Questa è la vita

di Dani85
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Venuto al mondo ***
Capitolo 2: *** Questioni di magia ***
Capitolo 3: *** Ombre ***
Capitolo 4: *** Cinque ***
Capitolo 5: *** La voce del silenzio ***
Capitolo 6: *** Di casa in casa ***
Capitolo 7: *** Di gobbiglie e frittelle ***



Capitolo 1
*** Venuto al mondo ***


N.d.A
Salve, rieccomi nel fandom di HP :) Stavolta si tratta di una raccolta: il protagonista sarà Remus, più ovviamente le persone che gli sono state accanto (capiteranno quindi, storie scritte da punti di vista non suoi). Nessuna particolare pretesa, tenterò semplicemente di raccontare la vita di Remus, nel bene e nel male: flash di istanti o di pensieri o di sensazioni.
Questa prima shot è ambientata subito dopo la nascita di Remus e la felicità di Hope è volutamente “ingenua”: è una neo mamma che contempla il suo bambino e tutto le pare bello e facile. Poi la vita le dimostrerà che l'amore non basta a esser felici, che ci vogliono le condizioni giuste e che ci vuole fortuna, ma in quel momento di pura felicità lei ci crede davvero.
Ah sì, a proposito di Hope: le informazioni sulla vita di Lupin e sui suoi genitori vengono dalla biografia che la Rowling ha scritto per Pottermore; Martha invece è una mia invenzione e tornerà in altre storie. È tutto: buona lettura ^^

Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli elementi di mia invenzione, non esistenti in HP, appartengono solo a me.
Note: Infanzia di Remus – Citazione iniziale da “Nascita” di  Rabindranath Tagore


Questa è la vita

Venuto al mondo


Venuto al mondo

La mamma ascolta,
piange e sorride mentre stringe
al petto il suo bambino:
«Eri un desiderio
dentro il cuore!»

[Nascita – R. Tagore]


Martha lanciò un'ultima occhiata al fagotto tra le braccia della figlia e poi sgusciò fuori dalla stanza chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle. La casa dormiva ancora tutt'intorno a lei e la notte – e il cuore le fece un'assurda capriola nel petto – aveva appena accolto il suo nipotino.
Remus.
La donna ne assaporò il nome, lo sentì scivolarle addosso, sottopelle, strapparle un pezzettino di cuore e occuparlo. Era diventata nonna e le piaceva. Le piaceva da morire. Il bambino piagnucolò dietro la porta chiusa e lei ridacchiò, la gioia che la faceva sentire come se camminasse a mezzo metro da terra e l'emozione che le vibrava in ogni centimetro di pelle. Con il sorriso ancora stampato sulle labbra, si sistemò alla bell'e meglio i capelli che erano sfuggiti dalla crocchia in cui li raccoglieva sempre e si avviò verso le scale.
Chissà se stordito com'era dalla felicità, quello strambo ma adorabile ragazzo che era suo genero era riuscito a trovare quella sua geniale macchina fotografica che faceva le foto che si muovevano.

 

*


Al di là della finestra, la notte stava degradando da un nero inchiostro a un blu slavato, mentre Hope e il suo piccolino riprendevano fiato. Sprofondata tra i cuscini, il peso del bambino era piacevolissimo tra le braccia e il petto, vero e rassicurante ora che le riempiva le mani e gli occhi e il cuore e tutto il suo intero universo.
«Remus» lo chiamò piano, la voce piena di una dolcezza tutta nuova, le labbra che gli sfioravano la fronte e un dito che seguiva la curva della guanciotta tonda.
«Sei bellissimo, amore mio!» gli sussurrò, mentre lui si muoveva nel suo abbraccio e due minuscoli pugnetti facevano capolino dalla copertina. Hope sorrise, semplicemente incantata, e gliene afferrò uno accarezzandolo delicatamente – e questo si aprì in una piccolissima manina, cinque perfette ditina che sembravano rincorrere l'aria.
Era perfetto, Remus. Dieci piccole ditina delle mani e dieci piccole ditina dei piedi – contate una ad una come i grani di un rosario –, le urla senza lacrime del primo pianto che avevano riempito con vigore la stanza, un paio di occhi opachi che si erano subito aperti sul mondo.
Perfetto.
Hope sentì gli occhi farsi di nuovo lucidi, mentre si perdeva a contemplare suo figlio – e le sue manine che si agitavano davanti al viso e i suoi piedini che le scalciavano debolmente contro – e li notava, ancora una volta, palesi nel faccino rotondo: i capelli chiari e il taglio degli occhi che erano i suoi, la forma del naso e della bocca che erano di Lyall. Inequivocabili. Anche se suo marito non li aveva notati e aveva riso a sentirla parlare, incredulo per tutte quelle somiglianze che lei era riuscita a trovare in un esserino che aveva appena una manciata di minuti di vita. Lui vedeva un bambino meraviglioso e gli bastava: ci sarebbe stata un'eternità intera per scoprire a chi sarebbe somigliato.
Oltre la finestra, la notte continuava a stingere e la stanza cominciò a rischiararsi di bagliori azzurrati: l'alba del 10 marzo si apriva sul sonno dell'ultimo arrivato in casa Lupin.
Hope si sistemò meglio contro i cuscini, mentre lasciava scivolare una mano lungo il corpicino di Remus, solido e caldo tra le pieghe della coperta che sua madre aveva fatto appositamente per lui, e con un sospirò si abbandonò all'indietro, la stanchezza e la fatica di quelle ultime ore che le chiudevano gli occhi. Il torpore le strisciò addosso e l'avvolse mentre, dietro le palpebre chiuse, si proiettò un improvviso flash di se stessa seduta nella vecchia compagnia di assicurazioni a Cardiff durante la pausa, intenta a sfogliare riviste e a leggiucchiare l'oroscopo.
Hope sbuffò una specie di risolino.
Pesci. Suo figlio sarebbe stato sognatore e intuitivo, generoso e insicuro, comprensivo e riservato, più un mucchio di altre cose che ora era troppo stanca per ricordare. Sorrise: le pareva un buon cielo quello sotto cui era nato il suo bambino. Sull'insicurezza, se mai ci sarebbe stata, ci avrebbero lavorato, lei e Lyall, loro e il loro amore. Sarebbe bastato quello, sarebbe stato tutto quello che sarebbe servito. Per essere felici, per non avere dubbi, per crescere un uomo che fosse sicuro di meritare ogni briciola di quello stesso amore che gli era esploso attorno. Sarebbe bastato.
Hope ne fu sicura quando sentì la porta cigolare e il letto piegarsi sotto il peso di qualcuno accanto a sé. La mano gentile di Lyall le scostò i capelli umidi dalla fronte e lei si sforzò di riaprire gli occhi. Quando ci riuscì, lo scoprì a guardarla: intenso, felice, innamorato come mai lo aveva visto. E lei si sentì letteralmente traboccare d'amore a vederlo, mentre si lasciava stringere un dito da quelle minuscole di Remus – che era il loro amore fatto carne e sangue e capelli chiari e guanciotte morbide.
«Allora, come hai detto che funziona questa cosa?» chiese Martha, la voce che ancora tremava di emozione e di agitazione.
Lyall trattenne a fatica una risata.
«Così!» le disse e le rigirò la macchina fotografica magica tra le mani.
«Oh bene, allora cominciamo! Voglio un sacco di fotografie che si muovono del mio nipotino!» dichiarò entusiasta e il primo click risuonò nella stanza. E poi un secondo click e un terzo. E tanti piccoli fagottini immbacuccati dentro delle copertine bianche apparirono l'uno dopo l'altro, manine che si agitavano e boccucce che sbadigliavano.
Hope rise, mentre si aggiustava Remus tra le braccia e Lyall le scivolava di nuovo vicino ad abbracciare entrambi, amore dentro amore. E sarebbe bastato quello a loro, in tutta la vita che sarebbe venuta. Era tutto ciò che gli sarebbe servito.

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Capitolo 2
*** Questioni di magia ***


N.d.A.
Un paio di piccole note introduttive: questa seconda shot non è altro che uno sprazzo di vita quotidiana, nessuna pretesa se non raccontare un attimo di quotidianità: una nonna, un bambino goloso e un po' di magia.Siamo sempre durante l'infanzia di Remus, intorno ai suoi tre anni.
Buona lettura :)
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli elementi di mia invenzione, non esistenti in HP, appartengono solo a me.
Note: Infanzia di Remus – Citazione iniziale di Novalis

 

Questa è la vita

Questioni di magia


Questioni di magia

Dove c'è un bambino
c'è un'età dell'oro

[Novalis]


Si poteva dire che Martha avesse fatto una certa abitudine alle stranezze, davvero! Il tempo degli svenimenti e delle crisi isteriche era diventato un ricordo ormai, e il fatto che gli oggetti parlassero o che le scope volassero o che i quadri le chiedessero come stava, erano tutte cose che aveva accettato. Ci si era rassegnata insomma, con la stessa fede con cui si crede a qualcosa di incomprensibile.
Eppure, nonostante tutto, avrebbe giurato che l'istinto omicida degli scacchi fosse strano, troppo strano, persino per l'assurdo mondo dei maghi.
«Urgh, quei così... sì, gli scacchi... hanno per caso preso in ostaggio Remus?» chiese la donna, il tono un po' incerto di chi sa di avere appena fatto una domanda da pazzi.
Lyall, accanto a lei, deglutì a vuoto.
«Oh, mmm no... No, certo che no! Sono solo un pochino arrabbiati, ecco... Stavo facendo vedere a Remus come si gioca e lui ha spostato un paio di pedoni, così un po' a caso, e a loro non è piaciuto... Tutto qui!» spiegò confusamente stringendosi nelle spalle.
«Ah, quindi stanno solo cercando di ucciderlo!»
Lyall sobbalzò. Ok, gli scacchi magici avevano un'indole un po' violenta e molto poco accomodante, ma di certo non stavano tentando di ammazzare il suo bambino. Martha stava esagerando.
«Stanno solo protestando per come li abbiamo spostati, niente di più. E poi la Regina ha un debole per Remus!» precisò, come se questo risolvesse tutto, come se fosse una sorta di assicurazione sulla vita, una garanzia per l'incolumità del suo piccolino.
Martha gli rifilò un'occhiata obliqua al di sopra della propria spalla e poi, con le sopracciglia spettacolarmente inarcate, tornò a fissare la scena che aveva davanti.
Remus era ancora lì, premuto contro il divano, le manine aggrappate al bordo e gli occhi spalancati come rotondi piattini da tè, mentre sul tavolino gli scacchi se le cantavano di santa ragione. I pezzi bianchi avevano fastidiosi toni striduli e concitati e puntavano i pugni minuscoli e minacciosi contro il bambino, i pezzi neri sobillavano la rivolta e la Regina strepitava a più non posso al grido di «Lasciatelo stare, ve lo ordino!»
Tutto quello era folle, assolutamente folle. Intanto, Remus si era arrischiato a staccare una mano dal divano e fece ciao ciao alla nonna. Martha sorrise. Lyall sospirò. Un pedone perì sulla scacchiera.
«Va bene, metti via quei così, subito!» intimò la donna, e sottolineò le proprie parole con un precisissimo manrovescio assestato in pieno petto al genero, «Poi, prendi tutte queste buste e portale in cucina!»
Lyall obbedì con la riverenza e il contegno di un perfetto soldato.

 

*


Le buste planarono sul tavolo della cucina in un'allegra processione di stoffa a quadri e si ammassarono l'una accanto all'altra, traboccanti di ogni genere di cose. Lyall si era ormai convinto che sua suocera svaligiasse un paio di negozi babbani ogni volta che andava a trovarli.
«Cosa dobbiamo farci con tutta questa roba?» le chiese divertito, mentre con piccoli colpi della bacchetta annodava i manici di una borsa in un bel fiocco e Remus gli saltellava vicino e tendeva le mani per afferrarla.
«La cuciniamo, no? Che domande...» borbottò Martha, che aveva appena tirato fuori un grembiule da un cassetto. I manici della borsa si afflosciarono senza vita e Remus protestò, rifilando al padre uno sguardo vagamente truce.
«Papà!» si lagnò, pungolando la stoffa con un ditino grassoccio.
Martha osservò, dunque, la busta che aveva appena svuotato svolazzare sul tavolo, ad un soffio dalle manine tese del bambino, che rideva e si spingeva sulle punte dei piedi per acchiapparla. Ed era bella la risata di Remus, limpida e argentina come solo quella dei bambini riusciva ad essere, di quelle che istupidivano i grandi, rendendoli cedevoli e malleabili come argilla.
Proprio come accadeva a Lyall, pensò Martha, che faceva l'idiota con la bacchetta e una borsa di stoffa solo per divertire suo figlio.
«Forza, voi due! Fate i bravi e aiutatemi!» li richiamò alla fine, sbattendo le mani.
«Agli ordini!» ridacchiò Lyall, un ultimo movimento di bacchetta che faceva atterrare la borsa sulle manine aperte di Remus e lo stesso sorriso dispettoso del piccolo, mentre lo guardava allungarla in alto verso la nonna.

 

*


A Martha era sempre piaciuto cucinare, ma ne riscopriva l'assoluto piacere soprattutto durante le feste o quando semplicemente piombava a casa della figlia. Allora, prendeva pieno possesso della cucina, relegava Hope al ruolo di aiutante e spignattava per pomeriggi interi, con Remus che le trotterellava intorno nella speranza di rubarle almeno uno di quei biscotti che portava già pronti da casa. E Remus li aveva già individuati quei biscotti, rotondi e incrostati di pezzettini di cioccolato, costretti dentro un paio di sacchetti trasparenti, in mezzo alle altre cose con cui la nonna aveva riempito il tavolo. Forse avrebbe potuto averli tutti per sé, se solo fosse riuscito a prenderli senza che i grandi se ne accorgessero. Con le manine premute sulla bocca, spiò la nonna che tirava fuori le pentole dalla credenza e poi si allungò in tutti i suoi quasi tre anni, praticamente steso per metà sulla tavola. Agitò le ditina verso i sacchetti ma non arrivò nemmeno a sfiorarli: il papà lo aveva rimesso dritto, inginocchiato sulla sedia.
«Stai seduto bene o ti faccio scendere!» gli aveva detto, un buffetto schioccato sulla punta del suo nasino, e aveva spinto un po' di più la sedia sotto il tavolo.
Remus aveva gonfiato le guance e poi aveva sbuffato, sibilando come un palloncino bucato, mentre la nonna svuotava uno dei sacchetti nel barattolo di vetro accanto alla cucina.
«Dopo, la nonna te ne dà uno!» esclamò Martha rimettendo a posto il barattolo.
«Ora!» provò il bambino, la vocina sottile sottile.
«No tesoro, dopo! Quando ci sarà anche la mamma!»
A Remus parve un po' una fregatura quello che aveva appena detto la nonna, perché la mamma era uscita già da un sacco di tempo e chissà quando sarebbe tornata.
«Per favoooore!» piagnucolò, sfoderando un paio di incredibili occhi dolci.
«Oh...» tentennò Martha, ma poi captò Lyall che si mordeva un labbro per non ridere e si schiarì la voce. «No, dopo! Aspettiamo mamma!» ripeté e registrò con soddisfazione il proprio tono sicuro e deciso, così che non potesse essere accusata di viziare il nipotino.
«Papà, quando viene mamma?» chiese allora Remus, e la sua domanda suonò lamentosa e impaziente.
«È uscita a fare compere, lo sai! Ma sono sicuro che sarà qui tra pochissimo!» lo tranquillizzò Lyall e il figlio annuì serio serio: il pochissimo gli sembrava andasse bene per aspettare di avere il suo biscotto.
«Nel frattempo, tu mi dai una mano a preparare la cena! Tieni!» fece Martha e passò a Lyall un coltello.
L'uomo lo guardò perplesso, come se non avesse ben chiaro cosa dovesse farci, e la suocera lo squadrò con la medesima occhiata indecisa. Era assolutamente certa che anche i maghi usassero i coltelli: quindi che c'era di strano?
«Non lo sai usare?» chiese dubbiosa.
«No no, certo che lo so usare ma, ecco, non come i babbani. Cioè, se devo farci qualcosa di particolare, mi sentirei più a mio agio se potessi incantarlo!» le spiegò lui, un mezzo sorriso storto e le dita che torturavano i capelli sulla nuca.
Ok, aveva un senso o, almeno, le sembrava ne avesse. D'altronde, la casa era sì, babbana in tutto e per tutto, costruita su misura per Hope, ma era pur sempre abitata da un mago abituato a fare le cose in tutto un altro modo e da un maghetto che traboccava di magia e che era capace di farti volare un giocattolo in testa quando meno te lo aspettavi. Bisognava prenderci le misure, in qualche modo. Superato il rischio di infarto, poi, era tutta una questione di abitudini diverse e magia involontaria, di equilibrio e pazienza.
«Be', immagino che tu abbia ragione. Per me puoi anche incantarlo quel coltello, basta che poi peli tutte quelle patate!» concesse infine Martha, e indicò la reticella poggiata in fondo al tavolo.
«Nessun problema!» commentò Lyall e, estratta la bacchetta dalla tasca, incantò il coltello che rimase sospeso a mezz'aria alla sua destra; poi, puntò la reticella, disegnò uno strano simbolo in aria mentre borbottava qualcosa, e le patate si disposero in un'ordinata fila. Una ad una si avvicinarono al coltello, intanto che lui lo teneva sotto controllo, e si lasciarono pelare, la buccia che si srotolava come un nastro.
Remus seguiva la scena ridendo e ogni tanto provava a rompere la fila delle patate, creando scompiglio con le manine tese.
«Ehi? Sono a casa!»
La voce di Hope arrivò squillante dall'ingresso, insieme al tonfo della porta che si chiudeva. Lyall depositò il resto delle patate sul tavolo con uno scatto della bacchetta, poi si alzò e sparì fuori dalla cucina.
«Visto? La mamma è arrivata!» esclamò Martha, guardando il nipotino con la coda dell'occhio, impegnata a far sfrigolare qualcosa in una pentola.
Remus si agitò sulla sedia, dondolando sulle ginocchia. Se la mamma era arrivata, voleva dire che il pochissimo era passato e lui poteva avere i biscotti.
«Biscotto!» mormorò allora, gli occhi chiari socchiusi nel faccino concentrato e le manine allungate quanto più poteva davanti a sé. Il barattolo di vetro si mosse sul mobile e schizzò in aria, ondeggiando allo stesso ritmo con cui il bambino ridacchiava.
«Ciao mamma!»
Il saluto di Hope, comparsa sulla porta della cucina, aveva una strana nota titubante. Incuriosita, Martha abbassò la fiamma sotto un fornello e si girò: il barattolo dei biscotti le stava fluttuando precisamente davanti agli occhi e lei urlò.
Spaventato, Remus si appiattì contro la sedia e perse il controllo del barattolo che cadde a terra in una pioggia di schegge di vetro.
La donna batté un paio di volte le palpebre, come per schiarirsi le idee, mentre Hope e Lyall se ne stavano sulla porta: lei con le mani sulla bocca, lui con la testa incassata nelle spalle.
«Papà, io volevo solo i biscotti...» si difese Remus, anticipando tutti e rivolgendosi a quello che sembrava il meno sconvolto dei grandi.
Martha guardò una volta i biscotti tra i vetri rotti e poi il nipotino: gli occhi verdi chiaro si erano fatti più grandi e lucidi e l'aveva visto tirare su con il naso.
«Oh no, no, amore! Non è successo niente! Il barattolo lo ripara papà, con quel suo incantesimo, riparo, aggiusto, quello che è!» si affannò Martha, incurante degli sbuffi che provenivano dalla porta. Che la accusassero pure di viziare il bambino, non le importava. Del resto, se lei non avesse urlato, Remus non avrebbe lasciato cadere il barattolo: non esisteva che il piccolo piangesse per una cosa di cui non aveva colpa.
«E per i biscotti,» continuò complice, «ecco qui! Tutti i biscotti che vuoi!»
E l'altro sacchettino si aprì davanti a Remus.
«Grazie, nonna!»
E un gran sorriso, uno sguardo solo un po' umido, una carezza tra i capelli e qualcuno che esclamava «Reparo!»

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Capitolo 3
*** Ombre ***


N.d.A.
Salve : ) Dunque, terza shot e si cambia registro. Siamo su un piano più introspettivo e cupo, la sera dopo lo scontro al Ministero tra Lyall Lupin e Fenrir Greyback. È notte di Luna Piena e be', sappiamo cosa succederà a Remus. Queste sono le sensazioni di Lyall nelle ore che precedono il dramma, senza particolari aspettative. Ah, Remus qui ha quasi cinque anni e, insieme alle info sulla dinamica della sua aggressione, è un dato che deriva dalla sua bio che J.K. Rowling ha scritto per Pottermore.
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli elementi di mia invenzione, non esistenti in HP, appartengono solo a me.
Note: Infanzia di Remus – Citazione iniziale da “Chioma di Luce” di Manuel Altolaguirre 
 
Questa è la vita
Ombre

Ombre

Se è così triste la notte,
è triste per colpa mia

[Chioma di Luce – M. Altolaguirre]

Lyall affrettò il passo, desideroso di mettere quanta più distanza possibile tra sé e i colleghi di quell'improvvisato gruppo di lavoro. Ignorò la coda di risatine sarcastiche che sentì quando imboccò le scale e le percorse di fretta, senza mai voltarsi indietro. Respirò davvero solo quando fu in strada, il Ministero della Magia invisibile da qualche parte alle sue spalle.
Era stata una giornata assolutamente terribile, l'eco della serata precedente che lo aveva seguito in ogni angolo del Dipartimento per la Regolamentazione e il Controllo delle Creature Magiche, appiccicato addosso lungo i corridoi, tra i muri, nelle stanze del Ministero intero. Si era sforzato di essere sordo ai pettegolezzi sul suo scatto di rabbia, ma aveva lavorato male: ancora non riusciva a credere che esperti di creature oscure avessero potuto lasciarsi abbindolare da quel Greyback. E invece era andata proprio così: maghi che si professavano ben più esperti e capaci di lui si erano bevuti la storiella del senzatetto Babbano e avevano lasciato andare quello che in realtà era, senza alcun dubbio, un Lupo Mannaro. Avevano ignorato ogni segno, ogni atteggiamento, tutto. E ora si ritrovavano con un licantropo a piede libero, accusato di avere attaccato e ucciso due bambini. Di peggio non sarebbe potuto capitare.
Lyall sospirò, mentre deviava la sua strada e si infilava in un vicolo. Era buio e il freddo di febbraio gli strisciava fin sotto il mantello, dentro le ossa. La notte precoce dell'inverno lo nascondeva quanto bastava per non attirare troppo l'attenzione, lui e le sue occhiate indagatrici, lui e i suoi abiti da mago. Scivolava come un'ombra tra le ombre, a cercare nemmeno lui sapeva bene cosa.
Un riscatto? Una specie di prova da sbattere in faccia a quanti lo avevano deriso? Cosa diavolo stava cercando davvero lì, tra la sporcizia e il degrado dei bassifondi londinesi? Era davvero una semplice questione di orgoglio?
Lyall strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, l'orgoglio ferito che si ritirava come un'onda di sale che lasciò una scia di bruciante angoscia. Era quello ad averlo portato lì, l'angoscia che quel Greyback attaccasse di nuovo, con la Luna Piena alta in cielo e il Ministero preso per i fondelli.
Nel cono di luce di un lampione, un fuoco divampava tra le pareti di un bidone di metallo, le fiamme che guizzavano a un soffio dalle mani tese degli uomini che vi si riscaldavano vicini. Lyall si appoggiò al muro e strinse meglio gli alamari del mantello, lo sguardo che saettava sulle figure cenciose e sulle loro schiene curve. Cosa si aspettava di trovare tra le fiamme di quel fuoco? Gli occhi ferini sul viso scavato di Greyback? Quel suo ghigno indolente sulle labbra sottili, magari proprio mentre la Luna Piena lo trasformava? Per fare cosa poi? Per attaccarlo? Assurdo, era un pensiero assurdo: pensare di attaccare un Lupo Mannaro era come condannarsi a morte con le proprie mani o, nella migliore delle ipotesi,  a un futuro che sarebbe stato una maledizione.
Lyall si passò una mano sul viso e tra i capelli, infinitamente stanco. Era assolutamente consapevole che non avrebbe trovato lì Greyback, ma era un tentativo che doveva fare. Per la sua coscienza, per acquietarla, per dirsi che le aveva provate tutte, anche cercare da solo un licantropo vicinissimo alla trasformazione.
La luce del lampione sfarfallò, lingue di fuoco che la ingrigivano di fumo, mentre lui si spostava dal muro con una spinta delle spalle. Non aveva senso stare lì, non era lì che avrebbe trovato Fenrir, a fingersi il senzatetto delle sue frottole. Non quella notte, con la Luna che sarebbe sorta da lì a poco, tra i nuvoloni minacciosi e sempre carichi di pioggia dell'inverno britannico.
Qualcosa frusciò alle sue spalle, e fu come se il buio respirasse e avesse occhi e avesse mani pronte ad afferrarlo. Il fuoco che crepitava nel bidone di metallo però, fu tutto ciò che Lyall vide, il respiro e gli occhi e le mani che erano ombra e sembrarono solo angoscia.
 
*

Il vicolo buio era sparito nel suono morbido della Smaterializzazione, che era stata un pop soffice tra il fruscio del boschetto comparso tutto intorno a Lyall. Alti alberi dai rami scheletrici sembravano quasi danzare nel vento e proiettavano ombre tremule e confuse, sotto la luce dei lampioni lontani e del cielo che scappava tra le nuvole. Quella sera, con l'angoscia che gli mangiava il cuore, anche quel boschetto, che gli era familiare e che conosceva come le proprie tasche, sembrava nascondere ogni sorta di possibile pericolo. Dal vento che sibilava alle foglie ghiacciate che scricchiolavano sotto i suoi stessi piedi, tutto sembrava minaccioso. Lyall sospettò di essere diventato anche paranoico in quelle 24 ore, oltre che insofferente e infuriato. Era bastato un faccia a faccia con un vero mostro come Greyback per sconvolgerlo e rivoltarlo come un calzino, con la rabbia e la frustrazione che ribollivano sottopelle, la consueta tranquillità andata a farsi benedire.
Avrebbero dovuto ascoltarlo, dannazione!
O, più probabilmente, lui sarebbe dovuto restarsene tra i boschi di Cardiff a catturare Mollicci, invece che andarsi a chiudere in un ufficio del Ministero: se lo avesse fatto, non si starebbe tormentando ora, col terrore di ritrovarsi a dover contare altre vittime di un licantropo che lui – lui – avrebbe potuto evitare. Magari un altro corpicino di bimbo, con le mani piccole e il faccino tondo come il suo Remus, con un mucchio di domande sul mondo e un sorriso dispettoso sbriciolati per sempre da un morso.
Lyall scosse la testa strizzando violentemente gli occhi, tutta la sua volontà impegnata a soffocare quei pensieri. Quando li riaprì, si concentrò sul paese e le sue case illuminate, tranquille e silenziose avvolte nella luce polverosa dei lampioni, come se fosse un piccolo porto franco dalle brutture del mondo. Stretto nel suo mantello, Lyall si lasciò il bosco alle spalle e imboccò la strada per casa. Casa sua, con la sua Hope e la sua cucina Babbana, con il suo bambino e i suoi libri delle favole più grossi di lui, con il fuoco acceso nel caminetto e tutto il resto fuori. Casa sua, per scacciare il tormento di quella notte. Affrettò il passo, la testa già a casa, e l'ombra dietro di lui ghignò in un baluginio di denti affilati. Sembrò solo angoscia ma fu respiro e occhi e mani.
 
*

Il fuoco crepitò sonoramente quando Lyall vi gettò un paio di ciocchi di legno, le fiamme che si riflettevano sui giocattoli che Remus aveva sparso sul pavimento.  Girato a pancia in giù, il piccolo se ne stava puntato sui gomiti e giocava con dei cubi colorati, lettere e numeri stampati sulle facciate. Erano un regalo di nonna Martha e Lyall li aveva incantati, così ogni volta che Remus provava a formare una parola e la sbagliava, quelli protestavano, fischiavano come teiere impazzite e si allontanavano oscillando buffamente sui propri spigoli. Hope aggirò con un sorriso il suo bambino che giocava e poi scivolò alle spalle di Lyall, lo sguardo fisso sulla notte oltre la finestra.
«Ehi, stai bene?» gli chiese abbracciandolo da dietro, la fronte appoggiata tra le sue scapole.
«Se dico di sì, mi credi?»
«No, sei un pessimo bugiardo!» ridacchiò lei contro il suo maglione, la lana spessa che le lambiva le labbra.
Lyall sbuffò una mezza risata. Hope aveva ragione: non era per nulla bravo a mentire o, per lo meno, non era per nulla bravo a mentire a lei.
«Pensi ancora a quel Greyback?»
Il tono di Hope si era fatto più basso e accorto, attenta che Remus non li sentisse.
«Non riesco a non pensarci! È libero, capisci Hope? E invece dovrebbe essere ad Azkaban per quello che ha fatto a quei bambini...» mormorò, le braccia intrecciate a quelle della moglie.
«Non è colpa tua se è libero, non sei tu ad averlo lasciato andare!»
«Non lo so...» sospirò Lyall, «e poi ho un brutto presentimento, non so spiegartelo, è una specie di angoscia. Proprio qua!» disse e si picchiettò il petto, il loro riflesso trasparente sui vetri chiusi della finestra.
«Non succederà niente stanotte, vedrai! E domani spiegherai di nuovo a quelli del Ministero chi si sono lasciati sfuggire! Andrà tutto bene!»
Lyall si girò tra le braccia di Hope, la strinse e le rubò un bacio, riconoscente. Era bello il suo ottimismo, era come un balsamo per i tormenti di quelle ore.
Una versione particolarmente acuta di un fischio da teiera invase la casa e attirò l'attenzione di Hope e Lyall: davanti al caminetto, Remus si stava tappando le orecchie, mentre uno dei suoi cubi fischiava contrariato roteando sugli spigoli delle facce.
«Un po' troppo chiasso per una parola sbagliata, vero amore?» rise Hope, accucciandosi accanto al figlio.
«Ma io l'avevo scritta bene la parola!» protestò Remus, il viso atteggiato in un adorabile broncio.
«Sì sì, ti credo! Anche i cubi si confondono!» gli diede corda la madre, mentre gli assestava una pacca sul sederino. «Su, in piedi, è ora di andare a dormire!»
Remus sbuffò un po', solo un pochino, intanto che si alzava da terra.
«Ok!» esclamò puntando un ditino contro Hope, «Prima però, papà mi racconta una storia!»
Lyall si trovò puntati addosso due paia di identici occhi verde chiaro.
«Quale vuoi sentire?» chiese l'uomo, un enorme sorriso che era tutto per il suo bambino.
«Quella del Molliccio che ha attaccato la mamma!» saltò su lui, mentre correva verso il padre e lo afferrava per le mani, il suo piccolissimo e fragile riflesso impresso contro la finestra.
Lyall allargò il sorriso, e sembrava fosse impossibile, e si lasciò tirare davanti al fuoco, tutti i pensieri che si facevano corpo e crudeltà fuori da casa sua.
E l'ombra fu di nuovo respiro e mani e un baluginio di denti affilati in quella notte di Luna Piena e fu un diavolo che aveva deciso di prendersi un angelo.
Era Greyback e sarebbe stata la fine del mondo.

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Capitolo 4
*** Cinque ***


N.d.A.
Ciao =) Quarta shot e il registro resta cupo (e credo che resterà di questo tenore anche per almeno un altro paio di storie). Ovviamente è una cosa voluta visto che sto trattando l'argomento dell'attacco di Remus. Qui siamo al suo quinto compleanno, a circa tre settimane dall'attacco di Greyback e a una manciata di giorni dalla sua prima Luna Piena. Come al solito, nessuna pretesa XD
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli elementi di mia invenzione, non esistenti in HP, appartengono solo a me.
Note: Infanzia di Remus – Citazione iniziale da “Coefere” di Eschilo

 
Questa è la vita
Cinque

Cinque

Nessun mortale trascorrerà mai
vita incolume da pene.

[Coefore - Eschilo]

Cinque, come i baci della mamma quella mattina.
Cinque, come le volte in cui papà gli aveva tirato un orecchio – piano piano, con la delicatezza di una carezza.
Cinque, come le candeline sulla torta.
Cinque, come le ditina della mano su cui le aveva contate.
Cinque, come i suoi anni.
Remus agitò pigramente la manina, le sue cinque piccole e perfette ditina che ricordavano al mondo che quello era il suo compleanno, che per contare gli anni ormai gli serviva tutta la mano, che stava diventando un ometto. Un ometto che sapeva stringere i denti e non lamentarsi – o giusto un po', solo quando proprio non ce la faceva più. Perché le bende tiravano e prudevano e il fianco destro gli faceva male quando si muoveva. E qualcosa gli diceva che quel dolore era troppo per un bambino come lui, troppo per chiunque, troppo per essere vero. Ma c'era, lì sotto la maglietta calda del pigiama, a mangiarselo vivo, solo un po' meno forte di quella notte, a tenergli incollato l'incubo addosso. Come se non dovesse mai finire.
Remus piegò un braccio sul tavolo e ci appoggiò sopra il viso, il fianco che protestava sotto il pigiama, sotto le bende, sotto gli unguenti che bruciavano. Inghiottì faticosamente il dolore, col respiro trattenuto che diventava un pugno di spilli da qualche parte tra il suo petto e lo stomaco. E Remus avrebbe voluto piangere e urlare e strapparsi le bende e l'intero fianco, ma non lo fece. Chiuse solamente gli occhi per scacciare le lacrime e ci strofinò sopra il dorso della mano e poi, semplicemente, sperò che la mamma non se ne accorgesse. Avrebbe pianto anche lei altrimenti e, ai suoi occhi di bambino, sembrava una cosa assurda e sbagliata, perché le mamme non piangevano mai, loro che dovevano consolare e asciugare sempre altre lacrime. E invece, Hope, la sua mamma, piangeva da giorni. Sembrava schiacciata anche lei dal mostro che aveva attaccato lui e sembrava piangesse il suo stesso dolore e la sua stessa paura, qualcosa più grande di loro, scivolato per sempre nella loro vita e nel loro sangue, come un veleno.
Remus tirò involontariamente su con il naso e le spalle della mamma, affaccendata sul lavello pieno di piatti, si irrigidirono all'istante. Fu qualcosa di impercettibile, qualcosa di appena visibile nella curva della schiena e nella testa che si alzava, e Remus seppe che il suo tentativo di passare inosservato era fallito. Forse, adesso che era diventato grande – dopotutto, cinque anni erano davvero tanti – lo avrebbe imparato sì, insomma, a non farsi notare, come gli aveva detto papà. E Remus non aveva capito proprio tutto tutto di quello che aveva detto il padre ma quello, cioè che da adesso in poi avrebbero dovuto fare in modo di attirare meno attenzioni possibile, lo aveva capito. Aveva a che fare con la Luna Piena e i Lupi Mannari e qualcosa che sarebbe durato per sempre. E per sempre era un tempo lunghissimo e spaventoso. Sospirò piano contro il braccio piegato che gli faceva da cuscino e fece correre le dita lungo le venature del legno del tavolo, fingendo che fossero uno strano animaletto che voleva conquistare il mondo. O la sua torta di compleanno, che era un po' la stessa cosa grande com'era.
Hope, che aveva azzardato un'occhiata di sfuggita al suo bambino, lasciò cadere le spalle. Le abbandonò come se quel piccolo movimento, quella manina a mo' di giocattolo, fosse stata una rassicurazione, la prova che Remus era ancora lì, piccolo e tranquillo e concreto. Come prima, eppure in un modo nuovo. Con i movimenti più accorti del suo piccolo corpicino, con i sensi che si acuivano e lo frastornavano, con gli incubi che gli galleggiavano negli occhi e la vivacità, l'innocenza e l'inconsapevolezza accartocciate senza pietà dal mostro. E non era giusto.
Hope lo urlò nella sua testa, con la rabbia che le attanagliava la gola e le mani che strizzavano crudelmente la spugnetta, come se al suo posto ci fosse il collo di Greyback e lei stesse facendo giustizia.  Peccato che fosse solo una stupida spugnetta e che Greyback fosse chissà dove, a ridere di loro, a godersi il dramma in cui li aveva sprofondati, magari a rimpiangere sulla lingua il sangue del suo bambino.
Hope si piegò su se stessa, il sapore della bile in bocca, e si sforzò di calmarsi facendo respiri profondi. Quando si sentì sufficientemente sotto controllo, coi conati ributtati giù a forza insieme all'orrore di quei pensieri, si tirò su, asciugò le mani e iniziò a cercare qualcosa in un cassetto.
«Mamma ha deciso di smontarlo quel cassetto, eh?»
La voce di Lyall suonò ilare ma si sentiva lontano un miglio quanto fosse finto quel divertimento, troppo forzato e costruito. Remus sorrise lo stesso, perché la mamma con la testa ficcata quasi nel cassetto in fondo era divertente. Con l'attenzione tutta nuova che papà sembrava aver trovato in quei giorni poi, si sentì tirare indietro con la sedia e sollevare da sotto le ginocchia e le braccia. Come preso in braccio, si ritrovò seduto su Lyall, il fianco che lo fece mugugnare lamentoso.
«Scusa, amore!» mormorò l'uomo, la bocca tra i capelli chiari del figlio e le spalle curve di chi chiede perdono per tutti i mali del mondo. E il mondo – tutto il suo mondo – si appoggiò contro di lui tirando il fiato, le gambe che dondolavano contro le sue cosce e le mani piccole e morbide che si misuravano con le sue grandi e magre e che sapevano di perdono ed erano assoluzione.
«Oh, trovate!» esultò Hope, voltandosi verso di loro e chiudendo il cassetto con un colpo di anca. Agitò qualcosa ben nascosto tra le mani giunte e Remus ridacchiò. Lyall si chiese se quel perdono di gesti inconsapevoli, di risate e manine e sorrisi, sarebbe sopravvissuto alla verità di quel morso, al racconto della realtà e delle sue colpe. Ci sperò con tu se stesso, mentre abbozzava un sorriso per la moglie e la osservava avvicinarsi al tavolo.
«Ho qualcosa per te, Remus! Vediamo se lo trovi!» bisbigliò Hope con tono accattivante, sedendosi di sbieco sul tavolo e tendendo i pugni chiusi al figlio. Il bambino si schiacciò appena contro il padre, una mano contro le labbra e il loro sorriso, a studiare i pugni della mamma. Il destro si era mosso? Remus rise e lo batté con decisione e ridacchiò ancora più forte della faccia oltraggiata della mamma, incredula che avesse indovinato al primo colpo.
Lyall sentì scoppiargli nelle orecchie le urla e i pianti di quei giorni, così diversi dalle risate di quel momento, così profondamente ingiusti, così dannatamente dolorosi. La risata gorgogliante di Remus fu come l'ossigeno dopo l'apnea e i brutti ricordi diventarono un ronzio strisciante, mentre Hope e la sua mano tesa attiravano la sua attenzione. Cinque piccole candeline, azzurrissime e a torciglioni, troneggiavano sul palmo aperto della sua mano e lei le fece saltellare piano, come fossero una cosa importantissima. Remus seguì con grande attenzione la mamma, mentre lei le appoggiava sulla torta, una ad una, e le faceva sprofondare leggermente sulla montagna di panna che la ricopriva. Quasi ipnotizzato, un attimo dopo, si ritrovò a fissare il fiammifero che si infuocava tra le dita affusolate di Hope, tradizione tutta loro quel modo babbano di accendere le candeline, la bacchetta e gli incantesimi di papà che non servivano.
Quando cinque piccole fiammelle brillarono di giallo e arancio sulla torta, Hope la spinse un po' di più verso il bordo del tavolo, così da avvicinarla a Remus. Il piccolo si districò lentamente dal braccio di Lyall e si raddrizzò, gli occhi che vagavano dalla torta alla mamma.
«Esprimi un desiderio, amore mio!» esclamò Hope, con dolcezza, e sembrò una tremenda presa in giro. E avrebbe voluto rimangiarsele quelle parole ma cosa altro avrebbe potuto dire? Cosa altro c'era da poter dire per dare almeno un pizzico di normalità a quel giorno? Del compleanno che aveva pensato per il suo bambino non restavano che una torta, delle candeline e il fuoco fatuo di un desiderio da esprimere. Tutto il resto lo aveva distrutto il lupo.
Remus perlustrò la cucina con gli occhi, come se stesse decidendo per cosa doveva sprecare il suo desiderio. Magari poteva chiedere di avere un festa – piccola, minuscola anche – come gli altri anni, con i bambini del vicinato e i giochi in giardino. Gli erano piaciute le altre feste, con tanta gente e un sacco di rumore. Quella invece era così tranquilla e strana e un po' triste. Papà gli accarezzò i capelli sulla nuca e lui si ricordò un'altra cosa che aveva detto, insieme al non attirare attenzioni. “Forse non sarà più il caso che tu  giochi con gli altri bambini, nessuno deve sapere di questo” e questo era il Lupo Mannaro che lo aveva morso e il Lupo Mannaro che lui era diventato e quel desiderio diventò inutile, fatica sprecata. Remus sospirò e si mosse insofferente e si ricordò del fianco che continuava a tormentarlo sotto il pigiama e sotto le bende. E allora desiderò che quel dolore finisse. Si sporse verso la torta e gonfiò le guance.
Lyall, sotto il suo confortevole peso, chiuse gli occhi e desiderò con lui.
Desiderò che quel dolore finisse.
Desiderò che fossero abbastanza forti per superare la prima Luna Piena che cresceva sotto la pelle pallida del suo bambino.
Desiderò che Remus fosse abbastanza forte per affrontare tutto quello per tutta la vita.
Desiderò che qualcuno gli desse la possibilità di tornare indietro nel tempo e rimediare a tutto.
Desiderò che ci fosse una speranza e una cura da qualche parte.
Remus soffiò e le cinque fiammelle crepitarono appena prima di spegnersi.
Cinque, come le candeline sulla torta.
Cinque, come gli anni di Remus.
Cinque, come i desideri di Lyall.

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Capitolo 5
*** La voce del silenzio ***


N.d.A.
Tre mesi e mezzo dall'ultima storia, mmm... non ho grandi giustificazioni per l'assenza, se non che l'ispirazione ha latitato un po', poi le feste e altre cose.. Vabbè, comunque rieccomi :)
Quinta storia, restiamo su un registro cupo e introspettivo. Siamo alle ore che precedono la prima Luna Piena di Remus dopo l'attacco di Greyback e tutti devono fare i conti con le loro vite stravolte. Compaiono bugie, segreti da tenere e cose da nascondere, perché l'unica accettazione possibile per Remus è quella di chi non sa. Ovviamente non è così o meglio, non sarà così, ma Hogwarts e i Malandrini sono ancora lontani e la vita solitaria di Remus è appena all'inizio, con i genitori che lo terranno lontano dagli altri bambini proprio per paura che possa lasciarsi sfuggire qualcosa del suo essere un Lupo Mannaro. Così, Lyall mente e tace per proteggere Remus dal mondo e dalla sua cattiveria, Hope mente e tace per incoraggiare e consolare il suo bambino, Martha non chiede e tace per non farsi annichilire dalla paura: direi che questi sono gli aspetti che ho cercato di trattare, insieme anche al punto di vista di Remus su questa trama di bugie che vede comparirgli attorno.
Nessuna pretesa nemmeno stavolta, anche perché la storia non mi convince pienamente, forse perché l'ho presa e lasciata diverse volte prima di finirla ma tant'è XD Buona lettura a chiunque passerà di qui e spero a presto :)
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli elementi di mia invenzione, non esistenti in HP, appartengono solo a me.
Note: Infanzia di Remus – Citazione iniziale di Alessandro Morandotti

 
Questa è la vita
La voce del silenzio

La voce del silenzio

Ci sono bugie tanto commoventi
da meritare di essere credute
[Alessandro Morandotti]

 

Martha non era una donna invadente, non lo era mai stata. Non si immischiava e non si imponeva, anzi, inquadrava con rapidità impeccabile quale era il suo ruolo e quali i suoi limiti. E dentro quei limiti si muoveva, agiva, ascoltava. Quella sua innata attitudine si era rivelata indispensabile e provvidenziale quando Lyall e tutto il suo incredibile mondo erano entrati nella vita della sua Hope, con le cose inspiegabili e quelle mai viste, con le stranezze da occhi meravigliati e quelle da cuore in gola.
Martha aveva incontrato, per la prima volta, il giovane mago un pomeriggio di pioggia nella sua cucina, aveva pensato per un momento che sua figlia fosse impazzita e poi aveva fatto un atto di fede. Aveva creduto che tutto quello che le avevano raccontato fosse vero e non un'invenzione, aveva giurato che non ne avrebbe fatto parola con nessuno e poi era andata a preparare un tè, incespicando nel tappeto e in tutta la sua confusione.
Martha se lo ricordava ancora perfettamente quel giorno, nitido come fosse appena passato, con l'immagine di quell'impacciato e timido Lyall che stava faticosamente cercando di far coincidere con quella provata e sfuggente dell'uomo che le stava davanti. Erano dieci minuti ormai che se ne stavano fermi sulla porta, a fronteggiarsi con i loro sguardi agitati e interrogativi, con le domande di Martha e le risposte negate di Lyall che volteggiavano tra loro dense come la foschia bassa all'orizzonte. Era qualcosa di indefinito, nato improvvisamente come i silenzi e i misteri di quelle ultime settimane, e che si era solidificato come un muro invisibile, una barriera mai esistita prima di allora, tra loro e lei.  Tra la magia e Martha. Tra due mondi che non erano mai apparsi così tanto distanti. E lei avrebbe potuto accettarlo, davvero, se avesse avuto a che fare solo con la magia e con tutto quello che lei non doveva sapere o non vedere o non dire. Il punto era che aveva a fare con Remus, Martha lo sapeva – lo sapeva senza che nessuno glielo avesse detto – lo vedeva urlato negli occhi spiritati di Lyall e lo aveva visto nella fuga precipitosa di Hope, solo un'ombra sul fondo del corridoio quando le avevano aperto la porta. E poi c'erano state tutte quelle scuse che avevano tirato fuori per evitare che lei andasse al compleanno del bambino. A ben vedere, sarebbero bastate quelle a insospettirla anche se non avesse notato tutto il resto.
«Andiamo, Lyall!» sospirò alla fine Martha, le braccia allargate e gli occhi ostinatamente fissi in quelli del genero. «Se vuoi possiamo stare qui anche tutto il giorno, per me va bene!» lo avvertì, anticipando qualunque cosa lui volesse dirle.
«Martha, per favore...» ribatté l'uomo, e fu quasi un'implorazione, la mano stretta spasmodicamente attorno alla maniglia.
«No, per favore un bel niente, non me ne andrò di qui senza prima aver visto Remus!» sbottò la donna, la stessa incredibile determinazione della sua Hope a vibrarle nella voce.
Lyall chiuse gli occhi e si morse le labbra, contenendo a fatica la voglia di prendere a pugni la porta. Ci mancava giusto l'insistenza di sua suocera sì, perché non avevano già abbastanza problemi così, con la Luna Piena che preparava il suo primo inferno dentro e tutto attorno al suo piccolino. Avrebbe voluto urlare, chiudere la porta e sbarrarla e tenere il mondo intero fuori di là. Non solo Martha, la sfida nel suo sguardo, le sue braccia tese lungo i fianchi e le sue domande e non solo la verità più brutta che avesse mai visto nella sua vita, ma proprio tutto il mondo, Luna Piena e maledizione comprese. Avrebbe voluto, Lyall, sbriciolare l'universo e spazzarlo via, come la polvere dagli angoli bui della casa, come i resti di un incubo dopo una notte agitata. Avrebbe voluto, Lyall, ma non ne era capace. L'incubo era reale, era carne e artigli e denti affilati che si erano presi l'innocenza del suo Remus, la sua vita e i suoi sogni, masticati e distrutti alla luce della Luna. Senza pietà.
«Lyall...» sussurrò piano Martha, spaventata perché tutto quel silenzio e gli occhi serrati del genero non erano normali, non potevano esserlo e, all'improvviso, non era poi così convinta di volerlo sapere davvero cosa non andava, di poterlo sopportare.
«Remus non sta molto bene!» confessò finalmente Lyall, la mano che si apriva e si chiudeva alternativamente attorno alla maniglia della porta.
«Va bene...» mormorò la donna, come per prepararsi ad assorbire il colpo, «Cos'ha?»
Lyall si spostò nervosamente da un piede all'altro e Martha sentì l'agitazione serrarle lo stomaco. Cosa diavolo era successo di così grave a Remus perché suo padre non riuscisse nemmeno a spiegarlo?
«Mi stai spaventando, Lyall!» esclamò afferrandogli un polso, una stretta che lo richiamò bruscamente alla realtà. Non era un incubo, realizzò con dolorosa lucidità, non poteva spazzarlo via, dimenticarlo, annientarlo, spingerlo fuori da casa sua. Doveva conviverci, imparare a sopportarlo. Ad accettarlo no, ma a sopportarlo sì, come Remus.
«C'è stato un... un incidente!» spiegò alla fine, le spalle che cedevano sotto il peso di qualcosa di invisibile e tremendo. Martha trattenne il fiato e la mano le tremò stretta intorno al polso di Lyall. La parola “incidente”, accompagnata all'atteggiamento dell'uomo, sembrava ancora più minacciosa di quanto non lo fosse già di per sé. Si era cristallizzata fra loro, gelida e tagliente come un sipario di ghiaccio e nessuno sembrava voler davvero vedere ciò che nascondeva.
Per un istante Lyall valutò di usare a suo favore la confusione della suocera, usare quel momento di stasi per mandarla via. Ribaltò la presa attorno al suo braccio e le strinse un gomito, provando a farla indietreggiare.
«Non ci provare, Lyall! Non ci provare neppure!» esclamò Martha, scrollandosi la sua mano di dosso. «Sono qui per vedere Remus e lo vedrò!»
Fu come la fine di ogni discussione, la fine di ogni possibilità – se mai Lyall ne aveva davvero avute – di tenere Martha fuori da tutto. E non aveva la minima idea di come affrontare la vicenda. Cosa dire? E come dirlo? Rivelare tutto? O solo una parte?
Comunque la mettesse, l'unica cosa di cui Lyall era sicuro è che stava per rovinare tutto, anche quel poco di mondo rimasto in piedi.
La foschia all'orizzonte aveva iniziato a diramarsi e i contorni delle case stavano riapparendo poco alla volta. Qualcuno dei vicini aveva notato qualcosa? La discussione con Martha impalati sulla porta? Le tendine sempre tirate alle finestre? L'improvvisa scomparsa di Remus?
Lyall sospirò e si fece di lato, lasciando strada libera alla suocera e implorando che il frenetico ragionare del suo cervello si interrompesse. La supplica si spense nella porta chiusa, mentre Martha imboccava la scala per il piano di sopra.

 
*

Remus aveva solo cinque anni, compiuti da una manciata di giorni, eppure sembrava uno strano esserino che ne dimostrava molti di più e molti di meno nello stesso preciso istante.
Gli occhi socchiusi e infossati sul viso pallido e slavato erano quelli di un uomo e quelli di un bambino insieme, come se avessero già visto tutto e contemporaneamente niente. Erano occhi tremendi.
Hope passò una mano sulla fronte del figlio, un mucchiettino di ossa appallottolato sotto le coperte, e sospirò. Non era pronta. A tutto quello che la Luna avrebbe scavato dentro suo figlio, a quegli occhi enormi che la imploravano da sotto le ciglia chiare – Mamma, aiutami! Mamma, perché fa così male? Mamma, fallo smettere! –, ai minuscoli pezzetti di tutti loro da rimettere insieme la mattina dopo, lei semplicemente non era pronta. E non lo sarebbe stata mai, non c'era speranza.
Hope non lo sapeva che, a dispetto di qualunque sua previsione, lei avrebbe combattuto come un leone per rimettere insieme i pezzi, mese dopo mese, per non morire negli occhi tremendi di Remus, per affrontare quella stramaledetta Luna come il peggiore dei suoi nemici. Hope non lo sapeva ancora quanto le sue spalle potevano essere forti, ma lo avrebbe imparato, perché se non crollavano quelle minuscole del suo bambino, non si sarebbero potute permettere di crollare nemmeno le sue. Neanche a pensarci. Ma Hope, tutto quello, ancora non lo sapeva. E allora mentiva. Per rimanere in piedi, intesseva la sua tela di bugie: sorrisi rassicuranti, occhi asciutti, mani ferme e un mucchio di andrà tutto bene e passerà. Ma non sarebbe andato mai tutto bene e non sarebbe passato mai, mai davvero, mai. E Remus lo sentiva nelle articolazioni che scricchiolavano sotto la pelle e nelle orecchie che gli ronzavano; in qualche modo lo sapeva, era una specie di verità che non sapeva spiegare ma che riconosceva. In qualche modo Remus lo sapeva che le parole della mamma erano bugie, ma non glielo disse nemmeno una volta, non le ritorse contro neanche una di tutte le volte in cui lei e papà gli avevano ripetuto di non dirle – mai! –, solo faceva sempre finta di crederci e si sforzava di ricambiare i sorrisi, di ingoiare le lacrime e il dolore e lo stomaco sottosopra. Si sforzava ma chissà se ci riusciva: i suoi cinque anni gli sembravano troppo pochi per tutto quello, come i giorni dopo il morso, quando il pianto gli bloccava la gola perché lui era troppo piccolo per quelle bende e per quel dolore che gli toglieva il fiato.
«Andrà tutto bene!» gli ripeté Hope, di nuovo, con una carezza morbida lunga la sua guancia accaldata. La voce della mamma era delicata e lieve, come le sue carezze, come lo sguardo che non staccava un attimo da lui, appollaiata sulla sedia vicinissima al suo letto. Forse non era proprio tutto una bugia, magari la mamma aveva ragione e tutto quel mucchio di cose strane sarebbe finito, forse già domani o tra un po', forse non sarebbe stato per sempre come dicevano papà e la sua faccia triste. Remus sospirò mentre si stiracchiava piano, le gambe e le braccia fastidiosamente intorpidite e gli occhi chiusi.
La porta cigolò in fondo alla stanza e una lunga lama di chiarore si disegnò sul pavimento tracciando l'ombra di una donna minuta. Hope si irrigidì sulla sedia, infastidita. E spaventata. Non aveva idea di cosa Lyall avesse detto a sua madre ma, era ovvio, non era riuscito a dissuaderla e a mandarla via. Martha se ne stava ai piedi del letto, le mani strette l'una dentro l'altra e gli occhi che cercavano vanamente di incrociare quelli fuggevoli della figlia.
«Hope...» sussurrò, così piano che lei stessa dubitò di aver davvero parlato. La donna davanti a lei si limitò a scuotere la testa. Va bene, Martha aveva definitivamente capito che non avrebbe saputo niente più di quello che era riuscita a scucire a Lyall. Ci si rassegnò in fretta, calamitata dal piccolo fagotto di coperte e da un paio di occhi verde chiaro, arrossati e lucidi.
«Remus!» lo chiamò dolcemente, la voce, il sorriso e le mani tutto un po' tremante.
«Nonna!» gracchiò il piccolo, col faccino più pallido che la donna avesse mai visto. Le si strinse il cuore e piantò sul genero un paio di occhi furenti.
Che diavolo era successo?
Lyall distolse lo sguardo e ficcò le mani in tasca, impenetrabile come un muro di cemento. Delusa, tornò a guardare il nipotino.
«Come stai amore?» gli chiese, scivolando a sedere accanto a lui, Hope che si faceva discretamente un po' più lontana.
«Bene!» borbottò il bambino, piccolo piccolo contro il cuscino.
«Che ti è successo, tesoro?» chiese la donna, le parole che stillavano ansia e preoccupazione. Remus si mosse a disagio, gli occhi che rincorrevano quelli del padre, con lo stesso panico che si era mangiato ogni centimetro di quella casa. Fu come un dialogo silenzioso, fatto di sguardi e null'altro.
«Un incidente...» rispose e Martha non chiese altro. E non chiese più. Niente verità da quel giorno, solo bugie vestite a festa, cicatrici ignorate e occhi che non avrebbero visto e cuore che avrebbe doluto comunque. Il silenzio avrebbe protetto Remus, così come le case cambiate e la gente allontanata, Martha lo avrebbe capito senza fare domande. Per il momento, però, nella stanza in penombra, tutto ciò che importava era guardare Remus e accarezzargli i capelli e le guance e le manine.
«Vuoi che ti legga una storia?»
Lyall protestò dalla porta e Hope alzò gli occhi di scatto: decisamente non erano d'accordo che lei restasse. Ma Martha se ne infischiò e li liquidò entrambi con un gesto nervoso della mano.
«Solo il tempo di una storia!» insisté e non ci fu spazio di replica.
Qualunque fosse il problema poteva aspettare il tempo di una favola.
Remus sorrise, rassicurato perché la nonna aveva resistito alle bugie, al non sapere, al silenzio, al segreto che non vedeva. Aveva resistito ed era là, seduta accanto a lui, i piedi che le premevano contro e Le fiabe di Beda il Bardo tra le mani.
Forse la Luna Piena e tutta quella storia del morso e del lupo e del per sempre non aveva distrutto proprio tutto. Forse qualcosa si era salvato, la nonna era lì, forse qualcos'altro avrebbe potuto salvarsi in futuro, magari qualche amico o qualche bambino come lui, ma mai davvero come lui.
Bastava non dire, tacere, tenere segreto.
Niente verità, solo bugie imbiancate per nascondere il nero dell'orrore, per proteggere Remus e tutto il fragilissimo mondo che gli rimaneva.

 

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Capitolo 6
*** Di casa in casa ***


N.d.A. Salve a tutti! Non aggiorno da inizio anno, un ritardo enorme e, tra l'altro, non sono nemmeno certa che questa shot sia un granché. Sappiamo che per via della maledizione, Remus e i suoi genitori hanno dovuto cambiare casa molte volte e ho provato a raccontare uno di questi momenti. Nulla di particolare insomma XD
Spero di non interrompere più così a lungo la pubblicazione, grazie a chi passerà di qui e buona lettura :)
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli elementi di mia invenzione, non esistenti in HP, appartengono solo a me.
Note: Infanzia di Remus - Citazione iniziale di Siracide.


 

Questa è la vita

Di casa in casa


Di casa in casa

Triste vita andare di casa in casa
[Siracide]

Quando anche l'ultimo maglione fu sparito dentro il cassetto, Remus era così soddisfatto di sé che non solo pensava di essersi meritato la merenda ma ne era proprio sicuro. Era stato proprio bravo, non c'era che dire, e del caos della stanza non restava che un mucchietto di scatole accatastate sul letto. Erano una montagnola buffa e sembravano una cosa gigantesca nella camera minuscola, con le pareti chiare che tentavano di far sembrare tutto più grande. Si sforzavano, davvero, ma il bianco non riusciva a fare il miracolo: la stanza era piccola e piccola restava, il letto, l'armadio e la scrivania che parevano essere stati incastrati lì a forza. Remus inclinò la testa su una spalla, gli occhi strizzati per la luce che entrava dalla finestra, mentre lo sguardo giudicava ancora una volta quella che era appena diventata la sua nuova camera. Si mordicchiò le guance e sperò che lo sarebbe stata abbastanza a lungo da arrivare a lamentarsi di essere troppo grande per quello spazio così piccolo.
Remus si spostò impaziente sui piedi nudi e intrecciò le manine dietro la schiena e immaginò un sacco di libri e un sacco di amici a spintonarsi tra quelle quattro mura. Non sarebbe successo, lo sapeva, ma era una bella fantasia e ogni tanto se la concedeva, a dispetto di tutto, della maledizione che gli viveva dentro e degli occhi tristi di papà che gli diceva di non illudersi, ché la realtà avrebbe solo fatto più male. Ma Remus aveva solo otto anni e la verità di papà a volte era solo troppo grande e spaventosa per conviverci giorno dopo giorno. Così alle volte, solo ogni tanto, non sempre, lui si concedeva quella fantasia, con gli amici e le risate e le cose normali della vita. Era una cosa piacevole e Remus si godette la sensazione, il suo corpicino magro che oscillava sui piedi nudi e la pancia che brontolava nel silenzio della camera come un piccolo tuono. Ridacchiò, sciogliendo le mani, ricordandosi improvvisamente della merenda che tanto duramente si era guadagnato. Spinse quella sua bella fantasia nell'angolo più lontano della sua mente e poi si precipitò fuori dalla stanza e giù per la scala di legno.
Il legno cigolava sotto i passi leggeri da bambino e nelle ombre che salivano dal piano di sotto, lì dove il sole si fermava, sembrava quasi un lamento. A Remus non piaceva molto, no, gli faceva venire un po' la pelle d'oca ad esser onesti, con il ricordo lontano di altri cigolii nel buio che risaliva la sua memoria e la paura che veniva da un altro tempo, con il dolore e le urla che a volte diventavano incubi e lui non sapeva più se fossero veri o meno.
Remus scese saltellando gli ultimi gradini e i piedi atterrarono con un piccolo tonfo sul pavimento del corridoio, i cigolii del legno nella casa nuova che restavano nel buio delle scale e lontani dalla mamma che canticchiava. La voce di Hope e l'acciottolio di piatti arrivavano ovattati dalla cucina e Remus sorrise, il pensiero della merenda riportato di peso in primo piano, l'inquietudine della mente lasciata indietro insieme al legno lamentoso.
Il sole di fine estate entrava di sbieco dalla finestra aperta e brillava sui piatti impilati al lato del lavello. La mamma aveva le mani ficcate in una nuvola di schiuma che odorava di limone e canticchiava a labbra strette, la sua figura sottile vestita di un azzurro che quasi sembrava polveroso nella luce della cucina. Remus si arrampicò in ginocchio su una sedia, col sorriso sciocco di ogni volta che la mamma canticchiava. Era una cosa divertente, che faceva sentire Remus con la testa leggera e la faccia che doveva scoppiargli da un momento all'altro, tanto sorrideva. Papà, una volta, gli aveva sussurrato all'orecchio che era una specie di magia e le guance della mamma, che li aveva sentiti, erano diventate di uno splendido rosa acceso.
Da sopra il lavello, Hope si era girata a guardare il suo bambino, il canticchiare che si era spento morbidamente.
«Hai finito su in camera?» gli chiese afferrando un asciughino, le mani orlate di schiuma.
«Sì, ho svuotato tutte le scatole!» la informò soddisfatto lui, agitandosi sulla sedia con un meraviglioso sorriso a incurvagli le labbra piccole e piene.
Hope non ebbe bisogno di chiedergli di più, conosceva suo figlio tanto da essere certa che avesse davvero messo tutto a posto. Sospirò, solo per una volta avrebbe voluto poterlo rimproverare, sgridarlo per qualcosa che non aveva fatto, qualunque cosa pur di togliergli di dosso tutta quella enorme, ingombrante, responsabilità che non lo lasciava mai. E invece il suo bambino era già grande, con l'orrore di cose che non avrebbe mai dovuto vedere che gli scorreva nel sangue e gli segnava la pelle, graffi e morsi che Hope si sentiva addosso tanto quanto lui.
Il sorriso di Remus, intanto, era ancora là – luminoso come il sole che allungava le ombre sulle pareti – e lei si sentì un po' in colpa per essersi distratta con quei pensieri quando lui, il suo bambino, se ne stava lì così, a fissarla e sorriderle. L'orrore sembrava appartenere ad un'altra vita.
Hope si tenne stretta la sensazione e fece schioccare l'asciughino che ancora stringeva tra le mani.
«Allora, visto che sei stato così bravo, ti meriti proprio una bella merenda!», fece l'occhiolino al figlio e con una ridicola giravolta andò al frigorifero. Ne aprì di scatto la porta e ci si chinò: non c'era molto e non era solo perché si erano appena trasferiti. La verità era che i soldi avevano cominciato a scarseggiare e tutto il resto si era adeguato. Tutto si era modellato alla maledizione che era entrata in casa loro, tutto si era fatto ferire da quella condanna, in un'invisibile solidarietà a Remus. Ma era una cosa triste, che peggiorava solamente le cose, e Hope soffocò in fretta il pensiero tenendosi saldamente attaccata al sorriso del suo piccolo, così bello nonostante tutto.
Un vasetto di marmellata e un bricco di latte furono posati sul tavolo e la porta del frigo venne chiusa con un piccolo calcio.
Remus scivolò a sedere, le ginocchia ossute ormai indolenzite, mentre la mamma trafficava con spesse fette di pane. Il sole che entrava dalla finestra cominciava ad abbassarsi e, tra i vetri aperti, il bambino scorse il padre. Lyall sembrava interessatissimo alla malconcia siepe che cingeva il giardino ma in realtà, Remus lo sapeva, con la bacchetta nascosta nella manica della camicia, stava circondando la loro nuova minuscola casa di incantesimi di protezione. E vedere papà fare le magie – senza parlare, senza quasi muoversi – era la cosa più piacevole, se non l'unica, del cambiare continuamente casa. Remus fremeva dalla voglia di fare domande ogni volta – Che incantesimi hai fatto, papà? E come si fanno? Me li insegni? – e anche in quel momento, col collo allungato per vedere meglio, sentiva le mani prudergli dalla curiosità.
Papà diede un ultimo colpetto alla siepe, a una sparuta manciata di foglioline avvizzite, e uno sfarfallio di luce brillò accanto al suo polso.
Un piattino tintinnò sul tavolo e la fetta di pane alta e lucida di marmellata che lo riempiva lo distrasse dalla finestra e dal papà. All'improvviso tutta la sua attenzione si era concentrata sul pane morbido e sul sapore amarognolo della marmellata di arance. Il suo stomaco gorgogliò d'approvazione.
Remus aveva già attaccato il bicchiere di latte quando il padre rientrò in casa, la faccia arrossata dal sole. Lyall gli scompigliò i capelli e gli si sedette vicino dando uno sbuffo esagerato.
«Quella siepe è davvero messa male. Credo che neppure la magia potrà fare nulla per lei!» sospirò, sospettosamente melodrammatico.
«Non servirà nessunissima magia, caro! Basteranno queste mie belle manine e il mio infallibile pollice verde!» lo rimbeccò Hope agitandogli le mani davanti agli occhi.
«Mh, tu dici?»
Il tono di Lyall suonò così scettico che Remus non si stupì nemmeno un pochino della manata che si guadagnò. La mamma aveva la bocca aperta e un'espressione che era comicamente oltraggiata e Remus pensò che era bella – ed era bello anche il papà – quando faceva così, con le smorfie e il tono e gli scherzi che la facevano sembrare una ragazzina – che facevano sembrare entrambi dei ragazzini.
Lyall, un po' borbottando e un po' ridendo, si alzò a recuperare un bicchiere e se lo riempì di latte, Hope e il suo sgambetto scampati con agilità. Remus nascose una risatina in quel che restava del suo pane e marmellata e si guardò un po' intorno, il sole che si ritirava nelle ombre della sera.
Non più illuminata, la siepe attorno a cui papà aveva armeggiato sembrava ancora più patita di prima con le sue poche e malandate foglioline. Attraverso i suoi molti spazi vuoti,  Remus intravide la facciata bianca di una casina minuta e piena di fiori e un'altalena che oscillava – e un paio di sandali bianchi, una coda di capelli lunghissimi e due manine strette alle catene del seggiolino.
Era una visione frammentata, ora un particolare ora l'altro, che aveva la consistenza inafferrabile del sogno. Remus sapeva che era reale, che era oltre la siepe e dall'altro lato della stradina, lì dove alcune casette se ne stavano tutte addossate tra loro, e lui pensò che sarebbe stato bello andare a conoscere la bambina dell'altalena o anche solo appoggiarsi alla facciata bianca e guardarla dondolare. Si sarebbe accontentato di così poco, Remus.
«...e domani comincerò a sistemare la cantina», disse papà e lui tornò di colpo lì, con la sedia che tutto ad un tratto era diventata scomoda. Il resto del discorso se l'era perso ma quella frase l'aveva sentita tutta e lo stomaco gli si attorcigliò. Papà non si aspettava che lui dicesse niente e niente disse. In realtà, non si aspettava che nessuno dicesse qualcosa, frasi del genere non venivano mai discusse; erano solo dati di fatto, informazioni fornite in mezzo a un mucchio di altre parole. Eppure non si confondevano mai nel resto delle cose dette – mai sotto traccia, mai inosservate, mai innocue. Avevano a che fare con un sacco di incantesimi che Remus non voleva nemmeno conoscere, con porte da rinforzare e pareti da insonorizzare e finestre da sbarrare e con una paura così grande che gli toglieva il sonno e il fiato. Erano parole tremende per lui, per loro, e avevano guastato tutto il buono di quel momento e della casa nuova. Tutto tornò improvvisamente triste, come nella casa di prima e in quella prima ancora.
Remus si tirò indietro contro la sedia giocherellando col piattino vuoto, l'indice destro che seguiva il profilo dei fiori sulla porcellana blu, e Lyall lo imitò col bicchiere di vetro smerigliato. Erano dolorosamente simili, le spalle piegate e gli occhi grandi, tanto vulnerabili da fare male. Hope sfuggì da loro rituffando le mani nel lavello, come se tutto potesse sparire con l'acqua e la schiuma giù per lo scarico.
«Su, da bravi, uno di voi mi porti quei bicchieri!»
Hope ingoiò il groppo in gola e si sforzò di suonare allegra, forse poteva salvare qualcosa di quel pomeriggio e tenere lontano l'inevitabile almeno un altro po': per i giorni che mancavano sul calendario, la luna doveva restare un'ombra incompleta nel cielo.
Lyall sembrò sollevato di potersi aggrappare alla spensieratezza, seppur finta, della moglie e si affrettò a recuperare i bicchieri sporchi e il piattino vuoto. Incrociò gli occhi del figlio, con il sorriso che non arrivava ai suoi e una carezza sul braccio che chiedeva scusa. Erano tutte così le carezze di papà, colpevoli e dispiaciute, e Remus sospirò piano, triste. Tornò a guardare fuori dalla finestra, la testa appoggiata sulle braccia incrociate.
L'altalena, oltre i buchi della siepe, dondolava vuota e lui si chiese dove fosse sparita la bambina. Forse dentro casa o forse a giocare con qualche altro bambino. Qualunque fosse la risposta però, di certo non lo interessava e mai lo avrebbe fatto. Mai avrebbe potuto. Mai avrebbe dovuto. Il lupo aveva già reclamato anche quella casa, i segreti e le bugie per nasconderlo e non ci sarebbe stato spazio per la bambina e per l'altalena. Sarebbero restati al di là della siepe, dall'altro lato della stradina, con la loro consistenza da sogno e Remus li avrebbe aggiunti alla sua bella fantasia e alla stanza piena di amici.
E sarebbero stati casa, col canticchiare della mamma e le carezze tristi di papà, molto più di quelle stanze minuscole e di tutte le altre che sarebbero venute.

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Capitolo 7
*** Di gobbiglie e frittelle ***


N.d.A. Salve e, anche se ormai a metà gennaio, buon 2015 a tutti! Ormai è tantissimo che non aggiorno e non faccio promesse, nemmeno ipotetiche, su quando arriverà un altro capitolo, però almeno l'ho ripresa XD
Il capitolo non mi piace più di tanto, credo non dica un granché, ma avevo bisogno di sbloccarmi e quindi tutto sommato mi va bene. Entriamo nel periodo di Hogwarts, qui siamo a poco prima che arrivi la lettera e il plot della storia è un'informazione presa dalla biografia di Remus su Pottermore. Il registro è volutamente spensierato nelle parti che lo riguardano, questo per sottolineare il lato leggero dell'episodio - Silente che appare in casa dal nulla e gli frega le frittelle, la partita di gobbiglie, Hogwarts che diventa incredibilmente reale XD Dopo sicuramente c'è stato il tempo delle crisi di panico, le raccomandazioni, le paure e tutto il resto, ma qui prevale la gioia del momento. Tra l'altro è la prima volta che scrivo di Silente facendogli dire più di una battuta, spero non sia impresentabile e chiedo scusa per il titolo ma proprio non mi veniva niente di meglio XD
Grazie a Fri Rapace per le recensioni a questa storia: sono state un notevole incentivo :) Buona lettura|
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K. Rowling; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli elementi di mia invenzione, non esistenti in HP, appartengono solo a me.
Note: Infanzia di Remus - Citazione iniziale di Arthur Haley.

 

Questa è la vita

Di gobbiglie e frittelle

 
Di gobbiglie e frittelle


Hope tirò con forza l'angolo del grembiule che era rimasto chiuso nella porta ma non ottenne nulla. Solo la stoffa si lamentò appena, lo strappo in agguato da qualche parte ancora troppo lontana.
«Che facciamo?» chiese affannata, il cuore che le pompava in gola quasi a toglierle l'aria, come un pugno invisibile che si stringeva sempre un po' di più.
«Che facciamo?» chiese di nuovo, spingendo contro la porta chiusa e contro il panico nella sua mente.
«Aspettiamo che se ne vada» rispose Lyall, la fronte un tutt'uno col legno nudo della porta, una mano serrata sulla maniglia e l'altra sulla bacchetta.
«E se non se ne va?»
«Certo che se va! Porta e finestre sono bloccate e nessuno gli aprirà: dovrà andarsene per forza.»
Le parole di Lyall erano piccole esplosioni, scoppi di ansia in mezzo a un mare di pause, e Hope si rese conto che stava per andare tutto a rotoli. Stavano per finire a pezzi, come la calma di suo marito.
«Se n'è andato?»
Hope ingoiò dolorosamente aria e parole, mentre rilassava le spalle contratte, e Lyall scivolò furtivo verso la finestrella del corridoio a spiare dallo stipite. Sembravano due ragazzini che giocavano a guardie e ladri e Hope tremò di una risata isterica che le valse un'occhiataccia così tagliente da farla sentire in colpa.
«Scusa, è che sono in panico» si giustificò, gli occhi enormi e allarmati.
Lyall si sporse un po' di più per avere una visuale migliore. Vesti color lillà e un paio di mani incrociate dietro la schiena passarono tranquillamente davanti alla minuscola finestra.
«Se ne vada, su! Che diamine aspetta?» mormorò al vetro e poco ci mancava che buttasse all'aria tutti i suoi buoni propositi di riservatezza e uscisse di lì per afferrarlo per un braccio e mandarlo via a forza.
Le vesti si fermarono per un attimo, ondeggiando appena nell'aria fredda di marzo, e poi si allontanarono. Lyall appoggiò una tempia contro la finestra, il corpo teso in un sospiro di sollievo che non vedeva l'ora arrivasse, poi le vesti voltarono bruscamente l'angolo e il sollievo non arrivò più.
«La porta sul retro!» sbraitò scattando lungo il cortissimo corridoio, la cucina che, però, non gli era mai sembrata così lontana. Hope lo imitò solo per rimbalzare seccamente contro la porta. Il colpo la colse di sorpresa tanto da toglierle il fiato, il dannato grembiule sempre chiuso nella porta.
«Dannazione!» imprecò e poi tirò, strattonò, strappò finché la stoffa non cedette e lei fu libera. Il contraccolpo la sbilanciò e non fu capace di correre in fretta come Lyall. Incespicò un po' per ritrovare l'equilibrio ed ebbe il tempo, nella sua corsa, di incrociare la piccola figura del suo Remus, chino sul tavolino del minuscolo soggiorno, esattamente come lo aveva lasciato prima che iniziasse il delirio, tutto preso dalle gobbiglie e dalla merenda. Non si è accorto di niente, meglio così, pensò, il profilo del bambino che spariva dallo sguardo, grata che lui potesse restarne fuori. Non aveva bisogno di sbattere la faccia contro quello che gli sarebbe stato negato, una cattiveria inutile di cui nessuno di loro aveva bisogno. Quando sbucò in cucina, Hope vide bagliori di luce colpire la porta e la finestra, le nocche di Lyall bianchissime nella morsa sulla bacchetta. Stavolta fu lei ad acquattarsi furtiva all'angolo della finestra e a sbirciare fuori, per quanto il vetro chiuso le permettesse, e non vide altro che un pezzo di campagna inglese che agonizzava in quell'ultimo spicchio di inverno. Niente vesti lillà, niente mani incrociate dietro la schiena.
«Non c'è nessuno!» sospirò guardinga, allungando appena il collo.
Lyall la raggiunse appoggiandosi con tutto il peso al suo profilo destro, la spalla all'altezza precisa del suo cuore inquieto. Martellava, come il sangue che lei sentiva batterle sotto la pelle pallida delle tempie e dei polsi.
«Se n'è andato!» concordò alla fine, dopo aver guardato con attenzione la campagna silenziosa fuori dalla loro porta. «Finalmente!» sospirò e poi crollò contro la moglie, la testa nascosta nell'incavo del suo collo. Furono due respiri profondi e mani che si stringevano, giusto il tempo di rimettere insieme i pezzi, quanto bastò per capire che il pericolo era passato.
«Credi che tornerà?» azzardò Hope quando si furono separati, di nuovo in piedi nel loro piccolo mondo di segreti e porte sbarrate.
«No... no!» assicurò Lyall, i dubbi tenuti ben nascosti perché, se conosceva quell'uomo - e lo conosceva -, poteva star certo che sarebbe tornato. Sperava solo di riuscire a tenerlo fuori come oggi. Hope annuì, sforzandosi con tutta se stessa di credere a quel no.
«Andiamo a controllare Remus!»
Lyall si lasciò trascinare per mano, col battito che finalmente rallentava e la presa sulla bacchetta che si ingentiliva. Era come riemergere un po' alla volta da un incubo furioso che si lasciava dietro una scia di stanchezza e gambe molli. Gli ci volle tutta la sua forza di volontà per non rovinare addosso a Hope quando le sbatté contro, immobile come pietra sulla soglia del soggiorno.
«Come ha fatto?» sussurrò lei, sconvolta, la mano che stritolava quella del marito.
Lyall aprì la bocca e boccheggiò comicamente, sembrava lo avessero trasfigurato in un gigantesco pesce.
«Posso averne un'altra?»
Albus Silente si leccò le labbra e indicò con un dito sottile e nodoso il piattino ormai mezzo vuoto che sembrava dover precipitare da un momento all'altro giù dal bordo del tavolino. Remus ridacchiò e si allungò per afferrare il piatto e tenderlo verso l'imponente mago.
«Sono proprio deliziose!» dichiarò e fece schioccare la lingua prima di mordere la frittella.
«Le ha fatte la mamma!» esclamò il bambino, impettito d'orgoglio. Silente piegò la testa in un segno riverente.
«Le farò i miei complimenti non appena la vedrò!»
Remus sembrò sinceramente soddisfatto e con un gran sorriso incrociò le braccia sul tavolino e ci si appoggiò dondolandosi. Le sue gobbiglie erano messe meglio di quelle dell'altro e doveva ragionare attentamente sulla prossima mossa per non sprecare il proprio vantaggio. Quando poi le sue biglie decimarono quelle dell'avversario, lui si premiò con la più grande delle frittelle rimaste nel piatto. Silente incrociò le mani sulle ginocchia e da dietro delicati occhiali a mezzaluna studiò il campo di gioco e la sua solitaria gobbiglia sopravvissuta.
«Mio caro ragazzo, credo tu mi stia stracciando!» esclamò solenne.
Remus raddrizzò le spalle con gli occhi che luccicavano, verdi come l'acqua di un laghetto sotto il sole. Era una bella sensazione vincere, soprattutto considerato che era la prima volta che giocava con qualcuno che non fosse papà. Poi gli venne il dubbio che non fosse proprio cortese battere un ospite – il primo dopo tanti anni - e la bella sensazione si incrinò.
«È arrabbiato, Signore?» chiese serio, la mano destra che tormentava il polso sinistro, lì dove una vecchia cicatrice gli segnava la pelle.
«Oh no, ragazzo mio, ho imparato da tempo ad accettare le sconfitte quando sono meritate» e il vecchio mago gli strizzò un occhio.
Remus si rilassò di colpo e tornò a concentrarsi sulle gobbiglie, senza sentirsi nemmeno un po' in colpa.
Dalla porta, Lyall e Hope continuavano a fissare la scena come fossero sotto l'effetto di un Petrificus Totalus. C'era qualcosa di profondamente spaventoso in quell'uomo che era riuscito ad entrare in casa nonostante tutti gli incantesimi protettivi di cui traboccava eppure, allo stesso tempo, sembrava incredibilmente al posto giusto lì, nel loro salotto, a giocare a gobbiglie con Remus e a mangiare frittelle.
«Lyall.»
Hope lo strattonò per la mano che ancora gli stringeva e quasi lo catapultò nella stanza, tanto chiassosi quanto erano stati invisibili fino ad allora.
«Professor Silente» tossicchiò Lyall, incapace di improvvisare uno straccio di convenevole che non suonasse ipocrita o inopportuno come la porta che in pratica gli aveva sbattuto in faccia.
«Buonasera, Signor Lupin» salutò cordialmente il mago, la lunga veste lillà che toccava terra mentre si alzava per stringergli una mano tra le sue. Remus li osservava curioso dal basso del tavolino.
«Come posso aiutarla, professore?» tentò, sfoderando il sorriso più convincente che gli riuscì di tirare fuori.
«Vorrei parlare di Remus, se me ne concedi l'occasione!» sorrise incoraggiante, ignorando il bambino che si appiattiva intimorito contro il divano e Hope che sobbalzava rumorosamente una poltrona più in là.
«Innanzitutto, devo assolutamente complimentarmi per le meravigliose frittelle che Remus ha così gentilmente condiviso con me» sviò, gli occhi azzurri limpidissimi dietro gli occhiali a mezzaluna che la fissavano con l'innocente impertinenza dei bambini. La donna ebbe appena la presenza di spirito di annuire per dare cenno che aveva ascoltato, mentre Lyall se la tirava vicina come una bambola di pezza.
«Cosa vuole da Remus?» chiese, scontroso d'istinto, sulla difensiva senza neanche accorgersene.
«Remus sta per compiere undici anni e a settembre sarà a Hogwarts», Silente si strinse nelle spalle come se quello bastasse a spiegare tutto.
Lyall scosse la testa e si odiò, si odiò davvero per essere costretto a farlo davanti al suo bambino, il sole scomparso dal laghetto verde dei suoi occhi, spazzato via come tutti i suoi sogni. E quante volte era già successo?
«Non andrà a Hogwarts» sussurrò, la voce impigliata in gola come un uccellino in una trappola, Hope che si agitava inquieta accanto a lui, le mani che stropicciavano il grembiule, un labbro martoriato tra i denti.
«Non può!» disse solo, le parole ruvide di pianto trattenuto, di rabbia che ribolliva e di impotenza. E di colpa, di una colpa così profonda che annientava tutto. E nessuno poteva farci niente, neanche il grande Albus Silente, neanche per quanto volesse e per quanto ci provasse.
«Certo che può, ragazzo mio!» ribatté però l'uomo, la voce così ferma che Remus fu tentato davvero di crederci. Lui lo sapeva, lo sapeva da un sacco di tempo, che i suoi undici anni sarebbero arrivati e sarebbero passati senza che nessun gufo picchiasse alla sua finestra, senza nessuna lettera scritta in inchiostro verde, senza nessun elenco di libri da comprare, senza nessuna Hogwarts a cui andare. Lo sapeva e ci si era rassegnato, così come si era rassegnato a tutto ciò che la maledizione si era portato via e che mai avrebbe avuto, masticato e digerito come un boccone di carne e sangue e niente più.
«Non può e se lei è venuto qua di persona suppongo sappia benissimo il perché» ripeté Lyall, il tono semplicemente letale, come di minaccia sottintesa, come di sfida a insistere, a creare castelli di carta troppo fragili per la realtà. Sarebbe finita male, anche se era Silente, con buona pace del rispetto e della stima e dell'ammirazione che gli aveva sempre portato.
«Capisco i vostri timori, davvero, ma non vedo perché Remus non debba venire a scuola. È un mago, ne ha tutti i diritti e sarebbe ingiusto, profondamente ingiusto, che una tragedia di cui non ha colpe lo privasse dell'istruzione e della compagnia che gli spettano» dichiarò Silente e tirò fuori da una manica larghissima un rotolo di pergamene pregiate che stese tra quel che restava delle gobbiglie abbandonate. «Ho un piano!» sorrise cospiratore e indicò il castello di Hogwarts, il villaggio di Hogsmeade nell'angolo basso della pergamena, una sgraziata casupola nel centro e un lungo sentiero che univa tutto, brillante di intensissimo inchiostro verde. Remus si chinò sulle carte emozionato e pieno di aspettative, come se tutta la sua giovanissima vita dipendesse da quello. Di sicuro ne dipendeva il suo più grande sogno fino a quel momento, la scuola e gli altri bambini e un po' di solitudine in meno, e la consapevolezza colpì Hope e Lyall come mai prima d'ora. Forse perché mai prima di quel momento era stato possibile o lo era solo lontanamente sembrato, mai c'era stato un piano, mai nessuno aveva saputo, mai. E ora invece c'era questo strano mago che vestiva di lillà e ti capitava tra capo e collo a mangiare le tue frittelle e una casa costruita apposta per Remus, con una storia tutta per lui e qualcuno con cui condividere il segreto.
«Allora, mio caro ragazzo, pensi possa funzionare?»
Silente aveva parlato senza sosta negli ultimi dieci minuti, illustrando con generosità ogni dettaglio del suo piano, la casa costruita al limitare del villaggio di Hogsmeade dove trasformarsi in tutta sicurezza, il lungo tunnel sotterraneo nascosto nella pancia del parco della scuola, il terrificante e folle Platano Picchiatore che sarebbe stato piantato a fare da guardiano con i suoi incontrollabili rami e poi Madama Chips e la sua infermeria pronta a tutto e i permessi mensili per saltare le lezioni. Sembrava aver pensato a tutto e Hope si chiese quanto tempo ci avesse dedicato, quante ore ci avesse sprecato su quelle carte, su quel piano. Lyall si chiese se invece, davvero, tutto sarebbe andato liscio come diceva il professor Silente, se Remus avrebbe, davvero, potuto affrontare tutto quello da solo.
«Ma se gli altri sapessero...» si lasciò scappare, le spalle che tremavano al solo immaginare quel che sarebbe potuto accadere se non fosse stato più un segreto e tutti avessero saputo del morso, della maledizione, del lupo che reclamava il suo piccolino ogni stramaledetto mese.
«Non tutti, Lyall, solo i professori e l'infermiera, nessun altro. E vi garantisco che nessuno parlerà, che nemmeno una parola uscirà da Hogwarts. D'altronde, sono d'accordo che, per il bene di Remus, sia meglio che nessun altro sappia che è un Lupo Mannaro. Puoi farlo, vero, Remus? Intendo non dire a nessuno delle trasformazioni.»
Il professore si rivolse direttamente a Remus, puntando gli occhi azzurrissimi nel delicato verde acqua dei suoi.
«Certo, Signore, so che non devo dirlo a nessuno.»
E Silente ebbe il flash di un bambino piccolissimo, di occhi lucidi di dolore e di un padre distrutto che costruiva un rifugio di segreti a forza di Sarà meglio che tu non giochi più con gli altri bambini. Era così dolorosamente familiare che fu un sollievo distogliere lo sguardo e riempirlo del sorriso infinito di Remus.
«Perché fa tutto questo per noi? Per Remus?»
Hope non riuscì a trattenere la curiosità, la gratitudine sorpresa che le aveva arrossato le guance sotto le ciocche di capelli sfuggiti dalla treccia.
«Suppongo che sia perché voglio essere un buon preside» minimizzò Albus facendole di nuovo l'occhiolino e sistemandosi la lunga barba tra le pieghe della veste.
Lyall sbuffò una mezza risata di incredula e vaga gelosia.
«Quindi andrò davvero a Hogwarts?» chiese Remus, giusto per esserne sicuro davvero, per non svegliarsi e scoprire che era solo un sogno, un'illusione che sarebbe morta con il buio della notte.
«Assolutamente sì, senza ombra di dubbio!» ammiccò Silente e non ci furono più domande, nulla che avesse più importanza di Remus che era esploso di gioia, letteralmente, come un piccolo fuoco di artificio e miliardi di scintille accecanti.
«Andrò a scuola, andrò a scuola anche io e ci saranno un mucchio di altri bambini» rise euforico e praticamente si schiantò contro Lyall, un tornado in miniatura che si sbracciava incontenibile verso Hope.
E nemmeno si accorsero di Silente che andava via, in uno sbuffo di lillà così come era arrivato, tutto intorno a loro che traboccava di una felicità nuova, sconvolgente, calda come gli abbracci di Remus, vibrante come la sua litania di Hogwarts, Hogwarts, Hogwarts che non riusciva a frenare, incredibile come i bambini che avrebbe finalmente incontrato. Magari non sarebbero stati amici, quello non si poteva comunque, ma andava bene così, gli bastava.

 
Benché dia ben poca luce,
un lucignolo che sfrigola
è immensamente più luminoso
delle tenebre assolute

[Arthur Haley]

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