Happily Ever After?

di The Wretched And Divine
(/viewuser.php?uid=680519)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Neverland ***
Capitolo 2: *** Glass Slipper ***
Capitolo 3: *** Little Red Riding Hood ***
Capitolo 4: *** Wonderland ***



Capitolo 1
*** Neverland ***


Neverland
 

Caspita!  Pensò Wendy, è stata la settimana più bella della mia vita.
Ed era vero. Fino ad allora non si era mai divertita tanto. Certo, aveva sempre creduto nell’Isola Che Non C’è e in Peter Pan: tutte le sere raccontava le sue avventure a Gianni e Michele.
Era sempre stata una bambina dotata di grande inventiva e fantasia. Le capitava non di rado di essere ripresa dagli adulti. ‘E’ ora di crescere, Wendy!’ Ma a lei non importava. Non voleva crescere. Non voleva entrare nel noiosissimo mondo degli adulti. Lei voleva continuare a dormire nella Stanza dei Bambini, farsi rimboccare le coperte da Nana e raccontare le avventure di Peter Pan. Essendo dotata di grande fantasia, era sempre stata capace di immaginare anche i più piccoli ed insignificanti dettagli dell’Isola Che Non C’è. Il numero di cannoni sul vascello di Capitan Uncino, il numero di rocce sulla Laguna delle Sirene, i nomi di tutta la Tribù degli Indiani, l’altezza di Trilli, e mancava poco che la sua memoria non riuscisse a ricordare perfino il numero delle foglie della Tana dei Bimbi Sperduti.
Nella sua fantasia era tutto così ben definito da sembrare quasi reale, quasi toccabile con mano.
Ma per quanto buona potesse essere la sua immaginazione, vedere l’Isola dal vivo fu quasi uno shock per lei.
Era tutto perfettamente identico a come l’aveva sempre immaginato.
Le Sirene erano bellissime e dispettose –avevano cercato di affogarla!-, la ciurma di Capitan Uncino incredibilmente crudele –era stata costretta a camminare sull’asse-, gli Indiani affascinanti e misteriosi –ma non le andava molto a genio Giglio Tigrato, la figlia del Capo Tribù-.
Era tutto meraviglioso.
Eppure la cosa che la affascinò di più fu Peter.
Ogni notte lasciava la finestra aperta. Se l’avesse chiusa e Peter fosse venuto a riprendersi l’ombra, da dove sarebbe entrato? Di certo non dal camino o dalla porta. Tutti sanno che Peter Pan entra dalla finestra della Stanza dei Bambini.
Alla fine, le storie –o ‘frottole’, come le chiamava suo padre- si rivelarono vere. In fondo, tutte le storie sono vere. No?
Wendy stava tranquillamente dormendo nel suo letto a baldacchino, beandosi del calore emanato dalle coperte, quando si accorse di un’ombra. Era difficile dire se fosse l’ombra di una persona o solo un gioco di luci della fievole lanterna a muro, ma Wendy decise di controllare.
Si trovò di fronte un ragazzo dai capelli color carota, le orecchie leggermente a punta, e un ghigno che non prometteva nulla di buono. Avrebbe potuto far paura, se non fosse stato per l’ombra che aveva in mano e che apparentemente cercava di fissare al piede con una saponetta.
«Peter Pan?» Esclamò Wendy.
E si rivelò essere davvero Peter Pan. Il ragazzo spiegò che tutte le sere rimaneva fuori dalla finestra ad ascoltare le storie di Wendy. Poi promise che l’avrebbe portata sull’Isola, per mostrargliela; ovviamente portò con sé anche Gianni e Michele.
Mantenne la promessa.
Peter le aveva anche spiegato che un giorno nella realtà equivaleva a tutto il tempo che si desidera nell’Isola.
Wendy sarebbe potuta rimanere nell’Isola per dieci minuti, dieci giorni, dieci mesi, dieci anni, e nel mondo reale sarebbe passato soltanto un giorno.
Sarebbe bellissimo, pensò. Ma devo tornare a casa. Mi manca la mia famiglia, mi manca Nana…
«Eih Wendy!» Peter entrò nella ‘stanza’. Non era la parola più adatta per definire una tana, ma era allestita come una stanza da letto. «E’ ora di raccontare la storia ai Bimbi Sperduti.» Sorrise.
«Peter…c’è una cosa che devo dirti.» Wendy quasi non riusciva a trovare le parole: lui era talmente contento di aver trovato una Mamma. Come l’avrebbe presa? Si fece coraggio. «Sarebbe ora che tornassimo a casa. A me manca la mia famiglia…e Michele quasi non ricorda più il viso di nostra madre. Vorrei tornare a casa.»
Aspettò la risposta del ragazzo. Ma questa non arrivò. Peter la guardava ad occhi sbarrati e bocca aperta. Wendy era sull’Isola Che Non C’è. Come poteva desiderare di tornare a casa? Era una cosa che andava oltre le sue capacità di comprensione.
Si gratto la testa.
«Wendy…noi abbiamo bisogno di una Mamma. I Bimbi sperduti hanno bisogno di te. Io ho bisogno di te. Rimani con noi, e non dovrai mai crescere. Rimani con noi, non tornare a casa.»
«Oh, Peter…» Wendy si rendeva perfettamente conto che il ragazzo non riusciva a comprendere il suo desiderio. Ma lei doveva tornare a casa. «Non mi aspetto che tu capisca. Ti chiedo solo di riportarci a casa. Solo questo.»
Il volto di Peter Pan si rabbuiò, ma sorrise. «D’accordo Wendy. Se è quello che desideri, ti riporterò a casa. Ma niente polvere di fata per te. Viaggerai con me.»
Wendy acconsentì, quindi preparò tutte le sue cose, chiamò Gianni e Michele,  salutò gli Indiani, i Bimbi Sperduti e le Sirene. Dubitava che Capitan Uncino e la sua ciurma avrebbero apprezzato un addio da parte sua.
Peter cosparse Gianni e Michele di polvere di fata, poi prese Wendy in braccio, e iniziarono a volare.
Era una sensazione stupenda starsene accoccolata tra le braccia di Peter, e per un momento rimpianse la sua scelta. Ma fu solo un momento.
«Gianni! Michele! Potreste farmi il favore di andare avanti? Fermatevi all’Accampamento degli Indiani, io e Wendy vi raggiungiamo tra due minuti. Voglio salutare vostra sorella come si deve.» Disse Peter, con un sorriso smagliante.
I due bambini fecero come richiesto e si avviarono. Quando furono fuori dalla visuale di Peter, questo si fermò in aria e puntò i vispi occhi neri su Wendy, che era ancora tra le sue braccia ma aveva assunto un’espressione interrogativa.
«Peter, cosa succede? Perché ci siamo fermati?» chiese.
«Oh, Wendy.» Sussurrò. «Vedi…non ho mai conosciuto un Umano come te. Tu sei speciale.»
Wendy arrossì.
«Ma c’è un piccolo problema.» continuò il ragazzo. «Tu vuoi andartene. Vuoi abbandonarmi.»
«Santi numi, no!» Esclamò Wendy. «Non potrei mai, io non…» Ma si interruppe. Se fosse tornata nel mondo reale, sarebbe cresciuta, si sarebbe sposata, avrebbe messo su famiglia. E sarebbe invecchiata.
Peter no. Lui sarebbe rimasto sull’Isola, immutabile nel tempo e per sempre bambino.
«Esatto Wendy.» Esordì Peter, come se avesse letto i suoi pensieri. «Se torni nel mondo reale, non ci rivedremo mai più. Mi abbandonerai. E questo non posso permetterlo.»
Wendy fu attraversata da un brivido. Una sensazione di panico le si stava diffondendo per tutto il corpo, e lentamente una raccapricciante consapevolezza si fece largo nella sua mente.
«Peter, ti prego…» Stava singhiozzando.
«Oh, lo so…lo so. Sssh, non piangere.» La cullò tra le braccia. «Tu non mi lasci altra scelta!»
«Rimarrò. Rimarrò qui con te. Ci prenderemo cura dei Bimbi Sperduti insieme. Sarò la loro Mamma. Farò tutto quello che vuoi e…»
«Wendy, mia dolce, piccola, ingenua Wendy. Questo è quello che avresti dovuto dire prima. Ormai non ha più importanza. Capiscimi: io non voglio farlo, ma tu mi costringi.»
«Peter no, ti prego!» Ormai le lacrime rigavano il viso della ragazza e le mani del ragazzo.
«Non rendere le cose più difficili. E dopo tutto…la morte non è che un’altra fantastica avventura! Avrò una nuova storia da raccontare ai Bimbi.»
Wendy aveva un nodo in gola, non riusciva a parlare. Si limitava a guardare Peter con due occhioni imploranti pieni di lacrime.
Ma le suppliche non servirono. Piano piano Peter lasciò scivolare il corpo di Wendy, godendosi la sensazione che provocava la camicia da notte che passava attraverso le sue dita.
Abbassò lo sguardo per poter ammirare una Wendy scalciante che precipitava a tutta velocità verso gli scogli nella Laguna delle Sirene.
Un solo grido, poi il nulla. Solo il vento che soffiava sulle foglie.
In effetti, pensò Peter, è da un po’ che le Sirene non fanno un pasto decente. Beh, adesso potranno rifarsi.
E volò via verso il tramonto, verso nuove terre da esplorare. Verso il mondo reale.
Alla ricerca di una nuova Mamma.
 
 
 
 
*Angolo Autrice*
Saaaaaalve!
Vi spiego più o meno l’idea della Fan Fiction: ogni capitolo tratta una favola.
Consideratelo un ‘Dark Side’delle fiabe, ‘Finale alternativo Creepy’ o come volete.
Spero vi piaccia...se vi va di recensire ne sarò più che felice! Grazie per l’attenzione.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Glass Slipper ***


Glass Slipper
 

Era una bella giornata di mezza estate; i raggi di sole trapelavano dalle finestre creando un magnifico gioco di luci sul pavimento appena lucidato della sala da ballo, a causa dei motivi colorati dei vetri.
Cenerentola –così la chiamavano le sorellastre- era intenta a lucidare il grande pianoforte a coda nero, quando un bussare incessante al portone della villa la costrinse ad interrompere il suo lavoro.
Chi potrà mai essere a quest’ora? Si chiese, andando ad aprire.
Si trovò di fronte un omino basso e sovrappeso, con una folta barba nera che contrastava con la testa completamente priva di capelli. Era vestito con un elegante completo rosso rifinito in oro; un completo che sarebbe risultato elegante e sofisticato addosso a qualcun altro, ma che rendeva l’omino una visione alquanto stravagante.
«Buongiorno signorina! Sono qui per ordini del Re.» Disse l’omino, porgendo una lettera a Cenerentola.
«Oh» Rispose lei, esitante. «Grazie! E buona giornata a lei.»
Chiuse il portone alle sue spalle e si diresse nella sua stanza, incuriosita da quella strana lettera color ocra; aveva apposto un sigillo di ceralacca rosso con il simbolo della famiglia del Re.
Stava aggraziatamente percorrendo la lunga scalinata, quando due ragazze –avevano la stessa età di Cenerentola- le bloccarono la strada.
«Anastasia, hai visto? Cenerentola ha una lettera in mano!» Gracchiò una delle due.
«Sì, Genoveffa. Ha una lettera. Lei!» Si affrettò a rispondere la sorella, con una voce altrettanto stridula.
Prima che la povera Cenerentola avesse tempo di fare qualsiasi cosa, Anastasia agguantò la lettera con le mani ossute; quindi la strappò e la lesse ad alta voce.
«Essendo Sua Maestà in procinto di lasciare il Trono al suo primogenito nonché unico figlio, si invitano tutte le fanciulle in età da marito a partecipare ad un ballo a Corte. La giovane con le qualità più gradite al Principe verrà scelta come Sua futura moglie.»
«Oh Santi Numi, è fantastico! Dobbiamo dirlo alla mamma!» Esclamò Genoveffa.
Le tre ragazze si avviarono di corsa verso la camera da letto più grande della casa. Anche chi fosse entrato per la prima volta nella villa avrebbe saputo dire qual era la stanza principale, quella in cui dormiva la Signora: un sontuoso letto a baldacchino ornato di velluto color bordeaux era posizionato al centro della stanza. Alla sua destra torreggiava un enorme armadio a tre ante; era pregiatissimo legno di noce nero –la Signora teneva molto a precisarlo-.
Anche in quella stanza, come nella sala da ballo, i vetri della finestra erano decorati con motivi colorati.
«Mamma! Mamma, dove sei?! Mamma!» Chiamarono a gran voce Anastasia e Genoveffa mentre Cenerentola stava in disparte, appoggiata allo stipite della porta.
Una sagoma si mosse nell’ombra, per poi posizionarsi davanti alla finestra. Era una donna con i capelli bianchi e indossava un lungo ed elaborato vestito viola. Aveva gli zigomi scavati, le labbra serrate, gli occhi blu vitrei ma crudeli. Sebbene il viso fosse scavato da rughe, era facilmente intuibile che molti anni prima quello stesso volto avesse incantato molti uomini.
«Non c’è bisogno di gridare.» Disse con voce pacata. «Ricordate ciò che vi dico: una signora non si scompone e non alza la voce. Mai. E ora ditemi: a cosa è dovuta tanta urgenza?»
Le due ragazze si spintonavano, parlavano troppo velocemente e si interrompevano a vicenda, ma alla fine riuscirono a riferire alla madre della lettera ricevuta.
La donna spese qualche istante a squadrare Cenerentola ancora ferma sulla soglia della porta, come se attendesse una tacita conferma di poter mettere piede nella stanza, poi parlò.  «Un ballo…molto bene. Siete in età da marito, e quale occasione migliore per presentarvi?» Fece una pausa. «Cenerentola, entra per favore.»
La ragazza fece come ordinato, e si fermò accanto alle sorellastre. «C’è qualcosa che posso fare, Signora?» Chiese.
«In effetti, sì. Il ballo ci sarà domani, ma Anastasia e Genoveffa non hanno un vestito adatto all’occasione. Dovresti andare in città e procurarti i due abiti più belli che trovi. Poi pulirai la cucina, spazzerai il camino, laverai il bucato e…»
«Scusi se mi permetto.» Disse Cenerentola. «Ma sull’invito era espressamente richiesto che tutte le ragazze in età da marito dovrebbero partecipare al ballo. Se andrò al ballo, non riuscirò a fare quanto chiedete.»
«Credevo di essermi espressa nel migliore dei modi, ma a quanto pare non è così. Tu non andrai al ballo, Cenerentola.»
Così dicendo lasciò la stanza, seguita da Anastasia e Genoveffa che sghignazzavano.
 
Cenerentola passò il giorno seguente a casa, a sbrigare le faccende assegnatele dalla matrigna. Forse, si era detta, se riesco a finire le commissioni prima del ballo, riuscirò a parteciparvi. Uscirò di nascosto. Non verranno mai a saperlo.
E così fece. Le sorellastre e la matrigna erano uscite qualche minuto prima, raccomandandosi di badare alla casa, così Cenerentola corse in camera sua. Aprì il grosso baule ai piedi del suo letto e ne estrasse un bellissimo abito di seta bianco, ornato di pietre preziose. Era uno dei pochi oggetti ereditati da sua madre, e decise che era giunto il momento per usufruirne.
Come previsto l’abito le cascava a pennello; una collana, un’acconciatura raccolta, delle scarpe di un tessuto talmente candido da sembrare vetro, e Cenerentola era pronta per la festa.
Era entusiasta. Non le capitava spesso di uscire, e non era mai stata fuori di notte. Non faceva freddo, c’era solo una lieve brezza ma era molto piacevole.
La strada da percorrere per arrivare al Castello era la via principale. Ma non poteva permettersi di essere scoperta dalla matrigna e dalle sorellastre, perciò decise di imboccare una delle stradine parallele. Non dovrei perdermi, dicono che alla fine tutte le strade siano collegate, e che portino tutte al Castello. Anche se questa non mi sembra nemmeno definibile ‘strada’.
Effettivamente aveva ragione. La strada era larga solo il necessario per permettere il passaggio di due persone contemporaneamente. Era costernata di cassonetti dell’immondizia, scatoloni e reti abbandonate. Non esattamente il posto adatto ad una fanciulla che si accinge ad andare ad un ballo a Corte, pensò Cenerentola.
Purtroppo, nemmeno su questo si sbagliava. Vide una sagoma muoversi nell’ombra, e in un batter d’occhio si trovò davanti un uomo. Era alto, robusto, con capelli neri e una barba ispida, anche quella nera. Dall’abbigliamento si intuiva che non doveva avere molti più soldi di quanti ne avesse Cenerentola. Ma aveva un luccichio negli occhi che alla ragazza non piacque per niente.
«Ma buonasera signorina. A cosa devo il piacere della sua visita?» Chiese l’uomo sorridendo, mostrando dei denti gialli e storti.
«Sto andando al ballo.» Rispose Cenerentola.
«Oh giusto, il ballo. Tutte le ragazze sognano un bel principe da sposare, non è vero? E nessuno che si cura dei poveri uomini come me. Com’è ingiusta la vita, lei non crede?» L’uomo si grattò il mento.
«Tremendamente ingiusta.» Convenne Cenerentola. «Ma ora dovrei andare. Se fosse così gentile da lasciarmi passare…»
«Quanta fretta. Che bel vestito, dove l’ha preso?»
«E’ un regalo della mia povera madre.»
«Le mette in risalto gli occhi. E così, signorina, si è vestita bene per il ballo. Spera di conquistare il principe?»
«In effetti no, ma…sarebbe bellissimo. Non crede?»
«Certamente. Ma vede, mia cara, come dicevo prima: la vita è ingiusta. Io sono caduto in rovina a causa dell’amore per una donna. E tu…posso darle del tu?» L’uomo la squadrò, in attesa di una risposta.
«Va bene.» Rispose Cenerentola, titubante.
«Stavo dicendo…» Continuò l’uomo. «La vita è ingiusta. E tu non andrai al ballo.»
Cenerentola lo guardò, confusa. «E perché mai?»
«Oh» L’uomo lentamente si stava avvicinando, e arrivò a farle scorrere le dita sulla stoffa del vestito. «Perché hai incontrato me. Come ti dicevo, mi sono ridotto così a causa dell’amore di una donna. E ora le donne devono pagare.»
«E io cosa c’entro in tutto ciò?» Cenerentola cercò di allontanarsi, la l’uomo la bloccò prontamente.
«Te l’ho detto. La vita è ingiusta.»
Cenerentola si girò, dando le spalle all’uomo, e tentò una disperata fuga, ma fu interrotta da due braccia che le si serrarono attorno al busto.
«La prego, mi lasci andare…non ho fatto niente…io…» Implorò la ragazza.
«Tranquilla, mia cara. Non posso lasciarti andare. Non fino a quando non avrò soddisfatto la mia sete di vendetta.»
Lentamente l’uomo la voltò, in modo da poterla guardare negli occhi. Poi, sempre con una calma irritante, la spinse contro il muro, poggiando le mani accanto alla testa della ragazza, in modo da intrappolarla tra il muro e il suo corpo.
«Ti hanno mai detto che è pericoloso girare da sole, la notte, nei vicoli bui?» Chiese l’uomo, che iniziò ad armeggiare con il vestito di Cenerentola.
«Per favore…» Continuò a supplicare la ragazza, ma l’uomo sembrò non accorgersene, e le sfilò il vestito.
«Molto bene. Ti dirò una cosa, per il tuo bene.» Alzò l’orlo sgualcito della giacca, rivelando un coltellaccio da macellaio. «Se provi a gridare o opponi resistenza, dolcezza, questo coltello avrà piacere di lacerare il tuo bel corpicino. Ci siamo capiti?»
Cenerentola annuì, il viso rigato dalle lacrime.
 
L’uomo aveva ragione. Cenerentola non arrivò mai al ballo. La mattina seguente, lo strillone del paese annunciava di una giovane ragazza ritrovata in un vicolo; aveva un coltello conficcato nella schiena.
Violentata e uccisa.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Little Red Riding Hood ***


Little Red Riding Hood
 
‘Non avresti dovuto lasciarla andare. Sei una pessima madre! Era così piccola, così ingenua. Avresti dovuto proteggerla. E non sei stata capace di fare il tuo dovere.’
La donna si svegliò di colpo, mettendosi a sedere sul letto. Aveva la fronte imperlata di sudore e i lunghi capelli corvini appiccicati al viso. Non riusciva a mettere a tacere quelle voci. Da quella dannatissima notte, non riusciva più a dormire; si sentiva un fallimento.
 ‘Tesoro, non hai alcuna colpa. Le hai sempre detto di non lasciare il sentiero, l’hai avvertita milioni di volte. Non avresti potuto fare nulla per evitarlo.’ Le ripetevano i parenti e gli amici.
Ma lei sapeva che non era vero. Sapeva che avrebbe dovuto accompagnarla. Sapeva che il bosco non era un posto sicuro per una bambina, eppure l’aveva lasciata andare dalla nonna.
Si costrinse a scendere dal letto, destandosi da quei pensieri. Come d’abitudine –negli ultimi giorni era diventato una specie di rituale- si diresse verso la stanza più ad Est della casa. Quella con la porticina di legno. Entrò, e le gambe sembravano muoversi da sole.
La portarono di fronte al piccolo lettino con la coperta patchwork rosa. Sempre per abitudine, prese in mano il piccolo cappottino ripiegato con cura e appoggiato sulla testata del letto.
Un cappottino rosso.
Sua figlia lo indossava sempre. Per questo in paese avevano l’abitudine di chiamarla ‘Cappuccetto Rosso’.
Cappuccetto Rosso, la sua bambina. Che ormai non c’era più.
E’ colpa tua! Soltanto tua! Se non l’avessi mandata nel bosco, ora sarebbe ancora qui. Ti chiederebbe la colazione. Ti direbbe che ti vuole bene. Ma non lo farà. Non lo farà mai più, ed è tutta colpa tua! Se non l’avessi mandata da sola nel bosco, il lupo non l’avrebbe sbranata.
Quelle voci minacciavano di farla impazzire. Non sapeva quanto sarebbe resistita. Si lasciò crollare sulla prima sedia che trovò, e si prese la testa tra le mani.
Normalmente avrebbe pianto, ma ora non ci riusciva. D’altra parte, come si può piangere dal dolore, quando il proprio cuore non c’è più? Non poteva alleviare la sofferenza con le lacrime. Non gliene erano rimaste.
Avrebbe voluto alzarsi, fare qualcosa…ma non sapeva nemmeno cosa avrebbe potuto fare. La sua vita era così vuota.
Decise che un bagno caldo le avrebbe fatto bene. Le avrebbe schiarito un po’ le idee, e magari le voci le avrebbero dato un po’ di tregua.
Accese una candela per farsi luce e poter arrivare fino al bagno.
Non apriva più le finestre. Da quella in soggiorno, si scorgeva l’albero sotto al quale venne ritrovato il corpo della povera Cappuccetto Rosso.
Non poteva sopportarne la vista.
 
Dei colpi alla porta destarono la donna. Si stropicciò gli occhi e si trascinò fuori dal letto.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era uscita dalla camera da letto? Due giorni? Una settimana? Non lo sapeva. Si era semplicemente abbandonata a Morfeo, anche se il sonno era continuamente disturbato da terribili incubi.
Aprì la porta. Sulla soglia, una vecchietta con capelli bianchi, occhiali dalla montatura sottilissima e un lungo vestito nero stava aspettando di poter entrare.
«Mamma!» Disse la donna.
«Tesoro…mi dispiace così tanto.» Rispose la vecchietta, abbracciando la figlia. La scrutò da capo a piedi, con espressione preoccupata. «Posso immaginare cosa tu stia provando, ma non devi lasciarti andare così.»
La donna emise un vero strozzato, un’imitazione di risata. «Oh, no che non lo sai. Ma ti ringrazio dell’aiuto. Sto benissimo.» Liquidò tutto con un gesto impaziente della mano, dando le spalle alla madre.
«Non stai bene, tesoro. Lascia che venga a vivere qui per un po’. Non ti fa bene startene qui tutta sola. Hai bisogno di distrarti e…»
«NO! NON ME LO MERITO. LEI E’ MORTA PER COLPA MIA. M-I-A!» Gli occhi della donna erano illuminati da una preoccupante follia. La vecchietta indietreggiò.
«Scusa, mamma.» Si affrettò a dire la donna. «Sto bene. Davvero…va tutto bene. Ho solo bisogno di un po’ di tempo per riprendermi.»
La mamma non sembrava convinta, ma acconsentì ad uscire di casa, a patto che sarebbe tornata il giorno seguente.
 
L’indomani, come stabilito, la vecchietta si presentò a casa della figlia. Dopo aver insistentemente bussato alla porta e non avendo ricevuto risposta, decise di entrare.
Chiamò la figlia, ma sempre senza ricevere risposta alcuna.
Starà dormendo. E in ogni caso, questa casa ha bisogno di luce e pulizia.
Decise che l’avrebbe lasciata dormire, mentre lei si sarebbe occupata di ripulire la casa. Per prima cosa aprì le finestre, per lasciar entrare un po’ d’aria pulita. L’ultima fu quella del soggiorno.
Un grido di puro terrore le uscì dalla bocca spalancata.
Dal ramo più alto dell’albero penzolava una corda. Alla corda era appesa una figura. Una donna, dai capelli scuri e la pelle chiara.
Nella mano destra stringeva un cappottino rosso.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Wonderland ***


Wonderland
 
‘E’ tardi, è tardi, è tardi!’
Quelle due parole continuavano a susseguirsi nella sua mente in modo incessante.
E’ tardi, è tardi, è tardi!’
Andavano avanti da almeno sei mesi. Da quando quel coniglio bianco col panciotto era andato a trovarla.
Ricordava quell’episodio esattamente come se fosse avvenuto il giorno precedente. Era una calda giornata primaverile; il vento le sollevava delicatamente i capelli castani, mentre lei accarezzava la sua gattina.
Il coniglio le passò davanti all’improvviso, talmente veloce da apparire come una chiazza bianca. Lei lo seguì, incuriosita. Certamente, non avrebbe mai potuto immaginare il meraviglioso posto in cui l’aveva condotta.
‘Il Paese delle Meraviglie’, lo chiamava lei. E non avrebbe potuto trovare un nome più adatto.
Purtroppo però quei colori inebrianti, le strane creaturine e l’atmosfera fiabesca l’avevano decisamente traviata.
‘E’ tardi, è tardi, è tardi!’
La voce continuava incessante. Ma Alice non riusciva proprio a capire. Era tardi, ma tardi per fare cosa?
‘E’ tardi, è tardi, è tardi!’
‘Se questa voce non la smette immediatamente, rischio di impazzire.’ Pensò tra sé e sé.
E’ tardi, è tardi, è tardi!
Niente. Ogni tentativo di farla cessare sembrava nullo. Alice era parecchio irritata. Era difficile compiere il lavoro con quella voce in testa. Stava cercando di prendere un tè con i suoi amici. Non era tardi, era esattamente l’ora in cui i bravi inglesi bevono il tè.
E’ tardi, è tardi, è tardi!
Alice decise che l’avrebbe ignorata. D'altronde, i suoi ospiti non potevano aspettare. Sarebbe stata una grande maleducata a farli attendere troppo. E Alice, si sa, non era una ragazza maleducata.
Aveva organizzato tutto perfettamente.
Alla sua destra era seduto il Cappellaio. Un tipo allegro, con il sorriso stampato in faccia; portava un buffo cappello a cilindro, decisamente troppo grande per lui.
Alla sua sinistra c’era il Leprotto. Aveva delle grandi orecchie da coniglio, ma Alice aveva sempre pensato che non fosse troppo sano di mente. Ad ogni modo, comunque, non le importava.
 
***
Arthur Smith stava controllando alcune carte nel suo ufficio, quando sentì qualcuno bussare con foga alla porta.
«Avanti!»
Era un infermiere.  «Buongiorno Dottore. Avremmo bisogno di lei.»
«Potete attendere?» Chiese, lanciando uno sguardo alle pratiche sul tavolo.
«E’ una questione abbastanza urgente. Abbiamo un nuovo paziente.»
Dallo sguardo dell’infermiere, capì che non avrebbe potuto aspettare. Si alzò sospirando dalla poltrona, accomodandosi i piccoli occhiali sul naso aquilino.
Venne condotto lungo il corridoio, fino ad arrivare ad una cella di isolamento, con le pareti imbottite. Si accostò allo spioncino per guardare all’interno e fu sorpreso di vedere una piccola bambina dai capelli castani e gli occhi verdi, in camicia di forza, che lo fissava.
Guardò l’infermiere. «Avrà al massimo 10 anni. Perché è qui?»
«Perché non va a parlarci lei? Sono sicuro che il racconto sarà sicuramente più dettagliato, se glielo riferisce lei.» Fece un cenno in direzione della bambina.

***
E’ tardi, è tardi, è tardi!
La porta della sua stanza si spalancò, ed entrò un uomo. Aveva i lineamenti severi, il camice bianco che si abbinava perfettamente al colore dei suoi pochi capelli.
E’ tardi, è tardi, è tardi!
«Cosa vuole?» Chiese Alice.
L’uomo la scrutò attentamente, poi disse «Ti va di raccontarmi perché sei qui?»
La bambina portò lo sguardo verso il soffitto, pensierosa. Voleva raccontare a quel signore perché si trovasse lì, ma la verità è che non lo sapeva. Stava prendendo il tè con il Cappellaio ed il Leprotto, questo lo sapeva, poi vedeva solo buio. Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare.
«Non lo so, signore.» Disse, sinceramente dispiaciuta.
Il dottore la guardò, disorientato. Uscì dalla cella e mandò a chiamare l’infermiere, ordinando di farsi portare la cartella clinica della bambina.
Aprì il fascicolo di fogli, e per poco non gli prese un colpo.
Le foto mostravano una bambina dai capelli castani e gli occhi verdi, con un vestitino azzurro, intenta a prendere il tè. Con due persone.
Leggendo, si accorse che erano i genitori della bambina.
Il padre aveva la bocca squarciata, modellata in un macabro sorriso.
Alla madre erano state cucite delle orecchie da coniglio sulla testa, precedentemente rasata.
La piccola sorrideva, con una tazza di tè in mano.
Poco dopo, la polizia si presento all’ospedale psichiatrico, avvertita dal dottore.
Quella che avevano portato lì non era una bambina. Era un mostro. Doveva occuparsene la polizia.

***
E’ tardi, è tardi, è tardi!
Alice era stata portata via da una carrozza con dei poliziotti. Non capiva il motivo, però.
Ora si trovava legata mani e piedi ad un lettino. L’acciaio era gelido contro la sua piccola schiena nuda. Provò a slegarsi, con scarsi risultati.
Entrò un uomo, con una grossa siringa in mano.
«Vedrai, non ti farò del male. Anche se lo meriteresti. Quale mostro farebbe una cosa del genere ai propri genitori?»
Alice ebbe un flash.
E’ tardi, è tardi, è tardi!
La voce continuava a ripeterle.
E finalmente, Alice capì.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2786823