Il tesoro della Tromba Marina

di Taitou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
 
 
 
Ethel Collins guardava fuori dalla finestra dell’orfanotrofio pensando che finalmente il momento che aspettava da due anni era arrivato. Poteva finalmente andarsene. Odiava quel posto con tutta l’anima, non riusciva a credere di aver passato lì due anni della sua vita. Ora, finalmente, a quattordici anni, pensava alla fuga. Guardava i tetti delle case di Londra e il suo riflesso nel vetro sudicio. I capelli biondi, presi dalla mamma, gli occhi scuri che secondo sua madre somigliavano tanto a quelli di suo papà. Con le dita giocherellava distrattamente col ciondolo di giada che non aveva mai indossato. Anzi, una volta l’aveva indossato. In occasione della morte di sua madre. Ricordava quel giorno come se fosse stato il giorno prima. Invece erano già passati due lunghissimi anni.
Sua madre si chiamava Emma. Suo padre non lo conosceva. Abitavano nella zona portuale di Londra. Emma aveva la tubercolosi. Ethel aveva dodici anni. Sua madre stava morendo. In casa con loro c’erano alcuni amici di sua madre, ma lei aveva chiesto di poter parlare da sola con Ethel. Erano rimaste sole. Sua madre le aveva sorriso e aveva iniziato la storia.
-Ethel… ci sono cose che devi sapere. Non voglio saperti chiusa in un orfanotrofio. Tuo padre non è morto. – a quest’affermazione Ethel aveva sgranato gli occhi. –E non è nemmeno imbarcato con la marina britannica. Tuo padre è un pirata. Si chiama Jack Sparrow. Cercalo. Imbarcati con lui. – anche in un momento come quello, Ethel si rese conto che sua madre le stava consigliando di darsi alla pirateria.
-Mamma, non mi crederà. Non crederà che sono sua figlia. –
-Ti crederà se gli dirai di me e se gli darai questo. – Emma si tolse il ciondolo di giada e glielo aveva messo al collo.
-Quando me l’ha dato – sua madre dovette interrompersi per la tosse, e riprese con voce più roca –mi disse che era del colore dei miei occhi. Daglielo e si ricorderà. –
Gli uomini erano rientrati. Non poteva più dirle niente. Non ce n’era bisogno.
Il giorno dopo, un amico di sua madre di nome John l’aveva portata all’orfanotrofio. Non era riuscita a scappare. In realtà, non ci aveva nemmeno provato. Era troppo scossa. Però era ancora tra le sua intenzioni. Il ciondolo di giada in teoria non avrebbe potuto tenerlo, ma lei l’aveva nascosto nel fazzoletto che teneva in mano, e nessuno se n’era accorto.
Ora erano passati due anni da quel momento. Ethel guardava fuori dalla finestra. Ripensava a quando, da piccola, giocava con le spade di legno. Pensava al fatto che aveva smesso solo una volta arrivata lì. E che quell’abitudine le sarebbe tornata utile. In genere passavano a controllare che dormissero verso mezzanotte, e lei aveva intenzione di fuggire appena terminato il controllo. Che, tra l’altro, non era niente di che. Aprivano la porta dove tutte le ragazze dormivano, davano un’occhiata veloce e se ne andavano. Ethel si distese a letto e chiuse gli occhi. Non dovette aspettare molto. Dopo un paio di minuti, dei passi arrivarono alle sue orecchie, il rumore smorzato dalla porta chiusa. Che si aprì. Qualcuno camminò tra i letti e finalmente uscì, chiudendosi la porta a chiave alle spalle. Ethel si rizzò a sedere, e appena nel corridoio fu tornato il silenzio si alzò, prese lo zaino che teneva pronto e nascosto da giorni, e si avvicinò alla finestra. Il suo dormitorio era al secondo piano. Aveva preso mille accortezze, controllato ogni minimo dettaglio. Uscì dall’unica finestra che non cigolava, a piedi nudi. Poi saltò sul tetto dell’edificio di fianco. Cercò un angolo sicuro e si cambiò. Lasciò lì la camicia da notte rattoppata e si mise dei pantaloni e una camicia. Degli stivali ai piedi. Poi prese un cordoncino e si legò i capelli biondi in una treccia, che nascose sotto un cappello vecchio e brutto. Sperava di riuscire a passare per un maschio almeno fino a quando non avrebbe raggiunto Tortuga. Poi, chissà. Ed era proprio quel chissà ad eccitarla come non mai. A cosa stava andando incontro? Si alzò, e scese dalla casa su cui era atterrata. Per fortuna non era troppo alta. Poi corse. Come non aveva mai fatto in vita sua. Corse come se ci fosse stato un incendio dietro di lei. Ma l’eccitazione ribolliva nelle sue vene, e Ethel non poté impedirsi di sorridere mentre correva. Il primo sorriso vero da due anni. Era finalmente libera. Arrivò al molo circa mezz’ora dopo, respirando con la bocca aperta per la corsa. Ora doveva solo trovare la nave di cui aveva sentito parlare, imbarcarsi e andare in Giamaica. All’improvviso, davanti all’enormità di quello che stava per fare, si sentì minuscola, indecisa e impaurita. E se fosse tornata indietro? No. Aveva aspettato fin troppo a lungo. Ora era il momento di agire. Trovò la nave che andava in Giamaica. Cercò di darsi un contegno e chiese se avevano un posto sulla nave.
L’uomo la guardò distrattamente, senza prestarle troppa attenzione, e le disse che era libero il posto come mozzo.
-Perfetto – disse Ethel, e salì a bordo.
-Ragazzo! – la richiamò indietro l’uomo, probabilmente il capitano. –Come ti chiami? – Ops. A questo Ethel non aveva pensato. -Andrew Collins. – sparò il nome del finto padre, ma comunque il nome che aveva pensato gli appartenesse per dodici anni. Poi riuscì a trovare la zona lurida dove dormiva la ciurma. Sperava solo che partissero presto. Voleva mettere più strada possibile tra lei e l’orfanotrofio, e, soprattutto, voleva essere già lontana quando si sarebbero accorti che era sparita. L’avrebbero cercata? Sicuramente. Ma non l’avrebbero trovata.
‘Un viaggio di circa un mese per fare esperienza, pagato, che mi porta dove devo andare. Non poteva andarmi meglio’ pensò Ethel mentre si addormentava.
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Il mese di navigazione fu per Ethel meraviglioso. Certo, doveva sgobbare non poco, e il capitano era tutt’altro che indulgente, ma sapeva che ogni secondo che passava si avvicinava di più a Jack. Sapeva anche che non sarebbe mai e poi mai riuscita a chiamarlo ‘papà’: era entrato nella sua vita troppo tardi. Aveva pensato a lui molto, durante quel viaggio. Chissà com’era? Sia fisicamente che come comportamento, anche se per questo non si aspettava una grande moralità. A parte il fatto che era un pirata, aveva lasciato una donna incinta sola, a vedersela contro tutti. Emma era andata via dai Caraibi appena si era accorta di essere incinta. Solo ora Ethel capiva perché. A Londra si era inventata un matrimonio con un immaginario Andrew Collins, morto per mare, essendo un marinaio della marina britannica. Aveva sempre pensato di chiamarsi Ethel Collins, ma da due anni, anche se si presentava con quel nome per paura di essere impiccata, non lo sentiva più suo. Lei era Ethel Sparrow.
Capiva sua mamma per non averle detto la verità, una bambina piccola può non rendersi conto di quello che dice, avrebbe potuto condurle entrambe al patibolo, ma in ogni caso la sua scelta la lasciava con l’amaro in bocca. Le dispiaceva non aver potuto condividere un segreto così grande con sua mamma.
Per tutto il tempo aveva tenuto lo zaino con le sue cose nascosto. C’erano dentro abiti femminili, nel caso avesse dovuto smettere di essere Andrew per tornare Ethel, anche abiti maschili, nonostante facesse ovviamente in modo di cambiarsi il meno possibile e sempre da sola e in fretta. Infine, c’era il ciondolo. Avrebbe preferito portarlo al collo, ma aveva paura che qualcuno lo notasse e intuisse qualcosa. In più, pensava di procurarsi una spada.
Il momento più bello di tutto il viaggio era stato quando un tizio della ciurma era stato poco bene e l’avevano fatta stare di vedetta di notte. Aveva avuto un po’ di paura al momento di salire, ma una volta lassù, con un cannocchiale in mano a guardare il nero assoluto della notte si era sentita in pace col mondo. Le stelle erano tantissime e luminose, la luna piena, e lei tranquilla. Il mattino aveva dovuto comunque pulire il ponte, e questo era stato meno bello, ma aveva evitato di lamentarsi e si era data da fare. Doveva passare inosservata.
Erano passati ormai trentacinque giorni da quando si era imbarcata, che la vedetta, un mattino, si mise a gridare ‘Terra’. Il cuore di Ethel le schizzò via dal petto. Si voltò di scatto e corse al parapetto. Con gli occhi spalancati, vide un’isoletta lontana. All’improvviso era eccitata, non riusciva ad aspettare altro che l’arrivo. Il tempo sembrava dilatarsi, e l’isola farsi più lontana invece che vicina.
Ormeggiarono di pomeriggio. Un paese mediocre, tranquillo. Ethel si fece dare il compenso e schizzò via dalla nave. Appena vide il negozio di un fabbro, vi entrò.
-Vorrei una spada –
Ne aveva provate tante, e tra quelle che maneggiava meglio aveva preso quella che costava meno. Poi finalmente uscì e decise di chiedere informazioni a qualcuno.
 Corse per le stradine, dove i polli chiocciavano, in cerca di una locanda. La trovò. Spinse la porta e si trovò in un’atmosfera che non aveva mai visto. L’aria era satura di fumo, grida e canti. Il rum scorreva a fiumi, ovunque. Ethel si avvicinò ad un uomo solo intento a bere quello che sembrava il quinto boccale di rum. Si chiese come doveva parlargli. Scelse per un approccio diretto. Si sedette davanti a lui e poggiò un paio di monete sul tavolo.
-Sto cercando Jack Sparrow. Dov’è? –
-Non lo so – rispose quello prendendo comunque le monete. –E’ sempre in giro quello… ti conviene andare a Tortuga e aspettarlo lì. Una goletta dovrebbe partire tra poco. –
Ethel senza dire una parola si alzò e corse fuori, mentre il grido dell’uomo la raggiungeva –Deve dei soldi anche a te, vero? Non illuderti, ragazzo, non te li ridarà mai… -
Ma Ethel ormai non lo ascoltava più raggiunse di nuovo il molo, dopo essersi persa due o tre volte, e finalmente individuò la goletta di cui l’ubriaco le aveva parlato. Non poteva essere che quella. Vecchia, scrostata, con le vele rattoppate… c’era un uomo che faceva la guardia, cosa che secondo Ethel era inutile. Chi avrebbe rubato una nave tanto dimessa?
-Dove andate? – apostrofò l’uomo, che si risvegliò. ‘Bella guardia…’ pensò Ethel.
-A Tortuga… - biascicò quello, con la voce impastata dall’alcool.
-Vengo con voi –
-A bordo – disse l’uomo, e Ethel si sentì sollevata. Forse sarebbe riuscita a trovare Jack. A quel pensiero, le sue dita si chiusero automaticamente sul ciondolo di giada, mentre l’uomo rprendeva a dormire.

Angolo della pazza che si improvvisa scrittrice---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
 
Ciao a tutti quelli che leggeranno questa storia. E’ la mia prima fanfiction, quindi capitemi se vi farà proprio schifo.
Spero in realtà che vi piaccia, avevo voglia di scrivere qualcosa sul mio capitano preferito e mi è venuta in mente questa cosa. Grazie e per favore recensite numerosi!!!!

<3 Taitou
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Il secondo viaggio fu decisamente più breve e meno divertente del primo. C’era più lavoro da fare, e, sebbene Ethel non fosse per sua natura troppo schizzinosa, a volte l’acqua con cui doveva lavare la nave aveva un odore tale che le faceva venire i conati di vomito.
Fortunatamente Tortuga non era troppo distante, e la traversata fu questione di pochi giorni.
Quando Ethel vide per la prima volta Tortuga rimase allibita. Sembrava che l’atmosfera della locanda dove aveva chiesto informazioni si fosse propagata per tutta quella miserabile isola. Perché miserabile lo era senza ombra di dubbio, e Ethel, mentre girava per le strade piene di gente che trovava terribilmente volgari, si sentiva davvero a disagio.
Quel viaggio breve ma intenso le aveva tolto ogni forza, l’aveva lasciata spossata. Aveva bisogno di riposarsi, ma non aveva idea di dove andare, e sicuramente non si fidava a dormire all’aperto, come sembrava fare invece molta gente.
Non aveva idea di come risolvere la questione. Cominciò a girovagare a caso, senza chiedere a nessuno né entrando da nessuna parte. Era ormai il tramonto quando entrò in una locanda con un’aria più rispettabile delle precedenti, e chiese una stanza.
-Ce li hai, i soldi, ragazzino? – le chiese una signora vecchia e raggrinzita dietro un bancone lurido.
-Sì… - rispose titubante Ethel.
La donna la scrutò con sospetto, ma alla fine le diede una stanza con fare riluttante.
Ethel salì nella stanza che le aveva indicato la signora, e trovò un letto mezzo scassato con le coperte che puzzavano di muffa in una camera disadorna. Non gliene importava niente. Si gettò sul letto e si addormentò immediatamente, esausta.
Il mattino dopo si svegliò con un raggio di sole che le batteva di fianco al viso.
Sbadigliò alcune volte prima di sedersi. Aveva fame. La sera prima non aveva mangiato niente. Fu soprattutto questo a convincerla ad alzarsi. Nascose di nuovo i capelli sotto il cappello, e finalmente uscì. Scese al piano di sotto e mentre mangiava del pane decise che era il momento di chiedere a qualcuno. Si avvicinò alla donna che le aveva dato la stanza la sera prima.
-Potete dirmi dove posso trovare Jack Sparrow? – chiese, rendendosi conto di essere stata forse troppo gentile.
-Al momento non è qui. –
-E quando dovrebbe venire? –
-Non lo sa nessuno, quell’uomo è troppo strano e imprevedibile. Perché ti interessa? –
-Oh… - Ethel pensò a quello che le aveva gridato l’uomo all’altra taverna, qualche sera prima –mi deve dei soldi. –
-A proposito di soldi. Devi pagare la stanza e la colazione. – Ethel pagò, poi uscì dalla locanda per tornare nelle vie di Tortuga.
Di giorno era ancora più squallida. Molta della miseria e della sporcizia non si vedevano col buio, e Ethel pensò che uno doveva essere davvero disperato per cercare lì la soluzione dei propri problemi. ‘Io sto cercando qui la soluzione dei miei problemi’ si rese conto un attimo dopo, scioccata.
Il lato positivo era che c’era meno gente in giro. Si avviò al molo, sperando di vedere arrivare una nave, ma così non fu.
C’erano alcuni marinai seduti a terra intenti a tracannare rum.
-Quando passerà Sparrow? – gli chiese, pensando disperatamente che non era possibile che nessuno sapesse quando sarebbe venuto.
-Non lo sappiamo, ragazzino, ma chiedi a quello laggiù, lui in genere sa sempre tutto. –
Rispose uno dei marinai accennando col mento a un uomo che ronfava beatamente sotto una tettoia. Russava molto rumorosamente.
Ethel era un po’ indecisa, avrebbe voluto svegliarlo, ma aveva paura che questi si arrabbiasse e non le dicesse niente. Stava per chiamarlo quando lui si svegliò da solo di soprassalto, con lo sguardo perso e le guance rosse per il troppo rum.
-Quando verrà qui Jack Sparrow? – chiese, prima che si riaddormentasse.
Lui la guardò confuso, come se facesse fatica a metterla a fuoco.
-Sparrow… quello che vuole sempre essere chiamato ‘capitano’? –
-Ehm… credo di sì… - rispose più incerta Ethel.
-Allora… oggi è… che giorno è? Ah sì, è il quattro… direi tra circa un mese. Trentadue giorni, per l’esattezza. –
-Cosa? Un mese? Ma sei sicuro? –
-Non ho mai sbagliato, io… - e con questo si riaddormentò. Ethel rimase imbambolata per un attimo.
-C’è sempre una prima volta – lo informò, più per dare coraggio a sé stessa, in realtà, dato che l’altro stava già riprendendo a russare.
Ethel andò al molo e si sedette lasciando le gambe a penzoloni. Un mese… decisamente troppo tempo. Eppure non aveva altre soluzioni. ‘Ho aspettato due anni, cosa vuoi che sia un mese? ’ continuava a chiedersi, eppure era certa che sarebbe stato il mese più lungo della sua vita. Controllò i soldi. Se tornava in quella locanda, ne avrebbe avuti abbastanza per una settimana circa, compresi i pasti. Aveva già pagato pranzo e cena per quel giorno.
‘Devo trovare un posto più economico. ’

 

Erano passate quattro settimane dall’arrivo di Ethel a Tortuga. Ventotto giorni. Ancora quattro, e Jack sarebbe arrivato. Ethel aveva trovato una specie di albergo molto più modesto, ma i soldi non le sarebbero bastati comunque, così aveva ripreso i panni di Ethel abbandonando Andrew, e si era messa a fare la cameriera in un pub meno frequentato rispetto ai primi che aveva visto. Era più tranquillo, e praticamente serviva ai tavoli solo rum.
Durante l’orario di lavoro aveva sentito due uomini parlare di Jack, e con la scusa di pulire il pavimento aveva ascoltato tutta la conversazione.
-Ma non era morto? Si diceva che fosse stato mangiato dal Kraken… - A quelle parole Ethel si era sentita gelare e si era morsa le labbra quasi a sangue.
-Anch’io lo credevo, ma se ti dico che c’era a combattere contro la Compagnia mi devi credere… -
-Ha! Come no! Sparrow che combatte? Lo vedo più come uno da fuga, hai presente? –
-Sì, però io c’ero, e ti dico che ha preso parte alla guerra, anzi, la Perla Nera era addirittura l’ammiraglia! –
-Ma non era stata mangiata dal kraken anche quella? –
-Ti ho detto di no! Qualcuno però gliel’ha rubata… e lui la sta cercando… come al solito! – entrambi gli uomini cominciarono a sghignazzare.
A quel punto Ethel si era accorta che il pezzo di pavimento che stava pulendo era fin troppo pulito, e che se avesse continuato avrebbe destato sospetti, così si era dovuta allontanare, a malincuore.
Almeno sapeva il nome della nave di suo padre. Perla Nera.
I quattro giorni residui Ethel li passò col cuore in gola, smettendo di andare a lavorare, tanto di soldi ne aveva abbastanza. Stava ore a rimuginare su cosa avrebbe dovuto dire e come, ma non le veniva in mente niente. Quei quattro giorni furono anche troppo veloci. La sera prima Ethel andò a dormire col cuore che le martellava nel petto, sempre che non fosse in gola. Ovviamente ‘a dormire’ per modo di dire. Non chiuse occhio fino alle tre del mattino.
Ethel si svegliò e per un attimo fu tranquilla, ma subito dopo l’ansia e l’eccitazione le invasero il cuore. Si alzò e si vestì, rigorosamente da maschio, ma lasciò i capelli sciolti e il cappello tirato in alto in modo che le si vedesse bene il viso. Prese lo zaino e andò al porto, dimenticando perfino di pagare. Non importava, aveva lasciato così tante cose nella stanza, potevano rifarsi con quelle, quando avrebbero capito che non sarebbe tornata. Al porto subì un’atroce delusione. La Perla Nera non c’era. Si sedette e aspettò. E aspettò. E aspettò. Finalmente, verso sera, un puntino nero fece capolino all’orizzonte. Non appena lo vide Ethel scattò in piedi. Lo fissò finché non riuscì a distinguere una nave, poi ogni albero, ogni vela, le ancore e perfino i cannoni. Era tutta nera. Non poteva essere che quella. Finalmente la nave entrò in porto. Un uomo, alto e con un occhio di legno, scese e assicurò le cime. Pian piano scese tutta la ciurma. Erano pochi e malmessi. Ultimo scese un personaggio davvero bizzarro. Dal modo in cui si comportava poteva essere solo il capitano. Il capitano Jack Sparrow. Suo padre. Finalmente. Scendendo lui non la vide, era impegnato a raccontare qualcosa gesticolando freneticamente a un uomo con le basette, che sembrava più sopportare che comprendere. Ma Ethel guardava solo suo papà. Sembrava un uomo molto strano, coi capelli lunghi rasta intervallati da treccine e perline. Pareva avere una bandana rossa, ma c’era buio e poi sopra indossava un tricorno, per cui Ethel non ne era troppo sicura. Quello di cui era certa era che aveva dei denti d’oro, due treccine nella barba e gli occhi truccati. Ma la cosa che lo rendeva più strano era il modo di muoversi: teneva le braccia quasi sempre per aria, e camminava dondolando, quasi fosse ubriaco.
Ethel lo seguì, lui e l’uomo con le basette, mentre la ciurma si disperdeva. Erano chiaramente diretti a una locanda. Si sedettero a un tavolo.
-Ma che fanno? – chiese Ethel a nessuno in particolare.
-Arruolano una ciurma, no? – le rispose un uomo decisamente ubriaco, che subito dopo si mise a rincorrere una donna. Ethel si voltò di nuovo e vide che in effetti stavano già parlando con un ragazzo che non poteva avere molti più anni di lei.
Automaticamente, senza pensare, si avvicinò al tavolo da cui il ragazzo si era appena allontanato contento perché era stato preso.
-Capitan Jack Sparrow? – chiese.
-Sono io – rispose Jack sorridendo –vedi Gibbs? Lei si ricorda di chiamarmi capitano! Perché gli altri no? –
Gibbs non rispose nemmeno.
-Cosa vuoi, ragazzina? – le chiese Jack.
-Voglio arruolarmi. –
Per un attimo nessuno parlò.
-Sei troppo giovane. E poi non prendo donne nella ciurma. Comprendi? –
-Quindi vuoi farmi credere di non aver mai navigato con una donna? –
-Certo – rispose Jack, ma il modo in cui Gibbs lo guardò a quell’affermazione valeva più di mille parole.
-Quanti anni avevi quando hai cominciato a navigare, capitano? – chiese poi.
-Io… tu quanti ne hai? –
-L’ho chiesto prima io. –
-Perché vorresti far parte della mia ciurma? – chiese Jack cambiando discorso.
-Ho le mie buone ragioni. –
-Che sarebbero? –
Ethel esitò.
-Ehm… so tirare di spada, e sono veloce a trovare una rotta. –
-Nient’altro? – Ethel cominciò a sudare freddo: era il momento della verità.
-In realtà sì… ma preferirei parlarti da sola. –
Jack sospirò e scacciò Gibbs scuotendo le mani. Ethel era ancora dubbiosa, così si alzarono e andarono nello scantinato dove tenevano il rum, e mentre Jack cercava di stappare una bottiglia, Ethel non sapeva che pesci prendere. Come doveva approcciarsi? Era meglio parlare prima di sua madre? Decisamente sì. Si stava preparando un discorso nella mente quando Jack la richiamò.
-Cosa dovevi dirmi? – chiese, bevendo a collo dalla bottiglia di rum che aveva finalmente stappato.
-Sono tua figlia. – mezzo secondo dopo averlo detto, Ethel desiderò non averlo fatto. Doveva essere più delicata!
Jack sputò il rum, cosa che secondo Ethel non era mai avvenuta a memoria d’uomo, e la fissò per un attimo, sconcertato.
Poi sorrise.
-Potevi inventarti qualcosa di meglio per farti prendere a bordo. –
Ethel divenne rossa di rabbia.
-E’ vero! – gridò –E’ vero, sono venuta qua da Londra, ti ho aspettato per un mese, ho passato due anni in orfanotrofio da quando mia mamma è morta, ti trovo e tu non mi credi?! – gli urlò contro.
-Certo che te la sei preparata bene, ma non ci casco. Ho bisogno di qualcosa che provi che tu non stia mentendo, senza le prove non sono sicuro che tu stia dicendo la verità, come potrei altrimenti io capire che tu non stai mentendo, non avendo le suddette prove, che mi dimostrerebbero la tua sincerità? Comprendi? – chiese, facendo andare in confusione la mente di Ethel.
Cosa aveva detto? Mentre cercava di sbrogliare quell’intrico di parole notò l’espressione di Jack, che era stranamente ansiosa.
-Mia mamma si chiamava Emma –
-Ho conosciuto un mucchio di donne di nome Emma, gioia. – le rispose il capitano.
-Benissimo – disse Ethel. Si strappò di dosso ciondolo e glielo scagliò addosso, gridando con voce acuta –eccola, la tua prova! –
Poi si voltò e scappò dal pub, corse finché non trovò la modesta locanda dove alloggiava, salì e entrò nella stanza, che dato che non aveva pagato e non aveva detto che se ne sarebbe andata, era ancora sua. Tutto era identico al mattino. Ovvio, perché sarebbe dovuta cambiare? Ma che tutto fosse uguale le era inconcepibile. Erano successe tante di quelle cose! Si sedette sul bordo del letto, troppo delusa anche per piangere. ‘E ora? ’ una domanda che l’assillava da quando era uscita dal pub. Cos’avrebbe fatto? Si distese sul letto e finalmente iniziò a piangere.

 

Intanto, nella cantina del pub, Jack non era più sicuro di nulla. Fissò per un attimo il punto in cui la chioma della ragazzina bionda era scomparsa, poi decise di vedere cosa gli aveva lanciato addosso. Si chinò e cercò a tentoni nel buio finché non trovò qualcosa. Lo sollevò e lo portò vicino a una lampada ad olio, anche se aveva già capito fin troppo bene di cosa si trattava. Fissò il ciondolo che lui stesso aveva regalato ad Emma tanti anni prima su una spiaggia. Ma se aveva il ciondolo, quella ragazzina era davvero…?
E poi cos’aveva detto? ‘Ho passato due anni in orfanotrofio dopo che mia mamma è morta. ’
Jack cercò di calmarsi, ma non era affatto facile. Ora che sapeva, doveva assolutamente ritrovare quella ragazzina… pazzesco, non sapeva nemmeno il nome di sua figlia. Mentre le pensava, quelle parole lo sconvolsero. Ma ora l’importante era ritrovarla. Uscì dalla cantina.
-Mastro Gibbs? –
-Sì, capitano? – chiese il fedele Gibbs, sbucando magicamente dalla folla.
-Hai visto dov’è andata la ragazzina? –
-Perché, se ne è andata? -  chiese Gibbs spaesato.
-Sì, se n’è andata, e faremo meglio a ritrovarla! –
-Ma… capitano… la ciurma… -
-La ciurma può aspettare! Ho cose più importanti per la testa, ora, Gibbs! – urlò, e così dicendo uscì dal pub, naturalmente senza pagare, con Gibbs che cercava di stargli dietro.
-Gibbs, se tu fossi una ragazzina sola a Tortuga, dove andresti per dormire? –
-Non lo so… in una locanda? –
-In quale? –
-Una… poco costosa? – tentò di nuovo Gibbs. Non sapeva perché, ma quella tipa aveva sconvolto parecchio il capitano… chissà cosa gli aveva detto?

Passarono la notte a setacciare locande. Erano quasi le tre del mattino quando finalmente una donna arcigna disse che c’era qualcuno che corrispondeva alla descrizione.
-Seguitemi – disse infine.
-Tu aspettami qua – disse Jack a Gibbs, poi iniziò a salire le scale dietro la donna.
Arrivarono a una porta, e la donna bussò senza troppa gentilezza sul legno.
-Ehi, tu svegliati – disse entrando e scuotendo Ethel per una spalla. –Hai visite. –

Ethel si sentì scuotere e si svegliò di colpo. Era perfettamente lucida, come se non si fosse mai addormentata.
-Hai visite – disse la donna. Poi uscì.
Ethel fissò la porta. Sull’uscio c’era Jack Sparrow.
-Allora, hai finito di dormire? Sulla Perla Nera c’è una cabina che ti aspetta, Miss… Sparrow – le disse lui serissimo.
-Ethel – lo corresse lei. – Ethel Sparrow –

-----------Ohi! Mio spazio! ----------------------------------------------------------------------

Ciao a tutti!
Sono finalmente riuscita a finire questo secondo capitolo, che è venuto più lungo di quanto volessi, ma non volevo dividerlo e non capivo cosa potevo tagliare. Devo dire che il primo l’ho scritto di getto, mentre questo è stato più complicato. Non mi arrivava l’ispirazione.
Comunque volevo solo dirvi di fare finta, mentre leggerete questa storia, che il quarto film e SOPRATTUTTO Angelica non siano mai esistiti. Non perché mi stia antipatica, poverina, ma per ragioni letterarie (sì, lo so, dicono tutti così… XD).
Lo so, ho cambiato un po’ di cose, ma mi servivano per la storia… (giustificazione scadente)
Non so se sono riuscita a rendere bene il personaggio di Jack. Se c’è qualcosa che non vi quadra, non abbiate paura di dirmelo.
Non so quando riuscirò ad aggiornare, spero che recensiate numerosi, intanto ciao a tutti, ciurma!
Capitan Taitou <3
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
 
L’emozione di Ethel fu indescrivibile. Il cuore rischiava di esploderle quando salì sulla Perla Nera per la prima volta. Era la più bella tra le tre navi su cui era stata fino a quel momento. Cominciò a correre di qua e di là, facendo innervosire Jack e Gibbs.
-Ma è bellissima! – esclamò Ethel dopo aver finito il quinto sopralluogo della Perla.
Jack sorrise. –Ed è anche la più potente, la più veloce… -
-La più modesta… - ironizzò Gibbs a bassa voce.
Jack tacque di botto, poi accompagnò Ethel alla sua cabina.
-Quando partiamo? – chiese Ethel impaziente.
-Tra due giorni. Domani sera dobbiamo riprovare ad arruolare una ciurma, comprendi? –
Ethel annuì. –E dove andiamo? – chiese, sempre più curiosa.
-In un posto pericoloso –
-Interessante. Dove sarebbe questo posto pericoloso? –
-Piuttosto lontano. Ma il pericolo sta nell’arrivarci. –
Ethel lo guardò senza capire.
-Ora ti lascio sola. Dovrai riprenderti da Tortuga –
-Può darsi – disse Ethel, pensando che comunque erano ancora ancorati lì. Forse era Jack ad aver bisogno di riprendersi, pensò. Dopotutto lei aveva avuto due anni, lui giusto qualche ora. Jack stava uscendo quando si fermò, si voltò e le lanciò il ciondolo. Ethel lo prese al volo.
-Ethel… Emma è davvero…? –
Ethel sospirò. –Sì –
Né Ethel né Jack chiusero occhio per il resto della notte. Ethel era troppo emozionata, aveva finalmente ritrovato suo padre, e ora era sulla sua nave!
Jack invece era sconvolto e triste. Si ricordava bene di Emma, era stata una sua grande amica, ma anche qualcosa di più. Poi lui era partito, ma non immaginava certo che Emma fosse incinta! Anche se forse, in effetti, sarebbe partito comunque… e ora all’improvviso compariva questa Ethel dal nulla che gli diceva di essere sua figlia e che Emma era morta. Gli ci volle tutto quel che rimaneva della notte, e anche un po’ della mattina, per rendersene conto seriamente. Gli sembrava di vivere in un sogno.
Non riuscendo a dormire Ethel decise di andare a vedere l’alba a prua.  Si sedette sul parapetto, lasciando le gambe a dondolare verso l’oceano, e si perse a fissare i raggi del sole che spuntavano all’orizzonte.
-Ohi! Scendi da lì, Ethel! –
Ethel si voltò e vide Jack che le veniva incontro. Scese dal parapetto e tornò sul ponte della nave, che ora vedeva meglio, grazie ai primi raggi di sole.
-Guarda che non cado! – disse, però allegramente.
-Non si può mai sapere… metti che qualcuno decida di prenderci a cannonate! –
-Perché dovrebbero prenderci a cannonate?! Non abbiamo ancora fatto niente! –
-Gioia, tu non hai ancora fatto niente. Il sottoscritto va per mare da molti anni e si è fatto parecchi nemici nel corso della sua carriera… -
-Debiti? – lo interruppe Ethel con un mezzo sorriso.
-E tu come lo sai? –
-Chiedendo informazioni… un uomo mi ha detto che non restituisci mai i soldi! – e scoppiò a ridere.
-Può essere successo che mi sia trovato momentaneamente senza soldi, e che si siano quindi diffuse voci non vere – Jack sembrava quasi ferito nell’orgoglio.
-Comunque – riprese Ethel tornando seria –puoi spiegarmi meglio dove andiamo? –
-C’è un tesoro che permette a chi lo possiede di andare per mare in eterno. E in più accumuleresti ricchezze inestimabili… l’unico problema è il modo in cui bisogna recarsi al luogo in cui è nascosto. –
-Cioè? –
-Sai cos’è una tromba marina? –
-Ehm… più o meno… -
-Una volta ogni dieci anni una di queste trombe d’acqua apre l’accesso per il tesoro. E’ questo il pericolo. Per trovarlo dobbiamo gettarci con la Perla dentro questo fenomeno. –
-Cosa?! Stai scherzando?! – chiese Ethel spaventata.
-No gioia, mai stato più serio –
-Secondo me moriremo tutti. E’ solo una leggenda! –
-Non sai che le leggende hanno sempre un fondo di verità? –
-Quand’è che dovrebbe comparire questa tromba d’acqua? –
-Tra tre mesi. Abbiamo tutto il tempo di trovare il posto giusto. –
-Perché, non sai dove comparirà? –
-Certo che lo so, ma è piuttosto lontano, quindi è un bene avere tre mesi per raggiungerlo –
Ethel sperò con tutto il suo cuore che quella storia fosse totalmente una leggenda, e che quindi non sarebbe nemmeno comparsa la tromba marina. Gettarcisi dentro le sembrava una follia. Com’era possibile che Jack volesse farlo davvero?
Ethel tornò in cabina, terrorizzata, anche se non era sicura di cosa fosse una tromba d’acqua. Voleva vederci chiaro. Silenziosa, uscì dalla cabina e si diresse verso quella del capitano. Spinse la porta e si avviò verso a un tavolo disordinatissimo con sopra tante cose che le sembrava impossibile stesse ancora in piedi. C’erano molte bottiglie di rum, e quando si avvicinò Ethel scoprì che erano tutte vuote. Poi notò le carte nautiche. Erano bellissime. Prese una sedia lì vicino e si sedette, continuando a osservare le carte. Erano molto dettagliate. Ne trovò una con l’Inghilterra e seguì col dito la distanza che aveva percorso per arrivare ai Caraibi.
-Incredibile… - mormorò sovrappensiero. Poi passò agli attrezzi. Tra tutti la bussola era quella che l’appassionava di più. Le piaceva l’idea di un ago che ovunque tu fossi punta sempre nella stessa direzione. L’aprì. L’ago era impazzito. Girava e rigirava senza fermarsi mai se non pochi istanti e sempre in direzioni diverse. ‘E’ rotta… ’
Pensò Ethel. ‘Forse è meglio dirglielo, o ci perderemo subito… ’ poi riprese a cercare la tromba d’acqua. C’erano alcuni grossi libri. Ne prese uno e cominciò a sfogliarlo. Niente. Poi passò agli altri. Fortunatamente Jack doveva avere qualcos’altro di più importante da fare, perché non si fece vivo per tutto il pomeriggio. Quando era quasi ora di cena Ethel uscì e tornò sul ponte. Non aveva trovato niente.
Jack ricomparve magicamente di fianco a lei, che si prese uno spavento e sussultò.
-Perché sei comparso così all’improvviso? –
-Volevo solo dirti che scendiamo a Tortuga a mangiare –
-Oh, va bene… -
Appena arrivati davanti all’osteria, Jack disse:
-Mastro Gibbs, tu precedici pure. Noi dobbiamo andare a prendere una cosa. –
-Cosa? –chiesero in coro Ethel e Gibbs.
Jack prese Ethel per mano e la condusse per le vie di Tortuga finché non trovarono un negozietto piccolo e dall’aria piuttosto squallida.
-Dove stiamo andando? – chiese Ethel esasperata.
-A comprarti una pistola –
-Una pistola? –
-Certo, e fidati, ti tornerà molto utile, comprendi? –
Dopo aver preso una pistola in un negozietto piccolo e squallido con un uomo dietro il bancone dall’aria particolarmente truce, tornarono a mangiare da Gibbs.
-Però dovrai insegnarmi a usarla, questa pistola – disse Ethel mentre entravano nel locale.
Fu una serata molto strana. Ethel, Jack e Gibbs mangiarono in una locanda molto affollata, ma che secondo Jack serviva ottimo rum. Poi cominciarono ad arruolare la ciurma. Molti di quelli che si presentavano erano ubriachi, ma evidentemente questo dettaglio non costituiva un problema, perché tanti venivano presi comunque.
Tornarono alla Perla a notte fonda.
-Domani partiremo all’alba – decise Jack.
Poi Ethel andò nella sua cabina e finalmente si addormentò.
All’alba del mattino dopo fu svegliata dai rumori che venivano dal ponte di coperta. Corse subito a vedere e sorrise, nel constatare che dovevano ancora partire. Finalmente lasciava Tortuga. Jack le si avvicinò.
-Volevi che ti insegnassi a usare la pistola? –
-Sì! Quando iniziamo? –
-Questo pomeriggio. Prima dobbiamo uscire dal porto e stabilire la rotta –
Ethel annuì contenta.
Ethel si rese conto che trovare una rotta non era così facile come aveva sempre immaginato. Qualche volta aveva provato a inventare viaggi, ma le sue rotte erano sempre state più semplici. In più, sapeva che la bussola era rotta, quindi non poteva nemmeno fare affidamento su quello.
Stava proprio pensando alla bussola quando Jack l’aprì e cominciò a fissare l’ago. Voleva dirgli che la bussola era rotta, ma così avrebbe dovuto ammettere di essere entrata di nascosto nella sua cabina, così tacque, pensando che se ne sarebbe accorto comunque. Fu con grande sorpresa di Ethel, dunque, che la bussola si stabilizzò in una direzione precisa. Sebbene fossero in una cabina di una nave, Ethel guardò nella direzione indicata dalla bussola e restò quasi accecata. La bussola indicava il sole che era appena sorto.
-Ma una bussola non dovrebbe indicare il Nord? – si decise a chiedere alla fine.
-Questa è una bussola un po’ speciale… - rispose Jack evasivo.
Ethel preferì non approfondire. Non voleva nemmeno immaginare dove sarebbero finiti seguendo una bussola che non sempre funzionava e che, nei rari casi in cui si poteva usare, indicava l’Est.
Quando ebbero trovato la rotta, Jack andò sul ponte a preparare la partenza. La ciurma era molto indaffarata, tutti correvano dappertutto a sistemare le vele e le cime. Jack prese il timone, e Ethel osservò con felicità che Tortuga si allontanava sempre di più. Presto furono in mare aperto, diretti verso una pazzia.
Quel pomeriggio, come Jack le aveva detto, cominciarono a usare le pistole.
-Allora, tienila con la mano morbida ma non troppo, se sbagli ti si potrebbe rompere il polso –
-Cosa? – chiese Ethel preoccupata.
-Tranquilla, non preoccuparti... ora con il pollice devi abbassare questo cosino di ferro qua dietro, poi miri e ora… spara! –
-Ma a cosa posso sparare? –
Jack rimase per un attimo pensieroso, poi sorrise e uscì, tornando poco dopo con in mano una gabbia. Dentro di essa c’era una scimmietta.
-Puoi sparare a questa! – esclamò Jack tutto contento.
-A una scimmia? Ma poverina! –
-Non ti devi preoccupare… è una scimmia non-morta! –
Ethel però non era ancora convinta, anzi, era piuttosto scioccata. Ma la stava prendendo in giro? Jack prese la sua pistola e sparò per primo alla scimmia, che rimase in vita.
Ethel era sconcertata. Una scimmia non-morta?
-Avanti, spara! - la incitò Jack, così Ethel cominciò a fare pratica sulla scimmia. Quando le aveva sparato già quattro o cinque volte, le venne un dubbio.
-Ma… non è che anche se non può morire prova dolore? –
-Non ne ho la più pallida idea, ma spero di sì –
-Sei crudele! –
-Quella scimmia mi ha rubato il cappello! –
-Ma se ce l’hai in testa! –
-Me lo sono dovuto riprendere con molta fatica… l’aveva gettato in mare! –
Ethel evitò di fare altre domande. Continuò a sparare alla scimmia, anche se si
sentiva un po’ in colpa. 
Dopo alcuni giorni di allenamento Ethel aveva migliorato molto la sua mira.
La Perla Nera scivolava tranquilla sul mare. Era un tardo pomeriggio, e a est le nuvole si stavano addensando. Gibbs aveva più volte cercato di convincere il capitano a cambiare rotta, ma non c’era stato verso. Jack voleva arrivare il prima possibile alla meta, anche a costo di passare in mezzo a una tempesta.
Ethel dal canto suo era un po’ preoccupata, ma pensava che avrebbero potuto farcela.
Non ci volle molto perché cominciasse la tempesta. Era arrivata senza preavviso, neanche un po’ di vento, niente. Semplicemente, a un certo punto, si erano ritrovati all’inferno. Le onde erano altissime, il vento faceva schioccare le vele, e la pioggia cadeva a fiumi, producendo sul mare un boato assordante. La ciurma non riusciva più nemmeno a sentire gli ordini gridati da Jack.
Ethel si sentiva travolta dal caos. Era completamente fradicia, per l’effetto combinato della pioggia e delle onde che si abbattevano sul ponte. Non sapeva cosa fare. Così rimase ferma a fissare l’andirivieni dei marinai che cercavano di mantenere, impresa non facile dato che la Perla veniva sballottata dalle onde in ogni direzione. Incredibilmente, Ethel non aveva paura. Aveva avuto paura a Londra, durante la traversata dall’Inghilterra ai Caraibi, aveva avuto paura a Tortuga e perfino di conoscere Jack. Ma, in quel momento, era sì travolta dagli eventi e dalla situazione, ma non era spaventata.
Sorrise tra sé e sé mentre si spostava le ciocche di capelli fradici e si toglieva l’acqua dagli occhi. Poi Ethel si mise a correre e raggiunse la prua. Era impressionante. L’albero di bompresso fendeva l’acqua e la Perla rimbalzava sulle onde. La prua veniva continuamente sollevata in aria per poi ricadere con un tonfo sul mare.
-Ethel! Torna subito in cabina! – le ordinò Jack urlando appena la vide, e Ethel udì a stento le sue parole.
-No! E’ bellissimo qua! – disse lei di rimando, sempre urlando per sovrastare il rumore della tempesta.
-E’ pericoloso! – disse di nuovo Jack.
-Ma no… - disse Ethel che però non fece in tempo a finire la frase. La prua si alzò all’improvviso, e Ethel, impreparata, sentì i piedi staccarsi dal suolo e venne scagliata in aria. In quel momento ebbe davvero paura. L’aria le mancava e allo stomaco aveva un fastidioso senso di vuoto.
Però, per fortuna, durò poco. Atterrò in malo modo sul legno bagnato e scivoloso, ma confortante, della Perla. Tirò un sospiro di sollievo: aveva davvero temuto di cadere in mare. Poi guardò Jack.
-Ehm… mi sa che alla fine ci vado, in cabina… - così dicendo si alzò e corse sbandando sotto coperta.
Il vento si stava ingrossando, e la nave ondeggiava paurosamente. Ethel passò il resto della notte a cercare di distinguere qualcosa nel buio attraverso l’oblò. Furono speranze vane. Tra la pioggia e le onde che vi si abbattevano, era già tanto riuscire a vedere i fulmini.
 
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Okay, allora… cosa dire? Questo è il nuovo capitolo. Avrete già capito che io ad aggiornare sono una tartaruga, ma vi chiedo scusa comunque per l’attesa. Spero che la storia piaccia, e mi raccomando di recensire! ;) credo di aver detto tutto, quindi alla prossima!
Taitou
 

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