The strange case of Dr. Reid and Mr. Outside di AlexEinfall (/viewuser.php?uid=296052)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sangue ***
Capitolo 2: *** Jordan ***
Capitolo 3: *** Tempo ***
Capitolo 4: *** Metro ***
Capitolo 5: *** Angelo ***
Capitolo 6: *** Scintille ***
Capitolo 7: *** Manette ***
Capitolo 8: *** Resa ***
Capitolo 9: *** Alias ***
Capitolo 10: *** Monitor ***
Capitolo 11: *** Lucas ***
Capitolo 12: *** Start ***
Capitolo 1 *** Sangue ***
Introduzione:
quando un eroe diviene il peggior nemico dell'umanità,
quando ogni indizio conduce allo smantellamento di una maschera di
bontà, quando è il cacciatore a divenire preda,
chi potrà essere ancora dalla sua parte? Se Spencer Reid, un
giorno qualunque, si risvegliasse con le mani sporche di sangue, chi
potrebbe salvarlo dall'oblio? Tra lo spettro della dipendenza
e qualcosa di molto diverso e più oscuro, la strada per la
soluzione dell'enigma non potrà essere percorsa in
solitudine.
Note: Questa
fic era nel mio cassetto elettronico da troppo tempo. Ci ho messo un
bel po' d'anima, di fatica e di divertimento per partorirla e poi ho
deciso di rinchiuderla. Credo sia arrivato il momento di rischiare, di
condividerla e di liberarla. Le storie non sono fatte per ammuffire in
un angolo!
Questa long non è molto long: appena 11 capitoli. Spero che
piaccia e magari emozioni, ma, come sempre, senza pretese.
Buona lettura!
Ax.
The strange
case of dr. Reid and mr. Outside
1
Sangue
Non c'è uomo
più sperduto di chi ha smarrito la via
nell'intrico della
propria mente,
dove nessuno
può raggiungerlo e nessuno può aiutarlo.
Non c'è uomo
più disperato di chi non riesce a ricordare.
Isaac Asimov
Sangue.
Nella nebbia della droga si era chiesto, tre o forse quattro anni
prima, che odore potesse avere il sangue di un'altra persona sulla sua
pelle. Possibile, si era chiesto, che le molecole odorose di qualcun
altro, mischiate alle mie, possano dare come risultato un buon aroma?
Soprattutto lo incuriosiva il pensiero che la morte, a contatto con la
sua pelle, forse avrebbe avuto l'odore della vita.
I minuti scorrono in modo irregolare: a volte in sessanta
secondi, altre sembrano impiegarci meno di un istante. Ma il tempo non
può piegarsi su se stesso, saltellendo impazzito come una
rana; almeno non in questo universo e non in una mente sana. Questo il
dottor Spencer Reid lo sa bene e potrebbe snocciolare in meno di tre
minuti, ora reale si intende, nozioni ben precise sul tempo. Eppure le
certezze accumulate nel cervello sembrano sgretolarsi davanti allo
specchio, che gli rimanda l'immagine di un sé sporco,
stanco, irreale. Da quando ha aperto occhio nulla gli è
sembrato vero.
Si stringe nelle spalle, mentre un brivido percorre ogni
centimetro del corpo, fissandosi nelle ossa. Sente freddo, nudo nel suo
bagno, di fronte a quello specchio. Trema, ma non riesce a muoversi.
Nel lavandino giace una maglia color panna, intrisa di un
rosso che diventa sempre più marrone. Non sa da dove venga,
ma è con quella maglia indosso che si è svegliato
nel suo appartamento meno di un'ora fa. Tutta la parte centrale del
tessuto è occupata da un lungo getto di sangue, che si
è espanso nel tempo- ha calcolato che ci siano volute almeno
otto ore. Ha voluto credere non fosse vero, ma usando la sua scorta di
luminol su quel maglione, non ha avuto più dubbi: nel giro
di tre minuti, nel buio ermetico del bagno, è apparsa la
luminescenza rivelatrice.
Si guarda le mani: tra le falangi si è depositato
del liquido, che ora è diventato una pasta marrone. Sembra
essergli penetrato nella carne. Preso da un'impeto di disgusto, afferra
il flacone di candegina e sta per versarla sul maglione, ma ci ripensa.
Dall'armadietto prende un paio di forbici e ricava una striscia di
tessuto, che infila in un sacchetto ben chiuso. Questo semplice gesto
ha il potere di tranquillizzarlo: porterà il campione in un
laboratorio e lo farà analizzare. Ma la prospettiva di
quello che potrebbe accadere lo getta nello sconforto. Si abbandona al
muro, si lascia scivolare a terra e resta immobile a fissare il
soffitto.
Possibile che io abbia ucciso?
Vorrebbe dire di aver passato una serena notte nel suo letto,
di aver letto fino ad addormentarsi con un volume aperto sul torace che
si sollevava ed abbassava, mentre le fasi del sonno scivolavano via
fino al prodigioso mattino pieno di luce e normalità. La
verità è che se qualcuno gli facesse la
famosa e tormentosa domanda: «Dov'era ieri notte dalle nove
a...bhe, al mattino?» Spencer Reid potrebbe solo rispondere,
tra affannose ricerche: «Non ne ho idea.»
Lui è quasi certo di aver lasciato gli uffici del
BAU verso le otto di sera. Ha discusso con Rossi, circa la
responsabilità morale e intellettuale di condannare una
persona che non abbia memoria dei suoi crimini.
L'ironia
della vita.
Ha preso la metro per tornare a casa, ma non è
sicuro di aver varcato la soglia. La sua vita nello spazio temporale
compreso tra le nove della sera prima e il momento attuale è
un pericoloso buco nero, che risucchia nell'oblio anche i ricordi
più fermi. Forse si è fermato in un bar, dove ha
bevuto frettolosamente un cognac, oppure questo è accaduto
la sera prima: le immagini nella mente sono deboli e offuscate. Quando
dubiti della tua memoria, nulla è più certo.
Non ricordare, per Spencer, è come non vivere.
La testa gli esplode. Fino al quel momento, non avrebbe
potuto credere che una frase così imprecisa e comune potesse
essere la descrizione più fedele di un dolore fisico. Se
fisico si può chiamare quel pesante macigno che gli comprime
il cervello. Gli sembra che il liquor cerebrospinale si stia
condensando, premendo sulle pareti fragili della sua mente. Riconosce
come la paranoia lo stia inquinando, ma non riesce a liberarsene.
Il telefono prende a squillare sul lavvabo, diffondendo il
suono suono acuto attraverso la porcellana. Si alza così in
fretta che per un attimo tutto diventa nero. Si preme i pugni sugli
occhi e pian piano la vista torna nitida.
Morgan.
«Sì?»
«Hei, ragazzino. Quanto ti ci vuole per
prepararti?»
Spencer aggrotta le sopracciglia. Forse ha dimenticato di
avere un appuntamento, forse non sa neanche che ora sia.
«Scusa?»
«Sto passando a prenderti» dice, ma poi
si accorge dal silenzio che l'altro è disorientato.
«Hotch mi ha chiamato, abbiamo un caso.»
Spencer vorrebbe controllare l'orologio da polso, ma non
sembra essere nei paraggi. In realtà, non ricorda di averlo
tolto mentre si spogliava. «Ok, bene.» risponde
frettoloso e riaggancia bruscamente.
Rimane inebetito con il telefono nel palmo della mano
sporca. Poi si riscuote e apre il rubinetto della doccia. Sentire la
voce di Morgan, così reale e familiare, lo ha riportato nel
mondo in cui lui non ha mai commesso alcun crimine, dov'è il
piccolo genio di una squadra formidabile che da' la caccia a persone
realmente colpevoli. Più tardi darà uno sguardo
ai notiziari: forse c'è stato un incidente e lui non lo
ricorda, per via dello shock.
E se...
Un dubbio gli fulmina la mente. L'altroce sensazione di aver
commesso un errore, così vecchio e così sporco,
lo sconvolge. Sotto l'acqua calda controlla l'incavo del gomito. Le
vene gonfiate dall'agitazione e dalla temperatura sono l'unico segno
che vi trova. Controlla anche le caviglie: niente punture. Sospira,
mentre un pensiero macabro e ironico lo colpisce: avrò anche ucciso, ma
almeno non sono ricaduto nel vizio della droga.
Venti minuti dopo è in piedi sul marciapiede,
stretto nel cappotto, la tracolla sulla spalla che gli pesa
più del solito, quando vede il SUV frenare e Morgan
sorridergli dalla cornice del finestrino. Sembra quasi tutto normale,
ma sul dorso delle mani sente ancora la sensazione del sangue, come uno
strato appiccicoso di miele che non va via.
«Tutto bene?»
Spencer si risistema sul sedile, a disagio.
«Sì, certo.»
«Hai una brutta cera. Sicuro di aver fatto
riposare quel super-cervello?»
Gli angoli della bocca vengono tirati in un sorriso stanco e
forzato, poi il ragazzino scuote la testa. «Più o
meno.»
L'altro si fa più serio. «Ancora mal di
testa?»
Spencer vede un'occasione di fuga da quell'indagine scomoda.
«Sì, non ho dormito bene. Ma ora va
meglio.»
«Sicuro? Guarda che puoi tornare a casa e
riposare, parlerò io con Hotch. Sono sicuro che
lui-»
«No» quasi urla Spencer. Si schiarisce
la voce. «Non è necessario. Sto meglio, davvero.
Preferisco lavorare.»
Morgan è perplesso, ma capisce che è
meglio non insistere. «Come vuoi.»
Involontariamente, il suo istinto si attiva e,
mentre il dottore fissa oltre il finestrino, lui ne approfitta per
scrutarlo. Non gli sfugge il rossore degli occhi e il torturarsi
incessante delle mani, che sembrano volersi nascondere a vicenda.
C'è un certo alone che circonda il ragazzo e a
Morgan ricorda un periodo ben più nero, quando Spencer si
sentiva in colpa per il suo segreto, per quell'ago che gli perforava la
vena, sicuramente all'altezza della caviglia dove nessuno avrebbe
cercato. Nessuno a parte Morgan.
Si da uno schiaffo mentale. Non essere stupido, quella
è storia vecchia. Perché Spencer non potrebbe mai
essere così stupido, non due volte. Questo farebbe di lui un
idiota. Mentre si ripete queste rassicuranti teorie, Derek
sa che l'intelligenza non ha nulla a che vedere con la
capacità di sconfiggere i propri demoni.
Decide quasi automaticamente di tenere d'occhio Spencer, a
costo di stargli col fiato sul collo.
Da qualche parte nel
cielo tra Washington e Georgia.
Ad Atlanta una donna è stata strangolata con una
cinghia di cuoio, il corpo scaricato in un vicolo. Non c'è
sangue in quelle foto, nemmeno una goccia, ma le mani di Spencer non
riescono a non avere un lieve tremito. In un angolo del jet, seduto
lontano dai finestrini, dovrebbe meditare sul caso presentatogli poco
più di un'ora prima, ma la sua mente scivola ostinata verso
altri pianeti. Si massaggia le tempie, abbandonando il fascicolo sulle
ginocchia, e cerca di pensare lucidamente.
Forse
è solo suggestione, si dice. Essere un profiler e vedere, a
volte subire, tanta violenza rende paranoici.
Vorrebbe davvero crederci, ma qualcosa sembra spingere
dentro di lui per buttarlo in un'altra direzione, faccia a terra. Cerca
di rassicurarsi: prima di partire ha lasciato il campione di sangue ad
un laboratorio fidato e discreto. Ma questo non diminuisce la sua
ansia, perché la mente comincia automaticamente a
congetturare: a
quest'ora avranno già un riscontro positivo per il sangue
umano e al ritorno sarà pronto il profilo del DNA, e
allora...
«Reid? Ci sei?»
Alza di scatto lo sguardo e incontra gli occhi di JJ, che
attende la risposta a una domanda che il dottore non ha neance
percepito. Tutti lo stanno fissando e tutti tornano ai loro fascicoli,
quando Spencer riesce a tirare fuori qualche parola convincente e
ipotesi improvvisate. Tutti attribuiscono quella temporanea assenza
alle bizzarrie del dottore, tutti tranne Morgan, che ascolta e osserva
in silenzio, mentre i pezzi di un puzzle comportamentale vagano nella
sua mente, senza riuscire a incastrarsi.
Forse è solo suggestione, pensa. Essere un profiler e vedere
tanta violenza rende sensibili, ti fa sviluppare un sesto senso per il
pericolo. Eppure...
Morgan sospira, mentre una rabbia stanca gli monta in
petto. Potrà anche trattarsi di paranoia, ma la paura che
sente è reale e gli dice che Spencer si è
cacciato di nuovo nei guai.
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Capitolo 2 *** Jordan ***
2
Jordan
Di me stesso so solo quel tanto
che riesco a capire
nelle mie attuali
condizioni mentali.
E le mie attuali
condizioni mentali non sono buone.
Douglas Adams
Atlanta,
Georgia.
Secondo le prime formulazioni dell'antropologia
criminale¹, un assassino nato è irrecuperabile e
primitivo, presenta tratti fisiognomici caratteristici che lo
allontanano dalla possibilità di vivere con gli altri esseri
umani, perché in realtà non sono suoi simili.
Più di cento anni di storia della mente separano il BAU da
queste antiche teorie, eppure Spencer rimane inebetito dietro lo
specchio unidirezionale. Oltre la lastra di vetro, Hotch siede di
fronte al sospettato: un ragazzo giovane dalla storia personale intrisa
di disturbi mentali. Il dottore non può fare a meno di
guardare con curiosità morbosa quel viso: i lineamenti dolci
da adolescente mai sviluppato, i ricci castani che appaiono setosi,
seppure non curati, e gli occhi grandi, ma sfuggenti.
Il suo nome è Douglas Adams. Il solo sentirlo,
gli ha scatenato una manciata di ricordi, pescati dai libri letti da
ragazzo.
Il mio Universo sono i miei
occhi e le mie orecchie. Tutto il resto è
supposizione.²
Questa la frase che gli è venuta in
mente, guardando per la prima volta la foto di quel ragazzo. Vorrebbe
avere una soluzione così semplice, ma i suoi occhi e le sue
orecchie lo portano a una sola conclusione: la sua mente lo sta
lentamente abbandonando. Si chiede se quel ragazzo, Douglas Adams,
abbia provato la sua stessa terribile paura, nel momento in cui si
è reso conto di aver strangolato una perfetta sconosciuta.
Questo pensiero riesce a terrorizzarlo ancor di più: non si
era mai reso conto, prima d'ora, quanto profonda potesse essere la
paura di aver tolto una vita. Cerca di pensare che le sue sono solo
supposizioni, ma non credere ai propri sensi è troppo
difficile, perché sente ancora l'odore del sangue, il suono
dell'ammoniaca che scivola nel lavabo e il fastidio della pelle tesa da
troppi lavaggi.
Tornando a Douglas Adams, il dottore si scopre a
chiedersi se anche lui abbia lo stesso sguardo anormale. Quel
ragazzino non è certo il ritratto di un mostro, ma Spencer
non ha dubbi: «E' lui,» mormora
«è stato lui.»
Morgan aggrotta le sopracciglia. «Quale
connessione ha creato il tuo bel cervello?»
«Nessuna. Gli indizi e il profilo conducono in una
direzione, ma è solo un orientamento. Le certezze possono
arrivare senza prove, sono...esistono. Non posso spiegarmelo.»
«Un uomo di scienza come te si affida al sesto
senso?» lo beffeggia Morgan.
Reid ha un moto di fastidio e volta la testa di scatto,
fissandolo con un astio che lo sorprende. Lui è
lì che lo canzona, che gli ricorda ciò che era
prima di quella mattina, e non riesce a tollerarlo. In un attimo si
accorge di odiare Derek e l'immagine che ha del gracile e bonario
dottor Reid, un essere ingenuo e innocente con il quale lui non si
ritrova. «Non credere di potermi conoscere così a
fondo.»
«Vuoi dirmi che ti prende?» ribatte
l'altro, fronteggiandolo con la sua possente aria da troppo
testosterone in circolo, tanto che Spencer riesce quasi ad avvertirne
l'effetto sulla parte istintuale del cervello.
«A me cosa prende?» lo beffeggia alzando
le sopracciglia. «Credi di sapere tutto, vero? Credi che
perché una persona sia innocente o...qualunque altra cosa,
basti che tu lo senta? Tu non capisci nulla.»
«E' di questo che si tratta? E' con me che hai un
problema?»
«Io non ho nessun problema» afferma poco
convinto. «Forse dovresti pensare ai tuoi di
problemi» rincara piccato. «Credi che io sia
stupido?»
«Di che diavolo parli?»
In quel momento la porta della piccola stanza, che sembra
sempre più stretta, si apre e Hotch fa capolino.
«Possiamo ritenere il caso chiuso»
annuncia il supervisore capo. Poi squadra entrambi e annusa la
situazione. «Cosa succede qui?»
Reid si affretta a parlare: «Nulla di
importante» dice, con l'intenzione di ferire il
più possibile. Poi guarda Morgan e aggiunge: «Non
starmi col fiato sul collo, non sono una tua
responsabilità.» Sorpassa Hotch, costringendolo a
farsi da parte, e scompare oltre il corridoio a passo svelto e
risoluto. Il supervisore lo guarda andar via e rivolge uno sguardo
interrogativo all'agente.
«Hai sentito, no? Lui non è mia
responsabilità» quasi ringhia Morgan, uscendo
anche lui e combattendo ferocemente contro l'istinto di rincorrere il
dottore.
Il viaggio di ritorno in jet è silenzioso. Tutti
avvertono la tensione, poiché si trovano nel mezzo di quel
muto conflitto: in un angolo siede Spencer, con lo sguardo perso nelle
proprie mani; all'angolo opposto Morgan guarda oltre il finestrino, con
le mascelle serrate e le sopracciglia corrucciate.
Dopo quel diverbio, non hanno più parlato l'uno
con l'altro e Spencer si è chiuso in un mutismo estremo,
rifiutandosi di proferir parola con chiunque. Negli ultimi tre giorni
la sua mente si è divisa: una piccola parte ha lavorato al
caso come a qualunque altro e ha costruito la facciata di una
normalità vacillante. Ma la parte maggiore della grande
testa del dottore è rimasta invischiata nella spirale della
paranoia: mentre guarda le dita sottili aggrovigliarsi tra loro, sente
la morsa al petto, che lo opprime da quella dannata mattina, stringersi
a cappio. Ora sa che, nel momento della caduta, sarà
inevitabile trascinare con sé la sua famiglia. Vorrebbe solo
far soffrire di meno, limitare i danni, arginare i confini. Si sente
travolto da ogni sorriso che gli viene porto, ogni tentativo di
avvicinamento, ogni premurosa attenzione rivoltagli. Se ne sente
colpevole, aggredito, impotente. Ma, soprattutto, si sente
irrimediabilmente solo.
Mentre il jet sorvola una tempesta in formazione, gli occhi
del dottore cominciano a inumidirsi.
Appena giunti in ufficio, dentro Spencer sorge il terrore
del ritorno a casa. Il mal di testa non lo lascia un attimo,
sprofondandolo nel dubbio di non essere in grado di giungere al proprio
appartamento senza drammi.
E se dovesse
accadere di nuovo? Se ancora perdessi l'orientamento e la memoria?
Riesce a bloccare JJ prima che salga sull'ascensore. Ha
atteso che tutti andassero via e che la ragazza, rimasta per sbrigare
delle pratiche, fosse pronta per ritornare dalla vera famiglia.
«Spence, tutto bene? Non sapevo fossi rimasto fino
a quest'ora.»
«Volevo rivedere il caso» mente il
ragazzo. «Stai tornando a casa?»
«Sì, Henry ha fatto un po' di capricci
e non vuole andare a dormire» risponde sorridente.
«Oh...»
«Qualcosa non va?»
«Nulla. Volevo chiederti un passaggio, ma se vai
di fretta non importa, prenderò la metro.»
JJ gli da una pacca amichevole sulla spalla, facendolo
lievemente sobbalzare. «Sei un fascio di nervi, Spence.
Meglio che mi assicuri che arrivi a casa sano e salvo.»
Il parcheggio sottorraneo è silenzioso
e umido. Mentre cammina, stringe le braccia al petto e cerca di non
pensare. Sa che, se qualcosa dovesse trasparire dal suo volto, JJ lo
noterebbe subito. Per distrarsi, si guarda attorno, soffermandosi a
leggere le targhe delle auto parcheggiate. Sono per lo più
piccole auto compatte, tutte scure, appartenenti ai dipendenti
notturni. Quasi giunti alla monovolume di JJ, qualcosa attira
l'attenzioe di Spencer. Fa un passo indietro e controlla meglio, sicuro
che qualcosa non vada.
«Spence?»
Si riscuote e guarda la collega con tono
interrogativo. «Questa di chi è?» chiede
indicando un'auto rosso scuro. JJ fa spallucce e sorride.
«Perché?»
«Hanno assunto qualcuno di
nuovo?» insiste Spencer: è sicuro di non aver mai
letto prima quella targa. In fondo lo avrebbe ricordato certamente.
«No...non lo so. Ha
importanza?» chiede JJ ridendo.
Reid abbozza un sorriso, guarda ancora quella
targa e poi fa spallucce, raggiungendo l'auto dell'amica.
Forse la sua paranoia comincia ad essere fin
troppo estrema.
Appena chiude la porta dell'appartamento, il telefono prende
a squillare. Fruga freneticamente nella tracolla, rischiando di far
cadere il cellulare nel rispondere.
«Sì?»
Una voce femminile, posata e calma, risponde:
«Hey! Sono io, Jordan.»
Sa di conoscere quel timbro particolare, ma non
riesce ad associare quel nome a qualcuno.
«Mi scusi?»
«Jordan Norris, ricordi?»
Uno spiraglio si apre nella mente del dottore, aprendo un
grosso occhio sul passato: Jordan, l'unico amore di Owen³, il
ragazzo che lui allora credeva d'aver salvato. Ora sa che, in
realtà, non c'è salvezza per quelli come lui.
Per noi.
«Oh, sì, certo. Mi ricordo di
te.»
Dall'altro capo del telefono proviene una risatina. Tutta
quella spensieratezza, malgrado i drammi del ricordo, lo intenerisce.
«Vorrei ben dire. Sono appena atterrata a Washington. So che
è tardi, quindi possiamo vederci anche domani
mattina.»
Spencer strizza gli occhi, confuso: di cosa sta parlando?
«Jordan, non credo di capire...»
«Ma come? Mi hai chiesto di venire a Washington,
per...sai, qualcosa che riguarda Owen...» gli dice,
bisbigliando in modo circospetto.
Spencer conferma e la saluta, con la sola intenzione di
riagganciare quell'assurda telefonata.
Poggia la schiena alla penisola della cucina e cerca di
ricordare.
Jordan Norris
soffre di un lieve ritardo mentale, nulla fa supporre deliri o idee di
riferimento.
Spencer conclude che l'ipotesi più
probabile è riconducibile a quella notte d'amnesia: deve
aver contattato la ragazza e ora non ne ha memoria. Ma
perché chiamare Jordan? E, soprattutto, cos'altro ha fatto?
Molla tutto dove capita e si dirige in bagno: ha davvero bisogno di una
doccia.
Sistemerò tutto domani, si dice. Deve esserci una spiegazione.
Mentre l'acqua calda gli penetra in ogni poro, i muscoli
riescono a rilassarsi e la mente sembra sciogliersi.
Tutto si
sistemerà.
¹Si parla della teoria di Cesare Lombroso, oramai sorpassate.
Per chi vuole approfondire, Cesare
Lombroso su Wikipedia
²Citazione tratta da Ristorante
al termine dell'universo di Douglas Adams.
³Episodio 16 della Terza stagione Memoria da elefante.
Note:
Ringrazio chi mi sta seguendo, chi sta commentando la mia storia e chi,
in fondo, mi sta spronando a pubblicarla.
Vi sono davvero grata.
Ax.
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Capitolo 3 *** Tempo ***
3
Tempo
La realtà
è quella cosa che,
anche se
smetti di crederci,
non svanisce.
Phillip K. Dick
Derek non si è ancora seduto al tavolo rotondo
della sala riunioni, che già Spencer prende parola:
«Dove siamo diretti?» guardando di sfuggita il
monitor. Si siede e inizia a dondolare nervosamente la sedia, tanto che
Derek può quasi sentire il piede tamburellare sul pavimento.
JJ controlla che siano tutti presenti, quindi fa un cenno al
capo Hotch.
«Non sarà necessario prendere il
jet» comincia rivolta a Spencer, che si raddrizza,
improvvisamente attento. «Lei» continua indicando
lo schermo con il telecomando, «è Madison Lorenz,
trentadue anni, single, senza figli. E questa è la foto del
suo corpo privo di vita. E' stato trovato all'alba da un passante, in
un vicolo dietro la biblioteca Arcana. Secondo il coroner, l'omicidio
è avvenuto cinque giorni fa, la notte prima della nostra
partenza per Atlanta. Malgrado il grosso squarcio all'addome, la causa
accertata della morte è una singolo colpo al petto, che
attraverso le costole ha trafitto il cuore con estrema
precisione.»
«L'ha uccisa in fretta e poi l'ha
sventrata?» si informa Rossi.
«Esatto. In più c'è
questo» JJ preme un pulsante e sullo schermo appare un
ingrandimento del volto della vittima. «Sulla fronte
è stato inciso il numero cinque. Ho chiesto riscontro: non
sono ducumentate altre quattro vittime morte in circostanza
simili.»
«Ciò vuol dire che dobbiamo aspettarci
altri quattro delitti.»
«Il comportamento è
organizzato» interviene Spencer, senza riuscire a guardare
negli occhi nessuno. «Non ha lasciato tracce e, malgrado la
ferocia dello sventramento, nella scena nulla fa presumere
disorganizzazione. La ferita all'addome è un eccesso di
violenza, che indica rabbia, ma fa anche parte della sua firma: non era
necessario, la vittima era già morta e lui lo
sapeva.»
«Che strano...» mormora Prentiss
guardando il fascicolo. Alza gli occhi e si spiega. «Mi
sembra di averla già vista.»
«Infatti è così»
risponde JJ, attirandosi l'attenzione di tutti. «E' surreale,
ma l'unità ha già conosciuto la vittima, con il
nome di Maddy. Ha collaborato come testimone nel caso Ronald
Weems¹. Era l'amica della seconda vittima.»
«Me la ricordo» mormora Prentiss.
«Strana coincidenza.»
«La riterremo tale fino a prova
contraria» sancisce Hotch. «Non lasciamoci
suggestionare.»
Rossi poggia i gomiti al tavolo. «Ricordo di aver
letto quel caso: tre prostitute pugnalate, ciocche di capelli asportate
e tutte abbandonate nella zona del Campidoglio. Qui il modus operandi
è completamente diverso.»
Derek lancia uno sguardo a Spencer, che tiene le mani
congiunte e sembra intento in chissà quale ragionamento.
«Reid, pensi sia possibile che sia stato Nathan
Harris?» Sono le prime parole che gli rivolge dopo Atlanta,
eppure per lui quella è, almeno in parte, storia passata. Ma
non riesce a nascondere una certa rudezza.
Il ragazzo sembra offeso da quella domanda e corruga la
fronte. «Assolutamente no.» Poi, accorgendosi degli
occhi della squadra puntati su di lui, si schiarisce la voce.
«Nathan è stato ospedalizzato ed è
ancora in istituto. Non è mai uscito. Il rischio di etero e
auto agressività è ancora alto...»
Le sue parole lasciano aleggiare uno strano silenzio di
sguardi, interrotto solo dalla voce di Prentiss, quasi conciliante.
«Guardate il braccio. JJ, puoi ingrandirlo? Ecco,
lì. C'è un orologio al polso, ma sembra un po'
fuori misura. Inoltre, è l'unico oggetto indossato dalla
vittima. Non è strano?»
«La scientifica lo ha analizzato, non credo sia
della vittima» concorda JJ. «Non è stata
trovata neanche un'impronta, del tessuto epidermico o sudore. Come se
fosse stato ripulito e messo di proposito. Un messaggio,
forse.»
Lo stomaco di Spencer si contorce e un'ondata di disgusto
gli sale alla gola. Morgan si accorge troppo tardi del suo malessere.
Mentre le ipotesi continuano, l'unica voce esclusa è quella
del ragazzino e, come se un'ombra gelida di negatività gli
sedesse accanto, Derek si sente spinto a voltarsi. Ciò che
vede lo sconcerta: il collega appare paralizzato, gli occhi sbarrati
che sembrano fissare il foglio, ma in realtà non vedono
nulla. Pallido come se mai avesse visto il sole, il battito accellerato
del cuore sembra quasi udibile. Il tocco leggero della mano di Derek
sulla sua lo fa sobbalzare vistosamente, interrompendo il dialogo nella
stanza.
«Reid, tutto bene?»
Il ragazzo si guarda un attimo intorno, come non sappia dove
si trovi.
«No...sì...devo andare in
bagno.» E quasi vola via dalla sedia ed esce dalla sala,
lasciando una scia di sgomento e preoccupazione dietro di sé.
L'orologio.
Il mio
orgologio.
Nathan. Owen.
Il riflesso operato dalla lastra metallica dietro il vetro
è stanco. Oltre lo specchio c'è solo lui, Specer
Reid, ma non riesce davvero a riconoscersi. Trema così forte
che neanche aggrapparsi al bordo di porcellana del lavobo sembra
fermarlo. Sente il sudore congelarsi sulla fronte e i capelli
appiccicarsi alla nuca, lì dove un alito freddo gli
accappona la pelle. Vorrebbe davvero credere alla reale esistenza del
fenomeno detto coincidenza:
l'accadere simultaneo e fortuito di due o più fatti o
circostanze diverse. Qualcosa che avviene senza volontà o
ragione apparente.
Ma per la stessa struttura della sua mente, Spencer Reid non
può credere che la coincidenza esista davvero.
Forse,
si dice, i fatti possono
essere spiegati senza drammi: devo aver assistito a un incidente, forse
sono addirittura stato coinvolto, anche se non sono ferito; in
conseguenza di ciò, ho perduto l'orologio e il ladro deve
averlo messo al polso della vittima; magari è stata la
vittima stessa a trovarlo e l'assassino, temendo di lasciare tracce, lo
ha ripulito prima di abbandonare il corpo.
Ma l'intuito del profiler sa che ci deve essere molto
più, sotto tutto questo. L'unico modo per essere certi
è ottenere il referto del laboratorio sul campione che ha
portato giorni prima.
Però prima, riflette, dovrebbe riuscire ad uscire
inosservato dal BAU.
Ha quasi raggiunto l'ascensore, quando la voce di Morgan lo
blocca. Preme il tasto di chiamata e spera che il meccaniscmo sia
più veloce del solito.
«Hei, Reid, dove vai?»
«A casa. Non sto molto bene.»
«Che succede?»
«Mal di testa» dice seccamente, senza
aggiungere nulla.
Morgan incrocia le braccia sul petto. «Dovremmo
parlare di quello che è successo.»
Spencer annuisce e sente l'ascensore salire veloce i piani.
Vorrebbe solo che quelle porte si aprano e lo inghiottano, lasciandolo
solo e libero dal fardello della menzogna. Vuole tornare a casa e
mettere in atto il suo piano, vuole scoprire che quel sangue
è di un povero disgraziato investito da un taxi o di un cane
abbandonata per strada.
Ma Morgan non sembra della stessa idea. «Sai che
questo silenzio può solo far male al nostro
rapporto.»
Spencer volta di scatto la testa, avvertendo un rossore al
volto molto fastidioso, a metà tra imbarazzo e ira.
«Morgan, non ne voglio parlare. Io...non voglio parlare.
Voglio solo tornare a casa a riposarmi.»
«D'accordo» si arrende Derek.
«Promettimi che quando starai meglio parleremo.»
«Lo prometto» dice
distrattamente, abbassando lo sguardo come un bambino che non vorrebbe
dover fare promesse.
Finalmente le porte metalliche si aprono e Spencer salta
dentro subito. Riesce a rivolgere al gollega l'ultimo sorriso, che cede
non appena l'ascensore riparte.
Ha la strana sensazione che nessuno, nemmeno Derek, lo
guarderà più con quegli occhi. Gli occhi
dell'affetto. Gli occhi con cui si guarda un innocente.
Spencer decide di passare per casa prima di andare in
laboratorio. Ha bisogno della sua auto e di un libro che lo aiuti a
smorzare un'eventuale attesa. Prende dalla libreria una raccolta di
Faust e la infila nella tracolla, quando il telefono di casa inizia a
squillare. Si precipita a rispondere.
«Sì?»
«Spencer, sono il dottor Lidford.»
Il battito accellera.
«Ho i risultati del test. Puoi venire a ritirarli
già domattina.»
«No» pigola. «Voglio dire,
devo saperlo: è sangue umano?»
Il neurochirurgo, avvezzo alla segretezza e a modi ben
più cauti e gentili, rimane incerto.
«Sì, è umano. Di una donna, per la
precisione. Schizzo arterioso. Con una ferita simile ci sono pochi
dubbi che sia ancora in vita.»
Spencer riattacca con un precipitoso ringraziamento. Deve
appoggiarsi per non svenire. Il cuore batte così forte che
gli duole il petto.
E' tutto vero. Ho ucciso una donna.
Malgrado i tentativi disperati di restare ancorato alla
realtà, sviene, accasciandosi al suolo come un bambino
stremato.
«Ti ha detto il motivo?» chiede Hotch,
incrociando le braccia al petto. Non è mai molto entusiasta
di sapere che un suo agente decide di abbandonare un caso senza
informarlo, tanto meno se la persona in questione è il
dottor Spencer Reid, che non ha mai lasciato un'indagine a
metà.
«Mi ha detto solo di sentirsi poco bene»
risponde Morgan, il volto rigido.
Hotch squadra il suo agente e annuisce piano. «Per
quanto accaduto ad Atlanta-»
«Questo non ha nulla a che vedere con
Atlanta.»
«Non interrompermi» sancisce il
supervisore capo, alzando una mano. «Che abbia a che vedere
con l'assenza di Reid o meno, non tollero questo genere di conflitti
nella mia squadra. Sai meglio di me quanto sia importante per dei
profiler esprimere i diverbi, piuttosto che scontrarsi senza
successo.»
Morgan serra i pugni fino a sbiancarsi le nocche.
«Io lo so bene, Hotch. Dovresti spiegarlo a lui!»
In quel momento ad Aaron torna in mente la voce di Gideon,
il giorno in cui decise di assumere uno Spencer Reid giovane e chiuso.
Quelli che tu
chiami limiti, sono solo potenzialità inespresse.
Aveva detto Jason. Spencer
conosce bene tutte le regole del vivere sociale, sa vedere reti di
connessioni tra persone dove io e te vediamo solo dinamiche. Lui,
Aaron, conosce tutto, ma non sa cosa significhi l'amicizia, o l'amore,
perché non sa guardarsi dentro oltre la propria mente. Ma
imparerà, sono certo che con noi imparerà.
Si chiede se non abbia deluso il suo vecchio amico.
«Un'ultima cosa» dice prima che Morgan
decida spontaneamente di congedarsi. «Perché sei
venuto a riferirmi queste cose? Non spettava a te.»
L'agente si acciglia, come se gli fosse stata posta una
domanda ovvia.
«Perché Spencer fa parte della
famiglia. E anche se a volte vorrei ammazzarlo, resta un mio
amico.»
¹Episodio 11 della Seconda Stagione, Eros e Tanatos.
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Capitolo 4 *** Metro ***
Note: Mi
scuso profondamente per aver tardato tanto, ma purtroppo ero priva di
qualunque connessione e con un trasloco in atto. Ringrazio di cuore chi
ha commentato e mi sta seguendo, spero mi accompagnerete fino alla fine
della storia.
A beneficio di chi ha cominciato a leggere questa storia all'inizio,
riassumo brevemente: Spencer si è cacciato nei guai (ti
pareva!) e Morgan lo intuisce, ma ancora non sa nulla. Sì,
perché il genio perde conoscenza e si risveglia con le mani
sporche di sangue (letteralmente e non). Un efferato killer sta
uccidendo a gran velocità e lascia dietro di sé
solo un indizio: un numero sulla fronte della vittima. Sotto il ponte
della morte, è già scorsa via una vita, quella di
Madison Lorenz, sulla sua fronte il numero 5 come oscuro presagio.
4
Metro
La vendetta è
un atto che si desidera compiere
quando si è
impotenti e perché si è impotenti:
non appena il senso di
impotenza viene meno,
svanisce anche il
desiderio di vendetta.
George Orwell.
Ci sono persone con le quali la vita è
poco clemente, ma la morte si mostra molto più gentile. Nel
caso di Madison Lorenz questo non può dirsi. Il corpo della
ragazza è disteso sul tavolo d'acciaio, in
quell'immobilità che solo l'assenza di battito vitale
può dare, qualcosa di diverso da ogni altra cosa. Rossi si
abbandona alla riflessione, nel tempo necessario all'attempato medico
legale per sfogliare velocemente il fascicolo.
L'esistenza di
una persona finisce in questo. Neanche cenere e polvere, nemmeno la
terra e il fango. Solo un insieme di cellule morte distese su un
asettico tavolo. Come molte prima e molte altre in futuro.
Dopo anni di profiling, è sempre questo il suo
primo pensiero alla vista di un corpo. Col tempo è diventato
solo più bravo a nasconderlo, così tanto che
quasi non lo tocca più. Non a livello cosciente, almeno.
Il medico comincia con il classico uhm di chi ha
davvero poco da dire e se ne dispiace. «La causa della morte
è la più ovvia: l'arresto del cuore. Tutto
considerato, ha sofferto poco.» Si gratta la barba grigia,
mentre passa in rassegna il corpo. «Lo sventramento
è avvenuto postmortem, i tessuti erano ormai privi di vita,
per questo il sanguinamento è stato piuttosto esiguo. Il
tossicologico è negativo, non aveva segni di aggressione
sessuale e non sembra essere stata spogliata e rivestita. Mancano anche
segni di difesa o costrizione...»
«Come è possibile?» chiede
Morgan. «Nessuno si lascia accoltellare al petto senza
difendersi.»
«Non so come sia possibile, ma è quello
che ho di certo da dirvi.»
«Che ci dice del marchio sulla fronte?»
interviene Rossi, chinandosi sul corpo.
«Fatto con uno strumento molto affilato, non
dissimile da un bisturi. Postmortem anche questo, è
certo.»
«Nessun segno di esitazione» riflette
l'italiano ad alta voce. «Il taglio è preciso,
vedi? È un lavoro pulito, eseguito con estrema
freddezza.»
«Poi ci sono lo sventramento e il colpo al cuore,
altamente simbolico.»
«Scusate, non capisco» interviene il
medico legale, togliendo gli occhiali. «Tutto questo cosa vi
dice?»
Rossi si raddrizza e lancia uno sguardo a Morgan.
«Che abbiamo a che fare con un criminale diverso dal solito,
e molto pericoloso. Ha conoscenze mediche e una rabbia feroce. Non si
fermerà finché non lo fermeremo noi.»
Morgan chiude con uno scatto il cellulare: nessuna
risposta al suo messaggio.
«È Reid?» chiede Prentiss,
alzando lo sguardo dal referto autoptico.
«Gli ho chiesto se va meglio, ma non mi ha
risposto.»
«Magari sta dormendo. Non ti stai preoccupando,
vero?»
Morgan sbuffa. «Certo che no, è adulto
e vaccinato.»
A Prentiss scappa un risolino che fa accigliare il collega,
quindi si affretta a rispondere: «Voglio solo dire che
diventi un po'...mamma chioccia quando si tratta di Reid.»
In quel momento JJ fa il suo ingresso nella sala.
«Hei, JJ, ti sembro una mamma chioccia?»
La ragazza passa lo sguardo tra i due. «Che state
combinando?»
«Reid è malato e Morgan
è...in apprensione.»
«Non sono in apprensione.»
«Uhm» mugugna JJ. «Tranquillo,
papà orso, vedrai che si rimetterà in
fretta.»
«Ma insomma!» sbotta Morgan, lasciando
che loro ridano di lui.
Tutto sommato, pensa, forse ho fatto un dramma su nulla.
Può capitare anche ad un genio di prendersi una semplice
influenza, i germi in fondo non conoscono differenze. Eppure vorrebbe
davvero che quel sasso sul fondo dello stomaco scomparisse, lasciandolo
libero di lavorare e ridere senza quell'amaro in
bocca.
Quando Hotch li richiama, Morgan si
riscuote e ricorda ciò che per un attimo era passato in
secondo piano: c'è un assassino a piede libero che deve
essere preso. Decide che una volta catturato anche questo SI,
andrà a fare visita a Spencer, gli porterà magari
un rifornimento di caffé, e saprà dal suo naso
gocciolante e dalla febbre che tutto, in fondo, va bene. E se non fosse
malato ma solo stanco, lui gli siederà accanto e lo
lascerà parlare finché non avrà
più voce, come ormai non fa da tempo.
Ma prima il dovere. Tutto il resto può aspettare.
L'espressione sul volto del supervisore
capo non promette nulla di buono.
«C'è stato un altro omicidio»
annuncia alla squadra.
«Chi è la vittima?» chiede JJ.
«Jordan Norris.»
Lo sbigottimento investe la sala. «La ragazza di
Owen Savage?» sbotta Prentiss, ricordando troppo bene quel
caso di tre anni prima.
«Esatto. La polizia ha ritrovato il cadavere in un
vicolo nei pressi di una fermata della metro, stamattina all'alba.
È morta nella notte, secondo i primi rilievi del coroner.
Stesso modus operandi, stessa firma. Questa volta il numero
è quattro.»
«È un conto alla rovescia»
medita Rossi. «Questo vuol dire che abbiamo solo tre
possibilità per catturarlo.»
«Non può essere una
coincidenza» afferma Morgan, trovando ampio consenso.
«Infatti non lo è» ribadisce
Hotch. «Prima di continuare con le indagini sulla seconda
vittima, dobbiamo fare il punto della situazione. Non possiamo
tralasciare il fatto che un SI stia colpendo persone coinvolte in
nostre precedenti indagini.»
I profiler si radunano nel loro silenzio meditabondo, ognuno
alle prese con i propri ragionamenti e le proprie resistenze. Non
è mai facile affrontare la possibilità che delle
persone muoiano per un delirio legato a sé, alla propria
squadra, in definitiva, alla propria famiglia. Morgan vorrebbe
maledettamente che Reid fosse lì con loro, a trovare strade
nascoste nell'intrico di logiche perverse, a semplificare tutto e
ricordurlo a qualche fantasma nascosto. Ma la sua sedia è
vuota e questo ha il potere di distrarlo il tempo necessario per
pentirsene.
JJ è la prima a prendere parola. «Forse
abbiamo affrettato le cose. Guardiamola da un altro punto di vista: il
caso Nathan Harris e quello Owen Savage sono stati divulgati dalla
stampa e dalle reti nazionali, hanno fatto scalpore.»
«Quindi chiunque potrebbe aver preso di
mira le due donne» continua Prentiss.
«Questo può valere per Jordan, ma
l'identità della prima vittima, Madison, non è
stata divulgata all'epoca dei fatti.» Hotch preme l'interfono
e la voce squillante dell'informatica invade la stanza.
«Garcia, è possibile che qualcuno sia entrato nel
sistema dati?»
«Mio signore, se qualcuno ci provasse io lo saprei
immediatamente. Ma faccio comunque un controllo...Niente, nessun
accesso non autorizzato. Mi devo preoccupare?»
«Qualcuno ha ottenuto informazioni sulle
identità di persone coinvolte in indagini passate»
le spiega Morgan.
«Oh, bhe non per via informatica, questo
è certo. Ma ho una soluzione per voi. Visto che sono una
persona curiosa e un'informatica diligente, sto per inviare ai vostri
tablet qualcosa di molto interessante. E con questo, passo e
chiudo.»
Ogni tablet segnala immediatamente di aver ricevuto la mail.
È la copia di un articolo uscito recentemente sulla posta
locale. «Il
coraggio del cambiamento» legge JJ. «Tre anni fa Madison sfugge a un
pericoloso serial killer. Oggi decide di cambiare vita
investendo in un negozio di abbigliamento.»
«Madison Lorenz. Voleva la fama e ha avuto la
morte» sancisce Rossi. «Ecco come il SI
è venuto a conoscenza della sua
identità.»
«D'accordo.» Hotch controlla l'orologio.
«La scientifica dovrebbe finire a momenti. JJ, Prentiss,
andate sul luogo del ritrovamento. Noi lavoreremo al profilo. Dobbiamo
muoverci velocemente, ma restiamo certi di non perdere alcun
dettaglio.»
Le ragazze annuiscono e si alzano, raccogliendo i fascicoli.
«A cosa pensi?» chiede Rossi al
supervisore.
«Che chiunque sia il nostro uomo, catturarlo non
sarà semplice. In questi casi, si rimette sempre
qualcosa.»
Quando Spencer riapre gli occhi, la coscienza emerge a
fatica dal torpore. Prova a sollevarsi, ma la stanza comincia a girare
vorticosamente. Il rumore è assordate e deve premersi i
palmi sulle orecchie per non sentirsi aggredito. Dopo qualche istante,
riesce a tirarsi a sedere e a guardarsi intorno. Ciò che
vede non potrebbe essere più spaventoso: intorno a
sé non ci sono i suoi libri, ma strette mura piastrellate;
la superficie al suo fianco non è il suo tavolino da the, ma
un wc maleodorante; per finire, non si trova seduto sul suo divano, ma
con il sedere appiccicato a un umidiccio pavimento di linoleum. Dal
rumore che si diffonde oltre le porte, ipotizza di essere nel bagno di
una stazione. Della metro, probabilmente. Quando finalmente riesce ad
alzarsi, prende a guardarsi attorno, nel piccolo spazio, con frenesia.
Nota subito la cassetta dell'acqua leggermente spostata. Solleva il
coperchio e vi trova una busta nera aggrovigliata, che gocciola quando
la solleva. La apre con timore ma anche con gesti febbrili e il
contenuto conferma i suoi peggiori dubbi: una camicia bianca macchiata
di sangue e un coltello di quindici centimetri, anch'esso intriso di
liquido ematico.
Rimette la busta dov'era, senza pensarci, e corre fuori,
precipitandosi nel traffico di persone di metà mattino. Gli
speakers annunciano le partenze delle linee metropolitane e un'orda di
avventori taglia l'aria in entrambe le direzioni. Con sgomento apprende
dal tabellone luminoso che è trascorso quasi un intero
giorno. Dieci ore delle quali non ha memoria. Lacrime silenziose
scorrono sul viso di Spencer, mentre la folla inconsapevole continua la
sua folle marcia.
Su alcune persone la morte sembra un atto ancor
più crudele. Jordan Norris è distesa a terra, i
capelli sparpagliati come una grossa macchia bionda e il volto sporco
di sangue e terra. L'agente Edwards, malgrado la giovane
età, ha l'aria di chi ha visto molti omicidi e, per questo,
riesce a restare impassibile. Il volto affilato ma gentile è
contratto in un'espressione rigida, mentre le gambe lunghe e sottili
sembrano non avere sosta.
«La vittima è stata colpita
qui» dice, facendo due passi avanti e fermandosi.
«Un singolo colpo al cuore, lei non ha opposto
resistenza.»
«Cos'è quella macchia?»
chiede Prentiss, indicando il cappotto della vittima.
«Vedete? Sembra che qualcosa sia entrato in contatto con la
ferita, lasciando questa strana impronta.»
Edwards gira intorno al corpo e si accovaccia. «Ho
già visto macchie simili» mormora, voltandosi poi
verso le due donne. «Succede quando un altro corpo cade su
quello già a terra. Il sangue su entrambi si fonde in
un'impronta simile.»
JJ si stringe nel cappotto. «Jordan deve aver
afferrato il SI mentre veniva colpita, e cadendo lo ha trascinato con
sé. Lui è inciampato e le è caduto
addosso.»
«La prima volta deve aver colpito mantenendo le
distanze e scostandosi subito» medita Prentiss.
«Questa volta è stato meno attento.»
«Scusate» interviene Edwards,
sollevandosi. «Sapere questo vi è utile?»
«Sì» risponde JJ, cordiale.
«Ha voluto vederla morire, rimanerle vicino. Quando un SI
commette errori oppure accorcia le distanze con la vittima, entrando
maggiormente in contatto, vuol dire che uccidere comincia a piacergli.
Sta iniziando a prenderci gusto.»
«Inizialmente uccideva per una qualche
missione, uno scopo» aggiunge Prentiss. «La
verità è che vuole uccidere, tutto il resto
è una copertura. E lui lo sta scoprendo ora.»
«Quello?» JJ punta
interrogativa un dito verso la parete alle spalle dell'agente Edwards.
«Oh, certo, dimenticavo. Per la
scientifica è recente.»
Prentiss osserva la scritta nera, non troppo
grande ma ben leggibile, fatta di fretta e probabilmente con una
bomboletta spry. «Lui
è nel giusto.»
«Il SI parla di sé in terza
persona?» chiede Edwards, grattandosi la nuca bruciata dal
sole.
«Dissociazione. Accade più di
frequente di quanto si pensi. Alcuni assassini riescono a descrivere
nei dettagli gli omicidi, ma mai in prima persona.»
«Chiamo Hotch» annuncia JJ.
«Un'ex prostituta e una giovane impiegata in un
negozio di abiti» mormora Rossi. «Cosa hanno in
comune?»
«La prima è nata e cresciuta a
Washigton. L'altra non ha mia lasciato il Texas» puntualizza
Morgan, sfogliando distrattamente il fascicolo.
Rossi congiunge le mani sotto il mento. «Fino ad
ora. Credo che la domanda più importante sia:
perché una ragazza che non si è mai allontanata
dalla sua cittadina dovrebbe dirigersi a Washigton, trovando la morte
ad attenderla?»
«Perché l'assassino ce l'ha
portata» esclama Morgan, alzandosi in piedi e dirigendosi al
tabellone. «La prima vittima è stata uccisa dietro
una biblioteca, ma non c'è motivo per cui qualcuno dovrebbe
agirarsi lì a quell'ora. Poi c'è Jordan, uccisa
nei pressi della stazione metropolitana.»
«L'assassino le ha contattate» conclude
Hotch, premendo l'interfono. «Garcia, i tabulati telefonici
delle vittime.»
«Sto già smanettando. Cosa
cerco?»
«Numeri in comune, chiamate frequenti e da numeri
nell'area di Washigton» spiega Morgan.
«Mi prodigo, mio zuccherino. E...uhm, questo
è strano: nessun numero in comune. Ma entrambe hanno
ricevuto, poche ore prima della morte, delle chiamate da varie cabine
telefoniche. Vi invio le posizioni. Può esservi
utile?»
«In un certo senso sì,
bambolina.»
«Sempre al vostro servizio. Torno a scavare nelle
vite di queste povere donne, appena trovo qualcosa vi
contatto.»
Hotch chiude la chiamata. «Questo spiega
l'assenza di segni di difesa. Le vittime si fidavano del SI:»
«Abbiamo a che fare con un paranoico molto
furbo» considera Morgan. «Non lascia tracce e sa
esattamente cosa non lasciare. Sa dove colpire la vittima in modo da
attraversare le costole e maneggia il bisturi come un chirurgo, ma non
ha problemi a sventrarle.»
«Perché loro due?» chiede
Rossi, quasi rivolto all'assassino. «Cosa rappresentano per
lui?»
«Bhe, sono entrambe delle sopravvissute.»
«Sono qualcosa di più»
commenta Hotch, corrugando la fronte. «Se il SI è
un sociopatico, può vedere queste donne come delle
traditrici: entrambe sono sopravvissute e hanno avuto una loro vita,
mentre Nathan e Owen hanno scontato il prezzo della loro
diversità. È una vendetta, e non possiamo
escludere che sia anche un messaggio contro la nostra
unità.»
«Cosa te lo fa pensare?» si incuriosisce
Rossi.
«JJ mi ha chiamato.» Porge il tablet ai
colleghi, aperto sulla foto dell'ultimo omicidio. «Vuole
farci sapere di essere nel giusto. È un messaggio per
noi.»
Morgan solleva lo sguardo dalla foto.
«Lo sventramento, i numeri e ora questo: ci vuole mostrare
qualcosa, vuole che tutti sappiano.»
«E ci dice che abbiamo salvato le persone
sbagliate» conclude Rossi.
Hotch si alza e poggia le mani ai fianchi.
«Dobbiamo diramare il profilo alla polizia di
Washigton.»
|
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Capitolo 5 *** Angelo ***
Avvertenze:
La droga fa male, molto male.
Sempre un grazie sentito a coloro che seguono la storia e mi lasciano
commenti lusinghieri e graditi (:
Ax.
5
Angelo
Preserva la purezza
dell'anima tua.
Colui che racchiude in
sé il talento
deve essere tra tutti il
più puro d'anima.
Ad altri vien molto
perdonato,
ma a lui non
è dato perdono.
Nikolaj Gogol
Spencer fissa il suo caffé fumare nell'aria del
piccolo bar dell'ospedale. Dal suo ultimo risveglio, sconvolto dal
terrore, non ha più chiuso occhio. Ormai versa in uno stato
di anedonia totale. Non riesce a formulare un solo pensiero logico,
almeno non come prima. Vorrebbe trovare parole convenzionali, un tono
di voce neutro e un atteggiamento cordialmente distaccato; vuole, in
definitiva, sembrare innocente. Sotto gli occhi grigi del
neurochirurgo, si sente come sotto interrogatorio. La verità
è che il dottor Lidford gli ricorda tremendamente Hotch, e
ha in sé anche una nota di melanconia, perché
rappresenta il ricordo di una Diana Reid attiva, acculturata,
speranzosa nel figlio. Un vecchio amico di sua madre potrebbe ora
firmare la sua condanna.
«Diana come sta?» gli chiede dopo una
lunga pausa Lidford, con il pragmatismo tipico degli uomini di scienza.
Spencer è costretto a tornare alla
realtà. «Dopo dieci anni, un ulteriore
miglioramento nella sintomatologia psicotica è altamente
improbabile, considerando poi che circa il trenta percento ha
remissione parziale o totale...» si interrompe, rendendosi
conto di star divagando e di apparire troppo freddo. Accenna un
sorriso. «Se la cava bene. Ci scriviamo spesso.»
Il dottore annuisce e stringe intorno alla tazza
le lunghe dita, che malgrado l'età appaiono solo lievemente
increspate e nodose. «E tu, Spencer?»
Il ragazzo resta un attimo interdetto e, non riuscendo a
sostenere quegli occhi pungenti che sembrano inghiottirlo, rivolge lo
sguardo al suo caffé. «Quantificare mi
è impossibile.»
«Capisco. Diana mi parlava spesso di te, sai? Era
brillante, appassionata, intelligente. E me ne accorsi soprattutto dal
modo in cui parlava di suo figlio.»
Spencer non può far a meno di sorridere
imbarazzato, ma poi quel caldo tepore si dissolve davanti al ricordo di
quella mattina: il sangue, la confusione.
Cosa direbbe
ora di me?
Qualcosa in quell'uomo, in quella situazione e nella sua
stanchezza lo spinge a parlare con voce incrinata. «Io
ricordo ogni libro che mi ha letto, parola per parola. A mia madre
dissero che è un'abilità rara e incredibile, che
mi avrebbe dato un vantaggio nella vita.» Si schiarisce la
voce, riuscendo finalmente a guardarlo negli occhi. «Sa cosa
non le dissero? Che se un giorno avessi dimenticato qualcosa, per me
sarebbe stato come perdere un arto.»
Il dottor Lidford rimane in silenzio, poi mostra un sorriso
caldo, come Spencer non credeva fosse capace. «Ragazzo
mio» dice con un misto di affetto e diligenza. «Il
problema dei geni è che dimenticano una cosa fondamentale:
la mente non funziona senza l'emozione. La tua fortuna è di
avere una memoria incredibile. Se cerchi un'emozione, è dove
hai perso memoria che devi cercarla.»
Reid sente un fuoco feroce montargli dentro. Da un lato
vorrebbe quasi abbracciare un uomo che è riuscito a toccarlo
tanto; dall'altro vorrebbe solo urlare che, sì, potrebbe
aver commesso un crimine tremendo e che sapere di averlo rimosso per la
sua portata emotiva non lo aiuta.
Mentre è combattuto da questi pensieri, il
cercapersone del dottore trilla.
«Bene» annuncia alzandosi e sistemandosi
la camicia. «Arnold è rientrato in laboratorio: il
profilo del DNA è pronto.»
Spencer sente il nodo al collo stringersi
pericolosamente.
«Il nostro SI è un uomo di
un'età compresa tra i venticinque e i trent'anni, ma
è cauto e intelligente» comincia Hotch, guardando
a turno i sergenti che guizzano gli occhi tra lui e i loro taquini.
«Ha conoscenze sufficienti nel campo delle
indagini.»
«Quindi è già stato
arrestato?» chiede un giovane agente, sollevando la penna.
«Non necessariamente» interviene JJ.
«Potrebbe aver frequentato l'ambiente giudiziario o
semplicemente essere di cultura superiore. Maneggia molto bene il
bisturi e ha conoscenze mediche sufficienti a non farlo esitare nel
colpire un cuore umano.»
Prentiss fa un passo avanti e si punta due dita al petto.
«Sfondare la gabbia toracica richiede molta forza, ma nei due
omicidi il coltello è stato infilato di traverso tra due
costole. Ciò indica una certa esperienza e bravura,
nonché sicuramente un modo per oltrepassare un deficit
fisico.»
«È un uomo poco atletico e di non
notevole forza» continua Morgan. «Ciononostante, la
rabbia gli rende più facile affondare la lama in
profondità. A giudicare dalle tracce lasciate sulla seconda
vittima, l'altezza è stimata attorno al metro e
ottantacinque. Non è muscoloso o molto pesante, difatti
Jordan Norris è riuscita a farlo cadere.»
Prentiss si massaggia le mani. «Stiamo parlando di
un sociopatico, ma la componente sessuale non è centrale nei
suoi omicidi. Crede di avere una missione: punire le false vittime.
Jordan Norris e Madison Lorenz sono sfuggite a due morti tragiche, ma
il nostro SI si identifica con i sociopatici implicati nei due casi,
Nathan Harris e Owen Savage. Crede che loro abbiano subito un'ingiusta
punizione.»
«Per questo potrebbe incolpare le istituzioni di
non aver dato loro il giusto supporto» interviene Rossi.
«Lo stesso che è mancato anche a lui. Gli omicidi
potrebbero essere stati scatenati dall'articolo pubblicato sulla prima
vittima, in concomitanza con un evento stressante subito dal
SI.»
«Per la sua incapacità di socializzare,
potrebbe occupare una posizione non di rilievo nel suo lavoro, ma
sicuramente si sarà distinto per intelligenza e diligenza.
Queste caratteristiche, però, potrebbero averlo messo in
cattiva luce più del normale. Potrebbe avere una vita
sociale ristretta, perché certamente i suoi disturbi non
passano inosservati» puntualizza Hotch. «Dovete
cercare tra coloro che hanno una buona formazione culturale, ma
svolgono lavori al di sotto delle loro capacità. Persone che
hanno mostrato turbe del carattere e con una ristretta rete
sociale.»
«Vogliamo sottolineare» interviene JJ.
«Che trovare questa persona non sarà semplice.
È paranoico e agisce di conseguenza, in più ha
intelligenza e cultura per attuare i suoi piani. È affabile
quando ha bisogno di esserlo, ma non sente alcun bisogno di
relazionarsi agli altri. Potrebbe anche essere una persona
apparentemente normale, che sa come apparirlo.»
«Potrebbe essere chiunque» commenta
l'agente Edwards.
«Purtroppo sì» risponde
Hotch. «Ma sta già commettendo degli errori, sta
scoprendo che uccidere gli piace.»
«Quindi possiamo solo aspettare che commetta un
errore grave?»
Gli agenti della squadra rivolgono un sguardo preoccupato ad
Hotch. «è possibile. Ma faremo di tutto per
evitare altre vittime, è la priorità. Concluso il
numero di vittime prestabilite, forse in base ad un delirio, potrebbe
scomparire o migrare altrove. Dobbiamo impedirlo.»
Nella tracolla la prova schiacciante del suo
crimine. Nella mano un bicchiere di bourbon. Nella mente l'oblio.
A Spencer è bastato un solo sguardo al
profilo del DNA per memorizzare ogni singola informazione, eppure,
incredulo, ha dovuto rileggerlo varie volte. Nella mente quell'immagine
si è sovrapposta in modo quasi perfetto al referto autoptico
su Madison Lorenz.
Riscontro
positivo. Stesso sangue. Stessa persona.
Nel ritorno a casa, avvolto dalla foschia dello shock,
qualcosa si è rotto nella mente del dottore. Ad un certo
punto, non sa dire quando, semplicemente si è arreso. Come
un attimo prima di morire, nella capanna al cimitero Marshall, prima
che Tobias gli ridesse il dono della vita. Un attimo prima di esalare
quell'ultimo bruciante respiro, Spencer Reid si arrese. Non lo ha mai
detto a nessuno, neanche a Morgan.
Oh, Derek.
Se solo potessi salvarmi.
Ma Derek non può, nessuno può, e
Spencer lo sa.
Beve il bourbon a piccole gocce, lasciando che la vita nel
piccolo locale scorri senza toccarlo. Ora ha solo un desiderio
bruciante, vuole solo un'unica cosa: scomparire. E lui conosce un solo
modo per uccidere virtualmente i suoi neuroni, per frenarne il moto
folle, per spegnere la luce della coscienza.
Dilaudid.
Prima di rendersene conto, il bicchiere stretto nel palmo
comincia a tremare.
«Forse
la terra è l'inferno di un altro pianeta.»
«Aldous Huxley» mormora Spencer,
riuscendo a storcere le labbra in un sorriso. Si volta verso
l'interlocutore e qualcosa si smuove alla bocca dello stomaco: il
ragazzo è seduto al bar, il gomito che quasi sfiora il suo,
gli occhi di ghiaccio circondati da lunghe ciglia nere.
Si scosta un ciuffo corvino dalla fronte. «Posso provare simpatia per i
dolori delle persone, ma non per i loro piaceri: c'è
qualcosa di curiosamente noioso nella felicità di qualcun
altro. »
Spencer inarca un sopracciglio. Meno che mai desidera la
compagnia di qualcuno, ma quel viso ha qualcosa di profondamente
simbolico. «Ci conosciamo?»
«Dirti il mio nome non basterebbe a
conoscermi» rimbecca il ragazzo, sorridendo sardonico.
«Eppure sono stato ingiusto: io ti ho già visto e
conosciuto, ma tu non sai chi io sia.»
Spencer comincia a sudare freddo: un agente in borghese?
«Non sono qui per arrestarti o fermarti»
chiarisce il ragazzo. «Non faccio parte del vostro
club.»
Qualcuno sa ciò che ha fatto?
Il ragazzo si volta e lo fissa con un'invadenza che non ha
nulla di spiacevole. «Considerami un angelo, della
mente» dice, catturando la sua attenzione. Mette una mano
nella tasca del cappotto e sembra stringere qualcosa. Si avverte il
suono di monetine che tintinnano contro boccette di vetro busto.
«E ho la manna dal cielo.»
Spencer lo segue fuori dal locale, con le pupille dilatate e
le gambe pesanti come piombo. Nella mente la leggerezza e le punture
continue dell'emicranea che sembrano non tangerlo più.
Perché, ormai, il dottore si è arreso.
Totalmente.
Dall'ago zampillano poche gocce. Daniel sa quello che fa,
eppure non ha nulla del degrado impresso nei volti della disperazione.
Steso sul letto, Spencer ha un'esitazione, una debole protesta della
parte di mente ancora lucida, subito soppressa dalla voce del bisogno.
«Questo mi renderà innocuo» riflette ad
alta voce.
Daniel si volta e gli sorride e lui sa, in un attimo, che
tutto andrà bene. Non ha freddo, quasi nudo sotto le
coperte. L'altro non prova vergogna, esponendo il suo corpo alla luce
del pomeriggio, che pigra occhieggia attraverso le persiane,
evidenziando le sporgenze del volto di entrambi.
Il laccio è ben stretto intorno al braccio.
La penetrazione.
Il rash, potente, che invade tutto il corpo.
La testa che mollemente si abbandona al cuscino.
Le braccia di Daniel. Poi solo la felicità.
Le braccia di
Daniel diventano scure, più possenti, ti stringono con forza
e gentilezza. Alzi lo sguardo e incontri occhi scuri, sopracciglia
decise, un sorriso bianco incandescente. Hai un brivido e riesci solo a
sussurrare il suo nome.
Derek.
Forse lo urli, forse lo stai solo pensando.
Derek
è un ricordo. Ma qui, in questo spazio di antimateria, anche
lui c'è. Sempre.
«Derek...»
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Capitolo 6 *** Scintille ***
6
Scintille
Il dubbio e l'orrore sconvolgono
i suoi pensieri turbati,
e dal profondo in lui
si agita l'inferno,
ché egli si porta l'inferno
dentro di sé
ed attorno, e non si può staccare
dall'inferno o da
sé di un solo passo, fuggire
mutando luogo.
John Milton
Rossi è in piedi davanti al tabellone. Le foto
significative delle scene del crimine sono state appese, corredate di
didascalie sintetiche. Qualcuno ha scritto degli appunti, forse Morgan.
Non riesce a staccare gli occhi da quei visi, dall'ingrandimento di
quei segni sulla fronte, proprio al centro. Dovrebbero dirgli qualcosa,
ma non ne è certo.
«A cosa pensi, Rossi?» chiede Prentiss,
fiancheggiandolo.
L'italiano si volta verso i colleghi, che aspettano
interrogativi. «Stavo riflettendo: e se i numeri fossero
importanti per il SI? Guardate bene: il numero è stato
inciso esattamente nel mezzo della fronte, con precisione.»
«Possono essere solo un messaggio
intimidatorio» ricorda JJ.
«Ma perché proprio questo numero? Il
tre, il sette e il nove possono essere collegati alla numerologia
cristiana.» Rossi punta lo sguardo nel vuoto per un attimo,
poi torna ai suoi colleghi. «Cosa rappresenta il
cinque?»
«I cinque sensi» ipotizza Prentiss.
«Oppure i cinque elementi.»
Rossi riflette e scuote la testa.
Hotch solleva lo sguardo sul tabellone. «I cinque
stadi del dolore.»
La squadra si volta a guardarlo, annuendo implicitamente.
«Avrebbe senso. Ritorce la sua sofferenza verso
chi ne è sfuggito» dice Rossi.
«È anche un modo per esorcizzarla: alla fine della
sua opera, si attende di non soffrire più.»
Prentiss si dirige all'uscita.
«Dove vai?»
La mora guarda l'orologio al polso. «Tra non molto
arriveranno i genitori di Jordan, magari conoscono chi ha contattato la
figlia.»
«Porta JJ con te» dice Hotch.
«Dovevo andarci con Morgan...Ma
dov'è?»
«Ha insistito per andare a trovare Reid.»
Le ragazze si scambiano uno sguardo eloquente e annuiscono.
Ultimamente hanno notato che tra i due agenti c'è qualcosa,
come un non detto sospeso che ne sta incrinando i rapporti. Ma sono
fiduciose che quei due testoni riusciranno a tornare gli amici
improbabili che sono sempre stati.
«Reid, avanti, apri questa porta?»
Morgan comincia davvero a spazientirsi. Un anziano vicino si
affaccia curioso sul pianerottolo e, intimidito dalla stazza
dell'agente, decide saggiamente di rientrare in casa borbottando.
«Ragazzino, posso sfondare la porta»
urla, dando un'altra poderosa manata al legno.
Sta sul serio prendendo in considerazione l'idea di
scardinare l'uscio, quando sente una chiave girare e la porta si apre
di uno spiraglio. Ma il viso che compare non è certo
ciò che si aspettava. Un ragazzo moro fa capolino e lo
osserva con calma. Morgan si acciglia e spinge la porta, costringendo
l'altro a indietreggiare e lasciarlo entrare. Si guarda attorno, ma non
vede segni di lotta, o di Reid.
«Chi diavolo sei?» sputa fuori.
L'altro sorride e incrocia le braccia al petto, accennando
alla mano dell'agente che si è istintivamente posata sul
calcio della pistola. «Non sono io quello armato che ha fatto
irruzione. Dovresti dirlo tu a me.»
«Dov'è Reid?» ringhia
l'agente.
«Spencer? Uhm.» Finge di riflettere,
grattandosi il mento puntigliato dei primi segni di barba incolta.
«Spiacente, non è in casa al momento. Gli direi
che sei passato, ma non ti sei presentato. Sai, dire è passato un tizio
nero potrebbe risultare un po'...razzista.»
Derek è sul punto di tirare fuori l'arma e
mettersi a sparare, perché qualcosa nell'atteggiamento di
quel ragazzo lo innervosisce. E poi chi diavolo è?
E...quella camicia...
«Hai indosso gli indumenti di Spencer»
dice lentamente. «Se gli hai fatto del male..»
«Buono, amico» dice il ragazzo,
prendendo un biscotto e sedendosi sul tavolo. Prende a sgranocchiarlo,
dondolando le gambe nel vuoto. «Io non gli ho fatto
nulla.» Poi sorride in modo malizioso. «Nulla che
lui non volesse.»
A quel punto Morgan non ci vede più: estrae la
pistola e gliela punta al cuore. L'altro non sembra minimamente turbato.
«Lo sapevo!» esclama il ragazzo,
battendo le mani. «Devi essere Derek Morgan. Spencer mi ha
parlato di te, solo tu potresti reagire così.»
Indica la pistola e si passa il dorso della mano sulle labbra,
ripulendole. «Poi mi hai puntato la pistola al cuore, non
alla testa. Perché è lì che ti senti
ferito, o sbaglio?»
Incosciamente, Derek abbassa la pistola fino a puntarla al
suolo, i nervi tesi.
«Comunque, io sono Daniel» dice il
ragazzo, scendendo dal tavolo e porgendogli la mano. Quando l'altro non
risponde al saluto, lui scrolla le spalle e si dirige alla porta,
aprendola. «Ora, ti pregherei di andartene. Stai compiendo
un'effrazione, senza considerare il tentanto...uhm...omicidio, o forse
è solo minaccia. Bhe, non importa.»
Derek lo fronteggia e non gli stacca un attimo gli occhi di
dosso. Quelli di Daniel sono freddi come stalattiti e altrettanto
pungenti. Non rispondono minimamente all'intimidazione. Morgan potrebbe
giurare su sua madre che quel tipo non vincerebbe mai un premio per la
sanità mentale.
«Spencer è fuori per delle commissioni.
È in farmacia a prendere delle compresse. Brutta
febbre» dice senza mostrare esitazione. «Gli
dirò che sei passato.»
Derek esce e sull'uscio si volta, senza riuscire
più a guardarlo dritto negli occhi. Ciò che sta
per chiedergli lo ferisce troppo. «Tu sei suo
amico?»
Daniel sorride, tirando le labbra sottili e rosee.
«Diciamo così.»
Poi il suo volto scompare dietro la porta, che si richiude
con un suono secco, lasciando Derek solo sul pianerottolo vuoto, con i
suoi demoni e i suoi dubbi.
Spencer,
perché non me lo hai detto?
Sale sul SUV e infila le chiavi, ma prima di girarle esita.
Con le mani sul volante, guarda l'edificio dall'altra parte della
strada. Passano venti minuti prima che Morgan cominci a pensare di star
esagerando, che in fondo non sono affari suoi. In questi venti minuti
cerca di convincersi che tutto vada bene. Spencer è malato e
un suo amico lo sta aiutando.
Amico...
No, non è un amico. Quel Daniel è
qualcosa di più. Derek lo sente, lo sa. Non riesce a
capacitarsene. C'erano segni premonitori?
Spencer
omosessuale.
Il solo pensiero del ragazzino intento in una relazione
amorosa è bizzarro, ma addirittura con un uomo...per Derek
è troppo. In fondo, però, ha sempre saputo che il
dottore non è tipo da guardare a queste sottigliezze. Uomini e donne sono interessanti
a pari passo con la loro mente, direbbe Spencer, drizzando
la schiena e inarcando le sopracciglia.
Volge lo sguardo oltre il finestrino e qualcosa attira la
sua attenzione. Una figura, nel crepuscolo, cammina lievemente china,
trascinando le gambe come fossero troppo pesanti. Sulla spalla la
tracolla e in una mano una busta. Una strana sensazione pervade Derek,
un calore intenso al petto e alla testa.
Afferra il cellulare e compone il numero di Reid. Pochi
istanti dopo, il dottore si ferma davanti al portone. China la testa
verso la mano che stringe il telefono.
Avanti,
rispondi.
«Hei.»
Hei?!
«Ragazzino, che fine hai fatto?» Deve
sforzarsi per non perdere la calma.
«Ehm...sono...» Tossisce rumorosamente.
«Sono ancora abbastanza debole.»
«Tutto bene? Se vuoi ti raggiungo e
parliamo.»
«No» dice troppo in fretta. Derek lo
vede irrigidirsi. «Non serve. Va tutto bene.»
Vorrebbe scendere dall'auto e corrergli dietro, prenderlo
per la camicia e sbattergli in faccia la sua sfacciataggine, ma si
limita a chiudere la chiamata. Spencer esita ancora sulla porta, poi
entra e sparisce.
Per Derek il caso è chiuso. Nella sua mente le
parole dette ad Atlanta: non
sono una tua responsabilità.
Derek entra nella sala riunioni con i pugni ancora serrati.
Rossi solleva lo sguardo, attirato da quell'aria di
negatività.
«Come sta Reid?»
L'agente apre il fascicolo e risponde noncurante.
«Ancora malato.»
«Uhm...» L'italiano poggia la schiena
alla poltroncina e congiunge le mani sotto il mento.
«Che c'è? Non è un
bambino!»
«Ascolta, Morgan, qualunque cosa sia successa
dovreste-»
«Chiarire, lo so. Mi è bastata la
ramanzina di Hotch. Ora, per favore, vorrei tornare al caso e non
perdere altro tempo.»
Rossi scrolla le spalle e lancia al ragazzo un mazzo di
fogli. «Sono gli ultimi messaggi telefonici delle due
vittime, gentilmente hackerati da Penelope. Io ho Madison Lorenz, tu
Jordan Norris. Bisogna leggerli tutti.»
Morgan sfoglia velocemente il plico e solleva un
sopracciglio.
«Volevi lavorare, no?»
«Senti questo» dice Morgan cerchiando
uno scambio di messaggi. «Ore otto e ventidue, venti
febbraio.»
«Il giorno prima della partenza.»
L'agente annuisce. «Julia scrive: Devi proprio andarci? E Jordan:
Mi ha detto che è importante. Ancora Julia: Ancora O.?
Dovresti dimenticarti di quel pazzo.»
«Parla di Owen. Forse è così
che il SI è riuscita a convincerla: in cambio di
informazioni.»
«È quello che credo anche io, in fondo
Jordan era facilmente raggirabile.»
«E il SI ha sfruttato questa sua
debolezza.»
«C'è un'altra cosa» dice
Morgan, foglio alla mano. «Qualche messaggio dopo Jordan fa
riferimento a un certo dottor R.»
«Curioso» mormora Rossi, sfogliando le
pagine alla ricerca di qualcosa che aveva visto, ma al quale non aveva
dato importanza. «Anche Madison ne parla ad
un'amica...eccolo: Il
dottor R. mi sembra un tipo a posto, magari questo finanziamento va'
bene. Ancora una volta il SI ha proposto alla vittima
qualcosa di interessante.»
«Jordan aveva un diario elettronico. Probabilmente
avrà scritto di questo dottor R.»
Morgan preme l'interfono, ma nessuno risponde. Dopo meno di
due minuti, nella sala entra Penelope Garcia, imbracciando la sua
apparecchiatura portatile e sistemandosi al tavolo rotondo, sotto gli
occhi interrogativi dei colleghi.
«Per una volta che ci capita un caso a Washigton,
voglio entrare nella mischia, miei maschioni» dice accendendo
il pc. «In cosa posso esservi utile.»
Rossi guarda eloquente Morgan. «Hai il diario
elettronico di Jordan Norris?»
«Vergognosamente crackato e copiato nei miei file,
signore.» Smanetta coi tasti. «Ancora non l'ho
spulciato, ci vorrà un po'.»
«Puoi cercare se cita un certo dottor
R.?»
Penelope si mette al lavoro e dopo poco ottiene un
risultato. «Eccolo! Dunque...l'unica volta che ne parla dice: il dottor R ha insistito
perché non rivelassi il suo nome a nessuno, proprio nessuno.
Dice che ci sono persone in grado di rintracciarlo nei miei messaggi e
col mio computer. Mi mette un po' paura essere spiata. Lui dice che
ciò che ha da dirmi è della massima segretezza e
che in molti non vogliono che si sappia. Dice che dell'FBI non ci si
può fidare, che non hanno fatto il possibile per salvare
Owen. Mi ha detto di chiamarlo dottor R e poi ha riso. Mi fido di lui
perché so che poteva capire Owen.»
Penelope si interrompe e fa una smorfia.
«Agghiacciante.»
«È il nostro uomo» dice Rossi
guardando il collega.
«Bambolina, cerca tutti i dottor R dell'area di
Washigton, e incrocia i dati con i tesserati della biblioteca
Arcana.»
«Un po' vago, ma ci provo.»
«Restringi il campo a uomini tra i venticinque e i
trenta anni, e includi solo quelli con laurea in medicina»
suggerisce Rossi.
«Oh, siamo a...zero.»
«Così non va» dice Morgan,
scuotendo il capo. «Il nostro uomo non può essere
un vero medico.»
«Ma ha sicuramente studiato medicina o
affini.»
«Cerco tra gli studenti» si affretta
Garcia.
«Considera anche studenti espulsi. Concentrati su
persone non sposate, che magari hanno avuto problemi disciplinari e
reati minori in giovane età.»
«Bingo: ho dieci nomi. Per vostra fortuna la
biblioteca non è vicina al campus.»
«Stampa la lista.» Morgan si alza di
scatto. «Chiamo Hotch.»
Spencer misura la stanza a grossi passi, stropicciandosi il
viso e i capelli.
«Perché ti agiti tanto?» gli
chiede Daniel, portandosi la bottiglia di birra alle labbra.
Il dottore si ferma in mezzo alla stanza e apre le braccia.
«Perché? Tu non lo conosci, Derek potrebbe
scoprire tutto. Lui-»
«Scoprire tutto?» Daniel solleva un
sopracciglio. «Tutto cosa? Che sei un assassino? Probabile.
Sai che a me non importa e sai che non è colpa
tua.»
Spencer si blocca come attraversato da una potente scarica.
«Non è colpa mia? Ho ucciso due donne. La
dissociazione non è una scusante valida, tanto meno in
tribunale.»
«Non mentire a te stesso. Tu non temi il
tribunale, tranne quello della tua mente.» lo rimprovera
Daniel, accigliandosi. « E poi ci sono loro, la
squadra» aggiunge sarcastico.
Ma il ragazzo non sembra dargli retta. Si ferma davanti al
salotto, passando in rassegna con lo sguardo i suoi amati libri.
«Dobbiamo andarcene.» La sua voce
è calma e distaccata, improvvisamente stanca.
«Dobbiamo fuggire.»
Non si rende realmente conto della portata di ciò
che sta dicendo, o della situazione. Sente solo l'impellente e
istintuale bisogno di combattere o fuggire. Scappare lontano, lasciarsi
tutto alle spalle. Derek, il BAU, gli omicidi. Spera che i suoi demoni
restino alle spalle, insieme al suo cuore.
«So io cosa ti serve» mormora Daniel
alle sue spalle. Gli cinge la vita e gli respira sulla nuca,
provocandogli un lungo brivido. Non sa come sia possibile, ma in quel
ragazzo e nella sua mente c'è qualcosa di unico, eccezionale
e non quantificabile che ha il potere di sciogliere le sue resistenze.
«Solo un'altra volta» dice Spencer,
mentre davanti agli occhi lampeggia l'immagine della boccetta
trasparente e dell'ago sottilissimo.
«Bravo. L'ultima scintilla prima della
fine.»
Sono tutti intenti a sfogliare la lista dei nomi forniti da
Garcia e a indagare nelle vite di quei dieci ragazzi, quando sotto le
mani di Morgan capita un fascicolo che lo raggela. Dalle labbra scivola
un grugnito soffocato, un'esclamazione molto simile al rantolio di
sofferenza di un animale colpito a morte, che cerca ancora di mordere e
uccidere. La squadra si volta a guardarlo interrogativa, mentre
l'intuizione diviene certezza nella mente dell'agente. Salta dalla
sedia e urla: «È lui, diamine, è
lui!»
«Morgan, di chi parli?» chiede Prentiss,
preoccupata più che incuriosita.
«Quel fottuto bastardo, ce l'avevo sotto le
ma-» Poi la rabbia lascia il posto al terrore.
«Dobbiamo andare da Reid, subito.»
«Morgan, calmati» gli impone Hotch,
alzandosi. «Spiegati.»
Le parole scivolano via veloci. «Penelope, hai una
foto di Daniel Roland?»
Garcia resta un attimo inebetita, poi carica la foto sullo
schermo della sala. Morgan impallidisce, prima che il calore gli si
diffonda ovunque, bruciandolo.
«Quando sono andato da Reid, lui era
lì» urla indicando lo schermo.
«Quello...stronzo era lì e si prendeva gioco di
me!»
«Aspetta un attimo» lo interrompe JJ, la
voce incrinata. «Reid stava bene? Lo hai visto?»
«No. Cioè sì, più
o meno. L'ho visto rientrare a casa.»
«Garcia, l'indirizzo. Subito» ringhia
Hotch, mentre Penelope digita furiosamente. «JJ e Rossi, alla
casa del sospettato. Morgan, Prentiss, noi andiamo da Reid. Chiamate
rinforzi e non perdete la calma.»
Ma tutti, nella sala, schizzando via dalle sedie, sanno che
calma è la parola meno appropriata alla situazione. Reid
è in pericolo e nessuno di loro vuole tornare a casa senza
di lui, sano e salvo.
Note: Ragazze che mi seguite, non
finirò mai di ringraziarvi.
Alla prossima.
Ax.
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Capitolo 7 *** Manette ***
7
Manette
Non c'è in natura una
passione più diabolicamente impaziente
di quella di colui che,
tremando sull'orlo di un
precipizio, medita di gettarvisi.
Edgar Allan Poe
Le valigie, consistenti in due sacche riempite in fretta,
sono davanti all'entrata. Reid stringe la pistola con entrambe le mani
e lo sguardo si perde sui mobili e sullo schienale del divano. A terra
libri sparsi, segni della collutazione, impronte insanguinate.
Contro una parete il corpo senza vita di Daniel. Gli occhi
color ghiaccio si spengono nel bianco e nel petto si apre uno squarcio
bruciato, dal quale il sangue ha smesso ormai di zampillare. La pozza
si allarga, inzuppa le pagine, i mobili, i suoi piedi.
Colpi alla porta. La bassa dose di dilaudid che piano piano
smette di aver effetto, bruciata dall'adrenalina. A terra la siringa
con ancora la dose completa, quella che lui ha cercato di iniettargli,
quella che lo avrebbe certamente ucciso.
Urla oltre le mura, sirene che squarciano il cielo
rimbalzando sulla finestra.
La porta viene scardinata e qualcuno si affolla
nell'appartamento. Lo chiamano, ma lui non li sente. Non vuole.
Stringe la pistola come se il semplice atto di mollarla
possa far finire quell'istante in cui, per un attimo, può
restare sospeso oltre la realtà.
La porta viene giù con facilità: i
cardini vengono divelti e il legno si spacca in più punti.
Con tutta l'adrenalina che Morgan si ritrova in circolo, potrebbe
sfondarne altre dieci. La prima cosa che vede è il sangue e
l'allarme inizia a pulsargli nel craneo. La seconda è
Spencer.
Spencer che tiene una pistola tra le mani. puntata contro un
cadavere. Il cadavere di Daniel Roland.
Spencer che non sembra essere in quel mondo e che non si
volta per degnar loro della minima attenzione.
«Reid» mormora Prentiss, abbassando la
pistola, mentre Hotch fa segno agli agenti di polizia di mantenere la
posizione.
«Non sparate» mormora appena, ma
potrebbe benissimo gridare: Spencer appare sordo al mondo circostante.
Gli occhi spalancati sono cerchiati di nero e sul volto si
estende una macchia rossastra e una piccola ferita, segno della
collutazione, come la camicia sgualcita.
Hotch viene catturato dalla siringa abbandonata a terra e
studia velocemente la situazione, decidendo di rinfoderare l'arma e
tentare di avvicinarsi. Cerca di dimenticare che quello è il
dottor Spencer Reid, il suo agente più giovane e brillante,
il pupillo di Gideon.
Jeson, perdonami...
«Reid, sono Hotch» dice con calma,
avanzando un passo dopo l'altro. Tende la mano in avanti, invitandolo a
consegnargli l'arma. «Reid, mi senti?»
Da quella vicinanza, Aaron riesce a vedere il laccio ancora
legato attorno al braccio e i fori rossastri.
Jason, non ci sono
riuscito.
«Dammi la pistola, Spencer. Sistemeremo tutto, ma
devi darmi la pistola. Sai che devo chiedertelo.»
Non sa più a cosa appellarsi. Lui, il supervisore
capo Hotchner, non ha parole.
Jason, cosa devo fare?
«Ascoltami, quegli agenti sono addestrati per
reagire ad un uomo armato, questo lo sai. Sai come andrà a
finire se non mi consegni l'arma. Gideon non deve rivederti in una
cassa.»
Nel sentire il nome del suo mentero, Spencer ha un lieve
sussulto e le sue labbra sembrano mormorare qualcosa, ma la voce non
raggiunge l'orecchio di Hotch e gli occhi del ragazzo restano fissi nel
vuoto. Improvvisamente ha uno scatto e sembra tornare alla
realtà, a guardare qualcosa di reale.
Hotch si volta e costanta con orrore che Morgan si
è posto tra il corpo di Daniel e la pistola di Spencer,
disarmato, le braccia lungo i fianchi e lo sguardo sicuro.
«Morgan, cosa fai?»
«Spencer» dice Derek, riuscendo
finalmente ad ottenere la sua attenzione. Gli occhi del dottore si
arrossano e le spalle hanno un lieve sussulto. «Hai fatto una
stronzata e lo sai. Ma possiamo rimediare. Vuoi che ti ascolti? Vieni
con me e avrai la mia totale attenzione. Mantieni la tua
promessa.»
Spencer abbassa la pistola, prontamente afferrata da Hotch,
che la mostra ai polizzioti. Morgan sorregge il dottore, che sembra
volersi accasciare al suolo, e lascia che pianga. È un
pianto secco, con poche lacrime, ma che riesce a spazzare l'aria e a
renderla insostenibile. Quando finalmente si calma, si distacca dal
corpo dell'amico e si raddrizza. Slaccia il cordone di plastica dal
braccio e se lo massaggia distrattamente.
Poi, inaspettatamente, congiunge i polsi e li mostra a
Derek, che resta allibito.
«Reid, non è necessario» lo
informa Hotch.
Ma il ragazzo è irremovibile e fissa negli occhi
Derek. «Devo subire un interrogatorio regolare.
Fallo.»
Con le manette ai polsi e la testa china, Spencer Reid
lascia il suo appartamento con la sensazione che non vi farà
più ritorno. L'ultimo sguardo che rivolge al corpo di Daniel
è privo di amore, mentre nel cuore gli aleggia uno strano
senso di quiete.
Ora posso arrendermi.
«Dobbiamo proprio farlo
così?» sbotta Morgan, lo sguardo che evita la sala
oltre il vetro a una via. Hotch, invece, non distoglie lo sguardo dalla
figura quasi china sul tavolo di metallo.
«Lo ha chiesto lui, vuole essere trattato come
qualunque altro criminale.»
«Ma, Hotch, lui non è un
criminale!»
Il supervisore capo si volta a guardare l'agente.
«In termini giuridici, lo è. Se non manteniamo un
certo distacco il caso verrà passato a un'altra
unità.»
«O agli affari interni» precisa JJ,
stringendosi il grembo con le braccia. Ha lo sguardo lucido, ma non
vuole davvero darlo a vedere.
«Voglio parlarci» dice Morgan.
Il capo scuote la testa. «No, andrò da
solo.»
«Oh avanti Hotch, credi che farei dei
casini?»
«No, credo che la tua presenza non lo aiuti.
È troppo presto.»
«Ma di che diavolo parli?» ringhia il
ragazzo, prendendo la postura di un animale inferocito. «Se
è per quello che è successo ad Atlanta-»
«Non voglio che entri ora perché non
sei lucido. Ha bisogno di qualcuno che appaia il più
imparziale possibile.»
«Certo, come no» mormora a denti stretti
il ragazzo.
«Hotch ha ragione» dice JJ, facendoli voltare
entrambi. «Sei l'unico che può farlo»
aggiunge guardando Hotch, che in quel momento si prepara a indossare la
sua maschera migliore.
Nella piccola sala il freddo è secco e pungente,
ma inutile: Reid continua a sudare e a bere acqua per reintegrare i
liquidi. Hotch si siede di fronte, ottenendo che l'altro alzi la testa
e lo guardi, con occhi che perdono pian piano il rossore e diventano
due aghi perforanti.
«Reid, vuoi parlarmi di cosa è
successo?»
Il giovane agente si morde un labbro e parla quasi in un
sussurro. «Lui ha cercato di procurarmi un'overdose. La
pistola era sul tavolo. Mi sono difeso.»
Hotch annuisce e capisce che, per ora, non
otterrà molto altro. Decide di cambiare argomento.
«Ecco cosa faremo» dice il supervisore,
aprendo la cartella dell'FBI. «Se sei d'accordo, ti
mostrerò le informazioni che abbiamo acquisito e la nostra
ricostruzione degli eventi.»
Reid annuisce e congiunge le dita ossute sul tavolo,
decidendo di rivolgere il suo sguardo ad esse.
«Bene.» Hotch finge di leggere qualcosa,
poi alza lo sguardo e fissa il ragazzo per tutto il tempo,
monitorandone le reazioni. «Due donne sono state assassinate
a distanza di tre giorni l'una dall'altra. La firma del SI è
un numero sulla fronte, rispettivamente il cinque e il quattro. La
nostra ipotesi è che stesse intentando un conto alla
rovescia, ripercorrendo i cinque stadi del dolore. È un
percorso espiatorio e un modo di ritorcere il proprio dolore su chi
ritiene esserne responsabile.» Hotch prende dal fascicolo una
foto e la gira verso Reid. Il ragazzo la guarda appena, ma poi
distoglie lo sguardo. «Daniel Roland, lo riconosci di sicuro.
Venticinque anni, intelligente e sociopatico. All'età di sei
anni il padre muore e la madre cerca di crescerlo al meglio, ma le
viene revocato l'affidamento a causa di gravi turbe maniaco-depressive.
Due settimane fa la madre muore nella clinica che la ospitava da
quindici anni. Mai una visita del figlio, una lettera o una chiamata.
Siamo al fattore di stress. Gli omicidi vengono scatenati da questo
articolo.» Hotch pone davanti alle mani di Reid anche
l'articolo su Madison Lorenz. «Daniel perde il controllo e
decide di uccidere Madison Lorenz, santificata a vittima ingiustamente.
Nella sua mente si è già formato il piano.
Contatta anche la seconda vittima, Jordan Norris, e la convince a
precipitarsi a Washigton.»
Reid poggia un polpastrello tremante sulla foto di Madison,
poi lo ritrae quasi inorridito, sotto gli occhi vigili di Hotch.
«Il suo piano diventa via via più
grandioso: ora vuole colpire il sistema che lo ha
abbandonato.»
Spencer si acciglia davanti alla foto del murales.
«Si dissocia, non riuscendo a sostenere il divario
tra il suo bisogno di vendetta contro la madre e il potere, incarnato
dal padre, e il senso di colpa per averla abbandonata. Parla di
sé in terza persona, si giustifica, e cresce la sua
frustrazione. Decide allora di avvicinare il membro più
giovane di quella squadra che lui ritiene più in torto,
perché quella che avrebbe dovuto capire e salvare i
sociopatici come lui. È qui che entri in scena
tu.» Hotch fa una pausa e osserva le mani del dottore
torturarsi a vicenda. «In qualche modo viene a sapere delle
tue debolezze e le sfrutta a sua vantaggio.» La vergogna
sparge un lieve rossore sul viso emaciato. «Proabilmente tu
saresti stato la sua ultima vittima, l'estremo atto vendicativo.
Colpire l'FBI al cuore e compiere una vendetta a nome di Tobias
Henkel.»
Hotch, che nel parlare si era sporto in avanti,
ora lascia andare la schiena alla sedia e attende, ritto e rigido, che
Reid abbia una reazione. Inaspettatamente, il ragazzo esce
dall'immobilità scuotendo la testa e mormorando un no che
sembra una preghiera.
«Ora tocca a te dare la tua versione dei
fatti» gli ricorda Hotch.
Le labbra del ragazzo hanno un tremito, un tentativo di
sorriso che appare solo grottesco. Alza lo sguardo e lo punta in quello
di Hotch. Le mascelle si serrano per un attimo, i nervi si tendono.
«Tutto ciò che hai detto
è...sensato» ammette Spencer. «Ma hai
sbagliato su un punto fondamentale: Daniel non c'entra, se non come
spettatore. Io ho ucciso quelle donne.»
Hotch si acciglia. «Spencer, sei sotto shock.
Quello che dici non è la realtà.»
Il ragazzo non cede e ribadisce: «Le ho uccise io.
E non sono sotto shock.»
Oltre i vetri Morgan spalanca la bocca in
un'espressione di stupore. Cerca gli occhi di JJ, spalancati.
«Si è fuso il cervello!»
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Capitolo 8 *** Resa ***
8
Resa
Così addio speranza,
e con la speranza, paura addio,
Addio rimorso: ogni bene
a me è perduto:
Male, sii tu il mio bene.
John Milton
«Due settimane fa ho avuto un crollo. Mi sono
svegliato nel mezzo della notte, alle tre e trentadue. Sudavo e mi
tremavano le mani. Era ormai da più di due anni che non
avevo un flashback.»
«Cosa hai visto?»
«Tobias. Mi drogava, ancora. Il passo dall'incubo
al craving è stato davvero breve. Ma non ho assunto nulla,
ero pulito quella notte.»
«Ti riferisci alla notte in cui è morta
Madison Lorenz?»
«Sì. Non ho alcun ricordo di quei
fatti. Mi sono risvegliato nel mio salotto, indossando le
prove.»
«Quali prove?»
Spencer chiude gli occhi, come a ricordare un elenco.
«Nel terzo mobile della cucina, secondo sportello a destra,
troverete una scatola, che contiene un pezzo di tessuto:
risulterà positivo al sangue di Madison Lorenz. In una busta
sono contenuti coltello e camicia usati nel secondo omicidio, quello di
Jordan Norris. Grazie al cattivo stato dei bagni della linea A, li ho
ritrovati dove li avevo lasciati. È lì, vicino
alla seconda scena del crimine, che ho avuto un secondo risveglio dopo
un'amnesia lacunare post-omicidio.» Apre gli occhi, duri come
marmo. «L'orologio indossato dalla prima vittima è
il mio. Sul cellulare troverete una chiamata che ho ricevuto da Jordan
Norris il giorno precedente l'omicidio, da una cabina pubblica nei
pressi dell'areoporto.»
«Cosa mi dici di Daniel?»
Spencer non batte ciglio. «Ha assistito per puro
caso al primo omicidio, e preso dalla devozione mi ha seguito fino a
riuscire ad avvicinarmi. Quella sul muro è la sua grafia, un
segno di ammirazione.»
Hotch richiude il fascicolo e lo lascia sul tavolo,
poggiandovi sopra le mani chiuse.
«Questa è una confessione.»
Spencer sorride amaramente. «Dammi carta e penna e
lo diventerà.»
Il supervisore capo si alza e lascia la sala, richiudendosi
la porta alle spalle.
Non ha fatto un passo nel corridoio, che si scontra con
Morgan.
«Non gli crederai?»
Hotch lo spinge indietro, per evitare che Spencer, o peggio
altri, possano sentirli. Quando è certo che loro tre sono
soli, guarda l'agente negli occhi infervorati.
«La sua è una confessione. Reid non
è stupido, nel suo appartamento troveremo esattamente
ciò che ci ha indicato. Apportando delle modifiche fattibili
al profilo, combacerà.»
«Ma cosa vi prende a tutti?» sbotta
Morgan, cercando l'approvazione di JJ che, invece, abbassa rammaricata
lo sguardo. «JJ, avanti, diglielo! Digli che Reid non
potrebbe mai...farlo!»
«Derek» mugola la ragazza in una sorta
di preghiera.
«Non è così
semplice» interviene Hotch, salvando la collega in
difficoltà e costringendo Morgan a guardarlo.
«Non importa ciò che pensiamo noi. Ovvio che non
credo sia il colpevole, ma una confessione è una condanna.
Abbiamo poche ore prima che il capo Strauss intervenga. Dovremmo
convincerlo a ritrattare. Finché non c'è nulla di
scritto, possiamo ancora salvare la situazione.»
Il cellulare di JJ comincia a squillare.
Rossi è in piedi, di fronte al letto di Reid, e
tiene le mani guantate sui fianchi. Non riesce davvero ad abituarsi
all'idea di dover frugare nello spazio intimo del ragazzo. Gli sembra
una violazione gratuita, seppur necessaria.
Meglio noi
che altri, pensa per darsi forza.
La scientifica è ancora al lavoro in tutta la
casa, pochi tecnici per ora. Uno è appena entrato e lo sta
richiamando. «Mi scusi, dovrei spegnere la luce un
attimo.»
L'attenzione dell'italiano cade sulla piccola torcia annessa
di filtro blu. Sa troppo bene il suo utilizzo e, malgrado il moto di
protesta che gli sale dallo stomaco, sa di non potersi opporre senza
far danno all'indagine, e quindi a Reid. Perciò annuisce e
resta nel buio, ad osservare la luce irradiare aloni blu per tutta la
stanza. Il tecnico solleva con cautela la coperta abbandonata sul
letto, fino a scoprire il materasso sottostante. Rossi non riesce a
distogliere lo sguardo, anche se vorrebbe davvero: al centro del
materasso nell'alone blu compaiono macchie più corpose.
«Mi avverta quando ha finito» ringhia
Rossi, lasciando la stanza mentre il tecnico estrae dal taschino un
tampone.
Prentiss esamina ogni dettaglio. Non riesce a fermarsi, a
non lavorare. Ora, più che mai, gli è necessario.
Cercando di mantenere la freddezza che le è tipica, apre con
cura ogni cassetto, sfoglia ogni libro sparso in giro, rivolta i
tappeti.
«Come procede qui?» chiede Rossi, che
oggi sembra stanco e provato.
«Non ho ancora trovato nulla di
rilevante.» Prentiss si alza, lasciando andare un libro.
«Hai ricevuto il messaggio di JJ?»
Rossi annuisce e la mora allarga le braccia incredula.
«Io non riesco a crederci. Perché proclamarsi
colpevole?»
«È confuso, Daniel lo ha
raggirato.»
I due profiler restano in silenzio, finché non
giunge loro la voce dell'agente Edwards, che li richiama dall'angolo
cucina.
«Credo di aver trovato qualcosa, era in uno
sportello, neanche tanto nascosto.»
Quando l'agente solleva il coperchio della scatola, Prentiss
guarda allibita Rossi. «Chiamo JJ.»
JJ abbassa lentamente il cellulare. Ora non possono
più fingere che sia tutto un malinteso, eppure non
può davvero crederci. Non il suo Spence, tutti ma non lui.
«JJ, che succede? Era Prentiss? Parla»
la incita Morgan.
«Loro...» deve schiarirsi la voce per
ricacciare le lacrime. «Loro hanno trovato la scatola con le
prove. La scientifica ha rilevato tracce di sangue nel bagno.»
«Dannazione! È uno scherzo?»
ringhia Morgan. «Ce li avrà messi quel pazzo di
Daniel!»
«Cos'altro?» chiede Hotch.
«JJ, cos'altro? Cosa possono usare in tribunale?»
La ragazza si riscuote e aggrotta le sopracciglia, nel
tentativo di far chiarezza nella mente. «Boccette di
idrocodone e siringhe usate. Ah, e nel letto tracce di...liquido
seminale.»
Morgan resta per un attimo impietrito.
Spencer.
Poi si volta di scatto verso il capo. «Fammi
entrare.»
Hotch incrocia le braccia al petto, riflettendo.
«D'accordo» concede alla fine, ed è
costretto a bloccare l'agente per un braccio prima che si fiondi nella
stanza. «Morgan, ricorda cosa c'è in gioco. Sii
duro, spaventalo se serve, ma ricordati con chi hai a che
fare.»
«L'ho già dimenticato una volta, non
farò ancora lo stesso errore.»
Spencer comincia a manifestare i primi segni di disagio,
trattenuti a stento. Si nota nelle mani arrossate che si torturano
ancor più nervosamente, negli occhi stanchi che saettano a
destra e sinistra, come a seguire due fantasmi che giocano a ping-pong,
e nel piede sinistro che tamburella silenzioso il pavimento freddo.
Con tutta sincerità, non saprebbe dire se
è il craving a parlare attraverso il suo corpo o se,
piuttosto, non sia il corpo a cercare di comunicargli qualcosa.
E poi, cosa?
Quando la porta si spalanca, ha un sussulto e il suo disagio
aumenta. Nella stanza entra Morgan, invadendo uno spazio che per un
attimo è stato solo suo, come se si stesse infiltrando in
pensieri, ricordi e immagini che si sono espansi fino a graffiare i
muri della piccola stanza. Nove metri quadri sono troppo stretti per la
sua mente.
L'agente si siede di fronte a lui senza dire una parola,
senza accennare un saluto, in definitiva senza considerarlo. Spencer si
sente abbastanza infastidito, cosa che non si attenua quando considera
che quello è un atteggiamento standard. È intento
a cercare di intuire quale sia il profilo che Morgan sta applicando su
di lui, quando il frusciare di fogli spezza i suoi pensieri. Derek ha
aperto il fascicolo, alla ricerca di un plico di fogli tenuti assieme
da una graffetta. Il primo è una foto di Daniel, che
però posiziona in modo che Spencer possa vederla solo al
rovescio, e distorta dalla grossa macchia di luce provocata dalla
lampadina sulle loro teste.
«Ti dirò subito che non mi interessa
come pensi di aver commesso i due omicidi, o il
perché.» Morgan tiene la schiena dritta e la voce
ben modulata sulle tonalità più basse.
Sta cercando
di intimidirmi.
Non può davvero pensare che ci
cascherà, eppure Spencer sente un lieve pizzichio alla base
del collo.
Morgan estrae dal plico una foto e la pone al fianco della
prima. Il dottore ha un lieve accelleramento del battito, davanti
all'immagine di diverse boccette trasparenti e bustine contenenti
polveri marroni.
«Daniel Roland è stato arrestato due
anni fa per possesso di droga finalizzata allo spaccio in ambienti
accademici» dichiara Morgan, come se stesse tenendo una
lezione studentesca. «Per la precisione...» legge
da un foglio: «diciotto boccette di idrocodone e cinquanta
grammi di eroina. Per questo motivo è stato espulso
dall'università, dove studiava per diventare medico. Ha
scontato solo un anno e mezzo. Sembra che il suo avvocato sia riuscito
a farlo scagionare.» Morgan solleva le sopracciglia.
«Incredibile che tipo di feccia lasciano circolare per
strada.»
Spencer sente l'agitazione invadergli il corpo e
annebbiargli la mente.
«Oh, c'è anche un altro capo d'accusa,
ma risale a diversi anni prima. Era minorenne e fu scagionato senza
drammi. Pensa un po': prostituzione. Pare che il vizio della droga sia
nato più o meno in quel periodo. Mi chiedo come sia
sopravvissuto fino ad ora.»
Il dottore non riesce più a trattenersi.
«Basta» mormora.
Morgan si sporge in avanti. «Scusa, come hai
detto?»
«Smettila!» strilla Spencer, battendo un
palmo sul tavolo e guardandolo colmo d'ira. «So cosa stai
cercando di fare.»
«Lo sai? Io ti sto solo dicendo la
verità» lo rimbecca Morgan. «Credo sia
tardi per fingere ancora che non esista la realtà.»
«Questi...giochetti non funzionano con
me.»
«A me sembrano funzionare» dice Morgan,
accorciando le distanze, così da sentire il suo fiato sul
viso. «Ti senti punto nel vivo, vero? Al cuore della tua
intelligenza. Tu, il genio, ti sei fatto raggirare da un
gigolò drogato.»
Spencer spalanca gli occhi e balza su dalla sedia.
«Basta! Stai...no!» Ha un giramento di testa e si
appoggia al bordo del tavolo, ma non vuole mostrarsi debole. Non
può.
Derek,
perché?
Riesce a ritrovare un briciolo di calma e a risedersi,
piano, come se le gambe minacciassero di cedergli e sciogliersi
lì a terra. «Tu...non capisci» mormora a
testa china.
«Cosa non capisco? Spiegamelo, avanti.»
«Non...posso. Io...»
«Tu cosa, Spencer?»
«Daniel non c'entra» ringhia Spencer,
con un suono tra lo stridulo e il cupo. Alza di scatto la testa e fissa
il collega. «Io non sono amareggiato o deluso o...o depresso
perché Daniel è morto, perché io l'ho
ucciso.»
«Allora perché? Avanti,
parla!»
«Perché io sono andato fuori di testa.
Perché ho ucciso due donne innocenti. Perché sono
tornato su un sentiero al quale avevo detto addio. Perché tu
sei qui e mi parli come se sapessi tutto, come se avessi già
capito ogni cosa. Non mi parli come mi avresti parlato prima, non mi
guardi come facevi prima. Io per te non sono più la stessa
persona. Sono un mostro.»
Gli occhi si riempiono di lacrime e quelli di Morgan hanno
un'esitazione. Dopo un lungo, strenuante silenzio, uno strano
ottundimento pervade l'agente.
«Reid...» dice alla fine.
Oltre il vetro, JJ è un fascio di nervi e
sobbalza vistosamente quando Reid comincia ad agitarsi.
«Hotch, devi fare qualcosa.»
Il supervisore capo alza una mano. «Stai
tranquilla.»
«Come posso? Morgan è furioso e io non
posso star qui a guardarli azzannarsi a vicenda.»
«Hai ragione, c'è tensione. Ma ci
sarà utile.»
JJ cerca di confidare nell'esperienza e nell'acuzia del
capo, ma un timore primordiale le domina il petto.
Note: Eccomi di
nuovo. Mi scuso per il ritardo, ma ho avuto ben poco tempo.
Sarò più precisa, promesso! Grazie infinite a chi
ha la pazienza di seguirmi.
A presto.
Ax.
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Capitolo 9 *** Alias ***
9
Alias
Dare un significato alla vita
può sortire follia,
ma la vita senza
significato è la tortura
dell'irrequietezza e del
desiderio vago –
è una nave
che anela il mare eppure lo teme.
Edgar Lee Masters
Morgan, uscito dalla stanza interrogatori per pochi,
interminabili minuti, rientra. Se Spencer fosse più lucido,
se solo avesse il coraggio di guardarlo negli occhi, allora noterebbe
che l'espressione del collega è radicalmente cambiata. Si
siede, sospira e poggia sul tavolo una nuova cartella.
«Ricominciamo.»
Reid solleva la testa. È stanco, molto
più di quanto avrebbe mai potuto prevedere. Quel diverbio
è stato l'urto finale, che lo ha sbalzato a terra,
cancellando ogni resistenza. Il collo è indolenzito dallo
sforzo di sorreggere una mente immersa negli incubi, e le mani
cominciano a fargli male.
«Dato che non vuoi sentire quello che ho da dire,
parlami tu.»
«Di cosa?»
«Comincia da quello che è successo
stasera.»
Spencer prende una boccata d'aria che gli brucia i polmoni.
La voce si trascina a stento attraverso la gola riarsa.
«Quando ho saputo della tua visita, ho pensato di fuggire. In
realtà, la via di fuga che avevo in mente era molto
più estrema di un cambio di città.»
Morgan sente la bocca seccarsi.
«Ma, mentre preparavo le valigie, mi sono reso
conto dell'assurdità. Ero finito in un circolo parossistico,
grottesco. Ho deciso che avrei fatto quello che dovevo fare fin
dall'inizio: costituirmi.»
«Se credevi così fermamente nella tua
colpevolezza, perché non l'hai fatto prima?»
Spencer sorride debolmente.«Credevo di potervi
salvare. Non ci sono riuscito.» Prende una pausa.
«Daniel ha insistito perché prendessi una dose di
idromorfone.» Scuote la testa, incredulo di sé.
«Mi ha convinto. Riusciva a convincermi. Non sapevo come, ma
ora ne sono certo: era uno psicopatico da manuale. Eppure non me ne
sono accorto.»
«Non volevi vederlo.»
«Già.»
«Cosa è successo dopo?»
Spencer aggrotta le sopracciglia, come intento a leggere
qualcosa di davvero importante. «Mentre legava il laccio mi
sono accorto che qualcosa era cambiato nel suo linguaggio del corpo. Le
pupille dilatate, il respiro corto e lo sguardo...ne abbiamo visti a
centinaia di simili. L'istinto ha fatto il resto.»
«Hai capito che stava per ucciderti.»
«Non aveva mai preparato una siringa lontano dalla
mia vista. C'era qualcosa di strano. Quando ho capito che doveva aver
mischiato il dilaudid a un'altra sostanza, mi sono ribellato. Non ero
molto lucido, poco prima...era una bassa dose, ma ancora non era
svanita. Non sono riuscito a bloccarlo, era più forte.
Così c'è stata una collutazione...» Si
interrompe e lascia che il silenzio parli per lui.
«Sai cosa penso?»
Spencer solleva lo sguardo su Morgan.
«Credo che tu non abbia ucciso nessuno, se non il
vero SI.» Si alza e lo guarda con una nota si speranza.
«Credo che Daniel ti abbia incastrato e che, quando sei
sfuggito al suo controllo, abbia deciso di sacrificarti. In ogni caso
le prove avrebbero portato a te. Quando ha iniziato a meditare di
uccidere si è reso conto della possibilità,
sicuramente già studiata più volte, di commettere
un errore. Ha scelto il capo espiatorio che meglio si addiceva alle
circostanze. Deve averti studiato bene, non a caso tu hai preso a cuore
Nathan ed Owen, in un modo che è facilmente reperibile tra
media e internet. Ti ha seguito, è riuscito a drogarti e a
rubarti l'orologio. Magari ha usato un gas volatile o ti ha sciolto
qualcosa nel bicchiere al bar. Casi da manuale. Aveva premeditato che
entrassi in confusione e, per evitare che gli sfuggissi, ti ha
avvicinato. Così eri più gestibile e non solo
rappresentavi una via di fuga, ma eri anche una gratificazione per il
suo ego.» Morgan mostra al ragazzo delle foto che lo
ritraggono. «Le ha trovate la polizia nell'appartamento di
Daniel. Te le ha scattate pochi giorni prima del primo omicidio. Ti
bastano come prova?»
Spencer spalanca gli occhi, incredulo, mentre Morgan lascia
la stanza.
Come
ho fatto a non pensarci prima?
Il dottore si tiene la testa tra le mani, cercando
di racchiudere i propri pensieri e di non lasciarli disperdere.
È incredibile come, a volte, un
semplice cambiamento di prospettiva possa rivoluzionare una situazione.
Era così sicuro della propria colpevolezza, così
ossessionato dai suoi crimini, così terrorizzato dalla
prospettiva di aver perso la ragione, da non riuscire a pensare in
grande. Gli sono sfuggite variabili importanti, ha tralasciato fasci
interi di idee, come guardare un arcobaleno e perdersi metà
dello spettro di luce. Si perde l'insieme.
Un sistema
è più della somma delle sue parti.
Comprende ora che il sistema non è lui, non lo
è mai stato. Lui era solo una sua parte, un numero
nell'equazione, un atomo in una molecola molto più lunga.
Uno strano sorriso si allarga sulle labbra screpolate.
Sono innocente.
Passa almeno un'ora, nella quale Spencer riesce a poggiare
la fronte al tavolo di ferro e a chiudere gli occhi. Sta quasi per
addormentarsi, dopo troppo tempo.
«Hei, ragazzo.»
Alza la testa di scatto e sorride, sinceramente. Anche
questo non lo fa da troppo. E da altrettanto tempo non vede il viso di
Morgan illuminarsi a quel modo.
Hei,
ragazzo...Non gli è mai mancato tanto.
«Tutto bene?»
Spencer si stropiccia gli occhi arrossati.
«Sì, certo. Sono solo molto...stanco.»
«Hai ragione, prometto che sarò rapido
e indolore.» Derek sorride e si siede. «Ho la tua
chiave di buona uscita. La polizia ha perlustrato l'appartamento di
Daniel. Oltre alle foto è venuto fuori un bel altarino in
tuo onore. Sapeva un po' troppo su di te. Aggiungendo questo al
profilo, ai suoi precedenti e al suo tentativo di omicidio, direi che
l'accusa nei suoi confronti reggerà bene in tribunale. Non
c'è prova fisica che colleghi te agli omicidi o che possa
mettere in dubbio la sua colpevolezza. Ha cercato di incastrarti, ed
è ovvio.»
Il dottore annuisce, ma sente nell'aria un però
in arrivo.
«Ora il tasto dolente: ci trasferiamo nel
dipartimento di polizia del settimo distretto, quello in cui hanno
avuto luogo gli omicidi. Dovrai lasciare agli agenti una deposizione
dei fatti della scorsa sera. Pensi di farcela?»
«Voglio solo chiudere questa storia»
afferma Spencer. «Se per aumentare la mia
credibilità e debellare ogni dubbio
sull'imparzialità dell'indagine, dovrò farmi un
viaggio dall'altra parte della città, sono disposto ad
andare anche subito.»
Morgan sorride: il suo piccolo genio non lo delude mai.
Si chiede se Spencer lo sappia, se sappia che in fondo non
è deluso. Ma decide di affrontare queste questioni
più tardi, all'alba di un giorno migliore. Questo
è stato già troppo lungo.
«Bene, allora siamo d'accordo.»
I due si alzano, Spencer un po' traballante sulle gambe.
Morgan gli si avvicina e gli mormora piano. «Per la
questione del dilaudid...nessuno saprà quanto ne hai assunto
in questi giorni. Intesi?»
Il dottore annuisce, abbassando gli occhi. La vergogna
brucia ancora alla bocca dello stomaco.
Prentiss e Rossi tirano un grosso sospiro di sollievo e
ripongono i cellulari nei taschini. Si scambiano uno sguardo luminoso.
«È finita.»
«Povero ragazzo» mormora l'italiano,
raccogliendo le sue cose per lasciare, finalmente, l'appartamento di
Spencer. «Dovranno ripulire per bene questo posto, ma almeno
un giorno potrà tornarci.»
Prentiss annuisce, ma qualcosa sembra adombrarle il viso.
«Emily, qualcosa ti turba?»
«Come? No, nulla, stavo solo riflettendo. Credi
che tornerà come prima? Intendo Reid.»
Rossi sorride. «Se c'è qualcuno che ne
è capace, è lui. Sottovaluti la forza
d'adattamento di quel ragazzo.»
L'agente Edwards da' ordine alla scientifica di abbandonare
il campo e si avvicina ai due agenti. «Le analisi di
laboratorio saranno pronte tra qualche giorno, ma sicuramente
confermeranno la versione del dottor Reid.» Poi guarda la
pozza di sangue che va seccandosi a pochi centimetri dai suoi piedi.
«Jimi Hendrix» sussurra.
«Come ha detto?» chiede Rossi.
«Oh, una sciocchezza» risponde
sorridente Edwards. «C'è chi pensa che il
manciniscmo sia la mano della creatività, non credevo lo
fosse anche del male. Bhe, io vado in centrale» dice poi,
strofinandosi le mani. «È stato un
piacere.»
Edwards lascia l'appartamento con lunghe falcate, come se
avesse questioni più urgenti da sistemare.
Emily lancia uno sguardo interrogativo a Rossi.
«Mancinismo?»
Rossi medita, poi i suoi occhi si illuminano. Estrae dalla
tasca il cellulare e compone il numero.
«Garcia, Daniel Roland era mancino?»
«Domanda interessante» ironizza la
ragazza, rendendosi poi conto della serietà del collega.
«Cerco subito...Dunque, in effetti sì, ma nella
sua scheda è riportato un incidente in carcere: un detenuto
gli infilò un...wuf...un coltello nella mano sinistra.
Vennero recisi alcuni nervi e da allora ha imparato a scrivere con la
destra. Non sapevo fosse possibile.»
«Sì, se sei ambidestro ma hai sempre
usato una sola mano» risponde Emily.
«Grazie, Garcia.»
«Al vostro servizio.»
Rossi ha ancora il cellulare in mano e una strana sensazione
lo turba, come all'avvicinarsi di un temporale.
«Daniel era alto un metro e settanta.»
Prentiss ha uno scatto. «Hai visto Edwards
scrivere? È mancino.»
Rossi impallidisce e un mio
Dio sincero gli scivola dalle labbra.
Spencer è seduto nella sala interrogatori alla
centrale di polizia del settimo distretto di Washigton. È
così stanco che ormai non riesce neanche più a
tenere la schiena dritta. Chiude gli occhi e, inevitabilmente, immagini
svariate di quegli ultimi, tremendi giorni gli passano dietro le
palpebre, come un rullino sbobinato in fretta. Ha la strana e pungente
sensazione che il sistema ruoti male, che un ingranaggio sia
malfunzionante. Una melodia stridula, nella quale è
difficile individuare il membro dell'orchestra che si è
assentato.
Ma non è un'assenza, piuttosto una manomissione.
Spencer non sa ancora cosa voglia dire nel suo caso, ma lo sente nel
suo cervello primordiale. Lo avverte.
Cerca di isolare ogni variabile, ma è difficile.
La porta si apre e fa capolino un giovane agente. Quando i
loro occhi si incrociano, Spencer ha la strana sensazione di conoscere
quel viso, qualche tratto che nell'insieme perde forza.
«Dottor Reid, sono l'agente Edwards» si
presenta, sorridendo a mostrare denti bianchissimi. Gli porge un block
notes e una penna tenuti distrattamente sottobraccio. Gli posa davanti
anche un caffé fumante. «Deve essere stanco, le ho
portato un carico di energia. Scriva pure con calma.»
«Grazie, molto gentile.»
Uno strano lampo serpeggia negli occhi dell'agente, che
sosta un attimo di più prima di uscire. Ma Spencer ora non
riesce a farci caso. Butta giù a grossi sorsi il
caffé, rischiando di bruciarsi la lingua. La sua mente
è ancora in esplorazione.
Emily e David entrano con furia nella sala riunioni, dove
Penelope, Araron e Jennifer discutono con tranquillità e
volti visibilmente sollevati.
«Siete tornati» li accoglie Hotch.
«Spencer è al distretto con Morgan.»
I due agenti si scambiano un'occhiata.
«Che succede?» chiede JJ preoccupata.
«Garcia, puoi reperire informazioni sull'agente
Phillip Edwards?» chiede Rossi.
Mentre Garcia comincia a digitare, Hotch incrocia le braccia
al petto, stanco e innervosito dalla brutta nottata. «Dave,
cosa succede?»
«Edwards ha fatto riferimento al mancinismo del
SI. Ma Daniel era ambidestro e da due anni usava la mano destra,
perché la sinistra è stata lesionata.»
«Quindi non potrebbe impugnare con forza un
coltello usando la mano sinistra» aggiunge Prentiss.
«Nessuno ha menzionato che il SI potesse essere
mancino» obietta JJ.
«Eccolo!» esulta Garcia. «Oh,
questo è preoccupante.»
«Cosa hai trovato?»
«È quello che non ho
trovato.» L'informatica alza gli occhi sulla squadra, prima
di tornare a fissare il pc. «L'agente Phillip Edwards
è morto in servizio tre anni fa a Las Vegas, ma è
ricomparso esattaente tre mesi fa qui a Washigton. Stesso numero di
previdenza sociale, stessa persona.»
«Era mancino?» chiede Rossi.
«Negativo, ecco la foto.»
La squadra guarda allibita il volto chiaro e la capigliatura
bionda.
«L'agente Edwards che abbiamo conosciuto non
esiste» conclude Prentiss. «Chiunque sia, ha rubato
l'identità di un agente morto.»
«Ha fotto di più» interviene
Garcia. «Devo ammettere che è stato maledettamente
bravo. È entrato negli archivi digitali della polizia, ha
eliminato ogni traccia dell'agente Edwards e ha creato un falso
curriculum. Ogni traccia della morte di Edwards è reperibile
solo tramite articoli.»
«È riuscito così a entrare
nella polizia come agente in prova.»
«Dove si trova ora?» chiede duro Hotch.
«In centrale con Spencer» mormora
Prentiss.
Spencer ha il foglio davanti ancora vuoto. Vorrebbe riuscire
a trovare la risposta alle sue domande, ma non sa neanche quale sia la
domanda. Sa solo che quel senso di fastidio non va via. Decide di
prendere in mano la penna e inzia a girarsela tra le dita. Quando gli
cade, con un tonfo secco, si rende conto di essersi macchiato le mani,
come quando era bambino.
Cerca di strofinare via l'inchiostro e ha un'intuizione
così forte da sconvolgerlo. Come un potente orgasmo, si
diffonde ovunque nel corpo, legando a un'idea altre cento.
Rivede le mani dell'agente Edwards mentre gli porgeva il
caffé: mano sinistra sporca d'inchiostro. Mancino. Rivede un
dettaglio della propria camicia quella mattina: uno spruzzo di sangue
sull'avambraccio sinistro. Nella sua mente vede un uomo, mancino,
pugnalare una donna al petto, il braccio destro si macchia nella parte
interna, per necessità il sinistro, il braccio sollevato, si
macchia all'esterno.
L'assassino era mancino.
Rivede Daniel con la siringa in mano, che tiene la boccetta
nel palmo della mano sinistra, percorsa da una lunga e mal cucita
cicatrice, mentre il pollice dell'altra mano tira su lo stantuffo.
Daniel non era mancino.
Rivede il guizzo negli occhi dell'agente.
Pensa al fatto di non aver mai visto Daniel prima di quella
notte d'alcol e droga e di come, invece, ricordi di aver bevuto un
bourbon in un bar pieno di polizziotti. Un bar dove c'era anche
l'agente Edwards. Un bar nel quale qualcuno gli ha offerto da bere.
Tutti i tasselli vanno al loro posto, la melodia diventa
incalzante e precisa. Il sistema gira perfettamente.
Come gira il suo stomaco, al ritmo della sua mente. Un
dolore acuto gli arpiona le membra. I muscoli si contraggono
dolorosamente e la vista diventa nebbia.
Scivola a terra trascinando con sé i fogli gialli
e la sedia di metallo, mentre qualcuno chiama il suo nome.
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Capitolo 10 *** Monitor ***
Note:
Salve,
lettore! Mi sento in dovere di proferire altre scuse profondamente
sincere. Purtroppo è stato un periodo intenso sotto molti
aspetti, che mi ha lasciato distratta e occupata (direi più
immersa); ora eccomi, pronta a tornare a pubblicare e soprattutto,
grazie Entità Superiore chiunque tu sia (o se tu sia), a
scrivere. Ora cercherò di pubblicare più
prontamente e annuncio che questo è il penultimo capitolo,
quindi presto questa storia giungerà alla fine (niente
più lunghe attese, se qualcuno ancora non ha deciso di
mandarla al diavolo e dimenticarla).
Piccolo sunto, per chi si fosse comprensibilmente
dimenticato a che punto della storia siamo: in seguito alle indagini,
il profilo e la testimonianza di Morgan hanno portato la squadra da
Daniel Roland, ma ormai era tardi. Il ragazzo ha tentato l'ultimo
estremo gesto di follia: uccidere Spencer provocandogli un'overdose.
Reid è riuscito a evitare questa tragica fine, uccidendo
Roland. Portato in centrale per essere interrogato, dopo un duro
confronto con Morgan ed Hotch, ha realizzato di non aver mai commesso
gli omicidi dei quali si riteneva colpevole. Pronto a firmare la
dichiarazione di innocenza, raccontando gli avvenimenti con rinnovata
speranza, riesce a giungere all'allarmante conclusione finale: l'agente
Edwards della polizia non è chi sembra...
10
Monitor
Niente è
più doloroso per la mente umana
della calma mortale
dell'inattività e del disincanto
che fa seguito alle
emozioni provocate da una rapida successione di eventi,
cancellando dall'anima
ogni speranza e anche ogni paura.
Mary Shelley
JJ ha due polpastrelli poggiati delicatmente sul vetro, dove
le persiane sottili lasciano intravedere solo piccoli strati della
stanza bianca. Chiude gli occhi colmi di lacrime, ricordando la prima
volta che ha incontrato Spencer. Nella sua mente non c'è
un'immagine precisa, né una circostanza particolare, ma solo
la sua primissima impressione. Tenerezza. Ecco cosa gli
ispirò. Molte persone reagiscono in modi particolari alla
presenza del suo amico: irritazione, diffidenza, compassione. Eppure
lei non lo ha mai guardato così, non ha mai dubitato della
sua normalità. Spencer è eccezionale, certo, ma
JJ non lo hai mai considerato un animale raro, quasi da circo, non come
molti altri.
Ora questa particolarità, che ha permesso al
ragazzo di aprirsi con lei senza timore d'esser giudicato, sembra
pesarle sul cuore come un'accusa. Forse, si dice, avrebbe dovuto
rendersi conto prima che Spencer non è come gli altri.
Prima di tutto, non è come lei, che ha Will, che
ha Henry, che ha la sensazione che, malgrado gli orrori del suo lavoro,
ci sia un luogo da chiamare casa, uno spazio mentale in cui
sentirsi...giusta. Comincia a chiedersi se Spencer abbia la minima idea
di cosa significhi.
Perché, tra
tutti noi, proprio tu? Perché ha scelto te?
La mano sulla spalla la fa sussultare e voltare di colpo.
Cerca di asciugarsi le lacrime, come una bambina sorpresa a commuoversi
per un nonnulla. Lo sguardo di Derek si ammorbidisce.
«JJ...»
«L'hai trovato riverso sul pavimento, vero? Era
svenuto. Non sono arrivata in tempo.»
«Non hai colpe.»
Derek fissa il vetro della stanza senza realmente vederlo,
poi si guarda attorno in cerca di un aiuto: il medico è
ancora al capezzale del ragazzo, a monitorare le sue reazioni. Lo hanno
ricoverato d'urgenza.
Ha ancora nella mente quel terribile viaggio in ambulanza, a
sirene spiegate. I paramedici che lo intubavano, il movimento intorno a
sé, a lui che gli stringeva la mano. Una mano che non ha
reagito.
Fissa gli occhi in quelli di JJ, attirandoli nei suoi buchi
neri. La mano sulla spalla non riesce a confortarla, aumentando il
senso di frustrazione di Morgan.
In quel momento il medico esce dalla stanza, richiudendo
piano la porta alle sue spalle e stringendo la cartella al petto. Un
uomo sui cinquant'anni che, Morgan calcola velocemente, deve avere alle
spalle un'impeccabile carriera. Spencer è in buone mani,
decide, prima di fiondarsi sul medico, invadendo la sua traiettoria.
«Come sta?» quasi ringhia.
L'altro da una rapida occhiata alla cartella, organizzando
le idee, poi sospira e assume uno sguardo molto professionale.
«Le sue condizioni ora sono stabili. È
fortemente disidratato, ma siamo riusciti a intervenire in tempo.
L'intossicazione era estesa, ma non ha compromesso organi vitali.
È stato fortunato che siate riusciti a intervenire
rapidamente.»
«Ma cos'è successo?» chiede
Morgan, lievemente rassicurato.
«Il risultato degli esami tossicologici
potrà stabilirlo con certezza» risponde evasivo.
«Esami tossicologici? Quindi pensate sia stato
drogato?»
Il medico sbatte le ciglia, visibilmente sorpreso.
«Drogato no. Direi avvelenato.»
JJ ha un sussulto e si porta la mano alle labbra, come a
sopprimere un urlo muto.
«Come ho detto bisogna aspettare il tossicologico,
ma per ora mi sento abbastanza sicuro di avanzare un'ipotesi. Secondo
la mia esperienza e le reazioni fisiologiche, si tratta di Veleno della
Belladonna. Gli abbiamo somministrato l'antidoto e continueremo con la
terapia in caso avessimo una conferma dal laboratorio. Ma sono quasi
certo si tratti di questo.» Il medico aspetta che i due
assorbano la notizia.
Una sostanza
inodore e insapore, facilmente diluibile nel caffé,
medita Morgan.
«Mi faccia entrare.»
«Sarebbe meglio aspettare...» dice con
poca resistenza, trovandosi davanti la determinazione dell'agente.
«Ma posso lasciarvi entrare, per poco. Non agitatelo in alcun
modo, il suo cuore ora è sotto sforzo.»
«Vai tu per primo. Chiamo Hotch, è in sala
d'aspetto con gli altri» gli dice JJ, carezzandogli un
braccio. «Ha bisogno di te.»
Il bip dei monitor, il tubo della flebo che
termina nell'ago infilato nella vena, lì dove un piccolo
puntino violaceo spicca sulla pelle bianca, futura cicatrice di
un'antica angoscia; i capelli adagiati sul cuscino come una corona
umida, gli occhi cerchiati di nera stanchezza. A vederlo
così, Morgan avverte tutta la realtà della
situazione: Spencer ha rischiato la vita. Ricaccia indietro il dolore e
si avvicina cauto. Le tapparelle della finestra sono socchiuse e la
poca luce infastidisce gli occhi dietro le palpebre lisce e sottili,
dove piccoli capillari sembrano sul punto di scoppiare.
Derek sta pensando a cosa dire, seduto sulla pratica sedia
di metallo al capezzale del ragazzo, quando sente la voce fioca
emergere pastosa dal letargo narcotico.
«Non sono morto» dice Spencer aprendo
piano gli occhi. Apre e chiude la bocca per sciogliere la lingua, ma le
parole sembrano attaccarsi al palato.
«Hey, ragazzino» riesce solo a dire
Derek, stupidamente dolce. Vorrebbe prendergli una mano, ma esita e la
poggia sul letto. Quella di Spencer è forata dall'ago
sottile di un'altra flebo, la cui boccetta pensola sulle loro teste. Le
vene in rilievo sono gonfie di soluzione fisiologica.
«Come ti senti?»
«Come mi sento...» biascica.
«Non sento molto il mio corpo.»
«Ti hanno imbottito per bene. Dovresti restare
così per non cacciarti nei guai.» Morgan sorride
mentre lo dice, ma se ne pente subito. Eppure la reazione di Spencer lo
sorprende: anche lui sorride, debolmente, incrinandosi in una smorfia
di dolore, o forse fastidio. Non deve essere facile emozionarsi in
quelle condizioni. Spencer è meno debole di quanto si
aspettasse.
È
più forte di quanto pensi. Si dice. Ha più bisogno di
quanto immagini.
«Ed-Edwards» sussurrano le labbra secche.
«Era lui, vero?»
«Sì. Era lui fin dall'inizio. La nostra
ipotesi è che lui e Daniel fossero una squadra.»
Spencer fa una smorfia.
«Perché?»
Derek sa bene a cosa si riferisce. «Non so darti
una risposta, Spencer. Forse non sapremo mai il movente, forse erano
solo due psicopatici.»
«È ancora a piede libero»
sussurra alla fine.
Derek quasi sobbalza.
«Se lo aveste catturato...» Tossicchia.
«Me lo avresti già detto.»
«Mi conosci» gli concede Morgan.
Spencer fugge lo sguardo e muove le dita a sfiorare la sua
mano. Lacrime faticose gli scivolano lungo il viso, formando due righe
rosse agli angoli degli occhi. Lo sguardo puntato al soffitto si
nascondende un attimo dietro le palpebre, prima di tornare su Derek.
«Perdonami.»
Morgan gli stringe la mano, sentendola fredda, le dita che
si serrano con debole resistenza.
«Va tutto bene, Spencer.»
Va tutto bene.
Sente Spencer nel petto. Sei
qui, va tutto bene. Anche se domani ci perderemo, ora ci sei.
Vorrebbe chiedergli di non lasciare mai la sua mano, ma
questo lo spaventa. Non piange perché Daniel è
morto, e qualcuno, uno sconosciuto, ha cercato di ucciderlo. Piange
perché ora è felice. Si dice che sono i farmaci,
che è la condizione di labile confine tra vita e morte che
lo fa sentire così bisognoso del suo contatto, come quando
Tobias gli salvò la vita e, annebbiato, Spencer
provò qualcosa di vicino all'estremo bisogno della sua
presenza.
Ma Derek non è Tobias, Derek è
lì, gli stringe la mano e lo guarda, senza mai abbandonarlo.
Qualcosa di strano, simile a un'energia senza nome, scivola tra le loro
mani e Spencer avverte un soffio al cuore, un senso di pace, come
abbandonarsi a un fiume di miele e galleggiare sotto le nuvole.
«Non abbandonarmi» sussurra senza
rendersene conto, con gli occhi chiusi e la mano in quella di Derek.
Sono passati due giorni e la squadra ha fatto un lungo via
vai tra ufficio e ospedale.
Ora che Reid è in grado di ragionare lucidamente
e di stare seduto senza crollare, Hotch ha deciso di affrontare un
argomento dolente. «Appena verrai dimesso dovrai stendere un
rapporto con la tua testimonianza. Vuoi ancora farlo?»
Spencer lo guarda come se stesse chiedendo l'ovvio,
corrugando la fronte. «Certo che sì.
Più che mai.»
Hotch si concede uno dei suoi rari sorrisi e si avvicina al
letto del ragazzo, accomodandosi sulla sedia.
«Come stai?»
«Sai, mi sono sempre chiesto che effetto potesse
avere una simile domanda da parte tua. Non che tu sia uno di quei capi
disinteressanti, ma hai scelto l'approccio duro e flessibile,
autorevole più che autoritario, che tra le altre cose si
è dimostrato molto utile ai fini della
produttività-»
«Reid.» Hotch alza la mano,
interrompendo lo sproloquio del ragazzo, che sorride imbarazzato.
È
ancora Reid, pensa tra sé e sé,
decisamente sollevato.
«Scusami. Sto bene» dice il ragazzo
sorridendo.
«Ne sei certo?»
«No» ammette. «Ma
starò meglio. In realtà, non sono certo di cosa
dovrei sentire.»
«Sei confuso?»
Spencer si tortura le mani abbandonate sulle coperte.
«Sai, una volta Gideon mi disse: non sapere cosa senti non vuol
dire non sentire nulla.»
«Aveva ragione. Jason è una persona
saggia.»
Spencer sorride, tenendo lo sguardo fisso; quando lo rialza
i suoi occhi sembrano pregarlo. «Ma poi lo
sentirò, vero? Sentirò tutta la sofferenza,
l'imbarazzo.» Gli fugge un sorriso amaro. «I cinque
stadi del dolore.»
«Quando avverrà, sai che il mio ufficio
è sempre aperto.» Hotch trattiene molto bene un
moto di commozione e si alza in piedi. «Ora ti lascio
riposare. Vedrai, ogni cosa si aggiusterà.»
Anche se il dottore sorride e annuisce, non è
certo di cosa voglia dire quest'affermazione. Ora, più che
mai, sente che la sua vita ha bisogna di una drastica sistemata.
Penso
seriamente che Daniel sia stato un valido strumento, ma
l'orchestra...oh no, quella è tutt'altra cosa. Spencer
è stato l'organo di punta, Daniel la sinfonia
d'accompagnamento che spinge a suonare ancora, finché non si
cade a terra stremati. In quanto a me, bhe, è ovvio: sono il
direttore. Silenzioso. L'orchestra potrebbe suonare all'infinito senza
accorgersi che, senza il direttore, è solo un ammasso di
suoni.
Sono poco
modesto, lo so. La modestia è un concetto volgare, non lo
comprendo.
Ma, a volte,
la sinfonia prende una strada imprevista. L'improvvisazione. Credete
che a quel punto il direttore si faccia da parte e, semplicemente, esca
di scena? No, trova sempre il modo di inserirsi e riprendere le
briglie. È in quei momenti che ne emerge la bravura.
Spencer non
doveva morire, non così, non tanto presto. Forse ho
sottovalutato Daniel e la sua incapacità di resistere alle
passioni. No, chi prendo in giro? Io lo sapevo, il suo punto debole era
la sete di dominio. Io non ce l'ho. Perché?
Perché sono sempre dissetato. Avevo previsto anche questo e
sapevo che Spencer sarebbe sopravvissuto. Lo fa sempre, l'ho studiato.
Ah, quanta
intelligenza, quanta umanità, quanto attaccamento morboso
alla vita. Mi fa vomitare.
La
messa in scena degli omicidi, tutto quel pensare a come inscenare il
quadro perfetto, sistemare a dovere ogni particolare solo per far
giungere loro al giusto profilo...mi ha stufato. E poi, Daniel che era
lì a guardarmi e bagnarsi i pantaloni, quanto è
stato divertente! Perché lui non sapeva che stavo firmando
sotto i suoi occhi e con il suo sangue la sua condanna. Avrei dovuto
accertarmi che fosse mancino. Ma va bene così. Penserete che
il mio scopo, la ma uscita di scena, fosse la morte del dottor Reid?
Certo che no, altrimenti non avrei usato la Belladonna, ma piuttosto
l'aconito, mortale e incurabile. Avevo solo bisogno di una distrazione,
di qualcosa che mi permettesse la fuga. Un diversivo. Avevo previsto
potessero scoprirmi, ma dal vedere il mio volto a sapere chi sono, ce
ne passa molto. E in quel passo io scappo via. Mi ritiro nell'ombra.
Spencer,
prima o poi avrò la mia vendetta. Per ora, sappi che ho
tratto un profondo e sublime piacere nel vederti dar di testa. Un
giorno ogni tua certezza crollerà e la follia, solo la cara
follia, ti farà d'amica. Come adesso è la mia.
Addio alla solitudine.
Il ragazzo si sistema il camice e appunta una penna al
taschino. Sorride allo specchio nel piccolo spogliatoio.
«Hei, chico, che fine avevi fatto?»
«Ero in malattia.»
Il portoricano, togliendosi il camice, lo squadra
ironicamente. «Malattia mentale?» E comincia a
ridere, una risata grassa e fastidiosa.
Il ragazzo deve fare un grosso sforzo per sorridere.
«Hei, amico, scherzo. Non vorrei mai vederti in
mezzo a quelli lì» dice indicando dietro le
spalle, oltre la porta a vetri. «Sei ancora col
direttore?»
«Sì, studio il caso di Diana Reid. Sai,
per la specializzazione.»
«Quella lì, fiu! Sai cosa? Penso che da
giovane fosse davvero prestante» e sottolinea le parole con
un esplicito movimento del bacino.
Il ragazzo stringe i pugni fino a farsi male, ma poi si
rilassa e un sorriso perverso gli curva le labbra. Chiude lo sportello
di metallo e si incammina lungo i corridoi della clinica psichiatrica.
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Capitolo 11 *** Lucas ***
Note: Prima di ogni
altra cosa, devo ringraziarvi, sia per la pazienza sia per
l'incoraggiamento. Secondo, devo annunciare che questo è il
penultimo capitolo. Sì, lo so, avevo detto che sarebbe stato
l'ultimo e che questa storia avrebbe avuto 11 capitoli, ma
c'è stato un cambio di programma. Come detto all'inizio, ho
scritto questa long un po' di tempo fa e, prima di pubblicarla, mi sono
limitata a correggerla e sistemarla un po', lasciandola sostanzialmente
inalterata. Eppure il finale non mi convinceva, così l'ho
ampliato, modificato e rivisto. Quest'operazione ha comportato un po'
di pagine in più, quindi ho deciso di staccare la chiusura
in due capitoli. Non odiatemi - anzi, fatelo, ma non prendetevela con
la storia :D
Saluti, Alex.
11
Lucas
Così non andremo
più vagando,
Nella notte fonda
Anche se il cuore vuole
ancora amore
E la luna
splende luminosa...
George Gordon Byron
Penelope Garcia vorrebbe alzarsi dalla sua sedia,
spegnere tutti i monitor e scappare. Sente l'instinto di chiudersi la
porta alle spalle e non guardarsi più indietro,
perché a volte la realtà è fin troppo
dura, fin troppo vicina. Sono passati tre giorni da quando Reid
è stato ospedalizzato e ha rischiato la vita, per l'ennesima
volta. Il suo ruolo è quello di osservatrice distante, la
persona incaricata di scovare il male e portarlo alla luce, di pregare
che tutto vada bene e che la squadra scenda intera dal jet, varcando le
soglie del BAU stanca ma viva. A volte, semplicemente, gli orrori sono
troppi e nessun colore, nessun video virale o immagine carina
può allontanarla da quei demoni. Ora essi hanno attaccato
uno di loro e lei si è sentita impotente, ancora.
Sente la porta aprirsi e chiude gli occhi, attendendo la
stretta rassicurante di Morgan sulla sua spalla. Posa le dita sul dorso
della sua mano e sorride, cercando di trovare conforto in quel gesto
così semplice e normale. Derek si china sulla sua spalla e
osserva la foto sullo schermo.
«Lucas Carter» mormora, le mascelle
serrate. «E' lui?»
Garcia annuisce, digitando sulla tastiera per materiallizare
tutte le informazioni che è riuscita a raccogliere.
«Nato a Las Vegas il 10 Marzo 1979, la madre era Elisabetta
Andres, padre ignoto. La donna è morta nel 1985, uccisa da
un certo Victor Ortega. La cartella medica indica segni di abusi
ripetuti sia sulla madre che sul figlio, ma la donna non ha mai
denunciato il compagno. Dopo l'omicidio, Carter è entrato
nel sistema ed è stato affidato ad una coppia del Texas,
Elisabet e George Carter. I coniugi sono morti in circostanze sospette
un anno fa nella loro casa.»
«Li ha uccisi lui?»
Penelope scrolla le spalle e non riesce davvero a
rispondere. Quante vite simili ha visto attraverso il suo monitor?
Quanti passati travagliati hanno attraversato quello schermo? Le storie
spesso sono tragiche e si somigliano, intrecciandosi in una spirale di
umiliazioni e abbandoni, dolori e solitudini. Poi c'è
l'altro lato, quello che non ha più una voce: le vittime.
Qualunque briciolo di pietà che lei potrebbe provare per le
persone distrutte dal loro passato, dalle loro follie, si annienta di
fronte alle immagini di corpi mutilati e volti rigidi, una volta
sorridenti. Nei minuti che seguono, Penelope risponde a tutte le
domande di Derek, così ansioso di sapere ogni macabro
dettaglio di quella figura così misteriosa. Lei si ritrova a
dirgli esattamente le stesse cose che ha detto alla squadra, ma non
perde un dettaglio. Sa che Derek è appena tornato
dall'ospedale, dopo aver accompagnato Spencer a casa, e sa che ora ha
bisogno di focalizzarsi su qualcosa che può controllare, su
informazioni che riesce a gestire.
Così gli mostra tutti i successi
accademici di Lucas Carter, diplomatosi con ottimi voti, laureato in
psicologia, mai arrestato per alcun reato, neanche una multa. Ai suoi
occhi sembra che Carter si sia impegnato a controllare i suoi istinti,
costruendosi attorno una terrificante facciata di normalità.
Tuttavia, intorno a lui cose strane erano accadute: animali scomparsi,
ragazzi aggrediti e, nella sua cittadina, una serie di atti violenti
senza alcun indiziato. Penolope si ritrova a rabbrividire per
l'ennesima volta: chiunque sia realmente quest'uomo, è
chiaro che ha intelligenza, conoscenze informatiche e nervi saldi
sufficienti a renderlo irraggiungibile.
Quando ha finito con il file di Carter, Penelope si
abbandona allo schienale della sedia. Sospira e sente Derek rilassarsi,
la stanchezza prendere il sopravvento.
«Come sta Reid?» chiede alla fine,
alzando lo sguardo su di lui. Derek abbozza un sorriso, poi scuote la
testa. Sembra dominato da emozioni contrastanti, i lineamenti sfiancati
dalle notti insonni e dalle preoccupazioni.
«E' stata dura per lui.»
Penelope lo ha visto in quel letto di ospedale, appena
ricoverato. Da allora, è stata allontanata dalla sua stanza,
come tutti gli altri. Reid li ha voluti tenere a distanza, non volendo
che vedessero il suo calvario. La disintossicazione non è
esattamente un momento felice e lei non riesce a evitare di pensare a
Derek, seduto nel corridoio ad ascoltare le grida e i lamenti di Reid,
impotente.
Gli dona un sorriso che, date le circostanze, è
un regalo che Derek accetta con silente gratitudine.
Le stringe ancora la spalla ed esce dalla stanza.
Il dottor Antonio Cruz siede alla sua scrivania,
le spalle squadrate incorniciate dal crepuscolo di La Vegas oltre i
vetri dell'ampia finestra. Davanti a lui c'è il fascicolo
personale di quello che considerava il suo miglior tirocinante.
Scioglie le mani giunte sotto il mento e le unisce ancora, sopra quel
fascicolo. Gli occhi scuri incrociano quelli bui dell'agente Hotchner.
«Non so come sia potuto succedere»
ammette a se stesso. «Non avrei mai immaginato...se avessi
saputo che una persona del genere era a contatto con i miei
pazienti...è orribile.»
Hotch studia il volto dell'uomo e il suo sguardo fermo. Non
dubita che sia assolutamente sincero e, in quanto team leader, capisce
perfettamente cosa l'uomo possa provare. «E' comprensibile
che sia riuscito a imbrogliare anche lei. Stiamo parlando di uno
psicopatico.»
Il dottore annuisce, perdendosi a guardare il proprio
attestato appeso orgogliosamente al muro. I suoi occhi tornano un
attimo sul fascicolo, prima di incontrare ancora lo sguardo
dell'agente.
«Dottor Cruz, da quanto conosceva Lucas
Carter?»
Cruz sospira, raddrizzandosi sulla sedia. «Circa
sei mesi. Ha ottime referenze, si è laureato con il massimo
dei voti, mai alcuna pecca nella sua carriera accademica. Con il senno
di poi, non mi meraviglia, persone come lui sono in grado di eccellere
e rimanere nella normalità.»
Hotch annuisce, lasciando al dottore il tempo per
raccogliere le idee. Lo vede aprire la cartella e scutare la foto di
Carter. «Ha sempre avuto un comportamente eccellente. Era
sinceramente interessato a tutti i pazienti, voleva imparare il
più possibile e continuava a studiare e ad aggiornarsi anche
oltre l'orario stabilito. In particolare, seguiva il caso di Diana
Reid.» Cruz alza uno sguardo duro sull'agente, prima di
continuare. «Tre mesi fa mi ha chiesto un periodo di pausa,
adducendo gravi motivazioni personali. Essendo così dedito
al lavoro, ho acconsentito senza indagare. Avevamo concordato di
sospendere il tirocinio fino al suo ritorno.»
«Ha legato con qualcuno in particolare
nell'istituto?»
Cruz scuote energicamente la testa. «Andava
d'accordo con tutti, dalle infermiere agli altri tirocinanti. Aveva un
buon rapporto con i pazienti e con me era rispettoso, ma non si
è fatto esattamente degli amici. Non credo che riuscirete a
spillare molto da queste mura.»
Hotch se lo aspettava. Da quando Garcia è
riuscita a rintracciare Lucas Carter, l'uomo che si è finto
Philip Edwards, lui ha capito che non sarebbe bastato. Lucas Carter
è un ragazzo dalla vita tranquilla, un buon appartamento
-pulito e ordinato al limite del maniacale- e nessuna relazione
stretta. Nei luoghi che frequentava, tutti lo ricordano come un ragazzo
a posto. Persone come lui non destano sospetti, mantenendo senza sforzo
la loro facciata di normalità.
«Quando ha lasciato
l'istituto?»
«L'ultimo turno che ha servito
è stato tre giorni fa. Era appena tornato a Las Vegas e
sembrava del tutto tranquillo. Alla fine del turno ha salutato,
è andato via e non è più
tornato.» Cruz prende una pausa, accigliandosi.
«Lei sa dov'è ora?»
Hotch valuta se rispondere. Lo sguardo di Cruz sembra
sinceramente interessato, come se avesse bisogno di una conferma che
l'uomo non tornerà mai più nella sua vita.
«Ha lasciato gli Stati Uniti con un passaporto
falso.»
Il dottore sembra colpito dalla risposta, e Hotch non
può dargli torto. Lui stesso ne è rimasto
sorpreso. Lucas Carter ha avuto la freddezza di tornare a Las Vegas,
riprendere il tirocinio e pochi giorni dopo sparire. Ha preso un volo
per Madrid, da lì è ripartito per la Croazia, poi
il Cairo e lì le sue tracce si sono perse. Garcia non
è stata in grado di rintracciarlo. Lucas Carter sembra
essere sparito nel nulla.
«Vorrei poter essere utile» ammette il
dottor Cruz. Hotch prova sincera simpatia per l'uomo e gli regala uno
dei suoi pochi leggeri sorrisi. Gli stringe la mano, alzandosi e
raccogliendo il fascicolo di Lucas Carter.
«Lo è stato, dottor Cruz. La
ringrazio.»
Hotch si volta e ha già una mano sulla
maniglia, quando l'uomo lo richiama. «Saluti il dottor Reid
da parte mia. Spero sinceramente che stia bene.»
Anche io,
vorrebbe dire Hotch.
Erin Strauss passa lo sguardo tra il fascicolo sul
legno pregiato della scrivania e l'agente Hotchner. Dopo un lungo
silenzio, prende un grosso respiro e congiunge le dita.
«Aaron, non ti nascondo che non apprezzo il modo in cui
quest'indagine è stata gestita.»
Hotch la fissa senza proferir parola. Se lo
aspettava.
«Ma riconosco che le circostanze erano
fuori dal nostro controllo.»
«E' così.»
La donna gli lancia uno sguardo duro, prima di
aprire il fascicolo e sfogliarlo in fretta. Hotch sa che sta solo
cercando di trovare le parole giuste e, quando sembra soddisfatta,
ricongiunge le mani e lo scruta. «Non sappiamo nulla del
movente di Lucas Carter? Voglio sapere quali sono le tue
ipotesi.»
Hotch incrocia le braccia. «Sarò
sincero. Io non credo che Daniel Ronald e Carter fossero una classica
squadra omicida. Il profilo ricavato dagli omicidi si adatta
perfettamente a Roland, anche alla luce delle valutazioni psichiatriche
antecedenti i fatti. Ma, come sappiamo grazie al dottor Reid e alle
successive analisi della scientifica, non è stato Roland
l'esecutore materiale degli omicidi.»
«Uno guardava mentre l'altro eseguiva»
conclude Strauss. «Mi pare non sia un profilo
anomalo.»
«No, infatti. Ma qualcosa non quadra: Carter
è molto più metodico, organizzato, sadico. Ha
torturato psicologicamente Reid, quando per incastrarlo ciò
non era necessario. E' un puro psicopatico. Gli omicidi, invece,
calzano con il profilo di Roland.»
«Cosa sta cercando di dirmi?» chiede la
donna, sporgendosi in avanti.
«Che Daniel Roland era solo una pedina nelle mani
del Carter. Lo ha tenuto sotto controllo non lasciandogli la
possibilità di uccidere, ma gratificandolo con il voyerismo,
sfogando al contempo il suo stesso desiderio di uccidere. Sapeva che le
prove avrebbero portato a Reid e che, in caso di necessità,
la colpa sarebbe potuta ricadere su Daniel Roland. Carter si
è assicurato due capri espiatori e un piano di
riserva.»
«Una messa in scena? E' questo che
crede?»
«Sì, è ciò che
credo» afferma sicuro Hotch.
«Mi scusi, ma non ne vedo lo scopo.
Perché rischiare tanto?»
Hotch sa che non esiste una risposta semplice a questa
domanda. Il tipo di accanimento mostrato da Carter indica motivazioni
personali. Garcia ha scavato a fondo nella vita dell'uomo, ma non ha
trovato alcun legame con Reid.
«Per narcisismo. Ha avuto la squadra nel suo pugno
e ha dimostrato di essere più intelligente e furbo. Ha
montato gli omicidi, manomesso le prove e mosso le sue pedine solo per
dimostrare che poteva farlo. In questo modo, ha anche evitato di
lasciare prove che lo collegassero direttamente a lui. Alla fine si
è tradito, ha commesso un errore ed è
fuggito.» Fa una pausa e gli occhi gli cadono sul fascicolo.
«Ora che ha soddisfatto questo suo appetito,
passerà un certo periodo di latenza prima che torni a
colpire.»
Il capo Strauss fa una smorfia involontaria.
«Aaron, devo essere sincera, l'idea che l'uomo che
è entrato impunemente in una stazione di polizia e ha
cercato di uccidere un mio agente, e che è riuscito a
raggirare il sistema, sia ancora a piede libero, non mi
piace.»
«Neanche a me» ammette Hotch.
«La mia squadra ha fatto il possibile.»
«Ne sono certa.»
Hotch non le crede, ma tiene per sé le proprie
considerazioni, limitandosi a scrutarla. Il tono della donna cambia, ma
il suo linguaggio del corpo continua a trasmettere nervosismo e
disapprovazione.
«Per quando riguarda il dottor Reid, ho deciso di
non prendere provvedimenti. A quanto ne so, non ha commesso errori. La
sparatoria è stata giustamente motivata dall'autodifesa,
un'azione accidentale. Daniel Roland lo ha ingannato, e non
c'è prova che il dottor Reid potesse agire in modo diverso e
migliore. Dal rapporto del dr Reid risulta che Roland lo abbia
sequestrato e sottoposto a iniziezione forzata di
idromorfone.» Strauss alza gli occhi dal fascicolo, scrutando
l'agente. «E' corretto?»
Hotch annuisce. Mentire al proprio capo è sempre
una scelta che può avere conseguenze inattese, ma Reid non
merita d'esser punito da una persona che, meno degli altri,
può conoscere e comprendere lo stato emotivo che lo ha
portato a quel punto.
«Quanto alla sua richiesta, approvo in
pieno. Il dr Reid merita del tempo per riprendersi da questa situazione
traumatica. Generalmente l'ammissione di una dipendenza, da qualunque
sostanza, comporta gravi ripercussioni sulla carriera di un agente, ma
in questo caso credo si possa dire che le azioni del dr Reid non
fossero soggette alla sua volontà.» Per la prima
volta Hotch ha la netta sensazione che Erin Strauss sappia quanto del
rapporto sia vero e quanto no; ancor più sorprendente
è che la donna abbia deciso di fingere il contrario.
«Ha qualcuno che si occupi della riabilitazione?»
«Lo farò io personalmente.»
Strauss lega i loro sguardi e sembra sul punto di dire
qualcosa che, Hotch lo sa, non gli piacerebbe. Ha un ripensamento,
chiude il fascicolo e lo pone su una pila. «D'accordo, Aaron,
sono certa che saprai gestire al meglio la situazione.»
«Grazie, Erin» dice Hotch, alzandosi.
«Se è tutto, io tornerei dalla squadra.»
«Certo, vada pure. Data l'assenza di tracce, posso
considerare il caso momentaneamente chiuso.»
Hotch lo considera ancora aperto, almeno nella sua mente. E
sa che la squadra continuerà a pensarci, a tenere gli occhi
e le orecchie aperte in attesa di possibili sviluppi. Ma altri killer
vanno presi e altre vittime salvate, che sia dalla morte o, ormai
tardi, dall'oblio.
Tre giorni prima
Poggiato
al muro bianco di questa clinica asettica, ripenso a quanto mi
mancherà Las Vegas. E' una città fatale e
illusoria, come una grande maschera su un volto scheletrico. Il deserto
del Mojave è Las Vegas, e Las Vegas è piante
forzate nel terreno, luci abbaglianti per nascondere il cielo, edifici
pieni di gente e vita per combattere il vuoto. Chi viene qui, spesso,
vuole solo scomparire. Mi piace Las Vegas, avrei voluto crescere in
questo posto, non nel Texas. Un'altra differenza tra la mia vita e
quella del caro Spencer.
Il Texas
è deserto e verità. Quale che sia, questa
verità, è solo un'altra illusione.
Diana Reid
è seduta sulla sua poltrona come ogni crepuscolo, le lunghe
dita strette tra loro e lo sguardo sognante rivolto alla finestra. E'
una bella donna e conserva negli occhi la vivida luce
dell'intelligenza. Penso a William Reid e un moto di disgusto sorge dal
mio stomaco. Penso a Spencer e a quanto somigli poco a suo padre,
eppure hanno una parte di DNA in comune.
Non ho nulla
contro Diana, la trovo affascinante in una certa misura. Avrei voluto
essere suo figlio. Mia madre, chissà dov'è
seppellita, era solo un altra anima persa di Las Vegas. I miei genitori
adottivi avevano grossi sorrisi e braccia spalancate per abbracciarmi.
Mi dissero, quando avevo sei anni e uno zaino in spalla, che loro mi
avrebbero amato, che nessuno mi avrebbe più fatto del male.
Mi portatono in Texas e io non piansi.
Mantennero la
promessa, ma non è amore che mi serve. Così li ho
uccisi, un anno fa. Li ho uccisi perché...bhe,
perché potevo.
«Diana?»
La povera
donna si volta e mi sorride. «Oh,
Lucas»
sussurra. E' in uno dei suoi giorni buoni, lo vedo dal modo in cui
guarda accigliata la borsa sulla mia spalla. «Vai
già via?»
«Il mio turno è finito, Diana» le dico ricambiando il sorriso.
So che il mio è caldo e rassicurante. Eleonor, la donna che
pretendeva di amarmi e non ferirmi, me lo diceva sempre. Quando l'ho
uccisa, sorridevo così.
«Resta ancora un po'. Ti leggo un'altra lettera
del mio Spencer.» Dal
cardigan tira fuori un foglio ripiegato. Porta sempre con sé
l'ultima lettera che ha ricevuto e di solito lo fa quando lui non le
scrive da un po'. Il mio sorriso interno diventa un ghigno. Povera
donna.
Diana si
sporge e batte un palmo sul cuscino della poltrona accanto alla sua.
«Siedi, vuoi?»
Accenno un
sì e poggio a terra la tracolla, sedendomi come un paziente
davanti alla finestra. Mentre ascolto lei leggere le stesse parole che
ho già ascoltato una settimana fa, la guardo con cura.
Spencer ha la
sua stessa bocca. Ha lo stesso fisico sottile e grazioso. Ha la stessa
luce negli occhi, almeno quando lei è lucida. Mentre legge,
sorride e ogni tanto scuote la testa, divertita. Lei lo ama.
Ripenso al
giorno in cui ho trovato il mio vero certificato di nascita. Dodici
mesi fa, giorno più giorno meno. Quella stronza della donna
che mi ha messo al mondo ha fatto un favore a un polizziotto, che le ha
restituito un certificato di nascita finto come il suo amore per me.
Elisabetta Andres, questo il suo nome, è stata picchiata a
morte da uno dei suoi uomini. Io avevo sei anni. Eleonor e George mi
dissero che loro mi avrebbero amato. Così va la vita.
Diana ama
davvero Spencer. Chissà cosa si prova.
Spencer ha
metà DNA di Diana e metà di William.
Io ho
metà del corredo genetico di William e niente a che fare con
Diana, eppure provo più stima per questa donna folle che per
tutto il resto del mondo. Curioso, vero? Non parlo di affetto, per
cortesia, ma di un legame intellettuale. Diana finisce di leggere la
lettera e la stringe al petto, il sorriso malinconico e gli occhi
gentili si spostano su di me.
«Il mio Spencer è un bravo
ragazzo» dice.
Le stringo
la spalla e lei posa la sua mano fredda sulla mia. «A
domani, Diana.»
Mi volto e so
che non tornerò più. Vorrei ringraziarla per
tutte le informazioni che mi ha dato, ma non credo apprezzerebbe.
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Capitolo 12 *** Start ***
12
Start
Forse ai nostri giorni
l'obiettivo non è quello di scoprire
che cosa siamo,
ma di rifiutare quello
che non siamo.
Dobbiamo immaginare e
costruire
quello che potremmo
essere.
Paul-Michel Foucault
Ottantaquattro ore e dieci minuti. Questo il tempo
trascorso dal suo risveglio in ospedale. Spencer è seduto
sul divano, la testa reclinata e gli occhi chiusi, per cacciare
indietro le lacrime. Non è triste o afflitto, malgrado il
costante tremore e lo strato di sudore attaccato alla pelle. Tutto
ciò che sente è distante, come se la sua mente
fosse sospesa nella nebbia. È nella stessa posizione
dall'alba, quando Morgan è uscito dal suo appartamento dopo
averlo accompagnato dall'ospedale. Si è alzato solo lo
stretto necessario e ora stringe il manico di una tazza di the
bollente. I medici gli hanno sconsigliato la caffeina, almeno per un
po', e lui teme che occorrà molto tempo prima che possa
assaporare ancora un caffé.
Riapre gli occhi, fissando lo sguardo sulla
brochure che Hotch gli ha dato in ospedale. Ora è sul
tavolino, su una pila di libri, e le sue tonalità accese
contrastano con le copertine antiche.
Prati sempreverdi e
attività ricreative - a stretto contatto con la natura -
un'oasi di pace.
Questo dicono quasi tutte le brochure di quei
posti, facendoti dimenticare che sono luoghi dove anime perse cercano
di uscire dal limbo delle proprie miserie.
Spencer resta immobile, perché davvero
non sa che altro fare. Il ticchettio dell'orologio, un clacson che
dalla strada erutta in un suono acuto, la TV a volume altissimo della
vicina del piano di sopra...questo tutto ciò che riempie il
silenzio. Sembra tutto troppo lento, tutto troppo quieto, e lui non sa
cosa dovrebbe fare.
Ci sono troppe cose da processare, anche per il
suo cervello, che ora non è nelle migliori condizioni. Sa
che il momento della verità non è ancora giunto e
che la sua mente lo sta proteggendo con l'apatia.
Daniel e ciò che lui ha provato per
quello sconosciuto; il terrore di aver perso la testa e aver ucciso
persone innocenti; il Dilaudid e le proprie colpe, il proprio abbandono
a quella fuga così semplice; quell'uomo misterioso, Lucas
Carter, che era stato così vicino a lui, così
vicino a sua madre...Il solo pensiero riesce ad accellerargli il cuore.
Quando Spencer sente suonare il campanello, la
tazza di thè gli traballa nella mano e una goccia gli
finisce sul dito, ustionandolo. Sopprime un gemito di dolore e poggia
la porcellana sul tavolino, affrettandosi alla porta. Ritornare a
vivere normalmente in quella casa gli ha causato un certo grado di
paranoia.
Il viso di Morgan gli sorride dallo spioncino.
«Che ci fai qui?» chiede guardingo. Non
ha il tempo di aggiungere altro, che l'agente si è
già intrufolato nell'appartamento.
Sospira, richiudendo la porta.
«Non sei felice di vedermi?» chiede
raggiante Derek, aprendo le braccia tranquillo.
Spencer annuisce e recupera la tazza dal tavolino.
«In realtà stavo per iniziare una pacifica
lettura.»
«Avanti, ragazzino, parlare con un libro non ti
servirà!» lo rimbecca. «Ci sono
io.»
Spencer non riesce a impedirsi di sorridere e scuotere la
testa, sedendosi sullo sgabbello e trascinandosi davanti la tazza di
thé, seguito a ruota da Derek, che gli si siede accanto e lo
fissa pieno d'aspettativa.
«Vuoi chiedermi qualcosa?» domanda
Spencer, grattando con l'unghia del pollice la ceramica della tazza.
Non sa bene cosa Derek si aspetti che lui dica o faccia. Forse dovrebbe
chiedergli scusa, di perdonarlo...non lo sa, e ricorda vagamente il
giorno in cui, sul letto d'ospedale, ha farfugliato parole futili, alla
ricerca disperata di un perdono che nessuno avrebbe potuto accordargli.
«A quale domanda hai bisogno di
rispondere?» gli rilancia Derek, perché sa che
c'è qualcosa che l'altro vuole dirgli, che ha disperato
bisogno che gli venga posta quella
domanda. Ma lui non è certo di quale si tratti
e temporeggia, scrutando il ragazzino che si morde il labbro inferiore
e fissa la tazza. «Hei, guardami.» Non avrebbe mai
voluto, ma il tono risulta più duro del previsto, e fa
sobbalzare Spencer, che gli rivolge uno sguardo incerto. Sembra
trattenga il respiro e d'improvviso il linguaggio del corpo muta,
rendendolo simile a un accusato.
Morgan si accorge di questo cambiamento e decide di prendere
la palla al palzo. «Non va molto bene, vero?» Fa un
cenno alle braccia del ragazzo, che se le stringe al petto, a disagio.
«Sto bene» dice Spencer, distogliendo lo
sguardo. L'ultima volta che un ago è entrato nel suo
braccio, è stato all'ospedale. A volte gli sembra di
sentirlo ancora, come se lo avessero dimenticato sottopelle.
È rimasto in ospedale tre giorni, dando il suo consenso a
cominciare la disintossicazione. Ggli sembrano passati anni. Malgrado
il peggio sia passato, i dolori e le ferite mentali sono ancora lontani
dall'essere un ricordo; è triste, pensa, che una volta lo
erano, prima che tutto questo cominciasse.
«Hey, non devi mentirmi, altrimenti è
inutile che sia qui. Credevo ci fossimo accordati su questo.»
Spencer annuisce debolmente e si massaggia distratto un
braccio. Morgan deve attendere ancora prima che il dottore cominci
finalmente a parlare. «No, non sta andando molto bene. Ho
questi continui sbalzi d'umore, l'emicranea è tornata
e...sono tornato da quanto? Otto ore? Cosa dovrei fare non lo so. Non
riesco più a pensare, mi distraggo, dimentico quello che
stavo facendo mentre lo faccio.» Alza lo sguardo, incerto, ma
trova negli occhi dell'amico solo attenzione. «Io non credo
di poter ricominciare. Sono stanco.»
Derek lo osserva, sospendendo ogni giudizio. «Non
devi arrenderti, d'accordo?»
«Io non voglio arrendermi, non posso. Non sto
valutando l'idea di farlo. È solo che doverci riprovare
è sfinente. Lo sai che la probabilità di una
disintossicazione definitiva, in chi ha già intrapreso un
percorso e ha avuto una ricaduta, cala drasticamente?»
«Ragazzo, no» gli dice Derek.
«Dimenticati tutto ciò che sai. Lascia stare le
probabilità. Sei tu, non un numero percentuale.»
Il dottore stringe le palpebre e sembra meditare, poi
annuncia: «Ho raggiunto un momento di pura
felicità. So che non era reale. In realtà, nulla
lo era, ma non volevo pensarci. Comunque, è stato il momento
più bello che io ricordi. Pensi sia triste, vero?»
Non riesce a guardarlo negli occhi. Non può dirgli che in
quell'attimo di felicità lui aveva un ago nel braccio e il
corpo di Morgan nella mente, un'immagine partorita spontaneamente dalla
sua fantasia. Non sa ancora cosa pensarne.
Morgan interpreta in maniera erronea il suo imbarazzo e una
punta di fastidio gli inacidisce il cuore. «Eri con
lui?»
«Cosa?» chiede Spencer sbigottito.
«Eri con Daniel, vero? Con lui ti sei sentito
felice.»
Spencer si sente offeso senza saperne il reale motivo. Sa
solo che il sangue comincia a rombargli nelle orecchie. «Io
no-...non voglio parlarne.»
Derek scende dallo sgabello e afferra la giacca, sotto gli
occhi smarriti di Spencer.
«Cosa fai?»
Ormai sulla porta, il ragazzo si volta di scatto.
«Vado via, dato che non vuoi parlare.» La parte
razionale del cervello gli dice che si sta comportando in modo
immaturo, ma Derek non riesce a sentirla.
«Sì, provavo
attrazione per lui» sputa fuori Spencer, guardando Derek con
concentrazione. «Ho dormito con lui, l'ho baciato
e...» malgrado l'ostentata forza d'animo, le guance si
imporporano. «Bhe, è questo che volevi
sentire?»
«Ci hai fatto sesso» conclude Derek, una
nota di veleno nelle parole, ignorando la sua provocazione.
Spencer abbassa lo sguardo un attimo, corruga la fronte e
stridulo quasi urla: «E allora? Possibile che tu non riesca a
pensare ad altro?» Il ragazzo si alza dallo sgabello,
facendolo stridere sul pavimento. «Insomma, mi piaceva, ci
stavo bene. Parlavamo. Il sesso cosa c'entra?»
«Tu lo sapevi da prima. Sapevi di
essere-»
«Omosessuale?» sbotta Spencer,
gesticolando animatamente. «Oh, ora è tutto
chiaro. Sei venuto qui solo per saperlo. Tranquillo, la mia presenza
devirilizzata non intaccherà in alcun modo la tua
mascolinità. È come pensavo, tu vuoi solo sapere
che avermi come collega non ti minacci come uomo, giusto?»
«Non lo pensi davvero» dice stupito
Derek, prima che la rabbia gli incrini il viso. Getta via la giacca per
fronteggiarlo e qualcosa, nello stomaco di Spencer, si agita a quella
presenza troneggiante di forza. «Tu non puoi davvero
pensarlo. Sei solo arrabbiato con te stesso. Perdonati, una buona
volta.»
«C-cosa dovrei perdonarmi?» farfuglia
confuso.
«Di aver commesso un errore, di non aver pensato.
Hai agito d'istinto e questo non lo tolleri.»
«E' ridicolo. Io...l'istinto non
c'entra.»
«Allora cosa?» chiede Derek, aprendo le
braccia in un disperato invito. «Qual è il
motivo?»
Spencer non sa davvero cosa rispondere.
«Sai perché sono venuto qui?»
Chiede Derek, avvicinandosi. «Non riuscivo a dormire. Dormo
male a causa di una domanda che mi tortura.» Fa una pausa e
cerca il suo sguardo, riuscendo faticosamente a incatenarlo.
«Mi chiedo perché non me ne hai parlato.
Perché hai affrontato tutto da solo? Mi sono detto che sei
testardo, che non ti fidi abbastanza né di me né
di nessun altro, mi sono detto tante cose. Ma solo tu puoi
rispondermi.»
Il dottore si siede, le gambe gli cedono. Ha la risposta,
anche se non sa come interpretarla. Vale la pena divulgare un dato che
non si comprende? Ma qui dati e variabili si confondono sullo sfondo e
lui si sente confuso. Non gli resta altro che parlare e lasciare il
compito dell'interpretazione a Derek.
«Avevo paura.»
«Di me?» chiede l'altro incredulo.
«Non volevo mi guardassi come un
colpevole.»
Derek resta pietrificato, incredulo.
«Io non ti avrei mai chiuso fuori» dice
alla fine, poggiando una mano sulla sua spalla. «Accidenti,
ragazzo, farei qualunque cosa per aiutarti.»
Su
quel letto d'ospedale Spencer sembrava solo un essere bisognoso. E tu,
Derek, tu volevi solo essere quel bisogno, sentirti ancora il suo
bisogno, come quando aveva gli incubi, come quando Tobias lo teneva
prigioniero e tu non dormivi alla sua ricerca.
Reid resta in silenzio, cercando di dominare l'istinto di
liberarsi della mano sulla sua spalla. È un gesto
così intimo e così tipico di Derek, da
raggerarlo. Troppo vicino. Si alza e annuncia: «Ora vorrei
restare solo.»
«No» dice deciso Derek.
«Spencer, io resto qui stanotte.»
Spencer vorrebbe protestare, ma si arrende. «Come
vuoi» si volta e si dirige verso la sua stanza, la porta si
chiude piano. Derek fissa le proprie mani chiudersi in pugni deboli.
Cosa devo
fare perché tu smetta di nasconderti?
Melbourne,
Australia
Lucas Carter ha fame, davvero troppa. Si guarda
attorno nell'assolata strada, dietro le spalle ancora visibile il tetto
luminescente dell'aereoporto. Diciotto ore di viaggio e neanche un
misero boccone gli hanno fatto ridefinire il concetto di fame. Ora si
pente di non aver mangiato al Cairo, prima di partire. D'altra parte,
non avrebbe mai messo le mani su quelle buste scintillanti piene di
cibo lucido che le hostess osano chiamare cibo.
Fa scivolare gli occhiali da sole appena comprati sulla
fronte e scruta i dintorni, individuando subito un menù
esposto davanti una vetrina. Sorride e risistema gli occhiali,
ravvivando i capelli ora biondi. Si massaggia il mento, dove la barba
comincia già a ricrescere. Quel nuovo look non lo convince,
ma è certo che presto se ne farà una ragione.
Infilando le mani in tasca, si dirige alla tavola calda. Un fastidioso
campanello annuncia il suo ingresso, ma nessuno si volta a guardarlo
mentre si siede ad un tavolino e attende una cameriera.
Poggia il mento sul palmo della mano, chiedendosi
cosà avverrà ora. Una coppietta felice
è seduta a qualche tavolo di distanza, ridono dei tentativi
del figlioletto di mangiare un grosso panino al tonno. Lucas sorride,
nascondendo il disgusto.
«Salve, signore, posso esserle utile?»
La cameriera ha una voce cristallina e giovane. Merita di
essere osservata, pensa Lucas. Ha grandi occhi verdi e lunghe ciglia
chiare, i capelli rossicci raccolti in una coda di cavallo che le da un
aspetto ancor più innocente. Lucas sorride in quel modo che
riserva solo alle donne.
«Certo, Lydia» dice, leggendo il nome
sulla targhetta.
La ragazza sorride e le guance si imporporano, mentre
risistema un ciuffo dietro le orecchie. Lucas è convinto di
aver fatto centro.
Mentre ordina un panino al prosciutto e un caffé
forte, pensa che forse Lydia potrebbe essere un buon inizio per la sua
nuova vita. In fondo, lui ora è un ragazzo pieno di vita e
sorrisi, pronto a mettere su famiglia, magari. Guarda le strade di
Melbourne oltre la grande vetrata e pensa al giorni in cui
tornerà da Spencer. Dovrà attendere, uscire dai
radar e crearsi una nuova vita di facciata, ma è certo ne
varrà la pena.
Sente già l'acqualina in bocca, ma
questa volta non è quel tipo di fame.
Washington,
USA
Washington è sotto la neve, che scende
ondeggiando. Le finestre rimandano il bagliore tenue della notte, sotto
la luna che crea quell'effetto ottico di irridescenza del nevischio
posato sui vetri. Spencer, disteso su un fianco in posizione fetale,
finge di dormire, ma gli occhi sono puntati sulla finestra, quel
rettangolo d'aria sigillata.
Stringe un pugno vicino alle labbra e sospira, sentendo il
proprio alito caldo raffreddarsi sulla pelle ghiacciata. I piedi nudi
sono freddi, ma non li copre. Vuole sentire quella strana sensazione,
come se fossero a contatto con un pavimento di ghiaccio secco. Gli
piace ricordarsi del proprio corpo, della propria esistenza sospesa.
Abbassa le palpebre e scivola in un dormiveglia inquieto, dove le
allucinazioni ipnagogiche lo risucchiano nel vortice della surreale
fusione tra reale e fantastico.
L'immagine del corpo di Morgan gli colpisce la mente,
improvvisa, ricacciata da un angolo sconfinato del cranio. L'immagine
vista nelle ore di allucinante benessere, quando Daniel lo stringeva e
lui immaginava le mani del collega, ruvide per aver stretto troppo la
pistola, in mesi e mesi di addestramento duro. Allora non si chiedeva
il perché, ora la domanda è impellente.
Morgan?
Derek Morgan?
No, pensa una voce nella sua testa, la sua voce. Non lui.
Non potrebbe mai accadere. Ma il confine diventa labile, e la mente
precipita nelle nuvole elastiche della fantasia.
Le mani di Morgan. D'un tratto le sensazioni si rovesciano e
le vede, quelle mani forti e scure, stringersi intorno al proprio
collo. Si vede nudo lottare su di un pavimento gelido e sporco e gli
occhi di Derek incendiarlo. L'aria gli manca, si dibatte, le membra
esili ed esposte. È impotente. Si vede sopraffare dalla sua
virilità.
Aria!
Senza rendersene conto, comincia ad agitarsi convulsamente,
scalciando e dimenando le braccia come ad afferrare qualcosa.
«No, no!» urla sempre più forte, per
sovrastare il silenzio, che gli sembra uscire come fiato dalle labbra.
«Spencer! Hey, Spencer!» gli risponde
una voce. La sua voce. La riconosce ma non riesce a muoversi. Mani gli
afferrano le spalle, lo scuotono, e lui riemerge dalle tenebre,
aggrappandosi furiosamente alla sua t-shirt.
Gli occhi sono rossi, iniettati di sangue, il respiro corto
che brucia nei polmoni e lo sguardo terrorizzato.
«Spencer, sono io. Sono Derek» gli dice
rassicurante, ma guardandolo con una profonda nota di stupore e
sospetto. «Va tutto bene.»
«Ho bisogno...» prova a dire, ma la gola
secca raschia le parole. «Acqua.
No...thé.»
Alle due di notte, Spencer e Derek sono seduti sul divano,
quest'ultimo rivolto verso il ragazzino, che tiene le ginocchia unite e
il corpo leggermente rivolto nella parte opposta. Il linguaggio del
corpo, questa volta, non mente.
Il dottore stringe tra le mani la tazza di thé
fumante, mentre fuori la bufera infuria implacabilmente lenta.
L'unica luce è la lampada che pende su una
poltrona, una luce calda che lascia scivolare strane ombre sul viso del
ragazzo, rivelandone le sporgenze e gli angoli. Non si è
ancora del tutto ripreso, considera Derek, che ben poche volte lo ha
visto così magro e stanco. Una stanchezza che, in questa
notte piatta, appare in tutta la sua drammatica insistenza.
E' una notte in cui tutto si può dire. Il tempo
è sospeso, le nuvolette del thé e la foschia
della neve nascondono il mondo, chiudendo l'universo nei confini
dell'appartamento carico di libri; libri che aprono le finestre di
altri universi, tuttì lì sugli scaffali, tutti a
portata di mano. L'ecosistema di quelle mura sorregge due uomini,
seduti vicini ma distanti, ognuno a combattere con le proprie domande,
ognuno potrebbe rispondere all'altro, bastandosi a vicenda. Ma il primo
passo è arduo.
Troppo in
sospeso, troppo in gioco, considera Derek, al quale il
senso pratico ora viene meno.
«Le cose tra noi non sono mai andate
male» dice, guadagnandosi una rapida occhiata circospetta.
«Semplicemente da un po' non andavano. Non abbiamo parlato
molto, in questi ultimi mesi.» Si china a cercare il suo
sguardo e, quando lo ottiene, dice deciso: «Mi dispiace,
Spencer.»
Il ragazzo tira le labbra in un sorriso e si passa un palmo
sulla fronte, risistemandosi un ciuffo ribelle, le sopracciglia
aggrottate. Tossicchia nervoso.
«No-non importa. Capisco» sussura,
rivolgendo gli occhi alla catasta di libri sul tavolino. La broschure
è ancora lì, ma sembra perdere colore.
«Cosa?»
Che non sono
così importante. Vorrebbe dire Spencer. Ma sa
che si tratta di una riflessione stupida, una di quelle osservazioni da
adolescente introverso, da piccolo genio cresciuto troppo in fretta,
che si porta sempre dietro gli strascichi di una vita vissuta al
margine, solo. Spencer Reid è una di quelle poche persone
che sono state davvero sole, perché nessuno poteva capirlo,
perché nessuno era al suo passo e lui era sempre lasciato
indietro. Scuote la testa, rimproverando se stesso: un adulto non pensa
così. Un bambino non avrebbe mai dovuto avere la testa che
avevi tu anni fa, quando il gioco più divertente era
fantasticare la soluzione di un intricato caso di omicidio plurimo.
«Hai ragione, abbiamo parlato poco in
questo periodo» si costrige a dire, guardandolo fugacemente.
«E' colpa mia.» Morgan lo ascolta attento.
«Tu mi hai sempre mostrato di non giudicarmi, ma io...io
giudico me stesso quando parlo con te. Credevo che non parlandoti dei
miei demoni loro sarebbero rimasti affar mio, che avrei trovato la
forza di combatterli da solo o che...sarebbero solo
scomparsi.» Fa una pausa e rigira la tazza tra le dita,
mentre il thé si intiepidisce. Alza uno sguardo ironico
sull'amico. «Guarda dove siamo finiti.»
«Hey, ragazzo, ascoltami» dice Derek,
posandogli un palmo sul ginocchio, ma poi ritirandolo subito per non
invadere il suo spazio. «Avere delle debolezze è
normale, avere paura del buio è solo un modo di essere vivi.
Tu non sei come nessun altro, tu sei diverso, ma come credi sia io?
Anche io ho paura, anche io sono diverso dagli altri. Questo
lavoro...ci rende unici e soli. Non potremo mai toglierci di dosso
questa solitudine, ma possiamo cercare di accorciare le distanze. Tu
hai me, mi avrai sempre, capito?»
Spencer ricambia il sorriso aperto di Derek, ma gli occhi si
infiammano di lacrime. L'abbraccio viene spontaneo ed è
lungo e difficile da sciogliere, mentre il ragazzino piange sulla
spalla dell'amico, che con cura gli accarezza i capelli.
«Tu hai me.»
Quando Morgan apre gli occhi, il mattino è appena
sorto. Vorrebbe strofinarsi il volto con le mani, ma scopre che la
destra è bloccata. Spencer è lì sul
divano, addormentato contro il suo braccio, il volto finalmente sereno.
Vorrebbe restare a guardarlo così a lungo da dimenticare
tutto il resto, eppure sa che non è tempo. L'orologio alla
parete segna le cinque e mezza e, tra mezz'ora, dovranno partire alla
volta del luogo dove Spencer passerà i prossimi tre mesi.
Delicatamente, gli scuote un braccio, trovandosi
quasi ad abbracciarlo. Lui apre piamo gli occhi ancora arrossati e lo
guarda confuso. Sul suo volto passa un lampo di sorpresa, poi
sostituito da sollievo e infine imbarazzo. Si stacca immediatamente
dalla sua spalla e Morgan sente la circolazione tornare normale nel
braccio intorpidito.
«Buongiorno» mormora Spencer, alzandosi
sulle gambe incerte. Senza attendere risposta, guarda l'orologio e si
volta per dirigersi in bagno. È allora che Morgan gli
afferra un braccio, con più forza del previsto. Il dottore
si volta e lo guarda confuso.
«Andrà tutto bene, Spencer»
dice Morgan, la bocca ancora impastata. Spencer non risponde, ma dai
suoi occhi Morgan capisce che lui non lo crede. Lo attira in un
abbraccio, trovandolo stupito e privo di forza per respingerlo. Lacrime
involontarie annebbiano la vista del moro, mentre la mano gli carezza
la schiena. «Te lo prometto, Spencer, andrà tutto
bene. Quando tornerai, io ci sarò.»
.........
Note
finali: Prima di passare a ringraziamenti che sento
davvero di cuore di dover fare, voglio annunciare che la storia non
finisce qui. Questa parte della storia sì, per vari e
misteriosi motivi (anche per me), credo debba finire qui. Ma...To be
Continued! Ovvero, presto ci sarà un sequel, al quale sto
già lavorando e che dovrebbe iniziare a comparire molto a
breve. Quando scrissi la prima volta questa long, avevo già
in mente di continuarla con un'altra long, ma al tempo non ebbi
né tempo né ispirazione sufficienti. Ora ho molta
ispirazione e un po' più di tempo, quindi...why not? Non mi
perdonerei mai se lasciassi la vicenda in sospeso. Dunque, Lucas Carter
sta per tornare! Nella prossima storia si parlerà meglio di
lui, tirandolo fuori dall'alone di mistero che, suppongo, questa storia
lasci; altri nodi verranno al pettine, come il recupero di Spencer, il
rapporto con Morgan e il confronto con William Reid.
Inserirò il tutto in una serie, tanto per mettere
ordine. Se vorrete seguirmi ne sarò infinitamente felice.
Detto ciò, ho altre due cosette da dire.
Una parola speciale per
MartiAntares e
cam_mi_cam: Siete
stata sempre molto presenti e incoraggianti e non avete idea quanto
apprezzi la vostra costanza che, in qualche modo, mi ha aiutata a
cercare di essere
più puntuale. Chiedo perdono per la lunga pausa invernale,
grossa parte
dovuta alla quasi totale inesistenza di un posto fisso e, di
conseguenza, una rete fissa. Spero di risentirvi presto!Ps per MartiAntares:
All'inizio mi avvertisti del fatto che lo slash non è il tuo
debole e sono davvero molto contenta del fatto che, malgrado grossa
parte della storia girasse intorno a una coppia slash, tu abbia trovato
comunque qualcosa di interessante e hai deciso che valesse la pena
continuare a leggere.
E un grazie sincero a tutti quelli che hanno seguito, inserito tra i
preferiti o tra le seguite questa storia. lunablack_21, mrslightwood_, DAlessiana, estelle holly, Giulia Who e stydia, i vostri
commenti sono davvero molto graditi e questa storia è anche
merito vostro.
A presto, spero.
Alex.
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