strumenti
chirurgici appena lavati e lasciati ad asciugare su un lungo tavolo.
Proprio davanti a me, Malik era rannicchiato sul letto
dell’infermeria e la sua aitante figura era nascosta da una
pesante mantella verde scuro che proiettava un alone intorno al suo
corpo, parendo come una figura evanescente intrappolata lì
per il sorgere del sole.
Lo affiancai senza ricevere un solo sguardo da parte sua, neanche la
benché minima importanza, e questo mi turbò a tal
punto da non riuscire a pronunciare una sola di quelle belle parole
pensate tra me e me mentre gli andavo incontro, perché mi
parvero inutili.
Tesi la mano bianca sul suo volto ricoperto di lividi e croste, vidi il
riflesso delle mie dita stendersi lungo le sue orbite nere, queste
scattarono stizzite verso di me e qualcosa di indescrivibilmente
sinistro mi portò a indugiare.
– Non…non mi toccare, Laura. –
sussurrò caliginoso l’Assassino.
Ritrassi la mano, con gli occhi strabuzzati. –
Perché? – chiesi.
Quello non rispose, si limitò a rimanere di profilo contro
la flebile luce dell’esterno che creava un alone verde sui
suoi capelli, neri e lucenti come piume di corvo.
– Malik, perché?
– Vattene.
– Ti prego, non mi scacciare…
– Non le voglio le tue scuse, lo capisci? Te lo ripeto
un’altra volta. Vattene.
– Perché?
– Lo sai benissimo il perché, maledetta!
Improvvisamente, Malik calciò via le lenzuola che aveva
addosso e scese dal letto con così veemenza che mi ritrassi
in un balzo, poi mi afferrò per un polso e, sebbene
incontrò la resistenza del mio braccio, riuscì ad
avvicinarmi quel tanto che bastava per gridarmi addosso con tutta la
voce che aveva.
–Guardami, dannazione, guarda che cosa hai fatto! Kadar
è morto, lo capisci? Cazzo è morto!
Tremai nel sentire la morsa della sua mano piegare il mio polso.
– Ti prego, calmati...
– La colpa è tua!–
strillò e la sua gola s’ingrossò
d’aria – È colpa tua se Kadar
è morto! Colpa tua e di quel sacco di merda, che osa
calpestare tutto ciò per cui la Confraternita lotta solo
perché crede di essere un dio! Voi avete permesso che lo
uccidessero!
– Io non volevo che Kadar morisse!– obbiettai con
gli occhi rossi di lacrime, strattonando senza successo il polso a tal
punto da provocarne un rumore poco
rassicurante. Malik,
però, non lasciò la presa neanche quando mi vide
storcere la bocca dal dolore.
In un ultimo disperato tentativo, conficcai le unghie nel suo polso,
affondando poco nella speranza che il dolore lo invogliasse a mollare
la presa, ma fu come se Malik avesse perso la sensibilità e,
senza batter ciglio, riprese a strillarmi addosso.
– Maledetto il giorno in cui Kadar ti ha portato da Damasco!
Maledetto me, che vi ho permesso d’incontrarvi di nascosto
anche quando era pericoloso, anche quando sapevo che prima o poi ti
avrebbero scoperto e avrebbero punito tutti e tre!
– Malik, lasciami!
Colpii il suo viso fortissimo, lui gettò per un attimo la
testa di lato ma non accennò ad allentare la presa, anzi,
improvvisamente mi ritrovai a piroettare su me stessa e a cascare sotto
il peso del suo corpo che m’immobilizzò tra le
lenzuola del lettino, ritrovandomi senza fiato.
Lui era sopra di me e mi teneva entrambi i polsi con una sola mano,
cosa strana perché era evidente quando fosse faticoso
tenermi ferma senza l’ausilio dell’altro braccio.
– Io volevo bene a Kadar... – provai con stanca
rassegnazione a farlo ragionare un’altra volta, ma per
qualche ragione quelle parole sembrarono false perfino a me.
Lui scosse i capelli con un gesto di dissenso, facendo cascare dal suo
sopracciglio un rivolo di sangue dalla ferita che avevo riaperto con il
colpo delle mie nocche.
– No. Io lo volevo bene. E ora è morto.
Improvvisamente, Malik afferrò il mio braccio destro e mi
costrinse a impugnare saldamente un coltellino chirurgico preso dagli
altri sul tavolo, stringendo le sue dita sulle mie per portare a fatica
la lama contro la sua gola scura.
– Ti prego…– sussurrò piano
– Ti prego, non posso vivere nella consapevolezza di non aver
potuto far nulla per salvarlo… di esser sopravvissuto a lui.
Non ce la faccio.
Sentii le sue dita premere contro le mie, la lama riuscì a
stillare una minuscola goccia rossa sulla sua pelle e a quella vista
tirai subito indietro il polso, prendendo a dimenare le gambe e a
spingere il gomito libero contro il suo petto, ma lui era troppo forte .
– Malik, sei fuori di te, non puoi esser serio! –
cercai disperatamente di far leva contro la sua spalla ma finii solo
col trascinare in basso la sua mantella verde.
Il tessuto cascò sulle sue gambe, qualcosa di anomalo
catturò il mio sguardo, guardai verso la sua spalla e mi
ritrovai davanti al resto del suo braccio sinistro, amputato di fresco
e ancora arrossato nonostante le accurate medicazioni.
Non appena sentì la corazza di tessuto esporre la sua
vergogna, Malik mollò subito la presa dal mio polso e corse
a ricoprirsi con la mantella, scendendo dal letto così
velocemente che ancora non avevo riabbassato la lama dal punto in cui
un secondo prima si trovava la sua gola.
Gettai il coltellino a terra, mi misi a sedere sul bordo del letto e
cercai la sua figura, ritrovandola rifugiata nell’ombra della
libreria in fondo alla stanza.
Sapevo che la mia espressione fosse disgustata, eppure non riuscii a
smettere di fissarlo neanche quando lo vidi chinare il capo per la
vergogna.
– Cosa… – faticai ad articolare le
parole, ma alla fine sputai – cosa ti hanno fatto, Malik?
– Non sono affari tuoi. – sibilò
infastidito.
Più sorpresa di prima, mi alzai in piedi e avanzai verso di
lui, tuttavia fui costretta a fermarmi quando vidi Malik ritrarsi di
scatto contro l’angolo della libreria, facendo cascare alcuni
volumi a terra.
– Se non vuoi aiutarmi, vattene. –
intimò e con il corpo ritroso m’indicò
la porta, segnando definitivamente la fine di quella conversazione e di
quelle future.
Non lo avevo mai visto così smarrito, così
terrorizzato.
Il Malik che conoscevo non avrebbe mai mostrato la sua
vulnerabilità, non avrebbe mai pensato di rinunciare alla
sua vita, non mi avrebbe mai supplicato di far cessare il suo dolore in
quel modo.
Ma ora era lì, davanti a me, ed era franato in se stesso.
Sapevo che sarebbe affondato ancora se avessi proteso oltre quella
tremenda umiliazione, per questo decisi di ritirarmi.
– Va bene. Va bene, Malik, me ne vado. Non preoccuparti.
Mi diressi a testa bassa verso l’uscita, arrivata davanti
alla porta tentennai, ma poi immaginai i suoi occhi piantati tra le mie
scapole e per questo uscii sbattendomi la porta dietro.
Al sicuro dal suo sguardo corrosivo, abbandonai la fronte contro
l’entrata chiusa e lasciai che la tensione di quegli attimi
scivolassero dalle mie membra tese, ritrovandomi per
l’ennesima volta a dovermi ancorare all’unica cosa
che ormai riusciva a fornirmi conforto.
Staccai gli occhi umidi dalla malinconica contemplazione del bracciale
di Kadar solo quando udii la giovane badante di prima avvicinarsi con
fare un po’ incerto, annunciandosi con un colpo di tosse
prima che mi voltassi a guardarla.
– Va…va tutto bene, cara? –
domandò.
Di tutta risposta, lasciai cadere la mano penzoloni lungo i fianchi e
la guardai sconsolata, un chiaro messaggio che lei colse al volo.
Infatti, dopo aver azzardato una carezza veloce sulla mia spalla, lei
si dileguò di nuovo nelle sue faccende.
* * *
Dopo aver lasciato l’infermeria, mi ero diretta a testa bassa
nell’ufficio del Gran Maestro come d’ordine, con i
pensieri distratti e ancora nervosi per lo stress a cui ero stata
sottoposta in infermeria, per questo poco mi curai di un
Assassino che mi osservò infastidito mentre passavo davanti
all’armeria.
Non potevo ancora credere alla richiesta di Malik.
Come poteva quello stesso uomo, così fiero e sicuro di se,
chiedere a me, una donna, un essere a detto suo fragile e inferiore, di
porre fine alle sue sofferenze con un coltello?
Ma, soprattutto, perché proprio io?
Immersa com’ero nelle mie riflessioni giunsi in
prossimità dell’ ufficio quasi per forza
d’inerzia, capitando lì proprio quando Al Mualim
stava già ricevendo qualcun altro.
La corporatura familiare di quel giovane mi convinse a dare una seconda
occhiata attraverso gli scaffali della libreria e fu allora che
riconobbi Altaïr, il quale se ne stava piantato davanti alla
scrivania del vecchio mentre questo lo osservava riposare in un sonno
surreale, indotto con chissà quale artificio
d’erba o droga.
Improvvisamente, Al Mualim socchiuse la fessura della sua bocca,
ispirando. – Il sonno –ordinò
– è finito.
Udite le parole del vecchio, l’Assassino si
ridestò dall’incantesimo con aria intontita e
rimase tra l’illusione e la veglia ancora per qualche
secondo, finché, strizzate le ciglia, individuò
un uomo seduto sulla grande sedia della scrivania.
Altaïr fissò Al Mualim per un po’e doveva
essere parecchio confuso, perché esordì
– Non credevo che il Creatore avesse un volto così
famigliare.
Immediatamente, il più anziano sorrise mesto –
Cosa ti fa credere d’esser degno di incontrare il Creatore,
Altaïr?
Il giovane tacque.
– Ma allora, non son morto, Maestro?
– No, non lo sei. Ma vivi ancora.
Altaïr scosse la testa, incredulo. –
Com’è possibile? Io ho visto…
– Io ti ho fatto vedere ciò che volevo che tu
vedessi, Assassino. Né più né meno.
L’altro serrò le labbra. –
Perché mi avete lasciato in vita?
– Ucciderti sarebbe stato uno spreco inutile di talento e
risorse per la Confraternita, quindi ho pensato di darti
un’altra possibilità, sperando che questa volta tu
non deluda le mie aspettative.
– Suppongo che abbiate qualcosa in mente, allora.
Quello rimuginò. – Certo. Ma prima, vorrei che si
unisse a noi anche la mia figlia prediletta. Che dici, cara? Vuoi
venire avanti dal tuo nascondiglio?
Sobbalzai, guardando attraverso gli scaffali il Gran Maestro che
roteava gli occhi nella mia direzione, mentre Altaïr faceva
altrettanto, e deglutii.
Staccai le unghie dal legno e mi portai a destra, mostrandomi
apertamente ai loro occhi, dopo di che Al Mualim mi fece cenno
d’avvicinarmi ed io obbedii.
Oltrepassai lo sguardo sospettoso di Altaïr, mi posizionai
all’angolo opposto al suo e non esitai ad ostentare il mio
disprezzo per lui squadrandolo truce, solleticando in questo modo gli
angoli decadenti del sorriso di Al Mualim.
– Vedo che andate d’amore e d’accordo.
– azzardò il Gran Maestro.
Nessuno dei due osò proferire parola.
E lui rinunciò con un sospiro insoddisfatto. –
Peccato, perché siete così equilibrati insieme.
L’uno Assassino esperto ma arrogante, l’altra
bambina imperita e dotata. L’uno forza, l’altra
umiltà. Furia e pietà, esperienza e
volontà, uomo e donna. Così affini…e
così diversi. Potreste imparare molto
dall’esperienza dell’altro, se non passaste il
vostro tempo a mordervi come cani rabbiosi e ad accusarvi.
– Con tutto il rispetto, Maestro. – la mia
interruzione attirò i loro sguardi su di me e, mentre
Altaïr parve contrariato, il Mentore fu ben più
paziente e mi diede il consenso di continuare.– Io e lui non
abbiamo assolutamente nulla da condividere, soprattutto se consideriamo
gli effetti catastrofici delle sue decisioni nel Tempio.
– È stato un incidente.–
obbiettò l’Assassino.
Lo guardai disgustata – Come può essere
considerato un incidente fuggire e lasciare i tuoi confratelli a morire
nelle catacombe del Tempio?
– Non potevo salvarli.
– Sì, invece, se solo avessi voluto! E non sarebbe
accaduta questa tragedia se tu non avessi agito da sconsiderato e
arrogante! Malik ha perso un braccio a causa tua!
– Zitti, tutt’e due! – Al Mualim
c’interruppe sbattendo la mano sul tavolo e, quando ebbe
catturato di nuovo la nostra attenzione, incalzò –
Non fate altro che tirarvi i capelli e piagnucolare con il moccio che
vi cola dal naso! Adesso, ascoltate me. Le colpe vanno pagate, e questo
vale per entrambi. Altaïr per la sua inettitudine al Tempio, e
tu, ragazzina, per esserti travestita da uomo e aver partecipato senza
il mio consenso all’Ordine! Vi ho promesso una via di
redenzione, perché, per quanto non vi sopporti sentirvi
frignare, siete due Assassini abili e potreste servire alla Causa. Non
vi tollerate l’un l’altro? Ebbene, vorrà
dire che dovrete imparare a collaborare. Ho disposto una lista di
bersagli per te, Altaïr. Nove uomini che fomentano la guerra
con i loro loschi affari e minano la serenità della nostra
gente, ragion per cui devono esser eliminati.
Altaïr sorrise un poco, come risollevato da quella notizia,
perché voleva dire che non era ancora fuori gioco, che non
aveva perso del tutto la considerazione del suo Mentore.
– Se nove vite sono il prezzo da pagare per la mia
redenzione, partirò oggi stesso…
– Non ho finito.
Il ragazzo corrugò la fronte.
– Giacché sei tornato a nuova vita, dovrai
ricominciare dal basso. Sei stato spogliato dei tuoi averi e del rango
e, dal momento che i Novizi sono come bambini bisognosi di controllo,
lei verrà con te. Sarà la tua priore.
Quella deliberazione del Maestro fu come un fulmine a ciel sereno,
né io né l’Assassino immaginavamo una
tale decisione ma, a essere onesti, l’idea di tiranneggiare
su Altaïr mi entusiasmò alquanto e per questo
sorrisi.
–Ma, Maestro, ma lei non è assolutamente
all’altezza…
– Paura di esser comandato, Altaïr? –
schernii la sua preoccupazione con altezzosità e, mentre lui
mi lanciò un’occhiataccia, Al Mualim rise di gusto.
– Bene, bene, così voglio vedervi! Comunicativi!
Ma ora basta, ho pazientato anche troppo. Voi due farete quanto ho
stabilito e non ammetto ritrattazioni. Ora, parliamo del vostro
bersaglio.
* * *
– Partiremo tra un’ora.
– Puoi scordartelo.
Altaïr si fermò davanti alla sua stanza, roteando
il busto di tre quarti.
Io proseguii con quell’atteggiamento indifferente, fingendo
di controllare distrattamente qualcosa tra le unghie. –
Decido io quando si parte, Novizio…– continuai.
– Non mi chiamare così.
– …ed io decido che partiremo quando lo
riterrò opportuno. Magari, tra un mese.
– Cosa? – spazientito, Altaïr scese
velocemente le scale e si piantò a pochi centimetri da me,
costringendomi a ritrarmi con la mano stretta all’altezza
dell’ombelico. – E perché mai dovremmo
partire così tardi?
Lo fissai un po’ meno convinta di prima, poi farfugliai
– Malik. Lui ha bisogno di me.
Mi guardò.
– Va bene. – e si ritrasse.
Strabuzzai gli occhi, osservandolo mentre si allontanava verso camera
sua.
– Tutto qui?
Altaïr si fermò.
– Dopo quello che hai fatto…– dischiusi
gli occhi in un moto di disgusto – …dopo quello
che hai fatto a me ,Altaïr. Tutto ciò che ti viene
da dire è…va bene?
L’Assassino rilassò un po’ le spalle
ricurve in avanti, alzò il viso all’aria per
prendere un bel respiro, e si voltò.
– Che cosa dovrei dirti? – domandò
– Che non sapevo che tu fossi lì? Che sono stato
arrogante? Che potevo far di meglio e battere il mio nemico?
Chiusi gli occhi. – Che ti dispiace. – mormorai.
– Mi dispiace.
– No. No, è vero. Per favore, almeno abbi la
decenza di non prendermi in giro.
Avvertii il tocco ruvido delle sue dita contro la guancia. –
Ascolta…
Spalancai gli occhi. – Non osare toccarmi, bastardo!
– gridai, colpendo la sua mano tesa con violenza –
Se provi a rifarlo, Cristo Santo, giuro sulla memoria di Kadar che ti
ammazzo con queste mie stesse mani!
–Laura, adesso calmati.
–No, non mi calmo! Io non dovrei essere qui, non dovrei esser
coinvolta in tutto questo, non dovrei sentir dolore per ciò
che è accaduto, perché non è reale! Ma
io avevo già visto ogni cosa, seppur in maniera
confusa…Kadar, Malik, perfino te! Mi rifiutavo di ricordare,
di accettare ciò che sapevo sarebbe successo a breve,
tuttavia ora non so come far tacere il dolore! Ed è tutta
colpa tua! Tua e di quei dannati occhi da demonio!
– Laura… ma cosa stai dicendo? –
Altaïr mi fissò attonito – Di che stai
parlando? Laura, guardami!
– Lasciami stare! – scacciai stizzita le sue mani
tese ad acciuffarmi, incespicai per pochi secondi e, quando ebbi
riacquistato l’equilibrio, scattai in una corsa per
allontanarmi da lui.
Fuggii finché non fui sicura d’averlo seminato nei
piani superiori, dunque mi appoggiai contro il muro per riprender
fiato, e nel trarre il primo respiro intuii d’esser prossima
alla cucina.
La cuoca doveva aver già acceso le fornaci,
perché il corridoio era pervaso dall’aroma di
legna e pane caldo, che scivolò fin dentro la mia gola e
fece brontolare capricciosamente il ventre.
Lo zittii con una mano, mentre con l’altra mi asciugavo il
sudore dalle guance.
Da quando non mangiavo un pasto decente?
Entrai nella cucina quatta quatta, quasi come una servetta che
s’intrufola nella sala da pranzo del suo padrone prima che
questi scenda per cena, e con la mano stretta sul braccio gettai
occhiate veloci per controllare che non ci fosse nessuno.
–La cucina è chiusa.
La cuoca stava impastando all’angolo della stanza
ciò che sembrava la preparazione di una focaccia, e non
tirò fuori le mani dalla pasta neanche quando mi vide
scattare sull’attenti, chiazzata in viso per
l’imbarazzo.
La mia reazione la fece sorridere.
– Ma tra donna si può anche chiudere un occhio.
– disse e m’indicò con il mento un
vassoio di focacce che odoravano di carne – Prendi un
po’ di Fata'ir, hai l’aria un po’ smunta.
Se vuoi, puoi portarne un po’ anche a tuo fratello dopo.
Quello sciocco, continua a rifiutarsi di mangiare e a trattare male le
governanti che mando da lui.
Poi tornò ad affondare le dita olivastre
nell’impasto, invogliandomi con la sua gentile distrazione ad
avvicinarmi al piatto e, volendo approfittare della cortesia, non me lo
feci ripetere due volte.
Dunque mi accomodai dietro il tavolo, feci un sospiro stanco, e presi a
mangiare.
* * *
Mi risvegliai dal sonno con le fauci secche e la guancia segnata dal
tessuto del braccio su cui mi ero appisolata, poco più in
là i resti della Fata'ir che avevo consumato e il bicchiere
di caffè che la cuoca aveva condiviso con me tra una pausa e
l’altra finché, ormai sazia e riscaldata dal
tepore della fornace, mi ero addormentata.
Ora, però, il fuoco era stinto e la cenere era illuminata
dalla pallida luce della luna nel cielo, mentre la finestra sul
davanzale era socchiusa e lasciava entrare gli spifferi.
Mi alzai con gli occhi ancora incollati dal sonno, stiracchiai il corpo
tirando le braccia in alto e, quando ebbi ripreso il controllo delle
gambe, lasciai la cucina per addentrarmi nel buio della fortezza ormai
addormentata.
Non sarei andata nella camera di Kadar, e forse mai più si
sarei entrata, perciò decisi che avrei fatto una visita
veloce a Malik, dopo di che avrei pensato dove coricarmi.
Quella notte, il cielo era stranamente sinistro, illuminato
dall’aura lattiginosa della luna che scompigliava con il suo
soffio la chioma spinosa delle palme, riempendo l’aria di
fruscii oscuri e ombre che si contorcevano al passaggio del vento.
Mi affrettai a chiudere la porta dell’infermeria alle mie
spalle per lasciare nel portico quei brividi lungo la schiena, ma
l’inquietudine di quel luogo intriso dall’odore di
sangue e ferro sterilizzato tese ulteriormente i miei nervi.
Forse non era il caso di fargli visita a quell’ora,
però la richiesta di quel pomeriggio aveva destato in me una
pena tale da impedirmi di pensare ad altro se non alle sue grida
graffianti, alla vulnerabilità per cui si era piegato come
uno stelo d’erba, all’odio nei suoi occhi quando mi
guardavano.
Malik era seduto su di una sedia e riposava nell’alone della
luna che si riversava in un cerchio dalla finestra, l’unica
fonte di luce in quel piccolo antro buio, avvolto nella sua mantella
verde come un rapace notturno che si nasconde tra il piumaggio delle
sue grandi ali.
Rimasi in contemplazione della manica vuota che cascava in basso, delle
folte ciglia che tremavano al movimento dei suoi sogni, dei capelli
neri corvini che gli ricadevano sulla fronte aggrottata, e mi sentii
subito in colpa d’aver anche solo pensato
d’interrompere il suo sonno.
– Non dovresti esser qui…
Mi rivoltai indietro proprio per scorgere Malik mentre appoggiava il
mento sulla sua spalla, fissandomi di profilo con gli occhi stanchi ma
severi più che mai.
– Dimenticavo il tuo udito sottilissimo.– cercai di
abbozzare un sorriso –Scusa, non volevo svegliarti.
Lui sospirò stancamente, e tornò a guardare
dinnanzi a se.
Corrugai la fronte. – Malik, qualcosa non va?
Il ragazzo mosse piano i piedi in avanti per stendere le gambe,
stiracchiò il collo a sinistra, chiuse gli occhi sotto il
bacio della luna e declinò quella mia domanda con un
sospiro.
Provai a ignorare l’orgoglio ferito deglutendo a vuoto.
– Sono preoccupata per te, Malik. – insistetti
– So che non potrò mai capire fino in fondo il tuo
dolore, ma so anche che è più faticoso affrontare
le difficoltà se si è soli,
perché…perché io stessa ho dovuto
combattere per lungo tempo contro qualcosa.
Mi bloccai perché avvertii uno strano senso di colpa che mi
premeva contro lo sterno, scossi la testa e, dopo che ebbi gettato
indietro le lacrime, avanzai lentamente verso di lui.
– Sai, neanche io ho mai voluto aiuto, perché
credevo che nessuno avrebbe potuto comprendere, darmi forza come solo
io potevo fare. Eppure, ho avuto ugualmente la fortuna di ricevere
aiuto da chi non ha mai smesso d’amarmi, anche quando credevo
che mi avesse abbandonato. Lo capisci? Ecco perché non posso
abbandonarti, ecco perché ti offrirò il mio aiuto
anche quando mi scaccerai, anche quando mi griderai contro
d’esser l’artefice della morte di Kadar.
– Va bene…– Malik si voltò a
guardarmi di sbieco – va bene, accetto il tuo aiuto. Vuoi
aiutarmi? Allora… impugna quel dannato coltello e metti fine
a questo dolore.
Mi bloccai a pochi metri dalla sedia su cui era seduto.
– Non lo farò mai.
– E allora non mi servi.
Lui tornò a guardare dinnanzi a se, mentre io presi a
fissare la sua nuca intensamente, tormentandomi tra un pensiero e
l’altro il labbro con i denti.
– Ma cosa ti è successo? Un mese fa non mi avresti
mai permesso di prendere una decisione simile al posto tuo, non avresti
mai chiesto a una donna di porre fine alla tua vita. Dicevi che gli
uomini sono più forti, che possono sopportare meglio la
sofferenza.
– Ho detto tante cose di cui ora... non sono più
sicuro.
– Non importa! Kadar non avrebbe mai voluto che tu facessi
una cosa del genere!
Alzai la voce senza volerlo e, quando me ne resi conto, mi punii
stingendo gli occhi fino a sentir male, fino a sentire le lacrime
scivolare in gola e portare via la bile che corrodeva la mia voce e la
rendeva così aggressiva, così disperata,
così sconvolta, tornando a guardarlo in silenzio.
– Kadar…lui aveva davvero ragione.–
ansimò poi Malik. – Tu non sei come le altre. Ecco
perché…ti ho chiesto di fare ciò che
non avevo avuto il coraggio… di fare da solo. Ma adesso, non
dovrai…più angustiartene.
Sussultò in un gemito di dolore, piegandosi pericolosamente
in avanti, e sarebbe caduto dalla sedia se non fossi accorsa a spingere
le mie mani contro il suo petto, trattenendolo con tutta la forza che
avevo mentre lui si avvinghiava al mio corpo con l’unico
braccio che aveva.
Le sue ginocchia cascarono sul pavimento, la mantella
scivolò e lo stesso coltello di quel pomeriggio cadde a
terra in un tonfo liquido e vischioso, smuovendo un improvviso tanfo di
ferro e sale che mi otturò le narici e mi costrinse a
guardare in basso.
Sangue, una pozzanghera enorme.
Proprio mentre la mia bocca si spalancava per gettare un grido, Malik
tese la mano verso l’alto e poggiò il polso
squarciato da tre tagli netti di lama sulla mia spalla, macchiando le
mie vesti con abbondanti rivoli di sangue che colarono fino al
pavimento.
Mi stava fissando negli occhi, eppure il mio sguardo non riusciva a
rispondere.
– Dimostrami che…mi sbagliavo…
– ansimò.
– Cosa ti è saltato in mente? –
strillai, eppure la mia stessa voce mi parve così lontana,
così distante da ciò che stava succedendo.
– Dimostrami…
– Cosa?
Lui strizzò gli occhi, poi abbandonò esausto la
testa contro il mio ventre e la mano cascò in basso.
– Malik! – disperata, lo afferrai sotto le ascelle
e strattonai il suo corpo in sù, puntando con lo sguardo il
letto poco più in là.
Sebbene rischiassi di rimanere schiacciata sotto il suo peso, riuscii
ad arrancare fino al giaciglio e a spingerlo sulle lenzuola,
indietreggiai di qualche passo e mi ritrovai a fissare il mio sguardo
dentro il suo.
Il suo volto era cereo e il corpo avvilito e immobile, ma
ciò che davvero mi preoccupò fu la stanca
rassegnazione che trapelava dalle sue palpebre socchiuse.
La stessa rassegnazione che vidi negli occhi azzurri di Kadar il giorno
in cui comprese che non avrebbe più rivisto il cielo fuori
da quelle gallerie.
No, non lo avrei permesso.
Non avrei lasciato andare anche lui.
Senza die una parola, corsi verso gli scaffali in fondo alla stanza e
mi arrampicai per tastare il fondo delle ceste, dunque incappai nella
punta acuminata di un ago e nella forma tubolare di un rocchetto e,
afferratogli saldamente, balzai a terra.
Studiai ciò che avevo intorno, avvistai sul tavolo una
lanterna a olio e corsi ad accenderla, illuminando la pozza a terra e
il sangue sui miei vestiti bianchi, dunque guardai di nuovo Malik.
Era sempre più pallido, però continuava a
fissarmi.
Bene, finché aveva gli occhi aperti, c'era speranza di
salvarlo.
– Che…che stai facendo? – Malik era
sempre più debole e confuso, ragion per cui
m’affrettai ad illuminare il letto con la lanterna e
preparare ago e filo per saturare i tagli.
Poi, però, mi accorsi d’aver dimenticato le garze
e il disinfettante, dunque lasciai l’ago nel rocchetto e
tornai a rovistare all’angolo dell’infermeria.
Tornai poco dopo con una bottiglia contenente un liquido
all’olfatto acre e incolore, una cordicella e con parecchie
garze, dunque tirai via il tappo della bottiglietta con i denti,
guardai per un attimo Malik e rovesciai sopra la ferita il
disinfettante.
I suoi occhi si sgranarono per il dolore, grugnì
selvaggiamente trai i denti in vista e faticò a mantenere i
piedi fermi, ma non appena la vista si rischiarì non
esitò ad allontanare la mia mano con il gomito.
– Non…non voglio il tuo aiuto! –
sbottò.
Spazientita, lo afferrai per la spalla e lo costrinsi a stare
giù. – Ti avverto, se non mi lasci lavorare
sarò costretta a immobilizzarti!
Lui provò a obbiettare, ma la debolezza fu tale che alla
fine si abbandonò alle mie cure, continuando,
però, a scrutarmi con le palpebre semichiuse anche ora che
la vista cominciava ad affievolirsi.
Soddisfatta della sua resa, arrotolai la cima della cordicella tra le
dita e la legai all'altezza del suo avambraccio, per bloccare
l’emorragia dal polso, dopo di che presi le garze e cominciai
a passarle dentro e fuori il taglio con movimenti incerti, spesso
andando troppo in profondità o strofinando troppo forte.
Lui, però, non mosse un solo muscolo, non accennò
ad alcuna smorfia facciale, ma mi fissava rassegnato.
Anche io mi fermavo a guardarlo, dopo di che tornavo alla medicazione
più concentrata che mai.
I primi minuti si squagliarono velocemente nella debole fiamma della
lampada, i miei movimenti divennero più rilassati e anche
l’espressione si addolcì, poiché ormai
Malik era caduto in un sonno leggerissimo e mi mancava poco per
completare, dunque ricucii le ultime membra squarciate con estrema
delicatezza.
– Alquanto pare…mi ritrovo sempre a dipendere
dalle tue cure, eh. – osservò d’un
tratto Malik.
Sorrisi debolmente.
–Dove…hai imparato?
Alzai la fronte per un istante, incrociando il suo sguardo semichiuso.
– Ho imparato osservando mia madre mentre curava le mie
ferite. – risposi e tornai alla medicazione.
Malik rise con un suono gutturale. – Perché, ti
picchiavi coi bambini al mercato?
– Perché mi facevo del male.
Silenzio.
– Come mai?
Esitai. – A volte, avevo delle crisi. Mi difendevo da cose
che in verità non esistevano e capitava che mi ferissi con
gli oggetti che avevo attorno. Fortunatamente non ho memoria di quegli
episodi, però qualche cicatrice sparsa qua e là
mi ricorda chi sono, e la fatica che ho fatto per oltrepassare quel
muro insormontabile che mi ero creata da sola.
Scossi la testa, strappando con i denti il filo in eccesso, e lui mi
osservò con la sua solita attenzione chirurgica, un
po’ più colorito ora che il sangue aveva smesso di
fuoriuscire dal suo corpo e le forze si stavano lentamente raccogliendo.
– E poi? Cosa ti è successo, Laura?
– Ho imparato a fidarmi di chi mi voleva bene e ho lasciato
che mi aiutassero. – spiegai e legai le garze ben strette
attorno al suo polso. – Per un po’ sono stata bene
e quei fantasmi hanno smesso di tormentarmi, ma la mia vita era
diventata così vuota che ho dovuto fuggire. Ma dubito che
potrò mai più tornare a casa.
Soddisfatta della medicazione, ritrassi le braccia con un sospiro e,
mentre lui controllava silenziosamente il mio lavoro, io chinai la
testa sulle mie gambe e carezzai distrattamente le decorazioni in
rilievo del bracciale sotto l’orlo della manica.
– Kadar mi ha aiutato molto a superare i miei limiti.
– confessai poi.
Malik osservò quel gesto delle mie dita sul bracciale,
inespressivo.
Il fuoco all’interno della lampada a olio
scoppiettò in un balzo verso l’alto, illuminando
maggiormente il petto inzaccherato di sangue, poi il braccio mancante,
infine lo sguardo intenso dell’Assassino.
Mi ci trovai stranamente a mio agio, come se ci fossimo sempre guardati
negli occhi in quel modo.
Per la prima volta, mi vide come una sua pari.
– Come ti senti? – chiesi sovrappensiero.
– La testa non mi gira più.
Sorrisi – Meno male.
Angolo autrice:
Chi non muore si rivede! Eccomi tornata dopo questo lungo periodo
d’inattività, con un capitolo in cui Malik ci
lascia un po’ sorpresi, eh. Devo ammetterlo, inquadrare il
suo personaggio è stata una sfida, perché mi ero
resa conto di non avergli dato ancora una linea precisa e per questo
non sapevo con esattezza quale poteva essere la sua reazione. Ma poi,
ho letto il testo della canzone sopra citata, Breathe Me di Sia, e ho
ritrovato in esso la storia di Laura, ma anche i sentimenti di Malik.
Spero che possa aiutarvi a capire meglio.
Baci, Lusivia.
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Capitolo 12 *** 11. Deus dedit, deus abstulit ***
Capitolo 11
Deus dedit, deus abstulit.
L’atmosfera esplose in una feroce combinazione di pioggia e
vapori provenienti dal sottosuolo bollente del deserto e presto un
vento livido cominciò a soffiare contro le pareti della
montagna.
Il manto dei cavalli era perlato di spruzzi d’acqua, le
criniere cascavano pesantemente sulle loro teste allungate, di tanto in
tanto calpestavano infastiditi la terra fangosa dell’entrata.
Avevo i vestiti pesantissimi e i capelli si erano completamente
attaccati lungo la schiena, gli stivali erano zuppi così
come le mie ciglia, ma non mi curai nel mio aspetto perché
in quella caverna era troppo buio perché riuscissi a vedere
quanto i miei occhi fossero arrossati.
Un altro gioco malfido di quella divinità capricciosa.
Strizzai i capelli con le mani, poi asciugai le gocce di pioggia sul
viso con il polso e poggiai i palmi madidi sulle cosce, sospirando
avvilita prima di girare il volto verso la figura immobile che gemeva e
guaiva nei deliri dei suoi incubi.
Malik aveva tentato di mantenere integra la sua coscienza fino a quando
l’assurdità degli eventi lo teneva stregato tra
l’incredulità e il sogno, come se neanche si
rendesse conto di quello che era appena successo, ma alla fine il
risveglio fu inevitabile.
Avevo visto il suo animo incrinarsi lentamente, pezzo dopo pezzo,
già mentre nel Tempio costruiva il monumento funebre di
Kadar con macerie e travi, avvalendosi dell’unico braccio che
riusciva a muovere e rifiutando orgogliosamente qualsiasi aiuto da
parte mia.
Eseguiva quei movimenti senza espressione, senza emozione, senza un
fine.
Il dolore gli ostruiva i pensieri e gli impediva di realizzare quanto
sentisse male, sia nel fisico sia nell’animo, almeno
finché il grido del vento all’uscita del tunnel
gli sbloccò la mente e, con essa, la bocca dello stomaco.
Feci in tempo a spostarmi che Malik rigettò sui suoi piedi
un intruglio di sangue e bile e pochi resti del cibo, dopo di che il
suo corpo non riuscì più a reggere la tensione
che stava scoppiando sotto i tendini tirati e alla fine si
abbandonò su di me.
Avevo provato a tenerlo sveglio almeno finché non fossimo
giunti ai cavalli e Malik non si abbandonò subito ma
farfugliò e lottò il tempo necessario per issarlo
sul suo cavallo, dopo di che svenne contro il collo della bestia.
Non ricordavo bene cosa feci dopo, forse piansi.
Adesso, però, ero lì, in una grotta a poche
miglia dal Tempio e con Malik svenuto nei suoi deliri febbrili, mentre
fuori imperversavano acqua e lampi come se il mondo fosse stato
inghiottito nel caos.
Rimasi ripiegata su me stessa per un po’, continuando a
fissare la superficie spenta del turchese incastonato nel bracciale, e
mi sentii persa.
Kadar è morto. Kadar è morto e non
tornerà più.
Brivido.
Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo con queste mie mani e ho provato
piacere a farlo.
Sussulto.
Quanto sangue, quante morti quel giorno.
Ed io, salva per miracolo.
La bocca mi si spalancò in un singulto, poggiai la fronte
contro il bracciale credendo che avrei vomitato atterra, ma
ciò che versai furono solo lacrime e un grido sussurrato che
bruciò come fuoco.
Quel giorno erano morte tante persone, Assassini e Templari senza
distinzioni.
Ma io ero viva.
Io e Malik avevamo ancora una possibilità di sopravvivere.
Così, tirando indietro le lacrime e il respiro, sollevai la
fronte dalla superfice levigata della pietra al polso, riempii i
polmoni dell’odore della pioggia e, piano piano, quella
foschia di pensieri si dipanò un po’.
Mi presi un altro minuto per discorrere mentalmente su quello che avevo
a disposizione e sulla mia abilità come infermiera, soppesai
i rischi che Malik correva se non avessi provveduto a rendere sterile
la ferita e arrivai alla conclusione che in ogni caso sarebbe morto,
con o senza il mio zampino.
Valeva la pena tentare di salvarlo.
Raggiunsi i cavalli legati all’entrata, carezzai il muso di
entrambi per calmare il loro respiro e il mio, poi cominciai a
rovistare nelle bisacce delle selle finché incappai in
qualcosa di utile: una borraccia d’acqua e un fazzoletto
pulito da stringere per bloccare l’emorragia.
Agguantai la borraccia, tirai distrattamente il lembo del tessuto e
torsi il busto per controllare velocemente Malik, quando uno stridulo
fioco irrigidì le mie dita a mezz’aria e il corpo
si fermò.
La cavalla nitrì, schioccò la coda
nell’aria e mi studiò circospetta, quasi riuscisse
a sentire il battito del mio cuore esser accelerato e ne fosse
infastidita.
Mi rigirai lentamente, deglutendo, poi stesi le dita in avanti e feci
pressione sul bordo della bisaccia quel tanto che bastava per riuscire
a scrutarne il fondo, lì dove quello stridulo assillante
stava lentamente sfumando nel nulla.
Ed eccolo là, l’oggetto per cui quel giorno erano
morte tutte quelle persone.
Lo avevo recuperato mentre Malik costruiva la tomba per Kadar, poco
distante dal cadavere del Templare che avevo trucidato, ma non avevo
avuto il coraggio di scoprire cosa vi fosse avvolto in quel panno
polveroso e così mi ero limitata a portarlo con me nella
bisaccia della sella.
Ripensai a quando quell’oggetto misterioso aveva riflesso il
bagliore della sua superficie dorata nelle mie irridi, e rabbrividii.
Non sapevo cosa diavolo mi fosse successo né cosa fosse
stato ciò che aveva risvegliato la follia della mia testa
malata, però una strana sensazione mi stringeva le viscere
ogni volta che osservavo la sua circonferenza sferica e questo non mi
piaceva.
Non avrei visto oltre quel panno.
Avrei portato quell’oggetto a Masyaf e consegnato ad Al
Mualim, dopo di che non m’importava di che uso ne avrebbe
fatto, né di scoprire a cosa servisse.
Volevo solo sbarazzarmene alla svelta.
* * *
Malik era lì dentro da un po’.
Mi chiedevo cosa stesse accadendo all’interno delle mura
mentre io me ne stavo fuori, incapace ancora una volta di affrontare la
situazione a volto scoperto, troppo assente e stanca per rispondere
all’interrogatorio del signore della fortezza.
Era il manufatto, mi aveva tenuto sveglia tutte le notti con quel suo
stridulo continuo e martellante, mentre, al contrario, la vocina nella
mia testa si era dileguata da quel giorno nel Tempio.
Sbuffai.
Comunque, il vecchio sarebbe stato felice di vedere il manufatto sano e
salvo a Masyaf.
Forse poco gli sarebbe importato quando Malik gli avrebbe raccontato
della tragica lotta in cui Kadar aveva perso la vita, ma
l’estasi del trionfo lo avrebbe reso benevolo.
Ma non era il perdono di Al Mualim ciò che mi premeva in
quel momento.
Intanto che attendevo sulle scale, vidi la sentinella che aveva
accompagnato Malik dal vecchio uscire dalla penombra e scendere nella
piazzola a testa china, così mi piantai immediatamente
davanti a lui e lo invitai a informarmi della situazione.
-Cosa sta succedendo nell’ufficio del Mentore?- domandai.
Lui scrollò le spalle, aggirandomi abilmente. - Non so cosa
sia successo, ma Malik è ridotto davvero male. Credo che
Altaïr non se la caverà con una strigliata,
’sta volta.
Una smorfia amara mi solcò il viso, la sentinella si
licenziò velocemente da me.
Erano passati giorni dall’ultima volta che lo avevo visto,
precisamente da quando ci abbandonò come animali da macello
alle truppe del di Sable nel Tempio.
Eppure, sentire il suo nome mi provocò un bollore dentro che
superò ogni aspettativa.
Scommettevo che in quel momento stava arrancando scuse neanche troppo
creative per placare le accuse gridate di Malik, certo che il Mentore
non gli avrebbe voltato le spalle neanche quella volta,
perché lui era il Prescelto.
-Malik è ridotto davvero male.
Una voce sottile mi strappò da quel flusso di emozioni,
riportandomi alla realtà proprio mentre incrociavo lo
sguardo con quello di Rauf, che se ne stava in piedi a fissarmi vicino
alla staccionata d’allenamento.
Per un momento la sua presenza mi agitò, soprattutto se
ripensavo al tempo che aveva dovuto scontare nelle segrete a causa di
quel litigio con Kadar, ma qualcosa dal modo in cui mi guardava con le
braccia strette sotto torace screditò qualsiasi
atteggiamento bellicoso.
-Si è svegliato da poco. - giustificai io.
Lui parve impensierito. -Alle mura ho incontrato Altaïr mentre
era di ritorno. - cominciò poi - Aveva
un’espressione sconvolta. Pochi istanti dopo, ho scorto Malik
che saliva le scale con una cassa e una sentinella a trasportarla,
pallido come un fantasma e ferito gravemente.
Io lo fissai, inespressiva.
-Al Tempio, purtroppo, le cose sono andate male.
-Dov’è Kadar?
Non risposi.
Lasciai che fosse il mio sguardo rammaricato a fargli intendere la dura
verità.
Lui rimase raccolto in un’espressione innaturale, come se non
sentisse alcuna emozione o pensiero, poi un singulto gli contrasse il
petto una volta, e una volta ancora, finché Rauf non si
ritrovò a singhiozzare senza freni davanti a me.
-Mi…mi…mi dispiace….!-continuava a
gemere. - Dovevo fermarlo e invece…invece gli ho dato del
depravato! Ma non…non volevo, non…
Un altro singulto gli storse il viso e all'istante le ginocchia di Rauf
cedettero rovinosamente sulle scalinate, mentre i pugni stringevano
contro le guance rigate di lacrime e il petto tremava inerme.
-Mi…mi dispiace…io non sapevo…-
ripeté, ormai consapevole che tutta la follia di quel suo
sentimento spregiudicato e contrariato, tutti i sospiri insoddisfatti e
il desiderio che mai avrebbe trovato luce, erano morti con
l’uomo che amava.
E il mio dolore, se comparato al suo, era poco più che un
mal di denti.
Stupidamente, mi sentii surclassata.
-Ti ha…raccontato tutto?- finalmente, riuscii a sbloccare
quella pressione sulla punta della lingua.
Lui tirò su con il naso, annuendo.
-Prima di partire, è venuto da me. Mi… ha chiesto
di proteggerti, nel caso ti fosse accaduto qualcosa. -
sospirò, lasciandosi andare a una risata accorata -
Però…che stupido cazzone a nasconderti tra i
Novizi! Per lo meno poteva trovarti un posto più sicuro,
dove non rischiavi di essere assalita da un branco di uomini che non
scopano da mesi…Che dire, era ingenuo.
Tacqui, completamente senza parole, finché anch’io
scivolai in una debole risata di sconforto.
Già, era stato ingenuo.
Ma, proprio quando i miei occhi stavano per rigettare di nuovo le
lacrime, un Assassino di vedetta sulle mura ci lanciò un
fischio nervoso che venne captato dalle nostre orecchie
all’istante, dunque entrambi alzammo lo sguardo in direzione
della sentinella.
Rauf tirò su le lacrime, alzandosi da terra mentre tentava
di riprendere un contegno -Che succede?-domandò il giovane.
-Avvisate Al Mualim!-rispose a pieni polmoni l’altro - Fai in
fretta, svelto!
-Che devo dirgli?
-Digli che ci sono guai in vista! I Templari sono qui, stanno
trucidando la popolazione!
Io e Rauf avemmo appena il tempo di scambiarci uno sguardo impallidito,
poi lui si precipitò lungo le scale e sparì verso
l’ufficio del Mentore, veloce come una lepre inseguita da un
segugio.
Qualche minuto dopo, il vecchio comparve sul balcone, tallonato da
Altaïr che lo seguiva con aria impaziente.
Fu allora, mentre Rauf sgattaiolava al fianco del Mentore per
chiedergli come respingere gli invasori, che Altaïr, tra
un’occhiata distratta e l’altra sul campo, ma capii
che stesse cercando me quando il suo sguardo si posò in uno
spasimo sul mio volto buio.
Spalancai gli occhi riflessi nei suoi, sentii una morsa dolorosa
stritolarmi la gola e pensai seriamente di correre sul podio e
rifilarli un bel pugno sul grugno, ma, per quanto la mia immaginazione
corresse veloce, la verità era che mi sentivo smarrita.
Poi, Al Mualim lo richiamò all’attenzione con voce
grave e quello distolse lo sguardo, mentre io, a bocca dischiusa,
abbassavo lo sguardo da perfetta vigliacca.
Il mio cuore batteva all’impazzata, ma per il livore.
Stavo ancora meditando sui miei sentimenti quando udii un fischio alla
mia destra, così drizzai subito la testa sul collo e la
girai verso l’entrata della torretta di controllo davanti
cui, adesso, c’era Rauf.
Lo raggiunsi a passo deciso. -Che succede? E Malik?
Dov’è?
-Non preoccuparti, è nelle mani dei dottori. -
tagliò corto lui, poi aprì l’entrata
sulla tromba delle scale e mi fece cenno di precederlo. - Muoviti, non
c’è tempo.
Gli lanciai un’occhiata pensierosa, poi voltai la testa e mi
accinsi a salire i gradini che conducevano a quaranta metri dal suolo
proprio mentre Altaïr usciva dalla fortezza di corsa.
All'interno delle mura i rumori provenienti dall'esterno erano
amplificati lungo la tromba delle scale e rimbombavano sempre
più forti, sempre più agghiaccianti e
sanguinolenti, finché un tetro presentimento mi
portò a intuire cosa stesse accadendo nel villaggio.
Ma ne ebbi la conferma solo quando giungemmo alla cima, lì
dove l’aria sollevava la polvere e le budella dei corpi
squartati sul terreno e riportava il tanfo insopportabile fino a noi.
Al villaggio, un numero agghiacciante di cadaveri erano cosparsi sulla
pianura insanguinata e più della metà degli
Assassini era scesa nel villaggio per fermare il massacro, ma i
Templari erano troppi e ben armati e stavano riuscendo ad aprirsi un
varco verso l’acropoli a colpi di fendenti e zoccoli.
La vista di quella moltitudine di morti mi fece prudere le mani e la
lama, ma il mio sdegno si tramutò in panico quando scorsi
l’orda rumorosa di spade e cavalli avanzare verso la nostra
sede, lasciandosi finalmente alle spalle i pochi abitanti che erano
scampati al massacro.
Alcune ombre bianche fecero appena in tempo a rientrare prima che
l’entrata fosse serrata, poi tutti si portarono sulle mura
per osservare le truppe della Santa croce che attendevano silenziosi
davanti alle mura.
I cavalli si fermarono, i ferri vennero momentaneamente riposti, e
calò un silenzio surreale.
Solo un uomo procedette a cavallo, completamente solo, e riconobbi in
lui Roberto di Sable grazie al luccichio rosato che riflesse la sua
testa calva.
- Quel bastardo... ci ha seguito! - ringhiai, sporgendomi un
po’ dal bordo della torre.
Rauf rimase sorpreso della mia affermazione. - Avete avuto un confronto
con il Gran Maestro dei Templari?- domandò e, quando annuii,
lui mi guardò con aria pressoché ammirata.
Poi, dopo qualche tentennamento in cui avrebbe voluto dire qualcosa,
tornò sull’uomo che, nel frattanto, aveva
intrapreso una poco affabile conversazione con l’altro Gran
Maestro.
Mentre io e il Novizio tentavamo di cogliere il saliente della
trattazione per la resa, due Assassini irruppero nella torre e si
disposero velocemente davanti alle rispettive piattaforme, senza badare
minimamente a noi.
Uno di quei due era Altaïr e, a giudicare dalle vesti
imbrattate di sangue, doveva esser tornato dallo scontro al villaggio.
Per l’ennesima volta i nostri sguardi furono inspiegabilmente
calamitati l’uno verso l’altro e ci scrutammo a
distanza senza nascondere la tensione ben dipinta in viso, ma dal
pendio salì un grido terrificante e immediatamente tutti
accorremmo appena in tempo per vedere un Assassino sgozzato dalla lama
di Roberto.
Il confratello con cui era arrivato Altaïr ringhiò
una maledizione contro la stirpe del di Sable, Rauf chiuse gli occhi in
un moto di disgusto ed io rabbrividii fino
all’estremità delle spalle.
-Ora basta, dobbiamo fare qualcosa!- convenni con determinazione
furente, provocando la reazione istintiva di Altaïr,
marciò spedito sulla piattaforma.
-Concordo con te. - sentii dire da Rauf, poi riemerse dal suo silenzio
e spalancò gli occhi. -Mettiti lì, presto.
– ordinò, indicandomi con un cenno la quarta
piattaforma.
Io trasalii -Spero che tu stia scherzando, Rauf! Moriremo di sicuro da
quest’altezza, è una follia!
-Non morirai.
-Rauf, non è un una possibilità, ma la forza
gravitazionale.
Rauf alzò gli occhi al cielo -Nadim. Non morirai ma,
dannazione, non farci saltare il piano!
-È follia. - insistetti a denti stretti, ma alla fine
obbedii senza altre storie.
Marciai sulla passerella scricchiolante lottando contro le folate di
vento che tentavano di farmi capitolare giù ancor prima di
raggiungere l’orlo, esitai a metà e con la testa
incassata tra le spalle, lanciai un’occhiata di sfuggita agli
altri.
Rauf e il terzo Assassino erano completamente a loro agio mentre
marciavano sicuri sulla piattaforma, ma Altaïr, lui fluttuava
tra le increspature degli abiti che si gonfiavano come vele sul mare.
Grugnii, dando un colpo all’orlo dell’abito che
stava fastidiosamente sbattendo tra le mie gambe, poi un ultimo sforzo
e raggiunsi il capolinea della piattaforma per il salto.
Ma poi, proprio mentre gli occhi si riempivano di lacrime a causa della
polvere trasportata dal vento, un luccichio ceruleo oltre quelle rocce
acuminate m’indusse a spostare lo sguardo
sull’orizzonte, dove un fiume luccicava tra le curve delle
verdi colline.
In contemporanea a quella nuova scoperta, due piccoli volatili mi
sfrecciarono davanti e fecero alzare i miei occhi verso
l’alto, riuscendo così ad ammirare le loro
piroette perfette mentre seguivano l’andamento delle correnti
ascensionali, riscendendo poi in spirali verso il basso.
Adesso non c’era più il rumore dei cavalli e del
ferro di guerra, né il puzzo di budella ed erba mischiati,
ma solo il respiro pulito di Masyaf.
Inspiegabilmente, la tensione si allentò.
Sospirai, poi tornai con lo sguardo sulle truppe nemiche, rendendomi
conto solo allora che la trattazione tra i due Maestri era
già cominciata.
-Allora, vecchio, è questo che vuoi? Che il sangue dei tuoi
scorra a iosa sulla mai spada ancora una volta?- domandò il
Gran Templare – Perché non metter fine a
quest’inutile spreco di risorse, ridandomi ciò che
i quattro cani bastardi che hai mandato al Tempio mi hanno sottratto?
-Quattro?- esclamò il vecchio Assassino, allargando le
braccia dall’alto delle mura di cinta mentre ribatteva - Ma
io ne ho inviati solo tre, Roberto! I migliori!
La risata del di Sable mi provocò un tonfo al cuore, mentre
la tensione salì nelle mie vene.
Calma.
-Cosa ci trovi di così divertente?- Al Mualim era
visibilmente irritato dall’impudenza
dell’avversario.
- I tuoi adepti mordono come serpi, Assassino!- esclamò il
comandante, facendo muovere il cavallo su e giù davanti alle
mura. -Attento, finirai avvelenato nelle menzogne del tradimento.
Le mani fragili del Maestro picchiarono sulla superficie in pietra con
stizza.
-Frena quella lingua biforcuta, Roberto, o verrò
giù io personalmente a tagliartela!
-Non aspetto altro.
-Quale arroganza !Vieni qua, in casa mia, e ti permetti non solo di
pretendere qualcosa che ritieni esser tuo di diritto ma addirittura osi
mettere in dubbio la fiducia dei miei uomini! E allora eccoti qua la
prova, razza di miscredente!
A quel punto, la mano venosa del vecchio indicò nella nostra
direzione e le truppe nemiche alzarono il capo verso di noi.
- I miei uomini non hanno paura di nulla. –
continuò il vecchio Assassino, ora con le labbra tese in un
sorriso vittorioso - Mi obbediscono ciecamente e se io dico di gettarsi
tra le braccia della morte attraverso un volo senza
scampo…ebbene, lo faranno.
A quel punto, un segnale sonoro di Rauf ci fece segno che era il
momento.
Dovevamo saltare.
I secondi precedenti al volto furono i più lunghi della mia
vita, i più intensi e contradittori.
Provai a trovare un dannato motivo per saltare, per cui rischiare la
mia vita in quel folle volo.
Lo trovai nel momento in cui vidi l’espressione di
beatitudine dipinto sul volto dei miei confratelli mentre allargavano
le braccia nel vento, lasciando che questo sbattesse contro le loro
ginocchia e gonfiasse le vesti bianche come vele.
Invidiai la loro pace, così fui inspiegabilmente spinta a
testare quella sensazione.
Guardai il cielo, le nuvole, le ali degli uccelli, e sentii che
c’era qualcosa di estremamente naturale nel modo in cui il
mio corpo veniva attratto verso il ciglio della piattaforma, come
se…se fosse stato progettato per muoversi col vento.
diceva Suor Agata, se
da piccola avevo una delle mie solite crisi.< Farà
meno male quando la carne soffrirà.>
Pouf! Il mio corpo si staccò.
Allargai le braccia nell’aria e distesi la punta dei piedi,
spingendo il mio equilibrio oltre la piattaforma, e gli occhi si
chiusero, cullati dallo schiocco rassicurante delle vesti.
Per lo meno, se mi fossi sfracellata al suolo quel sogno sarebbe
arrivato alla fine.
Poi, il nulla.
Solo l’aria che cercava di ghermirmi il corpo con le sue
braccia azzurre, senza riuscire però a bloccare il volo.
Allora, era questo il salto della fede?
Libertà?
Un tonfo sordo e pensai di esser rientrata nel mio corpo in tempo per
non perdermi il suo sfracellarsi contro le rocce.
Ma poi sentii un filo ispido di paglia pungolarmi il bulbo oculare e,
schizzando all’insù in un grugnito di dolore,
uscii da quella mare di giallo in cui ero appena atterrata.
Mai stata così felice di vedere un covone di paglia!
Mentre io sfilavo i resti degli aghetti infilati sotto il cappuccio,
sia Rauf Altaïr uscirono indenni d’atterraggio, ma
il terzo Assassino non fu altrettanto fortuna e adesso stringeva tra
guaiti e sussulti la sua gamba rotta.
Sentendo il confratello iniziare a lamentarsi, Rauf si
precipitò a tappargli la bocca con le sue mani sottili e gli
brontolò di tacere se non voleva che il piano da morti
suicidi saltasse all’aria, ma gli era ormai chiaro che
bisognava cambiare tattica.
- Devo aiutarlo a tornare dentro, non posso lasciarlo qui a morire.
- Va bene Rauf, lascia fare a noi. - Altaïr non ebbe
esitazioni, come sempre.
L’Aquila calcolò velocemente il modo
più veloce per arrivare al nostro obbiettivo, una torre di
controllo sospesa su palafitte lunghe più di trenta metri,
finché adocchiò con uno schiocco di lingua le
corde che sorvolavano il burrone bianco e decise che saremmo passati di
lì.
Ma qualcosa lo portò a tentennare.
- Si ammazzerà…- lo sentii brontolare.
E capii che stesse parlando di me quando mi fece cenno di seguirlo su
una passerella naturale a dosso del burrone, poi prese ad avanzare su
di essa di pancia contro il muro mentre io, invece, mi presi qualche
minuto per sputargli contro un insulto decisamente poco gentile.
Il muro era molto più scivoloso di quel che pensavo e, come
se non bastasse, il colpo di zoccoli di qualche cavallo sopra di noi
faceva vibrare la roccia, dunque mi bloccavo, calmavo il respiro, e,
dopo che ebbi disteso le dita conficcate nella superficie interna delle
suole, riprendevo a muovermi.
-Ci sei?- mi domandò Altaïr quando fummo a
metà strada.
-Sì. - risposi altèra- Ci sono, non sono
un’idiota…
Un singulto mi costrinse a tacere, perché mi resi conto che
il mio piede era appena stato risputato via da un’insenatura.
Le braccia si tesero in avanti, le gambe si piegarono indietro e sentii
la foschia del burrone strattonarmi verso di sé, tuttavia
Altaïr fu più rapido di lei e stese prontamente il
suo braccio in mio aiuto.
Mi afferrò e le dita sporche di sangue li fecero perdere la
presa, dunque inveì, si rigirò di scatto con le
spalle contro il muro e tese pericolosamente il busto in avanti,
afferrandomi con entrambe le braccia.
I piedi tesero verso l’esterno, il sedere si
staccò dal muro e, quando capì che la
gravità stava per attirarlo con me verso il basso,
staccò una mano dalle mie costole e la rigettò
indietro, riuscendo ad afferrare un appiglio e a tornare con la schiena
al sicuro un attimo prima che un soldato si sporgesse a controllare.
Rimanemmo immobili per qualche secondo, l’uno stretto contro
l’altro, a riprendere fiato.
Era successo tutto in una frazione di secondi.
-Dannazione…
-Lasciami, adesso. - grugnii e lo allontanai con un gesto stizzito,
ancorandomi alla sporgenza più vicina per evitare di
scivolare di nuovo.
Quello mi guardò con il fiatone, strinse i denti in
chissà quale maledizione su di me, ma fu costretto a piegare
le spalle e riprendere a seguirmi, giacché avevo
ricominciato ad avanzare più veloce di prima e senza di lui.
Salimmo in cima alla torretta avvalendoci delle funi penzoloni tra le
palafitte e una volta lì trovammo dei tronchi, unti di
grasso e legati per una fune, che pendevano su
un’inclinazione verso la schiena delle truppe nemiche.
Ci bastò uno sguardo veloce per intenderci al volo.
Altaïr si posizionò alle spalle della catasta, io
mi portai a destra ed estrassi la spada che avevo portato con me dal
tempio, osservai il riflesso sulla sua scanalatura rigettarsi nei miei
occhi, presi un bel respiro e infine recisi la corda con una stoccata
netta.
Nel medesimo istante, Altaïr incurvò la schiena
contro la catasta e in meno di un secondo la trappola
precipitò sui nostri nemici ignari, che si dispersero tra
grida di panico e il rullo impetuoso dei tronchi.
Le truppe Templari si dispersero in preda al panico e di Sable fu
costretto a raccattare quelli che non erano stati schiacciati dalla
trappola per la fuga, dando così motivo agli Assassini di
festeggiare come matti dalla cima della fortificazione.
Mentre le grida dei nostri confratelli si alzavano nell’aria
e qualcuno faceva gesti osceni ai nemici in fuga, io sputai
un’esulto e mi voltai a controllare Altaïr, che era
stranamente silenzioso, ma rimasi sorpresa da ciò che vidi.
Non gli importava della vittoria, ora il suo rammarico era tutto
rivolto verso i cadaveri degli abitanti, vittime di una guerra che,
ancora adesso cominciava a capire, chiedeva ogni volta un prezzo troppo
alto in cambio di un’esigua vittoria.
Gli altri Assassini, però, non si fecero rovinare la festa
da questi piccoli cavilli e, infatti, ci accolsero con cori
d’inneggiamenti e pacche sulla schiena non appena tornammo
nella fortezza, neanche fossimo eroi di guerra.
Ma poi, la sagoma leggermente ricurva di Al Mualim si fece spazio tra
alcuni Assassini in cima alle scale e immediatamente la raggiante
vittoria fu sostituita in un silenzio cadaverico, che costrinse tutti
noi a ritornare nei ranghi prestabiliti.
I pochi confratelli che ci erano rimasti attorno si dileguarono alla
svelta, lasciando me e Altaïr scoperti allo sguardo arcigno
del Mentore.
Sapevo che il suo disappunto non era per me, ciononostante continuavo a
sentire la tensione.
Cosa avrebbe fatto, adesso, la nostra divinità? Ci avrebbe
puniti? Perdonati?
La risposta arrivò con un suo sorriso soddisfatto.
- Siete stati molto bravi. - cominciò rassicurante il
Maestro -Adesso, le forze di Roberto sono disperse e questo ci porta in
notevole vantaggio. Per ora, siamo al sicuro da un’altra
incursione al villaggio.
Le sue parole presagivano clemenza e per un momento avvertii
l’ansia di Altaïr allentarsi notevolmente, eppure
dal modo in cui il vecchio tirò un sopracciglio intuii che
la sua era solo una calma fittizia.
-E dimmi, Altaïr.- continuò Al Mualim- Sai
perché ciò è accaduto?
Il ragazzo non parlò.
-Perché hai collaborato. - esordì
l’altro e m’indicò con un gesto ampio
del braccio. - Cosa che, invece, non hai fatto al Tempio.
-Io ho fatto quanto richiesto.
Il volto del Gran Maestro si screziò d’amaranto.
-No, Altaïr !- lo riprese stizzito -Tu non hai fatto
ciò che ti ho disposto, ma hai agito con boria e hai
sacrificato i tuoi confratelli senza alcun ritegno! Malik, Kadar: loro
hanno subito una gravissima offesa e tu neanche te ne rendi conto!
Ma l’arrogante ragazzo sembrò non accettare di
buon grado quell’accusa, e ciò non fece che
provocare l’ira funesta di Al Mualim.
Prima che potessi ritrarmi, il Gran Maestro mi agguantò per
un braccio, tirò con forza e bloccò ogni mia
resistenza storcendomi i polsi contro le mie stesse scapole, poi,
quando fu sicuro che Altaïr mi stesse fissando spiazzato,
strappò via il cappuccio dalla mia testa.
Non un brusio si levò in aria, neanche un respiro trattenuto
nelle bocche spalancate degli altri Assassini attorno: solo centinaia
di occhi che mi guardavano impietriti sul volto pallido e inerme.
Fu umiliante.
-Guarda, Altaïr!- gridò il vecchio a un palmo dal
mio orecchio sinistro, rimbecillendomi completamente.
L’Assassino non rispose, era terrificato da quel gesto folle
del suo Mentore e dal modo brutale in cui mi stava esponendo alla
platea e non aveva il coraggio di drizzare lo sguardo dal pavimento.
Le narici del vecchio si arcuarono in un grugnito. - Guarda, ti ho
detto! Suvvia, non sarà la prima volta che guardi il suo
volto!
Un grido di dolore mi sfuggì quando sentii il Gran Maestro
strattonarmi per i capelli, risultando un richiamo troppo forte per
Altaïr da essere ignorato, infatti alzò subito lo
sguardo su di me e ,provando a controllare il fremito che li percorse i
muscoli, inspirò.
-La guardo. - disse fermo il giovane.
-Bene. – il vecchio tirò un bel respiro
– Adesso, dimmi una cosa. Come puoi fissarla negli occhi e
pensare che lei, una ragazzina poco più che diciannovenne,
abbia dimostrato il coraggio che tu non hai avuto e, non contenta,
abbia portato a termine la missione?
-Maestro…
-E hai anche il coraggio di scrollarti le colpe dinnanzi a lei! Questa
donna ha riportato qui Malik e il manufatto che TU hai mancato,
Altaïr ! Ha dimostrato un coraggio di cui tu hai peccato, una
tenacia che va aldilà del rango e del sesso, e tutto
ciò che riesci a fare e trovare deboli scusanti!
Altaïr esitò, incassano un primo affondo nel suo
orgoglio ormai vacillante, e, quando provò a obbiettare,
venne di nuovo ridotto al silenzio.
-No, non osare parlare, bada! Ormai non sei più degno
d’attenzione, anzi, non sei più degno della
Confraternita, né del tuo rango!
-Non potete esser serio!
-Non protestare! Ne ho abbastanza di te, di voi due! Ho tollerato anche
troppo la tua arroganza, l’insubordinazione di questa
ragazzina, la complicità del povero Kadar…ma ora
non darò altre occasioni. E non tollererò i
traditori!
E quelle ultime parole furono le definitive e le più dure,
quelle che ricacciarono via Altaïr mentre
quest’ultimo lo fissava con espressione scossa, del tutto
ignaro che quella fosse l’occasione giusta per tre Assassini
di bloccarlo e costringerlo a inginocchiarsi.
Mentre la mano del vecchio mi teneva ben salda per capelli, ed io
lottavo per frenare le lacrime d’umiliazione e dolore, il
ragazzo non si oppose minimamente mentre veniva privato davanti a
un’intera platea ammutolita della lama celata e del
cappuccio, simbolo del suo rango.
Quando vide il suo pupillo finalmente remissivo sulle scale, Al Mualim
si tranquillizzò e decise di lasciarmi andare, spostandomi
con delicatezza contraddittoria sul lato estremo della carreggiata, da
dove lo fissai ammutolita e più confusa di prima.
-Maestro…posso spiegare!- per la prima volta,
Altaïr tremò.
-Mi dispiace, figliolo. Questo farà più male a me
che a te.
E Al Mualim estrasse un pugnale dalle sue vesti scure.
Un brivido agghiacciante stridette contro la mia spina dorsale e senza
volerlo mi gettai a mantenere il braccio sollevato del Gran Maestro con
tutto il corpo, fermando il colpo fatale sotto le espressioni
impietrite di tutti.
L’uomo tremò sotto il mio peso, poi
voltò lo sguardo incredulo su di me e, prima che potessi
supplicargli clemenza, mi colpì con uno schiaffo, facendomi
scivolare dal gradino e cadere lungo le scale.
La nuca sbatté rumorosamente contro l’ultimo
spigolo, sentii la vista affievolirsi all’istante e, prima di
perdere completamente i sensi, udii le grida disperate di
Altaïr graffiargli la gola.
-No, ti prego, non la morte come traditore!
* * *
La testa mi vorticava in un movimento ondulatorio che faceva su e
giù, come cavalloni che s’infrangono furiosi sulle
rocce, ma ciò che sentivo rosicchiarmi i timpani era
più simile al rumore di migliaia di insetti che stridevano
le loro ali secche.
Un rumore decisamente familiare, già udito durante quelle
notti, nel deserto, con Malik…
Aprii gli occhi lentamente, ma i bulbi oculari rotearono lo stesso in
preda a una luce accecante, fino a che, finalmente, quel rumore
tediante cessò e la vista sui soprammobili intorno
tornò limpida.
Ora, c’era solo l’abituale fischio del silenzio.
-Ti sei svegliata, finalmente.
Voltai lentamente la testa sul cuscino, quasi impaurita di chi avrei
trovato, e, infatti, un brivido mi assalì quando vidi Al
Mualim in piedi davanti al mio capezzale, con le braccia strette dietro
la schiena e un’espressione assorta.
Lo guardai in silenzio, poi provai a rialzarmi ma lo spintone di quelle
onde contro la mia fronte mi costrinse a tornare sul cuscino, dunque
rinunciai con uno sbuffo.
Lui fece un senso di dissenso. -Attenta, hai dormito per un
po’…
-Lo avete ucciso.
Un leggero stupore sbocciò in lui quando i miei occhi
s’inondarono di lacrime.
- Come avete potuto farlo, era il vostro protetto!- incalzai, con voce
più forte.
Al Mualim socchiuse un poco gli occhi su quei lucciconi, pensando.
-È rammarico, quel che vedo?
Trasalii – No! Ma…ma quella brutalità
non aveva scusanti. Non importava se Altaïr meritasse o no
quella sorte. Meritava un processo giusto e una condanna appropriata.
-Concordo. Un’inutile spreco di energie e talento, il suo.
Poi sbuffò, grattandosi distrattamente la barba canuta
mentre io chinavo lo sguardo sconsolata e tiravo su col naso, cercando
sotto le dita conforto sulla superfice liscia del bracciale.
-Ecco perché non ho ucciso Altaïr, sebbene ce ne
siano state di motivazioni. - esordì poi.
Drizzai il collo con uno scatto. - Cosa?
-L’ho indotto nel limbo, ad attendere.
Rimuginai, poi corrugai la fronte per invitarlo a spiegarsi, e lui fu
ben lieto di farlo.
- La sua fierezza era tramutata in arroganza, questo era palese anche
ai miei occhi. Oramai, non potevo più permettergli di
nuocere senza ritegno alla Confraternita e calpestare il Credo a suo
piacimento. Pertanto, ho deciso di strappargli via con la lama il male
che si era attaccato alla sua anima e, adesso, lui giace, in attesa di
rinascere. Sarà doloroso, ma, quando riverrà alla
luce, sarà ripulito dalle sue colpe.
-E questo… dovrebbe rincuorarmi della perdita di Kadar?
Dovrebbe indurmi a placare l’odio?
-No. No, non lo farà. Né il tuo dolore
passerà, non per ora.
-E quindi, Altaïr la passerà liscia nonostante quel
che ha fatto?
-Non ho detto questo. Ma non sono cose che ti riguardano, al contrario
è di mia competenza disporre sulla sorte degli adepti.
Compresa te, Novizia.
Ma certo. - Volete cacciarmi da Masyaf?- sentii l’amarezza
del mio sorriso - O forse, mi permetterete di vivere nel villaggio e di
trovare un buon marito per mettere al mondo tanti piccoli pargoli ?Ah,
ma forse sarà più semplice farmi diventare la
puttana della confraternita…
Al Mualim raschiò una risata. - No, sinceramente non credo
che una donna della tua tempra sia fatta per il matrimonio.
Né che si faccia sottomettere tanto facilmente. Hai sangue
gagliardo e un cuore libero, ragazzina. Impari in fretta,
straordinariamente in fretta, e sei leale. Però, qualcosa
piega la tua mente e t’indebolisce. La morte di Kadar? No,
è altro. Comunque, sprecare le tue abilita, farti diventare
un’altra delle tante puttane…ecco, non sono tanto
stolto da ripudiare il talento quando lo vedo.
Poi, oscillando leggermente le vesti in avanti, il Maestro si
ritirò con le mani sciolte e arrivò fino alla
porta, dove si fermò a meditare prima di voltarsi e
aggiungere -Vieni nel mio ufficio quando avrai fatto visita a Malik. Ma
attenta a ciò che farai.
Dopo di che, si accinse a uscire dalla stanza, lasciando a me il
compito di sviscerare quell’oscuro vaticinio.
-Maestro!
L’uomo si voltò di tre quarti. - Dimmi.
-Perché …avete rivelato la mia
identità agli Assassini?
Lui si fermò a riflettere, poi addolcì lo sguardo
truce del suo occhio bianco e, con animo cosparso dal balsamo della
benevolenza, rispose. - So che è stato terribile. Ma fidati
se ti dico che quello era l’unico modo per porre
Altaïr una volta per tutte davanti alle sue azioni. Spero che
tu capisca.
Esitai, riflettendo sull’umiliazione che avevo subito per
tutti quegli sguardi impietriti fissi su di me, sulla mia impotenza
agli strattoni di Al Mualim, sull’espressione basita di
Altaïr mentre era costretto a osservare.
-Senz'altro, Maestro. Vi capisco.
Lui sospirò, risollevato.
-Ragazzina. - disse poi.
Alzai lo sguardo. -Sì?
-Non farti una colpa di ciò che è accaduto a tuo
fratello. Non potevi evitarlo. Ricordalo a te stessa, quando verranno i
momenti bui, e a Malik.
Angolo autrice:
Auguri di buone feste fatte a tutti quanti! Dunque, dopo questa piccola
pausa troviamo di nuovo i nostri tre sopravvissuti, anche loro alle
prese con il duro ritorno alla realtà, eh. Il nostro
“ deus” ha finalmente tolto dal piedistallo il suo
pupillo arrogante e l’ha calciato tra i comuni mortali, ma,
soprattutto, mostra premura nei confronti della nostra Novizia! E
Malik? Con quale animo sarà tornato alla sua vita, ora
così diversa e dolorosa, e cosa accadrà quando
rincontrerà Laura? Ditemelo voi, con i vostri commenti!
Sempre grata, Lusivia.
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Capitolo 13 *** 13.Volere più tempo. ***
Capitolo 13
Volere più tempo.
Quando cominciai a riprendere coscienza, mancavano poche ore
all’alba.
Durante la notte avevo riposato sulla sedia accanto alla libreria, in
una posizione decisamente scomoda per la mia schiena, che, infatti, si
risvegliò capricciosa dal sonno.
Un nastro violaceo filtrò dalla coltre delle mie ciglia,
irradiandosi tra la nebbia fino ad accecarmi.
Udii delle voci, voci lontane che bisbigliavano.
Strizzai gli occhi gonfi verso la fonte di quella luce e distinsi due
figure, una più bassa dell’altra e con un
cappuccio bianco in testa.
Riconobbi Malik, immerso per metà tra la penombra
dell’infermeria e lo squarcio aranciato della porta
semichiusa, poi un secondo individuo in bianco che dava le spalle
all’alba.
Provai ad affinare l’udito abbastanza da carpire il succo
della loro conversazione veloce, ma arrivai troppo tardi
perché Malik aveva già posto un punto alla cosa
voltando la faccia al suo interlocutore.
Poche parole furono aggiunte, poi l’Assassino se ne
andò a testa piegata.
Malik, invece, rimase davanti alla porta ancora per un
po’,concedendo solo a una metà del suo corpo di
bagnarsi nel calore del giorno e con l’iride sottile puntata
all’orizzonte.
Qualcosa, però, lo turbò e subito
sbatté la porta.
Il silenzio zittì l’aurora nascente e il buio
tagliò fuori il nastro luminoso che si era srotolato fin
dentro la stanza, lasciandoci nel semi-buio di due persiane dischiuse.
– Scusa. Ti ho svegliato.
Non appena Malik mi parlò, smisi immediatamente di far finta
di dormire e alzai la testa dalle ginocchia, abbassandole
sull’orlo della sedia.
– Ero già sveglia. – sussurrai.
Lui rimase di spalle, dopo di che si voltò e
marciò come un soldato d’ombra verso le persiane.
Le aprì di scatto verso l’interno e subito la luce
inondò la stanza, colpendomi gli occhi e facendomi ritrarre
sulla sedia come un pipistrello che si nasconde dietro la membrana
sottile delle ali.
Malik, invece, si fece travolgere dalla luce con tutto il corpo.
Non appena le mie irridi si riabituarono alla luce, immaginai
guardandolo ad una strana somiglianza con i corvi.
Essi guardano fumosi la sfera rossa mentre rinasce dall’orlo
della terra e sale in cielo, consapevoli d’esser
più brutti alla luce che nascosti dall’abbraccio
delle tenebre, e se ne dolgono.
Lo stesso faceva Malik.
– Hai dormito bene? – parlò per primo.
Mi drizzai sull’attenti – Sì.
– risposi – Sì, ho dormito
bene…
– Nessuno ti ha costretto a dormire sulla sedia.
Mi presi un momento per analizzare il vero significato di quelle parole.
Non lo capii. – Lo so.
Lui allargò le spalle in un bel respiro. – Hai
pulito, ho notato.
Lanciai un’occhiata al pavimento immacolato, poi al coltello
che avevo ripulito e rimesso tra gli altri strumenti chirurgici, infine
sui miei abiti, ancora macchiati di sangue.
Tornai su di lui con la bocca serrata, rimanendo zitta.
Uno stormo di uccelli sorvolò velocissimo il cortile,
lanciando il suo grido fin dentro l’infermeria, per poi
sfumare verso il villaggio.
Masyaf era ancora calata nel silenzio.
– Non ti chiederò… –
cominciò d’un tratto lui –
perché l’hai fatto. E non ti chiederò
perché tu mi abbia fatto partecipe del tuo passato intimo.
– …Lo capisco.
– …Bene. – Malik rilassò le
spalle.
Mentre lui si accaniva a trovare fuori dalla finestra le parole giuste,
finendo, tuttavia, per perdersi daccapo ogni volta, io mi ero alzata in
piedi ed ero rimasta ferma accanto alla sedia.
Quel gelo che proveniva dal suo corpo fumoso.
Era così frustrante.
– Cosa è venuto a dirti l’Assassino di
poco fa? – chiesi poi.
Lui indugiò. – Nulla.
Sapevo che stesse mentendo, ma preferii non peggiorare la situazione
con la mia insistenza.
– Vorrei che tu te ne andassi. Tra non molto,
arriverà il dottore e preferirei che tu non fossi qui.
Mi presi un attimo per incassare il colpo. – Sono
d’accordo. – convenni, dirigendomi a testa alta
verso l’uscita.
– Laura.
Chissà perché, sentirlo dire il mio nome fu come
un colpo di frustra dietro la schiena, e mi costrinsi a desistere sulla
soglia.
Non mi voltai, ma sentivo i suoi occhi dietro le scapole, piantati come
due chiodi roventi nella carne.
– Ci vorrà del tempo.
Non parlai. Ma lo capii. Lo capii subito.
– Lo so Malik.
Così, lasciai la stanza e la sua aura opprimente alle mie
spalle, ritrovandomi un po’ più leggera quando
presi a marciare silenziosa nel corridoio, senza pensare, senza capire.
Non cercai di criptare il suo messaggio gettato all’ultimo
secondo dalla nave che affondava, ma lo presi per così
com’era.
Ci voleva tempo.
Ed io, d’altro canto, decisi di affogare il mio di tempo in
un’abluzione nella fontana nel vivaio a ovest, immersa da
boccioli rossi, lunghe siepi verdi e bianchi archi che sorvolavano il
prato.
Affondai le gambe nell’acqua gelata della polla e subito mi
ricordarono le figure ondulate di statue greche in fondo agli abissi.
Scrutai per un momento attraverso gli archi di pietra, che
s’inseguivano in una mastodontica successione lungo il
corridoio del piano superiore e inferiore, e costatai con sollievo
d’esser completamente sola.
Così, piantai le braccia ai lati del canale di getto della
fontana, trattenni il respiro e infilai l’intera testa sotto
l’acqua.
Il gelo dei fluidi surgelò all’istante il sangue,
i pensieri e infine il cervello, costringendomi a riemergere con un
colpo sonante di frusta dei capelli lunghi.
Senza intrattenermi oltre, uscii dall’acqua con le mani
strette sulle guance rosse e, avvicinatomi al muretto, raccolsi gli
abiti che avevo lasciato asciugare, rivestendomi velocemente.
Una volta che ebbi salvato le mie grazie dalla possibilità
di esser sorpresa da qualche mattutino di passaggio, raccolsi i capelli
gocciolanti in una treccia e lasciai che si asciugassero al sole.
Prima di andare, però, infilai il naso tra le pieghe della
manica per controllare d’aver lavato via, assieme al lerciume
e il sudore, anche l’odore del sangue, e notai con sollievo
che adesso avevo un odore vagamente gradevole.
Tra non molto, Masyaf si sarebbe svegliata.
Giacché ero affamata, mi diressi verso la cucina, sperando,
d’altro canto, di poter scorrere le ore tra il
chiacchiericcio delle badanti e una parola buona della cuoca, che
sembrava così predisposta nei miei confronti.
Camminavo, ed ero sola.
Eppure, avevo l’impressione che qualcuno mi stesse alle
calcagna.
Rallentai il passo, sperando di determinare la distanza che
intercorreva tra me e l’altro individuo, ma non appena lo
feci i passi si bloccarono.
Non mi voltai.
Andai avanti.
E di nuovo i passi ricominciarono. Ma, questa volta, furono
più forti, come quelli di un gigante.
Riecheggiarono nel corridoio, così tra le mie meningi, e fui
costretta a fermarmi per evitare che il pavimento finisse sottosopra.
Mentre il mondo ancora oscillava, e gli occhi tentavano disperati di
bloccare il loro pulsare davanti al cervello, sentii qualcosa toccarmi
i capelli, qualcosa di molto freddo e umido.
Rabbrividii intensamente, avvertendo i primi bisbigli alle orecchie.
Bisbigli sottili, affilati, inquietanti.
Risate dall’animo circense che tentavano di infilarsi nel mio
costume di carne e sangue, per privarmi della possibilità di
muovermi, per piegarmi alla follia della loro essenza.
Tra non molto, avrei perso i sensi.
No, non avrei lasciato che mi prendessero di nuovo…!
Scattai in un disperato impeto di ribellione, afferrando il pugnale al
mio fianco e tendendo il corpo in avanti, pronta ad infilzare nello
stomaco qualsiasi demonio si fosse appena materializzato dinnanzi a me,
e ci riuscii.
Sapevo che fosse un’allucinazione, eppure non potei far a
meno di guardarla diritto in faccia.
Davanti a me, occhi puri come il cielo d’estate.
Sentii lo stomaco cedere in un groviglio di nervi, scattai indietro e
subito la mia mente fu strappata via da quell’illusione
condensatasi davanti al mio sguardo incredulo.
Abbas.
C’era Abbas di fronte a me.
No, non era così…
Un minuto fa, il mio pugnale aveva perforato lo stomaco dello spettro
di Kadar.
E ora era sparito, lasciando che mi ritrovassi davanti Abbas, indietro
di qualche passo per evitare di esser trapassato dalla mia lama folle
per una sola frazione di secondi.
Inorridii quando compresi ciò che avevo rischiato di fare e,
chinando il collo di scatto sul petto, rinfoderai l’arma nel
suo astuccio.
Notai allora che le mani mi stavano tremando, e di ciò se ne
accorse anche l’Assassino.
– Che diavolo…?
Cercai di fuggire da lì il più velocemente
possibile, ma fui bloccata dal suo braccio, che si piantò
tra me e il muro a destra.
Mi ritrovai con il suo fiato, vagamente annaffiato di spirito, sulla
fronte e gli occhi minuscoli che sezionavano la mia espressione turbata
pezzo per pezzo.
Poi, finalmente, sorrise attraverso la coltre di barba –Oh,
oh, dove vai? – mi canzonò – Hai appena
tentato di infilzarmi senza alcun motivo…e poi credi di
poter andare via senza darmi neanche una spiegazione?
– Scusami, io non…
– Eppure, dovresti esser più gentile con noi
altri. Sai, non ti sei neanche presa la briga di presentarti con il tuo
vero nome…Nadim.
L’Assassino richiamò il braccio
nell’esatto momento in cui i nostri corpi si distanziavano
l’uno dall’altro, come due calamite di polo
diverso, e ci fissammo.
Io mi presi un minuto per rispondere.
– Abbas. Mi rincresce aver messo tutti voi in un tal disagio.
Suppongo che dev’essere stato imbarazzante scoprire che sotto
le spoglie di un Novizio si nascondeva una donna. Correggimi se sbaglio.
– Affatto, dici il vero. Per nulla piacevole.
– … In ogni caso, spero che la mia presenza non vi
disturbi oltre dalla vostra attività venatoria. E perdonami
per poco fa, ma ero ancora intorpidita dal risveglio.
– Oh, cose che capitano.– cominciò
ironico mentre arcuava un sopracciglio – Insomma, chi siamo
noi per contrastare il volere del Gran Maestro? Se ha voluto tenerti
con noi, chissà, magari è per un qualche progetto
lungimirante, o utopico. Speriamo, però, che tu non ammazzi
qualche confratello mentre giochi con il tuo stuzzicadenti!
Abbas tirò su un’espressione soddisfatta,
perfettamente consapevole che non avrei potuto reagire a quella sua
spocchiosa irriverenza, dopo di che roteò il suo agile corpo
per liquidarmi senza troppe cerimonie.
Qualche pensiero divertente, però, lo fece ritornare sui
suoi passi proprio mentre mi accingevo ad accomiatarmi.
– Sai, ragazzina, ho sentito molte voci su di te. Voci
dissonanti, perché, pare, nessuno sa chi tu sia in
realtà. C’è chi dice che tu sia la
figlia dell’Al-Sayf, che sei giunta dalle lontane terre
aldilà del mare, e chi, più malignamente, ti
apostrofa come una cagna che presta servizio ai Templari. Mi chiedo, a
questo punto, quale sia la verità.
– Sono la sorella di Malik e Kadar. Questo deve bastare a te
come agli altri.
– Interessante. – sembrò ancor
più stuzzicato – Sono curioso di sapere di
più.
– Che vorresti sapere? – lo squadrai circospetta.
– Ad esempio, per quale ragione tu abbia deciso di cercare
gli Assassini proprio adesso.
– Sinceramente, non vedo il perché dovrei
risponderti.
Il suo sorriso, imboscato dietro la compatta barba nera, si
spezzò in un’amara delusione.
– Chi ti credi di essere, ragazzina?–
borbottò con sprezzo.
– Chi ti credi di essere tu, che osi rovistare nel mio
passato. – risposi indispettita.
– Oh, vedi di inchiodarti quella lingua a un palo, femmina
pallida! – sputò, additandomi con
l’indice corto – Non m’importa se quello
stupido senza palle di Altaïr ti permette di schiamazzare come
una gallinella impettita, o se quel diavolo fallito di tuo fratello
tenta di non farti passare per la puttana del borgo, anche se, adesso,
credo che potrà fare poco o nulla per te.
– Che intendi dire? – sbottai, allagando le narici
come un toro pronto a caricare.
Abbas alzò le spalle con ostentato e goduto cinismo
– È inutile. Una carcassa da buttare al porto. Un
animale malato che nessuno vuole, neanche per macellarlo. Suvvia, a
cosa credi possa servire adesso? L’ha detto anche Al Mualim,
è arrivato il momento di sbarazzarsi di lui…
– Non è vero!
– Vivi d’illusioni, allora. Tutti sanno quanto gli
è costata cara la stupidità di Altaïr,
ma, soprattutto, che non potrà mai più tornare a
servire la Confraternita. E questo lo sa anche Malik, sennò
perché si sarebbe nascosto? È un codardo.
– L’unico codardo qui sei tu, anzi, Malik ha avuto
una carriera più gloriosa di quanto tu possa mai aspirare a
ottenere! – esclamai e nel medesimo istante venni
scaraventata contro il muro, ritrovandomi con il petto compresso dal
gomito di Abbas.
Serrai gli occhi in un gemito orgogliosamente mantenuto e, anzi,
fronteggiai il suo sguardo lampeggiante mentre mi mandava chiari segni
intimidatori con inspiegabile coraggio, come se poco
m’importava di finire con una costola incrinata o, peggio, il
labbro spaccato da un suo secco schiaffo.
– Te lo dirò una sola volta… rimangiati
quello che hai detto.
– No, Abbas.
E quell’irriverenza, quell’indolenza alla mia
sorte, lo irritò a tal punto da farlo sbraitare con la bava.
– Ragazzina impertinente, osi perfino tenermi testa!
– strillò e caricò un manrovescio
contro il mio labbro.
Piegai la testa di lato, ma non accennai un solo lamento, neanche un
sussulto. Non mi aspettavo che lo facesse per davvero e rimasi
paralizzata.
– Oramai, Al Mualim non fa altro che parlare di te, ed io
sono a dir poco allibito! Dice che tu sei una di quelle poche
rarità che abbia mai visto nella sua vita, e che nessuno
mai, eccetto Altaïr, ha imparato così velocemente.
In oltre, la tua natura ti rende un’eccezionalità!
La… piccola cristiana che aspira a ottenere un posto tra gli
Assassini! La donna che ha osato prendere in giro il Gran Maestro! Il
Piccolo Miracolo dagli artigli di ferro! Dovrebbero vederti adesso,
coloro che ti apostrofano con tali nomignoli, quanto sei coraggiosa!
– Ho…– sibilai – ho
più palle io di te, che malmeni così una ragazza,
bastardo!
Un altro schiaffò caricò sulla mia guancia,
illividendola all’istante, ed io mi ritrovai a sputare sangue
dalla guancia morsa tra i denti.
Ebbi appena il tempo di alzare il volto su di lui per vedere il suo
sguardo delirante puntare il prossimo punto da colpire, caricando la
mano con uno scatto di tutto il braccio all’indietro.
Un fischio dall’alto, i secondi si polverizzarono di fronte
all’aspettativa di un dolore maggiore dei precedenti, e
l’istinto di conservazione m’inondò il
cervello seduta stante.
Scaglia il ginocchio contro la zona sensibile tra le sue gambe
divaricate, Abbas strillò dal dolore e inarcò la
schiena indietro, dandomi così spazio sufficiente per
sgusciare sotto il suo braccio e portarmi dietro di lui proprio mentre
con la mano tentò di riacciuffarmi.
Lo osservai piegarsi su se stesso con il cavallo stretto nel palmo
sinistro, grugnire selvaggiamente e lanciarsi su di me sebbene il
dolore lo avesse rallentato parecchio, ciononostante i suoi denti
digrignati lasciavano ben intendere che la sua ira fosse più
forte che mai.
Istintivamente balzai all’indietro e, proprio mentre lui
stendeva il braccio in avanti per non rovinare a terra, già
con il corpo pronto a scattarmi dietro, io posizionai i piedi come un
corridore e fuggii.
* * *
Tastai piano il livido e subito ritrassi il dito, sibilando di dolore.
Dannazione, Abbas aveva la mano pesante. Ma, per lo meno, anche lui
avrebbe avuto dei dolori per un po’ e questa piccola
soddisfazione m’invogliò a sorridere nonostante le
fitte.
Scossi con rassegnazione la testa mentre con le dita rigiravo il
sottile frammento di specchio, scorgendo riflesso il dorso sinuoso
delle verdi colline e la schiena gibbosa delle montagne più
lontane.
Guardai attraverso la feritoia della torre, dove il cielo illividito
preannunziava in lontananza l’arrivo di una tempesta.
– Ti hanno pestato per benino, eh…
La voce di Rauf mi colse completamente alla sprovvista e, anzi, per
poco non ridussi in frantumi lo specchio sul pavimento della torre.
Lo trovai cresciuto.
Poi, dandogli un’altra occhiata, in qualche modo anche
più saggio.
Non sembrava più lo stesso adolescente smaliziato e
incantato della vita, anzi, oramai aveva proprio l’aspetto di
un vecchio lupo irretito e dal muso pieno di cicatrici.
– Sai com’è, a volte posso essere molto
irriverente.–sorrisi stupidamente mentre rigiravo lo specchio
– Tu, invece, sembri… star alla grande.
Lui piegò leggermente la testa a destra, squadrandomi con
l’occhio grigio, e mi rallegrai nello scorgere ancora una
sfumatura fanciullesca su quel suo volto scettico.
Poi, scosse la testa con un sorriso stanco e si sedette difronte a me.
Allungò la mano verso il livido sulla mia faccia e lo
tastò quel tanto che bastava per spingermi a scacciarlo con
un colpetto della mano, un po’ risentita.
– Deve farti parecchio male. – convenne, ritirando
il braccio – Ti ci vorranno quattro giorni perché
hai la pelle chiara, ma il livido svanirà in fretta. Eppure,
ti dirò Laura: il viola ti dona.
Gli lanciai un’occhiata scoraggiata, studiandolo mentre
gettava i palmi indietro e si poggiava sulle braccia nel medesimo
istante in cui scioglieva i muscoli del suo viso in
un’espressione meno dura, tornando per poco in pace con se
stesso.
Passò qualche minuto così.
– Hai ragione, Laura. – disse poi, rivolgendomi
un’occhiata pensierosa – Sto meglio. Ma
tu… tu, invece, sembri parecchio confusa.
Sorrisi amaramente – È tanto evidente?
– Abbastanza. Senti, so che il nostro inizio non è
stato molto… gradevole, ma adesso siamo qui, e abbiamo
entrambi vissuto un’esperienza forte che ci ha sfiancato
parecchio. Sinceramente, io sono stanco. E se vuoi, posso ascoltarti,
tanto non ho nulla di meglio da fare.
Ci rimuginai.
– Non credo tu possa aiutarmi. – e gli girai la
testa.
Lui aggrottò la fronte – Perché?
– Perché è qualcosa che non posso
spiegare.
– Provaci.
Se solo fosse stato così facile dirgli la verità.
Il tentato suicidio di Malik, il mio blocco mentale alla morte di
Kadar, il suo spettro che quella mattina si era addensato in
un’allucinazione, i continui pensieri che rivolgevo a casa,
Altaïr.
Magari fossi riuscita a capire quali di queste cose mi facesse star
così male adesso.
– Impazzirai se non butti fuori le tue
emozioni.–azzardò poi.
Risi piano – Fidati, è già successo.
– E allora affoga nei tuoi dubbi. Sguazzaci, ingoiali a bocca
aperta; tanto, Malik non riavrà mai più il suo
braccio. E Kadar non risorgerà dalla tomba.
– Io ho già fatto tutto ciò che potevo.
– sibilai, stringendo le dita intorno allo specchio
frastagliato – Credimi, Rauf, ci ho provato. Ma è
così difficile. Malik è difficile.
È… è come un cubo di rubik.
– Un cubo di…cosa?
– Lascia stare. Il fatto è che non so
più quale strada prendere ora. All’inizio di
questa storia, avevo creduto che abbandonarmi al flutto degli eventi,
seguirli senza pormi interrogativi, fosse la scelta giusta per far
passare il tempo. Credevo che le cose sarebbero tornate alla
normalità da sole, come succede sempre. Ma poi…
– Poi sei rimasta. E ti sei affezionata.
Calai nel silenzio per qualche istante, chinando lo sguardo verso
quello scorcio riflesso sulla superficie levigata tra le mie mani, e
vidi frammenti di me: le labbra screpolate, una guancia livida, i
capelli legati stretti.
Sapevo che, se avessi visto il riflesso dei miei occhi, ci avrei
trovato le lacrime.
Annuii lentamente, e quella fu la conferma dei sospetti di Rauf.
– Non so... quale sia il motivo di quell’oscuro
silenzio nel fondo dei tuoi occhi, Laura. – iniziò
incerto – Né quale tipo di situazione tu stia
vivendo con Malik. Ma posso dirti che, qualsiasi cosa sia, non
è colpa tua. E che tutto si aggiusterà, te lo
prometto.
Tirai su con il naso, strofinando le lacrime con cruccio –
Come puoi dire questo con certezza?
– Perché anch’io ho dovuto fare i conti
con me stesso e con il mondo, quando credetti di aver condannato a
morte la prima e ultima donna per cui provai un sentimento autentico.
Mi ero colpevolizzato perché miserevolmente consapevole di
non poter far nulla per salvarla dalla malattia che gli stava divorando
la vita. Perché ero impotente. Perché ero un
penoso ragazzino di dodici anni che non poteva far altro se non
piagnucolare al suo capezzale e stringerle la mano gelata, attendendo,
sperando, pregando…senza risultati. Ecco perché
ti capisco, Laura, e per questo ti dico che non è colpa tua.
L’unica cosa che puoi fare, ora, è dare a te e
Malik del tempo. E tutto si aggiusterà, piccola. Te lo giuro.
Asciugai con forza le lacrime agli occhi, strofinai il naso rosso e
feci scivolare lo sguardo verso l’orizzonte.
La tempesta era in arrivo.
– Sono stanca di fuggire, Rauf, non ne ho più il
fiato. Vorrei trovare una strada anche per me, adesso.
* * *
– Ero arrivato da poco a Masyaf, allora avevo solo dieci
anni, ed ero ridotto così male quando sono stato accolto dal
Gran Maestro che mi fu assegnata una badante affinché mi
rimettesse in sesto. – cominciò a raccontare Rauf
mentre mi accompagnava in cucina – Si chiamava Basma, aveva
sedici anni e due occhi dello stesso colore della fuliggine in fondo
alla fornace spenta. Aveva un aspetto modesto, non alzava mai lo
sguardo senza arrossire come una bambina, ed era tanto, tanto gentile.
Ogni sera, prima che i bambini fossero portati dalle badanti nelle
camere, lei mi sorrideva e mi faceva segno di seguirla in cucina.
Allora, si strofinava le mani, storceva il naso con nervosismo e
infilava la chiave trafugata nella serratura. Poco dopo, eravamo lungo
le cinta di mura a mangiare dei datteri freschi e a guardare come due
cani randagi la luna. Ah, quante volte è stata ripresa dalle
superiori, minacciavano di riferire tutto al Gran Maestro! Ma lei era
così… calma. Non lasciava mai trasparire alcuna
emozione. E sorrideva così poco. E parlava quasi affatto.
Ma, ogni volta che mi vedeva dalla finestra, sotto cui mi allenavo ogni
pomeriggio perché sapevo fosse il suo turno di gettare la
fuliggine, ebbene, iniziava a cantare. Ed io credevo che cantasse per
me.
Rauf sospirò, calando in un lontano silenzio. –
Beh, il resto lo sai.
Allungai la mano per dargli una carezza sulla spalla, lui
accettò di buon grado il mio segno di pace, dopo di che
tornò a guardare avanti proprio a pochi passi dalla cucina.
Lui mi fece passare per primo ed io entrai un po’
circospetta, analizzando attentamente le persone nell’area.
La cuoca era assieme ad altre due donne, anche loro panciute e baffute,
e stava dividendo con loro due chiacchiere tra una faccenda e
l’altra, mentre una ragazzina mangiava tra di loro un piatto
a me sconosciuto e le osservava con spiccata curiosità.
Poco più in là, tre uomini stavano confabulando
in disparte e al tempo stesso consumando una modesta colazione; uno di
loro, in particolare, mi colpì per l’aspetto
nerboruto e l’impressionante cicatrice lungo la testa rasa,
che arrivava fino all’orecchio sinistro.
Al tavolo centrale, c’era Altaïr.
Stava consultando un piccolo rotolo di pergamena e la lettura doveva
esser interessante, perché non aveva toccato cibo, ma la sua
porzione di focaccia era rimasta intatta.
Un nodo allo stomaco m’impedì di procedere oltre
e, anzi, indietreggiai di tre passi prima di incappare nella mano di
Rauf, che spinse sulla mia schiena e mi fece avanzare di altri sei.
La mia presenza venne fiutata dai presenti all’istante,
infatti, il trio di Assassini interruppe subito il loro simposio e le
donne il loro gossip mattutino, fingendo di affaccendarsi nel
riordinare le rustiche stoviglie lungo un ripiano per farle asciugare.
L’Aquila fu l’ultimo ad avvertire la mia presenza,
eppure, non appena le sue irridi chiare mi catturarono, subito
balzò in piedi e rimase sull’attenti
finché, guardatosi intorno, non si rese conto di esser stato
impulsivo.
Si riaccomodò piano, tenendo lo sguardo di trasversale per
nasconderlo sotto il cappuccio, ma era evidente che la sua lingua lo
stesse maledicendo.
– L’Assassino più orgoglioso
dell’Ordine che si alza di fronte a una donna? –
Rauf non riuscì a tenersi quella considerazione appena
bisbigliata al mio orecchio.
Ignorai la frecciatina con una scrollata di spalle e, a testa alta e
petto in fuori, mi diressi verso di lui, sapendo fin troppo bene che la
nostra discussione sarebbe stata al centro dell’attenzione di
tutti i presenti.
Mi sedetti di fronte ad Altaïr, lui alzò poco la
testa ed io mi allungai un po’ sul tavolo affinché
sentisse solo lui. – Mi stai forse pedinando, per caso?
– iniziai scontrosa.
Lui sorrise ilare – Cosa ti fa credere di essere al centro
dei miei pensieri, Novizia? – poi, la sua bocca
tornò severa – Laura, cosa è successo
alla tua faccia?
Mi sfiorai istintivamente la guancia illividita – Mi sono
fatta male allenandomi con un manichino. Ho sbattuto contro il braccio
di legno. Sto bene.
– Ah. – si tirò indietro, incrociando le
braccia. – Beh, sta più attenta, la prossima
volta. Laura, ascolta, Al Mualim è stanco di aspettare.
Desidera che tu prenda velocemente una decisione.
– E la prenderò, Altaïr. Solo, dammi
altro tempo…
– Non c’è tempo.
– Devo prima concludere una questione. – ribattei
– Poi, ti assicuro che partiremo…
– Al Mualim non può esser serio. – una
voce irruppe prepotentemente nella conversazione.
Il bestione del trio più in là probabilmente non
aveva sentito nulla con quelle sue orecchie appuntite, eppure
ciò non gli aveva impedito di intervenire con quel suo
pensiero schietto e cinico che spirò come un toro dalle
narici scure.
– Muffed, fatti gli affari tuoi. – Rauf, che nel
frattempo si era avvicinato a noi e si era seduto al tavolo, ignorando
l’occhiata torva di Altaïr, riprese
l’uomo-toro con diffidenza.
– Hai qualche problema? – ribattei invece io,
voltandomi a gambe divaricate e con aria meno cordiale di Rauf.
Uno del trio, quello più mingherlino e
dall’aspetto di un ladro professionista, mise le mani in
avanti– Oh, oh, calma! – esclamò ridendo
– Qua nessuno vuole attaccare con una rissa,
d’accordo? Muffed era solo sorpreso che un Novizio fosse
già stato messo a capo di una missione, nulla più.
Una risata cavernosa sfuggì dalla gola dell’altro
– Direi, più che altro, che sono curioso. Curioso
di sapere a chi devi averla data per evitare il taglio della gola.
Cos’è, sei la puttana del Gran Maestro, per caso?
E per questo che sei ancora viva?
Istintivamente balzai in piedi e afferrai l’elsa del pugnale
al fianco con sguardo fiammeggiante, portando l’Assassino a
far altrettanto con la sua spada, ma subito Altaïr si
alzò in piedi e spinse via il confratello prima che fosse
troppo vicino.
I presenti si freddarono all’istante mentre vedevano sotto i
loro occhi Muffed indietreggiare e Altaïr piantare i piedi
come uno scudo umano, pronto a rompergli il grugno se si fosse
avvicinato di nuovo.
– Fatti gli affari tuoi, Altaïr. –
spirò il toro.
– Se fai un altro passo, Muffed, vedrai le tue budella
rilucere sul pavimento. – lo ammonì
l’Aquila e riconfermò la sua promessa facendo
scattare il meccanismo della lama al polso.
A quel punto, la cuoca intervenne per sbollentare gli animi e,
intromettendosi tra di loro, spinse le braccia verso i loro petti fino
a farli indietreggiare, riuscendo così a infilarsi tra di
loro.
– Oh, qua nessuno sbudella nessuno, chiaro? Se dovete
fronteggiarvi, fatelo fuori dalla mia cucina, che ho appena finito di
lavare a terra!
Muffed diede le sue mastodontiche spalle con un grugnito frustrato,
dirigendosi verso i suoi compagni che, nel frattempo, si erano alzati,
pronti a intervenire per sedare la rissa, e Altaïr li
osservò uscire dalla stanza con il corpo rigido.
Quando i tre furono andati via, finalmente, rilassò le
spalle con uno sbuffo.
Ma si rilassò per poco. – Che ti è
saltato in mente? – ruggì, voltandosi con furia
tale da farmi indietreggiare.
– Chi ti ha detto di intervenire!
– Dovevo forse farti illividire anche l’altra
guancia? Dannazione a te! Agisci d’impulso
affidandoti al caso quando, in verità, sai perfettamente che
finirai per esser massacrata, perché non sei ancora capace
di combattere decentemente!
– Me la sarei cavata, invece! – strepitai come una
mocciosa e, in preda alla collera, uscii dalla stanza senza neanche
prestare ascolto a ciò che stava dicendo Rauf per calmarci.
Mi allontanai di pochi metri dalla cucina e venni subito bloccata per
il braccio da Altaïr, che mi aveva seguito in corridoio.
– Laura. Calmati, per favore.
Mi liberai tenendo lo sguardo basso – Non voglio parlare.
Feci altri due passi, quando la sua voce mi tirò di nuovo
per i capelli.
– È tutto qui, il tuo coraggio? Dare le spalle e
scappare? Che delusione, ed io che mi preoccupavo di non esser
all’altezza per affrontarti.
La frustrazione nella sua voce fu più dura da digerire di
quanto mi fossi aspettata, come se fossi io ad avergli fatto un torto,
e il fastidio fu tale che decisi di tornare a fronteggiare di petto.
– Ma che diavolo vuoi da me, Assassino?
– Voglio…– indugiò
– voglio capirti, donna! Voglio capire cosa ci vuole
perché tu mi dia un’altra possibilità!
– Non strillarmi in testa, ad esempio!
Respirò profondamente. – Va bene. –
mormorò, leggermente più calmo – Va
bene, non urlo. Hai ragione, non serve. Anzi, non ne ho il diritto. So
che non potrò mai rimediare al mio errore, e non chiedo il
perdono, ma spero ancora che tu possa concedermi un’altra
possibilità.
La sua espressione. I suoi pugni sciolti. La voce stranamente calma.
Com’erano stonati per il suo personaggio.
Comunque, non lo aggredii. Non lo feci perché ci trovai del
vero nella sua voce.
Ed ero così stanca. La testa mi faceva ancora male. Non mi
andava di discutere.
– Va bene. Partiremo tra un’ora. Tocca a te
provvedere ai cavalli e ai rifornimenti. Io vedrò per le
armi.
Altaïr rimase in silenzio, non era soddisfatto.
– D’accordo, Laura.– sospirò
– Se è questo ciò che vuoi, lo
farò.
Angolo autrice:
Salve a tutti, miei piccoli lettori/recensori! Dunque, dunque, direi
che Malik sta diventando un bel cubo di rubik per la nostra Laura.
Proprio quando credi di aver completato una faccia… ti
ritrovi con altre le altre cinque tutte sconquassate. In fondo,
è risaputo che il nostro Assassino dagli occhi di metallo e
l’animo di corvo è il più eclettico
della situazione, a dispetto di Altaïr, che sembra proprio
perdere qualsiasi forma di rispetto per il suo orgoglio quando si
tratta di Laura. In ogni caso, non sarà facile intraprendere
la strada per il perdono; il nostro trio sarà costretto a
percorrere il medesimo sentiero e non mancheranno colpi bassi e
sgambetti, durante il tragitto…
Ma ora basta con le ciarle, piuttosto voglio ringraziarvi tutti quanto
per aver dato ossigeno a questa storia che, altrimenti, sarebbe rimasto
solo un corpo senza scintilla!
Baci, Lusivia.
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Capitolo 14 *** 14.Il passato non svanisce mai. ***
Capitolo
14
Il passato non
svanisce mai.
Piccoli passi, uno dopo l’altro, ma era sempre difficile non
sentirmi estraniata dalle mie stesse gambe.
Era passato un anno dall’incidente e a quel punto, a pochi
giorni dal mio sesto compleanno, avrei dovuto star meglio, ma la
verità era che la riabilitazione fu più complessa
del previsto.
C’erano delle immagini nella mia testa, immagini a volte
sfocate, a volte così reali che credevo di poterle toccare,
ed ero spaventata. Ero spaventata, perché quando trasalivo
da quell’apnea d’immagini e suoni di un luogo
lontano mi ritrovavo nella mia stanza, sola e in ginocchio davanti alla
luna.
Ero spaventata, perché quelle persone contornate da abiti
bianchi e lucenti mi avevano abbandonato di nuovo
all’oscurità, nelle angosce di un mondo di mezzo
dove realtà e illusione si mischiavano senza preavviso.
Non parlavo mai, perché dall’incidente avevo
scordato come si facesse, e avevo perso il senso del tempo.
Rimasi seppellita sotto le coperte afose del mio letto per giorni e
giorni, settimane, finché intuii dal sopraggiungere di una
rondine sul davanzale e dalle foglie bruciate fuori la finestra che
dovevano esser passate due stagioni.
La schizofrenia aveva preso ogni cosa di me: oramai, vivevo fuori
istante.
A quel punto, prima che le allucinazioni diventassero per me
l’unico mondo che esistesse, mia madre decise di portarmi in
un ospedale psichiatrico, ma non per lasciamici lì,
perché non lo avrebbe mai fatto, ma per aiutarmi.
Ogni fine settimana, salivo in macchina e passavo un’ora di
silenzio nell’abitacolo della macchina finché non
cominciavo a vedere le ombre delle fronde verdi, e lì, tra i
tronchi di quel bosco, si erigeva un piccolo edificio bianco
dall’aspetto asettico e moderno.
Aveva scelto quel posto perché conosceva il direttore, un
giovane uomo dagli occhi melanconici e l’aspetto vissuto, con
cui, alquanto pare, aveva già lavorato in passato.
Ogni volta che andavamo da lui per fare un controllo generale dei miei
progressi, la Templare si truccava, acconciava i bei capelli sulle
spalle sottili, e mi faceva indossare i vestiti più vezzosi
che avessi nell’armadio; infatti, in
quell’occasione particolare, venni acconciata con un
vestitino rosso e le scarpette in vernice scura, mentre i capelli corti
erano stati fermati da un fiocco scarlatto.
Erica ci teneva a rendermi presentabile, sennonché
irresistibile, per quell’uomo.
Ricordavo che era Dicembre, il giorno prima di Natale.
Sebbene fosse la vigilia dell’anniversario del mio incidente,
e del mio compleanno, Erica aveva deciso di portarmi
all’ospedale psichiatrico per una piccola visita di cortesia,
ma credevo che in verità volesse solo rivedere il direttore.
Una bizza a neon lampeggiò per un istante dal soffitto
bianco del corridoio, inibendo i miei già provati sensi
abbastanza da confondere il mio equilibrio, e sarei caduta se non fosse
sopraggiunto il braccio di mia madre, che mi esortò a
continuare.
Erica quel giorno aveva un giubbotto in pelliccia grigio che
incolonnava la sua aitante figura e la faceva sembrare un leone, fiera
e dal passo sicuro sui suoi stiletti gialli, con la criniera dorata
sciolta sulle spalle. Era così silenziosa, così
magnifica, così donna.
Percorremmo il corridoio dell’ospedale in silenzio
finché non giungemmo davanti a una porta bianca, dunque ci
fermammo e mia madre bussò con i suoi guanti grigi.
Poco dopo, una voce maschile ci accordò il permesso di
entrare.
L’ufficio era grande e accogliente, l’aria
profumava di pino silvestre e lillà e ai lati della stanza
erano stati disposti dei divanetti per gli ospiti che arrivavano fino
alla finestra panoramica dietro la scrivania in cedro.
Dall’altra parte dell’ampia vetrata, si scorgevano
le fronde verdi del bosco circostante e una sottile bruma che si
disperdeva dalle montagne.
Seduta a gambe incavalcate su un divanetto, una donna coi capelli rossi
e una camicetta dallo scollo vertiginoso, che lasciava intravedere
abbondantemente un neo sul seno destro, aveva appena smesso di parlare
e ora si voltava verso di noi, un po’ seccata.
Appoggiato al davanzale, invece, se ne stava il dottore, un uomo di
circa trentacinque anni cui scorrere del tempo sembrava essersi fermato
da parecchio, perché la sua freschezza compassata, il viso
pallido ed elegante, i capelli scuri e il ciuffo che ricadeva in un
turbine morbido sui suoi occhialetti, oltre cui si celava uno sguardo
nero e melanconico, erano rimasti intatti probabilmente dal suo
ventesimo compleanno.
Come sempre, aveva indosso un camice bianco ottico ma quella volta era
sbottonato per lasciar intravedere il pullover nero, che stringeva sui
pettorali accentuati e il fisico invidiabile.
Non appena Erica vide la rossa intrigante nella stanza, si
freddò alla soglia e di riflesso bloccò anche me,
che invece ero pronta a precipitarmi dietro la scrivania, dal dottore.
Le due si squadrarono, si studiarono, si annusarono da lontano come
leonesse che si sentono minacciate. Poi, la rossa sorrise.
– Chi non muore, si rivede. E nel tuo caso, Erica,
è proprio vero.
– Posso dire lo stesso di te, Iole. –
cominciò algida l’altra – Sono anni che
sei sparita, senza lasciar detto quanto saresti mancata da casa. Eri in
Svizzera o in Tailandia, questa volta?
– Iole è tornata poco fa dalla Francia.
– a rispondere fu il dottore, che sorrise pacato non appena i
miei occhi si posarono trasognanti su di lui.
La prima volta che incontrai quell’uomo, ricordai che provai
un gran turbamento.
Quel tale in bianco che accolse me e mia madre nel suo ufficio, un anno
fa, tutto raccolto e composto con le mani dietro la schiena, aveva un
gran rumore nel suo sguardo.
Un rumore che non coincideva con la calma ostentata del suo aspetto
composto e i capelli bruni tirati dal gel. Un rumore che
finì col stregarmi.
Erica analizzò la scioltezza dell’uomo con un
lieve cruccio, poi fu attratta dal movimento della rossa che sciolse le
gambe sinuose e si alzò lentamente dal divanetto,
dirigendosi verso di noi con calma e penetrante concentrazione.
Non era molto alta, ma il suo corpo era ben proporzionato e aggraziato,
simile a quello di una gazzella che saltella sulle sue sottili gambe
abbronzate, aveva gli occhi a mandorla e di un azzurro-grigio acceso.
Iole si piantò di fronte a noi e affrontò in un
duello visivo mia madre.
– Perché sei così scontrosa, sorella
mia? È da tanto che non ci vediamo, in fondo,
perché non rinfoderi i tuoi artigli e mi permetti di vedere
per la prima volta la mia adorata nipotina?
L’altra socchiuse gli occhi con astio – Laura
neanche ti conosce, Iole, perché non sei mai venuta a vedere
tua nipote in maternità.
Quella arcuò le labbra rosse e lucide come una ciliegia
– Ah, che peccato che io non abbia mai condiviso le gioie
della gravidanza con te, ma sai, l’Ordine prima di tutto.
– poi, qualcosa sul viso della sorella catturò la
sua attenzione. – Ti trucchi, adesso? Misericordia, che fine
a fatto quel maschiaccio dalla coda d’oro che da ragazzine
ripudiava il trucco perché era una cosa da
“gallinelle”?
Erica rimuginò in silenzio. – Perché
sei tornata?
Subito la donna serrò gli occhi in un sorriso falso e
lascivo, che lasciava intendere più di quanto avesse mai
potuto dire, poi chinò lo sguardo su di me e immediatamente
lasciò perdere tutto ciò he non fossi io.
Iole si sedette sui suoi tacchi a spillo e sporse il busto verso di me
tenendo le braccia incrociate sotto i seni tondi, dunque mi
scrutò curiosa e rise soave quando provai a sparire dietro
la manica del cappotto di mamma.
Non conoscevo quella donna e non mi piaceva per niente, mi ricordava in
qualche modo la tigre famelica di un documentario.
– Oh, sei timida, piccina? – il sorriso di Iole fu
un ansimo di meraviglia – Che bambina meravigliosa!
Ha la stessa bocca di suo padre, carnosa e molle, ti viene
voglia di strappargliela! E gli occhi, ah, li ha proprio rubati a lui;
stesso cruccio melanconico e sensuale! Non è vero,Dante?
L’uomo alla finestra annuì con un sorriso
sornione, analizzandomi all’interno dei suoi begli occhi
castani e incantandomi come ogni volta, presa in quella gabbia dolce e
soffocante delle sue orbite nere.
– Che sei venuta a fare qui Iole? – Erica ripropose
la domanda con più impazienza.
La rossa continuò a fissarmi pensierosa, ma in
verità i suoi pensieri erano rivolti altrove.
–Sai, quando sono finalmente tornata in Italia dopo tutti
quegli anni lontana da casa e dall’Ordine, alcuni dei nostri
mi hanno riferito certe cose un po’ strane.
– Intendi che Laura non è stata iniziata?
Sì, le voci sono vere.
Quelle parole pizzicarono le guance di Iole come di rabbia e subito
dopo la vidi drizzarsi in piedi biasimevole e castigatrice, mentre
Erica si preparò ad affrontarla con tutta la fredda
razionalità che possedeva e che l’aveva spesso
salvata da scontri inutili.
– Spero che tu stia scherzando, Erica. Non volevo credere ai
pettegolezzi di salotto della Confraternita, ma allora, se
ciò che dici è vero…ti rendi conto di
quello che hai fatto? Hai allontanato la Confraternita, hai infranto il
volere dell’Ordine!
– Tu non puoi sapere ciò che è accaduto
il giorno della sua iniziazione. Ascolta, se in te è rimasto
un briciolo di affetto, un ricordo del nostro legame di sangue, Iole,
ascolta le mie ragioni…
– Non voglio sentirti! Apri le orecchie, Erica, non
permetterò che Laura, mia nipote, faccia la tua stessa fine!
Lei deciderà il suo Credo una volta per tutte, chiaro?
Erica trasalì d’ira e strinse dolorosamente i
guanti intorno alla mia mano, ma non riuscì a fare altro se
non tirare il respiro di una frase che, però, rimase nella
sua gola.
– Credo che Erica voglia parlare con me di Laura in privato,
Iole. – fu Dante, con tono calmo e fiducioso, a freddare i
loro animi prima che la stanza crollasse nel caos di vecchi rancori e
conflitti irrisolti.
A quel punto, dopo esser stare riprese benevolmente dal dottore, le due
sorelle chinarono remissive il collo e rinunciarono a qualsiasi
confronto, rimandando a quando si sarebbero riviste, magari quando il
fato lo avrebbe voluto, o l’ostilità le avrebbe
fatte cercare di nuovo.
– Bene. Non ho intenzione di discutere con una traditrice.
– sibilò a denti stretti Iole, poi
ritornò con la schiena e il volto fieramente diritto e
sorpassò mia madre con un colpo di spalla.–
Chiamami, se hai ancora bisogno di me, Dante.
La furia rossa sbatté la porta alle sue spalle,
nell’ufficio calò un silenzio imbarazzante ed
Erica cominciò a fissare l’uomo difronte a lei con
un lieve risentimento.
– Non guardarmi così. – disse Dante
mentre s’incamminava verso di noi, prendendomi tra le sue
braccia tese, ed io mi ci infilai entusiasta.
Erica ci venne dietro con espressione contrariata – Potevi
dirmelo che mia sorella era tornata.
Lui sospirò e spostò la poltrona di pelle nera
con un piede, dunque mi fece accomodare dietro la sua postazione di
lavoro e lasciò che prendessi a giocare con gli oggetti
sparsi sulla superficie.
– Non mi aspettavo una sua visita. – ammise,
arrotolando le maniche fin sopra il gomito e poggiando le mani sui
braccioli ai lati – Sinceramente, non credevo che
l’Ordine l’avrebbe richiamata così
presto, ma diceva che voleva dare un’occhiata ai miei
progressi.
– Ebbene?
Lui esitò, visibilmente frastornato.
– Che dire, i miei pazienti reagiscono male alle terapie.
– cominciò, togliendosi gli occhiali per
massaggiarsi le palpebre con le dita – Una ragazza ieri si
è ammazzata. Era affetta da schizofrenia e il suo organismo
ha rigettato le pillole. Non ho potuto aiutarla.
Era…sfracellata. I resti erano ovunque. È stato
uno strazio raccogliere i suoi organi, davvero.
La Templare osservò il dottore con sguardo compassionevole,
più morbido di prima, dunque sospirò e si tolse i
guanti per appoggiarli sulla scrivania, poco lontani da un anello
d’oro con la croce riposto lì sopra quasi per caso.
– Mi dispiace.
Lui sorrise debolmente. – Sei molto bella, oggi, Erica.
– osservò poi, percorrendo con disinvoltura le
gambe di lei con gli occhi – Nuove scarpe?
Mia madre arrossì appena, ma non si fece incantare.
– Non mi chiedi dei miei, di progressi?
– Stavo per farlo.
– Come no. – rise – Beh, non sei
l’unico ad essere a un punto di stallo nelle ricerche. I
valori hanno avviato un processo di omeostasi dall’ultima
scarica e ho registrato solo un feedback negativo.
– Ma se avrai un feedback positivo, vorrà dire che
ci siamo, no? – Dante sembrò risollevato e, con
accresciuta speranza, mi carezzò la testa quasi per caso.
Erica osservò tesa quel suo gesto. –
Sì, ma sta passando troppo tempo. E i progressi di Laura
sono troppo, troppo lenti. Non possiamo fallire, Dante, lo capisci? Non
importa ciò che vuole la Confraternita, Laura dipende da noi.
– Stiamo già rischiando molto facendo questa cosa,
Erica. Ma non devi preoccuparti, arriveremo presto a una soluzione.
– Non fare promesse che non puoi mantenere.
Dante tornò rigidamente composto dietro la poltrona di
pelle, e con lentezza ripose gli occhiali sul dorso del naso diritto.
– Ero venuta da te, Dante. Ti avevo detto che la richiesta
dell’Ordine di iniziare Laura così giovane, solo
perché era mia figlia, solo perché era la figlia
di una Maestra Templare, non era un valido pretesto per rubargli
l’infanzia così precocemente. Tu mi dicesti che
l’avresti portata via, lontano da loro e da me. E invece,
è successo qualcosa di peggio.
– Sai cosa accadde quella notte di Natale, quando Laura
avrebbe dovuto esser ri-battezzata. E non fu colpa mia.
A quel punto ci fu una breve pausa, una pausa in cui il volto di Erica
era divenuto rosso, come se fosse sul punto di piangere, tuttavia non
lo fece, perché ancora una volta la sua mente razionale
soffocò ogni emozione.
Eppure, l’angoscia era divenuta tale in lei che non
poté più nasconderlo, dunque si
sbottonò in un lamento della sua paura più
inconfessabile.
– Laura li vede Dante. Degli individui in banco, nella sua
testa. Uno, in particolare, è ricorrente nelle sue visioni,
lo so perché chiama il suo nome nel sonno. Laura vede gli
Assassini. E Agata questo lo sa. Temo…che mia figlia sia in
pericolo.
Riemersi da quel mondo onirico con il fiato spezzato e la fronte
bagnata, ma il sudore si asciugò non appena venne a contatto
con il clima rigido del deserto notturno.
Il fuoco bruciava a pochi metri dall’angolo ove mi ero
appisolata e con il suo scoppiettio teneva illuminato tutto
l’accampamento, il fianco mastodontico degli stalloni che
dormivano e la schiena snella di Altaïr.
Era supino su di un fianco e sembrava dormire profondamente.
Cercai di staccarmi dalla contemplazione del suo bel volto
addormentato, così innocente e puro
nell’incoscienza del sonno, e provai, invece, a scorgere
nell’orizzonte violaceo le mura di Damasco.
Mi chiesi cosa stesse facendo in quel momento Malik. Se dormisse, se
fosse ancora vivo o se, più semplicemente, si fosse perso
anche lui nell’osservazione della notte, magari mentre
stringeva in mano la lettera che gli avevo lasciato alla porta prima di
partire.
Chissà perché, ero sicura che l’avesse
stracciata.
* * *
Il giorno in cui giungemmo nella città il sole era
particolarmente caldo.
L’aria frizzava dei rumori del mercato e del vociare continuo
ma monotono della gente nelle strade, che si ramificavano a perdita
d’occhio dal mercato fino alla Grande Moschea.
Altaïr era distratto, continuava a cambiare direzione, ma
forse era solo una scusa per dare un’occhiata in giro prima
di recarsi nella sede locale degli Assassini.
La cosa m’infastidiva, perché il chiacchiericcio
dei passanti e gli odori contrastanti nelle strade, di pane o piscio
che fosse, non facevano altro che aggravare il mio mal di testa.
Più o a meno, ne soffrivo da quando ebbi la visione dello
spettro di Kadar, qualche settimana prima.
– Come va la testa? – bisbigliò
Altaïr mentre mi affiancava prima di svoltare un angolo.
Lo guardai di soppiatto – Bene. Grazie per…quella
roba che mi hai dato prima. Cos’era, menta? O droga? Ti
prego, non dirmi che era droga.
Lui mi fissò da sotto il cappuccio. – Ho letto in
qualche libro che quell’intruglio d’erba giova a
voi donne in quel periodo del mese, quindi ho pensato che ti avrebbe
fatto star meglio.
– Oh. Oh, ecco, non è uno di quei giorni.
Ma… credo che debba graziarti, giusto?
– Fa un po’ come vuoi. Stammi dietro, adesso ci
muoveremo sui tetti per evitare le pattuglie.
Improvvisamente, Altaïr prese a correre tra la folla e,
ricavatosi un corridoio tra la gente che si scostava terrorizzata, si
lanciò in una corsa acrobatica sui tetti che lo
portò in pochi secondi ad avere un enorme vantaggio su di me.
Ovviamente quel suo gesto accese in me lo spirito di competizione,
dunque serrai i pugni e li mossi in armonia con l’ampio
movimento delle gambe, che mi portarono dopo poco su di un cornicione
da dove potei poi raggiungere il tetto.
Altaïr mi stava aspettando lì, a braccia conserte,
e con aria rigorosa mi guardò risalire goffa.
Poi, quando lo ebbi raggiunto, m’indicò con il
dito un punto invisibile nell’orizzonte della
città.
– Lo vedi quell’edificio in fondo, nascosto tra la
casa in costruzione e il fabbro?
Aguzzai la vista – No.
– Fa nulla. Cerca soltanto di non rimanere troppo indietro,
intesi?
– Aspetta, forse ho visto l’edificio…
Ma, ormai, parlavo all’aria.
Altaïr aveva, infatti, ripreso a correre verso il bordo del
tetto, sfruttando la velocità e l’equilibrio
datogli dal movimento delle braccia per saltare, in un armonioso calore
dei muscoli che giocavano nell’aria, dunque
balzò.
Lo vidi scivolare nel vento, sfruttare il suo corpo come un rapace a
caccia, preparare le gambe all’impatto e rotolare sul tetto
successivo con successo, per poi rimettersi in piedi senza il
benché minimo affanno.
Rimasi scombussolata quando mi resi conto che vederlo mi aveva
eccitato, in qualche modo.
– Beh? – mi richiamò con un fischio
– Intendi star lì tutta la giornata?
Deglutii un boccone a vuoto mentre mi sporgevo sulla strada
sottostante, ritraendomi proprio quando una folata di puzzo proveniente
dal vicolo si diffuse sotto la cappa.
– Credevo che fossi tu il Novizio, qui. Perché mi
stai mettendo alla prova?
– Vedila così, Laura: questo è il tuo
primo inquadramento come Assassino. Sai arrampicarti abbastanza bene e
sei discreta nella velocità e sufficiente nella tecnica,
tuttavia, non basta. A volte, bisogna prendere la strada più
pericolosa ma anche la migliore per scampare rapidamente da un
inseguimento, ragion per cui ci vuole tecnica
e…sì, una certa dose di incoscienza. Ma nessuno
ha mai detto che questo fosse un lavoro facile.
– Lo consideri un lavoro, ammazzare le persone? Che
filantropo.
– Vuoi saltare o no?
– Certo che no! È troppo lontano, mi
schianterò nel vicolo di sicuro!
Lui roteò la testa altrove, assumendo
un’espressione quasi arrabbiata – Quanto sei
lagnosa. Fa un po’ come ti pare, ci vediamo lì.
Sempre se saprai arrivarci. – disse e senza indugi si
dileguò sul tetto sottostante.
Quando vidi la sua figura allontanarsi sempre di più provai
una gran frustrazione e una certa invidia, ma poi ricordai che sarebbe
stato difficile ritrovare la via nelle viscere di Damasco qualora
avessi perso la mia unica guida, e così ripresi subito a
correre.
Percorsi una via più nelle mie corde, una serie di tetti
addossati e collegati da piattaforme sospese tra un vicolo e
l’altro per permettere alle sentinelle di passeggiarci sopra
durante le ronde, passando di lì proprio nel cambio di turno
che mi permise di procedere senza intoppi.
Altaïr, invece, preferì spostarsi per un percorso
più veloce e articolato.
S’issava sulla sporgenza di una finestra e si dava la spinta
con i piedi per scattare al muro laterale, aggrappandosi saldamente con
le dita un secondo prima di stirare la schiena in alto e salire tra le
cupole di un complesso edificio azzurro, poi ripeteva i gesti con
rituale precisione su ogni edificio.
Era talmente agile, così sicuro delle capacità
del suo corpo, che quasi lo invidiai.
Mentre io ero pateticamente costretta a seguire il lineare percorso sui
tetti delle case nascoste dall’ombra delle cupole,
l’Assassino balzava lesto su di esse adattando perfettamente
i piedi alla loro forma irregolare.
Da bambina mi arrampicavo sugli alberi del giardino,
sull’acacia e il pesco fiorito, e rimanevo appostata sul
tetto difronte alla mia finestra come un gatto in osservazione del
sentiero sdruccioloso, in attesa di vedere in lontananza la macchina
metallizzata di mia madre.
Altaïr, invece, si era addestrato una vita intera, aveva
consumato le sue ossa negli addestramenti e affondato i denti nel suo
stesso sangue quando cadeva da altezze vertiginose, tutto per poter
poi, una volta divenuto uomo, assicurarsi la sopravvivenza sui tetti
della Terra Santa.
Una vita da fuggitivo non poteva di certo competere con quella oziosa
di un gatto sul davanzale di casa.
Poi, dopo quasi tre isolati di corsa, Altaïr si
fermò in cima al tetto di una chiesa bianca, a tre metri dal
cornicione dove mi ero fermata a riprendere fiato.
Mentre ero piegata in due dalla fatica cui avevo sottoposto i miei
polmoni, alzai lo sguardo nella sua direzione e, nonostante la
lontananza, vidi chiaramente la sua bocca incresparsi in un sorriso.
Un sorriso di sfida.
Ed io ero così eccitata che accettai la provocazione senza
indecisione.
Lui riprese a correre, questa volta per balzare su un edificio a cinque
metri dall’angolo più prossimo della chiesa, ed io
feci lo stesso.
Andavamo all’unisono, a dividerci solo qualche metro di
altezza.
Avvistai difronte a me la fine del cornicione, il prossimo tetto a
quattro metri da lì.
Per un momento presi in considerazione la possibilità di
fermarmi, ma sapevo che ormai avevo preso troppo velocità e
che non sarei riuscita a bloccare la corsa prima della fine del
percorso.
Dovevo continuare, non potevo fare altrimenti.
A pochi metri dal balzo, cercai con lo sguardo la figura
dell’Assassino che, nel frattempo, aveva preparato il suo
corpo a saltare.
Perfetto, lo avrei imitato.
Giunse al capolinea.
Altaïr si diede la spinta più forte che le sue
possenti gambe potessero fornirgli, il corpo rimase perfettamente
stabile nel breve volo per sfruttare l’impulso del balzo, poi
cominciò ad aprirsi come un’aquila che si scaglia
sulla sua preda, e in un attimo ruzzolò sul tetto, sano e
salvo.
Ma non esultai troppo per il suo successo, perché adesso
toccava a me evitare di schiantarmi contro il muro
dell’edificio successivo.
I piedi frenarono di poco sull’orlo del tetto, poi saltai.
Mai nella mia vita ebbi così tanta paura come in quel
momento, perché, mentre sentivo il corpo spostarsi in
avanti, quasi per volere di un’entità
sovrannaturale, capii che non mi sarei avvicinata abbastanza al
cornicione da afferrarlo.
Tesi ugualmente la mano in avanti ma, come previsto, le dita andarono a
vuoto.
Un grido risalì direttamente dalla mia gola ma per fortuna
non uscì mai, perché la presa salda di
Altaïr mi afferrò per il polso prima che la
gravità mi reclamasse al suolo.
Un secondo dopo, ero tra le braccia dell’Assassino, con il
naso schiacciato contro il suo petto e il corpo intero che tremava come
una foglia al vento.
Avvertivo le membra vibrare e bruciare, il sangue pompava adrenalina
fredda e calda allo stesso tempo, eppure continuavo a sentire i piedi
sospesi nel vuoto.
Avevo saltato a un’altezza di quindici metri ed ero atterrata
su un tetto lontano quasi cinque.
Potevo morire, ma non era successo.
Così, mentre Altaïr aveva cominciato a tessere
elogi un po’ mascherati sul mio coraggio un sconsiderato, io
tremavo in balia di un’onda di paura ed eccitazione
sconvolgente.
Perfino adesso, mentre lui mi lasciava andare con espressione
velatamente orgogliosa e palesemente severa, perché
d’ora in poi avrei dovuto fare di meglio se volevo
sopravvivere in quella città, ero pervasa da
un’estasi che mi portava a sorridere e a confondere sempre
più la giovane Aquila.
* * *
Non appena mi calai nel cuore del covo, nel vestibolo occupato
dall’ombra di piante lussureggianti e stendardi
dell’Ordine, distinsi chiaramente tra lo zampillio fresco
della fontana il bisbiglio di due uomini che parlottavano sottovoce.
Io ero seduta sotto l’entrata dal tetto, su un tappeto rosso
dai motivi arabeschi verdi e viola.
M’infastidiva dover tenere il cappuccio sulla testa
perché lì dentro l’aria era quasi
irrespirabile e appestata dall’odore acre d’incenso
misto a colori a tempera, tuttavia Altaïr mi aveva chiesto di
attender fuori mentre lui mi annunciava al rafiq ed io avevo deciso di
dargli ascolto, per una volta.
Erano lì dentro a discutere da un po’, oramai.
Stanca di aspettare, spinsi i palmi sulle ginocchia e mi alzai dal
tappeto, dirigendomi zitta zitta verso l’entrata
dell’ufficio del rafiq.
Mi affacciai poco ma sufficientemente per inquadrare la scena.
La stanza era piccola e ingombrata per lo più da un numero
considerevole, sennonché esagerato, di vasi gretti, che
erano perlopiù accatastati in una piramide sotto la
finestra, mentre altri che erano stati decorati erano posizionati lungo
un muro pulito.
Feci spaziare lo sguardo e incappai subito nella schiena possente di
Altaïr, poi nel viso di in un uomo tutto ripiegato dietro al
bancone di legno scuro che era stato ingombrato da una serie di oggetti
utili per la pittura e la decorazione vascolare.
Il burocrate della filiale assassina era un individuo di mezza
età, dalla carnagione abbastanza chiara e con una notevole
massa di capelli brizzolati che si univano in una cornice con la barba
quadrata.
Sembrava contrariato da ciò che stava dicendo
l’Assassino, il quale cercava di mantenere comunque una
posizione autorevole mentre lo pregava di lasciarmi almeno la
possibilità di presentarmi come figlia della Confraternita,
ma lui continuava a rifiutarsi.
– Non è che io non voglia conoscere la nuova
protetta del Gran Maestro, Altaïr. –
cominciò pacato l’uomo – Ma sai, le voci
corrono davvero, davvero in fretta nella Terrasanta. Un Iniziato
è venuto qua e mi ha riferito le ultime su di te.
Il ragazzo s’irrigidì un po’ –
Ebbene?
Quello appuntò con il pennello una rifinitura sul collo del
vaso – Suvvia, Altaïr, rinfoderiamo gli artigli!
Insomma, se Al Mualim ha deciso di darti un’altra
possibilità, ebbene, allora ti sarà data. Ma per
quanto riguarda la ragazza, scordatelo.
– Lei vuole solo presentarsi! – esclamò
Altaïr, puntando i palmi sul bancone e sporgendosi appena
verso l’uomo mentre aggiungeva – Rafiq, Laura
è la figlia di Faheem Al-Sayf , figlia di un Maestro
Assassino. Ha diritto di nascita alla protezione della Confraternita e,
giacché Al Mualim ha visto in lei il talento dei suoi
fratelli, ha deciso di adottarla come sua protetta…
Ma quello lo freddò con una stoccata di pennello
all’aira – Conosco la sua storia e per il solo
motivo che è figlia di Faheem cercherò di non
essere troppo brusco. Ma ciò non vuol dire che le voci di
alcuni di noi non siano vere. Ora, il tuo istinto non ti ha mai
mentito, vero, Altaïr?
Quello si ritrasse, improvvisamente pallido. – Sì.
– E dunque, dimmi, fratello: quella donna è o non
è una Templare?
– No. – la risposta fu repentina.
Sia io che il rafiq ci trovammo un po’ confusi, parecchio
sorpresi e scettici, eppure sentii nel mio stomaco una strana
sensazione di sollievo che mi portò ad abbandonarmi di
schiena contro il muro del corridoio. Mi aveva protetta.
– Oh…
– Cosa?
– Non mi ero accorto del tuo sguardo, Novizio.
– E cosa avrebbe?
– Nulla, nulla! Suvvia, ragazzo mio, fa' entrare questa
fanciulla! La voglio vedere!
Ci fu un momento di silenzio, poi dei passi – Cambi idea come
niente, eh, rafiq…
Capii che Altaïr si stesse avvicinando alla porta ma feci in
tempo solo a staccare la schiena dal muro, perché il suo
volto sotto la cappa stretta si affacciò per prendermi in
castagna prima che tornassi di corsa sul tappeto.
Tirai indietro la testa senza staccare gli occhi dai suoi, che mi
fissavano atoni, ma, non appena provai a giustificarmi, lui mi
troncò di netto.
– Vieni, piccola ficcanaso. – e mi fece segno con
l’indice di seguirlo dentro.
Per quanto mi sentissi terribilmente imbarazzata, alla fine, mi grattai
nervosamente la fronte sotto il cappuccio ed entrai nel bureau.
L’uomo era lì, con i palmi stesi sul bancone e
un’espressione stranamente sorridente, dunque mi accolse
facendo un ampio arco con il braccio, indicando tutto il locale.
– Benvenuta, benvenuta, uhm… – rise
imbarazzato – ecco, non saprei come definirti, mia cara! In
ogni caso, sono davvero, davvero lieto di averti qui!
Altaïr fece un grugnito di dissenso, ma sia io sia
l’uomo lo ignorammo.
– Salute e pace, rafiq. – ricordai le buone maniere
da Assassino un secondo prima di avanzare verso il bancone.
– Oh, che bella pronuncia! – mi squadrò
impudente dalla testa ai piedi – Ma, suvvia, cosa sono queste
formalità, figliola? Perché non ti metti a tuo
agio, perché porti ancora la cappa da Novizio? Qui sei al
sicuro, sei a casa!
– Accetto con gioia la tua ospitalità. Ma sto bene
così.
– Bene, bene. E dimmi, come sta tuo fratello, Malik?
– Se la cava.
– Capisco. Certo, non dev’esser stato facile per te
far fronte a questa catastrofe. – poi guardò di
soppiatto Altaïr, continuando – Ma tuo padre,
Faheem, era un mio caro amico e posso dire che i suoi figli hanno
ereditato la sua tempra focosa e la resistenza. In oltre, direi anche
che tu hai dimostrato magnificamente il tuo retaggio. Tutti ormai
conoscono la parabola della tua prima e più eclatante
missione come infiltrata al Tempio, di cui contributo,
c’è da dire, ha piegato il peso della bilancia a
favore dell’Ordine, sebbene l’avventatezza di
qualcuno.
Si bloccò, rivolgendo un’occhiata fuggevole ad
Altaïr, che rimase stranamente muto, in un titanico sforzo
della sua volontà di non ricadere di nuovo nel suo peccato
di superbia, e ne rimase impressionato.
– In oltre, vedo che riesci perfettamente a tenere per i
genitali il tuo Novizio. – aggiunse malevolo il burocrate.
– No, non direi. – risposi invece – Non
c’è n’è bisogno.
Il rafiq alzò un sopracciglio con aria scettica, poi si si
voltò e cominciò a rovistare dagli scaffali della
libreria, alla ricerca di una lettera, un documento, o un qualche
appunto messo da parte per il nostro arrivo.
Poi, senza alcun preavviso o pretesto, riprese a parlare. –
Sai, Laura, l’Ordine è importante per noi, nessuno
escluso. La Causa è la nostra vita. Ovviamente, il tuo
mentore ti avrà spiegato in cosa consiste la nostra Causa.
– mi spiò da sopra una spalla – O no?
Intuii al volo che il suo era scetticismo e decisi di provocarlo sdegno
un po’.
– Uccidere i Templari. – risposi asciutta, sapendo
perfettamente che in questo modo avevo ridotto all’osso
l’articolato codice d’onore della Confraternita.
Il rafiq si voltò con una pergamena in mano, sorridendo teso
– In linea di massima, è così. Bada
però, che non uccidiamo i Templari per inutili questioni
sociali o religiose, ma perché il loro modo di agire opprime
la libertà altrui. Loro predicano pace, ordine e giustizia,
ma per farlo versano sangue e ribaltano le bancarelle delle
città. Noi abbiamo provato a collaborare, davvero, ma le
loro condizioni di resa avrebbero ridotto in schiavitù la
nostra gente, e non solo loro, ma tutti i popoli della terra. Quindi,
abbiamo deciso di combattere, per la nostra libertà e per
quella di tutte le genti. Comunque, i Templari non sono gli unici
nemici che combattiamo, giovane Novizia.
Lo guardai in silenzio mentre srotolava la pergamena e ne fermava le
estremità sotto due pesi rettangolari, rivelando una serie
di appunti ricavati dalle informazioni delle sue spie in
città.
Poi, alzai gli occhi di poco e incappai all’istante nei
tizzoni roventi dei suoi bulbi oculari.
– Peggiore di un Templare, mia cara, c’è
solo un traditore. E tu non sei una traditrice, vero, figlia di Faheem
Al-Sayf?
Rimasi incastrata in un rigido silenzio, il cervello era entrato in
confusione.
Ma poi, qualcosa mi sfiorò il palmo socchiuso della mano
sinistra e un calore improvviso allentò i miei nervi fino a
distenderli completamente; le dita di Altaïr.
Voleva che mi calmassi, che concludessi quella discussione con la
stessa diplomazia che avevo mostrato fino a quel punto,
perché lui aveva assistito in disparte proprio per questo,
perché sembravo insolitamente sicura di ciò che
dovevo dire, ed io decisi di non deluderlo.
Così, proprio mentre le sue dita si allontanavano dal mio
palmo, presi un bel respiro e dissi – Mio caro rafiq, di
tante cose posso esser accusata, ma di tradimento, oh, quello mai.
* * *
Il rafiq ci disse che Tamir era un trafficante molto famoso del mercato
nero e che ultimamente stava creando noie con i suoi commerci, dunque
ci indicò come prima tappa per le nostre ricerche il Souk
al-Silaah.
Detto questo, ci accordò il permesso di ribaltare la
città per cercare informazioni su Templare.
Chiaramente, poiché lo scopo di quella missione era
rieducare Altaïr nella Confraternita, doveva procurarsi le
informazioni da solo ed io, essendo la sua Maestra, non potevo
favorirlo in alcun modo.
Lui, però, non pensò per un solo istante a una
scorciatoia, né fu innervosito dal dover svolgere il lavoro
sporco di un Novizio, anzi, cominciò la ricerca quasi
entusiasta.
Partimmo dal Souk Al- Silaah, come suggeritoci dal burocrate in nero, e
subito dovemmo fare i conti con la grandiosità degli spazi
che s’intromettevano tra noi e le ricerche.
L’Aquila sfrecciava da una zona all’altra del souk
come se quello fosse il suo habitat e lo scorrere della gente tra le
bancarelle le correnti in cui dispiegava le sue lunghe penne lucide;
io, invece, sembravo più un piccione che tubava sgraziato
tra uno spintone e l’altro del passante di turno.
A un certo punto, quando oramai avevo perso le tracce
dell’Assassino, passò nella stradina un tizio con
il suo carro e m’investì il piede destro,
facendomi sputare veleno e insulti in mezzo alla via abbastanza da
uscire dall’anonimato.
Subito cercai con fare impacciato un angolo dove strisciare a
nascondermi, quando fui incuriosita da una voce concitata al centro di
una cerchia di persone di fronte alla chiesa e decisi di avvicinarmi un
po’.
Sbirciai tra la folla, credendo che Altaïr fosse
già nascosto lì in mezzo, ma non lo vidi.
Comunque, il fare accorato con cui quel predicatore parlava senza
sosta, sudando e riprendendo respiro come un dannato mentre stringeva
la mano al petto e con i piedi si alzava dalla cassetta su cui era
salito, mi fece pensare che dare un’occhiata non avrebbe
fatto di certo male.
Il mio zelo venne ripagato, perché il predicatore stava
parlando proprio del nostro bersaglio, Tamir, che veniva apostrofato
quasi come un santone del commercio che avrebbe portato
prosperità e ricchezza per la città.
Poi, quand’ebbe finito il suo encomio di quasi quindici
minuti, l’uomo scese dalla cassa e cercò
velocemente di eclissarsi tra la folla, ignaro, tuttavia, che un
predatore bianco gli fosse dietro.
Lo seguii fino alla svolta di un vicolo, entrai nella stradina e cercai
di allungare il passo, ma lui mi aveva già sentito arrivare.
Feci per stendere la mano sulla sua spalla, con l’intenzione
di parlargli civilmente, ma fui immediatamente scaraventata contro il
muro dal suo gomito.
Mi piegai in vanti con le scapole curvate per il dolore, alzai gli
occhi annebbiati sull’uomo e lo vidi mentre fuggiva verso la
strada principale.
Lo inseguii furiosa, lui gettò un’occhiata da
sopra una spalla ma ebbe il tempo di schivarmi quando allungai le
braccia verso di lui e mi spinsi in avanti, travolgendolo con tutto il
mio peso e facendolo sdraiare tra la sabbia.
Con il fiato corto, spinsi il ginocchio contro la sua testa e subito
quello cominciò a urlare e ad agitarsi finché
riuscì a liberare un braccio, dunque mi sferrò un
pugno al fianco e, approfittando della mia debolezza, mi
gettò di lato.
Con il cuore in gola, il fuggitivo si diresse verso l’uscita
del vicolo, lasciandomi a terra mentre lo guardavo dileguarsi con
l’amaro sapore della sconfitta in bocca, almeno
finché la testa mi ricordò del pugnale da lancio
nella fodera.
Così mi misi faticosamente in piedi e con le dita sfilai
l’arma dall’elsa.
Pochi secondi e l’uomo sarebbe sparito tra la folla.
Compressi il respiro nei polmoni, bloccai la tremarella del braccio e
contai.
Uno. Due. Tre!
Il fendente tagliò l’aria in un secondo,
infilzandosi nella natica destra dell’uomo, che
strillò.
Quello provò a zoppicare fino alla fine della stradina, ma
dovevo avergli colpito un nervo perché poco dopo non
riuscì più a continuare e, digrignato i denti
gialli, si gettò sfinito al suolo.
Beh, per lo meno lo avevo fermato.
Quando raggiunsi il fuggiasco, quello stava piagnucolando con le dita
aperte attorno alla lama conficcata nella sua natica, ma non appena
provava ad estrarre l’arma il dolore gli costringeva di nuovo
la guancia al suolo.
Lo fissai per un istante e, dopo aver pensato alle domande, cominciai
l’interrogatorio.
– Poco fa, stavi parlando di un certo mercante. Scommetto che
ti ha pagato, per dire quelle cose.
Il banditore grugnì forte, affondando il naso tra le pieghe
della manica.
– Tamir. – insistetti io – Dove lo trovo?
– Fottuto Assassino di merda, vai a farti inculare da un cane!
– Quanti bei fiorellini escono da quella tua bocca. Ora, te
lo ripeterò un’ultima volta…
– Lascialo a me, Laura. – Altaïr era
appena entrato nella stradina e ora si stava dirigendo sicuro verso di
noi, con un mezzo sorriso celato dall’ombra del cappuccio.
– Sei troppo morbida per condurre un interrogatorio con un
villano del genere. – aggiunse poi, bloccando gli stivali a
pochi centimetri dal volto rabbioso del predicatore, che lo fissava
già consapevole di ciò che sarebbe successo.
Sinceramente, il suo intervento mi aveva cavato via da un
bell’impiccio, pertanto gli cedetti il posto con
un’alzata di mani e uscii dal vicolo, attendendo vicino a una
panchina.
Passarono quasi quindici minuti, dopo di che vidi il mio confratello
tornare con la lama sporca di sangue e l’espressione
leggermente più soddisfatta di prima.
– Vedo che hai ottenuto le informazioni che volevi.
– lamentai, seguendolo fuori dalla stradina.
– Non iniziare con questa storia. Mi sembri tuo fratello.
Io feci una smorfia.–Mentre io giocavo al “gatto e
topo” con quell’uomo, tu dov’eri?
– chiesi poi.
– Esattamente dietro di te. Avevo adocchiato quel banditore
già da un po’, ma poi ti ho visto tra la folla ed
eri così concentrata che mi pareva un peccato soffiarti la
preda. Dunque ho seguito la scena dal tetto, lasciandoti libera di
giocare con il tuo “topo” come meglio credessi. E
ho fatto bene. Eri molto divertente da vedere, Laura.
– Ah. Felice che ti sia piaciuto lo spettacolino, allora.
* * *
Altaïr riferì quanto scoperto al mercato al rafiq,
il quale giudicò le informazioni sufficienti e ci
consegnò una piuma, il segno di Al Mualim che ci dava
l’autorizzazione per uccidere il nostro bersaglio.
Altaïr aveva pianificato l’attacco a Tamir durante
il grande raduno al souk che si sarebbe tenuto tra un’ora,
dunque tornammo sul luogo e ci appostammo sopra le cupole blu di un
edificio che dava sulla piazza inondata di bancarelle.
Facemmo passare il primo quarto d’ora in silenzio,
l’uno in piedi e con la schiena poggiata sulla linea curva di
una cupola, l’altra seduta scompostamente all’ombra
con il viso accaldato e una sete pruriginosa.
Il sole batteva accecante sul fianco dell’Assassino, eppure
lui sembrava non risentire affatto delle temperature elevate del
pomeriggio, anzi, quasi nessuno in piazza pareva provato.
Ma per me, era una tortura.
– Stavo pensando… – la voce di
Altaïr fu roca, dunque la schiari subito dopo.
– Cosa?
Lui indugiò, poi preferì rimanere in silenzio.
– Niente.
Sbuffai – Bene…
Tornammo entrambi a guardare l’ondeggiare monotono della
gente, che passeggiava senza neanche alzare lo sguardo in alto, come se
nulla vi fosse aldilà dei vermi e del lerciume che vedevano
i loro piedi, come se il cielo neanche esistesse, e provai una leggera
pena.
– Perché hai detto al rafiq che non sono una
Templare? – chiesi poi.
Lui piegò un po’ la testa, come per pensare, e
disse – Perché mai avrei dovuto dire il contrario?
– Sembri sicuro.
– Della tua sincerità? No, non lo sono. Ma sono
sicuro di ciò che vedono i miei occhi, perché,
come forse ti avrò già detto, non sbagliano mai.
Tirai le ginocchia al petto, sospirando – E cosa vedono
quando mi guardano, i tuoi occhi?
Lui rifletté. – Non ne sono ancora sicuri. Vedono
una bella, anzi, una bellissima ragazza, con un’insolita
ritualizzazione dell’igiene personale. E una promettente
guerriera. Ma anche una Novizia indolente
all’autorità. Diciamo che li confondi. –
si morse il labbro inferiore, tornando a guardarmi intensamente
– E, alla fine, convengono che ciò che ho davanti
non è una ragazza come le altre, come quelle che passeggiano
a capo coperto nel souk. No. Tu sei diversa. A volte, parli come una
visionaria, sei emancipata come nessuna femmina che sia mai entrata
nella mia vita, hai la stoltezza e l’ardire di tenere testa
agli uomini, come se anche tu avessi il cazzo, e anche bello grosso. E
mi diverte. Ma, allo stesso tempo, mi fa pensare.
Io lo fissai. – E a cosa pensi, Altaïr?
Lui socchiuse la bocca, l’alito fuoriuscì ma la
sua risposta venne mozzata in due dal un grido gelido che
risalì dal mercato e paralizzò i nostri corpi,
improvvisamente confusi e arrabbiati mentre ci rendevamo conto che la
piazza era appena crollata nel caos sotto i nostri occhi.
Ci sentimmo due idioti, ma non tardammo a individuare il motivo del
disordine e subito rimanemmo scioccati da ciò che scorgemmo
al centro del mercato.
Un uomo con turbante vistoso, abiti pregiati e grossi baffi neri stava
stringendo la spalla di un poveraccio cui petto era stato trafitto
più e più volte dalla sua lama, e ora fissava
furioso la sua vittima, che era straordinariamente viva, mentre a mani
congiunte pregava pietà.
Poco più in là, le due guardie del corpo del
baffone osservavano la scena con turbamento ma, allo stesso tempo,
impotenti.
Improvvisamente, proprio quando la folla sembrava atterrita, il
carnefice cominciò a strillare e a sbraitare cose senza
senso sull’uomo morente e diede un altro colpo, questa volta
più profondo, che provocò l’orrore di
tutti i presenti.
Sentii un senso tremendo d’ingiustizia gelarmi
l’estremità del corpo e subito avvertii
l’istinto di intervenire in suo aiuto.
Ma, non appena provai a calarmi dal tetto, fui bloccata da
Altaïr.
– Che credi di fare?
– Dobbiamo aiutarlo!
– No, non dobbiamo. Attenderemo che si sarà
stancato con quell’uomo, poi lo avvicineremo nella confusione
del mercato.
Inorridii – Ma che razza di mostro sei, Altaïr?
– Laura, non puoi aiutarlo.
– Non rimarrò qui, a vedere un uomo che viene
massacrato da un pazzo mentre tutti gli altri stanno a guardare!
Dunque scrollai la sua mano dalla spalla e scivolai velocemente
giù per la scala al lato dell’edificio, atterrando
con una storta nella stradina sottostante proprio mentre
Altaïr mi ordinava perentorio di tornare immediatamente da lui.
Lo ignorai e procedetti ugualmente verso la piazza.
M’inserii nel primo gruppo di persone in cui
m’imbattei e una donna parve insospettirsi quando mi vide
lì, ma alla fine pensò che fossi solo un
ragazzino interessato al massacro di quel poveretto e tornò
a guardare la scena.
L’uomo stava cercando disperatamente di guadagnare minuti
supplicando il suo carnefice di dargli più tempo per
accontentare la sua richiesta, ma sapevo che più aspettavo
più le possibilità di sopravvivere per
quell’uomo diminuivano.
Uccidere Tamir era la scelta più ovvia.
Ma io non lo avrei fatto. Non avrei ucciso un altro uomo, non di nuovo.
Per fortuna, la risposta ai miei problemi etici sopraggiunge sotto
forma di un oggettino in terracotta di quelli in vendita nelle
bancarelle attorno, che arrivò a tutta velocità
tra la folla e si schiantò contro la nuca di una delle due
guardie.
Il colpo fu forte e mandò in frantumi l’oggetto,
riuscendo a sbriciolare la tensione dell’esecuzione brutale
di Tamir, che bloccò il colpo fatale a pochi centimetri
dalla gola dell’uomo.
Non riuscii a credere ai miei occhi quando scorsi accanto a una
bancarella il cappuccio bianco di Altaïr, che ora aveva preso
tra le dita scure un altro oggetto di quelli esposti e lo faceva
saltellare con aria di sfida.
Immediatamente, il mercante allentò la presa sul poveraccio
e quello ricadde a terra con un lamento strozzato, trovando subito
aiuto da una donna coraggiosa che lo portò al sicuro, tra la
folla.
Il mercato era ammutolito, tutti guardavano il giovane in bianco che
era appena intervenuto, condannandosi con le sue stesse mani.
La guardia colpita si portò una mano alla nuca e , vedendo
il sangue fuoriuscire, non esitò a dirigersi verso
l’Assassino con i pugni all’aria e gli occhi che
fiammeggiavano d’ira, ignaro di esser appena finito nella sua
trappola.
Quando la preda fu abbastanza vicina, Altaïr gettò
l’oggetto in aria e si piegò in avanti, sicuro che
l’omaccione avrebbe d’istinto alzato lo sguardo,
come di fatto accadde, guadagnando così il tempo sufficiente
per colpirgli il mento con un montante e metterlo fuori uso in un lampo.
Un sorriso vittorioso solcò il suo volto, poi
roteò gli occhi gialli verso l’alto e tese la mano
appena in tempo per riacciuffare, in una palese dimostrazione di
virtuosismo, l’oggetto.
Subito ci fu qualche spettatore coraggioso che incitò
l’inattesa ribellione con applausi e fischi e questo accese
il volto dell’altra guardia e la collera spropositata di
Tamir.
– Che pagliacciata è mai questa? –
esclamò stridulo il Templare, agitando il pugnale tinto di
rosso come se fosse sul punto di gettarsi nella mischia lui stesso, ma
alla fine preferì delegare tale rischio alla guardia.
–E tu, che diavolo stai aspettando? Voglio le palle di quel
dannato Assassino in un sacchetto, muoviti, o avrò le tue! E
io non parlo tanto per dire!
La guardia non parve molto convinta, tuttavia la possibilità
d’incorrere nell’ira del suo superiore gli parve
peggiore che morire per mano di un Assassino e così
attaccò per primo.
Mentre i due intrapresero una lotta all’ultimo fendente, io
capii che era l’occasione giusta per atterrare Tamir e
stordirlo con una semplice ginocchiata alla tempia.
Poi, finalmente, lo spietato mercante abbassò leggermente la
guardia; era il momento!
Trattenni il respiro nel torace, allungai velocemente le mani verso il
suo braccio per storcerlo esternamente e costringerlo a inginocchiarsi,
ma il rumore della sabbia sotto la suola mi tradì.
I suoi occhi piroettarono verso di me, trafiggendomi letali, e la paura
inibì la mia prontezza a reagire.
Cercai pietosamente di brandire la spada al fianco, ma non fui
abbastanza veloce.
Zack.
Angolo autrice:
Mi scuso enormemente per il ritardo, ma ho avuto così tanto
da fare che a malapena ho avuto il tempo di respirare (= o =).
Comunque, spero di non avervi fatto attendere troppo e, soprattutto, di
esser stata all’altezza delle aspettative. Ho cercato di
riportare la prima missione di Altaïr-Novizio con quanta
più precisione potevo, ma del resto dovevo riportare qualche
modifica per rendere partecipe Laura. Ho inserito un altro flashback, o
ricordo se preferite, per cominciare a fare un po’ di
chiarezza sul passato della nostra protagonista; alquanto pare, nuovi
pezzi del puzzle si aggiungono, mischiando, dissimulando, componendo un
quadro sempre più vasto e confuso, ma presto
verrà la resa dei conti per tutto. Sarà capace la
nostra Laura di tenere il polso fermo?
Baci, Lusivia.
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Capitolo 15 *** 15.Questione di fiducia. ***
Capitolo 15
Questione di fiducia.
La gente gridava, fuggiva via come il fumo, sbatteva i piedi e piangeva
mentre cercava di sfuggire a quel massacro, che, tuttavia, non la
toccò minimamente, perché il leone aveva
già catturato la sua incauta preda.
Non appena la lama di Tamir aveva strisciato contro il mio braccio,
lacerandone il tessuto della manica e la carne tenera, il sangue
cominciò a cadere a fiotti, denso e caldo, inibendo la mia
lucidità mentale abbastanza da gettarmi nel panico.
Con la bocca spalancata in una smorfia di dolore, strinsi la mano sul
braccio sanguinante e gettai il corpo indietro, ma i piedi non furono
abbastanza svelti nel reggere la mia fuga e mi mandarono a gambe
all’aria.
Tamir rise di gusto nel vedermi a terra e con un gesto imperioso si
asciugò il sudore dalla faccia, tirandosi la barba fino a
deformare il suo volto, eccitato e ansioso di sbrigare la mia
esecuzione prima che l’altro Assassino si liberasse della
guardia.
Così, lasciata cadere la mano in basso, impugnò
meglio la spada e con quattro falcate mi fu di nuovo davanti, dunque
calciò lontano la mia spada prima che potessi tendermi a
recuperarla.
Alzò la gamba con decisione, tirò il ginocchio al
petto e, proprio quando intuii cosa sarebbe accaduto da lì a
pochi istanti, mi lanciò un calcio sulla mandibola,
ribaltandola in un rumore davvero preoccupante.
Il colpo mi mandò subito a terra, la bocca prese a
sanguinare e le lacrime esplosero oltre la diga senza che potessi
bloccarle.
La mano di Tamir mi agguantò per la spalla e mi
ribaltò a pancia all’aria, obbligandomi a
guardarlo dal basso mentre preparava la lama per l’esecuzione
finale.
Avevo il fiato spezzato, sentivo che il dolore alla mandibola aveva
superato di gran lunga la ferita al braccio, ciononostante riuscii a
non piangere, mantenendo fino alla fine un orgoglio inflessibile anche
quando Tamir alzò la lama al cielo.
Il Templare mi guardò per pochi istanti, inespressivo.
La lama era contro il sole, ma non si mosse.
Poi, la sua analisi distaccata si prolungò ancora,
diventando sempre più oscura, più incerta,
finché qualcosa non lo portò ad abbassare il
braccio armato lungo il fianco.
Mi scrutò con espressione indecisa, poi infilò la
punta della lama sotto il mio cappuccio e lo tirò indietro,
scoprendomi il viso sudato e i capelli attaccati sul collo.
E i suoi occhi si sbarrarono in un impeto
d’incredulità.
Le gambe del Templare balzarono indietro, come trafitte da una scarica
elettrica proveniente dalla terra, e indietreggiarono fino a quando la
mia intera sagoma non rientrò nella superficie dei suoi
occhi sbarrati, dunque rimase immobile, a fissarmi.
Qualcosa era improvvisamente cambiato, qualcosa lo aveva spaventato.
Ma l’istinto di sopravvivenza mi scagliò di nuovo
nel presente ; colto il momento, arrancai sulla sabbia per rimettermi
in piedi, mi gettai a recuperare la spada senza badare al dolore della
ferita, ma per l’ennesima volta mi ritrovai ad essere
allontanata dall’unica possibilità di salvezza.
La guardia che Altaïr aveva stordito poco prima si era
risvegliata, con un grosso bernoccolo in testa e tutta
l’intenzione di farla pagare a qualcuno; sfortuna volle che
agguantasse proprio il mio polso.
Mi voltai di scatto verso l’uomo e intravidi
sott’occhio il bagliore del suo pugnale da macellaio.
Piantai i piedi nel tentativo di resistergli, lui mi storse il polso e
allungò l’arma verso di me, ma fu bloccato dalla
punta metallica che aveva appena fatto capolino dal suo stomaco, lucida
del sangue dei suoi intestini.
Poi, prima che potesse reagire, il suo ventre venne aperto in due dalla
lama, facendo ricadere le viscere lucenti sulla sabbia e schizzando
sangue ovunque, perfino sui miei piedi.
Le urla della guardia seguirono il movimento delle sue mani, che
corsero a contenere gli organi nel ventre lacerato, lasciandomi
così la possibilità di fuggire, ma non ci
riuscii, perché qualcosa di estremamente perverso mi
impediva di distogliere lo sguardo da quel luccichio rossastro tra le
sue dita.
In pochi istanti, la guardia perì difronte a me, crollando
al suolo in un gran polverone, mentre la figura del suo macellaio si
erigeva diritta dietro di lui.
Seguii la lama macchiata di sangue fino all’elsa, risalii il
braccio muscoloso che teneva l’arma e incrociai il volto
scuro di Tamir, con il suo turbante e i baffi pronunciati.
Ma, adesso, qualcosa di incredibilmente grande era mutato in lui.
Improvvisamente, si trovò pentito di ciò che mi
aveva fatto.
Improvvisamente, il suo volto non faceva più paura.
Provai a capire cosa fosse cambiato, cosa lo avesse indotto ad
acquietare la sua ira sproporzionata, quando fui colta di sorpresa
dalla sua mano che lasciò cadere l’arma a terra,
e, aperti i palmi in segno di resa, alzò le dita al cielo.
Ma poi cappi che, la sua, non era resa.
No, il suo, era un tentativo di dialogo.
Per qualche assurda ragione, quel feroce Templare era diventato
improvvisamente innocuo, un lenone addomesticato, ed io mi ero
ritrovata con la frusta a portata di mano.
Ma non ebbi il tempo di usarla, né di fare altro,
perché una mano guantata giunse dalle sue spalle e lo prese
per i capelli, strattonandolo con volenza sufficiente da far cadere a
terra un uomo adulto di quasi ottanta chili.
Altaïr aveva lo sguardo feroce e i denti digrignati mentre
trascinava di peso Tamir, che si dimenava e continuava a strillare cose
senza alcun senso, scalciando e alzando un gran polverone
finché non avvertì delle braccia possenti
bloccargli il collo, dunque cominciò a boccheggiare con il
volto blu. Altaïr lo tenne incastrato tra i bicipiti e
l’avambraccio, avvolgendogli la testa come uno schiaccianoci,
fino a quando il suo nemico si mosse sotto di lui.
Poi, lentamente, cominciò a percepire la vita abbandonare il
corpo di Tamir.
Il Templare agitò le gambe per poco, poi vidi il suo volto
scolorirsi, le braccia cadere e i capelli tremare negli ultimi spasmi
dei polmoni, ormai al limite.
Eppure, ebbe il tempo di guardarmi e di alzare la mano nella mia
direzione.
Tamir morì poco dopo e, con lui, quel gesto.
Quando avvertì la sua preda spirare, il giovane Assassino
slegò le braccia dal collo del Templare e lo
lasciò cadere in avanti, verso la sabbia bollente di quel
tardo pomeriggio di fuoco.
Non sapevo se per il trauma celebrale o per lo strano ronzio che aveva
preso a fischiarmi nelle orecchie, ma non riuscii a staccare lo sguardo
dal cadavere del Templare fino a quando un suono profondo
spaccò il mercato in due.
Le campane della chiesa a due isolati da lì.
– Laura, dobbiamo andare. – era la voce di
Altaïr, tuttavia mi sembrò troppo lontana
perché provenisse da lui, che era proprio difronte a me.
E le campane diventavano sempre più prepotenti.
O erano le grida dell’Assassino?
– Sì, lascia solo…. –
sussurrai, piegandomi sulle ginocchia – … lascia
solo che mi sdrai un momento… la testa mi gira….
– Laura?
* * *
L’acqua sotto i miei piedi si smosse lentamente, allargandosi
in cerchi irregolari dal punto in cui le mie caviglie affondavano, ma
non proiettarono alcun riflesso, nessun’immagine.
Sapevo che stavo sognando.
Aprii i palmi per analizzarli meglio e vidi che erano marchiati a fuoco
con due segni, ma per qualche ragione non riuscii a distinguerli,
dunque strinsi le dita indentro e tornai a guardare avanti.
Tamir era di fronte a me, senza il turbante, armato solo della sua
fonte stempiata e di un’espressione serena,
straordinariamente pacifica, che quasi non lo riconobbi.
– Sai chi sono? – chiese a quel punto lo spirito
del Templare.
Io esitai, poi scossi la testa.
– Ovvio che no. – sorrise – Tu non mi
conoscevi, io non ti conoscevo, ma lei sì. Lei ci ha detto
del tuo arrivo.
– Lei chi?
Tamir scosse la testa come un adulto davanti alle domande inopportune
di un bambino, dopo di che m’indicò
l’alto.
Stirai il collo all’insù, dove una luce accecante
annegava il cielo bianco: lì, tra le nubi di saette e il
bagliore, vidi un serpente che rincorreva con le fauci la sua coda.
Un rombo cupo e qualcosa si staccò dai vapori in cui il
mastodontico rettile piroettava, qualcosa di lucente; capii trasalendo
che stava precipitando verso di me.
Mi chinai in basso, provando a ripararmi sotto le mie braccia, ma non
fui schiacciata, anzi, quel pezzo di cielo si posò sulla mia
fronte e la pervase di frescura, facendomi stare un po’
meglio.
Realizzai allora che si trattava di una mano e, pochi istanti dopo, che
quel luogo di luci e vapori bianchi era, in verità, una
stanza buia e racchiusa in piccole mura bianche.
Sebbene il mio corpo fosse assopito dal peso schiacciante della febbre,
riuscii a muovere un poco la punta dei piedi e sentii che si sfregarono
contro delle lenzuola, dunque ebbi la conferma di essere ancora in un
letto.
Gli occhi mi bruciavano, così come gli arti e
l’intero corpo, per questo faticai a scrutare qualcosa oltre
la coltre di ciglia senza avvertire un gran dolore e, subito dopo, il
bisogno di vomitare.
Solo la luna, che si proiettava a scacchi sulla porta infondo
attraverso le grate, riusciva a dare una dimensione a quel posto
inghiottito dalle tenebre, rischiarendo, per quanto poteva, la figura
di un uomo accanto al mio letto.
Era ricurvo verso di me nell’atto di misurarmi la temperatura
con la mano, la fronte aggrottata e la bocca storta in una smorfia di
concentrazione, ma non riuscii a distinguere altro se non i lineamenti
imprecisi della sua mandibola e dei capelli corti.
Dopo pochi secondi di analisi, egli ritrasse la mano e la fece tornare
sulla sua coscia, ricascando nella contemplazione di una lontana
lucerna nascosta nel buio, a scoppiettare sola, dandomi così
la possibilità di guardare anche la sua schiena.
Non sapevo dove fossi, ma sentivo freddo, tanto freddo, e
quell’unica anima, viva o morta, era ancora da vedere, era
l’unica fonte di calore presente.
Sfilai con parecchi dolori la mano da sotto le lenzuola e la tesi verso
la sua bianca schiena, mi aggrappai a peso morto al cappuccio sulle
spalle e, immediatamente, lui si girò.
– Kadar… sei tu? – gracidai a stento.
Ci fu un momento di silenzio, poi intravidi i suoi occhi, chiari e
contornati da un alone scuro, quasi livido, che mi ricordò
vagamente le occhiaie soffici sul volto di Kadar, quella sera in cui
venne a cercarmi in stanza, perché non riusciva a chiudere
occhio.
Provai a sollevarmi con i gomiti, lottando contro la pressione cocente
che spingeva sulla fronte, ma fui vinta dalla stanchezza fisica e
mentale, e così dovetti tornare sdraiata.
– Non devi sforzarti, Laura. – sentii la sua voce
un po’ distorta, ma abbastanza pulita da non confondere le
parole. – Sei svenuta questa mattina, al mercato, e da allora
non hai ripreso conoscenza, quindi ti sentirai stordita,
all’inizio…
– È questo che sei venuto a dirmi? –
mormorai, tendendo la mano in avanti – È per
questo…. che sei tornato dal mondo dei morti? Per dirmi che
… sono una sconsiderata? – sorrisi piano
– Ah, se vuoi, va bene così.
L’importante è che sei venuto a trovarmi.
Poi, con molta lentezza, provai a tirare il suo volto verso il mio
aggrappandomi alle sue braccia.
– Kadar, perché non torni da me? –
sussurrai a occhi chiusi – Mi manca, la tua
bocca…Kadar, mi manca…
Avvertii i muscoli del suo corpo irrigidirsi, ritrarsi,
finché la mia debole presa non fu più sufficiente
a tenerlo e scivolò via dalle mie dita.
– Ma guardati, hai la febbre davvero alta. Stai delirando.
– lo disse con una nota di asprezza, poi si alzò
dal materasso e andò verso un angolo della camera.
– N…no, non è vero, Kadar, per
favore…! – provai a chiamarlo, scuotendo i capelli
sul cuscino, mentre una sensazione di vertigine sembrava quasi muovere
il materasso come una nave.
Capii poi che quel movimento era reale, perché il peso del
suo corpo, che era tornato ad appollaiarsi accanto a me,
piegò leggermente il letto a sinistra.
– Se ti agiti ancora, vomiterai. – mi riprese a
gambe incavalcate.
La freddezza con cui mi trattava scatenò una reazione
incontrollabile nel mio corpo, che prese a versare lacrime a secchiate
dalle mie ciglia, raffreddando le guance e colando sul collo, i
capelli, finendo con l’essere assorbiti dallo scollo del
vestito leggero in cui ero stata infilata.
– Senti, ora me ne devo andare. –cercò
di calmarmi con la voce più rassicurante che poteva
– Tu prova a riposare, per favore.
Avvertii le sue gambe spingere contro il pavimento per sollevarlo dal
letto, un bisogno invisibile di andargli dietro mi diede la forza
sufficiente per spingermi a sedere e provai ad alzarmi sui palmi, ma la
debolezza fece cedere le braccia e andai a scontrarmi contro di lui.
Colpito in pieno dalla mia testa tra le scapole, lui rimase paralizzato
dal dolore, ed io, decisa a non lasciare andare il suo fantasma
così facilmente, mi allungai sulle sue gambe e riuscii a
farmi accogliere dalle sue braccia come una bambina sulle ginocchia del
padre, scoprendomi nel movimento le gambe e le cosce sotto la camicia
da notte.
Sentii il suo petto accelerare, ma fu un attimo, perché, non
appena lui avvertì le mie braccia cingergli il collo, il
cuore parve, più che altro, sul punto di esplodergli.
– Almeno, se proprio te ne vuoi andare…salutami.
– mormorai e tentai di trovare la sua bocca con la mia.
La sua mano si frappose svelta tra i nostri petti, scostandomi via in
tempo, prima che qualcosa in lui cominciasse a ingrossarsi e spingere
con un po’ troppa insistenza.
– Fermati, prima che tu te ne penta. – mi riprese
severo e, tenendomi tra le braccia come un vero cavaliere, mi
adagiò di nuovo sotto le coperte, preoccupandosi perfino di
ricoprire le mie gambe scomposte.
– Sei una persona cattiva, Kadar Al-Sayf! –
strillai a quel punto, coprendomi gli occhi umidi con il polso
– Sei una brutta, brutta persona, Kadar Al- Sayf, mi hai
capito?
Sentii che rise – Sono cattivo, dici? Onestamente,
l’unica crudele qui sei tu, che mi mostri così
impudente le tue gambe e mi solletichi l’immaginazione.
Mentre singhiozzavo e sobbalzavo in preda alla rabbia, lui si
allontanò verso una luce distorta nel fondo della stanza e
cominciò a rovesciare qualcosa in un contenitore concavo.
Poco dopo, proprio quando i miei singulti cominciarono a diminuire e
gli occhi, seppur ancora arrabbiati, fecero capolino da dietro il
polso, rividi la sua sagoma accanto al mio letto.
Cercò di sollevarmi facendo scivolare dietro la mia schiena
un braccio, dunque mi spinse contro la sua spalla e, una volta che io
mi fui ritratta, poggiò il bordo di un contenitore in
argilla contro la mia bocca.
Capii che si trattava di un medicinale, dunque feci qualche capriccio
spingendolo via e versandone un po’ sui suoi pantaloni,
finché, spazientito, mi aprì di violenza la bocca
spingendo le dita contro le guance.
– Smettila e bevi, forza. – mi ammonì e
incrinò il recipiente, costringendomi a ingoiare la medicina
se non volevo che mi finisse tutta in faccia.
Vittorioso, lui si ritrasse con la ciotola ed io mi ritirai con la
bocca che sapeva d’amaro e le dita che cercavano ancora di
asciugare le lacrime, fredde e pungenti nei miei occhi infiammati,
quando avvertii di nuovo che quell’uomo stava per andare via
e ,così, tornai a ghermirlo per le spalle.
Lo presi per entrambe le braccia e lo tirai di peso verso il basso,
mentre il suo volto, ancora poco chiaro, mi fissava paralizzato da
ciò che stavo facendo, poi poggiai la fronte contro la sua
clavicola, sporgente e calda, e subito la tensione si
tramutò in un incerta quiete.
– Aspetta…– mormorai.
– Devo andare, Laura, ti prego…
– Non mi sento bene.
– Per questo hai appena preso la medicina. Rilassati, e
vedrai che farà effetto.
Annuii fioca – D’accordo…
– Ora devo andare.
– Aspetta! – lo strattonai di nuovo in basso
– Prima, devi salutarmi.
– L’ho fatto… – mi fece notare
esasperato.
– No… no, Kadar. L’ultima volta che sei
andato via, sei morto. E so che, se andari via di nuovo, non
potrò rivederti mai più, quindi voglio che tu mi
saluti. Ho bisogno di salutarti, affinché non ti veda mai
più, affinché possa cacciare via il tuo fantasma.
Lo capisci, vero?
Lo immaginai fare una faccia strana, perché le mie erano
parole folli, eppure non mi negò questo piccolo desiderio.
– Va bene, cosa vorresti che faccia? – chiese a
quel punto.
Sorrisi vaga, disegnando un cerchio con il dito sul suo petto.
– Salutiamoci, come sapevamo fare noi, Kadar.
La lascività della mia voce lo lasciò spiazzato,
un po’ a disagio, così cominciò
distrattamente a percorrere la linea della mia spina vertebrale con il
pollice, disegnando il suo percorso fino a dove il pudore lo
lasciò scendere, poi tornò su e mi prese i
capelli tra le dita.
Spinse la mia testa in avanti, pigiando la bocca contro la mia fronte,
dunque rimase in quella posizione per un po’,
finché l’avventatezza glielo permise,
finché la sterilità delle sue emozioni non lo
ripresero all’amo, costringendolo a tornare lo stesso uomo
imperturbabile di sempre.
– Se fossi lucida, non mi chiederesti mai una cosa del
genere.–sussurrò, tenendo la bocca schiacciata
contro la mia fronte.
– Lo so… – strinsi la presa sulle sue
vesti, come se provassi dolore, e ammisi – Ma ne ho bisogno.
Sentii il suo respiro diventarmi leggermente teso tra i capelli, poi la
sua mano scattò decisa a sollevarmi il mento, inondandomi il
volto con il suo respiro nervoso, giù pentito.
Mi sforzai di esser lucida in quel momento e aprii gli occhi come due
fessure, individuando, tra la nebbia della febbre e
l’oscurità del luogo, le sue labbra.
Erano carnose, un po’ rovinate, ma allo stesso tempo tanto,
tanto invitanti.
– Mi dispiace di averti ridotta così. –
lo disse piano e, allo stesso tempo, cominciò ad abbassare
la bocca all’altezza della mia. –
Vorrei…tornare indietro, per riparare a questo macello.
Dischiusi la bocca, la punta della lingua si bagnò del suo
respiro, sempre più vicino, sempre più deciso,
centimetro dopo centimetro, ma esitò quando sarebbe bastato
tendersi per venirsi addosso.
– Io ti perdono. – sussurrai.
Le sue dita tremarono un po’, immaginai che avesse chiuso gli
occhi per incapacità di guardarmi in faccia, non lo so, e lo
sentii arrivare, rigido, impacciato.
Aveva le labbra un po’ secche, come mangiate dal sole e dalle
polveri del deserto, ma erano accoglienti, molto più di
quanto serbassi del ricordo di Kadar, e questo accese un piccolo lumino
nel fondo della mia testa.
Lo ignorai.
Sentii che si allontanò per un minuto, forse per riprendere
fiato, forse per scrutare i sentimenti sul mio volto, poi
tornò a riempirmi la bocca di quel suo strano sapore che
stava tra il delicato e l’amaro di una vita che aveva il
gusto di ferro e stanchezza.
Cercai, pertanto, di metterlo a suo agio, infilando le mani tra i suoi
capelli, ma lui le ricacciò subito con un gesto secco e mi
bloccò i fianchi con un braccio.
– Sta’ ferma. – sussurrò e
notai una nota di eccitamento colorirgli la voce, dunque mi
coprì gli occhi con il palmo della mano e iniziò
a riempirmi la bocca di baci.
Poi, fece una leggera pressione contro il mio ventre e, subito dopo,
infilò un ginocchio tra le mie gambe nude.
Ricaddi sul materasso con un sussulto e subito lui venne a tapparmi la
bocca con la sua, obbligandomi a sottostare ancora una volta
all’onda dei suoi respiri e dei baci, che divenivano sempre
più secchi, più decisi e violenti, nulla a che
fare con i tocchi timidi di Kadar.
Provò a entrare con la lingua di violenza, ma io gli negai
qualsiasi spiraglio e, anzi, la morsi.
Lui guaì sottovoce e assaporò dolorante il suo
stesso sangue, poi si pulì la bocca con il polso e
tornò su di me con più prepotenza di prima.
– Ho detto, sta’ ferma! –
ribadì severo e mi bloccò i polsi con una mano,
dunque affondò di nuovo la bocca nella mia, riuscendo per un
momento ad arrivare con la punta della lingua fino al palato.
– N…no, basta! – cominciai ad ansimare e
lui ricambiò il favore di prima, mordendomi il labbro
inferiore.
Stese la mano sulla mia coscia, la fece risalire prepotente,
cominciò a cercare il bordo del vestito per sollevarlo oltre
il mio stomaco, e fu allora che il mio cervello, assopito dal vago
piacere di quel momento, si risvegliò in parte.
Irrigidii tutto il mio corpo, che fino a quel momento era stato
confortevole giaciglio per il suo, riuscii a liberare le braccia e, a
quel punto, gli colpii la guancia con il gomito, facendolo subito
retrocedere.
– Ho detto di no, cazzo! – strillai in lacrime e mi
precipitai a coprire le gambe con le lenzuola, tutte arrotolate ai
piedi del letto – Sei cattivo, lo sapevo, sei cattivo! Tu non
mi vuoi bene, vuoi solo tormentarmi!
Lui mi guardò esterrefatto, con le fauci improvvisamente
secche e la guancia che pulsava di dolore.– Non so cosa
mi…sia preso, davvero. Laura!
– No! Non ti perdono, mi hai sentito? Non ti perdono!
– gridai, e quello fu in assoluto il colpo più
doloroso sulla sua faccia.
Non disse nulla, solo chinò lo sguardo colpevole in basso,
mentre io mi rintanavo sotto le coperte, nella calura della febbre e
del pianto che mi strozzava la gola, i pensieri, i sentimenti, fino a
farmi mancare l’aria.
Passarono i minuti prima che riuscissi a calmare il respiro e, dopo il
groviglio insensato di pensieri, riuscii a trovare il coraggio per
riemergere.
Il fantasma di Kadar se n’era andato, aveva lasciato la
stanza secondo sua natura, ovvero come un brutto ricordo, portando con
se una piccola parte del mio malessere, e del mio cuore.
Sulla bocca, però, sentivo ancora quel sapore di sabbia.
E lo odiavo.
* * *
Quando mi svegliai, le campane avevano da poco diviso la giornata in
due parti uguali, accompagnando l’alzata del sole al suo
zenit proprio quando lo stomaco dei lavoratori e dei mercanti
cominciava a fare i capricci e a pretendere il meritato pasto.
Mi alzai nella stanza del rafiq, confusa e con un gran mal di testa, ma
ignoravo quale giorno fosse, quanto tempo avessi dormito lì
e, soprattutto, come ci fossi finita.
Se provavo a ricordare, tutto ciò che mi tornava alla
memoria erano brevi contatti di realtà e delirio febbrile in
cui il fantasma di Kadar era venuto a farmi visita,
nient’alto.
Sospirai, tirando un sorriso tra l’amaro e il distratto.
Però, era stato bello sentire di nuovo quella sensazione
sulla bocca, quella delle labbra di uomo contro le mie, e poco
importava se il finale non era stato felice.
Era stato reale, in qualche modo, e aveva appagato quel senso di vuoto
che ultimamente mi faceva sentire la mancanza della carne e della
passione di un giovane, qual era Kadar, e questo bastava.
Tirai indietro le coperte per poggiare i piedi sul pavimento e notai
che ero stata alleggerita di tutti gli strati inutili dei miei abiti,
ad eccezione della tunica, che ricadeva vuota sul mio corpo, forse
perché ero deperita un po’ a forza di digiunare.
Presi un ciuffo della mia chioma, disperandomi un po’ nel
vedere quanto fosse annodata e sporca, e desiderai non aver deciso a
quindici anni di non tagliarmi mai più i capelli;
cominciavano ad essere un po’ fastidiosi.
Sospirai, facendo cadere la mano sulla coscia, dopo di che mi alzai e
presi a raccattare la mia roba sparsa qua e là nella stanza.
Avevo appena rimesso i pantaloni quando arrivò il rafiq, che
entrò nella stanza con una ciotola di intruglio fumante e
una brocca d’acqua appena attinta dalla fontana, e mi
salutò cordiale.
– Vedo che ti sei svegliata, finalmente. – disse,
poggiando tutto su un mobile basso in fondo alla stanza.
Mi stropicciai un occhio con il palmo –Quanto ho dormito?
– Due giorni. Stavi covando una bella febbre, eh, ma la
medicina che ti ha somministrato Altaïr prima di arrivare qui
deve averti aiutato a sopportare più a lungo i sintomi. A
proposito, come ti senti, ora?
– Un po’ stordita e dolorante.
– Beh, diciamo solo che l’esser pestata da Tamir
non ti ha di certo giovato alla salute. – poi
indicò il mio braccio, aggiungendo – La febbre
è stata aggravata dall’infezione di quel taglio
per colpa della sabbia, ma adesso è tutto apposto, non
dovrai preoccupartene. Ho provveduto io, a prendermi cura di te durante
i tuoi deliri notturni.
La schiena s’irrigidì mentre ero ricurva sulle mie
scarpe, dunque lanciai un’occhiata ansiosa al rafiq
attraverso la coltre dei miei fastidiosi capelli.
C’era forse la possibilità remota che, quella
notte… ?
Rabbrividii appena; no, certo che no!
– Dov’è Altaïr?
– tagliai corto e mi alzai per recuperare la spada sulla
sedia.
– Ti rivesti di già? Non mangi?
– Prima, ho bisogno di parlare con lui. Non mi
dirà che quel disgraziato mi ha mollato qui mentre ero
svenuta, vero?
Il rafiq fece spallucce con aria disinteressata – Affatto. In
verità, è rimasto qui nei dintorni per tutto il
tempo della tua immobilità e tornava al tramonto per vedere
come stavi. Ora è sul tetto, se t’interessa, ma,
ehi, quindi non mangi?
– Magari dopo, rafiq, ma grazie per la gentilezza
!– mostrai il diastema con un sorriso e uscii dalla stanza
mentre mi riallacciavo i guanti su entrambi i polsi.
Quando provai a risalire sul tetto incontrai qualche
difficoltà per colpa dagli anti dolorifici che avevo ancora
in corpo e, soprattutto, dai punti ancora freschi sulla ferita al
braccio, ma questi ostacoli non fecero altro che darmi una maggior
soddisfazione una volta in cima.
Quella mattina, trovai Altaïr mentre era sul bordo del tetto,
impegnato nella consumazione di un pasto con le gambe divaricate e i
piedi penzoloni nel vuoto mentre, con sguardo lontano, osservava il
cielo e, poi, le persone per strada.
Mi annunciai rischiarendo la gola e, solo a quel punto, lui si accorse
di me.
Si voltò e per un istante incredibilmente lungo
sembrò freddato in quella posizione, con gli occhi
spalancati e la bocca serrata tra la rada barbetta, ma poi qualcosa nel
profondo lo riscosse con severità e si affrettò a
indossare la sua maschera di diffidenza.
– Finalmente cammini. Quasi non ci speravo più di
rivederti in piedi. – mi salutò così e,
presa una manciata di datteri dal mucchio, me li tirò.
Io ne presi tre al volo, mentre due caddero per strada. – Il
rafiq ha detto che ho dormito per due giorni, dopo
l’uccisione di Tamir. – cominciai, accomodandomi a
un metro di distanza da lui sul bordo del tetto.
Notai che aveva uno zigomo livido, oltre che lo sguardo basso e nervoso.
– Sì, è così. –
brontolò.
– Scusa se ho creato inutili allarmismi, di sicuro devo
averti fatto stare in pena.
Lui rifletté per qualche istante, poi addentò un
dattero con fare distratto. – Tranquilla, non mi hai fatto
preoccupare.
Io lo guardai con la coda dell’occhio, rimuginando.
– Senti un po’. – cominciai.
– Mh?
– Cosa ti è successo alla guancia?
Altaïr affondò inavvertitamente l’unghia
nel corpo del piccolo frutto che teneva tra le dita, dunque si
schiarì la gola con un colpo di tosse. – Ho
sbattuto mentre mi arrampicavo sulla cima di un campanile. Capita.
– si giustificò e inghiottì il dattero
tutto intero.
Lo guardai di sottecchi mentre un pensiero impreciso pungolò
il mio cuore, facendolo sobbalzare di dolore, poi la ragione lo rimise
subito a tacere e sul mio volto fiorì un sorriso imperfetto.
– Oh, bene. Cioè, mi dispiace.
Ripresi a mangiare in silenzio e lui fece altrettanto.
– Sai, mi sono appena ricordato una cosa, Laura.
– Cosa?
– Una volta, quando ero ancora in apprendistato, mi fu
affidata la missione di aiutare un nostro collaboratore, che barava nel
gioco e, con le scommesse, riusciva ad estrapolare informazioni sulle
attività dei Templari. Venne scoperto a barare da un tizio
in piazza e subito i loro animi si scaldarono, dunque intervenni e
uccisi quell’uomo. Non notai, però, che, in
verità, quei due si conoscessero già, e che il
loro era un gioco per confondermi. Infatti, il nostro informatore era
un doppiogiochista che lavorava per i Templari.
Mi fermai un momento per assimilare il suo discorso, poi riposi il
dattero tra il mucchio sulle mie gambe e fronteggiai il suo sguardo
esaminatore a braccia incrociate sul petto. –
D’accordo, sai che ti dico? Proverò a capire il
vero significato di questa tua storiella. – finsi di
rimuginare per pochi istanti, poi dissi con aria sarcastica –
Non sarà mica che, quest’informatore, ti ha
ricordato in qualche modo me?
– Più che altro, ho pensato a una tua vecchia
conoscenza di Tamir. – disse sprezzante e intuii al volo
l’allusione nella sua voce.
– Credi che io fossi la sua “amica”?
– Se per amica intendi compagna di letto, ebbene, per un
momento l’idea mi ha sfiorato la mente.
Sbarrai gli occhi, incredula. – Questa, poi! Ascoltami bene,
Assassino, non so che cosa tu abbia in quella testolina, ma posso
assicurarti che nella mia vita ci sono stati davvero pochi, pochissimi
uomini, e, di certo, Tamir non rientrava in questi. In oltre, non era
assolutamente un uomo da prendere in considerazione.
– Troppo vecchio? – mi schernì con
sottile divertimento.
– Troppo psicopatico! Non è l’uomo
maturo, ciò che mi spaventa. L’età
è un dato irrilevante, per me.
– Ah, quindi ti andrebbe bene anche un vecchio Assassino
rognoso come me, giusto,ragazzina?
Il cuore accelerò un po’ nel mio petto, strinsi
inconsapevolmente le ginocchia tra di loro e con le dita cominciai a
spellare un dattero.
Che razza di domanda era, quella?
– Cosa c’entriamo adesso noi due? –
obbiettai impacciata – E poi, si può sapere quanti
anni hai? Trenta?
Lui ghignò, negandomi lo sguardo con fare schivo –
Parliamo di te o di me?
– Parliamo di me. Una volta per tutte, Altaïr,
mettiamo le cose in chiaro, prima di andare avanti con le missioni e
rischiare di incappare in fraintendimenti. Non conoscevo
l’esistenza degli Assassini fino all’inizio di
Aprile, figurarsi dei Templari. Se sono rimasta a Masyaf, era
perché non avevo alcun posto dove andare ed ero spaventata,
quindi ho pensato di accettare la gentile offerta di Kadar di rimanere
nascosta con voi, finché non avessi trovato un modo per
tornare a casa. Ma poi, è accaduto ciò che
è accaduto.
– Che ti sei innamorata di tuo fratello?
Assimilai il colpo con inaspettata velocità, ma assorbirlo,
quello mi richiese qualche minuto di riflessione. – Ora stai
esagerando. – lo ripresi cupa.
– Davvero? Tu credi di non aver esagerato?
– Altaïr. – lo interruppi con voce aspra
– Se sei venuto a chiedermi di Tamir, ebbene ti
risponderò con sincerità. Ma se vuoi fare
congetture sulla mia vita privata, allora ti prego di abbandonare ogni
idea di collaborazione da parte mia. Non conoscevo quel Templare, e il
giorno in cui incontrai te e Kadar fu in assoluto la prima volta che
vidi Damasco. Questo è tutto ciò che ho da dirti.
– Non basta. – obbiettò secco.
– E allora dovrai fidarti di nuovo di me.
Guardai l’ombra dorata nei suoi occhi, scoperti come poche
volte alla luce del sole, senza la protezione del cappuccio, e capii
che gli riusciva difficile credermi, perché lui era fatto
così: sempre alla ricerca del nemico cremisi negli occhi
delle persone, degli alleati, di tutti.
Mi c’era voluto un po’, ma alla fine avevo capito
quella metafora.
Altaïr non si fidava di nessuno, neanche dei suoi amici, forse
perché la morte di suo padre per colpa di un traditore lo
aveva traumatizzato, o forse, più semplicemente,
perché aveva un brutto carattere.
In ogni caso, aveva messo a punto con gli anni un efficiente sistema di
protezione che gli ricordava costantemente di guardare più
di una volta la persona che aveva davanti e, possibilmente, di
catalogarla.
In certe circostanze, la sua mente era davvero semplice, come quella di
un bambino; blu, amico.
Rosso, nemico.
Io ero stato un omino bianco per un po’, non catalogabile in
nessuno dei due Ordini.
– Siamo già in ritardo. Il Gran Maestro ha inviato
un messaggio, è preoccupato e vuole che torniamo a Masyaf in
fretta. Forza. – detto ciò, Altaïr se ne
andò, ed io, come sempre, rimasi ammirata dalla
facilità con cui fuggiva da una discussione, anche da una
così delicata.
*
* *
Malik era partito, e anche da un po’, secondo le parole di
Rauf.
Quando tornammo a Masyaf, fu proprio lui a scortarci verso la fortezza
degli Assassini, facendoci passare per il campo
d’allenamento, che, a quell’ora, era già
popolato da ragazzini alle prese con i primi addestramenti.
Io e Altaïr ci trascinammo a stento dieto di lui, che nel
frattempo ci ragguagliò sulle nuove della casa e, non senza
un certo orgoglio, che era stato promosso come nuovo allenatore delle
reclute, per la sua “ innata capacità di empatia
verso i novellini e le sue conoscenze tecniche”.
Ero sinceramente felice per lui, ma la stanchezza del viaggio era
evidente e per questo fui ben felice di incontrare subito il Gran
Maestro, così da poter far visita a Malik e poi, finalmente,
correre a letto.
Fu allora che, tra imbarazzo e fretta, Rauf mi riferì della
sua partenza per Gerusalemme all’inizio del mese scorso,
mentre ero in viaggio.
Altaïr non parve molto sorpreso e non si lasciò
andare a commenti mentre salivamo le scale, ma io, io ero ammutolita,
completamente fuori di me, e anche un po’ triste.
Allora, era vero che per Malik non avevo nessuna rilevanza, tanto da
lasciarmi senza degnarmi neanche di una spiegazione, di un saluto, di
nulla.
Come se non esistessi.
Arrabbiata com’ero, quasi non badai alle parole del Gran
Maestro, che sembrava cercare la mia testimonianza più che
quella di Altaïr, il quale maturò, parola dopo
parola, la strana sensazione d’esser stato messo da parte
nella sua stessa missione.
– Cos’è quella faccia buia,
Altaïr? – aveva allora detto Al Mualim, mentre gli
allungava il bracciale con la lama celata – Sei appena stato
elevato al rango di Iniziato e hai riavuto la tua arma, dunque
perché non sorridi?
Il giovane trattene un’occhiata glaciale al suo Maestro, poi
prese il bracciale a testa bassa e lo indossò, trovando
subito un certo conforto nel suo famigliare scricchiolio
all’azionamento del meccanismo.
Il vecchio canuto osservò la lama uscire dal bracciale del
suo adepto con una certa inquietudine, poi guardò me e sul
volto tornò la calma.
– Ora che Altaïr è di nuovo un Iniziato,
figliola mia, potrà darti ordini sul campo di ricerca, ma,
ovviamente, non verrà meno il tuo ruolo di supervisore.
È importante che tu lo tenga sulla retta via, mi raccomando.
Ricordai che annuii quasi meccanicamente a quell’ordine e
che, in qualche modo, mi sentii un po’ sottomessa, come se
non dovessi pensare; fu una sensazione davvero sgradevole.
Il tintinnio degli anelli dell’uomo che stavo pedinando mi
proiettò di nuovo sulle mie mani, sudate e tese verso i suoi
fianchi grassocci, da cui pendeva un astuccio con la pergamena, proprio
mentre quello si grattava una natica con le unghie.
Fu allora, che mi ricordai d’esser in piena missione di
ricerca ad Acri, e che Altaïr attendeva il mio ritorno per
iniziare la caccia al nostro secondo bersaglio nella lista.
Feci una smorfia di disgusto, poi, senza alzarmi dalla posizione
acquattata, allungai la mano verso i fianchi opulenti
dell’uomo e sfilai l’astuccio con destrezza davvero
ammirevole, come mi aveva insegnato Malik.
Una volta che ebbi guadagnato il bottino, sgattaiolai via
dall’angolo della bottega prima che l’uomo si
rendesse conto di esser appena stato derubato, e sparii nella strada.
Acri era una città piegata su se stessa, cenacolo di guerre
intestine, intrighi e contese tra mussulmani e cristiani, baccello
gravido di pestilenze che avevano spazzato via metà della
popolazione e continuava a mietere vittime.
La presenza di un morbo mi preoccupò parecchio, ma
Altaïr mi assicurò che non c’era pericolo
d’infezione se non si veniva a contatto con le acque
contaminate dei canali e, soprattutto, se si evitavano i pazzi del
lazzaretto.
Dopo qualche tentativo a vuoto, ritrovai il vicolo del covo e mi calai
nel bureau silenziosamente, dirigendomi a capo coperto verso la
stanzetta da cui evadeva il profumo amabile di libri e vecchi volumi di
medicina.
Quando entrai nell’ufficio, Jabal, il rafiq che avevo
conosciuto quella mattina, mi salutò con un sorriso sdentato.
– Salute e Pace, Laura. – disse – Hai
trovato qualcosa d’interessante, in città?
Annuii con un sorrisino, porgendogli la pergamena
nell’astuccio – Ho origliato la conversazione di un
uomo con uno delle guardie di Naplusa, che gli ha dato questa.
– spiegai.
Il rafiq annuì pensieroso e prese l’astuccio tra
le dita consunte dall’inchiostro e dalle pagine dei suoi
libri, dunque cominciò a leggere silenziosamente, dandomi
così qualche minuto per rilassarmi con un braccio poggiato
sul bancone.
Giunti ad Acri, Altaïr mi aveva portato da Jabal, che, come
tutti, mi aveva accolto con riserbo e leggera sfiducia, tuttavia era
bastato che parlassi un po’ per incantarlo; alquanto pareva,
aveva un debole per le donne che sapevano leggere, ed io, che avevo
riconosciuto uno dei libri di Galeno, “De naturalibus
facultatibus”, presente nella raccolta di mia madre, riuscii
ad accattivarmi la sua parlantina.
Jabal era un uomo di mirabile intelligenza, colto e di larghe vedute,
ma, per quanto avrei voluto parlare con lui della sua collezione sugli
scaffali, gli sbuffi e le occhiate al soffitto di Altaïr mi
ricordarono che eravamo in missione.
Il rafiq ci ragguagliò sul nostro bersaglio, Garniero di
Naplusa, Gran Maestro degli Ospitalieri, che aveva cominciato a
condurre strani esperimenti sui suoi pazienti, soprattutto quelli
mentalmente malati.
Non fui molto entusiasta all’idea di dare la caccia a un uomo
del genere, che riusciva a evocare nel mio immaginario scene orribili,
che avrebbero fatto accapponare la pelle di chiunque, ma non potevo
fare altrimenti.
– Bene. – Jabal richiuse la lettera
quand’ebbe finito di scorrerla con gli occhi, dunque la
ripose su una catasta di libri e mi disse – Può
bastare così, Laura. Raggiungi Altaïr e digli che
potete cominciare la missione. Il bersaglio è
all’Ospedale di Acri, dove si è rinchiuso da
giorni, oramai, a fare il cielo sa che cosa.
– Perfetto. Salute e pace, rafiq.
– Buona fortuna, Novizia, e torna intera, vorrei mostrarti
dei libri che potrebbero interessarti. Ah, che fortuna ho avuto
nell’incontrare qualcuno con cui poter ragionare su argomenti
così sublimi, in mezzo a questo branco di capre!
Sorrisi a quella affermazione e risalii sul tetto, dove vidi il sole
cominciare a calare tra le case; così, intrapresi una gara
contro il disco rosso, sfidandolo a raggiungere l’orizzonte
prima del mio arrivo all’Ospedale.
Il sole aveva tinto di scarlatto il profilo dei tetti quando arrivai
vittoriosa sulla cima di una casa antistante al luogo dove si
nascondeva Naplusa.
Passai in rassegna la zona: l’Ospedale era un edificio
scarno, fatiscente, racchiuso da mura vecchie quanto la
città stessa, circondata da un numero notevole di persone,
che supplicavano di ricevere le cure per i loro malanni, ma
l’accesso era negato da alcune guardie all’entrata.
Perché non potevano passare?
– Ganriero è protetto dalle mura e da un gruppo di
guardie scelte. – Altaïr giunse alle mie spalle
senza far alcun rumore, affiancandomi sul bordo del tetto.
Io rimasi nella mia posizione acquattata, scrutandolo dal basso come un
felino in allerta.
– Perché Garniero non fa entrare quelle persone?
– domandai allora io.
– Non mi preoccuperei di questo, adesso. Piuttosto, le
guardie avrebbero dovuto fare il cambio al tramonto, e invece sono in
ritardo. Rischiamo di perdere Garniero, se non troviamo un modo per
entrare.
Aggrottai la fronte mentre tornavo a fissare l’edificio,
aperto al centro in un giardino che lasciava intravedere
l’interno, poi tornai alla piazza e notai che le guardie
lasciavano entrare, o meglio schivavano disgustati, solo i pazzi che
vagavano come mosche intorno alle mura puzzolenti del lazzaretto.
Rabbrividii per la mia stessa idea, ma, al momento, mi parve la cosa
più ovvia da fare.
– Senti, forse ho un piano. – cominciai.
– Prima devo parlarti. – m’interruppe
lui.
Alzai lo sguardo confuso e lo trovai mentre si massaggiava gli occhi
con le dita, dunque sospirò e tornò a guardarmi
con i bulbi dorati un po’ rossi. – Io mi fido di
te, Laura. – disse – Mi sono sempre fidato di te,
anche quando la coscienza mi diceva che era sbagliato. Qualcosa in me,
qualcosa di estremamente stupido, mi ha spinto a fidarmi. Quindi, ti
credo se mi dici che non conoscevi Tamir. Ti credo, e ci tenevo a
dirtelo.
Per un momento rimanemmo a fissarci l’uno negli occhi
dell’altro, silenziosi, impacciati, un po’ sorpresi
di scorgere una persona completamente nuova, diversa da quella con cui
avevamo cominciato il nostro viaggio due mesi fa.
Perché, per qualche strano motivo, ultimamente diventava
sempre più facile parlare senza dover necessariamente
nascondere i nostri reali pensieri, senza dover temere il giudizio
dell’altro, perché eravamo compagni
d’armi.
Del resto, doveva capitare, dopo un anno, no?
In quei mesi di missioni, tra le traversate di terre a me sconosciute e
distese di polvere, Altaïr era diventato il perno della mia
giornata, l’unica persona con cui parlare, una persona,
scoprii, più umana di quando lo avevo conosciuto per la
prima volta.
Guardando meglio l’uomo che avevo davanti, mi ero resa conto
che ciò che da prima era solo una timida intenzione si era
tramutata, col tempo, in una vera e propria metamorfosi;
Altaïr stava cambiando, anzi, voleva cambiare, ma era ancora
difficile per lui.
Ci stava provando, però.
E ,alla fine, finimmo con il perdonarci tutto.
Io, finii con il perdonarlo.
– Grazie, fratello. – sorrisi piano, di cuore, e
lui sentì subito l’animo alleggerirsi un
po’.
– Allora, Laura: qual è il piano?
– Ancora non lo so, ma ho bisogno che tu mi procuri degli
abiti popolani. E speriamo nella buona sorte.
– La buona sorte non c’entra nulla. –
obbiettò e, con un balzo leggero, sparì oltre
l’orlo rossastro dell’edificio, verso la piazza.
Angolo autrice: Salve a tutti i miei cari lettori! Dunque, diciamo che
questo capitolo si è incentrato un po’ di
più su Laura e Altaïr e sul loro rapporto che, a
distanza di quasi un anno, comincia a maturare in qualcosa di
completamente diverso. Ho tralasciato l’episodio di Tamir per
inserire il piccolo scorcio di delirio notturno della nostra cara
protagonista, che, diciamocelo, forse tanto incosciente quella notte
non lo era…
Comunque, nel prossimo capitolo riprenderemo l’episodio di
Tamir e il sogno del serprente; finalmente, Laura
avrà una rivelazione…
Come sempre, la mia gratitudine per il vostro sostegno cresce giorno
dopo giorno, e vi ringrazio dedicandovi questa storia. :)
Baci, Lusivia.
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