In un universo parallelo...

di Zury Watson
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La vita reale ***
Capitolo 2: *** Questione di parallelismi ***
Capitolo 3: *** Social ***
Capitolo 4: *** Pressure Point ***
Capitolo 5: *** Emme ***
Capitolo 6: *** Colpa del cuore ***
Capitolo 7: *** Un computer, una connessione a internet e una webcam ***



Capitolo 1
*** La vita reale ***



1. La vita reale

Nella vita reale, quella in cui ogni mattina mi sveglio, faccio colazione, sbuffo quando il bagno è occupato e devo assolutamente muovermi; quella in cui arrivo alla macchina e impreco a bassa voce perché è rimasta incastrata tra SUV-mostri, quella in cui il lavoro che faccio non rispecchia esattamente i miei desideri; ecco, in questa vita sono soltanto una ragazza un po’ troppo incline alla bontà, dall’umore volubile, caratterizzata da momenti di profondissima malinconia e di incontenibile gioia; una ragazza di discutibile bellezza, che ha trovato nei suoi occhiali da vista un dettaglio interessante, single inizialmente per scelta, poi per condizione e ormai un po’ anche per abitudine forse; una ragazza fin troppo timida, che arrossisce troppo, che si fida troppo facilmente delle persone ma che ha un sesto senso quasi infallibile per le menzogne e per la scorrettezza; una ragazza che quando si arrabbia è una furia, che ha perso la dolcezza di un tempo, che ha smesso di cercare l’amore puro che si delinea ogni notte nei suoi sogni, ma che non riesce a smettere di sognare, mai. Una ragazza che ama leggere e scrivere.
Scrivere. È proprio questo il mio sogno nel cassetto, un cassetto mezzo aperto perché non vorrei mai che il sogno finisse per morire asfissiato mentre io mi affanno nel tentativo di sembrare credibile nei tanti lavoretti che svolgo nell’attesa di poter far decollare il sogno.
Nella vita reale mi si vede spesso con un libro in mano, immersa in una storia fin sopra ai capelli; mi si sente parlare di Londra come quella misteriosa città che mi ha rubato un pezzo di cuore, città che rivisiterei molto volentieri mille e mille volte; nella vita reale mi si sente parlare dei miei autori preferiti e dei miei personaggi preferiti, cose che trovo molto più interessanti delle chiacchiere da sala d’attesa, anche se ho sempre la sensazione di essere l’unica a pensarla così; nella vita di tutti i giorni vorrei saper parlare e scrivere in modo perfetto l’inglese… Ci sto lavorando tra un impegno e l’altro, anche se mi distraggo facilmente e molto facilmente mi faccio assorbire dalle molte storie che leggo. Tra gli altri, un autore ed i suoi personaggi continuano a riecheggiarmi nella mente, tornano sempre in qualche modo a catturare la mia attenzione: parlo di Arthur Conan Doyle e di Sherlock Holmes e John Watson.
Nella vita reale mi piacerebbe condividere i miei pensieri con altri appassionati, ma alla fine mi dedico ad un monologo appuntato sul mio diario.
La mia vita reale è fatta anche di musica e cinema: non potrei fare a meno di un buon libro, una playlist per ogni occasione e un buon film da guardare quando non leggo o quando semplicemente ne ho voglia.
Nella vita reale solitamente guardo con particolare attenzione i film tratti dai libri – indipendentemente dal fatto che io li abbia già letti oppure no, e nel secondo caso il cinema si rivela un’ottima occasione per impelagarmi in una nuova trama – e per questo motivo non mi sono fatta certo mancare le trasposizioni cinematografiche e televisive dedicate al personaggio di Sherlock Holmes. Ho apprezzato moltissimo i due film diretti da Guy Ritchie e ho amato la versione della BBC dopo l’iniziale disapprovazione, al punto che se mi chiedessero di scegliere l’uno o l’altro mi fionderei sulla terza opzione, ovvero: entrambi o uccidetemi. Nella vita reale ho un account Twitter che uso per esercitarmi a essere sintetica nell’esposizione (cosa che non mi riesce affatto bene) e per farmi i cinguettii dei miei vip preferiti. Nella vita reale seguo Mark Gatiss, ad esempio, e una volta ho anche trovato il coraggio di scrivergli. Di solito però mi limito ai retweet.
Non c’è nulla di interessante, a quanto pare, nella mia vita reale.
Nella vita reale… Ma in un universo parallelo… Oh, in un universo parallelo la mia vita è decisamente diversa.

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Capitolo 2
*** Questione di parallelismi ***



2. Questione di parallelismi

Anziché giocare alle deduzioni più o meno in solitaria sul mio profilo Facebook, in un universo parallelo ho un blog in cui scrivo, in italiano e in inglese, le dettagliatissime deduzioni cui arrivo analizzando i fatti. Fatti che possono riguardare qualsiasi cosa, ma che prevalentemente – ispirandomi al metodo deduttivo di Sherlock – restano nell’ambito degli avventurosi intrecci che coinvolgono il dottor Watson e il suo amico Sherlock Holmes. Ultimamente, ad esempio, il blog è pieno zeppo di ragionamenti che mettono insieme gli episodi delle tre stagioni di Sherlock BBC con gli indizi disseminati da Gatiss e compagnia bella su Twitter.
In questo universo parallelo, naturalmente, non sono l’ultima blogger arrivata, né il mio metodo è strettamente legato all’attività della serie tv della BBC. Da amante di Conan Doyle quale sono, ho deciso di avviare il blog per dar voce alla mia ammirazione per la brillantissima mente del noto investigatore privato e per la genialità del suo creatore, subito dopo aver letto tutti i racconti e i romanzi a disposizione. Nonostante io sia nient’altro che un mucchio di lettere sullo schermo di un numero imprecisato di persone sparse nel mondo, qualcosa in ciò che scrivo attira ogni giorno l’attenzione e l’interesse di molti. Tutto è naturalmente molto gratificante, ma non è per i consensi che continuo a lavorare al mio blog: il motore del sistema è il mio irrefrenabile bisogno di cercare, ragionare, comprendere, mettere insieme tasselli e scrivere indipendentemente da tutto il resto.
Come i binari di una ferrovia, in un universo parallelo sono l’identica copia di me stessa, una gemella che vive in un altrove e che in questo altrove è riuscita ad esprimere tutto ciò che nella vita reale io non ho il coraggio di fare.
Questione di parallelismi.
In questo universo parallelo, quando mi sveglio al mattino per andare a svolgere un lavoro che non mi appartiene quanto vorrei, che non è ciò che vorrei, e sbuffo perché il bagno è occupato e il tempo è mio nemico, e mi capita di bestemmiare perché qualcuno ha avuto la brillante idea di non lasciarmi quasi neanche lo spazio per entrare nella mia auto, riesco a non arrabbiarmi quanto dovrei perché so che una volta rientrata a casa potrò accendere il pc, collegarmi al blog e immergermi finalmente nelle cose che amo.
La differenza tra le due me parallele è piccola, ma di fondamentale importanza.
Una delle due, più precisamente l’altra, ha trovato una valida ragione per affrontare con positività anche le giornate più nere e questa ragione le consente di non prendersela troppo quando qualcosa non va come pianificato.
Nell’universo parallelo sono una persona sicura di ciò che ha, di ciò che vuole e di ciò che è disposta a fare per conquistare le sue mete. Sono ciò che potenzialmente potrei essere nella mia vita reale. Sono il binario ad alta tecnologia, quello accuratamente costruito da persone competenti, quello ottimizzato nelle sue funzioni. E sono appena rientrata a casa. E sto per accendere il computer.
“Ciao Zury Watson. Benvenuto”.
L’unica cosa che mi secca è che Windows dovrebbe imparare a distinguere tra uomo e donna se proprio vuole parlare in italiano, ma è una seccatura sopportabile tutto sommato.

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Capitolo 3
*** Social ***



3. Social

Prima di prendere posto davanti a schermo e tastiera ho bisogno di riscaldarmi le mani. Sono sempre così fredde che a volte penso di essere una specie di mezzo vampiro uscito male. Se non ci sto attenta, qualche giorno di questi mi ritroverò senza dita e addio blog. Appiccicata al termosifone trovo un po’ di sollievo prima che le dita diventino rosse e inizino a bruciare per il contrasto tra il gelo che le avvolge e il calore che tenta di rimpiazzarlo: è il modo migliore per scatenare i geloni, ma non posso fare a meno di riscaldarle almeno un po’ prima di mettermi alla tastiera.
Passano non più di dieci minuti e la voglia di fare un giro su Twitter alla ricerca di informazioni in merito alla quarta stagione vince sulla piacevole sensazione di tepore che ha appena iniziato a farsi strada. Così mi siedo e avvio il browser. Ci vuole un attimo per aprire il mio profilo sul social network. Ignoro le notifiche per il momento, sposto il cursore in alto a destra e faccio una lieve pressione sui tasti magici:
M A R K   G A T I S S.
Mi mordo il labbro mentre il browser carica il profilo… Avrà lasciato qualche altro indizio oggi oppure dovrò basare nuovi ragionamenti sul materiale già a disposizione? Non che il materiale manchi – la terza stagione è strapiena di piccoli indizi utili a metter su teorie abbastanza convincenti – ma è pur sempre una grande emozione leggere informazioni direttamente dalla fonte. È un modo bellissimo di coinvolgere tutto il fandom, di farci giocare ai piccoli detective: ogni volta che ognuno di noi prova a dare la propria teoria, automaticamente veste i panni di Sherlock Holmes. Perciò la delusione è inevitabile quando Mark opta per il silenzio stampa, come oggi.
Non mi resta altro da fare che dare un’occhiata alle notifiche e poi avviare il mio spazio personale. Molti dei miei followers seguono anche il blog, perciò tra le notifiche trovo sempre qualche breve domanda in merito ai miei programmi anche se chiunque può inviarmi email della lunghezza che preferisce direttamente dal blog. Dato che ho sempre risposto a tutti, maleducati e criticoni compresi, non mi tiro indietro neanche stavolta e con gentilezza mi dedico ai messaggi ricevuti. Poi, senza soffermarmi oltre sul social network ma lasciando comunque la scheda aperta, accedo al blog e mi preparo alla lettura dei messaggi.
Non credo che mi abituerò mai a tutti i complimenti e alle domande che piovono ogni giorno, ma ormai è diventata una piacevolissima abitudine accedere e leggere il tutto. Sostanzialmente trascorro più tempo a leggere e rispondere che a trascrivere le mie idee, le intuizioni, i ragionamenti e i possibili collegamenti tra episodi e indizi forniti. La trovo una cosa molto appagante, soprattutto perché chi mi segue sa che non mi collego ad orari fissi e prestabiliti eppure mi scrive ugualmente e attende con pazienza che io risponda. In fin dei conti sanno che risponderò, in italiano o inglese che sia.
Il mio ultimo ragionamento deve aver acceso l’entusiasmo di molti visto il numero di messaggi in posta… Oppure ha scatenato la loro rabbia. Occorre che io prenda un profondo respiro prima di verificare se le reazioni sono state positive o negative. Mi rendo perfettamente conto che facendo alcuni collegamenti è come se tenessi in mano una bomba pronta ad esplodere, ma non mi piace escludere nulla nel processo di analisi, perciò anche ciò che sembra completamente assurdo va preso in considerazione.
Il primo messaggio promette bene.
È una ragazza italiana che mi ringrazia per la compagnia che le tengo nell’attesa della quarta stagione e si complimenta per il modo in cui metto in relazione dettagli spesso passati inosservati. Anche lei adora Conan Doyle. Rispondere a messaggi come questo è decisamente piacevole e semplice sebbene mi senta sempre strana… Persone come questa ragazza mi fanno sentire importante anche se non lo sono affatto ed è… strano, appunto.
Poi abbiamo due conversazioni precedentemente iniziate. Entrambe molto piacevoli, devo ammetterlo, per via della competenza dei miei interlocutori: amo confrontarmi con chi si occupa di Sherlock come lo faccio io e mi piace riuscire a catturare l’attenzione di molti fan attraverso il mio blog. Uno di loro l’ha definito “il ritrovo di tutti gli amanti delle avventure al 221B”. Mi piace da morire.
Una critica. La cosa che mi dispiace di più è quando ricevo offese più che critiche, che potrebbero invece essere costruttive, spunto per migliorare l’organizzazione e il contenuto. Ma comunque ci sta anche questo.
Tra gli altri, uno in particolare attira la mia attenzione. Il nickname del mittente mi suggerisce che è un ragazzo, o un uomo, insomma una persona di sesso maschile; che è appassionato di Arthur Conan Doyle e che non è italiano.
Un insolito brivido mi percorre la schiena e sono più che certa che non sia colpa del freddo.

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Capitolo 4
*** Pressure Point ***



4. Pressure Point

Se dovessi seguire soltanto la mia impazienza, leggerei, anzi no, divorerei il messaggio con così tanta foga che poi dovrei rileggerlo per comprenderne davvero il senso. Quindi mi distraggo fissando lo sguardo sulla prima parola, un semplice “Hi”. Il guaio della parola scritta, semplicemente scritta e non descritta, è che non facilmente le si può attribuire il tono più adatto. Dietro a quel saluto potrebbe esserci una punta di entusiasmo, solo cordialità, un pizzico di distaccata educazione o un’educata dichiarazione di guerra. Potrebbe esserci qualunque cosa e non scoprirò cosa esattamente se non mi deciderò a leggerne il seguito. Non so cosa mi prenda a volte, se sia quel sesto senso di cui tanti parlano, quella specie di presentimento, oppure soltanto la mia fervida fantasia, ma sta di fatto che in certe situazioni mi capita di avvertire qualcosa di diverso. Ricevo tonnellate… beh no, non tonnellate, ma decine sì, quindi ricevo decine di messaggi e perché proprio oggi e proprio con questo qui io stia provando questa strana sensazione resta un mistero. Non mi piace tanto avere a che fare con cose su cui ragionare è praticamente inutile, perciò tutto ciò che devo fare adesso è evitare di fissarmi su questa cosa e andare avanti nella lettura come ho fatto fino a poco fa e come continuerò a fare dopo.
Mi stiracchio per bene e inizio a leggere. Dai termini che utilizza, termini che sembrano essere stati scelti con cura forse per farmi una buona impressione, – un’accuratezza che io personalmente riserverei ad uno scritto destinato a qualcuno che ritengo importante, sia esso un personaggio di rilievo o anche il mio migliore amico o una persona che mi piace – credo che sia un inglese. O comunque suppongo che l’inglese e non l’americano sia la lingua che usa per dialogare con me. C’è una certa raffinatezza nel testo, completamente privo di neologismi e di quel tanto detestato slang approdato anche nella mia terra d’origine e applicato di conseguenza alla mia lingua madre. Parla al maschile, il che conferma le mie ipotesi formulate sulla base del nickname, e non mi dà l’idea di essere un ragazzino sotto i vent’anni d’età. Il saluto all’incipit si è rivelato decisamente cordiale: sebbene il testo sia completamente privo di emoticon riesco a intuirne il tono. È una persona avvezza alla scrittura e quasi sicuramente anche alla lettura. Di certo ha letto più di una volta il Canone visto come commenta e conferma le mie deduzioni che sembra lo abbiano colpito molto, così dice. Mi sento un po’ in imbarazzo. Non è la prima volta che mi imbatto in lettori che scrivono bene e conoscono altrettanto bene le storie scritte da Conan Doyle, ma il modo di fare di questo ragazzo o uomo che sia ha un che di pericolosamente affascinante. È uno che sa vendersi e vuole conquistare la mia simpatia, forse la mia fiducia. Dopo aver manifestato una certa cordialità si esibisce in una prima dose di complimenti al mio “lavoro”; poi mette in mostra le sue conoscenze in merito agli argomenti di discussione, senza scostarsi dalle mie deduzioni ma confermandole ulteriormente apportando dettagli che avevo tralasciato nei miei articoli dandoli di fatto per scontati; e infine ecco la seconda pillola di complimenti, mai esagerati, per nulla sdolcinati, semplicemente sinceri ma non privi di un certo trasporto. Non mi stupirei se nella prossima conversazione mi rivelasse di essere uno scrittore. Sì, perché ci sarà sicuramente un prosieguo visto che è lui ad augurarselo con una certa faccia tosta che lo rende ancora più intrigante.
Uno dei miei punti deboli, il mio punto critico come lo chiamerebbe Charles Augustus Magnussen, è il coinvolgimento emotivo che le parole, se inanellate ad arte una dietro l’altra, sanno scatenare in me. Perdo la testa per una persona che sa usare le parole.
Decido di rileggere il messaggio prima di rispondere: mi piace dare la giusta rilevanza a ciò che mi viene detto. Ho così modo di notare che non è nuovo nel mio blog – oppure se lo è deve esserselo spulciato per bene – perché ha tirato in ballo una cosa che ho scritto più di un mese fa, ne sono abbastanza sicura… Ma tanto per averne la certezza, vado a controllare. Siccome ho paura che per un bug o chissà quale altra disgrazia tutto il blog salti, tengo tutti gli articoli in un file apposito sul pc. In questo modo è semplice risalire all’argomento che mi serve. Apro il file, clicco su Cerca, inserisco un paio di parole chiave e… Bingo! Eccolo qui, davanti ai miei occhi, con data e tutto. L’ho scritto e pubblicato un mese e una settimana fa, giorno più, giorno meno.
Resto per qualche minuto a fissare lo schermo prima di iniziare a rispondere al messaggio. Mantengo un tono gentile ma non troppo espansivo. Ringrazio ed esprimo la mia contentezza nell’interagire con lettori che non si limitano alle versioni televisive ma approfondiscono direttamente alla fonte. Poi concludo.
“Scrivimi pure quando vuoi, è piacevole leggerti. Un abbraccio”.
Il fatto che non si sia firmato nel messaggio, come molti altri lettori invece fanno, non fa che incuriosirmi. Perciò è meglio che mi dedichi agli altri messaggi in sospeso e poi volga l’attenzione altrove, magari alla dispensa… Qualcosa mi dice che mi toccherà uscire di nuovo per fare la spesa.

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Capitolo 5
*** Emme ***



5. Emme

Squilla il telefono.
L’ennesimo starnuto. Al prossimo sputerò un polmone, me lo sento.
“Brondo?”. Dall’altra parte una risata nemmeno troppo trattenuta. So perché, chiunque sia, sta ridendo e lo farei anche io al posto suo: ho una voce che farebbe sbellicare pure i polli. Non semplicemente voce da naso tappato con consonanti sbagliate in ogni dove, ma anche bassa da fare schifo. Sembro una vecchia stregaccia malefica.
“Scusa, sono un idiota”, dice, ancora con la risata attaccata alle corde vocali.
Manuele. Ci mancava solo lui.
“Sono d’accordo”, commento.
Fa una battuta su quanto sia tenace il mio sarcasmo. “Ti salverà dai batteri cattivi”, dice e un sorriso me lo strappa, ma non gli regalo la soddisfazione di rendersene conto. Poi mi chiede come sto.
“Distesa. Del letto”.
Ride. Fa una battuta dall’aria vagamente sconcia, sconcia con eleganza.
“Si sente la tua mancanza al lavoro, signorina”, dice.
Brontolo che le sue smancerie non mi guariranno dall’influenza che mi costringe a letto da ormai tre giorni. Mi chiede, stavolta in tono serio, se ho bisogno di qualcosa, se sono a posto con la spesa e con le medicine, se può essermi utile in qualche modo. Lo ringrazio sinceramente e lo informo che è tutto a posto.
“La bia vicida di casa è bolto preburosa”, dico e poi sbuffo per come le parole escono dalla mia bocca. “Grazie della telefodata”, aggiungo sperando così di sfuggire a quella tortura.
Lui capisce, e mi lascia sola con le mie lamentele raffreddate.
Sono tre giorni che non mi muovo da questo dannato letto. Sono tre giorni che non aggiorno il blog e la cosa mi irrita da morire. D’altra parte non sono comunque in grado di ragionare su nulla al momento, tant’è che carta e penna sono rimaste intatte sul comodino… Come ho potuto anche solo pensare di mettermi a scrivere in questo stato? Almeno, però, la febbre è scesa. Forse riesco ad alzarmi per prendere il pc… Non lo terrò acceso per molto, promesso!
Mi colpisco con grande debolezza sulla fronte con il palmo della mano: ora scendo pure a compromessi con me stessa, mi faccio promesse che so che non manterrò e mi auto analizzo manco fossi una psicologa.
Ho il viso in fiamme e il resto del corpo ghiacciato. Mi tiro su le coperte e affondo la testa nel cuscino.

Tre giorni più tardi, 7:30 AM

Dire che sono di fretta è un eufemismo, ma non me la sento di tornare al lavoro senza prima passare di qui. Per un attimo ho creduto che ci avrei lasciato le penne, invece era soltanto una brutta influenza. In ogni caso non gliel’avrei data vinta, di qualunque cosa si fosse trattato, non prima di aver visto la quarta stagione di Sherlock.
È spaventoso il numero dei vostri messaggi in casella e già mi vedo trascorrerci un mucchio di tempo prima di riuscire a rispondere a tutti – cenerò davanti al computer, non importa. Ve lo devo, con tutto l’affetto che mi dimostrate con una costanza che forse io non riuscirei ad avere.

Un bacio, Zury.


Traduco in inglese e posto entrambe le versioni.
Spengo in fretta il pc, afferro tutto ciò che mi serve, mi avvolgo in una sciarpa più lunga di quanto io sia alta e più calda di un termosifone e mi fiondo fuori di casa.
Puntuale arrivo sul posto di lavoro e mi becco una raffica di “Bentornata!” e “Come stai ora?”, prima di poter iniziare davvero a svolgere i miei compiti. C’è anche Manuele e questo riesce a risollevarmi il morale: per quanto sia incline a collezionare appuntamenti su appuntamenti, resta comunque una presenza piacevole e con lui il tempo sembra scorrere più velocemente.
In una pausa mi imbatto in Deborah, una collega molto attenta al look, che mi chiede cosa ci sia tra me e Manuele. Se non altro non si perde in chiacchiere. Ho la vaga sensazione che lui le piaccia e che per questo motivo lui non l’abbia ancora mai invitata ad uscire: se me ne sono accorta io, figuriamoci lui che c’ha le antenne per queste cose.
“È un collega”, rispondo soltanto.
“Ma ti piace”, dice lei senza punto interrogativo.
“No”. Secco e deciso.
“Secondo me sì”, insiste.
La squadro per una manciata di secondi. “Bel rossetto”, commento. Magari la smette.
“Grazie. Uscite insieme?”.
No, non la smette. “Se fosse così lo sapresti, suppongo”, le rispondo sollevando solo metà bocca in un sorriso tirato. Deborah è una pettegola di prima categoria, riesce a sapere tutto di tutti e puntualmente dispensa le informazioni per ottenere qualcosa. Sappiamo tutti qui che se Giada e Alessio hanno smesso di frequentarsi è perché lei ha messo in testa a Giada che Alessio è inaffidabile soltanto perché ai tempi del liceo cambiava fidanzate come le mutande. Sa essere molto convincente quando vuole. Poi, per confermare il tutto, è uscita lei con Alessio.
La sua smorfia, in risposta alla mia, è orrenda. “Quindi non ti dispiace se ci esco io, vero cara?”.
Puoi risparmiarti il cara, guarda. Le sorrido. “Fai pure”. E la lascio lì, continuando per la mia strada. Prendo un tè caldo al limone, al distributore, e decido che per una volta posso provare l’ebbrezza di essere una pettegola anche io. Cerco Manuele, mi siedo di fianco a lui e gusto la mia bevanda lasciando passare una decina di secondi. “So da fonti certe che qualcuno qui dentro vuole uscire con te”, dico senza guardarlo, trattenendo un sorriso.
“Tu?”. Scoppia a ridere.
“Ti piacerebbe”. Mi soffio il naso.
“Forse. Deborah?”.
Ero certa che se ne fosse accorto. La pausa volge al termine, così mi alzo e annuisco. Lui sospira scuotendo il capo. Forse dovrei dispiacermi per Deborah.

Non credevo che rientrare a casa, dopo quasi sei giorni di clausura forzata, potesse essere così piacevole. La prima cosa che faccio è accendere il pc. Intanto mi infilo il pigiama e decido che mangerò una pizza che mi farò consegnare a domicilio.
Incredibilmente i messaggi sono aumentati rispetto al mattino. Prendo un profondo respiro e inizio a leggere. Fortunatamente molti lettori semplicemente mi chiedono che fine io abbia fatto, come sto e perché non sto più aggiornando il blog. Quelli meno recenti, invece, mi riportano alle avventure di Sherlock Holmes e del dottor Watson. Quanto mi sono mancati!
Continuo a scorrere i messaggi, rispondo a quelli brevi e lascio in sospeso quelli più impegnativi, finché mi imbatto in quel nickname. Il cuore prende a battermi forte nel petto senza un motivo razionalmente esplicabile. Non capisco da dove arrivi il leggero stupore che avverto dal momento che era stato lui a manifestare l’intenzione di non terminare la conversazione con quell’unica email.
Ma che diavolo mi sta succedendo?
Sono costretta a prendermi una pausa, quindi sospendo la lettura per entrare nell’account Twitter e fiondarmi sul profilo di Mark Gatiss: in sei giorni avrà pur dato qualche altra indicazione! E mentre carica telefono in pizzeria ordinando una bianca con wurstel, patatine e mozzarella.
Scopro che Gatiss ha seminato più di un indizio e questo mi entusiasma abbastanza da farmi affrontare l’email con uno spirito migliore anche se non mi impedisce di leggerla tutta d’un fiato. La data d'invio corrisponde a due giorni dopo la mia prima ed unica risposta, ovvero il giorno stesso in cui mi sono beccata la febbre.

Ti chiedo scusa per aver ritardato tanto nel risponderti. Prima quasi ti chiedo di non confinare la nostra conversazione ad un solo botta e risposta e poi non trovo il tempo da dedicarti. Se puoi, sorvola sui miei problemi di tempismo e accetta la mia massima contentezza nel leggere le parole che mi hai gentilmente riservato. Attendo con una certa ansia, che non mi premuro di nasconderti, le tue prossime deduzioni.
A presto, M.

Se non sapessi per certo che Manuele non è a conoscenza del mio blog, penserei che è un suo scherzo. M… Quale nome si celerà mai dietro una emme? E perché firmarsi con quella che potrebbe essere l'iniziale del suo nome nel secondo messaggio e non nel primo? Quest'uomo si veste volutamente con un manto di mistero. Sospiro e decido di non rispondergli ancora: lo farò dopo aver postato nuove deduzioni.

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Capitolo 6
*** Colpa del cuore ***



6. Colpa del cuore

Per ragioni forse pure comprensibili, Mark Gatiss e i suoi hanno quasi smesso completamente di lasciare indizi su Twitter. Il che per me sostanzialmente significa tornare a lavorare esclusivamente sul materiale già a disposizione. Che più o meno equivale a lanciarmi da un aereo con un paracadute bucato. Non tanto perché io non sia in grado di mettere insieme i puntini, ma più che altro perché credo di aver già analizzato tutto l'analizzabile.
Quindi, cerco di guadagnare un po' di tempo in attesa di avere qualcosa di nuovo da proporre ai miei lettori. Fortunatamente sono proprio loro, spesso, a stimolarmi con i messaggi che mi scrivono. Con mio grande piacere, il mio blog non è mai stato un monologo tra me e me. Nelle ultime settimane, poi, ho parlato delle mie deduzioni molto di più grazie alla presenza continua di M.
Non conosco praticamente nulla di lui, ma so per certo che è un tipo che sa il fatto suo. Mi ha dimostrato di conoscere alla perfezione tanto il Canone quanto le stagioni della serie tv della BBC. Ciò che più mi piace del parlare con lui è che ha sempre trovato il modo di non chiudere la conversazione. Mi era già capitato di scambiare più di due messaggi con i miei lettori, ma ad un certo punto la questione si esauriva e non mi arrivavano più messaggi da quell'utente se non in occasione di un nuovo articolo. Con M. invece è diverso: non abbiamo mai smesso da quando mi ha scritto la prima volta.
Questo mi confonde. E mi fa fare cose stupide, come questa...

[...] A proposito, sai che il mio inglese è una condizione necessaria agli utenti non italiani che mi leggono. Che mi dici del tuo inglese invece?

La curiosità mi ha spinta ad aggiungere una domanda personale che avrei fatto meglio ad evitare.
Se c'è una cosa che mi sono ripromessa quando ho avviato il blog è il divieto assoluto di stringere amicizia con i lettori. Non perché, come sostengono gli Holmes, i sentimenti sono un ostacolo, ma semplicemente perché non voglio che si arrivi a cercare un contatto per cose personali quali possono essere uno sfogo che nulla ha a che fare con il senso del blog. Mi conosco e so bene che poi finisco per fare quella che ascolta i guai di tutti, per questo avevo preso quella decisione. Decisione mantenuta fino a poco fa...

Il giorno seguente.

Anche se a Manuele ho raccontato di essermi impelagata in un romanzo che non sono riuscita a mollare prima delle quattro di stanotte, il reale motivo per cui ho dormito male come non accadeva da tempo, influenza esclusa, è l'attesa. Non ho fatto altro, per tutta la notte e per tutto il giorno, che attendere la risposta di M. alla mia domanda invece di nascondermi in un angolo buio per aver anche solo pensato di fargliela.
La stessa bugia la utilizzo per declinare gentilmente un invito al cinema. Non mi piace nemmeno il film che danno, ma conoscendomi non avrei rifiutato, per evitare di lasciare sola un'amica. Ho imparato sulla mia pelle, però, che non tutti hanno la stessa premura e forse, in fin dei conti sono io che sbaglio assecondando sempre gli altri in onore di un sentimento ideale. In ogni caso non intendo giustificare me stessa per la vera ragione di tutto questo. So che non porterà a nulla di buono, perciò è meglio che torni in me e la smetta immediatamente di comportarmi come una ragazzina. Sono una blogger che scrive deduzioni, devo tenerlo bene a mente.
Appena arrivata a casa, invece di avviare il computer come l'istinto suggerisce, volo in cucina a preparare la cena e mi faccio tenere compagnia dalla mia playlist preferita.
Faccio tutto tanto lentamente che alla fine riesco a rilassarmi completamente e decido che per oggi non mi collegherò al blog. Preparerò invece il prossimo articolo.

Il giorno dopo ancora, ore 21:13 PM

Una cosa che ho sempre trovato molto interessante nella terza stagione di Sherlock è Barbarossa, o Redbeard se preferite. Sia Mycroft Holmes che Charles Augustus Magnussen hanno pronunciato questo nome e in entrambi i casi abbiamo visto Sherlock esitare. La prima cosa che ho pensato nel sentire questo nome è stata: che diavolo c'entra adesso l'imperatore Barbarossa? Sono arrivata a considerare le ipotesi più insensate di sempre pur di riuscire ad arrivare ad una conclusione logica. Ovviamente non ho ottenuto risultati soddisfacenti, ho quindi abbandonato l'idea dell'imperatore e ho atteso il punto preciso, nell'episodio conclusivo della terza stagione, in cui finalmente ci viene spiegato chi è davvero Barbarossa. È un cane, come tutti ormai sappiamo, e più precisamente il cane di Sherlock Holmes. Da come i due si incontrano di nuovo nel palazzo mentale di Sherlock e da ciò che quest'ultimo dice si può comprendere che quando lui era solo un bambino, Barbarossa era il suo unico amico, l'unico a cui il piccolo Sherlock volesse bene. Questo implica che, alla morte del cane, Sherlock abbia sofferto molto dimostrando la vulnerabilità che deriva dal provare sentimenti per qualsiasi essere vivente, animali compresi. Da qui l'uscita telefonica di Mycroft, tempisticamente perfetta, capace di far vacillare Sherlock al matrimonio del suo miglior amico, John Watson.
Dopo aver visto la 3x03 è chiaro il messaggio di Mycroft a suo fratello.
Sulla stessa linea viene a trovarsi Magnussen che annovera Barbarossa tra i punti critici di Sherlock Holmes.
Quali conclusioni possiamo trarre da tutto ciò?
Sono trascorsi anni dalla morte del cane, eppure Sherlock ha conservato intatto il legame con lui. Aveva quindi ragione Moriarty, fin dall'inizio:
Ti brucerò il cuore
Mi dispiace, ho saputo da fonti certe che non ce l'ho
Ma sappiamo entrambi che non è affatto così
Concludo segnalando una differenza tra la rivisitazione della BBC e l'opera di Conan Doyle dove Barbarossa non compare affatto ed è anzi il Dottor Watson ad avere un cane che porterà con sé nell'appartamento al 221B di Baker Street.
A voi ulteriori considerazioni!
Con affetto, Zury.

Pubblico l'articolo e passo ai messaggi, trovando tra gli altri quello di M.
Se sia rimasto sorpreso oppure no dalla mia domanda personale non l'ha dato a vedere. La sua risposta trasuda gentilezza da tutti i pori... o sono io che di nuovo mi lascio trasportare? Ma come si fa a non restare incastrati se un tipo così interessante ti rivela anche di essere un inglese di Londra?
Quando mi rendo conto di avergli raccontato della mia esperienza a Londra quando avevo appena dodici anni è già troppo tardi. Pure per il mio cuore.

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Capitolo 7
*** Un computer, una connessione a internet e una webcam ***



7. Un computer, una connessione a internet e una webcam

Mi sono sempre chiesta perché alcune risposte, per la precisione quelle più azzeccate, vengano in mente ogni volta troppo tardi.
Mi sono sempre chiesta perché, a guardarla da lontano, l'angoscia di un momento sembra spesso esagerata.

Mi sono sentita una stupida per un'intera settimana dopo aver raccontato ad Emme della mia esperienza londinese.
Mi sono sentita ancora più stupida per aver raccontato l'episodio a Manuele, in occasione della nostra prima ed unica uscita a due. Effettivamente non so se mi sono sentita più idiota per avergli parlato dei fatti miei oppure per aver accettato il suo invito.

Mi sono sempre interrogata sullo scorrere del tempo. Su quale base un minuto conta sessanta secondi, un'ora sessanta minuti e un giorno ventiquattro ore? Chi ha definito il concetto di secondo, minuto, ora, giorno, mese, anno? E come? Qualsiasi siano le risposte ai miei interrogativi, sono trascorsi tre mesi da quando ho parlato per la prima volta con Emme.

Mi sono sempre domandata se quando qualcosa accade sia semplicemente per destino. Se ciò che accade, accade esclusivamente in base alle nostre scelte. Se il perché di un accadimento sta da qualche parte tra il destino e le scelte di ognuno.

Poco importano comunque, adesso, le mie domande esistenziali.
Ostento calma mentre trascino me stessa e il mio bagaglio leggero tentando di non perdermi tra decine e decine di persone e bagagli.
Ho preso un permesso al lavoro e ho avvisato i lettori della mia assenza a tempo indeterminato.
Trovo un posto a sedere, ma non un reale rimedio alla tensione e all'attesa. Senza neanche pensarci accendo il portatile e mi collego al blog con l'intento di ripercorrere le ultime settimane di conversazione con lui.
Sebbene io stessa fatichi a crederci, sono in aeroporto e stringo tra le dita un biglietto di sola andata per Londra.

Il messaggio che cerco è esattamente quello che ha dato il via a quella che considero la più grande avventura della mia vita.
Eccolo...

[...] Hai mai pensato che tra tutti i lettori del tuo blog potrebbe esserci qualcuno coinvolto in qualche modo nella serie? Qualcuno di importante... qualcuno del cast? Che so, magari Gatiss che in crisi viene a cercare qui ispirazione in compagnia di Moffat. Magari qualcuno di loro ti ha anche scritto senza che tu lo sappia. Ci hai mai pensato?
M.

Ricordo di aver riso per cinque minuti buoni prima che il dubbio riuscisse ad insinuarsi in me.
Il problema più grande di chi ama le storie è che se gli dai un input poi mica riesci a fermarle le rotelle della loro fantasia. E da quel preciso momento per le mie rotelle non c'è stata più pace.
Per quanto continuassi a ripetermi che Emme aveva soltanto voglia di scherzare o di verificare se e quanto mi fossi montata la testa, una parte di me iniziava a prendere in considerazione quell'idea senza etichettarla come assurda, anche se lo era. Lo era?
Brutta bestia il dubbio.
Il vantaggio di un confronto virtuale sta nella virtualità stessa: avvolta dalla confortante coperta dell'invisibilità offerta da questo tipo di conversazioni, sono stata capace di dare una risposta veritiera senza tradire il temporale di emozioni... Dirgli che secondo me il blog non ha mai raggiunto un tale livello di fama da attirare l'attenzione di gente famosa ed esprimergli i miei dubbi riguardo al fatto che qualcuno tra gli autori e gli attori abbia voglia di prendere in considerazione le deduzioni di una perfetta sconosciuta che per hobby gioca al detective non è stato affatto difficile. Il difficile è arrivato quando mi sono accorta, ovviamente in ritardo, di aver tralasciato completamente la prima parte del messaggio. Copertura saltata. Complimenti Zury, hai vinto un bel mongolino d'oro a grandezza naturale.
Ricordo anche la risposta arrivata in tempo reale, cosa che non era mai successa prima.

E se ti dicessi che io non sono un semplice ragazzo che ama giocare al detective con te? Se ti dicessi che sono Mark Gatiss?
M.

Perfino adesso, rileggendo, sento il panico scorrere in ogni parte del mio corpo. Panico perché non riuscivo più a capire dove volesse arrivare con quello scherzo. Panico perché non capivo cosa lo spingesse a dirmi quelle cose. Panico perché quella fastidiosissima parte di me continuava a credergli.
La velocità con cui ho digitato la risposta e l'esagerata pressione sugli innocenti tasti del mio pc non credo che li dimenticherò mai.
Tanto ovvio quanto lecito il mio:

Ti chiederei di dimostrarmelo.

Temo che le farfalle che hanno cominciato a svolazzarmi nello stomaco in quel momento abbiano deciso di stabilircisi in via definitiva. Le sento ancora, veloci, forti e completamente impazzite. La dimostrazione che ho chiesto è gelosamente custodita in una cartella di questo computer. Decido di aprirla.
Foto1: Uomo incredibilmente somigliante a Mark Gatiss, in un'abitazione. Mai vista prima.
Foto2: Uomo incredibilmente somigliante a Mark Gatiss sorride al fotografo. Mai vista prima.
Foto3: Uomo incredibilmente somigliante a Mark Gatiss, accanto a uomo incredibilmente somigliante a Ian Hallard. Mai vista prima

Chiudo gli occhi e non riesco a non sorridere se ripenso a come sono andate le cose. Gli ho detto che non gli credevo e lui, invece di perdere la pazienza, ha continuato ad arricchire la mia fortunata cartella.
Foto4: Mark Gatiss, davanti al solito computer, mi mostra la nostra conversazione.
Foto5: Mark Gatiss, di spalle. Nel fuoco dell'immagine il messaggio che sta per inviarmi.
Foto6: Mark Gatiss con un foglio in mano: Le tue deduzioni hanno quasi colto nel segno.

Questa sesta foto mi ha quasi ammazzata.
Foto7: Mark Gatiss e Ian Hallard insieme a Bunsen, il loro cane.
Foto8: Mark Gatiss, sorride e fa OK con la mano.

Non ci ho dormito per giorni.
Ho affrontato i peggiori mal di stomaco che abbia mai avuto.
Sono stata assalita dai dubbi più atroci e da un'insicurezza che mi ha mandata completamente in tilt. Insicurezza che lui ha colto nelle conversazioni successive all'invio delle fotografie.
Ancora adesso non ho ben capito il perché della sua ostinazione.
Chiudo la cartella e riapro la conversazione.

Ho in mano una carta che ti convincerà definitivamente. Ti serviranno un computer, una connessione a internet (e so per certo che hai entrambe le cose) e una webcam (non ci provare, non ti credo se mi dici che non ce l'hai). Una videochiamata chiarirà ogni cosa. E poi, con tutte le fotografie che mi sono fatto scattare, merito o no di poter finalmente associare un volto alle conversazioni di questi mesi?
Mark

Sono morta e resuscitata non so quante volte leggendo questa email.
Fatto sta che un'ora dopo indossavo una delle mie magliette preferite, mi ero rifatta il trucco più per distrarmi che per apparire affascinante, ed ero seduta davanti al computer, connessa ad internet e con la webcam pronta per essere avviata. Mi tremavano le mani, ero in anticipo di dodici minuti ed ero così fuori di testa da scrivergli che potevamo avviare la videochiamata quando voleva.
Chiudo gli occhi e rivivo il momento.

Neanche un minuto dopo, la videochiamata arriva.
Il cuore in gola.
Le mani che tremano.
Le farfalle nello stomaco.
Il panico negli occhi.
Accetto.
I secondi che occorrono al collegamento mi sembrano anni.
Luce intensa che lentamente lascia spazio ad una sagoma. Poi a un volto.
Un uomo.
Maglietta arancione. Auricolari neri sfiorano le spalle e il petto. Niente barba.
Sorride.
«Hi».
Il vuoto nello stomaco, neanche fossi sulle montagne rosse. È così che è iniziata.
Sollevo la mano senza riuscire ancora a parlare.
Prendo un profondo respiro. Spero di non avere la faccia da idiota.
«Somigli troppo a Mark Gatiss per non essere Mark Gatiss».
Non ho sbagliato sintassi e pronuncia, vero?
Ride.
Ora te lo chiedo. Smettila di sorridermi così però, ok?
«Scusami, parlare non è come scrivere».
Continua a sorridere e dice che non devo preoccuparmi di nulla. Va tutto bene.

La videochiamata più bella della mia vita.
Spengo il pc. È ora di prendere questo aereo.

È ora di scendere da questo aereo.
Deglutisco. I miei piedi vanno da soli verso la meta.
Impazzirò. Crollerò. Morirò.
Mi fermo.
Le farfalle nello stomaco non mi imitano. Peccato.
Ha detto che sarebbe venuto a prendermi e stavolta gli credo. Mi starà già aspettando.
Accendo il telefono. Ci siamo scambiati i numeri ieri sera. Mi arriva un sms.
"Lo so che sei arrivata :) Coraggio!"
Ho la netta sensazione che il mio inarrestabile sorriso sia dettato da una crisi isterica, la stessa che mi sta facendo venire voglia di saltellare e correre.
Torno a muovermi.
Cammino veloce. Più veloce. Quasi corro verso di lui.
Eccolo. Lo vedo. È lui. È Mark.
Ho il cuore in gola, nelle tempie, nello stomaco. Ovunque.
Sono davanti a lui.
«Hi», diciamo contemporaneamente.
Ridiamo.
Quando mi chiede come mi sento gli rispondo sincera.
«Felice».




N.d.A.
Ringrazio in anticipo quanti saranno riusciti ad arrivare fino in fondo a questa storia, la prima che ho deciso di pubblicare qui.
La storia di questo racconto ha radici nella mia ammirazione nei confronti di Mark Gatiss. Questi sette capitoli non hanno la pretesa di essere una grande storia, vogliono essere soltanto una storia. Forse un sogno nel cassetto.


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