Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** #1. Maybe you think that you can hide, I can smell your scent from miles {Zhera} *** Capitolo 2: *** #2. Holding me closer ‘til our eyes meet {Chriline} *** Capitolo 3: *** #3. All I want is the taste that your lips allowed {Dethys} *** Capitolo 4: *** #4. You’ve got something I need {Usilyn} *** Capitolo 5: *** #5. You’re the antidote to everything {Twincest} *** Capitolo 6: *** #6. Won’t you be my solid ground {Phoseidon} *** Capitolo 7: *** #7. Don’t get too close, it’s dark inside {Theos} *** Capitolo 8: *** #8. How much longer will it take to cure this {Hermione} *** Capitolo 9: *** #9. I hate everything about you {Alceus} *** Capitolo 10: *** #10. Will you still love me when I’m no longer young and beatiful {Erros} *** Capitolo 11: *** #11. Under your comand, I will be your guardian {Hephena} *** Capitolo 12: *** #12. A kiss with a fist {Alianna} *** Capitolo 13: *** #13. Can’t take my eyes off you {Amis} *** Capitolo 14: *** #14. Like tears in the rain {Cries} *** Capitolo 15: *** #15. I can smell your fear blood {Hylene} *** Capitolo 16: *** #16. We’ll find a place where the sun still shines {Bromance} *** Capitolo 17: *** #17. I would go most anywhere to find where I belong {Heracles} *** Capitolo 18: *** #18. Admiration. {Sylie} *** Capitolo 19: *** #19. I was made to keep your body warm {Aphres} *** Capitolo 20: *** #20. Left some words quite far from here {Astran} *** Capitolo 21: *** #21. I wish you were here {Persephone} *** Capitolo 22: *** #22. Greetings from the afterlife {Thyx} *** Capitolo 23: *** #23. I’ve never loved you, but if I did, I wouldn’t say that I’m sorry {Dhyr} *** Capitolo 24: *** #24. Like ships in the night {Allian} *** Capitolo 25: *** #25. Childhood memories {Heris} *** Capitolo 26: *** #26. Be careful making wishes in the dark {Alexandros} *** Capitolo 27: *** #27. You’re my downfall, you’re my muse {Muses} ***
Capitolo 1 *** #1. Maybe you think that you can hide, I can smell your scent from miles {Zhera} ***
In the flesh - Apocalypse
#1. Maybeyouthinkthatyou can hide, I can smellyourscentfrommiles {Zhera}
Gli
occhi dorati scalciavano via le tenebre da sé, non v’era alcun suono che
potesse distogliere Zeus dai propri sensi, allontanarlo dal punto in cui i passi
– il ticchettio dei tacchi – risultava quasi accanto al corpo nudo. Le labbra
sottili s’aprirono in un sorriso ferale, poteva percepire l’odore del profumo
costoso che ora impregnava anche la sua pelle aleggiare nell’aria, quasi a
volerlo vedere impazzire.
I
piedi non producevano alcun rumore sul marmo dell’Accademia, egli scivolava
silenzioso tra i corridoi dell’ultimo piano attratto come un’ape dal miele,
sino a quando il frusciare della stoffa contro il muro non attirò completamente
i sensi del dio. Si voltò di scatto, costringendo all’immobilità il proprio
corpo esposto – la lingua umettò le labbra, su di esse la previsione d’un
sapore che l’avrebbe reso ubriaco ben presto, prima del sorgere del sole.
Quando
allungò il braccio, le proprie dita si strinsero intorno ad un esile polso. La
padrona d’esso si dimenò, cacciando persino un’imprecazione per essere stata –
nuovamente – catturata. Zeus l’attirò contro il petto nudo, le grandi mani
aperte andarono a posarsi sul ventre piatto e coperto solamente da una
sottoveste sottile. Il calore della pelle di Hera era
palpabile, poteva persino percepire i brividi attraversarla solamente al tocco
delle proprie carezze audaci.
«Sai
che ti troverò sempre,» esalò contro l’epidermide sensibile del collo, posandovi
poi un bacio umido. Ammirò la sposa voltarsi rabbiosa, la luce d’ira e
desiderio che si amalgamava in quelle iridi ch’erano lo specchio delle proprie,
e, non permettendole di pronunciare alcuna protesta o insulto, Zeus le catturò.
La
sentì maledirlo in ogni lingua conosciuta, stringere i pugni contro le sue
spalle, sino a tacere e lasciarsi abbandonare in quel bacio al sapore di
ricordi e perdite, di speranza e realtà – Zeus non lo disse, ma mentre la
stringeva pensò che sempre (sempre, sempre, sempre) avrebbe trovato Hera, persino in mezzo ad una marmaglia di cadaveri durante
la guerra la sorella sarebbe tornata da lui. Era questo che accadeva alle anime
gemelle.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Le
palpebre tremavano, così come le piccole mani che ora stringevano la sbottonata
camicia chiara – il suo animo? Il suo animo era in burrasca, Faline non capiva cosa stesse succedendo al fragile ed
umano corpo che in quella vita possedeva. Sin da quando la dea protettrice dei
boschi aveva baciato la sua fronte, memorie erano sfrecciate nella mente,
portandola a possedere mancamenti durante il corso dei giorni. In
quell’istante, con le ginocchia fragili, la fanciulla si ritrovò a sollevare lo
sguardo autunnale su colui che dal nulla era apparso, salvandola da una
rovinosa caduta.
Possenti
mani maschili le stringevano la vita, tenendola contro di sé come se la vita
della giovane dipendesse da esse. Egli non era che uno dei quattro guardiani
Fondatori, i ricci bruni gli ricadevano sul volto sudato – forse di ritorno da
uno degli allenamenti – ed un sorriso scaltro e malandrino gli addolciva l’espressione.
Dal
canto proprio, Faline arricciò le labbra, osservando
curiosa quegli occhi dalla luce conosciuta.
«Ti
chiedo scusa,» disse, e nonostante ciò non dimostrò minimamente di volersi
allontanare da lui. Un vecchio coraggio dovuto al passato, una spavalderia che
sapeva d’antico – una sensazione a farsi stringere da quelle mani che ricordava
un uomo che Eurydice aveva follemente amato. «Ero
distratta.»
Una
carezza compirono quelle mani grandi contro i suoi fianchi, risalendo appena
sotto i seni. Chris Eaton masticò un commento
sarcastico e volubile, scostando un ciuffo di capelli per meglio ammirare la
fanciulla tra le proprie braccia.
«Che
ne dici di ringraziarmi di fronte ad un caffè?»
Faline arcuò entrambe le sopracciglia,
stupita da tale ed improvvisa proposta, per poi lasciarsi andare ad un sorriso
malizioso – un sorriso che ricordava quello che il fondatore stesso aveva sulla
propria bocca.
«Perché
no?»
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 3 *** #3. All I want is the taste that your lips allowed {Dethys} ***
In the flesh - Apocalypse
#3. All I wantis
the taste thatyourlipsallowed {Dethys}
Un
sonoro schiocco si proruppe nell’aria satura di ansiti quando le labbra si
separarono da quelle piene della donna. Damian lasciò che l’odore dolce dei
suoi capelli penetrasse le narici, esattamente come la settimana prima, e
quella prima ancora – il suo fottuto odore stava divenendo una dannazione
continua, qualcosa che gli sarebbe costato la vita se solo non avesse fatto
attenzione.
Contro
di lui, nonostante lo sguardo stoico e freddo, Tethys
era morbida come le sue mani avevano immaginato la prima volta che l’aveva
scorta, senza un tacco, tra i corridoi rotti dell’Accademia. Amava – che parola
piena di significato, ora – tracciare i lembi delle sue carni calde, stupendosi
come gli ansiti ed i gemiti fossero sinceri e non stonati alle proprie
orecchie. Si lasciava guidare dalle espressioni che quel volto – molto più
dolce di quant’avesse immaginato – mostrava, ogni qualvolta la faceva sua,
ovunque potesse, in qualsivoglia istante.
Un
desiderio maledetto, quello per la titanide che non
sentiva alcun dolore se Damian stringeva le carni con forza, ma sosteneva di
soffrire se per giorni non poteva posare il proprio sguardo su di lui.
Avrebbe
dovuto andarsene da lì, tornare alla vita che il fato aveva predetto per lui,
tuttavia il sapore di quelle labbra – i sospiri divenuti propri – lo
costringevano a cedere. Un ultimo bacio, un’ultima carezza – e la
consapevolezza di mentire a tali pensieri.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 4 *** #4. You’ve got something I need {Usilyn} ***
In the flesh - Apocalypse
#4. You’ve gotsomething
I need {Usilyn}
Non
v’era alcuna traccia d’amore in lui. Un tempo, forse, dell’affetto aveva
solcato quelle aitanti fattezze. Tuttavia, ora, il vuoto mostravano quelle
iridi che sempre la osservavano dall’altro lato dell’ampia stanza.
Marilyn
deglutì a vuoto, il terrore evidente a tinteggiarle l’espressioni del viso
dolce. Tremava, singhiozzava, talvolta permetteva alle lacrime di prendere il
sopravvento per ore prima che sonno giungesse a reclamarla e, durante quei
momenti, mai Iapetus le offriva una sola
consolazione. Non che la giovane ne fosse stupita o delusa, quello era l’uomo –
mostro – che l’aveva portata via dalla propria vita, allontanandola dalla
persona che già in passato una volta si era trovata a deludere.
Quando
sollevò il volto dalle proprie mani piccole e intonse, Marilyn lasciò cadere un
sospiro tra loro, distruggendo così il silenzio.
«Perché
sono qui?»
Perché non mi
uccidi?
Iapetus distolse
l’attenzione dal proprio libro, mostrandosi seccato. Non amava il disturbo,
quella voce stridula era fastidiosa contro le proprie orecchie, il titano avrebbe
desiderato strapparle quelle corde vocali e darle in pasto ai propri mastini,
invece rimase immobile, limitandosi ad accarezzare la piccola figura con lo
sguardo.
«Taci.»
Marilyn
si scosse, calciando uno dei pregiati tavolini e facendolo ribaltare. Quel
giorno, pensò Iapetus, la sua prigioniera era irrequieta.
Si sollevò dalla propria sedia con fare svogliato, raggiungendola in poche
falcate – un ghigno solcò quelle fattezze quando la paura torno a prendere
possesso della ninfa bionda, costringendola ad indietreggiare cozzare contro il
muro.
«Non
ti devo alcuna spiegazione,» sussurrò ad un passo dal viso, stringendo tra le
lunghe dita il collo sottile e niveo. «Inizia a rispettarmi, o ti farò
comprendere quanto sarebbe facile per me spezzarti il collo, ragazzina.»
Quando
le diede le spalle, Iapetus non si dimostrò
soddisfatto con se stesso. In realtà non possedeva alcuna risposta alla domanda
di quella ragazzina di cui nemmeno aveva imparato il nome – perché era lì?
Perché era ancora viva? Si arrovellava in continuazione, tuttavia, infine, si
limitava ad osservarla curioso.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 5 *** #5. You’re the antidote to everything {Twincest} ***
In the flesh - Apocalypse
#5. You’re the antidote toeverything
{Twincest}
L’urlo che crepita
dalle rosse labbra ha la forza di spaventarlo. Raramente Apollo si preoccupa
per qualcosa, lungi da lui provare la reale paura sulla pelle – tuttavia,
quando Artemis urla in quel modo, diviene
completamente ed irrimediabilmente umano, odiandosi.
Si muove affannata tra
le lenzuola madide del proprio sudore, il corpo è segnato dagli spasmi e la
pelle del volto pallida – il colore stesso della luna è divenuto suo. Porta le
dita a raschiare le braccia, graffi rossi compaiono immediatamente a rovinare
l’epidermide, quando la mano di Apollo ferma la sua. È un piacevole contrasto,
il calore del suo palmo contro la freddezza del proprio dorso, l’una grande e
forte, l’altra piccola e tremante.
«Sono
qui,» Apollo affonda il naso nei lunghi capelli rossi, sanno di fragola e
improvvisamente vuole baciarla così forte che fatica a trattenersi, stringendo
con la mano libera la coperta che per miracolo Artemis
non ha ancora calciato a terra. «Non me ne sono andato.»
Il
petto della dea si alza ed abbassa ripetutamente, come se avesse corso chilometri,
come se qualcuno avesse provato a soffocarla – la mancanza, l’assenza, ora
completamente sparite al semplice tocco delle dita di Apollo. Ignora il
pensiero di risultare debole ai suoi occhi, spingendosi contro il possente
petto e lasciandosi stringere dalle braccia forti, celando grazie ai lunghi
filamenti cremisi la propria espressione sconfitta.
Apollo
non dice nulla quando i piedi freddi della sorella gli sfiorano le gambe; in
un’altra occasione forse se ne sarebbe lamentato, ora si limita a baciarle la
nuca, compiendo carezze circolari sulla schiena nuda e così piccola rispetto a
sé che domandarsi com’ella sia sopravvissuta fino ad allora è quasi d’obbligo.
«Potresti
stringermi più forte?» La voce è quasi troppo bassa per essere udita, eppure
Apollo esegue automaticamente quella richiesta che porta il cuore nel petto a
battere più forte. È ironico come solamente due mesi prima nemmeno credesse di
poterla stringere ancora, ed ora Artemis gli mostra
senza alcun muro tra loro come solamente lui possa realmente farla sentire
viva, reale – forte.
La
labbra di Apollo baciano la sua pelle, mentre la culla contro di sé. Potrebbe
andare avanti delle ore, potrebbe addormentarsi con quei capelli sparsi addosso
ed i muscoli indolenziti, solo per proteggerla da qualsiasi cosa ancora le
faccia così paura. Tuttavia, nel momento stesso in cui la stringe, Artemis cessa di dimenarsi o tremare, come se il semplice
contatto tra le loro pelli fosse l’unico bisogno della dea. La vede sollevare
gli occhi, iridi smeraldo in una cascata di rosso fiammeggiante, e le sorride.
Quando
Artemis si sporge a baciarlo, Apollo comprende che il
suo non è l’unico amore a riempire la stanza.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 6 *** #6. Won’t you be my solid ground {Phoseidon} ***
In the flesh - Apocalypse
#6. Won’t youbemysolidground {Phoseidon}
Le
dita di Poseidon erano affondate in quella massa
scarmigliata di capelli d’un lucente biondo. Ammirava il capo della donna
sollevarsi ed abbassarsi al ritmo del proprio respiro, le palpebre socchiuse
come se nulla al mondo potesse disturbarla in quell’istante. Si umettò le
labbra, sapevano ancora del salato del mare, una sensazione che il dio non
aveva sentito su di sé per troppe migliaia d’anni, ed ora era stata sufficiente
la presenza di una titanide per tornare a quella
antica sensazione di completezza.
Forse,
pensava, era a causa della natura primordiale – e non delle iridi tinte del
colore delle più limpidi tra le fonti di cui egli era stato protettore e
sovrano. Strinse con più decisione il fianco morbido e Phoebe
posò il mento sul petto, umettandosi le labbra e pronunciando una qualche frase
sconnessa. Si ritrovò a sorridere osservandola, addormentata e come se nulla le
appartenesse, eppure bella da togliere il fiato in quella mostra naturale di se
stessa.
«Ti
sento irrequieto,» pronunciò con voce impastata dal sonno, mentre il piede
scivolava a sfiorare quelli scoperti del dio. Sbatté le ciglia, ponendosi in
modo tale da poterlo guardare con più facilità, in attesa che Poseidon rispondesse ad una domanda mai posta.
Il
dio, dal canto proprio, posò un bacio sulla fronte liscia e non corrugata come
il giorno in cui l’aveva conosciuta – o meglio, rivista. Il pollice le sfiorò
la gota in una carezza distratta, come a ponderare se ammettere la verità o
tacere, eppure gli occhi di Phoebe lo penetravano, lo
penetravano al punto tale da leggergli dentro.
«Stavo
pensando a te.»
Rise
quando la vide arrossare eppure sconvolgere il proprio volto con un ghigno
soddisfatto e pieno di sé. Non l’aveva più veduta la maschera persa la prima
notte, con lui era sempre rimasta se stessa.
«Ti
rendo irrequieto?»
Sollevò
appena le sopracciglia a tale domanda, come se Phoebe
non ne avesse davvero capito il significato. Irrequieto? Sì. Lo portava a
possedere nuovamente emozioni e sapori che da ormai secoli gli erano divenuti
estranei, così come una completezza sparita quando Amphitrite
era stata rubata dalle proprie braccia.
Irrequieto
forse non era la parola più corretta per descrivere le emozioni provate in
compagnia della titanide, tuttavia Poseidon non disse alcunché per correggerla. Si limitò ad
osservarla enigmatico, curioso, quasi, prima che lei sbuffasse e tornasse a
dormire.
Rise,
e la testa di Phoebe si mosse a quel suono – sperò
vivamente che lei lo stesse imitando.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 7 *** #7. Don’t get too close, it’s dark inside {Theos} ***
In the flesh - Apocalypse
#7. Don’t gettooclose,
it’s dark inside {Theos}
Prometheus ammirava la figura di Eos poco lontano da sé,
chinata su uno dei compiti che qualche studente le mostrava con perplessità. Sorrideva
gioiosa, come se la sola idea di poter aiutare qualcuno la rendesse felice al
punto da mostrare l’aura luminosa che l’assenza di potere non era riuscita a
rubarle. Più la guardava, più il cuore sembrava poter risorgere entro le ceneri
del proprio petto, irrequieto come quello d’un fanciullo.
Quando Eos sollevò il capo, Prometheus
scostò il proprio sguardo. Per quanto bramasse sentire sotto la pelle delle
proprie dita la morbidezza della sua pelle, non poteva concedersi il lusso di
starle troppo vicino – non quando la guerra permeava tra loro, nella propria
oscurità, avvolgendo persino quel barlume di luce che il titano da sempre aveva
conservato entro di sé.
Si portò una mano al volto, la testa pesante, quando una più
morbida e piccola si posò contro il braccio, cercando di attirare la sua
attenzione. Prometheus non ebbe bisogno di guardarla,
capire a chi appartenesse era semplice – solo una persona sembrava preoccuparsi
costantemente per lui e ricercare il suo sguardo quand’era nei paraggi.
«Non
ti senti bene?»
La
voce di Eos era melodiosa, nessuna musa avrebbe mai potuto eguagliarla. Strinse
la piccola mano nella propria, esibendo un sorriso di scuse per averla fatta
preoccupare, sentendo dentro di sé la consapevolezza che persino ora, con quel
semplice comportamento, stava contaminando l’anima più luminosa ed innocente
che mai avesse avuto il piacere di conoscere.
Dolcemente
la scostò da sé, rimanendo più a lungo del dovuto contro quell’epidermide
bruciante, abbandonandola poi. Sperò che il contatto non l’avesse contaminata –
sperò di non aver intaccato per sempre la sua bontà.
«Non
preoccuparti per me.»
Non
ebbe la forza di apparire freddo, non con lei, e quando s’allontanò sentì
quello sguardo azzurro come il cielo perforargli la nuca – una colpevolezza che
lo avrebbe divorato, ma non poteva voltarsi.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 8 *** #8. How much longer will it take to cure this {Hermione} ***
In the flesh - Apocalypse
#8. Howmuchlongerwillit take to cure this {Hermione}
Il
letto di Dione era rosa, così come i muri, l’armadio,
i cassettoni e la scrivania. Hermes odiava il rosa, un colore che proprio non
gli si addiceva per nulla, eppure era costretto a vederlo da vicino almeno due
volte la settimana. Per qualche assurdo motivo, non riusciva a rispondere con
un “no” secco ai messaggi della titanide, che ora
stava entrando nella stanza con almeno sette pacchi di patatine diverse, ed una
bottiglia di qualcosa sotto l’ascella. Dal canto proprio, il dio non si scomodò
per aiutarla, poteva arrangiarsi da sola.
Fece
per dire qualcosa nel momento in cui Dione lasciò
cadere tutto sulla sua testa, non curandosi affatto delle lamentele che
sfuggirono a Hermes. Il dio si premurò allora di confiscare le patatine
preferite della titanide, costringendola a
raggiungerlo su quel letto troppo piccolo per due persone, con la furia omicida
di chi si è odiato per millenni ed ora – ora non sa più di preciso cosa fare o
cosa dire.
«Arrenditi
o soccombi!» Dione strinse le piccole mani attorno
alle spalle larghe del giovane, spingendolo con forza verso il materasso ed
udendo ogni cosa sul letto cadere a terra. Si distrasse per la frazione d’un
secondo, ben attenta che il proprio cibo non si fosse rovesciato completamente,
quando Hermes la afferrò per la vita ribaltando le posizioni. Dione si concentrò su cosa stupide quando i polpastrelli
del dio sfiorarono la pelle esposta della maglietta appena sollevata, come per
esempio i propri capelli che ci misero ben più del dovuto ad afflosciarsi
contro il cuscino, o la ruga d’espressione che compariva all’angolo della bocca
di Hermes, rendendolo forse più maturo di quanto il suo aspetto lasciasse
presagire.
La
titanide percepì la propria gola secca. Spalancò
appena le labbra sottili per poter dire qualche cosa, mentre gli occhi di
Hermes vagavano sulla porzione di decolté lasciata visibile dallo spostamento
della maglietta. Stava forse sudando? Soprattutto qualcosa si muoveva nello
stomaco, Dione lo percepiva fastidioso e continuo,
come un insetto che domandava d’essere schiacciato.
Fu
quando anche la bottiglia che le era scivolata dalle braccia cadde che Dione si risvegliò dal torpore prodotto dal corpo di
Hermes, spingendolo ben lontano da sé, cercando poi di raddrizzarsi la
maglietta. Per qualche sciocco motivo le sue gote s’erano arrossate, ora
sicuramente ricordava un peperone maturo, e cercava d’evitare lo sguardo
ceruleo del ragazzo in ogni modo.
«Uhm,
ho appena – » Hermes si grattò la nuca, imbarazzato. Che diavolo era successo?
Per un istante era riuscito persino a pensare che le sue labbra non fossero poi
così sottili.
«Non
ne dobbiamo parlare, insomma, siamo… scivolati perché
tu sei un idiota.»
Dione giocò con i propri capelli biondi,
prima di tirare una spallata al dio. «Sicuramente un mancamento,» aggiunge poi,
afferrando un sacco di patatine. «Quindi quale saga horror guardiamo?»
Mentre
Hermes deglutiva ed osservava ancora per un istante quelle labbra, Dione decise che pensare a come fossero apparse calde le
mani del dio su di sé non era una bella cosa, soprattutto quando ancora stupide
farfalle svolazzavano nello stomaco.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 9 *** #9. I hate everything about you {Alceus} ***
In the flesh - Apocalypse
#9. I hateeverythingaboutyou {Alceus}
Il
piede di Alcyone cozzò duramente contro il suo
stomaco, andando a sospingerlo lontano da sé per la seconda volta in dieci
minuti, ringhiando quando Coeus fece segno di
rialzarsi. Un taglio sfregiava ora il volto del titano, esso partiva dalla
tempia sino a calare al labbro, rovinando così l’avvenenza tanto decantata dai
testi antichi. Le proprie unghie erano impregnate di pelle e sangue che aveva
strappato brutalmente, guadagnandosi un manrovescio sul labbro ora spezzato.
«Sei
una puttana,» la voce dell’uomo era roca, ma non in un modo che l’avrebbe fatta
rabbrividire. Indietreggiò vedendone l’avanzata, sino a raggiungere il muro.
Ancora non l’aveva spostata da lì, come se avesse avuto paura di vederla
scappare – come se Alcyone ne possedesse la forza.
Non
rispose all’insulto – tacere era la miglior arma per adirarlo e non v’era altro
che la ninfa desiderasse – e lo osservò mentre alcune gocce di sangue colavano
da una profonda ferita sulla propria fronte. Ricordava frammenti della propria
vita passata, egli talvolta compariva nei suoi peggiori incubi, un nemico
incontrato per le strade della vecchia Londra vittoriana. Pareva non vi fosse
speranza alcuna di liberarsi di lui, né dell’odio che entrambi covavano l’uno
verso l’altra. Era un sentimento che logorava la luce da poco donatale da Zeus,
Alcyone lentamente sentiva spegnere la vita divina
dentro di sé, forse era ella stessa che, inconsapevolmente, desiderava
allontanarsi dal titano e lasciarsi morire, non permettere in alcun modo che
egli potesse scorgere qualche cosa nelle iridi che avevano rubato il colore al
cielo.
Eppure,
ogni giorno, Alcyone respirava. E lui ne godeva, di
quei respiri, stringendole il mento tra le dita e imponendole il dolore –
dolore che possedeva il sapore di minacce verso vite che non erano la propria.
«I
giocattoli dovrebbero essere più divertenti,» il naso di Coeus
le sfiorò la gota. Alcyone sentì le mani
rabbrividire, la speranza che si allontanasse perduta – lo colpì con la nuca,
facendosi male a propria volta. Un’imprecazione questa volta sfuggì dalle
labbra piene, e Coeus sorrise soddisfatto.
Tracciò
le ferite con i polpastrelli, assicurandosi che l’espressione della ninfa
mutasse in una di fastidio, mordendole poi il labbro inferiore con durezza.
«Mostrami
il tuo dolore, Alcyone.»
La
ninfa si mosse irrequieta tra le sue braccia, scalciando, sino a quando egli
non fu costretto ad ancorarla a sé. Prese la nuca tra le proprie mani e,
irrimediabilmente, Alcyone aprì gli occhi. E fu
penetrata dalla risata malvagia di Coeus.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 10 *** #10. Will you still love me when I’m no longer young and beatiful {Erros} ***
In the flesh - Apocalypse
#10. Will youstill love me when I’m no longeryoung and beatiful {Erros}
Eros tracciò con la punta delle dita il percorso ch’era il
volto di Amphitrite. La bellezza di quella donna era
per lui solamente un’aggiunta a ciò che l’animo provava qualora quelle labbra
avvolgevano i lembi della pelle in baci sensuali, facendolo piombare nel mondo
che s’erano racchiusi attorno a loro.
Baciò l’angolo della bocca piena, mentre le mani di Ros
disegnavano cerchi sul petto nudo, lo sguardo che saettava su ogni punto che
desiderava poi toccare – che avrebbe lambito fino a far perdere al dio del
desiderio il lume della ragione.
Amphitrite non era (ancora) immortale come lui, ogni cosa
che ora ammirava, sarebbe presto appassita. Eppure, mentre scostava una ciocca
dei suoi capelli, pensò che il suo animo si sarebbe sempre infuocato sotto ai
tocchi delle sue falangi – per il semplice ricordo dei momenti passati, o una
passione che non avrebbe mai visto la propria morte.
Baciò la sua bocca, nascondendole un gemito, accarezzando un
seno sotto le dita e portandosi sopra di lei.
Una passione così bruciante, un desiderio così indelebile –
non potevano essere cancellati.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 11 *** #11. Under your comand, I will be your guardian {Hephena} ***
In the flesh - Apocalypse
#11. Under yourcomand, I willbeyourguardian {Hephena}
Hephaestus non sollevò lo sguardo dall’arma che le sue mani
stavano forgiando da ore. Il sudore colava dalla fronte, mentre i capelli unti
ricadevano sul volto altrimenti piacente, sporco di fuliggine. Il ripetuto
rumore del martello rompeva l’intera quiete in cui il dio solitamente piombava,
il corpo minuto di Athena fuori dalla propria linea. Se permetteva al clangore
di penetrare le sue ossa, riusciva quasi a fingere ch’ella non esistesse.
Immaginare di essere solo, di non aver nessuno attorno, si dimostrava semplice
ed efficace, finché quella voce non interruppe la teca di vetro dietro la quale
Hephaestus s’era nascosto.
«Voglio che tu combatta al mio fianco,» la voce della dea era
forte e chiara, sovrastava gli sbuffi prodotti dal fuoco, così come il continuo
clangore del metallo. Athena, persino nella fucina del dio del fuoco, appariva
come una dominatrice nel fulgore della propria epidermide divina.
Nessuna parola abbandonò le labbra secche e rovinate
dell’uomo, mentre cercava di lasciarsi scivolare addosso quella voce, di farla
cadere nel limbo vuoto ch’era divenuto il suo corpo, di non provare nulla.
Nulla. Non aveva bisogno di sentirsi nuovamente utile per una causa, per poi
vedersi piombare la realtà addosso – altri migliori di lui sarebbero giunti a
guidare gli eserciti di Athena, altri l’avrebbero servita meglio d’un
dimenticato fabbro, che non poteva far altro che creare armi, ed armi, ed armi.
Chi le avrebbe impugnate?
Cercò di ignorare la vicinanza del corpo di Athena al
proprio, tuttavia la dea sorrise impercettibilmente quando Hephaestus
cambiò l’inclinazione del proprio braccio, attento a non colpirla nemmeno per
errore. Non voleva fosse lì, di certo per non l’avrebbe cacciata.
Il
martello quasi cadde dalla propria presa quando la mano calda della dea si posò
sul muscoloso braccio, costringendolo a voltarsi. Nessuna emozione eruppe su
quel volto rovinato, eppure Athena ebbe quasi l’ardire di sentirsi in colpa.
Tal
sentimento scomparve, quando strinse la manica della maglietta che il dio
indossava, chiudendovi il pugno attorno.
«Nessun altro può istruire i giovani oltre a te, né nessun
altro rispetterà i tuoi silenzi come farò io, Hephaestus.»
La guardò negli occhi. Non v’era alcuna traccia d’oro in
essi, non v’era alcun bagliore di potere – forse fu per questo che sbuffò,
annuendo seccamente. Non disse quando o dove, nemmeno che si sarebbe presentato
l’indomani, ma questo ad Athena bastava.
Hephaestus, a differenza di molti altri, non rompeva le
proprie promesse.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 12 *** #12. A kiss with a fist {Alianna} ***
In the flesh - Apocalypse
#12. A kisswith a fist {Alianna}
Non erano una coppia e questo Dianna
l’aveva spiegato persino in greco antico al proprio fratello, prima di vederla
sparire oltre l’angolo al fianco di Alexander con un’ascia sulla spalla e i
pugnali alla cinta della vita sottile. Cacciavano solamente demoni insieme, se
le missioni risultavano troppo piatte, e la cosa andava bene ad entrambi –
insomma, prendere a calci in culo quei bastardi era la reale vocazione della
ragazza, condividerla con qualcuno poteva persino essere divertente. Ovviamente
se non si contavano le abrasioni dovute al fiato caldo di quegli esseri immondi
o i muscoli indolenziti a causa del numero elevato di cadute lungo l’asfalto,
tuttavia Dianna tendeva a dimenticare questi
particolari insignificanti se paragonati al sapore della vittoria sulla bocca.
Ovviamente prima o poi qualcosa di brutto doveva succedere. Dianna non sapeva bene come comportarsi vedendo il corpo
esamine di Alexander, il suo torso non s’alzava né abbassava al ritmo di un
respiro regolare, e tutto ciò che la guardiana sapeva del primo soccorso
riguardava la patente di guida che non avrebbe mai ricevuto. Era stato
scaraventato contro un muro duramente per proteggerla – perché doveva fare
l’eroe? – e ora sicuramente stava crepando, perché Dianna
non riusciva a vedere alcuna possibilità di sopravvivenza in quella situazione.
Non solo aveva ucciso – per modo di dire, insomma – uno dei
quattro fondatori, aveva anche estirpato completamente la sua discendenza,
perché nutriva la ferma sicurezza che Alexander non avesse figli sparsi per il
mondo.
«Non prendermi per il culo», esclamò evitando di battere un
pugno sul torace. Era sicura che gli avrebbe spaccato le costole se ci avesse
provato, quindi si limitò a sollevare il mento del giovane con due dita,
tappandogli il naso e schiudendo la sua bocca.
Respirazione artificiale azzardata, che non durò nemmeno un
secondo, perché la mano di Alexander affondò nei suoi capelli mentre un ghigno
gli deformava le labbra secche e tagliate.
«Sbaglio o ti sei preoccupata per me?»
Non riuscì a ridere il fondatore, perché Dianna
gli tirò un pugno alla bocca dello stomaco, imprecando con parolacce che
nemmeno il peggiora tra gli scaricatori di porto poteva aver udito.
Loro non erano una coppia e quello non era un fottuto bacio.
Come avrebbe fatto a spiegarlo a Damian – e a se stessa?
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 13 *** #13. Can’t take my eyes off you {Amis} ***
In the flesh - Apocalypse
#13. Can’t take myeyes off you {Amis}
Atlas nel corso della propria esistenza era stato
chiamato in molti modi, a partire da Dorian sino ad
arrivare a Casanova, e la libidine procreata dai suoi semplici gesti era ben
nota ai parenti, i quali avevano deciso di tacere sull’argomento cosicché il
giovane titano non potesse vantarsi per l’ennesima volta delle proprie
conquiste. Themis, d’altro canto, non poteva che
osservare l’adorato nipote con un cenno di divertimento a solcarle le perfette
labbra pittate d’oscuro.
La spugna venne passata con morbidezza sulla pelle umida, non
v’era nulla che la titanide amasse più dei propri
bagni caldi, e non sussultò ella quando mani più grandi si sostituirono alle
proprie in quel gesto. Docile si piegò al tocco esperto del titano alle proprie
spalle, udendo il respiro contro la guancia, sino ad ammirare la profondità degli
occhi di Atlas. Egli, infine, sempre da lei tornava.
«Sei qui,» sussurrò appena con voce roca la donna, posando
una mano sul volto del giovane. Egli appariva ancora un fanciullo, eppure gli
occhi sfioravano il corpo nudo della zia erano indubbiamente quelli di un uomo.
«Ho sentito la tua mancanza, amato nipote.»
Atlas rise rocamente, le dita sprofondate nell’acqua
limpida che non copriva alcun lembo di pelle, cullandosi nel calore del vapore
che s’elevava da essa – e nella vicinanza della propria zia.
Lenta la spugna passò sulla sottile schiena, mentre Themis scostava i capelli per agevolare i gesti del titano,
socchiudendo gli occhi per la dolcezza ch’egli imprimeva in essi. Niente
portava Atlas a comportarsi con tale devozione, se
non la donna ch’ora gli aveva consegnato il proprio corpo nelle sue mani.
«Ed io la tua, zia, temo che allontanarmi da te così a lungo
sia sbagliato,» lo sussurrò contro la pelle della spalla, il naso che la
sfiorava volutamente. «Vieni con me, la prossima volta, cosicché possa rimirare
la tua bellezza ogni volta che lo desideri.»
Themis si mosse nell’acqua, esponendo il petto pur di
guardare Atlas negli occhi. Ella era seria, nella
propria stoica demoniaca meraviglia.
«Ovunque tu voglia, nipote.»
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 14 *** #14. Like tears in the rain {Cries} ***
In the flesh - Apocalypse
#14. Liketears in the rain {Cries}
Quel luogo puzza di marcio, Crios
può sentirlo penetrare nelle proprie carni come l’odio perpetrato dalla
prigionia forzata. Ogni cosa attorno a sé è morte, a partire dalle lacrime dei
più deboli, sino al silente passo di Hades tra le
celle in cui ogni essere della stirpe primordiale è incatenato.
Egli talvolta avanza, le vesti eleganti in contrasto con il
putridume del luogo, e lo sguardo mai mostra una reale emozione al di là
dell’apatia. Crios non si domanda cosa quella mente
celi, se non ché Hades talvolta pare fermarsi di
fronte a sé, lo sguardo che vaga sino a congiungersi in quello cremisi del
titano.
Non v’è battaglia, esse sono state smorzate anni or sono.
Quando Hades ghigna, Crios cerca di strappare le catene, percependo in sé ancora
la brama di uccidere. Come potrebbe apparire quel volto, se cosparso dal
proprio sangue?
Qualcuno singhiozza nel buio del Tartaro, o forse sono solo i
picchiettii delle gocce sulla nuda roccia. Non sa di preciso da quanti giorni
siano imprigionati, conosce solamente l’andamento prodotto dal corpo di Hades, cadenzato dalla tranquillità di chi non teme
alcunché, di chi non ha possibili fantasmi alle proprie spalle pronti a
cacciarlo.
Persino quando il potere divino si esaurisce e Crios evade dalla propria cella il volto di Hades appare stoico, ed è ciò che ferma la mano del titano
dal mietere quella vittima. Ne osserva ogni sfumatura, non per curiosità, per
sfida. Vuole indurlo ad attaccare, eppure Hades non
compie che un semplice gesto, indicandogli seccamente di andarsene – vuole
rimanere solo ad osservare la caduta del proprio Regno, non ha bisogno d’altri
spettatori.
Crios vorrebbe dire che non prende ordini dalle
divinità, eppure lo lascia. In un’altra occasione avrebbe strappato quegli
occhi dal cranio, dal colore della pioggia.
In un’altra occasione, sarebbe stato lui a ghignare vedendo Hades intrappolato nella cella creata dalle proprie mani.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 15 *** #15. I can smell your fear blood {Hylene} ***
In the flesh - Apocalypse
#15. I can smellyourfearblood {Hylene}
Hypnos poteva osservare le figure dormienti dalla propria
posizione, i calzari rovinati dal tempo per un dio che non amava curare il
proprio aspetto, non quando altro al mondo catturava in maniera totalizzante il
suo interesse. La luna piena illuminava il resto del cielo e, per il bagliore
d’un istante, Hypnos vide una figura antica che
pareva ormai aver dimenticato, una figura sinuosa e, nonostante ciò ch’ella
raffigurasse, oscura.
Balzò nel vuoto senza il timore ad attanagliargli
le viscere, egli era il figlio della Notte stessa, come poteva anche sol
pensare che il buio potesse trarlo in inganno? Ripiombò nella radura, ove alcun
suono poteva esser udito – ella, solitaria, era inginocchiata nell’erba, il
sangue ad imbrattarle le mani che Hypnos aveva sempre
ricordato eteree. Deglutì, domandosi se dovesse dare l’allarme – o addormentare
la vittima che quelle dita avevano strappato alla vita, così da impedire gli
ultimi attimi di sofferenza.
Rimase immobile, il dio, mentre Selene sollevava il proprio sguardo e lo posava su egli
come se non fosse altro che invisibile. Non si curò di proteggersi o
giustificare la propria presenza, la donna tacque, leccando via il sangue dalle
proprie dita.
«Non dovresti essere qui,» disse il sonno alla
luna, e fu quasi ironico di come alcuna mutazione tracciò nuove linee sul volto
di Selene. Ella rimase taciturna, indifferente, sino
a quando non si alzò mostrando parte del corpo nudo, baciato dalla sfera lunare
sopra i loro capi. Inclinò il capo ed i capelli inglobarono il bagliore, ma
nulla accadde – Hypnos fu pronto a reagire, ma Selene soltanto sollevò le dita, cosicché la luna per la
lunghezza d’un battito di ciglia, smise di brillare.
Quando Hypnos aprì gli
occhi, ella se n’era andata, e la notte ancora lo proteggeva.
Il dio temette per la prima volta d’essere stato
vittima di uno dei suoi stessi sogni.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 16 *** #16. We’ll find a place where the sun still shines {Bromance} ***
In the flesh - Apocalypse
#16. We’llfind a placewhere the sunstillshines {Bromance}
Kronos lavò via il sangue dalle proprie mani, cercando di ignorare
le ultime parole che Zeus gli aveva rivolto, prima di cacciare lui e la sua
stirpe lontani – laddove nemmeno il sole pareva potesse sorgere.
Vibrò il suo petto udendo le parole di Oceanus pronunciate alla figlia. Ella, a differenza
d’altri, era viva per un solo miracolo. La figura minuta di Dione
appariva irriconoscibile e Kronos, dentro di sé,
sentì le parole del padre affiorare: mostro,
mostro, mostro.
Non provava alcuna pietà per la ragazzina, egli
bramava solamente vendetta.
S’avvicinò tuttavia al fratello, posando una mano
sulla massiccia spalla. Le iridi cremisi si specchiarono in quelle gemelle. Kronos non sapeva consolare – non voleva consolare. Eppure,
non poteva nemmeno contrastare la venuta divina da solo.
«Si riprenderà, è una titanide.»
Oceanus, dal canto proprio, tacque. Kronos
in fondo sapeva che egli lo conosceva meglio di chiunque altro.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 17 *** #17. I would go most anywhere to find where I belong {Heracles} ***
In the flesh - Apocalypse
#17. I would go mostanywheretofindwhere I belong
{Heracles}
Heracles afferrò quel batuffolo di carne tra le proprie braccia,
sollevandolo come se non pesasse nulla e fermandolo sulle proprie spalle. Anicetus, lasciato a terra, s’aggrappò alla gamba del padre
squittendo in segno di protesta. Un periodo pacifico per il neo dio, mentre
lasciava che i muscoli riposassero dai numerosi allenamenti, e le iridi dorate
si beassero della rara presenza dei propri figli.
Puntò il dito, verso il Monte Olimpo, ove i due
dèi vivevano con la madre.
«Per meritarvi la vostra posizione, dovreste
scalare il Monte a piedi, figli miei.»
La voce tuonante non fece alcuna paura ad Alexiare, il quale scompigliò i capelli del padre come egli
spesso faceva con i loro, salutandoli la sera, quando tornava.
«Noi siamo divinità di diritto!» Rispose Anicetus ed Heracles si lasciò
sfuggire una risata roboante, annuendo soddisfatto mentre a propria volta
affondava la grande mano nei ricci capelli del più piccolo tra i due.
«E pensate di meritarvi questa nomina?» Domandò
ancora, tenendo le ginocchia ancora ossute di Alexiares
saldamente ferme.
I due bambini parvero ponderare seriamente a
quella domanda, sino a quando Anicetus non sollevò
gli occhi al cielo, annuendo.
«Certo che sì, noi siamo i figli del più grande
eroe della Grecia!»
Alexiares parve d’accordo con le parole del fratello, perché non
aggiunse altro. Il silenzio piombò sui tre, mentre il pensiero di Heracles volava alla vita in cui “eroe” era stato chiamato.
Scacciò, tuttavia, il pensiero delle urla di colei che in passato aveva amato
per portarle nuovamente sul Monte Olimpo di fronte a sé.
Quello era il suo posto.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Sylvie fissò nuovamente il corpo snello ed
atletico di Amelie spingersi in avanti, un affondo
perfetto della propria spada che fendette l’aria. Ella si muoveva come una
danzatrice, nulla pareva potesse intralciare il suo cammino, e la precisione
dei passi la rendevano un avversario temibile. Seppur possedesse la dolcezza e
la gentilezza, Amelie poteva risultare piuttosto
pericolosa su un campo di battaglia, per Sylvie non era difficile immaginare il
motivo per cui ella fosse il capo-stipite di quell’Accademia.
La osservò levarsi il caschetto dal volto,
sorridendole cortese. La bionda allungò verso di lei asciugamano e borraccia,
mentre Amelie inclinava appena il capo.
«Perché non ti alleni con me? Sei una figlia del
dio Apollo, giusto?»
Sylvie aveva notato che ogni parola riferita alle
divinità pronunciata dal Fondatore trasudava ammirazione. Ella era sincera
nelle proprie preghiere, nella propria credenza – non nutriva dubbi, e la
guardiana riusciva ad ammirarla persino per questo.
Deglutì, passandosi le dita sottili tra i
filamenti biondi, un dono del proprio padre.
«Credi ne sarei all’altezza?»
Mostrò timore, un timore che scemò quando la
ragazza portò una mano sulla sua, in segno di incoraggiamento. Non disse nulla,
Amelie, tuttavia quando si alzò per riprendere gli
allenamenti le porse una spada.
«Tuo padre sarà orgoglioso di te.»
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 19 *** #19. I was made to keep your body warm {Aphres} ***
In the flesh - Apocalypse
#19. I wasmadetokeepyour body warm {Aphres}
Le
mani di Ares erano quelle di un guerriero. Esse non apparivano dolci, o
affettuose, o pacate contro le curve del proprio sensuale corpo, ed Aphrodite lo amava anche per questo. Per anni con certezza
aveva sostenuto l’idea che nessuno potesse rubarle il cuore e solamente le sue
dita sempre se ne sarebbero appropriate, infine Ares era riuscita a possederla
– e si era lasciata andare.
Quel
giorno, le mani erano più irruente del solito. Si posavano sui fianchi e li
stringevano con forza, quasi a volerle fare male – eppure Aphrodite
non poteva che gemere, quando lo sentiva premere contro di sé, il petto sudato
contro la propria schiena ed il fiato corto contro la guancia.
Quel
giorno, mentre il suo corpo possente la possedeva in uno degli angoli
dimenticati dell’Olimpo, Ares la odiava. Odiava la sua voce, il modo in cui si
chiudeva perfettamente intorno a sé, le spinte del suo corpo, le sue suppliche,
il suo amore sussurrato con voce spezzata.
Quel
giorno, Zeus aveva annunciato chi sarebbe stato il fortunato futuro marito di Aphrodite. Per questo era corsa da Ares, spogliandosi non
appena il dio con astio le aveva afferrato i polsi, spingendola contro la
propria bocca in un bacio famelico e crudele.
Quel
giorno, Ares le aveva mostrato di amarla fino al dolore. Il dolore d’un cuore
che sarebbe stato imprigionato in una gabbia di metallo. Il dolore d’un cuore
straziato per una donna ch’ora e per sempre sarebbe appartenuta a qualcuno che
non sapeva come donarle piacere, come suonasse la sua voce nelle notti fredde,
come scaldare il suo corpo con il semplice tocco di mani esperte e grandi.
«Ti
detesto, Aphrodite,» masticò quelle parole che
sapevano dannatamente di un ti amo che Ares mai aveva pronunciato a voce alta.
Aphrodite non rispose, si
limitò a chiudere gli occhi, premuta contro il petto di Ares ed i capelli nella
presa salda delle mani callose, piangendo e maledicendo il fato.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 20 *** #20. Left some words quite far from here {Astran} ***
In the flesh - Apocalypse
#20. Left
some wordsquite far fromhere {Astran}
Logan provò a sorriderle da lontano. Insomma, era
una ragazza stupenda – non aveva mai visto tante ragazze stupende quanto
all’Accademia, in effetti – ed i suoi lunghi e mossi capelli rossi gli facevano
venire i capogiri. Rispetto ad altre divinità Astraea
appariva ben più – pacata, posata, gentile? – piacevole, non pareva osservar
tutti dall’alto in basso e nonostante Logan peccasse di modestia, la faccenda
dell’essere un semplice semidio non lo portava ad avanzare il primo passo verso
di lei. Forse, se suo padre gli avesse prestato uno motoscafo o uno yacht, la
cosa sarebbe stata sicuramente più semplice.
Il giorno in cui decise di parlarle si sistemò i
capelli e finì per appoggiarsi allo stipite della porta dove la giovane teneva
un corso facoltativo, non sapeva nemmeno di cosa parlasse e forse avrebbe
dovuto, ma aveva visto suo padre utilizzare uno di quei ghigni che ora gli
deformava la faccia. Poteva puntare sul fattore “begli occhi”, eppure era quasi
sicuro che Astraea ne avesse visti, nella sua vita,
begl’occhi.
Tossicchiò quando lei gli passò accanto senza
vederlo. E la fermò per un polso quando la dea non si fermò affatto ad
accogliere la presenza di Logan, incespicando nei propri piedi, e ridendo
quando gli occhi fiammeggianti come i suoi capelli lo osservarono con una punta
di fastidio.
La vergine stellare, ricordalo Logan, non
esattamente una ragazza facile da conquistare.
«Posso aiutarti?»
Possedeva una voce melodiosa, forse leggermente
acuta, tuttavia Logan l’adorò immediatamente. Si passò la mano a scompigliare i
capelli, riducendoli ad una massa informe, prima di riuscire a giungere ad una
scusa plausibile per avvicinarla e, magari, parlarle. A lungo. Per sempre.
Forse doveva chiederle di sposarlo, o di passare tutta la sua vita con lui –
almeno ottant’anni, secondo le stime degli ultimi sondaggi – e farlo innamorare
ogni giorno perché, ragazzi, già si sentiva sulle nuvole solamente a guardarla
così da vicino.
«Mi chiedevo se ti andasse di pranzare con me?»
Bravo Logan, niente di psicotico/ossessivo, sii
fiero di te stesso.
Astraea lo osservò arricciando il nasino sottile, probabilmente si
stava domandando chi diavolo fosse, ma era troppo gentile per pronunciare tali
parole, quindi Logan allungò una mano aperta verso di lei, allargando il
sorriso che suo padre gli aveva tramandato.
«Sono Logan, figlio di Poseidon.»
Al nome del dio, Astraea
arcuò le sopracciglio, squadrandolo come se non credesse a tali parole. Sostò
per una frazione di troppo in quelle profonde pozze oceaniche, prima di annuire
seccamente con il capo, dandogli le spalle e non curandosi di vedere se il
giovane stesse seguendo.
Dal canto proprio, Logan perse due minuti buoni
per sollevare il pugno in aria in segno di vittoria.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 21 *** #21. I wish you were here {Persephone} ***
In the flesh - Apocalypse
#21. I wishyouwerehere {Persephoneand Demeter}
Le dita affondate nella terra non percepivano
alcuna vibrazione.
Ella era davvero morta per sempre.
Persephone poteva udir echeggiare nel vento il suo d’una risata dolce,
parole appena sussurrate che le avevano donato la forza d’abbandonarsi
all’ombra d’un Regno che mai, forse, le era realmente appartenuto. Non avrebbe
più sentito braccia stringerla, sussurrarle un «Bentornata» con la commozione a
far tremare la voce, né avrebbe più sentito il reale profumo della terra
attorno a sé.
Essa sarebbe forse morta, senza l’unica vera
madre che poteva salvarla – che avrebbe potuto salvare entrambe.
S’asciugò gli occhi con il dorso della mano – una regina non piangeva – ed osservò
ancora una volta come nulla vibrasse nel brullo terreno dell’Accademia,
distrutto dall’attacco titanico. Persephone era
rimasta assente troppo a lungo, la giovane donna mai nella propria esistenza
aveva desiderato vendetta, tuttavia ora – mentre le poesie dedicate a Demeter le riempivano la mente – bramò il sangue della titanide che le aveva strappato la vita.
Per la prima volta Persephone
percepì l’oscurità che sempre aveva rifiutato divorarla e, invece che esserne
spaventata, la utilizzò come forza per rialzarsi dalla terra e promettere a se
stessa che avrebbe vendicato la morte di sua madre.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 22 *** #22. Greetings from the afterlife {Thyx} ***
In the flesh - Apocalypse
#22. Greetingsfrom
the afterlife {Thyx}
Nyx batté il piede ripetutamente a terra, mentre osservava da
lontano il sole finalmente calare completamente, scomparendo oltre il profilo
delle montagne. S’innalzò elegantemente, soddisfatta e un po’ maledicendo
Apollo e la sua pigrizia nello svolgere i propri doveri, camminando quietamente
cosicché il buio della notte docilmente la seguisse.
Le tenebre calarono, ed ogni cosa vi fu immersa.
Sollevò appena le proprie vesti evitando di
calpestare l’erba umida, cercando con il proprio sguardo dorato una figura tra
le tenebre. Egli non tardò a manifestarsi, ma lo fece alle spalle dell’indifesa
madre, la quale portò una mano al petto segnalando il proprio scompenso.
«Quante volte devo ripeterti che apparire dal
nulla mi urta i nervi?»
Sibilò con astio la dea primordiale, posando
entrambi i pugni chiusi sui fianchi, mentre osservava con un cipiglio piuttosto
critico la figura del figlio, Thanatos.
Egli, dal canto proprio, ghignò.
«Saluti dall’aldilà, madre.»
Nyx roteò gli occhi, aumentando così l’ilarità della morte,
prima che le sue mani andassero a scompigliargli i capelli, rendendolo
piuttosto irrequieto. V’era così differenza, tra Thanatos ed Hypnos, che talvolta la madre non capiva come potessero
essere realmente gemelli.
«Quali notizie mi porti, Thane?»
La personificazione della morte stessa guardò
quasi pietosamente la madre, prima di aprire la propria mano, invitandola a
sedersi su un masso poco lontano. Ella obbedì nonostante le voglia di tirare le
orecchie a quello ch’era il più indisciplinato dei suoi figli fosse elevata.
«Se davvero vuoi sapere ogni cosa, madre, sarò
una lunga notte.»
Nyx arcuò le labbra in un sorriso divertito, stavolta, posando
le mani sotto il mento.
«Non potrei domandare di meglio.»
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 23 *** #23. I’ve never loved you, but if I did, I wouldn’t say that I’m sorry {Dhyr} ***
In the flesh - Apocalypse
#23. I’ve neverlovedyou,
butif I did, I wouldn’t saythat I’m sorry
{Dhyr}
Di certo Deimos non poteva aver
fatto nulla per provocare l’astio in quegli occhi profondi. Raramente le sue
parole s’erano scontrate con quelle di Lhyr –
raramente le loro bocche s’erano possedute, desiderate, amate – e se in
quell’occasioni aveva urtato la sensibilità femminile, il dio non ne era
affatto al corrente.
Eros sosteneva spesso che non capisse le donne, e mentre Lhyr sfilava le braccia dalla posizione in cui era rimasta
bloccata per un buon quarto d’ora, per la prima volta Deimos
pensò che il proprio fratello avesse ragione.
Cosa poteva volere da lui, in quel momento, alla vigilia di
una missione? Deimos si sentiva distratto, Lhyr mostrava troppa pelle esposta e il ricordo sfuggente
delle proprie mani su di essa non era mai apparso così vivo come lì, nella
claustrofobica stanza in cui ogni genere di cosa poteva essere trovata. Ne
ricordava i sospiri, ed era inevitabile domandarsi se anche Phobos
ne fosse stato ossessionato per giorni – e notti.
«Ho da fare,» pronunciò spiccio, afferrando un altro tra i
propri libri, per cercare qualsiasi cosa che potesse distoglierlo da Lhyr. Allontanarlo dal suo respiro caldo o dai capelli che
sfuggivano alla presa della coda di cavallo spettinata. «Dovresti riposare.»
«Ora ti preoccupi per me, stronzo?»
Deimos sgranò gli occhi per la frazione d’un attimo,
prima d’assottigliarli e cercare di incuterle terrore. Cosa avrebbe dovuto
temere, tuttavia, la donna forgiata dalla paura? Nulla.
La vide avanzare verso di sé, la fronte corrugata e l’astioso
sguardo la rendevano selvaggia e pericolosa, Deimos
non sapeva affatto come comportarsi di fronte a tali emozioni, non aveva letto
alcun libro a riguardo – eppure le mani fremevano, mentre andavano a posarsi
contro i fianchi, forse per bloccarla, forse per trascinarla vicino a sé.
«Sei uguale al tuo cazzo di fratello.»
Siete tutti uguali, voi
fottuti dei, e io una cretina a cascarci ogni volta.
«Non paragonarmi a lui.»
Lo guardo azzurro cadde sulle labbra schiuse, desiderò
inumidirle con la propria lingua, morderle, spostare ogni scartoffia sulla
scrivania e posarci il corpo leggero di Lhyr. Rimase
immobile, invece, a contemplarla.
«Vaffanculo.»
Fu lei a baciarlo, perché lo odiava. Odiava sentire la pelle
scuotersi al semplice passaggio di dita dolci, non irruente, non possessive.
Odiava sentire le gote andare a fuoco e il desiderio crescere, solamente per la
mano aperta sulla propria schiena. Odiava la sensazione di vulnerabilità che le
contorceva le viscere, perché lo sguardo di Deimos
non rifletteva nulla, e Lhyr non era mai stata brava
a leggere nessuno.
Deimos, dal canto proprio, si domandò come suo fratello
fosse riuscito ad allontanarsi da lei. Non la amava, eppure – eppure
quell’ossessivo desiderio, lo portava ad inchinarsi di fronte a lei, pregandola
di pronunciare il proprio nome.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 24 *** #24. Like ships in the night {Allian} ***
In the flesh - Apocalypse
#24. Likeships
in the night {Allian}
I tornei organizzati dalle divinità non era una
cosa così frequente perché Daphne potesse
considerarsi abituata a quello scorrimento gratuito di sangue. Certo sapeva che
nessuno sarebbe giunto sino alla morte, tuttavia in sé nutriva ancora un cuore
umano, e non era semplice urlare all’unisono del resto della folla eccitata
mentre i due contendenti sbattevano le spade l’una contro l’altra.
Un urletto abbandonò le
labbra di Daphne, quando la lama d’una di esse sfiorò
il fianco scoperto di quello che sapeva essere Killian, discendente di Ulisse.
Si portò le mani al volto, posando il proprio sguardo sul giovane guerriero, il
quale dimostrava un ghigno quasi divertito nonostante lo sfregio – forse, pensò
la fanciulla, esso era solo superficiale.
Senza rendersene conto Daphne
s’era alzata sulle punte dei propri piedi per poter meglio osservare la figura
di quello che le divinità, quasi con il riso nella voce, avevano definito un
gladiatore per la giornata. Quando Killian fendette l’aria, puntando al polso
dell’avversario, l’urlo di incitamento della giovane ninfa lo accompagnò nella
mossa. Ed in ogni altra, fino a quando il discendente non si erse vittorioso,
sollevando entrambe le braccia muscolose sopra la testa.
Qualcuno portò lui un fiore, e Daphne si ritrovò con le gote imporporate quando Killian,
scavalcando due file di spettatori, glielo porse con un sorriso ammiccante e
dai tratti maliziosi.
«Senza il tuo incoraggiamento non ce l’avrei
fatta,» sussurrò, schiacciandole l’occhiolino, e scomparendo quando qualcuno lo
richiamò all’ordine tra le divinità.
Daphne, dal canto proprio, portò il fiore al naso annusandone il
profumo. Un sorriso le piegò le labbra, mentre il rossore sulle gote
s’accentuava visibilmente.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Il labbro inferiore tremò inconsciamente vedendo
la propria corona di fiori brutalmente spezzata sotto le dita piccole e corte
di Eris, la quale con un sogghigno gettò i rimanenti
componenti nell’aria, aspettando che il vento se li portasse via. Hebe si sollevò nel suo misero metro d’altezza,
fronteggiando colei che le era stata infaustamente donata come sorella – la
spinse lontana, per poterla superare, alla ricerca d’altri fiori.
«Piangi proprio come una bambina stupida!» La
voce di Eris le arrivò dritta come una stilettata al
cuore, tuttavia Hebe cercò di ignorarla – fiore dopo
fiore, un nuovo mazzolino fu stretto tra le sue dita, ed era pronta a costruire
nuovamente la corona per la loro adorata madre. Quella settimana era dedicata
al culto della potente Hera, ed Hebe
non voleva mancare alla celebrazione, seppur Eris
avesse fatto proprio il compito di disturbarla.
«Io sono una bambina, stupida!»
«»fiori. L’opera era quasi giunta a metà, ma non
appariva bella quanto la prima e le lacrime comparvero spontaneamente a
pizzicare gli occhi dorati di Hebe.
Singhiozzò, ed Eris
esibì una vistosa smorfia di disgusto. Tuttavia a quei tempi ancora non era
così crudele e si sedette al fianco di Hebe,
spintonandola perché si facesse in là, ed iniziando ad aiutarla. Non era per
nulla precisa o elegante, ma il fatto che non l’avesse lasciata sola alla dea
della gioventù bastò per cessare il proprio pianto.
«Guai a te se dici a nostra madre che ti ho
aiutato, piagnucolona,» sbottò Eris puntandole il
dito contro.
Hebe si morse il labbro inferiore: non sarebbe mai riuscita a
dire una bugia.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 26 *** #26. Be careful making wishes in the dark {Alexandros} ***
In the flesh - Apocalypse
#26. Be carefulmakingwishes in the dark {Alexandros}
Alexandra
era una donna caparbia e risoluta, non a tutti potevano piacere la sua
sicurezza o la lingua tagliente che, con il tempo, aveva imparato a tener ben
lontana dai denti durante i propri allenamenti notturni.
Le
nocche erano rovinate a causa dei pugni che tirava contro il sacco, senza
alcuna protezione, come aveva veduto fare al proprio padre in numerose
occasioni. Imprecava ad ogni colpo più debole, quando il proprio avversario
immaginario si muoveva a malapena, ed il desiderio di uccidere e l’ira si
facevano largo in lei, segnandola come la semidea ch’ella era realmente.
All’ennesimo
pugno, una ciocca di capelli castani le volò di fronte al volto sudato e
qualcuno fermò il sacco tra le proprie dita. Una figura oscura, che Alexandra
non avrebbe mai chiamato fratello, non quando nessuno tra loro l’aveva
realmente accolta come una famiglia. Lo osservò pulendosi il volto con il dorso
della mano, non curandosi affatto di apparire femminile o meno, né educata a
non salutare la divinità stagliata di fronte a sé. Phobos,
d’altro canto, taceva nell’osservarla.
Suo
padre non l’aveva presentata loro, ma osservarla era piacevole. Poteva scorgere
facilmente la paura di non essere all’altezza del proprio sangue, di non essere
all’altezza della forza che ogni figlio di Ares doveva possedere – Alexandra
era un fascio di nervi, Phobos la trovava ispiratrice
per il ritrovamento del proprio potere.
Probabilmente,
se la donna avesse saputo di quegl’occhi indagatori, avrebbe provato a
cavarglieli.
«Quando
combatti dovresti allargare maggiormente i piedi,» spiegò con voce secca, greve
– sembrava non pronunciasse parola da anni tant’essa suonò arrochita. «Così
imprimerai maggiore forza nei pugni.»
Alexandra
fece scattare le sopracciglia verso l’altro, osservandolo con astio. Non solo
sembrava volerla disturbare, ma si permetteva persino di darle consigli mai
richiesti.
Malamente
gli passò accanto, assicurandosi di colpirlo con una spallata, prima di porsi
di fronte a lui.
A
gambe larghe come Phobos aveva suggerito, tant’è che
il dio sogghignò soddisfatto.
«Perché
non mostri quello che sai fare, invece di dare consigli che nessuno ti ha mai
chiesto?»
Quando
Phobos cercò i suoi occhi, non vide alcuna paura.
Sciolse le mani da dietro la schiena assottigliando lo sguardo, restringendo
così le pupille – non poteva permettere che quelle membra rimanessero
rilassate, il timore avrebbe presto penetrato le sue carni ed il suo animo.
Solo
allora l’avrebbe considerata una sorella.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.
Capitolo 27 *** #27. You’re my downfall, you’re my muse {Muses} ***
In the flesh - Apocalypse
#27. You’re mydownfall,
you’re my muse {Muses}
Calliope accarezzò con
materno affetto il capo d’Urania posato sul proprio grembo, entrambe cullate da
una melodia che Euterpe aveva intonato dal nulla,
come se l’ispirazione, ora ch’erano unite, fosse tornata a brillare come un
tempo. Clio, del resto, non amava tali dimostrazione
affettive, tuttavia pareva non riuscisse a distanziarsi troppo dalle amate
sorelle, rimanendo sempre a portata di tocco – pronta ad afferrare chiunque
potesse cadere.
Esse
non erano che la completezza l’una dell’altra. Alcuno poteva amarle in un modo
più passionale e sincero, l’affetto che legava quelle quattro donne andava
oltre la mera immaginazione umana.
Clio socchiuse gli occhi, la mano posata
sulla liscia copertina del bianco libro che sempre portava con sé, mentre poco
lontano Urania s’appisolava, forse sognando il manto trapuntato di stelle nella
notte più buia dell’anno.
«Calliope,» esordì infine la piccola e graziosa Euterpe, allontanando il flauto dalle sottili labbra
baciate dal rossore delle ciliegie, «accompagna il suono del mio flauto con una
storia, cosicché i sogni d’Urania siano cullati dalle nostre anime, e non
rimanga sola.»
Un
sorriso divertito ed amorevole dipinse il volto d’Urania e la mano di Calliope si allontanò dai lunghi capelli biondi per aprirsi
verso Clio, la quale mantenne lo sguardo con celato
orgoglio. Ella non era solita abbandonarsi alle carezze, tuttavia – tuttavia
guardando ciò che gli uomini avevano compiuto attorno a loro, il modo in cui
stavano distruggendo una storia che con così tanta fatica era stata creata, la
portò a cedere.
Elegantemente
Clio s’accomodò al fianco d’Euterpe,
mentre Calliope posava il capo contro il freddo e
duro tronco d’una quercia – l’Accademia possedeva alberi meravigliosi, tuttavia
quello era il preferito della Musa. Iniziò a narrare con la voce intrisa
dall’emozioni, un sentimento contraddistinto persino dalla luminosità degli
occhi, mentre l’armonia creata dalla bocca d’Euterpe
cullava Urania in un sonno felice e Clio, silenziosa,
s’abbandonava all’affetto perpetrato dal corpo caldo della sorella accanto al
proprio.
N/a: i personaggi
all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono
utilizzati con alcun scopo di lucro.