Everybody's Got Something to Hide

di verystrange_pennylane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 1


 

Paul si guardò un’ultima volta allo specchio, mentre si stringeva il cravattino. I capelli non volevano saperne di stare a posto, quella mattina. Cercò di lisciarsi qualche ciocca ribelle, senza risultato, e alla fine, sospirando, si infilò il cappotto.
Uscendo, si lasciò scaldare dal tiepido sole, e si beò un po’ di quel clima così piacevole, pur essendo febbraio. Si mise a cavallo della sua bicicletta e, salutando con un cenno del capo i vicini di casa, si diresse verso il lavoro.
Affiancò la costa, lasciando che la brezza e il profumo del mare lo avvolgessero in pieno, accompagnandolo fino alla scuola dove lavorava. Una volta arrivato all’istituto, fece un rapido giro del cortile, prima di parcheggiare poco lontano dall’ingresso principale.
Adorava arrivare presto, così poteva camminare per i corridoi, sentire solo il rumore delle proprie scarpe nelle stanze vuote, essere il primo in sala professori e bersi un tè in tutta tranquillità.
Questa era la sua abitudine preferita, da quasi cinque anni, ovvero da quando era diventato professore di musica presso il liceo di Campbeltown. Certo, passare dalla grande e caotica Liverpool al piccolo paese della Scozia all’inizio era stato un po’ traumatico. Ma almeno, in quella penisola dimenticata da dio, il profumo di mare era lo stesso che si respirava nella sua città natia.
Stava per entrare nella sala professori quando due braccia lo avvolsero da dietro, stringendolo in un forte abbraccio.
“Buongiorno, amore!”
Paul si voltò, giusto per ricambiare la stretta e dare un leggero bacio sul naso di Linda, la sua meravigliosa fidanzata.
“Buongiorno, mio raggio di sole!” disse, sciogliendo velocemente l’abbraccio e mettendo dello spazio tra di loro, dopo aver sentito dei passi provenire dal corridoio. 
Linda sbuffò rumorosamente, ed entrò visibilmente scocciata in sala professori.
“Vediamo se da sposati ti farai meno paranoie, Paul!” disse infine, riempiendo il bollitore e appoggiandolo con un tonfo sul fornello.
“Lo sai come la penso, Linda…” gliel’aveva ripetuto mille volte, e ancora la donna non sembrava voler capire. Eppure, era così semplice: farsi vedere in atteggiamenti affettuosi lo imbarazzava tremendamente. Non voleva che nessuno li vedesse così intimi, soprattutto sul luogo di lavoro.
In un paese con poco più di quattromila anime le notizie giravano fin troppo in fretta.
In realtà, non solo tutti erano già consapevoli del loro fidanzamento ufficiale, ma si erano anche sentiti in dovere di criticare la ponderatezza di Paul nel fare la proposta.
Va bene, era un uomo sopra i trenta, con un lavoro fisso e una casa propria, eppure aveva aspettato quasi tre anni per chiederle la mano. Ma insomma, che bisogno c’era di affrettarsi a sposarsi? Erano felici anche così!
Forse Linda un po’ meno, con tutte quelle allusioni continue sul matrimonio, ma lui non poteva certo lamentarsi!
Alla fine, in ogni caso, aveva ceduto e le aveva fatto la fatidica proposta.
Da allora i giorni erano volati, e solo una settimana li separava al sabato di San Valentino, il giorno in cui si sarebbero sposati.
Sospirò di nuovo, sorseggiando il suo tè e leggendo il giornale locale.
La pace durò poco, per Paul, perché dopo pochi minuti arrivò il professor Mustard. Linda versò il tè anche a lui, e si mise a parlare fitto di un progetto che prevedeva delle lezioni in comune tra le sue di storia con quelle del signor Mustard, l’insegnante di letteratura inglese. La conversazione però fu subito interrotta dall’arrivo, rumoroso, del professor Kite, l’insegnante di educazione fisica.
“Allora, pronto per domani sera?” Gridò rivolto a Paul, piazzandogli una sonora pacca tra le scapole. Quasi gli andò di traverso l’ultimo sorso di tè. Non aveva mai tollerato i professori di ginnastica!
Dopo essersi ripreso dallo shock, Paul stava per scrollare le spalle e rispondere con superiorità che certo, lui era pronto da parecchio tempo per quella sera, quando l’ennesimo arrivo lo interruppe.
L’ingresso del professor Harrison, a braccetto con Lennon, gli fece passare del tutto il buonumore con cui si era svegliato quella mattina.
Dio, quanto li odiava. Entrati loro in quella sala, nessuno riusciva più a fare un discorso serio, perché tutta l’attenzione era concentrata sui due pagliacci, che non facevano altro che prendere in giro gli alunni e i colleghi. Erano così poco professionali, così rumorosi, così… così fastidiosi.
In realtà George, l’insegnante di religione, era arrivato qualche mese prima di Paul, ed era stato un suo grandissimo amico per i primi tempi. Era stato prezioso avere un collega così zen, con cui trovarsi a sorseggiare tisane e a parlare del cosmo. Poi, era arrivato quel Lennon a sostituire la povera professoressa Skelter, e George era diventato tutto pappa e ciccia con lui, dimenticandosi di Paul.
“Cosa succede domani?” chiese ridendo John, lanciando lontano la giacca militare e colpendo la povera insegnante di matematica, la ‘zitella Rigby’, come la chiamavano gli alunni.
Ma quando era arrivata la povera Eleanor?
Paul scrollò le spalle, e provò a concentrarsi sulla domanda che gli aveva posto il professore di arte.
“Domani sera, Lennon, c’è la premiazione dei Bafta.” Disse, arricciando le labbra, e voltandogli le spalle, provocando in John una risata sonora.
Linda si avvicinò a Paul, e cominciò ad accarezzargli la schiena. Vedeva che effetto faceva quel professore sul suo fidanzato, e non riusciva a trattenersi dall’intervenire. Così, fu lei a rispondere al collega stavolta. 
“Devi sapere che tra i candidati al premio di migliore attore protagonista, c’è uno dei migliori amici di Paul dai tempi di Liverpool: Ringo Starr!”
John spalancò la bocca con fare teatrale, e finse uno svenimento, provocando la reazione divertita di George.
Gli altri professori dovevano aver già sentito troppe volte questa ‘straordinaria notizia’, perché alcuni sbadigliarono annoiati, mentre altri si limitarono ad ignorare quella conversazione. D’altronde, era venerdì mattina anche per loro.
Il signor Kite, facendo rimbalzare la palla da basket, scandì otto colpi, seguendo il ritmo dei rintocchi della chiesa poco lontana. Quello era il suo modo assurdo di dire che era ora di smetterla di chiacchierare, perché le lezioni stavano per cominciare.
Paul dunque salutò velocemente Linda, e si avviò verso l’aula di musica. Dopo solo pochi passi, fu affiancato da John, che andava nella sua stessa direzione.
“E così tu conosci il grande Ringo Starr?” disse, infilandosi gli occhiali tondi che tanto piacevano alle ragazzine.
“Sì, siamo cresciuti assieme, a Liverpool.” Lui e Ringo erano stati migliori amici per parecchio tempo, poi le strade si erano divise, con l’arrivo dell’età adulta.
Da ragazzini si trovavano sulle stesse strade asfaltate grossolanamente, dove le buche ti sbucciavano le ginocchia e ti rovinavano i giocattoli.
Poi, erano cresciuti, e avevano scoperto entrambi una grande passione per la musica, seppure per strumenti diversi. Era bello trovarsi al Cavern nei fine settimana, a fingere di essere rivali, per poi farsi i complimenti dietro le quinte.
Ma Paul aveva sempre saputo qual era la vera passione di Ringo: la recitazione. Ed era stato uno dei pochi a sostenerlo, sin dagli inizi, quando gli altri componenti della sua band lo prendevano in giro, o quando i suoi genitori gli dicevano che non sarebbe mai andato da nessuna parte, con quello stupido hobby.
Poi, un giorno, quando Paul frequentava l’università, Ringo era scomparso, e nessuno l’aveva più visto. Dopo qualche settimana arrivarono le prime notizie: era partito per studiare recitazione e per coronare il suo sogno. La notizia l’aveva reso molto fiero, ed esprimeva la sua stima di continuo, nelle diverse lettere che si scrivevano.
Poi gli esami, le prime fidanzate, le diverse amicizie li avevano allontanati ancora di più, le cartoline si erano fatte sempre più scarse, finché erano diventate nulle.
Chiaramente Paul si era sempre tenuto informato a riguardo. Aveva gioito dei primi contratti cinematografici ottenuti dall’amico. E, con grande stupore, qualche mese prima, aveva letto di come finalmente apparisse il nome di Ringo Starr tra i protagonisti di un film, a fianco di attori di fama internazionale. Aveva sperato di poterlo ammirare sul grande schermo, nel cinema di Campbeltown, ma niente, quella microscopica sala aveva in programma dall’89 lo stesso film: Dirty dancing.
Non che a Paul non piacesse, è che ormai poteva recitare le battute a memoria. E non solo quelle di Patrick Swayze.
In ogni caso, qualche settimana prima, gli era stato recapitato a casa un biglietto con uno strano e inquietante disegno fatto a mano, e recitava: “Sabato 7 febbraio, sintonizzati sulla BBC1, alla premiazione dei Bafta. Grazie, mio amico, e buona vita. Peace and love, Richie.”
Così, finalmente la carriera di Ringo aveva preso il volo. Ora era ricco, famoso e candidato ai Bafta, il premio più rinomato del Regno Unito.
E per Paul fu come se una parte di quella statuetta spettasse a lui. Si sentiva così fiero, e non perdeva occasione per ripeterlo a chiunque.
“Beh, buona lezione, Macca!”
Ad interrompere il flusso dei suoi ricordi fu una sonora pacca sulla spalla da parte di John. Anche se con la sua testa era lontano miglia e miglia, il suo corpo era a scuola, e doveva lavorare, stupido di un McCartney!
Era arrivato davanti all’aula di arte senza nemmeno accorgersene, dunque aveva superato di qualche metro la sua di musica.
Il professor Lennon se n’era accorto e ne avrebbe approfittato per prenderlo in giro, ne era certo. Arrossendo, tornò indietro, borbottando un saluto non molto carino verso John.
Sarebbero state delle giornate lunghe.

E invece sabato sera arrivò velocemente e senza troppi intoppi.
Anche gli studenti erano venuti a conoscenza del fatto che Paul fosse stato un grande amico di Ringo, e ne approfittarono per sviare l’attenzione del professore dalla lezione. Era qualche giorno che lo riempivano di domande; all’improvviso tutti sembravano estremamente interessati al mondo della recitazione.
Paul cercò di non dar corda a quelle interruzioni, ma la verità era che era moriva dalla voglia di parlare di quell’argomento.
“Solo un paio, ragazzi.” Diceva, mentre poi non faceva altro che raccontare di quando lui e Ringo erano bambini.
Il sabato invece fu dedicato al viaggio con Linda verso Glasgow, per la prova definitiva degli abiti da sposi.
La tradizione prevedeva che il futuro marito non vedesse l’abito bianco della moglie se non il giorno delle nozze, ma Linda aveva insistito tanto affinché Paul fosse presente per consigliarla. E, inoltre, un viaggio di mezza giornata solo per raggiungere Glasgow metteva alla prova i nervi di chiunque e le tradizioni più antiche.
Dunque, quando finalmente il sabato sera arrivò, per Paul trovare la forza di stare sveglio davanti alla televisione, fu un’ardua impresa.
Fortunatamente Linda aveva deciso di fargli compagnia, e si abbuffarono di patatine finché non finì il noiosissimo programma di antiquariato che precedeva la prima serata della BBC.
La parte più divertente per loro fu chiaramente quando l’annunciatrice arrivò e comunicò che sarebbe cominciato il red carpet.
Paul si sistemò meglio sul divano, di modo da vedere senza disturbi gli abiti delle star presenti.
Quando finalmente arrivò il turno di Ringo, prese una grossa manciata di popcorn e li lanciò contro lo schermo, facendo ridere a crepapelle Linda.
“Come diavolo ti sei vestito, Richie? Gli anni ’60 sono finiti da un pezzo!”
Ringo non aveva mai avuto buongusto nel vestiario, e questo era uno dei suoi punti di forza: era sicuramente una delle persone più originali e stravaganti di tutta Liverpool. E non solo non si vergognava minimamente del proprio look, ma ne faceva un vanto.
Ad essere onesti, questa era una cosa che Paul gli aveva sempre invidiato molto. Lui che passava troppo tempo a specchiarsi, a contare i brufoli da ragazzino, e i primissimi capelli grigi ora, per poter piacere agli altri.
“Riesco a distinguere almeno sei colori diversi, e sono ferma solo alla giacca!” commentò Linda ridendo sguaiatamente, distraendo così Paul dalle sue riflessioni.
Il red carpet durò altri dieci minuti, e videro come orde di ragazzine acclamassero a gran voce “Starr”, con tanto di striscioni e cartelli fatti in casa. Era un sogno che diventava realtà, e poteva notare come gli occhi del suo amico fossero visibilmente lucidi, anche se nascosti sotto degli stravaganti occhiali da sole.
Finalmente, dopo una lunghissima pubblicità, i candidati presero posto, ciascuno al proprio tavolo, e l’orchestra suonò la sigla ufficiale dell’evento.
Si cominciò con le premiazioni secondarie, ma dopo poco più di un’ora, lo spettacolo raggiunse il clou: miglior attore maschile e femminile.
La presentatrice, una nota soubrette americana, fece l’elenco dei candidati al Bafta 2014. Sentire il nome di Ringo tra i giganti della cinematografia inglese provocò una scarica di adrenalina che percorse la schiena di Paul, facendolo svegliare all’improvviso.
Come ogni anno, il candidato al premio si vedeva presentato dopo un sunto del film in cui era protagonista. Quando arrivò quello di Ringo, Paul e Linda si zittirono all’improvviso, smettendo persino di bere e mangiare, pur di non disturbare la descrizione.
“Ringo Starr interpreta Hugh, un impavido ufficiale di marina, nel film ‘In the navy’. Hugh salva da un uragano il suo migliore amico, nonché sottoposto, Pete. Nonostante perda le gambe per portarlo al sicuro, Hugh continua a servire la marina inglese. E’ stato fornito di una bellissima carrozzina gialla, a forma di sottomarino, che gli permette di muoversi all’interno delle navi su cui lavora.
Purtroppo però, un giorno, nella sua cabina, uno dei suoi superiori trova la collezione di Dvd di “Mister universo” e di “Mister maglietta bagnata”, con tanto di contenuti extra e scene tagliate.
Hugh è così costretto a finire in tribunale, dove deve negare di aver portato sul lavoro quel materiale osceno. Ma, in preda alla paura di perdere i propri cofanetti, e per il timore che scoprano che quei ‘massaggiatori’ non servono per le spalle e per la schiena, decide di rinunciare al proprio ruolo di ufficiale.
Straziante e commuovente il finale: Hugh si trova con la carrozzina fuori dal tribunale, stringendo i propri averi forte a sé, e vede arrivare il sottoposto che ha salvato, vestito da marinaio.
Si scopre così che Pete ha lasciato a sua volta l’esercito per diventare spogliarellista in un night club.
Mentre da lontano un violinista intona ‘Macho man’, i due decidono di inseguire il loro gaio futuro insieme, mano nella mano.
Finché “Mister Universo” non li separi.”
L’annunciatrice dovette prendersi un momento di pausa per asciugarsi la lacrima di commozione che le aveva rigato il viso, rovinandole il trucco.
Intanto, la sala si era alzata in piedi, applaudendo la straordinaria interpretazione di Ringo e dei suoi colleghi.
Una volta ripresasi, l’annunciatrice aprì la busta dorata che stringeva tra le mani, e, poggiandosi una mano sul cuore, annunciò a gran voce:
“Il vincitore come migliore attore di questi Bafta 2015 è… Ringo Starr!”
In un solo colpo, la sala si era alzata in una straordinaria standing ovation, e Paul e Linda si erano trovati in piedi, ad abbracciarsi e a festeggiare quella vittoria del loro amico.
Paul stava anche per stappare la bottiglia di champagne, quando la voce di Ringo lo interruppe. Dio, era da una vita che non sentiva la sua voce!
“Pace e amore a tutti quanti! Sono onorato di aver ricevuto questo premio. Vorrei ringraziare mia moglie Mo, il mio vecchio agente che ho licenziato cinque minuti fa, e il mio nuovo agente, che ho assunto tre minuti fa! Ma, il mio pensiero va a tutti i soldati e marinai gay che difendono il nostro paese, e che non possono ascoltare David Bowie mentre sono in servizio. Vergogna, Regina Elisabetta, agisca di conseguenza!” Ringo fece una breve pausa per aspettare che l’applauso, provocato dalla sua indignazione, scemasse.
“Grazie, grazie. Inoltre, vorrei esprimere tutta la mia riconoscenza verso un amico speciale, una persona straordinaria che ha creduto in me sin da quando ero alto così.” Disse, indicando pochi centimetri in meno della sua attuale altezza, “E’ stato il mio migliore amico per tutta l’adolescenza a Liverpool, e ora vive in un piccolo paese della penisola scozzese del Kintyre. A Paul McCartney, il miglior amico e insegnante che potessi avere.” e, brandendo il premio, fiero, concluse esclamando, “Ed è gay!”
Paul intanto non poteva negare di aver gonfiato il petto, all’inizio del discorso.
Era estremamente fiero, e Ringo gli stava pure per fare un ringraziamento del genere, in diretta sulla BBC1!
Poi, il finale. Quasi fece cadere la bottiglia di champagne dallo sgomento.
A Paul McCartney, il miglior amico e insegnante che potessi avere. Ed è gay!
Gay?! Ma cosa gli diceva il cervello?
In un solo colpo era passato da “quello che Ringo Starr aveva ringraziato davanti a milioni di telespettatori” a “il professore gay di Campbeltown”.
Si afflosciò sul divano, mentre Linda cercava di fargli aria con un fazzoletto.
“Cosa diavolo?” riuscì a dire, alla fine.
“Paul… di cosa stava parlando?”
“Non ne ho idea, Linda. Non ne ho idea.”
Un sonoro squillo del telefono li fece sussultare entrambi. Neanche il tempo di sollevare la cornetta, che un urlo lo fece impallidire.
“Cosa ci devi dire, Paul?” Riuscì a distinguere solo la voce di suo padre, quella di Mike, e di sua moglie. Poi, in sottofondo, individuò qualche altro parente lontano, ma riconoscerli era impossibile, dato che gli stavano parlando in coro.
C’era mezza Liverpool dentro quella cornetta.
“Non sono gay, santo cielo, calmatevi tutti!” gridò, e sbatté giù il telefono.   
Aveva bisogno di pensare. Pensare in modo lucido. Avrebbe potuto fargli causa, ma certo!
No, aspetta, Ringo aveva sicuramente molti più soldi di lui. Più soldi significavano avvocati migliori.
Non aveva voglia di perdere la casa e tutti i suoi averi, ora che si avvicinava il matrimonio.
Doveva venirgli un’altra idea.
Ma certo, ecco qual era il problema. Nel mondo dello spettacolo succedeva sempre, d’altronde.
Ringo si drogava! Per forza. Aveva preso qualche pasticca ed era strafatto.
Intanto, nel suo cammino frenetico su e giù per la stanza, Linda lo seguiva come un fedele cagnolino.
“E se fosse colpa di Scientology? O di una setta?” propose lei.
Paul annuì distrattamente, aprendo con un colpo la bottiglia di champagne e cominciando a svuotarla, bevendo a canna.
Cosa poteva fare? Ignorare? Agire di conseguenza? E se i genitori dei suoi alunni avessero visto quel programma, cosa avrebbero detto di lui? Certo, era il 2015 e ormai nessuno si scandalizzava più per un’omosessualità dichiarata, ma si parlava comunque di un paesino dell’alta Scozia con solo quattromila abitanti e nessun supermercato.
Dopo aver svuotato la seconda bottiglia di vino, cadde rovinosamente sul divano, e il tempo cominciò a scorrere in modo strano. Non riusciva più a capire cosa fosse il sogno e cosa la realtà.
I Bafta non erano reali, vero? Facevano parte della sbronza?
Sentì Linda dargli un piccolo bacio sulla fronte, coprirlo con una coperta e la vide andarsene, senza riuscire a metterla a fuoco.
Intanto, nella sua testa, Ringo era diventato un gigantesco mostro a tre teste, che urlava come un pazzo
“Gay, gay, gay,!” al ritmo di una canzone di Boy George.
Per fortuna, a portargli la pace, intervenne Gloria Gaynor:
“You will survive.” Sussurrò appena, e Paul si addormentò.









Angolo dell'autrice:

Era una notte gaia e tempestosa, alla televisione trasmettevano In&Out e Anya, in preda al delirio da "ultimo capitolo di Mr. Moonlight" e completamente ubriaca di tisane, si disse: ma se facessi un'altra AU ispirandomi a questo film? La gente capirebbe quanta poca fantasia ho e quanto sono noiosa a scopiazzare solo le idee altrui? Probabilmente sì, ma chissene, facciamolo lo stesso!
E così è stato. 
Più o meno è andata in questo modo, ma la verità è che mi sto divertendo davvero troppo a scrivere questa storia, quindi spero mi perdonerete!
Inoltre sarà una long molto poco long, perché avrà al massimo otto capitoli, quindi portate pazienza, a fine febbraio vi libererete di me.
Forse.
Ci tengo a dire che l'ultimo pezzo è stato scritto mentre bevevo un infuso discutibile, cantando "Very Gay, hip hurray!" (detto da Paul in questa canzone), quindi capirete bene quanto poco dobbiate prendere sul serio questa mia schifezza. 
Infine vi consiglio di vedere il film originario, magari anche solo l'inizio, così non vi spoilerate nulla, ma capirete meglio il perché di alcune scelte stilistiche. Anche se chiaramente, molte cose saranno diverse. Un esempio: nei film il discorso di ringraziamento è fatto dopo la vittoria di un Oscar, ma essendo ambientata in Inghilterra, ho preferito usare i Bafta, che per loro sono ugualmente importanti.
Se avete altre domande sui personaggi famosi o meno che appaiono nella storia, scrivetemi pure :3 Vi dico subito che la storia è ambientata a Campbeltown perché è il paese vicino alla fattoria in cui Paul ha vissuto con Linda dopo i Beatles!
Basta, non ho altro da dire. Al solito, un grazie di cuore a Kia85 che sta sopportando i miei deliri da fin troppo tempo e ancora non ha impulsi omicidi verso di me, e che ha betato questa.. cosa. 
Ci si legge mercoledì, con il secondo capitolo. Intanto, grazie di averla letta <3 
Anya.



 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 2



 
La domenica di Paul trascorse tra chiamate ignorate, parecchie chiamate ignorate, e una serie di tisane per riprendersi dal dopo sbronza.
Verso le sei, mentre sorseggiava l’ultima tazza di infuso al finocchio, provò a mettersi a correggere i compiti dei ragazzi, senza risultato. Concentrarsi era difficile, se non impossibile.
E pensare che aveva bellamente deciso di ignorare la televisione, perché sapeva che avrebbe beccato un servizio su Ringo, o sui Bafta, o su entrambi.
Dopo la cena dunque si era dedicato all’ascolto di qualche vinile, aveva strimpellato al pianoforte, e si era ritrovato a letto, sotto le coperte, incapace di chiudere occhio.
Il giorno dopo avrebbe dovuto affrontare il lavoro, i colleghi, i ragazzi.  Come avevano preso tutti la notizia?
Continuava a fissare il soffitto, alla ricerca di un sollievo dai suoi pensieri.
Alla fine si liberò con uno scatto delle coperte, si alzò in piedi, e si mise allo specchio, puntando il dito contro il suo riflesso.
“Parliamoci chiaro,Paul McCartney. Nessuno ti giudicherà solo perché un attore famoso, in diretta nazionale, sul principale canale della televisione inglese, ti ha dato dell’omosessuale. Basterà arrivare a scuola e spiegare che non è vero, che probabilmente quella strana associazione era frutto di una qualche pasticca di acido, o di una trovata pubblicitaria del suo nuovo agente.
Inoltre, basterà ricordare che non c’è nulla di male se un professore dovesse essere gay: il Regno Unito è un paese tollerante, che accetta le minorità sessuali e culturali. Potrebbe essere uno spunto interessante per una lezione di Linda o del professor Mustard.
Certo, certo. Nessun problema. Io arriverò, estremamente sereno e sicuro di me stesso. Se qualcuno tirerà fuori l’argomento, ci faremo una grassa risata insieme. Ricordati, Paul, che sei un professore eterosessuale di 34 anni, che sta per sposarsi con la propria fidanzata storica. Tu ami Linda, tutti lo sanno. Nessuno avrà creduto a quella stupida storia!”
Il monologo proseguì per parecchi minuti, finché gli occhi si fecero più pesanti e Paul sentì che finalmente avrebbe dormito sonni sereni.
E così fu.

La mattina la sveglia suonò, e già alle prime note di “I want to break free” Paul aveva aperto gli occhi, pronto per alzarsi e affrontare l’ennesima giornata lavorativa.
Solo mentre tostava una fetta di pane, sorseggiando del succo di arancia, si ricordò esattamente perché quella giornata non era uguale alle altre.
E non era solo perché alla mensa avrebbero servito il Pasty vegetariano.
Avrebbe dovuto affrontare un centinaio di adolescenti e spiegare loro che no, non era gay. E sì, avrebbe sposato Linda. No, trovava Barbra Streisand a malapena accettabile. E sì, Ringo era un drogato.
Ripeté quel mantra tra sé e sé mentre si lavava i denti, mentre si vestiva e persino a cavallo della propria bicicletta. Era riuscito anche a dargli un motivetto simpatico, e l’aveva trasformato in una canzone. La canticchiò allegro, finché pedalava in prossimità del liceo.
Peccato che neanche il tempo di scorgere il cortile, e la canzoncina gli morì sulle labbra, assieme al suo sorriso.
La scuola era circondata da furgoncini bianchi, da cui uscivano giornalisti e cameraman, con grandi microfoni e telecamere. Entrare era pressoché impossibile, se non facendosi largo con uno sfollagente.
E lui non sarebbe mai ricorso alla violenza, soprattutto perché implicava macchiare la sua giacca color cachi.
Doveva essersi soffermato un minuto di più a studiare la situazione, poiché una giovane donna lo adocchiò e, richiamando l’attenzione del suo cameraman, gridò a gran voce:
E’ lui, il professore gay!”
Paul sgranò gli occhi e, risalendo velocemente sulla bicicletta, pedalò lontano da quel marasma.

Mentre girava attorno al palazzo, cercando un modo per arrivare alla sala professori senza passare tra i giornalisti, Linda lo chiamò al cellulare.
Paul, dove sei?”
La donna stava gridando alla cornetta per riuscire a farsi sentire, tanto era il caos in sottofondo.
“Sono dietro la scuola, devo trovare un modo di passare dal retro, Linda! Cosa diavolo sta succedendo?”
“Vogliono tutti parlare con te, vogliono intervistarti! Oh, è terribile!”
Ogni professore della sala sembrava non voler far altro che dare consigli a Paul, aumentando il suo mal di testa e la sua confusione mentale.
Alla fine, il professor Kite prese la parola, strappando il cellulare dalle mani di Linda. Gli gridò nelle orecchie di scavalcare il muretto, in una parte in cui era più basso. Lui l’avrebbe atteso dall’altra parte, pronto a dargli una mano.
Paul non era molto convinto, non gli sembrava un’idea poi così straordinaria, ma le grida nel telefono si erano fatte così forti, che la diede vinta all’insegnante di ginnastica.
L’orologio della chiesa di Campbeltown rintoccò le otto, le lezioni erano in procinto di iniziare e Paul stava cercando di scavalcare per la quarta volta il muretto.
Stava sudando, aveva il fiatone e malediceva il giorno in cui aveva smesso di giocare a cricket. L’idea di buttarsi in pasto ai giornalisti ora non era più tanto spaventosa come prima, si trovò a pensare, asciugandosi la fronte col suo fazzoletto di stoffa.
Un clacson, all’improvviso, richiamò la sua attenzione, facendolo quasi morire di infarto.
Era George, con la sua Mini del ’67, la macchina che diceva di amare più della sua stessa vita.
Con uno scatto veloce spalancò la portiera, facendogli cenni confusi per spronarlo ad entrare.
“George, cosa diavolo?”
“Lascia perdere Kite e quegli altri. Ho avuto un’idea io.” Disse, lisciandosi la barba e i baffi.
“Cos-?”
“Sei pronto, Macca? Allacciati la cintura.” Un ultimo sguardo d’intesa. Poi, premendo forte sull’acceleratore, in una nube di fumo, partì.
Entrarono dall’ingresso principale, mentre Paul pestava i piedi sul suo tappetino, cercando un freno che non c’era. George cominciò a girare in tondo con la macchina, cercando di schivare giornalisti e cameraman, sollevando sabbia e polvere. Gli alunni intanto, dalle finestre, sembravano apprezzare molto la scena, e accompagnarono i giri della Mini con applausi e grida.
Dopo quella che sembrava un’eternità, George inchiodò davanti all’ingresso e spinse Paul fuori dalla sua macchina, invitandolo a correre al riparo dentro la scuola.
Paul all’inizio faticò a trovare l’equilibrio e la stabilità, e inciampò al primo gradino, rischiando di cadere a terra come un sacco di patate. Poi, al secondo scalino si riprese, e riuscì ad arrivare alla porta, chiudendola con un tonfo.
Dentro, una folla di ragazzi e professori lo stava aspettando.
Ma stava succedendo davvero, o stava ancora sognando? Si pizzicò la guancia.
No, era la realtà. Dannazione.

Fare lezione fu più difficile del previsto. Già arrivarci, alla classe, non era stato facile. Aveva dovuto schivare parecchi curiosi, che non facevano altro che porgli domande riguardo sabato sera.
“Le sono piaciuti i Bafta? Li ha guardati, i Bafta? E’ stato contento delle premiazioni dei Bafta? E il discorso di Ringo ai Bafta?” insomma, Paul stava rischiando di andare fuori di testa.
Perciò era stato molto chiaro e diplomatico, appena entrato in classe.
“Ragazzi, un po’ di attenzione. Prima di iniziare, mi sembra giusto fare un appunto: io non sono gay e non so perché Ringo abbia detto quelle cose. Ora proseguiamo la lezione come se nulla fosse successo.”
Neanche il tempo di finire quella frase che alcune mani si erano alzate per intervenire.
A prendere la parola per primo fu Stuart Sutcliffe, uno degli studenti più talentuosi che Paul avesse mai avuto, nonostante passasse la maggior parte delle lezioni a disegnare e a farsi i fatti suoi. Si sistemò il ciuffo, buttò via la gomma da masticare, e dopo una lunga pausa drammatica si decise ad iniziare il discorso.
“Sa, prof, ci ho pensato a lungo. Ho capito perché Ringo Starr ha pensato che lei fosse gay. Innanzitutto quei cravattini, non si possono vedere! Andiamo, li abbina sempre alla sciarpa e alla giacca, chi altro potrebbe farlo? Per non parlare del suo taglio di capelli, mai con un ciuffo fuori posto! Le ciglia folte e gli occhioni che si ritrova non aiutano affatto, di quello non ne parliamo nemmeno!
Ha fondato un club di appassionati di musica classica, sa suonare molti strumenti, e nessuno di questi è un po’ rock. Va in giro con la bicicletta, fischiettando canzoni che conosce solo lei, tutte melense e di almeno cinquant’anni fa. Per non parlare del fatto che è sempre così… così pulito. E ci dica la verità: lei si sistema le sopracciglia, vero?” concluse, con una smorfia, tra le risate generali.
Paul sgranò gli occhi, appoggiandosi la mano sul petto e sentendo all’improvviso il bisogno di sedersi. Gli mancava l’aria, tutto d’un colpo.
Era quello che i suoi alunni pensavano di lui?
Cosa stava succedendo alle sue certezze, al suo mondo? Non avrebbe mai pensato di dare quell’impressione agli altri!
Mentre ignorava il resto dei commenti degli studenti, pensò che Ringo gliel’avrebbe pagata.
Gliel’avrebbe pagata eccome.

Fortunatamente, la pausa pranzo arrivò in fretta, e Paul si trovò chiuso in sala professori, con il suo triste vassoio, mentre tutti gli altri colleghi erano in mensa, a mangiare in compagnia.
Linda aveva insistito per stare lì con lui, ma la verità era che Paul sentiva il bisogno di stare un po’ da solo.
Immaginava che anche i colleghi avessero avuto di che parlare, durante quella lunga mattinata, e temeva che non fossero discorsi lusinghieri sul suo conto. D’altronde, aveva ancora i commenti di Sutcliffe in testa, che vorticavano come dei pazzi.
A farlo morire di spavento e a distrarlo dalle sue paranoie, ci pensò lo sbattere violento della porta.
“Ma cosa cazzo sta succedendo?” esclamò John, entrando in sala professori come un reduce di guerra. Con un gesto scocciato si sistemò gli occhiali, a penzoloni sul naso, e i capelli, riflettendosi nel piccolo forno a microonde.
Paul deglutì rumorosamente, cercando di mandare giù un pezzo troppo grosso di pasty.
Dio, nella classifica delle persone che non aveva voglia di vedere, Lennon era stabile al primo posto. Sì, prima di Ringo e dei giornalisti che lo aspettavano là fuori.
“Sono ancora lì?”
“Sì, ma cosa ci fanno qua, Macca? Saranno un centinaio tra reporter e cameraman, sono impazziti tutti, tutti! Una tizia assurda, credo che fosse cinese, mi ha chiesto se è vero che hai un piccolo chihuahua di nome Barbie.”
Paul sgranò gli occhi, e stavolta sì che il pasty gli andò di traverso. John si avvicinò ridendo, colpendolo leggermente tra le scapole, finché il collega non si sentì meglio e smise di tossire.
“Tranquillo, Macca, ho detto di no!” esclamò alla fine, rubandogli la mela dal vassoio.
“Vuoi dirmi che davvero non sai cosa stia succedendo?” gli chiese Paul, dopo qualche minuto di silenzio imbarazzante tra di loro.
“No, sono stato impegnato il weekend, se sai cosa intendo, e stamattina non avevo lezione. Perché abbiamo i giornalisti di mezza Inghilterra fuori dalla scuola?”
“Beh, Lennon, tutta quella gente è lì fuori perché vuole le foto del professore gay.”
La faccia di John era alquanto perplessa, ma alla fine batté la mano contro la propria fronte e si illuminò.
“Dio, l’ho sempre saputo che il preside Epstein ci nascondeva qualcosa. Credo che un paio di volte mi abbia anche guardato il sedere. Per non parlare di quella volta in gita in Spagna, quando…”
“No, Lennon. Sarei io.” Esclamò Paul, alzandosi in piedi.
John lo squadrò, masticando la mela lentamente, e per un secondo, per un lunghissimo secondo, Paul si sentì nudo sotto il suo sguardo. Alla fine, in preda all’imbarazzo e rosso come un peperone, cercò di sviare l’attenzione riassumendo tutta la storia dei Bafta e dei giornalisti. Il collega però, anziché consolarlo, scoppiò a ridere di nuovo.
“Ah, sempre uguali, questi pezzi di merda. Stai tranquillo, amico. Tempo un giorno o due e il cortile sarà di nuovo vuoto. Ora Ringo è sulla cresta dell’onda, e tutti sono curiosi di sapere le minime stronzate su di lui, ma ormai un gay non fa più scalpore. Sono solo curiosi di sapere chi ha ispirato il protagonista di quel film da intellettualoidi.”
Paul annuì. Certo, John era un tipo molto tollerante, su quello non c’erano dubbi, ma per quanto assurdo, il suo ragionamento filava. E parecchio.
Si preparò velocemente un caffè, e ripensò a quel commento.
“Mi sa che hai ragione, Lennon.” Mai avrebbe pensato di sentirsi pronunciare quelle parole. In quei giorni succedeva davvero di tutto, non c’era che dire.
“Certo che ho ragione. E poi, cinque giorni e sarai sposato alla Eastman. E quale modo migliore di questo, per convincere la gente che non sei gay?” concluse John, facendo canestro nel cestino della spazzatura con il suo torsolo di mela.

Linda aveva finito le lezioni subito dopo pranzo, quel giorno, eppure decise di attendere fino alla fine del turno di Paul, per poter stare del tempo insieme al proprio fidanzato, e per parlare di quella situazione assurda che si stavano trovando a vivere.
Di nascosto da tutti si era chiusa in bagno per sistemarsi i capelli e per truccarsi un po’ il viso. Per assurdo, quell’intera faccenda aveva reso molto più insicura lei che il suo futuro marito.
All’improvviso i suoi lunghi capelli biondi le sembravano troppo disordinati, troppo crespi, troppo tutto.
Inoltre, per affrontare un centinaio di giornalisti, era meglio che le sue occhiaie fossero il meno visibili possibile.
Quella giornata lavorativa era stata molto impegnativa, dal punto di vista psicologico ed emotivo, e ora si trovava con un gran mal di testa. Aveva beccato i colleghi a sparlare di lei, ancora prima di mettere piede in sala professori.
Dopodiché era stata chiamata dall’assistente sociale, la signorina Wood, che si era preoccupata di sapere come Linda stesse affrontando questa fase “di cieca negazione di una realtà abbastanza evidente”. Infine, a quanto pareva, la Wood ci teneva a farle sapere che “se fosse stata mollata sull’altare per un altro uomo lei era disponibile per consolarla, e non solo”.
Linda non sapeva come prendere quella conversazione, e se ne andò ringraziando, indecisa se sentirsi lusingata o spaventata.
Dopo quel genere di avventure, necessitava di rassicurazioni.
Si piazzò in corridoio, tamburellando impaziente il piede, e attese che Paul si congedasse dai suoi ragazzi. Stette per parecchi minuti ferma ad aspettare che la classe si svuotasse e che il professore uscisse dall’aula; ma il tempo passava, e non succedeva niente. Dunque, bussando leggermente, entrò nella classe deserta.
Paul era seduto sulla cattedra, strimpellando una chitarra acustica, intonando una canzone di Elvis.
Ed Elvis significava solo guai. Guai seri.
“Ciao.” Lo salutò timidamente Linda.
“Com’è andata la giornata, cara?”
“Pensavo peggio. La tua?”
“Pensavo meglio.” Le rispose, ridendo appena, tenendo lo sguardo fisso sulla chitarra.
L’aria era pesante, non si trovavano soli da sabato sera, e Linda per un attimo sentì una fitta di preoccupazione colpirle il cuore.
“Sono ancora fuori, quei pescecani?” chiese alla fine Paul, dopo quelli che erano sembrati dei minuti infiniti.
“Sì, stanno aspettando noi, temo. In realtà alcuni giornalisti se ne sono già andati via. Lennon e Harrison si sono divertiti un mondo a giocare un po’ con loro. Un paio di reporter hanno persino intervistato la Rigby! Chissà cosa aveva da dir loro, povera cara. Magari qualcosa sui gattili, come suo solito. E Kite ha fatto il suo solito spettacolino di flessioni, mentre Mustard...” Linda non finì il suo discorso, perché Paul si alzò, mise da parte la chitarra e l’abbracciò. La donna ne approfittò per stringerlo forte a sé.
“Ti prego, dimmi che ci sposiamo ancora, Paul.”
“Certo!”
“Bene, perché non mi ridaranno più indietro i soldi del vestito. E ho ordinato la torta alle meringhe solo per te. E non vorrai che tutto quel ben di dio vada sprecato, vero? Vero? ”
Paul si staccò dall’abbraccio per guardare negli occhi la fidanzata.
“Non ti devi preoccupare di niente, fidati di me. Ci sposeremo.”
Linda gli sorrise dolcemente, asciugandosi velocemente una lacrima. Gli prese il viso tra le mani e gli diede un leggero bacio.
“Ti conviene, Paul, ti conviene.” 









Angolo dell'autrice:

Buon pomeriggio a tutti, miei cari lettori.
Capitolo-corridoio breve per farvi immergere un po' di più nella storia, ma non temete, per il prossimo non dovrete aspettare ancora molto! Già sabato aggiornerò!
Che dire? Ci sono parecchi riferimenti alla cultura queer, quindi spesso e volentieri troverete nomi di personaggi "chiave" e di canzoni un po' stereotipate, ma facilmente riconducibili al mondo lgtb. Spero che siano dei riferimenti abbastanza facili per tutti voi, sennò non abbiate timore a dirmelo e aggiungerò link come se non ci fosse un domani.
Vorrei ringraziarvi tutti, perché siete stati meravigliosi e mi avete riempito di complimenti e recensioni e io non vi merito <3 Come al solito: grazie, grazie e ancora grazie. Fatemi sapere se anche questo capitolo continua a piacervi! *ansia* 
Infine, una tazza di amore per Kia85 che mi sopporta e mi aiuta tanto tanto, anche e soprattutto nei momenti di crisi >_<
Ci si legge sabato, e grazie di essere arrivati fino a qui ;)
Anya



 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 3



 
Alla fine i giornalisti si erano stancati di Paul McCartney, e di tutto quel casino mediatico per un professore dai maglioncini a quadri e i farfallini abbinati alla sciarpa.
Già dal martedì i reporter si erano dimezzati. Mercoledì mattina, finalmente, il cortile era completamente sgombro dalle distrazioni, con grande disappunto degli studenti.
John sembrò molto fiero di se stesso, quando arrivò a scuola, e ci tenne a ricordargli che aveva avuto ragione, ed era stato bravo a prevedere il comportamento di quei mentecatti.
Paul aveva sorriso di quel commento infantile, e poi era tornato ad arricciare la bocca e voltarsi indispettito dall’altra parte ogni volta che il collega gli parlava. Soprattutto se lo faceva per dirgli quanto fossero “dotate” certe giornaliste.
Insomma, tutto sembrava essere tornato alla normalità.
Peccato che Paul non potesse godersi neanche un po’ di meritata pace. Infatti, subito dopo il lavoro, sarebbero arrivati Jim e Mike e sarebbero rimasti ospiti da lui fino alla domenica.
Avrebbero dovuto prendere l’aereo da Liverpool il venerdì, ma avevano deciso di anticipare di qualche giorno per organizzargli l’addio al celibato. Come poteva pretendere di sposarsi senza aver prima festeggiato l’ultima, pazza notte da scapolo? Paul chiaramente non si era bevuto quella scusa, e sapeva che c’entravano i Bafta e Ringo Starr.
In ogni caso il mercoledì lavorava solo un paio di ore la mattina, quindi, finito il pranzo, andò a prendere il padre e il fratello all’aeroporto di Campbeltown: un nome esagerato per una grossa caserma con una microscopica pista d’atterraggio in mezzo al nulla più totale.
L’aereo era in ritardo, come sempre, e Paul li aspettò in macchina, nel piccolo parcheggio accanto all’aeroporto. L’atterraggio gli metteva sempre un po’ di ansia, perché i piloti sembravano sempre così sgraziati e grossolani. Piombavano sulla pista in un modo che ti faceva chiedere come facesse l’aereo a restare integro.
Ecco perché stava cantando a squarciagola “Like a virgin” di Madonna, quando un leggero picchiettio sul vetro lo destò dal suo fantasticare. Mike e Jim erano arrivati, e non se n’era nemmeno accorto.
Affondò nel sedile, mentre apriva le portiere della macchina per farli entrare.
Fantastico, e ora come faceva a convincerli che non era gay?

Fortunatamente Mike e Jim non sembrarono cominciare a tampinarlo già da subito con le domande, e anzi, girarono attorno alla questione, chiedendogli come procedevano le cose a scuola, con Linda e in generale in quel paese.
Paul rispose in modo diplomatico, per poi concentrarsi sui racconti di Mike sulle meraviglie della vita da sposati, le gioie di Liverpool e i suoi vari successi in campo fotografico.
Grazie al cielo, il viaggio fu breve, e arrivarono velocemente alla piccola dimora McCartney.
Dopo aver sistemato le valigie e aver bevuto una tazza di tè, decisero il menù della serata. Peccato che ciò implicasse che qualcuno dovesse andare a far la spesa.
Paul era felice di aver i propri famigliari a casa a fargli compagnia, gli sembrava di essere ancora a Liverpool, sotto un certo punto di vista, ma avevano dei gusti veramente ricercati, da cittadini, pensò con fastidio.
Quel paese aveva solo una piccola drogheria, con dei prezzi assurdi, a dirla tutta. Mentre il supermercato più vicino distava quasi mezz’ora di strada. Ma, avevano deciso di voler mangiare a tutti i costi la sua celebre Sheperd pie vegetariana, e così Paul, infilandosi controvoglia i mocassini e il cappotto, uscì.

Non poteva negare di essersi abituato a vivere a Campbeltown, dopo più di cinque anni sarebbe stato preoccupante se non l’avesse ancora fatto, ma c’erano dei momenti in cui Paul non poteva non sentire la nostalgia di Liverpool. Per esempio, quel pomeriggio rimpianse molto il traffico cittadino causato dagli operai delle fabbriche, dato che ci mise quasi due ore per fare una semplice spesa, a causa di un gregge pecore sulla strada principale.
“Sono a casa.” Disse, tirando un enorme sospiro di sollievo. Sistemò ordinatamente i mocassini sul tappetino dell’ingresso, lisciò appena la manica del cappotto, che si era leggermente stropicciata, e infine si mise la ciabatte. E nessuno ancora gli aveva risposto.
Strano, pensò mentre accendeva la luce.
Per poco non morì d’infarto.
Una ventina di persone erano nel suo salotto, tra palloncini, festoni e coriandoli, tutti pronti a gridargli:
“Buon addio al celibato!”
Paul si appoggiò le mani sul petto, cercando di calmare il battito accelerato del cuore.
Cosa…?”
“Volevamo che fosse una sorpresa, fratellone!” esclamò Mike, indicando tutte le persone che lo circondavano.
Paul si mise a individuare mentalmente tutti coloro che erano lì per lui, per la sua festa: poteva riconoscere i colleghi, persino George!, e alcuni conoscenti con cui era andato a bere al pub qualche volta. In un angolo, un paio di timidi, che riconobbe come i membri onorari del suo gruppo di musica classica, lo salutarono appena con la mano.
“Allora, ti piace?” chiese timidamente Mike, avvicinandosi a lui.
Ci stava mettendo troppo tempo a riprendersi dalla sorpresa, Paul poteva sentire su di sé gli sguardi delle persone che lo attorniavano. Era il tempo di reagire e dar loro qualche soddisfazione.
“Ma certo, ragazzi…” e, prendendo un sigaro dal taschino della giacca del fratello, gridò a gran voce, “Chi è pronto per una serata tra veri uomini?”

Quando Paul aveva adocchiato la bambola gonfiabile tra le braccia di George, la torta a forma di seno e l’alcool a fiumi, si era fatto un’idea decisamente diversa.
Non si aspettava certo che sarebbe finito a cantare al karaoke con “I migliori musical dagli anni ’50 ai giorni nostri”. Non che non gli piacesse, è che si era aspettato dell’altro. Qualcosa di più maschio.
Quando finì il duetto di Grease, prese da parte il fratello.
“Mike, cosa sta succedendo qui?”
“Ci stiamo divertendo Paulie! Alla grande!” e, dandogli una pacca sul petto, annuì convinto della propria osservazione.
“No, è l’addio al celibato più strano di tutti i tempi! Andiamo! Papà dorme sul divano da almeno mezz’ora e il suo russare è così forte da disturbare persino il karaoke.”
“Oh, non dare la colpa a lui se hai stonato sul finale.”
Non parliamo di quello. Cosa prevede il programma adesso? Una spogliarellista? Filmini per adulti?” chiese curioso, sfregandosi le mani e guardandosi attorno.
“Oh, vedrai. Ti piacerà un mondo! Finito il karaoke si passerà direttamente a… sei pronto? Alla maratona dei film di Cher!”
Paul spalancò la bocca, e si colpì la fronte con il palmo della mano.
Non poteva essere. Suo fratello era chiaramente andato fuori di senno, forse per colpa dell’atterraggio, forse per l’aria troppo pulita rispetto a quella di Liverpool.
Purtroppo questo programma sembrava sconvolgere solo lui. Gli altri sembravano entusiasti dall’idea della maratona, e questa cosa sconvolse ancora di più Paul.
“Incluso Burlesque?” intervenne Mustard, interrompendo il suo assolo, per la gioia delle orecchie dei presenti.
Mike annuì entusiasta, mostrando i dvd.
“No sentite, io mi rifiuto di passare il mio addio al celibato a guardare i film di Cher!” li interruppe Paul, e staccando con un colpo secco i fili del karaoke, “Dove sono i miei amici virili, che fanno cose da machi? Avanti! E’ questo il meglio che sapete fare?”
“McCartney ha ragione!” intervenne Kite.
“Esatto, anche perché in Burlesque, Cher è già decrepita e non piace a nessuno!” concluse Mustard, dando una sonora pacca sulla spalla del collega.
“Cosa hai detto?” gli chiese Paul, stringendo gli occhi a due fessure, avvicinandosi a lui con il passo pesante.
“Ho detto che in Burlesque, Cher fa schifo!”
La sala si zittì all’improvviso, l’unico rumore proveniva dal russare di Jim.
Paul ormai era serio più che mai, e si scrocchiò le nocche.
“Prova a ripeterlo, Mustard!” e, fiondandosi su di lui, mise fine all’addio al celibato, dando inizio ad una virilissima lotta.
Per Cher!”

Paul si trovò così, a mezzanotte passata, a bere nell’ultimo bar aperto. Poco importava che fosse effettivamente l’unico bar presente, in quel buco di posto.
Era scappato via dall’addio al celibato, dopo averlo trasformato in un’imbarazzante rissa, pur di non affrontare Mike. Ma il confronto che lo imbarazzava di più era senza dubbio con i suoi colleghi. E poco meno di sette ore lo separavano da quello.
Sperò di poter dare la colpa all’alcool, ma la verità era che aveva bevuto solo una birra media, preso com’era dal karaoke e dalle canzoni.
Non aveva nemmeno mangiato la torta. Era pure alle fragole, la sua preferita.
Dio, che stupido era stato!
Prima che potesse cominciare a battere la testa contro il tavolo, una voce lo svegliò dai suoi pensieri.
“E’ libera questa?” e con un cenno della mano indicò la sedia accanto alla sua.
Paul era indeciso se fare il sarcastico o lo scocciato, e alla fine gli uscì un misto tra i due.
“Certo che è libera, esattamente come quella là in fondo.”
“Ah, il mio Macca preferito. Sempre simpaticissimo.”
Davanti a quella risposta, Paul mise a fuoco la persona accanto a sé. C’erano solo due persone che lo chiamavano così. Una era George, ed era ancora a casa sua, addormentato sul divano, abbracciato alla bambola gonfiabile. L’altra era...
“Lennon?”
“Oh, le chiedo scusa principessa, forse aspettava qualcun altro?”
“Sì, esatto.”
“Ma chi altro potresti volere, se non me?” disse, scoppiando a ridere e sedendosi accanto al collega.
Paul aveva la bocca aperta e gli occhi ridotti a fessura, il che poteva significare solo una cosa: stava per arrivare uno dei suoi commenti acidi. John ormai conosceva quell’espressione fin troppo bene, così gli svuotò il bicchiere per dispetto, prima che potesse effettivamente dire dell’altro.
“Ehy, aspetta. Ma è tè alla pesca!”
Paul sgranò gli occhi e arrossì, riprendendosi il bicchiere ormai vuoto. Chinò il capo e si trovò a borbottare, come un bambino.
“Non mi piace il Whisky, ma pensavo fosse molto macho.”
John gli sorrise, mordendosi il labbro. Stette così a fissarlo per dei lunghissimi secondi, fin quando Paul, imbarazzato come non mai, gli diede un leggero pugno sul braccio.
“Cos’hai da guardare?”
“Oh niente, niente.”
Con un rapido cenno, ordinò altri due tè. Per farsi perdonare, li giustificò così.
“E allora, Lennon, cosa ci fai qui? Domattina hai la prima ora!”
“Vengo da Glasgow, mio caro, e non ho per niente sonno, come ogni volta che torno da quella città. Troppa adrenalina in corpo, se sai cosa intendo.”
Paul gonfiò le guance davanti a quella frase, e incrociò le braccia. Eccolo lì, il Lennon che detestava. Ingollò l’ultimo sorso del tè, e lo fissò diritto negli occhi.
“Ma per quale motivo dovrei saperlo? Piantala di dirlo. Sei irritante oltre misura, quando lo fai.” Esclamò, puntandogli il dito sul petto.
“E perché?” gli chiese John, continuando a sorridergli nel suo solito modo. Dio, quel modo che faceva venire voglia a Paul di prenderlo a pugni, di stenderlo al tappeto.
“Perché di sì. Ormai hai quasi quarant’anni, amico. E’ ora che tu metta a posto questa testolina buffa e la pianti di fare l’adolescente.”
“Ehy, di anni ne ho trentasei, Macca.”
“Beh, io alla tua età sarò già sposato e con figli, sappilo” disse, guardandolo con un’aria di superiorità.
John quasi si strozzò col proprio tè. Era scoppiato a ridere, e ci mise qualche minuto prima di riuscire a smettere.
“Sempre se troverai il buco giusto, Paulie.”
“Oh, parli per esperienza, Johnny boy?”
Si trovarono a pochi centimetri gli uni dagli altri, entrambi con il respiro accelerato e le guance arrossate.
“Mio caro Macca, cosa ti dice che io non abbia già una signora Lennon, con prole al seguito?”
“Beh, il fatto che passi dei weekend sempre fuori, che guardi il sedere di ogni donna, Linda inclusa e sì, ti ho visto; che ora sei qui con me a bere del tè alla pesca in un bar, mentre potresti essere a casa a fare qualcosa di più bello.”
“E, di nuovo, chi ti dice che io non sia felice di stare qua con te, Macca, in un bar a bere tè alla pesca?”
John si era avvicinato di nuovo, e anche se il mezzo sorriso era sempre lì, pronto ad infastidirlo, l’occhiata che rivolse a Paul gli fece distogliere lo sguardo con uno scatto. Sentiva il bisogno di nascondere all’altro, e a se stesso, di essere diventato all’improvviso rosso come un peperone.
Alla fine il barista approfittò di quei momenti di tregua per mettersi tra i due con lo scontrino del conto da saldare, un modo carino per chieder loro di andarsene.
John fece per tirare fuori il portafogli, quando Paul con un gesto deciso della mano lo fermò e pagò per entrambi.
Il sorriso che il collega gli rivolse per quella semplice gentilezza, non fece che peggiorare il rossore di Paul.
Forse la maratona dei film di Cher non era un’idea poi così terribile.

John abitava a Southend, alla fine della penisola, nell’ultimo lembo di terra prima del mare. Si vantava di poter ammirare l’Irlanda del nord, dalla finestra della camera da letto, quando il cielo era sereno.
Dunque, venendo da Glasgow, aveva parcheggiato la macchina poco fuori dal pub, e lo attendevano una decina di miglia ancora, prima di arrivare a casa. Con un rumoroso sbadiglio si sgranchì le braccia e le gambe prima di mettersi al volante.
Paul invece era scappato di corsa, e lo aspettavano quindici minuti di scarpinata nel buio più totale.
Ecco perché a John venne spontaneo offrirgli un passaggio, ma il collega lo rifiutò categoricamente.
“Va bene, Macca. Allora vorrà dire che ti seguirò con la macchina finché non arrivi a casa. A passo d’uomo, e con gli abbaglianti accesi.”
“Non ci provare nemmeno, Lennon!”
E invece l’aveva fatto eccome. Così, dopo solo due minuti di quella inquietante camminata, Paul era salito sulla macchina del collega, sbattendo la portiera con sdegno.
“Sei contento ora?”
Oh, sì.”
Stettero in silenzio per qualche minuto, John ancora col ghigno vittorioso sul volto e Paul ancora con le braccia incrociate.
Alla fine un piccolo peluche gli saltò all’occhio. Era caduto dal cruscotto, e lo raccolse, studiandolo incuriosito.
“Tu pensa, ho realizzato solo adesso di non sapere nulla di te, Lennon.”
“E con esattezza, dopo quasi quattro anni che siamo colleghi, cosa vuoi chiedermi? Avanti, spara.”
Paul si morse il labbro e guardò fuori dal finestrino per un momento, come se cercasse una domanda opportuna da fargli per non risultare invadente.
“Vediamo… Da dove vieni?”
“Ma come, vuoi dirmi che non lo sai? Credevo di averlo già detto a tutti, ormai! Vengo da Dublino, esattamente di fronte alla tua ‘meravigliosa’ Liverpool! Sai quante volte ci sono venuto? Un sacco!”
“E io ho vissuto per più di 20 anni lì e non sono mai andato a Dublino, pensa te.”
“Sei ancora in tempo a rimediare, Macca. Dai, la prossima volta che ci torno, vieni con me.”
Paul cercò di ignorare il brivido che gli aveva percorso la schiena, davanti a quella proposta. Una vacanza con Lennon? Ma neanche morto!
“La tua famiglia vive ancora là?”
John si prese del tempo per rispondere, era come se cercasse le parole giuste per evitare una questione delicata.
“No, non ho più nessuno, in Irlanda. Ora i miei unici legami sono a Glasgow.” Disse alla fine, smettendo di sorridere per la prima volta durante tutta la serata.
Paul abbassò lo sguardo, in preda al rimorso per avergli causato simili ricordi. Cosa cercava di nascondere agli altri, seppellendo certi pensieri sotto strati di allegria e spensieratezza?
Provò con un’altra domanda, per stemperare un po’ il clima che si era fatto teso. All’improvviso, dopo tutto quel tempo, si sentiva curioso di conoscere la persona che si trovava davanti. Poteva quasi pensare di non odiarla più. Quasi.
“Prima lavoravi là? Prima di essere trasferito in questo buco di posto, intendo.”
“Sì, facevo arte terapia, seguivo un paio di ragazzi. Sai, bambini problematici, con disturbi di personalità, adolescenti con dipendenza da droghe. E’ stato molto bello, e quando ho dovuto mollare quel lavoro, mi si è spezzato il cuore. Una parte di me è ancora in quell’istituto.”
“Capisco…” disse alla fine Paul, trattenendosi dal fargli mille altre domande. Non poteva pretendere di sapere tutto di lui in una sola sera. Però gli dispiacque quando nella macchina calò il silenzio.
Fortunatamente per lui, non durò molto.
“Beh, basta parlare di me, Macca! Pronto per sabato, per il grande passo?”
“Oh sì, sì, sono… sono…”
“Emozionato?”
“Terrorizzato.” Disse alla fine, scoppiando a ridere per stemperare la tensione.
“E’ normale! Ma tu ami Linda, e andrà tutto bene!”
Paul si morse il labbro, per proibire a se stesso di confessare i propri timori davanti all’unica persona con cui non avrebbe dovuto farlo. La verità era che nessuno si era preoccupato di sapere come stesse vivendo la cosa, tutti si angosciavano solo per Linda, e lui, ora più che mai, aveva bisogno di un amico con cui parlare.
“Ma certo, certo. Sì, la amo, certo. E’ che sai, ho paura di non essere degno di lei. Non so se capisci cosa voglio dire, è complicato.”
“Insegnerò anche arte, ma non sono stupido Macca. E fidati, sei abbastanza per lei. Sei una persona straordinaria, e Linda è fortunata a sposarti.”
Paul lo squadrò velocemente, sconvolto dal sentirgli dire quelle parole, e d’istinto si pizzicò la guancia.
No, anche stavolta non era un sogno.
“Ma sei serio?”
“Certo!” disse, alzando le spalle. Erano arrivati alla casa di Paul, e John aveva accostato la macchina senza spegnerla, quindi poté girarsi per guardarlo negli occhi.
“Beh Lennon, ora posso dire di averle sentite tutte, nella mia vita!” esclamò ridacchiando, appoggiando la mano sulla maniglia della portiera ma senza aprirla.
“Senti Macca, io non so cosa ti ho fatto per provocarmi tutto questo astio, ma mi piacerebbe che diventassimo amici.”
Paul si era bloccato, ed era incerto se scoppiare a ridergli in faccia o se credergli.
“Allora, ci stai?” disse John, porgendogli la mano. Paul non si era mai soffermato a guardare quanto fossero particolari e belli quegli occhi che ora lo osservavano attentamente. Gli ricordavano quelli di un cucciolo.
Si morse il labbro, e sorrise appena, aprendo la portiera.
“Ci penserò. Notte, Lennon!” Disse alla fine. Alzando appena il naso in un’espressione di finta superiorità, uscì dalla macchina, ignorando bellamente la mano dell’altro, ancora protesa verso di lui.
“Notte, McCartney!” gli rispose John, scoppiando a ridere e scuotendo la testa.









Angolo dell'autrice:

Buon sabato e buon pomeriggio a tutti, meravigliose persone e meravigliosi lettori.
Eccoci di nuovo qua, con un altro capitolo di questa mia fanfiction degenerante e molto poco eterosessuale. Da oggi in poi pubblicherò con cadenza settimanale, ogni sabato. E' finita la pacchia, ragazzi! :P scherzo, ovviamente. Come potrei non viziarvi, con tutti i complimenti che mi avete fatto? Quando ho letto che il secondo capitolo era arrivato a otto recensioni, otto!, sono quasi caduta dalla sedia. Non mi merito tutto questo amore, ma lo prendo lo stesso, e vi ringrazio, prostrandomi ai vostri piedi. Grazie, grazie e ancora grazie, vi adoro. E non è un modo di dire.
Bene, torniamo a noi. In questo capitolo le cose cominciano a farsi un po' più interessanti per il nostro Paulie e il nostro Lennon, e spero abbiate apprezzato un po' di questo flirt spudorato. Ohohoh.
Inoltre, ci terrei a sottolineare che il parere di Mustard non rispecchia il mio, ma sì, anche io penso che effettivamente in Burlesque Cher fosse parecchio in là con gli anni.
Mi sembra di non aver altro da aggiungere, se avete altre domande, vi prego di scrivermi, anche via mp. E, come al solito, sarei felice di sapere se anche questo capitolo vi è piaciuto. 
Un grazie infine a Kia, la mia beta del cuore, a cui dedico una bambola gonf- emh, una torta piena di ringraziamenti. Alla fragola.
Un abbraccio a tutti voi e un grazie di cuore, a sabato prossimo!
Anya

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 4
 


Paul corse più veloce che poteva, e per un pelo non finì addosso ad una povera vecchietta che stava attraversando la strada.
In cinque anni di carriera scolastica non era mai stato così in ritardo. La tensione per il matrimonio si stava facendo sentire, e inoltre non aveva ancora risolto la questione dell’addio al celibato con Mike.
A quanto pareva, il fratello non aveva preso bene la reazione alla festa che si era tanto impegnato ad organizzare. E per quanto Paul cercasse di spiegarsi e di scusarsi, Mike non voleva sentire ragioni.
La cosa peggiore era però che anche il padre gli dava contro, stando dalla parte del fratello.
Dunque nella casa, ad un solo giorno dal matrimonio, il clima era teso e sembrava esserci in atto una piccola guerra famigliare. Mike non parlava a Paul, neanche per chiedergli le cose più banali, mentre Jim si relazionava col figlio maggiore, ma sempre con freddezza e distacco.
Era inevitabile che in un clima così stressante, si cominciasse a litigare per le minime sciocchezze. Quella mattina, ad esempio, si erano trovati a discutere su quanti cucchiaini di zucchero mettesse Mary nel tè, quando ancora era in salute. Paul sosteneva che lo preferisse amaro, mentre Mike e Jim, schierati contro di lui, insistevano che mettesse almeno una zolletta.
Alla fine i rintocchi del campanile gli avevano fatto capire che stava per iniziare scuola e lui era ancora lì, mezzo svestito e spettinato, a parlare di dolcificanti. E questo era molto poco professionale, da parte sua.
Ecco perché ora sfrecciava nelle strade di Campbeltown, cercando di arrivare il prima possibile.
In tutto questo, la cosa che più bruciava, era il non poterne parlare con Linda.
Come avrebbe potuto farlo? Cosa le avrebbe detto? Che il suo addio al celibato era stato un disastro, perché era diventato una festa da checche? Che aveva picchiato Mustard per colpa di Cher?
Già il suo collega era stato clemente a non dire nulla in giro!
Certo, non tutti i mali venivano per nuocere. In quei giorni assurdi e incasinati, si era riavvicinato a George.
Il giorno prima l’aveva trovato nei corridoi, e il collega si era dimostrato dispiaciuto di come fosse andata a finire la festa. Così Paul si era potuto sfogare un po’, oltre che scusare per il suo comportamento.
Era ancora piacevole parlare con George, come se quegli anni di silenzio e astio immotivato non ci fossero mai stati, e loro fossero ancora due insegnanti di città ai primi giorni in un paese troppo piccolo.
La loro conversazione si era conclusa in modo frettoloso, per colpa dell’inizio delle lezioni, ma si ripromisero di ricominciare ad uscire assieme. Il tutto, sotto lo sguardo divertito di John Lennon.

Stava giusto pensando come il lavoro lo aiutasse ad alleggerirgli la mente e a smettere di pensare a tutta la storia dei Bafta, quando, in direzione della mensa, captò una conversazione tra Mustard e la ‘zitella’ Rigby.
I due erano seduti sulla cattedra dell’aula di matematica, intenti a parlare sottovoce. All’inizio, Paul aveva pensato ci fosse del tenero tra i due, e si era limitato a sorridere, divertito dalla cosa. Ma poi aveva captato il proprio nome, e si era nascosto per poter origliare. Certo, non fu facile, perché quei due avevano un tono basso di voce e ridacchiavano in un modo irritante tra una parola e l’altra, però qualcosa riusciva ad arrivare alle sue orecchie.
“Eleanor, non puoi negarlo, il nostro McCartney è sempre stato un tantino femminile. Molto più di te, se mi permetti di dirtelo! Ti ricordi quella discussione infinita che avete avuto l’anno scorso? ‘Ai biondi dona di più il color ciclamino o il color salvia?’.”
“Sì, me la ricordo fin troppo bene. Alla fine aveva vinto lui e il suo dannato color salvia. Tra l’altro, Linda mi ha confessato che da quando le ha fatto la proposta, non l’ha più… toccata. In quel senso. Dice per rispetto delle tradizioni.”
“Mia cara Eleanor, mi sa che il nostro Paul è un finocchio completo.” Esclamò alla fine Mustard, ridendo a crepapelle.
Paul, sentendoli andare via, si assottigliò contro il muro, tappandosi la bocca con la mano libera dai libri.
Lui? Un finocchio? Un conto era il commento di Ringo, o la reazione di qualche studente… ma ora anche i suoi colleghi avanzavano simili sospetti? E in modo così volgare? Dannazione, era fregato.
Cercando di celare il più possibile il suo sconforto e la sua rabbia, si diresse a lunghi passi verso la mensa, dove comprò un sandwich vegetariano.
Si avvicinò a Linda, le diede un grosso e lungo bacio, le disse con voce chiara e forte che l’amava e se ne andò, lasciandola rossa come un peperone, con la bocca aperta e il fiatone. Il tutto mentre alcuni studenti, dal fondo della mensa, accompagnarono la sua uscita con applausi e complimenti.

E così ora era sui gradini del retro del palazzo, a ripulire il suo sandwich dai pezzettini di tonno, borbottando tra sé e sé improperi contro la scuola e la mensa.
“Cavoli, ma non lo sapete forse che il tonno non è vegetariano?” esclamò, rivolto verso l’edificio.
Fantastico, ora parlava pure ai muri. Stava decisamente impazzendo.
“Ma dai, tanto il pesce è stupido e non soffre.” A rispondergli purtroppo non fu il muro, ma John, che fece capolino da dietro l’angolo. Portava con sé due bottiglie di acqua fresca e un sacchetto contenente un muffin ai mirtilli, per Paul, e uno al cioccolato.
“Farò finta di non aver sentito quello che hai appena detto, Lennon. Sei fortunato ad avermi portato del cibo o ti avrei tirato un pugno. E sono capace, sai? Ho fatto palestra per un mese, un paio di anni fa.” Disse, gettando via il sandwich martoriato.
Si sedettero vicini, sugli scalini, e per qualche minuto stettero immobili e zitti, masticando lentamente il loro pranzo così spartano. Questo permise a Paul di continuare a ripensare alla conversazione che aveva origliato poco prima. Se due come Mustard e la Rigby pensavano quelle cose di lui, allora gli altri chissà cosa credevano!
Inoltre, quelle voci avevano sicuramente raggiunto anche le orecchie di Linda, e quanto doveva essere difficile per lei andare a scuola ogni giorno, cercando di ignorare quegli stupidi pettegolezzi?
Perché erano solo dicerie, vero? Certo, erano cose che avrebbero fatto venire il dubbio a tutti, ma non a lui. Oh, no, non a Paul McCartney. Perfettamente eterosessuale, al 100%!
Lanciò un piccolo mirtillo ad un piccione lì vicino, e osservò mentre lo mangiava, ghiotto.
Va bene, aveva avuto le sue piccole crisi d’identità sessuale, come ogni giovane adolescente che si rispetti, ma alla fine aveva sempre avuto una fidanzata che lo distraeva dal porsi un’effettiva domanda e darsi una degna risposta. Ma andiamo, ormai era tardi per interrogarsi su queste cose. Soprattutto perché aveva fatto una scelta importante, tre anni prima, fidanzandosi con Linda. E aveva fatto una scelta ancor più importante quando le aveva chiesto di sposarlo. E se questa non era una adeguata risposta alle crisi di un adolescente, perbacco! Fosse stato per lui non avrebbe mai fatto la proposta a Linda, ma era solo perché amava la propria indipendenza… solo per quello. E se…?
 Fu John ad interrompere il suo silenzio e a distrarlo dai suoi dubbi, una volta finito il suo muffin al cioccolato.
“Pensi di dirmi cosa ci fai qui, o ti devo cavare le parole dalla bocca? George mi ha detto di averti visto correre via dalla mensa, ecco perché sono venuto a cercarti.”
“Oh, al diavolo anche Harrison.” Esclamò Paul, alzandosi dagli scalini. All’improvviso aveva bisogno di muoversi, di distanziarsi da John e dalle sue domande scomode.
Perché George all’improvviso sentiva la necessità di tornare ad essere suo amico? Perché Lennon continuava a preoccuparsi per lui? Poteva fidarsi di loro, dopo tutti quegli anni di silenzio?
Rifletté per qualche minuto e pensò che se anche non poteva fidarsi, l’avrebbe fatto lo stesso. Perché se non avesse parlato con qualcuno, sarebbe scoppiato. E non poteva permetterselo, non alla vigilia del suo matrimonio.
“Rivoglio la mia vita, Lennon. Io non sono cambiato da venerdì scorso, sono sempre lo stesso professore. Eppure è bastata una parolina per far crollare a pezzi tutto il mio mondo, e con esso le mie certezze. Credevo di essere un professore stimato, e invece scopro che i colleghi sparlano alle mie spalle, persino gli alunni si prendono gioco di me. E lo sai cosa mi fa più male? Il dolore che questa situazione provoca a Linda. Ed è solo colpa mia.”
John abbassò lo sguardo e si morse il pollice. Alla fine, quando risollevò il viso, lo guardò intensamente negli occhi, facendo crollare ancora di più tutte le certezze di Paul.
“Lo sai qual è il tuo problema, Macca? E’ che non ci credi abbastanza. Quando succedono queste cose, devi alzare la testa, mostrare tutta la tua sicurezza e dire: ’fottetevi, non avete capito niente’. Ma se tu, in primis, non sei convinto che si sbaglino, allora è difficile convincere anche gli altri dei loro sbagli.”
“Ma andiamo, io non sono gay!” esclamò, appoggiando le mani sul petto.
John si alzò, e coprì la distanza tra loro due.
“Come fai a saperlo con esattezza, se non hai mai provato?”
“Lo so e basta!”
Perché John si stava avvicinando così tanto a lui? E perché questa cosa lo terrorizzava oltremodo? Le sue gambe cominciarono a tremare, mentre il battito del suo cuore si faceva più veloce.
Lui odiava quel Lennon, lo odiava dalla prima volta che era entrato in sala professori, quasi quattro anni prima, ancora con l’alito che puzzava dell’ultima sigaretta, lo sguardo sicuro di sé e l’atteggiamento strafottente verso tutto e tutti. Si era presentato, gli aveva stretto la mano e il verde degli occhi di John si era scontrato col nocciola degli occhi di Paul. Si erano scambiati due parole di circostanza, giusto per educazione, e Paul aveva sentito qualcosa pungere in modo doloroso ad altezza dello sterno, e subito l’aveva tradotto come vero e proprio astio nei confronti del nuovo collega.
Col passare del tempo, nella testa di Paul la prima impressione non solo si confermò, anzi, peggiorò.
L’astio, infatti, divenne più forte quando Lennon diventò il migliore amico di George, e quando cominciò a provarci con tutte le colleghe. Si trasformò in vero e proprio odio quando John ebbe una liaison con una certa May Pang, una studentessa cinese in scambio scolastico e quando, infine, cominciò a prendere Paul in giro, davanti agli alunni, nei corridoi e in aula insegnanti, senza un motivo apparente.
Insomma, anche se ora si poteva dire che si relazionassero senza azzuffarsi o insultarsi, non voleva comunque che il collega si avvicinasse in quel modo. E non gli piaceva nemmeno la piega che stava prendendo la conversazione, oh no.
“Macca, fidati di me! So io di cosa hai bisogno per avere la conferma definitiva! Sai, anche io ho passato queste crisi, quando andavo a scuola. Ero sempre diviso tra il ‘ommioddio, amo troppo le donne’ e il ‘forse vorrei provare qualcosa di nuovo’. Ero giovane e stupido...”
“Ora sei solo stupido.” Commentò l’altro, acido. Ogni tanto si ricordava di essere sempre il solito, pungente McCartney, che gli rispondeva a tono in qualsiasi situazione. Poi, davanti alla faccia da cucciolo ferito del collega, si morse le labbra e, scusandosi, lo intimò di proseguire.
“Dicevo? Sì, per tutta l’adolescenza avevo voluto provare qualcosa di nuovo, ma mi mancava il coraggio. E beh, una sera, dopo aver fumato un po’ e aver bevuto decisamente troppo, esposi questo dubbio ad un mio caro amico. Lui, di tutta risposta, non mi giudicò e anzi, mi fece un discorso molto profondo. Mi disse: ’Senti, fratello, continui a parlare di provare e provare, ma l’hai mai fatto? Hai mai avuto il coraggio di sperimentare? No, fratello, e sai perché, fratello? Perché hai paura che ti piaccia troppo. Ci sono cose che non possiamo ammettere che ci piacciano davvero, perché ci farebbero sentire troppo diversi, e nessuno vuole essere diverso, fratello.’ Ecco cosa mi disse, oh il buon vecchio Pete!”
Paul aveva fatto fatica a seguirlo, perché John aveva imitato la scena con l’accento da strafatto, con tanto di mimica, ed era una scena esilarante.
“Temo di non capire, Lennon.” Disse infine, quando riuscì a smettere di ridere.
Il collega lo guardò, sospirando pesantemente. Per quanto si atteggiasse a persona aperta e tollerante, doveva essere comunque imbarazzante per lui esporsi con Paul, dopo tutti quegli anni di battibecchi e prese in giro, ma doveva ritenerla la scelta migliore, perché si fece coraggio e proseguì.
“Insomma, Macca, anche io non sapevo se mi sarebbe piaciuto provare a fare certe cose con un altro uomo, e alla fine ho scoperto che sì, non è affatto male, anzi, mi piace. Non come con le donne, ma mi piace. Ma sai come l’ho scoperto? Provando. Rischiando. E accettando di capire un aspetto di me che forse non per tutti è positivo, ma che per me lo è.”
“Non credo di volerlo fare, non ad un giorno dal mio matrimonio, sai Lennon? Sono a posto così, grazie.”
“Rischia, Macca. O te ne pentirai per tutta la vita. Potresti trascorrere tutta la vita a pensare che forse Ringo aveva ragione.”
Quella frase colpì Paul nel segno, perché chinò lo sguardo e cominciò a calciare qualche piccolo sasso, sollevando un po’ di polvere. Ora come mai quella vicinanza lo faceva sentire a disagio davanti al collega.
Sì, aveva paura, aveva paura di veder crollare a terra una vita intera di convinzioni e di certezze solo per un minuto di curiosità. Perché il suo corpo poteva rispondere in modo negativo a certi stimoli, e questo avrebbe reso il suo matrimonio con Linda più sereno e felice. Ma cosa sarebbe successo nel caso in cui gli fosse piaciuto? Cosa sarebbe stato di lui, del suo futuro già scritto?
“Non vog- ” Stava per formulare l’ennesimo rifiuto, ma non gli fu permesso, stavolta. Perché quando Paul finalmente ebbe il coraggio di alzare la testa, trovò le labbra di John pronte a scontrarsi con le sue, in un bacio impacciato e teso, che si fece sempre più dolce. Quando la lingua di Paul incontrò quella di John, poté immediatamente sentire il sapore di sigaretta, ormai ridotto ad un leggero retrogusto, mischiato al cioccolato del muffin. Era l’odore che avevano i loro battibecchi del mattino, era il profumo del “buongiorno” scocciato e freddo detto in sala professori giusto per educazione. Era Lennon.
Più che un bacio, quella era una lotta che pian pianino si trasformò in una danza, con le mani di Paul che dapprima cercarono di allontanare il collega, ma che poi, senza controllo, lo strinsero a sé. Era come se si fosse riassunto tutto il loro rapporto, in pochi e semplici gesti, ma di nuovo, era un groviglio troppo complicato e disordinato perché Paul potesse far ordine e capirci qualcosa.
Alla fine, ad interromperli fu il suono della campanella.
La pausa pranzo era finita.
Si staccarono, entrambi col fiatone e le guance arrossate. Gli occhiali di John erano scivolati fino alla punta del naso, e lui li rispinse al loro posto, cercando di darsi un certo tono.
Non sapevano cosa dire, Paul aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì niente. Avrebbe tanto voluto scappare via da lì e non vedere mai più quel dannato Lennon.
“Forse sarebbe, mh, meglio se, ecco, tornassimo dentro?” propose alla fine, tenendo la testa bassa.
“Sì, buona idea.”
Mentre si avviarono verso l’ingresso, attraversando il cortile in pieno silenzio, un clacson li chiamò.
Paul impallidì, e involontariamente si sistemò i capelli, per paura che fosse uno dei giornalisti. Fortunatamente per lui era Jim, che si sbracciava dentro la piccola utilitaria del figlio. Peccato che avesse mollato la frizione troppo in fretta, e la macchina morì con uno sbuffo rumoroso. Così, scocciato e brontolando improperi, scese sbattendo la portiera.
“Salve, giovanotti! Sono stato a ritirare la torta per domani, guardate che bella!” esclamò, indicando loro la confezione nel retro della vettura. Il comportamento del padre sembrava migliore, in pubblico e lontano da Mike, e senza riuscire a trattenersi, Paul tirò un sospiro di sollievo.
“Grazie, papà.”
“E lui sarebbe?” chiese Jim, indicando con un cenno del capo John, che stava a pochi metri da loro, ancora impacciato e in imbarazzo, con le mani in tasca e il viso basso. Trovarlo ancora lì fu una sorpresa anche per Paul, pensava fosse andato in classe.
“Lui è il mio John... oddio no, Il mio collega John. Collega sì. Mh.”
“Oh, ora mi chiami per nome, Macca.” Commentò sottovoce il giovane, grattandosi il naso per dissimulare la vergogna.
Paul a quell'osservazione si girò di scatto verso Jim, cercando di comportarsi nel modo più naturale e spontaneo possibile.
“Papà, ti conviene tornare a casa, non puoi lasciare la macchina nel bel mezzo di un infrocio. Incrocio, cavoli, incrocio.” Bella mossa, si trovò a pensare, arrossendo ancora di più. 
“Ma sono passato a salutare Linda, dato che non l’ho più vista! Vorrà dire che la ammirerò domani, nel suo abito bianco. Ci sarai anche tu al matrimonio, John?”
Paul si voltò e guardò a lungo negli occhi il collega. Stettero così, immobili, a fissarsi, come a voler leggere l’uno nella mente dell’altro, per degli interminabili minuti.
Alla fine John, mantenendo il contatto visivo con Paul, abbozzò un sorriso triste.
“No, signor McCartney. Non posso, mi dispiace. Mi attendono degli affari a Glasgow.”
Ah, giusto. I soliti impegni a Glasgow.
Perché gli bruciava così tanto? Perché gli faceva così tanto male, quel semplice rifiuto? Alla fine, avevano vissuto per tutti quegli anni come due universi paralleli e distanti. E anche se in quegli ultimi giorni le cose erano cambiate, loro non erano cambiati. Paul lo odiava ancora, quel dannato Lennon.
Perché dunque si sentiva così?
Paul si morse il labbro, si voltò verso il padre e lo salutò con un cenno della mano.
Con uno scatto, corse dentro la scuola, lasciando John e Jim da soli, a guardarlo andare via.

Qualche ora dopo, Paul tamburellava i piedi fuori dalla porta della palestra, suonando sulle proprie gambe un pianoforte invisibile. Era uno dei suoi passatempi preferiti, quello di ripetere gli accordi dei ritornelli di alcune canzoni, suonandoli sui tavoli, sui libri, sul volante della macchina e persino sui sedili dei mezzi pubblici. Quel giorno toccava a Gloria Gaynor e a ‘Can’t take my eyes off you’.
Fortunatamente la sua unica lezione del pomeriggio era passata senza troppi intoppi. E proprio mentre aspettava che i suoi alunni preparassero il ritornello di “My way”, gli era venuta un’illuminazione.
Negli anni ’50, ai tempi di Elvis, giravano dei test di virilità che promettevano di far diventare chiunque un macho come Presley. Perché non creare una cosa simile su misura per lui e per i suoi bisogni? Certo, forse tornare a casa e rimuginare su quello che gli era successo poche ore prima sarebbe stato più semplice e intelligente, ma era davvero quello di cui aveva bisogno? Alla fine Paul si trovava lì principalmente per il bene di Linda e per mettere fine alle voci messe in circolo dai colleghi. Lui era sicuro di se stesso e della sua virilità, il batticuore provocato dal bacio di quel Lennon era stato causato solo dallo spavento.
E dall’odio, mai dimenticarsi l’odio.
Per non parlare di quello stupido discorso senza senso sul “provare” e su “la paura di essere diverso”… tutte stupidaggini!
“Cosa ci fai qui, McCartney?” gli gridò alle spalle una voce.
Paul fece un salto dalla paura che aveva preso. Non si era accorto che era suonata la campanella!
“Kite, ho bisogno di te.” Disse alla fine, con la mano sul polso per controllare i propri battiti. Non poteva morire di infarto il giorno prima del suo matrimonio, doveva mangiare la torta alle meringhe!
“Cosa vuoi? Sappi che se ti interesso da quel punto di vista, io sono già occupato.”
Sei fidanzato? Con quei capelli?
Kite sgranò gli occhi, sistemandosi con un gesto nervoso il codino, e si allontanò velocemente da lui.
Paul si morse la lingua, aveva davvero appena detto una cosa così cattiva? Non era da lui! E soprattutto non era la cosa migliore da fare quando si aveva bisogno di un piacere.
“No scusa, Joseph, ti chiami Joseph, vero? Non intendevo dire che i tuoi capelli siano brutti, solo che io, fossi in te, mi taglierei quel codino così anni ’90. E magari opterei per un rasato corto, dato che comincia a vedersi la stempiatura. Ma è un consiglio da amico, eh!”
L’uomo si voltò a guardarlo, riducendo gli occhi ad una fessura e gonfiando il petto. Paul si trovò a chiedersi se aveva sempre avuto quei muscoli così spaventosi. Un brivido gli percorse la schiena, mentre cercava di indietreggiare: perché non stava zitto, una volta per tutte?
“Mi chiamo Joe, non Joseph, McCartney. Ma per te sono Kite. Solo Kite. E ora dimmi cosa vuoi, o lasciami tornare a casa in pace.”
Paul gli sorrise, fiducioso, e ricominciò ad avvicinarsi.
“Vedi, sei la persona più virile che conosco, e ho bisogno che mi aiuti a riguardo. Come posso essere un macho, proprio come te? Per Linda e per il nostro amore.”
Kite lo fissò a lungo, come per vedere se stesse davvero facendo sul serio, o se il suo fosse solo uno scherzo di cattivo gusto. Alla fine, una volta convintosi che il collega non lo stava prendendo in giro, fece un piccolo ghigno, prima di scrocchiare le nocche.
“Va bene, ci penso io a te.”
“Grazie, sei un ami…”
“In riga, McCartney. E zitto.”
Paul ubbidì, mettendosi dritto sulla schiena e pentendosi già delle sue idee stupide.
L’insegnante lo studiò, squadrandolo dall’alto al basso e girandogli attorno, come un predatore farebbe con la propria preda. Poi, dopo alcuni interminabili minuti, si fermò di fronte a lui.
“Tira fuori quella camicia.”
Paul tentennò, guardando la sua camicia azzurra, sotto il golf verde smeraldo.
“Ho detto, tirala fuori, ora.” e con un ghigno malefico aggiunse, “Ma solo da una parte.”
Il collega obbedì, più per paura che per voglia. E ora il bordo della sua bellissima camicia penzolava giù dal maglioncino, tutto stropicciato.
Cercò di sistemarlo come poté, ma fu interrotto.
“Ti da fastidio vero, Mister Perfettino? Ti piace l’ordine, il pulito, lo stirato. Ma non sono cose per i veri uomini, quelle.”
Paul aprì la bocca per rispondere, mentre stringeva le mani a pugno per trattenersi dal reagire, ma non gli fu permesso di dire alcunché, perché ricevette un altro ordine.
“Ora sistemati.”
Paul allungò la mano verso i capelli, spaventato. Cosa avevano che non andava? Erano ancora in disordine dalla pausa pranzo? Oddio, aveva fatto lezione da spettinato?
“Non il ciuffo, il pacco!”
Cosa?”
“Hai capito bene. Strizza quei gioielli di famiglia, forza!”
Paul non capiva bene cosa volesse da lui, ma alla fine spostò la mano ad altezza del cavallo e strinse per bene il contenuto, facendosi solo un gran male.
“Oh, quante lagne, femminuccia. Ora, tienili in mano e proseguiamo. Giochiamo un po’, vuoi? Siamo in un pub. Entri, sbattendo le porte, e sei circondato da donne. Forza, conquistale.” E ricominciò a girargli intorno, mimando per bene la scena. 
Paul si morse il labbro: erano anni che non rimorchiava nessuno. In realtà, nemmeno al liceo era mai stato un gran marpione, ma era stato fortunato, perché per merito del suo bell’aspetto, erano le donne che venivano da lui e gli risparmiavano la fatica.
Dunque cominciò a spostare il peso da un piede all’altro, non sapendo bene cosa fare. Doveva fingere che ci fosse Linda, lì davanti a lui? Magari in quel modo ci sarebbe riuscito.
Ad interrompere la sua crisi ci pensò George, che attraversava la palestra per andare alla macchina. Aveva la testa tra le nuvole più del solito, probabilmente aveva di nuovo bevuto uno dei suoi famosi infusi alle erbe.
Gli passò accanto praticamente senza notarli, camminando a zig zag e guardando il soffitto, completamente immerso nel suo meraviglioso mondo. Ah, forse una bella tisana come quella era ciò di cui Paul aveva bisogno, per smettere di pensare una volta per tutte!
Kite, dopo aver scosso la testa davanti a quella scena, borbottando qualcosa tra sé e sé, seguì George e lo placcò prima che uscisse dalla palestra. Velocemente gli mise sotto la maglietta due palle da tennis, e lo costrinse a fare la donna nella sua scenetta. Certo, i capelli potevano facilitare la cosa. Se solo non fosse stato per la barba…
“E ora, conquistala, McCartney.”
Paul si avvicinò, e scoppiò a ridere. George non capiva bene il perché, in quello stato di trance in cui si trovava, ma alzò le spalle, si sistemò il seno e si atteggiò nel modo più civettuolo possibile.
“Forza, McCartney. Non ho tutta la sera.” Intervenne Kite, pescando dal magazzino una mazza da hockey.
“Va bene, va bene. Oh, Georgia. Che splendida… personalità, che hai.”
“Personalità? Dille qualcosa sulle tette!” lo rimproverò Kite, picchiandolo leggermente.
“Trovo che tu abbia degli occhi meravigliosi, sai?” disse alla fine, ma neanche quello doveva aver convinto il collega, perché ricevette un’altra pacca.
“Anche i tuoi non sono poi così male.” Gli rispose invece George, sorridendogli felice.
“E, mh, ti andrebbe di bere qualcosa?”
“No grazie, sono a posto così. Ma sei molto gentile, Macca.”
Kite intanto, dietro di loro, sbuffò sonoramente. Stava avendo a che fare con i peggiori imbecilli, cosa aveva fatto di male per meritarsi tutto questo?
“Pensate di fare qualcosa, voi due?” esclamò alla fine, brandendo la mazza.
“Sì sì. Georgia, sai, tu mi piaci molto.”
George lo guardò, sorridendogli sereno.
“Davvero? Ho sempre pensato ti piacesse John.”
 Paul arrossì e sgranò gli occhi, mentre Kite interruppe con un fischio quella conversazione imbarazzante.
“Basta, Harrison vattene a casa. Magari non guidando la macchina, grazie. E McCartney, fermo immobile dove sei. Non ho finito con te.”
George salutò con la manina entrambi, e se ne andò, con la stessa calma con cui era arrivato. Paul lo guardò uscire dalla palestra, ancora con le palle da tennis sotto la maglia. Nella sua testa intanto si ripeteva continuamente l’ultima frase che gli aveva detto.
Il suo cuore batteva all’impazzata, e le sue mani cominciarono a sudare notevolmente. Cosa diavolo gli stava succedendo?
Per la prima volta si trovò a fissare il vuoto e ad avere paura che Ringo, la Rigby, Mustard e tutti gli altri potessero avere ragione su di lui. E se avessero visto un aspetto di lui che per anni aveva celato? E se lui fosse stato davvero… gay?
Al diavolo, poteva davvero accorgersene a trentaquattro anni suonati, solo perché un suo collega aveva deciso di baciarlo? Oh no, non era possibile, andiamo. Quello non era un film, era la vita reale. Si stava sbagliando, era ovvio, offuscato dalla stanchezza e dall’ansia da matrimonio.
Kite lo lasciò da solo con i suoi pensieri per qualche minuto, mentre andava a recuperare uno stereo.
Quando tornò, sembrò essersi fatto ancora più serio e severo.
“Ora ti aspetta la parte più difficile: il ballo. I veri uomini non danzano. Oscillano da piede a piede, incrociano le braccia infastiditi, ruttano a ritmo di musica, ma non ballano. Ecco perché ora metterò su uno dei tuoi cd, quelli che nascondi nell’armadietto, e dovrai stare fermo. Ti voglio immobile, chiaro?”
Paul annuì, in preda all’imbarazzo. Come avevano fatto a beccare il suo cofanetto? Eppure l’aveva nascosto così bene!
Kite inserì il cd nello stereo, alzando al massimo il volume.
Dalle casse uscirono le prime note di ‘Dancing Queen’, mentre gli Abba cominciavano a cantare le prime strofe. Dio, come faceva a resistere a quella canzone?
I fianchi cominciarono ad oscillare a ritmo di musica senza che potesse fare nulla per fermarli.
“Fermo, McCartney. Guai a te.”
“Sono immobile!” disse, muovendo le mani in una piccola danza.
Si era trattenuto abbastanza bene, fino al primo ritornello. Il problema fu il secondo.
E andiamo, chi poteva davvero stare fermo con ‘Dancing Queen’ a palla?
Non poteva essere l’unico uomo che non riusciva a contenersi. Certo, saltare e piroettare lungo la palestra era stato un pochino eccessivo, se ne rendeva conto, ma aveva tutto quello spazio per sé! Si sentiva come Billy Elliot!
Questo non metteva comunque in discussione la sua eterosessualità, nel modo più assoluto… va bene, forse un pochino, ma decise che fregarsene era la cosa migliore da fare. Almeno per un paio di minuti voleva essere libero da quella fastidiosa vocina che lo interrogava e lo metteva in crisi.
Alla fine, stava facendo il suo celebre moonwalk, quando la canzone si interruppe, e ricevette un ceffone sulla testa.
Si girò, massaggiandosi il capo, con un’espressione da cucciolo ferito.
Ma Kite non era proprio il tipo che poteva cedere ai suoi occhioni. Incrociò le braccia e sbuffò sonoramente, tamburellando il piede.
“McCartney, ho una pessima notizia da darti.”








Angolo dell’autrice:

Ma salve, miei cari lettori!
Allora, capitolo importante questo, non dite che non vi voglio bene! A una settimana da San Valentino, le cose si fanno interessanti, soprattutto tra Paul e John.
Il matrimonio si farà o non si farà? Chissà ;)
Questo capitolo mi ha messo in difficoltà, e sono particolarmente ansiosa di sapere se vi è piaciuto, quindi attendo pareri-critiche-dubbi (anche in via privata, lo sapete).
Intanto un grazie di cuore a tutti coloro che hanno recensito o che hanno semplicemente letto i capitoli precedenti. Siete preziosi e vi voglio bene, ecco. Grazie. Tanti muffin ai mirtilli per voi.
Invece un gigantesco muffin al cioccolato e un cofanetto degli Abba a Kia85 che come sapete, è la mia beta preferita (nonché unica) e mi ha aiutato tanto con questo capitolo difficile <3
Prossimo aggiornamento sabato, per San Valentino, dato che sarà ambientato proprio il 14 febbraio, data del matrimonio. A presto, un abbraccio a tutti voi.
Anya



 


 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 5



 
Quando la sveglia scattò e le prime note di “It’s raining men” si diffusero nella camera da letto, Paul aveva già gli occhi sbarrati. Non si poteva dire che avesse passato la notte in bianco, alla fine era riuscito a dormire una mezz’oretta. Più o meno.
Si alzò con uno scatto e si guardò a lungo allo specchio. Dio, nelle foto dell’album di nozze avrebbe avuto le peggiori occhiaie della sua vita. Per anni i suoi figli, i suoi nipoti, e persino i bis-nipoti, avrebbero notato solo quei segnacci viola che si trovava attorno agli occhi.
Scese in cucina a piedi scalzi, cercando di non fare troppo rumore per svegliare il padre o, peggio, il fratello. Non aveva voglia di litigare, erano appena le sette del mattino e aveva dormito decisamente troppo poco per reggere una discussione prima del tè. Peccato che il mignolo del suo piede avesse deciso di andare a sbattere contro lo spigolo del frigorifero, facendolo urlare dal dolore.
Stette dunque immobile, mordendosi la mano e aspettando che arrivasse giù qualcuno di corsa, e invece nulla. Sollevato, tirò un sospiro di sollievo e riempì il bollitore, preparò la tazza e aspettò che l’acqua fosse pronta.
Il fischio del kettle copriva qualsiasi rumore, e lui era troppo preso dal cantarci sopra “Mr. Sandman” per rendersi conto che Mike era sceso in cucina e lo fissava, con le braccia incrociate.
Dunque, quando si girò e se lo trovò davanti, gli caddero con un tonfo i due cucchiaini ghiacciati che aveva appoggiato sotto gli occhi.
“Cosa diavolo stai facendo, Paul?”
“C’è scritto su internet che funziona, sai per le occh- ehy, aspetta! Ora mi parli?”
Mike di tutta risposta scrollò le spalle, aprì il frigo e cominciò a bere a canna dalla bottiglia del latte, una delle cose che più infastidivano Paul. Lo sapeva che lo stava facendo apposta, e Dio, gli prudevano le mani.
“Senti, fratellino. Possiamo finirla e fare la pace? E’ il mio matrimonio, e vorrei tanto parlare al mio testimone. Vorrei che sapesse quanto mi dispiace di aver rovinato la sua straordinaria festa, e soprattutto vorrei tanto che sapesse quanto gli voglia bene e sia grato di essere stato benedetto da un fratello come lui.” Disse, in modo teatrale, usando un mestolo come microfono.
La piccola ruga sulla fronte di Mike sembrò ammorbidirsi, e con essa la sua espressione. Alla fine sospirò e si avvicinò a lui.
“Vieni qua, brutto bastardo.” Disse, prima di abbracciarlo. Paul ricambiò quella stretta e sentì un piccolo nodo ad altezza del cuore sciogliersi. La tensione si allentò, e gli pareva quasi di respirare meglio, nonostante avesse la testa immersa nei capelli del fratello.
“Scusami ancora se ho mandato tutto all’aria. Volevo solo dimostrarti di essere un vero uomo, non uno che apprezza davvero il karaoke dei musical e i film di Cher.”
Mike gli diede un piccolo pugno sul braccio, una volta sciolto l’abbraccio. Aprì la bocca per rispondergli, ma una voce attirò l’attenzione di entrambi.
Jim era appoggiato allo stipite della porta, con gli occhi lucidi e le mani appoggiate ai fianchi.
“Paul, non ci devi dimostrare un bel niente. A noi vai bene così come sei, indipendentemente dall’etichetta che ti danno gli altri o che ti dai tu. Gay, non gay, etero, bisessuale o quel che vuoi, a noi va benissimo, purché tu sia felice, vero, Michael?”
Mike annuì, abbozzando un sorriso.
Paul sentì gli occhi farsi sempre più lucidi, poi una lacrima gli rigò la guancia, facendogli il solletico.
La verità era che sentiva ora più che mai la mancanza di Mary, nonostante fossero anni che si era abituato a quella assenza. Quel tipo di discorso gli ricordava così tanto sua madre, che non poté non avvertire un grande vuoto all’altezza del cuore, così intenso e doloroso da fargli mancare il fiato.
Ma non poteva permettersi di mostrarsi così fragile e in dubbio, ora più che mai doveva farsi forza, stringere i pugni e andare avanti.
Si avvicinò a grandi passi al padre, e lo abbracciò. Dopo pochi istanti, sentì il fratello unirsi a quella stretta impacciata ma calda.
Quando si staccarono, Paul si specchiò di riflesso in uno dei cucchiai, mentre li raccoglieva da terra.
“Oh, al diavolo, oltre alle occhiaie mi troverò degli occhi gonfi e rossi per colpa vostra, e dovrò chiedere al fotografo di usare Photoshop per non far spaventare nessuno!” esclamò, ridendo, e corse in bagno a rinfrescarsi.
Sotto la doccia, all’improvviso spense l’acqua e stette immobile, ancora insaponato, a contare i rintocchi delle campane della chiesa. Mancavano solo due ore al suo matrimonio.

Con un gesto nervoso della mano, provò a lisciare di nuovo lo sparato della giacca.
Dio, a Glasgow avevano fatto un pasticcio. Lo sparato era arrivato tutto stropicciato e un bottone era allentato. Fece un rapido giro su se stesso davanti allo specchio e, sistemandosi i gemelli della camicia per la millesima volta, sbuffò rumorosamente.
“Come va’?”
“Molto, molto male. Il pantalone è più lucido della giacca, e credo che siano anche una tonalità diversa. O è colpa della luce? Per non parlare del papillon che oggi non vuole stare a posto. Dannazione, sembrerò un contadinotto del Galles.” Disse, slacciandosi il cravattino ancora una volta.
Era così preso dalla propria immagine riflessa e dall’individuare tutti i difetti in quel completo, che non si era nemmeno chiesto chi ci fosse effettivamente alla porta e con chi stesse parlando. Poteva essere Mike o la regina Elisabetta e non gli sarebbe importato.
Ma quando si voltò per chiedere una conferma delle sue critiche, quasi cadde a terra.
Ok, forse avrebbe preferito la regina Elisabetta a…
Lennon?”
“In persona.” Rispose l’altro, inchinandosi appena e facendo il gesto di togliersi un cappello invisibile.
“Cosa diavolo ci fai qui? Sbaglio o ti aspettano a Glasgow? Se sai cosa intendo.” Disse, scimmiottandolo. Girando i tacchi delle sue scarpe lucide, si voltò verso lo specchio per calmare il rossore che si era impossessato del suo volto da quando aveva avuto la malaugurata idea di incrociare lo sguardo di John. Con uno scatto, si aprì il primo bottone della camicia e sbuffò.
“Sì, ho ancora i miei impegni a Glasgow, ma prima dovevo passare a fare i migliori auguri allo sposo.” Disse, avvicinandosi a Paul, affiancando il letto e accarezzando il copriletto con un tocco leggero ed elegante.
A dividerli ormai era rimasto poco meno di un metro, ma Paul si ostinava a dargli le spalle e a studiare il suo comportamento dallo specchio, mentre fingeva di sistemarsi la giacca.
John allungò le mani per toccarlo e richiamare la sua attenzione, ma un urlo dalla cucina lo fece sussultare.
“Figliolo, è arrivato un tuo collega a salutarti! L’ho fatto salire!” gridò Jim, e Paul scoppiò a ridere.
“Sì, grazie, papà. Sono già dieci minuti che è qua e mi rompe le scatole, ma grazie dell’avviso.”
“Figurati!” urlò di risposta Jim, non cogliendo l’ironia del figlio.
John approfittò del silenzio di Paul per afferrare l’uomo dalle spalle e farlo girare.
“Stai fermo e lascia che faccia io.” Sussurrò appena, prendendo il papillon e sistemandoglielo al centro della camicia.
“Dove hai imparato?”
“Oh, ho avuto i miei maestri. E le occasioni in cui dover fare un papillon non mi sono mancate, purtroppo.” Disse, mordendosi il labbro.
Una piccola fitta di gelosia colpì Paul, che già stava rabbrividendo per quel contatto e quella vicinanza. Non che gli importasse, ma quante cose c’erano che non sapeva del suo collega?
E, altra osservazione da non trascurare: i capelli di John avevano sempre profumato di cannella?
Dopo quella che era sembrata un’eternità, il collega si allontanò da lui. Prima che Paul potesse assecondare l’impulso malsano di affondare le mani in quella chioma ramata, per fortuna. Era sempre stata uno dei suoi punti deboli, la cannella.
Il fiocco gli era uscito discretamente, pensò tra sé e sé Paul, ma si limitò a giudicarlo “passabile”, studiandolo allo specchio.
“Come ti senti, Macca?”
Paul abbozzò un sorriso triste e sollevò le spalle. Aprì la bocca, e sebbene non sapesse bene cosa rispondergli, i rintocchi della chiesa gli vennero in soccorso. Mancava solo mezz’ora al suo matrimonio, doveva andare.
Con una leggera piroetta si voltò e, trovandosi a pochi centimetri dall’altro, deglutì rumorosamente.
Non si respirava più, in quella dannata camera, o era solo una sua impressione?
Dio, si sarebbe sciolto il cravattino immediatamente, se solo non avesse implicato avere di nuovo John ancora più vicino a sé.
“Devo andare.” disse con un filo di voce. Aveva bisogno di un goccio d’acqua, immediatamente.
Passò accanto a John, cercando di superarlo, ma il collega lo afferrò per il braccio, per farlo ritornare dov’era.
“Cosa vuoi, Lennon? Devo sposarmi.”
“Posso parlarti di ieri?” Paul sgranò gli occhi, e sperò di avere la forza di allontanarsi il più possibile da John. Fece un passo indietro, e si trovò a sbattere contro lo specchio.
“No, per favore, è stato un errore.” Il suo tono si era ammorbidito, dannazione. Maledisse la sua debolezza, e quella strana e fastidiosa sensazione all’altezza dello sterno, che era così spaventosamente simile a quella provata la prima volta che gli era stato presentato quel nuovo collega.
“E’ vero, è stato un errore, ma è stato l’errore più straordinario della mia vita, Macca.”
Paul si appoggiò allo specchio, e non gli importava nemmeno di lasciare delle ditate o di rischiare di romperlo, e diavolo, sette anni di sfortuna non era proprio ciò di cui aveva bisogno. Avere un sostegno fisico a cui appoggiarsi era più importante di qualsiasi altra cosa, in quel momento.
“Io mi sto per sposare.”
“Lo so.” Disse John, abbassando lo sguardo per celare il velo di tristezza che aveva coperto i suoi occhi.
“Quattro anni, Lennon…” disse infine, in un sussurro.
John lo fissò intensamente. Paul poteva vederlo, il dubbio nei suoi occhi riflesso in quelli di John. Stava dicendo queste cose a se stesso o all’altro? Non poteva più saperlo, in realtà. In quel momento aveva solo una gran confusione.
“E’ come se l’avessi sempre saputo, Macca. Sempre. Ma non ho mai avuto il coraggio di dare un nome a quel groviglio di sensazioni che provavo. Ho passato questi anni a trovarti insopportabile, superbo, altezzoso, pignolo, schizzinoso, vanitoso…”
“Ehy, piano con i complimenti, potrei commuovermi.”
“Ma in questi giorni ho visto un Paul diverso. La storia di Ringo ha portato a galla un aspetto di te che non credevo esistesse, un lato fragile, che non ha fatto altro che far emergere, assieme al tuo, il mio bisogno di avere qualcuno. E non so se quel qualcuno sei tu, perché non ho mai creduto a queste cose, all’amore, ma non riesco a smettere di pensare a quel dannato bacio e a te, cazzo.”
Paul arrossì e distolse lo sguardo dall’altro.
Si era sempre detto che ciò che Ringo aveva dichiarato ai Bafta non l’avesse cambiato minimamente, e invece non era così. E il fatto che persino George fosse tornato ad essere suo amico era un chiaro segnale di quanto si fosse sbagliato. Una persona poteva davvero cambiare in così poco tempo? E un sentimento, poteva evolversi in qualche giorno? E se non fosse cambiato il sentimento, ma gli occhi con cui lo guardava?
Poteva sentire il se stesso di quattro anni prima mentre diceva, con un tono stizzito e superiore:
“Piacere, Paul McCartney. Il preside Epstein vorrebbe tanto una nostra collaborazione, ma mi lasci dire sin da subito, signor Lennon, che musica e arte hanno meno in comune di quello che si possa immaginare.”
E poteva rivedere, come se fosse successo il giorno prima, lo sguardo del collega, che lo squadrava dall’alto verso il basso, con un ghigno a deformargli il viso.
“Sarà divertente allora, signor McCartney, scoprire come le cose che più sembrano diverse tra loro, in realtà siano quelle che meglio si abbinano.”
E Dio, ora erano lì, e Paul aveva lo stesso battito accelerato e le stesse mani sudate, e all’improvviso, dopo tutto quel tempo, ogni cosa stava per acquistare un senso.
Quando ormai era troppo tardi.
Paul, dobbiamo andare o faremo tardi.” Gridò Mike dal salotto, facendolo sussultare.
John era spaventosamente vicino, e Paul ringraziò quell’interruzione.
“Mi aspettano… Scusa.” Sussurrò debolmente. Non sapeva cosa dire, non sapeva come riempire il vuoto delle parole e il vuoto nel suo cuore.
“No, va bene così. Il Destino ha deciso per me, di nuovo. Buon matrimonio, Macca.” John gli diede una pacca sulla spalla, e corse fuori dalla camera e fuori dalla casa, come se stesse scappando da un incendio.
Paul lo guardò dalla finestra, mentre saliva in macchina e partiva alla volta di Glasgow, e gli sembrò di riuscire a respirare di nuovo. Eppure, perché sentiva ancora nell’aria il profumo di cannella?

Jim inchiodò l’utilitaria davanti alla chiesa con poca grazia e, di nuovo, la sentì spegnersi sotto i suoi piedi. Era la terza volta in soli dieci minuti.
Mike sbuffò rumorosamente, ma non si mise ad insultare il padre solo perché lo vide girarsi verso Paul, seduto nervosamente al centro dei sedili posteriori. C’era qualcosa nell’aria, qualcosa di importante, e lo faceva sentire a disagio. Dunque, con una scusa, uscì dalla macchina, e lasciò i due da soli.
Jim lo ringraziò silenziosamente con un cenno del capo, e tornò a concentrarsi su Paul, che intanto batteva frenetico il piede sinistro, facendo oscillare leggermente la macchina.
“E allora?” disse alla fine, toccando appena il ginocchio del figlio.
A quel breve contatto, Paul sussultò vistosamente. Non era presente con la testa, era inutile negarlo. Se n’erano accorti anche Mike e Jim, ma non sapevano cosa fare, per aiutarlo. Ma come potevano essere d’aiuto se non sapevano nemmeno quale fosse il problema? Se nemmeno lui conosceva il dannato problema? L’unica sua certezza al momento, era che la sua vita era diventata un gran caos, senza che potesse nemmeno accorgersene. Aveva provato a ricomporre i pezzi per darle un senso di nuovo e riportarla a com’era prima, e invece, sorpresa!, aveva solo peggiorato ogni cosa.
Ma come dire tutto ciò, senza risultare patetico? Meglio proseguire con la tattica che gli riusciva meglio: negare che esistessero degli effettivi problemi nella sua vita. L’aveva fatto anche il giorno prima, l’aveva fatto per trentaquattro anni, in realtà, un giorno in più cosa gli cambiava?
Eppure, qualcosa si era incrinato. Mordendosi il labbro, non riuscì a rispondere un “tutto bene”, rassicurante e sorridente come suo solito.
“Sono terrorizzato, papà.” Si lasciò sfuggire, alla fine, con un sospiro addolorato.
“E’ normale, Paul. Sai che prima del matrimonio con Mary sono scappato al bar e mi sono ubriacato con del brandy da quattro soldi? Sono tornato a casa per prepararmi e puzzavo terribilmente di alcool. Mio padre, povero diavolo, mi ha preso, mi ha riempito di schiaffi e mi ha chiesto perché l’avessi fatto. E io gli risposi, con tutta l’onestà della mia giovane età, che avevo paura, avevo una fifa blu mai provata prima in vita mia.”
Paul spostò lo sguardo da Jim, all’ingresso della chiesa, dove la gente cominciava ad affollarsi. Il padre aveva lo sguardo basso, le guance rosse e gli occhi lucidi al solo ricordo di quel giorno di tanti anni fa. D’istinto gli prese le mani e le strinse forte tra le sue, sperando di far forza ad entrambi.
“E lui cosa ti rispose?”
“Mi disse così: James, fa paura quando si sta per affrontare il proprio Destino.”
Il figlio aprì la bocca, ma non riuscì a dire nulla.
Le grida giocose dei bambini che si rincorrevano fuori dalla chiesa attirarono la sua attenzione. Alcune giovanissime coppiette, nascoste in malo modo all’angolo della chiesa, si scambiavano piccoli regali e baci timidi e impacciati. Questo gli riportò alla mente che era San Valentino, e al diavolo, era pure la festa degli innamorati. Un motivo in più per sentirsi a disagio.
I tacchi delle donne risuonavano nella piccola piazzetta, scandendo un ritmo spaventoso. Mancavano solo cinque minuti al suo matrimonio, nel ‘giorno più bello della sua vita’.
“Tutto questo, Paul, è per dirti che probabilmente stai per affrontare qualcosa di grosso. Non so dirti con esattezza se ha che fare con Linda, o con qualcun altro, o semplicemente con te stesso, ma lì fuori c’è il tuo Destino. E devi fronteggiarlo.”
Paul lo guardò intensamente, e annuì convinto. Era un uomo lui, perché si stava facendo intimorire in questo modo da una cerimonia che aveva aspettato per anni?
Si stava per sposare, Linda lo amava e lo aspettava. E non le avrebbe rovinato la vita, per colpa di Ringo Starr, né di George Harrison, né tantomeno a causa di quel dannatissimo John Lennon.
Al diavolo, avrebbe affrontato la scelta a testa alta, come in un video di Britney Spears.
O al massimo come in “Don’t stop me now” dei Queen. Ecco, forse era meglio quel tipo di paragone, si trovò a rimproverarsi.
Spalancò con uno scatto la portiera, colpendo involontariamente una povera vecchina che stava per entrare in chiesa. Ma non si fermò per soccorrerla, oh no. Doveva affrontare il suo destino, si giustificò con i passanti e con alcuni conoscenti.
Con passo sicuro e la testa alta entrò in chiesa, ignorando tutte le persone sedute ai lati che lo salutavano. Fece un cenno a Mike e a George Martin, il suo copresidente del club della musica classica, entrambi dritti davanti all’altare in veste di suoi testimoni; salutò rapidamente le due testimoni di Linda e il parroco.
Dopo pochi minuti, con passo frettoloso e incerto li raggiunse anche Jim, sedendosi nella fila deserta riservata ai McCartney.
In perfetto ritardo, come voleva la tradizione, una macchina bianca d’epoca si fermò davanti all’ingresso della chiesa, e al pianista, che si era appisolato, fu data una grossa gomitata per svegliarlo giusto in tempo per suonare la marcia nuziale.
Le prime note risuonarono nella navata, facendo tremare le gambe di Paul.
Cosa ne era stata della sua sicurezza e determinazione? Provò a canticchiare qualcosa tra sé e sé, per rilassarsi un po’, come faceva prima degli esami universitari, ma l’unica cosa che gli venne in mente fu “Vogue” di Madonna.
Oh, merda.
Linda scese dalla macchina, e Paul dovette ammettere che era bellissima, nel suo abito bianco e lungo. Aveva scelto il vestito giusto, non c’era che dire, quella forma metteva perfettamente in risalto il suo fisico magro e slanciato. Certo, fosse stato in Linda avrebbe raccolto i lunghi capelli biondi, ma alla fine la scelta di lasciarli sciolti doveva aver avuto i suoi vantaggi, per la giovane donna.
E poi, al diavolo, a cosa si metteva a pensare?
La vide avanzare, sotto braccio al padre, stringendo in mano un meraviglioso mazzo di gigli, i fiori preferiti di Paul. Era bellissima e radiosa, Dio, non l’aveva mai vista così.
Sembrava che avesse un raggio di sole negli occhi, in quei meravigliosi occhi azzurri che Paul aveva sempre sperato avrebbero ereditato i loro figli.
Ne voleva almeno tre, e sperava in una femminuccia, per chiamarla Mary.
Cosa avrebbe detto sua madre, di quel suo matrimonio? Sarebbe stata felice, o avrebbe colto il tormento che lo divorava? Paul ne era certo, Mary l’avrebbe guardato negli occhi e gli avrebbe detto la cosa giusta da fare. Perché lei sapeva tutto di lui, anche quello che non ammetteva nemmeno a se stesso. Come di provare qualcosa per…
Il signor Eastman interruppe i suoi pensieri, accompagnando Linda al suo fianco davanti all’altare. Le posò un leggero bacio sulla fronte, sollevandole appena il velo, e asciugandosi velocemente una lacrima di commozione, si sedette al banco della loro famiglia, lasciando la coppia da sola, davanti al pastore.
I due sposi si guardarono intensamente negli occhi, dopodiché si voltarono verso il parroco, che schiarendosi la voce con un colpo di tosse leggero, cominciò a parlare.
“Siamo qui riuniti oggi per celebrare l’unione di questo fratello, con questa sorella, dopo anni di amore e vita condivisa insieme. E’ dunque con estrema solennità che chiedo a questa comunità oggi: se qualcuno conosce una ragione per cui questa coppia non debba sposarsi, per favore, parli ora o taccia per sempre.”
Paul sentì la bocca farsi sempre più asciutta, mentre il suo cuore batteva così forte che probabilmente lo sentivano fino… fino a Glasgow.
Il pianto di un bambino dal fondo della chiesa lo fece spaventare a morte, ma fu l’unico rumore che si udì per tutta la navata. Il silenzio era pesante e palpabile, tutti stavano aspettando un colpo di scena che invece non arrivò.
Il sacerdote doveva essere uno tra quelli che si aspettava la rivelazione del secolo, perché attese qualche minuto di troppo per porre fine a quella tortura, dopodiché, sentendo su di sé lo sguardo tagliente di Linda, si decise ad iniziare con il rito vero e proprio.
La cerimonia prevedeva una semplice formula da ripetere, al seguito della quale ci sarebbe stato lo scambio degli anelli, con i rispettivi “Lo voglio”.
Solo allora Linda e Paul sarebbero stati ufficialmente sposati.
Avevano prediletto un rito scarno, senza canti e senza troppi fronzoli, e Linda ora più che mai era felice di quella scelta.
“Perfetto, cominciamo. Cara, ripeti con me.” Disse alla fine il sacerdote, e invitandola a raccogliere il libretto delle premesse, la spronò a leggere le parole che vi erano scritte. La donna si schiarì la voce, e scandì con cura la frase, cercando di dissimulare il tremolio provocato dall’emozione.
“Io, Linda Eastman, accolgo te, Paul McCartney, come mio sposo. Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.” Raccolse l’anello dal piccolo cuscinetto, lo baciò, e lo tenne delicatamente tra indice e pollice, preoccupata soprattutto di farlo cadere a terra.
Paul prese dalle mani di Linda il libretto, e lo strinse forte tra le dita, così tanto da sentire i polpastrelli fargli male. Dopodiché si schiarì la voce un paio di volte.
“Io, Paul McCartney…” fece una piccola pausa, si leccò le labbra, e alzando lo sguardo verso Linda, con voce chiara e decisa, dichiarò, “Sono gay.”



 


 




Angolo dell’autrice:

Ma buon San Valentino, miei cari lettori. State passando una piacevole festa degli innamorati? Avete ricevuto tanti cioccolatini? Intanto, ecco a voi il famosissimo “capitolo del matrimonio”.
Finalmente Paulie ha avuto le pal- emh, il coraggio di affrontare la situazione e di dire No a Linda e sì a Valsoia John. Ma cosa succederà? ;) Intanto, vi dico già da subito che per il prossimo capitolo dovrete aspettare solo mercoledì. Ora, sono o non sono buona? Vi voglio poco bene?
Vi meritate tutto questo amore, siete dei fan straordinari, buonissimi nei miei confronti e mi sommergete di complimenti, di recensioni e di visualizzazioni. Grazie, grazie e ancora grazie.
Spero di ricevere qualche altro parere, da voi. Sono curiosa di sapere cosa ne pensate di questo capitolo e di questi piccioncini.
Un fiume di palloncini colorati e Baci (Perugina) a Kia85, santa donna che sopporta i miei adesivi gay ogni giorno.
A mercoledì, e tantissimi auguri, innamorati di tutto Efp ;)
Anya


 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 6





“Sono gay.”

Nella chiesa si udì un piccolo mormorio, il pastore prese velocemente un fazzoletto e si asciugò la fronte imperlata di sudore.
“No, figliolo, quello che c’è scritto qua. Niente improvvisazioni.” Sussurrò appena, sottolineando con le dita grassocce le parole da leggere.
Linda intanto sgranò gli occhi e spostò lo sguardo dai suoi genitori a Paul, sperando con tutto il cuore di essersi sbagliata.
Il giovane uomo davanti a lei la guardò, e, spostando infastidito dalla sua vista il libretto dei voti nuziali, scosse appena il capo, impercettibilmente.
“No. Linda, amore mio; papà, Mike… tutti quanti. Sono gay.”
“Sei… okay?” disse appena Linda. La sua testa lavorava ad un ritmo frenetico e non poteva ignorare quella parte nascosta che sperava ancora di aver capito male.
Paul scosse di nuovo il capo e si morse le labbra.
“Sono gaysolato. No, desolato. Desolato, sì. Scusami, Linda.”
Per la seconda volta nel giro di pochi minuti, calò un silenzio pesante lungo tutta la chiesa. Nessuno ebbe più il coraggio di dire nulla, e non ci fu nessun bambino pronto a piangere al momento giusto, per sdrammatizzare la scena.
L’unico rumore venne dal fondo della navata, quando l’assistente sociale della scuola, la signorina Wood, si alzò in piedi, gonfiò il petto in fuori, e puntando il dito verso Linda gridò a gran voce, soddisfatta di sé:
“Te l’avevo detto io!”
Dovettero intervenire in quattro per placare l’ira della sposa, che stava per lanciarsi all’inseguimento folle della Wood. La bloccarono e cercarono di tranquillizzarla, mentre si dimenava come una pazza tra le loro mani.
“Linda, amore, ti si sciupa il trucco!” gridò alla fine Paul, e questa cosa sembrò chetarla per qualche istante.
Solo pochi centimetri li separavano, e, ignorando le linguacce dell’assistente sociale, Linda si voltò verso il suo sposo. Lo guardò con un sorriso estremamente dolce, alzò la mano come per accarezzarlo, sussurrando appena il suo nome, come era solita fare nei loro momenti di intimità. Ma non vi fu una carezza, bensì un ceffone così forte da risuonare lungo tutta la chiesa.
Alcuni tra la fila degli Eastman applaudirono, davanti a quella scena.
“Io ti ammazzo, bastardo!” esclamò Linda, e nonostante fosse stata immediatamente bloccata dai testimoni e persino dal sacerdote, continuò a scalciare e a menare pugni all’aria per i successivi minuti.

Alla fine si trovarono seduti in uno dei banchi della chiesa ormai deserta. Linda aveva i piedi appoggiati sulle gambe di Paul, e la testa su quelle della sua testimone di nozze, la cugina Sadie. La madre, intanto, sventolava delicatamente il libretto di nozze per rinfrescare la figlia, che respirava a fatica e passava tutto il tempo a mormorare: “E’ gay, è gay, è gay.”
Dopo un po’ rientrarono anche Mike e Jim, col fiato corto e la fronte sudata. Erano stati incaricati di andare a sistemare i problemi con il catering e con i parenti.
Spiegarono tranquillamente che era bastato rassicurare gli invitati dicendo loro che avrebbero potuto mangiare comunque il pranzo di nozze, e nessuno sembrò più preoccuparsi del fatto che il matrimonio fosse saltato. Ora erano tutti al ristorante ad abbuffarsi di quiche e arrosto di seitan, chiacchierando e divertendosi come se nulla fosse.
Jim si vantò di aver rubato da sotto il naso di un paio di vecchie zie il vassoio dei falafel, e il profumo che emanava quel semplice piatto scatenò un concerto di brontolii affamati. Fortunatamente aveva fatto scorta di posate, e si mise a distribuirle a tutti i partecipanti di quello strano banchetto di non-nozze.
Linda dapprima rifiutò il pasto, era ancora troppo sconvolta da quello che era successo solo un’ora prima, ma vedere Paul addentare un falafel le aprì lo stomaco, e cominciò a prendere forchettate e forchettate di polpette. A nessuno era più stato permesso avvicinarsi al vassoio, perché era diventato un’esclusiva di Linda, e tutti temevano di ricevere una forchettata, o un morso.
“Amore, possiamo…?” si azzardò a chiedere Paul, e lo sguardo che ricevette fu più tagliente di una lama.
“Non chiamarmi amore. Hai perso ogni diritto di farlo.” Disse la donna, con gli occhi ridotti ad una fessura e la bocca piena. Strinse ancora di più il vassoio tra le proprie braccia e si allontanò da tutti loro, uscendo dalla chiesa alla volta di chissà dove.
Paul si girò per guardare chi l’avrebbe seguita, ma i parenti della sposa gli fecero chiaramente capire che a causa sua eranoin quella situazione, e a lui toccava rimediare.
Dunque, preoccupato e affamato, seguì Linda, mentre Jim, Mike e gli Eastman decisero di andarsene al banchetto nuziale.

Paul bussò delicatamente alla porta d’ingresso e scoprì così che non era chiusa. Spinse con lentezza la maniglia e trovò Linda davanti alla finestra, che ripuliva il vassoio con l’indice.
La donna non aveva fatto molta strada, in realtà, perché il suo appartamento distava pochi metri dalla chiesa, ma lo strascico del vestito era comunque rovinato e sporco a causa della noncuranza con cui era stato trattato.
D’altronde, come darle torto? Non le sarebbe servito più a molto.
Le scarpe di Paul facevano rumore, sul parquet, e Linda si voltò a squadrarlo, con uno sguardo assassino.
“Cosa vuoi?”
“Possiamo parlare di quello che è successo, per favore?”
“Va bene, forza. Comincio io: sei davvero gay?”
Paul sgranò gli occhi. Wow, era un inizio che non prometteva nulla di buono.
Facendosi coraggio strinse i pugni e annuì mestamente.
“Mi spiace, Linda…” la donna sgranò gli occhi, e le sue guance si tinsero di un rosso molto acceso.
“E di grazia, hai deciso di esserlo solo adesso? Hai avuto tre, anzi no, hai avuto trentaquattro anni di tempo per capire di essere gay, e hai improvvisamente sentito il bisogno di palesarlo ora?! Mentre ci scambiavamo le promesse? Durante il nostro dannatissimo matrimonio?  Matrimonio che abbiamo organizzato insieme? Cristo, Paul, ti ho fatto scegliere tutto, dalle fedi al vestito, dalla torta ai fiori, e persino il velo!” La voce era stridula e il suo tono era così alto che Paul ne era certo, avrebbe fatto tremare i vetri.
“L’acconciatura però l’hai scelta tu, ed effettivamente…”
“Ora mi lasci finire una volta per tutte e stai zitto. “ Si fermò per interromperlo, la mano diritta e tesa e il corpo in tensione. Si stava chiaramente trattenendo per non saltargli addosso e picchiarlo di nuovo. Una volta visto che era riuscita a far tacere Paul, ricominciò a camminare nervosamente avanti indietro in maniera febbrile.
“Io mi sentivo fortunata, sai? Mi sentivo benedetta dal cielo ad avere un fidanzato più intelligente, più sensibile e più interessante di me. Pensavo che mi avresti fatto scoprire l’arte, e la musica e… pensavo fossi l’uomo più straordinario mai esistito, e mi sentivo così fortunata a stare con te che ero disposta a sorvolare sul fatto che mi trascinassi a vedere Dirty Dancing almeno una volta al mese. Va bene, c’erano delle cose che trovavo strane, lo ammetto: il cofanetto di Cindy Lauper, per esempio, o il concerto di Boy George, o le maratone di Sex and the city e quell’insolita passione per Tutti insieme appassionatamente . Ma mi stava tutto bene, ero disposta a mandar giù ogni cosa, perché ti amavo e perché ero convinta che anche tu mi amassi. Cosa diavolo è cambiato? E’ colpa dei Bafta?”
Paul si dovette sedere, e si passò una mano sul viso, non sapendo da che parte cominciare.
Se avesse saputo cos’era scattato nella sua testa, se fosse stato in grado di mettere davvero in ordine i suoi pensieri, avrebbe potuto rispondere a Linda con tutta l’onestà che si meritava. Ma non ne era in grado.
Perché sì, Ringo e i Bafta avevano influito in modo decisivo alla sua improvvisa epifania, ma solo perché avevano portato John nella sua vita. John che non era più solo un collega molesto e insopportabile, ma un amico e una persona con cui sentiva di avere un qualcosa, un legame speciale.
Paul sgranò gli occhi e arrossì ai suoi stessi pensieri.
“E allora?” Linda tamburellava il piede nervosamente, e cominciava a non poterne davvero più di aspettare delle risposte.
“Credo di non aver mai avuto il tempo e l’occasione di interrogarmi a riguardo. E’ come se per tutta la vita, ogni volta che stavo per mettere in questione la mia sessualità, fosse intervenuto qualcuno a distrarmi. E non posso negarti che mi faceva comodo così. Ma ora è successo qualcosa e… non posso più negare l’evidenza.”
“Che diavolo vuol dire?”
Che mi sono innamorato, si trovò a pensare Paul. O forse lo era sempre stato e non lo aveva mai capito.
In tutti quegli anni le infatuazioni e le storie più o meno serie l’avevano sempre distratto al punto giusto, permettendogli di ignorare una questione dannatamente seria. Ma ora si trovava davanti ad un sentimento così importante che non poteva essere nascosto in alcun modo. Un sentimento verso un altro uomo. Dio, il solo pensiero lo faceva arrossire!
Eppure, strano ma vero, si sentiva bene. Temeva che sarebbe stato spaventato, intimorito, scoraggiato, e invece si sentiva sereno. Certo, provava imbarazzo a pensare queste cose mentre Linda lo guardava, col trucco colato e il vestito sgualcito, arrabbiata con lui perché aveva mandato all’aria il loro matrimonio, ma non poteva fare altrimenti. Ed era sicuro che prima o poi lei l’avrebbe ringraziato per quel suo atto di coraggio.
La giovane donna si lasciò cadere sul divano con un lungo sospiro, e giocò un po’ con il tulle della gonna.
“Lo sai che giorno è oggi, Paul?”
L’uomo annuì distrattamente, sedendosi al suo fianco con poca eleganza.
“Buon San Valentino.” Disse alla fine, strofinandosi gli occhi in preda alla stanchezza.

Paul restò con Linda ancora per un’oretta, le preparò un tè, la aiutò a liberarsi dal vestito, dopodiché sentì il bisogno di lasciarla da sola e di stare da solo a sua volta.
In realtà si sentiva a disagio: da una parte sentiva il bisogno di parlare con qualcuno, dall’altra non aveva voglia di vedere nessuno. Dunque escluse immediatamente l’opzione di tornare a casa, era pieno pomeriggio, probabilmente avrebbe incontrato qualche parente che lo aspettava dopo il pranzo di nozze, pronto a riempirlo di domande a cui non aveva voglia di rispondere.
Fortunatamente, infilando le mani in tasca, trovò le chiavi della macchina, e questo gli portò alla mente che aveva chiesto espressamente a Jim di lasciargliele. Con calma e tranquillità, evitando la strada principale e imboccando solo i vicoli secondari, arrivò al parcheggio e scoprì che la sua utilitaria era l’ultima rimasta. Qualcuno doveva aver pensato di fargli una bella sorpresa, perché trovò il cofano infiocchettato col tulle e alla targa posteriore erano stati attaccati dei barattoli dipinti di bianco. Nell’aria c’era ancora il profumo dei gigli, e alcuni palloncini azzurri si erano staccati dall’ingresso, volando leggeri attorno alla chiesa. Il cielo si era incupito e una fredda brezza entrava nel completo elegante di Paul, facendolo rabbrividire ancora di più di quell’atmosfera così triste e malinconica.
Si strinse nella giacca, strappò con rabbia tutte le decorazioni e cercò di trattenere le lacrime. Quando finalmente salì nella piccola utilitaria, si appoggiò stancamente ai sedili e si sentì meglio, più protetto e più caldo.
Inserì un cd a caso e, avviando il motore, lasciò che la macchina lo portasse dove voleva lei, mentre “Don’t stop me now” ad alto volume gli impediva di pensare.

Paul non poteva dire di sentirsi davvero sorpreso di essere finito a Southend. Alla fine la strada era meravigliosamente dritta, tagliava a metà la campagna scozzese e finiva con uno spettacolare scorcio sul mare, come poteva non volerci andare? Lì ogni pensiero trovava la pace, ogni problema affogava nel blu delle acque gelide della Scozia, ogni malessere veniva portato via dal vento forte che profumava di salsedine.
E poi… e poi aveva voglia di vedere John.
Era normale, voleva raccontargli cosa fosse successo prima dei suoi colleghi, prima che l’informazione arrivasse distorta. Senza parlare del fatto che solo poche ore prima avevano avuto una conversazione sul filo del rasoio, ed era sembrato solo a lui, o quello che John gli aveva detto suonava tanto come una dichiarazione? In preda al batticuore e al rossore, Paul affondò ancora di più nel sedile, coprendosi il viso con le mani e scuotendo la testa rapidamente.
Cercando di darsi un contegno e di ricordarsi che era un adulto di trentaquattro anni, controllò l’ora. Erano ormai le cinque, e si stava già facendo buio. Che stupido era stato, quando John andava a Glasgow tornava molto tardi, non era certo a casa per l’ora del tè. E poi ci andava per loschi motivi, forse per raggiungere una fidanzata, o peggio, per vivere torbide avventure occasionali con affascinanti sconosciuti.
Chi si credeva di essere, lui, Paul McCartney, un professore sopra i trenta con la pancetta, per poter catturare il cuore di John Lennon? Sbatté la testa contro il volante un paio di volte, dandosi dello stupido e dell’illuso, prima di appoggiarsi ad esso. In preda alla frustrazione e alla stanchezza, cercando di porre fine ai mille pensieri che affollavano la sua mente, si addormentò.

Non sapeva esattamente che ora fosse quando si svegliò, ma i piedi, stretti nelle scarpe nere lucide, erano gelati e facevano male; il naso era rosso e gocciolante, e le mani tremavano. Eppure, si era svegliato non a causa del freddo, ma per colpa dei fari accesi di due macchine che gli passarono accanto.
Benedetti quei passanti, sarebbe potuto morire congelato! Nel suo completo migliore, con i capelli appena tagliati e la barba curata, ma congelato! Solo dopo un paio di minuti, mentre sfregava le mani tra di loro per recuperare la sensibilità, si ricordò bene dov’era.
Stava aspettando che tornasse John da Glasgow. Dio, doveva essere matto. Controllò rapidamente l’ora sul suo orologio, erano le nove. Aveva dormito più di tre ore!
Stupida stanchezza, chissà cosa avrebbero pensato i vicini di lui. Guardò rapidamente nella strada davanti a sé per controllare che nessuno lo stesse spiando, quando notò che le due macchine che l’avevano svegliato erano ferme davanti a casa di John. Si asciugò gli occhi, umidi dal sonno, e mise a fuoco la targa e il modello di utilitaria: era quella del collega, John era finalmente tornato! Ma l’altra, una berlina così elegante e costosa, di chi era?
Affondò nel sedile per paura di essere visto, dimenticandosi di essere immerso nel buio più totale nell’ultima parte abitata della Scozia, una zona in cui i lampioni non erano contemplati. Si sentiva come il protagonista di un film di spionaggio, e questa cosa gli fece tremare i polsi dall’eccitazione.
Come se non fosse già abbastanza agitato, ci si mise anche John, che uscì dalla macchina e chiuse la portiera con uno colpo secco. Il battito di Paul si velocizzò ancora di più, rendendogli difficile il pensare in modo razionale. Gli prudevano le mani, sentiva il bisogno di andare incontro al collega, e stava per uscire dalla macchina come un pazzo, quando dalla berlina scura ed elegante uscì una figura femminile che Paul non riuscì bene a mettere a fuoco. Da lontano gli sembrava una donna mai vista, ma d’altronde, conosceva così poco di John. Poteva persino essere sua moglie, cosa ne sapeva lui?
Di Lennon aveva solo un paio di frasi fatte, un profumo meraviglioso che non lo abbandonava da troppe ore, una mezza dichiarazione neanche troppo romantica, un bacio e un passato misterioso e confuso. Altro non sapeva. E Paul era stato così stupido da mandare in aria il proprio matrimonio, da distruggere il suo mondo, per quello.
Dopo averli visti entrare in casa, decise di uscire dalla sua macchina per seguirli con il passo felpato e l’aria da detective vissuto. Se non altro, si sentiva un gran figo!
Vide accendersi la luce della cucina, e si appostò sotto la grande finestra del lavabo, cercando di captare anche un minimo della conversazione tra i due, ma niente, da quei vetri spessi non usciva niente. Dunque, si alzò sulle punte per spiare la scena tra le veneziane. Ciò che vide lo fece quasi cadere a terra dallo shock.
John stava ricevendo una busta molto spessa da una donna magra e molto più bassa di lui, dai capelli arruffati e neri. Paul si tenne aggrappato al piccolo davanzale, cercando di stare in equilibrio, per vederle la faccia. Quando la donna si girò, mostrando il suo piccolo viso elegante dai lineamenti orientali, la riconobbe immediatamente. Era una delle giornaliste che circondavano la scuola appena scoppiato lo scandalo dei Bafta. Cosa ci faceva lì?
Paul sentì il cuore stringersi in una morsa quando vide John aprire la busta e contare tanti, tanti soldi. Erano almeno dieci mazzette da 100 sterline, poteva riconoscerne il colore anche attraverso la tenda.
C’era solo un motivo per cui una giornalista, proveniente dalla City, potesse pagare John.
E Paul aveva il forte sospetto che c’entrasse lui.

La giornalista asiatica se ne andò sbattendo la porta senza troppe cerimonie. Paul, nascosto dietro l’angolo della casa, aveva aspettato per più di mezz’ora che quella dannata tizia se ne andasse. Ormai non si sentiva più le mani e i piedi, aveva cominciato a battere i denti ed era sicuro che l’umidità altissima non avesse giovato molto ai suoi capelli. Nella sua testa, in realtà, assomigliava molto a Leonardo di Caprio in Titanic, nella scena dopo il naufragio. Ma in fondo, non poteva rischiare di tornare alla propria macchina per riscaldarsi, aumentando così le probabilità che si accorgessero della sua presenza. Il quartiere, muggiti e campanacci a parte, era molto silenzioso.
Durante quella mezz’ora, inoltre, era stato troppo impegnato a pensare ad un piano d’azione degno di un McCartney. Aveva progettato di spalancare la porta d’ingresso con un calcio, gridando una frase ad effetto, ma come piano era solo molto scenografico e molto poco utile. Senza considerare che non aveva delle gambe così allenate. Meglio entrare con calma e agire di testa, più che con il corpo.
Dunque, optò per una suonata di campanello chiara e decisa. Si sentiva sicuro di sé come non mai, determinato, lanciatissimo e coraggioso.
Neanche il tempo di vedere aprirsi la porta, che Paul si nascose dietro la piccola serra, approfittando dell’oscurità del patio, con il respiro affannato e il cuore a mille.
Hai dimenticato qualc- ma che diavolo?” sentì dire a John, con la voce scocciata tra una boccata e l’altra di fumo. Lo vide guardarsi intorno alla ricerca di chi poteva esserci, a quell’ora della sera che si divertiva a fargli degli scherzi così sciocchi. Poi, sbuffando infastidito, si chiuse la porta alle spalle.
Paul pensò di essere il peggiore tra gli imbecilli della Scozia. Scappare così, dopo mezz’ora che progettava quel grandioso confronto! Si sistemò il colletto della camicia e si ricaricò di nuova determinazione e sicurezza. Doveva affrontare John e cancellare tutti i suoi dubbi. Dunque, inspirò a lungo, e risuonò il campanello.
Quando John aprì la porta, Paul ignorò l’impulso di scappare e non si mosse di un centimetro, rimanendo fermo davanti all’ingresso, lasciando che la sua figura venisse illuminata dalla luce del salotto. Trovarsi davanti il collega, con un coltello da cucina in una mano e la sigaretta nell’altro gli provocò un misto di ansia, divertimento e qualche altro sentimento non ben decifrato, ma molto caldo.  Non lo aveva mai visto con un abbigliamento casalingo, e Paul doveva ammettere che la t-shirt un po’ larga e slavata gli donava molto.
“Oh, Macca? Cosa ci fai qui?”
Lennon. Posso entrare?” John annuì con foga, gli fece cenno di accomodarsi, e vedendolo così infreddolito, corse subito a preparagli una tazza di tè caldo.
Si accomodò sul divano rosso, spostando appena qualche cuscino terribilmente anni ’60 e una coperta fatta a maglia. Doveva aver offerto del tè anche alla giornalista, perché sul tavolino accanto al sofà c’erano due tazze vuote e sporche. Fortunatamente però, il collega aveva acceso il camino, e quindi per qualche minuto Paul si beò del tepore che veniva dal fuoco.
Lo sentì trafficare in cucina, con il bollitore e con il fornello, e intanto, nella sua testa, Paul si ripeté mentalmente di affrontare la situazione della giornalista non appena fosse tornato.
Priorità assoluta, nulla l’avrebbe distratto dalla sua ricerca della verità.
“Ho pensato che del vino speziato andasse meglio.” Disse John, svegliandolo dal torpore in cui era caduto.
Paul ringraziò e bevve con avidità un bicchiere del vino rosso, ricordandosi troppo tardi di essere a stomaco vuoto dal giorno prima. Un giramento violento di testa quasi lo fece cadere dal divano.
Dannazione, quanto era forte! Ma ora come faceva ad affrontare un discorso serio come quello, con la testa in una nebbia etilica? Cosa ne era delle sue pioprità… priorirà… priori-cosa?
“Tutto bene, Macca?”
“Sì, sì.” Mentì, strofinandosi gli occhi per cercare di darsi un contegno.
“Non… non dovresti essere con Linda? Per la prima notte di nozze, tipo?”
Paul scoppiò a ridere senza essere in grado di frenarsi e si versò un altro bicchiere di vino, che bevve con voracità. In preda ad un altro giramento, appoggiò la testa sulla spalla del collega. Si sentiva così stupido!
“No, io… non mi sono sposato. Ecco.” La sua voce era un sussurro, dirlo a voce alta e chiara non sembrava ancora del tutto accettabile, per la sua testa.
“E perché?” anche dalla sua strana posizione poteva vedere lo sguardo serio di John, come si mordeva il labbro, abbassando appena gli occhi e Dio, poteva essere l’alcool che parlava, ma era la cosa più bella del mondo. L’aveva sempre trovato così attraente, dannazione.
Sentiva qualcosa nella sua mente, una sorta di straordinaria leggerezza data dal vino, e Paul poté giurare di non sentirsi così sereno da troppo, troppo tempo. Il respiro caldo di John gli accarezzava dolcemente i capelli, e si sentiva come calamitato verso l’altro, come se il suo destino fosse stretto tra le labbra di quell’uomo.
Voleva coprire quei pochissimi centimetri che li separavano, voleva avvicinarsi e baciarlo con tutto se stesso, ma era come se quel semplice gesto lo terrorizzasse. C’erano troppi dubbi: su cosa provava John e su qual era il suo oscuro passato, su quella dannata giornalista che aveva appena lasciato la casa. Senza considerare che quella giornata era stata troppo lunga, troppo piena, troppo… troppo. Ora voleva solo stare lì, vicino al collega, a pensare a quanto quello fosse il suo posto giusto nel mondo.
Senza nemmeno rendersene conto, chiuse gli occhi, e con un lungo sospiro, si addormentò, mentre il braccio di John lo stringeva a sé in un abbraccio caldo e famigliare.

La mattina Paul si svegliò presto, in preda ad una dolorosa fitta al collo e all’osso sacro. Ci mise un po’ a riconoscere l’ambiente circostante, a causa del muro verde e dei cuscini colorati che gli erano piombati addosso in una delle sue manovre sofferenti.
Quella sicuramente non era casa sua, non avrebbe mai scelto una carta da parati con una fantasia simile per l’ingresso, confondeva gli ospiti. Come aveva fatto a non notarla, la sera prima? Inoltre, per quanto si ritenesse un amante dell’arte, i quadri appesi al muro non erano proprio nel suo stile. Si strofinò gli occhi e, una volta alzato, si tolse le scarpe, per evitare che i tacchi facessero troppo rumore sul pavimento. Fortunatamente, John doveva essere un appassionato di India e Oriente, perché in tutta la casa c’erano tappeti persiani o presunti tali, che gli permisero di non congelarsi troppo i piedi camminando scalzo.
Dopo una tappa rapida al bagno, Paul moriva dalla voglia di esplorare il piano di sopra, dove doveva esserci la camera di John, ma gli scricchiolii rumorosi provocati dal suo peso sugli scalini lo fecero desistere dal suo scopo. Forse doveva mettersi a dieta…
Scrollando le spalle, si diresse in cucina, e la trovò stranamente fornita e ordinata, magari John aveva una donna delle pulizie? Non poteva essere altrimenti, un uomo non poteva curare così tanto una casa grande come quella! Gli piaceva che i mobili fossero tutti personalizzati e colorati in modo armonico, forse era uno dei suo passatempi. Anche il muro del corridoio era stato ridipinto secondo la fantasia di John, con dei splendidi rami di mandorlo in fiore. Accarezzò la pittura, sentendo le consistenza diversa sotto le sue mani fredde.
L’orologio segnava le otto, Paul era già in piedi da un’ora e sapeva perfettamente che avrebbe dovuto aspettare ancora parecchio tempo prima che John si svegliasse. Si pentiva di non aver affrontato la sera precedente la questione della misteriosa donna orientale, e di non aver spiegato al collega il motivo per cui non si era sposato, che erano anche le scuse principali per cui era lì. La stanchezza era troppa, e quel caldo tepore gli aveva fatto pensare che non aveva di cui preoccuparsi, avrebbe avuto tempo per parlargli di ogni cosa con calma. Senza considerare che aveva avuto paura della reazione di John, della sua risposta sia riguardo il loro “rapporto”, sia riguardo la giornalista.
Per quanto concerneva entrambe le questioni, Paul si era fatto un’idea ben precisa, ed era terrorizzato di vedersi confermare un’ipotesi così brutta, meglio posticipare per una volta.
Nel frattempo, i brontolii della sua pancia si erano fatti troppo forti per essere ignorati. Dunque, stranamente a proprio agio in quella casa sconosciuta, Paul si preparò un tè, rubò dalla dispensa qualche biscotto macrobiotico (macro… che? Non significava velenoso, vero?) e si sedette al tavolo, accendendo la piccola televisione.
La BBC era terribilmente noiosa la mattina, con quei programmi di intrattenimento scadenti e banali, dove venivano intervistati scrittori da quattro soldi alla disperata ricerca di visibilità e denaro facile.
Sorseggiò rumorosamente il suo tè e stava per inzupparci un biscotto, quando questo gli cadde nella tazza e lì annegò, trasformandosi in poltiglia. Paul detestava quando succedeva, ma stavolta non ci fece caso, perché era troppo impegnato ad alzare febbrilmente il volume della televisione.
Non riusciva a crederci, sotto i riflettori c’era quella giornalista giapponese, e stringeva in mano un libro.
“In & Out: scoprirsi gay sopra i 30 anni. Tratto dalla storia vera di Paul McCartney.”









Angolo dell’autrice:

Buonasera, bella gente.
Dopo la sorpresa di San Valentino, ora Paulie si ritrova ad affrontare un’altra inaspettata notizia! Insomma, come dico sempre io, mainagioia. Inoltre in questo capitolo appare il personaggio di Yoko (proprio il giorno del suo compleanno) e si scopre qualcosa in più sull’arredamento della casa di John. Queste ultime erano informazioni fondamentali, lo so.
Non c’è di che.
Spero che vi sia piaciuto questo capitolo, come al solito ci terrei a sapere cosa ne pensate. In generale comunque siete meravigliosi e vi adoro, ecco. Tutte quelle recensioni anche lo scorso capitolo… ma fatevi abbracciare uno ad uno! Grazie mille <3
Invece, un sacchetto di biscotti macrobiotici e una copia del libro di Yoko Ono a Kia, benedetta donna che ha betato questo capitolo. Ormai sarete stufi di sentirmelo ripetere ogni volta, va beh. 
Il prossimo aggiornamento purtroppo sarà lunedì, perché questo weekend sarò a Milano in “vacanza”, e conoscerò anche Kia dal vivo. Mi farò autografare la fronte.
Ok, ora la pianto, a presto e grazie ancora, persone meravigliose ;)
Anya

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 7







Dopo quella che era sembrata un’eternità, gli scalini scricchiolarono sotto il peso di John che scendeva la scala, sbadigliando e grattandosi la testa.
Una parte di lui doveva essere molto sorpresa di vedere Paul ancora lì, sul suo divano, e non poté fare a meno di rivolgergli un ampio e dolcissimo sorriso, mentre gli augurava il buongiorno.
Purtroppo Paul non era più così di buonumore, e cercò di manifestare subito il suo nervosismo, mantenendo una certa distanza di sicurezza dal collega e guardando fisso il pavimento. Non avrebbe permesso al suo cervello di cadere di nuovo nella trappola di John, indugiando su quel corpo così… così dannatamente attraente, ecco.
“Hai dormito bene? Volevo portarti in camera degli ospiti, ma non volevo svegliarti, scusami. Dormivi così bene, Macca! Una principessa sul p…”
“Non importa.” Rispose l’altro in modo freddo, mettendo fine a quel patetico discorso.
John aveva capito subito che c’era qualcosa che non andava in Paul. Aveva imparato in quei quattro anni che il collega diventava suscettibile a stomaco vuoto, e gli sembrò una buona idea quella di preparargli qualcosa da mangiare per farlo stare meglio.
“Tutto… ok? Hai fatto colazione?” gli domandò.
“Sì, mi sono preparato un tè e ho guardato la televisione. Non crederai mai cosa ho visto al ‘Good Morning Britain’ di stamane.”
“Cosa? Un altro servizio sulla gravidanza di Kate Middleton?”chiese John sbadigliando, fingendo indifferenza. Non che lui guardasse quei programmi da casalinghe…
“No. Un’intervista ad una giornalista giapponese, la stessa che è uscita da casa tua ieri sera. Una certa Yoko Ono. La conosci, Lennon?”
John deglutì rumorosamente, e l’altro poté giurare di vederlo impallidire lentamente. Con movimenti lenti e controllati si sedette sul divano, mentre Paul, infastidito da quella improvvisa vicinanza, si alzò e aumentò la distanza tra loro due. Inoltre, uno strano nervosismo si era impossessato delle sue gambe, e non riusciva a stare fermo. Sentiva il bisogno di muoversi, di stare in piedi e camminare o avrebbe incanalato quell’energia negativa in modo molto meno elegante.
“Devo sapere una cosa, Lennon. Sei stato tu?”
Paul si sarebbe aspettato di vederlo negare, di vederlo scuotere il capo dicendogli che era innocente, che quella era solo una strana coincidenza, uno scherzo del destino. E invece, la risposta che arrivò lo spiazzò ancora di più.
“Sì. Sono stato io.” Dopo averla temuta e aspettata, la nuda e cruda verità bruciava nel cuore di Paul più di quanto immaginasse. All’improvviso sentì il bisogno di voltarsi di scatto, per evitare di guardarlo negli occhi.
Dio, ma cosa stava succedendo alla sua vita in quei giorni? Era troppo chiedere che qualcosa filasse liscio?
“Posso solo sapere il perché?”
“Avevo bisogno di soldi, va bene? Dannatamente bisogno di soldi. Non… non posso spiegarti il motivo, ma è così. E quella giornalista mi ha offerto un mucchio di grana, quando sono arrivato a scuola lunedì. Credo abbia scelto me perché sono l’unico che si è effettivamente fermato ad ascoltarla, ma quando ho sentito le cifre di cui parlava, ho pensato che fosse un segno del destino. Ci siamo incontrati dopo il lavoro e mi ha spiegato la sua situazione: le bastava solo che le fornissi informazioni su di te sufficienti per riempirci un libro. Non poteva accontentarsi di una misera intervista come tutti gli altri, aveva bisogno del colpaccio per sfondare, e io gliel’ho dato.”
“Quindi… tu hai cominciato ad essere mio amico solo per quello? Per i soldi, vero?”
“Beh, non posso negare di essere stato più insistente in questa settimana, ma ho sempre provato ad avvicinarmi a te, sei tu che non me l’hai mai permesso! Sempre con quel nasino sollevato, troppo impegnato ad odiarmi e a trovarmi difetti per vedere quanto provassi ad essere tuo amico.”
Paul si stropicciò gli occhi nervosamente. Aveva capito solo di recente cosa succedeva dentro di lui quando si comportava così verso il collega, ma dannazione, quanto lo feriva nel profondo quel maledetto discorso! Poteva rivedersi rispondere scocciato a John, allontanarlo ogni volta che si avvicinava, guardarlo male mentre parlava con George in sala professori…
“E Harrison, c’entra anche lui?”
“Mi ha dato una mano, non posso negarlo, ma non credo fosse del tutto consapevole del motivo per cui lo faceva. Lo sai com’è George. Non avercela anche con lui, per favore.”
Dio, ora Paul era furibondo. Strinse i pugni fino a farsi male per trattenersi dal picchiare John, e riprese a camminare lungo il salotto, ancora scalzo, senza essere in grado di dire o fare alcunché, boccheggiando come a cercare un briciolo di razionalità per proseguire quel discorso.
Si sentiva così stupido e ingenuo, era caduto nella trappola di Lennon come quelle studentesse liceali che si innamoravano di lui ogni anno. Le vedeva ogni volta pendere dalle sue labbra, ripetere intere frasi dette dal professore come se fossero perle del miglior filosofo e poi piangere nei bagni perché il corso di arte era finito.
Paul non solo aveva creduto alla sua amicizia, ma si era anche… ah, il solo pensarci lo faceva imbufalire ancora di più.
“Va bene, mettiamo che Harrison sia innocente, ma perché allora ti sei impegnato tanto per aiutarmi? Per farmi capire se fossi o non fossi gay?”
“All’inizio mi limitai a dare tutte le mie informazioni su di te, sui tuoi gusti musicali e letterari a Yoko. Ma lei non solo non sganciò la grana, ma cominciò a dirmi che il libro non poteva parlare solo dei tuoi dubbi, c’era bisogno di un po’ di pepe nella storia, per vendere. Sai, il come andrà a finire che tiene i lettori incollati fino all’ultima pagina. Si sposerà o non si sposerà? E’ gay o non è gay? Chiaramente, Yoko aveva bisogno che tu fossi gay, per rendere la vicenda ancora più piccante.” John stava cercando di raccontare la cosa nel modo più freddo e razionale possibile, ma la bocca secca rendeva difficile per lui parlare come se nulla fosse di quegli argomenti così delicati. Paul non poté fare a meno di sbiancare e si aggrappò alla poltrona prima di sedersi, in preda ad un mancamento. Vedere quanto fosse imbarazzante per il collega raccontargli i dettagli scabrosi non attenuava il malessere che l’aveva colpito, per nulla.
John si prese una piccola pausa, sfregandosi gli occhi lucidi. Cercò una sigaretta e la accese, prendendo una lunga boccata. Si alzò per aprire la finestra per far uscire l’odore di fumo, sapeva che a Paul non piaceva. Inoltre, sentiva il bisogno di respirare un po’ di aria fresca, per provare ad alleviare il peso all’altezza dei polmoni che non sembrava lasciarlo. Paul rabbrividì a causa di una ventata, ma non reagì in nessun modo davanti alla finestra aperta. In realtà, non reagì nemmeno al discorso di John, e quest’ultimo si sentì in dovere di proseguire il suo triste monologo.
“Il problema, Macca, è che era nato tutto per fregare te, ma non avevo preso in considerazione che quello che stava rimanendo fregato fossi io. Mercoledì sera ho ricevuto una chiamata da Yoko mentre tornavo da Glasgow, e, come mi ha suggerito lei, mi sono fermato al bar. Pensavo di aver cominciato a farti capitolare, per assistere al tuo outing prima del matrimonio. Mi ripetevo di pensare alla grana che mi sarei intascato, al successo del libro... E invece stavo solo mentendo a me stesso. Cazzo, il giorno dopo ero dannatamente felice di rivederti, ma per motivi che non c’entravano affatto col denaro. Venerdì, quando ti ho baciato mi sono detto che ce l’avevo fatta, che ero stato bravo e che ero riuscito a farti capire la tua vera natura, ma le sensazioni che quel semplice bacio mi ha dato mi hanno stravolto. Non ho mai provato nulla del genere con nessun altro. Mai.”
John si prese una piccola pausa per spegnere nervosamente la sigaretta. Aveva fatto solo pochi tiri, lasciando che si consumasse da sola, appoggiata sul posacenere, mentre lui si lasciava ipnotizzare dal suo fumo, mentre diceva quelle parole così importanti e allo stesso tempo così pesanti. Al diavolo, lui non era tipo da dichiarazioni d’amore e si trovava a farne due nel giro di un weekend.
“Vallo a dire a qualcun altro, Lennon.”
“No, dico davvero. Ieri mattina ero a tanto così dal dirti tutto quanto, tutta la verità su Yoko e sul suo libro. Non volevo che venissi a scoprirlo da un programma di serie B alla tv. Ma quando ti ho visto, con il tuo completo elegante, gli occhi pieni di insicurezze e le mani tremanti… non ho capito più niente. Quello che ti ho detto era vero, non faceva parte del piano originario, quello è andato in malora già dopo il primo giorno, fidati di me, non ti sto dicendo una bugia.” John si chiese se stesse davvero dicendo quelle cose, senza una scusa dignitosa a coprirgli le spalle. Doveva essere ammattito per mostrarsi così fragile! Una parte di lui, una parte estremamente orgogliosa e testarda, cercò di fermare quel discorso implorante, da ragazzina innamorata, ma la verità era che la paura di perdere Paul era troppo forte, non poteva rischiare di tacere su tutto quello che provava. Non stavolta.
“Macca, il libro era la scusa che davo alla mia voglia, al mio bisogno di stare con te, perché cazzo, mi piaci davvero. Mi sei sempre piaciuto e ci voleva questa stupida storia incasinata per farmelo capire. Ci voleva Yoko, ci volevano i Bafta…”
“Ci volevano i soldi, mh?”
“Ieri sera Yoko mi ha dato la busta e si è messa a spiegarmi un po’ di faccende burocratiche che avrebbe dovuto affrontare. Solo dopo qualche minuto ho capito che era una scusa, perché la verità era che da me voleva ben altro. E Dio, credo per la prima volta nella mia vita, l’ho rifiutata. Ho allontanato una donna attraente che ci provava con me, io, John Lennon! Ci puoi credere? Quando mi ha spiegato che dovevamo festeggiare, perché tu avevi fatto outing al tuo matrimonio e avevi lasciato Linda all’altare, beh, ero felice. Non ci potevo credere, il destino mi sorrideva finalmente. Avevo speranza, eri ancora libero, e una parte di me ha subito pensato che forse l’avessi fatto per me, per merito mio. Nella mia testa si ripetevano le parole che mi avevi detto la mattina, prima che Jim ci interrompesse. Ci credi? Guarda cosa mi hai fatto, Macca.” Esclamò, indicandosi con un gesto teatrale, “Non posso negare che mi vergogni a dirti queste cose, ma sappi che ti sto parlando con tutta l’onestà possibile, forse per la prima volta da quando ti conosco.”
“Allora, se provavi questi straordinari sentimenti per me, perché non hai rifiutato i soldi? Avresti potuto bloccare il libro di Yoko.” Chiese Paul, affondando ancora di più nella poltrona. Era diviso, non poteva negarlo, ma ancora era troppo presto per decidere se credergli oppure no. Aveva ancora parecchie domande che affollavano la sua testa. E stranamente, aveva anche tanta voglia di stare a sentire John.
“Avevo firmato un contratto, Macca, non potevo tornare indietro. E fidati quando ti dico che avevo bisogno di quei soldi facili. Tanto.” Disse, abbassando il tono della voce in preda all’imbarazzo e stringendosi nelle spalle. Bruciava ammettere quelle cose.
“Posso sapere il perché?”
“E’ una parte del mio passato di cui mi vergogno molto, Macca.”
“Beh, non mi interessa se è perché fai uso di droghe, perché vai con le prostitute o perché soffri di… che ne so, ludopatia. Il problema resta lo stesso: mi hai mentito, mi hai ingannato, mi hai spinto a fare scelte che non avrei mai pensato di fare…”
“Di questo dovresti ringraziarmi, in realtà. Se non ci fossi stato io, non avresti mai avuto il coraggio di guardarti dentro e di capire cosa sei davvero.”
“Stai zitto, Lennon. Forse sarei stato più felice con Linda.” Disse alla fine, spalancando le braccia.
Questo era il colmo, si trovò a pensare Paul. Di nuovo il nervosismo lo fece alzare, e ricominciò il suo andirivieni. Doveva contare fino a dieci o avrebbe picchiato John. Oh sì, avrebbe dato un pugno al suo bellissimo ed elegante naso, al diavolo pure l’educazione. La risposta che l’altro gli diede non fece che peggiorare il suo malessere.
“Avresti voluto davvero passare una vita a mentire a te stesso e agli altri? A far soffrire la donna che hai sposato? A negare chi sei in realtà? No, io penso che tu sia molto più felice così.”
Paul sgranò gli occhi e si fermò. Si risedette sulla poltrona, e si morse l’unghia del pollice per qualche secondo.
“Oh, sì, guardami Lennon, sono al settimo cielo. Là fuori c’è una giornalista giapponese che ha scritto un intero libro su di me e sul mio orientamento sessuale! Cosa che, tra l’altro, lei sembra aver realizzato prima di me. Non hai pensato a cosa diranno a scuola? A quanto potrebbe ferire i miei parenti, i miei amici? A quanto potrebbe colpire anche Ringo? No, chiaramente no! John Lennon era troppo impegnato a pensare ai suoi dannatissimi soldi. Sei un egoista, ecco cosa sei.”
“Senti, mi dispiace, va bene? Sono stato un coglione. E’ capitato in un momento difficile, e quella donna ha saputo toccare i tasti giusti per farmi capitolare. Quando ho cominciato a pensare in modo razionale alla cosa, era troppo tardi e non potevo tornare indietro. Se solo avessi saputo cosa provavo per te, se avessi capito prima i miei sentimenti per te, forse… forse non saremmo qui.” Sì, era stato impulsivo, e il senso di colpa lo stava divorando. Si passò la mano sulle labbra secche, cercando di ritrovare il filo del discorso, perso in mille pensieri uguali e diversi.
“Macca, lo so che non posso essere perdonato, ma credimi se ti dico che ora sono distrutto e se non rimpiango del tutto ciò che ho fatto, è solo per colpa di quei soldi schifosi.”
“Va bene, Lennon. Sai cosa ti dico? Tieniti stretto il tuo dannatissimo segreto e il tuo torbido passato del cazzo. E ora scusami, ma mi fai venire da vomitare.” Paul all’improvviso sentì che doveva andarsene da lì o sarebbe impazzito. Si alzò con uno scatto e si infilò le scarpe, finite sotto la poltrona in uno dei suoi moti di nervosismo. Cercò in lungo e in larga un cappotto che non aveva portato con sé, e se ne ricordò troppo tardi. Con un gesto scocciato e imbarazzato, si passò una mano tra i capelli e fece per aprire la porta.
John si alzò velocemente dal divano e lo prese al volo dalla giacca, prima che fosse troppo tardi ed uscisse dalla casa.
“Se ti racconto tutto, mi prometti che non mi giudicherai?”
Paul non si voltò a guardarlo, ma mantenne lo sguardo fisso verso la porta, e il suo ‘sì’ uscì poco più di un sospiro. Poi, aspettando di vedere John allontanarsi di nuovo da lui per sedersi al posto di prima, si voltò, e si riaccomodò sulla poltrona.
“Ti do cinque minuti.”
“Ce ne vorranno due.” Disse John, ispirando profondamente.
“Ancora meglio, comincia.”
“Ho conosciuto Cynthia dieci anni fa, a Edimburgo. Era una mia studentessa, frequentava uno dei corsi di arte in cui insegnavo, sai, lei è un’artista come me. Era una delle più giovani e talentuose, in una classe composta principalmente da pensionati annoiati e da ricconi in cerca di emozioni. Avevamo pochi anni di differenza e tante passioni in comune, e cominciammo ad uscire. Stavamo bene insieme, così tanto che non ci pensò due volte prima di seguirmi a Glasgow quando mi offrirono il lavoro di arte-terapista. Ci frequentavamo da quasi quattro anni quando mi disse che era incinta. Naturalmente, la sua famiglia non aveva mai approvato la nostra relazione, e davanti a quella notizia approvarono ancora di meno, ma lei mi piaceva, quindi pensai di sorprenderli tutti e di sposarmela. Un mercoledì mattina andammo in comune e ci sposammo. Nulla di troppo emozionante, una cazzo di firma su un cazzo di foglio stropicciato, ma Cynthia sembrava così felice e così fiera di me e della mia proposta che per qualche settimana mi dimenticai che persona di merda fossi e quanto poco lei mi meritasse. I problemi, infatti, ricominciarono quando nacque Julian.” Fece una piccola pausa, prendendo l’ultima sigaretta dal pacchetto, prima di accartocciarlo nervosamente. La accese, e aspettò che i primi tiri lo calmassero. Poi, alzando lo sguardo verso Paul, proseguì.
“Non lo so cosa scattò nella mia testa, Macca. Vorrei saperlo, sono andato da mille strizzacervelli, e tutti a dirmi le stesse cose da manuale. Era colpa della paura di seguire il cattivo esempio di un padre assente, o un problema dato dalla sindrome di Elettra che mi spingeva alla ricerca di una donna che fosse come mia madre… tutte cazzate. Non ho giustificazione che regga, questa è la verità. Non sono mai stato un fidanzato fedele, ma dopo la nascita di mio figlio, tutto è andato a puttane ancora di più. In poco più di due anni, sono stato con centinaia di uomini e donne, senza distinzione. Stavo fuori le notti, tornavo ubriaco e incazzato, scontroso e frustrato. Per i primi anni di mio figlio, io sono stato un pessimo padre e marito. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando sono andato al lavoro ubriaco. Puzzavo di alcool da quattro soldi, in una comunità in cui c’erano anche ex-alcolisti, pensa te! Così il capo mi ha preso da parte e mi ha dato un ultimatum. Inutile dire che dopo tre settimane sono stato licenziato in tronco.” Fece un’altra piccola pausa, mentre aspirava l’ultimo e intenso tiro della sigaretta. Si appoggiò allo schienale del divano e fece un profondo sospiro.
“Il licenziamento ha messo fine al mio matrimonio. Cynthia ha chiesto il divorzio e si è tenuta la casa, cacciandomi fuori da un giorno all’altro. Nonostante in quei momenti la odiassi, ora sono felice che si sia comportata così con me. Per merito suo sono potuto rinascere, Macca. E non è un modo di dire, sai? E’ così. Sono stato salvato, quella dannatissima notte. Perché sdraiato su una panchina della stazione di Glasgow, al freddo, circondato da tossicodipendenti e barboni, ho realizzato all’improvviso quanto avessi rovinato la mia vita. E mi sono messo d’impegno, ho cominciato a frequentare gli alcolisti anonimi e uno dei volontari era, pensa te, il nipote della Skelter. Mi ha proposto lui come suo sostituto di sua zia. Era convinto che l’aria di Campbeltown mi facesse bene, e aveva ragione.”
“E i soldi per cosa ti servivano allora?” chiese Paul, cercando di mantenersi il più freddo possibile. Con un gesto scocciato guardò l’orologio senza davvero vederlo.
“Cynthia pian pianino ricominciò a farmi stare da solo con mio figlio. Lei stava cominciando a fidarsi di nuovo di me, e io stavo finalmente recuperando un rapporto con la famiglia che avevo tanto bistrattato. Poi, un giorno come un altro, scoprimmo che Julian soffriva di una malattia congenita al cuore. E’ il motivo per cui andavo a Glasgow così spesso, doveva fare cure su cure, visite e aveva spesso dei momenti di calo in cui non si sentiva bene e doveva stare a letto, a riposo completo. Io e Cynthia ci davamo il cambio a stargli vicini, per assisterlo. Qualche mese fa, poco dopo il mio compleanno, ha avuto una crisi molto seria, ed è stato messo in lista per un trapianto di cuore. Grazie a Dio ora è secondo in lista, ma abbiamo bisogno di soldi per l’operazione Macca, tanti tanti soldi. Ed ecco perché Yoko è arrivata al momento giusto, con quelle dannate mazzette posso salvare mio figlio e finalmente essere il padre che lui si merita. Ora dimmi, cosa ne pensi di me? Cosa ne pensi di John Lennon?”
Paul lo guardò a lungo negli occhi per la prima volta in quella lunga mattinata.
“Vuoi sapere cosa penso? Che avrei preferito sapere che quei soldi schifosi ti servivano per, che ne so, aprire una casa di piaceri o per comprarti la droga.”
“E perché?”
“Perché sarebbe stato più facile odiarti.”
“Ti ho detto cose che non ho mai detto a nessuno. E credo, in realtà, di averti fornito abbastanza motivi per odiarmi, Macca. Ma se c’è una persona che si merita la verità, beh sei tu.”
John sorrise tristemente, stringendosi nelle spalle e, scusandosi con un filo di voce, se ne andò in cucina, lasciando Paul da solo con i suoi pensieri. Quando il professore di arte tornò con una tazza di tè e una sigaretta accesa, il collega se n’era già andato.

“Si può sapere dove diavolo eri finito?”
“Ti abbiamo cercato in lungo e in largo! In ogni dannato buco di fattoria, in ogni maledetto buco di questo buco di paese.”
“Pensavamo ti fossi buttato da qualche parte! Ci hai fatto preoccupare a morte!”
“Tutti a cercarti, ma sai cosa vuol dire?!”
Mike e Jim proseguirono così, con questo concitato monologo, per qualche altro minuto, rossi in viso e visibilmente agitati, con il respiro accelerato e le mani tremanti. In realtà non riuscivano davvero ad essere arrabbiati verso Paul, ma erano stati in giro per tutta la sera precedente e per tutta la mattina, cercando di contattarlo ad un cellulare rimasto in macchina e infine scaricatosi per colpa del freddo. Avevano mobilitato mezzi amici e colleghi di scuola, avevano girato a vuoto per delle ore, pensando alle ipotesi più assurde e disparate.
Si erano persino recati presso l’ufficio di Polizia della cittadina, e avevano anche trovato un ufficiale simpatico, che gli aveva dato corda, fino al momento in cui gli avevano spiegato che no, Paulie non aveva tre-quattro anni, ma trentaquattro. Nel giro di pochi istanti erano stati messi alla porta.
Quando alla fine erano tornati a casa, all’ora di pranzo, affamati e stanchi, avevano trovato Paul sul divano, con una tuta vecchia e infeltrita, Adele in sottofondo e parecchi piatti vuoti attorno a lui.
A quanto pareva si era spazzolato tutta la torta nuziale alle meringhe, e ora si stava dedicando ad una vaschetta di gelato alla cheesecake. Ancora con la bocca spalancata dalla rabbia e dallo sgomento, Mike e Jim lo guardarono con le braccia aperte, in attesa di sentirgli dire qualcosa a mo’ di scusa.
Ma Paul non rispose ai loro rimproveri, si limitò a guardarli, con gli occhi grandi arrossati e lucidi, facendo il labbruccio.
Sometimes it lasts in love, but sometimes it hurts instead.” Canticchiò, tremante, accompagnando la voce di Adele.
Jim e Mike si guardarono e strinsero le spalle, mettendo da parte in un solo istante tutta la rabbia e la preoccupazione. Si buttarono su Paul, per abbracciarlo, e lui si aggrappò a loro e stette così, a lasciarsi scaldare e incoraggiare dalla loro stretta, per poi sfoderare dalla tasca della tuta due cucchiai.
“Chi vuole un po’ di gelato?”

Dopo un paio di ore Mike e Jim erano dovuti andare in aeroporto, e avevano chiamato un taxi affinché li accompagnasse. Paul non se l’era sentita di prendere la macchina e portarli, si era limitato ad abbracciarli forte, a ringraziarli di ogni cosa per poi tornare di nuovo sotto le coperte ad ascoltare “Radio Nostalgia, la radio per gli ultra-trentenni”, mangiando patatine al formaggio.
Il padre e il fratello ci avevano provato ad aiutarlo, gli avevano chiesto quale fosse il problema, dove fosse stato per tutto quel tempo, cosa fosse successo, ma davanti al silenzio di tomba di Paul si erano arresi e avevano preparato i bagagli. Purtroppo Mike non poteva rimandare la partenza, al lavoro erano stati categorici, e a malincuore dovevano tornare a Liverpool.
Intorno all’ora di cena, Paul aveva chiamato il preside Epstein e aveva confermato la sua settimana di vacanze. In realtà aveva preso quelle ferie per il viaggio di nozze, ma il preside, presente alla cerimonia del giorno prima, poteva immaginare che, sebbene non partisse più per la Spagna, Paul aveva bisogno di restare da solo qualche giorno. Lontano dagli sguardi severi dei colleghi e dai giudizi facili degli studenti, prendendosi il tempo di ricaricare un po’ le batterie.
Proprio da Epstein, inoltre, aveva appreso che anche Linda aveva confermato le sue ferie, e non si sorprese affatto di sentirgli dire che sarebbe partita quella sera per la Spagna con la cugina Sadie. Era giusto così, pensò Paul, i biglietti li aveva lei ed era stata mollata sull’altare, si meritava di godersi qualche giorno di vacanza e relax, libera da ogni pensiero.
Provò a chiamarla, per chiederle come stava e per salutarla prima che partisse, ma il telefono risultava staccato. Forse era troppo tardi, forse era già sull’aereo.
Inoltre, per quanto a Paul questa cosa scocciasse parecchio, nemmeno John lo aveva contattato. Sapeva che il collega aveva un pessimo rapporto con la tecnologia, da bravo Hippie da strapazzo, ma aveva sperato fino all’ultimo di potergli sbattere il telefono in faccia o di rifiutare le sue chiamate, come nei migliori film romantici.
Finì con un sorso la sua camomilla e mise la testa sotto il piumone, cercando di lasciare fuori al freddo i pensieri tristi, senza riuscirci.
Nella sua testa continuava a rivivere quella assurda mattinata, la discussione con John e, infine, la strana dichiarazione che aveva ricevuto.
Soprattutto il conoscere il passato tormentato lo aveva segnato e allo stesso tempo spiazzato, perché non sapeva più come comportarsi. Sentire una storia così triste e sofferta e allo stesso tempo così vera lo lasciava in balia di sentimenti dolorosi. Era vero ciò che gli aveva detto: non riusciva ad odiarlo, non poteva odiarlo, non sapendo ciò che aveva passato e non sentendo quanto si era aperto con lui.
Provava tristezza ma anche tanta rabbia, perché il bisogno di identificare in Lennon il nemico giurato, un bisogno che si portava dentro da tutto quel tempo, non se ne voleva andare. E più sentiva quella necessità bruciargli dentro, più sentiva le sue parole risuonargli nella testa.
“Se non ci fossi stato io, non avresti mai avuto il coraggio di guardarti dentro e di capire cosa sei davvero.”
Per quanto gli scocciasse ammetterlo, aveva ragione. Anche Ringo aveva parte del merito, ma senza John non avrebbe mai messo in discussione davvero quello in cui credeva. Senza il suo stupido modo di fare, senza il suo sfacciato bacio, senza il suo sostegno non avrebbe mai cambiato il suo modo di vedere le cose che dava per scontato. E non importava che l’avesse fatto con un secondo fine, l’aveva aiutato e sotto un certo punto di vista l’aveva salvato da un mare di bugie e paure.
Infine, ultimo ma non ultimo, senza Lennon, non avrebbe mai conosciuto l’amore.
“Cazzo.” Si trovò a dire ad alta voce, rotolando sotto il piumone.
A trent’anni suonati, quello era il momento in cui avrebbe smesso di nascondersi dietro una scusa o dietro la schiena di un’altra persona e, anche nella vita privata, sarebbe stata la persona sicura di sé e determinata che si vantava tanto di essere.
Con un colpo fece volare lontano il piumone, rabbrividendo a causa del freddo nella stanza.
Va bene, c’era un libro che parlava di lui, del fatto che fosse gay e avesse mollato la fidanzata all’altare… e allora? Non era forse quello che aveva fatto?
Basta con le stronzate e i timori, aveva avuto il coraggio di fare outing davanti a tutti, non aveva più bisogno di nessuno. Avrebbe affrontato la propria vita a testa alta, fregandosene del libro, di Yoko Ono, dei Bafta e di John Lennon. Era ora di dimostrare alle persone quanto fosse straordinariamente fiero di se stesso.
Domani sarebbe stato il primo giorno della nuova, straordinaria vita di Paul McCartney: professore di musica, trentaquattro anni, con la pancetta e un ottimo gusto in fatto di film. Completamente gay.











Angolo dell’autrice:

Bene, eccoci qua. Volevate la storia di John Lennon, eccovi la storia di John Lennon.
Sì va bene, nessuno me l’ha chiesta.
Comunque cosa succederà ora tra i nostri piccioncini? Chi lo sa. Io no di sicuro.
Ops.
Ora la pianto di straparlare e ne approfitto per ringraziarvi di nuovo tutti quanti. Grazie delle recensioni bellissime, grazie delle visite ai capitoli e grazie per l’amore e la fedeltà che mi mostrate ogni volta.
Infine, una vaschetta di gelato alla cheesecake e delle patatine al formaggio per Kia, con un grazie speciale per il sostegno e per la sua amicizia. A Milano non mi sono fatta autografare la fronte come mi ero ripromessa, ma voi non potete capire che persona adorabile è dal vivo. Ho passato una giornata splendida in sua compagnia e ho già voglia di rivederla e parlare ancora con lei. A voce. *piange commossa al solo ricordo* Grazie mille cara!
Tornando alle cose "serie": prossimo aggiornamento Sabato, ma nel mezzo ho un’altra cosa da pubblicare a cui sto lavorando ;)
Un abbraccio e grazie ancora,
Anya


 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 8






Paul era al secondo giorno di ferie e già si era abituato ai nuovi ritmi rilassati della vacanza. La notte prima aveva fatto le ore piccole per completare la maratona dei musical di John Travolta, e ora non riusciva a smettere di canticchiare i Bee Gees, imitando qualche passo di danza. Poco importava che fosse circondato di persone.
Si era deciso a togliere il pigiama per rimettersi dei vestiti puliti, stirati e profumati dopo quasi due giorni, si era trascinato al supermercato e ora stava riempiendo il carrello di panetti di burro e stecche di cioccolato. Lo aspettava una giornata impegnativa a base di esperimenti di pasticceria e Elton John in sottofondo.
Avrebbe sfornato i migliori cupcakes di Campbeltown, ne era certo!
Si sentiva stranamente sereno, per essere la prima volta che si faceva vedere in pubblico dal suo matrimonio. Neanche il tempo di pensare a quanto fosse sicuro di sé e fiero di quello che era, che dovette ricredersi.
Stava cercando quale formaggio avesse la minore percentuale di grassi, per rendere più dietetici i trecento grammi di burro dell’impasto, quando sentì delle voci alle sue spalle fare il suo nome.
“E’ lui, è lui.” Sussurrarono.
Oh, fantastico, le solite pettegole di paese, tristi e sole, che si aggrappano alla vita sentimentale altrui per non pensare a quanto sia patetica la loro.
Appoggiò con uno scatto il formaggio e si girò, ruotando elegantemente sui tacchi dei suoi mocassini color cammello.
“Sì, sono io, va bene? Sì, sono gay, finocchio, omosessuale, frocio… e me ne vanto!”
Le due donne sgranarono gli occhi e arrossirono vistosamente, dopodiché si voltarono verso una persona poco più in là, e puntarono il dito verso Paul, incapaci di dire nulla.
“Ah sì, avevate ragione, era lui.” Disse, ridendo, Ringo.

Paul si sentì il peggiore imbecille della Scozia, anzi no, della Storia di tutti i tempi e continuò a sentirsi tale anche davanti ad un frappuccino al caramello e cioccolato con doppia panna. Strano, di solito gli zuccheri lo facevano stare meglio!
Addentò il suo toast e ignorò il ghigno divertito che gli rivolse l’amico durante quei lunghi minuti di silenzio.
Ringo stava finalmente per aprire la bocca e iniziare un discorso, quando fu interrotto da un paio di liceali che gli chiesero l’autografo. Firmò e non appena le ragazzine si allontanarono, si infilò gli occhiali da sole, pensando di apparire così meno riconoscibile agli occhi degli altri. Paul quasi gli rise in faccia, davanti a quell’ingenua convinzione, ma si morse il labbro e non disse nulla.
Fu la scelta migliore, perché sorprendentemente il travestimento funzionò, e nessuno li disturbò più.
“Allora, come stai, Paul?”
“Sto bene.” Disse, e si sorprese di sentire come il suo tono di voce suonasse fermo e sicuro.
Certo, non poteva dirsi davvero felice o sereno, non lo sarebbe mai stato finché John abitava tutti i suoi pensieri e li tormentava, ma non mentiva quando diceva che stava bene.
Ringo gli sorrise e Paul si rese conto che erano tanti, troppi anni che loro due non si trovavano faccia a faccia e questa cosa lo rese felice ma allo stesso tempo gli provocò una fitta dolorosissima di nostalgia.
Ricordava perfettamente l’ultima volta che si erano parlati così: erano solo due ragazzi con tante speranze e tanto ottimismo, con i penny contati per un’ultima birra al Cavern. Entrambi avevano qualche kilo in meno, qualche capello in più, qualche ruga in meno e qualche sogno in più.
All’improvviso realizzò che agli occhi di quei due ragazzini, loro sarebbero sembrati solo due vecchi che avevano passato una vita senza vedersi, e forse il Paul di diciotto anni gli avrebbe dato dello stupido per come si stava comportando. Eppure, quei quindici anni di telefonate brevi, di lettere educate e un po’ formali, pesavano nei momenti di silenzio, si manifestavano nella bocca secca, nella gola chiusa, così piena di cose da dire da non saper nemmeno da dove cominciare.
Paul stava per farsi forza, per chiedergli come stesse Maureen, come proseguisse la vita da attore, se fosse più stato a Liverpool, ma Ringo interruppe il suo flusso di domande curiose guardando l’orologio con un’aria contrita.
“Amico, scusa se vado al sodo così, ma mi aspettano a Bath per un’intervista tra quattro ore e non ho poi così tanto tempo.” Ordinò con un gesto nervoso un altro caffè e si sistemò nella poltroncina.
“Dimmi, allora. Come mai sei qui, Richard?” non che Paul avesse davvero bisogno di chiedere, lo sapeva perfettamente per quale motivo il suo amico era lì, dopo anni di inviti ignorati o rifiutati. Eppure, non gli dispiaceva nemmeno un po’ che Ringo avesse approfittato di quel motivo tra tutti per venirlo a trovare. Almeno l’aveva fatto!
“Volevo scusarmi con te, Paul. Volevo scusarmi per quello che ho detto in diretta ai Bafta, per quello che è diventata la tua vita per colpa mia.”
“Non…”
“Ti prego, lasciami finire. Ho provato a telefonarti un sacco di volte, durante questa settimana, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo davvero. Poi ieri mattina mi ha chiamato il mio manager: ‘è successo un casino, Rings’, ecco cosa mi ha detto. Ho acceso la tv e ovunque c’era questa dannata giornalista giapponese che sponsorizzava un libro su di te, sulla vera storia di Paul McCartney! Ho subito chiamato gli avvocati e ho scoperto che questa pazza ha legalmente chiesto il tuo permesso, ma lasciami dire che non ho creduto neanche per un secondo che tu possa aver dato il tuo consenso.”
“Richard, va tutto bene, non importa. L’ho saputo domenica mattina, guardando la tv per puro caso. La firma, falsificata, l’ha fatta un mio collega, c’è lui dietro tutto quanto.”
Ringo scoppiò a ridere, sbattendo il palmo contro il tavolo, soddisfatto dalla notizia.
“Proprio ciò che avevo bisogno di sapere. Li abbiamo in pugno, quei due stronzi.”
“Cosa?”
“Sì, fidati di me, Paulie, la roviniamo. Ho già messo sotto il mio legale migliore, vedrai, non solo non pubblicherà quel dannato libro, ma dovrà anche darti un sacco di soldi. E se riusciamo a fargliela pagare anche al tuo collega, meglio ancora!”
“No!”
Paul si era alzato, aveva il respiro affannoso, il battito accelerato e la sua faccia era di una spaventosa sfumatura di bordeaux.
Non poteva permettere che John finisse in galera, non dopo quello che gli aveva detto. Si era aperto con lui, gli aveva raccontato la sua storia, e lo ripagava così? Non poteva. Fosse stato qualcun altro, forse si sarebbe fatto meno scrupoli, ma non poteva sopportare l’idea di ferire John in quel modo. Senza considerare che suo figlio aveva bisogno dei soldi e di un padre. Sapendo dei problemi di salute che soffriva quel bambino, poteva rovinargli la vita ancora di più? No, non era neanche lontanamente accettabile. Paul era adulto, grande e vaccinato, poteva sopportare un altro polverone mediatico, ma la famiglia Lennon sarebbe uscita distrutta da tutta quella faccenda, e a rimetterci di più sarebbe stato l’unico innocente.
Ringo sgranò gli occhi davanti a quella reazione. Si aspettava profusioni di ringraziamenti, abbracci, e invece l’amico sembrava… spaventato?
“No? E per quale assurdo motivo, Paul?”
“Perché John è mio… è mio amico, e so che ha fatto tutto questo per un motivo serio. La Ono ha saputo toccare i tasti giusti e lui aveva bisogno di soldi. E poi Richie, lasciami dire una cosa: sei stato tu a creare questo casino, non puoi pentirtene all’improvviso, arrivando qua e cercando di sistemare la situazione con una settimana di ritardo! Non è così che funziona!”
La frase a Paul era uscita più tagliente di quello che volesse, e si morse subito il labbro, in preda ad una fitta dolorosa di vergogna. Dannazione però se non era così! John non era un angelo, non era completamente innocente, ma non si sarebbe mai abbassato a tanto se Ringo non avesse creato da zero tutto quel caos. Paul si fermò un secondo ad ascoltare il battito violento del proprio cuore: stava davvero difendendo John Lennon, un adulto di quasi quarant’anni? Rivide come un lampo lo sguardo triste e ferito del collega e sì, pensò che sentiva il bisogno di proteggerlo. Dio, se non era imbarazzante come pensiero, soprattutto se rimbombava così violentemente nella sua testa.
Ringo sospirò pensieroso, e trangugiò il suo caffè ancora bollente.
“Senti, amico, lo so che ho sbagliato e mi dispiace, ma questa giapponese, questa Cono o come diavolo si chiama, non si merita di spiattellare la tua storia in giro e di farci i soldi. Potresti diventare ricco facendole causa, te ne rendi conto?” gli chiese, rivolgendogli uno sguardo contrito dall’alto dei suoi occhiali da sole.
La verità era che Ringo sentiva il bisogno di alleviare quel dannato senso di colpa che lo tormentava dalla sera dei Bafta, e l’improvviso buonismo dell’amico d’infanzia non aiutava affatto, anzi. Dunque, dovette aver pensato che toccare il tasto economico fosse la cosa giusta, e studiò il comportamento di Paul, aspettandosi una reazione diversa da quella che invece ottenne.
“Richie, lo sai cosa è successo dopo la tua dichiarazione? E’ andato tutto in malora, tutto quanto. Credevo che fosse finita la mia vita, e invece, lasciami dire che è stato il momento esatto in cui è cominciata per davvero.”
Va bene, forse non aveva fatto cose straordinarie dal momento del suo outing, ma la leggerezza e l’improvvisa libertà di poter fare e di poter essere tutto ciò che voleva non aveva prezzo, e non sarebbe più tornato indietro. Certo era che quella stupida frase cliché gli era uscita ad un volume un po’ troppo alto, nonostante la voce tremolante, e non solo questo aveva provocato un incendio sulla sua faccia, ma aveva attirato troppi sguardi curiosi e stupiti. Non era il caso di parlare di queste faccende così delicate in pubblico, e Ringo capì al volo questo problema, trascinando via dalla caffetteria Paul, dopo aver lasciato una banconota da venti sterline al tavolo.
Cominciarono dunque a passeggiare per una delle viuzze deserte del paese, sapendo di non essere disturbati da nessuno se non da qualche pecora o da qualche pastore.
Ringo si tolse gli occhiali da sole e lasciò che il blu del cielo si mescolasse con l’azzurro intenso dei suoi occhi. Paul si perse per un po’ in quelle sfumature, pensando a Linda. Chissà se si stava divertendo, in Spagna. Chissà se lo odiava…
Ringo interruppe i suoi pensieri, con un colpo leggero di tosse.
“Sai, amico, non mi vergogno di ammettere che ho davvero pensato a te mentre giravo quel film. Ho sempre immaginato che avresti fatto outing, prima o poi, e ho parlato di questo sia col mio manager che con il regista. Loro trovavano importante che avessi una fonte di ispirazione per un ruolo così delicato.
Poi un giorno mi hai chiamato e mi hai raccontato che ti saresti sposato, e ho pensato che mi sbagliavo. Meglio così, mi ripetevo. Eppure il mio manager mi ha invitato lo stesso a ringraziarti. Una volta sul palco non so cosa mi sia successo, ma ho aggiunto il ‘gay’ prima di riuscire a fermarmi. Non è da me fare queste cavolate, lo sai, mi conosci.”
A Paul scappò una risata triste, mentre osservava l’amico di infanzia prendere una lunga boccata di vapore dalla sua sigaretta elettronica.
“Non lo so chi conosco, Richie. Sono passati quindici anni dall’ultima volta che ho visto la tua brutta faccia. Le ho pensate tutte, persino che fossi drogato o ubriaco.”
“Preferirei esserlo stato, avrei una giustificazione.”
La cosa che più scocciava Paul non era tanto il fatto che avesse detto quelle cose in pubblico, ormai le aveva digerite. Aveva fatto pace con gli avvenimenti della settimana passata, e di questo era felice.
Ciò che bruciava era il fatto che tutti sembrassero aver capito il suo orientamento sessuale prima di lui. I suoi amici di infanzia, i suoi colleghi, persino i suoi parenti! Perché nessuno, prima di Ringo, aveva mai pensato di fargli questa osservazione? Dio, tutto questo lo faceva imbufalire. Tutti si divertivano a pensare alle sue spalle quanto fosse gay, ma nessuno aveva avuto il coraggio di affrontarlo di petto, di chiedergli qualcosa. Non che spettasse a loro sollevare questi interrogativi, ma non poteva sopportare tutto quello sparlare.
“Non ti devi scusare, Richie. Davvero, non importa. Sono grato che sia successo tutto questo casino, mi spiace solo che non sia successo prima. Avrei risparmiato a Linda e ai miei cari parecchie sofferenze.” E avrei capito prima cosa provavo per John, pensò mordendosi il labbro.
Si sforzò di concentrarsi sul momento e non permise alla sua testa di correre verso Southend, di sistemarsi nella casa dai muri verdi e dal profumo di cannella, tra le braccia calde e accoglienti del suo collega.
“Però mi permetti di fare qualcosa per te?” disse alla fine Ringo, dopo una lunga pausa. Il suo sorriso divertito fece intendere che gli era venuta un’idea, un’idea brillante.
Paul si guardò attorno con fare circospetto, e avvicinandosi gli fece cenno di abbassare la voce. Una mucca intanto si stava avvicinando alla strada, e li osservava curiosa. Ringo allungò il passo, inquietato dallo strano animale, ed enunciò il suo piano. Entrambi si sentivano di nuovo due ragazzini, e questa cosa li faceva divertire e sentire stupidi allo stesso tempo.
“Sai che faccio? Farò causa a quella dannata giapponese, Paulie. E non le farò pubblicare il libro su di te, va bene?”
“Acconsento, ma ad una condizione: non dovrà venire fuori il nome del suo complice. E lui non dovrà perdere i soldi che ha guadagnato.”
Ringo annuì con foga, divertito da quella conversazione che sembrava essere uscita da un film di spionaggio. Finalmente le cose cominciavano a prendere una piega interessante.
“A costo di rimborsarglieli io, non li perderà. Promesso. Mi sembra il minimo che possa fare per te.”
Paul gli sorrise, riconoscente. Aveva accettato con serenità quel romanzo da quattro soldi, ma era felice di poter fare qualcosa per evitare che quella giornalista la facesse franca. Era una questione di principio.
E diciamocelo, era pronto a giurare che l’inglese di quella donna fosse pessimo. Cosa ci si poteva aspettare da una giapponese naturalizzata americana? Una biografia su di lui doveva come minimo essere scritta da Ken Follet… o dalla Rowling. Come minimo!
Strinse la mano a Ringo, non riuscendo a trattenere una risata divertita. Come per sigillare il patto, si abbracciarono impacciati e in imbarazzo.
Dopo aver camminato con passo lungo e frettoloso per tutto quel tempo, in preda ai pensieri tormentati, videro la berlina targata “S****” ferma al parcheggio ed entrambi rallentarono il loro ritmo di camminata. Raggiunsero la macchina con calma, parlando di banalità, come se fossero ancora due ragazzi di Liverpool.
“Amico, allora… pace e amore.” Lo salutò Ringo, abbracciandolo ancora e dandogli una rumorosa pacca sulla spalla.
Aprì la portiera e stava per entrare quando Paul lo trattenne dalla giacca a righe.
“Richie, una cosa. Tu eri convinto che fossi gay esattamente da quanti anni…?”
Ringo contò mentalmente per qualche istante, aiutandosi con le dita, poi con un ampio sorriso gli rispose.
“Dall’89 circa!” e così dicendo si infilò in macchina, intimando all’autista di partire velocemente, dato che erano già in ritardo.
Paul rimase fermo immobile a guardare la berlina allontanarsi, lasciandosi avvolgere dal fumo di scarico.
La voce gli uscì come un rantolo.
“Ma noi ci conosciamo dall’89!”

Paul si trovò a bussare alla porta della casa di John finché le nocche non gli fecero male. Controllò l’ora, riprovò a chiamare il collega al cellulare, e infine si sedette ad aspettare un altro po’ sugli scalini del patio.
Erano le cinque passate, e poteva giurare che John non avesse lezione il pomeriggio di martedì. Non che sapesse a memoria le lezioni del collega, ma casualmente le ricordava bene. Per puro interesse scolastico, chiaro.
Controllò nervosamente di nuovo l’orologio e si alzò in piedi in fretta quando sentì arrivare qualcuno. Peccato che fosse soltanto uno dei vicini di casa di John.
Paul imprecò silenziosamente, lanciando un sassolino e colpendo involontariamente la propria macchina.
Aspettò un altro paio di minuti, guardandosi attorno e scrutando il panorama circostante. Aveva bisogno di parlare con John, di raccontargli la conversazione avuta con Ringo, sentiva di doverlo rassicurare e di dirgli che lo perdonava. Ancora non ci credeva, il libro non sarebbe stato pubblicato e il collega avrebbe potuto tenere i soldi per sé e per suo figlio, era un sogno! Basta sensi di colpa, basta paure, non c’era più niente che impedisse a loro due di essere felici insieme. Paul avrebbe dimenticato tutta quella storia e avrebbero potuto ricominciare daccapo.
Una cosa aveva capito, infatti, dopo tutto quel rimuginare: il suo sentimento verso John era più forte della rabbia e persino dell’odio provocato dalle sue bugie. Finalmente, dopo anni di scuse e capricci, aveva un vero motivo per detestarlo, e non sembrava importargliene. Voleva solo amare John, al diavolo tutto e tutti, e recuperare il tempo perso. Per cominciare ad essere finalmente felice.
Quando il suo orologio segnò le sei gli venne il sospetto che il collega fosse andato a Glasgow dal figlio e dalla ex-moglie e, ignorando una fitta di gelosia, pensò che c’era una sola persona a cui chiedere delucidazioni. Si mise in macchina e premette sull’acceleratore, mentre i Beach Boys si diffondevano nell’abitacolo.

“Si chiama Pattie, ci siamo innamorati.”
Paul stava ancora all’ingresso, con la bocca spalancata, il dito puntato contro George che gli aveva aperto la porta.
Certo, da George si aspettava di tutto e di più, ma non di vederlo abbracciato alla bambola gonfiabile del suo addio al celibato. Di nuovo.
Spostò lo sguardo dai 'capelli' biondi e stopposi della bambola a George, che lo guardava sorridendo.
“Cosa?” gli chiese, stringendo a sé la bambola, senza perdere un minimo della sua tranquillità.
“Posso… posso entrare?” e senza aspettare una risposta, Paul scostò il collega e la sua ‘fidanzata’.
Una volta accomodatosi nel salottino di George, si sedette accanto a Pattie, sistemata elegantemente sul divano, di modo che il suo bellissimo vestitino anni ’60 non si stropicciasse troppo.
Nella casa c’era un intenso profumo di sandalo, proveniente dagli incensi che bruciavano in ogni angolo, e dalle casse usciva il suono di un sitar, che accompagnava i movimenti di George.
Paul fu felice di notare come quell’appartamento fosse ancora immerso nel caos, e questo lo fece sentire a suo agio, come se fosse una delle loro serate 'new age' prima dell’arrivo di John. Effettivamente erano almeno tre anni che non metteva piede lì dentro, eppure poteva giurare che le pile dei libri fossero le stesse, forse solo un po’ più alte e impolverate.
“Ti offro un tè, una tisana?” gli chiese George, gridando dalla cucina. Un tonfo metallico fece spaventare la vecchia gatta di casa, Olivia, che si rifugiò nella sua cuccia accanto a Dhani, un micino che il collega aveva salvato da un cassonetto qualche anno prima. A quanto pareva il bollitore aveva fatto un volo per terra, ma non era la prima volta e non sarebbe stata nemmeno l’ultima, e Paul lo sapeva perfettamente.
Era tentato di chiedere una tisana per poter immergersi in toto nel clima folle di casa Harrison, ma alla fine optò per un tè Chai, allungato con del latte di mandorla.
Una cosa che Paul aveva sempre avuto in comune con George era la gastronomia: entrambi erano vegetariani, anche se il professore di religione ora si professava vegano con tendenze crudiste. In realtà significava solo che era più strano del solito, o forse più strafatto, Paul non lo sapeva, ma lo divertiva molto sentirlo ripetere velocemente “vegano con tendenze crudiste” mentre mangiava banane e beveva frullatoni dal colore dubbio.
 “Di cosa avevi bisogno, Macca? Sei venuto a trovare me e Pattie?” gli chiese George, sgranocchiando un pezzo di sedano crudo.
“Emh, no, volevo solo sapere dov’era John.” Paul bevve un lungo sorso del suo tè, lasciando che la cannella e la noce moscata gli riempissero la bocca e il naso. Sperava di non essere arrossito troppo.
“John? Lo chiami John? Amico, ma stai bene?” esclamò divertito, avvicinandosi e appoggiando la mano sulla fronte per sentire se scottava. Paul si scostò, andando a sbattere contro il seno di Pattie. Sempre più rosso in viso, si scusò con lei, poi con George, e ricominciò a parlare.
“Sì, senti. Devo parlargli con urgenza, è per una questione importante.”
“Beh, Macca, dovrai aspettare. Mi aveva avvisato che forse saresti passato a chiedere di lui, effettivamente. Cosa state combinando voi due?” George si morse il labbro, cercando di non ridere in faccia al collega, mentre faceva questo discorso. Non sapeva perché, ma si era sempre divertito ad assistere ai battibecchi tra John e Paul, li trovava esilaranti. Un paio di volte aveva anche tenuto il punteggio su un foglietto di carta, e inutile a dirsi, aveva vinto Lennon.
“Non stiamo combinando niente!” va bene, forse gli era uscita un po’ troppo acuta come risposta, e forse il suo viso aveva raggiunto una nuova gradazione imbarazzante di rosso, ma non importava.
Perché George non poteva rispondergli e basta?
“Va bene, va bene, vero, Pattie? Noi gli crediamo.” Disse, ammiccando divertito alla bambola.
Paul quasi stava per schiaffeggiarsi da solo: stava davvero partecipando a quella conversazione assurda? Affondò nel divano, strofinandosi nervosamente gli occhi.
“Mi vuoi dire dov’è Lennon?”
“Ah sì, certo. E’ andato a Glasgow, hanno trovato un donatore per Jules. Dovrebbe essere sotto i ferri proprio ora.”
Paul sgranò gli occhi, e quasi l’ultimo sorso di tè gli andò di traverso.
“Cosa?”
“Sì, Jules, suo figlio.”
“Ho capito cosa intendi, è che non me l’aspettavo. E quando tornerà?” Questa domanda gli costò molta fatica, perché era terrorizzato dalla risposta. Proprio ora che sentiva il bisogno di parlare con il collega, il destino li allontanava. Dopo anni di fastidiosa vicinanza, ora che Paul desiderava più che mai averlo accanto a sé, John se ne andava lontano da lui.
Certo, Paul era felice che il bambino avesse un donatore, la situazione di Julian era critica e non c’era molto tempo da perdere, ma una piccola parte di lui, una parte terribilmente egoista, era rimasta delusa da quella notizia e non riusciva a sopprimere il dispiacere.
“Non lo so, sentivo che parlava con il preside di cercare un supplente.”
“Addirittura?”
Oh, ti prego, si trovò a pensare, fa’ che George abbia capito male. Alla fine quanto poteva volerci per un’operazione del genere? Massimo una settimana e sarebbe tornato al lavoro. Forse avrebbe fatto il pendolare tra Campbeltown e Glasgow, per i primi tempi, ma avrebbe potuto trovarlo a scuola ogni giorno, parlargli e dirgli quanto era stato stupido a non perdonarlo subito, quella domenica mattina e infine… avrebbe potuto dichiararsi. Dio, l’avrebbe davvero fatto? Ma certo, perché no. Lui provava qualcosa per John, gli piaceva. Era ora che l’altro lo sapesse.
George ignorava quali pensieri attraversassero la testa di Paul. Accarezzò la stoffa del vestito di Pattie, sorridendo appena alla ‘fidanzata’, e proseguì con il suo racconto.
“Sì, credo voglia trovare un sostituto fino a giugno, poi sentivo che parlava di trasferirsi definitivamente a Glasgow.”
Cosa?”
“Non credo tornerà più a lavorare con noi.”


 




 


Angolo dell’autrice:

Buonasera, miei cari lettori.
Ennesimo finalone a sorpresa eh? Cosa succederà, zanzanzaaan?
Scherzi a parte, mi piacerebbe tanto sapere se la storia vi sta annoiando o se la piega che ha preso non vi piace. Purtroppo vedo poca partecipazione, e ci terrei a sapere se è colpa mia o è colpa degli impegni scolastici. Ecco, tutto qua. Quindi, al solito, scrivetemi anche via mp se non volete recensire, ma ditemi cosa ne pensate della mia storia, mi fareste un piacere :3
Intanto vi ringrazio lo stesso, perché ve lo meritate. A priori.
Come si meritano i miei complimenti le persone che mi sostengono in questi giorni davvero difficili per me.
Un grazie speciale a Paperback White e Workingclassheroine.
Infine, come al solito, un frullatone crudista e un casco di banane a Kia, che è un amore e senza di lei non so proprio cosa farei. E non è un modo di dire.
Di solito vi saluto con la data in cui pubblico, purtroppo per problemi famigliari non so ancora quando riuscirò a farlo. Spero mercoledì, nel caso in cui salti, sarà sicuramente sabato. Quindi, stay tuned.
Per farmi perdonare l’incertezza della data, vi dico che i capitoli sono aumentati: da 10 a 12. Spero che questo non sia un problema. ;)
Un abbraccio,
Anya




 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 9
 




Paul non sapeva esattamente come si era ritrovato in macchina alla volta di Glasgow, ma metabolizzò la cosa solo quando vide il cartello blu annunciare che venti miglia lo separavano dalla grande città.
Certo, il motivo per cui aveva intrapreso il viaggio era semplice: doveva restituire al negozio il suo abito da sposo. Aveva letto che potevano rimborsargli almeno il 50% del prezzo originario, se l’avesse riportato in buone condizioni. E lui era stato particolarmente attento: l’aveva lavato, stirato e infilato in una grande busta di cellophane affinché non si rovinasse.
Inoltre, l’aveva lasciato a Campbeltown.
Merda.”
Accostò la macchina, mentre la voce di Ricky Martin in ‘Livin’ la vida loca’ scemava lentamente nell’abitacolo. Aveva bisogno di un momento di tregua per razionalizzare quello che stava facendo, prima di combinare qualche disastro sulla strada.
Era successo tutto quella mattina, quando aveva ricevuto un messaggio di George che recitava così:
“Jules Ok. John ospedale ancora. No torna a Marzo.”
Ora, già Paul aveva dormito poco in preda ai bruciori di stomaco e ai pensieri, in più ci si mettevano anche i messaggi criptici di George! Certo, era felice di essere tornato in buoni rapporti col collega, ma certe cose continuava a trovarle davvero troppo strane per digerirle. Tipo il rapporto conflittuale con il correttore automatico del cellulare. O con le emoticon di Whatsapp, ma quella era un’altra storia.
Strinse il telefono tra le mani e cominciò a lanciarlo in aria e a riprenderlo, mentre camminava lungo il salotto.
Quando non riuscì ad acchiapparlo al volo e con un tonfo cadde al suolo, Paul capì cosa doveva fare. E non parlava solo di comprarsi un cellulare nuovo.
Dunque si trovava all’ora di pranzo, in una piazzola di sosta dell’autostrada, con la pancia che brontolava rumorosamente, un telefono mezzo rotto su cui aveva salvato un indirizzo, e la consapevolezza che stava andando fuori di testa.
Aveva davvero intenzione di andare all’ospedale di Glasgow solo per parlare con John?
Ormai era quasi finita la sua settimana di ferie, e Paul l’aveva passata a mangiare, guardare film trash e strimpellare musichette tristi al pianoforte. Aveva saputo che Julian era stato operato martedì sera, ma c’erano state delle complicazioni e per quei due giorni si era seriamente temuto per la sua vita, quindi era alquanto sollevato di sentire che fosse andato tutto per il meglio.
Eppure, all’improvviso, come se la vita di Julian si fosse diffusa nell’aria, Paul aveva sentito il bisogno di fare qualcosa, di agire, dopo non aver fatto nulla per tutta quella settimana.
Anzi, dopo non aver fatto nulla per tutta la sua esistenza.
Fermo ancora nella piazzola di sosta, con le quattro frecce lampeggianti che accompagnavano i suoi pensieri, Paul ritrovò all’improvviso la determinazione di cui aveva bisogno e che l’aveva fatto uscire di casa quella mattina.
Inserì l’indirizzo nel navigatore satellitare e si immise nella corsia, dietro una vecchia macchina guidata da un anziano col cappello.
Nulla l’avrebbe fermato, oh no. Tanto meno se stesso.

“Ma è una cosa veloce, solo pochi minuti e me ne vado!”
“No, non possiamo dare informazioni a chi non è uno stretto famigliare. E ora la prego di andarsene.”
Era così difficile per loro capire che Paul non voleva in alcun modo nuocere alla struttura, ai Lennon e tantomeno al piccolo Julian? Santo cielo, ma chi credevano che fosse?
Come a leggergli i pensieri, una voce femminile interruppe il suo battibecco con la segretaria all’ingresso del reparto di pediatria.
“Scusi, lei chi è?”
Ancora concitato e col viso arrossato da quella discussione, si voltò verso la donna che gli stava parlando, fissandolo spaventata.
“Sono un collega di John, un suo amico. McCartney, piacere.”
Paul riuscì a captare un nome, appena sussurrato, nella loro stretta di mani imbarazzata e impacciata.
Non che non avesse capito di star parlando con Cynthia, l’ex moglie di John. Certo, se l’era immaginata diversa, ma si vedeva che era una donna davvero molto elegante. I capelli biondi, disordinati e poco curati le incorniciavano un viso segnato dalla stanchezza e dallo stress, le braccia erano incrociate ad altezza della vita, in una sorta di abbraccio che stava rivolgendo a se stessa.
Se avesse dovuto pensare ad un tipo di donna ideale ‘alla Lennon’, non sarebbe stata affatto simile a quella che aveva davanti, doveva ammetterlo. Ma, in periodi migliori di quelli, Cynthia doveva essere davvero molto bella, non aveva dubbi a riguardo.
“Cosa vuole da noi, signor McCartney?”
“Sono qui per sapere come sta Julian.”
“Credevo che John avesse scritto stamattina ad un suo amico, George o come si chiama. Inoltre dovrebbe anche aver chiamato il signor Epstein per aggiornarlo sulla situazione.”
Paul deglutì rumorosamente. Perché tutti sembravano essere ostili con lui? Cosa aveva fatto di male? Voleva solo vedere John, sapere come stava, era chiedere tanto?
“L’ha fatto, ma c’è una cosa che devo domandargli, sa, per un progetto di lavoro, cose complicate. Inoltre passavo di qui, sì, e già che c’ero ho pensato di fare un salto.”
“Capisco.” Cynthia arricciò le labbra e annuì pensierosa.
Rivolse uno sguardo veloce alla segretaria, distratta dal telefono e dal computer, e rivolse all’uomo un leggero cenno del capo, per invitarlo a seguirla.
Paul obbedì, e all’inizio mantenne una distanza tra lui e la donna, ma poi la raggiunse e la affiancò, mentre attraversavano i corridoi con lunghi passi frettolosi.
“E’ una fortuna che passassi di lì, o sarebbe rimasto all’ingresso per chissà quanto. Sono venuta a dare il cambio a John, in teoria dovrebbe tornarsene a casa a riposare, ma se lo conosco bene non si muoverà di un centimetro. Esattamente come ieri, e i giorni precedenti.”
“Come sta Julian?”
“Meglio, povero piccolo. E’ stato in terapia intensiva per un giorno intero dopo l’operazione, e per noi è stato straziante non poterlo vedere o toccare. Con tutti quei tubi in gola non so nemmeno come facesse a respirare. La sua risata mi manca così tanto.” La sua voce era ridotta ad un sussurro e il corpo era scosso dai tremiti, “Ma ora ne è uscito, e secondo i medici è fuori pericolo. Sta rispondendo bene alle terapie e le analisi del sangue hanno dei valori nella norma. Insomma, è ancora presto per cantare vittoria, ma intanto possiamo tornare a respirare un po’.”
Paul si morse il labbro e abbassò il capo, guardando le proprie scarpe attraversare i corridoi bianchi dell’ospedale.
“Anche John sta meglio.” Disse alla fine Cynthia, come a leggergli nella mente quella domanda.
Quando Paul ebbe il coraggio di alzare di nuovo la testa, la sua faccia, ancora rossa dall’imbarazzo, provocò la risata genuina della donna.
Si fermarono davanti ad una porta, appiattendosi nel corridoio per occupare meno spazio possibile, per non disturbare il via vai degli infermieri.
Quella doveva essere la stanza di Julian, eppure una piccola luce rossa sopra lo stipite faceva ben capire che non potessero ancora entrare, anche se Paul non capiva bene il motivo.
“E quanto tempo ci vorrà prima che possiate tornare a casa?”
“Ah, Dio solo lo sa. Dovrà passare almeno un’altra settimana, se la situazione resta stabile e se reagisce bene alla terapia e al nuovo cuore. Dopodiché avremo delle visite di controllo regolari, medicine, fisioterapia…” ogni frase pesava come un macigno, per la giovane donna, che arrivò stremata alla fine del discorso. Lo sguardo di pietà di Paul però doveva averla infastidita, perché si ridestò da quella sorta di triste trance in cui era caduta e lo fissò a lungo, strizzando gli occhi.
“Paul McCartney, hai detto? Ecco dove avevo già sentito il tuo nome! Dopo tutto questo tempo, finalmente ti conosco! Ti do del tu, posso? Mi hanno parlato così tanto di te che ormai potrei dirmi tua amica.” Esclamò, dandogli una leggera pacca sulla spalla, sorridendo divertita della sua improvvisa scoperta.
“Sono anni che John parla del suo collega di musica, questo famoso Macca. Ti chiama così, vero? Ha raccontato anche a Julian di te, un paio di volte. Chiaramente ho origliato, non direbbe mai certe cose in mia presenza! Ricordo bene di come gli dicesse che aspettava la fine delle lezioni pomeridiane per stare ad ascoltare le canzoni che suonavi al pianoforte, quando credevi non ci fosse più nessuno nella scuola. Di come si divertisse a farti i dispetti e a prenderti in giro. Sei tu, vero? Quello del matrimonio a San Valentino! Giuro, se non foste due uomini, e tu non ti fossi sposato sabato, avrei pensato che John avesse una gigantesca cotta per te. Meno male che mi sbagliavo, eh?” concluse alla fine Cynthia, ridendo da sola, mentre si appiattiva contro il muro per far passare un bambino con la carrozzina.
Paul sgranò gli occhi, ormai sempre più rosso. Cercò di concentrarsi sull’ambiente circostante per non lasciar trapelare nulla, mentre si allentava l’ultimo bottone della camicia. Dio, sembrava solo a lui, o non aprivano più quella dannata porta?
Non aveva dubbi a riguardo, era una delle conversazioni più imbarazzanti che avesse mai sostenuto nella sua intera vita.
John non solo parlava di lui con altre persone, ma anche con i suoi famigliari. Ascoltava quando suonava il pianoforte da solo a scuola. Raccontava a tutti quanto Paul gli piacesse!
Queste informazioni gli frullavano nella testa, provocandogli una sorta di stranissima sensazione ad altezza dello sterno e rendendogli più difficile respirare e pensare. Era un sentimento così caldo e dirompente da fargli formicolare le mani e i piedi, da rivoltargli lo stomaco, da stringergli il cuore in una morsa violenta. Dio, non era mai stato così bene da sentirsi male.
I suoi pensieri furono interrotti da Cynthia, che allo scattare della luce verde sopra lo stipite, bussò delicatamente alla porta ed entrò.
A disagio, Paul aspettò fuori nel corridoio, spostando il peso da un piede all’altro, cercando di spiare quello che stava succedendo nella stanza. Dopo solo pochi minuti vide Cynthia fargli cenno di entrare, e a passi leggeri, spaventato e in imbarazzo, si accomodò nella piccola cameretta di ospedale.
La scena che vide lo destabilizzò e, prima di rendersene conto, si trovò a sorridere come uno stupido.
Un piccolo bambino, pallido e magro, stava dormendo tra le braccia del padre, che russava a sua volta. Era un’immagine straziante ma allo stesso tempo dolcissima, e lo colpì nel profondo.
Il leggero bip delle macchine di monitoraggio sembravano voler accordare il battito del piccolo Julian a quello di Paul. Spostò lo sguardo dal bambino, così piccolo dentro una camicia da notte troppo grande, al collega addormentato.
Per un istante gli sembrò di vedere una parte di John che non gli era mai stata permesso di toccare, perché nascosta a tutti. Era un lato che amava suo figlio, che si addormentava accanto a lui, senza bisogno di creare delle difese, senza bisogno di nascondersi dietro battute e scherzi. Un lato che Paul scoprì di volere tutto per sé e, soprattutto, un lato che voleva amare.
Continuò a sorridere teneramente a quel quadretto, mentre il battito del suo cuore, sempre più cheto, smise di rimbombargli nelle orecchie. Fu la mano di Cynthia sulla sua spalla a farlo sussultare e gli permise di distogliere lo sguardo dalla scena.
“Sicuro di esserti sposato, Paul?”

Quando John gli si sedette accanto, Paul si stava beando del debole sole di febbraio, seduto comodamente su una delle panchine del giardino. Aveva gli occhi chiusi e masticava pigramente un pezzo della torta di carote comprata al bar dell’ospedale. Nella sua testa, ogni morso era accompagnato da una miriade di pensieri, spesso scollegati tra di loro. Dunque, non si dispiacque troppo quando quella voce famigliare interruppe lo strano vaneggiare della sua mente.
In fondo, lo sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato.
E, al diavolo, anche se erano in un giardino di ospedale e John era lì per un motivo terribile, Paul era dannatamente felice di sentirlo vicino.
“Mi ha detto Cynthia che ti avrei trovato qui.”
“Le avevo chiesto di non dirti niente, ma presumo che sia troppo intelligente per darmi ascolto.”
“Lo so, ho buongusto in fatto di amori.” John scoppiò a ridere, e Paul si concesse di aprire gli occhi e di guardarlo.
Le occhiaie, viola e profonde, rendevano ancora più pallido e malato quel viso stanco. Gli occhiali gli erano scivolati sulla punta del naso, e questo lo faceva sembrare più vecchio di quanto effettivamente fosse. Ciononostante, Paul lo trovò bellissimo, e strinse i pugni per non abbracciarlo subito e riempirlo di baci.
“Come stai, Lennon?” chiese alla fine, prima di dargli un leggero pugno sul braccio, mentre John gli rubava la torta dalle mani.
“Mh, così così. Sono terribilmente stanco e preoccupato per Julian, ho paura di sentirmi ottimista e di vedere il mondo crollarmi addosso di nuovo. Eppure, posso dire che mi sento felice lo stesso? Perché oggi finalmente c’è il sole. E tu sei qui, davanti a me.”
Paul sgranò gli occhi e arrossì, distogliendo lo sguardo dal collega, e si sistemò il ciuffo nero con fare nervoso, come per trovare qualcosa con cui impegnare le mani.
“Sì beh, dovevo restituire l’abito di nozze, sai.”
John annuì, sorridendo divertito da quella scena. Finì in un solo boccone la torta e si pulì il viso, sporco di briciole e di crema.
“Certo, capisco. E abito a parte, volevi parlarmi?”
Paul si ridestò, con un colpo secco di tosse si schiarì la gola, e pacatamente spiegò tutto a John. Della visita di Ringo, del lavoro che i legali avrebbero fatto, della garanzia totale che lui e tantomeno la sua famiglia non ci sarebbero andati in mezzo e che lui avrebbe potuto potuto tenere i soldi, già usati per l’operazione di Julian. Quella giornalista sarebbe stata l’unica a pagare per il suo sporco lavoro e, ironia della sorte, sarebbe diventata famosa, ma non per il motivo che voleva lei.
John seguì silenziosamente tutto il discorso e si morse l’unghia del pollice, in preda al nervosismo. Doveva aver finito le sigarette o averle dimenticate nella camera di Julian, perché con una mano giocava con l’accendino, ma non sembrava aver intenzione di fumare.
Dopo aver chiesto conferma a Paul che non stesse scherzando o non lo stesse prendendo in giro, rimase immobile, in un silenzio pensoso per qualche istante, poi alzò lo sguardo e sgranando i suoi occhi stanchi, con tutta la semplicità e l’onestà di cui era capace, gli fece un’altra domanda.
“Ma ciò significa che… mi hai perdonato, Macca?”
Paul si sentì sciogliere come neve al sole, e annuì con foga.
“Sì. Ho capito perché l’hai fatto, e lasciami dire che, orgoglio a parte, credo di non essere mai stato davvero arrabbiato con te. Non potevo.”
John sorrise di cuore, mentre sussurrava “meno male” e Paul si trovò a pensare che non esistesse uomo più bello di quel Lennon. E non parlava solamente a livello estetico, perché ogni secondo che passava ad amarlo, si trovava a pensare sempre più che persona straordinaria fosse. Negli occhi di quel trentaseienne, nonostante le prime rughe e le occhiaie, c’era ancora tutto lo spirito di un bambino, la voglia di sognare, di essere felice e di rendere felice gli altri. E quando sorrideva, Dio, era come se il sole battesse più forte e scaldasse ogni angolo buio dell’anima di Paul.
Certo, poteva dirsi una persona solare e ottimista, molto più di John, eppure c’erano degli aspetti insicuri e dannatamente realistici di Paul che combaciavano perfettamente con il lato infantile, spensierato e un po’ pazzo di Lennon. Quel Lennon che gli faceva i dispetti nei corridoi, scappando come un bambino quando l’altro lo sgridava, o di cui Paul si lamentava con gli altri colleghi quando arrivava, per l’ennesima volta, in ritardo. Quel Lennon che era così tanto al suo opposto da essere dannatamente perfetto per lui.
John doveva essere stufo di aspettare una risposta da una persona che lo fissava imbambolato sorridendo, e gli fece un’altra domanda.
“Ma dovevi dirmi solo questo? Cynthia mi ha detto che dovevi parlarmi di una cosa che ha a che fare con il lavoro.”
Per Paul fu come ridestarsi da un piccolo, stupido sogno. Era vero, gli restava un altro argomento delicato da affrontare, e questo lo spaventava, eppure, allo stesso tempo era quello gli aveva dato la carica di adrenalina sufficiente per partire quella mattina.
In un solo istante, davanti agli occhi di John, Paul perse tutta la sua sicurezza e i discorsi che si era ripetuto in macchina andarono a farsi benedire. Un conto era dargli una buona notizia, un altro era trovarsi lì a chiedergli se avessero dovuto vivere a distanza per i prossimi anni.
“Sì, mh, George mi ha scritto un messaggio e mi ha detto che, ecco, sì… ti saresti preso un periodo di aspettativa per stare con Julian. E che forse non saresti più tornato, ecco. Sì, e, ecco, mi sono preoccupato perché avevo in mente un paio di progetti con te e…”
“Che progetti?” lo interruppe John, senza riuscire a smettere di sorridere.
“Progetti di scuola importantissimi…”
“Capisco. Beh, allora mi dispiace dirtelo, ma dubito che potremo farlo.” John si strinse nelle spalle, facendosi serio all’improvviso. Distolse rapido lo sguardo da Paul, concentrandosi su un paio di passanti che spingevano una carrozzina arrugginita.
Paul deglutì rumorosamente. Le mani gli tremavano, e, per quanto cercasse di celarlo, era terrorizzato dalla piega che stava prendendo quella conversazione. Va bene, Glasgow non era alla fine delle terre conosciute, ma l’aveva sempre avuto vicino quando non lo voleva, e ora che desiderava solo stargli accanto, la vita glielo portava lontano, a quasi tre ore di macchina.
Avevano finalmente chiarito, avevano affrontato le prime difficoltà, e ora che poteva dirsi fiero del proprio sentimento, era costretto ad affrontare un altro ostacolo.
Si sentiva stupido ed egoista, perché John non si trasferiva a Glasgow per motivi di piacere, ma per dovere nei confronti di suo figlio. E andiamo, non poteva paragonare i propri bisogni romantici a quelli di un bambino malato e reduce da un’operazione. Doveva mettere da parte il proprio egocentrismo e comportarsi da adulto responsabile.
“E perché non potremo farlo?”
“Perché non riuscirei a trattenermi dal fare questo.”
John coprì i pochi centimetri che li separavano, gli prese il mento con delicatezza e lo avvicinò a sé, prima di catturare le sue labbra in un bacio, timido e casto.
Fu un bacio strano, a stampo, perché entrambi non sembravano riuscire a smettere di sorridere stupidamente, come due ragazzini alla prima cotta.
Ciononostante, quel semplice contatto impacciato fece accelerare il battito cardiaco di Paul e le sue narici si riempirono del profumo di cannella di John. Per un brevissimo istante, il suo cervello si scollegò, in una sorta di rapido blackout. Quella straordinaria leggerezza di pensiero durò poco, perché intervenne subito la solita, dannata razionalità, che impedì a Paul di prendere il viso del collega tra le proprie mani e di baciarlo, stringendolo a sé e sussurrandogli cose molto poco dignitose.
Dunque si costrinse a staccarsi dopo pochi secondi, prima che la bocca di John si schiudesse e rendesse il bacio più approfondito. Non che non lo volesse, Dio, era straordinario quanto amasse le labbra così morbide e dolci di John, ma erano pur sempre in un ospedale. Paul si guardò attorno, rosso in viso, terrorizzato dal fatto che qualcuno avesse potuto vederli o, peggio ancora, giudicarli.
“Lennon, cosa diavolo…?”
“Oh, non sai da quanto avevo voglia di farlo!” esclamò in tutta risposta l’altro, ridendo e grattandosi il naso, imbarazzato.
“Ma avrebbero potuto vederci!”
“Vederci far cosa, questo?” disse, prima di baciarlo di nuovo. Stavolta il cervello di Paul realizzò più lentamente quello che stava succedendo, e tutto il suo corpo, mente inclusa, scivolò in una sorta di dolce tepore in cui esisteva solo John, il suo dannatissimo profumo e le sue labbra. Al diavolo, la torta di carote era un gusto buonissimo da dare ad un bacio, e Paul si trovò a desiderare di avere di più di John, aggrappandosi alla sua giacca come se rischiasse di cadere in un baratro senza fine.
Stava per affondare le mani in quel meraviglioso cespuglio di capelli ramati, per sentire se fossero davvero così morbidi come sembravano, quando il grido gioioso di un bambino lo svegliò dalla sorta di trance in cui era caduto. Si separarono, stavolta delicatamente, lasciando che i loro nasi sfregassero l’un l’altro.
John lo guardò sorridendo, appoggiando la fronte alla sua e cercando di calmare il proprio respiro.
“Io non resto a Glasgow, Macca. Quello che voleva dirti George è che torno a Marzo.” Sussurrò appena, spostando la mano dalla giacca di Paul alla sua guancia, accarezzandolo dolcemente.
Ma certo, “No torna a Marzo”! Aveva perfettamente senso, mancava solo una dannatissima virgola.
“Davvero?”
“Davvero davvero. Non ti libererai di me tanto facilmente.”
Questa dolce minaccia sortì l’effetto sperato, perché Paul si trovò a sorridere ancora di più. Doveva sembrare un folle perché sorrideva così tanto da sentire le guance far male. Eppure, non riusciva a smettere.
“Oh, che peccato.” Sussurrò alla fine, e scoppiando a ridere, lo baciò di nuovo.









Angolo dell’autrice:

Buon venerdì e buon fine settimana  a tutti, miei adorati lettori.
Spero che non siano presenti diabetici tra di voi, perché in quel caso vi ho stesi. Ma ehy, io sono innocente, è colpa di Kia che mi costringe a scrivere il fluff. No, non è vero, sì gliel’avevo promesso, ma la verità è che mi ci sono divertita troppo e diciamocelo… era ora.  Finalmente ce l’hanno fatta! Brindiamo!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, lo spero tanto. Fatemi sapere, ecco. Se non siete tutti morti in questo mare di melassa, chiaro.
Ringraziamenti doverosi, come al solito, a chi ha lasciato un commento o ha letto questa storia. Siete tanti e siete meravigliosi!
Inoltre, un grazie di cuore, come al solito, a Workingclassheroine e soprattutto a Paperback White, che mi sta aiutando in questo periodo davvero molto difficile per me.
Infine, una fetta di torta di carote e un Ricky Martin tascabile per Kia85, che si sacrifica per tutti voi. Grazie <3
Concludo dicendovi che il prossimo aggiornamento sarà sabato e… emh, ecco, ci sarà un alzamento di rating. Fino all’arancio. Spero non sia un problema, per voi. ;)
Un abbraccio a tutti quanti, e buona festa delle donne per domenica!
Anya


 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 10




Paul aprì la porta, sistemandosi i capelli con una mano, mentre con l’altra stringeva a sé il pigiama di pile.
“Sono arrivate le piz- oh.” gridò, tutto elettrizzato e felice, prima di vedere il proprio entusiasmo franare addosso alla persona infreddolita e bagnata che gli stava davanti.
“Disturbo?”
No, non era decisamente l’uomo delle pizze.
Paul sentì il sorriso formarsi spontaneamente, e pensò di essere spaventosamente simile ad una ragazzina davanti alla prima cotta.
John aveva un debole per quel sorriso, così immediato, così solare, così bello, e coprì rapidamente i pochi centimetri che li separavano. Dio, bramava un bacio come se la sua vita dipendesse da quello.
Eppure, al contrario di quello che si aspettava, Paul si scostò immediatamente, bloccandolo con le mani sul petto.
“Ma che?” chiese John, confuso e preoccupato. Non lo vedeva da due settimane e quello era ciò che ne riceveva in cambio?
“Avevi detto che saresti tornato domani!” sussurrò il collega, stizzito, stringendosi nel pigiama. Il freddo lo stava facendo tremare, e dalla sua bocca uscivano piccole nuvolette di condensa.
Questa era strana: Paul non lo faceva nemmeno entrare in casa, anzi, sembrava insistere per farlo restare sull’uscio, tenendo la porta mezza chiusa alle sue spalle. Eppure John stava chiaramente gelando, il suo naso rosso e gocciolante ne era un segnale evidente!
Preoccupato, cercò di spiare nello spiraglio della porta socchiusa, per scoprire cosa teneva nascosto Paul, ma non riuscì a vedere né sentire nulla, se non il calore invitante di una casa ben riscaldata e un vago profumo di incenso.
“Sì, Macca, volevo farti una sorpresa, non ne potevo più di starti lontano.” Cercò di riavvicinarsi e riuscì quasi ad affondare il naso gelato nel collo di Paul, prima di venire scacciato di nuovo in malo modo. Grugnì offeso, incrociando le braccia. Questo era il colmo, cosa stava succedendo? Si erano sentiti ogni giorno durante quelle settimane e tutto sembrava filare liscio. Aveva provato, durante la lontananza forzata, a sgattaiolare via qualche notte per andare a trovare Paul, ma il collega aveva ricominciato a lavorare e si addormentava prestissimo. Senza considerare che, appena John saliva in macchina, si sentiva in colpa e tornava da Julian ancor prima di provare ad infilare la chiave nel quadro.
“Tutto bene?” disse una voce, alle spalle di Paul.
“George?”
“John?”

“Cosa ci fai qui?” si chiesero all’unisono, prima di scoppiare a ridere.
“Oh, fantastico! Lennon e Harrison riuniti! Il mio peggiore incubo. Dai, vieni dentro.” commentò Paul, stizzito, facendogli un rapido cenno con il capo e sbuffando sonoramente. “Mi sporcherai tutto il pavimento, già lo so.”
 
George e Paul, a quanto pareva, si erano ritrovati con la scusa di vedere un film, e sparse ovunque c’erano tazze usate, incensi bruciati e confezioni vuote di cibo spazzatura.
I primi minuti i tre si limitarono a fare qualche discorso impacciato e formale; dopodiché arrivò la pizza e John si divertì a rubarne metà a Paul, mentre George divideva la sua con Pattie.
Il fatto che una bambola gonfiabile non avesse bisogno di mangiare era un problema secondario.
In fondo, a John cosa gliene importava? Bastava stare con Paul. E Dio se era difficile trattenersi dal guardarlo continuamente! La cosa divertente era quando l’altro alzava lo sguardo e notava che John lo stava fissando. Diventava rosso come un peperone, abbassava il capo e si mordeva il labbro, sorridendo di rimando.
Prima o poi avrebbe dovuto dire a Paul l’effetto che quel sorriso aveva avuto e aveva tuttora sul suo povero cuore. Nemmeno durante le prime cotte aveva provato qualcosa del genere. Solo con un dannato sorriso, Paul sembrava dargli la possibilità di una seconda adolescenza, di una nuova vita, e questo era semplicemente straordinario.
Mentre pensava queste cose, John masticava lentamente la pizza, cercando di sforzarsi di guardare da un’altra parte, senza successo, finché la mano di Paul non si appoggiò sulla sua coscia, come un segnale che lo pregava di distogliere lo sguardo da lui.
Purtroppo però la mano delicata di Paul ebbe un altro effetto su John. Abbassò lo sguardo e, sgranando gli occhi, appoggiò distrattamente il tovagliolo sul cavallo dei pantaloni, gonfio. Cosa diavolo gli stava succedendo? Aveva di nuovo diciassette anni e non se n’era accorto? Arrossì in preda all’imbarazzo, e sminuzzò meticolosamente il suo spicchio di pizza, sperando che aiutasse a calmare i bollenti spiriti.
Nonostante gli sforzi, i due continuarono a guardarsi sorridendo e arrossendo, sotto lo sguardo divertito e curioso di George.
“Voi due sembrate andare d’accordo, all’improvviso. Che cosa bizzarra.”
Paul si soffocò con l’ultimo boccone di pizza e John si concentrò con eccessivo entusiasmo al compito di dargli delle pacche mirate all’altezza dei polmoni.
Una delle prime cose su cui avevano concordato sin dagli inizi, era quella di tenere la loro relazione lontana dall’ambiente lavorativo. Innanzitutto per rispetto verso Linda e per evitare di dar adito ai pettegolezzi dei loro colleghi, già fin troppo impegnati a creare gossip dove non c’erano. E poi perché temevano che, una volta arrivato alle orecchie del preside e dei genitori degli alunni, questa cosa potesse portare ad un loro allontanamento. Ed era proprio ciò che volevano evitare.
Insomma, si trovarono a dirsi, quanto poteva essere difficile celare una relazione?
Evidentemente molto, se solo dopo cinque minuti George aveva già avanzato un sospetto.
Ma, si trovò a pensare John, era colpa di Paul, che era così attraente anche con un pigiama infeltrito.
“D’accordo? Noi due? Ma vorrai scherzare. Vero, Macca?” commentò alla fine, con un ghigno divertito, dando a Paul una pacca più forte tra le scapole.
“Mi hai infettato, Lennon, non mi toccare.” Replicò l’altro, quando riuscì a respirare normalmente, liberandosi dai colpi.
George sorrise di rimando a quella scenetta così famigliare, e si dedicò ad accarezzare i capelli biondi di Pattie, sussurrandole qualcosa nell’orecchio. Beh, se non altro, anche avesse capito qualcosa, nessuno avrebbe creduto alle parole del professore di religione.
Finita la pizza, si spostarono a bere del vino sul divano e mentre Paul preparava il dolce in cucina, George si trovò in salotto da solo con il suo migliore amico. All’inizio stettero un po’ in silenzio, tamburellando i piedi al ritmo della musica in sottofondo, un vinile dei Fleetwood Mac, ma poi, tra un bicchiere e l’altro, il clima stranamente teso si sciolse.
“Non mi hai ancora detto per quale motivo sei qui, John.”
“Mi avevano detto che c’era una festa tra colleghi, a quanto pare si sono sbagliati o mi hanno preso in giro.”
Dio, che scusa del cazzo, pensò mordendosi il labbro. Nemmeno George se l’era bevuta, era ovvio da come lo guardava, tra un sorso e l’altro di vino.
A quanto pare. E Julian come sta?”
“Fermi tutti, voglio sentire anche io!” esclamò Paul, stringendo tra le proprie mani tre piattini da dessert, su cui troneggiava una fetta spessa di Red Velvet. Si sistemò comodamente tra George e John, e aspettò che il collega di arte ricominciasse a parlare. Non che non fosse già a conoscenza di tutte quelle informazioni, aveva anche fatto una videochiamata con il piccolo Julian, non appena si era sentito meglio e aveva ricominciato a parlare.
“Dicevo, Jules agli inizi non ha risposto bene alle terapie, e il dottore era preoccupato che avesse un rigetto del cuore trapiantato. Fortunatamente, dopo solo pochi giorni, le nuove flebo hanno ottenuto l’effetto sperato, e al termine della seconda settimana dall’operazione Julian ha ricominciato ad alimentarsi in modo naturale. Ci hanno fissato un sacco di controlli, abbiamo la fisioterapia da seguire, una dieta rigidissima e alcune indicazioni categoriche, sia per quanto riguarda la temperatura da mantenere in casa che l’attività fisica da fargli fare obbligatoriamente. Insomma, un gran casino, ma la cosa bella è che Jules l’altro ieri è finalmente uscito dall’ospedale ed eravamo così felici tutti e tre insieme, e sembrava tutto come prima della malattia.” disse, strofinandosi gli occhi stanchi e lucidi.
Paul sussultò appena, davanti al dolore di John. Avrebbe voluto abbracciarlo, avrebbe voluto riempire di piccoli baci quel viso segnato dallo stress, ma non poteva, quindi cercò di far sentire la propria presenza attraverso delle piccole carezze circolari sulla schiena.
“L’importante è che ora Jules stia meglio.” Disse alla fine George, finendo la sua fetta di torta e raccogliendo le briciole con la forchettina.
“Sì, finalmente. Io e Cynthia agli inizi ci divideremo il carico: io mi occuperò delle visite e della fisioterapia, lei delle medicazioni e dell’assistenza quotidiana. Sarà dura, ma sono felice di potermi occupare di mio figlio. Finalmente, sarò un padre per lui.”
“Lo sei sempre stato.” Gli rispose George, stringendo a sé Pattie, e Paul annuì a quell’affermazione.
“Oh, al diavolo, vi sto rovinando la serata. Credo di essere solo molto stanco.” John trangugiò tutto d’un fiato il suo bicchiere di vino e lo appoggiò con un tonfo sul tavolino. Non voleva far vedere a Paul quanto gli tremasse la mano e quanto si sentisse insicuro, ma sembrava tutto così difficile. E pensare che sperava di passare una serata tranquilla!
“Non ti preoccupare, amico. Io e Pattie andiamo a casa ora. Si è fatto tardi anche per noi, vero, amore?”
In un solo colpo, i tre uomini si alzarono dal divano, stiracchiandosi pigramente. L’orologio segnava le dieci e per Paul era ancora troppo presto per separarsi da John. Avrebbe voluto chiedere al collega di trovare una scusa e di restare lì con lui, ma George gli aveva chiesto un passaggio con la macchina, e all’improvviso il padrone di casa si trovò costretto a salutare tutti i suoi ospiti, Pattie inclusa.

Più tardi, mentre lavava i piatti, a Paul piombò addosso un profondo senso di tristezza. Dio, John era venuto lì per lui, gli aveva fatto una sorpresa, e l’aveva lasciato andare via senza nemmeno provare a trattenerlo, senza fargli capire quanto avesse bisogno di lui, dopo tutte quelle settimane di lontananza. Allo stesso tempo, gli era sembrato che anche John necessitasse di compagnia, e non poteva sopportare di lasciarlo da solo, in mezzo al nulla della campagna scozzese, in preda ai suoi pensieri.
Cercò il cellulare e provò a chiamarlo un paio di volte. Con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a contattarlo prima che si allontanasse troppo.
Sbuffando, si rese conto che i suoi rimproveri sull’uso del telefono non erano serviti a molto: il collega non rispondeva. Al diavolo, sarebbe andato lui a Southend a casa di John. Tutto, pur di non lasciarlo da solo.
Si infilò scarpe e cappotto sopra il pigiama infeltrito e fece per lanciarsi fuori da casa, quando andò a sbattere contro una figura ferma davanti alla porta.
John?” era davvero lui o aveva le traveggole, date dal mix letale di tisane, alcolici e incensi?
“Dove diavolo stai andando, Macca?”
Sì, era davvero il suo maledetto Lennon. Era lì, sempre più bagnato e sempre più infreddolito. Senza nemmeno provare a rispondergli, Paul si fiondò su di lui, baciandolo.
Le labbra di John, anche se fredde e screpolate, erano l’unica cosa di cui aveva bisogno. L’unica cosa in grado di farlo stare meglio.
“Oh, ora sì che si comincia a ragionare.” Commentò malizioso John, infilando le mani sotto il cappotto di Paul per riscaldarsi, e per poterlo afferrare meglio e avvicinare a sé.
“Forza, entriamo.” Paul armeggiò con la porta mentre continuavano a baciarsi. Fortunatamente l’ingresso non si era chiuso ed entrarono senza troppe difficoltà. Le chiavi di casa finirono a terra con un tonfo, assieme al cappotto e alla sciarpa.
“Macca, forse sarebbe il caso di…” un altro bacio lo zittì, e il resto della frase si trasformò in versi gutturali di piacere.
Il rigonfiamento dei pantaloni di John faceva ben intendere come sarebbe finita la serata e Paul si sorprese di volere che succedesse.
Un paio di volte al telefono la voce di John gli aveva provocato uno strano brivido alla schiena e al collo, eppure aveva sempre pensato di aver bisogno di tempo prima di fare un passo così importante. Certo, non era un ragazzino alla prima storia, aveva già fatto sesso parecchie volte, ma sempre e solo con delle donne. Dunque, l’idea di qualcosa che conosceva solo in teoria, e nemmeno troppo bene, lo spaventava molto. Aveva già pensato ai discorsi da fare a John, e sperava di non risultare troppo patetico, mentre gli chiedeva di aspettare un po’ prima di quel passo.
E invece eccolo lì, dopo solo poche settimane da San Valentino e dal suo outing, a mordere le labbra di John e a riempire di caldi baci il suo collo e il suo petto. La verità era che si sentì sorprendentemente sicuro di se stesso e di quello che voleva, finché si trattò di spogliare l’altro e di agire. Ma quando le mani di John slacciarono velocemente la cerniera del suo pigiama e si concentrarono sul laccio dei suoi pantaloni infeltriti, la sua sicurezza vacillò, e un leggero tremito lo percosse. John se ne accorse, e si staccò, col fiatone, accarezzando appena la guancia di Paul con il suo naso, per avvicinarsi al suo orecchio.
“Forse dobbiamo aspettare.”
“No. Lennon, ti voglio.”
Dopo quattro anni di vera e propria tensione e dopo settimane di litigi, confessioni e telefonate, Paul era stanco di rimandare ogni cosa, di fingere. E poi sentiva il bisogno di essere in tutto e per tutto di John, al diavolo il resto. Una volta convinto se stesso, un altro dubbio gli si insinuò nella mente, e stringendo il volto del compagno tra le proprie mani, scrutò il suo sguardo, alla ricerca di stanchezza o tristezza.
“E tu? Vuoi?” disse alla fine, facendosi coraggio.
“Non sai quanto.”
Paul rise e lo abbracciò. Se avesse visto dall’esterno quella scena, si sarebbe preso in giro da solo. Eppure era lì, nel bel mezzo della stretta con John, e non poteva non comportarsi come uno stupido.
“Una parola, una parola sola e mi fermo, Macca.”
Gli diede un leggero bacio sul collo, appena sotto il lobo, e un brivido violento di desiderio gli attraversò la schiena. Paul scosse il capo violentemente, incapace di dire alcunché.
Solo stringendo ancora più forte a sé John, sembrò riuscire a recuperare un po’ di forze e l’uso della parola.
“No, va tutto bene. Andiamo in camera?”
John lo guardò intensamente, sorridendogli e facendo appoggiare le loro due fronti. Fu uno sguardo intenso che racchiudeva tante domande, ma Paul vi lesse soprattutto un “sicuro?” a cui rispose con un leggero annuire del capo.
Prese la mano di John e lo trascinò su per le scale, guidandolo nella semi oscurità della casa per raggiungere la sua camera. Lì accese la piccola abatjour del comodino, e non ebbe neanche il tempo di sistemare un po’ il letto che John si era distratto a guardare le foto di Paul da piccolo e a studiare i vari soprammobili.
“Ma devi per forza farlo adesso?”
“Sono troppo divertenti! Guarda qua che faccia!”
Il professore di musica incrociò le braccia, sbuffando, ma niente, l’altro continuava a persistere nello studiare la sua stanza, ridendo sotto i baffi. A grandi passi, dunque, coprì la distanza tra loro due e lo abbracciò da dietro, accarezzandogli con le mani fredde il petto nudo e posando delicati baci sulle sue scapole.
Questo doveva aver funzionato meglio del precedente tentativo, perché all’improvviso a John non sembrava più interessare molto delle fotografie di casa McCartney. Mantenendo la stretta, si girò a guardare Paul negli occhi, e catturò le sue labbra in un altro bacio.
“Va bene, va bene, le guarderò domattina mentre dormi.” Disse alla fine, ridendo.
“Non ti sveglierai mai prima di me.”
“Mh, vero anche questo.” Ghignò, e spinse l’altro sul letto.
Paul stette così, sdraiato a pancia in su sul letto, mentre l’altro con movimenti lenti e studiati si posizionava sopra di lui.
“Non sai quanto ho sognato questo momento, Macca. Quattro anni…” una volta raggiunto il suo viso, John lo baciò con desiderio e con disperazione, come se effettivamente da quel momento specifico dipendessero le loro vite.
Paul era paralizzato, non tanto per la paura, ma per il sentimento straordinario che sentiva. La persona davanti a lui, l’uomo che aveva sempre pensato di odiare, in realtà provava per lui qualcosa di così bello e intenso, qualcosa che lo portava ora a guardarlo in quel modo. Ma si meritava davvero tutta quella felicità? E perché, a dispetto di quello che sentiva, non riusciva a fare alcunché per ricambiare? Era come se fosse impotente, davanti al suo stesso sentimento, davanti ad un amore mai provato prima.
Continuarono a guardarsi e stettero così, immobili, ognuno preda dei propri pensieri. Alla fine John distolse lo sguardo solo per ammirare la persona stretta sotto di lui, e si morse il labbro pensando che non aveva mai visto un uomo bello come Paul.
“Sai, Macca. Quattro anni sono lunghi, e ti devi far perdonare.” Bisbigliò, tornando a guardarlo fisso negli occhi. Un ghigno divertito si era impossessato della sua faccia, e Paul deglutì rumorosamente, in preda all’eccitazione.
“E come posso fare per ottenere il tuo perdono, Lennon?” gli rispose, ridendo del suo stesso tono serio.
“Ho un’idea.” sussurrò John, cominciando a baciargli il collo.
 “Questo è per la prima volta che ci siamo visti…”
Paul si divincolò con poca convinzione, in preda ai brividi di eccitazione, e aprì la bocca per lamentarsi, ma il suono che uscì dalle sue labbra fece sorridere John, e lo spinse a continuare.
“Questo è per ogni volta che cercavi un pretesto per litigare con me…”  
Dopo avergli sussurrato quelle parole all’orecchio, cominciò a scendere, leccandogli il petto. Si staccò dal suo meticoloso lavoro solo per ricominciare a parlare.
“Questo è per tutte le volte che mi guardavi con la puzza sotto il naso…”
Cominciò ad abbassarsi, riempiendo di baci umidi il basso ventre di Paul, spostando appena i pantaloni.
 “Questo è per aver creduto di odiarmi durante tutti questi anni.” Con un colpo rapido gli gettò via i pantaloni, ammirando per qualche istante le lunghe gambe pallide.
Quando alzò lo sguardo e vide che il volto di Paul si era tinto di un rosso interessante, John si ritenne abbastanza soddisfatto della sua opera. Dunque si rialzò lentamente, riavvicinandosi al volto del compagno con movimenti studiati e fece in modo di far sfregare il proprio naso con quello dell’altro.
Paul lo guardò sorridendo e lo baciò, prendendo all’improvviso l’iniziativa e stringendo le proprie braccia dietro il collo di John, per avvicinarlo a sé.
“Questo, mio caro Lennon, questo è perché ti amo.”
John davanti a quella improvvisa dichiarazione sgranò gli occhi e arrossì impercettibilmente.
Certo, non era la prima volta che qualcuno dichiarava di amarlo, soprattutto prima del sesso. Era capitato, e Cynthia glielo aveva detto spesso. Eppure alle sue orecchie, il “ti amo” era sempre arrivato come un qualcosa di falso e fastidioso, da ripetere meccanicamente solo per accontentare la persona davanti a sé. Stavolta invece, quella semplice dichiarazione gli arrivò in modo diverso, più intenso. Quasi gli mancò il respiro dalla felicità che provava e si sentì ridere senza un vero e proprio motivo, come uno stupido o un folle.
Baciò Paul intensamente e a lungo, prima di spostarsi sul collo, dove, succhiando e mordicchiando leggermente un piccolo angolo di pelle, John gli lasciò un segno rosso. Le mani gli tremavano e il cuore batteva così forte che credeva di morire. Doveva avere Paul il prima possibile, o sarebbe impazzito.
Si abbassò e lanciò via i propri pantaloni assieme ai boxer, togliendo anche quelli del compagno.
Ora erano entrambi nudi ed esposti, ed era troppo tardi per tornare indietro.
“Paul, amore, non credo di riuscire a fermarmi ora.” Le mani di John continuarono a tremare, e con la mente annebbiata non sapeva davvero dire se per l’eccitazione o per qualcos’altro di nuovo e mai provato prima. Eppure non era la prima volta che andava con una persona del suo stesso sesso. No, era diverso, perché con gli altri uomini non c’era mai stato alcun tipo di sentimento. Era stata solo una questione di fisica, ma con Paul non era così. Non lo era mai stato.
E il suo Macca poteva anche essere un adulto grande e vaccinato, ma quella era la sua prima volta e, anche se lo nascondeva bene, aveva paura. John non poteva deluderlo. Aspettò di ricevere una vaga risposta dall’altro, prima di toccarlo più intimamente, con le mani, le labbra, e qualunque parte di sé affamata di Paul.
Sentire l’altro contorcersi sotto il proprio corpo gli fece capire che non aveva più vent’anni, e che quei preliminari stavano durando decisamente troppo. Soprattutto perché si parlava di Paul, di quel collega che aveva desiderato per mesi, per anni e che finalmente ora aveva sotto di sé. Non poteva resistere ancora. Afferrò i fianchi di Paul e lo avvicinò a sé, occupandosi di lui mentre il compagno si divincolava, un po’ per colpa dell’eccitazione, un po’ per il disagio.
Quella strana posizione, così distaccata, infastidiva terribilmente John. Sentiva il bisogno di vedere bene il viso dell’altro. Inoltre voleva baciarlo, voleva sentire ogni angolo della loro pelle, calda e sudata, toccarsi. Dunque John afferrò i polsi di Paul e lo fece sollevare. Così, i loro due petti si scontrarono senza grazia in una sorta di eccitato abbraccio.
Oh, molto meglio, si trovarono a pensare entrambi. Ora il viso di Paul era a pochi centimetri dal suo, e John poteva finalmente ammirare quanto fosse adorabile quando arrossiva così. Gli diventava rosso persino il naso, quel naso così delicato su cui posò un piccolo bacio. Si prese un secondo per godere di quella vicinanza, e appoggiò la fronte a quella dell’altro, sorridendogli.
“Ciao, principessa.” Sussurrò, prima di mordergli il labbro e di baciarlo.
Paul affondò le mani nei capelli ramati del collega e inspirò profondamente il suo profumo di cannella, sentendosi all’improvviso più coraggioso e intraprendente. Dunque, spostò appena i fianchi in avanti e un brivido scosse entrambi.
Con uno sguardo d’intesa capirono che c’era il rischio che finisse tutto troppo presto, e nessuno dei due voleva. Dunque Paul mordicchiò appena il collo di John e, come sussurrando una preghiera, lo implorò di prenderlo. E Dio, questo andava contro tutto quello in cui credeva, contro il suo dannatissimo orgoglio, ma la sua mente non voleva che il suo Lennon, non gli interessava nient’altro.
Quando si unirono, la sensazione di essere una sola cosa con Paul, stordì John e lo lasciò senza parole e senza forza all’improvviso, come se non fosse pronto ad arrendersi ad una cosa così straordinaria e perfetta come quella. Poi, vergognandosi dei suoi pensieri da verginella alla prima notte di nozze, alzò la testa che era involontariamente affondata nel collo di Paul, e guardò negli occhi il compagno. Una volta appurato che l’altro stesse bene e che potesse cominciare a muoversi, ricambiò il bacio appassionato e inarcò la schiena sotto le mani di Paul, che si aggrappavano a lui, graffiandogli le spalle.
“Paul, io…io ti…”
John prese una boccata di ossigeno. Per qualche istante stette fermo, come se non potesse più fare niente finché non avesse detto a Paul quelle due parole che erano imprigionate in gola e non sembravano voler uscire. Poi, man mano che i gemiti si facevano più rumorosi e l’aria più rara, ammise la sconfitta, e sentendo Paul sotto di lui implorarlo con i gesti e con lo sguardo di fare qualcosa, ricominciò ad amarlo.
Quando raggiunsero l’apice del piacere, Paul strinse ancora più forte a sé l’altro, affondando le unghie nella sua carne, e per John questo fu segnale. Come se, in un semplice istante, ogni cosa avesse all’improvviso acquistato un senso. Il nome di Paul gli rimbombava nella testa e Dio, se non era la cosa più straordinaria che gli fosse mai capitata in vita sua. Non credeva di aver mai provato nulla di così intenso per nessun altro, e ne fu spaventato, per un breve istante.
Stettero così, immobili e impotenti per qualche istante. Poi, quando John si ricordò come respirare, alzò la testa e posò un leggero bacio sulla fronte dell’altro.
Paul però continuava a sorridergli, anche mentre si muoveva lentamente dalla sua postazione, per spostare le braccia e stringere meglio John a sé.
“Tutto bene?”
Paul rise, pensando a quanto quella frase cliché da film romantico suonasse bizzarra, se detta dal compagno.
“Sì sì, grazie.”
“Perché ridi, Macca?”
“Perché sei così buffo e tenero, mio caro Lennon.” Sussurrò, dandogli un leggero bacio sulla spalla.
“Buffo e tenero? Io?” esclamò, staccandosi da quell’abbraccio con fare melodrammatico, “Ma io sono un uomo di una certa età! Chi credi di essere per mancare di rispetto agli anziani? Prova a ripeterlo se hai il coraggio!”
“Ah, mi sfidi? Lo sai che ti dico? Che sei la persona più buffa e tenera che io conosca.” E toccandogli il naso con la punta delle dita, lo guardò con aria di sfida.
Neanche il tempo di accorgersene, che un cuscino colpì il viso di Paul e lo fece affondare sul morbido piumone, tutto ingarbugliato ai bordi del letto.
“Ora ci penso io a te, Macca!” esclamò John, e si fiondò su di lui, ridendo.
“Nooo, vai via! Sei tutto sporco!”
“E di chi è la colpa, secondo te?” Paul arrossì, sfuggendo al solletico che il collega stava cercando di fargli.
Provò anche a mandarlo al bagno a lavarsi, eppure non sembrava riuscire ad avere la meglio contro John, che alla fine fingeva di andarsene ma tornava subito lì, da lui, sotto il piumone stropicciato.
Dopo l’ennesimo ritorno di John, si addormentarono così, abbracciati ed esausti, tra le lenzuola sfatte.
Paul si trovò nel dormiveglia ad accarezzare dolcemente la testa del compagno, appoggiata sul suo petto.
Il suo ultimo pensiero, prima di sprofondare nel sonno, fu che la felicità doveva proprio avere il profumo di John.
 
 







Angolo dell’autrice:
E ce la fecero. E no, non parlo di Paulie e John, ma delle due rotelle nella testa della scrittrice.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, perché purtroppo devo annunciarvi un momento di pausa per questa mia storia. Insomma, per i capitoli 11 e 12, i due capitoli finali, dovrete aspettare un po’ di più. Sto attraversando un periodo molto difficile a livello personale, e questo si riversa anche e soprattutto sulla scrittura, e non vorrei rischiare di rovinare la storia con un finale brutto o scritto male.
Scusatemi.
Un grazie a chi ha letto, recensito, messo tra i preferiti.
Un grazie a Workingclassheroine che è sempre superimpegnata ma trova sempre un momento per gli altri.
Un grazie di cuore a Paperback White che mi sopporta e allieta le mie serate e mi risolleva sempre, in un modo o nell’altro.
Un grazie immenso a Kia85, che ha fatto tantissimissimo per questo capitolo in generale, e soprattutto per me. Grazie, grazie, grazie, ti voglio bene.
Ci si legge presto, spero.
Un abbraccio,
Anya.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 11
 



Il suono della sveglia per John fu una sorta di trauma. Non era pronto per alzarsi così presto la mattina, dopo tre settimane di orari improbabili e troppe poche ore di sonno. Perciò quando un breve ma fastidioso bip-bip lo strappò dal mondo dei sogni, avrebbe solo voluto maciullare la sveglia contro il muro e dormire altri sei o sette mesi. 
Allungò la mano verso il suo comodino alla ricerca dell’orologio, gli occhi ancora sigillati e la mente mezza intorpidita dal sonno, e si scontrò con una massa arruffata di capelli. Quasi saltò giù dal letto dallo spavento.
Neanche il tempo di mettere a fuoco la stanza in cui si trovava, che ricordò ogni cosa.
Era tornato sabato da Glasgow, e aveva passato il weekend da Paul. Un weekend estremamente, come l’avevano definito?, ah sì, produttivo.
Avevano avuto modo di recuperare buona parte del tempo perso in quelle settimane, ma per John non sembrava mai essere abbastanza. Dunque, una volta che tutto il suo corpo si sentì abbastanza sveglio per muoversi, si avvicinò a Paul e lo abbracciò da dietro, stringendolo forte a sé.
L’altro, di tutta risposta, nascose il volto nel cuscino, coprendosi con il piumone.
“Jooooohn.” Disse alla fine, la voce grave e impastata dal sonno.
“Buongiorno, mia bellissima principessa.” Lentamente, cominciò ad alzargli appena la maglietta e a baciargli con delicatezza l’incavo del collo.
“Jooooooooohn.”
“Sì, è il mio nome quello. Ero certo lo sapessi, dopo tutte le volte in cui l’hai gridato ieri sera.” Sussurrò contro la spalla di Paul, provocandogli dei brividi.
“Staaai feeermo.” Ormai era sempre più nascosto sotto il piumone, e John poteva immaginarselo rosso come un pomodoro, che cercava di resistere alle sue avances, con scarsi risultati.
“Però ieri non la pensavi così. E nemmeno sabato sera…” Dopo aver giocato con il bordo dei pantaloni del pigiama di Paul, John decise che fosse arrivato il momento di passare all’azione, e cominciò ad accarezzargli il basso ventre, passando poi all’elastico degli slip.
“Fanculo, Lennon.” Gli rispose scocciato Paul, e si girò, baciandolo e stringendolo a sé con disperazione e passione.
Passò la mano tra i capelli arruffati, e fece in modo che la sua gamba scivolasse tra quelle di John. Dopo qualche minuto, Paul si staccò per prendere fiato e guardò l’altro con gli occhi pieni di desiderio, prima di cominciare a ricoprirgli il petto e il collo di piccoli, baci caldi.
“Ma non faremo tardi a scuola?” riuscì a dire John, la voce incerta e rotta dall’eccitazione. Non era certo di voler sentire la risposta, in realtà.
Paul interruppe il suo lavoro minuzioso e alzò lo sguardo, sorridendogli maliziosamente.
“Ho puntato la sveglia un’ora prima.”
Tu… oh Macca.” E, senza riuscire a smettere di sorridergli, John lo afferrò per la maglia del pigiama e lo baciò.

Il ritorno al lavoro per John fu molto più traumatico del suono della sveglia, se possibile.
Lui e Paul avevano cercato di mettere in atto una tattica per cui sarebbero arrivati da parti diverse, con tempi diversi e vetture diverse, ma alla fine si erano trovati sugli scalini dell’ingresso della scuola nello stesso identico momento. Inoltre, anche se cercavano di controllarsi, entrambi arrossirono e sorrisero come due ragazzini, e il loro saluto non era lontanamente paragonabile al solito e freddo,  “Lennon – Macca”.
Fortunatamente, l’unico a badare al loro comportamento bizzarro era George, che li scrutava dalla parte opposta della sala professori, ghignando mentre sorseggiava del tè caldo.
A quanto pareva, i colleghi erano venuti a sapere il motivo per cui John si era assentato, e non facevano altro che interrogarlo e fermarlo nei corridoi per chiedergli come stava, se si sentiva bene, se Cynthia l’aveva chiamato. Per non parlare del fatto che tutti sembravano avere consigli da dargli, e sentivano il bisogno di raccontargli di “parenti di amici di zii lontani di terzo grado con vicini di casa che avevano passato problemi simili”.
All’inizio questa situazione gli aveva fatto piacere: era bello vedere i propri colleghi e amici preoccuparsi così per lui, ma dopo qualche ora l’aria si era fatta soffocante e John sognava solo un po’ di pace.
Dunque quando, attraversando a grandi passi il corridoio della scuola, intravide Paul che si stava dirigendo verso la mensa, John sentì il bisogno di trascinarlo nello sgabuzzino del bidello e di abbracciarlo. Stettero immobili per qualche istante, beandosi del calore l’uno dell’altro.
Il collega, notò Paul sorridendo, aveva il suo profumo addosso, quello del suo bagnoschiuma, quello del suo ammorbidente per le lenzuola, e ciò gli provocò un sussulto al cuore.
“Pace, finalmente un po’ di pace.” Disse alla fine John, dopo averlo baciato leggermente sulle labbra.
Un rumore dal corridoio li fece sussultare, e terrorizzati dall’idea di essere trovati, si congelarono in quella posizione, finché il silenzio non tornò sovrano nei dintorni.
Quando ricominciò a parlare, la voce di Paul uscì come un sussurro. Non potevano essere scoperti, non dopo neanche cinque ore!
“Dobbiamo andare a mangiare, o George mi finirà tutte le verdure.”
“Oggi aveva un frullato di arance e banane, non ti preoccupare.” E ridendo, John lo strinse ancora di più a sé, anziché lasciarlo andare. Cominciò a mordergli l’orecchio, mentre gli accarezzava la schiena lentamente e con desiderio.
“Lennon, se fai così resteremo tutto il giorno in questo sgabuzzino.”
“E qual è il problema, mh, Macca?” gli sussurrò, facendolo rabbrividire di eccitazione.
Paul si staccò dalla presa e ammiccò nella semi oscurità dello sgabuzzino.
“Che se non usciamo da qui, non puoi vedere la sorpresa che ti ho preparato per il dopo lavoro.”
“Se non ha a che fare con te cosparso di formaggio, non mi interessa.”
Che cosa?”
“Niente, niente, pensavo ad alta voce.” Sussurrò John, ruotando appena gli occhi verso l’alto. “Va bene, usciamo. Ma voglio la mia sorpresa.” 
Paul sorrise divertito a quel tono di voce così infantile, e per un istante la voglia di andare a pranzo sparì completamente.
“Finita l’ultima lezione vieni in aula di musica, va bene?”
John di tutta risposta gli palpò il sedere, e dopo un breve saluto e un leggero bacio, si fiondò fuori dallo sgabuzzino. Paul contò fino a trenta, e uscì a sua volta, facendo una strada diversa.
Al tavolo della mensa si sedettero dalla parte opposta, ed entrambi furono estremamente concentrati a parlare di cose superflue con dei colleghi che normalmente snobbavano.
Per esempio, Paul si trovò ad annuire con convinzione ai discorsi di Kite sull’uso degli anabolizzanti nel body building, mentre John cercava di alleviare le preoccupazioni della Rigby per i suoi gatti.
Eppure, come calamitati da qualcosa di più forte di loro, si trovavano sempre a guardarsi negli occhi e a sorridersi come due sciocchi.
Fortunatamente la pausa pranzo volò via, e ricominciarono le lezioni del pomeriggio.
Per John furono una vera e propria sofferenza. Nonostante il progetto nuovo che aveva affidato ai suoi studenti, la partecipazione ottenuta era stata molto scarsa, e si sentì frustrato come insegnante e soprattutto come artista. E dire che “riscoperta del attraverso la fotografia e la natura” gli sembrava un titolo così stimolante! Mentre gli altri studenti si limitavano a farsi autoscatti di gruppo o allo specchio del bagno, gli unici due che sembravano averlo preso sul serio erano stati Sutcliffe e la sua fidanzatina, Astrid Kirchherr, che, entusiasti, andavano in giro a fotografare ciò che li circondava.
Quando suonò la campanella delle cinque, John tirò un profondo sospiro di sollievo, e recuperò le macchine fotografiche dei suoi studenti, sistemandole con cura nella cassaforte.
Sentì un brivido di eccitazione attraversargli la schiena all’idea che Paul lo aspettasse per fargli una sorpresa e quasi un obiettivo gli cadde a terra, tanto gli tremavano le mani.
Chiuse a chiave l’aula di arte e si avvicinò velocemente alla stanza di musica.
John si sentì un idiota, ma bussò delicatamente prima di aprire la porta. Forse perché una parte di sé si aspettava di trovare Paul nudo che lo attendeva per un’avventura torbida sul luogo di lavoro.
Dunque non riuscì a dissimulare una punta di delusione quando lo trovò ancora vestito. Ma, e questo gli cancellò ogni pensiero razionale, era seduto al pianoforte.
Quel lungo pianoforte a coda dell’aula di musica.
Quel pianoforte che suonava sempre dopo le lezioni, quando John lo ascoltava di nascosto.
“Oh, era ora, Lennon.” Disse Paul senza girarsi, continuando ad accarezzare i tasti bianchi e neri senza premerli.
Il profilo dell’insegnante di musica, chino sul pianoforte, era una delle cose più belle che John avesse mai visto, e poteva quasi sentire il profumo del dopobarba che si era spalmato quella mattina, mentre lui lo abbracciava da dietro e lo baciava. Si sforzò di chiudere la bocca, ancora spalancata dall’incredulità e dall’emozione, e coprì con lunghi passi frettolosi la distanza che li separava. Seguendo la mano di Paul che ora accarezzava il morbido seggiolino in velluto rosso, prese posto accanto al collega.
“Macca, spara. Cos’hai da dirmi, prima che io ti salti addosso?” sussurrò leggermente, leccandosi le labbra e tentando di affondare il viso nell’incavo del collo dell’altro.
“Tsk, sei un pervertito, ecco cosa sei, dannato Lennon.” E ridendo, lo allontanò con forza. “Va bene, mi do una mossa. Ma mi rovini tutta l’atmosfera romantica.”
Si morse il labbro e, senza aggiungere altro, appoggiò le mani sulla tastiera del pianoforte. Ispirò ed espirò un paio di volte, e finalmente cominciò a suonare.
Il respiro di John gli si mozzò in gola e lui non riuscì più a pensare a niente che non fosse Paul che suonava davanti a lui, per lui.
It’s a little bit funny, this feeling inside. I’m not one of those, who can easily hide. I don’t have much money, but boy if I did… I’d buy a big house where we both could live.”
Va bene, Elton John non era sicuramente uno dei cantanti preferiti di John, era troppo melenso, troppo banale, troppo romantico, ma Dio, sentire Paul cantare e suonare quella canzone era una delle cose più belle e straordinarie di tutta la sua vita.
Sentiva le mani che gli tremavano, e si vergognava dei suoi occhi lucidi, eppure non riusciva a trattenersi. Non poteva comportarsi altrimenti. John avrebbe interrotto immediatamente Paul, l’avrebbe baciato, sbattuto sul pianoforte con poca grazia e l’avrebbe preso lì, senza dirgli niente, pur di mettere a tacere i suoi stupidi pensieri. Si stava sentendo felice, troppo felice.
Dannazione, poteva sembrare assurdo, ma la portata di quello che stava provando in quel momento lo terrorizzava.
Avrebbe rovinato tutto di nuovo, come con Cynthia? Avrebbe incasinato un’altra volta la sua vita, comportandosi male, ricominciando a bere, perdendo per sempre tutto quello?
I fantasmi del passato lo perseguitavano, certo, ma non poteva ignorare quella parte di sé che gli diceva di non avere paura, che tutto sarebbe andato diversamente. Perché in un certo senso lui non era più il John di  un tempo, perché aveva già affrontato i suoi dannatissimi demoni, e perché Paul non era Cynthia, o Marie, o chissà chi altro. Paul era diverso.
In quei quattro anni avevano già litigato parecchie volte, John l’aveva fatto arrabbiare quasi ogni giorno, e, ancora peggio, nelle ultime settimane si era comportato disonestamente nei suoi confronti.
Ciononostante,  Paul l’aveva perdonato. E, cosa più importante, John in quelle settimane aveva capito qualcosa in più di se stesso. Per una volta, infatti, non sembrava più essere una questione egoistica tra sé e sé, ma era coinvolta un’altra persona, una persona così importante che John non avrebbe voluto far soffrire per nulla al mondo. Al diavolo, ciò che provava per Paul era qualcosa di così bello da fargli venir voglia di essere una persona migliore.
“I hope you don’t mind, I hope you don’t mind that I put down in words. How wonderful life is, while you’re in the world.”
Non si stupì troppo quando John si sentì canticchiare il ritornello con Paul. Inutile negarlo, conosceva bene quella canzone. E al diavolo, nonostante la voce che tremava, sentiva il bisogno di buttare fuori quel peso. Quel peso che lo tormentava da troppo tempo.
Quando la musica cominciò a rallentare, e l’ultima strofa era ancora nell’aria, John strinse i pugni e si fece forza. Era rimasto l’ultimo demone da sconfiggere, quello che gli diceva di non provarci nemmeno, perché quello non era un sentimento che si meritasse o fosse in grado di provare.
Si leccò le labbra, e aprì la bocca, ma non ne uscì nessun suono. Si sentiva così stupido, non era difficile, doveva solo farsi coraggio e dire…
“Paul, io ti amo.”
L’aveva detto davvero? Ce l’aveva fatta?
Il sorriso incredulo e meravigliato di Paul gli fecero capire che sì, era riuscito a dirlo ad alta voce, non si stava immaginando ogni cosa.
Con una sola frase, John aveva vinto. Aveva vinto l’ultima battaglia contro se stesso.
L’insegnante di musica interruppe la dolce melodia che stava suonando per accompagnare il finale della canzone e lo fissò, con la bocca spalancata e gli occhi aperti.
Sembrava sorpreso ma… felice. Dannatamente felice.
“Davvero?”
John ignorò la vocina che gli diceva che era ancora in tempo per salvarsi e proteggersi, poteva sempre fingere di non aver detto niente! Deglutì rumorosamente. No, non sarebbe tornato indietro.
Non avrebbe permesso che nulla rovinasse quel sorriso, quell’espressione, quella felicità.
“Sì, Paul, io ti amo davvero. Come non ho mai amato nessuno. Sai, credo di essere venuto al mondo solo per poter stare con te.”
Dio, che stupido sentimentale era! Si sentì arrossire, e abbassò lo sguardo di riflesso. Va bene, gli aveva già detto quanto gli piacesse, ma mai pensava sarebbe stato in grado di dire a qualcuno, anzi, di dire a Paul quanto lo amasse. E invece ci era riuscito.
E stavolta non era come con le altre donne, non era una dichiarazione buttata lì per infilarsi tra le loro gambe. Stavolta ci credeva così tanto da sentire male al cuore.
Il collega sembrava essere rimasto senza parole, e questa era una cosa straordinaria, per uno come lui.
Si limitava a fissarlo, gli occhi lucidi dall’emozione, e dopo pochi istanti, coprì la distanza che li separava e lo baciò con disperazione e bisogno.
“Ti amo anche io, stupido di un Lennon.”
John strinse Paul a sé, inspirando a pieni polmoni il suo profumo. Se gli avessero detto che a quell’età si sarebbe rimbambito così tanto per amore, probabilmente non ci avrebbe creduto. Ma, ripensando a com’era la sua vita solo pochi anni prima, era una fortuna che il destino indirizzasse verso strade che l’uomo non riesce nemmeno ad immaginare.
Imbarazzato, diede un leggero colpo di tosse, e si sforzò di tornare il solito Lennon.
“Lo so, me l’hai già detto l’altra sera, e ieri, e stamattina.” Sospirò leggermente, facendo un gesto scocciato.
“Oh, preparati, perché te lo dirò ancora.” Paul ridacchiò, affondò il naso nell’incavo del collo dell’altro e aumentò la stretta.
“Per tutta la vita?” esclamò John e roteò gli occhi, sbuffando divertito. Non che lui, John Winston Lennon, fosse tipo che credeva al ‘vissero per sempre felici e contenti’, ovvio. Ma perché no, era bello pensare ad un’intera esistenza fatta di piccoli momenti meravigliosi come quello.
“Sì, per tutta la vita mi sembra un lasso di tempo accettabile.” E, sorridendo  di pura felicità, Paul alzò lo sguardo e lo baciò.






Bonus:
“Ora pensiamo di darci da fare su questo pianoforte?”
Lennon.”
“E’ un sì?”
“Ovvio che è un sì.” 


 
 



Angolo dell’autrice:

Chi non muore, si rivede. Bella frase da dire il giorno di Pasqua, eh? ;)
Scusate l’attesa spaventosa, purtroppo ho dovuto attraversare problemi personali, totale assenza di internet, nuovo lavoro snervante e blocco dello scrittore.
Evvai. Una gioia continua, la mia vita!
Comunque l’importante è avercela fatta, ed essere qui riuniti.
Che dire? Grazie mille del sostegno e della partecipazione, e da una parte ringrazio le persone che hanno visualizzato l’ultimo capitolo, mentre dall’altra mi chiedo dove sono andate a finire tutte le persone che recensiscono o mi scrivono in via privata. Ma fa così schifo la storia? Non vi preoccupate, è quasi finita ;)
No davvero, il prossimo capitolo sarà l’ultimo, ma non so darvi esattamente una data precisa, perché purtroppo mi manca persino il tempo per respirare. Eppure vi prometto che ce la metterò tutta!
Intanto, un Paul ricoperto di formaggio per Kia, la miglior beta che ci sia. *badum tss*
Uno Stuart fotografo per Paperback White che mi sostiene sempre e mi aiuta, e un frullatone di Joj a Workingclassheroine, una persona che trova sempre il tempo per gli altri, nonostante tutto.
Ci si legge presto, promesso <3
Anya

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Everybody's Got Something to Hide

Capitolo 12




Paul controllò nervosamente allo specchio lo sparato e studiò il suo profilo per qualche minuto.
Dio, aveva messo su qualche chiletto nell’ultimo anno. Non importava quanta, come la chiamava John?, ah sì, attività fisica facessero, continuava a ingrassare.
Avrebbe fatto una figura terribile davanti a tutti quanti.
Meno male che la cerimonia veniva celebrata nel giardino di casa sua, così non ci sarebbero stati troppi passanti pronti a giudicare il suo profilo arrotondato e insacchettato dentro un completo elegante.
Inoltre c’era poco da fare, il fiocco del papillon non gli usciva ancora bene. Ah, se solo ci fosse stato John a farglielo! Ma era dall’altra parte della città, ben lontano da lui, per rispettare le migliori tradizioni. In preda alla nostalgia e alla frustrazione, Paul si liberò del farfallino una volta per tutte, e optò per una lunga cravatta viola. Tanto era una cerimonia informale, solo per pochi intimi, senza una vera e propria valenza burocratica o religiosa. Nessuno avrebbe avuto il coraggio di criticare l’uso del viola durante un’unione civile, no?
Paul infilò un piccolo giglio nell’occhiello, il fiore scelto per lo sposo, e si decise a lasciare finalmente la camera e lo specchio per fiondarsi in giardino. Neanche il tempo di aprire la porta d’ingresso, che il profumo di pioggia gli riempì le narici, e si sfregò le mani soddisfatto dall’atmosfera che lo circondava. Aveva piovuto tutta la notte, e l’erba era ancora umida, ma stava uscendo il debole sole di Febbraio, e si lasciò riscaldare un po’ dai raggi, mentre pensava a cosa doveva fare.  
Si era appena messo a studiare la posizione dei tavoli del rinfresco, quando gli si parò davanti George. Aveva addosso un completo grigio, contrastato dal papillon bordeaux, e nonostante i capelli disordinati e spettinati, era estremamente elegante. Poteva quasi sembrare una persona seria, visto così.
“Macca, abbiamo un problema.”
“Quale?”
“Mustard dice che vuole sedersi accanto alla Rigby anziché vicino alla vecchia Skeeter.”
Paul sospirò rumorosamente, appoggiando le mani ai fianchi e si fermò a riflettere. Questa sì che era bella!  E mandava all’aria tutte le sere passate a pianificare la posizione delle tavolate. Oh, al diavolo, cosa gli diceva John? Non prendere tutto così sul serio, piccolo.
“Va bene, va bene. Lascia che l’amore faccia il suo corso! Se non a San Valentino, quando?” disse, ammiccando stancamente a George.
Il collega sgranò gli occhi e lo fissò con la bocca aperta.
“Ma vuoi dirmi che… Mustard e la Rigby? Il nostro Mustard?”
“No, quello del Cluedo! Certo che parlo del nostro Mustard, George! E ora vai ad avvisarlo prima che sia troppo tardi.”
George batté le mani, applaudendo entusiasta.
“Ma io vado a dire a tutti che quei due stanno assieme!” e saltellò verso gli ospiti.
Mentre Paul osservava la scena e si appuntava il promemoria mentale di sistemare i capelli di George prima dell’inizio della cerimonia, Mike gli capitò alle spalle e gli diede una forte pacca tra le scapole.
“Fratellone, ho contattato gli ospiti mancanti, e arriveranno tra poco meno di dieci minuti.”
“Sì, grazie. Piuttosto, ci sono bicchieri e posate per tutti?”
“Mancavano giusto due coperti,  ma Linda e Ramon mi hanno chiamato stamattina dicendomi che l’aereo non è partito, e non riescono ad esserci, quindi abbiamo risolto il problema.”
Paul annuì lentamente, mordendosi appena il labbro inferiore. Un po’ se l’aspettava e ci sperava, e ringraziò mentalmente la compagnia aerea. Non vedeva l’ex fidanzata da un anno, da quando l’aveva mollata all’altare.
Quel san Valentino lei era partita per la Spagna in viaggio di nozze, e non era più tornata. Per settimane intere aveva dato notizie vaghe su di sé, inventando malattie inesistenti e treni in sciopero, giustificando così la sua continua assenza al lavoro. Dopodiché il preside Epstein era stato costretto a dargli un ultimatum: o sarebbe tornata o l’avrebbe licenziata in tronco. Solo allora Linda aveva trovato il coraggio di spiegare a tutti cosa stava succedendo: qualche giorno dopo il suo arrivo in Spagna, aveva conosciuto un uomo dai capelli corvini e la pelle abbronzata, di cui si era follemente innamorata. Erano bastate un paio di settimane di frequentazione per fargli capire di non voler aspettare oltre, e si erano sposati a piedi nudi sulla spiaggia. E anche se ora la piccola Heather aveva solo qualche mese di vita, la coppia già parlava di dargli un  fratellino o una sorellina il prima possibile.
Insomma, pensò Paul strofinandosi gli occhi, da quella storia ne erano usciti tutti felici. Meno male.
Bizzarro come la sua vita, dopo un anno esatto,  gli proponesse un altro matrimonio.
Ad interrompere il flusso dei suoi pensieri intervenne la voce di un bambino, e senza bisogno di vedere a chi appartenesse, Paul scoppiò a ridere.
“Jules!”
D’istinto lo prese in braccio e lo fece girare un paio di volte in aria, prima di venir raggiunto da Cynthia.
“Paul, finirai con lo stropicciarti il completo solo mezz’ora prima dell’inizio del matrimonio!”
“Sì, scusa Cyn, hai ragione.” Disse, prima di appoggiare a terra Julian e rassettarsi il vestito.
La verità era che difficilmente riusciva a trattenersi quando c’era di mezzo un bambino, ma quando si parlava di Julian, per lui era ancora peggio. Durante quel lungo anno aveva preso l’abitudine di accompagnare sempre più spesso John a Glasgow, e anche se Julian era troppo piccolo per capire che tipo di rapporto legasse Paul al padre, si divertiva a chiamarlo zio, ed era molto affezionato a lui. Inoltre, c’erano voluti dei mesi, ma alla fine anche Cynthia aveva cambiato idea su di lui, e sembrava contenta di vedere l’ex marito così innamorato, per la prima volta nella sua vita.
Certo, per Paul e John era stato imbarazzante doverle raccontare che tipo di legame c’era tra di loro, ma la donna sembrava averlo capito da un pezzo.
Paul si sforzò di tornare al presente e controllò che Julian non si stesse stancando troppo, prima di specchiarsi distrattamente sul vetro della finestra. Dannazione, Cynthia aveva ragione: si era stropicciato lo sparato!
Lo lisciò nervosamente, e mentre si sistemava anche il ciuffo, già arricciatosi nonostante la cera, fu raggiunto da George Martin, il vice-presidente del club di musica classica.
“Allora, cosa devo fare? Non ho mai suonato ad un matrimonio!”
Il professore sospirò rumorosamente. Dio, era la terza volta che gli faceva questa domanda!
“E’ semplice: appena vedi John, fai partire la marcia, ok?”
George annuì distrattamente, e se ne tornò tutto pensieroso alla tastiera, asciugandosi le mani sudate sui pantaloni del completo grigio.
I rintocchi dell’orologio della chiesa riportarono Paul alla realtà: solo mezz’ora lo separava dall’inizio della cerimonia e doveva ancora sistemare i fiori all’occhiello dei testimoni e pettinare George e controllare le posizioni degli invitati, la torta e…
Si fermò, inspirò ed espirò velocemente, cercando di non farsi prendere dal panico.
“E’ solo un matrimonio, dannazione. Sta’ calmo.” Si rimproverò mentalmente, e si morse l’unghia del pollice, prima di cominciare a sistemare le ultime cose.

Quando una vecchia Mini dai colori psichedelici, ricoperta di fiori e campanellini si fermò davanti alla casa di Paul, tutti gli ospiti nel giardino si immobilizzarono. Nel silenzio carico di attesa, si sentiva solo il respiro ansante del futuro sposo. Persino Julian aveva smesso di giocare e canticchiare felice per il giardino, e si era avvicinato alla mamma, stringendole le gambe, in attesa di un qualcosa che non capiva ancora bene.
Paul inspirò a lungo e chiuse gli occhi, cercando di immaginarsi la scena come la stava vivendo John. La Mini si era fermata davanti all’ingresso di casa sua, nel piccolo vialetto di ghiaia. Sceso dalla macchina e chiusa la portiera con un tonfo, si trovava davanti al piccolo cancelletto di legno che portava al giardino sul retro. Una volta aperto, e Paul sperava proprio che il chiavistello non si inceppasse di nuovo, John si sarebbe trovato davanti una stretta scia di petali bianchi che l’avrebbe condotto all’altare, posizionato sotto il piccolo gazebo di ferro battuto. Non che avesse bisogno di seguire la scia, doveva solo proseguire diritto lungo il giardino rettangolare, ma Paul si sentiva che John non avrebbe messo gli occhiali di nuovo per fare il figo e pensava fosse il caso di dargli una mano.
Quando finalmente trovò il coraggio di riaprire gli occhi, Paul lo vide.
A pochi metri da lui, John avanzava lentamente, ridendo divertito e facendo il pagliaccio lungo tutto il tragitto. Si fermò persino a salutare Julian, ricevendo i rimproveri di Cynthia e di alcuni colleghi.
Alla fine, quando sembrò aver fatto pace con se stesso e con la vergogna che provava, John decise di proseguire diritto verso l’altare, e si sistemò accanto a George, salutando con un gran sorriso emozionato Paul.
Il celebrante guardò le due parti, e schiarendosi la gola con un colpo di tosse, cominciò a parlare. Essendo una cerimonia diversa dalle convenzionali, aveva un foglietto preparato per quell’occasione speciale, e lo stringeva tra le mani, stropicciandolo ancora di più.
“Siamo riuniti oggi per officiare l’unione tra due spiriti affini, tra due anime gemelle che si sono ritrovate nonostante i pregiudizi e le incomprensioni delle persone…”
Macca, sei bellissimo oggi!” un sussurro troppo forte fece interrompere il celebrante. Sgranando gli occhi infastidito, si voltò verso John, che di tutta risposta si strinse nelle spalle e fece una linguaccia per stemperare l’imbarazzo.
“Oh, dai, mi è scappato. Proseguite pure.”
Paul intanto rideva sotto i baffi, e quando non riuscì più a trattenersi, si lasciò scappare una risata sguaiata, che fece interrompere di nuovo la cerimonia.
“No, scusate, davvero. Ma è troppo buffo, guardatelo. Lennon, sei rosso come un pomodoro!”
Il celebrante non accettò questa giustificazione, e proseguì con un tono più scocciato e serio di prima.
“Siamo qui dunque per festeggiare ed onorare l’unione tra due fratelli, e se qualcuno è a conoscenza di un motivo per cui questa coppia non debba sposarsi, parli ora o taccia per sempre.”
John ammiccò a Paul e gli fece una smorfia, cercando di farlo ridere mentre il silenzio si faceva pesante. Nessuno sembrava voler dire niente, non c’era nemmeno qualcuno pronto a tossire o un bambino che iniziava a piangere. C’era solo… silenzio.
Paul si tormentò le labbra, e miracolosamente riuscì a trattenersi dal ridere finché il celebrante non ricominciò a parlare.
“Bene. Allora, cominciamo. Vuoi tu, George Harrison, prendere come tua legittima sposa la qui presente Pattie, per amarla, onorarla e rispettarla, anche se sgonfia, con o senza parrucca, in ricchezza e in povertà finché la tua morte, o il suo riciclaggio non vi separi ?”
George annuì, incapace di aprire bocca dall’emozione, e a Paul venne il dubbio che non avesse gli occhi rossi solo per le lacrime, ma scrollò le spalle e si concentrò sulla cerimonia.
“Perfetto. E vuoi tu, Pattie, prendere come tuo legittimo sposo il qui presente George Harrison, per amarlo, soddisfarlo, anche quando sarai sgonfia, con o senza parrucca, finché la sua morte non vi separi, dato che la plastica ci mette quasi mille anni ad essere smaltita?”
Ne seguì un lungo momento di silenzio imbarazzato e divertito, in cui tutti si concentrarono a fissare la bambola gonfiabile vestita da sposa, diritta accanto a John che la teneva in piedi, stringendola tra le proprie mani.
Paul sgranò gli occhi, e fece un rapido cenno al compagno, che si ridestò dal torpore e mosse appena la bambola, di modo che sembrasse annuire alla folla e, soprattutto, a George.
“Per il potere conferitomi da internet vi dichiaro marito e moglie! Puoi baciare la sposa!”
George non se lo fece ripetere due volte, e assaltò la povera bambola, prendendola dalle braccia di John e stringendola in modo possessivo tra le sue. La folla applaudì dapprima timidamente, poi con entusiasmo, e George Martin cominciò a suonare una melodia allegra per accompagnare la fine della cerimonia, mentre alcuni ospiti lanciavano dei petali bianchi sulla coppia.
Dopo qualche minuto di genuina gioia i due freschi sposi, mano nella mano, cominciarono a raggiungere gli amici al tavolo del buffet. Quando il celebrante si raschiò la gola per far sentire la sua vicinanza, Paul sussultò, appoggiandosi mollemente la mano sul petto. Era così perso nei suoi pensieri, fissando divertito la scena, che si era dimenticato di non essere da solo.
“Ti sembrerà assurdo, ma questa non è la cosa più strana che io abbia mai fatto.” Disse l’officiante, sorseggiando lentamente il proprio champagne.
Paul lo osservò, e pensò che fosse un degno amico di George, e chissà da dove l’aveva tirato fuori. I capelli erano lunghi e ricci, gli occhi di un azzurro chiaro, così chiaro da metterti a disagio ogni volta che incrociavi. Certo, era un bell’uomo, alto, dal fisico prestante, ma aveva un’aria da pesce lesso, e tutti, Paul compreso, si erano trovati a domandarsi quale strana ‘tisana’ ci fosse dietro quello sguardo.
“Capisco, Tommy. Ti chiami così, vero?”
“Sì, Tommy. Se vuoi, Paul, ti posso mostrare la cosa più strana che io abbia mai fatto…”
“Cosa…?”
“Macca, tutto bene?” un braccio gli avvolse le spalle, e lo trascinò verso di sé con fare protettivo. Paul non aveva bisogno di voltarsi, aveva già capito chi era al suo fianco. Avrebbe riconosciuto quella voce e quel profumo ovunque.
“Sì, certo, Lennon. Perché?”
Così.” Concluse John, stringendolo un po’ più forte e rivolgendo uno sguardo severo al celebrante.
Paul non capì, ma scrollò le spalle e decise di andare a controllare che tutto al buffet stesse procedendo per il meglio.

Paul si lasciò cadere sulla prima sedia libera, e si guardò attorno. La festa era quasi finita, molti invitati se n’erano già andati. Il sole stava tramontando, e l’aria si stava facendo sempre più gelida, eppure c’era ancora qualcuno che rideva e scherzava, o parlava fitto fitto.
George era ancora scatenato in pista da ballo, stringendo Pattie tra le braccia, e sembrava il ritratto della felicità. Dio, Paul all’inizio gli aveva riso in faccia quando gli aveva raccontato che aveva proposto alla bambola di sposarlo e lei aveva accettato.
Per qualche giorno si era aspettato che uscisse una troupe televisiva e gli dicesse che si trovava su “Candid Camera” o qualcosa del genere. Eppure, quando George gli aveva chiesto una mano per organizzare la cerimonia, Paul si era sentito in dovere di accettare. C’erano volute parecchie settimane per superare il disagio, ma alla fine s’era lasciato prendere dall’entusiasmo e dalla voglia di pianificare un matrimonio e la cosa gli era sfuggita di mano. Così tanto che John l’aveva preso in giro per quasi un mese.
Inutile dire che aveva smesso di ridere alle sue spalle una volta che George gli aveva chiesto di fargli da testimone e di accompagnare la sposa all’altare.
Insomma, nonostante le premesse, era stata una gran bella cerimonia, tutti gli avevano fatto i complimenti, e George sembrava davvero felicissimo, e questo era l’importante.
Paul sospirò, prendendo un lungo sorso di vino, e lasciò che lo riscaldasse un po’. Spostò lo sguardo da Pattie che aveva perso la parrucca durante l’ultimo ballo, a John, che era nello stesso posto da due ore. Non che Paul avesse cronometrato la cosa, ma fatalità l’aveva visto sedersi accanto al preside Epstein subito dopo il pranzo, e John non si era mosso da quella dannata sedia nemmeno durante il taglio della torta, o per salutare Cynthia e Julian. Quei due continuavano a parlare fitto fitto di Dio-solo-sa-cosa, come se fosse la cosa più importante del mondo. Certo, Paul non aveva tempo di stare con John, era impegnato a gestire il matrimonio, ma non gli andava a genio che stessero così vicini, e che Brian toccasse così spesso il braccio di un suo dipendente.
Andiamo, non pensavano a che figuraccia facevano?
Era pieno di professori attorno a loro, chissà cosa avrebbero pensato!
E poi perché lui e John non potevano manifestare in nessun modo il loro rapporto davanti agli altri colleghi, mentre il preside Epstein si sentiva libero di flirtare deliberatamente con un suo dipendente?
Oh, se solo avesse potuto, Paul si sarebbe alzato e sarebbe andato al tavolo di Brian e gli avrebbe fatto un discorsetto a riguardo! L’avrebbe minacciato di tirare in ballo i sindacati, le parità di diritti, e il fatto di non toccare più John in quel modo neanche col pensiero.
Perché… perché era irrispettoso nei confronti dell’insegnante di arte, ovviamente. E poco professionale.
Senza considerare un piccolo dettaglio: John era suo.
Solo suo.
Paul sgranò gli occhi, e ingollò l’ultimo sorso di vino. Si stava davvero immaginando mentre  picchiava il preside Epstein e gli diceva di non toccare più il suo uomo? Aveva decisamente bisogno di altro alcool, e di una bella fetta di torta.
Si avvicinò al tavolo del buffet, e si versò una grossa porzione di dolce, prima di venir circondato da due mani calde e famigliari, che si incrociarono sul suo petto e lo strinsero a sé.
“Mi concede il prossimo ballo?”
“Non lo so, sono molto occupato ora come ora, Lennon.”
“La mangi dopo la torta. Su di me, se vuoi.” Gli sussurrò John all’orecchio, lentamente e con desiderio.
Paul arrossì e appoggiò meccanicamente il piattino di plastica. Anche se erano rimasti ancora pochissimi invitati, e Brian sembrava non essere nei paraggi, dovevano stare attenti. Si sarebbe dovuto liberare dalla presa di John, ma non ci riusciva. Stava troppo bene tra quelle braccia calde e invitanti, e il suo corpo faceva di tutto per manifestarlo.
“Scemo. Torna dal preside Epstein, dato che sembravi trovarti così bene con lui.”
John lo costrinse a girarsi, e si trovarono così a pochi centimetri di distanza, uno di fronte all’altro. Paul, per non dar troppo a vedere il suo fastidio e la sua gelosia, si concentrò su George che danzava ancora come un matto, sudando e dimenando i capelli ricci e crespi.
“Principessa, ti prego, balliamo.”
Paul si fece trascinare lontano dal buffet con apatia e scarso entusiasmo, mentre il dj, rivolgendo un occhiolino vistoso a John, fece partire “Just the way you are” di Billy Joel.
Dio, un lento. Sperava di doversi dimenare e sculettare senza coordinazione per tre minuti e poi scappare via, e invece gli toccava un lento! Strinse le mani di John tra le sue e si lasciò cullare dalla voce suadente di Billy e dal suono del pianoforte in sottofondo.
“Cosa succede, Macca? Non sarai mica geloso, vero?”
“Io? Mai.” Paul sollevò appena il naso, e lo arricciò in un broncio stizzito e altezzoso.
John lo guardò e si morse il labbro, sorridendo vistosamente.  Dio, quanto adorava quando faceva così!
“E’ così invece, sei geloso. Geloso marcio! Ah, Ge-lo-so.”
“Piantala di fare lo stupido. Ero solo preoccupato per la tua integrità morale. Anche se i colleghi ora sanno di noi, non vuoi che ci vedano in certi atteggiamenti, e poi ti metti a flirtare col preside come se niente fosse.”
John di tutta risposta scoppiò a ridere, e lasciò che la testa cadesse sulla spalla di Paul.
“Sei uno stupido geloso, ecco cosa sei.”
“Non sono geloso.”
“Beh, allora sei solo uno stupido. Perché non capisci che se non ti bacio o abbraccio davanti ai colleghi è perché poi non riuscirei più a trattenermi.”, di colpo John abbassò la voce, e con tono basso e sensuale, fece scorrere la mano lungo la schiena del collega, accarezzandola lentamente, “E non possiamo fare certe cose davanti a tutti, vero?”
Paul arrossì di risposta, ma mantenne il broncio indispettito. Non che volesse dargliela vinta, ma un piccolo sorriso cominciò a formarsi sulle sue labbra, e alla fine lasciò che vincesse contro la smorfia contrariata.
Va bene, era stato scoperto. Sapeva perfettamente che John lo trattava con maggiore freddezza al lavoro per proteggerlo dai commenti malevoli e per permettere ad entrambi di non rischiare il ruolo di insegnanti.
D’altronde, non era ancora passato un anno da quando avevano iniziato a frequentarsi, ed erano solo due mesi che i colleghi avevano scoperto la loro relazione.
Oh, il solo ripensare a come se l’era fatto scappare lo faceva morire di vergogna.
I professori del liceo di Campbeltown avevano organizzato una festa di Natale a casa di George, e a causa di un problema di organizzazione, si erano trovati con poco cibo, e decisamente troppo alcool. Allo scattare della mezzanotte avevano aperto lo champagne e preparato il pudding, e ognuno, prendendo la fetta che gli spettava, doveva condividere un piccolo pensiero sul Natale e sui valori di quella festa. Peccato che Paul avesse deciso di prendere possesso del microfono per parlare per primo. E peccato soprattutto che avesse deciso di farlo dopo aver ingurgitato quantità imbarazzanti di alcolici a buon mercato.
Si schiarì la voce, salì sul tavolo e lì si raddrizzò, dandosi una parvenza di sobrietà.
“Il mio desiderio per questo Natale è vedere Lennon vestito da sexy Elvis. E per sexy Elvis, intendo lui nudo con il ciuffo.”
John, l’unico sobrio nella stanza, ricordava perfettamente il silenzio imbarazzante che era seguito a quell’affermazione. Aveva provato a lanciarsi e a rubargli il microfono, ma con scarsi risultati.
Per essere ubriaco, Paul aveva dei riflessi spaventosamente lucidi! Dunque, schiarendosi la gola, dopo aver schivato il compagno, il professore di musica proseguì senza problemi nel suo monologo.
“Sì perché, se qualcuno ancora non lo sapesse, io e Lennon ci diamo dentro come conigli da Marzo. Ma tanto domani non vi ricorderete n…” fortunatamente per John, il discorso fu brutalmente interrotto dal tonfo di Paul contro il pavimento.
Nessuno si preoccupò di aiutarlo, sapevano tutti che in fondo stava benissimo.
L’unico a non ricordare niente il giorno dopo era stato Paul, e John aveva usato quella storia per ricattarlo per molto, molto tempo. Non capitava di frequente che fosse il suo Macca a fare una simile cavolata, e aveva intenzione di usare questa cosa a suo vantaggio per tutto il tempo possibile.
Finite le vacanze però, una volta tornati a scuola, sia John che Paul si erano scontrati con la realtà dei fatti: non era poi così semplice abituarsi ad un ambiente in cui le persone si sentivano libere di giudicarli. Alcuni colleghi avevano fatto non poche battutine a riguardo, ma fortunatamente, passata la sorpresa e la novità, erano stati ben accettati all’interno della scuola, aiutati in parte anche dall’intervento del preside Epstein.
Arrossendo al solo ricordo di quella storiella, Paul si sforzò di tornare alla realtà. Una realtà che lo vedeva stretto all’uomo che amava, mentre ballavano un lento. E sì, va bene, era geloso marcio.
John strusciò il naso nell’incavo del collo di Paul, e un brivido di piacere gli percorse la schiena.
“Sei un dannato bastardo, Lennon.”
“Perché, perché ti amo? O perché ora ti bacio davanti a tutti?”
Oh, non oserai…”
Le labbra di John coprirono quelle di Paul con passione e desiderio, e le sue mani si aggrapparono alla schiena dell’altro con necessità, trascinandolo in una sorta di imbranato casquè, che lasciò Paul senza fiato e senza un briciolo di razionalità.
“Oh sì, decisamente meglio non fare questo davanti ai colleghi.” Disse infine quando recuperò il fiato, indicando con un piccolo cenno il rigonfiamento del cavallo dei pantaloni di entrambi.
“Camera tua, tra cinque minuti?”
“Porta la torta.”
Paul si sistemò i capelli e si sciolse dalla stretta, proprio mentre le ultime note del pianoforte erano ancora nell’aria. Carico di adrenalina ed eccitazione, sentendo su di sé gli sguardi degli ultimi invitati rimasti, preside Epstein incluso, Paul prese al volo la mano di John, che si stava allontanando a lunghi passi veloci e lo riavvicinò al proprio corpo con un movimento rapido e possessivo.
“Dimenticavo! Ti amo anche io, Lennon.”

Paul leccò dal petto di John l’ultima briciolina di torta, e assaporò il gusto dolce e pieno del cioccolato fondente e dei lamponi, misto al sapore salato del compagno.
“Lo sai cosa ti dico?” la voce gli era uscita roca e affannata a causa dell’eccitazione, e questo non fece che peggiorare la già vistosa erezione di John.
“Oh principessa, perché devi sempre parlare così tanto, quando potresti impegnare la tua bocca in modi decisamente più piacevoli?”
Paul roteò gli occhi, sospirando rumorosamente, e ignorò la critica velata, leccandosi dalle dita le ultime briciole di cioccolato.
“Dovremmo proprio comprarci un cane.” Disse alla fine, come se fosse la cosa più seria e importante del mondo.
John lo fissò, e si mordicchiò nervosamente l’unghia del pollice.
“Ma allora ciò significa solo una cosa.”
“E cosa?”
“Che dovrò proprio trasferirmi qui da te. O quel povero cane vivrà per sempre con due genitori separati. E sono certo che tu da solo lo vizieresti troppo.”
Paul fissò il muro davanti a sé senza dire una parola, ma John poteva vedere come la sua espressione si fosse illuminata e uno splendido sorriso si fosse impossessato del suo viso.
“Sai, mi sembra un’ottima idea.”
“E chissà, magari prima o poi ti sposerò pure, Macca.”
Paul scoppiò a ridere, e si sentì arrossire più di quanto avrebbe voluto o dovuto fare. Dunque, con un rapido colpo di tosse, si concentrò per avere un tono di voce il più possibile calmo e freddo.
“Mh, e magari prima o poi ti dirò anche di sì, Lennon.”
Davanti a quella risposta, John scoppiò a ridere e affondò il naso nell’incavo del collo del compagno, mordicchiando appena quel lembo di pelle calda e invitante, prima che Paul ricominciasse a parlare, raschiando appena la gola.

“Basta che non sia a San Valentino”







 

Angolo dell'autrice:
Buonasera a tutti voi, meravigliosi lettori di questa fanfiction. Finalmente siamo arrivati alla fine, eh? Era ora. 
Purtroppo questa storia mi ha visto attraversare un bruttissimo periodo, forse uno dei più duri della mia vita, e in questo ultimo mese la negatività ha colpito anche la scrittura, bloccandomi completamente. Inoltre, purtroppo e per fortuna, ho trovato un nuovo lavoro che mi risucchia l'anima, quindi non ho avuto tempo né di scrivere, né di pubblicare. Ecco perché inizio questo angolo dell'autrice con delle scuse per tutti voi. Innanzitutto per chi ha atteso un mese per leggere sto capitolo schifoso, scusatemi. Delle scuse anche per chi ha recensito e non si è visto dare una risposta, mea culpa. *si flagella* scusate, scusate davvero tanto. Sappiate che se ho scritto sto capitolo, è anche merito vostro. Siete state la mia forza.
Infine, vorrei scusarmi anche con chi ha pubblicato delle storie che seguo ma che non ho più letto né recensito.. promesso, tornerò presente e attiva su Efp, ve lo giuro. Mi perdonate, miei cari lettori? Giovedì è anche il mio compleanno!
Detto questo, spero che questo finale vi sia piaciuto. Mi mancheranno un po' i miei due gay preferiti ;__;
Ma non temete, in cantiere ho un paio di altre storie, che aspettano soltanto che finisca sto periodo di m... ci siamo capiti. 
Mi sto dilungando troppo, passiamo ai ringraziamenti. Grazie a Lucy e Workingclassheroine, per aver recensito e per essere sempre così buone con me anche se non ho tempo di leggere e recensire le loro storie. Siete due tesori, ragazze.
Grazie a Federica, per essere un'amica e per essere sempre presente in questo momento molto difficile per me. Ti voglio bene, mia cara.
E infine un grazie a chi ha permesso a questa storia di esistere, che ha betato ogni capitolo, aspettando pazientemente ogni minimo aggiornamento, e intanto sostenendomi e sopportandomi. Grazie mille di esserci, Kia. Sei una persona straordinaria, mi sento fortunata di essere tua amica e ti voglio bene.
Che altro dire? Grazie a chi ha recensito, aggiunto ai fav o anche solo letto sta storia. Grazie di avermi accompagnato in questo lungo e difficile cammino.
A presto,

Anya.

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