La sorella di Evelina

di Eustachio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un incontro ***
Capitolo 2: *** Un appuntamento ***
Capitolo 3: *** Con un po' di aiuto dai tuoi amici ***
Capitolo 4: *** Matita sottile ***
Capitolo 5: *** Un nuovo sentimento ***
Capitolo 6: *** Le distanze ***
Capitolo 7: *** Capodanno ***
Capitolo 8: *** Il bivio ***
Capitolo 9: *** Nebbia ***
Capitolo 10: *** Un ritorno ***
Capitolo 11: *** Evelina disse che avrebbe comprato lei i fiori ***
Capitolo 12: *** Qualcosa di speciale ***
Capitolo 13: *** Le canzoni di Massimo ***
Capitolo 14: *** Una sera di novembre ***
Capitolo 15: *** Déjà vu e jamais vu ***
Capitolo 16: *** Il movimento impercettibile ***
Capitolo 17: *** I girasoli, il cipresso, la strega ***
Capitolo 18: *** 23 marzo ***
Capitolo 19: *** Un bravo ragazzo va a morire ***
Capitolo 20: *** Sostiene Evelina ***
Capitolo 21: *** Vai a sinistra ***
Capitolo 22: *** Sfiderebbero Satana e tutte le sue legioni ***



Capitolo 1
*** Un incontro ***


Prima parte

Un incontro

Giovedì 26 novembre 2009

Sono sola alla fermata dell’autobus. In biblioteca ho perso la cognizione del tempo ed è stato il bibliotecario a ricordarmi che stavano per chiudere. Mi sono tolta le cuffie, ho controllato l’ora dal cellulare e mi sono sbrigata a uscire. Una volta fuori mi hanno sorpreso il freddo di novembre e il ticchettio della pioggia. Mi sono stretta nel cappotto, ho aperto l’ombrello e sono arrivata fino alla fermata. Il prossimo autobus dovrebbe passare tra un quarto d’ora. I lampioni tingono le strade d’arancio e sui marciapiedi sagome indistinte corrono al riparo sotto i portici o si affrettano ai margini della strada con gli ombrelli.

Un ragazzo incappucciato corre sotto la fermata. Nel caso in cui voglia sedersi sposto la borsa, ma si limita a guardare gli orari e poi la strada, in piedi. Si toglie il cappuccio e sospira. Ha un bel profilo, il naso prominente, un accenno di barba, i capelli scuri tagliati corti, gli occhi grandi. Sposta il peso dal tallone alle punte, sporgendosi ogni tanto nella speranza di intravedere l’autobus. La pioggia diventa scrosciante e il ragazzo si tira indietro.

In tasca e con i guanti le mani si scaldano, ma il freddo mi punge le guance e i jeans sono troppo leggeri. Accavallo le gambe.

«Fa sempre così ritardo?» chiede il ragazzo.

Trasalisco, ma mi stringo nelle spalle come se fosse stato un brivido di freddo. «Di solito prendo l’altro autobus. Oggi ho fatto tardi».

«Sarei dovuto uscire prima». Sbuffa e si siede anche lui, gli occhi fissi sulla strada. «Il professore continuava a spiegare e spiegare, se non dovevano chiudere le aule ci teneva dentro ancora mezz’ora. Se sapevo che pioveva mi portavo almeno l’ombrello».

«Vivi in zona?»

«Sulla traversa prima del supermercato. Se l’autobus si degnasse di arrivare mi eviterei la corsa sotto la pioggia».

Annuisco. La pioggia batte sul tetto della fermata. Dal vetro i lampioni sono aloni di luce opachi. Un autobus svolta.

«È questo?» Lui si alza e si sporge fuori dalla fermata, schermandosi gli occhi con la mano. Mi alzo anch’io, ma l’autobus alla rotonda prende l’altra strada. Torniamo entrambi a sederci.

«Scrivo a mia sorella, va’». Prendo il cellulare dalla borsa. «Se fa prima dell’autobus possiamo darti un passaggio, tanto è di strada».

«Oh». Per la prima volta mi guarda negli occhi. Li ha neri, molto espressivi. Le labbra gli si increspano in un sorriso. «Grazie, sarebbe proprio una mano santa».

Evelina non risponde subito. Rimango col cellulare in mano e per qualche istante sia io che il ragazzo lo fissiamo, una luce chiara e distinta nella strada arancione. La pioggia riduce di intensità, ticchetta dolcemente sul tetto della fermata. Mi investe la stanchezza della giornata: le lezioni, il pranzo in pizzeria, l’ora in fila al ricevimento, altre lezioni, il torpore della biblioteca con Florence and the Machine che mi fanno perdere la cognizione del tempo mentre ricopio gli appunti… Mi appoggio al vetro sospirando.

«Si sta calmando». Il ragazzo guarda il tetto, come aspettandosi una conferma. «Ti sembrerà una follia detto da uno che manco conosci, ma… che ne dici se aspetti tua sorella a casa mia? O comunque ci avviamo? Se ti risponde prima che arriviamo a casa possiamo sempre tornare indietro».

Esito. Sembra un ragazzo tranquillo, non ci sono segni di vita né dal cellulare né dall’autobus e in fondo io stessa gli ho offerto un passaggio poco fa.

Lui alza la mano sinistra e si mette la destra sul cuore. «Giuro solennemente di avere buone intenzioni. Se vuoi ti do la carta d’identità e dai tutti i miei dati a tua sorella, così se ti succede qualcosa di brutto sai che non la passerò franca».

Scuoto la testa trattenendo una risatina di circostanza. «Non serve. Dici che abiti qui vicino?»

«È proprio la traversa prima del supermercato, più avanti. Di solito ci metto un quarto d’ora a piedi, anche meno se cammino velocemente. Se mi fossi portato l’ombrello neanche starei qui ad aspettare l’autobus, ma… chi lo sapeva che scoppiava un acquazzone».

Mi guarda trepidante d’attesa, le mani ora nelle tasche del cappotto. Non ha neanche i guanti.

«Mi hai convinto». Abbozzo un sorriso. «Andiamo, prima che riprenda a piovere a dirotto».

Ci rimettiamo le borse in spalla. Lascio il telefono nella tasca del cappotto mentre apro l’ombrello. Lo tengo sollevato per coprire anche lui. Gli arrivo sotto la spalla.

«Se vuoi lo tengo io».

«Sì, grazie».

Glielo porgo e ci incamminiamo. Lui cerca di coprire entrambi e allo stesso tempo di stare a debita distanza. Qualche locale è ancora aperto, ma le cartolerie e le librerie che di solito pullulano di studenti la mattina ora sono chiuse. L’acqua viene raccolta nei canali di scolo, ma qua e là ci sono pozzanghere di luce.

«A proposito, io sono Massimo».

«Piacere, Francesca».

Ci stringiamo la mano.

«Cosa studi?» chiede lui.

«Lettere. Tu?»

«Filosofia».

Cammino a testa bassa, attenta a dove metto i piedi.

«Ti avverto, se la casa è un disastro è tutta colpa del mio coinquilino. Ovunque, anche in camera mia. Non che dobbiamo andare in camera mia, eh».

Tengo il cellulare stretto nella mano della tasca. Perché Evelina non risponde? Perché l’autobus non è passato?

«Se hai fame possiamo mangiare qualcosa, sempre che tua sorella non risponda prima. Ancora niente?»

Si sta sforzando di essere gentile. In fondo vuole solo tornare a casa anche lui e che Evelina non si faccia sentire gli è d’impiccio.

«No. Non preoccuparti».

«Ecco, qui a destra». Il marciapiede è più piccolo nella traversa. Cammina dietro di me. Io affretto il passo. Supero le strisce senza notarle, lui mi sfiora il braccio dicendo: «Attraversiamo qui».

Appena arriviamo al suo condominio mi restituisce l’ombrello per cacciare le chiavi e aprire il portone. Lo tiene aperto, ma rimango sulla soglia.

Mi guarda sorpreso. «Non entri?»

«Non voglio disturbare. Provo a chiamare mia sorella o cerco un altro autobus».

«Ma che disturbo, mi hai accompagnato fin qui! Entra, dai».

Chiudo l’ombrello e lo scrollo prima di entrare e chiudermi il portone alle spalle. Perché è così insistente? Neanche ci conosciamo, neanche mi dovesse qualcosa.

Chiama l’ascensore. Le porte si aprono lentamente. Abbandoniamo l’odore di prodotti per le pulizie dell’atrio per quello neutro dell’ascensore. Entro per prima. Massimo preme il cinque e cominciamo a salire.

Lo guardo attraverso lo specchio con la coda dell’occhio. Le spalle, il cappuccio e la borsa sono bagnati. Si è bagnato per coprire me mentre camminavamo qui fuori o era già così da prima?

Si mette le mani nelle tasche dei jeans e guarda il soffitto. Compongo il numero di Evelina, ma non c’è campo.

Prima ancora che le porte si aprano Massimo traffica con le chiavi. Nel suo appartamento il corridoio è buio. Da una porta chiusa proviene una striscia di luce e una musica sommessa. Massimo mi precede. Struscio i piedi sullo zerbino un paio di volte e lascio l’ombrello all’ingresso.

«Permesso» mormoro. Mi chiudo la porta alle spalle.

Massimo è in cucina, la prima stanza sulla destra. La borsa è a terra, s’è tolto il cappotto. Indossa una felpa blu. È largo di spalle. Potrebbe mettersi a dieta, andare in palestra, e avrebbe un bel fisico.

«Vuoi qualcosa?» Apre il frigo. «Abbiamo… Mmm. Acqua, tè, birra. A te la scelta». Mi guarda da sopra lo sportello. «O vuoi qualcosa da mangiare?»

«Il tè va benissimo, grazie».

Poso la borsa a terra, mi levo il cappotto e lo metto sullo schienale della sedia. Chiamo di nuovo Evelina mentre lui riempie un bicchiere, ma continua a squillare a vuoto. Le scrivo che per il momento sono a casa di un conoscente, le dico di raggiungermi all’altezza del supermercato e concludo con un Chiamami appena puoi.

Bevo qualche sorso di tè. L’orologio della cucina ticchetta. La musica dell’altra stanza cambia, è I Gotta Feeling. Con questo freddo ho voglia di qualcosa di caldo. Stasera mi preparo una cioccolata e mi guardo un film. Finirò domani di copiare gli appunti.

Massimo tamburella le dita sul suo bicchiere. «Giuro che col mio coinquilino condivido giusto l’appartamento, non i gusti musicali. Ti dà fastidio? Se ti dà fastidio gli dico di abbassare».

«Non preoccuparti».

«Non può piacerti una roba simile, dai».

Mi umetto le labbra. «Cosa ne sai?»

«Fammi indovinare». Si accarezza il mento, assumendo la posa da pensatore. «Ti piace di sicuro Florence and the Machine. Radiohead, Coldplay, Keane. La tua canzone preferita dei Beatles è Eleanor Rigby».

Bevo un altro sorso di tè. «E da cosa capiresti tutto ciò, sentiamo?»

«Sei una ragazza. Fai Lettere, ti piacciono i libri di poesie e le giornate di pioggia. Non vai in discoteca, non senti questa musica».

Mi sta prendendo in giro. Alzando la testa incontro un sorriso sghembo. «Ci ho preso, vero?» chiede. «Che mi dici degli Strokes?»

«Meglio dei Radiohead».

Un lampo gli attraversa gli occhi. «Aspetta, questa ti piacerà per forza!» Si alza ed esce di corsa dalla cucina. Finisco il tè. Sono le nove meno cinque ed Evelina ancora non risponde.

Massimo torna col portatile. Avvicina la sedia all’angolo del tavolo e gira il computer verso di me.

«Sai chi è Julian Casablancas?»

«Non mi è nuovo».

«È il cantante degli Strokes, ha fatto un album da solista». Il computer si è acceso. Le dita di Massimo si muovono velocemente sulla tastiera. «Senti un po’ questa, è la mia preferita».

Parte Glass. Riconosco la voce del cantante, ma non suona come negli Strokes. Non afferro le parole e non capisco quali siano gli strumenti. Mi mette tristezza e stanchezza.

«È bella».

Massimo abbassa il volume. «Sempre meglio dei Radiohead?»

«Credo di sì». Sorrido. «E comunque mi spiace contraddirti, ma non mi piacciono granché i Beatles. Eleanor Rigby è un’eccezione».

«Sta di fatto che ci ho preso».

Sbuffo, lui ride.

«Hai fame? Posso improvvisare qualcosa, se ti va».

Il telefono vibra. Lo prendo, Massimo ferma la canzone.

«Perché non rispondevi?»

«Ero sotto la doccia e poi stavo guidando. Ho parcheggiato davanti al supermercato. Con chi sei?»

«Arrivo». Riattacco.

Io e Massimo ci alziamo contemporaneamente, le sedie stridono.

«Ti accompagno?» chiede.

«Non serve, è qui sotto». Mi rimetto il cappotto. «Grazie per il tè e per la musica».

Si mette le mani nelle tasche dei jeans, si stringe nelle spalle. «Grazie a te per la compagnia».

Mi accompagna alla porta, accendendo le luci nel corridoio. «Non dimenticare l’ombrello» dice.

Rimango sulla soglia. Ho la borsa in spalla, il cellulare in tasca, l’ombrello in mano. Ho tutto.

«Be’, è stato un piacere» dico.

«Ci becchiamo all’università». Ha la mano sulla porta. «Ci prendiamo un caffè, se vuoi».

«Con piacere. Buona serata, grazie ancora».

«E di che».

Il sorriso scompare dietro la porta. Mi avvio lungo il corridoio. L’ascensore è impegnato. Faccio le scale a piedi, aggrappandomi al corrimano.

Evelina, in macchina davanti al supermercato, accenna un colpo di clacson. Entro in macchina con l’ombrello zuppo. Mi allaccio la cintura di sicurezza mentre Evelina mette in moto.

«Ho aspettato per più di venti minuti l’autobus. Ho perso la cognizione del tempo…»

«Ma con chi eri?»

«Un ragazzo che aspettava l’autobus con me».

«Sei pazza? Un estraneo?»

«Non aveva l’ombrello, l’ho accompagnato a casa e…»

«È carino almeno?»

Evelina ha i capelli bagnati. Li ha legati in una coda. Una goccia le cola sulla fronte.

«Non hai fatto neanche in tempo ad asciugarti i capelli!»

«Mamma cucina, papà non è ancora tornato».

«Ti ammalerai».

«No che non mi ammalerò. Allora, è carino?»

I tergicristalli stridono sul parabrezza. Siamo ferme al semaforo. Un signore con l’impermeabile attraversa la strada a grandi falcate e corre al riparo sotto un portico.

«Non è importante. Tanto non lo rivedrò».

«Secondo me lo rivedrai eccome. Va all’università?»

«Sì, fa Filosofia».

«A maggior ragione».

Inspiro forte col naso, appoggiandomi allo schienale. «Ha detto se ci prendiamo un caffè».

«Gli piaci! Devi assolutamente rivederlo».

«Ma che dici, l’avrà detto così per dire».

«Voglio sapere per filo e per segno cos’è successo».

Scatta il verde. La macchina riparte.

Tornando a casa le racconto tutto, da quello che ci siamo detti a com’è d’aspetto, dallo stato del suo appartamento a come mi ha inquadrato.

«Ho un buon presentimento» dice Evelina. «Devi rivederlo. Devi e basta».


Note alla storia:

Innanzitutto ciao e grazie per essere arrivato/a fino alla fine del capitolo!

Alcune informazioni di servizio:

  • La storia è già conclusa, quindi sta solo a me pubblicarla. Se ti incuriosisce, abbi pazienza. Immagino di pubblicarla un po' alla volta nel giro di un mese.
  • È divisa in tre parti e ogni parte pone un cambio di prospettiva drastico con la precedente. Non a caso ho selezionato come sotto-generi anche "drammatico" e "science-fiction". In sostanza, non è solo una storia romantica. Anzi, il rapporto tra Francesca ed Evelina è forse più importante di quello tra Francesca e Massimo.
  • Consiglio di tener d'occhio le date, non solo per gli sporadici riferimenti temporali, ma anche perché la storia si dipana nel corso di qualche anno e da un capitolo all'altro possono trascorrere dei mesi.
  • Che la storia ti piaccia o meno, se la segui con piacere o se sei arrivato/a alla fine del capitolo stufo marcio già dalle prime righe, non esitare a lasciare un commento: apprezzo le opinioni altrui, positive o negative che siano.

Note al capitolo:

  • «Giuro solennemente di avere buone intenzioni»: ovvio riferimento a Harry Potter.
  • Puoi ascoltare Glass qui se non la conoscevi già.

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Capitolo 2
*** Un appuntamento ***


Un appuntamento

Venerdì 11 e sabato 12 dicembre 2009

Cammino con calma sul lato della strada illuminato dal sole. L’autobus era strapieno, sono in anticipo e ne ho approfittato per scendere alla fermata precedente e fare quattro passi. Il sole mi solletica le guance. Ho le dita gelate, la mano destra accarezza l’iPod in tasca. I Coldplay cantano Was a long and dark december. Accenno le parole col labiale. Il mondo, con la musica e gli occhiali da sole, sembra ovattato. Gli edifici dell’università si stagliano contro il cielo bianco, il sole nascosto dietro le nuvole. Alcuni studenti sono sdraiati sul prato. Potrei sedermi su una panchina e leggere un po’, in fondo la lezione non comincerà prima di mezz’ora.

Qualcuno mi picchietta col dito sulla spalla. Mi volto di scatto. È Massimo, avvolto in una sciarpa a quadri. Dice qualcosa, ma tutto quello che sento è: If you love me, won’t you let me know? Fermo la musica e mi tolgo le cuffie.

«Ciao».

«Ah, avevi le cuffie! Cosa ascolti?»

«Violet Hill».

«Coldplay, eh?» Sogghigna. «Bella».

Dovevo dire Rammstein o qualcosa del genere. Arrotolo le cuffie mentre camminiamo.

«Hai lezione?» chiede.

«Sì, alle dieci e mezza».

«Anch’io». Guarda il cellulare. «C’è tempo per un caffè, se ti va».

Mi rimetto l’iPod nella tasca del cappotto. Addio alla mezz’ora di solitudine.

«Certo, andiamo».

Al bar insiste per offrire lui e lo lascio fare. Oltre al caffè io prendo un cornetto, lui una bomba alla crema. Mangio a piccoli morsi, attenta a non sbriciolarmi addosso.

«Volevo scusarmi per l’altra volta» dice Massimo.

Aggrotto la fronte. «Per cosa?»

«È che lo faccio un po’ con tutti, ma non mi conosci e magari ti ho offeso. La cosa che non sei un tipo da discoteca e compagnia bella».

«Oh». Mi pulisco le labbra col tovagliolino di carta. «No, non l’avevo presa sul serio».

«Se dovessi dar retta alle prime impressioni e agli stereotipi, dovrei fare Informatica, Ingegneria o qualcosa del genere».

«Com’è che hai scelto Filosofia?»

Si stringe nelle spalle. «Mi è sempre piaciuta al liceo».

«È quello che conta». Il caffè è amaro. Aggiungo un’altra bustina di zucchero e ruoto il cucchiaino. «Anch’io ho scelto Lettere per quello, adoravo Italiano e Latino. Secondo i miei invece dovevo fare Lingue o Architettura».

Massimo si sfrega lo zucchero dalle mani. «Perché mai?» dice a bocca piena.

«Per mio padre con Lingue almeno oltre alla letteratura avrei studiato altre lingue. Una cosa in più sul curriculum, se non altro per avere più materie con cui dare ripetizioni. Era un compromesso, credo. Ad Architettura non so neanche come ci sono arrivati».

«Non vogliono una figlia disoccupata, ho capito».

«Possono permettersi una figlia disoccupata, hanno già mia sorella che farà meraviglie».

«Studia illusionismo?»

«Medicina».

Massimo solleva le sopracciglia mentre beve il caffè. La tazzina tintinna quando la posa sul piattino. «Avrai tutto il tempo di trovare un lavoro per quando si laurea lei. A che anno è?»

«Ha appena cominciato».

«E tu?»

«Lo stesso. Siamo gemelle».

«Oh. Anch’io sono al primo». Accartoccia il tovagliolino e fa canestro nel cestino. «Ho un piano. Quando lei aprirà il suo studio, fai visite e firmi ricette al posto suo. Non serve neanche essere veri medici per quello, basta avere una grafia incomprensibile. In farmacia si inventeranno qualcosa».

«Peccato mi dicano tutti che ho una bellissima grafia».

«Non va bene». Schiocca la lingua sul palato in segno di disapprovazione. «Devi lavorarci su o non andrai da nessuna parte».

«Non posso garantire nulla, eh». Controllo il cellulare. È il caso che vada o non troverò posto. «Andiamo?»

Ho fatto bene ad accettare il caffè. Evelina non ha tutti i torti, è carino. È gentile. Forse cerca troppo di farmi ridere, ma non è una cosa cattiva. Con la barba sembra più grande. Mentre si sistema la sciarpa mi viene voglia di accarezzargliela. Ecco cosa sembra, un orsacchiotto. Ma perché sorride? No, è solo gentile. È la seconda volta che ci vediamo, si è trasferito da poco, probabilmente ha difficoltà a fare amicizia. Certo, con un carattere del genere non so proprio come possa avere difficoltà, ma chi sono io per dirlo? È carino e gentile, tutto qui. Usciti dal bar avrà saldato il suo debito e la prossima volta che ci vedremo ci saluteremo da lontano con un cenno della mano. Non dovrò togliermi le cuffie e lui non avrà tempo per un caffè.

Nel campus abbiamo un breve tratto di strada in comune. A un bivio ci fermiamo.

«Io devo andare da questa parte» dico.

«Filosofia è di là».

«Ci vediamo. Grazie per il caffè». Faccio per incamminarmi.

«Aspetta». Mi ferma con un gesto della mano. «Mi chiedevo, hai mica da fare stasera?»

«Non… non so, ho un’uscita in forse. Perché?»

«Ci prendiamo un aperitivo, se ti va. O qualcosa da bere dopocena. Sempre se ti va».

Con le mani nelle tasche dei jeans è adorabile. Sposta il peso da un piede all’altro come un bambino.

«Scusami» s’affretta a dire, «hai ragione, ci conosciamo appena, è solo una cosa che mi è venuta in mente così, sul momento».

«No, che dici». Aggrotto la fronte. «Va bene, devo solo vedere se riesco a liberarmi da quell’altro impegno».

«Non me la prendo, davvero».

«Ti faccio sapere». Prendo il cellulare dalla tasca. «Mi dai il tuo numero?»

Ci scambiamo i cellulari. Mi restituisce il mio sorridendo. «Giuro che capirò se…»

«Ti faccio sapere» ripeto. «Ora però devo andare. Ciao, buona lezione».

«Ciao, Francesca».

Il modo in cui pronuncia il mio nome mi dà un brivido. È tutta suggestione. Cammino a passo svelto. Mi sembra di sentire il suo sguardo dietro la nuca, ma quando mi volto non è più lì.

A lezione arrivo in ritardo. In fondo all’aula la classe è un brusio continuo e la voce del professore si sente appena.

Ho un appuntamento. Forse. No, è solo un’uscita con uno di cui neanche so il cognome. Non è neanche detto che ci esca, devo ancora confermare. Posso inventarmi una scusa, ma voglio farlo davvero? È carino e gentile. Non mi costringe nessuno. Se dico di no penserà che non mi piace. Se dico di sì però penserà che mi piace e si aspetterà qualcos’altro. Lui ha proposto di uscire come appuntamento o senza impegno? Probabilmente se gli piaccio non sarebbe così ovvio. Me l’avrà chiesto senza pensare. Ma se è davvero un appuntamento cosa faccio? La scelta è solo mia.

A fine lezione mi trovo con due righe di appunti. Uscendo dall’aula caccio il cellulare e scrivo a Evelina: Stasera usciamo?

 

Riflesso nello specchietto retrovisore, Massimo è davanti al bar e alterna lo sguardo dal cellulare alla strada.

«È lui» dico.

«Gliel’hai detto che venivo anch’io, vero?» chiede Evelina.

«No, perché?»

«Avrebbe invitato anche lui qualcuno». Evelina fa spallucce. «Vacci da sola, ti passo a prendere dopo».

«Non dire sciocchezze, non è un appuntamento».

«Quindi non ti piace?»

Con la mano sulla maniglia, esito. «No. Cioè, solo come amico, forse. Lo conosco appena».

«Quindi ci stiamo uscendo perché non volevi dirgli di no e perché forse è un tuo amico».

«Proprio così».

Evelina mi lancia un’occhiata. «Tutto chiaro, andiamo».

Scendiamo dalla macchina. I tacchi di Evelina rintoccano sull’asfalto. Si è vestita bene. Il nuovo cappotto rosso le sta benissimo. I capelli le ricadono dolcemente sulle spalle. Quando Massimo guarda nella nostra direzione gli faccio un cenno, Evelina qualche passo dietro di me.

«Ciao» dice Massimo.

«Ciao».

Fa come per chinarsi, ma ci stringiamo solo la mano. Arrossisco appena.

«È venuta anche mia sorella, non ti spiace? È con lei che dovevo uscire».

«Nient’affatto». Massimo le sorride.

«Evelina, Massimo. Massimo, Evelina».

«Piacere».

«Piacere».

Evelina gli porge la mano, ma si scambiano anche un bacio per guancia.

Massimo è un po’ sorpreso. «Entriamo?»

Ci sistemiamo a un tavolo e ordiniamo. Massimo indossa una camicia azzurra. Anche Evelina indossa una camicetta, però color crema. Io ho un maglione verde veronese a collo alto. Pensavo che Massimo fosse il tipo da felpa, non da camicia. Avrei dovuto scegliere qualcos’altro, osare con gli stivali. Non ci devo pensare. Mi appoggio sullo schienale della sedia, mentre Massimo, con i gomiti sul tavolo e le dita intrecciate, dice: «So che ve lo chiederanno tutti, ma ho una domanda per voi gemelle e non so ancora quanto potrò trattenermi».

Evelina e io ci scambiamo uno sguardo complice.

«Spara» dico.

Sto già per indicargli il fianco destro, dove ho la cicatrice dell’appendicite, e…

«Chi di voi è la gemella buona e chi la cattiva?»

Scoppio a ridere. No, questa è la prima volta che la sento.

«Sono io la cattiva» dice Evelina.

«Oppure» dice Massimo, «lo dici solo perché sei troppo buona per capire che in realtà la cattiva è Francesca».

«No, lei non farebbe male a una mosca». Evelina sorride. «Fidati, sono io la cattiva».

«Non è vero, non sono così buona» dico.

«Fidati» dice Evelina. «La sua principessa preferita è la bella addormentata. Io tifavo per Malefica».

«Piace un sacco anche a me!» dice Massimo. «Da bambino mi faceva paura».

«In ogni caso non vale, non può prendersi il ruolo di gemella cattiva solo per un cartone».

«Finché non avremo prove della tua cattiveria, temo proprio che ti toccherà essere la gemella buona». Massimo sogghigna.

Sbuffo teatralmente.

Evelina mi dà un pizzicotto. «Un punto in più per me».

Il cameriere porta l’aperitivo. Dopo un sorso di spritz, mi do alle arachidi.

«Puoi sempre seguire il mio piano» dice Massimo con metà pizzetta in bocca.

«Quale?»

«Quello dello studio medico, delle ricette…»

«Ah sì».

«Di cosa state parlando?» chiede Evelina.

«Gli ho detto che studi Medicina e visto che tra le due troverai sicuro lavoro prima di me, col fatto che siamo gemelle potrei fingermi te».

«Dimentichi il problema della grafia».

«Ah sì. Devo anche peggiorare la mia grafia, altrimenti corro il rischio di scrivere ricette comprensibili».

«Se le ricette sono incomprensibili com’è giusto che siano» — Massimo deglutisce — «non le serve neanche studiare qualcosa per essere convincente, basterà quello».

«Dimenticate un piccolo dettaglio» dice Evelina.

«Quale?» chiediamo in coro.

«Non scriverò ricette. Voglio fare ricerca». Ruba un’arachide dalla mia ciotola e se la lancia in bocca. «Voglio trovare cure per malattie serie, non malanni».

«Non me l’hai mai detto» mormoro.

«È davvero nobile». Massimo per qualche istante la guarda serio prima di aggiungere: «Mi sa che con questo ti sei guadagnata il ruolo di gemella buona a vita, Malefica o meno».

Evelina beve un sorso di spritz, facendo un gesto noncurante con l’altra mano. «Vedremo».

 

Dopo l’aperitivo andiamo al cinema. Stavolta guido io: Evelina ha fatto un secondo giro con lo spritz e le gira la testa. Nel tragitto in macchina Massimo, seduto sul sedile anteriore, chiede di nuovo: «Sei sicura di non voler tornare a casa? Al cinema possiamo andarci un’altra volta».

«Non è niente». Evelina ridacchia. Ha le guance rosse, gli occhi le brillano. «Chi è il medico qui?»

«Non sappiamo neanche gli orari del cinema» dico. «Cosa danno?»

«Non lo so» risponde Massimo.

«Qualunque cosa va bene, è troppo presto per tornare a casa». Evelina abbassa il finestrino, socchiude gli occhi e sporge la testa. «Accelera».

Massimo tamburella le dita sullo sportello. Cambio marcia sospirando. La serata sta andando bene. Massimo è simpatico e senza Evelina ad appoggiarmi sono certa che mi sarei chiusa in me stessa. Però qualcosa è cambiato. Credo che Massimo sia un po’ a disagio. Ed Evelina stessa si sta comportando in modo strano. L’alcol lo regge molto meglio di così. Due bicchieri di spritz non le hanno mai fatto questo effetto. Non riesco a capire cos’abbia. D’altra parte ha ragione: è troppo presto per tornare a casa. Una delle due deve guidare, non possiamo andare a bere in qualche locale. E fa troppo freddo per girare senza meta. Il cinema può andare.

Prendiamo i biglietti per 500 giorni insieme. Siamo appena in tempo per l’inizio dello spettacolo delle undici meno un quarto, ma finiamo tra le prime file. La sala pullula di coppiette, le luci sono già spente, c’è una pubblicità su un’automobile. Massimo si siede al centro, io a sinistra, Evelina a destra.

A film iniziato sussurro a Massimo: «Lui è lo stesso tipo di 10 cose che odio di te, vero?»

«Mi sa di sì».

«Avevo una cotta per lui».

«Davvero?»

Annuisco. «Lei sembra Katy Perry».

«Già».

È concentrato sul film, non toglie gli occhi di dosso dallo schermo. Sembra proprio il tipo a cui piace godersi il film fino in fondo senza distrazioni. Scelta infelice di posti: se fossi io al centro, perlomeno potrei commentare gli attori con Evelina e punzecchiare lui solo di tanto in tanto. Ma è stato un caso, Evelina li ha presi e li ha distribuiti al volo.

Il film è carino. Non è la classica commedia romantica americana con battute che non fanno ridere. Lui in 10 cose che odio di te era proprio un cucciolo, qui sembra quasi un’altra persona. Vorrei farlo notare a Massimo, ma non voglio disturbarlo.

Ha i gomiti poggiati sui braccioli, lo sguardo sempre fisso sullo schermo. Sul suo viso si alternano le luci del film. Con la mano sinistra si gratta una guancia. La destra ce l’ha appoggiata sul bracciolo e stringe… un’altra mano. Evelina. Le loro dita sono intrecciate. Massimo condivide il bracciolo con lei. Il vecchio braccialetto di Evelina sembra brillare di luce propria. Il color crema della camicetta spicca sull’azzurro della camicia anche nella penombra della sala.

Mi manca il respiro. Nella sala del cinema sono sola, una bambina con le braccia incrociate. Perché sta stringendo la sua mano, perché non la mia? Si sono appena conosciuti. Sarebbe dovuto toccare a me. Ma l’ho appena conosciuto anche io, non volevo arrivare a tanto. È il primo appuntamento. Neanche era un appuntamento, era solo un’uscita tra amici. Forse a lui piacevo davvero, ma non gli ho dato nessun segnale e si è accontentato di lei perché in fondo siamo identiche, no? È questo che pensano tutti, che solo perché siamo gemelle siamo intercambiabili e se non ti vuole una va bene l’altra. Perché Evelina non ritira la mano? Lo sa… No, non lo sa, non gliel’ho detto, non le ho detto nulla perché non c’era nulla da dire. Il cinema era solo una scusa, avremmo dovuto rimandare. Voglio tornare a casa.

«Oh be’» fa Massimo appena le luci della sala si riaccendono.

Ci alziamo nel trambusto generale.

«Ti è piaciuto?» mi chiede.

Non si tengono più per mano. Evelina è a testa bassa mentre si riallaccia il cappotto.

«Che hai fatto?» Massimo mi guarda con la fronte aggrottata. «Hai gli occhi lucidi».

Tiro su col naso, scuoto la testa. «Sono le luci, mi danno fastidio agli occhi. Il film è carino».

«Non starla a sentire, è una sentimentalona, lei» dice Evelina. «Non ti è piaciuto che alla fine non tornano insieme, di’ la verità!»

«È carino». Mi faccio largo tra i sedili e comincio a scendere le scale. Evelina e Massimo mi raggiungono parlottando del film. Dall’uscita del cinema fino alla macchina cammino in silenzio, il mento dentro il bavero. Ridono e citano le scene del film. Quando mi coinvolgono rispondo con un tono affabile o con una scrollata di spalle o con una risatina. In macchina guido sempre io. Evelina e Massimo si scambiano i numeri di cellulare e quando lo lasciamo sotto casa saluta prima lei e poi me.

Abbandonato la folla e i locali del venerdì sera, la strada è deserta e a rallentarci sono solo rotonde e semafori.

«Sei stanca?» chiede Evelina.

«Un po’». Tiro su col naso.

«È andata bene, no?»

«Penso di sì».

I vetri si stanno appannando. Abbasso di qualche centimetro entrambi i finestrini.

«Non gli hai reso proprio giustizia, a Massimo» dice Evelina. «È proprio tanto carino. Se sapevo che c’erano ragazzi del genere a Filosofia mi evitavo la fatica di entrare a Medicina».

«Ma se hai a malapena aperto libro. E hai preso anche il massimo».

«Non è questo il punto».

Faccio spallucce.

«Ma che hai?» chiede.

«Niente. Sono stanca, tutto qui. Ti spiace se non parliamo?»

Evelina controlla il cellulare. Trattiene una risatina, poi scrive un messaggio.

«È Massimo?»

Evelina esita. «Sì».

Sono stupida, stupida, stupida. Non dovevo parlargliene. È sempre così. Ogni volta che provo a farmi degli amici, Evelina mi mette in ombra. Avrei dovuto approfittare dell’università per allontanarmi da lei, e invece…

«Ci hai visto baciarci, vero?»

Mi manca il respiro. Quando si sono baciati? Se lui si fosse chinato su di lei durante il film l’avrei notato con la coda dell’occhio. O si sono baciati dopo mentre camminavamo? Non possono essersi baciati. Non possono fisicamente essersi baciati.

«Non importa».

Evelina fa un respiro profondo prima di parlare.

«Hai detto che non ti piaceva se non come amico, e forse neanche quello. Hai detto che non era un appuntamento. Hai invitato anche me e quando ti ho chiesto se preferivi che tornassi a casa hai detto di no».

La sua voce è ferma, tagliente. Non è cattiveria, è la verità.

«Fai come ti pare» mormoro.

Parcheggio davanti casa. Spengo il motore, mi slaccio la cintura di sicurezza.

«Ti adoro» dice Evelina. «Sei mia sorella e sei la mia migliore amica, ma non puoi pretendere che il mondo stia ai tuoi comodi».

Scende, chiude lo sportello. Aspetto che il rumore dei tacchi sul vialetto scompaia, poi scendo e rientro in casa anch’io.

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Capitolo 3
*** Con un po' di aiuto dai tuoi amici ***


Con un po’ di aiuto dai tuoi amici

Venerdì 29 gennaio 2010

Julian Casablancas canta: Everything seems so wrong to me this morning, I know things will be brighter later tonight. Non dovevo cercare i testi delle canzoni. È da un mese che non sento altro che Phrazes For The Young e distinguere le parole non mi aiuta a concentrarmi sullo studio. Ma la biblioteca è un brusio continuo e solo con la musica riesco a isolarmi.

Ho evidenziato in giallo due pagine intere. L’evidenziatore è quasi finito. Mi brontola la pancia. Basta, è ora di pranzo e non concluderò molto altro in questo stato. Mi tolgo le cuffie.

Faccio un cenno a Marianna, seduta davanti a me. «Andiamo a mangiare?» sussurro.

Marianna guarda l’ora dal cellulare e annuisce. Luca, anche lui con le cuffie, ci guarda chiudere i libri e ci segue a ruota.

Arrivo alla mensa come in un sogno. «Sveglia!» dice la cuoca. Scuoto la testa, mi scuso e indico la pasta. Lo prendo il secondo? Ho fame, ma non voglio mangiare. Insalata, niente carne. La condisco, riempio il bicchiere d’acqua e seguo gli altri al tavolo.

Marianna e Luca parlano dell’esame. È tra una settimana. Marianna ha già studiato tutto, sta rivedendo i suoi schemi. Luca le fa domande generiche. Sui libri si distrae quanto me, ma a differenza mia è tutto orecchi quando Marianna ripete. Forse il suo trucco per superare gli esami è questo. Dovrei approfittarne, ma non ci riesco. Dispongo il sugo della pasta a un lato del piatto, la forchetta tintinna. Nella mia testa Julian continua a cantare Everything seems so wrong to me this morning

«Evelina?»

Massimo, il vassoio in mano, è accanto al nostro tavolo.

«Sorella sbagliata».

«Oh, scusa». Sorride imbarazzato. «Pensavo… Niente, è la prima volta che ti vedo a mensa».

«Sono con loro».

«Be’, buon appetito, allora». Fa per proseguire, poi torna sui suoi passi. «Evelina non ti ha detto nulla per stasera?»

Deglutisco. «No».

«Viene da me, beviamo un po’, ci vediamo un film. C’è anche il mio coinquilino».

Sbatto le palpebre, la forchetta a mezz’aria.

«È uno a posto, gusti musicali a parte». Alterna lo sguardo tra Marianna e Luca, sorridendo incerto, poi aggiunge: «Mi fa piacere se vieni. È da tanto che non usciamo insieme».

«Non so, forse ho da fare». Faccio spallucce. «Ti faccio sapere».

«Va bene. Buon appetito».

«A te».

Massimo va a sedersi a uno dei tavoli in fondo raggiungendo qualche altro ragazzo. Grazie al cielo si siede dandomi le spalle.

Poso la forchetta e mi pulisco col fazzoletto. Ho un nodo alla gola. Non ho più fame.

«Allora?» chiede Luca, sporto sul tavolo, le sopracciglia sollevate. «E quello chi è?»

«È il ragazzo di mia sorella».

«Quello della fermata dell’autobus?» chiede Marianna.

«Sì».

Deve tagliarsi i capelli, li ha lunghi, disordinati. Non ci credo che Evelina non gliel’abbia detto. Non le piacciono i ragazzi con i capelli lunghi.

«Si sono conosciuti alla fermata dell’autobus mentre pioveva» dice Marianna a Luca. «L’autobus tardava, lei l’ha riaccompagnato a casa con l’ombrello, poi sono usciti una sera. È venuta anche la sorella, ci ha provato e ora stanno insieme».

«Che stronza! E che stronzo lui a starci».

«Ma a Francesca lui non piaceva mica in quel senso, non era come se le avesse detto esplicitamente che le piaceva».

«Non capisco perché è dovuta uscirci anche la sorella».

«Gliel’ha chiesto Francesca, non si è imposta lei».

«Oh». Luca piega la testa di lato, ci pensa un po’ su. Si volta verso di me. «Sei gelosa?»

Scrollo le spalle. «Lo conoscevo appena. Quel che è fatto è fatto».

«Non parla più con sua sorella adesso» dice Marianna.

«La smettete, per favore?» sbotto. «Sono qui. Capirei se non ci fossi, ma sono qui. Se dovete parlare di me abbiate la decenza di farlo alle mie spalle».

Prendo il bicchiere e mi alzo. È ancora mezzo pieno, ma lo vado a riempire comunque. Mi trema la mano. Quando torno al tavolo Luca sta passando il cucchiaio sul coperchio dello yogurt.

Poso il bicchiere senza bere. Mi stringo le mani in grembo. Possibile che tremi? C’è il riscaldamento, si sta bene. Massimo ride, la sua voce si leva sopra il chiacchiericcio della mensa.

Luca si toglie il cucchiaio dalla bocca. Continua a fissarmi. È così fastidioso a volte.

«Tesoro» dice con la sua voce flautata, «lui a lei non piace. Lo fa solo per dare fastidio a te».

«Luca!» esclama Marianna.

«Quando lo capirà» — Luca immerge il cucchiaio nello yogurt — «vedrai che si appianerà tutto».

«Ho detto che non voglio parlarne».

Marianna mangiucchia l’insalata. La mia neanche la tocco. Luca continua a mangiare lo yogurt senza insistere.

«Usciamo stasera?» chiede Marianna.

«Non so. Anzi, no». Massimo si sta alzando, d’istinto faccio lo stesso. «Torno a casa. Ci sentiamo domani per studiare insieme».

 

Sono alla scrivania. Il libro è aperto e con l’evidenziatore nuovo sto sottolineando meglio di stamattina. Mi sono chiusa in camera da quando sono tornata. Una pioggerellina leggera è cominciata a cadere da qualche minuto. Nella solitudine della mia camera esistiamo solo io, il libro e il ticchettio della pioggia. Stamattina pensavo di rimandare l’esame al prossimo appello, adesso invece una settimana di tempo mi sembra più che sufficiente per prepararmi a dovere.

A Massimo non ho detto nulla per stasera. Per quanto ne so me l’ha buttata lì tanto per. A Evelina a malapena rivolgo la parola, figuriamoci se ci esco insieme. No, passerò la serata a studiare finché non mi va più. Poi mi farò una cioccolata calda e andrò a letto, così domattina mi sveglierò presto per studiare.

Qualcuno bussa alla porta. Evelina entra senza che io risponda.

«Hai deciso qualcosa per stasera?» chiede.

«Non posso».

«Sei sicura? Il coinquilino di Massimo è molto simpatico quando cominci a conoscerlo».

«Digli di aggiungermi su Facebook se proprio ci tiene a conoscermi. Ora, se non ti spiace, devo proprio finire questo capitolo».

«Che male c’è se esci un paio d’ore? Cosa ti cambia se studi stasera o domattina?»

«Ho l’esame tra una settimana».

«Anch’io ho gli esami. Tutti abbiamo gli esami».

Faccio un respiro profondo. «Quello che volevo dire è che non posso perché appena finisco questo capitolo mi preparo ed esco per conto mio».

«Per conto tuo?»

«Con Marianna e Luca».

«Oh!» Evelina aggrotta la fronte. «Be’, se gli va possono venire anche loro da Massimo».

«Abbiamo altri piani».

«Sarà per un’altra volta, allora».

«Già».

Evelina si guarda intorno per qualche istante, poi esce chiudendosi la porta alle spalle.

Prendo il cellulare e scrivo a Marianna: Allora, usciamo stasera?

 

La cameriera posa il vassoio sul tavolino e dispone tre frullati alla fragola davanti a noi.

«Siamo molto originali» dice Luca.

Marianna avvicina il frullato a sé e beve un sorso dalla cannuccia. «Appena finiscono gli esami ci ubriachiamo».

Le loro voci diventano distanti. Giro la cannuccia nel frullato, cosciente che ogni tanto si azzittiscono e mi guardano.

«Non sono di compagnia, scusate» dico.

«Non ti devi scusare di nulla» dice Marianna. «Siamo tutti nervosi per gli esami».

«Non è per quello. Non lo so». Scrollo la testa e torno a mescolare il frullato. Ho la testa pesante. Non dovevo proporre di uscire. Ma se non mi fossi inventata la scusa dell’uscita Evelina avrebbe insistito e se non fossi uscita per davvero avrebbe capito che me l’ero inventato, nel modo in cui solo noi possiamo capirci, e…

«Dillo e basta» dice Luca.

«Cosa?»

«Il problema. Quello che ti preoccupa». Il cellulare gli vibra sul tavolino, ma non distoglie lo sguardo da me. «Dillo e basta. Se lo tieni per te non ti porterà da nessuna parte». Beve un sorso di frullato. Vedendo che non rispondo, aggiunge: «E se non vuoi dirlo a noi, trova qualcuno con cui poterne parlare. Devi avere almeno qualcuno con cui confidarti».

«Siamo più di un gruppo di studio, vero?» dice Marianna. «Voglio dire, non è come se ci vedessimo solo per studiare, no?»

«Ma come, non siamo qui per studiare? Allora posso anche andarmene». Luca fa per alzarsi, Marianna ride. Quando Luca torna a sedersi mi rivolge un sorriso sornione da Stregatto. «Allora, tesoro?»

Marianna mi sfiora il braccio. «Non devi parlarne per forza».

Sospiro. «È per mia sorella».

«E quel ragazzo».

«Non esattamente». Tengo una mano attorno al bicchiere e con l’altra continuo a girare la cannuccia. «È una cosa che non credo potete capire se non avete almeno dei fratelli».

«Io sono figlia unica».

«Io ho una sorella più grande» dice Luca. «Marianna può anche andarsene allora. Lei non può capirci».

Marianna alza gli occhi al cielo.

Faccio un respiro profondo prima di parlare. «È come se non potessi mai avere nulla per me, come se dovessi condividere tutto per forza. E se voglio tenere qualcosa per me, qualcosa che sia mio e solo mio, allora sono un’egoista. E poi tutti ci vedono come Evelina-e-Francesca, non come due persone distinte. Non so se mi spiego. I miei hanno insistito per farci andare in classe insieme, specie nostra madre. Anche se ci avessero divise però sarebbe stata la stessa cosa. La domanda definitiva per gli altri è sempre stata “Qual è la tua gemella preferita?”. Ma non è giusto, no? Chi ti dice che devi scegliere? E in un certo senso in qualunque cosa facciamo c’è sempre una competizione dietro. Chi è la più intelligente, la più simpatica, la più carina? Il punto è che rimane comunque mia sorella. Ci vogliamo bene nonostante tutto. Alterno momenti in cui penso sia la mia migliore amica e solo lei possa capirmi ad altri in cui devo lottare con tutte le mie forze per scrollarmela di dosso».

Dopo qualche momento di silenzio, è Luca a parlare: «Devi lasciarla perdere».

«Non siamo nessuno per dirle cosa fare» dice Marianna.

«È ovvio che la presenza di Evelina non le fa bene».

«È comunque sua sorella».

«Le ha rubato il ragazzo».

«Non era il mio ragazzo. Non è quello il punto. Il punto è che ora non scoprirò mai se avrebbe potuto esserlo o meno. Evelina gioca sempre di anticipo. Ho chiesto il suo appoggio uscendo con uno quasi sconosciuto, ora quel quasi sconosciuto è il suo ragazzo. Prima era quello che io ho incontrato alla fermata dell’autobus. Ora è il suo ragazzo. Non so se sarebbe potuto essere un amico o qualcosa di più, ma ora è suo. E mi sento una cretina perché penso: “Oh, se solo non l’avessi convinta ad accompagnarmi, magari sarei io al suo posto!” Dovrei escluderla dalla mia vita o andrà avanti per sempre, continuerà a prendere per sé tutto quello che penso sia mio. Se ve la presentassi per voi non sarei più Francesca, sarei la sorella di Evelina».

«Devi lasciarla perdere» ripete Luca. «È tua sorella, ma che rimanga solo tua sorella. Non uscirci insieme. Con quel ragazzo è andata, amen. Ne troverai un altro e non lo dovrai condividere con nessuno».

Marianna finisce il frullato prima di rispondere. «Secondo me non ha senso ragionare così. Cerca le sfumature, Francesca. Evelina non ti ha rubato Massimo. Massimo non era tuo e di sicuro non è suo. Solo perché ora sta con tua sorella, non vuol dire che non può essere anche tuo amico, se ti va».

«Vuoi essere sua amica?» Il tono di Luca è scettico.

«Se non è un idiota Massimo non si farà problemi al riguardo» dice Marianna. «E sicuramente Evelina non può dirti nulla, visto come sono andate le cose».

Scoppio a ridere. Mi copro la bocca con la mano. Alle occhiate perplesse di Marianna e Luca faccio un gesto come per scacciare una mosca. «L’idiota qui sono io. Mi avevano invitato a uscire stasera e ho detto di no. Sono io che mi sono esclusa».

«Non sei un’idiota».

«Invece sì. Sono come una bambina, ragiono in base a cos’è mio e cos’è suo. Massimo è la versione aggiornata di una bambola: la considero mia, poi ci gioca Evelina e non la voglio più». Scuoto la testa. «Metà di quello che succede nella mia vita è nella mia testa, mi sa».

«Meglio così, no?»

«Forse sì».

Mi appoggio allo schienale della sedia. Ho ancora metà frullato da bere, ma non penso che lo finirò. Luca controlla il cellulare, Marianna tira fuori il tabacco dalla borsa. Qualcosa è cambiato.

«Grazie, ragazzi».

«E di che».

«Dovremmo uscire più spesso».

«Già».

Mi torna in mente la canzone di stamattina. Everything seems so wrong to me this morning, I know things will be brighter later tonight.

 

Torno a casa poco prima di mezzanotte. La porta del bagno è socchiusa, la luce è accesa. Evelina è in pigiama e si sta lavando i denti.

Busso leggermente sulla porta, entro. «Già tornata?»

Evelina sputa nel lavandino. Senza alzare lo sguardo dice: «Il film durava poco e Massimo non voleva fare troppo tardi».

Annuisco. Evelina rimette lo spazzolino a posto e si guarda allo specchio.

«La prossima volta, magari a sessione finita, facciamo qualcosa tutti insieme» dico.

Evelina mi guarda attraverso lo specchio. «Davvero?»

«Davvero».

Evelina si umetta le labbra. «Niente di quello che faccio è per ferirti».

«Lo so».

«Ricordalo sempre».

Mi dà un bacio sulla guancia ed esce.


Note al capitolo:

  • Il titolo è un riferimento a With a Little Help from My Friends dei Beatles.
  • La canzone citata all'inizio stavolta è Ludlow St..
  • «Vedrai che si appianerà tutto»: riferimento ad Anna Karenina.

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Capitolo 4
*** Matita sottile ***


Matita sottile

Lunedì 10 maggio 2010

Poso il libro sul tavolo. Lo tengo aperto con la mano sinistra, mentre con la destra prendo il righello e la matita dall’astuccio. Sottolineo: Ogni volta, in qualunque momento le si fosse chiesto a cosa pensasse, poteva rispondere senza errore: a una cosa sola, alla sua felicità e alla sua infelicità.

Mentre rimetto il righello e la matita nell’astuccio, qualcuno posa la borsa sul tavolo, scosta la sedia accanto a me e si siede. Riprendo il libro e torno a leggere, ma mi sento osservata. È Massimo che mi guarda con un sorriso sghembo.

«Che c’è?» dico a bassa voce. A quest’ora la biblioteca è quasi vuota e ogni rumore è un elemento di disturbo: il ragazzo di fronte a me ha il raffreddore e tira sempre su col naso anziché soffiarselo, qualche tavolo più in là una ragazza sfoglia velocemente le pagine di più libri e qualcuno a cui arriva un sms dietro l’altro ha il cellulare in vibrazione sul tavolo.

«Cosa leggi?»

Col dito tra le pagine a mo’ di segnalibro chiudo il libro e gli mostro la copertina.

«Anna Karenina. Una lettura leggera, insomma».

«È scorrevole».

Massimo tamburella con le dita sulla borsa. «Una volta ho provato a leggerlo, ma non sono riuscito ad andare oltre un ballo, credo».

Faccio spallucce. Massimo guarda altrove. Riapro il libro, incerta se posso continuare a leggere o se mi interromperà di nuovo.

«Quindi ti piacciono gli autori russi?»

Più mi sembra che si sforzi appena di sussurrare, più mi viene da abbassare la voce per bilanciare. Faccio di nuovo spallucce. «Non devi studiare?»

«E tu?»

«Non ho niente di urgente. Volevo finire il capitolo».

Torno al libro, ma Massimo mi fa cenno di darglielo. Ci rimetto il segnalibro e glielo passo. Legge la quarta di copertina. Sfoglia velocemente le pagine. Ad alcune si ferma e legge. Ho il sospetto che…

«Forse potrei ricominciarlo, chissà». Me lo restituisce sorridendo. «E quindi sottolinei i libri, eh?»

Il ragazzo di fronte a me tira su col naso. Ci lancia un’occhiataccia.

«E allora?» sussurro.

Massimo attorciglia la tracolla della borsa con il sorriso sghembo e l’aria di chi si sta ricordando di un aneddoto divertente. Stavolta fa lui spallucce. «Così».

Leggo qualche riga. Massimo continua ad attorcigliare la tracolla. Che ci fa qui? Non ha qualcos’altro di meglio da fare? Rileggo le stesse righe di prima, ma con la coda dell’occhio torno su di lui. La sua presenza mi deconcentra.

«Mi piace sottolineare i libri» dico a bassa voce. Mi sento arrossire. Accavallo le gambe e raddrizzo la schiena. «Li rendo miei, no? E quando li risfoglio ho qualche punto in cui tornare che so che mi ha colpito». Mi umetto le labbra. «Aiuta anche la memoria».

Massimo lascia la tracolla. Sotto lo sguardo del ragazzo che tira su col naso, mi sfiora il braccio, mi guarda dritto negli occhi e dice: «Non volevo prenderti in giro. È una bella cosa». Il tono è serio, ma ha lo stesso sorrisetto di prima e non so come interpretarlo.

«Non devi studiare?» ripeto.

«C’è tempo». Si schiarisce la gola. «Senti, se volessi ampliare le mie letture, magari non a partire da Anna Karenina, cosa mi consiglieresti?»

Aggrotto la fronte. «Non so. Che genere cerchi?»

«Va bene quello che piace a te».

Apro la bocca come per dire qualcosa, ma mi fermo. Non ci posso credere. «Ti prego, no».

«No cosa?»

Poso il libro con un tonfo più forte di quanto intendessi. «Non me lo stai chiedendo per il mio compleanno, vero?»

«No, no, certo che no».

Certo che sì, invece. Sospiro. «Solo perché condivido il compleanno con Evelina, non significa che devi fare un regalo anche a me».

«Ma non è mica un obbligo».

«Appunto. Non farlo». Un telefono squilla e una ragazza esce di corsa dalla biblioteca. «Apprezzo il pensiero, ma davvero, sto bene così».

Massimo torna ad attorcigliare la tracolla, stavolta senza sorridere. «Come vuoi». Apre la borsa, estrae un quaderno e una penna e comincia a scrivere. Ha il gomito sinistro sul tavolo e si tiene la testa con la mano, come per impedirmi di copiare durante un compito in classe.

Lo avrò offeso? Meglio così, però. Non mi è mai piaciuto che gli amici di Evelina si sentissero in obbligo di fare un regalo a me e che i miei amici si sentissero in obbligo di fare un regalo a Evelina, anche se abbiamo sempre fatto la festa insieme e condiviso gran parte dei nostri amici. Certo, ogni tanto esco anch’io con Evelina e Massimo, ma questo non fa per forza di me e Massimo amici da regalo. A maggior ragione perché ha dovuto chiedermi consigli: ci conosciamo ancora da troppo poco. Magari l’anno prossimo? Sempre che stia ancora insieme a Evelina. No, e poi in generale non mi è mai piaciuto l’obbligo dei regali e soprattutto dover fingere di apprezzare qualcosa di cui avrei fatto volentieri a meno. Per la sera del compleanno vorrei solo staccare un po’ la spina e stare un po’ con i miei amici, senza dovermi preoccupare di fingere. Sì, Marianna e Luca mi prenderanno qualcosa, ma è tutto un altro rapporto quello che ho con loro.

Prima che finisca il capitolo Massimo si alza, si rimette la giacca e riprende la borsa. Sul tavolo ha lasciato un foglio a quadretti piegato in tre. Lo spinge verso di me.

«Non è davvero un regalo, contenta?» mi sussurra all’orecchio. «Però aprilo il giorno del tuo compleanno».

«Oh… Grazie».

«Scappo» dice Massimo. «Salutami Tolstoj». Mi dà una pacca sulla spalla e si dirige verso l’uscita.

Aspetto qualche minuto — il tempo di finire il capitolo — prima di prendere il foglio. C’è scritto “Non aprirmi adesso!” in stampatello e sottolineato tre volte. Mi ricorda i bigliettini che si scambiavano alle medie, le dediche dietro le foto di classe, le scritte sui diari di scuola: un po’ fuori posto nella biblioteca dell’università.

Cosa sarà? Una lettera? Cara Francesca, ti scrivo perché… Perché avresti dovuto collaborare e consigliarmi indirettamente un libro da regalarti per il compleanno. Perché volevo essere gentile e mi hai fatto sentire inopportuno. Perché sei in biblioteca a leggere Tolstoj e te la credi un po’ troppo.

Però ha detto che non è davvero un regalo… Quindi sarà qualcosa di simile a un regalo. Quindi ha espressamente ignorato quello che gli ho detto.

Alle medie il mio compagno di banco quando ha scoperto che era il mio compleanno mi ha improvvisato un fumetto sul retro del quaderno di Educazione Tecnica. Peccato che non l’abbia invitato alla mia festa. Il fumetto era decente, ma non abbastanza da farmi soprassedere sulle penne che gli prestavo e che non si ricordava mai di restituirmi. Evelina diceva che aveva una cotta per me.

Forse Massimo mi ha fatto un fumetto. O una scritta, un “Auguri Francesca!” a caratteri cubitali. Stava scrivendo o stava disegnando? Non ci ho fatto caso.

La ragazza di prima rientra e torna al suo posto. Poco dopo entra un ragazzo cicciottello con la borsa per il computer. Quello accanto al mio è uno dei posti liberi con una presa. «È occupato?» mi dice con voce roca.

Faccio cenno di no. Il ragazzo si toglie la giacca e si siede. Mentre accende il computer metto il biglietto in fondo ad Anna Karenina.

Qualunque cosa sia non voglio vederlo adesso.

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Capitolo 5
*** Un nuovo sentimento ***


Un nuovo sentimento

Mercoledì 30 giugno 2010

Sfoglio gli appunti per la terza volta. Non li sto leggendo davvero. Le date di vita, morte, pubblicazione, i nomi evidenziati, i titoli delle opere, le frecce che collegano i pensieri degli autori, sono tutte cose che so. Dovevo dare l’esame oggi. L’ultimo ripasso doveva essere quello di ieri, con Marianna e Luca, ma il professore ci ha diviso in più gruppi e a me tocca domani.

Seduta a gambe incrociate sul prato del campus, strappo un filo d’erba e me lo attorciglio tra le dita.

«Mi ha chiesto le opere di Boccaccio» sta dicendo Luca. «E tutto, ma proprio tutto quello che potete immaginare sulla vita di Boiardo. Scommetto che con il professore era più facile».

«Mi ha tenuto tre quarti d’ora» dice Marianna.

«È perché gli piacevi».

«Mi ha chiesto tre volte la data e il luogo di nascita di Petrarca. Non mi stava neanche ascoltando».

«Ti stai lamentando dell’ennesimo 30?»

«No no». Marianna trattiene a stento un sorriso. Ha finito tutti gli esami del primo anno con il massimo dei voti e due lodi. Scommetto che è a questo che sta pensando quando mi chiede: «Vuoi che ti interroghiamo su qualcosa?»

«No, ti prego, basta ripassi. Voglio solo farlo». Volto pagina sbuffando.

«Non sei molto convincente».

«Non sto ripassando, guardo il quaderno solo per non sentirmi in colpa, credimi».

«Domani veniamo a fare il tifo» dice Marianna.

«Domani voglio solo dormire» dice Luca. «Non ti spiace, vero?»

«Non serve che venite, dai». Faccio a pezzettini il filo d’erba e ne strappo un altro. «Vi scrivo quando ho fatto».

«Ehi! Com’è andata?» esclama una voce.

Evelina e Massimo salgono sulla collinetta, entrambi con gli occhiali da sole sui capelli. Oltre la borsa a tracolla Massimo ha una busta della spesa. Raddrizzo la schiena e tiro il petto in fuori prima di scuotere la testa. «Mi tocca domani».

«Oh, che palle!» dice Massimo.

«Anche voi?» chiede Evelina.

«No, noi abbiamo fatto» risponde Marianna.

«Com’è andata?»

«Bene, bene».

«Oh, per fortuna».

«Sedetevi». Sposto la borsa. Evelina si siede accanto a me, Massimo accanto a lei. Formiamo una sorta di semicerchio all’ombra dell’albero.

«Non mi dire, stai ancora studiando?»

«No, ripasso tanto per».

«Dovresti prendere esempio da lui». Evelina fa un cenno in direzione di Massimo.

«Ho i miei tempi, ok? Sono un filosofo, lasciami filosofeggiare. E a proposito di filosofeggiare…» Agita la busta della spesa. «Cosa facciamo con queste?»

«Ne abbiamo prese solo tre, per festeggiare l’ultimo esame». Evelina mi passa una lattina di birra. Si sporge verso Marianna e Luca. «Ne volete un po’?»

«Possono dividersi la mia».

«Almeno un sorso devi berlo, però».

Tre clic annunciano l’apertura delle lattine.

«Alla fine degli esami!» esclama Massimo.

«Per chi li ha fatti, almeno» dice Evelina.

Massimo ed Evelina scontrano le loro lattine. Marianna, a cui è toccata la mia, accenna ad avvicinarla nella loro direzione. Io e Luca solleviamo lattine immaginarie.

«Aaah, s’è un po’ scaldata» dice Massimo.

Evelina mi passa la sua. Bevo un sorso. Massimo ha ragione, ma non è male.

«Allora?» chiedo restituendogliela. «Com’è andato l’esame?»

Evelina fa spallucce. «Bene».

«Le hanno messo la lode» dice Massimo. «Il professore non ci credeva quando ha visto il libretto. Una matricola che fa tutti gli esami del primo anno a Medicina al primo appello. Se avesse visto i voti…»

«Se li dessi anche tu gli esami non ti stupiresti più di tanto».

«Non sto mica studiando Medicina, io».

«Guarda che è la stessa cosa. Io non sopravvivrei un giorno a Filosofia. Scegli quello che ti piace, studi e via». Beve un altro po’ di birra, aggrotta la fronte e la posa a terra. «Fa schifo». Si sporge verso Marianna e Luca. «Se non vi piace non bevetela, eh».

«È un po’ calda, ma…» Luca fa spallucce e continua a bere.

«La prossima volta la scelgo io, ok?» dice Evelina.

Massimo ha già finito la sua lattina. È sdraiato sul prato con le mani dietro la testa e gli occhiali sul naso. Sorride. «Convincimi» mormora.

Evelina si china su di lui e lo bacia. Torno ai miei appunti e a legarmi un filo d’erba al dito.

«Dammi il quaderno, ti faccio qualche domanda» dice Marianna.

«No, avete ragione, basta». Chiudo il quaderno e lo rimetto nella borsa. «So più cose io di Dante di quell’assistente che è venuta a farci lezione, ricordate?»

«Non credo fosse un’assistente, mi sa che era una laureata della triennale. Il professore era stato il suo relatore e lei doveva parlare della sua tesi, ma il professore le ha appioppato quella lezione a sorpresa».

«È legale?»

«Penso di sì».

«Cos’era quella parola che non sapeva pronunciare bene?»

«Consono» dice Luca. «E il bello» aggiunge in direzione di Evelina e Massimo, «è che la usava di continuo e a sproposito. “Non sarebbe consono affermare che”, “Non si considera consono attribuire l’opera a” e bla bla bla».

«Speriamo di non finire come lei» dice Marianna con una sigaretta appena fatta tra le labbra.

«A pronunciare male parole usate a sproposito?»

«A finire la triennale senza avere neanche le basi per dare una lezione». Si accende la sigaretta, tira e sbuffa il fumo in alto.

«Se il relatore chiedesse a me di sostituirlo per una lezione gli direi no grazie».

Marianna solleva le sopracciglia. «Fa curriculum. E poi è un onore, no?»

«È un onore che ti fa curriculum» dice Luca.

«Be’, per voi che volete insegnare…»

«Non è solo quello. Chi ti dice per cosa farai domanda un domani? Quella ragazza avrà fatto un po’ pena, però ce l’ha nel curriculum e nessuno glielo toglie».

Faccio spallucce. Marianna passa la sigaretta a Luca. Evelina è sdraiata con la testa sul petto di Massimo. Non siamo i soli nel prato del campus: gruppetti di persone ripassano, prendono il sole, pranzano, fanno ginnastica. Il sole di fine giugno è rovente, ma all’ombra dell’albero è sopportabile.

Evelina mi sorride. «Francesca vuole fare la scrittrice».

«Davvero?» Lo sguardo di Massimo si illumina.

«Non ce l’hai mai detto» dice Marianna.

«No che non voglio fare la scrittrice». Lancio un’occhiataccia a Evelina.

«Invece sì» dice lei. «Sta aspettando l’ispirazione per cominciare a scrivere un libro».

Aggrotto la fronte. Sembra come se stesse ripetendo qualcosa che ho detto io, ma non lo ricordo affatto. Mi sento gli occhi di tutti addosso. «Ma quando mai?»

«Me l’hai detto al quarto ginnasio. La professoressa ci aveva assegnato un tema sulle nostre aspirazioni da grandi e tu mi hai detto che volevi scrivere un libro, ma che stavi aspettando l’ispirazione».

«Come fai a ricordarti una cosa simile?»

«La ricordo e basta».

«E cos’hai scritto tu in quel tema?»

Evelina fa spallucce.

«Hai già scritto qualcosa?» chiede Massimo.

«No. Neanche mi ricordavo di aver detto qualcosa del genere… Però mi piacerebbe lavorare nell’editoria. Scrivere saggi, biografie, più che libri. O forse leggere i libri degli esordienti e scoprire i nuovi capolavori della letteratura italiana. Non scriverne io».

«Anni fa ho iniziato a scrivere un libro» dice Massimo.

«Davvero?»

«Sì, una di quelle cose molto alla Signore degli Anelli. Un cavaliere, un elfo e un mago si incontrano a un crocevia e…»

«E poi?»

«E poi nulla. Mi hanno regalato Final Fantasy XII e il mago non ha mai svelato al cavaliere e all’elfo il destino che li univa».

«Meglio così» dice Evelina. «I fantasy sono tutti uguali».

 Massimo le tira un pizzicotto sul braccio. «Il sedicenne che è in me potrebbe prenderti a pugni, lo sai?»

«E la ventenne che è in me ti mollerebbe seduta stante».

Evelina fa per dare uno schiaffo a Massimo, mirando alla cieca. Massimo allontana la testa, poi le afferra il polso. Evelina cerca di liberarsi e Massimo anziché fare forza intreccia le sue dita con quelle di Evelina. Lei alza la testa, lui abbassa la sua e si incontrano a metà strada con un bacio a stampo. Si guardano negli occhi per qualche istante, poi Evelina gli dà due schiaffetti sulla guancia e si rimette seduta.

Massimo torna a sdraiarsi con le mani dietro la testa. «Devi sempre avere l’ultima parola, eh?»

«Non mi dire che non ti piace».

Massimo apre la bocca come per dire qualcosa, ma Marianna lo precede: «È uno di quei braccialetti portafortuna, vero?»

Evelina annuisce sollevando il polso sinistro, il braccialetto bianchissimo in contrasto con la sua pelle.

«Non ne hai mai avuto uno?» chiede Luca.

«Non mi sembra» risponde Marianna. «Il colore significa qualcosa, giusto?»

«Bianco sta per libertà» dice Evelina.

«Ce l’ha da sempre» dico. «Neanche ricordo più quando li abbiamo presi l’ultima volta, forse da bambine».

«Non è importante» dice Evelina.

«Ancora non mi capacito che non ne hai mai avuto uno» dice Luca.

«La prossima volta ne compro uno solo per farti contento, ok?» replica Marianna.

Luca fissa il polso di Evelina. «Aspetta, ma com’è possibile che ce l’hai da quando eravate bambine?»

«Perché?»

«Perché si rompono facilmente».

«A me si rompevano puntualmente quando tornavo a scuola» dice Massimo.

«Lo leghi esprimendo un desiderio e quando si rompe il desiderio si avvera» dico a Marianna.

«Non ricordo, forse l’ho ricomprato sempre dello stesso colore. O forse…» Le labbra di Evelina si increspano in un sorriso. «Forse il desiderio non si è ancora avverato».

In effetti il braccialetto è una delle ragioni per cui chi ci conosce bene non può confonderci. Non riesco a ricordare un momento in cui non ce l’avesse. L’ultimo che ho comprato io era verde e l’ho perso in acqua senza che il mio desiderio, qualunque fosse, si avverasse.

«Il rosso è per l’amore, il verde per la speranza, il giallo per la fortuna…» dice Luca.

«Non era per il denaro?» chiede Massimo.

«Boh, forse. E poi…»

Massimo finisce la lattina di Evelina. Evelina ruota il braccialetto attorno al polso guardando con aria assente Marianna e Luca. Dove sono i suoi amici? Sia all’università che fuori la sua vita sembra legata alla mia e adesso a quella di Massimo.

Mentre Evelina ruota il braccialetto attorno al polso, mi sembra di rivedere me stessa che mi rigiro il filo d’erba tra le dita. Solo che adesso Massimo le cinge la vita con il braccio e le sussurra qualcosa all’orecchio. Lei sorride e lascia perdere il braccialetto.

A volte ho l’impressione di vedere la mia vita dall’esterno: qualcun altro identico a me, mia sorella, che la vive al posto mio. Incrocio lo sguardo di Massimo, lo sguardo da innamorato rivolto a Evelina che per un attimo sembra rivolto a me.

Trasalisco. Domani ho l’ultimo esame, lo stavo quasi dimenticando. Dante, Boccaccio, Petrarca. Devo fare tesoro dei consigli di Marianna e Luca.

Nell’arcipelago di luci e ombre creato dalle foglie mosse dal vento, Evelina accarezza la guancia con l’accenno di barba di Massimo. Ho un vuoto all’altezza dello stomaco. Per mesi è capitato che uscissimo insieme e non ho provato nulla del genere. Perché ora? Non voglio essere invidiosa. Sono felice per loro.

Tra qualche giorno Marianna e Luca torneranno a casa. Marianna dal suo ragazzo con cui sta insieme dal primo liceo, Luca al suo paesino — Luca che non ha mai parlato espressamente di un ragazzo, ma che spesso ci dà buca perché deve uscire con amici di cui non ci dice nulla. Evelina andrà a trovare Massimo. Sono io l’unica sola nel gruppo.

Gli occhi neri di Massimo si soffermano di nuovo su di me. Deve aver colto qualcosa nel mio sguardo perché mi sorride. «Sei ansiosa?»

Scuoto la testa.

«Dai che andrà bene».

«Stai bene?» chiede Marianna.

«Sì, perché?»

«Sei pallida».

Scuoto di nuovo la testa.

«È solo un po’ ansiosa, tutto qui» dice Evelina.

«È il caldo».

«Vuoi prenderti qualcosa di fresco?»

«Sto bene, sono solo un po’ sovrappensiero». Mi sforzo di sorridere e gli altri tornano a parlare tra loro, mentre io pesco un libro dalla borsa e fingo di ricontrollare qualcosa.

Ora mi è tutto chiaro. Non so se Massimo mi ha chiesto di uscire la prima volta perché gli piacevo. Sta di fatto che Evelina ha visto in lui più di quanto potessi vedere io al momento, preoccupata dall’ambiguità della situazione. Ho cercato di essere superiore, ma aveva ragione Luca, avrei dovuto allontanarmi da Evelina. Ora che conosco meglio Massimo, mi piace più di un amico. Mi piace la sua spontaneità, il suo ottimismo, il modo in cui increspa le labbra quando sorride. Avrei potuto essere io la sua ragazza, invece è Evelina al centro dei suoi sguardi e dei suoi baci. A me non resta che stare a guardare.

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Capitolo 6
*** Le distanze ***


Le distanze

Martedì 19 ottobre 2010

È una giornata insolitamente calda di ottobre. Mi sono tolta la felpa e l’ho poggiata sullo schienale della panchina. Tira un venticello fresco, ma finché sono al sole è sopportabile. Nel campus non sono la sola a maniche corte. Sembra la fine di giugno, se solo non fosse cambiato tutto.

Siamo più di un gruppo di studio, vero? ha detto Marianna quella sera. Voglio dire, non è come se ci vedessimo solo per studiare, no? Invece non ho sentito né lei né Luca per quasi tutta l’estate. E quando siamo tornati all’università abbiamo visto Luca solo di sfuggita: senza che ci facesse sapere nulla, ha fatto domanda per l’Erasmus e ora è a Barcellona fino alla fine dell’anno accademico.

«Non vi ho fatto sapere nulla perché non ero sicuro» ci ha detto. «Non ero sicuro che mi prendessero e che i miei mi facessero andare. Ma con la borsa di studio e tutto…»

Ci ha abbracciato e ci ha dato un bacio per guancia prima di scappare in segreteria. Ci ha mandato cartoline non appena è arrivato e seguiamo la sua vita tramite gli status e le foto su Facebook, ma la sensazione è che sia tutto finito. La nostra amicizia non è mai andata così a fondo da sopravvivere a dieci mesi di distanza. E poi c’è il modo in cui ha influenzato il rapporto tra me e Marianna. Senza di lui, ci troviamo con molte meno cose da dire. Senza di lui, le nostre conversazioni si limitano ai corsi e agli esami.

Marianna si è fatta un paio di nuove amiche. Per non rimanere sola mi aggrego a loro in prima fila e a mensa, ma ogni occasione è buona per isolarmi. Marianna e le altre ora sono in biblioteca a studiare. Abbiamo ricominciato le lezioni da qualche settimana e già stanno sottolineando le nuove dispense.

No grazie. Leggo Una stanza tutta per sé. Lo leggevo anche stamattina in classe durante la pausa.

«Per che esame è?» ha detto una delle due, credo Chiara.

«Non è per un esame».

«Ah».

L’ambiente universitario mi dà ai nervi. Credo sia partito tutto quando all’ultimo esame di giugno, dopo l’in bocca al lupo di Luca via sms e le parole di incoraggiamento di Marianna, mi sono seduta davanti al professore deconcentrata, ho sviato un paio di domande e ho confuso un’opera con un’altra. Il professore voleva mettermi 26. Ho rifiutato — non perché volessi rifiutare, ma perché sentivo che era quello che Marianna avrebbe fatto al posto mio, e infatti poi mi ha detto che ho fatto bene e che meritavo molto di più. A settembre mi è toccato l’esame con l’assistente. Ero l’ultima persona dell’ultimo turno, stavano chiudendo le aule e non c’era nessuno ad aspettarmi. Ho preso 25.

A Marianna ho detto di aver preso 28. Si è complimentata. Ha detto: «Vedi? Gli sforzi vengono sempre ripagati». Ho avuto l’impressione che se le avessi detto il vero voto si sarebbe scandalizzata e avrebbe continuato a chiedermi qual era l’errore, quando per me non c’è nulla di male in un 25. L’errore è essere in un gruppo di ragazze per cui qualunque voto al di sotto del 30 è da vergognarsi.

Non sono concentrata. Chiudo il libro, lo rimetto in borsa, mi infilo la felpa e mi avvio verso la cartoleria. Non comincerò a studiare adesso, ma tanto vale prendere le dispense.

Davanti a me in cartoleria ci sono quattro persone. Una ragazza sta stampando la tesi di laurea. La cartolibraia le consegna le due copie con la copertina bianca marmorea quando qualcuno mi picchietta col dito sulla spalla.

«Ehi Francesca».

È Massimo. Non lo vedo da luglio nonostante sia tornato qui già agli inizi di settembre. Si è tagliato i capelli e ha il viso pulito, senza barba. Indossa una camicia a maniche corte, la giacca appoggiata sulla borsa a tracolla. Ci scambiamo un bacio per guancia.

«Ti sei tagliata i capelli» dice. «Stai bene. Ti fanno sembrare più grande».

«Grazie». Li ho tagliati fino a poco sopra le spalle. Non so perché: un po’ per vanità, un po’ per cambiare, un po’ per prendere le distanze da Evelina. «Come va?»

«Ho dato tutti gli esami che volevo a settembre, sono praticamente in vacanza. E tu?»

«Tutto ok».

«Che fai qui?»

«Mi servono delle dispense».

Massimo dà una pacca alla borsa. «Fotocopie».

Annuisco. Tra due persone tocca a me. Massimo guarda le penne al bancone, prende una Staedler blu e un raccoglitore.

Evelina ha smesso di parlarmi di Massimo quando ha visto che le rispondevo con affabilità. Non ha fatto domande, probabilmente convinta che mi stesse annoiando… o che la invidiassi, che è molto più probabile, anche se dubito creda che dopo tutti questi mesi ce l’abbia con lei per Massimo. Penserà che ce l’ho con lei perché al contrario mio si è trovata un ragazzo. Ho persino acconsentito a un’uscita di coppia col coinquilino di Massimo verso fine marzo: è quando ci siamo ritrovati a parlare della luna in mancanza di interessi comuni che abbiamo capito entrambi che la serata non avrebbe portato da nessuna parte. Evelina non ha più fatto tentativi del genere e gliene sono grata.

Mi sforzo di non guardare Massimo, anche se vorrei. Controllo il cellulare. Rileggo qualche vecchio messaggio di Marianna. Arrivo tardi a lezione, mi prendi il posto? Vieni con noi a mensa? Dove sei?

Più sto con lui, più sto con loro due insieme, più mi sembra di diventare una maschera impenetrabile. Nel profondo so che ci sto male e che il mio bisogno di stare da sola di questi giorni deriva dall’impossibilità di stare con lui, ma in qualche modo evito di soffermarmi su questi pensieri. Ho altre cose per la testa.

È una giornata insolitamente calda di ottobre. Ho cominciato il terzo capitolo di Una stanza tutta per sé. La mia canzone preferita di questo periodo è Put It Behind You dei Keane. Ho finito tutti gli esami del primo anno e forse otterrò la borsa di studio. Marianna e Luca sono distanti, ognuno a modo suo.

Compro le dispense, saluto Massimo e mi avvio con largo anticipo in classe.



Note al capitolo:
  • Da Una stanza tutta per sé, saggio femminista di Virginia Woolf, e in particolare dal capitolo sulla sorella di Shakespeare, viene in parte il titolo della storia.
  • «Ti sei tagliata i capelli [...] Ti fanno sembrare più grande». Riferimento molto oscuro a Hit the Bottle di Kurran & the Wolfnotes ([...] you cut it to your shoulders, and it makes you look much older [...]). Se solo la storia non fosse stata ambientata prima della sua uscita, l'avrei citata esplicitamente.
Ho aggiunto delle note anche ad alcuni dei capitoli precedenti: se hai seguito la storia passo passo, ti consiglio di tornare a leggere perlomeno quelle alla fine del primo capitolo.
Grazie a te che stai dedicando parte del tuo tempo per leggere la storia di Francesca, lo apprezzo davvero. Buone letture!

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Capitolo 7
*** Capodanno ***


Capodanno

Venerdì 31 dicembre 2010

Ho ceduto. Ho preso un treno e un autobus e sono arrivata al paese di Massimo. L’anno scorso ho festeggiato Capodanno con le vecchie amiche del liceo, ma ci siamo allontanate e quest’anno non avevo nessuno con cui andare. Mi sarebbe andato bene stare a casa con i miei, ma Evelina l’ha detto a Massimo, hanno insistito ed eccomi qui. In spalla ho uno zaino con il vestito che metterò stasera, un pigiama e il ricambio per domattina, e in mano ho la scatola del panettone. Evelina mi ha assicurato che hanno già fatto la spesa loro, compresa di fuochi d’artificio, ma non mi sembrava il caso di presentarmi a mani vuote.

L’autobus si ferma al capolinea. Scendendo faccio attenzione a dove metto i piedi. La strada è bagnata e accanto al marciapiede le luci dei lampioni illuminano alcuni rimasugli sporchi di neve. Mi sto avvolgendo la sciarpa attorno al collo quando un ragazzo mi fa un cenno.

«Sei Francesca?»

«Sì. Nicolas, giusto?»

Ci stringiamo le mani guantate dicendoci: «Piacere».

Lo seguo alla macchina. È alto poco più di me, ha i capelli biondo scuro, corti e ricci, gli occhi verdi e gli zigomi pronunciati. Mentre cammina si rigira le chiavi in mano. Nella fila di macchine parcheggiate al lato di una stradina secondaria si illuminano le luci di una Lancia Ypsilon. Sistemo la borsa sui sedili posteriori. Mi siedo sul sedile anteriore con il panettone sulle gambe e mi allaccio la cintura. Sotto lo specchietto retrovisore oscilla un deodorante per ambienti a forma di pino. Nicolas mette in moto, ma c’è poco spazio per la manovra.

«Non si poteva tirare un po’ avanti, questo stronzo?» dice Nicolas.

«Se vuoi scendo e ti dico…»

«Macché, stai comoda. Vedrai che ce la facciamo».

Dopo un paio di manovre usciamo dal parcheggio e siamo per strada.

«Massimo vive in campagna» dice Nicolas. «In macchina ci vorranno cinque minuti per arrivare in paese, a piedi ci vuole una mezzoretta».

«Lo conosci da tanto?»

«Dalla culla. Le nostre madri ci hanno partorito a distanza di qualche giorno. Si incontravano in ospedale per caso. Da allora almeno fino alle scuole medie siamo sempre finiti in classe insieme».

«Che cosa carina».

Siamo fuori dal paese. Le case diventano più rade. Ne superiamo una in costruzione.

«E quindi stasera quanti siamo?»

«Io, te, tua sorella, Massimo e altri due nostri amici, Guido e Cristina. Non conosci neanche loro, vero?»

«No».

«Stanno insieme da un paio d’anni, credo. Andavano in classe con Massimo al liceo, ma in paese ci conosciamo tutti».

Perfetto, io e Nicolas siamo gli unici single. Anche stavolta Evelina avrà cercato di trovarmi il ragazzo? Questo spiegherebbe perché è venuto lui a prendermi…

«Cerchiamo di divertirci e basta, ok?» dice Nicolas. «Eccoci».

Svolta a destra su una strada privata in discesa. Supera un cancello, scendendo lungo in vialetto brecciato. Parcheggia accanto ad altre tre macchine di fronte all’ingresso della casa. Il giardino si estende nel buio. Nella luce della luna riconosco un’altalena e una cuccia per cani. Nicolas si offre di portarmi lo zaino e insieme facciamo il giro della casa. Non passiamo per l’ingresso?

«Noi saremo in taverna» dice Nicolas come se mi avesse letto nel pensiero. «I genitori e la sorella di Massimo stanno nell’altra parte della casa col nonno».

La discesa si fa ripida, tant’è che accanto al vialetto troviamo una scalinata che termina sotto un porticato. Oltre il porticato c’è un ampio spiazzo cementato, dove immagino d’estate mettano un gazebo, che termina con un muretto basso. Da questo lato l’intera parete della taverna è vetrata, ma le tende sono tirate. Entriamo da una porta-finestra dopo che Nicolas ha bussato e ci siamo puliti le scarpe sullo zerbino. «Permesso?»

Evelina sta apparecchiando. La tavolata è coperta da una tovaglia bianca, i tovaglioli sono rossi. Dietro i fornelli c’è Massimo con indosso un grembiule sopra i jeans e la camicia a quadri. Guido, un ragazzo robusto con i capelli ricoperti di gel, sta montando la Play Station. Cristina è seduta sul divano, fotografa una pila di console con una Reflex. In un angolo il fuoco nel camino scoppietta, in un altro brillano le luci di un albero di Natale sui toni blu e argento.

«Ciao a tutti». Mi chiudo la porta alle spalle.

Cristina è la prima a venirmi incontro. Ha i capelli lunghi fino a poco sopra le spalle tinti di rosso e gli occhiali. Dopo che ci siamo presentate mi scatta una fotografia a tradimento. «Sei uscita bene» dice.

Sulla tv compare la schermata iniziale di un videogioco. Guido si alza trionfante e Cristina mi scatta un’altra foto. Guido allunga il braccio sopra il divano per stringermi la mano e presentarsi. «Fattene una ragione» aggiunge accennando a Cristina. «Domattina ti troverai un album di scatti sfocati tutto per te».

«Posso aggiungerti su Facebook, vero?» chiede Cristina. «Tranquilla, non pubblico niente senza il tuo permesso».

«Certo».

Massimo mi saluta con un bacio per guancia. «Che bello che sei riuscita a venire».

«Sei in modalità cuoco, eh?»

Massimo guarda il grembiule come se lo vedesse adesso per la prima volta. Mi sorride. «Neanche troppo. Mia madre sta aiutando».

Gli porgo il panettone e lo mette accanto al frigo. «Evelina, fai tu gli onori di casa?»

Nicolas mi restituisce lo zaino ed Evelina mi conduce in un corridoio buio. Lascio il cappotto, i guanti e il basco su un attaccapanni. Prima di salire le scale Evelina accende un paio di interruttori. «Guarda» dice.

Tutto lo spazio tra l’attaccapanni e l’inizio delle scale è occupato da un tavolo con un presepe. Il sentiero per i re magi è disseminato di sassolini, al posto dell’erba c’è del muschio. Le statuine sono tutte della stessa misura, a parte qualche minuscolo zampognaro su delle montagne accartocciate. Le luci che simulano le stelle sono fioche, si accendono e si spengono alternativamente. Al posto del fuoco brillano lucine rosse. C’è persino un fiume con dell’acqua vera che scorre.

«Wow».

«Il padre di Massimo va matto per questo genere di cose» dice Evelina.

Siamo atee, ma sono sicura che dietro il suo sorrisetto anche lei sia colpita.

Saliamo le scale. Evelina apre la seconda porta a sinistra: ci sono due letti, un armadio, due comodini e uno scaffale con quelli che credo siano vecchi libri di scuola di Massimo.

«Che te ne pare degli altri?» chiede Evelina.

Poso lo zaino alla base di uno dei letti. «Sembrano simpatici».

«Per Nicolas…» comincia Evelina. Alzo lo sguardo su di lei. «Non farlo parlare di politica o è la fine».

 

Dopo essermi cambiata — sostituendo la felpa con un maglione rosso — torno giù e ritrovo Nicolas e Guido sul divano a giocare alla Play Station.

«Voglio sperare che dopo cena abbiate la decenza di spegnere» dice Cristina, seduta sul bracciolo del divano, accanto a Guido. Mi rivolge un sorriso indulgente. «Ti piace Monopoli, Francesca?»

«Se cominciamo Monopoli non finiamo più» dice Massimo dall’altra parte della stanza.

«Per l’appunto» replica Cristina. «Prima cominciamo, meglio è». Aggiunge rivolta a me, a bassa voce: «Se non ti piace abbiamo anche Risiko, Trivia, carte napoletane e da poker».

«Per me è lo stesso, mi adeguo». Mi siedo sull’altro lato del divano e fingo di guardare interessata la tv.

«Vuoi giocare?» chiede Nicolas.

«Non so come si fa».

«Vieni, ti insegno».

«Sicuri che non avete bisogno di aiuto?» dico in direzione di Massimo ed Evelina.

«Gioca» risponde Evelina. «Ci pensiamo noi».

Prima Nicolas mi mostra come funzionano i tasti, poi mi fa giocare contro Guido, che non mi concede neanche una vittoria. Cristina decide che è stufa di fare da spettatrice e Guido le cede il joystick. Ci siamo appena arrese al fatto che Gran Turismo 4 non faccia per noi quando dal piano di sopra arriva la madre di Massimo portando con sé un pentolone pieno di lenticchie. La seguono un Jack Russel Terrier, che abbaia con una vocina acuta saltandoci tra i piedi, e una bambina sui dieci anni.

«Toby! Toby! Vieni qui! Toby!» dice la bambina.

«Roberta, non ti avevo detto di chiudere la porta?»

«L’ho fatto, è stato più veloce!»

Cristina gli scatta qualche foto. Io provo ad accarezzarlo dietro l’orecchio, ma salta sul divano e abbaia verso Guido, che nel frattempo ha ripreso il joystick e sta facendo un’ultima corsa contro Nicolas.

«Sta’ buono, ti saluto dopo, ok?» dice Guido.

«Dovremmo farlo scendere?» chiedo a Cristina. La bambina evita il mio sguardo continuando a dire: «Toby! Vieni qui! Fa’ come ti ho detto!»

La madre di Massimo, dopo avergli lasciato la pentola e alcune precauzioni, prende Toby in braccio.

Le sorrido. «Buonasera signora».

«Mamma, lei è Francesca, la sorella di Evelina» dice Massimo.

«Lo vedo» risponde la madre. «Ciao Francesca. Chiamami Assunta». Con Toby che si dimena, si avvia verso le scale. «Ci rivediamo dopo per gli auguri, va bene? Buon appetito. Se avete bisogno di qualcosa siamo di sopra. Roberta, saluta».

«Ciao». Roberta corre su per le scale. La madre la segue chiudendosi la porta del corridoio alle spalle.

Massimo mi fa l’occhiolino. «Bertuccia è timida con gli estranei». Guarda l’orologio sulla parete e dice: «Dai, ragazzi. Le lenticchie ci sono, venite a tavola».

«Come dici tu, mammina» dice Nicolas mentre Massimo si slaccia il grembiule.

Ci laviamo le mani a turno e ci accomodiamo. Massimo e Nicolas a capotavola, io tra Nicolas ed Evelina. Davanti a me è seduta Cristina, che non ci risparmia dalle foto nemmeno mentre mangiamo. Dopo gli antipasti Massimo ed Evelina servono le lenticchie e il cotechino. Tra loro c’è una dinamica di coppia che mi colpisce in entrambi i sensi: da una parte Evelina sembra conoscere la cucina come se fosse sua, dall’altra lei e Massimo hanno un’aria quasi formale. Non si parlano direttamente se non per quanto riguarda chi serve cosa o la temperatura del forno. È come quando mamma e papà litigano, ma ai pasti — specie se in presenza di estranei — nel migliore dei casi sono affabili e nel peggiore si ignorano.

Tra aneddoti di uscite passate e programmi per le prossime feste (Cristina già parla di cosa si farà per Pasquetta), scopro qualcosa di più sugli altri.

Guido studia Economia, è un appassionato di calcio, tifa per la Juventus e scommette sulle partite più soldi di quanto dovrebbe. Cristina non approva, anche se ammette che è con quei soldi che Guido le ha regalato l’obiettivo nuovo per la Reflex a Natale. È una coppia che di primo acchito non vedevo bene insieme, ma nei piccoli gesti riconosco che sono affiatati.

Nicolas è l’unico del gruppo che non ha proseguito con l’università. Lavora nell’agriturismo di famiglia e come bagnino nella piscina comunale. Allude al fatto che l’auto con cui è passato a prendermi l’ha comprata usata con i suoi soldi.

Alle dieci e mezza finiamo di mangiare. Stavolta aiutiamo tutti a sparecchiare e cominciamo a giocare a Monopoli. Teniamo la tv accesa a basso volume.

La partita si preannuncia senza fine. Alle undici e trentacinque decidiamo di fermarci e di riprendere dopo la mezzanotte. Evelina tira fuori dal frigo un tiramisù fatto in casa e apre il mio panettone. Ne approfitto per andare in bagno. Lascio la taverna, il brusio della tv, il vocio degli altri, il tintinnare dei piattini e dei cucchiaini e mi avvio su per il corridoio. La serata sta andando bene.

Nonostante sia già andata in bagno prima, sbaglio porta. È la camera di Massimo. Faccio per tornare indietro, ma ci ripenso. Quando mi ricapita? Socchiudo la porta e mi do un’occhiata intorno.

Da sotto le coperte del letto a due piazze spuntano un paio di scarpe e delle infradito. Sulla scrivania ad angolo ci sono una pila di libri dell’università in cima a cui spicca Il mondo di Sofia, dei quaderni, una tazza ricolma di penne e matite, un portatile spento e un piccolo televisore da cui devono aver staccato la Play Station perché non è attaccato alla presa e sembra essere spostato rispetto al resto. Ci sono due scaffali: libri che vanno da Harry Potter a Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, da Delitto e Castigo a Tre Uomini in Barca, da Il Codice Da Vinci a Molto forte, incredibilmente vicino, una collezione di cd tra cui mi saltano all’occhio l’album da solista di Julian Casablancas, Mumford & Sons, Arcade Fire, De Andrè e Tre Allegri Ragazzi Morti, alcuni dvd comprendenti Il Signore degli Anelli versione estesa, Memento e un’edizione piratata di Battle Royale, un vinile dei Beatles e tutti i fumetti di Sandman. Sulle ante dell’armadio sono appesi un poster de Il padrino e uno dei Queen.

Sotto gli scaffali e sopra la scrivania c’è una bacheca. Le puntine da disegno tengono dei biglietti di concerti, degli scontrini, dei segnalibri, un ritaglio di giornale e alcune foto: una di classe in cui fatico a riconoscere un Massimo relegato all’ultima fila, una vacanza in Grecia di famiglia con scritto sotto “Estate 2008” e una serie di foto con Evelina scattate dentro una macchina per fototessere. Evelina è sempre smagliante. In uno degli scatti Massimo ha le labbra protruse come se stesse facendo un verso, Evelina ride. Nell’ultima si baciano. Lui le sfiora una guancia, lei ha una mano tra i capelli di lui.

Mi sento sprofondare. Questo è quello che non ho. C’è Evelina al mio posto. Queste persone non mi appartengono. Non c’è nulla per me qui.

«Che fai, stai curiosando?»

Trasalisco. È Massimo, appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate al petto. Ha un’espressione esageratamente seria.

Mi sforzo di sorridere. «Beccata».

Massimo si chiude la porta alle spalle e accenna con la testa verso gli scaffali. «C’è qualcosa che ti piace?»

Si mette accanto a me. Sembra di essere in un museo, davanti a un’opera d’arte. Scorro i libri con lo sguardo come se non li avessi già visti tutti prima. «Ho sempre voluto leggere Foer. Com’è?»

«È meglio Ogni cosa è illuminata. Ma quello me l’hanno prestato, non ce l’ho…» Trattiene una risata.

«Che c’è?»

«È buffo. Finisco sempre per avere quello che non voglio».

Mi corre un brivido lungo la schiena. «Qual è il tuo Harry Potter preferito?»

«Come ti sembrano gli altri?»

«Gli altri?»

«I miei amici».

Mi stringo nelle spalle. «Sono simpatici. Anche se vorrei nascondere la Reflex a Cristina».

«Esagera, eh?»

«Un po’».

«E Nicolas?»

«È simpatico».

Massimo annuisce. Sento la sua presenza. Il suo respiro. L’odore dello shampoo.

«È meglio che torniamo dagli altri, no?» dico.

Massimo sembra riscuotersi da un sogno. «Sì, hai ragione». Mi precede verso la porta, ma prima di aprirla si volta. Mi guarda dritto negli occhi. «Voglio lasciare Evelina».

«Perché?» Non sembra la giusta domanda. «Perché lo stai dicendo a me?»

Massimo trattiene una risata. «Lo sai». Mette la mano sulla maniglia. «Aspettami, ok? Ci vediamo fuori». Esce.

Il cuore mi batte all’impazzata. Mi tremano le mani. Faccio un respiro profondo, spengo la luce ed esco anch’io.

Sono le undici e quarantasette quando torno in taverna. Qualcuno ha alzato il volume della tv. Sul tavolo tra i soldi e le proprietà del Monopoli ci sono piattini sporchi e qualche bicchiere. L’unica rimasta dentro è Evelina, che si sta abbottonando il cappotto.

«Ma dov’eri finita?» dice. «Ti ho tagliato una fetta di tiramisù, la vuoi? Dopo, però. Mettiti il cappotto e vieni fuori, ci sono i fuochi d’artificio». Si infila l’ultimo guanto ed esce.

Anche con cappotto, basco, guanti e sciarpa il freddo è insopportabile. In lontananza hanno già cominciato con i fuochi d’artificio. Toby abbaia dentro casa. Il cielo si illumina di rosso, giallo, blu. Massimo e il padre, un uomo robusto e con un berretto grigio, sono il più lontano possibile dalla casa. La madre e Roberta, in un giubbotto rosa pallido, agitano stelle filanti. Mi avvicino a Nicolas. Evelina e Cristina scoppiano a ridere per qualcosa che ha detto Guido.

«Eccoti» dice Nicolas. «Senti, se qui allo scoccare della mezzanotte tutti si baciano non ti spiace se anche noi…?»

Il padre di Massimo si allontana e sta dicendo qualcosa alla moglie.

«Che ore sono?» chiede lei.

Guido guarda l’orologio al polso. «Mancano nove minuti».

«Scusami» dice Nicolas. «Scherzavo. Non volevo offenderti».

È scuro in viso. Non so cosa dire. Mi metto le mani in tasca e vado da Evelina. Mi prende a braccetto. «Tutto bene?»

Gli occhi le brillano, sorride. Ripete: «Tutto bene?»

Davvero non sa nulla? Annuisco e mi libera dalla sua presa.

Devono avere qualche problema con i fuochi d’artificio perché il padre di Massimo torna di nuovo da moglie e figlia.

«Di questo passo ci perdiamo la mezzanotte» dice Cristina.

«Mancano sette minuti» dice Guido.

«Voglio andare da Toby». Roberta tira il braccio alla madre. «Ha paura, mi sta chiamando».

«Non ha paura, è col nonno».

Il padre le accende un’altra stella filante. Più si avvicina la mezzanotte, più aumentano i botti. Una serie di fuochi d’artificio spettacolari scoppiettano e illuminano la casa di bianco. Massimo si alza, solleva il pollice e sorride. «Il prossimo è il nostro». Fa un passo indietro.

«Mancano cinque minuti».

«Ma ce la facciamo?»

«Che ansia».

Dev’esserci qualche finestra aperta perché sento distintamente il cane abbaiare. No, non ci sono finestre aperte da questo lato della casa. Forse l’hanno fatto uscire? È scappato?

Uno scoppio vicinissimo. Le urla. La madre di Massimo impedisce a Roberta di vedere. Evelina mi abbraccia in lacrime, mi si appende al collo tanto da farmi male. «Oddio, oddio, oddio» sussurra. Cristina è col telefono in mano in preda ai singhiozzi. Guido la stringe. Nicolas dice: «Merda». Il padre di Massimo è a metà strada, immobile. Massimo è disteso a terra a faccia in giù. In lontananza partono altri fuochi d’artificio e la pozza nera attorno alla testa di Massimo diventa rossa.




No, questa non è la fine, è solo la fine della prima parte.
Ho deciso di resistere alla tentazione di pubblicare i capitoli a ogni occasione utile. D'ora in poi gli aggiornamenti arriveranno ogni tre giorni.
Al solito, i commenti sono i benvenuti.
Ci rileggiamo martedì 3 marzo!

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Capitolo 8
*** Il bivio ***


Interludio

Il bivio

Domenica 29 agosto 1999

La camera della nonna è al buio. Le tapparelle sono abbassate, filtra solo un ritaglio di luce polverosa che illumina il comodino. Le finestre sono spalancate e il ventilatore ronza a un angolo della stanza, ma l’aria è pesante. La nonna è sdraiata sul letto, la testa di lato, gli occhi chiusi. Russa.

Socchiudo la porta tornando sui miei passi. «Sta dormendo» sussurro a Evelina.

Evelina sorride nella penombra del corridoio. Ci allontaniamo in punta di piedi per poi scapicollarci giù per le scale, oltre la cucina e la sala da pranzo, fino al portone d’ingresso.

Questa è la nostra occasione. Le batterie del Game Boy Color sono scariche. Abbiamo rubato quelle del telecomando, ma si sono scaricate anche quelle e dobbiamo aspettare di tornare a casa per continuare a giocare a Pokemon Giallo. Non abbiamo cominciato nessuno dei libri delle vacanze, tanto sappiamo che la mamma ci aiuterà a compilare le schede di lettura. E le Barbie sono noiose. I giocattoli migliori li abbiamo lasciati a casa, la mamma non ce li ha fatti portare dalla nonna.

Il pendolo segna le tre e dieci. Se siamo fortunate abbiamo un’oretta prima che la nonna si svegli. Apro la porta, Evelina mi precede, la richiudo accostandola così da fare meno rumore possibile.

Il sole abbaglia. Senza che ci diciamo nulla corriamo in fondo alla strada. Il caldo sale dall’asfalto. Le case sono silenziose. L’unico rumore sono le nostre scarpe e le cicale che friniscono tutt’attorno. A quest’ora non c’è nessuno e possiamo correre in mezzo alla strada, ma non proseguiamo per la via principale. Ci fermiamo vicino a un sentiero all’ombra di prugni. La nonna ha detto che è proprietà del signor Luigi e che non potevamo andarci, ma il signor Luigi non l’abbiamo mai visto e comunque vogliamo solo dare un’occhiata.

Da qui la casa della nonna è ancora visibile: bianca, ricoperta di edera. Una volta nel sentiero siamo sole nella nostra avventura. La nonna non sa dove siamo. Nessuno sa dove siamo. Può succedere di tutto. Possiamo andare dove vogliamo senza la nonna che ci dice che non abbiamo il permesso. Siamo mai state così libere?

Tira un venticello piacevole nel sentiero. Rabbrividisco. Può succedere di tutto.

Ma rimaniamo a pochi passi dall’ingresso del sentiero. A destra c’è un campo, a sinistra la casa del signor Luigi. Faccio qualche passo indietro: la casa della nonna è sempre lì. Possiamo sempre tornare indietro.

Evelina raccoglie delle prugne cadute a terra. «Sono tutte rotte».

«Non possiamo prenderle comunque, sono del signor Luigi».

Evelina le lascia cadere a terra. Si sfrega le mani con una smorfia. «Erano appiccicose».

Il sentiero va verso sinistra. Gli alberi coprono la visuale. Potrebbe finire dietro la casa del signor Luigi oppure proseguire altrove. Se andiamo avanti però ci allontaniamo dalla strada e dalla casa della nonna.

«Andiamo avanti».

Evelina continua a sfregarsi le dita. Sta prendendo tempo. O sta immaginando tutto quello che ci ha detto la nonna sui campi e sui boschi. Serpenti, cani, volpi, cinghiali, lupi. Tutti dietro l’angolo.

«Fifooona» dico.

«Vai avanti tu» dice Evelina.

Cammino spedita al centro del sentiero. Evelina cammina dietro di me a qualche passo di distanza.

Il sentiero gira a sinistra e noi con lui. Prosegue leggermente in salita e gira a destra. Serpenti, cani, volpi, cinghiali, lupi: si nascondono a destra?

Evelina sta per dire qualcosa.

«Non possiamo fermarci adesso» dico. «Dobbiamo arrivare almeno fino alla fine del sentiero».

Evelina non risponde, ma continua a seguirmi in silenzio. Do un calcio a un sasso, il sasso sbatte contro un albero ed Evelina sobbalza. Sogghigno. «Fifooona». Evelina scatta in avanti. «Aspetta!» La inseguo. Il sentiero scende, i sassi contro i nostri piedi rotolano rischiando di farci cadere, ma la discesa non è ripida e il sentiero finisce in un bivio appena oltre l’ombra dei rami. A sinistra prosegue costeggiato da cespugli di more, a destra il bosco si infittisce.

«Dividiamoci».

«Io a sinistra» diciamo in coro.

Incrociamo le braccia al petto. Nessuna delle due ha intenzione di cambiare idea.

«Ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò, che facevano l’amore con la figlia del dottore, il dottore si ammalò, ambarabà ciccì coccò».

Il dito punta me. Ho vinto io. Sorrido. «Io a sinistra, tu a destra».

Evelina sbuffa. «Uffa! Ma perché dobbiamo dividerci?»

«Dobbiamo esplorare. Anzi, facciamo così: contiamo fino a cento. Poi torniamo dietro, io ti dico cosa c’è di qua e tu mi dici cosa c’è di là. E poi se vogliamo andiamo avanti insieme o a sinistra o a destra, ok?»

«Ok».

Mi avvio contando sottovoce. Mi volto per controllare che Evelina non sia rimasta ferma, poi continuo a camminare. «Undici… dodici…» Una lucertola guizza accanto al mio piede. «Diciotto… diciannove…» Le more sono nere, alcune in parte rosse. Tra alcuni grappoli brillano delle ragnatele. Stacco due delle more più grandi e me le metto in tasca: se ne prendo di più le starei rubando al signor Luigi e la nonna lo scoprirebbe, invece così ce n’è una per me e una per Evelina e nessuno noterà la differenza. «Cinquantasei… cinquantasette…» Oltre i cespugli di more ci sono dei campi e delle case. Qualcuno potrebbe vedermi, ma a quest’ora non c’è nessuno in giro. Stacco un altro paio di more. Nessuno noterà la differenza, no? «Ottantanove… novanta…»

In cima a una collina un gigantesco cane bianco abbaia verso di me. Corro. Faccio cadere le ultime more che ho raccolto. Mi sta seguendo? Continua ad abbaiare, ma non riesco a capire se si sta avvicinando. Mi fermo solo quando raggiungo il bivio. Mi siedo su un sasso vicino a un albero nel sentiero. Riprendo fiato. Se il cane mi ha seguito deve aver cambiato idea a metà strada. Non abbaia più. Le cicale friniscono, il vento soffia tra le foglie. Mi rigiro tra le dita le more che ho raccolto. Una mosca mi ruota attorno alla testa.

Dov’è Evelina? Ha contato più lentamente di me? A quest’ora dovrebbe essere già tornata. Mi affaccio nel bosco, ma non la vedo. Torno a sedermi sul sasso e conto con calma fino a cento. Non c’è traccia di Evelina.

Prendo il sentiero sulla destra. Cammino in fretta. C’è una strana quiete nel bosco. Dov’è finita? Forse è tornata a casa? Ma dovevamo incontrarci qui, perché dovrebbe essere tornata indietro? Se non la trovo devo dirlo alla nonna e si arrabbierà con me. Mi asciugo le lacrime. «Evelina! Evelina!» strillo.

Un movimento alla mia sinistra. Tra i tronchi degli alberi spunta la frangia scura e la maglietta gialla di Evelina. Prima ancora che abbia messo piede nel sentiero le urlo contro: «Ma dov’eri finita?»

«Mi sono persa».

«Avevamo detto che tornavamo subito al bivio… Cosa ci sei andata a fare lì in mezzo?»

«Mi sono persa. Tutto qui».

«Ma era fuori dal sentiero. Non ci dovevi proprio andare».

Torniamo insieme al sentiero accanto alla casa del signor Luigi. Evelina sembra sovrappensiero. Non ho più voglia di esplorare, forse neanche Evelina. A ripensarci era un’idea stupida.

«Tieni». Le do una mora.

Evelina se la rigira tra le dita, proprio come ho fatto io poco fa. «Dov’è il tuo braccialetto?» chiede.

Mi guardo il polso sinistro. Non c’è più. La mamma ce li ha comprati al mare la settimana scorsa. Ha insistito che li prendessimo di colori diversi, ma entrambe li abbiamo voluti bianchi.

«Nooo, l’ho perso!» Vale la pena tornare sul sentiero delle more solo per un braccialetto? «Un cane mi ha inseguito. Era gigantesco! Avevo raccolto altre more, ma mi sono cadute».

Evelina annuisce. Il sentiero prima sembrava nascondere pericoli dietro ogni scricchiolio, ora invece Evelina cammina al mio fianco guardando dritto davanti a sé. Con il suo braccialetto al polso. Non siamo più identiche.

Raggiungiamo la fine del sentiero. Tutto è come prima: la strada vuota, l’asfalto rovente, la casa della nonna lì dove l’abbiamo lasciata.

«Mi hai fatto prendere un bello spavento, lo sai?»

Evelina sogghigna. «Fifooona». Mi dà un pizzicotto, si scapicolla verso casa e io la seguo.

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Capitolo 9
*** Nebbia ***


Seconda parte

Nebbia

Lunedì 10 gennaio 2011

«Voglio lasciare Evelina» dice Massimo.

«Perché? Perché lo stai dicendo a me?»

Massimo trattiene una risata. «Lo sai». Mette la mano sulla maniglia.

Cosa vuoi che ti dica? È quello che vorrei dire, ma la mia bocca non si muove.

«Aspettami, ok? Ci vediamo fuori». Esce e si chiude la porta alle spalle.

Sono seduta sul bordo del suo letto. Vorrei uscire, ma mi ha chiesto di aspettarlo e non voglio deluderlo. Ho paura che la porta sia chiusa a chiave. Sarà già passata la mezzanotte? Ho nascosto la Reflex di Cristina dentro un cassetto. Che strano che non sia venuta a cercarla…

Ho undici anni. Sono al funerale della nonna. Nel cimitero la processione segue la bara in silenzio, ma è più forte di me, singhiozzo, più cerco di smettere più le lacrime non si fermano. Mi nascondo in un vicolo e lascio che gli altri vadano avanti.

«Smettila di piangere» dice Evelina. «Era vecchia. Doveva succedere prima o poi».

Mi copro il viso. Perché non capisce neanche lei? Non è per la nonna, è per Massimo, ma è nel futuro, lei non può saperlo, non può capire.

Evelina mi prende per mano e mi trascina. «Vieni, dobbiamo dare l’estremo saluto».

Mi divincolo, faccio pressione con i piedi, le tiro dei pizzicotti, ma mi trascina senza difficoltà. I parenti si appiattiscono contro i loculi per farci passare. Smetto di combattere. Fisso i capelli di Evelina. Sono lisci, lunghi, neri con riflessi bianchi.

Quando distolgo lo sguardo sono sola nel cimitero. È il crepuscolo. È ora che dia anch’io l’estremo saluto. Ho bisogno di luce, però. Per fortuna Marianna mi ha prestato l’accendino. Mi accosto alla candela di un altro loculo, la schermo con una mano e con l’altra cerco di accenderla. È buio, mi stanno chiudendo dentro, i cancelli cigolano, chiavi girano nelle serrature.

«Aspettate» dico con un filo di voce. «L’accendino funziona, è la miccia che è difettosa».

 

A letto, sotto le coperte, nel calore e nel buio della mia stanza, ci metto un po’ per ricordarmi chi sono. La realtà è un pugno allo stomaco.

Massimo è morto. Dicono che sia stata una miccia difettosa. Il fuoco d’artificio gli è esploso in faccia prima che potesse allontanarsi. Aveva vent’anni, la mia stessa età. Non c’è soluzione di continuità tra il ragazzo che dice: «Il prossimo è il nostro» col pollice sollevato e il cadavere sfigurato nella pozza di sangue.

Se solo non avesse acceso lui quel fuoco d’artificio… L’avrebbe fatto suo padre. Se solo non avessero comprato loro quel fuoco d’artificio… L’avrebbe fatto qualcun altro. La vita di Massimo valeva più di quella di suo padre, più di quella di qualcun altro? No, ma… Ma perché doveva per forza morire qualcuno? E se non fosse successo nulla di male, cosa starebbe succedendo adesso? Dove sarebbero le nostre vite?

Voglio lasciare Evelina. Aspettami, ok?

Stanotte Evelina si è infilata sotto le mie coperte, come facevamo da piccole quando avevamo degli incubi e negli angoli della stanza si nascondevano mostri. Mi sono spostata per farle spazio, ma non ci siamo dette nulla. Ci siamo guardate nell’oscurità. Non sono riuscita ad addormentarmi finché il suo respiro non è diventato regolare.

Evelina rimane tutto il giorno chiusa in camera a studiare. Non so se studi davvero. Io non ci riesco: sfoglio i libri dell’unico esame che ho intenzione di dare per questa sessione e ogni volta senza che me ne renda conto mi ritrovo a guardare fuori dalla finestra. Da quando siamo tornate a casa c’è una fitta nebbia che cancella strade, case, persone.

Evelina ha pianto appena è successo e al funerale. Quando è successo ero scioccata. Al funerale avevo gli occhi lucidi, ma mi sono proibita di piangere. È morto il ragazzo di Evelina, il fratello di Roberta, il figlio di Assunta e Salvatore, il migliore amico di Nicolas. Per me è morto il ragazzo di mia sorella, al più un amico. Non spettava a me piangere allora e non spetta a me adesso. Devo essere forte. Evelina ha bisogno di me.

Mi alzo. Fuori dalla finestra la nebbia è esattamente come ieri. L’unica differenza è che ieri pomeriggio è tornata Marianna e oggi le ho promesso che sarei andata da lei. Per vederci, forse studiare. È la settimana prima dell’inizio della sessione invernale. La prima volta che esco di casa dal funerale.

Quando arrivo in cucina Evelina è seduta al tavolo, in pigiama. La mamma le fa colare lo zabaione nella tazza aiutandosi con un cucchiaio. «Ne vuoi anche tu?» chiede. Scuoto la testa e prendo uno yogurt dal frigo. La mamma mi stringe la spalla e ciabatta di sopra. In tv parlano di politica, ma il volume è quasi a zero e mi ritrovo a leggere le didascalie in basso come se fossero dei sottotitoli.

Mi siedo davanti a Evelina. Ha i capelli arruffati, guarda lo zabaione con aria assente. Sono sicura che non lo voglia: è uno di quei gesti tipici della mamma, gentilezze che non significano nulla e a cui in un momento come questo non abbiamo voglia di opporci.

«Ho sognato il funerale della nonna» dice Evelina.

«Anch’io».

 

La nebbia e l’isolamento avevano creato l’impressione che il mondo non esistesse più. Mi sorprende trovare traffico per strada, persone alle fermate dell’autobus, addirittura studenti muniti di valige di ritorno dalle vacanze.

Esco dalla macchina dopo aver parcheggiato sotto casa di Marianna. Qualcuno ride. Sono due ragazzi.

«Nooo, e lui che ha detto?» dice uno.

L’altro si sfrega le mani prima di rispondere, ma non sento la risposta, solo altre risate.

Come possono ridere? Da quanto tempo non sento qualcuno ridere? Da quella sera, ovvio. Guido ha detto qualcosa, Evelina e Cristina hanno riso. Solo dieci giorni fa.

Mi faccio due volte il tragitto dalla macchina al portone del condominio di Marianna perché non sono sicura di averla chiusa. Salgo a piedi fino al terzo piano. Marianna ha lasciato la porta socchiusa. Deve aver detto alla coinquilina cos’è successo perché mi tratta con indulgenza e insiste per offrirmi un caffè. Quando se ne va rimango per qualche istante a fissare i rimasugli di caffè nella tazzina, le gambe accavallate, lo zaino appoggiato contro la gamba del tavolo. Ho ancora il cappotto addosso. Le tapparelle sono sollevate, l’unica luce è quella del cielo grigio-bianco. Marianna si rigira l’accendino in mano. Sento che mi sta guardando.

«Come stai?»

«Sono stanca».

Afferra un pacchetto di sigarette. «Ti spiace se…?»

«Fa’ pure».

L’accendino non le funziona più. Accende la luce, si accende la sigaretta col gas del forno e si porta il posacenere al tavolo.

«Penso che sarò fortunata se riuscirò a dare un esame in questa sessione» dico.

«Fai quello che ti senti». Soffia il fumo di lato. «Che vuoi fare? Vogliamo uscire un po’?»

«No, studiamo». Mi sbottono il cappotto e lo appendo allo schienale della sedia. Non apro lo zaino. Marianna neanche ha i libri qui.

Solo quando finisce la sigaretta e spegne la cicca nel posacenere dice: «Non riesco ancora a crederci».

Respiro forte col naso. «È stata una miccia difettosa».

Marianna si accende un’altra sigaretta col gas.

«Posso farmi un tiro?» dico.

Me la passa. Me la poso sulle labbra tenendola tra le dita. Inspiro. Gliela restituisco tossendo. Non ha mai fatto per me. Ho fumato qualche sigaretta in terza media: le mie compagne di classe sembravano così adulte con una sigaretta in mano e volevo far parte del loro mondo. Mi è bastato cominciare il quarto ginnasio per capire che fumare non mi piaceva e che sicuramente non mi rendeva più adulta delle mie compagne. Evelina non voleva provare. Il fumo uccide, ripeteva sempre.

«Come sta Evelina?»

Mi stringo nelle spalle. «Sa come reagire».

Marianna finisce anche la seconda sigaretta. Seguo col dito le linee sulla tovaglia da un po’ prima di dire: «Posso venire a studiare con te, Chiara e Annalisa?»

«Quando?»

«Quando vi vedete. O anche solo io e te, se non ti dà fastidio».

«Ma no che non mi dà…»

«Non intendo studiare e ripetere insieme». Le linee si intersecano. Dentro i quadrati ci sono disegnati dei fiori. «Se sto da sola rimango imbambolata a guardare il vuoto. Non me ne accorgo nemmeno».

«Per me non c’è problema. Anzi, mi fa piacere».

Annuisco tra me e me. Se riesco a dare questo primo esame, potrei provare anche gli altri. Non devo, ma potrei. Altrimenti rischio di perdere la borsa di studio. Mamma e papà non me ne farebbero una colpa, ma se Evelina studia perché non dovrei riuscirci anch’io?

«Vado a prendere i libri, ok?»

«Ok».

Marianna esce dalla cucina. Mi alzo anch’io. Metto le tazzine nel lavandino e faccio scorrere l’acqua. Spalanco la finestra per far uscire la puzza di fumo. Mi affaccio.

Sta uscendo un po’ di sole. Parte della nebbia si sta diradando.

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Capitolo 10
*** Un ritorno ***


Un ritorno

Giovedì 23 giugno 2011

Raccolgo i quaderni, i libri e il libretto e li rimetto nella borsa. Sul banco resta una bottiglietta d’acqua semivuota. Gli appunti e i libri di Marianna sono sparsi accanto a me. È seduta di fronte alla cattedra, parla a raffica e gesticola mentre l’assistente annuisce e annota qualcosa.

Ho risposto a conoscenti o meno che mi hanno chiesto che domande mi ha fatto il professore, cosa ho risposto e quanto ci ho preso. Aspetto Marianna e poi torno a casa. Ho finito.

Ho dato tutti gli esami del secondo anno al primo appello. Non dovrò tornare a studiare per la sessione autunnale. Sono in pari e ho anche una media molto alta. Le prime due pagine del libretto sono complete. È andata.

Non vedo l’ora di tornare a casa e cambiarmi. Non indosserò più jeans fino a settembre, giuro. Mi bruciano le gambe e sono incollata allo schienale della sedia. Perché non funziona il condizionatore? Le finestre sono spalancate, ma qui dove sono seduta l’aria è densa. Dietro di me ripassano. In prima fila cercano di ascoltare gli esami degli altri.

Marianna riparte nel fine settimana. Domattina andiamo al mare insieme per la prima volta. Non mi è mai piaciuto particolarmente il mare, ma ho voglia di nuotare, abbronzarmi, dimenticare per qualche mese le opere di Parini e Pindemonte e non toccare i manuali di Ferroni e Lupparini.

Qualcuno alla porta mi fa un cenno. È un ragazzo con gli occhiali, l’orecchino all’orecchio destro e i capelli pettinati all’indietro. Luca sembra più abbronzato e più magro di come lo ricordavo. Gli vado incontro con un silenzioso «Ciao». Baciandogli le guance noto che si è fatto crescere la barba.

Usciamo in corridoio. Qui tira più aria. Mi ritrovo a prendere una boccata d’aria a pieni polmoni.

Luca si appoggia al muro. Io rimango di fronte alla porta. Alterno lo sguardo tra lui e l’aula.

«Hai già fatto l’esame?» chiede Luca.

«Sì, ho finito. E tu? Sei tornato definitivamente?»

«Fosse per me sarei rimasto ancora, ma…» Dà una pacca al muro, guardandosi intorno. «Mi è mancato questo posto. E voi, ovvio. Marianna dov’è?»

«Sta facendo l’esame». Accenno all’aula col mento.

«A te com’è andata?»

«Bene».

«30?»

«30».

Luca solleva le sopracciglia. «Neanche a chiederlo, insomma».

«Non era così scontato».

«Be’, l’hai avuto sin dall’inizio quel potenziale. E senza di me a distrarvi nessuno vi ha tolto dalla prima fila, vero?»

Alzo gli occhi al cielo.

Luca ride. «Lo prendo per un sì».

«Che mi dici dell’Erasmus?»

«Oh, tesoro» dice Luca. «Non puoi raccontare l’Erasmus. Gli spagnoli sono degli stronzi, il bello sono gli altri Erasmus».

«E gli esami?»

«Spero che mi convalidino quelli che ho fatto. A dir la verità stavo proprio andando in segreteria».

Annuisco. Marianna non è ancora tornata al banco.

«È strano risentirci dopo tutto questo tempo, vero?» dice Luca.

«Non troppo».

«Marianna mi ha detto…» Abbassa la voce. «Insomma, come stai?»

Incrocio le braccia al petto. «Bene».

«Avrei voluto farmi sentire, ma c’era sempre qualcosa che mi fermava. È assurdo a dirsi, ma mi sembrava come se il tempo qui si fosse cristallizzato. Pensavo che le cose sarebbero rimaste identiche quando sarei tornato, come se non fossero passati dieci mesi».

Scrollo le spalle. «È normale, credo».

«E tua sorella? Come sta lei?»

«È in biblioteca adesso». No, non sembra una risposta opportuna. Aggrotto la fronte e anche Luca fa lo stesso. «È stato uno shock, ma sta bene».

Luca annuisce e continua a muovere leggermente la testa, lo sguardo rivolto verso una finestra.

«Marianna sta ancora facendo l’esame?»

«È lunga con il professore. Di questo passo a Chiara e Annalisa toccherà dopodomani».

«Chiara e Annalisa?»

«Due nostre amiche… Forse non le ricordi, al primo anno ci abbiamo parlato ogni tanto. Quelle bassine. Chiara ha i capelli ricci…»

«Sempre in prima fila?»

Accenno un sorriso. «Sì».

«Le cose sono cambiate per davvero, direi». Luca mi rivolge il suo sorriso da Stregatto. Prende il cellulare dalla tasca. «Senti, è meglio che vada prima che chiudano. Poi ripasso, ok? Altrimenti salutami Marianna».

«Ok». Ci scambiamo un bacio per guancia e Luca fa per andarsene. «Se vuoi domattina io e Marianna andiamo al mare».

«Domattina? No, domattina è impossibile. Devo recuperare mesi di sonno perduto. Vi chiamo, però, così organizziamo qualcosa». Mi fa un cenno con la mano allontanandosi. «Hasta la vista, tesoro».

Appena superata la soglia dell’aula il caldo mi travolge. Prima ancora di sedermi bevo il resto dell’acqua nella bottiglietta. È tiepida, ma mi placa la sete. Qualche minuto dopo Marianna finisce l’esame. Quando torna al banco sbuffa e comincia subito a rimettere in ordine le sue cose.

«Allora?»

«30 e lode» risponde sottovoce. «Non hai idea di cosa mi ha chiesto…»

«Bravissima, però».

Marianna beve un lungo sorso dalla sua bottiglietta. «Pensavo volesse bocciarmi, invece continuava a farmi domande per la lode, ci credi? Andiamo, sto morendo di caldo. Ti racconto fuori».

«Ah, è passato Luca».

Marianna si ferma nell’atto di chiudere la borsa. «Oh? È tornato?»

«Sì».

«Che ha detto?»

Mi metto la borsa in spalla e prendo la bottiglietta vuota. «Niente di che. Ti saluta. Forse è ancora in segreteria, possiamo provare ad andargli incontro».

Anche Marianna si mette la borsa in spalla. «Prima una sigaretta».

All’uscita dall’aula ci fermano per chiederci dell’esame. Ci sediamo fuori sulla scala antiincendio. Marianna si arrotola la sigaretta dicendo: «Non ci posso credere che è finita. L’anno scorso gli esami sembravano non finire mai, vero?»

«È perché eravamo matricole».

«Il tempo comunque è volato». Marianna rimette il tabacco nella borsa. Tira fuori l’accendino e si accende la sigaretta. «È stato così». Schiocca le dita.

«L’anno prossimo avremo anche la tesi».

Mi vibra il cellulare. Sarà Luca? No, è Chiara. Le scrivo: Abbiamo fatto. Chiara risponde: Quanto? Io: Io 30, Marianna 30 e lode.

«Che dici, scrivo a Luca?»

Marianna sbuffa il fumo di lato. «Non so, sono stanca… Penso che andrò a casa».

Chiara scrive: Bravissime entrambe! Che vi hanno chiesto?

Metto il cellulare da parte. Le risponderò più tardi. Adesso non mi va di ricapitolare per l’ennesima volta.

Sulla scala siamo da sole, ma nel prato del campus c’è chi studia, chi mangia, chi prende il sole. Tre ragazzi sono sotto l’albero dove l’anno scorso, più o meno in questo periodo…

«Luca ha detto che credeva che le cose sarebbero restate identiche».

«Mmm». Marianna scuote la cenere dalla sigaretta oltre la ringhiera. «Posso dire una cosa?»

«Certo».

«È tipico di Luca. È sempre così netto. Le cose non sono rimaste identiche, ovviamente. Qualcosa è cambiato, qualcosa no. Così va la vita».

I ragazzi sotto l’albero si alzano e si allontanano.

«Luca appartiene a una vita fa» dico.
 


Note al capitolo:
  • «Così va la vita»: strizzatina d'occhio a Mattatatoio n. 5.
Non so se c'è chi continua a leggere assiduamente. Ci tengo a scusarmi: qualche capitolo fa promettevo aggiornamenti costanti, ma una serie di imprevisti mi hanno impedito di tener fede a questo impegno. Torno ad aggiornare quando mi capita, insomma, anche se sottolineo che la storia è conclusa e si tratta solo di trovare il ritaglio di tempo per sistemare l'html e ridarci un'occhiata.
Grazie a chi mi sta leggendo. Al solito, i commenti — positivi o critici che siano — sono sempre ben graditi.
Alla prossima!

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Capitolo 11
*** Evelina disse che avrebbe comprato lei i fiori ***


Evelina disse che avrebbe comprato lei i fiori

Mercoledì 14 dicembre 2011

«Non farmi andare da sola» ha detto Evelina.

Il momento prima ero presa dalla tesi: ho scelto l’argomento, sono andata al ricevimento, la professoressa ha acconsentito a farmi da relatrice e ha trovato interessante l’idea della mia tesi. Il momento dopo sono a casa ed Evelina mi ricorda che il giorno dopo è — sarebbe dovuto essere — il compleanno di Massimo.

«Mi ha chiamato Nicolas» ha detto Evelina. «Guido e Cristina non ce la fanno a tornare. Sarei dovuta andare il primo novembre… Non voglio che pensino che sono soli nel loro lutto. Non farmi andare da sola».

Prendiamo il treno la mattina presto tra lavoratori e studenti. L’autobus invece è quasi vuoto e ci lascia nell’affollato centro del paesino. Il cielo è limpido. Due vecchietti prendono il sole seduti su una panchina. Le casalinghe fanno la spesa. I negozi sono addobbati per il Natale, l’abete al centro della piazza è avvolto da luci spente.

Nicolas ci aspetta alla fermata. Ha lo stesso taglio e lo stesso cappotto dell’anno scorso. Ci salutiamo e ci abbracciamo. Non lo vedo e non lo sento dal funerale. Nonostante ciò non abbiamo molto da dirci. Nel tratto di strada fino alla macchina, parcheggiata in seconda fila nella stessa via in cui aveva parcheggiato a Capodanno, ci dice: «Venite a pranzo da me, poi vi riaccompagno io in città ché ho una commissione da fare. Mia madre comunque ha detto che se volete restare la notte…»

«Non posso saltare altre lezioni» dice Evelina.

«Immagino».

«Ma grazie lo stesso».

Evelina si siede davanti, io dietro. Mi stringo nel sedile dietro Evelina. In macchina non fa freddo, ma ho un nodo allo stomaco e mi ritrovo a fare respiri profondi. Non ho neanche fatto colazione.

Nelle strade di campagna Nicolas guida veloce. Vorrei che rallentasse, che non arrivassimo mai a destinazione. Sui balconi di alcune case si arrampicano Babbi Natale giocattolo, in altre brillano le lucine. Contro il cielo azzurro svettano cime innevate. Qui non ha ancora nevicato.

Nicolas rallenta e svolta a destra. «Eccoci» dice.

Il cancello è aperto e Nicolas parcheggia accanto all’unica macchina nel vialetto. Faccio un respiro profondo prima di aprire anch’io lo sportello.

In giardino l’altalena e la cuccia sono come li ricordavo. Sopra il portone d’ingresso spicca una cometa avvolta in luci natalizie. Sull’altro lato della casa, si riconoscerà il punto in cui…? No, per fortuna Assunta apre il portone prima ancora che bussiamo.

Il nodo allo stomaco si scioglie: non andremo in taverna, non dovremo passare lì davanti. Ma cosa vado a pensare? La tragedia è loro, non mia. Loro vivono qui. Io sono solo di passaggio.

Anche se ha gli occhi arrossati, Assunta ci accoglie con un sorriso. Stringe Evelina e poi me in un abbraccio. Quando mi lascia mi guarda tenendomi per le spalle, come se mi stesse studiando, e dice: «Francesca» con lo stesso accento di Massimo. «Tutto a posto, vero?»

La cucina sa di spezzatino e la prima cosa che fa Assunta è aprire la finestra. Ci fa accomodare al tavolo, abbassa la fiamma di una pentola a pressione e mette su il caffè. Mi sfilo i guanti, ma non mi tolgo il cappotto. Neanche gli altri se lo tolgono.

Assunta prepara un vassoio. «Siete già stati a trovare Massimo?»

«Non ancora» risponde Nicolas. «Ci andiamo dopo. E voi?»

«Nel pomeriggio. Dopo pranzo, così viene anche Roberta».

«Come sta?» chiede Evelina.

«Bene, bene». Assunta si siede al tavolo. «Sta prendendo lezioni di piano. A Massimo sarebbe piaciuto».

«Sono sicura di sì» dice Evelina. Assunta allunga la mano verso di lei e gliela stringe.

Nicolas, il gomito appoggiato sul tavolo, guarda il piccolo albero di Natale a un lato della cucina. L’orologio sopra la porta segna le undici e venti.

«Anche Massimo suonava il piano?» dico.

«La chitarra» risponde Evelina.

Assunta mi sorride. «Era molto bravo, ma dopo un brutto incidente alla mano non ha più ripreso».

«Oh».

«È stato un peccato. Era molto bravo, gli piaceva molto. La chitarra dovremmo avercela ancora, è da qualche parte in soffitta».

Annuisco.

«Me lo ricordo ancora» dice Nicolas. Poi aggiunge, alternando lo sguardo tra me ed Evelina: «Volevamo arrampicarci su un albero. Mi sa che era in prima o in seconda superiore».

«Seconda» dice Assunta. «È successo poco dopo che gli hanno tolto l’appendicite. Gliel’avevo detto di stare attento».

«Era molto bravo, comunque» dice Nicolas.

Il caffè bolle. Assunta lo versa nelle tazzine e ce lo porta al tavolo. «Volete dei biscotti? Francesca?»

«No, grazie».

Mentre beviamo il caffè Assunta ci chiede dell’università e addirittura se abbiamo piani per Capodanno, a cui rispondiamo di no — Marianna mi ha invitato a casa sua, ma non so se sono dell’umore e in ogni caso penso di rimanere con Evelina. Se parliamo di Massimo assume un tono affettuoso ma distaccato, come se stessimo parlando di un vicino gentile che si è trasferito all’improvviso.

«A Toby manca molto» dice Assunta. «È capitato che non lo trovassimo per ore. Non rispondeva quando lo chiamavamo, non sapevamo che fare. Salvatore è andato a cercarlo per strada, pensavamo che fosse fuggito e che qualcuno l’avesse investito. Invece era sotto il letto di Massimo, dormiva e non voleva uscirne».

Dopo il caffè Assunta ci invita a pranzo, Nicolas risponde che aveva già detto a sua madre che saremmo andate da loro e Assunta non insiste. Al momento dei saluti abbraccia due volte Evelina e le sussurra: «Sei una brava ragazza. Fatti forza». A me accarezza la guancia dicendo: «In bocca al lupo per la laurea».

Sulla strada per il cimitero non posso fare a meno di pensare al resto della casa. Salvatore avrà rifatto il presepe nel corridoio vicino alla scala? La taverna è addobbata quanto il resto della casa? La camera di Massimo è rimasta così come l’ha lasciata?

«Assunta è un fenomeno» dice Evelina.

Nicolas si ferma a uno stop. Dopo essere ripartito e aver cambiato marcia dice lentamente: «Sa apprezzare quello che ha avuto, credo».

Incrocio lo sguardo di Nicolas nello specchietto retrovisore. Non so perché mi torna il nodo alla gola. Passo il resto del viaggio guardando dal finestrino di lato.

Il cimitero si trova su una collina. Superata una serie di curve, ci ritroviamo in un piazzale quasi vuoto. Nicolas parcheggia accanto al cancello del cimitero. Dall’altro lato c’è un chiosco di fiori.

«Che fiori compriamo?» dice Nicolas. «Crisantemi?»

«Per cosa?»

Non faccio in tempo a dirlo che me ne pento. Nicolas aggrotta la fronte, ma mi lancia solo un’occhiata di sfuggita e guarda Evelina. Evelina si slaccia la cintura di sicurezza. «Ci penso io».

Scendiamo dalla macchina. Evelina va al chiosco. Io e Nicolas rimaniamo appoggiati al lato della macchina. Incrocio le braccia al petto, lo sguardo rivolto verso il cimitero. Oltre il muro il vento muove appena le cime dei cipressi. Socchiudo gli occhi.

Quasi un anno fa, qui, il funerale. Il carro funebre. Salvatore, Nicolas, Guido e il padrino di Massimo portano la bara. Tutta la ridicola questione del vestito da indossare al funerale, il mio ritorno a casa per prendere qualcosa di adatto per me ed Evelina, le polemiche della mamma per comprarne di nuovi al volo. Il pianto sommesso di Assunta. Il giubbottino rosa di Roberta. Una zia che la tiene per mano, Roberta che dice: «Dovrebbe esserci anche Toby. Deve vederlo. Non sa dove sta andando».

Quasi un anno fa, qui. Sembra ieri.

«Stai bene?» chiede Nicolas.

La zia, una donna coi capelli corti, neri, con un bambino di qualche mese in braccio al marito e che durante il funerale è scoppiato in lacrime. La zia che risponde sottovoce a Roberta, quanto basta perché la senta anch’io: «Sta andando in Cielo».

Ma non c’è nessun Cielo. Massimo è andato a marcire dentro una bara. Non ci resterà più nulla, solo polvere e ossa. Non abbiamo neanche potuto vedere il corpo. Il viso era sfigurato, hanno tenuto la bara chiusa. A cosa stiamo lasciando dei fiori? Che importanza ha?

Nicolas mi cinge le spalle con un braccio. Trattengo un brivido, ma non dico nulla.

«È la prima volta che vieni al cimitero, vero?» Fa un respiro profondo. «È pazzesco».

«Il cimitero?»

«Quello che è successo. Un anno fa stavamo pensando di andare in un locale o prenotare una casa o addirittura andare a Roma. Chissà cosa sarebbe successo se…»

Mi libero dalla sua presa. «Che c’è?» dice lui, ma non mi volto neanche, entro spedita nel cimitero. Anziché andare alla tomba di Massimo prendo un’altra strada e mi perdo tra le vie. Una signora con i capelli grigi raccolti in una crocchia pulisce una tomba con uno straccio bagnato. «Buongiorno» le dico. Mi rivolge uno sguardo assente, poi mi fa un cenno. Vado oltre. Mi fermo di fronte alla statua di un angelo.

Cosa sarebbe successo se...? È la domanda che evito da mesi. Ho dato del mio meglio all’università. Mi sono tenuta impegnata. D’estate ho persino riallacciato i rapporti con alcune amiche del liceo pur di non trovarmi da sola, e credo di aver cominciato a pensare alla tesi inconsciamente prima ancora dell’inizio del terzo anno per la stessa ragione. Non ho lasciato spazio alle domande su Massimo. Non ho voluto lasciargli spazio. È passato quasi un anno ed ecco di nuovo la domanda, chiara come a gennaio: cosa sarebbe successo se…?

Cosa sarebbe successo se Massimo non fosse morto? Dove sarebbero le nostre vite adesso?

Sto piangendo. Mi copro la bocca per soffocare i singhiozzi. Devo smetterla, le lacrime non sono per me, sono per Evelina, Assunta, Roberta, il bambino al funerale, non per me, io non sono nessuno, non ho diritto di piangere. Massimo non esiste più. Tutto qui. È polvere. Qualunque questione in sospeso non importa. Eppure non riesco a controllare i singhiozzi e le lacrime.

Voglio lasciare Evelina. Aspettami, ok?

Mi ritrovo tra le braccia di Nicolas. Faccio per staccarmi, ma mi tiene stretta a sé. Smetto di combattere. Piango come non piangevo da anni.

«Dov’è Evelina?» biascico.

«È già alla tomba. Pensavamo ti fossi persa». Nicolas parla a bassa voce, accarezzandomi i capelli. «Barcollavi. Pensavo stessi per cadere. Cos’è successo?»

Tiro su col naso. Provo a dire qualcosa, ma ho la gola bloccata.

Dopo un po’ dice: «Torniamo da Evelina?»

Scuoto la testa. Mi libero dal suo abbraccio, cerco i fazzoletti nelle tasche. «Non così. Non può vedermi così».

«È tua sorella».

Continuo a scuotere la testa. Mi passo il fazzoletto sulle guance, poi mi soffio il naso. «Non può vedermi piangere. Era il suo ragazzo».

Nicolas fa per dire qualcosa, ma si interrompe. «Ti piaceva».

Mi ficco il fazzoletto in tasca. «Si vede che ho pianto?»

«Hai gli occhi un po’ arrossati».

Per fortuna non mi trucco di giorno. Mi incammino con Nicolas al mio fianco.

«Allora? Ti piaceva?»

Torna il nodo alla gola. Faccio un respiro profondo. «Era il suo ragazzo».

«Una cosa non esclude l’altra».

Mi squilla il cellulare. Lo prendo dalla tasca. «È Evelina». Rifiuto la chiamata e affretto il passo. «Per me sì, comunque».

Davanti al loculo Evelina dispone un mazzo di margherite variopinte. Nicolas si tocca le labbra con le dita e sfiora la foto di Massimo. Si fa il segno della croce, abbassa la testa, intreccia le dita. Muove il labiale in silenzio, probabilmente recitando una preghiera a memoria.

Incontro lo sguardo di Evelina dalla prima volta stamattina. È serena. Ho l’impressione che voglia comunicarmi qualcosa senza parlare, ma non capisco cosa. Mi sforzo di sorridere. «Hai scelto dei bei fiori» dico.

Nicolas si è allontanato. Pensavo di lasciare anch’io sola Evelina, ma mi ha preso a braccetto. Non so che fare. Continuo a rileggere il nome, il cognome, la data di nascita e di morte di Massimo, come cercando un senso, qualcosa che prima mi era sfuggito.

«Non lo sai» dice Evelina, «ma sei la mia forza».

Massimo, sulla porta di camera sua, si volta e mi guarda dritto negli occhi. Voglio lasciare Evelina. Aspettami, ok?

Evelina mi stringe la mano. «Non potrei essere qui senza di te. Non so cosa farei senza di te».

Massimo esce.

Ricambio la stretta.


Note al capitolo:
  • Il titolo è un riferimento all'incipit de La signora Dalloway.

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Capitolo 12
*** Qualcosa di speciale ***


Qualcosa di speciale

Sabato 17 dicembre 2011

«Ti spiace se…?»

Marianna solleva lo sguardo da un paio di guanti. «Ma non li hai già visti i libri?»

«Non a questo stand».

Marianna mette da parte i guanti sospirando.

«Do un’occhiata veloce, giuro» dico.

Ogni anno trovo qualcosa di speciale al mercatino di Natale. In genere si tratta di libri, vecchie edizioni fuori catalogo, ma non sempre. Ho già comprato una sciarpa di lana blu ceruleo. Se tra gli stand non facesse caldo me la terrei al collo, invece ce l’ho in borsa insieme al basco, ai guanti e alla vecchia sciarpa.

Non è una buona idea andare al mercatino di Natale di sabato pomeriggio, ma ieri avevamo lezione. Nel caos degli altri stand trovo un ritaglio di pace girando tra gli scaffali.

Libri per bambini, libri di cucina, manuali di istruzioni. Un vecchio Premio Strega. Potrebbe essere interessante… No, credo di averlo visto tra i libri di papà.

Sto leggendo la quarta di copertina di un libro di Kurt Vonnegut quando Marianna dice: «Hai deciso qualcosa per Capodanno?» Non l’avevo vista arrivare.

Scuoto la testa. «Non preoccuparti».

«Non ho fretta, era solo per sapere». Marianna pesca un libro da una pila. È un fantasy di Terry Pratchett. Marianna non legge quasi mai narrativa, perlopiù classici, e le occhiate veloci tra le librerie a cui l’ho costretta da quando ci conosciamo l’hanno abituata a non mettermi fretta.

«Non li hai più presi i guanti?»

«Ti piacevano?»

«Era una bella sfumatura di giallo».

«Sì, ma… giallo».

«Saresti la ragazza con i guanti gialli».

Marianna rimette il libro nella pila e mi supera guardando gli scaffali successivi.

«Mi sa che ho visto una sciarpa identica da H&M». Rimetto Vonnegut sullo scaffale: al liceo mi è piaciuto Mattatoio n. 5, ma la fantascienza non mi attira. «Cioè, dello stesso tessuto e dello stesso colore. Dopo se vuoi ci passiamo».

«Potrei regalarli a mia mamma. Ci devo pensare».

 Sposto un libro per vedere quelli dietro. Sono in una pila. Piego la testa di lato per leggere i titoli sul dorso.

«Oh, ecco che volevo dirti!» dice Marianna. «Chiedi anche a tua sorella se vuole venire a Capodanno. Non sarebbe un problema».

«Non lo so». Capodanno. Dopo la visita al cimitero ho ancora meno voglia di festeggiare di quanta ne avessi prima. Finisco di leggere i titoli e rimetto il libro al suo posto. «Non voglio portare a galla l’argomento. L’altro giorno la madre di Massimo ci ha chiesto se avevamo piani».

«E lei che ha detto?»

«Mmm». Mi sento lo sguardo di Marianna addosso, ma continuo a guardare i titoli dei libri senza riuscire a leggerli davvero. «Nulla, credo. Forse le sembrava irrispettoso?»

Marianna si umetta le labbra. «Avete il diritto di andare avanti con le vostre vite».

«Ce l’abbiamo?»

«Certo che ce l’avete».

Sogghigno. Marianna mi guarda scandalizzata, la fronte aggrottata e la bocca aperta. Stavolta tocca a me superarla, anche se non sto più guardando i libri.

Andare avanti con le nostre vite! Ma cosa ne sa lei? Non era lì. Non l’ha visto accadere. Non sa cosa vuol dire. Non può capire, parla a vanvera. Si impiccia e dà giudizi senza sapere, come si impicciava quando raccontava a Luca quella volta a mensa tutta la mia situazione con Massimo. Non abbiamo nessun diritto, Marianna cara. Cosa ne sai?

Prendo un libro a caso da uno scaffale e fingo di sfogliarlo. Marianna sta facendo lo stesso a qualche passo di distanza. Una ragazza che non indosserebbe nulla di appariscente come un paio di guanti gialli.

Come me, d’altronde. Perché me la sto prendendo con lei? Lei è quella che mi è stata accanto durante tutto l’anno. Mi ha aiutato a distrarmi e a studiare solo con la sua presenza. Non si merita la mia rabbia.

Dillo e basta, diceva Luca quasi due anni fa. Il problema. Quello che ti preoccupa.

Eravamo al bar, tutti e tre con lo stesso frullato. Era lo stesso giorno in cui ho visto Massimo a mensa. Conoscevo Marianna e Luca solo da qualche mese, ma alla fine di quella serata mi sembrava di aver trovato dei veri amici.

Devi avere almeno qualcuno con cui confidarti.

Con Luca i rapporti si sono raffreddati e capita solo ogni tanto che andiamo a mensa insieme, anche perché sta seguendo alcuni corsi del secondo anno e ci vediamo di meno. Ma Marianna è qui. Il giorno dopo essere tornata dal paese di Massimo non ero dell’umore per parlare. Non riuscivo a smettere di pensare alla cucina di Assunta, alla statua davanti a cui ho pianto, all’abbraccio di Nicolas, alle parole di Evelina e ai fiori per la tomba di Massimo. Anziché lasciarmi da sola credo abbia capito che era successo qualcosa e mi ha chiesto dell’incontro con la relatrice e della tesi. Mi ha distratto quanto basta da ricordarmi che ho ancora qualcosa per cui guardare avanti. Con lei posso confidarmi.

Il proprietario dello stand si avvicina a una coppia di trentenni interessati a qualche fumetto.

«C’è una cosa che non ho mai detto a nessuno» dico.

Marianna fa un passo verso di me col libro ancora tra le mani. La guardo negli occhi.

«Cosa c’è?»

Ho un nodo alla gola. Faccio un respiro profondo. Non posso crederci che lo sto dicendo davvero ad alta voce.

«Poco prima che Massimo morisse mi ha detto una cosa. Ha detto… che voleva lasciare Evelina. Che finiva sempre per avere quello che non voleva. Ha detto di aspettarlo».

Marianna stringe il libro al petto. Mi mette una mano sulla spalla. «Non c’è più».

Deglutisco a forza. «Sì, ma se…»

«Non c’è più. Non cambia nulla. Non cambia come sono andate le cose».

Marianna mi abbraccia, i libri tra di noi. Ci stanno guardando. Chissà cosa penseranno. Socchiudo gli occhi.

«Non riesco a immaginare come hai potuto vivere con una cosa del genere...»

«È Evelina, è sempre Evelina». La mia voce è quasi inudibile. «È lei che ha il diritto di piangere».

«Però» continua Marianna, «non ci puoi fare nulla. Quel che è stato è stato. Massimo è morto».

«Lo so».

Ci separiamo. Poso il libro su una pila qualunque, tiro su col naso.

«Tutto a posto?»

«Sì, non ti preoccupare». Mi strofino gli occhi. «Com’è che avevo detto quella volta? Metà di quello che succede nella mia vita è nella mia testa».

Marianna mi sorride confusa. «Quando?»

«Quella sera, al bar con Luca. Al primo anno».

«Ah sì».

«Non ci devi pensare. Passerà».

«Lo so».

Annuisco. È quello che dovevo sentirmi dire. Passerà. Quel che è stato è stato. Mi faccio travolgere dai pensieri più che dai fatti.

Faccio per uscire dallo stand, ma Marianna mi blocca. «Aspetta, voglio prendere questo». Indica il libro. Una vecchia edizione con il ritratto di una donna in copertina.

Anna Karenina.

«Oh! L’ho letto anni fa, è molto bello».

«Infatti lo volevo leggere proprio per quello, ricordavo che me ne avevi parlato bene». Marianna porge il libro al proprietario dello stand e prende dalla tasca il borsellino. «Quant’è?»

Sì, Anna Karenina mi era piaciuto molto. Leggevo un centinaio di pagine alla volta. Non ho letto molti romanzi russi, ma nessuno mi ha fatto mai un effetto del genere. L’ho finito di leggere una settimana dopo il mio compleanno, lo ricordo ancora perché…

«Sono un’idiota» dico.

«Che c’è?» chiede Marianna.

«Ho dimenticato il biglietto».

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Capitolo 13
*** Le canzoni di Massimo ***


Le canzoni di Massimo

Martedì 24 gennaio 2012

La neve vortica come polvere alla luce del sole. Sul vialetto, dove papà ha spazzato prima di andare al lavoro, già si è formato un sottile strato di neve. Un vento gelido mi entra negli occhi e mi scompiglia i capelli. Rientro in casa con un brivido. Sui guanti è rimasto impigliato qualche fiocco di neve.

Scrivo a Marianna: Resto a casa. Non me la sento di guidare. Mi sono già spogliata e messa in ciabatte quando mi arriva la sua risposta: Ok.

«Non vai più?» chiede la mamma dalla cucina.

«Non voglio rischiare».

Salgo. Evelina è chiusa in camera sua. Entro nella mia, chiudo la porta, lancio la borsa sul letto e mi fiondo al computer. Mentre si accende mi cade l’occhio sul biglietto di Massimo, nascosto tra due libri per la tesi.

Vado in biblioteca o a casa di Marianna e studio. Presento qualche idea e il frutto delle mie ricerche alla relatrice. Racconto qualche aneddoto insignificante ai miei. Dover recitare una parte mi spinge a non lasciarmi andare, ma quando sono sola non mi importa di fingere.

Ho trascorso il 2011 rifiutandomi di riconoscere i miei sentimenti, cercando obiettivi e distrazioni. Ma non è salutare, non posso sostenere più un ritmo simile, non posso recitare anche nella solitudine della mia camera.

La porta è sempre chiusa. Sfilo il biglietto, lo spiego e lo rileggo per l’ennesima volta:

 

Buon compleanno, Francesca! A meno che tu non mi stia leggendo prima del previsto, in tal caso mi rimangio gli auguri.

Non posso lasciarti ad ascoltare Coldplay, Florence and the Machine e Keane per il resto dei tuoi giorni, quindi ecco una lista di band e canzoni che penso tu non conosca (o che non ascolti abbastanza).

Funziona così: ascolta la canzone; se ti piace, ascolta il resto dell’album; se ti piace, ascolta il resto della discografia. Non sempre tutte le canzoni sono degne di note, ma è un punto di partenza per espandere i tuoi gusti musicali, no?

Una delle cose più tremende che ci possa capitare è non avere musica nuova da ascoltare. Con questa lista hai una fatalità in meno di cui preoccuparti.

Auguroni!

Massimo

 

1.    Arcade Fire – Crown of Love

2.    Muse – Invincible

3.    Mumford & Sons – The Cave

4.    Beirut – Postcards From Italy

5.    Carl Barat – So Long My Lover

6.    Sigur Ros – Hoppipolla

7.    U2 – Magnificent

8.    The Shins – Australia

9.    Athlete – Chances

10. The Tallest Man on Earth – Love is All

11. Oren Lavie – Her Morning Elegance

12. Paolo Nutini – New Shoes

13. The Smiths – Asleep

 

Le ho messe in una playlist su iTunes. Mi assicuro che il volume non sia troppo alto, clicco play e mi sdraio sul letto.

Sono giorni che ascolto sempre le stesse canzoni. Nonostante mi piacciano non ho ascoltato gli album per intero. Sarebbe troppo metodico. In fondo non mi interessa davvero espandere i miei gusti musicali. È solo un modo per renderlo presente.

Mi rannicchio. Chiudo gli occhi. If you still want me, please forgive me, cantano gli Arcade Fire.

Marianna ha detto che ho il diritto di andare avanti. Ascoltando le canzoni di Massimo invece mi prendo la libertà di tornare indietro e di immaginare.

Non c’è più. Non cambia nulla. Non cambia come sono andate le cose.

Se solo per un attimo, nella solitudine della mia stanza, con la neve che si accumula sul davanzale e il mondo che diventa bianco, facessimo finta che ci fosse ancora, che cambiasse tutto, che cambiasse come sono andate le cose.

Voglio lasciare Evelina. Aspettami, ok?

I fuochi d’artificio sono grandiosi. Prima del conto alla rovescia torniamo dentro e prepariamo i bicchieri per il brindisi. Ignoro quanto mi ha detto Nicolas e gli do un bacio sulla guancia. Lo stesso che riservo a Massimo. Ti sono piaciuti i fuochi d’artificio? chiede. Dico di sì. Non finiamo la partita a Monopoli. Giochiamo a turno alla Play Station sotto le insistenze di Guido e Nicolas. Io e Massimo ci scambiamo sguardi rubati da un capo all’altro del divano. Vorrei sentire il suo accenno di barba sul mio collo. Ho le farfalle allo stomaco. Il futuro è pieno di possibilità.

Ma Evelina? dice una voce simile a quella di Marianna. Come può funzionare con Evelina?

Tesoro, risponde Luca, lui a lei non piace. Lo fa solo per dare fastidio a te.

No, Evelina è pur sempre mia sorella. Sono stati felici insieme, ma possiamo — avremmo potuto — esserlo anche noi.

A concludere la playlist c’è Glass. Insieme alle altre di Julian Casablancas mi sono rifiutata di ascoltarla per mesi, da quando ho capito che Massimo mi piaceva davvero e che ero gelosa di Evelina e l’unica soluzione mi sembrava quella di prendere le distanze da loro, da lui, e quell’album era diventato simbolo di tutte le possibilità non colte.

Con Glass torno a quella sera di novembre. La pioggia scrosciante. Il disagio a casa di Massimo. Non ci volevo andare, ma lui era così persuasivo ed Evelina non rispondeva ai miei messaggi. In cucina a bere il tè, per cui avevo detto sì solo per non essere sgarbata. Sai chi è Julian Casablancas? È il cantante degli Strokes, ha fatto un album da solista. Voleva invitarmi a restare, ma Evelina ha chiamato. Perché ero così remissiva? Perché non lo conoscevo. Ma se non lo fossi stata…

Se quella prima sera fossi rimasta a cena da lui. Se non avessi invitato Evelina a uscire con noi. Se non si fossero baciati al cinema. Se non fosse morto.

La musica è finita da un po’. Quando apro gli occhi c’è una bufera. Evelina è seduta davanti al computer.

Mi rimetto seduta. Ho la testa pesante. Per qualche secondo devo essermi addormentata. Forse la musica è finita da più di quanto pensi.

Evelina ha in mano il biglietto di Massimo. Nella penombra non riesco a decifrare la sua espressione.

«A volte torno indietro» dice dopo un po’. «Rivivo l’anno che siamo stati insieme».

Non dico nulla.

«So che ti piaceva». Prima ancora che ribatta aggiunge: «No, non negarlo, non serve». Posa il biglietto sul tavolo. «L’ho sempre saputo».

«Non ho fatto nulla».

«Lo so».

«Il biglietto me l’ha scritto per il compleanno. Ma non l’avevo visto subito…»

Evelina si acciglia. «Non lo dico per il biglietto. Sapevo del biglietto. Massimo me l’ha detto che non volevi un regalo e che gli è venuta in mente quella cosa. È stato carino».

«E allora come?»

Evelina si siede accanto a me. I capelli le incorniciano il viso pallido nella poca luce che arriva dalla finestra. Sorride. «Siamo sorelle, no? Abbiamo un legame. Ci capiamo. Ci aiutiamo».

Mi studio le dita. Ci capiamo? Ci aiutiamo?

«Avresti dovuto dirmelo».

«A che pro?»

Evelina si stringe nelle spalle. «Non lo so». Mi mette una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Quel che è stato è stato. Però posso farti un regalo. Dammi la mano». Mi afferra la mano destra con la sinistra. Il braccialetto emana luce e calore. «Qualunque cosa succeda non mi lasciare».

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Capitolo 14
*** Una sera di novembre ***


Terza parte

Una sera di novembre

Giovedì 26 novembre 2009

È buio. Piove a dirotto. I negozi sono chiusi. Le pozzanghere riflettono le luci dei lampioni. La pioggia picchietta sull’ombrello. Per qualche istante esiste solo il ticchettio, il freddo e la luce riflessa.

Evelina, in macchina davanti al supermercato, accenna un colpo di clacson. Entro in macchina con l’ombrello zuppo. Mi allaccio la cintura di sicurezza mentre Evelina mette in moto.

«Ho aspettato per più di venti minuti l’autobus. Ho perso la cognizione del tempo…»

«Ma con chi eri?»

«Un ragazzo che aspettava l’autobus con me».

«Sei pazza? Un estraneo?»

«Non aveva l’ombrello, l’ho accompagnato a casa e…»

«È carino almeno?»

Evelina ha i capelli bagnati. Li ha legati in una coda. Una goccia le cola sulla fronte.

«Non hai fatto neanche in tempo ad asciugarti i capelli!»

«Mamma cucina, papà non è ancora tornato».

«Ti ammalerai».

«No che non mi ammalerò. Allora, è carino?»

I tergicristalli stridono sul parabrezza. Siamo ferme al semaforo. Un signore con l’impermeabile attraversa la strada a grandi falcate e corre al riparo sotto un portico.

«Non è importante. Tanto non lo rivedrò».

«Secondo me lo rivedrai eccome. Va all’università?»

«Sì, fa Filosofia».

«A maggior ragione».

Inspiro forte col naso, appoggiandomi allo schienale. «Ha detto se ci prendiamo un caffè».

«Gli piaci! Devi assolutamente rivederlo».

«Ma che dici, l’avrà detto così per dire».

«Voglio sapere per filo e per segno cos’è successo».

Scatta il verde. La macchina riparte.

«Ero sola alla fermata dell’autobus…»

«Non dirmelo, aspetta. Hai capito dove siamo?»

La strada è buia e la pioggia martella sul parabrezza, ma la riconosco. «Sulla strada verso casa».

«Sì».

Aggrotto la fronte. «Non c’è più la neve».

«Non c’è ancora». Evelina tamburella le dita sul volante. «Nevicava nel 2012, ma noi siamo nel 2009».

Dallo specchietto retrovisore ricambia il mio sguardo una versione più giovane di me di più di due anni. Ho la frangia. I capelli più lunghi. I guanti che indosso adesso non li metto più nel 2012.

«La prima volta è difficile, lo so. Pensa al passato di adesso e al passato del 2012 come due cose distinte».

«Ma non è possibile».

«Lo è».

«No, non è possibile essere qui. Adesso. In questo momento».

Mi sforzo di guardare dritto davanti a me. È tutto così reale. Un momento fa ero in camera, mi ero appisolata, nevicava. Ma un momento fa ero anche a casa di Massimo. Ho ancora il sapore del tè in bocca.

«Abbiamo viaggiato nel tempo» dico.

«Volevo fartelo vedere, così mi avresti creduto subito». Mi prende per mano. «Torniamo a casa. Lasciamo che la storia faccia il suo corso».

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Capitolo 15
*** Déjà vu e jamais vu ***


Déjà vu e jamais vu

Martedì 24 gennaio 2012

Una coltre di neve candida ha già ricoperto il vialetto. I vasi in cortile sono sagome informi. Un blocco di neve si stacca da un pino nel cortile dei vicini. Al ramo si attaccano presto altri fiocchi di neve. La bufera imperversa come prima.

Evelina è sul letto a gambe accavallate. Mi guarda con attenzione. Mi appoggio al termosifone sotto la finestra. È bollente, ma ho bisogno di un appiglio.

«Come faccio a non ricordarlo?» dico.

«Che cosa?»

«La conversazione che abbiamo avuto prima. Nel senso, non la ricordavo così».

Evelina fa un respiro profondo. «Il tempo non può essere riscritto. Quel che è stato è stato».

«Ma quella conversazione…»

Evelina schiocca la lingua. «Prendila come una parentesi. Non abbiamo cambiato nulla, no? Non abbiamo fatto un incidente. Non siamo tornate indietro. Non abbiamo interagito con altre persone. Appena ce ne siamo andate le noi del passato hanno ripreso la conversazione dove l’abbiamo interrotta. Al più con qualche secondo di ritardo».

Incrocio le braccia al petto. Il termosifone mi scalda, ma dalla finestra penetra il freddo di fuori. Nevica nel 2012, piove nel 2009. Ho viaggiato nel tempo.

«Sembrava un déjà vu». Mi mordo il labbro inferiore. È la parola giusta? «Ma anche un jamais vu. Ricordavo quello che stavo per dire perché l’avevo già detto… ma per una parte di me era spontaneo perché stava accadendo in quel momento per la prima volta. Era familiare e nuovo allo stesso tempo».

Evelina annuisce. «Il tempo è conservatore. Possiamo fare piccoli interventi che non ricorderemo, ma la storia segue il suo corso. Non possiamo cambiare quello che è stato». Si toglie un pelucco dalla manica del maglione. «Viaggiare nel tempo significa osservare. Rivivere il passato per capire meglio il presente. Vedere il futuro per trovare qual è la strada giusta da percorrere».

Tra me ed Evelina ci saranno tre metri di distanza, ma tutt’a un tratto mi sembrano miglia e miglia. Ci separano anni, conoscenze che neanche immaginavo.

«Com’è possibile una cosa del genere?»

«Il tempo ha direzioni esattamente come lo spazio. Il passato ha una direzione perché quel che è stato è stato. Il futuro ne ha molteplici perché non è ancora successo e tutto può accadere».

«Ma come facciamo a viaggiare nel tempo?»

Evelina mi viene incontro porgendomi la mano. «Sono tutte questioni che possono aspettare».

«Aspettare cosa?»

«Non vuoi vedere prima Massimo?»

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Capitolo 16
*** Il movimento impercettibile ***


Il movimento impercettibile

Mercoledì 30 giugno 2010

Sono seduta a gambe incrociate sotto un albero nel prato del campus. Il cambio di posto, di clima, di tempo, mi toglie il fiato. Un attimo fa non mi disturbava il calore del termosifone. Adesso ho la fronte madida di sudore e il sapore di birra calda in bocca.

Alla mia destra Luca spiega a Marianna il funzionamento dei braccialetti portafortuna. Hanno sostenuto l’ultimo esame del primo anno. A me tocca domani. L’ho già dato un anno e mezzo fa, ma nomi, fatti, date si rincorrono nella mia testa come su un secondo binario.

Alla mia sinistra Evelina ruota il braccialetto attorno al polso guardando con aria assente Marianna e Luca. E accanto a lei…

Massimo, con indosso dei bermuda e una maglietta di Lost, posa la lattina vuota a terra. Cinge la vita di Evelina con il braccio e le sussurra qualcosa all’orecchio. Lei sorride e lascia perdere il braccialetto.

Sembra me. Potevamo essere io e lui. In un’altra vita, con altre circostanze.

Incrocio lo sguardo di Massimo, lo sguardo da innamorato rivolto a Evelina che per un attimo sembra rivolto a me. Trasalisco. È vivo. Morirà tra sei mesi, ma ora è vivo quanto me e gli altri.

Nell’arcipelago di luci e ombre creato dalle foglie mosse dal vento, Evelina gli accarezza la guancia. Ha un accenno di barba. I capelli un po’ arruffati. Gli occhi neri. Le sue narici si muovono in modo impercettibile. Respira. Le labbra gli si increspano in un sorriso. È il ragazzo di Evelina, ma è vivo. È più reale questo del ricordo della pozza di sangue.

Il suo sguardo si sofferma di nuovo su di me. «Sei ansiosa?»

Scuoto la testa.

«Dai che andrà bene».

«Stai bene?» chiede Marianna.

«Sì, perché?»

«Sei pallida».

Scuoto di nuovo la testa.

«È solo un po’ ansiosa, tutto qui» dice Evelina.

«È il caldo».

«Vuoi prenderti qualcosa di fresco?»

«Sto bene, sono solo un po’ sovrappensiero». Mi sforzo di sorridere e gli altri tornano a parlare tra loro, mentre io pesco un libro dalla borsa e fingo di ricontrollare qualcosa.

L’esame. Sì, l’esame. Dante, Boccaccio, Petrarca. Domani ho un esame. È di questo che devo preoccuparmi.

Sfoglio il libro alla cieca. Questo è reale. L’erba che mi fa il solletico alle braccia. Le altre persone nel campus. Il chiacchiericcio di Marianna e Luca. Il respiro di Massimo.

Evelina mi prende per mano e va tutto via.

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Capitolo 17
*** I girasoli, il cipresso, la strega ***


I girasoli, il cipresso, la strega

Martedì 24 gennaio 2012

Siamo sedute sul mio letto. Sono a gambe incrociate con le spalle al muro, Evelina invece è sul bordo del letto. Stringo una tazza di cioccolata fumante. Ce l’ha fatta la mamma. È entrata e ha posato il vassoio sulla mia scrivania, sopra i libri per la tesi. «Non c’è niente di meglio di una tazza di cioccolata con un tempo del genere, vero?» Ha fatto qualche commento sulla neve e sul vialetto da spalare prima del ritorno di papà. Poi ha aggiunto, quando ha visto che non rispondevamo: «State studiando insieme?»

«Sì» ha detto Evelina.

«Brave. Aiutatevi». E se n’è andata accostando la porta con attenzione, come per non disturbarci oltre.

La mamma non ha notato la mancanza di libri aperti o il biglietto di Massimo o che ci siamo subito azzittite appena è entrata. Siamo sempre state un mistero per lei: le gemelle, perse nel loro mondo di comprensione immediata. Da bambine ero io la portavoce delle due. Crescendo ho lasciato l’incarico a Evelina.

Un sorso di cioccolata mi scotta la lingua. Evelina tiene la tazza con entrambe le mani, coprendo parte delle stelline blu.

«Cosa dicevi?» chiede Evelina.

«Ti ho chiesto da quand’è che viaggi nel tempo. Come. Perché».

«Ti ricordi la casa dei nonni?»

Annuisco. Una casetta bianca ricoperta di edera all’angolo di una lunga strada di campagna. Qualunque direzione prendessimo c’era sempre un’avventura ad aspettarci: la volta che un cane randagio ci ha seguito festoso per tutta la strada oppure la volta che una signora ci ha scoperto a curiosare nel suo fienile e anziché sgridarci ci ha mostrato le galline, le uova appena deposte e addirittura i conigli.

«L’hanno venduta» dico.

Il nonno è morto quando avevamo otto anni, la nonna tre anni dopo. Per i nostri genitori occuparsi della casa era solo un peso e comunque gli servivano i soldi. Le nostre avventure sono finite prima dell’inizio delle medie.

«L’estate tra la terza e la quarta elementare» dice Evelina, «siamo andate in un sentiero e ci siamo divise a un bivio. Tu sei andata a sinistra, io a destra».

«Stavamo esplorando. Lo facevamo sempre».

«Sì». Evelina sorride. «A sinistra c’erano delle more, vero?»

«Sì, un sentiero con delle more».

Evelina si era persa. Avevo dimenticato quella sensazione di essere sola, di essere responsabile, di non sapere più che fare — più che a eventi veri la associo a incubi a cui non riesco a dare nome o forma. Evelina è sempre stata al mio fianco.

«Ti chiamavo e non rispondevi» dico. «Eri nel bosco».

Evelina soffia dentro la tazza. Beve con calma. Deglutisce. «Stavo camminando più in fretta che potevo. Faceva caldo e non mi piaceva che ci fossimo divise. O perlomeno avrei voluto che fosse toccato a me andare nel sentiero con le more». Sorride di nuovo al di sopra della tazza. «Stavo camminando e una luce alla mia sinistra ha attirato la mia attenzione. Ho abbandonato il sentiero e ho camminato fra gli alberi. Gli insetti mi pungevano, i rami mi graffiavano. Sentivo che dovevo tornare nel sentiero, ma la luce mi spingeva ad andare avanti. Dovevo sapere da dove proveniva». Si concede un altro sorso. «Pensavo fosse un tesoro, credo, o qualcosa del genere».

Ho la mia tazza sollevata, pronta per bere, ma non riesco a smettere di guardare Evelina. «E poi?»

«Ho raggiunto il limitare del bosco. Mi sono trovata in un campo di girasoli. Al centro del campo c’era un cipresso. E sotto il cipresso c’era una strega».

Per poco non faccio cadere la tazza. «Una strega?»

Evelina ha la testa china, lo sguardo fisso sulla superfice nera all’interno della tazza. «Non lo so. L’ho chiamata io strega, ma non so se lo fosse davvero. Era una signora anziana vestita di nero con la testa avvolta in uno scialle. A ripensarci adesso è strano che non abbia pensato che fosse morta. Era sdraiata alla base dell’albero. Ai piedi dei girasoli c’era il suo bastone da passeggio.

«Gliel’ho raccolto. Mi sono avvicinata. Non ho pensato che fosse morta, ma credevo non stesse bene. Aveva la pelle ricoperta di rughe e le rimanevano pochi peli sulle sopracciglia. Di sicuro sembrava più morta che viva. Mi sono avvicinata e le ho teso il bastone. Le ho chiesto se non avesse caldo a dormire lì sotto. Non ha risposto. Ha aperto gli occhi solo quando le ho dato una pacca sulla spalla. Mi ha guardato dritto in faccia senza dire nulla, come se si fosse svegliata di colpo da un lungo sonno. L’ho aiutata ad alzarsi e le ho dato il bastone.

«Quando si è messa in piedi mi ha detto: “Capisci le esigenze delle persone, Evelina. Ti faccio questo regalo”. Mi ha preso il braccio, ha puntato il bastone contro il braccialetto e ha pronunciato una qualche formula magica. La punta del bastone e il braccialetto si sono illuminati. Quando la luce si è spenta la strega non c’era più. Ero di nuovo nel campo di grano. Non sono riuscita più a trovare né lei né il campo di girasoli e il cipresso. Pensavo me lo fossi immaginato, ma di colpo tutto era diverso… Sentivo come se avessi vissuto fino ad allora in un cartone animato. Di colpo potevo muovermi in una direzione diversa, in una dimensione diversa».

«Nel tempo».

Evelina annuisce. «Ho dovuto imparare tutto da sola. È per questo che non te l’ho detto subito. Volevo capire come funzionava… e poi avevo paura che non dovessi dirlo, che fosse incluso nel patto con la strega».

«Posso vederlo?»

Evelina prende la tazza dal manico e mi allunga il braccio sinistro. Rimango con la mia tazza tra le mani e le spalle contro il muro. Il braccialetto sembra un braccialetto portafortuna qualunque: dei fili colorati sbiaditi tra cui risalta la parte bianca.

Aspetta, ma com’è possibile che ce l’hai da quando eravate bambine? aveva detto Luca.

Perché?

Perché si rompono facilmente.

«Quindi è sempre stato lo stesso» mormoro. «Quindi… quindi è magico».

«Direi di sì». Evelina riprende la tazza con entrambe le mani e beve ancora qualche sorso. Seguo il suo esempio.

Dopo aver finito la cioccolata stiracchio le gambe. Mi si sono intorpidite. Aspetto che il formicolio passi prima di alzarmi e posare la tazza vuota sul vassoio. Mi affaccio alla finestra: la bufera si è fermata. Il paesaggio è candido e immobile come in un quadro. Sotto il pino, dove la neve non è arrivata, zampettano due passerotti.

«Perché me lo stai dicendo solo adesso?»

«Te l’ho detto, è un regalo. Da quando siamo tornate al cimitero sei diventata distante». Sospira. «Se c’era qualcosa di positivo nella morte di Massimo era che ci aveva avvicinate, e invece sono settimane che ti chiudi qui dentro». Anche Evelina si alza. Posa la sua tazza accanto alla mia, entrambe bianche con stelle blu, indistinguibili l’una accanto all’altra. Sfiora il biglietto di Massimo. «Torneremo indietro tutte le volte che vuoi. Non puoi cambiare il passato, ma potrai rivedere Massimo. E quando ti sentirai pronta a dirgli addio per sempre farai tu un regalo a me. Ti darò il braccialetto e andrai nel futuro».
 



Note al capitolo:
  • Il titolo è un rimando a Il leone, la strega e l'armadio, uno dei libri de Le Cronache di Narnia.

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Capitolo 18
*** 23 marzo ***


23 marzo

Mercoledì 25 gennaio 2012

Ieri la mamma ci ha interrotto. Dovevamo aiutarla a spalare il vialetto prima del ritorno di papà e prima che ricominciasse la bufera. Quando ho cercato di riprendere l’argomento Evelina mi ha detto solo: «Non c’è fretta. Prenditi il tuo tempo. Fai una lista».

Non ho dormito granché stanotte. Ogni volta che stavo per prendere sonno mi tornavano in mente gli eventi della giornata. Evelina viaggia nel tempo. Ha un braccialetto magico. Adesso Massimo è morto, ma c’è un periodo che va dal 26 novembre 2009 al 31 dicembre 2010 in cui le nostre vite si sono intrecciate e lui è vivo. Posso rivivere ognuno di quei momenti.

A colazione Marianna mi scrive che va a casa di Chiara e Annalisa a studiare e se voglio aggiungermi. Papà ha messo le catene alla macchina, hanno sparso il sale per le strade e si circola più facilmente, ma le rispondo di no. Non mi va di guidare con la neve. Vediamo nei prossimi giorni? L’esame si avvicina e dovrei concentrarmi sullo studio, per non parlare della tesi, ma cosa importa? Evelina viaggia nel tempo. Ho nuove priorità.

Dopo essermi lavata e vestita ci provo a cominciare a studiare, ma dopo qualche riga mi ritrovo a bussare alla porta di Evelina.

«Avanti».

Entro. Al contrario mio lei sta studiando. La lampada è accesa. Il tavolo è disseminato di libri e appunti. Sullo schermo del computer c’è un salvaschermo colorato. Come può studiare e vivere una vita qualunque con un potere simile?

Ha i capelli legati in una coda. Si allontana una ciocca di capelli dal viso. «Dimmi».

«Non capisco». Sono appoggiata contro la porta. «Perché devo scegliere tutto adesso? Non possiamo tornare dopo nel passato?»

«Il braccialetto ha i suoi limiti» dice Evelina. «È il braccialetto che definisce il limite. Posso viaggiare da quel pomeriggio con la strega in poi. Non prima. Sarà lo stesso per te. Quindi quando ti darò il braccialetto non potrai più rivedere Massimo».

«Ma perché?»

«Perché il viaggio nel tempo ha bisogno di una costante. Senza il braccialetto non potresti tornare nel presente. Se per esempio tornassi indietro a quando avevo cinque anni rimarrei bloccata lì».

Mi siedo sul letto. Evelina si rigira l’evidenziatore tra le mani.

«Non puoi andare tu nel futuro?»

«È una cosa che devi fare tu». Evelina mette l’evidenziatore in mezzo a un libro. «Il passato non può essere cambiato, ma il futuro sì». Stringe le labbra. «Vuoi saperlo davvero adesso?»

«Che succede?»

«Non vuoi rivedere prima Massimo?» C’è una nota di rancore nel modo in cui lo dice.

Non è uno scambio di regali, è un patto. Io vado nel futuro per Evelina, Evelina mi concede di rivedere Massimo.

«Voglio sapere a cosa vado incontro».

Evelina fa un respiro profondo. «Sono il primario di turno durante un’operazione a cuore aperto, ma non è la prima che eseguo. Non sono nervosa, non dovrebbero esserci complicazioni. Ho rassicurato i familiari del paziente. Ho spiegato alla moglie e alla figlia che non è un’operazione semplice, ma che le persone sopravvivono, le percentuali sono dalla nostra. Sono il miglior medico dell’ospedale. Non c’è ragione di credere che andrà male.

«In sala operatoria conosco il personale, conosco la procedura. Non sono affatto nervosa. So che andrà bene, me lo sento nelle ossa. E poi c’è un momento… non ricordo cosa devo chiedere. Fisso il cuore pulsante del paziente e non ricordo quella parola. E con quella parola mancante in quel momento mi sfugge anche il resto, come una pedina del domino che fa cadere le altre. Cosa non ricordo? Cosa mi serve? Cosa sto facendo?

«È stata una questione di secondi. Sembrava durassero un’eternità, ma per fortuna è stata solo una questione di secondi. Le parole sono tornate da me e l’operazione è andata bene». Evelina sorride tra sé e sé. «Non capirai mai il sollievo che ho provato… Pensavo di essermi persa, di non sapere più chi ero, ma ero lì, sapevo di nuovo cosa fare, ero salva. Sì, l’operazione era andata bene. Avevo salvato un’altra vita. Non avevo ragione di preoccuparmi di nulla.

«Ho trentasei anni, quasi trentasette, quando lo scopro» conclude Evelina. «Il 23 marzo 2027 mi diagnosticano l’Alzheimer precoce. Non so cosa succederà dopo».

La luce della lampada lascia in ombra parte del viso di Evelina. Posso immaginarla in camice bianco, tra più di quindici anni. Nella mia camera ci sono i libri degli esami e della tesi, di cui ho bisogno per il futuro prossimo. Nella camera di Evelina ci sono libri di medicina. Evelina guarda molto più lontano.

Si alza e si affaccia alla finestra. «Ho bisogno che tu vada nel futuro, più avanti che puoi. Cerca un medico. Chiedi una cura o un modo per prevenire l’Alzheimer precoce. Se fai le scelte giuste avrai una vita lunga e sana davanti a te. Io non riesco a capirlo, ma tra trenta, quaranta, cinquant’anni avranno trovato una cura o un modo per prevenirlo».

Voglio fare ricerca, ha detto quella sera Evelina. Voglio trovare cure per malattie serie, non malanni.

Non so cosa dire. Fino a poco fa rivedere Massimo sembrava così importante. Ieri a quest’ora ascoltavo Glass e immaginavo di essere di nuovo lì, quella sera. E ieri ero a pochi passi dall’appartamento di Massimo dopo quel primo incontro. Mi gira la testa.

«Da quanto lo sai?»

«Da un po’».

«Ma è da una vita che parli di studiare Medicina. L’hai sempre saputo».

Evelina si acciglia. «Le due cose non sono collegate».

«Ma quella volta, la prima sera con Massimo, hai detto che volevi fare ricerca. Lo sapevi». Sussulto. Non sapeva solo questo. «Sapevi anche che Massimo sarebbe morto».

«Certo che non lo sapevo» dice Evelina. «Non viaggio spesso nel futuro. Non sapevo di Massimo. L’unica volta che l’ho fatto ho scoperto che mi sarei ammalata».

«Ma perché non vai nel futuro tu, a cosa ti servo io?»

«Non è così semplice. Mi ritroverei nel corpo di una malata di Alzheimer, capisci? E poi dubito che troveranno una cura prima che muoia. Non posso correre il rischio. Tu hai più margine d’azione».

Annuisco. C’è ancora qualcosa che non mi quadra, però.

«Hai detto che eri… sarai il primario di turno in sala operatoria. Ma non volevi fare ricerca?»

Evelina si volta di scatto. «Francesca, morirò. E lo sai come colpisce l’Alzheimer? Morirò e neanche me ne renderò conto».

Si siede accanto a me. A capo chino, la voce le trema mentre mormora: «Massimo è morto, ma io sono ancora viva. Il passato non può essere cambiato, ma il futuro sì». Si allontana una ciocca di capelli dal viso. «Te l’ho detto, è semplicissimo. Vai nel futuro, più avanti che puoi. Cerca un medico. Chiedi una cura o un modo per prevenire l’Alzheimer precoce. Memorizzalo e torna nel presente. Non vuoi salvarmi?»

«Saprò qual è il mio futuro».

«Non è ancora avvenuto. Sapere qual è il futuro non aiuterà solo me, aiuterà anche te a fare le scelte migliori». Intreccia le sue dita con le mie. «Ho bisogno dell’aiuto di mia sorella. Non posso chiederlo a nessun altro».

C’è la Francesca di novembre 2009 che torna a casa dopo una giornata all’università terminata con un incontro improbabile e c’è la Francesca di giugno 2010 che scopre nuovi sentimenti, la gelosia per sua sorella e l’amore per un ragazzo che non avrà mai — i ricordi di entrambe vividi nella mia memoria. C’è la Francesca di gennaio 2012 che convive con un lutto in un mondo di responsabilità e aspettative che sembra meno reale del resto e c’è la Francesca del futuro che potrebbe salvare la vita di sua sorella. Mi sento fuori da me stessa.

«Lo farò».

«E Massimo?»

«Voglio vederlo solo un’ultima volta. Mi basta solo una volta».

«Quando?»

«La sera che è morto».

Evelina studia la mia espressione. «Il passato non può essere cambiato» dice con calma.

«Lo so. Ma se non lo vedo morire un’altra volta continuerò a pensare che sia vivo, da qualche parte, e che possa tornare da lui. Voglio dirgli addio».

«D’accordo».

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Capitolo 19
*** Un bravo ragazzo va a morire ***


Un bravo ragazzo va a morire

Venerdì 31 dicembre 2010

Siamo in un corridoio buio. La porta che dà sulla taverna è socchiusa: ci arrivano un ritaglio di luce e le voci degli altri. Evelina accende un paio di interruttori. «Guarda» dice.

Tutto lo spazio tra l’attaccapanni e l’inizio delle scale è occupato da un tavolo con un presepe. Il sentiero per i re magi è disseminato di sassolini, al posto dell’erba c’è del muschio. Le statuine sono tutte della stessa misura, a parte qualche minuscolo zampognaro su delle montagne accartocciate. Le luci che simulano le stelle sono fioche, si accendono e si spengono alternativamente. Al posto del fuoco brillano lucine rosse. C’è persino un fiume con dell’acqua vera che scorre.

«Wow».

«Il padre di Massimo va matto per questo genere di cose». Evelina fa un sorrisetto.

Saliamo le scale.

«Va bene da adesso?» dice Evelina.

«Sì».

«Dimmelo tu quando vuoi andartene».

Mi mostra la camera in cui dormiremo, la seconda porta a sinistra. Mi cambio e torno dagli altri.

Una parte di me vive la serata per la prima volta: mi travolgono l’imbarazzo prima della cena, l’irritazione per le foto di Cristina, l’incertezza nei confronti di Nicolas e lo sforzo di trattare Massimo come un amico qualunque. Un’altra parte di me vive queste cose per la seconda volta: non mi preoccupano l’imbarazzo con tre persone appena conosciute o le foto che Cristina pubblicherà su Facebook perché so che a fine serata nessuno penserà più a me e Cristina terrà le foto per sé, così come non mi preoccupa l’atteggiamento di Nicolas o la possibilità che Massimo possa pensare che mi piaccia più di un amico. Forse l’atteggiamento affabile che ha con Evelina non è casuale. Hanno litigato? Da quanto tempo Massimo pensa di lasciarla? In fondo quello che mi dirà in camera sua non può averlo improvvisato.

Alle dieci e mezza finiamo di mangiare. Dopo aver sparecchiato giochiamo a Monopoli. Alle undici e trentacinque decidiamo di fermarci e di riprendere dopo la mezzanotte. Evelina tira fuori dal frigo un tiramisù fatto in casa e apre il mio panettone.

Con la scusa di andare in bagno lascio la taverna, il brusio della tv, il vocio degli altri, il tintinnare dei piattini e dei cucchiaini e mi avvio nel corridoio su per le scale.

Entro in camera di Massimo per sbaglio e di proposito allo stesso tempo. La Francesca del 2010 esita. La Francesca del 2012 socchiude la porta e aspetta mentre la Francesca del 2010 si guarda intorno.

Le scarpe e le infradito che spuntano da sotto il letto a due piazze. Le cianfrusaglie sul tavolo, il portatile, il televisore, i libri dell’università. Gli scaffali con i libri, i cd e i dvd. I poster sulle ante dell’armadio. L’oggetto più insignificante è così carico di significati a distanza di anni. Massimo non sposterà più questi oggetti. È tutto quello che resterà di lui ai suoi cari.

Sotto gli scaffali e sopra la scrivania c’è la bacheca. La Francesca del 2010 soppesa a uno a uno ogni biglietto, scontrino, segnalibro, ritaglio di giornale e foto prima di arrivare alle foto con Evelina. Sorridono, ridono, si baciano.

Questo è quello che non ho avuto e che non avrò. C’è stata Evelina al mio posto.

«Che fai, stai curiosando?»

Trasalisco. Massimo, appoggiato allo stipite della porta, ha le braccia incrociate al petto e un’espressione esageratamente seria. È come l’ho sognato. Solo che adesso è più vivido che mai.

Mi sforzo di sorridere. «Beccata».

Massimo si chiude la porta alle spalle e accenna con la testa verso gli scaffali. «C’è qualcosa che ti piace?»

Si mette accanto a me. Scorro i libri con lo sguardo come se non li avessi già visti tutti prima, come se non li avessi imparati a memoria a forza di ripensare a questo momento. «Ho sempre voluto leggere Foer. Com’è?»

«È meglio Ogni cosa è illuminata. Ma quello me l’hanno prestato, non ce l’ho…» Trattiene una risata.

«Che c’è?»

«È buffo. Finisco sempre per avere quello che non voglio».

Mi corre un brivido lungo la schiena. L’avevo ipotizzato già allora: adesso però lo so per certo che non sta parlando di libri. «Qual è il tuo Harry Potter preferito?»

«Come ti sembrano gli altri?»

«Gli altri?»

«I miei amici».

Mi stringo nelle spalle. «Sono simpatici. Anche se vorrei nascondere la Reflex a Cristina».

«Esagera, eh?»

«Un po’».

«E Nicolas?»

«È simpatico».

Massimo annuisce. Sento la sua presenza. Il suo respiro. L’odore dello shampoo. È vivo. Tra mezz’ora sarà morto, ma ora è vivo. Se lo toccassi potrei sentirgli il cuore battere.

«È meglio che torniamo dagli altri, no?» dico.

Massimo sembra riscuotersi da un sogno. «Sì, hai ragione». Mi precede verso la porta, ma prima di aprirla si volta. Mi guarda dritto negli occhi. «Voglio lasciare Evelina».

L’ha detto, l’ha detto di nuovo, per davvero. Sta succedendo di nuovo.

«Perché?» Esito. «Perché lo stai dicendo a me?»

Massimo trattiene una risata. «Lo sai». Mette la mano sulla maniglia. «Aspettami, ok? Ci vediamo fuori». Esce.

Il cuore mi batte all’impazzata. Mi tremano le mani. Non può essere già passato, non posso far passare il momento così, senza nemmeno provare a renderlo memorabile. Faccio un respiro profondo, spengo la luce ed esco anch’io.

Sono le undici e quarantasette quando torno in taverna. Il volume della tv è alto. Sul tavolo tra i soldi e le proprietà del Monopoli ci sono piattini sporchi e qualche bicchiere. L’unica rimasta dentro è Evelina, che si sta abbottonando il cappotto.

«Ma dov’eri finita?» dice. «Ti ho tagliato una fetta di tiramisù, la vuoi? Dopo, però. Mettiti il cappotto e vieni fuori, ci sono i fuochi d’artificio». Si infila l’ultimo guanto.

«Aspetta, aspetta». Ho il fiatone, come se avessi corso. Tra meno di dieci minuti morirà, morirà di nuovo.

«Andiamocene».

«No, aspetta». Prendo Evelina per il polso. «Torniamo indietro di dieci minuti. Ti prego, ti prego. L’ultima volta».

«Non cambierà nulla. Il passato non può essere cambiato».

«Lo so, lo so».

Evelina sospira. «L’ultima volta».

 

Socchiudo la porta della camera di Massimo.

Le scarpe e le infradito che spuntano da sotto il letto a due piazze. Le cose sul tavolo. Gli scaffali ricolmi di libri, cv, dvd. I poster sulle ante dell’armadio. Le foto con Evelina…

No, no, non devo farmi travolgere dal passato. Non posso perdere tempo rileggendo titoli imparati a memoria.

Afferro Molto forte, incredibilmente vicino. Leggo la quarta di copertina.

«Che fai, stai curiosando?»

Massimo, appoggiato allo stipite della porta, ha le braccia incrociate al petto e un’espressione esageratamente seria.

«Be…» Mi schiarisco la gola. Ho la voce che trema. «È bello Foer? Ho sempre voluto leggerlo».

«È meglio Ogni cosa è illuminata. Ma quello me l’hanno prestato, non ce l’ho…» Trattiene una risata.

«Che c’è?»

«È buffo. Finisco sempre per avere quello che non voglio».

Mi corre un brivido lungo la schiena. È fatta, ho già cambiato qualcosa. Chiedigli a cosa si riferisce. Sappiamo entrambi che non si riferisce ai libri.

«Qual è il tuo Harry Potter preferito?»

«Come ti sembrano gli altri?»

«Gli altri?»

«I miei amici».

Mi stringo nelle spalle. «Sono simpatici. Anche se vorrei nascondere la Reflex a Cristina».

«Esagera, eh?»

«Un po’».

«E Nicolas?»

«È simpatico».

Massimo annuisce. È ancora alla porta. Non stiamo guardando i libri, ci guardiamo dritti negli occhi. Ho già cambiato qualcosa. Non sono cambiamenti gravi, non più delle conversazioni tra me ed Evelina. Non sto cambiando la storia. Questi sono cambiamenti che il tempo può sostenere.

«Senti…» Accosta la porta chiudendola senza far rumore. «Voglio lasciare Evelina».

«Perché? Perché lo stai dicendo a me?»

Massimo trattiene una risata. «Lo sai». Mette la mano sulla maniglia. «Aspettami, ok? Ci vediamo fuori».

Il cuore mi batte all’impazzata.

«No, aspetta un attimo».

«C’è mio padre che mi aspetta per i fuochi d’artificio».

Mi tremano le mani. «Dammi un minuto. Non cambierà nulla, un minuto non cambierà nulla».

Massimo lascia la maniglia. «Non ti senti bene? Sei pallida».

«Non puoi lasciarmi così». Stringo i pugni. Vorrei distogliere lo sguardo, ma questi sono gli ultimi momenti che ho con lui. «Non lo so perché lo stai dicendo a me che vuoi lasciare Evelina. Non lo so chi sto aspettando. Non lo so cosa vuol dire che finisci per avere sempre quello che non vuoi. Devi essere chiaro. Non puoi andartene senza avermi dato una spiegazione».

Massimo sorride. Lo stesso sorriso sghembo che ha riservato ai miei gusti musicali quella sera e quella volta in biblioteca quando ha visto che sottolineavo Anna Karenina. Un sorriso ironico, saccente, irritante. Quando parla però lo fa con dolcezza, senza ironia: «Sei sempre stata tu. Volevo stare con te sin dall’inizio. Pensavo l’avessi capito».

«No» dico con un filo di voce.

«Quella volta alla fermata dell’autobus avevo l’ombrello in borsa. Erano settimane che volevo attaccare bottone. Ti vedevo ogni tanto in giro per l’università, ma eri sempre in compagnia. Anche con tua sorella, sì, ma vi distinguevo al volo anche senza conoscervi. Tu avevi qualcosa di diverso, di più delicato…» Fa un gesto vago con la mano. «Certo, detta così sembro uno stalker, ma non ti ho mai seguita, davvero, ti ho solo notata. Mi incuriosivi. Quando ti ho visto da sola alla fermata dell’autobus mi sono detto ora o mai più, questa è la mia occasione».

Mi sforzo di respirare. Sto stringendo così forte il libro che starò lasciando i segni delle unghie sulla copertina. «Ma al cinema, quando siamo usciti, hai baciato lei, non me».

«Che?» Massimo aggrotta la fronte. «Non è vero. Ogni tanto mi faceva il solletico durante il film, ma non ci siamo mica baciati. Te l’ha detto lei? La prima volta che ci siamo baciati era a casa mia, ne sono sicuro».

Apro più volte la bocca senza dire nulla. «Non capisco».

«Non mi fraintendere, Evelina è fantastica. Ma più sto con lei più mi assilla la stessa domanda: perché non sto con la ragazza con cui ho parlato alla fermata dell’autobus? Quella riflessiva, che non impone la sua presenza, che sottolinea i libri con una matita sottile? Evelina non è così. Mi spinge di continuo. Ci tiene più lei che mi laurei in fretta che i miei…

«All’inizio pensavo che non ti piacessi, che ti mettessi a disagio. Evelina invece diceva sempre la cosa giusta al momento giusto, è stata quasi una conquista facile. Poi però ho cominciato a notare altre cose. Per dire, lei voleva sempre combinarti appuntamenti con ragazzi che secondo me non facevano per te — Nicolas compreso, te l’avrà detto? —, mentre tu eri sempre più schiva… E poi ho capito: eri gelosa. Volevi stare con me tanto quanto io con te ed Evelina lo sapeva».

«Massimo, dove sei?» Evelina lo chiama in fondo al corridoio. «Tuo padre ti aspetta! È quasi ora». Il rumore di passi aumenta.

«Non me lo sto inventando, vero? Vuoi stare anche tu con me?» dice Massimo a bassa voce. «O meglio, vogliamo provarci? Uscire. Solo noi due».

«Sì».

Gli occhi gli brillano. Mette la mano sulla maniglia. «Allora aspettami». Apre la porta e si trova davanti Evelina.

«Tuo padre ti vuole». Alterna lo sguardo tra me e lui. Aggiunge rivolta a me: «Non vorrai perderti i fuochi d’artificio, vero? È quasi mezzanotte».

«Ci vediamo fuori». Massimo supera Evelina senza guardarmi e corre giù per il corridoio.

Rimetto il libro sullo scaffale. Uscendo spengo la luce e mi chiudo la porta alle spalle. Precedo Evelina giù per le scale. Mi metto cappotto, basco, guanti e sciarpa.

«Non fare Cassandra» dice Evelina.

Annuisco.

Usciamo insieme. Il freddo mi punge le guance, ma non ci faccio caso.

Stavolta rimango accanto a Evelina. Nicolas mi lancia qualche occhiata, ma non dice nulla. Toby abbaia dentro casa quando i primi fuochi d’artificio cominciano e illuminano il cielo di rosso, giallo, blu.

Il padre di Massimo accende una stella filante a Roberta. Massimo si alza, solleva il pollice e sorride verso di me. «Il prossimo è il nostro». Fa un passo indietro.

«Mancano tre minuti».

«Ma ce la facciamo?»

«Che ansia».

Lo scoppio è vicinissimo. Mi fischiano le orecchie, ma non ho ceduto alla tentazione di coprirle. Evelina mi abbraccia in lacrime, mi si appende al collo tanto da farmi male. «Oddio oddio oddio» sussurra. Le nostre mani si cercano senza che ci diciamo nulla. L’ultima cosa che vedo è la pozza nera attorno alla testa di Massimo che diventa rossa.

 



Note al capitolo:
  • Il titolo è un riferimento alla 6x07 di Doctor Who, intitolata A Good Man Goes to War.

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Capitolo 20
*** Sostiene Evelina ***


Sostiene Evelina

Mercoledì 25 gennaio 2012

«Ricorda, non potrai togliertelo più». Evelina mi annoda il braccialetto al polso sinistro. «Lo vedi?»

Aveva ragione, è come una nuova direzione. Viaggiando nel tempo con Evelina mi ritrovavo catapultata da momento a momento, mentre ora che ho io il braccialetto vedo le strade. Mi rigiro il braccialetto attorno al polso. Posso muovermi nel tempo oltre che nello spazio. Posso muovermi lungo la mia vita.

Annuisco.

Evelina è seduta accanto a me sul mio letto. Mi guarda accarezzandosi il polso. «Quando pensi di andare?»

Mi sento come quando avevo otto o nove anni. Ero io la sorella maggiore. A me era spettato il nome della nonna già morta, a Evelina quello della nonna in vita. Delle due ero io quella che faceva da portavoce. Trovavo il coraggio nella paura di Evelina. Quand’è che le cose si sono invertite?

Mi alzo. Cammino verso la finestra mettendo un piede davanti all’altro. È così che si cammina nello spazio. Ma se mi concentro posso muovermi anche su un altro piano, nel tempo.

Per un attimo mi sembra di vedere l’arancio in fiore e i petali bianchi nel nostro cortile, ma è solo questione di un attimo. La neve è abbagliante nel suo candore.

«All’inizio è strano, lo so».

Da sotto il pino prendono il volo tre colombi. Parte della neve sul giardino è crollata sul vialetto e le ruote della macchina di papà hanno lasciato il segno.

«Francesca?»

Mi volto. «Tredici anni».

«No, è troppo presto» dice Evelina. «Almeno venticinque. Meglio trenta». Abbozza un sorriso. «Non devi avere paura del futuro. Non c’è nulla di male per te».

«Prima che vada devo dirti una cosa».

«Dimmi».

«In camera di Massimo ho cambiato il passato».

Evelina sgrana gli occhi, poi scuote la testa. «No, non l’hai cambiato. Massimo è morto. Te l’ho detto, il passato non può essere cambiato».

«Abbiamo parlato più di quanto avessimo parlato la prima volta».

«Lo immaginavo». Sospira. «È per questo che ho acconsentito a tornare indietro una seconda volta. Immaginavo che volessi un senso di chiusura. Ma non hai potuto dirgli dei fuochi d’artificio, no? È questo quello che conta. Hai ritardato la sua morte di qualche minuto, ma è morto comunque».

Mi appoggio al termosifone. Devo fare un respiro profondo per controllare la mia voce. «Mi ha detto che quella prima sera non vi siete baciati».

«Quando?»

«Al cinema, la sera che l’hai conosciuto».

«Mmm». Evelina aggrotta la fronte. «Mi sembrava di sì. Se devo essere sincera non ricordo. Che differenza fa?»

«Fa tutta la differenza, Evelina!» La mia voce si spezza. «T-tu me l’hai detto che vi siete baciati. La sera stessa. Tornavamo a casa e mi hai detto che vi eravate baciati, che il mondo non poteva stare ai miei comodi. Non te lo ricordi?»

Evelina accavalla le gambe, intreccia le dita sul ginocchio. «Sì, hai ragione. Ma che differenza fa? Non avevi detto anche che non ti piaceva in quel senso, che per te era solo un amico, che non era un appuntamento? Ti avevo anche proposto di passarti a prendere dopo e tu hai detto di no, se ricordo bene».

Mi mordo il labbro inferiore. Mi tengo al termosifone per cercare di rimanere immobile e di sostenere lo sguardo di Evelina. Gli occhi mi si inumidiscono, ma non piangerò.

«Sai cosa mi ha detto Massimo prima di morire?»

«Come posso saperlo?»

«Mi ha detto che voleva lasciarti. Mi ha detto di aspettarlo».

Evelina inarca un sopracciglio. «Ti piaceva davvero, lo so».

«Perché non mi ascolti?» grido. Abbasso la voce dicendo: «Lui mi ha detto che voleva lasciarti. Voleva stare con me e poi è morto. Voleva stare con me sin dall’inizio, ma tu mi hai detto che vi eravate baciati, mi sono fatta da parte e si è accontentato di te».

«Accontentato?» sbotta. «Perché saremmo dovuti stare insieme se non ci fossimo amati? Stai vivendo nel passato perché non sai accettare il fatto che…»

«Non sai cosa significa, Evelina». Sto tremando. Una lacrima mi scorre sulla guancia. «Non sai cosa significa ignorare quello che provo. Ignorare i miei sentimenti per amor tuo, perché credevo davvero che foste felici insieme. Quando è morto mi sono sentita morire anch’io, lo sai? Ho scoperto che i miei sentimenti erano contraccambiati e dieci minuti dopo era morto, era tutto finito, e non sono riuscita nemmeno a piangere, ci credi? Non ho pianto per te, perché non era giusto, perché era il tuo ragazzo ed eri tu quella in lutto, non io, la mia era solo una fantasia, eri tu quella che soffriva, no? A volte il dolore era così forte da togliermi il respiro, ma eri tu quella che soffriva, dovevo essere forte per entrambe, era questo che mi ripetevo. E invece mi hai mentito sin dall’inizio. Come hai potuto fare una cosa del genere a me, a tua sorella? Come hai potuto?»

Le lacrime mi offuscano la vista. Sono in preda ai singhiozzi.

«Pensi davvero che sarei stata capace di una cosa simile?»

«No, non lo penso. Lo so». Torno ad appoggiarmi al termosifone. Non so come faccio a stare in piedi. Non mi sento più le gambe. «Ogni volta che eravamo vicini hai cambiato il passato. Hai mentito sul bacio e lo sai bene. E quando era deciso a lasciarti e non c’era nulla che potessi fare per fargli cambiare idea l’hai ucciso. Perché doveva morire? Perché?»

«Mi credi davvero così cinica?»

«Perché doveva morire, dimmelo, perché?»

«Era un fuoco d’artificio con una miccia difettosa. Come posso essere responsabile di una cosa simile?»

«Già». Mi sfugge una risatina isterica. «Mi chiedo quante volte sei tornata indietro per assicurarti che comprassero quel fuoco d’artificio. O quante volte sei tornata indietro per assicurarti che lo accendesse Massimo e non suo padre».

«È ridicolo. Quante volte te lo devo dire? Il passato non può essere cambiato. Ora che hai il braccialetto lo puoi vedere da te: il passato è una strada a senso unico, è il futuro che è pieno di possibilità. Non lo vedi?»

«Se tornassi indietro il passato sarebbe presente. E il presente cambia a seconda della mia volontà. Sapevi che sarebbe morto e non hai fatto nulla per impedirlo. E non hai fatto nulla per impedirlo perché l’hai voluto tu. Era la tua ultima risorsa. A quel punto solo la morte poteva separarci. O la mia o la sua». Mi sforzo di respirare. Mi asciugo le lacrime con la manica del maglione. «Quello che non capisco è perché doveva morire, perché non ci volevi insieme. Cosa sarebbe successo di così brutto? Dimmelo e basta, Evelina». Tiro su col naso. Evelina continua a non rispondere. «La cosa peggiore è che nonostante tutto ti voglio un bene dell’anima. E pensavo mi volessi bene anche tu. Non posso crederci che hai potuto farmi una cosa del genere. A me, a tua sorella. Pensavo ci aiutassimo a vicenda. C’è mai stato un briciolo di verità in quello che mi hai detto?»

Evelina è a capo chino e sta piangendo in silenzio.

«Il 23 marzo 2027 mi diagnosticano l’Alzheimer precoce» mormora. «È vero e non c’è nulla che io possa fare per impedirlo. Non importa quante volte torni indietro, quante cose cambi nella mia vita. La diagnosi non cambia. Morirò, Francesca, e neanche me ne renderò conto. Sai che significa poter viaggiare nel tempo, poter cambiare qualunque cosa, poter salvare le vite degli altri e non riuscire a impedire l’unica cosa che mi importa davvero?»

«Massimo non doveva morire».

«Invece sì». Evelina mi guarda negli occhi. Le sue sono lacrime di rabbia. «Ti portavo con me nei viaggi nel tempo all’inizio. Non era il mio segreto, era il nostro. Eppure tu non volevi andare troppo lontano. Quando ti ho detto che avevo scoperto che sarei morta di Alzheimer precoce avevamo sedici anni. Eravamo in questa stessa stanza, su questo stesso letto. Ti ho ceduto il braccialetto e ti ho chiesto di andare nel futuro per me. Sei andata nel futuro, qualche anno dopo la mia morte, e non c’era ancora una cura. Sei andata più avanti? No, non hai voluto farlo. Perché? Perché qualcosa su cui non potevi intervenire sarebbe successa a Massimo e non volevi saperne di più. Volevi dimenticare.

«Sai cosa significa essere tradita da tua sorella? Non da una migliore amica, ma da tua sorella. Sarei morta e a te non sarebbe importato. Non ti importava abbastanza da anteporre la mia felicità alla tua. E per che cosa? Per un ragazzo qualunque. Un ragazzo che hai incontrato per caso».

«Non era per caso».

«Era per caso. È tutto per caso, accade tutto per caso…»

«Mi aveva già visto e cercava l’occasione giusta per parlarmi».

Ma Evelina non mi sta ascoltando.

«Era un bivio, cazzo. Non doveva toccare a me. Se in quel sentiero fossi andata io a sinistra e tu a destra. Se non ci fossimo separate. Se fossimo andate insieme a sinistra. Se la nonna si fosse svegliata e ci avesse impedito di uscire. Se su quel sentiero non avessi seguito la luce».

«Potevi tornare indietro e cambiarlo».

«Cambiare cosa? Non potrei viaggiare nel tempo. E aspetterei quel giorno come un condannato al patibolo, senza poter fare nulla per impedirlo».

Trattengo il fiato. È così chiaro adesso. «Non c’era nessuna strega» dico tra me e me. «Te lo sei inventato».

Evelina scoppia a ridere, una risata senza gioia. «Era un modo…» Scuote la testa. «No, non importa».

Per qualche istante rimaniamo in silenzio. Smetto di piangere. Mi asciugo le guance, mi soffio il naso. Dal piano di sotto arrivano le voci ovattate della tv. Mi ritrovo a fissare il braccialetto. Ho creduto alla magia. Sono un’atea che ha creduto all’esistenza della magia. Sono così idiota. Non c’è nessuna magia nel braccialetto.

«Non voglio morire». Evelina ha la testa china e le dita intrecciate come se fosse in preghiera. Parla con un filo di voce. «Ti prego, Francesca, ti prego. Fallo per me. Vai nel futuro, più avanti che puoi. Cerca un medico. Chiedi una cura o un modo per prevenire l’Alzheimer precoce. Memorizzalo e torna nel presente. Ti prego, non farmi morire così».

Mi siedo accanto a lei. È pallida, sta tremando. Ci abbracciamo.

«Ti perdono» dico. «Ti perdono tutto».

Evelina si stacca. Un lampo di comprensione le attraversa gli occhi. Questa è la fine.

«Non potrai tornare nel presente» dice. «Non potrai cambiare più nulla».

«Correrò il rischio».

Ci guardiamo negli occhi per qualche istante. Poi mi sfiora la guancia con le labbra. «Era una speculazione. Se li vedi, digli che la risposta è no».

Annuisco senza capire. Mi alzo.

Questa è la mia camera. Sulla scrivania ho il biglietto di Massimo, i libri per i prossimi esami e per la tesi. Gli scaffali sono ricolmi di libri, gli armadi di vestiti. Sono le mie cose. Sembravano così importanti qualche giorno fa: il mio passato, il mio presente, il mio futuro. C’è una vita intera in questa camera.

Al piano di sotto la mamma cucina guardando la tv. Papà è al lavoro. Marianna e le altre stanno studiando insieme. Fiocchi di neve vorticano fuori dalla finestra. Sotto il pino dei vicini non ci sono più colombi. Questo è il presente.

Evelina è seduta sul letto e mi guarda. Ha paura.

Ho ritrovato l’Evelina di nove anni, quella che aveva paura di andare nel bosco, quella che credevo si fosse persa.

Le faccio un cenno con la mano. Lei ricambia.

Il braccialetto emana luce e calore.

Corro indietro lungo la mia vita e non mi fermo finché non arrivo a destinazione.

 



Note al capitolo:
  • Il titolo è un riferimento a Sostiene Pereira, romanzo di Tabucchi.

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Capitolo 21
*** Vai a sinistra ***


Vai a sinistra

Domenica 29 agosto 1999

La camera della nonna è al buio. Le tapparelle sono abbassate, filtra solo un ritaglio di luce polverosa che illumina il comodino. Le finestre sono spalancate e il ventilatore ronza a un angolo della stanza, ma l’aria è pesante. La nonna è sdraiata sul letto, la testa di lato, gli occhi chiusi. Russa.

Socchiudo la porta tornando sui miei passi. «Sta dormendo» sussurro a Evelina.

Evelina sorride nella penombra del corridoio. Ci allontaniamo in punta di piedi per poi scapicollarci giù per le scale, oltre la cucina e la sala da pranzo, fino al portone d’ingresso.

Questa è la mia occasione.

Il pendolo segna le tre e dieci. Se siamo fortunate abbiamo un’oretta prima che la nonna si svegli. Apro la porta, Evelina mi precede, la richiudo accostandola così da fare meno rumore possibile.

Il sole abbaglia. Senza che ci diciamo nulla corriamo in fondo alla strada. Il caldo sale dall’asfalto. Le case sono silenziose. L’unico rumore sono le nostre scarpe e le cicale che friniscono tutt’attorno. A quest’ora non c’è nessuno e possiamo correre in mezzo alla strada, ma non proseguiamo per la via principale. Ci fermiamo vicino a un sentiero all’ombra di prugni. La nonna ha detto che è proprietà del signor Luigi e che non potevamo andarci, ma il signor Luigi non l’abbiamo mai visto e comunque vogliamo solo dare un’occhiata.

Da qui la casa della nonna è ancora visibile: bianca, ricoperta di edera. A destra c’è un campo, a sinistra la casa del signor Luigi. Tira un venticello piacevole nel sentiero. Rabbrividisco. Qui è dove è cambiato tutto.

Evelina raccoglie delle prugne cadute a terra. «Sono tutte rotte».

«Non possiamo prenderle comunque, sono del signor Luigi».

Evelina le lascia cadere a terra. Si sfrega le mani con una smorfia. «Erano appiccicose».

Il sentiero va verso sinistra. Gli alberi coprono la visuale.

«Andiamo avanti».

Evelina continua a sfregarsi le dita. Sta immaginando tutto quello che ci ha detto la nonna sui campi e sui boschi. Serpenti, cani, volpi, cinghiali, lupi. Tutti dietro l’angolo.

«Fifooona» dico.

«Vai avanti tu» dice Evelina.

Cammino spedita al centro del sentiero. Evelina cammina dietro di me a qualche passo di distanza.

Il sentiero gira a sinistra e noi con lui. Prosegue leggermente in salita e gira a destra.

Evelina sta per dire qualcosa.

«Non possiamo fermarci adesso» dico. «Dobbiamo arrivare almeno fino alla fine del sentiero».

Evelina non risponde, ma continua a seguirmi in silenzio. Do un calcio a un sasso, il sasso sbatte contro un albero ed Evelina sobbalza. Sogghigno. «Fifooona». Evelina scatta in avanti. «Aspetta!» La inseguo. Il sentiero scende, i sassi contro i nostri piedi rotolano rischiando di farci cadere, ma la discesa non è ripida e il sentiero finisce in un bivio appena oltre l’ombra dei rami. A sinistra prosegue costeggiato da cespugli di more, a destra il bosco si infittisce.

«Dividiamoci».

«Io a sinistra» diciamo in coro.

Incrociamo le braccia al petto. Nessuna delle due ha intenzione di cambiare idea.

«Ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò, che facevano l’amore con la figlia del dottore, il dottore si ammalò, ambarabà ciccì coccò».

Il dito punta me. Ho vinto io. Sorrido. «Io a sinistra, tu a destra».

Evelina sbuffa. «Uffa! Ma perché dobbiamo dividerci?»

«Dobbiamo esplorare. Anzi, facciamo così: contiamo fino a cento. Poi torniamo dietro, io ti dico cosa c’è di qua e tu mi dici cosa c’è di là. E poi se vogliamo andiamo avanti insieme o a sinistra o a destra, ok?»

«Ok».

Mi avvio contando sottovoce. Mi volto per controllare che Evelina non sia rimasta ferma.

«Aspetta!» dico. «Possiamo fare a cambio?»

Evelina aggrotta la fronte. «Perché?» Lancia un’occhiata al sentiero delle more. «Cosa c’è?»

«Quanto sei fifona, non c’è nulla! Vuoi fare a cambio sì o no?»

Evelina mi supera correndo. Prendo il sentiero sulla destra contando sottovoce. Le cicale friniscono senza sosta. «Trentadue… trentatré…»

Una luce alla mia sinistra attira la mia attenzione. Mi schermo gli occhi, ma non riesco a capire cosa sia. I tronchi mi ostacolano la visuale. Cosa c’è? Cosa si nasconde dietro il bosco? Ma in fondo, voglio davvero saperlo? Un cane abbaia in lontananza.

Nel frattempo ho continuato a contare. «Novantanove… cento».

Evelina mi aspetta. Anzi, se anche lei è corsa via dal cane sarà già lì al bivio.

La luce è ancora lì dov’è. Solo adesso realizzo quanto sia piccola. Una bambina sola nel bosco. «La risposta è no» dico.

Torno indietro correndo senza voltarmi.

Evelina è seduta su un sasso all’ombra degli alberi. Abbiamo entrambe il fiatone. Appena le vado incontro mi tira un pizzicotto.

«Ahi!»

«C’era un cane e lo sapevi!»

«E come facevo a saperlo?»

Evelina si imbroncia, però apre il pugno rivelando un mucchietto di more. Il succo le ha macchiato il palmo e le dita. «Ne avevo prese altre, ma mi sono cadute. Era un cane gigantesco, mi ha inseguito».

Prendo un paio di more e me le ficco in bocca. «Non è che te lo sei inventato per non arrivare alla fine del sentiero?»

«Non è vero!»

«Fifooona».

Ripercorriamo il sentiero a ritroso, dividendoci le more strada facendo. Abbiamo entrambe ancora i braccialetti portafortuna. Siamo ancora identiche.

«Se ne prendiamo di più la nonna potrebbe farci una torta».

«Ma lei non deve sapere che siamo venute qui».

«La prossima volta glielo diciamo e chiediamo il permesso al signor Luigi. Gli offriremo una fetta di torta».

Raggiungiamo la fine del sentiero. Tutto è come prima: la strada vuota, l’asfalto rovente, la casa della nonna lì dove l’abbiamo lasciata.

«Ehi!» dice Evelina. «Non mi hai detto cosa c’era dall’altra parte».

Mi stringo nelle spalle. «Niente. Solo alberi».
 


Note al capitolo:
  • Il titolo è un riferimento alla 4x11 di Doctor Who, Turn Left. Così come per Francesca, anche per Donna si tratta di tornare indietro nel tempo e andare a sinistra anziché a destra.
  • Con questo capitolo si conclude la terza parte. A domani sera o al più dopodomani per l'epilogo e tutti i dovuti ringraziamenti.

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Capitolo 22
*** Sfiderebbero Satana e tutte le sue legioni ***


Epilogo

Sfiderebbero Satana e tutte le sue legioni

Giovedì 26 novembre 2009

Sono sola alla fermata dell’autobus. In biblioteca ho perso la cognizione del tempo ed è stato il bibliotecario a ricordarmi che stavano per chiudere. Mi sono tolta le cuffie, ho controllato l’ora dal cellulare e mi sono sbrigata a uscire. Una volta fuori mi hanno sorpreso il freddo di novembre e il ticchettio della pioggia. Mi sono stretta nel cappotto, ho aperto l’ombrello e sono arrivata fino alla fermata. Il prossimo autobus dovrebbe passare tra un quarto d’ora. I lampioni tingono le strade d’arancio e sui marciapiedi sagome indistinte corrono al riparo sotto i portici o si affrettano ai margini della strada con gli ombrelli.

Sono dieci anni che aspetto questo momento. Rivivere dieci anni della mia vita non è stato terribile come pensavo. Mi sono goduta le belle cose e ho affrontato le brutte sapendo che sarebbero passate, che non avevano importanza — anche quando non me le aspettavo, perché Evelina ha cambiato molto più di quanto pensassi. Ho conosciuto l’Evelina vera, quella che non sa cosa accadrà e neanche ci pensa più di tanto.

Massimo, incappucciato, corre sotto la fermata. Sposto la borsa, ma si limita a guardare gli orari e poi la strada, in piedi. Si toglie il cappuccio e sospira. Il bel profilo, il naso prominente, l’accenno di barba, i capelli scuri tagliati corti, gli occhi grandi. Non è la prima volta che lo vedo. L’ho sorpreso un paio di volte a guardare nella mia direzione all’università, ma non si è mai avvicinato.

Sposta il peso dal tallone alle punte, sporgendosi ogni tanto nella speranza di intravedere l’autobus. La pioggia diventa scrosciante e Massimo si tira indietro.

In tasca e con i guanti le mani si scaldano, ma il freddo mi punge le guance e i jeans sono troppo leggeri. Accavallo le gambe.

«Fa sempre così ritardo?» chiede Massimo.

«Di solito prendo l’altro autobus. Oggi ho fatto tardi».

«Sarei dovuto uscire prima». Sbuffa e si siede anche lui, gli occhi fissi sulla strada. «Il professore continuava a spiegare e spiegare, se non dovevano chiudere le aule ci teneva dentro ancora mezz’ora. Se sapevo che pioveva mi portavo almeno l’ombrello».

«Vivi in zona?»

«Sulla traversa prima del supermercato. Se l’autobus si degnasse di arrivare mi eviterei la corsa sotto la pioggia».

Annuisco. La pioggia batte sul tetto della fermata. Dal vetro i lampioni sono aloni di luce opachi. Un autobus svolta.

«È questo?» Lui si alza e si sporge fuori dalla fermata, schermandosi gli occhi con la mano. Mi alzo anch’io, ma l’autobus alla rotonda prende l’altra strada. Torniamo entrambi a sederci.

«Scrivo a mia sorella, va’». Prendo il cellulare dalla borsa. «Se fa prima dell’autobus possiamo darti un passaggio, tanto è di strada».

«Oh». Per la prima volta mi guarda negli occhi. Li ha neri, molto espressivi. Le labbra si increspano in un sorriso. «Grazie, sarebbe proprio una mano santa».

Rimango col cellulare in mano e per qualche istante sia io che Massimo lo fissiamo, una luce chiara e distinta nella strada arancione. La pioggia riduce di intensità, ticchetta dolcemente sul tetto della fermata. Mi appoggio al vetro sospirando.

«Si sta calmando». Massimo guarda il tetto, come aspettandosi una conferma.

«Da qui a casa tua quanto ci vuole a piedi?»

«Di solito ci metto un quarto d’ora, anche meno. Perché?»

«Ho l’ombrello. Se vuoi ti accompagno. Tanto è di strada, mia sorella può passarmi a prendere lì».

Massimo si sforza di non sorridere. «Sei sicura?»

Fingo di esitare. «Non saprei. Giuri solennemente di avere buone intenzioni?»

Massimo ride. Alza la mano sinistra e si mette la destra sul cuore. «Giuro solennemente di avere buone intenzioni».

Ci rimettiamo le borse in spalla. Lascio il telefono nella tasca del cappotto mentre apro l’ombrello. Lo tengo sollevato per coprire anche lui. Gli arrivo sotto la spalla.

«Se vuoi lo tengo io».

«Sì, grazie».

Glielo porgo e ci incamminiamo. Lui cerca di coprire entrambi e allo stesso tempo di stare a debita distanza. Qualche locale è ancora aperto, ma le cartolerie e le librerie che di solito pullulano di studenti la mattina ora sono chiuse. L’acqua viene raccolta nei canali di scolo, ma qua e là ci sono pozzanghere di luce.

«A proposito, io sono Massimo».

«Piacere, Francesca».

Ci stringiamo la mano.

«Cosa studi?» chiede lui.

«Lettere. Tu?»

«Filosofia».

Cammino a testa bassa, attenta a dove metto i piedi.

«Ti avverto, se la casa è un disastro è tutta colpa del mio coinquilino. Ovunque, anche in camera mia. Non che dobbiamo andare in camera mia, eh».

Prendo il cellulare dalla tasca e scrivo a Evelina di venirmi a prendere all’altezza del supermercato e di chiamarmi appena può.

«Se hai fame possiamo mangiare qualcosa, sempre che tua sorella non risponda prima. Ancora niente?»

«Probabilmente è sotto la doccia. Non preoccuparti».

«Ecco, qui a destra». Il marciapiede è più piccolo nella traversa. Cammina dietro di me. Mi sfiora il braccio alle strisce dicendo: «Attraversiamo qui».

Appena arriviamo al suo condominio mi restituisce l’ombrello per cacciare le chiavi e aprire il portone. Lo tiene aperto, ma rimango sulla soglia.

Mi guarda sorpreso. «Non entri?»

«Sei sicuro che non disturbo?»

«Ma che disturbo, mi hai accompagnato fin qui! Entra, dai. Almeno non aspetti al freddo».

Chiudo l’ombrello e lo scrollo prima di entrare e chiudermi il portone alle spalle. Massimo chiama l’ascensore. Le porte si aprono lentamente. Abbandoniamo l’odore di prodotti per le pulizie dell’atrio per quello neutro dell’ascensore. Entro per prima. Massimo preme il cinque e cominciamo a salire.

Lo guardo attraverso lo specchio con la coda dell’occhio. Le spalle, il cappuccio e la borsa sono bagnati. Si mette le mani nelle tasche dei jeans e guarda il soffitto. Compongo il numero di Evelina anche se so già che non c’è campo.

Prima ancora che le porte si aprano Massimo traffica con le chiavi. Nel suo appartamento il corridoio è buio. Da una porta chiusa proviene una striscia di luce e una musica sommessa. Massimo mi precede. Struscio i piedi sullo zerbino un paio di volte e lascio l’ombrello all’ingresso.

«Permesso» mormoro. Mi chiudo la porta alle spalle.

Massimo è in cucina, la prima stanza sulla destra. La borsa è a terra, s’è tolto il cappotto. Indossa una felpa blu.

«Vuoi qualcosa?» Apre il frigo. «Abbiamo… Mmm. Acqua, tè, birra. A te la scelta». Mi guarda da sopra lo sportello. «O vuoi qualcosa da mangiare?»

«Il tè va benissimo, grazie».

Poso la borsa a terra, mi levo il cappotto e lo metto sullo schienale della sedia. Chiamo di nuovo Evelina mentre lui riempie un bicchiere, ma continua a squillare a vuoto.

Bevo qualche sorso di tè. L’orologio della cucina ticchetta. La musica dell’altra stanza cambia, è I Gotta Feeling.

Massimo tamburella le dita sul suo bicchiere. «Giuro che col mio coinquilino condivido giusto l’appartamento, non i gusti musicali. Ti dà fastidio? Se ti dà fastidio gli dico di abbassare».

«Non preoccuparti».

«Non può piacerti una roba simile, dai».

Mi umetto le labbra. «Ora come ora mi farebbe schifo qualunque cosa. Sono in fissa con gli Strokes».

Un lampo gli attraversa gli occhi. «Aspetta, questa ti piacerà per forza!» Si alza ed esce di corsa dalla cucina. Finisco il tè.

Massimo torna col portatile. Avvicina la sedia all’angolo del tavolo e gira il computer verso di me.

«Sai chi è Julian Casablancas?»

«Il cantante degli Strokes, no?»

«Sì, esatto! Ha fatto un album da solista, lo sapevi?» Il computer si è acceso. Le dita di Massimo si muovono velocemente sulla tastiera. «Senti un po’ questa, è la mia preferita».

Parte Glass. Vorrei canticchiarla a bassa voce, ma non ricordo più le parole e col tempo ho dimenticato anche la melodia. Non la sentivo da dieci anni. A risentirla adesso, in questo momento, in questo posto, mi travolge la stanchezza del viaggio. Il rischio che ho corso, gli anni che ho rivissuto. Tutto questo per cosa? Per questo momento, per questo posto, per un ragazzo che neanche so se sarò in grado di amare, per riappropriarmi della mia vita e per salvare Evelina. Cosa succederà tra più di vent’anni a Massimo? E a Evelina? No, non vivrò aspettando quei giorni. Mi godrò ogni giorno di sole.

Quando finisce mi sembra di riscuotermi da un sogno. Massimo mi sta guardando con un’espressione curiosa.

«Non mi dire che già la conoscevi».

Scuoto la testa. «Però è davvero bella. Mi fa pensare».

Sorride. «Aspetta, ce n’è anche un’altra che devi sentire».

Il telefono vibra. Lo prendo, Massimo smette di digitare.

«Scusa, ero sotto la doccia e poi stavo guidando. Ho parcheggiato davanti al supermercato. Dove sei?»

«Arrivo». Riattacco.

Io e Massimo ci alziamo contemporaneamente, le sedie stridono.

«Ti accompagno?» chiede.

«Non serve, è qui sotto». Mi rimetto il cappotto. «Grazie per il tè e per la musica».

Si mette le mani nelle tasche dei jeans, si stringe nelle spalle. «Grazie a te per la compagnia».

Mi accompagna alla porta, accendendo le luci nel corridoio. «Non dimenticare l’ombrello» dice.

Rimango sulla soglia. Ho la borsa in spalla, il cellulare in tasca, l’ombrello in mano. Ho tutto.

«Be’, è stato un piacere» dico.

«Ci becchiamo all’università». Ha la mano sulla porta. «Ci prendiamo un caffè, se vuoi. Ti faccio sentire le altre di Julian e magari mi fai scoprire qualcosa anche tu».

«Con piacere. Buona serata, grazie ancora».

«E di che».

Il sorriso scompare dietro la porta. Mi avvio lungo il corridoio. L’ascensore è impegnato. Faccio le scale a piedi, aggrappandomi al corrimano.

Evelina, in macchina davanti al supermercato, accenna un colpo di clacson. Entro in macchina con l’ombrello zuppo. Mi allaccio la cintura di sicurezza mentre Evelina mette in moto.

«Ho aspettato per più di venti minuti l’autobus. Ho perso la cognizione del tempo…»

«Ma con chi eri?»

«Un ragazzo che aspettava l’autobus con me».

«Sei andata a casa di un estraneo?»

«Non aveva l’ombrello, l’ho accompagnato a casa e…»

«È carino almeno?»

Evelina ha i capelli bagnati. Li ha legati in una coda. Una goccia le cola sulla fronte.

«Non hai fatto neanche in tempo ad asciugarti i capelli!»

«Mamma cucina, papà non è ancora tornato».

«Ti ammalerai».

«No che non mi ammalerò. Allora, è carino?»

I tergicristalli stridono sul parabrezza. Siamo ferme al semaforo. Un signore con l’impermeabile attraversa la strada a grandi falcate e corre al riparo sotto un portico.

«Sì, lo è». Trattengo a stento un sorriso. «Ascolta anche bella musica».

«Va all’università?»

«Sì, fa Filosofia».

«Allora lo rivedrai per forza».

Mi appoggio allo schienale. «La prossima volta che ci vediamo ci prendiamo un caffè».

Evelina sbuffa. «Non ci posso credere. Vi siete incontrati per caso sotto la pioggia. Perché a te succedono queste cose e a me no?»

«Ma tu stai con Filippo. Se ti accadesse una cosa del genere dovresti scappare nella direzione opposta».

«Sì, ma sarebbe bello avere una storia romantica dietro il nostro incontro».

«Potete sempre inventarne una».

Evelina ha fatto lo Scientifico. Al quarto anno si è messa con Filippo, un ragazzo di un anno più grande. Lui è entrato a Medicina al primo tentativo. Lei riproverà l’anno prossimo, per ora studia Farmacia.

Scatta il verde. La macchina riparte.

«Non mi hai ancora detto come si chiama» dice Evelina.

«Massimo».

«Mmm. Francesca e Massimo. Massimo e Francesca. Suona bene».

Rido. «Dici?»

«Certo! Raccontami com’è andata, voglio sapere tutto per filo e per segno».

Faccio un respiro profondo. «Be’… D’accordo, allora, è andata così. Ero sola alla fermata dell’autobus. Pioveva a dirotto e questo ragazzo è corso sotto la fermata. Non aveva l’ombrello, aveva solo il cappuccio. L’autobus non si decideva a passare e mi ha chiesto se faceva sempre così tardi». Mi umetto le labbra. «A essere sincera non era un completo estraneo. Nel senso, l’ho visto qualche volta in giro per l’università e ogni tanto ci siamo guardati. Aspettavo l’occasione giusta per parlarci, ma ogni volta esitavo. Almeno fino a stasera».

Evelina trattiene il fiato. «Non ci posso credere. Era proprio destino che vi incontraste».

«Destino?» Scuoto la testa. «No, ma che destino. Abbiamo corso un rischio. E poi non è successo niente di che, l’ho accompagnato a casa e abbiamo parlato un po’. Il resto si vedrà».

«Ho un buon presentimento» dice Evelina. «Devi rivederlo. Devi e basta».

 


Note finali:
  • Il titolo è tratto dalla fine di Cime tempestose.
  • Grazie a tutti quelli che hanno commentato strada facendo: clarissa_lestrange, PinkyRosie FiveStars, aelfgifu, audreygolightly, itpanya e in particolare Verde Pistacchio. Grazie anche a quelli che hanno aggiunto la storia alle preferite, ricordate e seguite. Se siete arrivati fino alla fine, mi piacerebbe davvero sapere cosa ne avete pensato. Grazie mille per il tempo che mi avete dedicato. Buone letture!

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