Trenta denari

di Rosebud_secret
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


 


La fiammella danzava trascinata dal vento di quell’afosa sera di metà Agosto. Il cielo era plumbeo e l’alone rossastro del sole ormai quasi del tutto tramontato conferiva alla strada un aspetto opprimente. Non aveva mai amato New Orleans, ma ormai si era rassegnato all’idea che quella sudicia, rovente e afosa città del sud sarebbe stata la sua casa per l’eternità. Guardò distrattamente un giovane musicista trascinare la custodia della chitarra lungo la strada deserta. Un altro povero diavolo diretto a Bourbon Street, o magari a Frenchman Street, nella speranza di tirar su qualche soldo o forse un po’ di fama.
Era una triste ed amara realtà quella di New Orleans, fatta di ubriachi, puttane e turisti che riempivano il quartiere di una melodia di sogni infranti.
Lucien vi era arrivato oltre due secoli prima, aveva visto i massacri degli schiavi, ad alcuni aveva persino partecipato, più per dovere che per pregiudizi razziali, e questo aveva segnato la sua condanna.
Ad ogni modo, per quanto il progresso fosse lentamente arrivato anche al sud, a lui quella palude putrida appariva sempre uguale: ricca di decadenza e il perfetto luogo di caccia. Se solo non fosse stato tanto stanco di farlo.

Distolse lo sguardo da quel giovane che tanto gli ricordava un altro volto, attirato dall’intenso gracchiare del grosso corvo nero che, sbattacchiando le grandi ali, si era posato sul palo arzigogolato che reggeva quel lampione a gas. Era una peculiarità del Quartiere Francese avere un’illuminazione così demodé, come a voler rappresentare che, per quanto il mondo avesse raggiunto il XXI secolo, certe cose non sarebbero mai cambiate.

“Sono in pausa.”

“Cra!”, ribatté il corvo, scrutandolo dall’alto con i suoi piccoli occhi rossi.

“Quello va bene? È solo un ragazzino.”, sospirò Lucien, non per buon cuore, quanto perché non ne aveva alcuna voglia.

Il corvo non emise alcun altro verso e si alzò in volo per tornare da dove era venuto.
Lucien strinse le spalle con rassegnazione e si sistemò i capelli bruni, prima di incamminarsi a passo lento dietro al giovane. Lo studiò con attenzione, per quanto da secoli gli apparissero tutti uguali. Con amarezza riconobbe di esser diventato ancor più decadente di quella pidocchiosa città.

“Ehi, tu, chitarrista!”, lo chiamò.

Il giovane si voltò, mostrando un viso pulito tra gli scarmigliati capelli corvini. Aveva occhi splendenti, di un azzurro intenso, ed era davvero grazioso.
“Dice a me?”

E aveva anche maniere educate: una caratteristica non scontata per le strade di New Orleans. Gli si avvicinò, sfoderando uno di quei sorrisi smaglianti che avevano irretito più persone di quante ne ricordasse.
“Vedi qualcun altro?”

Il ragazzo si guardò attorno e rabbrividì nel notare che quella traversa era del tutto deserta. Era appena arrivato in città con i pochi risparmi di ben cinque anni e stava cercando un qualsiasi locale per mostrare il suo talento, ma era solo riuscito a perdersi.
“No.”, rispose, esitante, “Sa per caso indicarmi la strada per Bourbon Street?”

“Se vuoi, ma potrei anche avere di meglio da offrirti.”, disse Lucien senza accennare a far sparire il sorriso, “Perché non tiri fuori la chitarra e mi fai sentire che sai fare?”

“Qui?”

Lucien spalancò le braccia, accomodante.
“Siamo nella città della musica. Si suona ovunque e a tutte le ore.”

L’altro esitò ancora un istante, pieno di timore e di incertezza, poi si sedette sul gradino dell’entrata di un negozio chiuso e tirò fuori la sua vecchia chitarra semiacustica dalla custodia.
Cominciò a suonare e a cantare una versione maldestra di Henry Lee¹ che risultò essere misera e priva della benché minima interpretazione, per quanto ci fosse un po’ di sentimento. Senza contare che scegliere un duetto da cantare in solo era davvero una pessima idea.

“Splendido.”, mentì Lucien, dopo avergli concesso un breve applauso, “Come ti chiami?”

“Jonathan.”, rispose il giovane, affrettandosi a metter via lo strumento.
C’era qualcosa nell’altro che lo metteva a disagio. Appariva distinto in quel completo grigio fumo, ed era bello, molto bello, per quanto avesse già superato la trentina, ma nonostante questo c’era una luce predatoria nei suoi occhi scuri.
“Può dirmi dov’è Bourbon Street?”, domandò di nuovo, ficcando le mani nelle tasche dei jeans consunti.

“Tu suonerai per me, stanotte.”, ribatté Lucien, fermando con un cenno uno dei calesse che venivano usati per lo più dai turisti. Era un mezzo imponente, di legno verniciato di nero e intarsiato con gradevoli decorazioni.
“Sali.”

E Jonathan, per quanto titubante e spaventato, non poté fare a meno di accettare l’invito. Quasi inconsapevolmente si accomodò sul divanetto della carrozza e si rese conto di averlo fatto solo quando il mezzo era già in marcia da tempo. Lo sconosciuto gli sedeva di fronte con le gambe accavallate e un braccio mollemente appoggiato allo schienale. Continuava a sorridere e questo, se possibile, lo allarmò ancora di più. Sarebbe bastato un attimo per balzare giù dal calesse e scappare via, eppure una forza che non riusciva a spiegarsi sembrava tenerlo ancorato a quel divanetto.

“Allora, Jonathan, da dove vieni? Il tuo accento non è del sud.”

Fu per un labile istante, ma il ragazzo ebbe come l’impressione che i suoi occhi avessero brillato come quelli di un gatto, quando erano passati sotto all’ennesimo lampione a gas. Deglutì e si rimproverò: era vero che, durante il pomeriggio, aveva visitato un paio di quei negozietti voodoo che si incrociano in ogni strada, ma l’aveva fatto per curiosità. Lui non credeva a quelle cose.

“Da Portland.”

“Maine?”, domandò Lucien.

“No, Oregon.”

“Un bel viaggio. Cosa ti porta a New Orleans? Sei qui per restare?”

Jonathan si mosse nervosamente sul divanetto, torcendosi le mani per il nervosismo. Stava sudando molto e sentiva che non era colpa dei quarantadue gradi di quella notte. Avrebbe tanto voluto farsi una canna per stemperare la tensione, ma non aveva nulla.
“Starò qui per un mese. Era il mio sogno venire a suonare dove tutto è cominciato. Questa città è la patria del Blues, del Soul, del Jazz…”, spiegò, “Magari potrei avere la mia chance, ottenere un ingaggio...”

“La tua chance è già arrivata.”, rispose Lucien, sfilandosi un bigliettino da visita dal taschino della giacca grigia.

Jonathan lo prese e si sentì ancor più a disagio quando, sfiorate le sue dita, si rese conto che erano gelide.
“Lucien Laurent, agente. 333 Rue de la Perdition.”, bofonchiò a mezza voce, “Di che si tratta?”, chiese, ora più interessato che spaventato.

“Per il momento ancora di nulla. Come ti ho detto: suonerai per me, questa sera. In un piccolo circolo. Da domani, se sarai interessato, stileremo un contratto ed io ti troverò degli ingaggi in altri locali. Posso trovarti anche dei musicisti d’appoggio.”

“Quanto… quanto devo pagare per questo? Non ho soldi. Cioè, ho solo quelli per pagarmi l’appartamento e comunque non sono molti.”

“Questa sera è un giro di prova gratuito. Se domani mi interesserai ancora, prenderò una percentuale del 25% dalle mance che riceverai ad ogni ingaggio. Tutto sommato mi appare una proposta abbastanza onesta.”

“S-sì, penso di sì… perché io?”

Lucien sorrise ancora una volta.
“Ho un certo sesto senso, ma se preferisci una risposta più professionale: sei giovane, di bell’aspetto, se poi sei anche talentuoso. Basterà tirarti un po’ a lucido per poter fare di te un prodotto vendibile non solo a qualche bettola, ma magari persino ad un’etichetta discografica. Ma è prematuro parlare di questo.”

“Non sono il prodotto di vendita di nessuno. E non mi piace affatto la piega che sta prendendo questo discorso, signor Laurent.”

L’altro non fece una piega.
“Ah, gli ideali! Sono una gran bella cosa, Jonathan, ma un messaggio dev’essere venduto perché qualcuno lo ascolti. Nessuno da peso alle cose gratis, men che meno se a donarle sono degli emeriti sconosciuti. Hai bisogno di qualcuno come me.”

Il ragazzo rimase in silenzio per qualche istante, incerto.
“Proveremo questa sera, ma se sento un’aria che non mi piace, me ne vado, chiaro?”

“Ci mancherebbe.”, annuì Lucien, per poi rivolgersi al conducente della carrozza: “Svolta a sinistra e fermati a metà viale, siamo arrivati.”

Jonathan guardò con rinnovata paura gli alberi dalle lunghe frasche che stavano ai due lati di quell’ennesima strada deserta. Si erano spostati parecchio dal Quartiere Francese e quando guardò l’orologio notò che erano già le 22.30, era trascorsa un’ora e mezza.

“Non preoccuparti.”, lo rassicurò Lucien, scendendo dalla carrozza, “Ti riaccompagno io a casa, dopo.”

Lo seguì, sempre più incerto, e si preoccupò all’udire il cavallo nitrire di spavento, quando il suo inquietante anfitrione gli passò vicino.
Lucien si voltò verso il ronzino, e questo mosse qualche rapido passo indietro, prima di impennarsi e stramazzare al suolo, ribaltando la vettura. L’animale aveva il petto scosso dall’affanno e il cocchiere era nel panico.

“Andiamo.”, sentenziò Lucien, posando una mano sulla schiena del giovane per indurlo a camminare, “Non sono un nostro problema.”

“Cos’è successo al cavallo?”, domandò Jonathan, continuando a voltarsi indietro.

“Quelle povere bestie vengono sfruttate allo stremo. Non è troppo strano che, di tanto in tanto, ne muoia qualcuna per la fatica.”

“A me è sembrato terrorizzato, non stanco…”

“Siamo arrivati.”, lo ignorò Lucien, scostando un basso cancello in ferro battuto che apriva la strada al lungo vialetto di una grande villa padronale sudista. Era un’abitazione imponente, costruita in legno e alta tre piani.

Jonathan si strinse nelle spalle e la guardò con timore. Quel posto faceva paura. Un alito di vento scostò le frasche delle piante rampicanti che pendevano dalle facciate, e non poté fare a meno di udire il tintinnio di decine e decine di collane variopinte, lasciate lì appese dal Mardi Gras².
Lucien lo anticipò sulla veranda e picchiò tre colpi col battiporta. Una bella donna di colore aprì l’uscio e salutò calorosamente il suo anfitrione.

“E tu chi sei?”, domandò al giovane.

“Jonathan Tompson, piacere.”

“Un nuovo talento, eh? Lucien, ha sempre buon occhio. Io sono Chantal. Venite, la festa è appena cominciata e siete i benvenuti.”

L’ambiente all’interno era ricco ed accogliente. Un grande salone ben illuminato si apriva al di là del piccolo corridoio dove Lucien lasciò la giacca del completo. C’erano una ventina di persone di etnia mista, tutte vestite in modo distinto ed elegante. Jonathan si sentì un pesce fuor d’acqua ed era sul punto di comunicare la sua intenzione di andarsene quando si accorse di esser rimasto solo.
Chantal lo raggiunse e lo prese a braccetto.
“Ci serve qualcuno che ci allieti la serata.”, disse, conducendolo verso la vetrata di fronte a cui era stato allestito un piccolo palco, “Lascia pure a me la tua chitarra, la metterò nell’ingresso. Puoi usare la nostra.”, aggiunse, sfilandogli la custodia da sopra alla spalla.

Jonathan sbarrò gli occhi quando mise a fuoco la Gibson semiacustica modificata che lo aspettava sul supporto accanto all’asta del microfono.

“Offriamo solo il meglio ai nostri musicisti.”, sorrise la donna, prima di allontanarsi.

Esitante il ragazzo sollevò lo strumento e lo soppesò quasi con reverenziale timore. Stava stringendo un sogno tra le dita, uno strumento che non avrebbe mai potuto permettersi in tutta la vita. I suoi occhi vagarono per la stanza alla ricerca di Lucien, ma l’uomo sembrava essere svanito nel nulla. Non era al buffet, né al bar, né insieme agli altri invitati che facevano gruppetto vicino ai divanetti.
Decise di sedersi comunque sullo sgabello e, sfilatosi il plettro dalla tasca, vibrò le corde per assicurarsi che lo strumento fosse accordato.

“Ehm… buonasera a tutti.”, salutò, avvicinando la bocca al microfono, “Non ero preparato per questo ma, insomma… spero comunque di offrirvi una buona serata.”

Ci fu un breve applauso da parte di qualcuno dei presenti, al termine del quale si decise a cominciare a suonare. Non erano molti i pezzi che ricordava a memoria, ma erano sufficienti per cominciare. Al limite, durante una pausa, sarebbe andato a prendere le partiture nella custodia.
Suonare lo tranquillizzò e, ad ogni nuovo brano apprezzato dal pubblico, la sua autostima si rinvigorì un po’. Aveva terminato il settimo pezzo e cominciato l’ottavo, una sua cover di The night they Drove Old Dixie down³, quando, sollevato lo sguardo, scorse di nuovo Lucien: era appoggiato al bancone del bar e stava sorseggiando un drink. Era sicuramente attraente in camicia e cravatta, quasi magnetico. E, cosa che lo mise ancor più in imbarazzo: lo stava fissando con intensità.
Quando lo stridere della chitarra gli palesò che aveva sbagliato un accordo decise di distogliere lo sguardo. Proprio mentre un alto uomo di colore, in giacca, tuba e occhiali scuri raggiungeva Lucien.


“Hai trovato una creaturina davvero graziosa, questa volta. E queste illusioni! C’è lo zampino di Chantal, ma tu, Lucien, sei davvero il mio agente migliore.”

“Mi avevi garantito un periodo di sosta.”, ribatté l’altro, voltandosi, “Sono stanco, Samedi.”

“Avrai il tuo riposo quando io lo deciderò. Ma adesso basta con questo strazio. Sarà anche vezzoso, ma suona da schifo. Mettiti al lavoro.”




Un gemito di dolore sfuggì alle labbra di Jonathan, quando riaprì gli occhi. Era a letto, nel suo letto. O, per meglio dire, in quello del pidocchioso monolocale che aveva affittato per l’intero mese. La testa gli doleva terribilmente e non aveva idea di come si fosse conclusa la serata, né di come fosse rientrato. Si tirò a sedere e caracollò giù dal letto di corsa, raggiungendo il bagno per miracolo, prima di rimettere anche l’anima.
Ansante crollò in ginocchio abbracciato alla tazza. Non era mai stato un campione di assennatezza nella vita, quindi non era la prima volta che si ritrovava in quella condizione, ma quel malessere non l’aveva mai provato prima, neanche dopo le più terribili sbronze.
I ricordi cominciarono lentamente a riaffiorare, anche se lenti e parziali: aveva suonato per quasi due ore, poi Lucien e Chantal lo avevano invitato al piano di sopra, in una saletta più piccola, dove avevano bevuto e fumato qualcosa, forse crack. Ed ecco spiegato il perché si sentiva di merda. Si rimproverò come molte altre volte aveva fatto a Portland e pregò che Thomas, il suo ragazzo, non venisse mai a saperlo.

“Cazzo, Thomas!”, imprecò, sbattendosi una mano sulla fronte.

Si rialzò e si diede una ripulita sommaria al lavandino, prima di tornare nell’altra stanza e rovistare tre le sue cose ammassate, in cerca del cellulare.
Trentadue chiamate perse.
Si affrettò a richiamarlo.
“Pronto, amore! Oddio, scusa non ho davvero sentito il telefono! Che? No. No! Non mi sono fatto di nuovo, lo giuro. La voce, ah, è così solo perché ho bevuto un pochino, sai?, ieri ho incontrato un tizio, un agente e…”, bene o male gli raccontò quel che era successo, inventando buona parte del fine serata.
“Mh, il tizio si chiama… aspetta.”, raccattò i jeans, arrotolati nell’angolo basso del letto e tirò fuori il biglietto da visita, “Lucien Laurent. No, non l’ho googlato. Ho te per questo. Dai, mi ributto a letto. Sono un vero rottame. No! No, non dovrai venire qui a raccogliermi col cucchiaino. Sto bene, Thomas, non cominciare a fare la chioccia! Ti amo anch’io.”

Chiuse la comunicazione e gettò il telefono sul comodino, prima di lasciarsi cadere sul letto a peso morto.
La testa continuava a mandargli violente fitte, nonostante questo, riprese sonno non appena chiusi gli occhi.
Strani sogni costellarono il suo riposo. Un violino suonava in sottofondo, poi corpi, tanti corpi nudi, l’ebrezza del piacere, la perversione dell’essere dominato e posseduto innumerevoli volte, poi il dolore e il rosso del sangue. Il suo? Quello altrui?
Scattò a sedere quando il suono insistente del campanello ruppe il suo sonno. Ancora sconcertato da quell’incubo si avvicinò alla porta e la socchiuse appena per ritrovarsi di fronte il sorriso di Lucien.

“Sei di nuovo in piedi.”, l’udì commentare.

Jonathan si fece da parte, lasciandolo entrare.
“Che è successo ieri notte? Come sono tornato qui?”

“Ti ci ho portato di peso, dopo che ti sei addormentato alla festa. Hai qualche problema a gestire droga e alcool, dico bene?”, rispose Lucien, passando un dito sulla libreria polverosa.

“Io…”

“Non prendermi per un moralista: non me ne importa nulla, fintanto che resterai sobrio mentre lavori. Prima e dopo puoi fare quel che preferisci.”

“Che altro è successo? Non ricordo assolutamente nulla e non mi è mai successo, signor Laurent.”

“Ieri notte mi chiamavi Lucien.”

Un brivido scosse la schiena del giovane.
“Qualunque cosa abbia fatto con te è stato...!”

“Temo che tu abbia frainteso. L’unica che è rimasta ferita, e solo nell’orgoglio peraltro, è stata Chantal, quando le hai non troppo carinamente riferito che fotti solo con gli uomini. Parole tue. Per quel che mi riguarda, non mescolo sesso e lavoro. Ma penso di non sbagliare se ipotizzo che tu abbia fatto ben più di un pensiero su di me. Forse lo stai facendo persino adesso.”

Lucien gli si avvicinò, fermandosi ad un passo da lui. Jonathan serrò i pugni, e si maledì, perché per quanto cercasse di negarlo quel bastardo era estremamente attraente.

“Ti sbagli.”, sbottò a fiato corto.

Quello che l’altro gli rivolse fu più simile a un sogghigno che ad un sorriso.
“Poco importa. Qui c’è la lista dei locali in cui suonerai in serata.”, disse, mettendogli in mano due fogli e tornando verso la porta.

“Non voglio lavorare per te.”

“Dovevi pensarci prima di firmare il contratto, ieri sera. Te ne ho stampata una copia. Fatti una doccia e raditi, ti aspetto in macchina.”



Non andarono in nessun’altra casa assurda e questo rincuorò non poco Jonathan che suonò splendidamente per tutta la sera, come non aveva mai fatto nella vita. Ma era troppo emozionato dagli applausi e dal barattolo delle mance che si riempiva sempre di più ad ogni nuovo locale per rendersene conto.

“Non mi sembra andata male.”, commentò Lucien, quando furono di nuovo in macchina.

“Trecentocinque, trecentosei, trecentosette… trecentosette dollari e ottantanove centesimi!”, gioì il ragazzo, finendo di contare i soldi, “Non avevo mai fatto così tanto solo con la musica! Quant’è la tua parte?”

“Circa ottanta dollari, ma per il momento puoi tenerteli. Consideralo un incentivo. Sono solo briciole, sono ben altri gli incassi che mi aspetto di ottenere con te.”

“Bhe, grazie, amico. Senti, siamo partiti col piede sbagliato. Cristo, ti ho persino accusato di…”

“Tutto dimenticato.”, lo interruppe Lucien, accostando di fronte al palazzo scalcagnato dove l’altro aveva trovato alloggio.

“Senti… ti va di salire? La casa l’hai vista, è un casino, ma una birra posso comunque offrirtela.”

L’altro si limitò ad annuire ed insieme raggiunsero il secondo piano dello stabile.

“Merda, il frigo è rotto!”, imprecò Jonathan, “Non me n’ero accorto. Birra calda?”, domandò, grattandosi la nuca per l’imbarazzo.

“Ti prego, no.”, rispose Lucien con una risata, prima di sfilarsi la giacca e sedersi sul letto sfatto.

“Da quanto fai questo lavoro?”

“A volte mi sembrano secoli.”

Il cellulare di Jonathan trillò brevemente e il ragazzo controllò il messaggio. Era di Thomas, che a Portland si era appena alzato.
“Ho fatto qualche ricerca. Lucien Laurent sembra un fantasma, non ha un sito, una pagina Facebook. Niente di niente. Non mi piace.”
Si rimise il telefono in tasca.
“Ti ho googlato e non ho trovato nulla su di te. Sulla rete non esisti.”

Lucien sorrise.
“Sono un tipo all’antica. Non mi piacciono i computer, preferisco lavorare alla vecchia maniera e prendere direttamente contatto con i proprietari dei locali.”, allungò una mano e sfilò una piccola agendina nera dalla tasca interna della giacca, “Ho tutto qui.”

“Quando andiamo in Bourbon Street?”

L’altro sbuffò.
“Quella strada è sopravvalutata. Roba per turisti, se vuoi ti ci porto, ma ne resterai molto deluso. È caotica, frivola e piena di ubriachi a tutte le ore. Se New Orleans puzza di fogna e vomito, Bourbon Street è molto peggio.”

“Ma potrei fare più soldi.”

Lucien si rialzò e reindossò la giacca.
“Non essere veniale. Ci vediamo domani sera alle nove.”

“Di mattina?!”, esclamò Jonathan, spaventato all’idea di doversi alzare da lì a tre ore.

“Ho detto sera. Non lavoro di giorno.”

Si chiuse la porta alle spalle e scese in strada, animato da un bisogno che non sentiva così vivo da molto tempo. Aveva sete, una sete incontenibile. Colpa di quel ragazzino, probabilmente. Gli piaceva. Certo, come al gatto piace giocare con il topo, ma l’idea di non poterlo neppure sfiorare per non venir meno al suo stesso codice lavorativo, o piuttosto ad un bizzarro senso di fedeltà, lo rendeva frustrato. Era un ricordo quello che lo aveva scosso. Niente più che una pallida somiglianza, ma, a quanto pare, era stata sufficiente.
Salì in macchina, deciso ad ignorare la sensazione e tornare a casa, quando vide una ragazza camminare da sola sul marciapiede.
Accostò e abbassò il finestrino.

“Ti serve un passaggio?”, le chiese con voce suadente.

La giovane esitò un poco, ma Lucien già sapeva che avrebbe accettato. Ammaliare le menti era uno dei suoi tanti talenti, se tali potevano essere definiti.
Quando si fu seduta in macchina non si preoccupò neppure di poter sporcare i sedili in pelle e si avventò su di lei.
Sentire il sangue scorrere nella sua gola, una volta che le ebbe affondato i canini aguzzi nella giugulare gli fece provare un antico brivido di piacere. C’era sempre qualcosa di erotico nel nutrirsi della vita di qualcun altro, anche se non si sentiva così voglioso da tanto, troppo tempo.
Frustrato lasciò andare il corpo ormai esanime della sciagurata e colpì il volante con una manata, rendendosi conto di essere tutt’altro che sazio. Nonostante questo resistette alla tentazione di tornare da Jonathan e mise in moto.
Mancava poco meno di mezz’ora all’alba, il che voleva dire che avrebbe dovuto tenersi il cadavere di quella stupida in macchina sino alla sera dopo. E con quaranta gradi di notte.

“Merde!”




Thomas sedeva di fronte ad uno dei computer della sala multimediale dell’ateneo con ben poca voglia di studiare e molta preoccupazione per Jonathan. Se era vero che l’aveva appoggiato nella sua folle idea di partire per New Orleans, era anche vero che se n’era profondamente pentito. Non stavano insieme da molto, ma ci erano voluti mesi per raccattare i pezzi del suo compagno e riportarlo ad una precaria condizione di sobrietà.
Sbuffò, cliccando sulla barra di ricerca di Google, e digitò ancora il nome di Lucien Laurent. Solo dopo si accorse che il professor Morris era alle sue spalle. Si voltò per dirgli che faceva parte di una ricerca, ma non aprì neppure bocca quando vide il suo volto sbiancare. Era un uomo bizzarro, Richard Morris, solitario e taciturno. Non aveva una moglie, né delle frequentazioni, cosa che infondeva speranza in molte audaci studentesse che lui non considerava affatto.

“Che sta facendo, O'Neal?”, lo sentì chiedere con tono basso, quasi minaccioso.

Thomas lo osservò meglio: si era irrigidito e teneva i pugni serrati con tanta forza che le nocche gli si erano sbiancate.

“S-solo una ricerca per il mio ragazzo, ma se le serve questo terminale…”

Il professore gli voltò le spalle tanto bruscamente che la sciarpa di seta che portava sempre al collo schioccò nell’aria. Thomas raccattò frettolosamente i libri che aveva sul tavolo e lo rincorse.
“Professore! Professore, si fermi!”

“Nel mio ufficio.”, ribatté lui senza rallentare.

“Che sta succedendo? Conosce Lucien Laurent?”, insistette Thomas, allungando il passo.

L’altro non rispose e spalancò la porta del suo ufficio, facendogli cenno di entrare. Con il panico negli occhi si guardò intorno, spaventato, prima di chiudere l’uscio e sedersi alla scrivania.
“In che modo hai a che fare con lui? Dove lo hai conosciuto?”, andò dritto al punto, aprendo il cassetto centrale e stringendo in mano un sacchettino di velluto nero.

Il giovane fissò l’insegnate con rinnovato panico. Era inusuale scorgere anche solo l’ombra di una qualsivoglia emozione sul suo volto. Era una delle cose che rendevano quell’uomo sulla quarantina bello e affascinante al tempo stesso, ma Thomas non aveva una cotta per lui, per quanto avesse ammesso con Jonathan che un giro con il prof se lo sarebbe fatto volentieri, all’occasione.
No, Thomas in quel momento aveva solo paura.

“Gliel’ho detto: è per il mio…”

“Come e dove?”, lo interruppe di nuovo Morris, e, in quella circostanza, l’accento del sud che aveva tanto a lungo cercato di cancellare tornò fuori, incontrollato.

“Jonathan ha conosciuto questo strano tizio a New Orleans. Gli ha detto di essere un agente, o qualcosa del genere. Lei lo conosce? È pericoloso?”

L’uomo si alzò e recuperò un volume dalla libreria alle sue spalle e glielo spalancò davanti agli occhi.
“Assomiglia a questo?”, domandò, puntando il dito sulla foto di un ritratto antico.

Thomas sbatté le palpebre, sconcertato.
“Ma che sta dicendo?”, esclamò, “Perché mai dovrebbe assomigliare a un tizio dell’800?”

“Risponda alla domanda!”

“Non lo so! Io non l’ho ma visto! Vuole spiegarmi?”

“No. Fuori, O'Neal.”

Il ragazzo non se lo fece ripetere e uscì dall’ufficio senza neppure prendere i libri. Lasciò l’ateneo di corsa e salì in macchina, diretto all’aeroporto.
Morris invece, rimase seduto a lungo alla scrivania, incerto su cosa fare. Con mani tremanti rovesciò il contenuto del sacchettino sul libro e fissò con insistenza le pepite d’argento brillante che ricoprivano il volto di Laurent. Ne prese uno, lo soppesò tra le dita, prima di stringerlo nel pugno.
Cinque, gliene restavano solo cinque.




“È libero?”, domandò Jonathan, avvicinandosi al taxi.

Il tizio al volante annuì e lui si accomodò. Teneva stretto tra le dita un foglio di giornale con un trafiletto sulla morte del cavallo che aveva portato lui e Lucien a quella strana villa, solo una settimana prima.
Era stato un vero caso il fatto che gli fosse volato praticamente in faccia mentre usciva di casa per andare a comprare qualcosa da mangiare.
Disse l’indirizzo al tassista, dopo averlo guardato, poi lesse le poche righe. Il cocchiere era sotto processo per maltrattamento di animali, ma lui ricordava bene quel che era successo. Il cavallo stava bene, sembrava in forze e in salute. Si sentiva un po’ un idiota ad imputare la colpa della sua morte a Lucien, ma qualcosa nella sua testa gli suggeriva che, per quanto assurda, non fosse un’idea del tutto campata per aria.
Con nervosismo guardò fuori dal finestrino, domandandosi in quale casino fosse riuscito a cacciarsi, quella volta.
Inoltre non sentiva Thomas dalla sera prima, altra cosa ben strana.

“Siamo arrivati.”, gli disse l’uomo.

Pagò senza fiatare e scese dalla macchina. I soldi, grazie a Lucien, non erano più un problema, ma qualcosa continuava a non quadrargli in quella faccenda. Si incamminò lungo il marciapiede, sorprendendosi, ancora una volta, di come New Orleans potesse apparire una città fantasma, alle volte.
Lungo quella via alberata non c’era anima viva. Forse perché erano le tre del pomeriggio e faceva un caldo davvero infernale, ma era comunque inquietante.
Avanzò piano, guardando con attenzione sia a destra che a sinistra per ritrovare la villa, ma, giunto alla fine della strada, si rese conto di non averla incrociata.
Tornò indietro, e fu per puro caso che posò lo sguardo sulla cancellata in ferro battuto. La ricordava lucente, riverniciata di fresco, e invece ora era verdastra d’ossidazione e smangiata dalla ruggine.

“Oh mio Dio…”, gemette, guardando verso la villa.

Le finestre erano sbarrate, il giardino era pieno di erbacce e di rifiuti. Persino la facciata era tutta scrostata e uno sbiadito cartello “IN VENDITA” penzolava storto sulla porta scalcagnata.
Sembrava disabitata da decenni e prossima al crollo.

Il sangue gli si gelò nelle vene e, da principio, pensò di essersi preso un abbaglio. Ciò nonostante, scavalcò il cancelletto e corse sulla veranda. Spinse con delicatezza l’uscio socchiuso, e il suono sinistro delle collane appese al balcone lo fece rabbrividire.
Prima di fare qualcosa di molto stupido, cercò di chiamare Thomas, ma aveva il cellulare spento, quindi, dopo avergli mandato un sms, mosse passo all’interno.
Il corridoio era quello che ricordava, identico, se non fosse stato per il parquet rovinato, la polvere e le ragnatele ovunque.
Raggiunse la sala in cui aveva suonato e, ormai non c’erano più dubbi: era proprio la stessa villa.
Affannato dal panico salì le scale per il piano superiore e subito il tanfo gli fece salire la nausea. Si disse che doveva tornare indietro, ma il desiderio di sapere sbaragliò la paura, quindi con mano tremante, aprì la prima porta sulla sinistra. Sbarrò gli occhi alla vista di un corpo gonfio, in putrefazione da giorni. Non perse tempo a cercar di capire se fosse un uomo, una donna o chissà cos’altro e corse fuori da quella dannata casa il più velocemente possibile.




N.d.A.: Questa storia partecipa al contest Darkness del forum di EFP. E' una minilong di due capitoli e spero che  vi piaccia più di quanto piaccia a me, ovvero ben poco. La mia gratitudine e le mie scuse a chi la sta leggendo. Il bellissimo banner in apertura è di Nemainn che, a sua volta, partecipa al contest. La ringrazio davvero tantissimo per questo splendido regalo.

1) Henry Lee, canzone di Nick Cave & The Bad Seed
2) Mardi Gras, una festa di New Orleans, rassimilabile al nostro Carnevale.
3) The night they Drove Old Dixie down canzone dei The Band

 

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Capitolo 2
*** II ***


Il tassista era ancora in fondo alla strada, sonnecchiante, e Jonathan lo spaventò a morte quando, pallido e madido di sudore balzò sui sedili posteriori e gli ordinò di andare al numero 333 di Rue de la Perdition.
Scrisse a Thomas anche quest’altra cosa, tacendo però sul fatto di essere entrato in una villa fatiscente che, sino a due settimane, prima era in perfette condizioni, e anche su quello di averci trovato un cadavere. Lo avrebbe preso per pazzo, come minimo, oppure avrebbe pensato che si era fatto di nuovo, mentre lui era più che sobrio, per sua sfortuna.

Ci volle quasi mezz’ora per ritornare a quella zona periferica del Quartiere Francese e, quando fu sceso, Jonathan non si sentì più molto certo di voler proseguire. Si avvicinò al portone e guardò a lungo il campanello, prima di decidersi a suonare. Per un po’ non ottenne risposta e dovette riprovare altre tre volte, con trilli sempre più lunghi, prima che la voce scocciata di Lucien chiedesse spiegazioni.

“S-sono io, aprimi.”, riuscì a bisbigliare.

Il portone scattò e lui si precipitò dentro. C’era un breve corridoio buio e poi una lunga scala ripida illuminata da una lampadina giallognola. La salì di volata, ma sussultò quando Lucien aprì una seconda porta. Era nudo e appariva piuttosto infastidito.

“A cosa devo tale improvvisata?”

Il giovane lo scostò ed entrò nell’appartamento, costituito da un unico ambiente molto ampio e arredato con gusto minimalista. Tutto era in penombra, visto che grosse e pesanti tende nere chiudevano del tutto le finestre.
Jonathan si avvicinò a una di esse per far entrare la luce del sole.

“Ti prego, no.”, lo fermò la voce di Lucien, “Non sono un grande estimatore del giorno.”, aggiunse, premendo un interruttore e illuminando la grande stanza.
“Prego, accomodati. Sembri scosso.”

“Credo di star impazzendo!”, gemette Jonathan, facendo avanti e indietro davanti al divano bianco, “Chi sei tu? Che cosa vuoi da me?”

Lucien non fece una piega. Si limitò a sedersi con leggerezza sulla poltrona di rimpetto al sofà e ad accavallare le lunghe gambe, del tutto a proprio agio nella sua completa nudità.
“Pensavo di aver già chiarito questo punto.”, commentò.

Jonathan lanciò uno sguardo al letto sfatto, prima di posarlo su di lui.

“Oh, capisco.”, sorrise Lucien, facendo per rialzarsi.

“N-non ti avvicinare! Sta’ lontano da me!”, sbraitò il ragazzo.

L’altro inclinò il capo, interessato e divertito.
“Ebbene, vuoi spiegarti?”
Era a tanto così dal passare il segno, lo sapeva, lo sentiva a pelle e, in fin dei conti, forse non lo riteneva neppure così sbagliato.

“Sono stato alla villa e non è altro che un rudere!”, strillò l’altro.

“Ah…”, commentò Lucien, ma il suo sorriso si allargò ancora un poco.

“Non so cosa stia succedendo, né mi interessa, ma una cosa è certa: non voglio più avere a che fare con te! Ti pagherò, se devo, puoi trascinarmi anche in tribunale, ma...”, si zittì quando lo vide ridere.

“Se non fossi stato curioso saresti andato all’aeroporto, o alla stazione degli autobus, Jonathan. Invece sei qui. Dimmi, bramo di sentire le conclusioni che hai tratto.”

Non gli rispose nulla, ma scattò verso la finestra, spalancando le tende. Lucien balzò indietro, evitando il fascio di luce e ribaltando a terra sia la poltrona che il tavolinetto d’acciaio. Rise di nuovo nello scorgere il terrore nelle iridi chiare dell’altro. Affievolì le luci della stanza, ma si tenne comunque a debita distanza dal fascio di sole che illuminava solo una minima parte del grande appartamento.

“Che cazzo sei tu?!”, strillò il ragazzo.

“Hai già questa risposta. Chiudi quelle tende, non è mia intenzione farti del male.”

“Vaffanculo!”

Lucien sogghignò, incrociando le braccia al petto.
“Oh, andiamo, se avessi voluto ucciderti avrei avuto infinite occasioni.”, gli fece notare, “Puoi stare lì impalato a cuocerti la schiena finché vuoi, ma il giorno non durerà per sempre. Risparmiamo ad entrambi qualche ora.”

Jonathan sbirciò di sotto e impallidì.

“Non pensarci nemmeno. Sono quasi dieci metri, nella migliore ipotesi ti romperesti molte ossa. Sarebbe una decisione dolorosa ed inutile. Chiudi quelle tende e raggiungimi.”
Lucien stava cominciando ad irritarsi, e le cose di rado finivano bene quando era di tale umore.
“Non voglio ucciderti. Non ti ho neppure mai toccato.”

“Bugiardo! Io ho incubi ogni notte!”

“Un effetto collaterale.”

“Di che cosa?”

“Non ti sei reso conto di nulla? Non ti sei sembrato più sveglio, più determinato e più abile in quest’ultimo periodo? Non sono un motivatore, Jonathan, forse è venuto il momento che ti mostri il mio trucco.”
Lucien si allontanò e, dandogli le spalle, prese un bicchiere dalla credenza nera e lo riempì d’acqua.

Sogghignò quando sentì l’altro correre verso la porta d’ingresso, ma non se ne curò più di tanto dal momento che l’aveva sbarrata. Divertito lo guardò strattonare più e più volte la maniglia, poi con un cenno della mano fece sì che le tende si chiudessero di scatto. Non aveva mai davvero avuto bisogno che lo facesse l’altro per lui, ma era stato piacevole dargli quell’effimera parvenza di sicurezza per poi strappargliela via con brutalità.
Jonathan si accucciò a terra con le spalle contro la porta chiusa, e si coprì la testa con le braccia. Tremava come una foglia.

“T-ti prego… ti prego… lasciami andare!”

Lucien sbuffò.
“Oh per l’amor del cielo! Non c’è nulla di più fastidioso delle suppliche, smetti!”
Gli si avvicinò e l’altro si appiattì ancor di più contro il legno.

“Se non vuoi uccidermi, allora v-vuoi rendermi come te?”

“Neanche per idea.”

“Allora cosa?!”, strillò Jonathan, osando guardarlo.

“Finalmente la domanda giusta.”, ribatté l’altro, sedendoglisi di fronte.

“Quanti altri mostri come te ci sono là fuori?!”

“Ora mi metto a fare un censimento…”, sospirò Lucien, sollevando gli occhi al cielo, “Non ne ho idea e non è rilevante.”

“Vuoi darmi in pasto al tuo branco?”

“Branco? Hai visto troppe stupidaggini in tv, anche se ringrazio il cielo di bruciare e basta alla luce del sole. Ricoprirmi di glitter rovinerebbe in un soffio quasi tre secoli di faticosa reputazione.”

Jonathan, ormai vittima di un attacco isterico, si lasciò sfuggire una risata stridula, per poi scoppiare in singhiozzi. Non sperava più così tanto di essere sobrio, quasi bramava che quella terribile situazione non fosse altro che un dannato trip dovuto a chissà quale droga, ma era tutto troppo vero, troppo reale e lui stava per farsela nei pantaloni.

“Posso spiegare le vere ragioni o vuoi continuare a pormi domande a caso?”, lo interrogò Lucien.

Il ragazzo annuì, troppo spaventato per contraddirlo in alcun modo.

“Bene.”, sentenziò l’altro, “Ti ho avvicinato per offrirti un accordo. In realtà contavo di metterci un po’ più di tempo, ma ho sottovalutato la tua curiosità, quindi adesso sono costretto a parlarti mentre sei terrorizzato. Non lo avrei voluto, e, ti sia da monito: sporcami il parquet e diventerò molto, molto meno accomodante. La… persona? Entità? Il demone? -Non l’ho mai capito a dire il vero- per cui lavoro è interessato alla tua anima.”

“Perché la mia? Che ho di speciale?”

“Assolutamente nulla. Un’anima è un’anima. Non posso costringerti in alcun modo a sottoscrivere il contratto. Il mio compito è quello di convincerti. Non sono nulla più che un venditore porta-a-porta dell’Inferno. Non hai ragione di temermi: un investimento morto è un investimento perso.”

“Che succede se rifiuto?”, domandò Jonathan con un filo di voce.

Lucien sorrise, scuotendo il capo.
“Non vuoi che risponda a questa domanda adesso.”, ribatté, “In realtà è un’offerta davvero conveniente e affatto pericolosa.”
Chiuse la mano e, quando la riaprì, un sacchetto di velluto nero gli comparve sul palmo.
“Qui dentro ci sono trenta pezzi d’argento. Sono il pagamento per la tua anima e li terrai con te per tutta la vita. Con essi potrai contrattare altri benefici che potranno costarti più o meno pezzi a seconda della richiesta. Potrai diventare il miglior chitarrista del mondo, o persino il Presidente degli Stati Uniti, se questa è la tua aspirazione. Ed ora il punto forte della questione: se tu dovessi morire, senza aver speso l’ultimo pezzo d’argento, la tua anima sarà libera.”

“Che succede se rifiuto?”, ripeté ancora il giovane.

“Tornerai ad essere la nullità che eri, e il rimpianto di esserti lasciato sfuggire una tale occasione ti perseguiterà per sempre. Come ti stavo spiegando prima che tu decidessi di cercare inutilmente di scardinare la porta, ti ho dato un incentivo in queste settimane.”

“C-che cosa? Mi hai morso?”

“No, non pranzo con il lavoro, generalmente. Tende a complicare orrendamente le cose. Tu, piuttosto, hai bevuto il mio sangue. È stato semplice farne cadere una goccia in uno dei tuoi drink. Gli incubi che ti affliggono non sono altro che ricordi, più o meno nitidi, della mia vita.”

“Mi trasformerò in un…?”

“NO. No, per l’amor del cielo, NO! Dimentica tutto quel che puoi aver letto o visto sull’argomento, per cortesia. Non ho tale capacità, né la vorrei. Il mio sangue è come una sostanza stupefacente: catalizza le tue abilità e le incrementa, ma non succede nient’altro. Certo, un utilizzo prolungato, o eccessivo, può portare alla pazzia e alla morte, ma non è ancora il tuo caso e non lo sarà mai. Che tu decida o meno di accettare l’accordo, questa sarà l’ultima volta in cui ci incontreremo.”

Jonathan impallidì. Ammaliato com’era dall’incanto dell’altro, o forse dal suo sangue, percepì male l’idea di tale separazione, nonostante fosse al di là di ogni logica.

“Non preoccuparti, passerà presto. Ti dimenticherai di me.”, disse Lucien, alzandosi e dandogli le spalle, “Tutti lo fanno.”, aggiunse, posando il bicchiere sull’isola di cucina.

“E gli incubi?”

“Se ne andranno anch’essi.”

Cadde un silenzio pesante, rotto solo dal tintinnio dei pezzi d’argento che erano caduti quando Jonathan se li era maldestramente rovesciati sulla mano. Lucien commentò l’accaduto con uno sbuffo.

“Posso prendermi del tempo prima di decidere?”, domandò il ragazzo, affrettandosi a raccoglierli e a reinfilarli nel sacchettino.
Mosse un passo, incerto, poi però si decise ad avanzare verso il vampiro con una certa sicurezza. L’altro non si voltò neppure, pigramente curioso di scoprire le sue mosse. Un sorriso gli sfuggì quando sentì la sua mano sulla scapola.

“Sei… freddo.”

“Succede, di solito, quando sei anche morto.”, ribatté, scoccandogli un’occhiata da sopra la spalla.
“Ad ogni modo, non c’è bisogno che tu mi dia il sacchetto. Puoi tenerlo, ma se userai anche solo uno di quei pezzi d’argento, il contratto sarà sancito. Va’ pure, la chiave è agganciata accanto al portone. Prima che tu lo chieda: sì, è stata lì tutto il tempo.”

Jonathan si ritrasse solo quando l’altro si voltò con lentezza.

“Allora? Non hai più così tanta fretta di uscire?”, si sentì interrogare.

Deglutì, fissando quegli occhi scuri e si sentì smarrito.
“N-no… credo di no.”




Thomas premette a tavoletta l’acceleratore dell’auto a noleggio e procedette spedito lungo la superstrada che collegava l’aeroporto a New Orleans. Aveva paura, non sapeva di preciso di che cosa, ma sentiva che doveva raggiungere Jonathan il prima possibile. Aveva ricevuto i suoi messaggi e ora seguiva, nel panico, le direzioni che il navigatore gli stava dando. Inchiodò di botto e balzò giù dalla macchina senza neppure spegnere il motore, quando raggiunse il numero 333.
Il portone era socchiuso quindi salì le scale di volata e picchiò con i pugni all’uscio. Lucien aprì poco dopo, con un asciugamano legato in vita e il corpo ancora umido.

“Dov’è?!”, strillò Thomas, spingendolo indietro e facendo irruzione nell’appartamento.

Il vampiro roteò gli occhi.
“Quanto detesto i fidanzatini sul cavallo bianco!”, borbottò, scoccando un’occhiata infastidita al giovane.
Gli fu addosso in un attimo e stava per azzannarlo alla gola quando un profumo che ben conosceva anticipò la brusca riapertura della porta.
Si bloccò, tenendo fermo Thormas con una stretta d’acciaio.

“Tu non dovresti essere qui.”, disse, senza voltarsi, consapevole che se il suo cuore avesse potuto ancora battere, si sarebbe fermato di botto per un lungo istante.

“Lascialo andare!”, lo ammonì Richard, avanzando nell’appartamento con la pistola sguainata.

Lucien ubbidì, scaraventando il ragazzo contro la parete con spropositata violenza. Si voltò quindi verso l’uomo.
“Tu non dovresti essere qui.”, ripeté con gli occhi tinti dal rosso del sangue.

“Dov’è l’altro ragazzino?”, domandò Richard, stringendo l’impugnatura dell’arma con ansiosa frenesia.

Il vampiro scrollò le spalle, fissando Thomas, privo di sensi sul suo pavimento.
“Non ne ho idea.”

“Non mentirmi!”

Lucien si avvicinò, lasciando che la canna della pistola gli si posasse sul petto.
“Sei invecchiato.”, constatò, guardando le sottili rughe che contornavano gli occhi azzurri dell’unica creatura che avesse mai amato in quella sua lunga vita.

“Il ragazzino.”

“Oh, andiamo, sono passati ventisei anni, Richard! Che ti importa di questi due?”

“Mi sei arrivato troppo vicino per la seconda volta.”, sibilò l’uomo, deglutendo, “Ho passato tutti questi anni a cercare di dimenticarti!”

“E io a ricordarti.”
Gli strappò di mano l’arma all’improvviso e la lanciò lontano, poi gli si avventò contro sino a costringerlo con le spalle alla porta. Gli sfiorò il viso con le dita, carezzando quei lineamenti così cambiati, eppure ancora così belli. Chiuse gli occhi e abbandonò il capo contro la sua spalla, inspirando forte il suo profumo.

“Hai quasi ucciso mio fratello…”, gemette Richard.

Lucien si risollevò per guardarlo.
“Dovevo forzarti la mano… indurti ad usare il tuo primo pezzo d’argento. Non avevo altra scelta. Vattene da qui!”

“Non senza quei due ragazzi.”

“Perché loro?!”, tuonò Lucien, “Perché non due delle centinaia di giovani che ho corrotto o ucciso negli ultimi ventisei anni?”, si fece indietro bruscamente, “La tua ipocrisia mi sgomenta.”

“Perché ho finalmente capito cosa è giusto.”
Richard prese il sacchettino di velluto che teneva nella tasca della giacca e rovesciò a terra le piccole pepite d’argento.

“Oh, no, non oserai!”, esclamò Lucien, “E se vuoi farlo, io non starò qui a godermela.”

“E dove vuoi andare? C’è ancora luce, fuori.”, gli fece notare l’uomo.

Il vampiro digrignò i denti, per poi sedersi sul divano e incrociare le braccia al petto. La situazione era già critica senza complicarla ulteriormente.
Richard non avrebbe dovuto trovarsi lì. Era un’effrazione pericolosa che senz’altro non sarebbe rimasta impunita. E, per quanto fossero passati oltre due decenni, i sentimenti che provava per lui erano tutt’altro che svaniti.
“Mettili via, adesso.”

“No.”

“Richard, per l’amor del cielo! Non lo so davvero dove sia andato a cacciarsi quel ragazzino. Sento solo che è abbastanza vicino. Tre, quattro chilometri! Non gli ho ficcato in culo un GPS!”

L’altro non diede segno di volerlo ascoltare, quindi Lucien si rialzò e, afferrati i pezzi d’argento, li lanciò lontano. Si guardò poi la mano e le scottature che quel gesto gli aveva lasciato; ringhiò di frustrazione.
“Hai subito irreversibili danni cerebrali negli ultimi due decenni?”, lo apostrofò duramente.

Richard deglutì e distolse lo sguardo.
“So che tu sei diverso… o che lo eri. Lo sento.”

“Oh, povero cuore!”, esclamò Lucien con teatralità, “Mi dispiace deludere le tue aspettative a posteriori, ma prima ero persino peggio! Nient’altro che un inutile bibliotecario di uno sperduto paesino francese, così spaventato dalla vita e dalla propria sessualità da fuggire via alle prime voci per finire qui. Qui! In questo Ètat de merde¹ che mi fa sperare da secoli di finire all’Inferno pur di far cessare la nausea rivoltante che sento dentro! Tu critichi quello che sono e lo condanni, ma non c’è niente, NIENTE, di diverso tra me e un qualsiasi povero stronzo costretto a bussare ad ogni porta per indurre povera gente ad acquistare qualcosa che non serve a nulla, o a strozzarli con assicurazioni varie ed eventuali che non porteranno ad altro che ad una dannazione terrena di spese su spese su spese per comprare l’illusione di una vita serena! Sono un venditore, né più né meno, gli uomini devono sbarcare il lunario, io non posso proprio esimermi. Hai visto con i tuoi occhi cosa succede se ci provo. Ho rischiato la mia vita per cercare di convincerti a non accettare l’accordo di Samedi. Tuo fratello sarebbe morto per le ferite che io gli avevo inflitto? En Enfer lui et sa misérable vie! Le persone muoiono ogni giorno, ma tu, tu!, non dovevi accettare quei trenta denari. Invece l’hai fatto e, di tanti che erano, te ne restano cinque. Nessuno è mai riuscito a non usarli tutti, non ha importanza se per buon cuore o per ambizione, e io sapevo, lo sapevo, che avresti fatto la stessa fine!”
Lo guardò con intensità, con le iridi vermiglie colme di sofferenza.
“Era trascorso molto tempo, e, pensa un po’, anche la morte!, dall’ultima volta che mi ero concesso di amare, Richard. E tu, stupida creatura… non hai mai disatteso alcuna delle mie aspettative, né dei miei desideri. Non volevo gettarti in questo. Ho cercato di contrattare con Samedi, prima di proporti l’accordo. Strisciai ai suoi piedi, lo supplicai di poterti lasciar perdere, promettendogli mille, diecimila, centomila anime pur di salvare solo la tua. Sai cosa mi rispose? Mille, diecimila, centomila e uno anime sono comunque meglio, la sua non verrà risparmiata. Non fraintendermi, però, tu scuoti la mia apatia, non il genere umano, non il bene del mondo. Danzerei alle trombe dell’Apocalisse più che gioiosamente, se tu non esistessi. Come vedi, mi sono cercato la maledizione inflittami. È trascorso molto tempo, ma ricordo ancora la notte in cui quella povera donna mi implorò di nascondere lei e la figlia perché non le stuprassero e massacrassero solo perché avevano la pelle del colore allora giudicato sbagliato; non che ora l’integrazione abbia fatto passi da gigante, ben chiaro, ma questo è un altro discorso. Finsi di dar loro un nascondiglio, poi, da miserabile e mansueto cane qual ero, invitai i loro aguzzini. Preferisco avanzarti i dettagli, Richard, dubito che ti piacerebbero, ma suonai il violino per loro per tutta la notte come lo facevo per te: soavemente. Non recrimino su quel che mi è capitato, l’ho meritato. Anzi, trovo che il Vodoo sia très poétique, ma la verità è che sono già morto una volta e sono terrorizzato all’idea di farlo di nuovo. Non per l’Inferno, di quello mi importa davvero molto poco, dubito possa essere peggiore di un qualsiasi momento della mia esistenza. No. No. È quel singolo istante, Richard. Breve eppure eterno. Fui grato al mio schiavista per avermici strappato e, fintanto che potrò evitarlo, rimarrò il mansueto cagnolino di sempre. La ribellione che ho mostrato in tuo favore non è stata altro che un guizzo da non ripetere né ora né mai.”

“Sto morendo. Tumore al cervello. Non ho né i soldi, né la voglia di imbarcarmi nella trafila ospedaliera, lo lascerò solo fare, o vi porrò fine prima. Dannazione per dannazione, che vuoi che mi importi?”, gli rispose semplicemente l’uomo, ma sussultò nello scorgere il dolore sul viso del pallido amante.

“Potresti usare…”

“No.”, lo interruppe Richard, “Non cadere nel tuo stesso giochetto.”

“Hai ragione…”
Lucien strinse i pugni e gli diede le spalle.
“C’è qualcosa che..?”

“Salva questi due ragazzini.”

“Non posso, né voglio.”, ribatté il vampiro, guardando Thomas, ancora svenuto sul suo pavimento.
“O dovrei forse mettermi a rischio solo perché tu lo chiedi?”

Richard a questo non rispose. Gli si avvicinò e, inducendolo a voltarsi, fece quel che entrambi bramavano dal momento in cui era entrato nell’appartamento: unì la bocca alla sua e lo strinse forte tra le braccia. Gli era mancato quel corpo freddo, innaturale e perfetto come una statua. Lucien tremò nella sua stretta e chiuse gli occhi, rispondendo al suo bacio con affrettato bisogno, per poi abbassare il viso sul suo collo e assaporare quell’odore che tanto gli era mancato. Era mutato con gli anni, ma non abbastanza da non scuotere con dolorosa violenza il suo cuore morto.
Lo chiamò per nome, tenendolo contro di sé. Resistette per poco alla tentazione di strappargli di dosso quella sciarpa, per poi affondare i canini nel suo collo e prendere un lungo sorso. Richard non aveva mentito: era davvero malato, lo percepiva chiaramente dal retrogusto amaro del suo, altrimenti, dolcissimo sangue. Lo sentì gemere e fremere tra le sue braccia, ma smise di bere prima di fargli davvero del male e passò le dita sulle vecchie cicatrici che gli aveva lasciato, ora umide di saliva e di sangue.

“Sei ancora bellissimo.”, gli mormorò, “Ma non sei più il ragazzino spaventato che conoscevo.”

Richard piegò le labbra in un sorrisino di scherno.
“Che modo raffinato per dire sei vecchio.”, commentò, sfuggendo al suo abbraccio.

“Direi piuttosto che finalmente hai l’età giusta per non farmi sentire troppo a disagio.”, ribatté Lucien, ammirando, silenzioso, il suo profilo maturo e quei primi capelli bianchi che spuntavano tra i suoi ciuffi corvini.

“Questo non cambia nulla.”

Il vampiro sollevò gli occhi al cielo.
“Ma sei sempre un maledetto testardo.”, commentò.
Stava per rincarare la dose, ma lasciò perdere quando sentì dei passi lungo le scale, e Jonathan, poco dopo, sorpassò la soglia dell’appartamento.

“Il lavoro mi chiama…”, sospirò Lucien, infastidito dallo strillò del povero ragazzino che aveva visto il fidanzato riverso a terra.
Si allontanò da Richard e camminò con passo sicuro verso Jonathan.
“È solo svenuto, ma le cose potrebbero cambiare.”, gli disse con tono monocorde e piuttosto sbrigativo.

“Che gli hai fatto, bastardo?!”

“Quanta preoccupazione da parte di uno che voleva farsi sbattere su quel letto dal sottoscritto…”

“Voglio fare un accordo.”, esclamò Richard all’improvviso.

Lucien irrigidì la schiena e il sangue gli si gelò nelle vene, ma non commentò. Ormai il danno era fatto e non si poteva più tornare indietro.

“Mi stavo giusto chiedendo quando questo teatrino sentimentale avrebbe avuto fine.”, commentò Samedi, entrando dalla porta spalancata.
“Mi ha annoiato talmente tanto che mi è passata persino la voglia di punire entrambi per l’effrazione che avete commesso.”, aggiunse, rivolgendo un’occhiata a Lucien, “Allora, Richard, che cosa vuoi? Cosa voglio io, ormai lo sai.”
Il nero demonio sorrise sotto i baffi. Picchiettò a terra col ricco bastone da passeggio e il tempo si fermò, lasciando Jonathan cristallizzato sul pavimento, mentre cercava di raggiungere la pistola.

“Non vuole nulla.”, si intromise il vampiro.

“Tu farai meglio a rimanere in silenzio. Non sono noto per la mia benevolenza.”

“Quattro pezzi d’argento per la sua libertà.”, rispose Richard, stringendo i pugni.

Il sorriso di Samedi si allargò ancora e il bagliore dei suoi occhi rossi sorpassò persino la barriera delle lenti scure dei suoi occhiali.
“Questa sì che è una richiesta!”, esclamò, divertito.

“Non voglio essere libero!”, esclamò il vampiro, terrorizzato.
Pagò cara la sua insolenza e, ad un singolo cenno del suo padrone, volò dall’altra parte della stanza e si schiantò con violenza contro i pensili della cucina, fracassandoli.

“Quel che vuoi, Lucien, non è di alcuna rilevanza in questa trattativa.”

Anche Richard sorrise.
“Ben detto.”

“Nonostante questo...”, riprese Samedi, “... quattro sono un po’ pochi, non credi?”

L’uomo recuperò da terra i pezzi d’argento uno per uno.
“Sì, sapevo che l’avresti detto. Quattro per la sua liberazione e con la garanzia che non gli torcerai un capello da qui all’eternità, in nessun caso. Uno, l’ultimo, per levarmi questo cancro dal cervello. Sai perfettamente che non li userei per null’altro. Non vorrai mica perdere il primato, vero?”

“No! Samedi, NO!”, ritentò Lucien, balzando in avanti e frapponendosi tra loro, “Hai sempre detto che sono il migliore, quattro pezzi d’argento, o cinque non valgono…”

“Accetto.”, lo interruppe il demone.

Le pepite che Richard stringeva in mano svanirono l’una dopo l’altra in piccoli sbuffi di fumo nero e con esse sparì anche Samedi.
Jonathan raggiunse la pistola e, rapido, la puntò contro Lucien.
“Non ti avvicinare!”, sentenziò.

“Non ho alcuna ragione per farlo.”, ringhiò il vampiro, voltandosi verso Richard, “E tu!”, gridò, raggiungendolo, “Sei la creatura più stupida che mi sia capitato di incontrare!”, tuonò.

“Dobbiamo aiutarli.”, mormorò l’uomo, “Ho ancora una lunga vita, davanti, adesso. Troveremo una soluzione per salvare le nostre anime, ma non ci sarà perdono, né redenzione se non facciamo qualcosa...”

“Tutto questo è molto tenero, ma la pratica non ti appartiene più, Lucien. Adesso è mia.”, disse una terza voce.

“Chantal…”, sospirò il vampiro, scoccando un’occhiata alla donna. Non aveva mai capito che creatura fosse di preciso, forse una strega, forse qualcos’altro ancora. Sapeva solo che era molto diversa da lui, aveva ben altre capacità, e che, come in quel caso, spesso si erano trovati a collaborare, forse addirittura a concorrere.

“Prendi il tuo umano e vattene.”, sibilò lei, ostile.

Richard lo afferrò per un polso.
“Non possiamo lasciarli. Ti prego.”

Chantal non si curò più di loro e si rivolse a Jonathan.
“Il tuo fidanzatino sta morendo.”, gli disse senza particolare contrizione, “E non dovrò neppure intervenire. Il colpo che gli ha tirato Lucien gli ha provocato una commozione cerebrale. Certo, potresti comunque chiamare un’ambulanza, ma, anche se sopravvivesse, resterebbe un vegetale per il resto dei suoi giorni. Che peccato!, era un giovane così promettente… Ma c’è una soluzione. Dimmi, Jonathan, eri venuto qui per accettare il patto o per rifiutarlo?”, chiese, indicando il sacchettino di velluto che sbucava dalla tasca dei suoi jeans, “Basterebbe un solo pezzo d’argento per salvargli la vita.”

“Ti prego…”, mormorò ancora Richard.

Lucien deglutì, incerto, poi, d’improvviso agì. Fu rapido a raggiungere Thomas e ancora di più lo fu nello spezzargli il collo di netto. La morte, in fin dei conti, era qualcosa di fronte a cui neppure Baron Samedi poteva fare alcunché se non vi erano maledizioni di mezzo.
“Questo chiude la questione, e tu faresti bene a rifiutare.”, disse al ragazzino che, sotto shock, fissava il corpo morto del compagno, “Come avresti dovuto fare dal primo momento, piuttosto che prenderti del tempo per pensarci su. È morto per colpa tua, d’ora in avanti, convivici.”
Guardò quindi Richard.
“Era questa la soluzione che volevi? Credimi era davvero l’unica.”

L’uomo si coprì la bocca, orripilato. No, non era quello che voleva. Lui, in una visione sin troppo romantica, aveva pensato, sperato, di poter salvare davvero quei due ragazzi, non di assistere, impotente, all’omicidio dell’uno e all’annientamento dell’altro.
Non era per questo che aveva gettato al vento la sua anima per salvare Lucien...
Lucien… la persona che credeva diversa, che aveva idealizzato al punto di ritenerla capace di agire e pensare con umanità e amore. Ma non era il giogo a renderlo un mostro, lo era davvero e Richard l’aveva capito troppo tardi.
Gridò per quel tradimento, colmo di rabbia e di disperazione, prima di correre da Jonathan per trascinarlo via da quella maledetta casa e non farci mai più ritorno.
Il vampiro lo guardò uscire, troppo sorpreso per dire alcunché. Aveva fatto l’unica cosa possibile, l’unica logica e utile, in fin dei conti: Thomas non avrebbe mai potuto vivere, Jonathan sì…
Che cosa aveva sbagliato?

Chantal sorrise, avvicinandolo.
“I miei complimenti, amico mio. La prima cosa che hai fatto da vampiro libero è stata distruggere quel che ti era più caro. E dire che ti consideravo un diplomatico.”


Epilogo:

La luce aveva appena ceduto il posto alla notte e il vampiro camminava già da tempo lungo le vie di quella detestata città. Cercava Richard, ma non vi erano tracce di lui, né Samedi sembrava voler rispondere ai suoi appelli.

Era solo.

Di nuovo solo. Come lo era stato quando, oltre due secoli prima, si era imbarcato per raggiungere gli Stati Uniti, la Terra Promessa. Aveva dimenticato quanto fosse terrificante tale sensazione e adesso si sentiva smarrito. Aveva perduto l’amore; e persino la mancanza di quelle catene che tanto a lungo lo avevano tenuto rinchiuso entro i confini di quella maledetta prigione era opprimente.
Era libero, adesso.
Libero di fare quel che voleva e di andare ovunque, ma non ne trovava il senso. Sollevò lo sguardo su uno dei lampioni a gas che illuminavano la via, così simile a quello che aveva distrattamente guardato prima di mettersi al lavoro su Jonathan. Ma la consapevolezza che nessun corvo, o alcun altro messaggero, vi si sarebbe posato per impartirgli un compito lo fece sentire vuoto e inutile.

“Richard…”, mormorò in un roco singhiozzo, mentre lacrime di sangue gli scivolavano lungo le guance.

Aveva vissuto ventisei anni con il suo ricordo, nella speranza ingenua che, forse, un giorno, il destino sarebbe stato tanto benevolo da farli incontrare ancora. E sebbene quel giorno fosse arrivato, lui era riuscito lo stesso a rovinare ogni cosa e senza neppure capire il perché.

Senza rendersene conto si ritrovò di fronte alle porte di una piccola chiesetta di periferia. Strinse i pugni, furibondo, ed entrò sfondando l’uscio di legno.
Avanzò lungo il breve sagrato per fermarsi davanti all’altare e guardare la croce.

“Ridammelo!”, urlò, scosso da singhiozzi di cieca furia, “O almeno concedigli la salvezza! È un brav’uomo, lui, che non ha fatto altro che scegliere la via della dannazione per fare quel che era giusto! È forse sbagliato ai tuoi sadici occhi?! E che dire di me? Meritavo davvero una vita e un’eternità di sofferenza? Qual è stato lo sbaglio che ti porta ad avere tanto accanimento contro di me? Nascere? Forse l’amare il sesso sbagliato? Quale?! Rispondi! Perché se io esisto, abominevole nella mio trascendere l’umana natura, allora qualcosa di vero dev’esserci anche in te! Mi devi un po’ di serenità, la merito! Io… io la merito...”
Crollò in ginocchio, piangente, ma nessuna risposta gli giunse dalla croce, né dal fantoccio ligneo che raffigurava un uomo che, di certo, non si era sacrificato per lui.

La voce del prete lo fece sobbalzare. Tanto distratto dal suo appello, non l’aveva udito uscire dalla sacrestia.
“Non è così che funziona, figliolo.”

“E allora come?!”

“Non puoi presentarti qui e sbraitare i tuoi ordini a Dio. Puoi chiedere, con umiltà, e avere fede che ascolti le tue preghiere…”

“Umiltà?!”, ringhiò Lucien, “Dopo tutto questo, prete?!”

“L’Onnipotente ci mette alla prova ogni giorno. Solo di fronte alle avversità, infatti, si può scorgere la purezza dell’animo delle genti.”

“E allora affronta questo!”



La mattina dopo, le prime anziane e devote fedeli trovarono il loro povero parroco sgozzato. Il suo sangue imbrattava le pareti, le panche e il pavimento. Il crocifisso era stato divelto, le conche dell’acqua benedetta rovesciate, e una scritta vermiglia torreggiava al posto del simbolo del sacrificio di Cristo.


JE TE MAUDIS!



Note:
1) Le traduzioni dal francese le metto qui, tutte insieme, per evitare di far mille apici: “Ètat de merde”vuol dire: paese di merda; “En Enfer lui et sa misérable vie!” vuol dire: all'Inferno lui e la sua miserabile vita; “Très poétique” vuol dire: molto poetico; Je te maudis”, invece, vuol dire: io ti maledico.
Secondo e, per fortuna, ultimo capitolo di questa cosa, se vi va di lasciare un commento, è ben accetto. Grazie infinite di esser giunti sin qui.
Un bacione,
Ros.

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