Di come Castiel fu costretto a cambiare spacciatore e Gabriel gliene fu grato

di AlfiaH
(/viewuser.php?uid=218051)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tutto rimane immobile se il mondo si inclina e tu scivoli con lui ***
Capitolo 2: *** Il vero amore non perdona, rimane costante nell'odio ***
Capitolo 3: *** C'è chi presta il giuramento di Ippocrate e chi cucina anfetamine ***
Capitolo 4: *** Quando pensi che le cose vadano male, guarda indietro ***
Capitolo 5: *** Gabriel si rese conto di essere spacciato quando il suo rapporto divenne planetare ***
Capitolo 6: *** Nulla si crea e nulla si distrugge: tutto si trasforma ***
Capitolo 7: *** Quasi mai di mamma ce n'é una sola ***
Capitolo 8: *** Beati i cuori che non battono al ritmo della vita ***
Capitolo 9: *** Quello che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas ***



Capitolo 1
*** Tutto rimane immobile se il mondo si inclina e tu scivoli con lui ***


Tutto rimane immobile se il mondo si inclina e tu scivoli con lui
 
Note: Castiel, Gabriel, Bathazar e Anna sono fratelli. 


Da piccolo Castiel faceva abbastanza schifo quando si trattava di relazionarsi con gli altri bambini.
Non li capiva: ridevano quando cadeva dalla bici. Qualcuno gli tendeva una mano e rideva più forte quando, ritraendola all’improvviso, Castiel ricascava sul terriccio umido del cortile.
Ridevano anche quando finivano col rotolarsi nel fango o mischiavano i colori a scuola: sorridenti, mostravano le mani impasticciate con orgoglio. A lui veniva sempre un po’ da vomitare.
In effetti non li ha mai sopportati – adesso, a ventisei anni suonati, non sa neppure andare in bici. Una volta, alle medie, Dean gli ha detto di non preoccuparsi perché glielo avrebbe insegnato, ed ora il solo pensiero basta a farlo ridere più forte.


“Comincia tu, dolcezza”.  
“Non so andare in bicicletta” confida Castiel ad alta voce, cercando di sovrastare il volume assordante della musica; solleva il bicchiere, ordina un altro giro. Il barista gli sorride, Castiel si chiede come sia il suo sorriso schiacciato contro la bocca, se somigli a quello di Dean.
“Imbarazzante” sogghigna il suo nuovo amico con quell’inconfondibile accento inglese. Gli ricorda un po’ suo fratello. Non riesce a vedere bene il colore dei suoi occhi, sono rossi, poi blu e giallo, a tratti verdi – potrebbero essere le luci del locale o potrebbero essere le anfetamine che ha preso mezz’ora fa (gli occhi di Billy, il barista, invece, sono verdi come quelli di Dean – Castiel ha avuto modo di studiarlo più da vicino). “A quanto pare è il mio turno di rivelare un segreto” il ghigno dello sconosciuto si allarga mentre si avvicina al suo orecchio ed il suo fiato caldo gli solletica una guancia; una mano scivola sulla sua coscia. “Se non ti scopa il barista, ti scopo io” dice, e non è che Castiel abbia qualcosa in contrario: vuole solo tirare la corda, divertirsi un po’. Ride. È sempre allegro quando beve.  “Ah si? Non credo valga come segreto”.
“Sono affetto da una forma grave di satiriasi*, e potrei essere un tantino esibizionista” la mano si muove lentamente sulla sua gamba, il tocco leggero, fino al cavallo dei suoi pantaloni; d’istinto Castiel allarga le gambe e beve, la gola improvvisamente troppo secca. “Non l’ho mai detto neppure alla mia fidanzata!”
Per la prima volta Castiel gli rivolge più di una semplice occhiata e si gira a guardarlo, perché Billy è scomparso dall’altro lato del bancone e non ha più nulla di bello da guardare – niente capelli biondi, niente occhi verdi.
Lo sconosciuto ha la testa rasata ed un sorriso che potrebbe resuscitare i morti, è giovane – più giovane di Castiel – e non indossa nulla sotto la giacca. Non assomiglia a Dean come Billy, ma anche lui è bello da guardare e la sua mano sembra parecchio esperta. A Castiel tanto basta.
“È il tuo giorno fortunato”, sussurra senza reprimere un sorriso, “ si dà il caso che io sia un medico”. Lo prende per mano e lo trascina tra la folla.
Le piastrelle del bagno sono fredde e dure e sporche, ma dal terzo anno di superiori Castiel non ha più problemi a mischiare i colori, e i liquidi e le polveri, quindi non è abbastanza in sé per lamentarsene (si lamentava sempre con Dean dei posti in cui facevano sesso. Forse è per questo che non ha funzionato, pensa a volte. Ma Castiel non ha mai fatto sul serio, tranne quella volta alla tenuta di suo nonno, su quel vecchio tavolo seicentesco…)
Lo sconosciuto gli allarga le cosce col ginocchio e preme nel mezzo, facendogli spalancare le labbra – gli offre un’occasione, lui la coglie, gli spinge la lingua in bocca. Si tratta di questo, di occasioni, si dice, mentre gli sbottona i pantaloni e lo tira più vicino, corpo contro corpo, come se non fosse mai abbastanza. Il suo amico (dovrebbe chiedergli come si chiama anche se domani non se lo ricorderà?) gli tira il labbro coi denti e scende a torturargli il collo, le sue dita strusciano in mezzo alle sue natiche, e lui geme ondeggiando il bacino sulla sua coscia; il ritmo è perfetto, ma Castiel è così abituato a distruggere le cose perfette che quasi non si sorprende quando all’improvviso il corpo dell’inglese gli viene strappato via ed il suo torna al freddo. “Ma che cazzo?” annaspa il suo amico. La prima cosa che pensa Castiel quando apre gli occhi e lo vede seduto sul pavimento col naso sanguinante è che deve trattarsi di un sogno; la seconda è che deve assolutamente cambiare spacciatore.
Però poi un incazzatissimo Dean lo strattona per un braccio e lo trascina per il locale finché la sua pelle non si schianta contro l’aria gelida.
 
*****
 
“Cazzo, per essere un’allucinazione non sei per niente divertente”.
Dean non gli risponde e Castiel ride.
L’Impala è silenziosa, il chiarore dei lampioni sembra allungarsi sulla strada per spingerla in avanti per poi sparire insieme agli alberi e ai cartelloni pubblicitari; fuori dal finestrino il mondo scorre. Castiel ricorda vagamente qualcosa che ha a che fare con la relatività.
Estrae dalla tasca dei jeans il suo tubetto di speed* e se ne versa due pasticche sulla mano – rosa, il massimo che può permettersi – per aggiustare la situazione. Ha sempre bisogno di essere aggiustato. Dean gli lancia un’occhiata.
“Sei fatto?”
“Si, di solito” ride Castiel, ed ingoia le pasticche (aggiusta la sua situazione). “Ne vuoi un po’?”
L’autista sibila il suo nome accanto ad un’imprecazione e batte il palmo sul volante.
Cazzo, Cas.
Ed è tutto sistemato.
 
 
 *****
 
Quando Castiel si sveglia, Dean non è con lui.
Il fatto che ci sia abituato – cavolo, è passato un anno – dovrebbe renderlo meno doloroso ma, che Dio lo aiuti, non lo è.
Ha un mal di testa allucinante e lo stomaco sottosopra; deve aver vomitato un paio di volte perché il sapore che ha in bocca è davvero insopportabile. Si passa una mano sul volto e tra i capelli, le pareti giallastre prendono a girare un po’; non è casa sua, ma Castiel è abituato anche a questo.
Quello a cui non è abituato è l’altro letto accanto al suo.
Ha le lenzuola tirate ed una coperta in tinta con le pareti anonime. Deve trovarsi in un motel, pensa, insieme a qualcuno a cui non piace dormire nello stesso letto. Cerca di ricordare il nome del tizio (gliel’ha chiesto?), o almeno il suo aspetto (era blu e verde e giallo e poi?) , poi gli sovviene che forse è già andato via quindi non ha bisogno di nessuna frase di circostanza. Buona idea, quella del motel. D’ora in poi scoperà solo nei motel.
Non avverte nessun dolore alla schiena quando prova ad alzarsi ed è un po’ strano, ma non ha tempo di soffermarvici perché la stanza vortica pericolosamente e minaccia di crollargli addosso. Gli ci vogliono un paio di tentativi per riuscire a raggiungere la finestra.
“Siamo a Salina, Kansas”.
 
La voce che lo raggiuge alle spalle sembra avergli letto nella mente; Castiel quasi si strozza con la propria saliva. Si volta troppo velocemente ed il soffitto trema, le sue ginocchia minacciano di cedere, ma Dean è lì e lo afferra per le spalle prima che possa cadere.
Dean è lì.
Castiel è abbastanza sicuro di non aver preso niente. Non ancora.
Si lascia ricadere sul letto e si rende conto di averlo fissato ad occhi un po’ troppo spalancati un po’ troppo a lungo perché le palpebre cominciano a pizzicargli e Dean sposta il peso da un piede all’altro, visibilmente a disagio. Ma il cervello di Castiel è lento, ha bisogno di un attimo per realizzare, pertanto continua a fissarlo anche quando Dean gli piazza in mano un bicchiere di caffè e sparisce in bagno. Fissa la porta come se potesse bruciarla.
Dean è lì.
Deglutisce un paio di volte, beve il suo caffè, lotta contro l’istinto di correre via, ignora il leggero tremore alla mano finché può – ma il suo è più un problema di volontà e Castiel non vuole essere lucido quando Dean uscirà dal bagno.
Controlla nelle tasche dei pantaloni, tra le lenzuola, sotto al letto, nei cassetti; è un codardo ed è debole e lo sa, ma non lo saprà più appena avrà trovato quelle stramaledette pasticche.
“Stai cercando queste?”
È incredibile come la sua voce basti a farlo andare nel panico.
“È per questo che non hai mai risposto, mh?” Storce le labbra, è arrabbiato: non lo sembra, ma lo è. Lo conosce, sta per scoppiare. “Quando Ruby me l’ha detto non volevo crederci”.
Castiel fa mente locale: Ruby. Chi diavolo è Ruby? Non se la ricorda; assottiglia lo sguardo ed inclina la testa, Dean inarca un sopracciglio. Per un attimo sembra che nulla sia cambiato.
“Ruby, quella che si scopava mio fratello” gli ricorda. I suoi occhi blu si spalancano, improvvisamente consapevoli. “Oh. Oh”.
Ruby. Ruby, l’amica di Meg. La stessa Meg che sta con Alastair, il braccio destro di Crawley.
“Non ci si può più fidare degli spacciatori al giorno d’oggi, non vero?”
“Vuoi dirmi perché sei qui – perché siamo qui, o devo aspettare che Dio mi conferisca il potere della chiaroveggenza?” sbotta Castiel. È nervoso, nasconde la mano destra in una tasca, spera che smetta di tremare.
Lo sapresti se ti fossi degnato di rispondere a quel cazzo di telefono!”
“L’ho venduto, okay? Avevo bisogno di soldi per-”
“Per queste? E hai anche lasciato il lavoro, suppongo. Davvero, Cas?”
“Ho lasciato anche medicina. Ho mollato tutto quando- Cristo, non sono abbastanza fatto per affrontare questa conversazione”. Castiel preme i palmi sulle tempie, la testa gli sta per scoppiare.
“Perché ieri sei andato alla grande quando ti sei vomitato sulle scarpe!”
Gli volta le spalle, ma Dean lo strattona per una spalla e lo costringe a voltarsi. “Guardami quando ti parlo!” la sua voce suona come un ruggito.
“Che vuoi da me, Dean? Che vuoi che ti dica? È la mia vita, la vivo come mi pare. E-”
“Tuo fratello sta morendo” sibila, colmo di rancore.
Per un attimo il mondo si inclina sul proprio asse, Castiel scivola verso il basso: relatività; il mondo là fuori continua a girare. Ora ha decisamente bisogno di quelle pasticche. Dean legge la domanda che balena nel suo sguardo e si umetta le labbra.
“Gabriel. Ha la leucemia. È caduto dalle scale e si è tagliato, non sembrava nulla di grave ma non la smetteva di sanguinare così l’abbiamo portato in ospedale. I medici dicono che potrebbe aver bisogno di un trapianto di midollo. Quello stronzo di Balthazar è scomparso, Anna ci ha detto chiaramente di andare a quel paese e tu – tu che potresti salvarlo probabilmente ti sei preso qualcosa mentre scopavi con gente a caso nei cessi pubblici. Bella famiglia di merda, no? Cristo, non posso credere di essermi lamentato di Sam”.
“Mi dispiace” mormora col cuore in gola.
“Si, okay. Nella borsa ci sono dei vestiti puliti. Ti aspetto in macchina” dice, e gli lascia il tubetto di speed sul comodino.
 
 
Il viaggio fino a Lawrence è talmente silenzioso che Castiel riesce a sentire la sua coscienza che gli urla in testa, e tapparsi le orecchie non serve.
 
 *****

Sam ha un aspetto orribile.
È pallido come un cadavere e le occhiaie scure risaltano sulla pelle bianca – sembra L di Death Note, gli fa notare Gabriel di tanto in tanto, imitando la risata sadica di Light. Cerca di farlo ridere ed è assurdo perché Gabriel ha appena scoperto di avere la leucemia e riesce ad essere forte anche per Sam. Dean gli è grato per questo.
Ha lasciato Cas alle infermiere, ma non può ancora respirare: deve dire a Gabriel che probabilmente non ha speranze perché quel figlio di puttana di suo fratello potrebbe avere l’AIDS, o che ne sa. Deve ancora trovare le parole adatte – non offendere sua madre sarebbe un buon inizio.
È meglio aspettare le analisi, decide alla fine. Nel peggiore dei casi ucciderà Castiel e lo farà passare per un incidente; nel migliore lo ucciderà comunque dopo l’operazione per essere sparito in quel modo (poi lo riporterà in vita e lo ucciderà per tante altre cose).
“Hey”.
Quando entra, Sam scatta in piedi e gli si avvicina, apre la bocca e Dean è più o meno pronto ad essere investito di domande a cui non può ancora dare una risposta. Invece è la voce implorante di Gabriel che gli arriva per prima.
“Grazie a Dio, Dean-o. Non pensavo che l’avrei mai detto, ma sono felice di vederti! Puoi farlo ragionare, per favore?”
Suo fratello alza gli occhi al cielo e spalanca le braccia, esasperato.
“Qualcuno si degna di spiegare?” chiede cauto.
“Gabriel pensa che l’infermiera stia cercando di avvelenarlo”.
“Avvelenarmi? Ma hai ascoltato una parola di quello che ho detto?”
“Scusa, ero troppo occupato a scusarmi con Marie per la tua performance da oscar. Ti sembra carino farle credere di essere un malato terminale solo per-”.
“Intendi l’infermiera con le tettone ed il naso alla Ibrahimovic?” ghigna Gabriel, ammiccando all’indirizzo di Dean. “Ha tratto le sue conclusioni da sola, era in buona fede. Io gliel’ho detto che sono impegnato! Non ho mai visto dei capezzoli così gros- Ahio!” Sam gli molla un ceffone sulla nuca, ma il ghigno di Gabriel non fa altro che allargarsi.
“Non devi essere geloso, raggio di sole. I tuoi capezzoli sono più buoni”.
Il moro lo guarda torvo. “La tua affermazione implica l’esistenza di un termine di paragone” dice, e Gabe solleva innocentemente le spalle.
“Cristo, prendetevi una stanza!” Dean si dilegua più in fretta che può (spera che l’immagine dei capezzoli di suo fratello si dilegui altrettanto velocemente), sicuro che Sam abbia recepito il messaggio. Riesce a sentire ancora qualche borbottio e un “ce l’abbiamo già una stanza” seguito da un “non ora, Gabe" , mentre si allontana.
 
“Allora?” finalmente il giovane Winchester fa la sua comparsa ed il maggiore cerca di ignorare il fatto che abbia un aspetto un po’ sbattuto. “L’hai trovato?” la sua voce gronda speranza e questo un po’ lo ferisce – non che non se lo aspettasse.
“Si, ehm. I medici si stanno accertando che sia in salute prima di procedere, sai, per le malattie del sangue e roba del genere”. Sam annuisce in silenzio.
“Come stai?” domanda dopo un po’. Dean si aspettava delle domande, ma quella lo coglie decisamente di sorpresa.
Come sta?
“Potrei farti la stessa domanda”.
“Evitare di rispondermi non è una risposta” sospira Sam, e si lascia cadere sopra una delle sedie metalliche attaccate alla parete plumbea. Dall’altra parte del corridoio due giovani infermiere si coprono le labbra e cinguettano di una collega che ha ricevuto un mazzo di rose da parte del paziente della stanza ventinove; Sam non riesce a trattenere un sorriso, Dean si chiede cos’abbia di sbagliato suo fratello che sorride delle conquiste del suo ragazzo. “Mi fanno tenerezza” spiega Sammy alla sua espressione perplessa. “Se sapessero cosa facciamo io e Gabe…”
“Non lo voglio sapere!”
“Tu e Cas, invece? Avete parlato?”
“L’ho superata, Sam” sbuffa Dean, e scivola al suo fianco.
“Cercare di non pensarci non è averla superata, come evitare di rispondermi non è ancora una risposta. Dean, sarebbe carino se ogni tanto non mi facessi fare l’unica checca della situazione e mi parlassi anche tu dei tuoi sentimenti, sai? Magari quello stronzo di Gabe smetterebbe di prendermi in giro”.
“E rinunciare al suo passatempo preferito?”
“Dean”.
“Non abbiamo proprio parlato. E non so se voglio farlo, okay? Non siamo su MTV, non ho sedici anni e non sono incinta -incinto. Gli ho detto che ho un figlio e lui se l’è data a gambe. Lo capisco. Probabilmente è quello che avrei fatto anch’io”. La mano del minore si poggia con empatia sul suo braccio e lo stringe. Dean si sente un po’ a disagio perché ha il vago terrore che la sua voce possa spezzarsi e non lo sopporterebbe.
“Non è vero”.
“No, non è vero. Ma, hey, non siamo tutti uguali, no? Quello che mi fa davvero incazzare è che avrei capito se l’avessi trovato con una bella casa, un lavoro partime, un nuovo compagno – l’avrei capito se l’avessi trovato felice, davvero, l’avrei fatto. Sarebbe stato okay. Ma quello che ho visto, Sam- Non posso credere che mi abbia mollato per quello” ed ecco, la sua voce diventa roca. Che puttana. Dean sapeva di non potersi fidare. Sam apre la bocca per dire qualcosa ma non parla, sembra sorpreso. Dean immagina che sia normale, suppone di dover sdrammatizzare. “Cristo, in quel momento ho davvero capito come si sentono quei tipi nei film che vengono mollati all’altare – insomma, lei ti rompe per anni con la storia del matrimonio e, quando finalmente sei pronto, scappa col testimone. Il vecchio Marshall* doveva averle capite un paio di cose”. Sorride ironico, ma la bocca di Sam è ancora semiaperta, i suoi occhi vagano oltre la sua spalla, e sulle prime Dean non comprende; poi la consapevolezza lo colpisce talmente forte da scuotergli le membra ed un brivido di terrore gli attraversa la schiena. “Cazzo. È dietro di me, vero?”
Non ha bisogno che Sam annuisca.
“Dean”.
 
 *****
 
Suo fratello sembra piuttosto allegro per uno che sta per morire, come ha detto Dean, ma Castiel lo conosce abbastanza bene da sapere che è tutta apparenza: Gabriel è terrorizzato all’idea di morire ed è terrorizzato all’idea di quello che Sam farà senza di lui. Ha paura che faccia la fine di Castiel-senza-Dean, e Castiel non può dargli torto né può promettergli che non succederà, che se ne occuperà lui: lascerà fare a Dean perché è sempre Dean a tenere insieme la loro banda di disagiati, a farli funzionare insieme. (Era).  
Sam lo lascia solo il meno possibile, soprattutto mentre dorme e ‘chiude quella dannata boccaccia’; Castiel ha capito qualcosa in merito ad un’infermiera che mette del veleno nel suo cibo mentre dorme, ma presume che abbia più a che vedere col fatto che Gabriel abbia paura di non svegliarsi, o di svegliarsi e trovarsi da solo, quindi non indaga oltre.
L’ospedale non l’ha denunciato per assunzione di sostanze illegali ed è piuttosto convinto che Dean c'entri qualcosa – in caso contrario, farebbero meglio a chiudere i battenti. Vuole rimanere sobrio per un po’, comunque, pertanto, dopo aver dato una pacca sulla spalla a Sam, va a cercarlo.
Dean è all’aria aperta, proprio dove Castiel si aspetta di trovarlo: è come se avesse le ali e non riuscisse a stare al chiuso troppo a lungo.
“Allora non sono l’unico ad aver ripreso cattive abitudini” il moro lo riprende bonariamente, ma Dean non sembra aver voglia di scherzare. Si porta di nuovo la sigaretta alle labbra; al sole i suoi capelli diventano ancora più biondi e l’anello dorato attorno al suo anulare acquista un aspetto più sacro – brilla, è luce. A Castiel fa male il cuore, ma non ha le anfetamine con sé. Fa un respiro profondo. “Per quanto pensi di ignorarmi ancora?”
“Non lo so” risponde acido, “quando sono pronte le analisi?”
“Hanno detto tra un paio d’ore”.
“Ed ecco la tua risposta”.
Un altro respiro profondo. Dean getta il mozzicone e lo schiaccia con la punta delle scarpe; Cas, da bravo ambientalista, si china a raccoglierlo e lo ripone nell’apposito contenitore. È talmente naturale da mettere i brividi.
“Certe cose non cambiano mai, eh, Cas?”
È uno sbuffo divertito, ma è anche la cosa più vicina ad un sorriso che Dean gli abbia rivolto da quando si sono rivisti, quindi se lo fa bastare.
E dire che ci hanno litigato così tanto al liceo, quando l’uno era appena entrato in modalità “salviamo gli alberi” e l’altro spegneva le sigarette sul muro della scuola. Ora appaiono così terribilmente lontani quei momenti.
“Mi mandavi in bestia”.
“Lo facevo apposta” ammette con una punta di imbarazzo, “ti arrabbiavi così di rado. Era difficile tirarti fuori qualcosa, allora. Se avessi conosciuto l’effetto che ti fa l’alcol, ti avrei iniziato alla vita dei grandi molto tempo prima”.
Castiel sbatte le palpebre, non ci aveva mai pensato. All’epoca gli ha detto cose orribili. “Sei stato un buon amico”.
“Lo so”. Un silenzio opprimente cala sulle loro teste, le nuvole coprono per un attimo il sole; in lontananza la sirena di un’ambulanza avverte che qualcuno si è fatto parecchio male. Va bene, pensa Cas, deve dirglielo. Dean si sta torturando da quando ha sentito la sua conversazione con Sam, tiene gli occhi piantati al pavimento e si morde ossessivamente il labbro inferiore (cerca di non fissarlo troppo, ma, dopotutto, il diretto interessato non lo sta guardando quindi che c’è di male se lo fissa un altro po’?) e non è giusto perché non è colpa sua.
“Avevo visto l’anello, Dean. Lo sapevo” la neutralità del suo tono li sorprende entrambi. Può farcela. No, non è vero.
Cosa?
“L’ho trovato la sera che sei andato a cena da Lisa e Ben. La vostra prima cena in famiglia. Ricordi? L’anello era nella tua giacca”.
“Cazzo, aspetta. Frena, Cas. Tu lo sapevi? Lo sapevi e non mi hai detto nulla?” se Dean potesse vedere la sua espressione in questo momento, la troverebbe assurdamente comica.
“Non ci parlavamo da due settimane! Cosa avrei dovuto dirti?”
“Avevo appena scoperto di avere un figlio con una tizia che mi sono scopato sette anni fa! Cazzo, Cas, ero terrorizzato, avevo bisogno di te, e tu te ne sei andato!” Dean urla, Castiel sente il pugno nel petto stringersi e farsi piccolo piccolo, le mani tremare e la gola spaventosamente secca. Stenta a riconoscere la propria voce quando le parole gli escono di bocca come un sussurro. “Non volevo perderti, Dean, ma quando ho visto l’anello io non- non potevo aspettare che me lo dicessi tu, non lo avrei sopportato. Ho preferito conservare almeno la dignità, è così sbagliato?”
Il biondo ride, ma non è un bel suono. Si copre le labbra con una mano in un patetico tentativo di tenere a bada quella puttana della sua voce dato che ha fallito piuttosto clamorosamente con le lacrime; qualcuno si volta a guardarli: devono sembrare proprio patetici.
“Ti faceva così schifo l’idea di sposarmi, Cas?”
Stavolta è Castiel a spalancare gli occhi blu, sconvolto, incapace di dire qualsiasi cosa – ha bisogno di un attimo per realizzare, per rimettere insieme i pezzi.
Poi si porta una mano alla bocca, proprio come Dean, e ride e piange insieme, e, sorprendentemente, questa volta non pensa di dover cambiare spacciatore.
 


#Angolo della disperazione
Hello boys! Eccomi di ritorno nel fandom di Supernatural ad infierire sulla Destiel. Perché non riesco a scrivere niente di fluff su di loro?
Questa fanfic nasce come un'unica storia ma, essendomi sembrata un po' troppo lunga, ho deciso di spezzarla e ridistribuirla in due o tre capitoli.
NoteS:
1*: Satiriasi è il termine usato per indicare la ninfomania maschile.
2*: gli speed sono la versione illegale delle anfetamine (possono essere bianche, rosa, giallastre e così via a seconda della purezza)
3*: Garry Marshall, regista di "se scappi, ti sposo" .
Grazie come sempre a chi ha letto fin qui e lascerà un commento!
AlfiaH <3

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il vero amore non perdona, rimane costante nell'odio ***


Il vero Amore non perdona, rimane costante nell'Odio

Note: le parti in corsivo rappresentano i flashback



Castiel si strinse addosso il plaid a quadri viola, scosso da un brivido, e si rannicchiò sul divano con le ginocchia al petto, premendo il volto contro il cuscino, la testa che gli scoppiava. La TV era sintonizzata su un programma di cucina che non stava davvero seguendo, la conduttrice cianciava e gracchiava qualcosa riguardo alcune spezie particolari provenienti da taluni paesi, che avevano codesti sapori particolari, indispensabile per la preparazione del “suddetto piatto”, il cui nome Castiel non aveva veramente afferrato, ed era talmente rumorosa e fastidiosa da far supporre la squisitezza della pietanza in questione – in caso contrario, Castiel non sarebbe riuscito a spiegarsi il perché così tante persone seguissero quel programma. Cristo, persino Meg lo adorava e lei non era certo tipo da torte e biscotti.
Se solo il telecomando non fosse stato così lontano.
Allungò una mano, illudendosi di poter raggiungere con le dita il lampeggiante pulsante rosso del televisore e zittirlo per sempre prima che gli partisse un embolo. Ovviamente era troppo lontano; il telecomando riposava pigramente sul tavolo.
Gemette, frustrato, uno chef prese a sbraitare contro gli altri cuochi, infilò la testa sotto il cuscino e premette forte sulle orecchie, sperando che il mondo sparisse e lo lasciasse in pace.
Poi una chiave girò nella toppa e Castiel seppe che Meg era tornata a casa, alla buon’ora. Era in buona compagnia, come suggerivano le risatine soffocate, e per un attimo, preso dal panico, smise di respirare; magari, se fosse rimasto zitto e fermo, non si sarebbero neppure accorti della sua presenza. Impossibile, pensò poi, la TV era ancora accesa.
Meditò di sgattaiolare via dal divano, prima che Meg ed il suo accompagnatore lo adocchiassero reputando di essere troppo lontani dalla camera da letto, ma davvero non ebbe il tempo di mettere in pratica il proprio piano, poiché, all’improvviso, le voci sommesse si fecero incredibilmente vicine ed il corpo dell’uomo cadde letteralmente su di lui, schiacciandolo e strappandogli un gemito di protesta.
“Ma che cazzo!” urlò l’uomo, rotolando giù dal divano mentre Castiel tirava fuori la testa e si massaggiava la schiena contusa. “Chi diavolo è questo tizio?!”
Dapprima la ragazza si coprì le labbra con le mani, gli occhi spalancati illuminati dalla luce artificiale del televisore, per poi scoppiare in una sonora risata di fronte all’espressione oltraggiata della sua nuova conquista. “Clarence”, si presentò. Qualcosa nella sua voce assonnata la fece ridere più forte ( o forse era semplicemente ubriaca), ma l’uomo non lo trovò divertente allo stesso modo. “Cos’è, uno scherzo?” sbraitò tirandosi su, ma i pantaloni già sbottonati e calati fino alle ginocchia non gli facilitarono il compito; scivolarono lungo le caviglie e, di fatto, il povero sventurato si ritrovò di nuovo col muso per terra, mentre la mora si piegava in due dalle risate commentando, testuale, la sua “faccia da culo”. “Mi dispiace”, intervenne Castiel sinceramente mortificato, ma il malcapitato lo mando gloriosamente a quel paese, riallacciando i pantaloni e spintonando malamente il tavolino in legno difronte al divano, già di per sé traballante (Cas aveva provato ad aggiustarlo miliardi di volte in miliardi di modi, ma, come la sua coinquilina aveva più volte sottolineato, faceva davvero troppo schifo come uomo di casa, così alla fine aveva semplicemente rinunciato), che si rovesciò sul tappeto.
“Cazzo ridi? Ma vaffanculo, puttana”, ringhiò. Nel passarle accanto per raggiungere la porta le diede una spallata ma lei non sembrò farci caso, troppo presa a corrergli dietro. “E dai, Al, non fare lo stronzo!” lo afferrò per un braccio nel tentativo di trattenerlo, Alastair (non era una nuova conquista, realizzò, poiché aveva già sentito quel nome) se la scrollò di dosso con violenza.
Castiel si sporse dalla sua postazione per osservare la scena, rigorosamente in silenzio – Meg era stata chiara e pragmatica su quel punto dell’accordo: “fatti i cazzi tuoi”.
“Chi è quello?”
“È uno che ho conosciuto un mese fa al locale, non sapeva dove andare e mi serviva un coinquilino! Sai com’è, dopo che mi hai mollata per quella troia!”
“Mi sembra che tu ti sia consolata in fretta, no? E dimmi, il tuo cavaliere lo sa che apri le cosce per qualche grammo di eroina?”
Davvero, Castiel aveva provato ad essere un buon coinquilino: aveva provato ad aggiustare il tavolino del salotto, a riparare il condizionatore come una volta gli aveva mostrato Sam Winchester, aveva provato a non addormentarsi tutte le sere con la TV accesa. Aveva provato, davvero, ma era stato subito chiaro che non avrebbe vinto il premio per il miglior coinquilino del mese – non lo avrebbe vinto neppure nelle vesti di amico, ma quantomeno poteva evitare di fare completamente schifo.
Per questo quando Meg colpì in pieno volto Alastair e quest’ultimo l’afferrò per le spalle in modo molto poco amichevole, Castiel ruzzolò giù dal divano con l’abilità di una tartaruga ninja e si frappose tra i due guadagnandoci un occhio nero e un calcio nei gioielli.
Non proprio la giornata più felice della sua vita, insomma.
Fortunatamente Alastair decise di andare via sulle proprie gambe (l’alternativa sarebbe stata usare quelle di Castiel a mo’ di monopattino) e Meg, che nel frattempo si era coperta il viso con le mani, in lacrime, se ne uscì con un ghignante “se ne è andato?” appena lo sbattere del portone ebbe echeggiato nella stanza. Confuso e stordito, il ragazzo annuì e le si sedette accanto poggiandole una mano sulla spalla. “È tutto finito” la rassicurò, ma l’altra batté i palmi sulle cosce e si alzò raggiante. “Era ora! Dio, non se ne andava più! Guarda qui”. Estrasse un tubetto giallastro dalla tasca posteriore dei jeans e glielo agitò davanti agli occhi, entusiasta. “Sai cosa sono?” Cas ci impiegò un attimo per mettere a fuoco la situazione – dopotutto aveva appena preso parte alla sua prima rissa, o quello che era. “Gliel’hai prese durante la colluttazione”, realizzò. L’altra roteò gli occhi. “E’ ovvio, fesso. Avevo tutto sotto controllo. Però sei stato carino”, ammiccò. “Avevi programmato tutto dall’inizio…”
“No, certo che no! Il piano era quello di prendergliele domani mattina, tu hai solo velocizzato le cose. Vedi, il tuo essere un coinquilino di merda è servito a qualcosa. Comunque queste, mio caro Clarence”, e si lasciò cadere sul divano, il busto ruotato verso Castiel e il tubetto tra le dita, “sono oro. E quando Crowley scoprirà che le ha perse, Al sarà spacciato”. Il moro non colse l’ironia della battuta ed aggrottò le sopracciglia, il mal di testa che non era diminuito nemmeno per un attimo. “È solo un tubetto”, osservò perplesso. “Non è solo un tubetto! Non è roba nostra, viene direttamente dal New Messico, Clarence. Dopo lo scontro tra bande di quattro anni fa, Crowley e Raphael si sono dati una calmata e sono scesi a compromessi: niente concorrenza. Ognuno spaccia la propria droga nei propri territori così entrambi guadagnano l’esclusività su una sostanza e tutti sono più ricchi. Se hai un debole per la coca, chiedi agli uomini del Re, se preferisci impasticcarti entri nel capo d’azione di Raphael. Mi spiego?” Annuì, allibito. “Bene. Che succede se uno dei due decide di fare il doppio gioco?” il suo ghigno si allargò a dismisura, così come gli occhi di Castiel. “Crowley…”
“Esatto. Se queste anfetamine finissero nelle mani sbagliate, in questo caso in quelle grasse e fetide di Raphael, sarebbe guerra. E Crowley odia alzare il culone dal suo trono e sporcarsi le mani di sangue”.
Il ragazzo scattò in piedi lasciando cadere sul pavimento il minestrone surgelato che aveva tenuto premuto sull’occhio fino ad allora. “Sei impazzita? Se sono così importanti devi restituirle subito! Hai detto tu stessa che lo scontro armato di quattro anni fa è stato orribile. Vuoi forse che si ripeta? Cavolo, Meg, come puoi-”
“Calmo, Clarence! Appena Crowley prenderà a calci Alastair per averle perse, interverrò io per salvare la situazione e gliele riporterò, okay?”
“Non ho mai conosciuto una persona tanto subdola!” esclamò non così indignato come cercava di sembrare, muovendole un sorriso ironico. “Grazie, tesoro. Che dici, proviamo?”
Quella proposta lo spiazzò – per la verità, non fu tanto la proposta a spiazzarlo quanto il fatto che la stesse realmente prendendo in considerazione.
Insomma, Castiel aveva delle idee sulla droga, sulla dipendenza, sul malessere che comportava, gli spasmi, l’astinenza, le stesse idee terribili che avevano tutti, che ti inculcano sin dalle elementari; ed poi aveva delle nozioni a riguardo, frutto di ormai cinque anni di medicina, che le facevano apparire ancora più spaventose.
Sapeva a cosa andava incontro.
“Rilassati angioletto, mi stai guardando come se avessi appena commesso un omicidio!” scherzò, “sicuro di non voler provare? Dicono che risolva molti problemi, sai? E tu, mio caro, hai proprio un aspetto di merda”, rincarò la dose e Castiel non se la sentì di darle torto: aveva passato l’ultimo mese rannicchiato in un angolo, in lacrime, col cuore a pezzi.
Per Dean, quell’ignobile bastardo traditore – come aveva potuto preferire due semi sconosciuti a lui, che gli aveva dato tutto ciò che aveva? E perché Castiel, per quanto ci provasse, non riusciva ad odiarlo?
Dio, era così patetico.
“Dai…”
La premessa dell’oblio lo tentava.
Ma almeno per quella notte Castiel si tenne stretto il proprio dolore.

*****
 
 
 
“Vai da qualche parte?” non ha fatto che qualche passo quando la voce di Dean alle sue spalle lo fa sobbalzare come un ladro colto sul fatto. È appena uscito dallo studio, Dean deve essere poggiato al muro della corridoio adiacente poiché gli è passato accanto senza notarlo, troppo occupato a cercare le scale con lo sguardo. Il dottor Tran gli ha suggerito di aspettarlo lì, ma lui ha una questione da sbrigare e non può perdere altro tempo.
  Ha sempre i nervi a fior di pelle, Castiel, da un anno a questa parte e quel tono insinuante lo irrita da morire; più passano i minuti più si sente un cane rabbioso. “Non sto scappando, se è questo che intendi” risponde, più acido di quanto vorrebbe, e si volta con un sorriso tirato. Dean ha le braccia incrociate al petto e l’espressione severa. “Perché sembra che tu stia sgattaiolando via come un ladro, allora?”
“Perché a quanto pare ho i cani da guardia attaccati al culo”. Il biondo gli rivolse una lunga occhiata scettica e senza volerlo si ritrovarono intrappolati in un muto dialogo ottico. “Scusa se ho qualche dubbio sulla tua affidabilità. Sai, ho avuto brutte esperienze a riguardo”, sputa fuori sarcastico. Il moro sospira profondamente. “Non ho voglia di litigare, Dean. Non sto andando da nessuna parte, devo solo fare una telefonata”. Winchester si morde l’interno della guancia mentre annuisce, fruga nella tasca dei jeans e gli si avvicina porgendogli il proprio cellulare. Quando Castiel, senza staccargli gli occhi di dosso, allunga una mano per prenderlo le sue dita sfiorano quelle dell’altro ed è costretto a guardare da un’altra parte perché è sicuro di essere arrossito. “Grazie” mormora. “Bastava chiedere”, gli occhi dell’altro non l’hanno abbandonato. Il moro fa retro front e si chiude la porta alle spalle rientrando nell’ufficio di Kevin per avere un po’ di privacy. Ricorda a memoria il numero.
“Meg?”
“Clarence? Che cazzo di fine hai fatto? Ti sembra questo il momento di mettersi a fare gite?”
“Meg-”
“Dimmi dove sei, vengo a prenderti”.
“No!” esclama un po’ troppo ad alta voce. “No”, ripete più piano premendo il cellulare all’orecchio.
“No?”
“No. Ascolta, Meg, non posso tornare a Rushville. Mio fratello ha bisogno del mio aiuto, devo rimanere qui per un po’ di tempo, tornerò appena posso”.
C’è un momento di silenzio dall’altra parte, poi il rumore di una porta che sbatte in malo modo.
“Qui dove? Non sei nemmeno a Rushville?”
Castiel inspira profondamente. “Non posso dirtelo”.
“Non ti fidi di me?”
“Sinceramente no”. La risata dall’altra parte lo fa sorridere. “Ascolta, dì a Crowley che sono impegnato, okay? Non posso preparare tutta quella roba entro martedì, deve darmi più tempo”.
“Non la prenderà bene”.
“Per questo non posso dirti dove sono. Non posso coinvolgere i miei amici in questa faccenda, capisci? Meno sanno di loro, meglio è. E poi non starò via molto, digli di non preoccuparsi. Mi serve solo più tempo”.
“Pensavo di essere io ‘i tuoi amici’. Non pensi a me? Giuro che se la nostra attività fallisce per colpa tua-”
“Te la caverai, te la cavi sempre”.
“Con un cavaliere penoso come te sono costretta a cavarmela da sola, tesoro. Vedrò cosa posso fare”, sospira melodrammatica.
“Grazie”, sussurra sinceramente. Come avrebbe fatto senza di lei per tutto quel tempo? “Davvero”.
“Si, si. Senti, chiamami appena hai risolto i tuoi struggenti problemi familiari. Poi lavoreremo su questa cosa del cellulare – come puoi vivere senza? Ah, e salutami Dean”, e riattacca prima che Castiel possa dire qualunque cosa.
 
*****

Meg entrò nell’appartamento come un uragano, tanto che persino Castiel, spalmato a faccia in giù sul materasso accanto alla finestra in cerca di un po’ di refrigero, riuscì a sentire le porte degli stipi che sbattevano a due camere di distanza. Sulle prime lo ignorò, come faceva con tutte le altre cose; alla depressione dei primi tempi e poi alla rabbia dei secondi si era succeduto uno stato di indifferenza disarmante, che Castiel scambiava per rassegnazione e che, invece, era molto lontano dall’esserlo. Fu solo quando la rossa (di tanto in tanto si tingeva i capelli, infischiandosene altamente delle paternali del ragazzo riguardo la bellezza naturale) sfondò letteralmente la porta della sua – loro – stanza, un borsone tra le mani e l’aria stravolta.
“Devo andarmene”, annunciò aprendo l’armadio e cominciando a lanciare a caso dei vestiti nella suddetta borsa. “Meg? Che succede?” chiese intontito. Gli sembrò di non parlare da millenni. “Le ho perse, Clarence! Ho perso il carico- se Crowley lo scopre farò la fine di Alastair. Devo andare via. Non stare lì impalato, dammi una mano!” Cas si passò una mano tra i capelli sudaticci e si mise a sedere, afferrando giusto in tempo i pantaloni che la ragazza gli aveva lanciato. “Cosa? Come hai fatto a perderle?”
“Io- le ho date a questi tizi, sai, gli spogliarellisti di quel locale dove vai di solito, com’è che si chiama? Flag… Flat…”
“Si, ho capito”.
“E quegli idioti si sono fatti sgamare come dei principianti! Erano a quest’addio al nubilato e uno ha chiamato gli sbirri per una rissa o qualcosa del genere. Dio, non lo so! Tienimi questa”. Gli porse una lunga parrucca verde, sulla quale Castiel evitò di interrogarsi, ed aprì i cassetti del comodino in cerca di qualcosa. “Dov’è quel maledetto passaporto…”
“Meg, calmati! Ragiona, dove pensi di andare? Dobbiamo trovare una soluzione, scappare non risolverà le cose!”
“Scusami?” domandò lei, il tono sarcastico e una risata amara che lo colpì in pieno stomaco. “Ti prego, parlami ancora di quanto sei bravo a trovare soluzioni geniali ai problemi, signor ‘voglio morire perché Dean non mi ama più’! E, oh- raccontami di quella volta che sei coraggiosamente rimasto ad affrontare la situazione!”
“Meg, per favore…” tentò, ferito, ma l’altra si passò una mano sugli occhi e gli puntò un dito contro. “No, tu per favore! Smettila di darmi consigli inutili e aiutami a chiudere questa maledetta borsa”. Prese a gomitate qualche giacca imprecando a denti stretti contro il mondo della moda, finché il ragazzo non la prese per le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi. “Respira”. Lei respirò. “Non è da te farti prendere dal panico, giusto?” Lei sollevò gli occhi al cielo, leggermente più rilassata, e acconsentì: “no, non lo è”.
“Perché tu te la cavi sempre, giusto?”
Meg emise uno sbuffo divertito e gli accarezzò una spalla nuda (lei non diceva mai “grazie”, ricordò Castiel). “Giusto”
“Bene. Quanto hai perso?”
“Tipo un centinaio”.
Il moro si lasciò cadere sul letto, una mano ora pigramente poggiata sul fianco della ragazza scossa da un leggero tremolio, e si massaggiò un sopracciglio con le dita. “Mi serviranno delle pastiglie per il raffreddore, della ehm, tintura di iodio, dei fiammiferi, e- suppongo che abbiamo dei filtri per il caffè?”
“Sei impazzito?” Castiel era mortalmente serio. “Non siamo in Breaking Bad, non puoi cucinare certa roba come se niente fosse!” si sistemò nervosamente una ciocca rossa dietro l’orecchio sottraendosi al tocco del ragazzo, che si portò entrambe le mani alle tempie.  Ho bisogno solo di un attimo per concentrarmi e del posto adatto”.
“Puoi davvero farlo?” chiese dopo un attimo, e lasciò correre i polpastrelli tra le sue ciocche scure quando l’altro la fissò con quegli occhi talmente blu da poterci affogare. Per un attimo Castiel volle baciarla. “Non preoccuparti, me la cavavo con la chimica. Usciremo da questo casino, vedrai”. Tentò un sorriso, ma quello dell’altra fu più convincente. “Il mio angelo dagli occhi blu”.
Quando, tempo dopo, se lo chiese non seppe spiegarsi perché poggiò le mani sui suoi avambracci, proprio dove spiccavano i piccoli segni rossastri dell’ago, e si sollevò giusto il poco che serviva per posare le labbra sulle sue. Fu un contatto lieve e breve e nessuno dei due lo commentò; Meg avrebbe potuto prenderlo un po’ in giro perché era un pessimo baciatore e Castiel le avrebbe rinfacciato di aver tenuto gli occhi chiusi come una scolaretta.
Pertanto lei non portò guerra e lui, pacifico per natura, non glielo chiese.
 
*****
 

Dean ripone il cellulare nella tasca dei pantaloni e per un attimo medita di chiedergli a chi ha telefonato; ha comunque il numero registrato, adesso, e potrebbe controllare più tardi, ma sarebbe piuttosto inquietante – sarebbe da fidanzato geloso.
Però Dean vuole saperlo. Cavolo, ne ha il diritto.
Castiel si è persino allontanato per parlarci, gli ha persino chiuso la porta in faccia; deve essere qualcuno di importante per lui. Più importante di Dean (a lui non ha telefonato nemmeno una volta per fargli sapere che stava bene. Come dovrebbe prenderla?)
Potrebbe semplicemente chiedere ma Cas non glielo direbbe, ne è sicuro. Dopotutto non sono affari suoi.
“Stai morendo dalla curiosità, non è vero?” come sempre l’altro riesce a leggere i suoi pensieri
Dean alza le spalle, falso. “Non è affar mio”.
“Ho telefonato ad un’amica. Mi ha aiutato molto in quest’ultimo anno. È stata gentile”.
Winchester sta per domandargli se il suo “essere gentile” riguarda anche l’impasticcarsi insieme allegramente, ma alla fine decide di risparmiarselo per un’altra volta e annuisce; si sente più sollevato e ha paura di riflettere sul perché.
Il moro si poggia allo stipite della porta chiusa con una spalla ed inclina la testa di lato, esponendo il collo nudo ed un eloquente segno rosso marchiato sulla pelle; Dean non riesce a smettere di guardarlo, come se potesse farlo sparire solo con gli occhi. È ancora così arrabbiato con Castiel.
Non di quella rabbia cieca che l’ha spinto a picchiarlo nel cortile o che gli ha fatto strappare tutte le loro foto (ti odio perché mi hai abbandonato), è quella che gli ha fatto rincollare i pezzi una sera di febbraio (ti odio perché non sei con me) e lo fa sentire ridicolmente fragile.
Cas segue il suo sguardo e si copre il succhiotto con una mano, visibilmente a disagio, ma non fornisce alcuna spiegazione, si schiarisce la voce, stira le labbra in una linea sottile. “Se non c’è altro che vuoi sapere, puoi andare. Non tenterò il suicido come i carcerati”.
“Non sono qui per farti da cane da guardia”. Dean si guarda le punte dei piedi, Castiel aggrotta le sopracciglia, perplesso, gli basta lanciargli un’occhiata per realizzare: “ti dispiace”. Il biondo si morde il labbro inferiore, lo guarda di sottecchi, sposta il peso da un piede all’altro, indugia come se stesse per dire una cosa importante e difficile. “Si, mi dispiace. Okay? Per quello”. Addita il suo occhio nero, “non avrei dovuto”.
“Me lo sono meritato”, concede il moro abbozzando un sorriso.
“Non ti sei difeso, è stato come bastonare un cucciolo”.
“Sai cosa penso della violenza. E poi non sono un cucciolo!” pronuncia quest’ultima parola quasi si tratti di una bestemmia, la bocca storta in una smorfia schifata. “No, non lo so” è la risposta spontanea di Dean. “So cosa pensavi, Cas. Che la droga fosse una merda, per esempio, o che scopare sul retro di un locale fosse poco igienico. Ma a quanto pare le persone cambiano”. “Anche tu sei cambiato”, stavolta è Cas a sorridere amaramente additando la fede al dito dell’altro, “hai messo la testa a posto. Abbiamo chiarito che non volevi sposare Lisa. Chi è la fortunata, allora?”. “Lisa”, Dean fa spallucce, la bocca di Castiel mima un risentito “wow”. “Minacciavano di toglierle l’affidamento di Ben quando ha perso il lavoro, così abbiamo deciso di sposarci. Sono rimasti a casa nostra- a casa mia per un po’, sai per salvare le apparenze con gli assistenti sociali”, gli sta davvero dando una spiegazione? “Ha trovato lavoro in New Messico e si sono trasferiti lì. Vedo Ben tutti i giorni con la telecamera del computer”.
“Skype”, lo corregge Castiel senza reprimere un sorriso – sembra felice, non ha neppure bisogno di interrogarsi sul perché. “Si, quello”, grugnisce. “Abbiamo un bel rapporto, anche se mi piacerebbe essere più presente per lui”. “Sembra proprio che tu sia un buon padre”, dice incrociando le mani dietro la schiena (gli temano: pensa che Dean non se ne sia accorto?), l’altro si guarda attorno, indugia sull’ordinatissima scrivania di Kevin e sull’estremità mordicchiata di una matita (è sempre così nervoso, quel ragazzo) prima di incrociare i suoi occhi. “Cercare di essere un buon padre è quello che mi ha fatto andare avanti quando te ne sei andato”.
“Mi dispiace”.
“Ripeterlo all’infinito non cambierà le cose, Cas. Avresti dovuto parlarmene, fidarti di me. Cazzo, se solo ci ripenso…”
“Intendevo che mi dispiace per prima, Dean”, avanza di un passo senza interrompere il contatto visivo, “non avrei dovuto ridere, ma- Cristo, tu volevi sposarmi! E io ho combinato un tale casino. Ridevo di me stesso, non di te. Perché non posso credere di essere stato così cretino, capisci? E la cosa mi fa ridere, dal momento che ero io l’intelligente della coppia. È tutta colpa mia e-” e il fiato gli si blocca nei polmoni perché proprio mentre apre la bocca per aggiungere altro Dean lo bacia.
È più uno scomposto schiantarsi di labbra, ma basta per fargli spalancare gli occhi in un’espressione comica; il biondo ha le mani sul suo viso per tenerlo fermo (perché Castiel vuole scappare, come no) e gli occhi serrati, e lo lascia andare talmente velocemente che l’altro pensa di esserlo sognato – il dolore alla nuca, però, è piuttosto reale e probabilmente c’è anche la forma della sua testa sulla porta a testimoniare, tanta la violenza con cui Dean ce l’ha sbattuto contro.
“Dean…”
“Questo non significa niente”, mormora evitando la bocca dell’altro che cerca la sua. “Niente”, concorda Castiel come ipnotizzato dal suono della sua voce. “Sono ancora arrabbiato con te”. “Va bene” ed infila le dita tra i capelli sulla sua nuca, lo spinge contro il suo viso per azzerare le distanze ma l’altro ancora si ostina ad evitare le sue labbra. “Anche quello è di un’amica?” chiede invece sul suo collo, sul segno sbiadito che poco prima il moro ha coperto sollevando il colletto della camicia. Castiel socchiude gli occhi. “Potrebbe essere del tizio che hai picchiato ieri notte”.
“Bene. Spero di avergli fatto male”. Inspira il suo odore, lascia che gli invada il corpo “Pensavo che non te ne ricordassi”.
“Me lo ricordo”, ribatte, le mani che corrono sulla sua schiena. “Ero felice di vederti”. Finalmente i loro occhi si incrociano di nuovo e Cas riesce ad addentargli il labbro inferiore; Dean non si concede. “L’ho notato. Mi sei stato appiccicato tutto il tempo con un’erezione spaventosa nei pantaloni”.
“E non mi hai scopato?” il tono fintamente deluso cerca di nascondere l’imbarazzo. “Non ti facevo un gentiluomo”, il sarcasmo cela la delusione (quand’è che si è trasformato in Meg?). “Volevo farlo”, ammette baciandogli l’angolo della bocca.
“Volevi farlo?” Il biondo sussulta quando le dita gelide dell’altro entrano in contatto col calore della sua pelle sotto la maglietta. “Si”, pronuncia lentamente lasciandogli una scia bagnata lungo la mandibola mentre la bocca del moro lascia andare un sospiro umido. Castiel non si rende davvero conto di quanto Dean sia effettivamente vicino e reale ed eccitato fin quando non spinge il bacino contro il suo e sente le sue labbra a pochi centimetri dal proprio orecchio. “Mi hai implorato di scoparti lì, piegato sulla mia auto come una puttana”, Castiel deglutisce a vuoto, “e sai perché non l’ho fatto?”
“A parte il vomito sulle scarpe?” la sua voce è roca e si spezza quando Dean gli addenta il collo, forte, dove la carne è già arrossata, in un vano tentativo di strapparne il ricordo. “Sarei stato uno dei tanti” sussurra sulla sua pelle, le mani sul suo petto a premerlo contro il legno della porta “non te ne saresti nemmeno ricordato. Invece volevo che sentissi” le sue mani scendono sui fianchi dell’altro trovandoli incredibilmente stretti, più di quanto abbia memoria, mentre il moro allaccia le dita ai passanti dei suoi jeans per tirarlo più vicino, bacino contro bacino, “ogni centimetro del mio uccello nel tuo culo e che fossi abbastanza sobrio da non dimenticarlo mai”.
“Che egocentrico bastardo” sibila, prima che la porta lo spinga in avanti, tra le braccia di Dean.


#Angolo della disperazione
Hello boys!
Eccoci al nostro quasi puntuale più o meno randevùZ con "Di come Castiel fu costretto a cambiare spacciatore e Gabriel gliene fu grato", ed eccoci giunti anche alla tanto attesa ma da chi  riappacificazione tra Cas e Dean.
E alla comparsa di Meg, donna maledetta (è un complimento). Adoro il rapporto che ha con Castiel, alla "sei adorabile, davvero, ma Cas J. appartiene solo a Dean" - perché è così, Meg non può farci niente. Ma la amo lo stesso.
Cosa dire? Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e, come al solito, ringrazio tutti coloro che stanno seguendo questa fanfiction!
Ma- prima di dileguarmi, vorrei chiedere /a voi poveri plebei che addirittura leggete le note dell'autore/ se qualcuno è per caso interessato a condividere i magici piaceri di una roleplay con la sottoscritta (ho questo bisogno fisiologico di ruolare Destiel ma, come ho detto in precedenza, sono piuttosto nuova nel fandom). Mi fareste la donna più felice del mondo ;A; 
Grazie per l'attenzione!
PS: non ho mai cucinato anfetamine. Gli ingredienti citati sono bellamente scopiazzati da Breaking Bad - Walter cucina metanfetamine e non ho la più pallida idea della differenza che intercorra tra le due cose perché, purtroppo, sono ignorante (e non spaccio droga). 

Tanti biscotti,
AlfiaH. <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** C'è chi presta il giuramento di Ippocrate e chi cucina anfetamine ***


C'è chi presta il Giuramento di Ippocrate e chi Cucina Anfetamine
 




“Ti faceva così schifo l’idea di sposarmi, Cas?”
Dean digrigna i denti, lo guarda negli occhi, ma non si aspetta davvero una risposta; la risata di Castiel lo è già di per sé e gli spezza il cuore.
Di nuovo.
Non si è mai sentito così umiliato in vita sua, così patetico e fragile e supido; Dean vorrebbe soltanto scavare una bella fossa, seppellircisi e non vederlo mai più (potrebbe seppellire Castiel ma, come ha notato in precedenza, non può ancora sbarazzarsi di lui).
Ride di lu.
Lo stesso Castiel – Cas – che l’ha guardato con gli occhioni blu spalancati la prima volta che Dean, un moccioso di dodici anni ed un sorriso sdentato, gli ha teso la mano, lo stesso che i bulli prendevano in giro, perché era un secchione e non aveva mai baciato una ragazza, e che lo implorava di lasciar perdere quando Dean li prendeva a calci; lo stesso Cas, che è diventato il suo migliore amico e poi tutto il suo mondo, ora ride di lui e delle sue debolezze come il peggiore degli stronzi. Stronzo ed ingrato.
Cristo, si sente proprio una liceale rifiutata.
 “Lo trovi divertente” soffia lentamente, colmo di rancore. Il cielo si oscura per un attimo; Dean non crede a queste cose ma se ora si mettesse a piovere, non si sorprenderebbe; farebbe giusto in tempo a dire “tanto non può andare peggio di così”, perché è una cosa che va detta in certi casi, quando tutto va male e pensi che l’universo si sia già accanito abbastanza su di te, e invece comincia a piovere, tanto per ricordarti che la vita non farà mai troppo schifo.
Magari, se cominciasse davvero a piovere e scoprisse di trovarsi in uno squallido film d’amore, il dolore che prova sarebbe meno reale.
Ma non lo è, non lo diventa neppure quando Dean chiude gli occhi e li riapre; Cas è ancora lì col suo sorriso stronzo e lui continua a sentirsi un idiota.
 Un idiota per aver passato notti insonni ad organizzare tutto nei minimi dettagli – il luogo, la musica, l’atmosfera. Gesù, Charlie e Backy avevano persino minacciato mezzo ristorante per far esporre gli agapanthus qualcosa campanulatus che erano i fiori preferiti di Castiel. Roba da andare fuori di testa, roba di cui Dean avrebbe fatto volentieri  a meno, perché “farà meglio a dirmi di si perché questa è la cosa più romantica che mi vedrà fare e- Dio, questa non è Taylor Swift, vero?”, e quel grandissimo figlio di puttana non gli ha dato nemmeno la possibilità di provarci, di proporgli una vita insieme – come se Dean avesse avuto bisogno di uno stramaledettissimo pezzo di carta per dimostrargli che si, lo amava, e no, non lo avrebbe mai lasciato.
Ma poteva farlo. Per Cas. Perché Cas si sarebbe sentito più sicuro una volta messo nero su bianco – perché era un idiota a pensare che Dean potesse abbandonarlo, ma Dean lo amava lo stesso.
L’ironia.
È stato Castiel ad andare via. Castiel che aveva bisogno di lui, che non riusciva a dormire se Dean non era al suo fianco, che si preoccupava troppo quando aveva l’influenza.
 Non c’era verso che Dean potesse aspettarsi una cosa del genere.
Non ha avuto nemmeno il coraggio di dirgli che no, era carino da parte sua, ma non voleva sposarlo. Forse non voleva umiliarlo troppo, chi lo sa.
Sa solo che la mattina del due dicembre Cas è uscito mentre dormiva.
Ha lasciato un post it sul frigo per dirgli addio e non è più tornato, non ha risposto alle chiamate, gli ha chiuso la porta in faccia quando è andato a cercarlo, a riprenderselo, a casa di Gabriel e poi ha cambiato stato.
Non l’ha più rivisto, non gli hanno nemmeno rimborsato i fiori.
E quello stronzo ha il coraggio di ridergli in faccia.
Ora, non è che Dean non abbia mai colpito un uomo, un ex troppo invadente, un ubriaco o un tossico o entrambe le cose (l’ha fatto appena la sera prima), ma colpire Castiel gli fa tutto un altro effetto. È liberatorio.
È come sbarazzarsi da un cappio alla gola e tornare respirare dopo secoli e secoli di agonia e frustrazione, improvvisamente consapevoli di poterlo strappare via e sentirsi un po’ più forti, dopo essere stati deboli ed inermi tanto a lungo. Una scarica di adrenalina gli percorre la schiena, Castiel barcolla all’indietro, sanguinante, e Dean si sente meglio di quanto potrebbe sentirsi sfogando a parole tutta la rabbia del mondo. Qualche passante si volta a guardarli e si avvicina, nessuno dei due ci fa caso.
“Dean, aspetta, io-” tenta il moro con gli occhi spalancati, la mano sul labbro spaccato gli trema; gli fa venire voglia di colpirlo di nuovo –  che diritto ha Dean di non dare ascolto al suo corpo?
“Lo trovi ancora così divertente?” ringhia e gli assesta un altro destro in pieno volto; si sente meno vulnerabile, più leggero. Ma Castiel non cade – barcolla ma non molla, no? –, si aggrappa alla sua giacca e lo scuote, come se tentasse di svegliarlo.
“Dean, è tutto così sbagliato” parla velocemente, a corto di tempo, prima che Dean possa spingerlo via. “Ci siamo sbagliati, io mi sono sbagliato. Mi dispiace”.
 “Ah si?” una risata gli raschia la gola, è amara, gli scava nel petto. Se lo scrolla di dosso in malo modo, ancora arrabbiato, e stende le braccia lungo i fianchi, stringe i pugni; la voglia di prenderlo a calci scorre ancora potente dentro di lui, per questo gli consiglia mentalmente di scegliere con cura le sue parole e di non peggiorare la situazione. “Devi essere un po’ più specifico, Cas”.
“Pensavo che l’anello fosse per Lisa!” risponde spalancando le braccia. Questa volta è il cervello di Dean ad essere lento. “Pensavo che fossi innamorato di lei, che volessi una famiglia con lei e Ben, per questo io-”
“Figlio di puttana”, realizza. Finalmente tutto acquista senso.

Lisa che ritorna nella sua vita, Lisa che gli confessa di avere un figlio.

“L’avevi sempre desiderato, Dean, ed eri così felice con loro- Che diritto avevo io di mettermi in mezzo?”

Il rapporto con Castiel che comincia ad incrinarsi.
 
“Lisa è stato il tuo primo amore, è la madre di tuo figlio. Aveva senso. Il modo in cui vi guardavate, il tempo che passavate insieme. Sembrava giusto”, mormora Castiel. Quando Dean fa per rispondere qualcosa, la voce gli esce come un sussurro.
“Ti sembrava giusto” ripete come un automa; non lo sta davvero ascoltando, non ne ha bisogno perché ora tutto gli appare chiaro, anche se non sta affatto meglio.

Ben che lo trascina alle sue partite di baseball, Lisa che gli sfiora la mano quando escono a cena tutti insieme, Dean che cerca di recuperare il tempo perduto con la sua famiglia, con suo figlio – Castiel che tutte le sere lo aspetta alzato e ha gli occhi lucidi perché ha paura di non farne più parte.

“Sapevo che prima o poi ti saresti stancato di me, delle mie insicurezze, dei miei complessi esistenziali, della mia mania di catalogare i libri in ordine di uscita – doveva succedere, prima o poi, e tu mi hai aiutato così tanto ad essere una persona migliore, Dean”.

Dean che non gli chiede mai nulla perché è stanco e non ha voglia di litigare, perché sta organizzando per loro una serata magica e Lisa gli sta dando una mano;
Castiel che trova l’anello e decide di andare via perché Dean non l’ama più.

“Non potevo chiederti nulla di più di quello che mi avevi già dato”.
La voce di Castiel si spezza, e qualcuno deve intervenire per tirarlo via perché Dean sembra avere tutte le intenzioni di strozzarlo.
 
*****

 
“Sam”.
Nell’esatto momento in cui Gabriel pronuncia il suo nome Sam sa che c’è qualcosa che non va, e non ha tanto a che vedere col fatto che non lo chiami mai in quel modo, se non mentre fanno sesso, quanto col tono serio della sua voce; Gabriel sta per fargli il discorso e Sam non è fisicamente pronto a questo. Non lo sarà mai.
“Ti prego, risparmiamelo. Tu non morirai, Gabe”. Non sa da dove arrivi tutta quella sicurezza, ma dirlo ad alta voce, sorprendentemente, non lo spiazza come invece aveva previsto. Al contrario, per un attimo sembra spiazzare Gabriel: la sua mano si stringe appena attorno al lenzuolo e i suoi occhi si sgranano un poco, per poi stringersi in due fessure ambrate. “No, ovvio che no. Ma che razza di discorsi fa?” lo spintona, oltraggiato, e Sam inarca un sopracciglio. Ovviamente non si sposta di un millimetro. “Allora vuoi fare sesso”.
“Dovresti avvisare quando stai per dire una cosa del genere, fiocco di neve. Potrei eccitarmi”. Il biondo si umetta le labbra e lascia scorrere le dita lungo la sua schiena, provocandogli un brivido. Sam, seduto sul bordo del letto, non si scompone, non ha voglia di lasciarsi ingannare da una carezza e un sorriso languido. Questa volta non ha proprio voglia.
“Ti conosco, Gabriel. Usi sempre dei nomignoli assurdi, tranne quando devi dirmi una cosa importante. O vuoi farmelo venire duro”.
“Chi ti dice che non voglia fartelo venire duro?” il candore del suo tono è talmente disarmante che, per un attimo, Sam boccheggia. Poi si allunga in avanti, fa leva sulle braccia, e preme le labbra contro le sue, un po’ per fargli chiudere la bocca, un po’ perché spera di ripagarlo con la stessa moneta e coglierlo di sorpresa.
A volte il ragazzo si illude un po’ troppo.
Gabriel intreccia le dita tra i suoi capelli e lo spinge più vicino a sé, si intrufola nella sua bocca e cerca la sua lingua; Sam gli sfugge, cerca di mostrare un minimo di pudore (si illude proprio tanto), dal momento che, in effetti, si trovano in un maledetto ospedale e la mano di Gabriel sta scendendo pericolosamente verso il basso, ma è consapevole di non potergli resistere – il bastardo lo sa e ride sotto i baffi.
Quando si allontana dalle sue labbra, Gabe ha gli occhi serrati e Sam è leggermente a corto di fiato. Gli prende il volto tra le mani e poggia la fronte sulla sua, il suo cuore si scalda quando incontra lo sguardo di sole liquido dell’altro. Suonerà sentimentale, ma non si stancherebbe mai di guardarlo (Gabriel lo prende in giro per questo, ma arrossisce ogni volta che glielo dice). “Andrà tutto bene, Gabe. Ti opererai e starai bene. Non ti lascio andare da nessuna parte. Quindi niente discorso, okay?”
“Niente discorso” acconsente con un sospiro, e lo bacia di nuovo.
“Cosa farei senza di te?”
“Non lo so, Sam”.
 
*****

 
Castiel si costringe a fissare la parete confortabilmente bianca della sala verde mentre l’infermiera gli medica il brutto taglio sullo zigomo ed il naso (non è rotto, ha assicurato, ma gli fa comunque un male cane); Dean ci è andato giù pesante e, benché Castiel fatichi a comprenderlo, come fatica a comprendere l’uso della violenza in generale, non lo biasima –  e come potrebbe?
Dean è poggiato all’altra parete con le braccia incrociate e, anche se Castiel non può vederlo, è sicuro che lo stia incenerendo con lo guardo dal momento sente la schiena bruciare e la nuca gli formicola – ma potrebbe anche essere una commozione celebrale visto la brutta botta che ha preso. In generale, si sente un po’ ammaccato. È anche un po’ in ansia (è piuttosto sicuro che le mani gli tremino per questo, stavolta) perché ora che Dean si è sfogato ed è più calmo, vorrà parlare. Vorrà chiarire, ed in quel caso Castiel sarà costretto a spiegare, a chiedergli della fede che porta al dito, e non è sicuro di voler sentire la risposta.
O forse no.
Forse Dean non vorrà parlare con lui, mai più. Forse è cambiato, come è cambiato Castiel, e quello che si sono già detti non cambia nulla, quindi perché parlarne? Eppure cambia tutto – tutte le decisioni che ha preso, tutto quello di cui era convinto. Tutto sbagliato. È così felice che sia tutto sbagliato.
Dean invece non lo è (o almeno non lo sembra, visto che l’ha quasi strozzato).
 Cas vorrebbe sapere quello che pensa, ma non può; gli tremano le mani.
“Come nuovo”, esclama l’infermiera appiccicandogli un cerotto sulla faccia. Lancia un’occhiataccia oltre la sua spalla, probabilmente rivolta a Dean, ma non aggiunge altro. “Grazie”, mormora in risposta e lei gli dà un buffetto sulla spalla; sorride, è carina. Evidentemente non sa chi sia davvero Castiel.
“Santo cielo, Dean! Vuoi piantarla di metterti nei guai?”
Un medico fa la sua entrata, una cartelletta blu sotto il braccio, e un’espressione accigliata che, suppone, dovrebbe sembrare minacciosa.
È davvero giovane, pensa, e questo un po’ lo fa sentire un fallito perché, che cavolo, un ragazzino può indossare il camice bianco e lui non è nemmeno riuscito a prendere la laurea. Ora ricorda perché preferisce essere fatto. “Scusaci, Wendy, puoi andare” ordina, l’infermiera si chiude la porta alle spalle e finalmente Dean si stacca dal muro.
“Kevin-”
“No, non dire nulla. Dimmi solo che ti è saltato in mente. Una rissa, Dean? Davvero?
“Scus-”
“E se avessero chiamato la polizia? Vuoi farmi perdere il posto? Lo sai che dovrei denunciarvi entrambi, si?” il tono della sua voce si abbassa di un ottava, quasi tema di essere sentito. Cas lo trova buffo. Probabilmente è solo stressato.
“Lo so, lascia che ti-” tenta di nuovo, ma il ragazzo alza una mano invitandolo tacitamente a chiudere la bocca.  “Bene. E sai anche che siete sotto la mia responsabilità e che quindi è a me che fanno riferimento se tu combini qualcosa. Perciò la prossima volta evita di prendere a pugni il primo che passa. Novak, giusto?” Dean borbotta sottovoce qualcosa di incomprensibile ed alza le mani in segno di resa, Castiel si limita ad annuire, rigido, stringendogli la mano. “Dottor Tran. Il motivo per il quale non l’hanno ancora cacciato a pedate nel sedere, signor Novak”.
“Grazie per non avermi denunciato”.
“Kevin è il dottor House di questo ospedale. La sua parola è legge qui dentro”, spiega Winchester con una punta di ironia, rivolgendogli finalmente la parola, anche se non sembra davvero rivolto a lui, e guadagnandosi un’occhiataccia, l’ennesima della giornata, da parte del medico. “Ruffianare non ti fa guadagnare punti, Dean, sono ancora arrabbiato con te. Riguardo a lei”, Cas sente un brivido corrergli lungo la schiena quando stringe la cartelletta ed un cattivo pensiero si forma nella sua testa (ha le mie analisi?), “mi segua nel mio ufficio. Devo parlarle”. Istintivamente guarda Dean, incontra i suoi occhi e, benché li trovi confusi quanto i suoi, gli chiede aiuto: non è pronto a reggere una brutta notizia, non da solo, non senza una goccia di vodka e un paio di pasticche. Che codardo. Dean sembra comprenderlo.
“Brutte notizie?” chiede infatti con quella punta di preoccupazione che non lo aiuta a stare meglio.
“Nessuna notizia, Dean, le analisi non sono ancora pronte. Dì a Sam di andare a casa a farsi una doccia, le infermiere cominciano a lamentarsi”.
 
*****
 
 
Non è la prima volta che mette piede in un ospedale, anzi, ci è entrato spesso e volentieri, sia in veste di paziente quando era un marmocchio malaticcio,  sia in veste di fidanzato nel panico quando Dean si è rotto un braccio giocando a football, sia come medico tirocinante quando era ancora all’università. Sono (erano) un po’ come il suo habitat naturale, non per niente desiderava diventare cardiologo. Lo desidera ancora, ma ad un certo punto le sue priorità sono cambiate senza che potesse accorgersene. Deve essere stata una cosa graduale perché davvero non ricorda quando ha cominciato a mettere Dean davanti ai suoi sogni, davanti a tutto; potrebbe essere stata quella volta in mensa, quando Dean l’ha invitato a sedersi al tavolo con i suoi amici, o quella volta che gli ha insegnato a pattinare (il ghiaccio è molto più confortevole della terra, è pulito), oppure la prima volta che l’ha baciato ed è arrossito fino alla punta dei capelli.
Castiel non lo sa. Sa solo che prima c’era Dean e poi non c’era più, e non c’erano più nemmeno i suoi sogni.
Tutto per un malinteso – a pensarci bene non fa così ridere.
Forse è per questo che ora si sente così a disagio.
La vita gli sta urlando contro: “potevi avere tutto questo, potevi essere al posto di Kevin, potevi essere qualcuno, invece hai mollato. Patetico” e, grazie tante, come se Castiel non lo sapesse. Forse è il karma – forse è che sono passate più di dodici ore ed è ancora sobrio. È piuttosto sicuro che il dottor Tran voglia parlargli di questo. Di cos’altro, se no?
Le sue teorie vengono confermante quando il ragazzo poggia sulla scrivania del suo studio il tubetto di speed ed incrocia le braccia, in attesa, gli occhi scuri che lo scrutano. Si sente giudicato, ed il fatto che ci sia abituato non rende la sensazione meno schifosa. Sospira.
“Lei sa che queste sono illegali, non è vero?”
“Se dichiarassi di no, otterrei uno sconto della pena?” Il medico aggrotta la fronte, inarca un sopracciglio, “Se avessi voluto denunciarla, l’avrei già fatto”.
“Lo farà appena le analisi avranno confermato la mia inutilità. O, in caso contrario, appena dopo il trapianto. Non sono stupido, dottor Tran. Solo perché eviti il problema imminente, non significa che non ce ne sia un altro all’orizzonte, no? Magari anche peggiore”.
“Se sapeva che sarebbe finito in prigione, perché è venuto?”
“Perché mio fratello sta morendo”, esclama Castiel spalancando gli occhi. Quel tipo pensa davvero che sia senza cuore? Certo, lui e Gabriel non sono andati sempre d’accordo, ma è l’unica famiglia che gli resta; Anna e Balthazar non portano neppure il suo stesso cognome, li avrà visti un paio di volte ai pranzi di Natale e poi al funerale di loro padre, a Manchester, cinque anni prima. Sono volati in Inghilterra quando i loro genitori hanno divorziato; Gabriel e Castiel, al contrario, essendo ancora dei mocciosi, sono rimasti in America con loro madre. Non è stato facile,  Castiel si rende conto di quanto sia stata dura per sua madre crescerli da sola. Se ne rendeva anche allora, per questo se ne stava sempre zitto e camminava in punta di piedi. A volte Gabriel lo prendeva in giro, Cas era troppo buono per dargli del ciccione (Gabe ha sempre avuto questa insopportabile dipendenza dagli zuccheri, che gli ha fatto pesare parecchio gli anni della pubertà). Ma riusciva sempre a farlo ridere e gli voleva bene. È suo fratello, perché diavolo non dovrebbe rischiare la prigione, o qualunque altra cosa, per lui? “Lei non ha fratelli o sorelle?”
“No, purtroppo no. È buffo, sa? Mesi fa, quando ho incontrato Dean mi ha fatto la stessa domanda. Suo fratello si era lussato una spalla durante una rissa, ma non potevamo tenerlo qui per via dell’assicurazione. Suppongo stesse cercando di appellarsi alla mia umanità, o qualcosa del genere. Alla fine siamo diventati buoni amici, e lo rispetto molto, anche se rischia di farmi licenziare ogni volta che mette piede qui dentro. Sa perché non ho mandato via Sam quel giorno?”
Cas aggrotta le sopracciglia, lo guarda confuso mentre prende posto dietro la sua scrivania; sembra molto più vecchio con quell’espressione seria e le mani intrecciate sul legno.
“Sono io che non riesco a cogliere il punto o è lei che sta semplicemente vaneggiando? Sa che queste sono illegali, no?” lo scimmiotta indicando con un cenno il tubetto biancastro sul tavolo. È così vicino, sarebbe così semplice afferrarlo e scappare. Si costringe a guardare da un’altra parte; non può farlo.
“Suvvia, non mi risponda con altre domande”, risponde con un sorriso ironico che lo infastidisce.
“E lei non mi faccia domande di cui mi è impossibile conoscere la risposta, ed arrivi al sodo. Cosa vuole da me?”
“Ha ragione, è inutile girarci intorno. Mi dica, lei conosce il giuramento di Ippocrate?” Castiel rotea gli occhi all’ennesima domanda, ma Kevin si sbriga ad aggiungere: “risponda e basta”.
“Si, lo conosco. Ho studiato medicina per sei anni all’università”.
“Bene. Allora saprà che è dovere di ogni medico aiutare le persone in difficoltà, che si tratti di una spalla lussata o di leucemia. È dovere di ogni medico fare la cosa giusta per il paziente, indipendentemente dalla pila di cartacce da compilare o dal denaro che potresti guadagnarci. È per questo che ho aiutato Sam, ed è per questo che non la denuncerò. Il giuramento di Ippocrate me lo impedisce: sono tenuto ad aiutare Gabriel in ogni modo ed a rispettare il segreto professionale per quanto riguarda lei e ciò che mi confiderà oggi”.
“Ma io non sono un suo paziente. Non sono nemmeno ricoverato in quest’ospedale”, mormora incerto, spostando il peso da un piede all’altro. Il medico gli rivolge un sorriso furbo, estraendo un foglio prestampato dalla sua cartelletta blu.
“Metta una firma qui, signor Novak, si lasci aiutare. La tossicodipendenza è considerata una malattia, lo sa? Possiamo curarla. Potrà appellarsi alla mia professionalità e io non verrò licenziato per non averla denunciata.
Cominciamo a risolvere un problema alla volta, le va? Prima quelli imminenti. Poi penseremo a quelli che verranno”.
Castiel si umetta le labbra e si siede di fronte a lui, prendendo il foglio tra le mani; tremano. Le anfetamine sono appena qualche centimetro dal suo gomito. Può prenderle, può correre via. È sicuro che il dottor Tran non lo fermerebbe. Può chiedere a Meg di ospitarlo per qualche giorno e poi sparire di nuovo. Può vivere senza Dean (l’ha già fatto) e può vivere senza sentirsi in colpa (l’alcol aiuta).
Può fare tutte queste cose, ma il suo è sempre stato più un problema di volontà e questa volta Castiel non vuole scappare* – ogni fibra del suo corpo invece lo vorrebbe e ruggisce. Vuole fare la scelta giusta perché, anche se non è un medico, è quello in cui ha sempre creduto.
“Dove devo firmare?”
“Proprio qui. Ora mi dica, quale altra droga è solito assumere?”
“Al giorno d’oggi assumere droghe costa parecchio”, si schiarisce la voce, soffermandosi con la penna sull’ultima lettera del suo nome, “e non sempre puoi andare a letto col tuo spacciatore, specie se è una donna e tu hai uhm- altre preferenze”. Fa una pausa, lo guarda di sottecchi, riporta lo sguardo sulla sua scrittura scura. Non sa come dirglielo.
“Insomma, quello che sto cercando di dire è che, come le ho già detto, ho studiato medicina, e- diciamo che la mia materia preferita è sempre stata la chimica”.


#Angolo della disperazione
Hello boys!
 
Eccoci al secondo capitolo! Vorrei ringraziare tutti quelli che hanno recensito il primo e messo tra le seguite questa storia!
Riguardo i temi trattati nella fanfiction: malgrado il titolo della storia sia ironico, non è mia intenzione scherzare o prendere alla leggera malattie come la leucemia o la tossicodipendenza, affatto. Sono tematiche importanti, pertanto sono disposta a mettere l'avvertimento o a cambiare rating qualora qualcuno lo ritenesse necessario (secondo me non lo è, ma non vorrei rischiare di urtare la sensibilità di qualcuno).
Per quanto riguarda i personaggi: temo che siano OCC, ma è anche questo il bello degli AU. 
Cosa ne pensate di questo Kevin appena appena stressato? Mi sono ispirata un po' ad House per alcuni aspetti.
Per quanto riguarda Cas, si. E' ispirato a Walter di Breaking Bad- il mio piccolo chimico <3
Nota: la frase asterischezzata (?) è presente anche nell'altro capitolo, ma è una cosa volontaria.
Non so cos'altro dire quindi mi limito a ringraziare chi ha letto fin qui e farà lo stesso per il prossimo capitolo!
Stay okay,
AlfiaH

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Quando pensi che le cose vadano male, guarda indietro ***


 Quando pensi che le cose vadano male, guarda indietro
 

Avere diciassette anni di ormoni impazziti non era esattamente la cosa più fantastica del mondo, ma Dean poteva sopportarlo se al suo fianco c’erano Lisa e le sue capacissime mani. Era la ragazza più bella che avesse mai visto, popolare, carismatica, aveva un corpo da urlo ed era fissata con lo yoga, il che la rendeva abbastanza pieghevole – Dean non sapeva come altro definirla. Non era solo un bel faccino, come diceva Benny,  era intelligente e dolce ed aveva un sorriso che gli scaldava il cuore (se l’avesse detto ad alta voce, sarebbe finito in prigione prima del tempo per aver picchiato i ghigni stronzi dei suoi compagni); era perfetta e l’amava e nessuno l’avrebbe convinto a non ripeterglielo in continuazione, nemmeno lei che alzava gli occhi al cielo e gli pizzicava una spalla.
“Non so quale mettere”, si lamentò la mora sollevando prima un attillatissimo abito blu cobalto e poi uno che, per Dean, poteva essere benissimo del medesimo colore ma che, a detta di Lisa, non lo era. Alla muta richiesta d’aiuto della sua ragazza Dean, che se ne stava beatamente stravaccato contro la spalliera del letto, rispose con una scrollata di spalle e un sorriso seducente. “Allora non metterne nessuno. Saresti bellissima anche senza”. Lisa inarcò un sopracciglio e ridacchiò: “temo che finirei con l’infrangere un paio di leggi, tesoro”. “Poco male”, sogghignò, “almeno finiremmo in prigione insieme. Sai, con tutti i depravati che dovrò picchiare per averti guardata, penso che mi daranno almeno un paio d’anni”. “Cretino”, chiocciò lei lanciandogli una maglietta appallottolata estratta appositamente dall’armadio aperto; lui la schivò senza problemi. “Dai, Dean, è una cosa importante, è il ballo di fine anno, ci saranno tutti! Ho avuto un’anteprima del vestito di Cassie ed è fantastico e mi oscurerà del tutto se non ne trovo uno più bello, e non credere che non sappia che siete stati insieme l’anno scorso e- smettila di ridere, stupido moccioso, o ti mollo all’istante!” Il ragazzo schivò un altro paio di indumenti e,uh, ecco dov’era finita la sua felpa.  “Non lo faresti mai, mi ami troppo”, ammiccò al suo indirizzo pulendo le dita sporche di formaggio sulla stoffa dei pantaloni, sotto lo sguardo schifato della ragazza. “O forse ho pietà di te perché so che non riusciresti a trovare nessun’altra disposta a sopportarti”, propose in alternativa, già nuovamente concentrata sul suo problema; osservava con aria critica entrambi i vestiti che teneva sollevati  sulle rispettive grucce, indossando davanti allo specchio prima l’uno e poi l’altro, e poi di nuovo, premendoseli addosso. Ne aveva già scartati sei; Dean sapeva ciò che questo comportava e ne era piuttosto terrorizzato. “Può darsi”, concesse. “Comunque ti sta meglio quello blu”. Molto furbo, Dean. Lisa, il ragazzo non seppe spiegarsi grazie a quale capacità paranormale, identificò “quello blu” con solo uno dei vestiti blu che teneva in mano (l’altro prese il nome di “quello più blu” nella testa di Dean. Non che avesse senso, ma cosa non si fa per amore?). “Ma mi fa sembrare grassa” fu la risposta, e lui era lì lì per chiedere ‘allora perché diavolo l’hai comprato?’ ma trattenne la sua faccia esasperata e, molto pazientemente, le consigliò, data la situazione, di indossare l’altro. Povero illuso. “E’ troppo da funerale”, si lamentò la magnifica creatura che aveva come fidanzata e Dean si chiese davvero come potesse un vestito con quella scollatura essere adatto ad un funerale. La conclusione, comunque, fu inevitabile.
“Devi assolutamente accompagnarmi a fare shopping”.
 
*****
 
Quando la porta si apre ed il dottor Tran fa la sua entrata, Castiel maledice tutti i santi che conosce – e ne conosce parecchi dal momento che la sua famiglia è sempre stata molto religiosa – perché è costretto a separarsi da Dean.
Dean che sembrava molto vicino (e parecchio intenzionato) a fotterlo contro il muro. Maledizione.
Kevin li guarda entrambi con un sopracciglio alzato e un’aria scettica, Dean tossicchia qualcosa mentre Castiel cerca di smetterla di respirare come se qualcuno lo avesse appena minacciato di piegarlo a novanta (anche se in effetti è così). Si liscia la camicia, stiracchia un sorriso meglio che può, guarda Dean di sottecchi che infila le mani in tasca e raddrizza la schiena, sicuro di sé – non tanto da ingannare il medico, però. “Ho interrotto qualcosa?”
“No”, risponde il biondo prima che Cas possa aprire bocca. “Novità?”
Kevin non sembra molto convinto; li osserva ancora per qualche istante, alla fine lascia perdere e annuisce rivolgendosi a Castiel. “Abbiamo le tue analisi”, il suo tono è professionale se non per il fatto di avergli dato del tu, come gli ha chiesto Castiel, non tradisce nulla, ed il moro si ritrova a chiedersi se sarebbe stato capace di simulare la stessa espressione distaccata se fosse diventato un medico – probabilmente no. Compresa l’occhiata significativa del dottore, il giovane Winchester fa per lasciare lo studio prima di essere immobilizzato dalle dita di Castiel, che si serrano attorno alla manica della sua giacca.
Ha bisogno di lui, ed è sciocco e infantile perché non lo vede da un anno e, come hanno chiarito poco prima, le cose tra di loro non si sistemeranno con una scopata, ma non gli importa; sta per avere un attacco di panico e non è una cosa che Castiel può affrontare da solo – per la verità, non vuole. Dean non se ne lamenta, resta; Kevin ha già perso troppo tempo. “La buona notizia è che non hai l’AIDS. O altre malattie sessualmente trasmissibili”, dice. Cas riprende a respirare, non ricorda quando ha smesso di farlo: nessuna malattia, possono procedere col trapianto e può ricominciare a fare sesso in tranquillità (se sopravvive). Ovviamente Dean non può farsi bastare la buona notizia. “E qual è la cattiva?”
“Sedetevi” e i ragazzi si siedono, la sua mano non ha ancora lasciato la manica dell’altro, aspettano che il medico si sieda dall’altra parte dell’ordinatissima scrivania. Molto professionale. Dean ne è visibilmente irritato. “Allora?” incalza.
“Non possiamo procedere col trapianto. Chiudi la bocca, Dean, non ho finito. Non possiamo procedere col trapianto perché il gruppo sanguigno di Castiel è incompatibile con quello di Gabriel”, dice pratico. Il biondo, però, non chiude la bocca. “Mi dispiace, ragazzi. Non dovrei essere io a darti questa notizia, Castiel. Credimi, ne sono molto addolorato. Tu e Gabriel non siete fratelli”.
Kevin aggrotta le sopracciglia, la luce che filtra dalla finestra gli conferisce un’aria accigliata; l’unica cosa che trattiene Castiel dal correre via ed infilarsi un ago nel braccio è la mano di Dean che stringe la sua.
 
*****
 
Ora. Non è che Dean avesse qualcosa contro Britney Spears, assolutamente: doveva pur guadagnarsi da vivere in qualche modo, la poverina, e, se la pagavano per cantare, chi era Dean per giudicare? Il suo era un lavoro come un altro, insomma. Non aveva niente neppure contro Caroline e Becky, le quali, essendo membri del comitato studentesco, si erano arrogate il compito di organizzare, per l’ennesima volta, il ballo di fine anno (illuso lui a sperare che le cose sarebbero cambiate) e, povere care, non sapevano neppure chi fosse Robert Plant. Ma, dopotutto, erano solo ragazze, Dean non poteva biasimarle – al contrario, poteva permettersi di fare commenti maschilisti nella sua testa. Non ce l’aveva neppure con Charlie che, pur potendo fungere da auriga platonica alle due pazze bestiole (Dio, era un unicorno quello che vedeva affisso sul canestro della palestra?), si era assolutamente chiamata fuori dalla faccenda, definendola troppo babbana per i suoi gusti – e cosa diavolo avrebbe dovuto significare? Dean non lo sapeva né ambiva a scoprirlo. La giustificava, comunque.
Womanizer gli stava sfracassando i timpani e quella era l’ultima sera durante la quale avrebbe potuto prendere a calci in culo di Chuck, che sarebbe partito l’indomani; era tutta colpa sua – sua e della sua malsana cotta per Becky.
In veste di presidente del comitato avrebbe potuto affidare i preparativi a chiunque, chiunque, all’interno della scuola e a Dean sarebbe andato bene, davvero. Chiunque meno che Becky; chiunque meno che Becky e Caroline insieme.
“Da quale girone infernale è uscito quel coso?” chiese rudemente additando l’unicorno;  Benny al suo fianco sorrise cattivo. “Lo stesso in cui spedirò Chuck, fratello. Sembra abbastanza orripilante”. Dean fece una smorfia scontenta per nascondere una risata: “parte domani per il Canada, trascorre l’estate dai suoi parenti. Mi sa che dovremo aspettare”. “Voi due, volete continuare a giocare ai bad boys dal cuore di ghiaccio ancora per molto? Io vorrei ballare”, intervenne Lisa col suo sfavillante abito blu (si, blu. Dean non poteva crederci) seguita dal sorriso seducente di Andrea, frapponendosi tra i due e rubando il bicchiere che il suo ragazzo teneva tra le mani. Sembrava creata a posta per stare lì, tra luci fucsia e svolazzi di stoffa, una figura dipinta sulla scena ideale – Dean si preoccupava parecchio della piega poetica e schifosamente romantica che aveva preso la sua vita, ma non se ne lamentava così tanto. “Lisa ha ragione”, intervenne la castana allacciandosi al braccio di Benny, che la chiuse in un abbraccio. “Mi piacerebbe, ma non posso ballare con te”, fece Dean con melodrammaticità circondando la vita della mora con un braccio e baciandola a fior di labbra, “il rosa-fucsia-spara-flash mi ha accecato”. Lei inclinò la testa con un “oh” compassionevole e gli carezzò il viso. “Sappiamo entrambi perché sei diventato cieco, Dean. Non devi giustificarti con noi”. L’amico scoppiò in una sonora risata, Andrea si coprì le labbra rosse con il palmo della mano, delle piccole rughe ai lati degli occhi. “Lo so, tesoro. Ma, per la verità, credo che anche tu abbia dato una mano”, ghignò, “la mia cecità è anche merito tuo”. “Non te ne sei mai lamentato”. “È difficile dire di no quando…”
“Ragazzi”, li interruppe Benny con la sua bocca affilata, “il reparto zozzerie è proprio infondo al corridoio. Svoltate a destra, c’è una porta bianca con un omino nero in gonnella. Non potete sbagliare”.
“Buona idea”, asserì il biondo prima di essere strattonato in malo modo dalla fidanzata. “Nemmeno per sogno. Prima balliamo” e lo prese per mano e lo trascinò in pista (il centro della palestra della scuola).
“Poi facciamo sesso?” chiese speranzoso facendole roteare gli occhi al cielo. “Se la serata mi soddisfa”, rispose lei poggiandogli le mani sul petto ampio, “e se riesci a chiedermelo in modo romantico”. Dean non era sicuro di aver sentito bene a causa della musica alta, ma annuì lo stesso, assecondandola, e si chinò sul suo collo, inspirò la fragranza pungente del suo profumo, strinse le mani sui suoi fianchi stretti, superò i pregiudizi e si abbandonò al ritmo con un sorriso beato. Ed furono l’alcol in circolo, le dita di Lisa che si allacciavano ai passanti dei suoi jeans, le luci sulla pelle, la musica nella sua testa le giustifiche che Dean si firmò quando, scorto tra la folla lo sguardo straziato di Castiel su di lui, baciò la sua ragazza e serrò gli occhi.
 
*****
 
Dean ha davvero un bel problema perché non sa davvero come farà a guardare Sam negli occhi, a dire a Gabriel che dovrà iniziare la chemioterapia perché in realtà non ha nessun fratello, a non dare di matto e prendersela con Castiel che, almeno in questo caso, non ha colpe; non sa come farà con l’assicurazione, spera che Kevin dia loro una mano (si sdebiterà con lui, prima o poi); deve trovare un modo per trattenere Castiel (lo vuole davvero?) ed, in alternativa, cercare qualche altro parente in vita che, possibilmente, abbia lo stesso gruppo sanguigno del suo quasi cognato.
Può farcela.
Kevin è stato chiaro, questo genere di situazioni richiedono tempo e pazienza e  potrebbero volerci anni e non si sa come andrà a finire, e un sacco di cose che Dean si è rifiutato di ascoltare perché lui non aspetterà di vedere proprio nessuna fine, a costo di dover comprare midollo osseo al mercato nero dei midolli ossei – se non esiste, se ne inventerà uno.
Non esiste che stia a guardare Gabriel che si lamenta perché perde i capelli.
Quando il medico lascia la stanza dandogli una pacca sulla spalla nel passargli vicino, Dean sente di dover dire qualcosa perché le sue dita sono ancora intrecciate a quelle di Castiel e loro non hanno tempo per i drammi famigliari alla Beautiful. “Cas”, inizia. La sua voce assomiglia incredibilmente ad un sospiro ma basta ad attirare l’attenzione degli occhi umidi dell’altro. La gola gli si stringe un po’ quando si immerge in quelle iridi blu, ma deve darsi una regolata per il bene della sua salute mentale; praticità, Dean. “Troveremo un’altra soluzione, okay? Non è la fine del mondo, Gabe rimane comunque tuo fratello. Non voglio sentire obiezioni a riguardo, d’accordo? Ora il problema è trovare un altro donatore, visto che non se ne parla di rispettare la lista d’attesa. Sai come funzionano queste cose, l’ha detto anche Kevin: quelli coi soldi hanno sempre la precedenza e noi siamo solo degli straccioni. E poi Gabriel si è già espresso a riguardo: non accetterà di passare davanti a qualcuno che magari è in lista da mesi. Non abbiamo altra scelta, Cas. Mi stai ascoltando? Dobbiamo sapere se c’è qualche parente in vita disposto a sottoporsi all’operazione. È la nostra unica possibilità. Beh, legalmente parlando”. Per la verità, il giovane Winchester ha l’impressione che l’altro non lo stia davvero ascoltando e annuisca solo per correttezza –  ha anche l’impressione che voglia un abbraccio, ma Dean non pensa di esserne capace (non ancora). Lui e Cas hanno tempi di reazione diversi, Dean lo capisce, ma gli sembra sia seriamente passata un’eternità prima che il moro abbia lasciato la sua mano – Dean non è preparato alla sensazione di freddo che sente. Cas preme i palmi sugli occhi, liscia le sopracciglia, le lascia sulle tempie, i polpastrelli tra i capelli. “Si”, dice lentamente, poggiando i gomiti sulla scrivania. “Nostra madre amava scrivere quando era giovane. Forse aveva un diario o qualcosa del genere…”
“Potrebbe essere utile. Non ve ne ha mai parlato?” Castiel scuote la testa: “non che io ricordi. Ma suppongo che mio padre lo sapesse, si spiegherebbero tante cose. Forse anche Anna o Balthazar lo sanno”, aggiunge con una punta di risentimento. Dean può capirlo. “Anna non lo sa, me lo avrebbe detto quando-” un’occhiata confusa dell’altro lo costringe a lasciare la frase a metà, nel dubbio – dovrebbe dirgli che si è scopato sua sorella? Dean pensa di no. Forse lo farà, ma non oggi – “quando ci ho parlato. Per quanto riguarda Balthazar, come ti ho già detto, il figlio di puttana è irrintracciabile. Sembra sparito nel nulla”. “Tipico di Balth”, commenta Castiel con uno sbuffo amaro, che un po’ lo ferisce. “Deve essere una cosa di famiglia”.
“A quanto pare”, concede vagamente, rivolgendo lo sguardo all’ampia finestra. Il sole si incastra perfettamente tra le lunghe e scompigliate ciocche scure, accarezza la barba incolta, cancella le occhiaie scure e lo ringiovanisce; sembra più splendente, la luce, sulla sua pelle pallida. “Dobbiamo considerare la possibilità che non esista nessun parente, dal momento che nessuno l’ha cercato per tutto questo tempo. Potrebbe non avere nessuno, Dean”. “Ha noi”. Dean sa che non è quello che Castiel intende, ma ha bisogno di dirlo lo stesso: Gabriel ha loro. “Non è questo che intendo, lo sai. Dico solo che i nostri genitori l’hanno adottato per un motivo. E anche se esistessero, dobbiamo considerare la possibilità che ci chiudano la porta in faccia. Non andiamo in giro a chiedere caramelle, Dean”, afferma. È sciocco, ma Il fatto che Cas abbia usato la prima persona plurale lo rincuora.  “Abbiamo sempre il diario di tua madre. Troviamolo e sapremo la verità”.
“Sempre che ne esista uno. E se anche esistesse, potrebbe non esserci scritto quello che vogliamo sapere.”. “Beh”, sbuffa battendo i palmi sulle cosce per alzarsi in piedi, “di certo non lo scopriremo restando col culo sulla sedia, no? Da dove dobbiamo iniziare a cercare?”
“Se Gabe non ha toccato nulla, come abbiamo deciso dopo la sua morte, dalla sua camera. Se non è lì, la cosa diventa difficile”, mormora. “Una cosa alla volta, Cas. Prima dobbiamo dirlo a Gabe, poi andremo a casa tua a cercare informazioni. Ci regoleremo in base alla situazione, okay?”
“Okay”, risponde lentamente. Non lo segue quando il giovane Winchester si dirige verso la porta, avvolge le braccia attorno al corpo come scosso da un brividi –potrebbe abbracciarlo, ora. Dean è fermo sulla porta, gli osserva la schiena: la distanza che li divide gli appare troppo ampia per essere azzerata da qualche passo. “Vieni?” chiede, il tono fintamente seccato. “Si”, risponde velocemente l’altro, “tra un attimo. Devo dirglielo io. Voglio- ho solo bisogno di un attimo”, e le sue spalle si abbassano in un sospiro.
 
 *****
 
Dean non aveva la più pallida idea di come fosse finito in quella situazione di merda.
I suoi piedi affondavano nella neve, rapidi, il vento gli scompigliava i capelli; l’Inverno a Lawrence faceva sempre abbastanza schifo e Dean non trattenne un’imprecazione quando quasi scivolò sui gradini ghiacciati del parco. Non era esattamente una giornata ideale, ma il Natale era vicino ed i bambini non si lasciavano intimorire da un po’ di freddo, giocavano a palle di neve, si rotolavano nel bianco e sfoderavano sorrisi quando qualcuno chiedeva loro quanto fossero stati bravi durante l’anno.
Dean li invidiava un po’.
Non era mai stato un amante del Natale e delle festività in generale, che spesso significavano “famiglia” e “tuo padre non c’è neppure quest’anno”, ma non gli dispiaceva poi tanto saltare la scuola per la neve e passare un po’ di tempo a casa con Sammy. Poteva sopportarle, ecco. Poteva portare Lisa a pattinare.
Eppure ora stava odiando così tanto l’orlo bagnato dei suoi jeans ,che lo rallentavano in qualche modo, che si sarebbe volentieri strappato i vestiti di dosso, improvvisamente troppo pesanti sulle sue spalle.
Dio, Dean aveva affrontato cose peggiori di queste, perché non riusciva a reagire?
Insomma, lui amava Lisa. Amava la sua bocca e i suoi occhi, la sua pelle e i capelli, le sue mani (meravigliose, fantastiche mani), le sue gambe (lunghissime, fantastiche gambe), il suo culo da cheerleader (doveva pronunciarsi anche su questo?). insomma, Dean amava Lisa e Lisa era una donna – Dean aveva controllato. Ripetutamente – e ciò implicava una certa eterosessualità intrinseca al suo essere.
Allora perché cavolo aveva appena baciato Castiel?
Perché cavolo l’aveva baciato di nuovo?
Aveva ancora il sapore di caffè sulla lingua e, onestamente, faticava a ricordare se si trattasse di quello ristretto di Castiel o del proprio cappuccino; comunque non riusciva a dispiacersene e la cosa lo feriva in modo spaventoso. Cristo, sentiva persino gli occhi pizzicargli ed incolpare l’aria gelida non lo faceva stare meglio, come non lo aiutava incolpare Castiel – o l’universo. Stava piangendo come una dannata femminuccia ed era unicamente colpa sua; si era sporto troppo, si era allungato un po’ di più oltre il bancone della cucina e Castiel stava ridendo, raccontava del campus, delle lezioni, di quanto Dean gli fosse mancato negli utlimi sei mesi, di come avesse conosciuto il suo ragazzo, e Dean aveva ascoltato a stento il suo nome – Alfred, Al, Alfie? –  prima di premere le labbra sulle sue.
Era stato come tornare a casa.
Come se, per tutto quel tempo, fosse stato Dean quello lontano, perso in una città sconosciuta fatta di verde e libri e cose noiose; come se fosse stato lui quello costretto a guardare la persona amata ballare con un’altra, appena il giorno prima della partenza.
Cas non si era tirato indietro; Dean non era sicuro di ciò che avrebbe voluto che facesse, ma non era contento così e di certo non sarebbe stato contento se l’altro lo avesse respinto – è piuttosto certo che, nel caso, avrebbe provato qualcosa di molto simile ad un cuore spezzato.
Si passò una mano guantata sugli occhi per asciugare qualche lacrima, rallentò un poco, si compianse ancora per qualche attimo e poi, finalmente, sospirò; adocchiò una panchina ma, poiché era ancora umida di pioggia, fu costretto a ragionare in piedi.
Castiel era tornato a casa per le vacanze di Natale. Doveva solo aspettare qualche giorno, stare lontano dai Novak, fingere un’influenza. Bobby gli avrebbe fatto qualche domanda, Dean avrebbe trovato qualche scusa – Lisa si sarebbe arrangiata per un paio di giorni, non era la fine del mondo. Poteva funzionare.
Quello che non poteva fare era affrontare Castiel.
“Dean!”
E Dean fu tentato di correre. Molto velocemente. Pensò di rimanere immobile – forse non mi noterà – e poi scivolò di lato, lentamente, nascondendosi dietro ai tubi colorati di una giostra. Solo per avere il tempo di escogitare qualcos’altro, ovviamente. “Dean!” la voce dell’amico gli sfiorò le spalle improvvisamente vicina, ma quando Dean si voltò, con l’aria di chi è appena caduto dalle nuvole, fu costretto a spalancare gli occhi perché Castiel aveva un’espressione ridicola e le braccia spalancate, e non perché voleva abbracciarlo. Non fece in tempo ad allungare le mani per fermarlo, pertanto il moro gli si schiantò addosso come un tir, schiaffandolo sul terreno gelato. “Gesù, Dean! Mi dispiace tanto!” fece mortificato, sollevandosi per aiutarlo. Fortunatamente (più o meno), il biondo aveva arrestato la sua corsa e Cas era riuscito a non cadergli completamente addosso, restando in equilibrio con le braccia. “Hai battuto la testa? Dean!”
Impiegò più di qualche secondo ed un paio di bestemmie per rimettersi in piedi e, se da un lato la presenza di Castiel era fondamentale per quello fisico, dall’altro minacciava pericolosamente il suo già precario equilibrio mentale – da quando le mani di Castiel erano così forti da sorreggerlo da sole?
“Dean, mi stai spaventando”, disse allarmato passandogli un braccio attorno alla vita; il biondo si tirò via come scottato e il movimento brusco minacciò di rispedirlo al tappeto. Si portò una mano alla testa dolorante e cercò con la coda dell’occhio qualcosa a cui poggiarsi, che non fosse l’altro ragazzo. Non ottenne molti risultati. “Sto bene”, gracchiò. “Appoggiati a me, ti porto in ospedale”.
“Neanche per sogno!” esclamò, senza sapere bene a quale delle due cose si riferisse – magari ad entrambe. “Sto bene”, ribadì con più sicurezza, seppur leggermente a disagio (sarebbe servito fingere un malore per non affrontare l’argomento “ho baciato il mio migliore amico”? Probabilmente no). “Potresti avere una commozione cerebrale, Dean” lo rimproverò l’altro, caparbio. “Incoraggiante come sempre, Cas. Sarai un’ottima infermiera”, scherzò. L’altro finse di non aver sentito e lo guidò fino alla panchina, sulla quale lasciò cadere il ragazzo, incurante del sedere bagnato che avrebbe avuto di lì a poco. Gli scostò la mano con la sua – Dean tentò di ignorare il brivido che gli percorse la schiena – e la lasciò correre tra i suoi capelli, in cerca di una ferita. Aveva l’espressione più concentrata che avesse mai visto. “Cas, sto bene. Davvero”, tentò di nuovo. Il moro, ovviamente, non lo ascoltò nemmeno. “Servirebbe del ghiaccio”. “Ce n’è quanto ne vuoi. Anche troppo, per i miei gusti”. Il suo tono lamentoso fece sorridere l’amico, che si sfilò la sciarpa e si chinò ai suoi piedi per raccogliere della neve e appallottolarla tra le mani; Dean lo guardava scettico, con un sopracciglio alzato, ma evidentemente a Castiel importava ben poco di apparire ridicolo ai suoi occhi – almeno non tanto quanto importava a Dean. L’idea lo divertiva abbastanza. “Proprio una brava infermiera”, ghignò mentre l’altro avvolgeva la neve solida con la stoffa. “Sai cosa facciamo noi infermiere per zittire i pazienti troppo loquaci?” Cas lo guardò da sopra il suo ginocchio, gli occhi blu ridotti a due fessure sorridenti. Quando ebbe preparato un fagotto che riteneva soddisfacente, si alzò, il ghigno di Dean che si allargava. “Alzate la gonna e scoprite il siringone? Ah!” L’altro gli schiaffò la sciarpa sulla testa, il biondo gli lanciò un’occhiata oltraggiata, borbottando: “ora potrei avere una commozione cerebrale”.
“Mi sembri abbastanza vigile. Che giorno è oggi?”
“Il giorno in cui ti manderò definitivamente a fanculo”, rispose acido premendo sul bernoccolo. “Spero proprio di no. Concentrati: che giorno è oggi?”
“Cas. Sono le vacanze di Natale, niente scuola. Niente scuola: come diavolo faccio a sapere che giorno è oggi?” sbuffò: era talmente ovvio. “Okay”, concesse Castiel, “dove ci troviamo?”
“A Clinton Park, con la persona più odiosa del mondo”. Dean era sicuro di aver percepito lo sforzo di Castiel per non roteare gli occhi; doveva essere tipico dei medici, pensò. “Come ti chiami?”
“Lo sai che non lo so?”
“Dean”. Il suo nome grondava esasperazione. “Per favore”.
“Me l’hai appena detto tu, idiota. Sto bene, Cas, davvero. Smettila di comportarti da mammina apprensiva, è irritante”. L’amico aggrottò le sopracciglia, le mani sui fianchi, osservandolo dall’alto. “Come vuoi”, acconsentì, “parliamo d’altro, ti va? Del perché mi hai baciato, ad esempio”.
Dean gelò sul posto: ma che grandissimo figlio di buona donna.
Fuggì il suo sguardo e si schiarì la voce, ma l’altro lo anticipò: “e non venirmi a raccontare che era uno scherzo, Dean. Perché non lo sembrava affatto”.
“Non lo era”, si affrettò a rispondere. Quando sollevò gli occhi, il moro non era affatto sparito, come aveva sperato, né aveva smesso di fissarlo. Si aspettava una risposta – cosa avrebbe dovuto dirgli? “Mi dispiace, non volevo”. Che bugiardo.
“Che bugiardo”, rise amaramente ostentando sicurezza. “Se non avessi voluto farlo, non lo avresti fatto”. Dean piegò le labbra all’ingiù e scrollò le spalle, scorgendo il suo viso teso. “Forse volevo farlo, non lo so. Ci pensi troppo, Cas, non rimuginare su ogni cosa che faccio. Ti crei troppi problemi, dai troppa importanza alle cose”.
Dean era consapevole di avergli rifilato lo stesso discorso che gli aveva fatto mille quando, da piccoli, aveva ritrovato l’amico seduto da solo nel cortile della scuola, col capo chino e le mani intrecciate in grembo, chiuso nel suo silenzio.
Era anche consapevole di essere uno stronzo e, sorprendentemente, il fatto che Castiel non lo stesse più guardando non lo faceva sentire meglio, nemmeno un po’. “Lo so, hai ragione”, disse facendo un passo indietro. Premette le labbra insieme e forzò un sorriso orribile. “Tu sei il mio migliore amico, Dean, e sai che farei di tutto per te, però… Per favore. Non farlo più, non... Non baciarmi di nuovo, se non provi nulla per me, okay? So che esagero e che la sto facendo lunga e mi dispiace, ma tengo davvero ad Alfie e non voglio ferirlo. È un bravo ragazzo e si fida di me e… Sai come sono fatto, no? Mi preoccupo troppo, e non voglio sentirmi come se lo stessi tradendo”.
Dean annuì impercettibilmente, la vista offuscata; la voce gli uscì come un sussurro roco: “Si. Scusa, non volevo metterti a disagio. Alfie è un tipo fortunato”.
“Lo sono anch’io”, affermò l’altro con un sorriso migliore. “Si. Ora portami a casa, non mi sento molto bene. La testa sta per esplodermi, è normale? ”
“Decisamente, dopo la botta che hai preso”. Il moro lo aiutò ad alzarsi, l’amico barcollò e si aggrappò alla sua spalla.
Castiel insistette per portarlo in ospedale, ma Dean non aveva nessuna commozione cerebrale.

#Angolo della disperazione
Eeeeee ce l'ho fatta, assafà!
Questo capitolo è stato un parto, mi scuso per il madornale ritardo e ringrazio chi aspetta pazientemente gli aggiornamenti di questa umile fanfiction!
In particolar modo: Ciuffettina, PollyFTSissi, Sakura Hikari, Cassieynn, Rockaddicted, Ariel che mi hanno rallegrato la giornata con le loro recensioni, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite! Ve se ama un casino, bimbi belli <3

Stay awesome,
AlfiaH <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Gabriel si rese conto di essere spacciato quando il suo rapporto divenne planetare ***



Gabriel si rese conto di essere spacciato quando il suo rapporto divenne planetare


Avvertenze: possibile (probabile) OCC dei personaggi, incapacità dell'autrice di scrivere fluff,  corde ed olio per motori, cose. Come sempre le parti scritte in corsivo rappresentano i flashback.





Sam non aveva avuto problemi a confidare a suo fratello di avere certe tendenze (insomma, erano quasi due anni che Dean stava con un uomo, quindi non era esattamente nella posizione di poter giudicare), ma era piuttosto restio, per non dire terrorizzato, a confessargli la sua relazione con Gabriel.
Gabriel: il fratello maggiore mentalmente ritardato e con una dipendenza dallo zucchero del perfettissimo fidanzato di suo fratello – lo stesso Gabriel al quale Dean rivolgeva il suo sorriso alla “non ti strangolo soltanto perché Cas ti vuole bene” e che aveva avuto la faccia tosta di appiccicargli le labbra sulla bocca ancor prima di invitarlo ad uscire. Ovviamente Sam aveva rifiutato in malo modo sia l’approccio (anche se non con troppa enfasi) sia l’invito; insomma, essere abbordati in un bar dal tuo vicino poco raccomandabile, che aveva già l’età per bere (e non solo), non era esattamente il massimo che Sam si aspettava dalla vita – ma non si era aspettato neppure che un individuo del genere potesse essere imparentato con una persona così gentile e genuina come Castiel, a dire il vero, aveva soltanto avuto tempo per farci l’abitudine, e Gabriel doveva aver afferrato questo sottile meccanismo del suo cervello (o forse era stato semplicemente fortunato) perché non si era per niente arresto al primo rifiuto, né ai trecentottantasette successivi.
Alla fine gli era bastato sparire per un po’ e Sam aveva semplicemente sentito troppo la sua mancanza – un piano perfetto, Gabe se ne vantava in continuazione. Era sorrisi e battute e miele e lunghe occhiate languide, si sporgeva oltre la sua spalla e gli baciava il collo facendolo rabbrividire; era proposte indecenti, sguardi innocenti e “cosa ho detto di male?” ai “no” perpetuamente categorici di Sam; era tutto messaggi sconci alle tre di notte e beep di cellulari che riempivano i silenzi delle sue notti insonni – era quel pizzico di stranezza, la virgola fuori posto delle sue giornate dalla punteggiatura già così sballata, quella che non ti va di sistemare perché, anche se non hai la minima idea di come sia finita lì, infondo ha qualcosa di artistico e giusto.
Gabriel creava vuoti attorno a sé quando smetteva di blaterare e spariva, spazi di niente in cui Sam annaspava senza speranze (come se l’adolescenza non fosse abbastanza), e, benché il giovane Winchester non avesse mai mentito a suo fratello, si ritrovò ad arrampicarsi sugli specchi spesso e volentieri per non far scappare il suo scopa-amico-senza-impegno allergico alle relazioni (Gabriel avrebbe preferito cambiare sesso e farsi suora piuttosto che etichettarsi come “fidanzato”, e la cosa, in verità, gli spezzava sempre un po’ il cuore).
“Gabe” il suo tono doveva suonare come un rimprovero, ma il biondo non lo prese molto sul serio, si limitò a roteare gli occhi al cielo e gli regalò ancora qualche bacio dolciastro all’angolo della bocca, una mano pericolosamente adagiata sul suo petto ampio. “Dean potrebbe tornare da un momento all’altro”, lo avvertì, “e c’è Bobby che dorme sul divano”. “Allora dovrai tapparmi la bocca, tesoro” e si alzò sulle punte per approfondire quel contatto, al quale, però, il moro fu pronto a negarsi, bloccando con la propria la mano che era scivolata sul suo stomaco – “che bastardo”, sembravano dire le labbra di Gabriel piegate all’ingiù. “Non qui”, disse perentorio stringendo debolmente la presa sulle sue dita, incastrandole tra le proprie, già smisuratamente grandi. Fece per accostarsi alla porta semichiusa del garage, ma l’altro lo trattenne piantando i piedi nel pavimento; portò il loro intreccio alla bocca e ne baciò dolcemente il dorso, sorrise sulla sua pelle, sollevò lo sguardo con una lentezza studiata e quando Sam incontrò quelle iridi ambrate che la luce fioca rendeva scure per metà seppe che non l’avrebbe avuta vinta nemmeno quella volta – spesso si chiedeva perché si ostinasse ancora a combatterlo. Forse era masochista; forse voleva semplicemente sentirsi a posto con la coscienza (non ci riusciva mai). “Qui è perfetto. Adoro il sesso in garage, non sai mai cosa aspettarti. Potresti girarti e, oh, un attrezzo che fa al caso nostro” il suono della sua voce arrivava al suo orecchio come una carezza languida, mentre il biondo si premeva contro il suo corpo per raggiungere la mensola alle sue spalle. Sam quasi si strozzò con la saliva quando l’altro gli mostrò una corda arrotolata e dell’olio per motori con un ghigno per niente rassicurante. “Stai scherzando”, tentò. “Paura di un po’ di bondage?” lo canzonò l’altro riponendo l’olio sul pavimento. Tenne la corda su una spalla. “Ho paura che mio fratello mi trovi legato come un salame e con le mutande calate nel mio garage mentre faccio sesso con suo cognato”. Gabriel stava già armeggiando con la sua cintura, la sfilò come se non avesse mai fatto altro nella vita. “Sembra davvero allettante, sono già eccitato”. Si umettò le labbra, Sam fu costretto a deglutire un paio di volte prima di aprire bocca perché la mano del suo ragazzo (che problema c’era se lo chiamava così solo nella sua testa?) era nelle sue mutande e lui avrebbe voluto fare qualcosa per ricambiare, davvero, ma aveva una domanda. Avrebbe potuto (avrebbe dovuto) tenerla per sé perché infondo conosceva già la risposta, perché, okay, amava Gabriel, ma amava un po’ anche se stesso e non avrebbe dovuto farsi del male in quel modo – c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in lui. “Non è la prima volta che lo fai”, dopotutto non era nemmeno una domanda, ma non era davvero quello il punto. I suoi jeans erano già sul pavimento. “Cosa, legare qualcuno o fare sesso in garage? Non che la risposta cambi. Comunque sarebbe carino se non mi lasciassi fare tutto il lavoro, fiocco di neve”. “Non è la prima volta che lo fai da quando stiamo- da quando, voglio dire…” il biondo socchiuse gli occhi, si lasciò spingere alla parete. “No”, mormorò lentamente. “Qualche problema?”
Sam si morse la lingua e gli rubò la corda dalla spalla.
*****
 
Ignorare la sensazione che gli attorciglia lo stomaco ogni volta che mette piede in ospedale non è facile, e non è tanto per il sangue o le malattie (Dean, al contrario, è terrorizzato dagli aghi). Il cuore gli si stringe per le dita strette attorno alle ginocchia e la testa china di un bambino che aspetta fuori dalla sala operatoria e per lo sguardo perso di una donna alla quale hanno appena dato una brutta notizia; per le figure curve in quelle stanze bianche. Sam rivede il se stesso di parecchi anni prima, arricciato su una sedia metallica ed ingobbito dal dolore, ed ha paura di ritornare così (forse lo è già e Dean tenta di raddrizzarlo con le pacche che gli dà sulla schiena per salutarlo, o consolarlo, o qualunque cosa Dean non riesca ad esprimere a parole). Alcune persone non si sollevano mai, alcune, come Dean, ad un certo punto possono solo spezzarsi; quando sono morti i loro genitori, Sam non ci ha nemmeno provato.
Sale a due a due le scale che lo separano dal reparto di oncologia, attento a non rovesciare i caffè che ha appena preso al bar – quattro caffè ed una manciata di caramelle alla fragola, precisamente, perché è comunque il fidanzato di Gabriel – ma rallenta quando intravede la figura accigliata di Ellen in cima alla rampa. “Li hai lasciati da soli?”, le chiede con un sorriso divertito; riesce perfettamente ad immaginare lo sguardo supplicante che Gabe deve averle rivolto prima che lei lo lasciasse con Bobby – perché, okay, Gabriel sarà anche una faccia di bronzo, ma chi è che non avrebbe paura del padre del proprio ragazzo che ti ha minacciato con un fucile da caccia (ripetutamente)?
“Volevo parlare un po’ con te”, dice lei affiancandoglisi. Lui annuisce, serio, le porge il suo caffè. “Suppongo che il caffè fosse una scusa“. “Si e no”, risponde criptica facendo spallucce ed abbozzando un sorrisetto, “hai un aspetto di merda”. Che in casa Singer-Winchester è un modo meno sdolcinato di chiedere “come stai?”. “Non riesco a dormire”, conferma Sam con un sospiro. “Sono stanco e preoccupato, e siamo solo all’inizio. La cosa peggiore è che mi sento inutile. Non so cosa fare, Ellen, io… Voglio lottare, davvero, al fianco di Gabe. Voglio essere forte. Ma ogni volta che metto piede in ospedale, io…” le mani gli si stringono attorno al vassoio di plastica, colme di frustrazione, e si aprono come a voler lasciare andare tutto solo con quel gesto. Ora la donna è seduta accanto a lui e gli posa una mano sul braccio,  pronta ad ascoltarlo, e Sam gliene è grato; è felice che sia toccato a lei e non ad una casa famiglia, che Ellen sia sua madre. Non potrebbe chiedere di meglio, davvero, ma questo non gli impedisce di sentire la mancanza dei suoi genitori ogni sacrosantissimo giorno. “Non posso perdere anche lui, capisci? Vorrei poter fare qualcosa per aiutarlo, per uscire da questa situazione, ma non posso. Cosa potrei fare? Dean si è fatto mezza America in macchina per trovare una soluzione e io me ne sto qui a fare da dama di compagnia. E lo so, so che non è questo il punto, che Gabe ha bisogno di me qui, che non posso fare altro, che le cose accadono. Ma l’idea mi manda in bestia lo stesso- perché lui? Perché mamma e papà? Cristo”, sibila. Si passa le mani sul viso, le dita si incastrano in qualche ciocca sulla fronte, scivolano sulle guance, si incrociano sotto al mento prima di sciogliersi sotto il tocco delicato di Ellen, che rimane ancora un attimo in silenzio e gli lascia spazio per raccogliere i pensieri, riformulare frasi – parlare con Dean non è la stessa cosa. Suo fratello è un brav’uomo e Sam lo ama con tutto se stesso, ma è anche quel genere di persona che fornisce soluzioni (idiote) e sputa consigli (idioti) ancor prima di aver ascoltato il problema per intero. Che sia per la sua indole pragmatica o perché semplicemente è una testa di cazzo, Sam non lo sa. Sa solo che da quando è andato al college Ellen è quella che gli manca più di tutti. “Dovrei prendermi cura di lui”. “Lo fai”, interviene stringendogli la mano con enfasi, per dargli coraggio. Lui amaramente la testa. “Non è vero. Sono un fallito, Ellen. Sto vicino a Gabe, ma è come se non ci stessi veramente perché lui non si apre con me. Non ha detto una parola riguardo la situazione, ci scherza su, non nomina neppure la malattia. Io- lo so come è fatto, okay? So che ha paura. Vorrei solo che me lo dicesse, che la smettesse di comportarsi come se niente fosse. Voglio che pianga sulla mia spalla? Non lo so, forse- non voglio che Gabriel pianga. Vorrei solo che imparasse a farlo. Che non assumesse quell’aria grave solo per farmi IL discorso, che capisse una buona volta che non c’è niente di male a lasciarsi andare e che due zucconi orgogliosi in una vita sola sono troppi”. “Gesù, Sam. Tu non sei un fallito, come puoi anche solo pensarlo? Gabriel non è un tuo fallimento: guardalo. È una persona completamente diversa da quando sei entrato nella sua miserabile vita, l’hai cambiato. Non pensi che sarebbe già fuggito da qualche parte a festeggiare i suoi ultimi giorni se non fosse stato per te? Lui ti vuole vicino perché sei la sua ancora al dovere. Gabe deve vivere, e deve farlo per te”. “Dovrebbe farlo per se stesso”. “Nessuno vive per se stesso”. Il ragazzo non risponde altro, ci riflette per qualche secondo, anche se è superfluo perché Ellen ha ragione, perché il mondo funziona a persone, a legami, a relazioni – perché cosa sarebbe Sam senza Dean, Ellen e Bobby? Senza Gabriel e Jessica? “Ascolta, io non posso sapere se tu e Gabriel rimarrete insieme per sempre o vi lascerete domani, non posso prometterti che sarai l’unico amore della sua vita come non so se lui sarà il tuo. So solo che ora lui ha bisogno di te. Ora, Sam. E non importa che ti parli o meno di come si sente, importa che tu ci sia nel caso volesse farlo. E lo farà. Devi solo dargliene la possibilità, devi dimostrargli di essere forte abbastanza per poterlo sopportare. Puoi farlo?” Sam aggrotta leggermente le sopracciglia, annuisce, mormora un “si” che vorrebbe essere più convincente. Ma per Ellen, che gli scosta i capelli dalla fronte per guardarlo negli occhi, sembra abbastanza. “Allora non puoi continuare ad evitare quel discorso, per quanto sia una merda. Lascialo parlare, ascoltalo se ha bisogno di parlare di questo. Gabriel non sa quello che è successo con tuo padre, per questo scambia la tua reticenza per debolezza. Dimostragli che non è così, che può fare affidamento su di te. È l’unica cosa che puoi fare, ma ti assicuro che non è poco”. “Forse hai ragione”. “Certo che ho ragione”, risponde la donna con un piccolo sorriso contagioso, dandogli un buffetto sulla spalla. “Mi sono comportato da egoista, ho pensato unicamente a come questa situazione faccia sentire me, a come il silenzio di Gabe faccia sentire me; non ho mai pensato, invece, a come il mio faccia stare lui. Sono un idiota”, realizza. Il suo tono, però, non ha niente a che fare con l’autocommiserazione che caratterizza chi si è appena reso conto di aver commesso un errore; è molto più simile a quello di chi è pronto a rimediare, ha poco tempo per farlo e non può aspettare. “Non è mai troppo tardi per rendersene conto”, sogghigna Ellen. Sam finge di non averla sentita. “Pensi che dovrei essere io ad aprire il discorso?” chiede invece. “Penso che dovresti andare a casa a farti una doccia e riposarti un po’. Puzzi”.
“Ma-”, tenta di ribattere qualcosa, invano; alla donna basta alzare una mano per chiudergli la bocca. “Niente “ma”, giovanotto. Restiamo noi con lui, sempre se Bobby non l’ha già fatto fuori”, assicura prima di alzarsi e sorseggiare quello che è rimasto del suo caffè. Cerca con lo sguardo qualcosa che assomigli ad un cestino dell’immondizia  per liberarsi del bicchiere vuoto, ma è costretta a tenerlo in mano. “Non voglio lasciarlo solo proprio ora”, dice. “Non è solo, te l’ho già detto. Restiamo noi qui, non morirà mica! Oh, Dean”. Sam, il vassoio ancora tra le mani, segue il suo sorriso fino ad arrivare al suo destinatario: Dean cammina lentamente e con le mani in tasca, le spalle leggermente ricurve e l’aria di chi gli è appena morto qualcuno – Sam spera vivamente che quel qualcuno non sia Castiel perché l’ultima cosa che gli serve in questo momento è un fratello in prigione. “Ehi”, saluta Ellen con un veloce bacio sulla guancia, il tono così abbattuto che per un attimo Sam pensa davvero che abbia ucciso qualcuno, o che comunque abbia una brutta notizia da dare; è così, lo sente, c’è una brutta notizia. Ed è talmente orribile da spaventare persino Dean – e che speranza c’è per tutti loro se anche Dean ha paura?
“Qualcosa non va?” è Ellen a chiedere. Il biondo annuisce serio: “E’ andato tutto a puttane”.
Sam se lo sentiva.
 
 *****
 
 
Gabriel è fuori di sé.
Stringe tra le mani la stoffa bianca del lenzuolo per non stringere il collo di Castiel – e ne avrebbe tutte le ragioni perché suo fratello si sta comportando da stronzo, dice cose senza senso e non la smette di sorridere come un idiota. È palesemente sotto l’effetto di qualche sostanza e, okay, Gabriel non è un santo e non può giudicarlo, ma neppure può sopportare tutto quello e Cas farebbe meglio a rendersene conto in fretta perché Gabe sta perdendo la pazienza e Sam non è lì per impedirgli di fare una stupidaggine – suo fratello doveva parlargli, hanno detto, come se passare l’ultima mezzora con lo zio Bobby non fosse già abbastanza. Ma andiamo, che razza di cuori di pietra hanno?
“Sapevo che non potevi essere mio fratello”, ride il moro. “Insomma, io ti voglio bene, lo sai, e ti rispetto, ma non potevi essere come me. Infondo l’ho sempre saputo, era così ovvio”. Butta la testa all’indietro, prende fiato, aggrotta le sopracciglia, smette di ridere. “Papà se ne è andato per colpa tua”, aggiunge. “Pensavo di essere io l’ammalato, qui. A quanto pare anche tu non scherzi, Cas, sembri davvero fuori di testa. Dovresti farti ricoverare”, risponde con un sorriso che vuole essere ironico, ma non lo è; spera solo che lo sembri. Castiel però non si lascia zittire, si stacca dal muro e gli punta un dito contro: “tua e di mamma. Potevamo essere una famiglia unita, ma no, lei doveva- doveva avere te. E io ti voglio bene, ti voglio bene davvero, voglio bene a tutti, ma- la vita è così difficile delle volte, non è vero?” sospira sedendoglisi accanto, gli poggia una mano amichevole sulla spalla, gli rivolge un grande sorriso ed il biondo è ad un passo dal prenderlo a pugni, ma si trattiene per il quieto (c’è ancora quella parola nel suo vocabolario?) vivere. “Noi non siamo fratelli, Gabe. Non guardarmi così, accettalo. È una buona notizia”, dice. Gabriel decide che no, non ricorda affatto di aver mai avuto quella parola nel suo vocabolario: se lo scansa di dosso con tutta la forza che ha e lo colpisce in pieno con un pugno, diritto sull’occhio buono (l’altro è stranamente già nero, ma non se ne sorprende; per quanto ne sa Cas è sulla lista nera di Dean da parecchio tempo, ormai). L’altro spalanca la bocca per la sorpresa e geme dal dolore, solo per un momento prima che un sorriso gli riaffiori sulle labbra e sfoci in una risata cupa. Il biondo non ha mai guardato nessuno con tanta rabbia. “Non me lo aspettavo, complimenti. Mi hai colto di sorpresa”, dice il moro sul pavimento, “pensavo che mi avresti guardato dall’alto in basso e te ne saresti andato, come fai sempre. Mi hai davvero colto di sorpresa, bravo”. Castiel non si rialza, si contorce sul pavimento e ci si stende; Gabriel stringe i pugni (vorrebbe davvero stringere la gola di Castiel) ed è sicuro di avere gli occhi lucidi quando marcia verso la porta e la spalanca: “portatelo via da qui”.
 
*****


Forse Castiel aveva ragione, forse avrebbe dovuto chiudere con Sam. Perché Sam lo amava e per Gabriel era solo un gioco, perché Sam era un bravo ragazzo, oltre ad essere suo cognato, e non meritava di essere preso in giro in quel modo; perché Gabriel era una persona orribile, e non era già questo un ottimo motivo per infischiarsene? Castiel dava consigli pessimi, impossibili da seguire – come poteva lasciargli la mano se Sam la stringeva così forte?
“A cosa pensi?” chiese il moro calciando un ciottolo. La sua aria triste gli spezzò il cuore. “A te, fiorellino”, rispose col sorriso più seducente che aveva, allungandogli il braccio attorno alle proprie spalle, senza districare le loro dita. Sam si voltò verso di lui con quell’aria da cucciolo indifeso (alto un metro e una montagna) a cui non riusciva a resistere ed aggrottò la fronte.  “Ma che bugiardo”. Il biondo gli allacciò un braccio alla vita e se lo tirò più vicino, pur continuando a camminare. “Beccato”, fece con tono melodrammatico portandosi una mano al petto, “mi conosci bene, raggio di sole. Facciamo così: ti dico a cosa stavo pensando se tu mi dici perché hai quell’aria da cucciolo bastonato”. Sam abbassò lo sguardo, il sole stava scomparendo nell’oceano, il rumore delle onde, che fino ad allora lo aveva tenuto sospeso in uno stato irreale di pace, ora lo angosciava come mai nulla prima di allora. “Dobbiamo parlare”, fece, e s’arrestò. “Fammi indovinare, “non sei tu, sono io”? Giuro che era solo un amico!”, scherzò il biondo ignorando l’inquietudine che cresceva dentro di sé. Avanzò ancora di qualche passo finché il loro abbraccio non si fu sciolto, congiunto solo tramite le mani; come se Sam, piantato nella sabbia, lo legasse alla terra impedendogli di fuggire. “Gabe”, lo richiamò il giovane alle sue spalle, ma lui non si girò. “Sul serio, devo parlarti. È importante”. “Non trattarmi come se fossi la tua fidanzatina, raggio di sole. Se devi dire qualcosa, dillo, ma parla chiaro. Salta i convenevoli”. “Non voglio parlare al tuo culo, girati. Per favore”, la sua voce era decisa benché somigliasse ad una supplica, ma l’altro puntò i piedi. “E io che pensavo che il culo fosse il mio punto forte”.
“Gabr-”
“Insomma, ho un faccino adorabile, ma ho sempre puntato sul didietro”.
“Okay”, concesse il moro esasperato. “Non vuoi guardarmi? Non guardarmi. Basta che mi ascolti”.
“Possiamo camminare?” si lamentò tirandolo per il braccio; Sam non si spostò di un millimetro. “No”, fu la risposta perentoria, “smettila di comportarti come un moccioso, lasciami parlare!”
“Tu smettila di sprecare il mio tempo”, cantilenò dondolandosi sulle punte. “E’ una così bella giornata-”
“Sono innamorato di te”, disse tutto d’un fiato mentre l’altro ciarlava del tempo. Gabriel si immobilizzò sul posto mentre lentamente terminava una frase sulla romanticismo del tramonto; quando non emise più suono Sam ebbe la certezza di aver catturato la sua attenzione e continuò: “lo sono davvero e non pretendo che tu ricambi quello che provo. So che non è così, che tu- non voglio che tu sia diverso”, la sua voce non si era spezzata neppure per un attimo; Gabriel non era sicuro di riuscire a fare altrettanto bene. “Che vuoi da me, allora?” chiese con rabbia strattonandogli il braccio; Sam non lo lasciò andare e Gabriel non si voltò. “Niente”, mormorò l’altro. “Non voglio niente da te. Ma io non posso andare avanti così, essere il ragazzo del martedì, sapere che il giorno dopo farai sesso con qualcun altro- il solo pensiero basta a farmi impazzire. L’ho accettato finché ho potuto ed è stata una mia scelta, lo è anche questa e…”
“No”, lo interruppe: non voleva sentire altro. “Piantala. Ci stavamo divertendo, ricordi? Si può sapere che c’è che non va, perché ci tieni tanto? Abbiamo un rapporto perfetto!”
“Te l’ho appena spiegato, non fingere di non aver capito. Il nostro rapporto non ha niente che non vada, Gabe, ma manca una cosa fondamentale: l’esclusività. È importante, per me. Come ti sentiresti se io andassi a letto con una ragazza?” il giovane Winchester finalmente lo costrinse a girarsi e Gabriel poté scorgere tutta la frustrazione che tentava di comunicargli a parole. “Non lo faresti”, affermò incerto. “No, non lo farei”, confermò, “perché mi sentirei in colpa nei tuoi confronti, perché provo qualcosa per te. Ed è proprio questo il punto: se devo sentirmi così voglio che ci sia un motivo, non voglio sentirmi male per una persona che non mi ama. Quindi pensaci, riflettici. Se per te conto qualcosa, voglio essere l’unico. Altrimenti, per il bene della mia sanità mentale, lasciami in pace”. C’era qualcosa di terribilmente disperato nel modo in cui Sam si agitava sul posto, come c’era qualcosa di terribilmente disperato nel modo in cui il cuore di Gabriel rimbalzava nel petto; si guardarono a lungo come se la risposta potesse materializzarsi davanti ai loro occhi, inconsapevoli, entrambi, del fatto che la mente di Gabriel fosse al momento completamente vuota (e lo sarebbe stata per i mesi successivi); c’erano solo le loro dita ancora intrecciate – e come poteva, Sam, lasciargli la mano se Gabriel la stringeva così forte?


#Angolo della disperazionZ

E CE L'HO FATTA, OMMAIGOSH. 
Salve a tutti, miei cari involtini primavera, come butta l'esistenza? Non ce' speravate più, eh? Invece ce l'ho fatta, per la gioia mia e vostra, prima dell'infelice domani che, si prevede, sarà una giornata de merda perché /zanzanzazaan/ si ricomincia a studiare. E lo so, quale essere immondo studia nel fine settimana? Sicuramente non io che mi ridurrò a lunedì mattina senza aver fatto una mazza, passando sabato e domenica a sentirmi in colpa per non aver ancora fatto una mazza - non sono queste le giuie della vita?
Btw, tornando alle cose serie /seh/, parliamo un po' di questo capitolo! Dal canto mio, vi dico che è stato un parto perché non avevo la più pallida idea di come gestire la Sabriel; giustamente con la Destiel uno attinge dalla serie /*coffcoff* sono canon *coffcoff*/, con la Sabriel ce se' attacca.
E- niente, la storia non è andata avanti, se non per il fatto che Castiel s'è beccato n'altro cazzottone, stavolta da Gabriel, il nostro fuggiasco. E' per lo più un capitolo introspettivo, ecco, dal momento che fino ad adesso avevo trattato solo superficialmente di Sam e Gabe, relegandoli in un ruolo marginale. Nel prossimo capitolo, comunque, torneremo a concentrarci su Dean e Castiel, i quali, oltre a dover lavorare sulla loro relazione schifosa, dovranno darsi anche un po' da fare (ed era quasi ora) per aiutare Gabriel. Non è ancora previsto il ritorno di Mag, che comunque farà presto la sua comparsa, ma verranno introdotti altri personaggi. Detto ciò, non sapendo cos'altro aggiungere se non un enorme grazie a chi segue questa fanfiction (ve se ama un casino <3), non mi resta che ghivvarmi euei <33

PS: FIRMIAMO UNA PETIZIONE PER IL RITORNO DI GABRIEL NELLA SERIE.

AlfiaH. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Nulla si crea e nulla si distrugge: tutto si trasforma ***


Nulla si crea e Nulla si distrugge: Tutto si trasforma



Castiel è abituato a chiedere scusa, ha chiesto scusa miliardi di volte: a sua madre quando prendeva un brutto voto a scuola, ad Anna quando entrava in camera sua senza bussare, a Dean per aver alzato la voce (perché Castiel poteva sopportare che a Dean piacessero le donne fintanto che non flirtava con loro quando uscivano insieme), a Gabriel per avergli fatto fare tardi a scuola – non che il biondo se ne fosse mai dispiaciuto.
Castiel ha chiesto scusa talmente tante volte che adesso, quando lo fa, Dean alza gli occhi al cielo e scuote la testa perché le sue parole non hanno più valore; anche se non cambia le cose, però, si scusa comunque perché il primo passo per essere perdonati è riconoscere i propri errori – Castiel riconosce di aver fatto una cazzata, ma non è sicuro che Gabriel lo perdonerà (e Dean l’ha già fatto o si è semplicemente rassegnato?).
“Non volevo…” ripete per l’ennesima volta, muovendosi a disagio sul sedile dell’Impala, “mi dispiace, sono stato uno stronzo”. Dean tiene lo sguardo fisso sulla strada, prende una curva, stringe le mani sul voltante e, quando parla, la sua voce è piena di rassegnazione (può un sentimento così passivo fare così male?): “lascia perdere, okay? Non è a me che devi chiedere scusa. Gabe sarà anche il peggiore stronzo sulla faccia della Terra, ma non meritava quello. Non da te”, gli lancia una rapida occhiata prima di correggersi, “o da quello che ne è rimasto”. No, Castiel non ha veramente nulla da obbiettare poiché le uniche cose che potrebbe dire in sua difesa – sono un tossico, Dean, questo è quello che i tossici fanno – finirebbero con l’aggravare la sua situazione; meglio tacere e riflettere sull’accaduto. O parlare d’altro.
“Hai ragione”, risponde cautamente seguendo con lo sguardo l’allontanarsi dei cartelloni pubblicitari: birra, abiti da sposa, parrucche colorate, sorrisi bianchissimi; da adolescente i cartelloni pubblicitari lo mandavano sempre in bestia, così come le pubblicità in generale e fenomeni mediatici del genere. Castiel, che non sapeva lottare per se stesso, ha passato i suoi anni ribelli a lottare contro il sistema e non è riuscito a cambiare nulla – d’altronde che si aspettava? Gabriel aveva ragione a ridergli dietro.
 Ora si sente più un hippie: non lavora (non ufficialmente), si prende cura del suo giardino (e di quello che Meg ci coltiva), guadagna abbastanza per permettersi ciò che gli occorre – un tetto sulla testa, un letto in cui dormire, una siringa nel braccio – e ha capito che non si può lottare contro il sistema quando il sistema è dentro di te (alzati lavora, guadagna, vai a dormire), lo si può soltanto aggirare di poco, illudendosi di poter evadere, di poterlo fottere – Castiel si è già fottuto abbastanza.
“Che succederà adesso?” chiede dopo qualche minuto di silenzio, la fronte poggiata al finestrino, ancora dolorante. “Vediamo di trovare questo diario e di scoprire qualcosa sul conto di Gabriel”, risponde il biondo, pratico come al solito, “se ha qualche parente in vita sarà tutto molto più semplice, altrimenti ci aspettano tempi duri; Gabe impallidisce ogni volta che qualcuno nel reparto nomina la chemio. Ma tu sei davvero sicuro che…”
“Che sia stato adottato?” Dean annuisce. “Si. Io e mia madre abbiamo lo stesso DNA, lo so da quando abbiamo cominciato la genetica al secondo anno. Penso che sia la prima curiosità di ogni bambino conoscere le proprie origini e-”. “Si, abbiamo capito, sei sempre stato un secchione”, lo canzona l’autista con un ghigno che Cas potrebbe mangiare. “Il massimo delle origini che è mai interessato a me, come ad ogni moccioso sano di mente, riguardava la nascita dei bambini. Una piacevole scoperta”. “Forse avresti dovuto informarti meglio”, ribatte, più acido di quanto vorrebbe. La convivenza con Meg deve avergli fatto male. Dean fa una smorfia e tenta palesemente di non irrigidirsi (non ci riesce): “sono contento di non averlo fatto. Ben è un ragazzino in gamba, sono fiero di essere suo padre”. “Lo so, non intendevo questo”. I suoi occhi ritornano fuori dal finestrino: certo che intendeva quello. “Ti sarebbe piaciuto, se ti fossi preso la briga di conoscerlo”, il tono del biondo non è così leggero questa volta, ma Cas non riesce a biasimarlo: “lo so, mi dispiace. Non voglio litigare, Dean. Era una battuta”. “Non stiamo litigando”. “Però sei arrabbiato”, arguisce il moro inarcando le sopracciglia; Dean emette uno sbuffo spazientito – meglio questo che la sua versione rassegnata, pensa. “Beh, ho letteralmente mandato quel tossocio mio ex all’ospedale, quello in cui è ricoverato anche mio cognato, sai, il ragazzo di mio fratello: alto un metro e una montagna, pettinato come una ragazza, costantemente sull’orlo di una crisi di nervi”.
“Ho capit-”
“E ho appena scoperto che il mio piano geniale è andato in fumo e che la salute mentale di mio fratello dipende dal ritrovamento di un vecchio pezzo di carta che chissà se esiste. E oh. Come se non bastasse, qualcuno si è fatto pestare una seconda volta. Dio, potevi dirmelo, Cas. Te l’avrei data io una ripassata”. Il moro apre la bocca per dire qualcosa, ma Dean si volta verso di lui, per la prima volta da quando sono entrati in macchina, e lo zittisce prima che possa dire qualcosa – quella cosa. “Non ci provare, chiedere scusa non risolverà le cose”. “Stavo per commentare qualcosa riguardo alla ripassata che vorresti darmi, in realtà”, mente. “E mi sono leggermente offeso per “quel tossico del mio ex”. Voglio dire, dopotutto non ci siamo mai lasciati ufficialmente”. Il suo, lo sa, è un patetico tentativo di sdrammatizzare, di alleggerire la tensione (di pararsi il culo in qualche modo), ma sa anche che Dean vuole ancora prenderlo a pugni – probabilmente lo farà appena Cas pronuncerà le famigerate parole “non mi fa più così male” e, ancora una volta, non può biasimarlo. Eppure, forse Castiel l’ha sognato (e non sarebbe così assurdo), c’è un sorriso a piegare gli angoli della bocca del biondo quando dice: “hai capito il figlio di puttana”.
 
*****
 
 
Casa Novak è più grande di quanto ricordi, ma Dean suppone che lo sembrino tutte le case quando non c’è nessuno ad ingombrarne lo spazio: da quando Sam è al college e Castiel si è (era) trasferito da Dean, è rimasto soltanto Gabriel ad abitare lì, proclamandosi contento di avere finalmente una casa tutta per sé; d’altronde, se così non fosse, non ci sarebbe più nessun motivo per non vederla e Gabriel non permetterebbe mai una cosa del genere poiché, infondo, è più nostalgico e sentimentalista di quanto voglia ammettere – i suoi amici fingono di non saperlo, glielo ricordano soltanto di tanto in tanto, quando fa troppo lo stronzo.
Dopotutto anche Dean è affezionato a quella casa, al piccolo spazio al bancone della cucina conquistato durante anni e anni di colazioni a casa Novak; all’unico, grande divano rosso del piccolo salotto dove si accampava sempre la signora Novak con le sue scartoffie, avvallato su un lato perché, ovviamente, sul pavimento c’era sempre la lava e l’unico modo per evitarla, diceva Gabe, era saltare dal tavolo al divano – Castiel, la voce della prudenza, li aveva avvertiti più di una volta di lasciar perdere quel gioco assurdo (alla loro età, poi), ma Dean stava cadendo e alla fine si è dovuto lanciare per forza, per evitare che quell’idiota si sfracellasse la faccia. Dean gliene è tutt’ora grato, benché ricordi di esserne uscito un po’ ferito, e non solo per il grosso livido sulla spalla. Ferito nell’orgoglio: da quel giorno Cas non l’ha più guardato allo stesso modo e Dean avrebbe dato qualsiasi cosa per riconquistare la sua ammirazione, inconsapevole di aver guadagnato qualcosa di molto più grande.
“Sembra che tu non ci metta piede da anni”, commenta il moro alle sue spalle; Dean non ha voglia di rispondergli perché non può dargli torto: non ha frequentato molto casa Novak negli ultimi tempi – in effetti, non ha frequentato nessun posto negli ultimi tempi. “Gabe ci ha detto di cercare in camera da letto”, dice invece, sbrigativo, chiedendogli implicitamente di fargli strada. Cas sembra capire. “Dopo la morte di nostra madre abbiamo deciso di non spostare nulla, di lasciare tutto com’era: odiava che si toccassero le sue cose”, spiega asetticamente. “Se avessi avuto un segreto come quello, anche io me la sarei presa se qualcuno avesse ficcanasato tra le mie cose”, non riesce a non inarcare le sopracciglia, mentre lo segue attraverso il corridoio rosa pallido; è sicuro di aver sentito l’altro sospirare, ma non chiede nulla.
 La camera della signora Novak è proprio come Dean se l’era sempre immaginata: ha delle graziose tende fatte di ricami in tinta con l’abatjour sul comodino, il letto diligentemente in ordine, l’armadio a molti specchi e qualunque cosa Dean, da bambino, abbia mai supposto che una madre dovesse avere nella propria camera – quello che suppone ora, pensando alla camera da letto di un’avvenente madre single, è piuttosto diverso. “Se io avessi avuto un segreto come quello, non lo avrei certo nascosto nella mia camera da letto. Non con un fratello rompipalle come Gabriel”. Castiel esita di fronte alla cassettiera in noce, ma Dean teme di non poterlo aiutare: non è così disperato da desiderare di mettere le mani sulla biancheria della madre defunta del suo migliore amico (o qualcosa del genere), e non ha nemmeno tempo da perdere con discorsi di incoraggiamento – non che abbia voglia di fargliene, comunque. “E dove lo avresti nascosto?” chiede distendendo le braccia lungo il corpo, a disagio; non sa proprio dove mettere le mani, così decide di incrociarle dietro la schiena. “Posso dirti dove non l’avrei nascosto”, risponde l’altro senza guardarlo. Il cassetto fa un po’ di storia prima di aprirsi a causa dell’umidità e Cas, piegato in avanti, quasi non finisce col sedere per terra – Dean potrebbe essere davvero cattivo, ma per questa volta evita di ridergli dietro. “Ottima idea, questo si che ci sarà d’aiuto. Perché non ci ho pensato prima? Io potrei dirti cosa ho mangiato a colazione e potremmo fare una lista di cose inutili”, ma il moro ignora bellamente il suo patetico tentativo di fare del sarcasmo e: “ad esempio, non lo avrei nascosto nella mia giacca, nella quale il mio fidanzato geloso poteva tranquillamente incappare senza saperlo. Non startene lì impalato, controlla nell’armadio”. “Beh, se io avessi avuto un segreto, non lo avrei mai nascosto nella mia giacca, dal momento che non avrei avuto nessun segreto!” ribatte scioccato, un po’ per il colpo basso dell’altro, un po’ per l’ordine appena ricevuto – si prende anche la libertà di dargli degli ordini, proprio lui?!
“Quello che hai detto non ha senso”, come se stesse parlando ad un infante,  “devi controllare in basso, Dean, sul fondo. E guarda che ti sento”.
“Guarda che ti sento”, ripete sottovoce scostando di tutto fuorché qualcosa che somigli vagamente ad un diario. “Davvero molto maturo. Trovato qualcosa?”
“Hai cominciato tu!” risponde oltraggiato, la voce ovattata e la testa infilata per metà nell’armadio, “solo un centinaio di borse, sciarpe colorate, qualche maglione, una ehm- scarpa da ginnastica, e il portale per Narnia. Niente diario”.
 

 *****

La primavera in Kansas non aveva niente a che fare con il ragionevole concetto di primavera che aveva il resto del mondo – gli alberi in fiore, la neve che si scioglie, il sole che scalda i volti e bla bla bla, un sacco di altre cose che Sam leggeva nei libri e che Dean diceva di non invidiare per niente (mentendo spudoratamente).
La primavera in Kansas significava una sola cosa: pioggia. E tornadi, di tanto in tanto.
L’acqua sembrava venir giù a secchiate, si infrangeva con fragore contro le vetrate di casa Novak; il vento le scuoteva come se cercasse un modo per entrare e, oltre a far apparire ancora più spaventosa l’abitazione (da bambino Dean era sceso più di una volta in cantina a caccia di mostri), ne costringeva all’interno inquilini e non.
Era stata una pessima idea dall’inizio, avrebbe dovuto immaginarlo: organizzare una festa di bentornato per Castiel per la pausa di primavera era solo un pretesto per conoscere di persona il suo, Dean avrebbe potuto citare testualmente le parole di Ellen, adorabile fidanzato.
La cosa peggiore era che, checché volesse dirne, Alfie era davvero una persona adorabile: tutto occhioni blu e sorrisi gentili, un ammasso di “grazie” e “prego” e “per favore”; lavorava partime al mcdonald’s e si manteneva da solo all’università, facoltà di archeologia e storia dell’arte; una specie di enciclopedia camminante – andiamo, Bobby l’aveva praticamente invitato nel suo club del libro, Dean era ancora sconvolto dal fatto che ne avesse uno.
“Quindi lei non è davvero un parente di Cas, ho capito bene? E nemmeno di Sam e Dean” Alfie aggrottò le sopracciglia e si portò un dito alle labbra, tentando di comprendere l’arcano meccanismo che teneva unite le loro famiglie – la loro famiglia. Dean dovette fare violenza a se stesso per non strozzarlo; lanciò un’altra occhiata alla finestra; pioveva ancora a dirotto (così come due minuti prima), pertanto non poteva ancora levare le tende. Tutto in quella casa gli dispiaceva: l’aria sognante della signora Novak, il sorriso sornione di Gabriel, i grugniti di approvazione di Bobby – la mano di Castiel sulla spalla di Alfie. Soltanto Sam sembrava capirlo e, quando pensava che Dean non potesse vederlo, lo occhieggiava preoccupato. “Certo che hai capito male”, fu la risposta antipatica di Bobby. Quando gli toccavano la famiglia era anche più scorbutico del solito (Dean non l’aveva mai amato tanto). “Non abbiamo bisogno di avere lo stesso sangue che ci scorre nelle vene per essere una famiglia”. “Bobby ha ragione”, sorrise la signora Novak offrendogli un biscotto dall’ampio vassoio che aveva tra le mani, “la profonda amicizia che lega i Singer, i Novak ed i Winchester ormai è centenaria – io, Bobby ed il buon vecchio John siamo praticamente cresciuti insieme, sono come dei fratelli per me. Ed i piccoli Winchester i miei nipotini. Anche se a volte mi fanno arrabbiare, non è vero, Dean?” concluse, tirandogli una guancia con un po’ troppa forza. In tutta risposta il biondo, ancora stordito da “i piccoli Winchester”, si afflosciò sul divano e mise su un broncio di prima categoria, con tanto di braccia incrociate al petto. “Si, ma…”, tentò Alfie, ma si bloccò al sopracciglio sollevato di Eve e Bobby. “Non vincerai una discussione con loro”, rise Castiel e fu allora che Dean lo guardò, per la prima volta da quando era tornato dal campus. Era felice. Che diritto aveva di rovinargli la festa – di desiderare di rovinargliela? Che razza di persona orribile era? Non riusciva ad essere felice per lui né a fingere di esserlo; perché fingere, poi? Non aveva nulla da nascondere: Alfie non gli piaceva a pelle, tutto qui, e okay, poteva suonare superficiale, ma quale altra spiegazione avrebbe potuto propinare alla sua coscienza?
“I piccoli Winchester”, scimmiottò Gabriel, ma Sam fu veloce ad allungargli un calcio sullo stinco – che non era comunque nulla in confronto all’occhiataccia di sua madre. “Da quando i nostri genitori sono morti, Ellen e Bobby si sono sempre presi cura di noi”, annuì convinto il più giovane. “Mi sembra una cosa magnifica. Adesso capisco perché Cas parla tanto di voi, perché è sempre così felice quando sta per tornare a casa. Siete davvero una famiglia stupenda”. “Ma non è adorabile?” sentì provenire dall’altra parte della stanza; Ellen stava facendo avanti e indietro per apparecchiare in sala da pranzo – la sala da pranzo, nemmeno fosse Natale. Sam fece per alzarsi per dare una mano, ma il maggiore fu più lesto: per una volta poteva anche sacrificarsi e dare una mano con la cena: almeno avrebbe evitato l’ennesimo sbattere di ciglia.
“Sai che continuare a guardarlo non lo ridurrà in cenere, vero?” Ellen gli rivolse un sorriso furbo mentre ripiegava religiosamente i tovaglioli e Dean quasi non si strozzò con la sua stessa bile. “Addirittura l’argenteria?! Non vi date tanto da fare quando sono io a portare una ragazza a casa!”
“Intendi praticamente tutte le settimane?”
Il biondo aprì la bocca per contestare, ma optò per la resa. “E’ colpa mia se tutte le ragazze mi cadono ai piedi?” “E’ colpa tua se non riesci a tenertene stretta nemmeno una” e gli piazzò un vassoio tra le mani, gettando un’occhiata oltre la sua spalla. “Porta questo in cucina, da bravo. Da’ un’occhiata all’arrosto. E non fare casini”, lo ammonì infine, il sorrisetto ancora dipinto sulle labbra – Dean ne capì il motivo soltanto quando si ritrovò di fronte lo sguardo indagatore del suo migliore amico, poggiato al lavello della cucina con le braccia conserte. “Allora?” chiese quello, in evidente trepidazione. L’altro mantenne una stoica aria indifferente e si dedicò al suo compito. “Allora cosa?”
“Ti piace?”
“Chi?”
“Come “chi”, Dean? Alfie! Mi hai intasato il cellulare di messaggi negli ultimi mesi per sapere vita, morte e miracoli del mio ragazzo e adesso che finalmente lo incontri di persona non mi dici niente?”
“E’ carino”, fu l’unica cosa che riuscì a dire mentre controllava la temperatura del forno. Cas lasciò penzolare le braccia lungo i fianchi come se gli fossero appena cadute. “Tutto qui?”
“Che vuoi che ti dica, Cas? Deve piacere a te, non a me”.
“Quindi non ti piace?”
“Le carote non mi piacciono, amico. E i piselli (in nessun senso). Quel tipo lì mi fa letteralmente attorcigliare le budella! È tutto “grazie” e “per favore”” e non poté non fagli il verso “e occhioni dolci e-”
“Quindi è troppo educato?” domandò pazientemente, seppur con aria scettica. Dean sospirò sonoramente. “E’ stomachevolmente educato. E poi deve esserci qualcosa di terribilmente sbagliato se piace persino a Bobby”. “Oh. È questo il problema? Sei geloso?” il biondo forzò una risata: “e di chi? Di Bobby? Andiamo, Cas, non dire stronzate! Ascolta, io non ho niente contro di lui, davvero, è solo che, non lo so, non mi sembra adatto a te, ecco. Non è – come dire? – alla tua altezza”.
“Davvero, Dean? La stessa frase usi per mollare la ragazza di turno?”
“Embè? Dovresti essere contento, almeno non la sto usando per mollarti”, ammiccò aprendo il frigorifero. Castiel scosse la testa per nascondere il leggero rossore che si era diffuso sul suo viso e si lavò le mani, intenzionato a dare una mano con il resto della cena; il biondo gli passò dei pomodori e delle carote,  gesticolando con la mano e borbottando: “tua madre ha parlato di una creme-qualcosa-bouillon che non lo so…”
“Lo so. Alfie è vegetariano”. “Lascia perdere la buona educazione, questo va decisamente in cima alla mia lista”. Cas rise, cominciando lavare le verdure. “Hai una lista?” “No, ma potrei sempre farne una. Appena scoprirò cos’altro nasconde dietro quel faccino angelico”, concluse lapidario. “Ti piacerà, vedrai, devi solo dargli una possibilità. Metti a bollire dell’acqua”. “Mi piacerà quando leverà le tende. Quanta?”
“E se le cose andassero bene tra di noi? Se ci sposassimo? Quanto basta”. Dean, già confuso dagli ordini assurdi dell’altro (quanto basta per cosa, santo cielo?), fece del suo meglio per non strozzarsi, ma il sangue gli si gelò nelle vene ugualmente. “Nah, non accadrà mai. Cas, parla chiaro: quanta acqua ci vuoi? Devo riempirlo a metà?”
“E che ne sai? Mi dispiacerebbe se due delle persone che più amo al mondo non andassero d’accordo. Gesù, Dean, devo cuocerci delle verdure- si, a metà va bene”.
“Cas, mi conosci, sai che ti impedirei di farlo- o, comunque, mi chiederesti di farti da testimone e finirei col rovinarti la festa. E poi nemmeno io e Gabe andiamo d’accordo”.
“Beh, mi hai appena spiattellato il tuo diabolico piano”.
“Questo non mi impedirà di metterlo in atto”.
“Ma impedirà a me di darti retta”.
“Vedremo!”
“Mi stai minacciando con una carota”, gli fece notare mentre a sua volta armeggiava con i pomodori, tagliandoli a fette.
“Io non la prenderei così bene, se mi minacciassero con delle carote”, si difese l’altro mettendo giù l’arma appuntita. “Questo perché tu sei un idiota”.
“Però ti sono mancato”.
“Si”, rispose lentamente, “non ne hai nemmeno idea”.
 
*****
 
 
Per certi versi, non necessariamente i migliori, Meg somigliava incredibilmente a Dean: stessi atteggiamenti da prima donna, intermittenti deliri di onnipotenza, una vita sessuale opinabile (ma anche no, a seconda dell’umore dei suddetti, i quali, magari, trovandosi appunto nel loro momento di io-non-ho-bisogno-di-essere-giudicato, avrebbero potuto dire cose poco carine circa le opinioni altrui), e l’incapacità cronica di cucinare – o di essere d’aiuto nel mentre.
“Pseudoefedrina”.
“Ah-ha”.
“Acido iodridico”.
“Certo”.
“È una reazione di ossidoriduzione: per ridurre lo iodio ad Hl ci serve il fosforo rosso, che estraiamo dai fiammiferi col disinfettante. È molto semplice”.
Preso com’era dal suo impiego, Castiel non poté vedere l’occhiata alla “tu sei completamente matto” che Meg gli rivolse, ma il solo immaginarlo lo fece sogghignare non poco: era bravo in quello, poteva farlo, poteva vantarsi di saperlo fare. Per la prima volta era lui a risolvere le cose, a salvare la situazione e non era necessario fare a pugni con nessuno; per tutta la vita aveva evitato le risse e si era sentito debole, passando i pomeriggi in laboratorio o chino sui libri, ed ora finalmente ne vedeva i risultati, poteva essere d’aiuto – non agli scopi che si era prefissato, ma comunque d’aiuto. “Saresti un insegnante di chimica perfetto”.
“Davvero?”
“Beh, non si capisce un cazzo quando parli, pensi che sia tutto banale, scleri se dico beuta al posto di bun… ben…”
“Becher. E non sono la stessa cosa, altrimenti non li avrebbero chiamati con nomi diversi. La beuta è indispensabile per il vapore…” Meg gesticolò con la mano per zittirlo e borbottò un “si, quella roba lì”, per poi chinarsi sulla sua spalla e sbirciare il suo operato. “Mi sarebbe piaciuto fare chimica, ma alla fine ho scelto medicina perché volevo aiutare le persone. Non volevo entrare nell’industria farmaceutica – girano troppi soldi, troppa corruzione. Ero un idealista. Passami l’alcol, per favore, sulla mensola in alto”, chiese posizionando il filtro per caffè nell’imbuto, le pasticche per il raffreddore già pronte sul tavolo; Meg fece un semi giro su se stessa e si voltò. “Io volevo fare l’infermiera. Si, lo so che è assurdo, piantala di sorridere come un idiota! Volevo lavorare in uno di quei manicomi inquietanti: mi sono sempre piaciuti gli squilibrati. Ecco”.
“E perché hai mollato? Era il tuo sogno, tu non sei una che molla. Grazie”, versò il composto nel filtro e tentò di concentrarsi sulle quantità, benché fosse molto più interessato alla faccenda dell’amica, la quale fece spallucce ed andò a sedersi sulla sedia girevole. “Non faceva per me, mi sentivo costantemente, sai, fuori posto. In trappola. Preferisco vivere il presente”. “Io riuscivo a tollerarlo soltanto guardando al futuro”, sorrise amaramente. “Ci serve l’alambicco- quella specie di pentola a pressione col tubicino. L’ho poggiata da qualche parte, qui non c’era spazio”.
“Gli opposti si attraggono”, ammiccò lei, il ricordo di Dean gli fece male. “Se non fosse per questi pentoloni ingombranti, potrebbe anche piacermi l’idea di cucinare in camera mia. Almeno avrei la felicità a portata di mano”. “Questa è la prima e ultima volta in generale, Meg. Non farti venire strane idee”, la rimproverò lui. La ragazza alzò le mani in segno di resa. “Non mi permetterei mai, prof!”
“Levati quel ghigno stronzo dalla faccia, non promette nulla di buono. Non costringermi a bocciarti di nuovo- ti farò ripetere l’anno all’infinito”.
“Basta che ci muoviamo, questo casino comincia a darmi sui nervi. Giuro che darò tutto in beneficenza e non ne parleremo più”.
“Bene. Abbiamo quasi finito, ci serve soltanto dell’acqua bollente per l’alambicco”.
“Quanta?”


#Angolo della disperazione

E CE L'HO FATTA ANCHE QUESTA VOLTA.
Con un mese di ritardo, ma eccolo qui bitches! Il sesto capitolo! E lo so, la storia ancora procede a rilento, ma non durerà ancora molto. Presto avremo una svolta e i misteri saranno svelati! Vorrei aggiungere altro, ma il mio pc ancora fa i capricci quindi mi limito a ringraziare le brave donne che hanno seguito questa storia fin qui e non l'hanno ancora abbandonata (vi amo come sempre <3). Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e mi auguro di ritrovarvi al prossimo!
*sparge biscotti (e sale)*
AlfiaH <3
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Quasi mai di mamma ce n'é una sola ***


 
Quasi mai di mamma ce n'é una sola



10 aprile, 1983
Dal diario di John Winchester
 
Tutto procede secondo i piani.
Siamo partiti stamattina presto da Albuquerque  ed abbiamo guidato per quasi quattordici ore di fila: non ho mai odiato tanto le auto in vita mia. Attualmente siamo fermi a Las Vegas, i miei amichevoli accompagnatori hanno deciso di divertirsi un po’. Come biasimarli. Domani arriveremo a San Francisco. Incontrerò il Re. Devo aver conquistato la sua curiosità con il lavoretto a Ditroit. Sembra che rapinare banche da soli non sia roba da poco – a quanto pare se l’è bevuta. Ringrazierò il dipartimento di Ditroit per la collaborazione: questa cosa sta prendendo sembianze enormi. Non so se esserne contento. Qualcuno potrebbe farsi male.
A meno che non sia già successo.
Pam è in silenzio radio da due settimane. È strano, ma mi fido di lei (e dei suoi metodi poco ortodossi). È arrivata a Crowley prima di me: è un tipo in gamba, devo riconoscerglielo. C’era d’aspettarselo dall’MI7 (a quanto pare Crowley ha un passato in Inghilterra, chi l’avrebbe mai detto). Possiamo incastrarlo.
Domani mi chiederà di guadagnarmi la sua fiducia, probabilmente mi lancerà una sfida. Sono pronto a tutto.
Questa missione è troppo importante.
Bussano alla porta; dicono di aver trovato la moglie perfetta per me.
 
 
4 Maggio, 1983
Dal diario di John Winchester
 
Ho ucciso una donna.
Si chiamava Sara ed aveva tre figli.
Non so quale sia stata la sua colpa, ma dubito che ne esista una tanto grave da giustificare una tale condanna senza un equo processo.
Mi ha implorato di non farlo e le ho sparato in mezzo agli occhi.
Era innocente; forse Pam ha ragione, non sono tagliato per questo lavoro. Lei è a San Diego, per conto di Crowley. Sta bene.
Non ne sono sicuro per quanto riguarda me. Ogni volta che chiudo gli occhi rivedo il viso di quella donna. È stato per una giusta causa: l’unica cosa che mi aiuta a sopportare il senso di colpa.
Il re non si è ancora fatto vedere, però. Ci comunica gli ordini tramite una portavoce, una strega dai capelli rossi.
Quella donna ha qualcosa di malvagio. C’è anche lei nei miei incubi.
Spero di riuscire a chiudere occhio stanotte. Domani raggiungerò Pam.
 
 
10 Maggio, 1983
Dal diario di John Winchester
 
C’è stato un tempo in cui amavo la California, malgrado non ci fossi mai stato; la amavo attraverso le parole di mio padre, che l’amava – io lo amavo, e per questo amavo la California: il tepore del sole, le fronde verdeggianti, il mare, il vento tiepido…
A volte un racconto deve rimanere un racconto.
Il caldo mi soffoca, la pistola sta sempre per evaporarmi via dalle mani;
gli alberi offrono riparo a chi ha tempo per riposarsi, noi abbiamo parecchia fretta. Il colpo a San Diego è riuscito: un paio di giorni per organizzare il piano e meno di tre minuti per metterlo in atto.
Ho parlato con questo tale, Pancho, che ci ha procurato tutto il necessario – credevo fosse un pezzo grosso, ma quando gli ho chiesto di Crowley, non ha saputo dirmi nulla. Un buco nell’acqua.
Non ho visto Pam e nemmeno speravo di vedere il mare.
 
16 Maggio, 1983
Dal diario di John Winchester
 
Ho trovato un informatore. Lo incontrerò stanotte al Panglos, il locale appena fuori Union Square. Non nutro molte speranze. Tanto comunque non sarei riuscito a dormire.
 
 
Stando al mio informatore, Crowley si dirige a Sacramento. Dubito della sua affidabilità – un suo amico gli ha detto che gli hanno detto…
Mi ha dato un nome: Lilith. Ho il suo indirizzo.
Domani tenterò qualcosa.
 
 
18 Maggio, 1983
Dal diario di John Winchester
 
Lilith è una prostituta. Una delle migliori, mi hanno detto. Gestisce un bordello giù al porto (se ti affacci dalla sua finestra puoi addirittura vedere Alcatraz) ma non ha saputo dirmi nulla sull’aspetto di Crowley. A quanto pare lui non frequenta quel genere di posti, preferisce divertirsi nei suoi appartamenti. Lilith non ne sembrava contenta, in compenso aveva voglia di parlare. Una puttana di Albuquerque, pelle e capelli scuri, un tatuaggio a forma di farfalla sul collo. Non ha saputo dirmi altre informazioni significative, a parte il fatto che è una puttana. Non dovrebbe essere difficile da rintracciare.
Comunque la mia permanenza a San Francisco cominciava a destare sospetti.
 
20 Maggio, 1983
Dal diario di John Winchester
 
Finalmente ieri sera ho rivisto Pam. Ha un aspetto decisamente migliore del mio (oltre ad essere sempre bellissima) ed un’aria allegra.
Quando le ho chiesto cosa avesse ha semplicemente scosso la testa, mormorando un “niente” – la stessa risposta che mi ha dato alla domanda “novità sul caso?”
Ho l’impressione che lei sappia qualcosa e che non voglia rivelarmelo (lo scoprirò comunque, come ho scoperto i suoi movimenti nelle ultime settimane).
“Ho una traccia, devo solo riuscire ad avvicinarmi. È la pista giusta, ne sono sicura. Tra qualche mese – mese? Ma che dico! Tra qualche settimana avremo l’identikit di Crowley e delle prove che lo incriminino come orchestratore di tutti i reati”, sorridendo come una volpe, “fidati”.
“Cautela”, era l’unica cosa che potevo dirle.
 

 
1 Giugno, 1983
Dal diario di John Winchester
 
Ho fatto rapporto a Huge: Crowley sembra un fantasma. Nemmeno quelli della sua cerchia non sanno – o non vogliono – dirmi dove sia. Ci sono opinioni contrastanti sull’aspetto.
Sogno ancora gli occhi di quella donna.
 
 
17 Giugno, 1983
Dal diario di John Winchester – lettera di Eve Novak a John Wincheser

Caro Johnny,
come ti butta l’esistenza? Ti ricordi ancora di noi? Sei ancora vivo?
Sono mesi che aspettiamo tue notizie. Ti sei sposato a Las Vegas, hai messo incinta una sgualdrinella e hai paura di dirmelo? Fai bene, John.
Anche Bobby è arrabbiato con te – e non nel modo in cui è arrabbiato con tutti. Che diamine!
Capisco che tu sia impegnato con il lavoro (di questi tempi, poi, averne uno è già un miracolo), ma nemmeno il tempo per far sapere ai tuoi amici che stai bene? Com’è la vita da quelle parti?
Io ho delle grandi notizie. Non volevo dirtelo così, ma non mi dai altra scelta, quindi…
Sono incinta- si, hai letto bene, INCINTA. Io e Charles siamo incinti, ma lui si comporta da idiota ed è già nel panico e mi fa uscire dai gangheri perché, insomma, chi è che tra meno di tre mesi dovrà partorire un bambino?
Si, hai letto bene di nuovo, TRE MESI, John. Ho già un pancione enorme e sembro una balena, lo so, ma- vorrei che tu ci fossi quando nascerà il piccolo Balth (si, è il diminutivo di Balthazar, niente battute cretine sui tre magi). Ho promesso a Charles che sarà lui a scegliere il nome del prossimo, ma penso che sappia che non glielo permetterò mai. Ho già una lista di tutti i nomi dei miei prossimi figli- te la farò leggere quando tornerai a casa. Lawrence, te la ricordi, John? Kansas. Dove c’è la tua famiglia. Mi sento così sola ultimamente, mi manchi. Ci manchi.
Ieri sono andata a scegliere la culla per Balthie e mi è venuta l’ansia. Manca così poco e sono così terrorizzata e Charles non mi aiuta. Non so se ne sarò in grado, Johnny. C’erano così tante culle,  ci sono così tanti bambini nel mondo, con così tante madri; vorrei potergli dare la migliore, ma non so nemmeno se sarò in grado di dargliene una. Lo so, sono patetica… E poi non riesco ad essere felice. Avere un bambino è una bella cosa, ma noi non l’avevamo previsto… E’ arrivato all’improvviso. Bobby e Karen invece ci provano da una vita e…
Telefona a Bobby prima che puoi, ha davvero bisogno di te.
Un paio di mesi fa ho consigliato a Karen di fare il test per la sterilità, come ultima spiaggia. Era un’ipotesi orribile, ma avevano davvero provato di tutto e non sapevo davvero cosa dirle… A saperlo avrei tenuto chiusa la mia boccaccia. Qualche giorno fa sono andati da uno specialista. Quando sono tornati Karen aveva ancora gli occhi lucidi e, quando ho provato a chiedere notizie, è scoppiata in lacrime. Non penso ci sia bisogno di dire altro. Non la vedo da allora, rimane sempre chiusa in casa e Bobby ha un’aria così triste da spezzarmi il cuore. Siamo molto preoccupati per lei, si rifiuta persino di mangiare. Bobby dice che è soltanto un brutto periodo e spero davvero che sia così, perché Karen è una persona splendida e sarebbe una madre fantastica – e in giro ci sono troppi bambini che non ne hanno una. Poi, comunque, questo non è esattamente il momento migliore per mettere su famiglia, sai, con la crisi economica e tutto… Inoltre i bambini sono delle pesti, lo sanno tutti!
Glielo ripetiamo in continuazione, credimi. Non sappiamo più cosa inventarci per tirarle su il morale. Forse è una cosa che deve passare da sé, forse quando conoscerà il piccolo Balth si convincerà ad adottare un bambino – o forse cambierà idea. Forse per allora sarà già tutto sistemato e Balth avrà un cuginetto. Se tu fossi qui, mi proporresti di andare subito da una chiaroveggente. Tu e le tue idee strampalate ci mancate, John.
Scrivici presto,

 
Eve ed il piccolo Novak.
 
18 Giugno, 1983
Dal diario di John Winchester

Ieri ho ricevuto la lettera di Eve al monolocale che ho affittato ad Albuquerque. Non ricordo di averle dato quest’indirizzo, ma Eve riesce sempre a sorprendermi – sembra più un segugio che un’avvocatessa.
Vorrei poter scrivere a Bobby, chiedergli come sta Karen, stargli vicino – vorrei poter telefonare ad Eve per prenderla in giro, perché che razza di nome è “Balthazar”?!
Mi mancano i ragazzi, mi manca Lawrence. Non sarà facile farmi perdonare quando tornerò a casa, probabilmente mi toccherà fare da babysitter a qualche marmocchio. È stupido, ma l’idea mi fa sorridere –Bobby alle prese con una ragazzina complessata, il piccoletto di Eve che fa i capricci a tavola, Karen che mette tutti d’accordo. Sono sicuro che starà bene.
Mi manca la mia famiglia.
Una volta abituatici, Albuquerque non è male. Le persone sono amichevoli, le ragazze disponibili; sarà tutta la meth che circola a rendere gli animi più soft. È quasi divertente, da un certo punto di vista.
Come sbirro, invece, non riesco a non notare i lividi sui polsi di Catlyn. Le ho chiesto chi gliele avesse fatti, ma lei mi ha baciato e non ho più fatto domande. L’ho incontrata per strada qualche notte fa, era tra le amiche che Sacho voleva presentarmi. Lei mi ha guardato supplicante ed io non ho detto nulla: cercavo la mia puttana. Nessuna aveva un tatuaggio a forma di farfalla sul collo, quindi alla fine ho scelto Catlyn.
 
 
30 Agosto, 1983
Dal diario di John Winchester – lettera di Pam a John

Non esiste.
Non esiste nessun Crowley, John. È tutta un’invenzione. O meglio: esiste, ma non è chi crediamo che sia. È uno pseudonimo di una donna. Si chiama Rowena ed ha i capelli rossi. Ti dice niente? È quella puttana che ci fa da intermediario. Possiamo incastrarla al prossimo colpo, ho un testimone, ma non ho tempo di scrivere.

Tra due giorni a Detroit, a mezzogiorno, dove ci siamo incontrati la prima volta.
Pam.
 
 
4 Settembre, 1983
Dal diario di John Winchester

 Grandi novità sul caso: Rowena. Il primo progresso dopo mesi e mesi di indagini. L’abbiamo sempre avuto sotto al naso, Crowley, con quei suoi sorrisi affettati, gli inchini irriverenti e quegli odiosi “riferirò”. Era così ovvio- ci siamo così vicini. È tutto collegato a lei- spaccio, prostituzione, rapine. Abbiamo delle registrazioni che la inchiodano.
Uno dei boss più ricercati degli Stati Uniti incastrato da uno degli agenti più giovani  (e più in gamba) dell’FBI e, okay, da una squattrinata agente dell’MI7 – che ha fatto la maggior parte del lavoro, e non senza conseguenze.
D’altro canto, solo una donna poteva incastrare un’altra donna.

A proposito di questo, dovrò fare a meno dell'aiuto di Pam questa volta: è già al quinto mese di gravidanza, non fa rapporto da settimane. Probabilmente le toglieranno il caso, anche mi ha fatto promettere di non dire nulla – come se ce n’è fosse bisogno, è enorme. Non mi ha confidato nulla circa il padre e non ho insistito; so soltanto che si chiama Fergus, ma sospetto che mi stesse prendendo in giro - insomma, che razza di nome è "Fergus"?
Comunque.


La prossima settimana arriveranno delle armi dal sud, a Sacramento, in un piccolo porto. Lei ci sarà.

La prenderemo.
 
 
20 Novembre, 1983
Dal diario di John Winchester
È andato tutto a puttane.
Pam è stata scoperta, la sua fonte ha cantato. Ora lei e suo figlio sono sotto la tutela dell’FBI, tornerà in Inghilterra appena si saranno calmate le acque. Crowley, Rowena, ci sta cercando ovunque, non avrà pace finché non ci avrà trovato.
Non posso tornare in Kansas. Metterei in pericolo la mia famiglia.
Cazzo.
C’eravamo così vicini. E adesso? Questo lavoro è la mia vita.
Abbiamo arrestato Sancho e qualche altro contrabbandiere, a Ditroit se la sono data a gambe prima che potessimo fare nulla.
Ho visto Pam per l’ultima volta alla centrale, non mi era mai sembrata così sconvolta. Non ha spiccicato parola, mi ha semplicemente abbracciato.
E ha pianto.
Non abbiamo avuto tempo di parlare. Le uniche parole che sono sicuro di aver sentito sono “non mi perdonerà mai”, ma potevano significare tutto e niente.

 25 Dicembre, 1983
Dal diario di John Winchester, lettera da Eve Novak a John Winchester
 
John… Quello che mi hai chiesto di fare è impossibile, ci sono delle procedure per queste cose. Non puoi semplicemente prendere un neonato e piazzarlo in una famiglia qualsiasi. Ci sono dei canoni da rispettare, potrebbero volerci mesi. E poi, la madre? Questa Pam di cui parli è d’accordo? Il padre? Ci sono troppe cose che non mi dici. Che succede, John? Perché non posso parlarne con Bobby e gli altri? Sparisci per mesi e poi, quando finalmente ti decidi a farti sentire, te ne esci con questa storia assurda. Hai almeno ricevuto la mia lettera? Come faccio a trovare una casa a tuo figlio (perché è tuo figlio, vero?) in un paio di giorni? Anche sfruttando le mie conoscenze in tribunale, è poco più che impossibile. E non posso tenerlo io, lo sai. Charles non sarebbe mai d’accordo, e comunque dovrei dare spiegazioni ai vicini, anche se ormai Bobby è sempre quasi in ospedale da Karen… Non l’hai più chiamato, suppongo. Sembrava essersi ripresa quando aveva cominciato a frequentare gli incontri alla chiesa cattolica, ma non l’ho mai vista così depressa come negli ultimi tempi. Non posso presentarmi con un altro bambino, capisci? E poi questa povera creatura dovrebbe affrontare un viaggio così lungo, in macchina? Johnny, amico mio, sicuro di non aver picchiato la testa? Magari il sole messicano…
Ascolta, chiama appena puoi e ne parliamo, le lettere ci mettono secoli ad arrivare. Il nostro numero è sempre lo stesso, te lo scrivo infondo nel caso tu lo avessi dimenticato.
Eve.
 
 
 
18 Gennaio, 1994
Dal diario di Eve Novak
 
Caro Gabriel,
sei il casino più dolce che mi sia mai capitato. Non mi interessa se sei il figlio di John, o di questo Fergus di cui John parla nel suo diario, di una spia inglese o di tutto l’FBI, da oggi in poi sei soltanto Gabriel Novak – e sei fortunato perché papà ha trovato un compromesso tra un nome piuttosto normale ed il nome di un angelo. È la prima volta che andiamo d’accordo su qualcosa, quindi è un buon inizio.
Non ti preoccupare se Balth sembra un po’ geloso, è una primadonna per natura , e poi ho letto che è normale per il primogenito essere leggermente stronzo con i fratelli minori – inoltre temo che sia una cosa genetica.
Quello che voglio dire, tesoro, è che tra fratelli è normale. Anche lo zio Bobby potrebbe sembrarti un po’ seccato delle volte, ma è tutta apparenza: lui adora i bambini e adorerà te. Lo zio John, invece… Beh. Lui è una cicogna. Ricordatelo quando mi chiederai come nascono i bambini – non pensare nemmeno di chiederlo a tuo padre, potrebbe strozzarsi. Comunque, lo zio John è una brava persona. Spero che un giorno avrai la fortuna di incontrarlo, come l’ho avuta io.
Devo essere onesta con te, Gabe. Io non so se sarò una brava madre, non so se riuscirò a venire a tutte le tue recite o alle tue partite di calcio, ma prometto che ci sarò per i momenti importanti. Ti prometto, come l’ho promesso a Balthazar, che farò del mio meglio per renderti felice, che ti striglierò perbene quando prenderai un brutto voto a scuola e ti imbrillantinerò i capelli per il ballo di fine anno. Prometto che ti metterò in imbarazzo con i tuoi amici, che lancerò occhiate ambigue alle tue ragazze (o ragazzi) e che mi impegnerò a sembrare attenta quando mi racconterai del film che hai visto in TV. Perché è questo che fa una famiglia: ti sopporta, ti supporta e si preoccupa per te; non importa che gruppo sanguigno tu abbia.
Non sono un tipo sentimentale, ma non riesco ad esprimere a parole ciò che provo mentre vi tengo tra le braccia; è come se fossi nata per fare questo, come se il mio indice fosse stato creato a posta per essere avvolto dalla tua manina, e non esiste nulla di più perfetto.

Con amore,
Mamma.
 

 
 #Angolo della disperazione

Hello boys!
Ecco svelato /almeno in parte/ il mistero! Delusi? Sorpresi? Vi aspettavate dello SciuepZ?
Avete idea di quanto sia difficile cercare di simulare ottanta stili di scrittura diversi? Che poi sembrano tutti uguali? Perché continuo a fare domande stupide invece di passare alle note?
Ebbeh?
Albuquerque è una città del Nuovo Messico, e tu che guardi BB lo sai.
Per chi non ha visto la decima stagione: Rowena è la madre di Crowley, che in realtà si chiama Fergus. Quindi Fergus è Crowley.
Alla prossima?
Gli illuminati?
*rotolavia delirando*


 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Beati i cuori che non battono al ritmo della vita ***



Beati i Cuori che non battono al ritmo della Vita



Per qualche minuto, dopo aver dato un’occhiata al diario di John Winchester, Gabriel fissa il vuoto a braccia conserte. Sam e Dean, nella stessa stanza d’ospedale, si lanciano sguardi sinceramente preoccupati; Castiel, sul fondo, ha la vaga impressione di essere di troppo – proprio ora che potrebbe aiutare. Sam suppone di dover dire qualcosa, ma non sa cosa, e prega mentalmente che Dean tenga la bocca chiusa, almeno per questa volta, e non  peggiori la situazione sparando qualche battuta imbarazzante. Ne sarebbe capace. Ed è proprio questa consapevolezza a spaventare maggiormente i quattro uomini (anche Dean stesso che, poverino, la maggior parte delle volte non lo fa nemmeno a posta: certe stronzate gli escono spontanee, ancora prima di poterle pensare), anche se nessuno si prende la briga di condividere i propri pensieri con la classe.
Per fortuna è Gabriel a spezzare il silenzio. “Porco cazzo”. Ed è l’unica cosa sensata che possa dire.
“Concordo”, afferma il maggiore dei Winchester guadagnandosi un’occhiataccia dai presenti.
“Sono il nipote di un boss. Mia nonna era un boss”. Incredulo.
“Il figlio”, lo corregge Castiel con aria un po’ incerta, “Rowena è morta da un pezzo. Fergus, suo figlio, oltre ad aver assunto lo pseudonimo di “Crowley” come dalla madre, ne ha anche ereditato il trono. Quindi sei il figlio del boss”.
Gabe risfoglia le pagine ingiallite, le sopracciglia aggrottate. “Questo non c’è scritto nel diario. Non parla della morte di Rowena né di chi l’ha succeduta. Nelle ultime pagine è ancora viva e vegeta”.
“Quel diario risale a trent’anni fa, da allora le cose sono cambiate. Quando è morta quella strega di Rowena l’impero della criminalità organizzata si è spaccato e sono cominciate le lotte tra bande. Fergus e Rapahel, un sottoposto di Rowena, si sono fatti la guerra per anni, finché non hanno capito che insieme avrebbero potuto espandere i loro affari. Così si sono spartiti il territorio”, spiega cautamente. Tutti quegli sguardi puntati addosso lo mettono a disagio – uno in particolare.
“Vogliamo sapere come sai tutte queste cose?” il tono di Dean ha una preoccupante sfumatura minacciosa che lo fa tremare.
“Non le so- cioè, le so per osmosi. Ho conosciuto una persona a Rushville che se ne intende, è nel giro ormai da anni…” riesce quasi a sentire la voce di Meg che lo rimprovera di essere discreto e di non dire fesserie – omettere i particolari non è mentire, Clarence – ma Dean continua a guardarlo in quel modo che lo mette a disagio. Non può dirgli come e perché sa quelle cose. Comunque, omettere non è mentire. “In effetti potrebbe dirci dove trovare Crowley”.
“Anche Ruby potrebbe darci una mano”. Stavolta fu Sam a guadagnarsi un’occhiataccia. “Quella stronza ti ha già dato troppe mani, fiorellino”.
“Lasciamo fuori quella puttana da questa storia, okay? Già le devo un favore per avermi aiutato a trovare Cas, non mi serve che abbia qualcos’altro da rinfacciarmi”.
“Ruby è nel giro, potrebbe esserci utile, punto. Non possiamo lasciare un attimo da parte le questioni personali e guardare la cosa con obbiettività?”
“Scordatelo”,  e per una volta Dean e Gabriel sono d’accordo su qualcosa.
“Dobbiamo considerare anche che ci sia la possibilità che non accetti o che, comunque, non sia compatibile col tuo DNA. Il trapianto di midollo da parte di genitori è un’operazione ancora in via sperimentale ed è possibile solo in alcuni casi, dipende tutto dalla percentuale di compatibilità”.
“La tua positività mi era mancata, fratellino”.
“Mi dispiace”. Per tutto, vorrebbe dire. Ma non lo fa.
“Accetterà se non vuole essere preso a calci in culo. Pensiamo a questo, poi ci occuperemo della compatibilità. Chiama il tuo amico”, passandogli il cellulare, “mettici in contatto con Crowley, dicci dove trovarlo, a qualunque ora andrà bene. Fosse anche in capo al mondo”. Le loro dita si sono sfiorate appena e Castiel si sente stupido per essersene accorto. Si sente anche egoista per aver dato alla cosa tanta attenzione in una situazione del genere. Si sente a disagio, poi, perché dovrà parlarne a Meg – dovrà parlare anche a Dean, di Meg. In colpa, per aver mentito (omesso, Clarence, omesso). Sente così tante cose;
vorrebbe soltanto non sentire più.
“Cas?” la voce di Sam lo riporta alla realtà.
“Si, si”.
 
 

 *****

A volte, Sam ha paura di dimenticare i suoi genitori.
Non è che li ricordi benissimo, John e Mary Winchester, ma sa per certo che erano brave persone, che suo padre era un appassionato d’auto, che sua madre aveva un sorriso talmente caldo da sciogliere il polo nord – lo sa perché Dean gliel’ha raccontato, non è che lo sappia davvero.
Crescendo, Dean ha semplicemente smesso di raccontare: si è lasciato tutto alle spalle, crede Sam, ed è per questo che non osa nemmeno avvicinarsi al diario di John Winchester.
“Sapevi che nostro padre era un agente federale?”
Il biondo nega scuotendo la testa ed addenta di nuovo il suo hamburger, come se non mangiasse da giorni, e Sam darebbe quasi la colpa agli ultimi avvenimenti, se non conoscesse suo fratello. “Le finisci quelle?” farfuglia appropriandosi delle sue patatine; l’altro non ci fa neppure caso. “Sapevi che aveva una cotta per la signora Novak?”
“Almeno non ce l’aveva per Bobby”.
“Penso che sia una cosa ereditaria. Forse i Winchester sono geneticamente attratti dai Novak, tipo anime gemelle dal destino avverso. Invece che a rimanere unite per sempre, sono destinate a separarsi in un modo o nell’altro. Altrimenti il cerchio si chiuderebbe”.
Un brivido serra le labbra ad entrambi: i conti tornano. Sam non ci crede davvero, ma ci pensa. Pensa sempre troppo, quel testone di suo fratello, e finisce col diventare triste; Dean ha passato la propria vita a cercare il modo più semplice per spegnere il cervello, per non pensarci, ma non è sicuro che la cosa funzioni. Non più. Con Cas non ha funzionato.
“O forse sono una generazione di stronzi e noi Winchester amiamo cacciarci nei guai”.
“Può darsi”, concede sfogliando un’altra pagina ingiallita. Non lo sta davvero ascoltando, ma il maggiore non se la prende; lui non ha voglia di parlare. “In effetti Gabriel non è un Novak, quindi il cerchio si è già chiuso. So che il discorso in generale non ha senso, ma sarebbe stato poetico. I Winchester ed i Novak: magari se i nostri genitori non fossero morti, non avremmo nemmeno saputo della loro esistenza. E non avremmo saputo che nostro padre era un agente federale”. Dean è a tanto così dal mettere giù la sua cena ed intimargli di chiudere quella brutta boccaccia, perciò si sente quasi offeso quando la voce di Bobby li raggiunge, sempre più burbera del solito quando Ellen non è nei paraggi. “Non dire fesserie e metti giù quel coso: è ora di cena”. Il tavolo della tavola calda ballonzola appena e sembra inclinarsi sotto la stizza con cui ci sbatte sopra il proprio vassoio.
“Stavo per dirlo io”.
“Non ho fame”, li liquida semplicemente, e Bobby assume quell’espressione da “mi avevano detto che ad un certo punto sarebbero cresciuti” roteando gli occhi al cielo, quindi tocca a Dean comportarsi da bravo fratello maggiore, per il bene della comunità. “Ed il mio stomaco ti è grato per questo, davvero, ma ti conviene chiudere quel coso e fare uno sforzo se non vuoi che tutto l’ospedale sappia cosa fate tu ed il paziente più quotato del reparto di oncologia tra una visita e l’altra” – ed eccola, di nuovo quell’espressione sul volto del pover’uomo.
 Probabilmente non è nemmeno l’approccio giusto (e quando mai) perché Sam, sebbene si sia tinto di un rosso fiammante dal collo in su, incrocia le braccia al petto guardandoli con astio.
“Si può sapere cosa c’è che non va in voi? Ma come fate? Non siete curiosi di sapere che tipo era, in realtà, John Winchester? Perché io lo sono, molto. E questo è l’unico mezzo che ho per saperlo. Mi dispiace, Dean, ma non ho più cinque anni, la storiella di nostro padre che attraversa gli States in auto non mi basta più, io voglio- si, voglio conoscerlo”.
“Non è una storiella, l’ha fatto davvero! E comunque sinceramente no, non mi interessa sapere che lavoro faceva, chi si scopava o quante volte andava in bagno il nostro vecchio. Era una brava persona ed un buon padre, punto”.
“E se così non fosse?” tenta ragionevolmente il più giovane. Non si rende conto di stare giocando una partita persa in partenza – o forse se ne rende conto e non riesce a capacitarsi di avere un fratello così ottuso, perché, insomma, una volta tanto potrebbe anche comportarsi da organismo razionale ed ammettere di avere torto. Ovviamente le sue sono vacue speranze.
 “Sai cosa? Fa’ un po’ come ti pare. Io ho finito”.
“Dean”, il tono di Bobby gronda esasperazione, “riporta subito il tuo culo qui, ragazzo”.
E non è che gli faccia paura, eh, gli obbedisce soltanto perché pensa che sia la cosa giusta da fare (e poi, onestamente, non ha finito la sua crostata), ma ciò non significa che debba rendergli le cose facili evitando di palesare il suo disappunto incrociando le braccia al petto, ed abbassate quelle sopracciglia, so che state morendo di paura!
“Ascoltate, forse il vecchio John non era l’amico migliore del mondo ed aveva i suoi segreti, ma non c’è niente, niente, in quel diario che possa cambiare il fatto che si trovi tre metri sottoterra – pace all’anima sua. Che importanza ha quello che ha fatto o non ha fatto secoli fa? Sam, leggere quelle pagine non ti aiuterà a conoscere tuo padre semplicemente perché allora non lo era ancora. Allora c’era soltanto John Winchester e la sua fottuta abitudine di sparire nel nulla, che non ha niente a che vedere con voi e la vita che avevate, chiaro? Questo diario non aggiungerà né toglierà niente ai ricordi che avete, quindi prendetelo semplicemente per quello che è: cartastraccia che, per una felice coincidenza, ci permetterà di parare il culo al membro più rompipalle della nostra famiglia. E non parlo di Dean”.
“D’accordo”, annuiscono entrambi: uno leggermente ferito nell’orgoglio, l’altro offeso di riflesso.
 
 *****
 
 
Ai tempi, la RoadHouse era stata in cima alla lista dei posti preferiti di Castiel. Un po’ perché quando si sentiva troppo solo e l’atmosfera in casa Novak diventava irrespirabile, Ellen aveva sempre qualcosa di buono da offrirgli per tirarlo su di morale; molto di più c’entrava il fatto che quelle pareti tetre e le luci soffuse avessero assistito al giorno più bello della sua vita – e Castiel si sente patetico e triste a pensare che il giorno più bello della sua vita, come la maggior parte degli altri giorni normali o brutti o terribili della sua vita, per quanto ne ricordi, inevitabilmente riguardi Dean Winchester. Per la verità, prima che la signora Singer gli intimasse di darci un taglio, la RoadHouse era anche il posto in cui Dean portava le sue nuove conquiste per risparmiare, ma questo era prima che il locale scalasse la sua personale classifica. Prima aveva una classifica per ogni cosa, ora il caos non gli dispiace. Potrebbe sembrare di si dall’aria abbattuta che ha mentre gira la cannuccia nel suo vodka lemon (che in realtà è succo di frutta, ma non ha il diritto di lamentarsi), dalle spalle curve e le sopracciglia aggrottate, però va tutto bene. È tardi, lì alla RoadHouse, la musica non è assordante come le musiche a cui si è abituato nell’ultimo anno, non romba nel suo petto, che dopo tanto ballare finalmente si riposa, e neppure sente il bisogno di non pensare; c’è quel leggero tintinnare del ghiaccio contro il cristallo scadente che basta a distrarlo, e la sua mano non trema, anche se suo fratello è malato, anche se ha mentito a Dean, anche se Meg l’ha bellamente mandato a quel paese ed Ellen non gli rivolge più la parola – “ti perdonerà”, si è limitata a dire quasi un’ora fa. “Lo so”, le ha risposto, senza dover aggiungere altro. Anche se non ha idea di quello che succederà domani e non ci sono classifiche, anche se la sua vita è un casino in balia delle probabilità, la sua mano non trema ed il suo cuore è quieto: finalmente è a casa, anche se è tardi ed il ghiaccio si sta sciogliendo, lì alla RoadHouse.

 
*****
 
 
“Il mattino seguente” è qualcosa che Dean non vorrebbe mai dover vivere, soprattutto quando la sera prima sei andato a letto con qualcuno di cui non ricordi nemmeno il nome, oppure, come in questo caso, devi aprire gli occhi per scoprire che la giornata precedente non è stata soltanto un incubo. Lo abolirebbe, se potesse, ma dato che non può si limita a prendere il terzo caffè della giornata, spalmano sul bancone della cucina. Al contrario, Sam è molto più attivo di mattina – sarà per quei tre o quattro occhi in più che gli permettono di digitare messaggi al cellulare, preparare la borsa ed evitare il cuscino che sistematicamente Dean gli lancia tutte le mattine quando passa a svegliarlo, da quindici anni a quella parte. Comunque, non lo saprà mai.
“Dobbiamo passare a prendere Gabe all’ospedale”, lo informa apaticamente infilando delle merendine nella propria borsa. “Cosa? Lo hanno dimesso?” Sam digita qualcosa, inclina la testa verso di lui come se volesse guardarlo (ma non lo guarda), rimane in attesa, la mano sinistra che tasta la stoffa color militare per cercare una tasca. “Più o meno. È inutile che rimanga lì senza sottoporsi alle chemio e poi vuole venire con noi a San Francisco. Oh, dobbiamo passare anche dalla RoadHouse a prendere Cas. Meg è arrivata, ci guida lei”.
Sarà che Dean non è ancora del tutto sveglio, nonostante i suoi tre caffè, ma è piuttosto sicuro di essersi perso qualcosa – o forse è una di quelle mattine in cui non ricorda con chi ha scopato, perché davvero non sa chi diavolo sia questa Meg. E poi Cas ha passato la notte lì? È troppo stanco per decidere come si sente a riguardo (una vocina nella sua testa suggerisce che è una cosa buona, ma uno sbadiglio la soffoca). Si passa una mano sulla faccia con la speranza di scacciare il sonno dalle palpebre, prima di chiedere. La risposta di suo fratello suona così ovvia. “Meg, l’amica di Cas, quella  di Rushville che conosce Crowley, è alla RoadHouse con Cas. Dice di sbrigarsi prima che le crescano i funghi al culo. Ma sei sveglio?” ed il biondo vorrebbe urlare che no, non è sveglio, perché sono le fottute sette del mattino e ha il sacrosanto diritto di morire di sonno, soprattutto dopo la notte che ha passato. Riesce a pronunciare soltanto qualche frase sconnessa, invece, come se non parlasse da anni; alza le mani alla fine, in segno di resa, sbadiglia e “prendo un altro caffè e andiamo” al “muoviti, ti aspetto in macchina” di Sam.



#Angolo della disperazione

Sono lenta ad aggiornare ma aggiorno sempre, non odiatemi
Per chi è interessato agli aggiornamenti di questa fanfiction, per fare due chiacchiere e soffrire insieme per il finale di stagione o volete passare esclusivamente per un saluto so che volete , sono da oggi attiva su facebook col nome di Alfiah! owo Non linko perché il mio url è inspiegabilmente imbarazzante. Come sempre, grazie a chi ha letto fin qui e non dimenticate di farmi sapere cosa ne pensate!

AlfiaH <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Quello che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas ***


Quello che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas

Note: NON ODIATEMI. *schiva tomati* Aggiorno, in ritardo, ma aggiorno. Questo capitolo è più lungo dei precedenti e ci ho infilato del fluff per farmi perdonare, vedete. Volevo solo dire che vi amo tanto perché, malgrado io sia una lentona del cazzo, trovo sempre qualche commento dolcissimo e confortante a questa fanfiction e non smetterò mai di ringraziarvi per questo. Ho preso l'abitudine di mettere questo genere di note all'inizio così che siate cosicché siate costretti a leggere supponendo che siano avvertimenti importanti <3 Sono una strega, lo so, ma merito di essere amata (?)
Scusate eventuali errori, il caldo mi fotte il cervello quindi potrebbe essermi sfuggito qualsiasi cosa.
Okay, vi lascio alla lettura :D *rotola via*

 



“Sono stanco di rattopparti”, si lamentò per l’ennesima volta, tamponandogli il taglio sotto l’occhio.
“Meglio me che John. Quello stronzo era messo molto peggio, fidati”.
“Lo so, Dean, c’ero anch’io quando vi siete picchiati”.
“Quando l’ho picchiato”, corresse l’altro facendogli roteare gli occhi al cielo.
“Si, certo. Quando la pianterai di attaccare briga col primo che passa? Non hai più quindici anni, pensavo che ad un certo punto fossi cresciuto”.
“Nah, certe cose non cambiano con l’età. Tu sarai sempre troppo buono, il mondo troppo stronzo ed io sarò sempre pronto a prenderlo a calci in culo. Tra ottant’anni sarà ancora così, mettiti l’anima in pace. Insomma, se non ti difendo io, chi dovrebbe farlo?” Castiel arrossì e allentò la pressione sul suo volto.
“Non ne valeva la pena”, mormorò con un sorriso timido. Dean gli prese il polso prima che potesse interrompere il loro contatto e cercò il suo sguardo.
“Hey, per te vale sempre la pena, okay? Cas, guardami”.
“Io ho finito”, disse velocemente. Sembrava volesse scappare. “Ti lascio una pomata per il livido”. Dean lo percepì scivolargli via dalle dita e si aggrappò a lui con maggior forza, determinato a non lasciarlo andare. Non poteva. Non ora che, finalmente, erano vicini abbastanza per potersi toccare; ultimamente Castiel lo evitava come la peste (Dean non aveva davvero bisogno di chiedersi perché ma la sua tendenza ad autogiustificare le sue cazzate gli imponeva di farlo). Si sporse in avanti il minimo ed indispensabile per unire le loro labbra, in un egoistico e disperato tentativo di tenerlo con sé, e l’altro, come paralizzato sul posto, nemmeno si mosse; se Dean avesse potuto sentire i battiti furiosi del suo cuore, se solo avesse visto la voragine che scavavano nel suo petto attimo dopo attimo, non lo avrebbe baciato in quel modo, accarezzandogli il volto, divorando la sua bocca senza pudore, plasmandolo sotto il suo tocco.
“Dean-” lo supplicò, ma l’altro gli morse il labbro inferiore, tirando piano, e Castiel non poté fare a meno di seguirlo (come aveva sempre fatto). “Ti avevo chiesto per favore di non farlo più”.
“Ti stavo solo ringraziando per lo splendido lavoro, non mi sembra ti sia dispiaciuto”, sorrise spietato, circondandogli il collo con le mani.
“No, io- dovrei essere io a ringraziarti per avermi difeso, anche se con metodi che non approvo, quindi non c’è bisogno che tu, ehm…”
“Giusto, sei in debito con me”. Castiel dovette impiegare tutte le sue forze per fare un passo indietro ed allontanarsi dalle sue mani, dalla sua bocca, la stessa che aveva desiderato per anni e che ora lo pregava di rimanere. Non poteva fare questo a Dean, ad Alfie. A se stesso. Era tutto così sbagliato. Doveva andare via, prima che quella cosa – qualunque cosa fosse – li ferisse entrambi più di quanto avesse già fatto.
“Dean, per favore. Per favore”.
“Hai ragione, mi dispiace”, acconsentì, stranamente ragionevole. Forse, dopotutto, non era così brillo. Sospirò platealmente. “Il fatto è che mi manchi, Cas, non riesco a non pensare a te. Questa cosa mi sta fottendo il cervello, non posso andare avanti così. Dopotutto non è questo che hai sempre voluto anche tu? Una possibilità con me” cercò conferme nel suo sguardo, ma vi trovò solo sgomento. La cosa lo divertì e gli fece vibrare il petto, tanto che dovette poggiare la fronte nell’incavo del suo collo ed aggrapparsi alle sue spalle.
“Non sai quello che dici”, la sua voce suonò come un basso ringhio colmo di risentimento che scosse le membra di entrambi, ma Dean non vi badò; era determinato ad andare fino infondo, non importava quanto male avrebbe fatto. Doveva ricominciare a vivere e cedere alla sua tentazione era l’unico modo per liberarsene. “Solo per questa notte, promesso. Io avrò te e tu avrai me e staremo bene entrambi. Finalmente andrò avanti. Via il dente, via il dolore”.
Castiel lo ascoltò in silenzio mentre straparlava, il sangue che gli si gelava nelle vene parola dopo parola, finché la voglia di prenderlo a pugni non rischiò di prendere il controllo sul suo corpo – e Castiel odiava la violenza e non avrebbe mai fatto del male a Dean, anche se lo voleva con ogni fibra del suo corpo. Magari sbattendogli la testa contro il muro avrebbe preso coscienza di sé e si sarebbe reso conto di tutte le stronzate che stava tirando fuori. Magari avrebbe smesso di ragionare come un infante ritardato, ma Castiel non poteva basarsi su mere supposizioni (per di più con un’alta probabilità di essere errate), quindi lasciò perdere e si limitò a staccarselo di dosso con tutto l’odio ed il rancore di cui era capace.
“Smettila di fare lo stronzo, una buona volta”. Dean sussultò perché Castiel aveva appena detto una parolaccia e che cavolo stava succedendo? “Ma ti ascolti quando parli? Come puoi anche solo pensare che io voglia questo? Io non-”, gli occhi gli pizzicarono pericolosamente, la sua voce ridotta ad un sussurro, “non voglio venire a letto con te, Cristo”. Si passò le mani sul viso ridendo amaramente, alcuni ciuffi neri rimasero incastrati tra le dita; Dean li fissò a bocca aperta, in un misto di stupore e confusione.
“Non per qualcosa, ma l’ultima che mi ha guardato come mi guardi tu di solito non se l’è nemmeno fatto chiedere”.
“Oh, ma chiudi la bocca”.
“Solo se tu smetti di negare l’evidenza”. Balzò giù dal tavolo, su cui si era seduto per farsi medicare, ed allontanò le mani dal suo viso con una gentilezza che Castiel non gli aveva mai visto usare prima. Esposto e privo di difese, non riuscì ad evitare il suo sguardo. “Mi vuoi, Cas. Mi hai sempre voluto”.
“Non-”
“Va tutto bene”. Lo tirò a sé senza incontrare alcuna resistenza, gli circondò il corpo con le braccia, chiudendolo in un abbraccio da cui Castiel non sarebbe potuto scappare nemmeno volendo – non che lo volesse. “Ti voglio anch’io”, sussurrò tra i suoi capelli. Castiel non riuscì a reprimere un singhiozzo.
“Non voglio che tu mi voglia”, le sue parole vennero soffocate sulla stoffa; Dean non le ascoltò né ne comprese il significato. Dopotutto aveva ragione: certe cose non cambiano mai.
 
*****
 
“Qualcuno mi spiega per lei deve stare davanti?”
Dean rotea gli occhi al cielo, prima di riportarli sulla strada: hanno già affrontato quel discorso e non intende farlo di nuovo.
“Beh, tesoro, senza di me sareste spacciati. Sono io a guidarvi dal grande Boss”, risponde la bionda accanto a lui sistemandosi gli occhiali da sole sul viso. Meg non gli piace per niente (e non c’entra niente il fatto che Castiel l’abbia abbracciata per dieci secondi abbondanti) e non mancherà di farglielo notare non appena saranno arrivati dove devono arrivare. Sempre che abbia detto la verità su Crowley.
“Ma io sono il malato, questa potrebbe essere la mia ultima gita!” ribatte Gabriel dal sedile posteriore. Dean non è ancora convinto che farlo uscire dall’ospedale sia stata una buona idea, ma lui è un uomo adulto e sa badare a se stesso – in più si fida di Kevin e del buonsenso di Sam.
“Non siamo in gita, Gabe”, lo rimprovera Sam cingendogli le spalle con un braccio, protettivo.
“Certo che non lo siamo, non siete ancora entrati nello spirito giusto. E io che speravo di divertirmi un po’con voi, come ai vecchi tempi – arpia a parte”.
 E Dean dovrebbe guardare la strada, invece di notare come gli occhi di Castiel siano ostentatamente piantati fuori dal finestrino: non ha ancora spiccicato parola se non per salutare Meg e la cosa gli da un po’ sui nervi.
“Perdonami se faccio il, ehm- quinto incomodo, caro, ma sto cercando di pararti il culo, se non ti dispiace. Gira a sinistra alla prossima”.
“Lo so”, alla prossima, Dean gira a sinistra.
“Perché non ci dici dove dobbiamo andare e basta?”
“Così potete abbandonarmi in autostrada come un cucciolo?”
Certe volte suo fratello fa delle domande così stupide senza nemmeno provare a combatterle (almeno Dean si sforza di trattenersi dal chiederle perché non se ne va a fanculo e non è per niente facile).
“Dean non lo farebbe mai”. Non si era reso conto di aspettare la voce di Castiel finché non la sente, atona ed incolore, e farebbe anche qualche battuta a riguardo se non fosse troppo preso dal blu che per un attimo ha incrociato nello specchietto retrovisore (e dalla assoluta e malriposta fiducia che Castiel ha in lui).
“Certo, ci pianterebbe entrambi” e Meg non ha tutti i torti – forse lo conosce meglio di chiunque altro o sa semplicemente leggere nel pensiero (forse anche Gabriel ne è capace perché non la smette di sogghignare).
“Al massimo poi si sentirebbe in colpa e tornerebbe indietro a prendere il suo, di cucciolo. Vero, Deanuccio?”
“Oh, ma chiudi la bocca”.
“Non lo sta negando”, squittisce la bionda girandosi sul sedile per guardare Castiel, gli occhiali abbassati e le sopracciglia all’attaccatura dei capelli, ma l’altro ha già ricominciato a fissare lo scorrere degli alberi.
“Ha superato quella fase da un po’”, spiega Sam guadagnandosi il consenso di Gabriel, che annuisce gravemente, “e non è stata nemmeno la peggiore”.
“Nemmeno la più breve!”
“E nemmeno quella che si è ripetuta meno volte: un incubo”.
“I froci repressi sono i peggiori”, dichiara Meg con la stessa serietà di un capo di stato – stanno tenendo una conferenza nella sua auto e lui non è stato invitato.
Insomma, non è che non sia vero: Dean ha impiegato anni ad accettare l’idea di essere attratto dagli uomini (e da uno in particolare) e, a mo’ di elaborazione del lutto, la fase peggiore che gli viene in mente è senz’altro quella della negoziazione, dei perché e dei per come, quando era davvero convinto che la cosa potesse passargli in qualche modo. E si, si è comportato da stronzo ma, Cristo, potrebbero anche evitare di parlarne come se non ci fosse.
“Avete finito?”
“Potremmo andare avanti all’infinito, ma non sei un argomento così interessante”, replica Gabriel. “Piuttosto, dovremmo fermarci a Las Vegas!”
“A Las Vegas?”
“È sulla strada”, spiega Meg allo sguardo stralunato di suo fratello. L’occhiata complice che lancia a Gabriel non gli piace per niente. “Possiamo fermarci da quelle parti per la notte e ripartire il giorno dopo per San Francisco. Abbiamo portato i vestiti”.
“Abbiamo? Quali vestiti? Gabriel?”
I vestiti, zuccherino. Non vorrai mica girare per i casinò conciato in quel modo!” di nuovo quell’occhiata d’intesa: Dean non ci vede chiaro, indagherà.
“È per questo che hai insistito per venire con noi? Per farti un giro per i casinò?” il tono di Sam è un misto tra incredulità e delusione – aveva sperato in una presa di coscienza, probabilmente, ma il suo fidanzato, come Dean, sembra essere un campione nel deludere aspettative.
Gabriel fa spallucce: “potrebbe essere la mia unica occasione”.
“Smettila di ripeterlo”.
“Bella scusa!” esclama Dean per sdrammatizzare. Infondo non è che abbia qualcosa in contrario, Las Vegas gli piace. Una notte da leoni. In effetti, non ha ancora incontrato nessuno che si sia lamentato di Las Vegas. “Guarda che ho occhi ed orecchie ovunque, Gabe. Verrò a sapere se fai qualche stronzata”.
“Sarò un angioletto”.
Il tenue sorriso che si dipinge sulle labbra di Castiel basta a convincerlo definitivamente.
 
*****

Alla fine non hanno preso una suite come in “Una Notte da Leoni” (Dean ha provato ad insistere con la speranza di immedesimarsi abbastanza da perdersi Meg il giorno dopo, ma la stoica ragionevolezza di Sam è sempre difficile da combattere, soprattutto senza alleati, soprattutto quando perdi a sasso-carta-forbici tre volte di fila – ma come diavolo fa?) ma la sua stanza ha comunque un aspetto dignitoso: letto, finestra, tv, frigobar. Tutto quello che gli serve. C’è un letto in più per Castiel perché ha degli amici stronzi e ad un certo punto  ha dovuto scegliere se tenerlo in camera con sé o farlo stare con Meg (la risposta gli è uscita talmente ovvia da farlo piangere dentro). Comunque conta di rimanere al motel soltanto il tempo necessario per chiarire un paio di cose; la prima con Gabriel, la seconda con Castiel (deve ancora lavorare su questa, ma lo farà nel frattempo), e sarebbe tutto molto più semplice se Sam si schiodasse un secondo dal culo del suo ragazzo. Letteralmente. Può capirlo, davvero, al suo posto farebbe la stessa cosa se l’amore della sua vita faticasse a tenere in mano un bicchiere, ma non è questo il punto: ultimamente Gabriel sembra sempre sul punto di scoppiare, Sam lo soffoca.
In effetti, dovrebbe parlare anche con Sam.
Lo farà non appena saranno usciti dalla doccia.
“Non è una buona idea”. Impiega qualche secondo per realizzare che Meg è ancora nella stanza, destinata a Sam e Gabriel. “Quei due avranno da fare per un po’”, spiega con una lunga occhiata significativa verso la porta del bagno. Dean non vuole immaginarlo né vuole sapere come quell’arpia sia riuscita ad entrare nella sua testa.
“E tu non hai qualcosa da fare? Che so, in camera tua, quella che pago con i miei soldi?” non è bravo a fingere che una persona gli piaccia, non lo è per niente. Lei alza le spalle e gli rivolge un sorriso insinuante.
“Potrei dire la stessa cosa di te. Forse la tua camera non è abbastanza confortevole?”
“Devo parlare con mio fratello”. Non è che senta il bisogno di giustificarsi; non è che abbia paura di rimanere nella stessa camera con Castiel, è solo che… che… “e comunque non sono affari tuoi”.
“Antipatico”, sbuffa lei. “Mi chiedo come abbia fatto Clarence a sopportarti per tutti quegli anni”.
“Te ne ha parlato?” non riesce a nascondere lo stupore nella propria voce. Ora è davvero curioso di sentire, anche se dubita che avrà bisogno di chiedere.
“Oh, non parlava d’altro! Dean di qua, Dean di là”, fa un rapido gesto con la mano come a voler cancellare quel nome, una smorfia sul volto. “Ti ha dipinto come una specie d’eroe, sai. Non ti dico che mi aspettavo il cavallo bianco, ma… Cristo, sei piuttosto deludente”.
“Beh, spiacente di aver deluso le tue aspettative, tesoro. Lo aggiungerò tra il matrimonio di George Clooney e l’uscita del nuovo film della Disney, sulla lista di cose di cui non mi interessa un cazzo”.
“Beh, almeno siamo d’accordo sui film della Disney”.
“Roba per ragazzine”, concorda. Rimangono in silenzio per qualche istante, abbastanza per sentire un verso non-così-equivoco provenire dal bagno. Dean si alza come scottato e si fionda nel corridoio, Meg lo segue senza reprimere una risata.
“Clarence li adora!”
“Ho ancora la sua dannata collezione nel mio salotto”. Stavolta nemmeno lui può trattenere il sorriso che gli arriccia le labbra. Una delle tante cose che non è riuscita a buttare, pensa. Chiudere con il passato non è il suo forte.
Ha pianto quando la mamma di Bambi è morta. Ti giuro che non riusciva a smettere”.
“Cas ha pianto per le tartarughe quando Julie Andrews ci ha camminato sopra per attraversare il fiume. Quella è stata l’ultima volta che gli ho lasciato scegliere il film”.
“A me l’ha raccontato il modo diverso”, ammicca lei facendolo arrossire leggermente. Non è che lui e Castiel prestassero molta attenzione allo schermo, di solito – c’era Dean che si ostinava a scegliere film d’azione o prepotentemente antichi, Dean, preistorici e Cas che scivolava in mezzo alle sue gambe senza che potesse nemmeno fare nulla per impedirlo (non che ci abbia mai provato sul serio, ma si sente abbastanza a posto con la coscienza per aver pensato di farlo). Ovviamente questo è stato dopo.
E questo prima o dopo essere diventato una troia strafatta?”
“Pensavi che saresti rimasto il centro del suo mondo per tutta la vita?” Meg inarca un sopracciglio, fermandosi davanti alla porta della propria camera. Dean non sa perché sta parlando con lei, non sa perché sta parlando di Castiel con lei. Non la conosce nemmeno. Non che gli interessi cosa abbia fatto il suo ex in quell’ultimo anno da cambiarlo così tanto. Proprio no. Per niente.
“Non è questo il punto”, sbuffa.
“E qual è il punto?”
Non sa davvero cosa rispondere. Come poter dire la verità senza doverla ammettere a se stesso? Alza le spalle, ostentando indifferenza. “E’ strano vederlo così, tutto qui. Suppongo che tu abbia aiutato”.
Stavolta è lei a fare spallucce, poggiandosi alla porta chiusa. “Io e Clarence siamo molto simili. Abbiamo bisogno di un piccolo aiuto per andare avanti e superare le delusioni – caderci è così semplice e indolore per quelli come noi. È stata solo questione di tempo”.
Cas non ha niente da spartire con te, vorrebbe dire, ma Meg si accorge del suo sguardo duro e lo precede. “Alla fin fine non ho aiutato più di quanto l’abbia fatto tu. È più colpa tua che mia”.
“Oh, non ci provare, non mi farai sentire in colpa, non per questo”, ride una risata prima di gioia, puntandole un dito contro. “Ho passato mesi a sentirmi come l’inferno per averlo deluso, come deludo tutte le persone che amo. Non ho bisogno di sentirmi in colpa anche per le scelte di merda che ha fatto”.
Lei incrocia le braccia al petto, alzando gli occhi oltre la sua spalla. “Clarence”, lo avverte con un cenno del capo.
Castiel se ne sta a qualche metro da loro, la testa china mentre si guarda i piedi – cerca di non origliare, ma è abbastanza complicato vista la tonalità di voce di Dean. Beh, che senta. Dean non ha niente da nascondere su questo.
“Parlaci”. Cazzone: Dean riesce a sentirlo attraverso ogni singola lettera. Infila le mani in tasca, vacilla: l’ultima cosa che vuole è parlare con Castiel. Meg rotea gli occhi al cielo e apre la porta dietro di sé con la chiara intenzione di sbattergliela sul muso e lasciarlo lì come un idiota, insieme al suo incubo peggiore. Puttana. “Aspetta!” sibila. Deve almeno concludere qualcosa.
“Che vuoi?”
“Come conosci Gabriel?”
“Non lo conosco”. Un sorriso malizioso le si dipinge sulle labbra.
“Davvero? Perché sembrate compagni-di-complotti o qualcosa del genere”.
“Certe persone sono semplicemente fatte l’uno per l’altra, tesoro”, sospira lanciando un’occhiata verso Castiel.
“Beh, ti conviene stargli lontano. Forse Sammy è tollerante riguardo queste cose perché si fida di Gabriel, ma sappi che io lo tengo d’occhio. Sempre”.
“Presti troppo attenzione al Novak sbagliato”.
“Dico sul serio, Meg. Meg!”
“Non preoccuparti!” urla lei, già dall’altra parte della porta.
 
*****
 
C’è qualcosa di terribilmente sbagliato nell’accoppiata Meg-Dean, qualcosa che basta a ghiacciarlo sul posto appena li scorge insieme perché, andiamo, non può uscire nulla di buono da tutto quello. Meg è proprio il tipo che potrebbe far incazzare Dean o trascinarlo in camera da letto in due secondi e, sinceramente, Cas è molto più preoccupato per la prima ipotesi.
Ha fatto del suo meglio per non ascoltare quello che stavano dicendo, ma non è servito a molto. Niente di nuovo, comunque. Dean ce l’ha con lui, non gli passerà tanto facilmente. In ogni caso è chiaro che le cose non torneranno come prima, tra loro, e nemmeno ci spera: lui è cambiato. Chissà se Dean ha fatto lo stesso.
“Hey”, lo saluta Dean, avvicinandosi. Castiel riesce a stirare soltanto un sorriso nervoso.
“Hey”. Per un attimo pensa che voglia fermarsi – si fermerà e mi parlerà – ma il ragazzo si limita a superarlo, dandogli una leggera pacca sulla spalla, la stessa che gli regalava anni prima, quando erano al liceo e non gli era concesso altro. Castiel dovrebbe lasciar perdere e fare quello che è venuto a fare (bussare alla porta di Meg e piangere sulla sua spalla in modo molto, molto virile), ma il suo corpo si muove senza che possa realmente controllarlo. Segue Dean. La fottuta storia della sua miserabile vita.
“Dean”. L’altro non si volta nemmeno, continua a camminare verso la loro camera.
“Hai bisogno di qualcosa?”
Castiel si ferma, non sa esattamente cosa dire. Sospira: “no”.
“Bene”.
“Capisco che sei arrabbiato con me -” tira fuori tutto d’un fiato. Dean finalmente si gira, fiammeggiante, l’apparente calma di pochi secondi prima scomparsa del tutto.
“Arrabbiato? Sono sono furioso, Cas!”
“ - ciononostante possiamo giungere ad un compromesso”.
“Cosa?”
“Siamo qui per Gabriel, dovremmo tenere fuori i nostri problemi personali da questa storia. Potremmo comportarci come due amici o due conoscenti”.
“Ti sta sfuggendo qualcosa”, dice inarcando le sopracciglia, sarcastico. Castiel non riesce a capire. “Sto cercando di ignorarti, Cas. Ci sto davvero provando”.
“Comprendimi se faccio fatica a crederti”, stavolta è il suo turno di fare dell’ironia, “sarà che mi hai picchiato e poi hai cercato di fottermi nel giro di due ore, ieri. E oh. Mi hai anche detto che volevi sposarmi”.
Dean rimane in silenzio solo per qualche secondo. “Vederti mi suscita emozioni contrastanti”, ammette infine, il sorriso artificioso che cerca di alleggerire le sue parole – l’ho detto, ma non voglio che tu lo prenda sul serio.
“Ho notato”, ghigna, accorcia la distanza che c’è tra i loro corpi. L’unica emozione che ha provato lui, a dirla tutta, è l’irrefrenabile voglia di abbracciarlo – gli sembra di averlo abbracciato così poco in tutti quegli anni fatti di pacche sulle spalle e strette di mano. “Quale emozione ti suscito adesso?” gli basta poco, davvero poco per sollevarsi sulle punte dei piedi e baciarlo. Potrebbe. Basterebbe.
Dean apre la bocca, sbuffa dal naso. Castiel riesce a sentire gli ingranaggi girare ed impallarsi, le strida di spade di una lotta interiore, nella sua bella testolina bionda. Pensa di poter decidere per lui prima che la battaglia finisca, ma quando poggia una mano sul suo viso e gli sfiora l’angolo delle labbra è tutto già perso: gli occhi di Dean sono ridotti a due fessure, le sue mani lo stanno allontanando, salde sulle sue spalle.
“Possiamo essere amici”, tenta allora. L’altro scuote la testa, riprende a camminare, lo lascia indietro. “Per favore”.
“Ci penserò”, concede infine strappandogli il sorriso più sincero.
 
*****
 
Dean lo fissa per venti secondi buoni prima di scostarsi dalla porta e lasciarlo entrare. Un paio d’ore prima Castiel si era vestito e si era unito al resto del gruppo per lasciarsi travolgere dalla magia della città – così ha detto, tutto denti e gengive, allacciandosi la cravatta blu al collo (Dean ha lottato contro se stesso con tutte le sue forze per resistere alla tentazione di alzarsi e sistemargliela, ostinandosi a tenere gli occhi sulla play list del cellulare) per poi trotterellare allegramente verso l’uscita. Appena un paio d’ore fa, nota guardando la sveglia sul comodino. Non è nemmeno mezzanotte.
Castiel poggia la confezione di birra sopra uno dei letti ed inclina la testa di lato, un sorriso lieve e gli occhi lucidi. Gli sta porgendo qualcosa, ma Dean non riesce a distogliere lo sguardo dal rivolo di sangue che gli cola da un taglio sullo zigomo e dalla macchia di sangue sul colletto della camicia. Alla luce dell’abatjour on riesce più a distinguere i lividi che gli ha fatto lui il giorno prima e quelli che ha adesso. Le sue labbra tremano appena. “E’ ai mirtilli”, dice. Solo allora Dean si accorge che gli sta porgendo una fetta di crostata. “Ti ho preso anche del uh – porno. Speravo di farmi perdonare”.
“Che diavolo ti è successo?” non riesce a nascondere la nota isterica nella voce. Castiel mette giù il piatto, storce le labbra in una linea infelice.
“Non mi crederesti”.
“… Hai ucciso qualcuno?”
I suoi occhi blu si spalancano (Dean si sente stupido ad accorgersi che la cravatta blu non è più al suo posto perché si intonava con i suoi occhi). “Mi aiuteresti ad occultare un cadavere?”
“Cas!”
“Non ho ucciso nessuno, tranquillo. Però saresti un ottimo occultatore di cadaveri”.
“Cos’è successo?” ripete allora, il tono addolcito. Gli toglie la crostata dalle mani, l’altro crolla sul letto con un lungo sospiro, si guarda le mani, il labbro tra i denti.
Un altro sospiro: “ho colpito un tizio”.
Per un breve istante crede di essersi sbagliato. “Come?”
“Con un pugno, Dean!” urla, esasperato dalla stupidità dell’altro. Dean non dovrebbe trovarlo così divertente, davvero non dovrebbe, perché Castiel ha un’espressione sconvolta e sembra sul punto di piangere, ma andiamo.
“Uh, certo. Ovvio”, dice schiarendosi la voce. “E gli hai fatto male?”
“Penso di si, io – oddio, devo avergli fatto parecchio male”.
Un singhiozzo gli scuote le spalle. Dean sta davvero considerando l’idea di abbracciarlo, quando Castiel  getta indietro la testa, scoppiando in una risata fragorosa. Rimane a fissarlo solo per un momento prima di lasciarsi contagiare, così si ritrovano a ridere insieme, una risata liberatoria che spazza via tutta la tensione degli ultimi giorni, la distanza dell’ultimo anno. Smettono soltanto quando ormai la sua milza minaccia di scoppiare e Castiel sta seriamente piangendo
“Così non sei più vergine, eh?”
“Il mio primo pugno”, risponde con aria sognante, ancora il sorriso nella voce, “non pensavo sarebbe mai successo”.
“Sono gli ormoni, campione. Stai diventando un uomo, sono fiero di te”.
“Coglione”, ride dandogli un pizzicotto sul fianco. È bellissimo. “Ti sei incantato?”
“Dovrei disinfettarti quel taglio”, gracchia a corto di fiato. Il sorriso di Castiel diventa dolce.
“Si, dovresti”.
Fortunatamente Sam ha questo piccolo difetto di essere molto più responsabile di suo fratello maggiore e porta sempre con sé un kit per le emergenze – questa volta, in particolare, non poteva mancare visti i compagni di viaggio.
Peccato che, in generale, Dean abbia la delicatezza di un elefante in una stanza di cristalli ed è probabile che stia soltanto aggravando la situazione, armeggiando con la faccia di Cas. Se solo riuscisse a concentrarsi sul suo compito senza lasciarsi incantare da quelle labbra screpolate e piene che non stanno ferme un attimo – perché, appunto, Dean fa schifo con le medicazioni e Castiel deve assolutamente farglielo notare.
“Ti stai vendicando, dì la verità”, borbotta. Una smorfia di dolore gli contrae il viso.
“Speravi davvero di comprarmi con una birra e del porno?” sogghigna, passandogli una lattina ghiacciata presa dal frigobar. Castiel gli lancia un’occhiataccia e la preme sul livido.
“Contavo più sulla crostata”.
“Quella è stata una bella mossa, te lo concedo”.
“Allora sono perdonato?” solleva gli occhi blu, struscia la guancia sulla sua mano e Dean deglutisce a vuoto perché come potrebbe negargli qualsiasi cosa se lo guarda in quel modo?
“Si”, soffia piano. Castiel sorride contro il suo palmo e glielo bacia, mandandogli il cervello in tilt.
“Vieni qui”. Ha così tanto potere, quell’uomo, su di lui. “Mi sei mancato così tanto”.
Dean soffoca un singhiozzo sul fondo della gola, si lascia stringere in quell’abbraccio goffo e disordinato – ed è così caldo e giusto e si è sforzato così tanto per dimenticare quanto sia bello essere a casa.
Non dice nulla; scivola in ginocchio sul pavimento freddo per essere alla sua altezza e preme le labbra sulla sua spalla. Mormora qualcosa sulla stoffa bianca; Castiel non ha nemmeno bisogno di sentirlo per comprenderne a pieno il significato.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3025444