Il regno delle ombre

di Rov
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


~~Chiara fece l'ultimo tiro della sua sigaretta e poi schiacciò il mozzicone contro la base del posacenere. Cercò di ricordare se in qualcuno dei libri che aveva letto, ci fosse stata un'eroina che fumasse. Scosse la testa e pensò che fosse stupido, un modo di far passare un buon esempio alle ragazzine che dovevano essere imboccate di belle parole e buoni sentimenti.
Purtroppo, la vita vera è un'altra.
"Non si fuma in casa, Chiara!" strillò la sua sorellina sbucando dal soggiorno.
"Oh, fatti gli affari tuoi!"
La puzza di fumo sarebbe sparita, forse non così velocemente come il giallo sui suoi denti e le macchie sulle unghie, che potevano sempre sparire all'occorrenza con due colpi di spazzolino e un po' di smalto.
Voleva prendere le cuffie dell'iPod, immergersi nella sua stanza, nel suo piccolo mondo, e ballare davanti allo specchio, facendo quelle pose sexy che vedeva nei video musicali dei suoi idoli, ma che mai avrebbe avuto il coraggio di mostrare a qualcuno, al di fuori di sè stessa.
Pensava a quella volta in cui  il suo patrigno era entrato in casa ubriaco, e lei ascoltava la musica, sdraiato sul letto, ignara del fracasso giù in cucina.
Quando aveva trovato sua madre con il naso rotto e la testa china sul lavandino, si era sentita in colpa. Lili non doveva vederla, non la sua sorellina e, per quanto  potesse essere fastidiosa, cercava sempre di proteggerla da quegli orrori,  perché potesse continuare a credere in un mondo bello dove il sole sorge sorridente e bacia bambini allegri che si tengono per mano.
Così aveva guardato sua madre negli occhi, le aveva portato una crema che le aveva prescritto il medico per gli ematomi e poi l'aveva aiutata a fasciarsi una benda sul braccio, dove si potevano vedere ancora le cinque dita della stretta del suo uomo.
Un gesto d'amore.
Chiara si domandò se fosse questo che intendeva un uomo quando prometteva a una donna che lei sarebbe sempre stata sua.
Un diritto di proprietà, sulla sua mente, sul suo corpo, sui suoi desideri e le sue pretese; forse anche su tutti i sogni che aveva o avesse mai potuto avere. Forse mamma nella notte piangeva, voltava le spalle a lui, nel letto, e cercava di fare pensieri gioiosi, come se anche lei, l'indomani, potesse risvegliarsi con la speranza di un giorno migliore e splendido.
Si accese un'altra sigaretta.
Aspirò più forte che potè, poi fece uscire tutto il fumo dal naso, a piccoli tratti, come se se lo stesse godendo fino in fondo o come se volesse trattenerlo dentro di sé, assieme all'odio.
Nathaniel non era un ubriacone, nemmeno uno che sperperava i soldi, anzi, dei soldi aveva così tanta paura che scappassero fuori dal suo portafoglio che si nascondeva addirittura sotto il letto; al contrario di mamma, che non riusciva a tenersi cinque euro in tasca neanche il tempo di andare a farsi la spesa. Spendeva quel denaro le sigarette, giochini alle macchinette per Lili e qualche finto gioiello che brillava. Forse in quel modo pensava di far felice Nathaniel, di rendersi bella con quei cosmetici comprati a basso costo e quella bigiotteria da quattro soldi, così sarebbe stato più gentile con lei e non l'avrebbe più picchiata.
Chiara fece un'altra boccata: le piaceva la cucina quando c'era quella calma e in casa c'era solo sua sorella; era come sentirsi padrona di uno spazio che non era più suo da molto tempo. Comunque, di solito, la cucina era uno spazio neutro. Di quei luoghi in cui transitano tutti gli abitanti della casa, talmente tante volte che nessuno riconosce quello spazio come suo, soprattutto quando non c'è una madre che cucina manicaretti con due enormi guanti da forno e il sorriso da bambolotto.
Non li aveva mai visti mentre litigavano, anche se ne aveva solo sentito le urla molte volte e ne aveva ben impressi i risultati; questo perché sua madre diceva che erano cose che non la riguardavano, faccende che una donna e un uomo dovevano sbrigare da soli.
Anche a costo di qualche strigliata.
"Che schifo." commentò schiacciando anche la seconda sigaretta nel posacenere, anche se non era nemmeno finita.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


~~Chiara era uscita di casa con l'aria arrabbiata, sbattendo la porta, mentre stringeva la mano di Lili con lo zainetto rosa sulle spalle. Doveva accompagnarla alla fermata dell'autobus, e si sarebbe trattata di una cosa normale, se non fosse che quella sarebbe stata una delle ultime volte. Nathaniel glielo aveva comunicato a colazione, che avrebbero cambiato casa.
La notizia che Chiara avrebbe dovuto raccogliere tutte le sue cose, infilarle in un enorme sacco di plastica nero per le immondizie e imballarle su un furgone per chissà dove, l'aveva fatta esplodere come un reattore.
Aveva urlato, aveva strillato, aveva pianto come una bambina, soprattutto alla vista di sua madre che guardava distrattamente il telefono, inviando SMS.
"Amore"
"Non provare a chiamarmi amore, Nathaniel! Magari con Lili attacca, ma non con me!"
E il patrigno si era accigliato, si era pulito la bocca con il tovagliolo e aveva appoggiato le mani sul tavolo, guardandola negli occhi.
"E' una cosa che bisogna fare."
"Perchè?! Perchè dobbiamo andarcene?!"
Lui aveva scosso il capo e aveva guardato verso la mamma, un po' con rimprovero un po' con aria triste.
"Amore, non possiamo più restare per via dei debiti. Purtroppo io ho deciso che sarà meglio così, per tutti. Soprattutto per tua madre."
Chiara odiava il modo in cui Nathaniel si rivolgeva a lei, chiamandola con quel nomignolo affettuoso, che gli aveva ripetuto più e più di non essergli permesso, e soprattutto come parlava di sua madre, presente nella stanza, proprio lì accanto a lui, come se non ci fosse.
Le cadde lo sguardo sul tavolo della cucina un po' consumato e sulle piastrelle grigiastre del piano cottura. L'aria era appesantita dall'odore di fumo, e sembrava tutto un po' triste, ma quella era la loro casa in cui avevano vissuto per tre anni con il suo vero padre, prima che se ne andasse anche lui come avevano fatto tutti gli altri.
Chiara si domandò perché anche Nathaniel non se ne fosse andato.
Era l'unico in tutte quelle relazioni disastrose che aveva intrapreso sua madre ad essersi insediato in casa per così tanto tempo, permettendosi addirittura di accamparsi il diritto di decidere della loro vita.
"Farete tardi a scuola." commentò lui avvicinandosi di nuovo la tazza di caffelatte alle labbra.
"Sai cosa importa!"
Lili, in tutto questo, sembrava non avere capito esattamente quale fosse l'argomento di discussione; forse Chiara aveva rotto qualcosa mettendo i piedi sul tavolino del soggiorno, i vicini avevano telefonato perché faceva troppo rumore con la sua musica, o magari era aveva preso un brutto voto a scuola.
Erano tutti problemi semplici, nella testa di una bambina che aveva sei anni, e quella casa sarebbe presto stata dimenticata non appena gli scatoloni fossero stati caricati sul furgone dei traslochi.
Anche una ragazzina di sedici anni forse era ancora troppo piccola, nell'ottica del suo patrigno, per sentirsi dispiaciuta di una perdita così grande come quella di un mondo familiare in cui c'erano ricordi, profumi e sensazioni piacevoli.
Aria di casa.
"Chiara, fai come dice tuo padre." intervenne a quel punto la mamma, con i suoi occhi incavati e le sue dita nodose che stringevano il BlackBerry nervosamente.
Quella frase fu come un pugno allo stomaco: Il momento in cui Chiara percepì che, sul fronte del suo schieramento, non era rimasto più nessuno, se non una bambina con gli occhi sgranati e uno zainetto rosa.
Sua madre, consumata dal gioco d'azzardo e dal tabacco a poco prezzo, aveva di nuovo preferito che quel mostro scegliesse per loro la strada giusta e tracciasse il disegno sbagliato di un futuro di cui non avevano bisogno.
La ragazza rimase immobile per un lungo istante di silenzio: solo perché sua madre era incapace di scegliere per sè stessa, ciò non significava che anche Chiara non fosse in grado di farlo!
"Noi non ci andremo, mamma!"
E il volto di Nathaniel diventò furente di rabbia.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


~~Alla fermata dell'autobus c'era una bambina delicata con un fermaglio non solo sulla testa, circa dell'età di Lili. Se ne stava immobile guardando oltre il bordo della strada, in attesa che quella carcassa dell'automezzo tutto giallo e urlante di bambini comparisse da dietro l'angolo.
Lili la salutò con la mano, come se la conoscesse, ma lei si limitò semplicemente a sorridere e a distogliere timidamente lo sguardo.
"La conosci?" Domandò chiara la sorellina.
"E' nella classe accanto alla mia. Con la signorina Fort"
Poi anche Lili si mise a guardare verso la strada, senza aggiungere altro.
Chiara decide di prendere quel momento per focalizzarsi sui propri pensieri: l'aria era pesante e tutto intorno a lei sembrava opprimente, mentre gli alberi sussultavano intimiditi dal vento.
Ripensò allo sguardo di Nathaniel e al suo tono modulato e controllato, mentre ribadiva che la decisione di cambiare casa era già stata presa e non c'era nulla da fare.
Colpì un sasso con la punta della scarpa e lo fece rotolare saltellando in un tombino; ebbe quasi una sensazione di oppressione quando lo vide sparire tra quelle tenebre, come se l'avesse condannato ad una fine ignota. Proprio come la sua.
"Traslocare non è una tragedia." aveva detto il suo patrigno, questo semplicemente perché per lui era semplice e non aveva niente da perdere. Nella nuova città avrebbe trovato un bel lavoro ad aspettarlo, probabilmente uno di quei posti in ufficio che lo faceva sentire tanto importante; uno in cui è importante avere una bella cravatta e una spillatrice per etichettare per bene tutti i tuoi fascicoli inutili.
Mentre Chiara si mise a tastare la propria tasca, alla ricerca del pacchetto di sigarette, comparve oltre la strada lo scuolabus per la scuola elementare.
"Eccolo!" Esclamò Lili, iniziando a tirarla per il braccio perché la sorella l'accompagnasse proprio davanti all'apertura delle porte. Quando fu ormai seduta sull'autobus, vicino al finestrino, Chiara la salutò con la mano e la guardò allontanarsi oltre la strada, mentre il vento le scompiglio leggermente i riccioli scuri.
Aspettò qualche minuto, immobile sul marciapiede, per decidere il da farsi: forse sarebbe stato meglio evitare di presentarsi a scuola e aspettare una manciata di amici a cui avrebbe la brutta notizia. Magari qualcuno sarebbe pure venuto a salutarla mentre montava su quel furgone che l'avrebbe portata via.
Chiara prese tra le mani il cellulare, iniziando a camminare, immersa in quei pensieri: non c'era nessuna chiamata persa, tantomeno nessun messaggio. Nessuno l'aveva cercata, non che fosse una novità, ma in quel mentre ebbe paura.
Iniziò a realizzare che, se non avesse messo piede a scuola, a dirle addio non ci sarebbe venuto nessuno.
Nemmeno Luca.

È buffo che, nel momento in cui viene portato via, l'unico posto che mai avresti detto che ti sarebbe mancato diventa l'unico in cui vuoi continuare a stare.
Il corridoio della scuola puzzava di detersivo, ed era ancora leggermente umido dal turno delle pulizie del mattino; gli studenti avevano già iniziato ad appendere i loro cappotti agli attaccapanni al di fuori delle aule, qualcuno a sfogliare un libro, mentre altri rimanevano appoggiati ai termosifoni a gruppetti di tre o quattro, mentre scherzavano su qualcosa.
Chiara passò davanti alla porta della sua classe, ma non entro. Andò alla fine del corridoio, fino a girare l'angolo, nel punto in cui l'estintore nella cabina a muro era stato sfondato.
Luca era lì, con il suo solito cappotto di pelle e i jeans strappati sulla coscia, mentre parlava con un gruppo di amici che lei non conosceva.
"Hey, ciao!" esclamò timidamente, facendosi strada tra gli sconosciuti, ma Luca non le sorrise.
Si sentiva svuotata, ansiosa. Se qualcuno avesse dovuto descrivere Chiara, la prima cosa che avrebbe detto era che aveva una personalità incattivita, a volte rabbiosa senza motivo, e piuttosto attaccabrighe. Ma non con lui.
Luca, ai suoi occhi, era come una di quelle montagne immense davanti alle quali è impossibile non sentirsi piccoli insignificanti; se ne stava in piedi, a fissarla imponente, con le spalle larghe, mentre i suoi amici si allontanavano tirandosi pacche sulle spalle.
Forse Chiara l'aveva disturbato, e l'insicurezza si dipinse nei suoi occhi scuri mentre li abbassava, guardando per terra.
"Io non..."
"Non preoccuparti." la interruppe lui.
Luca prese a rollarsi una sigaretta, concentrandosi sulla mossa delle sue mani che velocemente modellavano il bastoncello. Chiara cercò di sorridergli e di avvicinarsi, anche se lui sembrò non accorgersene, o comunque non darle importanza.
Stavano insieme da più di un anno e mezzo, tra un bacio e l'altro e qualche uscita di tanto in tanto; non che Luca fosse mai stato un tipo affettuoso, lo aveva sempre saputo, tuttavia Chiara si sentì bruciare la gola al pensiero di dover annunciare la notizia della sua partenza. Aveva paura che lui non dicesse niente.
Poi chiuse gli occhi, e respirò forte; forse quello non era esattamente il momento giusto, prima che iniziassero le elezioni, a scuola, senza neanche un momento per stare da soli e potersi abbracciare in intimità ancora per un po'.
"Ti va di vederci questa sera?" domandò poi distrattamente, appoggiandogli lievemente una mano sul giubbotto di pelle.
"No, questa sera c'è la partita." rispose lui infilandosi la sigaretta nella tasca e finalmente guardandola negli occhi.
"Devi dirmi qualcosa?" continuò.
"E' importante."
"Se è importante puoi parlarmene anche quì."
Chiara aggiustò uno dei riccioli portandoselo dietro all'orecchio, come per prendere tempo; ma sentiva che le parole erano troppo lontane, come se non le appartenessero.
"E' che dopo avrei voluto passare un po' di tempo con te."
Non ce la fece. Non riuscì a farsi affiorare le lacrime agli occhi dicendogli che probabilmente non ci sarebbero più state altre occasioni per stare ancora un po' insieme, ma lui aveva preso a guardarla con gli occhi sgranati e la bocca leggermente aperta, come se si aspettasse che dalla bocca di Chiara sarebbe uscita un'affermazione stupida.
"Che palle, Chiara! Non sai fare altro che lamentarti del tempo che non ti dedico!"
"Ma io non mi stavo lamentando! Volevo solo..."
"Adesso te lo dico io quello che voglio: questa sera voglio andare a vedere la partita con Greg e gli altri e voglio smetterla di sentirti dire certe stronzate!"
Il viso di Chiara si ruppe in una smorfia di tristezza; quello schiaffo morale risuonava nella sua testa impedendole di raggiungere qualsiasi altra cosa. Avrebbe voluto parlare e dirgli che c'erano cose più importanti di una partita o di una serata con gli amici, ma poi pensò che forse lei non era nessuno per insegnargli che cosa fosse realmente importante. Forse non lo era nemmeno lei.
La bocca le si aprì leggermente ed iniziò a tremarle il labbro inferiore, poi d'un tratto suonò la campanella dell'inizio delle lezioni.
"Devo andare, amore. Ti telefono io." disse Luca a quel punto, premendo le proprie labbra su quelle di Chiara.
Lei si sentì immediatamente meglio, come se fosse bastato quel gesto d'affetto a cancellare l'orrore che intravedeva oltre l'orlo di quella porta nera e sbiadita che era l'arroganza di Luca. Era come una stanza con un interruttore difettato: quando entrava non sapeva mai se avrebbe trovato l'oscurità ad attenderla, o se si sarebbe accesa la luce. Quel giorno la stanza era buia, ma la luce era tornata per uno sprazzo, ed era bastato per darle la speranza che la prossima volta in cui ci sarebbe tornata, l'avrebbe trovata di nuovo illuminata.
Chiara gli sorrise, poi lui sparì oltre la porta dell'aula.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


~~Luca non venne nemmeno la sera successiva.
Chiara non aveva nemmeno provato a mandargli un SMS: si limitava guardare il vialetto di casa, immersa nell'opaca luce della televisione del salotto, credendo che, da un momento all'altro, il campanello sarebbe suonato.
Nathaniel le aveva consegnato uno scatolone ed un sacco nero.
"Il cartone serve per tutte le cose che vuole portare con te, il sacco invece serve per tutto quello che non ti serve più. Cerca di scegliere bene."
Chiara si era domandata che fine avrebbero fatto i loro vecchi mobili, ma la risposta era stata implicita: la casa sarebbe stata venduta ammobiliata, permeata da tutta la sua infanzia e da tutti i suoi ricordi.
Aveva deciso di portare con sé i vestiti, solo qualche paio di scarpe e qualche vecchio giocattolo a cui era rimasta affezionata. Si era anche decisa ad imballare qualche cosmetico, e a buttare nella spazzatura una serie di bambole che aprivano e chiudevano gli occhi, un pallone da calcio bucato e dei vecchi compiti delle vacanze.
Alla scatola di cartone di Lilli ci aveva pensato Chiara; sua madre le aveva raccomandato di ricordarsi di sistemare il tutto ordinatamente, perché non voleva casini durante il trasloco. Niente cose perse, niente cose rotte.
Quando si soffermò ad osservare il risultato finale, vale a dire due scatoloni perfettamente richiusi ordinatamente con il nastro adesivo marrone da imballaggio, al centro della stanza, si passò una mano tra i capelli corti e ricci, arruffandoli. Si sentì come se qualcuno le avesse dato una carezza, una specie di buffetto sulla testa che non sarebbe arrivato ma di cui aveva bisogno.
A quel punto le vibrò il cellulare nella tasca: era Luca!
"Pronto?!" disse lei timidamente, con un tono di voce incerto.
"Chiara! Chiara, sono io."
Lei non ci fece caso, ma annuì debolmente con la testa, come se lui potesse vederla.
"Senti, ho sentito in giro del trasloco: brutta storia..." fece una lunga pausa, sospirando debolmente, o forse semplicemente lasciandosi pervadere da una boccata di sigaretta.
"Ti va di venire da me adesso?" chiese poi Luca con voce calma.
Chiara si sentì rincuorata: quel giorno, nella stanza, c'era la luce e brillava per lei. Si sentì una stupida ad aver dubitato del proprio fidanzato, che in fin dei conti aveva semplicemente chiesto un po' di tempo per se stesso. Nella mente di Chiara quel gesto era già stato perdonato da molto tempo, forse addirittura da prima che fosse compiuto; tuttavia aveva bisogno di un po' di contatto per suggellare quel perdono.
Un modo di sentirsi avvolta nella luce che su di lei aveva tanto potere.

La mamma di Luca era una donna secca, che guidava una di quelle piccole auto da città che sono facili da parcheggiare e si truccava con un pesante ombretto azzurro. Quando Chiara bussò alla porta d'ingresso chiedendogli del figlio, lei la accolse con un sorriso e la invitò a raggiungerlo in camera da letto.
Luca se ne stava sdraiato sul materasso, leggendo un fumetto e sgranocchiando dei biscotti in una ciotola sul comodino; quando vide Chiara alzò leggermente lo sguardo, fece cenno di richiudere la porta alle sue spalle e di sedersi accanto a lui.
Aveva i capelli spettinati, come se non avesse avuto ancora tempo di pettinarli, e indossava una maglietta bianca di quelle che si portano sotto i vestiti.
Appena Chiara si avvicinò, le cinse la vita con il braccio e poi la prese per mano accarezzandola con quel gesto semplice.
"Allora, quando parti?"
"Lunedì mattina."
Fece scorrere la mano tra i riccioli della ragazza, mentre la riaccompagnò quel gesto protendendosi verso il suo viso a baciargli le labbra. Un bacio semplice, di quelle che si danno quando è l'unica cosa giusta da fare e non si hanno più parole da dire.
Non c'era traccia di quell'oscurità malefica, irrequieta, nei suoi occhi: erano luminosi e belli, pieni di vita e di desiderio per lei. La guardava con un'intensità tale che Chiara si sentì svuotata da ogni dubbio e da ogni pensiero negativo.
"Chiudi a chiave la porta." le bisbigliò all'orecchio, in un sibilo di voce così impercettibile avrebbe potuto affermare di esserselo immaginata; tuttavia seguì diligentemente quell'istruzione e si alzò per girare la chiave nella toppa.
Avevano isolato il loro mondo dall'esterno: la stanza luminosa era solo per loro due.
Per loro due si amavano, e non c'era nient'altro.
Quando Chiara prese nuovamente posto sul letto, Luca le accarezzò una coscia con una leggera pressione e fece scivolare la propria mano lentamente verso l'alto, fino all'orlo del cavallo dei pantaloni.
Quel gesto le bastò a farsi sentire accettata: fu come se tutta l'insicurezza che quella relazione si portava dietro, venisse immediatamente cancellata dalla conferma innegabile che sarebbe andato tutto bene.
Che nulla sarebbe cambiato.
Si abbandonò quell'abbraccio dolce, prima che potesse pensare ad aggiungere qualunque altro commento. Non si tirò indietro, e invece di irrigidirsi come in ogni qualsiasi altro contesto quotidiano che riguardasse la loro coppia, si ammorbidì.
Vivere nella luce era bello.

Luca allungò una mano sul comodino per prendere i biscotti; se le portò alla bocca senza curarsi delle briciole che si distribuivano sparpagliate sul materasso e che, probabilmente, l'avrebbero infastidito la notte successiva.
Chiara se ne stava sdraiata al suo fianco, con le lenzuola a nascondere il suo corpo spoglio, mentre assaporava l'odore dolciastro di fumo che c'era in quella stanza. Cercava di concentrarsi su tutto quello che la faceva stare bene: il calore dei poster alle pareti, il contatto con il corpo nudo di Luca, e il profumo di biscotti.
Esco con un bacio sulla guancia e lo strinse forte a sé, come se avesse potuto fagocitarlo e non lasciarlo andare mai.
"Dunque cosa farai?" le domandò lui distrattamente, facendole cenno di allungargli il pacchetto di sigarette abbandonato in un paio di jeans, appollaiati su una sedia.
"Suppongo che troverò il modo per tornare." rispose con voce impastata, chiudendo gli occhi nel suo piccolo angolo di pace come se volesse dormire.
Lui scrollò le spalle.
"Perchè? Fa schifo questo posto!"
Chiara riaprì gli occhi, alla ricerca del suo sguardo.
La luce era diventata più opaca.
"Perché qui ci sei tu."
Luca si portò alla bocca un altro biscotto, e continuò masticare lasciando sospesa quella conversazione.
"Che centra?" domandò poi.
"Beh, perché la nostra storia importante. Vedrai che sarà un modo per rafforzare il nostro rapporto."
Lui ridacchiò, facendo uscire dalla propria bocca quattro grosse briciole di cioccolata che gli si depositarono sul petto. Quella risata soffiava sul viso di Chiara come un vento pungente d'oscuro; il segnale che la stanza stava tornando di nuovo nell'ombra.
"Perché ridi?" domandò poi, in uno sprazzo di coraggio, con una punta di amarezza nella voce come a sottolineare che quella non era esattamente il genere di risposta che si sarebbe aspettata dopo un momento d'amore.
"Cosa vuoi che ti dica? Va bene, Chiara! Torna quando vuoi e sarò qui ad attenderi per sempre! Volevi sentirti dire questo? Allora diciamolo, va bene così! " aveva utilizzato il tono che la faceva sentire stupida, quando fingeva di fare l'esasperato, come se le sue richieste l'avessero stremato al punto di dover dire di sì a una domanda che lei non aveva posto.
"No, non va bene..." bisbigliò lei, e a quel punto Luca la fissò con gli occhi iniettati di rabbia.
"Ah no?! Allora cosa vuoi!? Che pianga!? Che ti dica improri di non salire su quel furgone?! Oppure vuoi che gli dica una bugia?"
Lo sguardo di Chiara, si fece cristallino tremolante, come l'acqua. Come trattenersi dal farsi scegliere una lacrima, ma non le riuscì, e quella si incastrò all'angolo del suo occhio sinistro rigandole la guancia silenziosamente.
"Perchè fai così?" chiese concitata.
Era come se le parole si fossero incastrate di nuovo in gola e la sensazione di furto lasciasse immediatamente posto al desiderio di farsi perdonare per aver compiuto un errore. Forse era andato storto qualcosa per colpa sua; magari non era stata brava abbastanza, o dolce come avrebbe dovuto, e quello era il suo modo per punirla.
A quel punto il viso rabbuiato di Luca cominciò a rasserenarsi, le porse addirittura un mezzo sorriso.
"Vai a casa, Chiara. Ci proveremo."
"Davvero?" domandò lei portandogli una mano al volto, come per accarezzarlo.
In quel momento pensò che non era molto diversa da sua madre, le bastava che il suo uomo le allungasse una carota per rallegrarsi di questo e dimenticare tutte le bastonate. Allontanò quel pensiero, fingendo di non essersene accorta, e silenziosamente raccolse la maglietta e il resto dei suoi indumenti per rivestirsi.
Quando fu di nuovo pronta per uscire, Luca l'accompagnò alla porta.
L'auto della madre nel parcheggio fuori casa era già sparita, e aveva iniziato ad alzarsi leggermente il vento.
"Ti amo." aggiunse Chiara, oltre allo spiraglio dell'ingresso che si stava richiudendo alle sue spalle.
"Ti ho detto che ci proviamo, ma non posso assicurarti che io riesca a sopportare una relazione a distanza. Sai, la vita va avanti."
Chiara chiuse gli occhi, e anche se quell'affermazione era sbagliata ed irrispettosa, decise di non aggiungere altro.
Annui.
"Va bene così."

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


~~A volte, il tempo, è come un sasso tagliente nella scarpa.
Chiara percepiva il lento incedere della settimana, come fosse un evento che non la riguardasse: un po' come quando si metteva sotto la doccia e l'acqua era talmente calda da restituirle un brivido di gelo.
Dora l'aveva abbracciata dicendole che niente sarebbe stato più lo stesso, senza di lei, in classe, e le aveva regalato un cappotto di pelle nero, un po' tagliato sulle spalle, con quello stile di finto rovinato che tanto piaceva a Chiara. Quando l'aveva indossato davanti allo specchio si era sentita forte.
Nathaniel aveva disdetto il contratto della linea telefonica e perfino la tv era già stata imballata in uno scatolone pieno di pezzetti di polistirolo antiurto. Gli operai, portando via quel poco della mobilia che erano interessati a portare con loro, avevano rotto il vetro del tavolino del soggiorno e Sua madre aveva scheggiato una piastrella facendo cadere un ferro da stiro.
Quando la crepa si era fatta strada sulla superficie della piastrella in cotto, a Chiara aveva ricordato tanto un albero: pensò che potesse assomigliare ad uno strano fiore che qualcuno aveva riposto sulla lapide di una cosa morta.
"Allora è tutto pronto!" esclamò Nathaniel la mattina di quel lunedì, tenendo in braccio Lili e facendole il solletico soffiandole dietro al collo.
Sembrava felice di partire, e così lo era anche Lili che non faceva altro che sorridere e scalpitare per tutta la casa spoglia battendo i piedini per l'eccitazione.
Nathaniel prese ad accarezzare la bimba sulla testolina bionda, mentre con il pollice le disegnava piccoli ghirigori sulle guance: un senso di angoscia presa lo stomaco Chiara.
Si sentiva spaventata, arrabbiata. Aveva voglia di fracassare qualcosa e andare a gridare in faccia a Nathaniel che quella, anche se non era la sua vera sorellina, era qualcosa di suo!
Qualcosa che lui non poteva portarsi via, semplicemente stringendola a sé e concedendole le coccole che non aveva mai ricevuto dalla loro madre; quel ruolo era sempre spettato a lei, e per tutti quegli anni, mentre gli uomini di casa andavano e venivano, si era sempre stretta al petto quella piccola creatura e l'aveva protetta dalla delusione dell'abbandono.
Chiara, il padre di Lili, non se lo ricordava: sapeva perfettamente che cosa voleva dire vedersi apparire sulla porta un individuo con una valigia, e ricevere la notizia che quell'uomo sarebbe rimasto. Inizialmente, quando era stata più ingenua e stupida, aveva cercato di approcciarsi in maniera amichevole a ciascuno di loro, anche quando questi se ne andavano di casa pochi mesi dopo per non tornare più; dopo aveva iniziato a guardarli esattamente con lo stesso sguardo con cui un senzatetto guarda i passanti.
Uno identico all'altro, chi ti lancia uno sguardo di disprezzo e chi ti allunga una moneta, ma comunque qualcuno che passerà ed andrà oltre il tuo sudicio cantuccio di cui si dimenticherà appena girato l'angolo.
Nathaniel in questo era un osso duro: Chiara avrebbe potuto paragonarlo a uno di quei patetici studenti del seminario con la sindrome del buon samaritano. Uno di quelli che invece di girare l'angolo era rimasto a guardare e aveva pure insistito per farti compagnia!

Il cellulare non aveva suonato, e l'unico sibilo che percepivano le orecchie di Chiara era lo stridore delle ruote dei camion dei traslochi sull'asfalto.
Quando capì che la strada sarebbe stata più lunga del previsto, chiuse gli occhi immergendosi in un sonno senza sogni e ripercorrendo mentalmente, in una sorta di dormiveglia, la conversazione avuta con Luca il giorno prima.
Pensò che forse, a questo punto della sua vita, un cambiamento sarebbe stata la cosa giusta: cambiare città, cambiare aria, e vedere delle nuove persone l'avrebbe aiutata ad allontanarsi dalle sue paure. Sarebbe tornata più forte, più desiderabile agli occhi di Luca, davanti al quale aveva sempre pensato di essere troppo debole.
Chiara aveva cercato di focalizzarsi su quelle immagini, ma poi si era irrimediabilmente addormentata, dimenticandosi di quel dannato telefono che durante una curva scivolò sotto il sedile della vettura.
La voce di Nathaniel era l'unico suono che interrompeva quel sonno tranquillo: si era impegnato per ricordarsi tutti quei giochi da fare in macchina per ammazzare il tempo, così lui e Lili avevano cantato canzoni, indovinato personaggi di cartoni animati e contato tutte le automobili rosse fino al casello dell'autostrada. Quando apparve la prima indicazione stradale che portava il nome della nuova città, la mamma di Chiara le diede uno scossone su una gamba.
"Siamo quasi arrivati, inizia a prepararti."
Chiara in quel momento aveva borbottato qualcosa, mentre recuperava il telefono e sistemava una serie di carte di merendine che Lili aveva sparpagliato in una tasca del proprio zaino.
Non stava piovendo, il che era strano, perché in tutti i film in tutte le storie drammatiche, quando alla protagonista succede qualcosa di brutto, inevitabilmente dal cielo si scatena il diluvio.
Chiara sorrise a quel pensiero.
"Oh, coraggio! Non deve essere poi così male!" disse Nathaniel allegramente, imboccando una larga curva, ma lei non rispose e continuò ad ignorarlo guardando fuori dal finestrino.

Forse fu solo un'impressione dettata dalla poca luce e dal forte mal d'auto, ma quando sua madre le indicò un'abitazione e la incitò a scendere dal veicolo, cara ebbe l'impressione che quella casa fosse in bianco e nero che si fosse mangiata, come una voragine, tutta la felicità del mondo.
Le finestre erano lunghe e sottili, con piccoli infissi neri simili a ragnatela e la porta d'ingresso si differenziava dalle finestre soltanto per via del pomello, ma aveva per il resto la stessa forma lunga e stretta. Era una banalissima casa di città, incastrata tra una dozzina di altri palazzi tutti quasi uguali tra di loro; non una catapecchia sulla spiaggia, non un castello fatiscente e nemmeno una simpatica villetta con giardino.
L'anonimato non rendeva quell'avventura più eccitante, o fastidiosa, di quanto non fosse inizialmente il presagio di Chiara
"Con la luce farà un'altro effetto, vedrai." la rassicurò il suo patrigno, dandole una pacca sullo zaino.
Non si sentiva al sicuro, lì, su quella strada, davanti a quello e sarebbe dovuto diventare il suo primo punto di riferimento. Chiara non aveva nemmeno voglia di litigare con sua sorella su quale stanza le sarebbe stata assegnata, ammesso che ci fossero stati due stanze disponibili per entrambe, e quando appoggiò il suo zaino sul pavimento legnoso dell'ingresso e il suo primo pensiero fu semplicemente quello di trovare un letto dove abbandonarsi ai suoi pensieri.
Quella casa era ammobiliata con poco gusto, con quei mobili non troppo resistenti che si trovano agli ingrossi e una piccola luce fredda che pendeva dal soffitto sotto la coppa di un lampadario da ufficio.
"Come ti sembra?" domandò sua madre rivolgendosi a Chiara.
Le fece spallucce mentre si stropicciava i capelli.
"E' normale."
"Bene!" esclamò la donna. "La normalità è proprio quello che ci serve!"
Poi si allontanò di nuovo verso l'esterno dove Nathaniel aveva già cominciato a scaricare gli scatoloni.
Chiara allungò il passo, sorpassando l'ingresso, e dirigendosi verso quella che immaginò essere la cucina: c'era un solo piano cottura con solo due fornelli, un lavello grigio, tre armadietti pensili è un piccolo frigorifero senza calamite. Il tavolo era uno di quelli fissi al muro, con soltanto tre sgabelli.
In un certo senso quello spazio le piacque.
Era neutro, proprio come ogni brava cucina si rispetti.
Chiara pensò che se avesse chiuso gli occhi, il grigiore della casa l'vrebbe inghiottita e risputata come un puntolino nero che non avrebbe mai più avuto voglia di esplorare il mondo; poi si passò una mano nella tasca della nuova giacca di pelle e toccò il pacchetto delle sigarette oltre la consistenza della stoffa.
Forse era decisamente meglio iniziare a trovare una finestra da cui avrebbe potuto fumare senza che qualcuno le rompesse le scatole e la lasciasse in santa pace!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


~~Hoppertaff era una cittadina come tante, con le case né più né meno grigiastre di tante altre di cui Chiara aveva sentito parlare. Non c'era il mare e, per quanto ne sapeva, nemmeno un fiumicello o qualche altro paesaggio degno di interesse turistico.
La loro casa era in un bel quartiere; vista la luce del sole faceva tutt'altro effetto, anche se era di un color giallo pallido, e chiunque l'avesse vista avrebbe potuto tranquillamente affermare che si trattasse della tranquilla abitazione di una famiglia normale.
Due camere da letto, un bagno grande e uno piccolo, uno sgabuzzino, un salotto e una cucina.
Lili aveva sistemato le sue bambole con i capelli color del grano sulla piccola mensola all'ingresso della loro cameretta: la stanza era abbastanza grande, con due letti, di cui uno sotto la finestra, un armadio una scrivania sola.
C'era si era limitata a sparpagliare le sue cose sopra al proprio materasso, e a sistemare solamente l'indispensabile; aveva come l'impressione di essere arrivata in uno strano albergo, un posto da cui se ne sarebbe presto andata, quindi non era nemmeno necessario disfare i bagagli.
Aveva attaccato alla parete una di quelle banche in sughero piuttosto grezze, dove aveva appiccicato con una puntina una foto di lei e di Luca durante una gita in piscina, collegato lo stereo alla presa della corrente e appoggiato il posacenere sul comodino.
Ecco, ora sembrava più una stanza!
"La colazione!" strillò sua madre dalla tromba delle scale, con una vocina melliflua irreale.
Chiara non potè fare a meno di immaginarsela con due enormi guanti da forno, che girava con un cucchiaio di legno l'impasto per delle tre in una scodella fucsia: se casa nuova significava vita nuova, ora sua madre si sarebbe sentita in dovere di fare la parte della brava donna di casa premurosa, almeno per un po'.
Quando scese dalle scale, tenendo per mano Lili, osservò che sul tavolo della cucina c'era soltanto una tazza di cereali.
Bene, almeno le cose non erano cambiate poi più di tanto.
Si sedette a mangiare silenziosamente, piacevolmente colpita dal fatto che Nathaniel non si fosse alzato dal letto per far colazione con loro.
"Oggi è una bella giornata." disse sua madre indicando fuori dalla finestra e accendendosi una sigaretta.
"Perché non andate un po' a esplorare?"
Il piccolo viso di Lili si illuminò diventando rosso sulle guance e prese a guardare la sorella con due grandi occhi sgranati.
Chiara incrociò il suo sguardo non potè fare a meno di sorridere, anche se l'idea di andarsene a zonzo per una città sconosciuta non era esattamente un'idea che la esaltasse.
"Potremo andare al parco!" esclamò la bambina, portandosi alla bocca un enorme cucchiaio di latte e cereali umidicci.
"Mi sembra una buona idea, che ne dici Chiara? Intanto io tuo padre potremmo continuare a sistemare il resto della casa."
Chiara vrebbe voluto specificare che quello non era suo padre e che quella giornata leggermente soleggiata in realtà prometteva un leggero sentore di pioggia, ma non lo disse. Cercò di sforzarsi di sorridere, e di dimenticare che anche quella mattina il telefono non era squillato.
"Potremo andare a dare un'occhiata alla nuova scuola, potrebbe andarti?" domandò poi rivolta a sua sorella, che a quella seconda proposta ancora più eccitante iniziò battere le mani e a scalpitare al pensiero di poter iniziare a ficcare il naso in un ambiente nuovo, tutto da scoprire.
"Ottimo! Va a metterti addosso qualcosa."

La scuola elementare di Hoppertaff era un vecchio edificio che ospitava all'incirca duecento bambini. Dopo aver consultato il percorso su Internet, Chiara si infilò le scarpe da ginnastica e un vecchio paio di jeansstrappati sul ginocchio destro, gli stessi che aveva indossato il giorno prima, e si infilò una copia delle nuove chiavi di casa in tasca.
La facciata principale lasciava intravedere un cortile grigio, senza alberi e con una grezza rampa per l'ingresso dei veicoli autorizzati dall'Istituto.
"E' bellissima!" esclamò Lili.
"Fortuna che almeno a te piace..." commentò Chiara, che invece trova quel posto estremamente deprimente.
"Ci possiamo entrare?"
"No, ci andrai la settimana prossima, quando incontrerà la tua classe."
La bambina sbuffo, accigliandosi e iniziando a far dondolare i propri piedi sul bordo del marciapiede. Sembrava dispiaciuta che la passeggiata fosse finita, e quando Chiara la prese per mano riportandola nella direzione da cui erano venute iniziò a spezzare i piccoli occhi alla ricerca di una domanda da fare.
"E tu sei contenta della nuova scuola?"
"Che ne so? Non l'ho ancora mai vista!"
"Vuoi che ci andiamo?"
Lili porse quella domanda speranzosa, con gli occhi grandi e sorriso radioso, cercando di restituire in qualche modo a sua sorella un motivo per essere felice di tutto quel cambiamento. Probabilmente nella sua ottica doveva sembrare tutto così incredibile, e lo sguardo vacuo di Chiara doveva essere l'unica nota negativa che rabbuiarla una prospettiva splendida.
La ragazza scosse la testa, abbozzando un sorriso, ma notò che Lili non la stava già più guardando.
"C'è un parco giochi!" esclamò puntando il dito nella direzione di una piccola figura poco lontana.
Effettivamente, qualcosa c'era, ma più che un parco per bambini assomigliava a un cantiere in abbandono da anni: c'era un'altalena con la corda spezzata e una sabbia senza nessun secchiello. Lo scivolo era stato riverniciato da poco di un verde brillante e un piccolo castello, costituito da impalcature metalliche, si stagliava leggermente rispetto alle altre strutture per via di una bandierina rossa mossa dal vento.
Strano, prima, all'andata, non l'avevano notato.
"Che bello!" esclamò la bambina.
"Ci posso salire?"
Ma Chiara scosse la testa: quello sembrava tutto fuorché un posto sicuro dove far giocare dei bambini; non si meravigliò del fatto che non ci fosse anima viva!
"Ti verrà il tetano a salire su quei cosi!"
"Cos'è il tetano?" domandò Lili senza staccarsi dalla sua mano.
"Una malattia della ruggine"
Chiara fece mente locale: sì, doveva averlo letto da qualche parte su un libro di scienze.
"Su, via! Non è poi così male..."
In quel momento, giunse alle loro orecchie la voce di un interlocutore inaspettato alle loro spalle.
Si girò immediatamente, stringendo istintivamente la mano di Lili con una maggiore pressione: la voce apparteneva ad un vecchio. Era come se fosse sbucato dal nulla, in un logoro cappotto di feltro color verde scuro e teneva tra le mani un piccolo portamonete, uno di quelli con la chiusura d'argento a scatto.
"Buongiorno signorine!" esclamò mettendo in evidenza una serie di denti di un colore bianco sporco che si fecero strada dalle piccole labbra affusolate.
"Salve." rispose Chiara con voce secca.
Il vecchio ridacchiò dondolando la testa.
"In quel parco non ci gioca più nessuno da quando la figlia dei Franch si è rotta una gamba cadendo dallo scivolo."
Lili si abbarbicò al braccio di Chiara, e nascose la piccola testa bionda in una delle pieghe del cappotto. La ragazza non ci trova nulla da ridacchiare in quell'affermazione e si sentiva stranamente ansiosa, quasi osservata.
Cercò di sforzarsi di sorridere, ma quello che il suo volto restituì fu soltanto una sforzata smorfia.
"Hai una bella sorellina." disse poi il vecchio, focalizzando la sua attenzione sulla bambina.
"Come si chiama?"
La gola di Chiara bruciava: una sensazione imperfetta si era fatta strada nella sua mente, come un sentore di pericolo, anche se di fatto il vecchio aveva solo posto una domanda qualsiasi.
Che differenza ci sarebbe stata se a fare quella stessa domanda fosse stata una paffuta signora con un cappello estivo pieno di ciliegine in testa?
"Sei una ragazza saggia." aggiunse a quel punto l'uomo chiudendo gli occhi, e abbassando leggermente il capo come per fare un inchino.
"Certi segreti è sempre meglio tenersel per noi, giusto?"
S'era portato la mano alla bocca e aveva allungato il dito sulle labbra, come per silenziare un tacito accordo.
"Giusto." si rispose da solo.
Poi la mano scese nuovamente sul cappotto, fino a sparire nella tasca dopo un breve cenno di saluto. Il vecchio quel punto si allontanò mentre i suoi passi strascicati risuonavano come leggeri fruscii al suo passaggio.
Chiara non potè fare a meno che seguire i suoi movimenti con gli occhi: avvertiva una sorta di ronzio in testa, come una specie di piccolo bisbiglio che la faceva sentire all'erta.
Insicura.
"Andiamo a casa" bisbigliò, incitandola a continuare a percorrere la strada da dove erano arrivate, lasciandosi alle spalle il parco giochi.
"Questo posto è pieno di matti!"

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


~~Il resto della settimana trascorse lento e fuligginoso a tal punto che Chiara iniziò a pregare che quel dannatissimo lunedì arrivasse in fretta.
Quando arrivò, la ragazza si sentì svegliare da qualcosa che le tirava i capelli: era Lili e stringeva tra le mani una Barbie di capelli biondi, facendola saltellare qua e là sulla trapunta.
"Andiamo?"
Chiara si era alzata mollemente e si era sciacquata la faccia con l'acqua fredda, mentre quel getto l'aveva fatta rabbrividire.
Infilò un paio di vecchi pantaloni blu, una maglia scolorita e una felpa rossa color vinaccia, mentre Lili se ne stava seduta ad aspettarla a gambe incrociate sul tappeto.
Giocava con il velcro delle proprie scarpe e di tanto in tanto strizzava le mani tra di loro, racchiudendole in un pugno sotto il mento; si vedeva che era eccitata, di quel sano desiderio di scoperta che tanto piace ai bambini e Chiara, anche se non lo avrebbe confessato a nessuno, avrebbe potuto affermare di provare lo stesso.
Quando scesero dalla scala per fare colazione, si accorsero che la loro madre non c'era.
Nathaniel era appollaiato su una seggiola, mentre leggeva il giornale del giorno e sorseggiando una tazza di caffè.
"E' lunedì per tutti!" esclamò, accennando alla sedia vuota.
"Chi inizia prima e chi inizia dopo."
Forse la madre di Chiara aveva accennato qualcosa riguardo ad un colloquio di lavoro; tuttavia, qualunque fosse il motivo della sua assenza, non bastava a giustificare l'irrequietezza della maggiore delle sue figlie.
"Che ti prende?!" le domandò il patrigno, guardandola negli occhi.
L'espressione di Chiara si fece buia e, all'improvviso, si ritrovò a guardare nella direzione della scala. Pensò a sua madre, china sul materasso della camera da letto, con gli occhi neri di pianto ed un principio di ematoma su una delle braccia.
Non ne aveva la certezza, anche perché quella era stata una notte tranquilla. Nessun urlo, nessuna litigata. Eppure aveva paura.
Ad un tratto, prima che qualunque giustificazione potesse uscire dalla propria bocca, sentì un tonfo e cacciò un grido.
Un grosso corvo si era schiantato contro il vetro della finestra.
L'impatto fu stridulo e isterico, prima che quella strana sagoma nera iniziasse a scivolare lentamente verso il terreno, attecchito inerte alla lastra opaca.
Nathaniel si era immediatamente irrigidito, ma poi aveva cercato di mantenere la calma, soprattutto per calmare la bambina che aveva iniziato a piangere.
"Non è niente, Lili! Sono cose che succedono!" poi si era avvicinato verso la porta d'ingresso, porgendo a Chiara un paio di buste per il pranzo.
"Ci penso dopo a sistemare l'uccello." disse il patrigno aprendo la porta d'ingresso ed estraendo le chiavi di un'automobile..
"Dai, andiamo! Vi porto in macchina."
Chiara si sentì talmente scossa, con quelle buste di carta in mano, il cuore a mille e il desiderio di salire le scale di corsa per aprire la porta della camera da letto di sua madre, e quando sentì lo scatto dell'ingresso rabbrividì.
Dal piano superiore non proveniva alcun rumore.
"Muoviti, non ho tutto il giorno!" disse Nathaniel.
Perchè non aveva sentito sua madre uscire di casa, quella mattina?
Lili iniziò a tirarla per il bavero del cappotto, cercando di restituirla alla realtà.
"Andiamo, Chiara!"
E le gambe della giovane, come nel movimento volontario di un'automa, avanzarono silenziosamente.

Il sole splendeva intenso; la giornata perfetta per dire che si potesse trattare di un nuovo inizio.
Lili aveva già dimenticato il corvo morto non appena il suo patrigno le aveva slacciato la cintura del seggiolino e Chiara le si era seduta accanto.
Per fortuna la scuola elementare era più vicina, così Lili non avrebbe dovuto trascorrere troppo tempo da sola con Nathaniel!
Percorsero tutta la via dal lungo marciapiede grigio, passarono davanti al negozio di dolciumi, un fruttivendolo e ad un enorme viale alberato isolato alla fine del quale s'intravedeva in lontananza l'edificio smorto della scuola elementare.
C'era cercava di ripercorrere mentalmente il percorso svolto durante la passeggiata della settimana prima: il viale alberato se lo ricordava bene, e loro avevano percorso tutto costeggiando il lato sinistro.
Ad un tratto, come sorpreso da qualcosa di sconvolgente ed inconfessabile, Chiara strabuzzò gli occhi. Si portò una mano alla bocca stringendo le nocche con forza.
"Dov'è il parco?" esclamò, senza pensare che nessuno in quella macchina avrebbe potuto restituirle una risposta sensata.
"Quale parco?"
"Quello che c'era quì la settimana scorsa!"
Non poteva cogliere lo sguardo di Nathalien, che in quel momento era concrentro sulla guida, ma Chiara si immaginò che nascondesse un velo di disappunto.
"Non lo so, amore. E' la prima volta che faccio questa strada."
In quel momento poco importava con quale odioso appellativo le si stesse rivolgendo il suo patrigno; c'era era rimasta a fissare lo spazio erboso dove si era aspettata che comparisse un castello con una bandierina rossa.
Lo scivolo era sparito, e non c'era nemmeno traccia delle altalene.
"Lili, tu te lo ricordi, vero?" domandò poi, guardando negli occhi la sorellina.
"Chiara, forse avete fatto una strada diversa. Magari ci siamo rimessi soltanto a metà del viale e abbiamo lasciato indietro il parco. Non mi sembra si tratti di una tragedia poi così grave!"
Chiara quel punto allungò una mano nella tasca del suo zaino, ne estrasse una bottiglietta d'acqua e bevve un sorso. Forse erano passati velocemente, non era stata abbastanza attenta, oppure aveva ragione Nathaniel: quel parco non poteva essersi spostato, o peggio essere sparito, da un giorno all'altro.
"Guarda quanti bambini!" esclamò quel punto Lili, distratta dall'andirivieni di madri che si rincorrevano sul marciapiede stringendo le mani dei loro piccoli.
Sembrava un'allegra parata di soldatini che si avviava saltellando; tutto sommato una scena pittoresca graziosa, che niente aveva a che vedere con il cadavere di un corvo spiaccicato sul davanzale della finestra un parco sparito.
Chiara decise di non pensarci
"Va bene così." si ripetè, cercando di convincersi di essere una persona sincera.

Lili si era allontanata dall'automobile correndo come una forsennata.
"Non vuoi che ti accompagni?" le aveva domandato la sorella maggiore, aprendo la portiera con un pizzico di apprensione, ma lei aveva scosso la testa.
"So trovare da sola la mia classe."
Chiara aveva riso debolmente: presto o tardi quella puffetta sarebbe diventata una bambina peperina ed impertinente proprio come lei! Non poté fare a meno che annuire e darle un buffetto sulla guancia.
"Classe della signorina Lynch. Ho controllato." le raccomandò Chiara, allungando a Lili una delle due buste per il pranzo.
"Ti aspetto alla fermata dell'autobus."
E poi Lili si era allontanata, con i suoi capelli biondi che ondeggiavano leggermente al vento della corsa, in direzione dell'ingresso della scuola. Quando fu ormai irriconoscibile tra la miriade di bambini, Chiara tornò a sedersi sul sedile posteriore della vettura.
"Possiamo andare?" domandò il patrigno.
Chiara annuì, senza aggiungere molto altro, e la macchina si rimise immediatamente in moto.
Il liceo comunale di Hoppertaff non doveva destare poi molto dalla scuola elementare, e questo era un bene, considerato che Chiara non aveva assolutamente voglia di parlare di nulla.
"Beh, come ti senti?"
Lei sbuffo. Evidentemente era utopistico sperare di avere un po' di tempo per se stessi!
"Pensavo solo che ne volessi parlare con qualcuno." continuò l'uomo, ora inforcando una strada secondaria davanti al parcheggio di un autonoleggio.
"Sai, io a volte credo che sia tutto molto più semplice se ci si dice le cose come stanno."
Chiara si fece scivolare uno degli auricolari del proprio Ipod nell'orecchio destro: non voleva sembrare maleducata o indisponente, semplicemente le sembrava che non ci fosse nulla da dichiarare che entrambi già non sapessero.
"Me lo aspettavo che conta sarebbe stato più complicato fare amicizia."
Più che complicato, impossibile.
"Non dovresti avercela con me per averti fatto cambiare città: adesso sai abbastanza grande per capire che certe cose sono necessarie se si vuole voltare pagina."
Chiara pensò che la pagina non era stata per niente voltata; certo, poteva cambiare lo sfondo o le motivazioni per cui ci sarebbero stati dei problemi, ma quelli li avrebbero seguiti ovunque.
Delle ombre crudeli.
La macchina passò davanti al negozio di animali dove un cucciolo di cocker guardò in direzione del finestrino con due grandi occhi languidi. Sembrava tutto così normale in quella cittadina; un posto dove potenzialmente ogni nuovo avventore avrebbe potuto darsi delle buone ragioni per vivere felice.
"E' il miglior regalo che io possa farti."
"Regalo?" disse Chiara in uno strano sibilo mugugnato a bassa voce.
"Sì, una buona occasione per permetterti di costruire un futuro migliore di quello di tua madre."
Chiara sentì il sangue avvampare alle sue guance, in una smorfia di disgusto.
"Dovresti pensare più agli affari tuoi."
Nathaniel scosse la testa.
"Non è quello che farebbe qualcuno che ti vuole bene."
A quel punto l'automobile frenò e si parcheggiò davanti a un edificio lungo e stretto, colorato di giallo. C'erano cinque ragazzi seduti sulle scale; una di loro aveva una bandana per capelli e teneva in mano un libro di Milton, mentre un'altra aveva la mascella squadrata e leggermente allungata come quella di un cavallo.
"Fine della corsa!" esclamò l'uomo, voltandosi a guardare Chiara sul sedile posteriore.
"Buona giornata." aggiunse.
Chiara raccolse lo zaino dal tappetino, e se lo issò in spalla.
"Noi non ci vogliamo bene; è inutile che tu finga che sia così." disse poi, prima di aprire la portiera e di allontanarsi sul marciapiede.
Nathaniel fece spallucce.
"Libera di pensare come meglio ti senti. Buona giornata, amore." 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


~~Chiara rimase fuori dalla porta dell'aula che le avevano indicato alla segreteria. Superò l'atrio traboccante di studenti che biascicavano stralci di lezioni o commenti su qualche puntata di un reality show, andato in onda il giorno prima, e percorse silenziosamente il lungo corridoio dalle finestre arrugginite.
Prima di entrare, lanciò uno sguardo di sfuggita all'interno della classe: gli studenti erano relativamente in pochi, più donne che uomini, a costatare dal colore delle loro cartelle, perlopiù impegnati a fare capannello alle spalle di un ragazzo che disegnava qualcosa alla lavagna.
Fu proprio in quel momento che Chiara decise di allungare il primo passo e di oltrepassare l'uscio.
Una ragazza che e se ne stava a testa bassa, a fissare un libro sul proprio banco, alzò immediatamente lo sguardo e le sorrise.
"Ciao!" esclamò alzandosi in piedi.
Dopo quel saluto, anche gli altri ragazzi si girarono nella direzione di Chiara e lei, istintivamente, fu presa da una strana sensazione  di tremore allo stomaco. Abbozzò un sorriso, immaginandosi che probabilmente quell'accoglienza era dovuta al fatto che un insegnante avesse già avvisato i suoi compagni che si sarebbe presentato qualcuno di nuovo, quella mattina.
"Io sono Chiara." disse facendosi scivolare lo zaino giù dalla spalla e appoggiandolo precariamente contro il muro.
"Emma, piacere!" esclamò la ragazza che inizialmente l'aveva salutata e le allungò la mano, in segno di benvenuto, dopo essersi sistemata un piccolo fermaglio tra i capelli.
Chiara si sentì sollevata da quell'accoglienza, soprattutto perché anche gli altri compagni le si avvicinarono per presentarsi, o semplicemente per fare qualche domanda. Il secondo a cui si rivolse era un ragazzo altissimo, dalla corporatura scarna che lo faceva assomigliare a un lungo manico di scopa.
"Tu devi essere forte a basket." commentò Chiara, quando si accorse che doveva leggermente alzare il capo per guardarlo negli occhi. Indossava una camicia per metà bloccata dalla cintura dei pantaloni, e per l'altra metà sbrindellata e lasciata pendolare a lungo il fianco.
"Puoi chiamarmi Max." rispose quello ridendo, mentre faceva scoparire la mano di Chiara nel suo palmo gigantesco.
"Cestita." specificò.
"Visto? L'avevo detto!"
Doveva trattarsi di una persona piacevole, probabilmente un bonaccione, di quelli che non si fanno problemi con nessuno e non si lambiccano troppo il cervello per passarti un compito di matematica senza qualcosa in cambio.
Dopo la presentazione di Max, si fece avanti una coppia di ragazze dai lineamenti affilati ed esili: la prima aveva il viso piuttosto lungo e un paio di orecchie di cui doveva vergognarsi parecchio, dato che erano nascoste dai capelli scuri, ma comunque sbucavano leggermente con le punte troppo sporgenti; la seconda invece era rimasta più in disparte, con un paio di occhiali dalla montatura rettangolare e un lucidalabbra color ciliegia.
"Io sono Astrid." disse quella con la faccia lunga.
"Piacere di conoscerti."
Chiara rispose allungando la mano e aspettandosi che anche la ragazza accanto a lei pronunciasse una qualunque frase di circostanza per introdurre il proprio nome; tuttavia non lo fece.
"E' da molto che sei qui?" continuò Astrid.
"Una settimana scarsa."
"Ah, e da dove vieni?"
"Prima stavo a Rilke, non so se lo conosci. È circa a quattrocento kilometri da qui."
A quel punto la ragazza con gli occhiali starnutì, portandosi entrambe le mani alla bocca.
"Salute!" si apprestò ad esclamare Chiara, facendosi passare una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
L'altra bisbigliò un sommesso "Grazie" e si scusò per non essersi presentata: le disse di chiamarsi Fiona e di essere stata una volta a Rilke con la sua famiglia, in campeggio.
"Beh, è un bel posto!" commentò alla fine.
La campanella dell'inizio delle lezioni si fece strada nelle orecchie dei presenti, e ciascuno prese posto più o meno ordinatamente sul proprio banco. Chiara non aveva ancora fatto in tempo ad osservare l'aula: si trattava di un grande stanzone che ospitava all'incirca una ventina di banchi e una di quelle lavagne bianche su cui si scrive con i pennarelli.
Su una delle pareti c'era una bacheca di sughero come quella che aveva in camera sua e dalle finestre non si intravedeva altro che un piccolo strato erboso in lontananza, con qualche albero ad intervallare il panorama.
"Io dov'è che mi siedo?" chiese poi rivolgendosi ad Emma, che era rimasta vicino a lei per tutto il tempo.
"Penso che ci sia un banco libero vicino a Kyle."
Detto questo, Emma indicò un ragazzo dai capelli bruni, leggermente impastati di gel e appiccicati alla nuca, che incorniciavano un viso dai lineamenti marcati. Aveva una di quelle mascelle squadrate e un orecchino d'argento al lobo destro con cui giocherellava con due dita della mano.
Effettivamente era vero, accanto a lui c'era un banco vuoto, e Chiara non esitò ad avvicinarsi domandando se potesse appoggiare il suo zaino proprio lì.
"Fai pure." commentò lui, sistemando il proprio bomber nero sul sedile della seggiola.
"Kyle, piacere. Scusa se non sono venuto a presentarmi, ma non amo un granché la calca."
Chiara scosse la testa, scrollando le spalle, come per fargli capire che un saluto più o meno ufficiale non aveva assolutamente alcuna importanza.
Si sedette sulla seggiola scolorita e guardò negli occhi il ragazzo con cui probabilmente avrebbe dovuto condividere il banco per tutto il semestre: sembrava un tipo a posto, non uno di quelli che avrebbe iniziato a chiederle il numero e a tampinarla per qualche relazione che non avrebbero mai svolto insieme.
Astrid, seduta al banco innanzi a loro, si girò e gli lanciò un sorriso che lui ricambiò.
"E' il mio ragazzo." commentò lei a quel punto, in un'affermazione che Chiara non percepì se si trattasse di una semplice informazione o piuttosto un avvertimento.
Buono a sapersi! Tanto lei, a Rilke, un ragazzo ce l'aveva già.
Le venne voglia per l'ennesima volta di estrarre il cellulare dalla tasca e controllare se avesse ricevuto una chiamata persa, o anche semplicemente un messaggio da parte di Luca  ma, mentre la sua mano corse lungo il cappotto, nell'aula entrò un uomo magro che stringeva tra le mani una valigetta e un libro di matematica.
"Quello è il signor Ransom." le bisbigliò Max, che si trovava a un paio di banchi di distanza, all'ultima fila, con voce soffocata.
Kyle a quel punto fece una risatina con il naso.
"Non serve che si memorizzi il suo nome: ti basterà ricordare che è uno stronzo."

A pranzo erano tutti piuttosto stanchi e affamati.
Il signor Ransom aveva assegnato una serie di esercizi per il giorno dopo e si era lamentato per una buona parte della lezione del fatto che nessuno degli altri docenti lo avvisasse mai in caso dell'inserimento di un nuovo allievo all'interno della classe.
"Sarà necessario che ti sottoponga da un test per sondare la tua preparazione."
A chiara, quella notizia, non era suonata particolarmente minacciosa: la matematica le era sempre piaciuta, molto più della storia o della letteratura, perché le permetteva di non pensare. Quegli esercizi non avevano un'interpretazione personale, e per questo erano facili: erano quello che apparivano e non sognavano di essere nulla di più.
Se davvero quel discorso poteva avere un senso, significava che i numeri erano felici.
Dopo l'ora di matematica era stata la volta della signora Mallard, l'insegnante di applicazioni artistiche. Era una donna di mezz'età, con una di quelle pettinature cotonate che la faceva assomigliare ad un alveare di cui, tuttavia, lei era molto fiera; lo si intuiva dal modo in cui se la aggiustava durante la lezione.
Aveva uno strano modo di parlare, con una erre arrotata molto marcata e un piccolo mugugnare che si insinuava alla fine di ogni frase, ogni qualvolta faceva una pausa.
Il signor Perry, invece, era il docente di letteratura ed entrato in aula salutando Chiara con la mano e dandogli il benvenuto al liceo di Hoppertaff.
Il primo ufficiale della giornata.
"Spero che questa gentaglia ti abbia fatto una buona accoglienza!" esclamò per concludere, infilando la mano nella ventiquattrore alla ricerca di un libro.
Stavano leggendo il Macbeth di Shakespeare, una delle opere preferite di Chiara: narrava la storia di un uomo che, a seguito di una profezia, scopre che diventerà re di Scozia. A quel punto, spinto dalla bramosia della moglie, decide di non aspettare la morte del re ma di ucciderlo di sua mano e di fare lo stesso con il suo migliore amico.
"Personaggio affascinate, non trovi?" domandò Kyle, alla fine della lettura guidata del capitolo, quando tutti si alzarono per recarsi alla mensa.
"E' buono, ma allo stesso tempo malvagio. Sente il peso dell'onore, ma anche quello della vergogna."
Chiara annuì, rimettendo tutto il proprio materiale all'interno della cartella.
"Se ti va puoi mangiare al tavolo con noi!" esclamò quel punto Astrid, intromettendosi nella conversazione e appollaiandosi sul banco di Chiara.
"Oh, si! Certo!"
Così l'avevano tutti accompagnata alla mensa, uno stanzone immenso dove c'erano una serie di tavolini stipati e un bancone per le cibarie.  Max le indicò uno vicino alla finestra.
"Noi di solito ci mettiamo quì."
Preseo tutti un piatto dietetico che comprendeva di fagiolini, pomodori e della carne assieme ad una ciotola di spaghetti fumanti.
"Allora..." disse Astrid mugugnando, non appena presero posto al tavolo.
"Cosa fai per divertirti?"
Tutti rivolsero a Chiara un'occhiata rapida e curiosa, per poi concentrarsi nuovamente sui loro piatti.
"Beh, qui non faccio nulla di speciale. Quando stavo a Rilke a volte uscivo con i miei amici, o perlopiù stavo con il mio ragazzo."
"Ex ragazzo?" domandò poi Fiona, poco prima di addentare una forchettata di pasta.
Chiara si promise di fare attenzione a quello che diceva, sondando le parole e il tono della voce, ondevitare equivoci.
"No, Luca ed io siamo ancora insieme."
Lo disse con voce convincente, sorridendo e tentennando il capo come se fosse una precisazione stupida, ma Atrid le lanciò una strana occhiata guardinga, come quella di un gatto.
"Lo dici come una filastrocca."
"Che cosa vuol dire?"
"Niente, solo che per metabolizzare di essere stata piantata ci vuole del tempo!"
Chiara cerco di allungare una mano verso la bottiglia dell'acqua al centro del tavolo, sforzandosi di continuare a sorridere. Kyle, nel frattempo aveva cominciato a rollarsi una sigaretta, mentre Max smise di raccontargli dell'ultima classifica del campionato di basket.
"E' una storia a distanza." specificò poi a bassa voce, quasi incapace di mentire.
Astrid annuì comprensiva.
"Ti capisco; deve essere un cambiamento grosso."
A quel punto, Emma s'intromise nella conversazione, cambiando discorso: estrasse dalla giacca il volantino di un locale tutto spiegazzato e lo appiattì con cura sul tavolo.
"Che dite? Ci andiamo?"
Max allungò il braccio e avvicinò a sé quel pezzo di carta: ne aveva già visti un sacco in giro per i negozi, affissi qua e là sui pali della luce o sui tronchi degli alberi. Si trattava di un volantino viola dove una stampa fotografica da quattro soldi riportava l'immagine di alcuni ragazzi ad un bancone, mentre scherzavano con un drink in mano. Sullo sfondo si poteva intravedere un'intricata serie di note musicali e qualche scritta a caratteri fluo.
"E' alla vecchia fiera? Non sarà una catapecchia?"
Kyle gli assestò una pacca sulla spalla.
"Che ti importa? È comunque qualcosa di nuovo!"
Fiona si aggiustò gli occhiali sul naso, mentre sorrideva a Chiara con aria radiosa ed eccitata.
"Lo spazio delle fiere era in disuso da un sacco: sembra pazzesco che ci abbiano costruito qualcosa di nuovo! Ti va di venirci, questa sera?"
Chiara osservò brevemente gli altri ragazzi, cercando di studiare i loro volti e le loro reazioni a quella notizia: sembravano tutti piuttosto conviti a dare una possibilità a questo nuovo diversivo, tuttavia lei si irrigidì leggermente. Non poté fare altro che pensare a sua madre, che forse se ne stava ancora in camera da letto, e al fatto che si sarebbe dovuto assicurare che a casa non fosse successo nulla di spiacevole.
Quei pensieri, probabilmente, affollarono la sua mente al punto da rabbuiarla in viso, e da farle assumere una strana espressione, quasi arrabbiata o sconfitta.
"E' che non bevi?" le domandò Astrid.
Chiara scosse la testa, come per allontanare quell'ipotesi.
"No, anzi! Non credo ci siano problemi."
Astrid le rivolse un sorriso radioso, tinto di un color fucsia per via del lucidalabbra.
"Allora, se ti va, puoi venire prima a casa mia a sistemarti; così magari questa sera ti presentiamo qualcun altro!"
Chiara pensò, che dopotutto, un'uscita di svago con qualche compagno di classe non avrebbe fatto altro che farle bene.
Forse sarebbe perfino riuscita a distrarla.
"Bene." proclamò Astrid.
"Allora più tardi ti lascio l'indirizzo."
Ci fu un'altra campanella in lontananza: probabilmente l'ora di pranzo era finita e Chiara si accorse che non aveva nemmeno finito tutto quello che aveva nel piatto. Si affrettò a portarsi alla bocca tutto quello che rimaneva della carne, e avanzò i pomodori.
La mela se la mise nello zaino, mentre gli altri ragazzi iniziarono ad alzarsi da tavola.
"Ah, Astrid?" la chiamò Chiara, notando che la ragazza era rimasta un po' indietro ad aspettarla.
"Per caso, non è che c'è un parco vicino alla scuola elementare?"
L'altra le restituì uno sguardo interrogativo, un po' annerito da una piccola sbavatura della matita nera che le faceva apparire gli occhi più grandi.
"Perchè ti interessa?"
Chiara fece spallucce, gettando i piatti di plastica nel bidone della spazzatura.
"Volevo portarci la mia sorellina più tardi."
Sembra una giustificazione semplice, plausibile e lineare; il genere di informazione normale che una persona, arrivata da poco in una nuova città, avrebbe potuto domandare ad un estraneo qualsiasi.
Astrid scosse la testa.
"Che ne so."

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


~~Chiara si tolse i vestiti e si infilò una comoda tuta che aveva preso da un cassetto, si lavò la faccia con l'acqua fredda e poi preparò altri indumenti per la serata, che infilò distrattamente nello zaino.
Dopotutto si trattava di una semplice uscita al pub, niente per cui fosse necessario agghindarsi o selezionare il proprio guardaroba; tuttavia, per non fare brutta figura, si soffermò nello scegliere una maglietta graziosa e un paio di pantaloni che non fossero jeans.
Poi ridiscese in cucina e si guardò attorno con attenzione.
Lili stava facendo merenda con un barattolo di yogurt alla vaniglia e le stava raccontando del suo primo giorno di scuola.
Dopo le lezioni, era subito andata in camera da letto cercare sua madre: la porta era chiusa a chiave dall'interno, ma quando Chiara aveva bussato non aveva risposto nessuno.
"Perchè poi ho detto alla maestra che non sapevevo rispondere, e allora ho pensato che forse era arrabbiata con me..."
Chiara cerco di analizzare la situazione con freddezza: l'idea di fare una telefonata a Nathaniel per informarsi su che cosa fosse realmente accaduto, sembrava essere la cosa più logica, tuttavia anche quella più controproducente; al contrario, la prospettiva di aspettare passivamente e sua madre girasse la toppa di quella chiave e scendesse in cucina era una prospettiva così snervante che nemmeno gli scoordinati racconti di Lili o le aspettative per la serata potevano annacquare.
"Ho una nuova migliore amica, sai?" chiese la bambina, mentre si puliva la bocca con un tovagliolo di carta. Ma Chiara non ascoltava.
Mentre si spalmava una fetta di pane e marmellata, un sinistro cigolio della scala le fece intendere che qualcuno stava scendendo le scale; così si girò, ancora con il coltello sporco in mano.
Una figura sciupata si parò davanti a loro.
Chiara la esaminò con occhi circospetti, riuscendo a cogliere un bagliore opaco nei suoi occhi: era la solita donna secca è scavata di sempre, con la ricrescita semigrigia dell'attaccatura dei capelli a fare contrasto con un color biondo sporco. Cerco di controllare velocemente se avesse un qualunque segno sulle braccia, ma sua madre aveva indossato un maglione a collo alto e a maniche lunghe.
"Che ore sono?" domandò poi, rivolgendosi alla figlia maggiore.
"Le cinque del pomeriggio."
A quel punto, la donna, ripercorse a ritroso la scaladi nuovo intenzionata a rintanarsi in quella camera da letto.
"Sii gentile, Chiara, accendini e portami una sigaretta."
Lili la precedette, andando a prendere la borsa della loro mamma che era abbandonata su uno dei braccioli del divano; la aprì con foga, quasi alla ricerca di un grande ed inestimabile tesoro.
Chiara vide un occhio all'interno di quel contenitore di pelle nera, che doveva avere come minimo cent'anni: c'era un fermacapelli con un fiore di plastica rosso ed uno celeste, un portachiavi fatto con le linguette delle lattina di coca-cola, qualche mozzicone di sigaretta usato è un telefono cellulare dalla batteria scarica.
Probabilmente, se si fosse impegnata a scavare di più tra quel corredo, avrebbe anche trovato un pacchetto nuovo e un accendino; in ogni caso, quando provò a concentrarsi in quella stupida ricerca, rinunciò immediatamente.
Guardò Lili mentre si sedeva sul divano e iniziano a giocare con il telecomando, alla ricerca dei cartoni animati, e pensò che cosa fosse realmente successo se sua madre fosse sparita.
Si sentì un mostro, ma in pochi istanti realizzò che, forse, il tremore che aveva avuto allo stomaco per tutto il giorno non era reale paura di tornare a casa e di scoprire che sua madre se n'era andata chissà dove: era semplicemente quella di trovarla a casa, chissà in quale stato o per opera di chissà chi, mentre non avrebbe avuto altre risposte da darsi, se non quella di accettare la loro normalità.
Odiò se stessa e poi odiò sua madre.
"La mia nuova migliore amica ha i capelli biondi, proprio come me!"
E Chiara si accoccolò sul divano, vicino a Lili, perché forse quello era l'unico modo di allontanare i mostri.

Non era stato difficile trovare la casa di Astrid: l'indirizzo che Chiara aveva puntato su un pezzo di quaderno corrispondeva ad una simpatica villetta in un quartiere residenziale non lontano dalla scuola.
Si erano dati appuntamento alle sei e mezza, ma Chiara aveva dovuto aspettare il rientro di Nathaniel dall'ufficio, in modo che Lili non rimanesse da sola a casa. Si augurò che Astrid non le facesse storie.
Quando spinse il pulsante del campanello, quello suonò a vuoto un paio di volte; poi, una nervosa signora, evidentemente in gravidanza, si apprestò ad aprire la porta.
"Ehm, salve..." sussurrò Chiara, non del tutto sicura che la ragazza che abitava in quella casa avesse avvisato che quel giorno avrebbe ricevuto visite.
"Astrid!" si limitò a strillare la signora, mentre il suo sguardo era fisso in un punto indefinito alle sue spalle, in direzione delle scale.
"Dille di entrare!" ribatté la voce della giovane, probabilmente ancora nella zona notte.
La donna obbedì silenziosamente, appoggiandosi una mano al ventre rigonfio.
"Ti spiace se non ti accompagno, vero?"
"Nessun problema."
"Ottimo, allora sali le scale va in fondo a sinistra. È nella camera con la porta rosa."
Chiara si guardò intorno: quell'ambiente era lindo pulito, leggermente asettico. C'erano le zanzariere ai vetri delle finestre del soggiorno e un tavolo in cristallo celeste con un vaso di fiori  davanti alla tv. Sembrava una bella casa, di gente benestante, con qualche piccolo sfizio per un bel quadro o un tappeto costoso.
Quando fu in cima alle scale, Astrid la stava aspettando facendo capolino dalla porta e con la mano le faceva cenno di venire verso di lei.
"Entra!" esclamò, sedendosi sul letto.
"Allora, cosa che s'è portata?" chiese guardandolo zaino della sua nuova ospite.
"Scusa per il ritardo, mia sorella..."
"Nah! Non ti devi scusare! Dai, tira fuori quella robaccia!"
La stanza di Astrid non era come chiara se l'era immaginata: avrebbe pensato di trovarsi di fronte a una stanzetta ordinata, con qualche mensola bianca alle pareti, una specchiera per i cosmetici e una marea di poster di star della tv; invece c'era un mucchio di vestiti aggrovigliato su una sedia, probabilmente roba che doveva finire a lavare, e i mobili erano piccoli e rosi, gli stessi che una bambina come Lili avrebbe desiderato per arredare la propria cameretta.
Le pareti erano colorati di rosa, un color pastello con dei ghirigori bianchi agli angoli e un davanzale ridipinto da una pacchiana vernice dorata.
"Non ho portato niente di speciale." commento Chiara, estraendo dallo zaino la maglietta e paio di pantaloni e aveva scelto.
Asprid la guardò con disappunto.
"Lo vuoi consiglio?" domandò poi, mentre faceva spallucce.
"Mettiti questo!"
Le allungò un paio di jeans con uno strappo e una serie di lustrini con le tasche: roba di marca, senza dubbio, ma con tutti quegli spifferi avrebbe patito un gran freddo. Tuttavia Chiara non ebbe il coraggio di dirglielo. Quando indossò quei pantaloni, le venne proposta una maglietta con La stampa di una chitarra in due varianti.
"Ce l'ho anche blu."
"No, credo che questa grigia andata più che bene. Grazie!" disse poi Chiara, sforzandosi di abbassarsi per poter vedere la sua immagine completa in un piccolo specchio a muro.
"Ah, quella roba puoi tenertela! Ne ho un sacco. Mi piace comprare i vestiti uguali, poi a volte mi stanco e non li metto più. Comunque, credo che stiamo molto bene."
Chiara non sempre se ringraziare di nuovo o limitarsi ad annuire; si soffermò guardare uno degli scaffali in cui erano stipati ordinatamente una serie di CD musicali.
"Ti piace la musica forte?" chiese Astrid, notando il suo interesse.
"Si, decisamente!"
Lei rise, sdraiandosi sul letto facendo ciondolare in piedi dal bordo.
"Grande! Però devo darti una brutta notizia: quelli non sono miei, ma di mio fratello. Glieli tengo qui perché in camera sua ne ha troppi."
"Quanti fratelli siete?"
Astrid la guardò piegando leggermente il capo, come se avesse posto una domanda stupida.
"Due, perchè?"
"Sai, è che tua madre..." rispose Chiara, visibilmente in imbarazzo.
"No, il nuovo arrivo non è di famiglia... Mettiamola così!"
Astrid sbuffò e aprì un cassetto dell'armadio, iniziando a trafficare con qualche cianfrusaglie che faceva parecchio rumore.
"Anche io e mia sorella siamo così."
"Così come?"
L'imbarazzo continuava ad avvampare: appena Astrid le aveva fatto intendere che sarebbe nato un fratellastro, Chiara si era subito illusa che quello potesse essere un punto in comune ma...
"Hey, non ti preoccupare!" ridacchiò la ragazza, richiudendo il cassetto.
"Ti stavo solo prendendo un po' in giro."
A quel punto, Astrid si appollaiò nuovamente sul materasso e si sfilò uno dei calzini intenzionata a mettersi lo smalto alle dita dei piedi.
"Lo vuoi anche tu?" chiese.
"No, grazie. A casa non saprei nemmeno come togliermelo."
"Beh, ma posso prestarti un solvente..." continuò quella, con un tono di voce simile a quello di Luca quando voleva farla sentire una persona stupida.
Chiara, per tutta risposta, si accovacciò e si tolse la scarpa destra, facendo leva sul calcagno eaccorciandosi sul letto accanto alla ragazza, che sembrava molto concentrata nel suo lavoro di precisione.
"Mio fratello è un bel ragazzo, lo sai?" disse Astrid, lanciandole una strana occhiata.
"Magari ti piace."
Chiara si raddrizzò dalla sua posizione e fece una risatina sommessa, portandosi una mano tra i capelli e iniziando ad attorcigliarsi con noncuranza uno dei riccioli sul dito indice.
"Beh, grazie." era una risposta alquanto stupida, ma non avrebbe saputo cos'altro dire. Astrid sembrò cogliere e il suo imbarazzo, ma se estrasse il secondo calzino e continuò ad applicare lo smalto con la dovuta attenzione.
"Parlami del tuo ragazzo!" esclamò poi.
"Dopo ti racconto di Kyle."
Chiara prese  tra le mani un cuscino a forma di bon bon e se lo strinse al petto, come per abbracciarlo.
"Si chiama Luca." si lasciò sfuggire, ma poi fece una lunga pausa, quasi insicura se continuare quel racconto o meno.  Astrid ogni tanto le lanciava un'occhiata, annuiva le sorrideva: tutto sommato doveva essere una ragazza amichevole, che cercava semplicemente di fare conversazione su qualcosa di quel semplice parlare.
Chiara prese coraggio e continuò strizzare il bon bon.
"Stiamo assieme da un po', tra alti e bassi. Direi più bassi e alti, ultimamente."
"Per via del trasferimento?"
"No, è solo che Luca non è una persona molto espansiva."
Astrid in esso a soffiarsi sulle unghie dei piedi.
"E a te dà fastidio?"
"A dire il vero non tanto: gli voglio bene e mi ci sono abituata, anche se a volte mi chiedo che cosa sto facendo."
Lo disse come una confessione naturale; come se quel racconto loro stesse rivolgendo a una persona reale, ma semplicemente a se stessa.
"Secondo te sta con qualcun altra?" domandò Astrid, facendole cenno di levarsi le calze così avrebbe potuto mettere lo smalto anche a lei.
Mentre se le sfilava, Chiara inghiottì un sorso di saliva amara: no, quel pensiero non era pronta a pronunciarlo nemmeno davanti ad una perfetta estranea. Le sembrò strano, come a volte, è semplice fare delle confidenze a qualcuno che non si conosce: si ha la sensazione che quell'interlocutore sia una parete bianca che puoi imbrattare a tuo piacimento, senza che quello si lamenti o ti giudichi proprio perché non conosce la tua realtà.
"Non dire altro..." commento Astrid, facendo un sorrisetto a mezza bocca e aggiustandosi i capelli con una mano.
"Io ho rotto il naso ad una tizia che ha baciato Kyle."
Lo disse con un'informazione di servizio, senza alcun colore nella voce.
"Non era niente di speciale: solo un bacio, però io mi sono sentito esplodere lo stesso! Poi sono andata da lei, a scuola, e l'ho avvertita che se ci avesse provato un'altra volta le avrei rotto molto più che il naso."
Chiara non poté far altro che trattenere una risatina.
"Sei percolosa!" commentò, sfoderando il migliore dei suoi sorrisi.
"Diavolo! Puoi dirlo!"

Aspettarono pazientemente che arrivasse l'ora di uscire, facendo trascorrere il tempo chiacchierando del più e del meno. Il discorso si orientò sui film, sugli insegnanti che Chiara non aveva ancora incontrato e su qualche racconto divertente delle loro vite d'infanzia.
"Mio fratello una volta mi ha investita, sai?"
"Sul serio?"
Astrid annuì.
"Non ha fatto apposta: faceva l'idiota guidando in retromarcia..." disse alzandosi in piedi e slacciandosi l'apertura dei pantaloni; se li calò all'altezza della coscia e mostrò a Chiara una piccola cicatrice da i bordi frastagliati.
Era scura, corta una profonda.
"Sono caduta su un coccio di vetro: un fondo di bottiglia rotto. Per fortuna che non c'ho sbattuto la testa!"
In quel momento, non appena Astrid si fu sistemata nuovamente i pantaloni, qualcuno bussò alla porta.
Che aveva bussato, non si prese la briga di aspettare una risposta che lo invitasse ad entrare: fece la sua comparsa un ragazzo con la maglietta di un concerto troppo grande per lui e un paio di chiavi nella mano destra.
"Allora, ti ci vedo portare in macchina o no, a questo pub?"
Astrid gli sorrise radiosamente.
"Oh, Chiara, questo è mio fratello Lev!"
Il giovane non perse molto tempo a presentarsi; alzò una mano in segno di saluto e fece nuovamente tintinnare le chiavi, prima di prendere a grattarsi il pizzetto come per sottolineare il fatto che potesse avere molto di meglio da fare.
"Dai, sbrigati." aggiunse poi, sparendo nella propria camera da letto.
Astrid si girò, mentre si infilava una stretta giacca di jeans.
"Allora, come ti sembra?"
Chiara si sistemò lo zaino su una spalla e tentennò il capo: sinceramente le sembrava fuori luogo fare un commento di qualunque genere, ma probabilmente era a causa del fatto che non aveva niente da dire.
Fece una pausa, notando che Astrid aspettava il suo responso con l'acquolina alla gola.
"Beh, speriamo non guidi in retromarcia!"

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


~~L'ingresso del pub risentiva parecchio dell'umidità del vecchio edificio ristrutturato; le piccole increspature della parete sembravano regalargli uno strano effetto decadente, quasi fosse voluto indice di una ricercata tendenza di design.
Sulle scale c'era un gruppo di giovani: chi si lamentava, roteando sul dito le chiavi di una macchina, di aver trovato pochissimo parcheggio e chi coccolava una fidanzata affettuosa permettendole di sedersi sulle proprie ginocchia.
Astrid si fece strada in mezzo a loro con un leggero spintone, scusandosi per la sua irruenza e sfoderando un sorriso. Chiara senti l'aria di fumo pesante, cosa che normalmente non sarebbe stata un problema, ma in quella circostanza le sembrò di soffocare e, quando oltrepassò l'ingresso, si sforzò di cercare con lo sguardo il tavolo dei loro compagni di classe.
Astrid li trovò per prima; si erano sistemati ad una tavola rotonda all'angolo e qualcuno di loro aveva ordinato un drink colorato che sorseggiava tranquillamente con una cannuccia.
Kyle fu il primo a rispondere al loro saluto: indossava una maglietta fintamente sbiadita, con un logo stampato sul petto, e un paio di jeans scuri con una catenella legata al passante della cintura.
"Ci avete messo un po'..." commento Max, mentre giocava con la propria immagine riflessa in uno specchio che abbelliva la parete.
"Lev ha trovato la patente nelle patatine!" commentò Astrid, facendo uno strano sorriso che Chiara non riuscì a cogliere.
Emma portava un paio di pantaloni troppo grandi per lei, infatti continuava ad alzarsi leggermente dalla sedia e a tirarli su, e quando Chiara le sedette accanto le allungò la carta del menu invitandola ad ordinare qualcosa da bere o da mangiare.
"Io ho assaggiato un panino: li fanno buoni!" aggiunse.
"Penso che prenderò un drink."
La serata trascorse piacevolmente; quello non era il genere di pub in cui i baristi iniziavano ad alzare gli occhi al cielo, con aria scocciata, se rimanevi troppo tempo seduto al tavolo, oppure se usufruivi troppo spesso del buffet.
Kyle aveva preso a fare degli strani giochetti piegando un tovagliolo, mentre Max l'aveva intrattenuta per una buona mezz'ora parlandole del campionato e del nuovo colore delle divise della squadra che, a quanto pareva, avevano destato il disappunto di tutti i giocatori perché ritenute troppo effeminate.
Chiara, ad un tratto, portò istintivamente la mano alla tasca ed estrasse il cellulare.
Il cuore le esplose nel petto quando notò che, su quello schermo, immobile da qualche minuto, era comparso un messaggio non letto.
"Luca!" esclamò nella sua testa, ma non disse nulla.
Si sporse dalla sedia su cui era seduta e con un gesto ampio della mano, quasi per scusarsi per doversi assentare qualche minuto, si alzò.
"Dove vai?" domandò Astrid, aprendo leggermente la bocca in una smorfia.
Chiara, per tutta risposta, si voltò mentre si dirigeva verso la porta e fece tintinnare allegramente il telefono nella propria mano.
"Un minuto!"
Si fece strada tra i ragazzi all'uscita e, quando arrivò alle scalette dell'ingresso, si sedette brandendo il cellulare tra le mani con una strana fitta allo stomaco.
Il messaggio in attesa di essere letto era effettivamente di Luca e se ne stava lì, in tutta la sua semplicità, a provocare una grande angoscia; Chiara pensò che quella sua reazione emotiva non fosse propriamente sana, tuttavia si apprestò a selezionarlo con la tastiera per aprirne il contenuto.
"Chiamami." lesse ad alta voce.
Poteva voler dire qualunque cosa: una buona notizia o una cattiva notizia.
E il mal di stomaco peggiorò.
Distrattamente si alzò in piedi e cominciò a comporre il numero di Luca, che ormai sapeva a memoria anche senza bisogno di consultare la rubrica.
"Pronto!" esclamò la voce metallica al di là del ricevitore.
"Dimmi." disse Chiara, rendendosi conto di non aver nemmeno avuto l'accortezza di salutare il suo ragazzo per nome, dopo tanto tempo che si erano negati al telefono.
La sensazione di malessere era troppa per perdere tempo in stupidi convenevoli.
Luca esitò, dall'altro capo, facendo una lunga pausa gravosa.
"Come stai?"
Chiara non seppe che cosa rispondere: forse sarebbe stato meglio dire che stava male, che Luca le mancava e che non vedeva l'ora di tornare a Rilke per stringerlo di nuovo tra le sue braccia; oppure avrebbe dovuto dire semplicemente la verità, aggiungendo con noncuranza che si trovava ad un pub con alcuni compagni di scuola.
Nel dubbio non disse nulla.
"E' da molto che non ci sentiamo."
"Lo so: avevo da fare." commentò lui, inserendo un'altra delle sue pause.
"Senti, ho pensato che sarebbe stato giusto chiamarti per dirti che sto uscendo con una."
Chiara smise di camminare a vuoto davanti all'ingresso del pub: i suoi pensieri andavano ad un telefono che era rimasto abbandonato in borsa per tutti quei giorni, aspettando una telefonata speranzosa; poi si focalizzò irrimediabilmente sul dubbio che aveva istigato Astrid.
"Secondo te sta con qualcun altra?"
La odiò.
La odiò con tutto il cuore, quella strega malefica che se ne stava felicemente seduta sulle cosce del proprio fidanzato a ridacchiare.
Senza farci caso Chiara cominciò a camminare velocemente, spingendosi oltre il parcheggio e animata da un senso di disgusto nei confronti di ogni cosa: verso Nathaniel per averla costretta a trasferirsi, verso i suoi compagni di classe per aver cercato di farle abbracciare quell'apparente felicità illusoria e verso sè stessa per non aver capito nulla.
L'odio dilagò contaminando tutti.
Tutti tranne Luca.
"Chiara, sei ancora lì?" gracchiò poi quella voce metallica oltre il ricevitore, ma sembrò che ad emetterla si trattasse di un estraneo.
"Sì, sono quì."
Tutto l'ambiente circostante iniziò a sembrare piccolo e soffocante, nonostante Chiara si fosse spinta fino dell'uscita del parcheggio.
"Hai capito cosa ti ho detto?" domandò ancora la voce.
Forse era solo questione di aspettare.
Forse la stanza era di nuovo tornata nell'oscurità e nessun tentativo convulso di accendere quella luce sembrava funzionare.
Chiara si domandò se la lampadina si fosse fulminata per sempre e una lacrima le regò il volto.
"Sì, ho capito. Va bene."
Perchè l'aveva detto?
Non lo pensava affatto, non andavano affatto bene! Ma certo, la distanza era difficile e Luca si meritava di avere qualcuno a fianco che gli dimostrasse il proprio affetto.
Era giusto così.
La pausa, quella volta, sembrò così lunga ed estenuante che Chiara provò l'istinto di lanciare il telefono oltre il bordo della superstrada, dove le macchine correvano veloci davanti ai suoi occhi, e lasciare che lì trovasse la sua morte.
Poi Luca parlò di nuovo.
"Va bene." disse.
"Allora, beh... buona fortuna."
Ci fu una nota di esitazione in quel tono, come se gli dispiacesse sinceramente e quella telefonata fosse stata dura perfino per lui: Chiara non si domandò se la fosse immaginata, ma sperò con tutto il cuore che fosse così.
La comunicazione cadde e la luce sullo schermo del cellulare si spense immediatamente.
Equilibrio.
Fu quella la prima parola che balenò nella mente di Chiara: si sentiva come un equilibrista su una corda, sospesa tra una realtà che non voleva accettare e un mondo di illusioni che non le dava alcuna soddisfazione.
Cercò di riprendersi, di farsi forza con il pensiero, ma venne colpita da una sferzata gelida assestata da un'automobile che sfrecciava poco distante.
La superstrada era poco illuminata e, di tanto in tanto, qualcuno passava sulla propria vettura, illuminando brevemente l'imboccatura del parcheggio e il tratto di alberi adiacente.
Chiara pensò di non voler sprecare altro tempo a fingere di trovare interessante la conversazione di Max o a ringraziare Astrid per averla agghindata con quattro dei suoi stracci.
Controllò l'orologio sul display del telefono: era meglio andarsene immediatamente, senza aspettare l'umiliazione di dover essere riaccompagnata a casa da un ragazzo non suo, fratello di chissà chi, mentre Astrid si sarebbe trattenuta fino a tarda notte assieme a Kyle.
Poteva già sentire il sapore dell'umiliazione del giorno successivo; quando quella pettegola si sarebbe avvicinata domandando se il fratello aveva avuto l'ardire o, nella sua ottica, la cortesia, di allungare le mani.
"Voglio andare a casa." sussurrò Chiara, cominciando a camminare a passo svelto costeggiando il bordo della superstrada.
"Adesso."

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


~~Chiara cercò di concentrarsi sul percorso della superstrada che si snodava sinuosa nel buio della notte. Mentre ne calpestava il margine con gli occhi chini a terra ne osservava l'aspetto tortuoso, coprendosi il viso quando passava un'automobile e la illuminava leggermente coi fari, per la paura che si fermasse qualcuno credendola una prostituta o un'autostoppista di passaggio.
Non gli avrebbe mostrato il proprio volto, a costo di farlo annegare nel cappuccio a dispetto di quel mondo cattivo e delirante che le sarebbe scivolato accanto, ignorandola con disgusto.
Sarebbe bastato arrivare alla piccola zona boschiva che costeggiava la città e lì avrebbe cercato una strada che conosceva, con una fermata dell'autobus che l'avrebbe riportata a casa, dove si sarebbe preoccupata di mandare un messaggio ad Astrid.
Chiara riprese tra la mani il telefono ormai scarico, chiedendosi da quanto tempo stesse camminando.
I suoi piedi raspavano il silenzio mentre cercava di concentrarsi sil ritmo regolare che producevano quei passi, quasi fosse una certezza per non perdersi in quella zona di periferia in cui un vecchio mostro di cemento era stato trasformato in un pub sfavillante in mezzo alla landa punteggiata solo da qualche albero solitario e malato.
Si sentì a disagio percependo addosso il peso di quegli indumenti che non le appartenevano e istintivamente alzò lo sguardo, alla ricerca di una familiare macchia di alberi.
Chiara non aveva mai avuto un grande senso dell'orientamento ma Lev, quando le aveva accompagnate al locale, doveva essere arrivato proprio da quella direzione.
Era così vero?
Ci avevano anche messo poco, ma perchè allora la boscaglia sembrava così lontana?
Chiara guardò di nuovo in direzione della superstrada, da cui si era leggermente allontata, preferendo costeggiarla con più distacco, mentre le luci di un'auto si rincorsero velocemente sulla superficie dell'asfalto.
Era una macchina sportiva, con un bel rombo possente; tuttavia Chiara era talmente assorta nei suoi pensieri che non la udì.
Quella era la strada sbagliata, non c'era alcun dubbio: all'andata non avevano incontrato nessuna campagna spoglia che interrompesse per così a lungo il panorama di edifici industriali e brevi sprazzi di verde!
Il panico prese il sopravvento e Chiara cominciò a voltare lo sguardo alle proprie spalle, nella speranza di intravedere ancora le luci del locale.
Anche la superstrada sembrava essere stata inghiotitta dall'oscurità e di quei bagliori di civiltà lontana non c'era ormai più traccia.
Si sentì una stupida, un'ingenua.
Una bambina capricciosa che finisce dei pasticci.
Una lacrima le rigò il volto e le diede la conferma che l'unica cosa giusta sarebbe stata quella di aspettare che un'altra macchina passasse di lì restituendole un po' di luce e forse anche un po' di speranza.
Rimase immobile per un momento interminabile, in bilico sul tempo, finchè i suoi occhi non si abituarono all'oscurà e ai sibili dei vento.
Tra quei soffi insistenti, ad un tratto ve ne fu uno più forte e più stridulo degli altri che fece trasalire Chiara con i suoi sensi ciechi.
Dicono che quando non si abbia possibilità di utilizzare la vista, l'udito si affini diventando più sottile e potente.
Fu strano; Chiara ebbe l'esatta percezione di poter identificare da dove provenisse quel rumore.
Pochi istanti dopo quel sibilo ricomparve più lungo e persistente e la giovane non potè fare a meno di spostare leggermente il capo in quella direzione.
Un brivido gelido percosse il suo corpo: là, ad  un distanza che Chiara non riuscì ad identificare con precisione, era comparsa una piccola luce intermittente!

Aveva mosso i primi passi nella convinzione che quel bagliore appartenesse alla finestra di una casa, ma con il passare dell'avanzare incerto le luci erano aumentate.
Dovevano essere circa una decina, alcune si spegnevano ad intermittenza simili a delle torce, mentre altre erano fisse in un punto o disegnavano strani percorsi nell'oscurità.
Ad un tratto il ginocchio di Chiara urtò qualcosa di duro.
"Merda!" esclamò massaggiandosi la parte dolorante.
Le sue mani corsero a tentoni contro la superfice che aveva accidentalmente urtato ed osservò, con grande sorpresa, che si trattava di qualcosa di... enorme.
Un enorme blocco di cemento, più alto di lei.
Ne percose la superficie con la mano, costatando che si trattava di un muro che, dopo diversi metri, si piegava ad angolo per proseguire chissà per quale estensione.
"Un edificio?" si domandò incredula.
Impossibile che fosse già arrivata alla città ed ancora più pimpossibile che non avesse visto un edificio illuminato dai fari delle macchine.
I piccoli e luminosi fasci di luce ora erano ancora lontano, ma non avevano più affatto l'aspetto di piccole finestre...
Qualcuno stava avanzando lentamente, cercando qualcosa nel buio.
I pensieri atterriti di Chiara vennero sorpresi dal rombo di un tuono e il sibilo, quasta volta più vicino, le sferzò nuovamente le orecchie prima di essere coperto da quel suono assordante.
Si sarebbe messo a piovere e l'idea di dover incappare in chiccà quale fanatico armato di torcia sembrava un'idea ancora peggiore di quella di tornare sulla superstrada e chiedere un passaggio ad un camionista.
Edifici che compaiono e... no! No! Ne aveva abbastanza!
Chiara fece per indietreggiare, quando dalla sua bocca uscì un grido pier ciò che comparve davanti ai suoi occhi illuminato dalla luce di un lampo.

Era ritorto su se stesso contro il pavimento di cemento, accasciato a terra.
Rantolava debolmente, cercando di muovere il collo nella direzione della ragazza, forse perché aveva sentito l'avanzare del passo di qualcuno.
Era immobile in uno città di granito apparsa per un istante agli occhi di Chiara: un labirinto grigio la cui unica macchia di colore che era apparsa era la pozza di sangue in cui era riverso quel giovane, sotto una specie di matello nero.
Aveva i capelli bagnati, forse madidi di sudore e incrostati dal fango: si copriva il viso con le mani e Chiara poteva solo udirne i gemiti, in una smorfia di sgomento.
Forse un incidente, un furto, un pestaggio di qualche tipo!
Il cervello della ragazza cercava di razionalizzare mentre il buio l'aveva di nuovo relegata nell'insicurezza.
Il giovane cercava di rialzarsi, di reggersi sul fianco,  facendo appoggio sul palmo della propria mano, senza successo.
"Oddio!" esclamò Chiara.
Lo aveva imparato una volta che aveva aperto il manuale di scuola guida di sua madre: quando c'è un ferito della strada non bisogna mai spostarlo per evitare di causare dei danni peggiori di quelli che potrebbe aver già provocato l'incidente.
Ma quello era davvero un ferito della strada?
E la strada da dove diavolo era saltata fuori?
Quella realtà la strappò violentemente dai suoi pensieri e dalle sue rabbie: il giovane stava cercando di parlare, di comunicare qualcosa mentre cercava di rialzarsi.
"Aspetta, vado a chiamare qualcuno!" strillo Chira cominciando a correre in direzione della superstrada.
"No!" rantolò quello, in una specie di sibilo impercettibile.
Un nuovo lampo illumiò quel vicolo angosciante e il giovane si guardò intorno come se fosse spaventato dalla presenza di qualcosa.
"A... Aiutami.." disse poi, prima che tornasse l'oscurità.
Chiara sentì il cuore esploderle nel petto e la sua mente cominciò martellare per pensare al da farsi.
"Ho paura." sussurrò quello, senza che la giovane potesse vederlo.
La città era cresciuta troppo in fretta perchè quelle piccole luci sparpagliate potessero ancora essere visibili; per caso erano quelle a spaventare così tanto quel ragazzo ferito?
Chiara esitò.
"Non ti lascio morire quì." disse poi avvicinandosi.
"Coraggio alzati. Dove sei ferito?"
Cercò di sorreggerlo per quanto il proprio corpo potè ma, vedendo di non riuscire a sollevarlo, cercò di slacciare il pesante mantello del giovane.
Quando la stoffa barocca cadde a terra, Chiara gli dide un colpetto sulla spalla.
"Ecco fatto."
La pioggia iniziò cadere sulle loro teste ed un ultimo lampo crudele ferì di nuovo il buio.
Chiara emise un grido.
Gli occhi del giovane erano bianchi e grondanti di sangue: chiunque fosse stato fargli del male in quel modo, lo aveva reso completamente cieco.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


~~Chiara tese i muscoli, prese fiato ed aspirò con forza: non aveva mai soccorso un ferito, tuttavia sentiva di non avere scelta.
Non appena si fu caricata quel corpo inerte sulle spalle si rese conto che era incredibilmente leggero, quasi fossi inconsistente al tatto.
La pioggia continuava a ricadere incessante su di loro, incurante del mondo e delle paure che ricopriva con la sua coltre sudicia.
Il mantello nero era rimasto indietro, abbandonato sull'asfalto pochi passi più indietro, quasi fosse uno scomodo cadavere di cui doversi liberare.
Chiara cercò di guardarsi intorno, nello sforzo di orientarsi: quell'opprimente prigione di granito pareva essere cresciuta attorno a lei ed essersi plasmata con la forma di un orrido formicaio grigio senza uscita.
Ci fu un sibilo.
Chiara espirò di nuovo, voltando leggermente il capo.
Quando si voltò, vide una strana luce giallastra sul fondo di un vicolo buio, comparsa dal nulla.
Sin dall'infanzia, le avevano sempre insegnato che bisognava fuggire di fronte al pericolo e, anche se di fatto quella era una palla luminosa che fluttuava ad un metro dal terreno, non poté fare a meno di sentirsi minacciata.
Rimasero ad osservarsi per un lungo istante in cui la sfera emise un nuovo sibilo più lungo e soffocato, quasi il suono di un antico flauto.
Sembrava osservarli con un paio di occhi invisibili.
Poi scattò.
"No!" strillò Chiara, quando quella creatura cominciò ad avanzare verso di loro, tutt'altro che intenzionata a fermarsi.
Fu un'aggressione solitaria, forse l'unico modo che quella sfera luminosa aveva di attaccarli, ma in un attimo gli fu addosso aderendo con ferocia alla testa ricurva del giovane.
"Non ti avvicinare!"
Chiara agì d'istinto. Con un secco movimento laterale colpì con violenza il muro di granito alle sue spalle, cercando di allontanare l'aggressore o per lo meno di proteggere entrambi.
La palla luminosa sembrò non subire alcun danneggiamento, ma si limitò ad indietreggiare leggermente per poi continuare con ferocia a colpire il giovane ormai esanime sulle spalle di Chiara.
In pochi secondi la ragazza capì che quell'affare non si sarebbe dato per vinto tanto presto: non lo avrebbero fermato la pioggia battente, il rombo dei tuoni o i colpi contro il muro.
Il fatto che il suo corpo fosse costituito semplicemente da una luce inconsistente lo rendeva piuttosto invulnerabile ed evidentemente era troppo tardi per perdere tempo a riflettere sul da farsi.
Chiara cominciò a correre senza meta nel labirinto.
L'oscurità era rotta soltanto dalla luminescenza di quell'animale che sembrava intenzionato ad assorbire dal ragazzo ogni più piccola fonte di energia vitale.
Non sentiva la stanchezza: correva, correva dietro di loro, come se lo inseguisse il demonio, ad una velocità così elevata che Chiara, di tanto in tanto, aveva perfino la percezione che li avesse superati.
Doveva esserci un'uscita da quell'inferno grigio.
Doveva esserci e basta!
Correre sembrava l'unica risposta, anche se l'impressione di Chiara era quella che le pareti del labirinto di facessero sempre più spesse e che i varchi tra un muro e l'altro di facessero sempre più piccoli o cambiassero di posizione.
Ad un tratto la palla luminosa cominciò a stridere, come se stesse piangendo o intonando un canto di morte.
Sembrò rallentare e la luce si fece d'improvviso più fioca.
Fu solo per un istante, un bagliore di speranza che si accese negli occhi di Chiara come se quell'arresto fosse sinonimo di salvezza.
Si sbagliava.
La luce ricomparve innanzi ai suoi occhi.
Accanto a lei.
Sopra di lei.
Da ogni angolo.
Il panico fu subito palpabile, a tal punto che anche Chiara smise di correre: attorno a lei erano comparse una dozzina di palle luminose di colore ed intensità diversa che la osservavano fluttuando.

Come ci si arrendeva davanti ad un nemico del genere?
Sarebbe bastato che si accasciasse, lasciando che il corpo stregato di quel ragazzo leggero come l'aria scivolasse nel fango e venisse dilaniato da quegli affari?
Erano esseri coscienti o animali?
Se avesse cercato di comunicare, avrebbero compreso la sua lingua?
Chiara sapeva di poter soltanto immaginare una risposta a quelle domande che subissarono i suoi pensieri all'eco del quesito più importante: le sfere luminose erano intenzionate a farle del male?
Una di loro sibilò ed arretrò lievemente, come per mettersi sulla difensiva in caso di un attacco, e le altre la imitarono provocando un ronzio incessante.
Il giovane ferito non aveva dato segni di vita da quando Chiara se lo era caricato sulle spalle e la speranza che fosse ancora vivo si faceva sempre più fioca.
Stava diventando pesante, come se tutto il peso della morte fosse ricaduto sul suo corpo esanime.
Chiara non ce la faceva quasi più a sostenerlo, anche se la paura di abbandonarlo al suolo era più forte del dolore che provava sulla propria schiena.
Serrò i denti, ma fu inutile.
Il giovane scivolò dalle sue spalle come un peso morto. Il viso rivolto verso il cielo e madido di acqua piovana che gli colava fin dentro la bocca semiaperta.
La più grande delle sfere, quella gialla che li aveva inseguiti, fu la prima ad avvicinarsi.
Avanzò come un animale bramoso di sbranare una carcassa a brano a brano, quasi Chiara potesse percepirne la febbrile eccitazione di lei e delle compagne.
In un attimo gli furono addosso come avvoltoi e il ragazzo, forse in uno spazzo di ultima lucidità che lo aggrappava alla vita, aprì di scatto i suoi occhi bianchi ed emise uno strano grido.
Fu un'invocazione.
Un segnale raggelante simile al suono gutturale di un corno. Le sfere si immobilizzarono, quasi immobili ad attendere che accadesse qualcosa sotto gli occhi di Chiara che, per la paura, si era accasciata contro il muro di cemento grigio e spaventoso.
In quel piccolo, breve istante in cui calò il silenzio sembrò che perfino il tempo si fosse fermato, che la pioggia battesse più lentamente e perfino che il buio dell'oscurità che contrastava quei piccoli corpi luminosi fosse più fioco.
E poi arrivarono.
Chiara non avrebbe nemmeno trovato le parole per descriverli in seguito: seppe solo che delle nuove creature incredibili erano passate di lì, terrorizzando le sfere luminescenti.
In pochi attimi quelle fameliche torce crudeli avevano preso ad arretrare e a sparpagliarsi: alcune avevano indietreggiato o avevano preso a muoversi convulsamente, quasi fossero impazzite, mentre alcune di loro si erano addirittura spente.
Era passato un suono.
Sì, passato esattamente come avrebbe potuto passare un veicolo e sfrecciare innanzi ai loro occhi: Chiara lo avrebbe ricordato così.
Una grande sagoma nera dalla forma di uccello, o forse di un'onda o un serpente strisciante.
Une tenebra nebbiosa era sfrecciata lungo le orribili pareti di granito portando con sè un rumore di vento, di risacca, come se fosse in grado di uccidere il trascorrere del tempo, causando quello scompiglio.
Chiara lo avrebbe ricordato come un buio, a paragone del quale l'oscurità è luce, e non basta un nome per definirne l'abisso.
Ebbe la percezione che non fosse il solo, come se attorno a lei, su ogni parete grigia, si fosse proiettata una di quelle bestie giunte in aiuto di quel giovane morente di cui non sapeva nulla se non che era cieco.
Il rumore del loro strisciare per le pareti del labirinto si fece più incessante, quasi un ronzio.
Più forte.
Molto più forte.
Chiara chiuse gli occhi, quando ormai capì che l'unica sfera luminosa ad essere rimasta era quella più grande; l'ultimo sguardo che li lanciarono fu lungo ed intenso.
Anche se quella sfera non aveva occhi, Chiara sentì come se l'avesse guardata fin dentro l'anima.
Poi la luce svanì.
Le palpebre di chiusero.
Il ronzio fu sostituito da uno schianto assordante.
Muri caduti.
Chiara urlò con quanto più fiato aveva in gola, tremante e coprendosi la testa con entrambe le mani nel tentativo di proteggersi.
Rimase immobile mentre l'unica cosa a colpirla con violenza era la pioggia.
Riaprì gli occhi e la prima cosa che vide fu il corpo di quel giovane sconosciuto con gli occhi chiusi, riverso su un fianco con la bocca contratta in una smorfia di dolore.
"A...Aiutami." le sussurrò, esattamente come aveva fatto la prima volta in cui le aveva invocato aiuto.
L'unico rumore che Chiara potesse riuscire a percepire ora era il battito sconvolto del proprio cuore.
Attorno a lei, il labirinto era sparito.

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