In the flesh - Apocalypse

di Mimi18
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1. Maybe you think that you can hide, I can smell your scent from miles {Zhera} ***
Capitolo 2: *** #2. Holding me closer ‘til our eyes meet {Chriline} ***
Capitolo 3: *** #3. All I want is the taste that your lips allowed {Dethys} ***
Capitolo 4: *** #4. You’ve got something I need {Usilyn} ***
Capitolo 5: *** #5. You’re the antidote to everything {Twincest} ***
Capitolo 6: *** #6. Won’t you be my solid ground {Phoseidon} ***
Capitolo 7: *** #7. Don’t get too close, it’s dark inside {Theos} ***
Capitolo 8: *** #8. How much longer will it take to cure this {Hermione} ***
Capitolo 9: *** #9. I hate everything about you {Alceus} ***
Capitolo 10: *** #10. Will you still love me when I’m no longer young and beatiful {Erros} ***
Capitolo 11: *** #11. Under your comand, I will be your guardian {Hephena} ***
Capitolo 12: *** #12. A kiss with a fist {Alianna} ***
Capitolo 13: *** #13. Can’t take my eyes off you {Amis} ***
Capitolo 14: *** #14. Like tears in the rain {Cries} ***
Capitolo 15: *** #15. I can smell your fear blood {Hylene} ***
Capitolo 16: *** #16. We’ll find a place where the sun still shines {Bromance} ***
Capitolo 17: *** #17. I would go most anywhere to find where I belong {Heracles} ***
Capitolo 18: *** #18. Admiration. {Sylie} ***
Capitolo 19: *** #19. I was made to keep your body warm {Aphres} ***
Capitolo 20: *** #20. Left some words quite far from here {Astran} ***
Capitolo 21: *** #21. I wish you were here {Persephone} ***
Capitolo 22: *** #22. Greetings from the afterlife {Thyx} ***
Capitolo 23: *** #23. I’ve never loved you, but if I did, I wouldn’t say that I’m sorry {Dhyr} ***
Capitolo 24: *** #24. Like ships in the night {Allian} ***
Capitolo 25: *** #25. Childhood memories {Heris} ***
Capitolo 26: *** #26. Be careful making wishes in the dark {Alexandros} ***
Capitolo 27: *** #27. You’re my downfall, you’re my muse {Muses} ***



Capitolo 1
*** #1. Maybe you think that you can hide, I can smell your scent from miles {Zhera} ***


In the flesh - Apocalypse



 

 

 

#1. Maybe you think that you can hide, I can smell your scent from miles {Zhera}

Gli occhi dorati scalciavano via le tenebre da sé, non v’era alcun suono che potesse distogliere Zeus dai propri sensi, allontanarlo dal punto in cui i passi – il ticchettio dei tacchi – risultava quasi accanto al corpo nudo. Le labbra sottili s’aprirono in un sorriso ferale, poteva percepire l’odore del profumo costoso che ora impregnava anche la sua pelle aleggiare nell’aria, quasi a volerlo vedere impazzire.

I piedi non producevano alcun rumore sul marmo dell’Accademia, egli scivolava silenzioso tra i corridoi dell’ultimo piano attratto come un’ape dal miele, sino a quando il frusciare della stoffa contro il muro non attirò completamente i sensi del dio. Si voltò di scatto, costringendo all’immobilità il proprio corpo esposto – la lingua umettò le labbra, su di esse la previsione d’un sapore che l’avrebbe reso ubriaco ben presto, prima del sorgere del sole.

Quando allungò il braccio, le proprie dita si strinsero intorno ad un esile polso. La padrona d’esso si dimenò, cacciando persino un’imprecazione per essere stata – nuovamente – catturata. Zeus l’attirò contro il petto nudo, le grandi mani aperte andarono a posarsi sul ventre piatto e coperto solamente da una sottoveste sottile. Il calore della pelle di Hera era palpabile, poteva persino percepire i brividi attraversarla solamente al tocco delle proprie carezze audaci.

«Sai che ti troverò sempre,» esalò contro l’epidermide sensibile del collo, posandovi poi un bacio umido. Ammirò la sposa voltarsi rabbiosa, la luce d’ira e desiderio che si amalgamava in quelle iridi ch’erano lo specchio delle proprie, e, non permettendole di pronunciare alcuna protesta o insulto, Zeus le catturò.

La sentì maledirlo in ogni lingua conosciuta, stringere i pugni contro le sue spalle, sino a tacere e lasciarsi abbandonare in quel bacio al sapore di ricordi e perdite, di speranza e realtà – Zeus non lo disse, ma mentre la stringeva pensò che sempre (sempre, sempre, sempre) avrebbe trovato Hera, persino in mezzo ad una marmaglia di cadaveri durante la guerra la sorella sarebbe tornata da lui. Era questo che accadeva alle anime gemelle.

 

 

 

N/a: i personaggi all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono utilizzati con alcun scopo di lucro.

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Capitolo 2
*** #2. Holding me closer ‘til our eyes meet {Chriline} ***


In the flesh - Apocalypse



 

 

 

#2. Holding me closertil our eyes meet {Chriline}

Le palpebre tremavano, così come le piccole mani che ora stringevano la sbottonata camicia chiara – il suo animo? Il suo animo era in burrasca, Faline non capiva cosa stesse succedendo al fragile ed umano corpo che in quella vita possedeva. Sin da quando la dea protettrice dei boschi aveva baciato la sua fronte, memorie erano sfrecciate nella mente, portandola a possedere mancamenti durante il corso dei giorni. In quell’istante, con le ginocchia fragili, la fanciulla si ritrovò a sollevare lo sguardo autunnale su colui che dal nulla era apparso, salvandola da una rovinosa caduta.

Possenti mani maschili le stringevano la vita, tenendola contro di sé come se la vita della giovane dipendesse da esse. Egli non era che uno dei quattro guardiani Fondatori, i ricci bruni gli ricadevano sul volto sudato – forse di ritorno da uno degli allenamenti – ed un sorriso scaltro e malandrino gli addolciva l’espressione.

Dal canto proprio, Faline arricciò le labbra, osservando curiosa quegli occhi dalla luce conosciuta.

«Ti chiedo scusa,» disse, e nonostante ciò non dimostrò minimamente di volersi allontanare da lui. Un vecchio coraggio dovuto al passato, una spavalderia che sapeva d’antico – una sensazione a farsi stringere da quelle mani che ricordava un uomo che Eurydice aveva follemente amato. «Ero distratta.»

Una carezza compirono quelle mani grandi contro i suoi fianchi, risalendo appena sotto i seni. Chris Eaton masticò un commento sarcastico e volubile, scostando un ciuffo di capelli per meglio ammirare la fanciulla tra le proprie braccia.

«Che ne dici di ringraziarmi di fronte ad un caffè?»

Faline arcuò entrambe le sopracciglia, stupita da tale ed improvvisa proposta, per poi lasciarsi andare ad un sorriso malizioso – un sorriso che ricordava quello che il fondatore stesso aveva sulla propria bocca.

«Perché no?»

 

 

 

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Capitolo 3
*** #3. All I want is the taste that your lips allowed {Dethys} ***


In the flesh - Apocalypse



 

 

 

#3. All I want is the taste that your lips allowed {Dethys}

Un sonoro schiocco si proruppe nell’aria satura di ansiti quando le labbra si separarono da quelle piene della donna. Damian lasciò che l’odore dolce dei suoi capelli penetrasse le narici, esattamente come la settimana prima, e quella prima ancora – il suo fottuto odore stava divenendo una dannazione continua, qualcosa che gli sarebbe costato la vita se solo non avesse fatto attenzione.

Contro di lui, nonostante lo sguardo stoico e freddo, Tethys era morbida come le sue mani avevano immaginato la prima volta che l’aveva scorta, senza un tacco, tra i corridoi rotti dell’Accademia. Amava – che parola piena di significato, ora – tracciare i lembi delle sue carni calde, stupendosi come gli ansiti ed i gemiti fossero sinceri e non stonati alle proprie orecchie. Si lasciava guidare dalle espressioni che quel volto – molto più dolce di quant’avesse immaginato – mostrava, ogni qualvolta la faceva sua, ovunque potesse, in qualsivoglia istante.

Un desiderio maledetto, quello per la titanide che non sentiva alcun dolore se Damian stringeva le carni con forza, ma sosteneva di soffrire se per giorni non poteva posare il proprio sguardo su di lui.

Avrebbe dovuto andarsene da lì, tornare alla vita che il fato aveva predetto per lui, tuttavia il sapore di quelle labbra – i sospiri divenuti propri – lo costringevano a cedere. Un ultimo bacio, un’ultima carezza – e la consapevolezza di mentire a tali pensieri.

 

 

 

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Capitolo 4
*** #4. You’ve got something I need {Usilyn} ***


In the flesh - Apocalypse



 

 

 

#4. You’ve got something I need {Usilyn}

Non v’era alcuna traccia d’amore in lui. Un tempo, forse, dell’affetto aveva solcato quelle aitanti fattezze. Tuttavia, ora, il vuoto mostravano quelle iridi che sempre la osservavano dall’altro lato dell’ampia stanza.

Marilyn deglutì a vuoto, il terrore evidente a tinteggiarle l’espressioni del viso dolce. Tremava, singhiozzava, talvolta permetteva alle lacrime di prendere il sopravvento per ore prima che sonno giungesse a reclamarla e, durante quei momenti, mai Iapetus le offriva una sola consolazione. Non che la giovane ne fosse stupita o delusa, quello era l’uomo – mostro – che l’aveva portata via dalla propria vita, allontanandola dalla persona che già in passato una volta si era trovata a deludere.

Quando sollevò il volto dalle proprie mani piccole e intonse, Marilyn lasciò cadere un sospiro tra loro, distruggendo così il silenzio.

«Perché sono qui?»

Perché non mi uccidi?

Iapetus distolse l’attenzione dal proprio libro, mostrandosi seccato. Non amava il disturbo, quella voce stridula era fastidiosa contro le proprie orecchie, il titano avrebbe desiderato strapparle quelle corde vocali e darle in pasto ai propri mastini, invece rimase immobile, limitandosi ad accarezzare la piccola figura con lo sguardo.

«Taci.»

Marilyn si scosse, calciando uno dei pregiati tavolini e facendolo ribaltare. Quel giorno, pensò Iapetus, la sua prigioniera era irrequieta. Si sollevò dalla propria sedia con fare svogliato, raggiungendola in poche falcate – un ghigno solcò quelle fattezze quando la paura torno a prendere possesso della ninfa bionda, costringendola ad indietreggiare cozzare contro il muro.

«Non ti devo alcuna spiegazione,» sussurrò ad un passo dal viso, stringendo tra le lunghe dita il collo sottile e niveo. «Inizia a rispettarmi, o ti farò comprendere quanto sarebbe facile per me spezzarti il collo, ragazzina.»

Quando le diede le spalle, Iapetus non si dimostrò soddisfatto con se stesso. In realtà non possedeva alcuna risposta alla domanda di quella ragazzina di cui nemmeno aveva imparato il nome – perché era lì? Perché era ancora viva? Si arrovellava in continuazione, tuttavia, infine, si limitava ad osservarla curioso.

 

 

 

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Capitolo 5
*** #5. You’re the antidote to everything {Twincest} ***


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#5. You’re the antidote to everything {Twincest}

L’urlo che crepita dalle rosse labbra ha la forza di spaventarlo. Raramente Apollo si preoccupa per qualcosa, lungi da lui provare la reale paura sulla pelle – tuttavia, quando Artemis urla in quel modo, diviene completamente ed irrimediabilmente umano, odiandosi.

Si muove affannata tra le lenzuola madide del proprio sudore, il corpo è segnato dagli spasmi e la pelle del volto pallida – il colore stesso della luna è divenuto suo. Porta le dita a raschiare le braccia, graffi rossi compaiono immediatamente a rovinare l’epidermide, quando la mano di Apollo ferma la sua. È un piacevole contrasto, il calore del suo palmo contro la freddezza del proprio dorso, l’una grande e forte, l’altra piccola e tremante.

«Sono qui,» Apollo affonda il naso nei lunghi capelli rossi, sanno di fragola e improvvisamente vuole baciarla così forte che fatica a trattenersi, stringendo con la mano libera la coperta che per miracolo Artemis non ha ancora calciato a terra. «Non me ne sono andato.»

Il petto della dea si alza ed abbassa ripetutamente, come se avesse corso chilometri, come se qualcuno avesse provato a soffocarla – la mancanza, l’assenza, ora completamente sparite al semplice tocco delle dita di Apollo. Ignora il pensiero di risultare debole ai suoi occhi, spingendosi contro il possente petto e lasciandosi stringere dalle braccia forti, celando grazie ai lunghi filamenti cremisi la propria espressione sconfitta.

Apollo non dice nulla quando i piedi freddi della sorella gli sfiorano le gambe; in un’altra occasione forse se ne sarebbe lamentato, ora si limita a baciarle la nuca, compiendo carezze circolari sulla schiena nuda e così piccola rispetto a sé che domandarsi com’ella sia sopravvissuta fino ad allora è quasi d’obbligo.

«Potresti stringermi più forte?» La voce è quasi troppo bassa per essere udita, eppure Apollo esegue automaticamente quella richiesta che porta il cuore nel petto a battere più forte. È ironico come solamente due mesi prima nemmeno credesse di poterla stringere ancora, ed ora Artemis gli mostra senza alcun muro tra loro come solamente lui possa realmente farla sentire viva, reale – forte.

La labbra di Apollo baciano la sua pelle, mentre la culla contro di sé. Potrebbe andare avanti delle ore, potrebbe addormentarsi con quei capelli sparsi addosso ed i muscoli indolenziti, solo per proteggerla da qualsiasi cosa ancora le faccia così paura. Tuttavia, nel momento stesso in cui la stringe, Artemis cessa di dimenarsi o tremare, come se il semplice contatto tra le loro pelli fosse l’unico bisogno della dea. La vede sollevare gli occhi, iridi smeraldo in una cascata di rosso fiammeggiante, e le sorride.

Quando Artemis si sporge a baciarlo, Apollo comprende che il suo non è l’unico amore a riempire la stanza.

 

 

 

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Capitolo 6
*** #6. Won’t you be my solid ground {Phoseidon} ***


In the flesh - Apocalypse



 

 

 

#6. Won’t you be my solid ground {Phoseidon}

Le dita di Poseidon erano affondate in quella massa scarmigliata di capelli d’un lucente biondo. Ammirava il capo della donna sollevarsi ed abbassarsi al ritmo del proprio respiro, le palpebre socchiuse come se nulla al mondo potesse disturbarla in quell’istante. Si umettò le labbra, sapevano ancora del salato del mare, una sensazione che il dio non aveva sentito su di sé per troppe migliaia d’anni, ed ora era stata sufficiente la presenza di una titanide per tornare a quella antica sensazione di completezza.

Forse, pensava, era a causa della natura primordiale – e non delle iridi tinte del colore delle più limpidi tra le fonti di cui egli era stato protettore e sovrano. Strinse con più decisione il fianco morbido e Phoebe posò il mento sul petto, umettandosi le labbra e pronunciando una qualche frase sconnessa. Si ritrovò a sorridere osservandola, addormentata e come se nulla le appartenesse, eppure bella da togliere il fiato in quella mostra naturale di se stessa.

«Ti sento irrequieto,» pronunciò con voce impastata dal sonno, mentre il piede scivolava a sfiorare quelli scoperti del dio. Sbatté le ciglia, ponendosi in modo tale da poterlo guardare con più facilità, in attesa che Poseidon rispondesse ad una domanda mai posta.

Il dio, dal canto proprio, posò un bacio sulla fronte liscia e non corrugata come il giorno in cui l’aveva conosciuta – o meglio, rivista. Il pollice le sfiorò la gota in una carezza distratta, come a ponderare se ammettere la verità o tacere, eppure gli occhi di Phoebe lo penetravano, lo penetravano al punto tale da leggergli dentro.

«Stavo pensando a te.»

Rise quando la vide arrossare eppure sconvolgere il proprio volto con un ghigno soddisfatto e pieno di sé. Non l’aveva più veduta la maschera persa la prima notte, con lui era sempre rimasta se stessa.

«Ti rendo irrequieto?»

Sollevò appena le sopracciglia a tale domanda, come se Phoebe non ne avesse davvero capito il significato. Irrequieto? Sì. Lo portava a possedere nuovamente emozioni e sapori che da ormai secoli gli erano divenuti estranei, così come una completezza sparita quando Amphitrite era stata rubata dalle proprie braccia.

Irrequieto forse non era la parola più corretta per descrivere le emozioni provate in compagnia della titanide, tuttavia Poseidon non disse alcunché per correggerla. Si limitò ad osservarla enigmatico, curioso, quasi, prima che lei sbuffasse e tornasse a dormire.

Rise, e la testa di Phoebe si mosse a quel suono – sperò vivamente che lei lo stesse imitando.

 

 

 

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Capitolo 7
*** #7. Don’t get too close, it’s dark inside {Theos} ***


In the flesh - Apocalypse



 

 

 

#7. Don’t get too close, it’s dark inside {Theos}

Prometheus ammirava la figura di Eos poco lontano da sé, chinata su uno dei compiti che qualche studente le mostrava con perplessità. Sorrideva gioiosa, come se la sola idea di poter aiutare qualcuno la rendesse felice al punto da mostrare l’aura luminosa che l’assenza di potere non era riuscita a rubarle. Più la guardava, più il cuore sembrava poter risorgere entro le ceneri del proprio petto, irrequieto come quello d’un fanciullo.

Quando Eos sollevò il capo, Prometheus scostò il proprio sguardo. Per quanto bramasse sentire sotto la pelle delle proprie dita la morbidezza della sua pelle, non poteva concedersi il lusso di starle troppo vicino – non quando la guerra permeava tra loro, nella propria oscurità, avvolgendo persino quel barlume di luce che il titano da sempre aveva conservato entro di sé.

Si portò una mano al volto, la testa pesante, quando una più morbida e piccola si posò contro il braccio, cercando di attirare la sua attenzione. Prometheus non ebbe bisogno di guardarla, capire a chi appartenesse era semplice – solo una persona sembrava preoccuparsi costantemente per lui e ricercare il suo sguardo quand’era nei paraggi.

«Non ti senti bene?»

La voce di Eos era melodiosa, nessuna musa avrebbe mai potuto eguagliarla. Strinse la piccola mano nella propria, esibendo un sorriso di scuse per averla fatta preoccupare, sentendo dentro di sé la consapevolezza che persino ora, con quel semplice comportamento, stava contaminando l’anima più luminosa ed innocente che mai avesse avuto il piacere di conoscere.

Dolcemente la scostò da sé, rimanendo più a lungo del dovuto contro quell’epidermide bruciante, abbandonandola poi. Sperò che il contatto non l’avesse contaminata – sperò di non aver intaccato per sempre la sua bontà.

«Non preoccuparti per me.»

Non ebbe la forza di apparire freddo, non con lei, e quando s’allontanò sentì quello sguardo azzurro come il cielo perforargli la nuca – una colpevolezza che lo avrebbe divorato, ma non poteva voltarsi.

 

 

 

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Capitolo 8
*** #8. How much longer will it take to cure this {Hermione} ***


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#8. How much longer will it take to cure this {Hermione}

Il letto di Dione era rosa, così come i muri, l’armadio, i cassettoni e la scrivania. Hermes odiava il rosa, un colore che proprio non gli si addiceva per nulla, eppure era costretto a vederlo da vicino almeno due volte la settimana. Per qualche assurdo motivo, non riusciva a rispondere con un “no” secco ai messaggi della titanide, che ora stava entrando nella stanza con almeno sette pacchi di patatine diverse, ed una bottiglia di qualcosa sotto l’ascella. Dal canto proprio, il dio non si scomodò per aiutarla, poteva arrangiarsi da sola.

Fece per dire qualcosa nel momento in cui Dione lasciò cadere tutto sulla sua testa, non curandosi affatto delle lamentele che sfuggirono a Hermes. Il dio si premurò allora di confiscare le patatine preferite della titanide, costringendola a raggiungerlo su quel letto troppo piccolo per due persone, con la furia omicida di chi si è odiato per millenni ed ora – ora non sa più di preciso cosa fare o cosa dire.

«Arrenditi o soccombi!» Dione strinse le piccole mani attorno alle spalle larghe del giovane, spingendolo con forza verso il materasso ed udendo ogni cosa sul letto cadere a terra. Si distrasse per la frazione d’un secondo, ben attenta che il proprio cibo non si fosse rovesciato completamente, quando Hermes la afferrò per la vita ribaltando le posizioni. Dione si concentrò su cosa stupide quando i polpastrelli del dio sfiorarono la pelle esposta della maglietta appena sollevata, come per esempio i propri capelli che ci misero ben più del dovuto ad afflosciarsi contro il cuscino, o la ruga d’espressione che compariva all’angolo della bocca di Hermes, rendendolo forse più maturo di quanto il suo aspetto lasciasse presagire.

La titanide percepì la propria gola secca. Spalancò appena le labbra sottili per poter dire qualche cosa, mentre gli occhi di Hermes vagavano sulla porzione di decolté lasciata visibile dallo spostamento della maglietta. Stava forse sudando? Soprattutto qualcosa si muoveva nello stomaco, Dione lo percepiva fastidioso e continuo, come un insetto che domandava d’essere schiacciato.

Fu quando anche la bottiglia che le era scivolata dalle braccia cadde che Dione si risvegliò dal torpore prodotto dal corpo di Hermes, spingendolo ben lontano da sé, cercando poi di raddrizzarsi la maglietta. Per qualche sciocco motivo le sue gote s’erano arrossate, ora sicuramente ricordava un peperone maturo, e cercava d’evitare lo sguardo ceruleo del ragazzo in ogni modo.

«Uhm, ho appena – » Hermes si grattò la nuca, imbarazzato. Che diavolo era successo? Per un istante era riuscito persino a pensare che le sue labbra non fossero poi così sottili.

«Non ne dobbiamo parlare, insomma, siamo… scivolati perché tu sei un idiota.»

Dione giocò con i propri capelli biondi, prima di tirare una spallata al dio. «Sicuramente un mancamento,» aggiunge poi, afferrando un sacco di patatine. «Quindi quale saga horror guardiamo?»

Mentre Hermes deglutiva ed osservava ancora per un istante quelle labbra, Dione decise che pensare a come fossero apparse calde le mani del dio su di sé non era una bella cosa, soprattutto quando ancora stupide farfalle svolazzavano nello stomaco.

 

 

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Capitolo 9
*** #9. I hate everything about you {Alceus} ***


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#9. I hate everything about you {Alceus}

Il piede di Alcyone cozzò duramente contro il suo stomaco, andando a sospingerlo lontano da sé per la seconda volta in dieci minuti, ringhiando quando Coeus fece segno di rialzarsi. Un taglio sfregiava ora il volto del titano, esso partiva dalla tempia sino a calare al labbro, rovinando così l’avvenenza tanto decantata dai testi antichi. Le proprie unghie erano impregnate di pelle e sangue che aveva strappato brutalmente, guadagnandosi un manrovescio sul labbro ora spezzato.

«Sei una puttana,» la voce dell’uomo era roca, ma non in un modo che l’avrebbe fatta rabbrividire. Indietreggiò vedendone l’avanzata, sino a raggiungere il muro. Ancora non l’aveva spostata da lì, come se avesse avuto paura di vederla scappare – come se Alcyone ne possedesse la forza.

Non rispose all’insulto – tacere era la miglior arma per adirarlo e non v’era altro che la ninfa desiderasse – e lo osservò mentre alcune gocce di sangue colavano da una profonda ferita sulla propria fronte. Ricordava frammenti della propria vita passata, egli talvolta compariva nei suoi peggiori incubi, un nemico incontrato per le strade della vecchia Londra vittoriana. Pareva non vi fosse speranza alcuna di liberarsi di lui, né dell’odio che entrambi covavano l’uno verso l’altra. Era un sentimento che logorava la luce da poco donatale da Zeus, Alcyone lentamente sentiva spegnere la vita divina dentro di sé, forse era ella stessa che, inconsapevolmente, desiderava allontanarsi dal titano e lasciarsi morire, non permettere in alcun modo che egli potesse scorgere qualche cosa nelle iridi che avevano rubato il colore al cielo.

Eppure, ogni giorno, Alcyone respirava. E lui ne godeva, di quei respiri, stringendole il mento tra le dita e imponendole il dolore – dolore che possedeva il sapore di minacce verso vite che non erano la propria.

«I giocattoli dovrebbero essere più divertenti,» il naso di Coeus le sfiorò la gota. Alcyone sentì le mani rabbrividire, la speranza che si allontanasse perduta – lo colpì con la nuca, facendosi male a propria volta. Un’imprecazione questa volta sfuggì dalle labbra piene, e Coeus sorrise soddisfatto.

Tracciò le ferite con i polpastrelli, assicurandosi che l’espressione della ninfa mutasse in una di fastidio, mordendole poi il labbro inferiore con durezza.

«Mostrami il tuo dolore, Alcyone

La ninfa si mosse irrequieta tra le sue braccia, scalciando, sino a quando egli non fu costretto ad ancorarla a sé. Prese la nuca tra le proprie mani e, irrimediabilmente, Alcyone aprì gli occhi. E fu penetrata dalla risata malvagia di Coeus.

 

 

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Capitolo 10
*** #10. Will you still love me when I’m no longer young and beatiful {Erros} ***


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#10. Will you still love me when I’m no longer young and beatiful {Erros}

Eros tracciò con la punta delle dita il percorso ch’era il volto di Amphitrite. La bellezza di quella donna era per lui solamente un’aggiunta a ciò che l’animo provava qualora quelle labbra avvolgevano i lembi della pelle in baci sensuali, facendolo piombare nel mondo che s’erano racchiusi attorno a loro.

Baciò l’angolo della bocca piena, mentre le mani di Ros disegnavano cerchi sul petto nudo, lo sguardo che saettava su ogni punto che desiderava poi toccare – che avrebbe lambito fino a far perdere al dio del desiderio il lume della ragione.

Amphitrite non era (ancora) immortale come lui, ogni cosa che ora ammirava, sarebbe presto appassita. Eppure, mentre scostava una ciocca dei suoi capelli, pensò che il suo animo si sarebbe sempre infuocato sotto ai tocchi delle sue falangi – per il semplice ricordo dei momenti passati, o una passione che non avrebbe mai visto la propria morte.

Baciò la sua bocca, nascondendole un gemito, accarezzando un seno sotto le dita e portandosi sopra di lei.

Una passione così bruciante, un desiderio così indelebile – non potevano essere cancellati.

 

 

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Capitolo 11
*** #11. Under your comand, I will be your guardian {Hephena} ***


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#11. Under your comand, I will be your guardian {Hephena}

Hephaestus non sollevò lo sguardo dall’arma che le sue mani stavano forgiando da ore. Il sudore colava dalla fronte, mentre i capelli unti ricadevano sul volto altrimenti piacente, sporco di fuliggine. Il ripetuto rumore del martello rompeva l’intera quiete in cui il dio solitamente piombava, il corpo minuto di Athena fuori dalla propria linea. Se permetteva al clangore di penetrare le sue ossa, riusciva quasi a fingere ch’ella non esistesse. Immaginare di essere solo, di non aver nessuno attorno, si dimostrava semplice ed efficace, finché quella voce non interruppe la teca di vetro dietro la quale Hephaestus s’era nascosto.

«Voglio che tu combatta al mio fianco,» la voce della dea era forte e chiara, sovrastava gli sbuffi prodotti dal fuoco, così come il continuo clangore del metallo. Athena, persino nella fucina del dio del fuoco, appariva come una dominatrice nel fulgore della propria epidermide divina.

Nessuna parola abbandonò le labbra secche e rovinate dell’uomo, mentre cercava di lasciarsi scivolare addosso quella voce, di farla cadere nel limbo vuoto ch’era divenuto il suo corpo, di non provare nulla. Nulla. Non aveva bisogno di sentirsi nuovamente utile per una causa, per poi vedersi piombare la realtà addosso – altri migliori di lui sarebbero giunti a guidare gli eserciti di Athena, altri l’avrebbero servita meglio d’un dimenticato fabbro, che non poteva far altro che creare armi, ed armi, ed armi. Chi le avrebbe impugnate?

Cercò di ignorare la vicinanza del corpo di Athena al proprio, tuttavia la dea sorrise impercettibilmente quando Hephaestus cambiò l’inclinazione del proprio braccio, attento a non colpirla nemmeno per errore. Non voleva fosse lì, di certo per non l’avrebbe cacciata.

Il martello quasi cadde dalla propria presa quando la mano calda della dea si posò sul muscoloso braccio, costringendolo a voltarsi. Nessuna emozione eruppe su quel volto rovinato, eppure Athena ebbe quasi l’ardire di sentirsi in colpa.

Tal sentimento scomparve, quando strinse la manica della maglietta che il dio indossava, chiudendovi il pugno attorno.

«Nessun altro può istruire i giovani oltre a te, né nessun altro rispetterà i tuoi silenzi come farò io, Hephaestus

La guardò negli occhi. Non v’era alcuna traccia d’oro in essi, non v’era alcun bagliore di potere – forse fu per questo che sbuffò, annuendo seccamente. Non disse quando o dove, nemmeno che si sarebbe presentato l’indomani, ma questo ad Athena bastava.

Hephaestus, a differenza di molti altri, non rompeva le proprie promesse.

 

 

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Capitolo 12
*** #12. A kiss with a fist {Alianna} ***


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#12. A kiss with a fist {Alianna}

Non erano una coppia e questo Dianna l’aveva spiegato persino in greco antico al proprio fratello, prima di vederla sparire oltre l’angolo al fianco di Alexander con un’ascia sulla spalla e i pugnali alla cinta della vita sottile. Cacciavano solamente demoni insieme, se le missioni risultavano troppo piatte, e la cosa andava bene ad entrambi – insomma, prendere a calci in culo quei bastardi era la reale vocazione della ragazza, condividerla con qualcuno poteva persino essere divertente. Ovviamente se non si contavano le abrasioni dovute al fiato caldo di quegli esseri immondi o i muscoli indolenziti a causa del numero elevato di cadute lungo l’asfalto, tuttavia Dianna tendeva a dimenticare questi particolari insignificanti se paragonati al sapore della vittoria sulla bocca.

Ovviamente prima o poi qualcosa di brutto doveva succedere. Dianna non sapeva bene come comportarsi vedendo il corpo esamine di Alexander, il suo torso non s’alzava né abbassava al ritmo di un respiro regolare, e tutto ciò che la guardiana sapeva del primo soccorso riguardava la patente di guida che non avrebbe mai ricevuto. Era stato scaraventato contro un muro duramente per proteggerla – perché doveva fare l’eroe? – e ora sicuramente stava crepando, perché Dianna non riusciva a vedere alcuna possibilità di sopravvivenza in quella situazione.

Non solo aveva ucciso – per modo di dire, insomma – uno dei quattro fondatori, aveva anche estirpato completamente la sua discendenza, perché nutriva la ferma sicurezza che Alexander non avesse figli sparsi per il mondo.

«Non prendermi per il culo», esclamò evitando di battere un pugno sul torace. Era sicura che gli avrebbe spaccato le costole se ci avesse provato, quindi si limitò a sollevare il mento del giovane con due dita, tappandogli il naso e schiudendo la sua bocca.

Respirazione artificiale azzardata, che non durò nemmeno un secondo, perché la mano di Alexander affondò nei suoi capelli mentre un ghigno gli deformava le labbra secche e tagliate.

«Sbaglio o ti sei preoccupata per me?»

Non riuscì a ridere il fondatore, perché Dianna gli tirò un pugno alla bocca dello stomaco, imprecando con parolacce che nemmeno il peggiora tra gli scaricatori di porto poteva aver udito.

Loro non erano una coppia e quello non era un fottuto bacio. Come avrebbe fatto a spiegarlo a Damian – e a se stessa?

 

 

N/a: i personaggi all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono utilizzati con alcun scopo di lucro.

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Capitolo 13
*** #13. Can’t take my eyes off you {Amis} ***


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#13.  Can’t take my eyes off you {Amis}

Atlas nel corso della propria esistenza era stato chiamato in molti modi, a partire da Dorian sino ad arrivare a Casanova, e la libidine procreata dai suoi semplici gesti era ben nota ai parenti, i quali avevano deciso di tacere sull’argomento cosicché il giovane titano non potesse vantarsi per l’ennesima volta delle proprie conquiste. Themis, d’altro canto, non poteva che osservare l’adorato nipote con un cenno di divertimento a solcarle le perfette labbra pittate d’oscuro.

La spugna venne passata con morbidezza sulla pelle umida, non v’era nulla che la titanide amasse più dei propri bagni caldi, e non sussultò ella quando mani più grandi si sostituirono alle proprie in quel gesto. Docile si piegò al tocco esperto del titano alle proprie spalle, udendo il respiro contro la guancia, sino ad ammirare la profondità degli occhi di Atlas. Egli, infine, sempre da lei tornava.

«Sei qui,» sussurrò appena con voce roca la donna, posando una mano sul volto del giovane. Egli appariva ancora un fanciullo, eppure gli occhi sfioravano il corpo nudo della zia erano indubbiamente quelli di un uomo. «Ho sentito la tua mancanza, amato nipote.»

Atlas rise rocamente, le dita sprofondate nell’acqua limpida che non copriva alcun lembo di pelle, cullandosi nel calore del vapore che s’elevava da essa – e nella vicinanza della propria zia.

Lenta la spugna passò sulla sottile schiena, mentre Themis scostava i capelli per agevolare i gesti del titano, socchiudendo gli occhi per la dolcezza ch’egli imprimeva in essi. Niente portava Atlas a comportarsi con tale devozione, se non la donna ch’ora gli aveva consegnato il proprio corpo nelle sue mani.

«Ed io la tua, zia, temo che allontanarmi da te così a lungo sia sbagliato,» lo sussurrò contro la pelle della spalla, il naso che la sfiorava volutamente. «Vieni con me, la prossima volta, cosicché possa rimirare la tua bellezza ogni volta che lo desideri.»

Themis si mosse nell’acqua, esponendo il petto pur di guardare Atlas negli occhi. Ella era seria, nella propria stoica demoniaca meraviglia.

«Ovunque tu voglia, nipote.»

 

 

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Capitolo 14
*** #14. Like tears in the rain {Cries} ***


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#14. Like tears in the rain {Cries}

Quel luogo puzza di marcio, Crios può sentirlo penetrare nelle proprie carni come l’odio perpetrato dalla prigionia forzata. Ogni cosa attorno a sé è morte, a partire dalle lacrime dei più deboli, sino al silente passo di Hades tra le celle in cui ogni essere della stirpe primordiale è incatenato.

Egli talvolta avanza, le vesti eleganti in contrasto con il putridume del luogo, e lo sguardo mai mostra una reale emozione al di là dell’apatia. Crios non si domanda cosa quella mente celi, se non ché Hades talvolta pare fermarsi di fronte a sé, lo sguardo che vaga sino a congiungersi in quello cremisi del titano.

Non v’è battaglia, esse sono state smorzate anni or sono.

Quando Hades ghigna, Crios cerca di strappare le catene, percependo in sé ancora la brama di uccidere. Come potrebbe apparire quel volto, se cosparso dal proprio sangue?

Qualcuno singhiozza nel buio del Tartaro, o forse sono solo i picchiettii delle gocce sulla nuda roccia. Non sa di preciso da quanti giorni siano imprigionati, conosce solamente l’andamento prodotto dal corpo di Hades, cadenzato dalla tranquillità di chi non teme alcunché, di chi non ha possibili fantasmi alle proprie spalle pronti a cacciarlo.

Persino quando il potere divino si esaurisce e Crios evade dalla propria cella il volto di Hades appare stoico, ed è ciò che ferma la mano del titano dal mietere quella vittima. Ne osserva ogni sfumatura, non per curiosità, per sfida. Vuole indurlo ad attaccare, eppure Hades non compie che un semplice gesto, indicandogli seccamente di andarsene – vuole rimanere solo ad osservare la caduta del proprio Regno, non ha bisogno d’altri spettatori.

Crios vorrebbe dire che non prende ordini dalle divinità, eppure lo lascia. In un’altra occasione avrebbe strappato quegli occhi dal cranio, dal colore della pioggia.

In un’altra occasione, sarebbe stato lui a ghignare vedendo Hades intrappolato nella cella creata dalle proprie mani.

 

 

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Capitolo 15
*** #15. I can smell your fear blood {Hylene} ***


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#15. I can smell your fear blood {Hylene}

Hypnos poteva osservare le figure dormienti dalla propria posizione, i calzari rovinati dal tempo per un dio che non amava curare il proprio aspetto, non quando altro al mondo catturava in maniera totalizzante il suo interesse. La luna piena illuminava il resto del cielo e, per il bagliore d’un istante, Hypnos vide una figura antica che pareva ormai aver dimenticato, una figura sinuosa e, nonostante ciò ch’ella raffigurasse, oscura.

Balzò nel vuoto senza il timore ad attanagliargli le viscere, egli era il figlio della Notte stessa, come poteva anche sol pensare che il buio potesse trarlo in inganno? Ripiombò nella radura, ove alcun suono poteva esser udito – ella, solitaria, era inginocchiata nell’erba, il sangue ad imbrattarle le mani che Hypnos aveva sempre ricordato eteree. Deglutì, domandosi se dovesse dare l’allarme – o addormentare la vittima che quelle dita avevano strappato alla vita, così da impedire gli ultimi attimi di sofferenza.

Rimase immobile, il dio, mentre Selene sollevava il proprio sguardo e lo posava su egli come se non fosse altro che invisibile. Non si curò di proteggersi o giustificare la propria presenza, la donna tacque, leccando via il sangue dalle proprie dita.

«Non dovresti essere qui,» disse il sonno alla luna, e fu quasi ironico di come alcuna mutazione tracciò nuove linee sul volto di Selene. Ella rimase taciturna, indifferente, sino a quando non si alzò mostrando parte del corpo nudo, baciato dalla sfera lunare sopra i loro capi. Inclinò il capo ed i capelli inglobarono il bagliore, ma nulla accadde – Hypnos fu pronto a reagire, ma Selene soltanto sollevò le dita, cosicché la luna per la lunghezza d’un battito di ciglia, smise di brillare.

Quando Hypnos aprì gli occhi, ella se n’era andata, e la notte ancora lo proteggeva.

Il dio temette per la prima volta d’essere stato vittima di uno dei suoi stessi sogni.

 

 

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Capitolo 16
*** #16. We’ll find a place where the sun still shines {Bromance} ***


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#16. Well find a place where the sun still shines {Bromance}

Kronos lavò via il sangue dalle proprie mani, cercando di ignorare le ultime parole che Zeus gli aveva rivolto, prima di cacciare lui e la sua stirpe lontani – laddove nemmeno il sole pareva potesse sorgere.

Vibrò il suo petto udendo le parole di Oceanus pronunciate alla figlia. Ella, a differenza d’altri, era viva per un solo miracolo. La figura minuta di Dione appariva irriconoscibile e Kronos, dentro di sé, sentì le parole del padre affiorare: mostro, mostro, mostro.

Non provava alcuna pietà per la ragazzina, egli bramava solamente vendetta.

S’avvicinò tuttavia al fratello, posando una mano sulla massiccia spalla. Le iridi cremisi si specchiarono in quelle gemelle. Kronos non sapeva consolare – non voleva consolare. Eppure, non poteva nemmeno contrastare la venuta divina da solo.

«Si riprenderà, è una titanide

Oceanus, dal canto proprio, tacque. Kronos in fondo sapeva che egli lo conosceva meglio di chiunque altro.

 

 

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Capitolo 17
*** #17. I would go most anywhere to find where I belong {Heracles} ***


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#17. I would go most anywhere to find where I belong {Heracles}

Heracles afferrò quel batuffolo di carne tra le proprie braccia, sollevandolo come se non pesasse nulla e fermandolo sulle proprie spalle. Anicetus, lasciato a terra, s’aggrappò alla gamba del padre squittendo in segno di protesta. Un periodo pacifico per il neo dio, mentre lasciava che i muscoli riposassero dai numerosi allenamenti, e le iridi dorate si beassero della rara presenza dei propri figli.

Puntò il dito, verso il Monte Olimpo, ove i due dèi vivevano con la madre.

«Per meritarvi la vostra posizione, dovreste scalare il Monte a piedi, figli miei.»

La voce tuonante non fece alcuna paura ad Alexiare, il quale scompigliò i capelli del padre come egli spesso faceva con i loro, salutandoli la sera, quando tornava.

«Noi siamo divinità di diritto!» Rispose Anicetus ed Heracles si lasciò sfuggire una risata roboante, annuendo soddisfatto mentre a propria volta affondava la grande mano nei ricci capelli del più piccolo tra i due.

«E pensate di meritarvi questa nomina?» Domandò ancora, tenendo le ginocchia ancora ossute di Alexiares saldamente ferme.

I due bambini parvero ponderare seriamente a quella domanda, sino a quando Anicetus non sollevò gli occhi al cielo, annuendo.

«Certo che sì, noi siamo i figli del più grande eroe della Grecia!»

Alexiares parve d’accordo con le parole del fratello, perché non aggiunse altro. Il silenzio piombò sui tre, mentre il pensiero di Heracles volava alla vita in cui “eroe” era stato chiamato. Scacciò, tuttavia, il pensiero delle urla di colei che in passato aveva amato per portarle nuovamente sul Monte Olimpo di fronte a sé.

Quello era il suo posto.

 

 

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Capitolo 18
*** #18. Admiration. {Sylie} ***


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#18. Admiration. {Sylie}

Sylvie fissò nuovamente il corpo snello ed atletico di Amelie spingersi in avanti, un affondo perfetto della propria spada che fendette l’aria. Ella si muoveva come una danzatrice, nulla pareva potesse intralciare il suo cammino, e la precisione dei passi la rendevano un avversario temibile. Seppur possedesse la dolcezza e la gentilezza, Amelie poteva risultare piuttosto pericolosa su un campo di battaglia, per Sylvie non era difficile immaginare il motivo per cui ella fosse il capo-stipite di quell’Accademia.

La osservò levarsi il caschetto dal volto, sorridendole cortese. La bionda allungò verso di lei asciugamano e borraccia, mentre Amelie inclinava appena il capo.

«Perché non ti alleni con me? Sei una figlia del dio Apollo, giusto?»

Sylvie aveva notato che ogni parola riferita alle divinità pronunciata dal Fondatore trasudava ammirazione. Ella era sincera nelle proprie preghiere, nella propria credenza – non nutriva dubbi, e la guardiana riusciva ad ammirarla persino per questo.

Deglutì, passandosi le dita sottili tra i filamenti biondi, un dono del proprio padre.

«Credi ne sarei all’altezza?»

Mostrò timore, un timore che scemò quando la ragazza portò una mano sulla sua, in segno di incoraggiamento. Non disse nulla, Amelie, tuttavia quando si alzò per riprendere gli allenamenti le porse una spada.

«Tuo padre sarà orgoglioso di te.»

 

 

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Capitolo 19
*** #19. I was made to keep your body warm {Aphres} ***


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#19. I was made to keep your body warm {Aphres}

Le mani di Ares erano quelle di un guerriero. Esse non apparivano dolci, o affettuose, o pacate contro le curve del proprio sensuale corpo, ed Aphrodite lo amava anche per questo. Per anni con certezza aveva sostenuto l’idea che nessuno potesse rubarle il cuore e solamente le sue dita sempre se ne sarebbero appropriate, infine Ares era riuscita a possederla – e si era lasciata andare.

Quel giorno, le mani erano più irruente del solito. Si posavano sui fianchi e li stringevano con forza, quasi a volerle fare male – eppure Aphrodite non poteva che gemere, quando lo sentiva premere contro di sé, il petto sudato contro la propria schiena ed il fiato corto contro la guancia.

Quel giorno, mentre il suo corpo possente la possedeva in uno degli angoli dimenticati dell’Olimpo, Ares la odiava. Odiava la sua voce, il modo in cui si chiudeva perfettamente intorno a sé, le spinte del suo corpo, le sue suppliche, il suo amore sussurrato con voce spezzata.

Quel giorno, Zeus aveva annunciato chi sarebbe stato il fortunato futuro marito di Aphrodite. Per questo era corsa da Ares, spogliandosi non appena il dio con astio le aveva afferrato i polsi, spingendola contro la propria bocca in un bacio famelico e crudele.

Quel giorno, Ares le aveva mostrato di amarla fino al dolore. Il dolore d’un cuore che sarebbe stato imprigionato in una gabbia di metallo. Il dolore d’un cuore straziato per una donna ch’ora e per sempre sarebbe appartenuta a qualcuno che non sapeva come donarle piacere, come suonasse la sua voce nelle notti fredde, come scaldare il suo corpo con il semplice tocco di mani esperte e grandi.

«Ti detesto, Aphrodite,» masticò quelle parole che sapevano dannatamente di un ti amo che Ares mai aveva pronunciato a voce alta.

Aphrodite non rispose, si limitò a chiudere gli occhi, premuta contro il petto di Ares ed i capelli nella presa salda delle mani callose, piangendo e maledicendo il fato.

 

 

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Capitolo 20
*** #20. Left some words quite far from here {Astran} ***


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#20. Left some words quite far from here {Astran}

Logan provò a sorriderle da lontano. Insomma, era una ragazza stupenda – non aveva mai visto tante ragazze stupende quanto all’Accademia, in effetti – ed i suoi lunghi e mossi capelli rossi gli facevano venire i capogiri. Rispetto ad altre divinità Astraea appariva ben più – pacata, posata, gentile? – piacevole, non pareva osservar tutti dall’alto in basso e nonostante Logan peccasse di modestia, la faccenda dell’essere un semplice semidio non lo portava ad avanzare il primo passo verso di lei. Forse, se suo padre gli avesse prestato uno motoscafo o uno yacht, la cosa sarebbe stata sicuramente più semplice.

Il giorno in cui decise di parlarle si sistemò i capelli e finì per appoggiarsi allo stipite della porta dove la giovane teneva un corso facoltativo, non sapeva nemmeno di cosa parlasse e forse avrebbe dovuto, ma aveva visto suo padre utilizzare uno di quei ghigni che ora gli deformava la faccia. Poteva puntare sul fattore “begli occhi”, eppure era quasi sicuro che Astraea ne avesse visti, nella sua vita, begl’occhi.

Tossicchiò quando lei gli passò accanto senza vederlo. E la fermò per un polso quando la dea non si fermò affatto ad accogliere la presenza di Logan, incespicando nei propri piedi, e ridendo quando gli occhi fiammeggianti come i suoi capelli lo osservarono con una punta di fastidio.

La vergine stellare, ricordalo Logan, non esattamente una ragazza facile da conquistare.

«Posso aiutarti?»

Possedeva una voce melodiosa, forse leggermente acuta, tuttavia Logan l’adorò immediatamente. Si passò la mano a scompigliare i capelli, riducendoli ad una massa informe, prima di riuscire a giungere ad una scusa plausibile per avvicinarla e, magari, parlarle. A lungo. Per sempre. Forse doveva chiederle di sposarlo, o di passare tutta la sua vita con lui – almeno ottant’anni, secondo le stime degli ultimi sondaggi – e farlo innamorare ogni giorno perché, ragazzi, già si sentiva sulle nuvole solamente a guardarla così da vicino.

«Mi chiedevo se ti andasse di pranzare con me?»

Bravo Logan, niente di psicotico/ossessivo, sii fiero di te stesso.

Astraea lo osservò arricciando il nasino sottile, probabilmente si stava domandando chi diavolo fosse, ma era troppo gentile per pronunciare tali parole, quindi Logan allungò una mano aperta verso di lei, allargando il sorriso che suo padre gli aveva tramandato.

«Sono Logan, figlio di Poseidon

Al nome del dio, Astraea arcuò le sopracciglio, squadrandolo come se non credesse a tali parole. Sostò per una frazione di troppo in quelle profonde pozze oceaniche, prima di annuire seccamente con il capo, dandogli le spalle e non curandosi di vedere se il giovane stesse seguendo.

Dal canto proprio, Logan perse due minuti buoni per sollevare il pugno in aria in segno di vittoria.

 

 

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Capitolo 21
*** #21. I wish you were here {Persephone} ***


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#21. I wish you were here {Persephone and Demeter}

Le dita affondate nella terra non percepivano alcuna vibrazione.

Ella era davvero morta per sempre.

Persephone poteva udir echeggiare nel vento il suo d’una risata dolce, parole appena sussurrate che le avevano donato la forza d’abbandonarsi all’ombra d’un Regno che mai, forse, le era realmente appartenuto. Non avrebbe più sentito braccia stringerla, sussurrarle un «Bentornata» con la commozione a far tremare la voce, né avrebbe più sentito il reale profumo della terra attorno a sé.

Essa sarebbe forse morta, senza l’unica vera madre che poteva salvarla – che avrebbe potuto salvare entrambe.

S’asciugò gli occhi con il dorso della mano – una regina non piangeva – ed osservò ancora una volta come nulla vibrasse nel brullo terreno dell’Accademia, distrutto dall’attacco titanico. Persephone era rimasta assente troppo a lungo, la giovane donna mai nella propria esistenza aveva desiderato vendetta, tuttavia ora – mentre le poesie dedicate a Demeter le riempivano la mente – bramò il sangue della titanide che le aveva strappato la vita.

Per la prima volta Persephone percepì l’oscurità che sempre aveva rifiutato divorarla e, invece che esserne spaventata, la utilizzò come forza per rialzarsi dalla terra e promettere a se stessa che avrebbe vendicato la morte di sua madre.

 

 

 

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Capitolo 22
*** #22. Greetings from the afterlife {Thyx} ***


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#22. Greetings from the afterlife {Thyx}

Nyx batté il piede ripetutamente a terra, mentre osservava da lontano il sole finalmente calare completamente, scomparendo oltre il profilo delle montagne. S’innalzò elegantemente, soddisfatta e un po’ maledicendo Apollo e la sua pigrizia nello svolgere i propri doveri, camminando quietamente cosicché il buio della notte docilmente la seguisse.

Le tenebre calarono, ed ogni cosa vi fu immersa.

Sollevò appena le proprie vesti evitando di calpestare l’erba umida, cercando con il proprio sguardo dorato una figura tra le tenebre. Egli non tardò a manifestarsi, ma lo fece alle spalle dell’indifesa madre, la quale portò una mano al petto segnalando il proprio scompenso.

«Quante volte devo ripeterti che apparire dal nulla mi urta i nervi?»

Sibilò con astio la dea primordiale, posando entrambi i pugni chiusi sui fianchi, mentre osservava con un cipiglio piuttosto critico la figura del figlio, Thanatos.

Egli, dal canto proprio, ghignò.

«Saluti dall’aldilà, madre.»

Nyx roteò gli occhi, aumentando così l’ilarità della morte, prima che le sue mani andassero a scompigliargli i capelli, rendendolo piuttosto irrequieto. V’era così differenza, tra Thanatos ed Hypnos, che talvolta la madre non capiva come potessero essere realmente gemelli.

«Quali notizie mi porti, Thane

La personificazione della morte stessa guardò quasi pietosamente la madre, prima di aprire la propria mano, invitandola a sedersi su un masso poco lontano. Ella obbedì nonostante le voglia di tirare le orecchie a quello ch’era il più indisciplinato dei suoi figli fosse elevata.

«Se davvero vuoi sapere ogni cosa, madre, sarò una lunga notte.»

Nyx arcuò le labbra in un sorriso divertito, stavolta, posando le mani sotto il mento.

«Non potrei domandare di meglio.»

 

 

 

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Capitolo 23
*** #23. I’ve never loved you, but if I did, I wouldn’t say that I’m sorry {Dhyr} ***


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#23. I’ve never loved you, but if I did, I wouldn’t say that I’m sorry {Dhyr}

Di certo Deimos non poteva aver fatto nulla per provocare l’astio in quegli occhi profondi. Raramente le sue parole s’erano scontrate con quelle di Lhyr – raramente le loro bocche s’erano possedute, desiderate, amate – e se in quell’occasioni aveva urtato la sensibilità femminile, il dio non ne era affatto al corrente.

Eros sosteneva spesso che non capisse le donne, e mentre Lhyr sfilava le braccia dalla posizione in cui era rimasta bloccata per un buon quarto d’ora, per la prima volta Deimos pensò che il proprio fratello avesse ragione.

Cosa poteva volere da lui, in quel momento, alla vigilia di una missione? Deimos si sentiva distratto, Lhyr mostrava troppa pelle esposta e il ricordo sfuggente delle proprie mani su di essa non era mai apparso così vivo come lì, nella claustrofobica stanza in cui ogni genere di cosa poteva essere trovata. Ne ricordava i sospiri, ed era inevitabile domandarsi se anche Phobos ne fosse stato ossessionato per giorni – e notti.

«Ho da fare,» pronunciò spiccio, afferrando un altro tra i propri libri, per cercare qualsiasi cosa che potesse distoglierlo da Lhyr. Allontanarlo dal suo respiro caldo o dai capelli che sfuggivano alla presa della coda di cavallo spettinata. «Dovresti riposare.»

«Ora ti preoccupi per me, stronzo?»

Deimos sgranò gli occhi per la frazione d’un attimo, prima d’assottigliarli e cercare di incuterle terrore. Cosa avrebbe dovuto temere, tuttavia, la donna forgiata dalla paura? Nulla.

La vide avanzare verso di sé, la fronte corrugata e l’astioso sguardo la rendevano selvaggia e pericolosa, Deimos non sapeva affatto come comportarsi di fronte a tali emozioni, non aveva letto alcun libro a riguardo – eppure le mani fremevano, mentre andavano a posarsi contro i fianchi, forse per bloccarla, forse per trascinarla vicino a sé.

«Sei uguale al tuo cazzo di fratello.»

Siete tutti uguali, voi fottuti dei, e io una cretina a cascarci ogni volta.

«Non paragonarmi a lui.»

Lo guardo azzurro cadde sulle labbra schiuse, desiderò inumidirle con la propria lingua, morderle, spostare ogni scartoffia sulla scrivania e posarci il corpo leggero di Lhyr. Rimase immobile, invece, a contemplarla.

«Vaffanculo

Fu lei a baciarlo, perché lo odiava. Odiava sentire la pelle scuotersi al semplice passaggio di dita dolci, non irruente, non possessive. Odiava sentire le gote andare a fuoco e il desiderio crescere, solamente per la mano aperta sulla propria schiena. Odiava la sensazione di vulnerabilità che le contorceva le viscere, perché lo sguardo di Deimos non rifletteva nulla, e Lhyr non era mai stata brava a leggere nessuno.

Deimos, dal canto proprio, si domandò come suo fratello fosse riuscito ad allontanarsi da lei. Non la amava, eppure – eppure quell’ossessivo desiderio, lo portava ad inchinarsi di fronte a lei, pregandola di pronunciare il proprio nome.

 

 

 

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Capitolo 24
*** #24. Like ships in the night {Allian} ***


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#24. Like ships in the night {Allian}

I tornei organizzati dalle divinità non era una cosa così frequente perché Daphne potesse considerarsi abituata a quello scorrimento gratuito di sangue. Certo sapeva che nessuno sarebbe giunto sino alla morte, tuttavia in sé nutriva ancora un cuore umano, e non era semplice urlare all’unisono del resto della folla eccitata mentre i due contendenti sbattevano le spade l’una contro l’altra.

Un urletto abbandonò le labbra di Daphne, quando la lama d’una di esse sfiorò il fianco scoperto di quello che sapeva essere Killian, discendente di Ulisse. Si portò le mani al volto, posando il proprio sguardo sul giovane guerriero, il quale dimostrava un ghigno quasi divertito nonostante lo sfregio – forse, pensò la fanciulla, esso era solo superficiale.

Senza rendersene conto Daphne s’era alzata sulle punte dei propri piedi per poter meglio osservare la figura di quello che le divinità, quasi con il riso nella voce, avevano definito un gladiatore per la giornata. Quando Killian fendette l’aria, puntando al polso dell’avversario, l’urlo di incitamento della giovane ninfa lo accompagnò nella mossa. Ed in ogni altra, fino a quando il discendente non si erse vittorioso, sollevando entrambe le braccia muscolose sopra la testa.

Qualcuno portò lui un fiore, e Daphne si ritrovò con le gote imporporate quando Killian, scavalcando due file di spettatori, glielo porse con un sorriso ammiccante e dai tratti maliziosi.

«Senza il tuo incoraggiamento non ce l’avrei fatta,» sussurrò, schiacciandole l’occhiolino, e scomparendo quando qualcuno lo richiamò all’ordine tra le divinità.

Daphne, dal canto proprio, portò il fiore al naso annusandone il profumo. Un sorriso le piegò le labbra, mentre il rossore sulle gote s’accentuava visibilmente.

 

 

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Capitolo 25
*** #25. Childhood memories {Heris} ***


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#25. Childhood memories {Heris}

Il labbro inferiore tremò inconsciamente vedendo la propria corona di fiori brutalmente spezzata sotto le dita piccole e corte di Eris, la quale con un sogghigno gettò i rimanenti componenti nell’aria, aspettando che il vento se li portasse via. Hebe si sollevò nel suo misero metro d’altezza, fronteggiando colei che le era stata infaustamente donata come sorella – la spinse lontana, per poterla superare, alla ricerca d’altri fiori.

«Piangi proprio come una bambina stupida!» La voce di Eris le arrivò dritta come una stilettata al cuore, tuttavia Hebe cercò di ignorarla – fiore dopo fiore, un nuovo mazzolino fu stretto tra le sue dita, ed era pronta a costruire nuovamente la corona per la loro adorata madre. Quella settimana era dedicata al culto della potente Hera, ed Hebe non voleva mancare alla celebrazione, seppur Eris avesse fatto proprio il compito di disturbarla.

«Io sono una bambina, stupida!»

«»fiori. L’opera era quasi giunta a metà, ma non appariva bella quanto la prima e le lacrime comparvero spontaneamente a pizzicare gli occhi dorati di Hebe.

Singhiozzò, ed Eris esibì una vistosa smorfia di disgusto. Tuttavia a quei tempi ancora non era così crudele e si sedette al fianco di Hebe, spintonandola perché si facesse in là, ed iniziando ad aiutarla. Non era per nulla precisa o elegante, ma il fatto che non l’avesse lasciata sola alla dea della gioventù bastò per cessare il proprio pianto.

«Guai a te se dici a nostra madre che ti ho aiutato, piagnucolona,» sbottò Eris puntandole il dito contro.

Hebe si morse il labbro inferiore: non sarebbe mai riuscita a dire una bugia.

 

 

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Capitolo 26
*** #26. Be careful making wishes in the dark {Alexandros} ***


In the flesh - Apocalypse



#26. Be careful making wishes in the dark {Alexandros}

Alexandra era una donna caparbia e risoluta, non a tutti potevano piacere la sua sicurezza o la lingua tagliente che, con il tempo, aveva imparato a tener ben lontana dai denti durante i propri allenamenti notturni.

Le nocche erano rovinate a causa dei pugni che tirava contro il sacco, senza alcuna protezione, come aveva veduto fare al proprio padre in numerose occasioni. Imprecava ad ogni colpo più debole, quando il proprio avversario immaginario si muoveva a malapena, ed il desiderio di uccidere e l’ira si facevano largo in lei, segnandola come la semidea ch’ella era realmente.

All’ennesimo pugno, una ciocca di capelli castani le volò di fronte al volto sudato e qualcuno fermò il sacco tra le proprie dita. Una figura oscura, che Alexandra non avrebbe mai chiamato fratello, non quando nessuno tra loro l’aveva realmente accolta come una famiglia. Lo osservò pulendosi il volto con il dorso della mano, non curandosi affatto di apparire femminile o meno, né educata a non salutare la divinità stagliata di fronte a sé. Phobos, d’altro canto, taceva nell’osservarla.

Suo padre non l’aveva presentata loro, ma osservarla era piacevole. Poteva scorgere facilmente la paura di non essere all’altezza del proprio sangue, di non essere all’altezza della forza che ogni figlio di Ares doveva possedere – Alexandra era un fascio di nervi, Phobos la trovava ispiratrice per il ritrovamento del proprio potere.

Probabilmente, se la donna avesse saputo di quegl’occhi indagatori, avrebbe provato a cavarglieli.

«Quando combatti dovresti allargare maggiormente i piedi,» spiegò con voce secca, greve – sembrava non pronunciasse parola da anni tant’essa suonò arrochita. «Così imprimerai maggiore forza nei pugni.»

Alexandra fece scattare le sopracciglia verso l’altro, osservandolo con astio. Non solo sembrava volerla disturbare, ma si permetteva persino di darle consigli mai richiesti.

Malamente gli passò accanto, assicurandosi di colpirlo con una spallata, prima di porsi di fronte a lui.

A gambe larghe come Phobos aveva suggerito, tant’è che il dio sogghignò soddisfatto.

«Perché non mostri quello che sai fare, invece di dare consigli che nessuno ti ha mai chiesto?»

Quando Phobos cercò i suoi occhi, non vide alcuna paura. Sciolse le mani da dietro la schiena assottigliando lo sguardo, restringendo così le pupille – non poteva permettere che quelle membra rimanessero rilassate, il timore avrebbe presto penetrato le sue carni ed il suo animo.

Solo allora l’avrebbe considerata una sorella.

 

 

N/a: i personaggi all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono utilizzati con alcun scopo di lucro.

© Apocalypse GDR.

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Capitolo 27
*** #27. You’re my downfall, you’re my muse {Muses} ***


In the flesh - Apocalypse



 

#27. You’re my downfall, you’re my muse {Muses}

Calliope accarezzò con materno affetto il capo d’Urania posato sul proprio grembo, entrambe cullate da una melodia che Euterpe aveva intonato dal nulla, come se l’ispirazione, ora ch’erano unite, fosse tornata a brillare come un tempo. Clio, del resto, non amava tali dimostrazione affettive, tuttavia pareva non riuscisse a distanziarsi troppo dalle amate sorelle, rimanendo sempre a portata di tocco – pronta ad afferrare chiunque potesse cadere.

Esse non erano che la completezza l’una dell’altra. Alcuno poteva amarle in un modo più passionale e sincero, l’affetto che legava quelle quattro donne andava oltre la mera immaginazione umana.

Clio socchiuse gli occhi, la mano posata sulla liscia copertina del bianco libro che sempre portava con sé, mentre poco lontano Urania s’appisolava, forse sognando il manto trapuntato di stelle nella notte più buia dell’anno.

«Calliope,» esordì infine la piccola e graziosa Euterpe, allontanando il flauto dalle sottili labbra baciate dal rossore delle ciliegie, «accompagna il suono del mio flauto con una storia, cosicché i sogni d’Urania siano cullati dalle nostre anime, e non rimanga sola.»

Un sorriso divertito ed amorevole dipinse il volto d’Urania e la mano di Calliope si allontanò dai lunghi capelli biondi per aprirsi verso Clio, la quale mantenne lo sguardo con celato orgoglio. Ella non era solita abbandonarsi alle carezze, tuttavia – tuttavia guardando ciò che gli uomini avevano compiuto attorno a loro, il modo in cui stavano distruggendo una storia che con così tanta fatica era stata creata, la portò a cedere.

Elegantemente Clio s’accomodò al fianco d’Euterpe, mentre Calliope posava il capo contro il freddo e duro tronco d’una quercia – l’Accademia possedeva alberi meravigliosi, tuttavia quello era il preferito della Musa. Iniziò a narrare con la voce intrisa dall’emozioni, un sentimento contraddistinto persino dalla luminosità degli occhi, mentre l’armonia creata dalla bocca d’Euterpe cullava Urania in un sonno felice e Clio, silenziosa, s’abbandonava all’affetto perpetrato dal corpo caldo della sorella accanto al proprio.

 

 

N/a: i personaggi all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono utilizzati con alcun scopo di lucro.

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