O i meleth ar in îr - Sull’amore e il desiderio

di Ghevurah
(/viewuser.php?uid=105172)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Beren a Lúthien ***
Capitolo 2: *** Thranduil a Thorin ***
Capitolo 3: *** Maeglin a Idril ***
Capitolo 4: *** Sauron a Melkor ***
Capitolo 5: *** Faramir a Éowyn ***
Capitolo 6: *** Túrin a Beleg ***
Capitolo 7: *** Andreth a Aegnor ***
Capitolo 8: *** Fingon a Maedhros ***
Capitolo 9: *** Nerdanel a Fëanor ***



Capitolo 1
*** Beren a Lúthien ***


Questa raccolta nasce con l’intento di ordinare quelle piccole storie, assolutamente eterogenee, che ho scritto per l’8th P0rn Fest di fanfic italia. Ora, io sono un assoluto disastro con i racconti erotici, ma desideravo riportare in auge questo fandom (inteso come il Legendarium tutto) all’interno del Fest. E per farlo ho sfruttato i vari prompt, virando verso tematiche più sentimentali.
Detto ciò vi lascio alla prima storia.


Fandom: Il Silmarillion
Rating: PG
Personaggi; pairing: Lúthien, Beren; Lúthien/Beren
Avvertimenti: flash-fic, missing moments, lime, het
Genere: sentimentale, introspettivo
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: scritta per il prompt Beren/Lúthien, Tinúviel

 












Ella è un miraggio crepuscolare. Porta i colori del cielo sulla pelle, il latteo bagliore d’una galassia irraggiungibile nel sorriso. Schiude le palpebre ed ecco: il fulgore di Anor splende nel suo occhio destro e l’argenteo radianza di Ithil abita quello sinistro.
Ha danzato con le movenze della notte felpata, elegante eppure mai mansueta, e i suoi piedi leggiadri e forti sfioravano il terreno irrorandolo di nuova vita. Passi fioriti di gelsomini cerulei e livide campanule, mentre nell’aria si levava un profumo nostalgico.
Ha cantato con voce luminosa, preziosa quanto un sogno di cristallo, pura e musicale come il cinguettio d’una creatura appena nata. Per questo l’ha chiamata Tinnúviel.
Ma ora sa di essersi ingannato, perché il suo canto non possiede solo la beltà di un fine gorgheggio, bensì echeggia ineluttabile, al pari di una folgore che rischiara l’ignoto, annullando le tenebre nel proprio abbraccio imperioso. Ed ella non è mera poesia d’artista, fragile dono del crepuscolo. È marmo splendido e indifferente ai marosi del tempo; è luce bruciante, algida oscurità, giorno di fuoco e notte di ghiaccio. La sua Tinnúviel.
Colei che senza alcun timore ha domato la morsa di Morgoth, addormentando le sue aule spietate. Colei che ha ripudiato la propria esistenza immortale, levandosi ombra fra le ombre allo sguardo atavico di Mandos. Colei che lo ha tratto dalla fine dell'esistenza, riportandolo a nuova vita.
Questo pensa, mentre la guarda chinarsi su di lui, così da fargli dimenticare l’arido sapore della morte. Il suo bacio è miele e spezie, e la sua risata è il fresco gorgogliare d’un ruscello montano.
Egli è nervoso quando le affonda il viso fra i capelli. Prova vergogna per quel naturale logorio che ha modellato la propria figura; teme il giudizio di Tinnúviel, abituata all'eterna bellezza.
Ma lei, sempre coraggiosa, sussurra una nenia d’amore lieve quanto il respiro del vento, sciogliendo ogni sua resistenza. Poi le belle mani, né timide né docili, svelano il suo corpo, apprendono la memoria degli anni impressa a fior di pelle e vi tracciano una nuova storia.
Mîr1, sospira, trasmettendogli un po’ del suo coraggio. Lui allora sorride a propria volta e le bacia la bocca canterina. Gli basta guardarla per comprendere il disegno del suo volere. Una promessa di vita balugina nei recessi del suo sguardo astrale, la promessa d’una creatura futura.
Dunque egli s’appella al ritrovato coraggio, incontrando le carezze di lei. Rammenta i fiori di notte, il fiume cheto di giorno, mentre la cerca e la trova in un modo nuovo, completo.
È come annegare, è come sognare, pensa quando il respiro gli viene a meno e crede d’essersi perduto; ma lei – ancora – è lì, lì per lui. Coraggiosa e bella e forte.
Tinnúviel.
Il resto è un segreto racchiuso nel canto del crepuscolo, negli occhi tersi di un bambino appartenente a due Stirpi lontane e vicinissime.














 
Note finali:
1 - (Doriathrin) “Gioiello”/“oggetto prezioso”


Due parole sul nome “Tinnúviel”, di cui solitamente viene riportata la versione “Tinúviel”, nonostante in The People of Middle-earth sia presente nella prima forma. Il nome deriva dal Noldorin  tinnu  “crepuscolo stellato” (poi recepito dal Sindarin) a cui è stata aggiunto il suffisso femminile -iel; ma Tinnúviel era anche il termine “poetico” con cui venivano  chiamati gli usignoli, e in quest’accezione sembra derivare dal Primitivo Quendian tindômiselde (The Etymologies).


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Thranduil a Thorin ***


Fandom: Lo Hobbit
Rating: R
Personaggi; pairing: Thranduil, Thorin; Thranduil/Thorin
Avvertimenti: one-shot, violenza, what-if?, dub-con, slash, missing moments, lime
Genere: introspettivo, simil-erotico
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: scritta per il prompt Thorin Oakenshield/Thranduil, “Ci sono gemme nella montagna che anch’io desidero” .

Non avrei mai creduto di riuscire, un giorno, a scrivere una Thranduil/Thorin… E forse per questo il risultato lascia un po’ a desiderare, chiedo venia (soprattutto a te, mia cara Ali).


ATTENZIONE: (l'ho già scritto ma repetita iuvant) questo capitolo tratta di un rapporto sessuale in cui il consenso di una delle parti è dubbio (DUB-CON).












Le invettive di Scudodiquercia morirono dinnanzi all’alterità del suo sguardo, mentre le ombre del silenzio si allungavano fra loro come quelle delle sbarre. Al di là di esse, il viso del prigioniero era duro quanto uno sperone montano. Un vago sentore di disperazione aleggiava nei suoi gesti nervosi, quasi che i giorni trascorsi in quella cella stessero erodendo segrete speranze di vita.
Gli domandò cosa fosse venuto a fare, lì. Ma Scudodiquercia non rispose. Increspò le labbra in un sorriso tagliente, uno di quei sorrisi che si apprendevano guardando il cielo terso d’una mattina di battaglia, indovinando le grida dei feriti avversari nel coro di comuni strazi. Un sorriso che entrambi conoscevano.
 




Immagina le remote sale di Thrór, ove l’aria non è che un ricordo, snodarsi nelle profondità della terra. Languisce lì un’oscurità materica, unica sfida al chiarore dell’oro. Dune gemmate abbandonate alla corruzione, serpe nell’animo dei suoi abitanti. Una maledizione in grado di attraversare i secoli. Gli stessi secoli scivolati come acqua sulla sua pelle e rappresi nei labirinti della sua mente. Trae saggezza dalla loro impronta ma non solo. Poiché se la memoria della sua ascendenza valica il Belegaer 1, tendendosi all’abbraccio del crepuscolo2, le genti di cui è amico e sovrano instillano in lui la selvaggia imprevedibilità della foresta. Allora la saggezza dei Celbin3 è offuscata dalle ombre degli alti faggi, sovrastata dalle odi alle gelide stelle. Resta l’attaccamento a quella terra, scolpito dal tempo con tenace maestria; resta la rimembranza di fasti passati, l’odio e l’amore, così limpidi nella loro irruenta contrapposizione, nella loro violenza emotiva.




Quando avanzò fra le anguste mura della cella, il prigioniero si retrasse, lasciandosi ingoiare dall’ombra.
Lui lo osservò a lungo, pervaso d’una stasi che appariva intrinseca alla sua antica natura, infine fece un cenno col capo.
I due guardiani alle sue spalle si avventarono su Scudodiquercia, dimentichi della leggiadria usata nelle loro danze al chiarore delle stelle. Lo afferrarono e lo piegarono, costringendolo in ginocchio. Così, allontanato dalle pareti oscure della cella, il prigioniero apparve acquisire concretezza. Un creatura di tenebra strappata al grembo della propria progenitrice.
Poi vi furono nuove domande senza risposta. Maledizioni sibilate in una lingua sferzante come lame di vento, una lingua che lui udì insinuarsi sotto pelle e a cui desiderò rispondere con il sangue.




Egli non è come i sovrani dell’Ovest, arroccati su troni di rimpianti in attesa del profetico giorno in cui raggiungeranno i loro sogni perduti: bianche sponde meta di ogni aspirazione. Egli è diverso. Per questo può immaginare così vividamente la morsa oscura che corrode il Re sotto la Montagna. Per questo può sfidarne lo sguardo, obliato dalla cupidigia, contrapponendosi ad esso con occhi di liquido disprezzo. Per questo può tendere archi, incoccare frecce e intonare canti di guerra dinnanzi alle porte di Erebor. I suoi sudditi comprenderanno; conoscono l’animo del loro Re e vi possono scorgere tracce d’un antico affronto. Poco ha a che fare con la pretesa del tesoro celato nella montagna, poiché scaturisce dalla memoria di un'Era perduta. Un’irripetibile bellezza straziata da una guerra improvvisa, un grande sovrano spento da un gretto assassinio. E Scudodiquercia porta nel sangue le colpe di quell’orrore.




Nella prigione le fiaccole bruciavano d’ira consunta, quando ordinò alle guardie di lasciarli soli. Il prigioniero giaceva ancora in ginocchio, entrambi i polsi legati dietro la schiena, l’impronta ferale dell’ombra impressa sul corpo.
Egli allungò una mano sotto la luce delle torce, ed essa splendette d’un biancore sacrale. L’allungò e l’immerse nell’intarsio nero, sudicio, dei capelli di Scudodiquercia. Un istante, prima di tirare tanto da obbligarlo ad alzare il capo. Allora i loro occhi s’incontrarono. E lui vide quei fondi abissali schiudersi di sorpresa.
Sorrise, osservando i lineamenti del prigioniero indurirsi di nuovo. Ma non gli diede il tempo di ribellarsi.
Si chinò fino a percepire l’infrangersi del suo respiro sulla pelle, sibilando al suo orecchio quella stessa domanda che gli rivolgeva da giorni. Le sue parole, tuttavia, non apparvero nate per riceve risposta, e risuonarono pericolose quanto una sfida di morte.
Ora poteva avvertire quel pacato raziocinio, eredità della propria ascendenza, spegnersi nei recessi della prigione, fra le radici dei faggi, dove il lontano sciabordio del mare non giungeva.
Così fece scivolare la propria presa sulle spalle del prigioniero e con un movimento improvviso lo tirò in piedi, per poi spingerlo contro le pareti della cella.
Il capo di Scudodiquercia impattò dolorosamente sulla pietra umida, accendendolo d’una furia scalpitante. Eppure egli riuscì a domare ogni sua ribellione, mostrandosi belva dinnanzi alla belva. Scoprì le proprie zanne celate, svelando ciò che albergava nel suo animo: una creatura mutevole, sorta dal chimerico abbraccio della foresta e abbeveratasi di luce stellare.




Scudodiquercia era giunto alle sue aule con incedere sprezzante, lo sguardo ottenebrato da un proposito smanioso, le mani frementi di chi sarebbe persino disposto a prendere vite. Interrogato, gli aveva taciuto qualsiasi accenno alla propria impresa, ma era stato facile, per lui, scorgere lo strascico di lutti e gravami che si portava appresso. Sovrano depredato del proprio regno, costretto ad arrancare nel fango della rovina. Aveva intuito i contorni della sua brama, proiezione d’un agognato riscatto, e l’aveva indovinata farsi cieca e sorda, preannunciatrice del fuoco della follia.   
Vani erano stati i suoi tentativi di impedire un simile scenario. Condannando Scudodiquercia all’isolamento delle proprie segrete aveva alimentato quelle tenebre che si raggrumavano sul suo destino.
Rammenta gli occhi del prigioniero rifuggire la luce delle torce. Gemme di buio nel buio stesso, abissi di rimpianto e ambizione. Portava il tracciato del proprio sofferenza sulla pelle, nelle movenze afflitte eppure feroci: un predatore ferito e braccato sempre pronto all’attacco.
Così, una sera, egli aveva preso congedo dall'abbraccio delle stelle per scendere nelle profondità delle segrete, lì dove i faggi affondano le proprie radici.




Le sue mani artigliarono le braccia di Scudodiquercia e questi soffocò un lamento, cercando inutilmente di colpirlo. Allora lui lo voltò, addossandolo ancora alla parete. Una guancia premuta contro le sporgenze della pietra, il corpo in balia della volontà avversaria.
Osservò la linea dura delle sue spalle fremere d’un inquieto presentimento e si chinò per immergersi nel suo odore, l'odore acre di un essere mortale.
Gli afferrò di nuovo i capelli, approfondendo la presa affinché giungesse sino alla base del collo. Fece forza, guardando le proprie mani, pallide e lucenti, affondare in quella matassa scura; le sentì stringersi attorno alla carne, mentre sotto le dita un’arteria pulsava rabbiosamente.
Pensò di strangolarlo. Lì, tra le mura silenziose delle proprie segrete. Assaporando le sensazioni tattili del suo soffocamento, sprofondando nei ricordi.
Ma il prigioniero palpitava d’una furia vischiosa e insensata e a lui, improvvisamente, sembrò uno spreco porre fine a quell’agonia che era la sua caduca esistenza.
Ammorbidì la presa, scivolando con le mani lungo le sue spalle, percependo il brivido di sollievo che le percorse. Lo ascoltò tossire e inspirare avidamente l’aria rarefatta della cella, prima di abbandonarsi contro la parete. Allora, con un gesto lento, gli scostò i capelli dal collo, svelando uno strato di sudore che sfavillò come la superficie preziosa d’un gioiello. Lo percorse con dita curiose, mentre le membra sotto di lui venivano scosse da un altro fremito, questa volta languido e insinuante. Udì il suono d’una parola morire nel gemito roco che la seguì, e tanto bastò per accenderlo d’uno strano ardore. Una proiezione della foresta tesa al richiamo della sua indole più selvaggia.
Insinuò le dita sottili sotto il bordo della casacca, dove i marchi lasciati delle sue stesse mani scomparivano. Avvertì il prigioniero irrigidirsi, ma non gli permise di voltarsi. Lo sovrastò, invece, premendo il peso del proprio corpo contro il suo.
Arricciò la stoffa della casacca, graffiando la pelle superficialmente. Poi scese a lambire la schiena contratta. Ingaggiò un duello di tocchi e resistenze, scoprendo porzioni di pelle e muscoli che si definivano nel buio, sotto l’impronta gelida delle sue mani.
Disegnò tracciati di saliva dove prima aveva arrecato offese, assaggiò lacrime di piacere e sibilò parole di scherno. Ne ottenne una ribellione vaga e sconnessa in cui si crogiolò, udendo il respiro del prigioniero echeggiare un’appagante aritmia. Sfidò la sua tempra, l’irretì con l’incanto della seduzione per affondare, infine, nella promessa di quel corpo d’ombra.
Credeva di volere una parte della propria vendetta, ma quando Scuododiquercia si sciolse fra le sue mani, ogni altro desiderio o aspirazione annegò nel liquame d’un piacere tenero e crudele.




Mentre le spade vengono sguainate, Ithil d’argentei riflessi incontra il fulgore nascente di Anor. E le motivazioni di quella imminente battaglia sembrano dissolversi assieme con il manto notturno.
Eppure, Thranduil Oropherion, possiede una certezza: nel ventre di Erebor, depredata del proprio cuore, oltre agli smeraldi di Girion e a diademi d’argento, giacciono gemme oscure di ferale splendore. Gemme che anche lui desidera.
















 
Note:
1 (Sindarin) - Lett. “grande mare”, l’oceano che divide Aman dalla Terra di Mezzo.
2 (S) - Lett. “persone di luce”, termine usato per indicare gli Elfi non Avari.
3 - Il riferimento è dovuto a uno degli appellativi dei Sindar, ovverosia “Elfi del Crepuscolo”.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Maeglin a Idril ***


Fandom: Il Silmarillion
Rating: PG
Personaggi; parings: Maeglin (principale), Idril (nominata); Maeglin/Idril
Avvertimenti: UST, drabble, het, lime
Genere: introspettivo, sentimentale
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: scritta per il prompt Idril/Maeglin, Ossessione.









Ode i suoi passi, trepestii d’argento lungo i corridoi, e ne cerca la figura con sguardo assetato. La vede guizzare fra le colonne, piccolo pesce iridescente al fulgido bagliore di Vása. La vede scivolare nei giardini, posandosi qua e là, ora tramutata in una farfalla d’aurea bellezza.
Segue i suoi movimenti rifugiato nelle ombre tiepide dei portici, tese sin quasi a sfiorarla. Porta il suo ricordo tra i foschi vapori delle fucine, dove i desideri si dipanano divenendo parte dell'oscurità, unica testimone delle sue confessioni.
Lei abita i suoi sogni, vive nel palpitare del suo cuore. Danza nella sua mente accompagnata dal soffio del vento, mentre i piedi candidi e agili sbucano oltre l'orlo delle vesti, bagnati di luce dorata il giorno, splendenti come eburnei gioielli la notte. Ecco, può vederla: cieli tersi e immensi si aprono fra le sue palpebre dischiuse; boccioli di rosa fioriscono, teneri, sulla sua bocca.
E sarebbe così facile toccarla. Una mano tesa a lambire i suoi capelli, soffici onde di pallido albore, un’altra a cercare i suoi fianchi per stringerla delicatamente a sé. Tra le braccia ella apparirebbe sottile come un giunco, sfuggente come un ricordo. Dunque lui proverebbe ad afferrare i suoi contorni: l’elegante curva del collo e quella stretta della vita, la morbidezza dei seni accennati sotto le vesti di seta. Si lascerebbe avvolgere dal suo profumo, un profumo di storie sussurrate di nascosto, e le sue dita indugerebbero sulla sua pelle nuda, tracciando sentieri reconditi. Assaggerebbe la frescura delle sue labbra per poi prostrarsi ad adorare ogni singola parte di lei. La farebbe sua con gentilezza segreta, lentamente ma inesorabilmente. E ogni suo sospiro sarebbe una dichiarazione d’amore.
Ma questo è solamente un'oscura illusione, un'ossessione consumata nello stridio del silenzio. Perché qui radica l’impenetrabilità delle tenebre e nessun raggio di luce giunge né mai giungerà.









Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Sauron a Melkor ***


Fandom: Il Silmarillion
Rating: R
Personaggi, pairing: Melkor, Sauron; Melkor/Sauron
Avvertimenti: flash-fic, slash, lime
Genere: dark, introspettivo, drammatico, sentimentale
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: scritta per il prompt Melkor/Sauron, “The mind is its own place, and in itself can make a heaven of hell, a hell of heaven…” (Paradise Lost, J. Milton)

Ho trovato questo prompt semplicemente subilme (non solo perché adoro il Paradise Lost, ma anche per la sua adeguatezza), ed esso mi ha accompagnata per tutta la scrittura della storia... spero che ciò si evinca dalla lettura.










Lontano è il suono delle fucine di Aulë, ove le fiamme splendevano ancora di riflessi dorati, perdendosi in un guizzo bollente sotto l’incudine del suo martello. A quell’epoca la forgia trasudava un potere puro, magnifico: il potere dell’invenzione. E l’oscurità delle cave, delle miniere, era sempre rischiarata delle vene preziose che vi scorrevano.
Lui si specchiava sulle superfici scintillante dei metalli per scorgere il proprio viso, fattosi di carne e sangue dopo l’ingresso in Eä. Tratti fulgidi, sereni, alieni alla durezza, perché a irradiarlo era la gioia dell’invenzione.
Ma a un certo punto quello non fu più sufficiente.
Da lontano o forse da vicinissimo giunsero voci inquiete: là, dove la mano dei Potenti si posava, traboccante di estro, sembrava seguire rovina. I mari venivano investiti da correnti di lava che ribolliva e solidificava, creando terre di cenere; le voragini infuocate gelavano, gole e crepacci spaccavano le piane, tempeste di neve tormentavano luoghi temperati. Le montagne, appena sorte, erano livellate da una lama d’ombra che si tendeva su tutto il creato.
L’invenzione, così, cominciò a declinarsi in distruzione, e la potenza di quegli eccessi, di quell’instabilità, finì con l’affascinarlo.
Distruggere trasmetteva una sensazione nuova, corrosiva, eppure inebriante. Ma farla divenire il proposito della propria esistenza comportava il rifiuto della luce, l’accettazione di un’oscurità densa e impenetrabile, in cui i contorni perdevano consistenza e il tutto diveniva nulla.
Ora le fiamme delle sue fucine sono un singulto livido fra volute di tenebre E grotte senza fondo si inabissano nella profondità di un terra arida, priva del bagliore di venature preziose. Anche i metalli che lavora hanno perduto la loro intrinseca bellezza: si sono fatti opachi, materiali grezzi di cui conta solamente il vigore. Non può più specchiarsi sulle loro superfici fosche, ma questo è un sollievo: sa di essere divenuto parte del buio in cui dimora. Spento è il fulgore del suo viso e affilati sono i suoi tratti, modellati dalla fredda durezza dell’invidia. Così si aggira ombra fra le ombre, ascoltando lo strepitio di creature corrotte, celate negli antri remoti di quella fortezza sotterranea. La luce e il calore sono solamente un ricordo, l’invenzione si è distorta per sempre, tramutandosi in bieca alterazione.
Eppure quando passi cupi, rombanti come tuoni che annunciano tempesta, echeggiano per quelle aule, qualcosa in lui sembra tornare a splendere.
Il suo Signore si palesa, ammantato di un’oscurità limpida nel suo nero ardore. Occhi accesi dell’imprevedibile scintillio di fulmini azzurri: elettricità viva e mutevole.
Mia piccola creatura, lo chiama e la sua voce è il fervere di rivi magmatici, un coro di mille voci che scava nell’animo, lasciandovi una propria impronta.
Lui gli si prostra dinnanzi, ma il suo Signore lo fa alzare con un tocco gentile e assieme imperioso. Affonda lo sguardo nella sua mente, svelandone i più intimi segreti: la nostalgia delle fucine di Aulë, il desiderio di rivedere la luce.
Non è abbastanza ciò che possiedi qui, mia piccola creatura, mio luogotenente? Domanda, ed egli china il capo per mormorare: Perdonami, sono un ingrato. Non meriti un servo quale io sono. E implora di essere punito, poiché la grandezza che ha dinnanzi è tale da instillargli un odio viscerale per la propria inadeguatezza.
Allora il suo Signore ride, mentre la terra attorno a loro sembra tremare a quel suono. Lo attira a sé, fra le sue braccia incandescenti come stelle prossime all’esplosione, assiderate come ghiacciai sempiterni. Con gentilezza gli solleva il viso così indurito, gli carezza i capelli spentisi dei loro rifratti dorati, modellandolo di nuova, oscura, essenza.
Lo sovrasta, dunque, scendendo a mordere la sua carne. Ne assaggia il sapore lentamente, soffocando i suoi lamenti con una mano.
Quando gli permette di muoversi, lui cerca il suo sguardo e vi scorge spirali di galassie palpitanti. Sente le sue mani scorrere sulle membra con la forza erosiva di un fiume, le sente stringere, calcare, quasi avessero l’intento di trapassarlo, di insinuarsi nella sua materialità.
Infine il corpo del suo Signore, plasma magnetico e instabile, lo costringe in una morsa straziante. Ed egli si abbandona a quell’agonia, mentre il piacere cresce come onde infrante nelle profondità dell’animo.
Poi labbra umide di sangue suggellano torbide promesse d’amore, e le tenebre vengono inghiottite dall’empito di una luce illusoria.





 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Faramir a Éowyn ***


Fandom: Il Signore degli Anelli
Rating: PG
Personaggi, pairing: Éowyn, Faramir; Éowyn/Faramir
Avvertimenti: flash-fic, missing moment, het, lime
Genere: romantico, introspettivo
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: scritta per il prompt Éowyn/Faramir, Hurt/Comfort











Un fiore sboccia dal manto innevato, sottile e tenace si erge a sfida del vento. Linfa ghiacciata e petali lanceolati di diafano splendore, questa è l’anemone che annuncia la Primavera.
Egli l’ha veduta schiudersi in tempi bui, rischiarando con il proprio, delicato, candore una terra preda dello sconforto. Ha saputo riaccendere speranze negli animi straziati, ma non ne ha conservate per sé.
Allunga una mano per sfiorarla, timoroso come mai lei è stata; è algida al suo tocco: pelle e labbra di neve.
Vorrebbe chiederle di raccontargli la sua storia, da quando non era che un piccolo bocciolo sotto la terra già tempestata di brina, a quando ha deciso, sola, di fiorire nella morsa spietata del ghiaccio. Vorrebbe chiederle tante cose, eppure si limita a sorriderle.
Lo sguardo di lei si alza, fiero e imperscrutabile, forse lo stesso sguardo che ha rivolto al vento invernale, mentre – per lunghi mesi – ha tentato di piegarla. Con gesti precisi si libera delle vesti, e non un’ombra di rossore imporpora le sue guance pallide.
Lui, invece, trattiene il fiato, perché il riflesso della luna scivola sullo stelo che è il suo corpo, adornandolo al pari d’un gioiello liquido, guizzante. E la sua pelle riluce di bagliori eburnei, come se tutte le stelle del firmamento vi si fossero posate, componendo nuove, meravigliose costellazioni.
Vorrebbe rimirala ancora, più a lungo, ma le sue mani si tendono verso di lei, preda d’un invincibile attrazione.
Ne esplora la bellezza, sempre attento alle ferite lasciate dall’Inverno. Lo fa specchiandosi nel suo sguardo, cercando accenni di calore nei freddi cristalli dei suoi occhi. Desidera scorgere quella Primavera che, lo sa, ella preannuncia.
Dunque cosparge veli di baci sulle sue membra, sussurrando preghiere affinché il ghiaccio si retragga.
Lei sembra rimanerne insensibile, ma ad un tratto lo ferma. Gli solleva il viso con delicatezza, quasi avesse fra le mani un monile prezioso. Egli non ha il tempo di stupirsi d’una simile attenzione, perché sulla bocca di neve prende suono una richiesta: raccontami la tua storia. Raccontami di quei giorni trascorsi nell’oscurità, raccontami i segreti del tuo cuore.
E allora lui comprende: per sciogliere il ghiaccio occorre privarsi d’ogni barriera, sciogliersi a propria volta; lasciarsi leggere e svelare.
Con presa tremante afferra una delle sue mani e la porta al proprio petto, lì dove batte il cuore. Poi inizia a ricordare.
Quel padre insensibile, eppure tanto amato; quel fratello così distante. L’angoscia di ogni istante, di ogni respiro. La Città, la sua Città, che giorno dopo giorno sembrava sprofondare in una tenebra sempre più vischiosa, mentre la speranza diveniva cenere sulla terra, polvere nell’aria.
Racconta senza trattenere le lacrime, scie bollenti sulle guancie che lei rincorre con dita e labbra fredde. Lo stringe a sé, poi, mostrandogli la forza del fiore, della lama celata nel suo spirito di guerriera. E v’è una nota assiepante nel suo abbraccio, un raggio tiepido del primo sole. Egli se ne lascia cullare, sino a farsi avvolgere da quei petali dischiusi e affondare là, dove l’algore si retrae e il calore, finalmente, esplode.
Così l’anemone bianca splende di aurei riflessi, guardando la neve sciogliersi attorno a lei. Il vento non ulula più e il biancore invernale si tinge d’una profusione di colori.
La Primavera è giunta.










 
Mi scuso con tutti per questa quasi-settimana di silenzio, ma purtroppo non mi è stato proprio possibile pubblicare prima la nuova storia.
Poi anche se non sono mai stata esplicita in tal senso (ma le consuetudini sono più forti di qualsiasi regola dichiarata), volevo comunicare che abbandonerò il Giovedì in quanto “giorno di pubblicazione” per approdare alla Domenica.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Túrin a Beleg ***


Fandom: Il Silmarillion
Rating: PG
Personaggi; parings: Beleg Cúthalion, Túrin Turambar; Beleg/Túrin
Avvertimenti: flash-fic, slash, lime
Genere: introspettivo, sentimentale
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: scritta per il prompt Beleg Cúthalion/Túrin Turambar, Teso come la corda di un arco













Era giunto annunciato dall’Inverno, bianco come la neve che cadeva sull’Amon Rûdh, sugli aeglys1 irti e ormai assiderati. I suoi occhi erano cieli mutevoli in cui le nubi s’addensano e si dipanano: specchi prestati ai mutamenti del mondo.
Così apparve, e al ragazzo sembrò una creatura aliena, intrinsecamente distante, nella sua fredda eternità, alle pene degli Uomini.
Poi i riflessi delle fiamme scivolarono sul suo viso, intiepidendone i tratti, e il nitore del suo sguardo acquisì nuova profondità. La sua risata risuonò limpida, insinuante, e al ragazzo rammentò il gorgogliare dei ruscelli di Neldoreth, quelli in cui anni prima avevano pescato assieme.
L'osservò spogliarsi del mantello che indossava, mentre il suo odore lo lambiva. L’aroma del muschio, della corteccia umida, del fogliame crepitante sotto le dita leggere della pioggia. Un odore così diverso da quello acre e mortale degli Uomini, eppure inconfondibilmente famigliare.
Allora il ragazzo si rivide bambino. Nello splendore estraniante di Menegroth, attendeva notizie dal Nord ed egli ne giungeva recando sussurri di flebili speranze.
Lo ricordava stagliarsi nella penombra della foresta, ammanto dei colori profondi del sottobosco. In pugno stringeva le armi d’un guerriero e tra i cappelli gocce della prima rugiada splendevano al pari di cristalli.
Allo stesso modo era giunto in quelle piane aride: un benefattore dalle mani forti e salvifiche. Dispensò cure con autorevolezza e il ragazzo non poté obbiettare nulla. Rimase solamente a guardarlo, cercando sul suo viso quelle impronte del tempo che, sapeva, mai avrebbe trovato. E si scoprì trattenere il fiato, quando i propri occhi indugiavano sulla piega morbida delle sue labbra: una corolla pallida in cui guizzava lo stimma roseo della lingua.
Poi sedettero dinnanzi al fuoco, l’uno accanto all’altro. Lui gli chiese di tornare e il ragazzo ascoltò il proprio risentimento farsi parola.
Non verrò con te, disse con la voce dell’adulto che credeva d'esser divenuto. Una voce pregna d’una nuova ruvidezza, resa ancor più roca dal gelo.
Egli, al suo fianco, osservava il contorcersi delle fiamme e non se ne distolse neppure a quel rifiuto. La curva elegante del collo era in parte celata dai capelli, impreziositi dalla doratura del fuoco.
Il ragazzo avrebbe voluto allungare una mano per constatarne la morbidezza con l’ingenuità del bambino che era stato. Avrebbe voluto tornare al tempo degli insegnamenti, delle mere tenerezze. Un tempo in cui i sogni erano ancora malinconici, non madidi d’un desiderio oscuro che lasciava il corpo tremante, la mente colpevole.
Ma lui interruppe il fluire di quei pensieri, voltandosi con un movimento silenzioso. I suoi occhi sembravano aver assorbito il calore delle fiamme.
Permettimi di restarti accanto, disse in un soffio parte del vento.
E il ragazzo pensò di coprire la distanza fra loro, di poggiare il viso sul suo petto, respirando il suo odore, affogando nel suo abbraccio; invece distolse lo sguardo.
Fa come desideri, fu la sua risposta.
Poi qualcosa si mosse, mani bianche gli intrappolarono il volto. Le stesse mani che, anni prima, avevano guidato le sue sul legno flessibile dell’arco.
Tocchi lievi disegnarono percorsi sulle sue guance, incuranti della loro ispidezza. E quando un respiro tiepido carezzò la sua pelle, il ragazzo serrò le palpebre, incapace di fare altro se non rimanere in attesa.
Túrin.
Il suo nome, pronunciato da quella voce bassa e sfuggente, risuonò al pari d’un sospiro. Allora una forza arcana lo portò a voltarsi, a cercare un contatto disperato con la creatura di neve e memoria che aveva al fianco.
Ritrovò i suoi occhi accesi dalle fiamme, e tra i riverberi della loro antichità, scorse il fulgore di sentimenti non ancora smussati dai secoli. Avvertì l’impronta del suo corpo contro il proprio e vi rispose con un’irruenza fresca, sfacciata, che presto si disciolse in un movimento singhiozzante.
Fili d’erba gli solleticarono il collo, quando reclinò il capo all’indietro. Le labbra dischiuse in un bacio, in un grido strozzato.
Così il ragazzo, convinto d’esser il fiume gonfio di pioggia che tutto trae con sé, divenne naufrago in balia di correnti abissali, misteriose. E gli sembrò di morire d’una morte dolcissima, mentre la notte mutava, schiarendo nell’aurora. Cambiavano i suoni, gli uccelli, i fiori e il tempo, antico nemico, perdeva significato.




 




Note:
1 (Sindarin) - Plurale di aeglos, lett. “spina di neve”, pianta tipica del Ovest Beleriand da cui deriva il nome proprio della lancia di Gil-galad.

Questa è l’ultima storia della raccolta scritta per il PF, perciò, da qui in avanti, le storie pubblicate saranno quelle nate per soddisfare le richieste dei miei meravigliosi lettori.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Andreth a Aegnor ***


Fandom: Il Silmarillion
Rating: PG
Personaggi; pairings: Andreth, Aegnor, Finrod Felagund; Andreth/Aegnor
Avvertimenti: what-if?, lime, missing moments
Genere: sentimentale, drammatico, introspettivo
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: Andreth/Aegnor per Melianar
Alla fine non ho fatto la persona matura e sono in ritardo. E per nulla convinta della… cosa, ma tant’è.


 
 
 
 
 



 

 


È nell’algido blu cristallo che si sono incontrati. 
Oscillavano le acque, raccolte in uno scrigno di vette montane e lei – labbra livide di gelo – vi si specchiava. Poi una lama di luce era scivolata sulla superficie del lago e nel suo bagliore avevano preso corpo tratti d’una fredda bellezza. Eppure, nell'algore di quel viso, lei aveva scorto anche un timido calore: un Inverno mitigato del primo sole di Primavera. E aveva amato l'accenno a quell’imminente mutamento che nutre di speranza la terra.
Lo ricorda ancora, creatura d'equinozio. Lo ricorda in solitudine, guardando alla storia che il tempo, solo, ha tracciato sul suo corpo.
Si sono susseguiti gli Inverni e le Primavere, ed entrambe le stagioni le hanno rammentato di lui. Ma è nel giorno del loro fragile incontro, quando la luna sorge in cielo e il sole è ancora un freddo bagliore all’orizzonte, che il vento sulla pelle ha l’impronta delle sue labbra. E lei viene tradita dalla propria immaginazione, legata alla carnalità di un desiderio mai appagato. Umana, così umana. Troppo per lui.
Nella vita di tutti i giorni, quella vita che ormai grava sulle sue membra sempre più stanche, indossa un’armatura di saggezza, e il suo raziocinio filtra ogni sentimento. Ostenta calma, pudore, persino quando chiede di lui. Quando incontra uno sguardo che non può evitare di rammentargli il suo. Si aggrappa alle differenze, allora. Alle sfumature più calde di un cielo di piena Primavera. Perché in Finrod il rigore dell’Inverno è solamente un ricordo, e nel suo sguardo brilla una luce gentile, comprensiva, mentre le racconta di lui.
Andreth, la chiama, ma per un istante la sua voce assume toni più cupi, più corposi e sembra mormorare un altro nome. Poi l’illusione si dissolve al pari di quel riflesso, anni prima, sulla superficie dell’Aeluin1.
 
 
Nell’oscurità indulgente, scioglie i lacci delle proprie vesti. Dalla partenza di Sire Finrod i giorni e le notti sono trascorsi indefiniti, eppure ognuno di essi s’è impresso sul suo corpo con distintiva perizia. Sussurri di guerre sono giunti dalle Marche del Nord alle Case degli Uomini, e lei è abbastanza accorta da comprendere che l’Ombra è vigile e capta, febbrile, i movimenti dei propri avversari.
Pensa a questo, spogliandosi alla luce timida d’una candela. Vi è uno specchio dinnanzi a lei di cui ignora il riflesso per osservare i tremori della fiamma. Proiettano disegni sulle pareti, consumandosi nel liquame della cera come la sua stessa vita si consuma nella morsa del tempo. Andranno a sgretolarsi entrambe, lentamente, e allora non ci saranno più ombre acquattate, timori mortali; tutto sarà pace e spirito.
Così ella si lascia consolare dai movimenti ondeggianti del lume, quando un improvviso rumore incrina il silenzio. Una corrente d’aria attraversa la stanza, graffiandola.
Un istante. La candela si spegne in una scia di fumo e il buio radica, denso e impenetrabile.
Poi accade.
Dita di vento le sfiorano le spalle in una carezza accennata. Lei trattiene il fiato, ma il terrore si tramuta presto in trepidazione: nelle tenebre prende suono un sussurro sommesso. Una voce amniotica, simile al basso sciabordio delle onde.
Saelind2, è parola e respiro sulla sua pelle nuda. Saelind non voltarti, non ora.
Un singhiozzo le lascia le labbra. Non può essere vero, dice o forse pensa. Ma subito le sue braccia vengono percorse da quelle dita, dita ora concrete e forti, eppure infinitamente tenere. E sono lacrime brucianti a scivolarle sul viso, mentre una stretta le avvolge la vita.
Voglio vederti, mormora lei. La voce, però, torna a lambire le sue spalle. Le sfiora l’orecchio e si perde, fremente, contro il suo collo.
Non voltarti. Sono qui, ma non voltarti.
Lei pensa di non poter far altro che acconsentire, eppure qualcosa si insinua nel suo animo, portandola a parlare.
Sono passati anni. Anni. E ognuno di essi ha lasciato il proprio segno su di me, perciò se non desideri vedermi lo comprendo, lo accetto. Solo, ti prego, ti prego, permettimi di...
Ma io ti vedo.
La voce, questa volta, è accompagnata da una carezza sul suo viso. Poi una mano si tende fra le ombre, indicando lo specchio a cui lei non aveva prestato attenzione.
I miei occhi possono vederti, posso scorgere la tua storia. E vedo una bellezza che prima non conoscevo. Vedo la tua saggezza, ora tangibile.
Lei trema, mentre quelle mani – ancora – sfiorano il suo sterno, per indugiare attorno alle curve dei suoi seni. Scivolano sino alle spalle, sulle scapole, scendendo lungo la schiena in una carezza che diviene traccia a palmi aperti.
Ella sussulta e sbatte le palpebre per cercare di scorgere qualcosa fra le tenebre, ma poi, frustrata, allunga una mano dietro di sé, dove avverte il respiro di lui. Sfiora la sua pelle fresca, incontrando alcune ciocche dei suoi capelli. Al tatto sono come le ricordava: onde morbide che splendevano d’un bagliore infuocato alla luce del giorno e impallidivano a quella della luna.
Ma questo non è il tempo dei ricordi: il corpo di lui preme, esigente, contro il suo. Ed è un’entità solida che della fragilità della memoria non ha nulla.
Le sue labbra le carezzano le spalle, schiudendosi in un sospiro quando lei affonda una mano fra i suoi capelli, giungendo sino alla sua nuca. Allora nuovi tocchi si rincorrono e si trovano nel buio: una danza scandita dai mormorii di una voce liquida, profonda.
A lei sembra di affogare, mentre quelle carezze, carezze d’un Inverno temperato dalla Primavera ormai prossima, le strappano piccoli gemiti.
Reclina il capo all’indietro, in un ultimo e futile tentativo di vederlo, ma percepisce solamente il suo respiro: è privo dell’usuale contegno, increspato come le acque dell’Aeluin solleticate dal vento. S’infrange, così, in una scia di baci umidi lungo il suo collo, dando suono ad una litania che è il suo nome. Il nome che lui le ha donato.
 
 
È nell’algido blu cristallo che si sono incontrati, e in un riflesso fugace quanto la vita mortale si sono amati.
 
 
 
 



 
 

Note:
1 - (Sindarin) Lett. “lago blu”, lago montano nelle terre a Est del Dorthonion, anche chiamato Tarn Aeluin.
2 - (S) Lett. “cuore saggio”, nome con cui Andreth era conosciuta fra gli Eldar. Il fatto che tale nome le sia stato dato da Aegnor è una mia speculazione.
 
Soffro nell’usare i nomi Sindarin dei personaggi, ma ho creduto che in questo caso fossero necessari.
 
Scusatemi per questa storia che, davvero, poteva essere sviluppata meglio (ma chi mi conosce sa dei miei grandi problemi con i figli di Arafinwë). 



Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Fingon a Maedhros ***


Fandom: Il Silmarillion
Rating: PG
Personaggi; pairing: Fingon, Maedhros; Fingon/Maedhros
Avvertimenti: flash-fic, slash
Genere: introspettivo, romantico, fluff
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: Maedhros/Fingon per me per Feanoriel
Nonostante io sia una grande estimatrice di questa coppia (o forse è proprio a causa di questo), ho davvero seri problemi a leggere/scrivere di loro in atteggiamenti intimi, per cui invoco nuovamente clemenza.













Lingue di nebbia scorrono come un fiume sospeso, squarciato da feroci denti di pietra. All’orizzonte galleggia la vetta del monte: relitto nel mare di bruma. Il gelo attanaglia le membra anche nelle stagioni più miti, intorpidendo le menti, corrodendo le volontà. Questo è lo Himring, inospitale quanto il cuore del suo Signore.
Ma sugli speroni s’inerpicano arbusti che sfidano, tenaci, le sciabolate del vento e qui crescono e radicano, trovando sostentamento nella terra arida.
Con quella stessa, connaturata, audacia lui allunga una mano per sfiorare la pelle, chiara come cieli invernali. Costellazioni di efelidi si diramano sotto le sue dita; più volte ha provato a contarle, dimostrando la stessa infantilità con cui ci si accinge a contare le stelle. Ma ora segue la via della storia, percorre il disegno delle cicatrici rimaste a spezzare quelle trame astrali. Le sue dita ne seguono i profili irregolari e lui ode l’innalzarsi d’un sospiro, il basso mormorare d’un tuono che scuote le volte di quell’empireo pallido.
Le sue mani risalgono i clivi delle spalle, spalle a cui si aggrappava, bambino, soffocando risate divertite, mentre la voce paziente del tuono lo chiamava: Astaldo.
Lascia scorrere entrambi i palmi fra le scapole, affascinato dal guizzo improvviso che attraversa i muscoli. Arabeschi ramati ondeggiano sulla pelle diafana, creando un contrasto d’una bellezza vivida, quasi commuovente. Lui, incapace di resiste, vi intreccia le dita.
Nel suo tocco v’è il riflesso d’un antica innocenza ma anche il seme d’una nuova curiosità, una passione tenera ed esigente. Animato da essa, scopre la curva elegante del collo, un incavo in cui cela il viso, allungandosi su quel corpo di cielo e marmo che lo sostiene, forte e al contempo arrendevole nel lasciarsi sovrastare.
Ed è strano rammentare di come, un tempo, ne invidiasse la prestanza, mentre ora si ritrova a sospirare al suo contatto, seguendone ogni curva, ogni rilievo.
La sua mano scivola lungo il braccio destro in una carezza lievissima, quasi titubante, ma il gemito roco che rompe il silenzio lo rincuora, portandolo a tracciare con le labbra quello stesso percorso.
Sfiora il rilievo del muscolo e scende sino al gomito, dove piccole cicatrici trapuntano la pelle. Le bacia una ad una, infiammato dai mugolii che giungono alle sue orecchie.
Scende, ancora, sino allo sfregio in cui culmina il braccio, e qui la sua bocca si schiude, mentre una lacrima solitaria gli bagna le guance, infrangendosi sulla carne frastagliata. Allora dita gentili si insinuano fra i suoi capelli e lo portano ad alzare il volto. Altre labbra calano sulle sue in un bacio che ha il sapore della memoria.
Poi c’è solamente quel corpo attorno al suo, possente e fragile assieme; quel mormorare d’amore a dissipare ogni melanconia, e quel nome, Astaldo, soffiato sulla pelle, disciolto nel suono basso d’un gemito.
E persino lo Himring sembra scaldarsi al sorgere d’una tiepida aurora, quando gli arbusti, nutriti di quel calore, allungano le loro radici per abbracciare le rocce di cui sono ospiti.
 







Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Nerdanel a Fëanor ***


Fandom: Il Silmarillion
Rating: PG
Personaggi; pairing: Nerdanel, Fëanor; Nerdanel/Fëanor
Avvertimenti: flash-fic, lime, het
Genere: introspettivo
Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: Fëanor/Nerdanel per Feanoriel











Polvere di marmo veleggia nell’aria, quando lei incontra il suo sguardo in tempesta: un cielo nebuloso in cui guizzano folgori. Ed esso parla per lui, mentre la piega elegante delle sue labbra rimane serrata, conferendogli l’immobilità d’una statua indifferente al fluire della vita.
Ma lei conosce l’alterità della bellezza: la studia, la plasma, ed è ben lungi dall’esserne succube. Così abbassa il capo per tornare a osservare le forme del busto che ha dinnanzi a sé: lavoro di giorni passati a cesellare i tratti d’un volto etereo, relegato alla dimensione artificiosa della perfezione.
Afferra lo scalpello con cui si è fatta strada nella morsa del marmo, incidendone pieghe e superfici, e gli occhi di lui divengono ombre tese a seguire ogni suo movimento. La seguono anche quando solleva l’oggetto per poi calarlo, inesorabile, sulla scultura.
Uno squarcio si apre sul bel volto statuario e un’esclamazione di sorpresa echeggia nel silenzio.
Questa volta è lei a guardarlo.
Nei suoi occhi, ora, bruciano fiamme algide che si consumano e si rinnovano, risorgendo dalle proprie ceneri. I suoi lineamenti, prima immobili, sono animati da un indignato stupore.
Lei sorride.
 
 
Ricorda di quel giorno fra le polveri sottili dei marmi, mentre lui la sovrasta. In silenzio, senza sprecarsi in futili sentimentalismi.
Il suo viso è una maschera d’avorio, i capelli una cortina notturna che cala, morbida, attorno a loro. Bello, bellissimo.
A lei, però, interessa il suo sguardo. E lo trova caliginoso e distante, nonostante le dita di lui, così eleganti eppure ruvide, abituate alle forgia, si stiano insinuando sotto le sue vesti.
Forse crede di poter rivolgere la propria attenzione ad altro, perdendosi nei meandri della sua mente geniale, là dove brillano gemme non ancora inventate. Ma lei pensa alla crepa netta, improvvisa, aperta sul volto della statua e serra le proprie gambe attorno ai suoi fianchi.
Contando, ancora, sulla sorpresa di cui è divenuta amica, si issa su di lui per premerlo sotto di sé. Così scorge il germinare d’un mutamento nei recessi del suo sguardo, un vento in grado di diradare le nebbie e aizzare le fiamme.
Sorride, trionfante, all’espressione attonita che permea i suoi lineamenti, privandoli della superba immobilità da cui sono solitamente modellati. Il disegno sottile della bocca si schiude in una piega seccata, e lei la bacia, azzittendo ogni protesta.
Quando poi scende a cercare il suo piacere, lo avverte fremere d’un impazienza nervosa. Uno spasimo percorre le sue membra, facendole contrarre e palpitare, mentre i rimasugli di quella staticità scivolano via, assieme con le gocce di sudore che tracciano percorsi iridescenti sui suoi muscoli tesi.
Allora lei solleva il capo per guardarlo ancora. E lo vede così: occhi brucianti incastonati in un volto bianchissimo, illanguidito dal piacere. Capelli sparsi come una raggiera d’intarsi corvini. Labbra umide, strette fra i denti per non lasciarsi sfuggire alcun suono.
Una statua accesa di vita.






 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3005816