Ginger Ale

di TheNewFrontiersman
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First inkblot on my bleached life ***
Capitolo 2: *** Behind you ***
Capitolo 3: *** Coffee drops like freckles ***
Capitolo 4: *** Distance hurts like injuries ***
Capitolo 5: *** Sweet Ginger, bad taste from the past ***
Capitolo 6: *** Broken ***
Capitolo 7: *** Purple Pants ***
Capitolo 8: *** Home ***
Capitolo 9: *** Secrets ***



Capitolo 1
*** First inkblot on my bleached life ***


Note dell'autrice: Ciao ragazzi, inauguro questa fic a capitoli, che è solo la seconda storia che scrivo, spero vi possa appassionare. Un grazie a Nightshadow per la copertina (che ho aggiunto solo recentemente).

Buona lettura!

TNF

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Ginger Ale

16 Ottobre, 1985. Quarantaduesima strada: seni di donne pendono da ogni manifesto, ogni vetrina, sparsi per il marciapiede. Mi hanno offerto amore svedese, amore francese...ma non amore americano. Amore americano; come la cola in bottiglie di vetro verde...non lo fanno più.

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Tutto cominciò con una serata di pioggia, una delle tante in quegli ultimi giorni di metà Ottobre.

Era il mio nuovo inizio, dopo la seconda scarcerazione. Già…bell’inizio…le mie nuove “colleghe”, se così si possono chiamare le prostitute insieme alle quali avrei dovuto passare buona parte del mio tempo da quel momento in poi, mi costrinsero subito a fare il lavoro sporco, ovvero trovare i clienti e, dopo averli abbordati, portarli da loro a “divertirsi". Beh, se non altro per quel momento avrei potuto evitare di svendere il mio corpo a sconosciuti. Forse invece che lamentarmi avrei dovuto ringraziare il destino, per questo. Certo è che in quel modo, mio malgrado, il guadagno era ben poco. 

Ma che ci faccio qui? Sembro  proprio una disperata, pur di racimolare qualche spicciolo mi metto a fare la puttana … sono irrecuperabile.

Erano le tre e mezza del mattino circa e pagine di giornale abbandonate correvano portate dal vento per le strade di New York, quando una Jaguar XJ-S si avvicinò al marciapiede lercio, teatro del penoso spettacolo che eravamo, e Blondie , la più esperta, mi spinse verso quell'auto… 

Cazzo. Devo proprio farlo? Non voglio, maledizione … lasciatemi nel mio angolo a crepare di freddo… 

Purtroppo, era ovvio che non avrei potuto starmene lì a congelare. Costretta ad avvicinarmi alla macchina di lusso, intravidi un uomo attraverso il finestrino. Un uomo sulla sessantina, grasso e ricco da far schifo, era evidente… non mi piaceva per niente … fede al dito …figuriamoci. Ovvio.

Continuavo a guardarlo senza parlare; mi vergognavo troppo e allora decise di parlare lui, giusto per smuovere la situazione, aveva fretta.

“Ehi bellezza, dov’è Blondie?” 

Ah …il ciccione aveva già capito che ero una novellina. Continuando a non aprir bocca indicai la porta del palazzo dove quelle facevano la festa ai clienti.

Quelle...beh, anch'io ero una di "quelle", ora. Dio, che schifo.

Il cliente scese dalla sua auto da riccone e si diresse smanioso verso Blondie, che già lo attendeva ammiccando.

Che schifo.

Ero disgustata e il pensiero di cosa mi avrebbe riservato il futuro prossimo mi dava la nausea. Non potevo sopportarlo. Non ero pronta. Mi decisi a scappar via da quel dannato posto e mi avvicinai alla porta del palazzo, cercando di sgattaiolare inosservata nell'edificio. Forse avrei potuto nascondermi da qualche parte, aspettare che finisse la giornata di lavoro per poi spuntare fuori e mentire spudoratamente. Certo, avevo adescato un gran numero di polli. Non troppi però. Mai gonfiare una bugia più del dovuto. Può finire male.

Pensai troppo. All’improvviso mi trovai a due centimetri dalla faccia un’ altra delle mie colleghe navigate. Black Curls. Il solito sguardo spavaldo.

“Ehi ragazzina, cosa pensi di fare? Che mezza sega, guarda e impara. Lo vedi quel pagliaccio? Tra non molto la sua fottuta, ridicola faccia da clown me la ritroverò tra le gambe”

La compatii silenziosamente. Aveva puntato un tipo strano, non tanto alto. Fedora, impermeabile, guanti e  il viso completamente coperto da una strana maschera che mi ricordava tanto un calzino che una volta avevo macchiato per sbaglio col mascara. Doveva essere un pazzo. Anzi, lo era sicuramente dato che aveva il coraggio di andarsene in giro per quel quartiere conciato così.  Guardai meglio quella maschera assurda, cercando di capire se mi incuriosisse o se la considerassi davvero ridicola. Mi trovai imbambolata a contemplarne le macchie, accorgendomi con un ritardo imbarazzante che...si muovevano! Com'era possibile?

Da dove era spuntato fuori quel tipo? Non sapevo se avrei dovuto avere paura o no. Solo...c'era qualcosa in lui che instillava in me un'irrefrenabile voglia di sapere. Sapere se l'essere che celava il suo aspetto a quel modo fosse ancora umano, o se lo fosse mai stato. 

Black Curls si atteggiava oscenamente intenta ad esporre l'unica merce che era in grado di vendere. Lo strano uomo continuò la sua camminata senza dar segno di essersi accorto di lei; sembrava pensieroso.

Chissà che razza di pensieri possono passare per la testa di uno che se ne va un giro con un calzino sulla faccia.

L'espressione di quella donna mi rimarrà impressa nella mente per sempre. Era un piacevole misto di confusione e delusione.

Una grassa risata mi esplose nel petto, senza che la lasciassi uscire. 

Nonostante la continua indifferenza dell’uomo, Curls, troppo orgogliosa per rinunciare così facilmente a mostrarsi valida ai miei occhi, continuava a cercare di sedurre il passante sebbene fosse evidente che, avesse anche continuato per l'eternità, sarebbe sempre stata ignorata. 

"Sai una cosa? Se devo davvero imparare da te allora mi sa che è meglio che cambi lavoro…”. Ridacchiai giusto per irritarla ancora un po', volevo godermi quel raro momento di superiorità. 

Cercò di trattenere la rabbia facendo finta di non sentirmi, ma non funzionò. All'improvviso perse la calma e fiumi di parole poco educate iniziarono ad invadere la sua bocca.  

“Fanculo, frocio! Alzo più io in una settimana di quanto tu non faccia in un anno intero! Fanculo!"

L'uomo in maschera proseguiva dritto per la sua strada e dava l'idea di non essersi accorto proprio di nulla.

Nessuno mai aveva rifiutato Black Curls.

“Assurdo! Sarà stato sicuramente gay! Che sfigato!”. Le altre a fianco a me sembravano parecchio scioccate.

Finito il turno andai a dormire. O almeno ci provai. Il materasso era logoro e odorava di muffa. Qua e là spuntava qualche molla arrugginita che provai a coprire con alcuni stracci trovati lì intorno. Non servì a nulla. Mi rannicchiai nell'unico punto in cui il mio giaciglio pareva intatto e sprofondai nei miei pensieri; presto una sinfonia d'inchiostro iniziò a popolare i miei sogni.

Ti prego, dimmi chi sei,  devo conoscerti. 

Passò una settimana e non dandomi pace iniziai ad indagare. Era un mio vecchio vizio, la curiosità. Scoprii il suo nome: Rorschach.

Rorschach. Era un nome che si adattava alla perfezione alla sua immagine.

Faceva parte di un gruppo di scavezzacollo in costume che ultimamente erano diventati molto popolari…supereroi. Vigilanti. Watchmen.

Di lui la gente diceva che fosse un pazzo, un sociopatico, un violento. Non me ne dava davvero l'impressione. Il mio desiderio di incontrarlo di nuovo era irrefrenabile e non avevo paura. Ero abituata a categorie di persone ben peggiori. Niente è corrotto come i putridi bassifondi in cui sono costretta a sguazzare.  Nessuno è malato come la gente che sta qui. Poteva anche essere uno spostato, ma era di sicuro meglio di chi mi stava intorno in quel momento.

Ero stanca di quello schifo, così decisi di filarmela.

Nessuno si sarebbe preoccupato di chiedersi che fine avessi fatto e probabilmente in seguito  mi diedero per morta, perchè nessuno venne a cercarmi.

Mi importava poco. I soldi che avevo guadagnato non erano molti, dato che ero solo un'adescatrice, ma mi sarebbero bastati per un po'. Un po',si , ma era per sempre un inizio. Mi sarei trovata un lavoro più rispettabile. Raccolsi tutti gli annunci di lavoro che trovavo incollati sui lampioni.

Mi trasferii in un ostello a basso costo e non smisi mai di cercare il mio nuovo eroe. Ogni tanto lo vedevo al notiziario in tv…nonostante Nixon avesse rilasciato quella legge, il Keene Act, lui se ne fregava e continuava a sgominare bande di delinquenti. Mi dava forza e coraggio, il suo non arrendersi mai.

Niente colazione quella mattina. Dovevo risparmiare. Notai un bicchiere di carta appoggiato sul tavolino all'ingresso della mia stanza. Lo presi, mentre un'idea ridicola mi passava per la mente.

Uscii dal mio alloggio e mi allontanai abbastanza da far sì che il mio affittuario non mi vedesse. Mi sedetti sul bordo del marciapiede, vicino a un edicolante; Appoggiai il bicchiere per terra, aspettando di scorgere qualche moneta cadervi dentro. Qualcun altro se ne stava lì fermo di fianco a me. Un uomo sui quarant'anni, con folti capelli rossi e non molto alto. Anzi, rispetto alla media era anche abbastanza basso. Fisico asciutto e viso scavato, punteggiato di lentiggini. Quando cercai di guardarlo meglio senza che se ne accorgesse, cosa che non mi riuscì, per un istante incrociai i suoi occhi. Un istante, ma quello sguardo mi rimase impresso nella retina per troppo tempo. Occhi cristallini, di un celeste purissimo. Di ghiaccio, ma circondati da una corona blu notte. Profondi. C'era qualcosa di attraente, in quel buffo omino che chiedeva sempre (imparai frequentando la zona) lo stesso giornale. Ogni mattina. Se ne andava in giro per le vie malfamate di New York proclamando l'avvento dell'Apocalisse, come un messaggero silenzioso. 

The End Is Nigh. La fine è vicina. Bastava il suo inseparabile cartello di legno a farlo sapere a tutti senza che lui dovesse aprir bocca.

Mi incuriosiva talmente tanto che non mi ero resa conto di aver accantonato le mie ricerche su Rorschach.

Pensai che in quel periodo dovevo avere qualche problema in più del solito, qualche fissa per i tipi strani. Pensai che avrei anche potuto farmi gli affaracci miei una volta tanto e ricordai che in fondo era proprio quello il motivo che mi aveva condotto a scontare qualche giornata in carcere: la troppa curiosità. 

 

Come si dice…"il lupo perde il pelo ma non il vizio" e io sono un lupo testardo, a quanto pare. 

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Capitolo 2
*** Behind you ***


Era il 18 di Ottobre e pioveva, di nuovo. Quel giorno, la mia piatta esistenza subì un cambiamento radicale.

 

Finii di mangiare la mia poltiglia di verdure semi-surgelata e accesi la tv: la solita noia. Decisi di uscire. Passai di fianco a un palazzo fatiscente dal quale proveniva un gran frastuono. Incuriosita mi fermai, pensando che con tutta probabilità l'ennesima moglie tradita stesse distruggendo casa lanciando addosso al marito tutto ciò che le capitava a tiro. Avevo proprio bisogno di farmi due risate. Non andò come pensavo, però. Ciò che vidi mi fece subito cambiare idea sulla mia teoria della colluttazione matrimoniale.

 

Improvvisamente un uomo venne scaraventato fuori da una delle finestre dell'edificio, cadendo proprio ai miei piedi. Un uomo robusto e massiccio, una specie di body-builder con la faccia da gangster in evidente stato d'incoscienza. 

 

Woah. Deve avere una moglie in forma questo qui. 

 

Senza darmi il tempo di formulare mentalmente altre idiozie, un altro uomo piombò giù dalla finestra. Questo però l'aveva fatto volutamente, e si vedeva perché era atterrato perfettamente sull'asfalto, come fanno i gatti. Mi accertai dell'identità del tipo agile scrutandolo da lontano per qualche minuto…quando realizzai quel che avevo davanti agli occhi, li sgranai.

 

Rorschach!

 

Era lui. Era la mia occasione. Finalmente.

 

Ora o ma più.

 

Si alzò come se niente fosse, emise una specie di grugnito sordo e profondo, come a schiarirsi la voce e affondò le mani stranamente piccole nelle profonde tasche dell'impermeabile. Tutto taceva e io ero l'unica spettatrice di quello spettacolo impressionante…non potevo credere a quello che avevo appena visto. Il cuore mi batteva all'impazzata mentre realizzavo che un energumeno più che imponente era appena stato lanciato fuori da una finestra da un ometto apparentemente minuto e senza volto. Non c’era tempo da perdere, dovevo seguirlo.

Non avrebbe di certo fatto caso a un essere insignificante come me, quindi non credo avrei rischiato che mi scoprisse. 

 

Cercai di essere il più veloce possibile.

Correvo.

Volevo sapere chi era veramente. 

Dovevo.

 

Lo scorsi sparire dietro un angolo della strada e mi affrettai a seguirlo, ma quando svoltai nella via, di lui non c'era alcuna traccia. Sparito. Era come tentare di afferrare la nebbia. L'irrefrenabile eccitazione che mi scorreva nel petto venne subito estinta dal pensiero di averlo perso di vista un'altra volta. 

 

Adieu, niente più Rorscharch … maledizione. 

 

L'adrenalina era ormai sfumata. Avvilita, rinunciai alla mia missione, almeno per quel momento. 

 

Appurato il fatto che il frigo fosse completamente vuoto, e ormai lo era da almeno due giorni, mi infilai nel letto, ma com'era ovvio non chiusi occhio tutta la notte. Troppo agitata. Stavo pensando di iniziare a scrivere un diario, dato che passavo buona parte delle mie notti in bianco. Forzai le mie palpebre a chiudersi nonostante i mille pensieri che mi affollavano la mente, ma quando riuscii ad addormentarmi era ormai mattina e stanca dopo una notte insonne venni svegliata da quello che lì per lì mi parve il frastuono di un enorme tamburo, come se un bulldozer stesse sfasciandomi la porta. Dato che il martellare stranamente accanito iniziava a diventare davvero insopportabile cercai di schiudere gli occhi incollati dal sonno, per scoprire che ciò che mi trivellava la testa non era una squadra di operai addetti alla demolizione di appartamenti, bensì il mio locatario, venuto a riscattare la somma del mese. Erano appena le sei e io lo stavo maledicendo in tutti i modi possibili e immaginabili, almeno internamente.

 

 “Ehi zucchero! Ti conviene aprire la porta se non vuoi finire in mezzo alla strada nel giro di cinque minuti!  Questa settimana ti sei scordata di pagare e dato che hai ignorato tutti i miei avvisi scritti, sono stato costretto a venire di persona. Apri!"

 

Oh, ma che diavolo! 

 

Maledetto mondo capitalista, la gente ormai pare nutrirsi di denaro. Cercando di apparire educata nonostante la stanchezza, mi scusai, assicurandogli che avrebbe ricevuto immediatamente il denaro che gli dovevo. Mi diressi vero il cassetto dove tenevo nascosti i miei ultimi spiccioli, ma feci una terribile scoperta: i 500 dollari che mi erano rimasti erano scomparsi. 

 

No, No, No… NO! Chi è stato! Mi hanno fottuto alla grande. 

 

La mia mente vagava tra i pensieri e il linguaggio colorito che emerge nei momenti di rabbia e sconforto, incolpando prima la domestica addetta alla pulizia delle camere, poi il locatario stesso, finendo poi col sospettare di qualsiasi sprovveduto avesse avuto la sfortuna di capitare tra miei ricordi. Ma che importava, ormai. Ero stata una stupida a fidarmi della gente corrotta che infesta i bassifondi di New York. Non avevo modo di saldare il mio debito e com'era ovvio, avessi anche fatto lo sforzo di spiegare la situazione al padrone dell'ostello, non sarei stata ascoltata. La paura di finire di nuovo per strada, senza un tetto sopra la testa, superava anche la rabbia che provavo in quel momento.

I pugni dell'uomo tornarono ad abbattersi sull'imposta più forti che mai. Indossai le prime cose che mi capitarono a tiro, presi coraggio e aprii quella dannata porta. Puntai i piedi e provai comunque a spiegare il mio punto di vista all'aguzzino che vi trovai appena fui sull'uscio. Non funzionò. Come da previsione, due minuti dopo mi ritrovai sbattuta fuori.  Reato: mancato pagamento dell'affitto. Pena: morire di freddo e di fame.

 

Mi sedetti sulle scalinate di quella che fino a qualche minuto prima potevo chiamare casa (o quasi) mentre il freddo pungente dell'alba mi penetrava le ossa. Mi guardai attorno: neanche un’anima in giro. La città non era ancora piombata nel solito caos giornaliero.

 

Era ancora assonnata, New York. Solo il giornalaio si apprestava ad aprire la sua edicola nell'attesa di ricevere i quotidiani.

E c'era quell’uomo. Quell'uomo coi capelli rossi. Si portava appresso l’immancabile cartello apocalittico e sembrava impaziente. Ma cosa aspettava? Non avendo niente di meglio fare, iniziai ad osservare il suo comportamento e  capii: l’uomo dai ricci fulvi stava aspettando con impazienza il nuovo numero del New Frontisierman,  quello strano quotidiano che molti definivano un "fogliaccio fascista". Strano, sì. Una strana lettura per un tipo strano. Lo guardava insistentemente, perciò ipotizzai dovesse volere proprio quello.

D'un tratto, l'uomo ruppe il silenzio rivolgendosi al venditore di notizie, che molto probabilmente non si era nemmeno accorto di lui, occupato com'era a catalogare la merce, e potei udire per la prima volta la sua voce: era profonda. Non me lo sarei mai aspettata, che un ometto così potesse avere un timbro di quella portata.

"Giornale".

"Ma certo, eccoti qui come sempre. Come ti va la vita? Vedo che il mondo non è finito ieri", ridacchiò l'edicolante, riferendosi allo strano cartello che il ginger si portava sempre dietro.

"Sei sicuro?"

Quella domanda fece paura anche a me. La guerra si stava avvicinando, riuscivo a percepirlo. Temendo di sprofondare in un abisso di preoccupazione senza fine, decisi che il primo passo era occuparmi dei miei problemi. Non portava a nulla trastullarsi con vaghe e terrificanti teorie apocalittiche.

Direi proprio che non è il momento adatto per star qui a osservare con troppo interesse un senzatetto che chiede un giornale…ma in effetti non ho proprio nulla da fare. Cavolo. Sono senza lavoro, ormai. 

Ho sonno. Ho fame…e non so dove andare. Per di più non ho il becco d'un quattrino. Fantastico. 

 

Senza nemmeno rendermene conto, ero piombata a terra come un sacco di patate. Dall'esterno la scena doveva essere sembrata ridicola, ma posso assicurare che dal mio punto di vista la cosa non era altrettanto divertente. Un dolore lancinante alla testa mi riportò sulla terra. Già, svenire sulle scalinate non è certo una passeggiata. Come avevo previsto, assistere a cretinate del genere alle sei di mattina, quando uno è talmente seccato dal doversi alzare così presto e non aspetta altro che la città gli regali qualcosa di interessante o meglio, esilarante, fa ridere e il giornalaio, non avendo di meglio da fare, si mise a guardarmi divertito. 

 

"Ehi, ragazzina". Ragazzina? Ho 30 anni, accidenti! "non sarà meglio che tu vada a dormire?” 

Ma bravo, che intuizione geniale. 

 

“La mia intenzione era quella, ma poi mi hanno sbattuta fuori e ora come ora il mio unico letto sono queste schifo di scalinate”,  risposi con l’educazione di un gorilla. 

D'un tratto, l'espressione dell'uomo era cambiata: il sorriso ebete di pochi istanti prima era scomparso e al suo posto uno sguardo colmo di rammarico nei miei confronti si era disegnato sul suo volto.

 

Senza dir più nulla aveva ripreso a sistemare la sua merce fresca di stampa. 

 

Perfetto faccio pure pena al giornalaio adesso.

 

Accidenti però, avrei voluto che fosse lui a reagire. Niente. 

Mentre riflettevo sul fatto che non sapevo minimamente perché desiderassi proprio la sua attenzione, iniziai ad avvertire i morsi della fame. Cercai di tossire per celare quel gorgoglìo imbarazzante proveniente dal mio stomaco.

 

Dio, sto proprio cadendo in basso... 

 

Mi accorsi ben presto che cercare di nascondere i suoni provocati dal mio digiuno forzato con qualche colpo di tosse non sarebbe servito a nulla. Feci per andarmene, il mio senso dell'orgoglio mi impediva di far sapere a tutti che non mangiavo nulla da giorni, quando udii un grugnito che mi suonò stranamente familiare venire dalla mia destra e voltai leggermente la testa per scoprirne la fonte. Lui, si trovava proprio al mio fianco e per un attimo mi ero scordata di quanto fosse vicino. Pensai che quella specie di suono profondo assomigliasse molto a quello di Rorschach, ma poi mi convinsi del fatto che no, non poteva essere, probabilmente era solo una coincidenza. Forse l'avevo addirittura immaginato; i morsi della fame potevano dare allucinazioni? Continuai a guardarlo, il suo volto era sempre tuffato tra le pagine del quotidiano. La mia necessità di ingurgitare qualcosa di vagamente commestibile non mi dava tregua, non mi sentivo così in imbarazzo fin dai tempi delle medie, quando Nancy Woodman mi aveva appiccicato una cicca tra i capelli e io per nasconderla ero uscita dalla scuola con la sciarpa avvolta intorno alla testa, cercando di far finta che fosse la cosa più normale del mondo. Decisi di tornare al mio piano originario e andarmene a cercare qualcosa da mangiare. Se fosse stato necessario, avrei potuto anche…diedi una rapida occhiata ai cassonetti che giacevano a bordo strada, ma ritrassi subito lo sguardo, disgustata dall'idea che mi era appena passata per la mente. Provai ad alzarmi, ma la testa prese a girarmi talmente forte che dovetti arrendermi al fatto che per un po' avrei dovuto starmene lì e, forse, cercare almeno di dormire un po', dato che la stanchezza era un problema non così secondario alla fame.

 

Rassegnata dal fatto che lui non mi degnasse di uno sguardo, mi rigirai con lo sguardo rivolto verso il nulla, dormendo a occhi aperti. Il cranio mi doleva e dovevo avere la stessa faccia di un battitore dopo aver mancato l'ennesima palla. 

Stavo per arrendermi a Morfeo quando percepii un leggero frusciare di pagine e una voce graffiante e cupa che mi diceva “Prendi. Tavola calda, laggiù. Il caffè è buono”. 

 

L'uomo dai capelli rossi mi stava porgendo qualche spicciolo, tendendo la sua mano curiosamente minuta verso di me. Doveva essere un grande sacrificio per lui, che sicuramente non era vestito in un modo che la gente per bene avrebbe definito dignitoso, quindi ringraziai e tentai di prenderli con educazione, ma nel compiere il gesto la pelle della mia mano sfiorò leggermente la sua e lui la ritrasse quasi impaurito, sparpagliando il denaro sul marciapiede umido di condensa mattutina. Sorpresa, cercai di sfoggiare l'espressione più neutra che potevo assumere, non dissi niente e mi limitai a raccogliere una per una le monetine sparse per terra, poi, alzai finalmente lo sguardo. Al momento, alche se avrebbero garantito la mia sopravvivenza almeno per un altro po', proprio non mi importava dei soldi; finalmente avevo modo di osservare bene il viso di quell’uomo misterioso…lo esaminai con una perizia maggiore del solito e notai dettagli ai quali prima avevo fatto caso solo superficialmente: la mascella, sottile ma squadrata, era coperta da un sottile strato di barba ramata, mentre nella parte alta del viso spiccava concentrato come le stelle nella via lattea un gruppetto di lentiggini che punteggiavano violentemente gli zigomi troppo prominenti, per poi diradarsi in prossimità dei solchi delle guance che parevano scavargli la faccia. Il contrasto che quei piccoli, incantevoli ovali aranciati creavano su un volto dai lineamenti così duri davano all'uomo un’aria quasi infantile.  Gli occhi, impenetrabili e profondi, erano di un azzurro cangiante che avrebbe impressionato chiunque, tanto che sarebbe stato impossibile assegnar loro una determinata, conosciuta gradazione di colore. A dirla tutta, non si poteva certo affermare che fosse il classico bell’uomo che fa perdere alla testa a qualunque donna, anzi sono sicura che molte donne superficiali, e io avevo esperienza in questo campo dato che avevo vissuto circondata da menti femminili votate alla venerazione dei quattrini, più che alla personalità, avrebbero pensato che fosse  “strano” e  quindi “poco interessante”. Era interessante eccome, invece. Almeno dal mio punto di vista. Mi sembrava assurdo, però: l'avevo sempre guardato  da lontano; incuriosita, certo, ma mai interessata in quel senso. Non aveva fatto niente di che, non aveva detto assolutamente nulla se non quella breve frase composta quasi da monosillabi poco prima di consegnarmi, o meglio, tentare di consegnarmi il denaro… eppure nonostante non fosse un tipo particolarmente eloquente io in quel momento pendevo letteralmente dalle sue labbra. 

 

Sarà sicuramente colpa del mio stato mentale attuale… sarà che ho fame e sonno, e che a dirla tutta mi sento sola e un po' impaurita. Lui è stato gentile con me, a occhio deve avere più o meno la mia età…logico che il mio cervello mi giochi brutti scherzi. Si, di certo è per quello.


Cercavo di dare una spiegazione logica al mio accanito interesse per lui quando mi accorsi che entrambi ci stavamo guardando, esaminando. Vedendomi emergere dal mio "mondo dei sogni", voltò la testa dall’altra parte e grugnì di nuovo. Mi accorsi che si stava spazientendo. Colta alla sprovvista, balbettai un flebile “Grazie di nuovo…per i soldi, intendo”, che fu seguito qualche istante dopo dall'ennesimo brontolio. Si, stavo iniziando a trovare adorabile il fatto che per il novantanove per cento delle risposte utilizzasse quel mugugnare grave. Mi dissi che con tutta probabilità stavo iniziando ad avere seri problemi mentali e, senza aver il coraggio di dire altro, mi alzai e mi avviai verso quella benedetta caffetteria. 

 

Ammetto che dopo qualche metro non riuscii a resistere alla tentazione di voltarmi indietro, seppur cercando di non dare nell'occhio, e scoprire se il suo sguardo mi stesse seguendo o meno. 

La risposta era no. Se ne stava lì fermo, come al solito, con quel suo quotidiano tra le mani. Statuario…accidenti. 

 

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Capitolo 3
*** Coffee drops like freckles ***


*Note dell'autrice: si ringrazia NightshadowCat per il punto di vista di Rorschach. Buona lettura!

 

Diario di Rorschach, 19 Ottobre 1985.

Comprata Gazzetta per Daniel. Letto un pezzo: Manhattan se n'è andato, sparito su Marte. Curioso, incredibile. Ricordarsi di indagare il prima possibile.

Una poppante è svenuta sulle scale di fronte all'edicola. Offerto denaro per pagare il caffè. Mi sento strano, mi sento male. Non mi piace.

Non mi piace quella ragazza, mi guarda insistentemente. Forse ride del mio aspetto. 

Troppo contatto fisico per oggi, con una donna poi è sconveniente. Toccato il palmo mentre consegnavo i soldi. Brutta sensazione.

Forme femminili nella mia testa, Walter è debole, non riesce a reprimere certe sensazioni. Vanno soppresse.

Una così, poi. Capelli troppo corti, come la gonna, non in ordine. Almeno sono biondi. Giubbotto da uomo. Indecente.

Vista bazzicare nei pressi della quarantaduesima. Forse una puttana. Forse a corto di soldi. A corto di soldi, come mia madre.

 

Walter sapeva che la madre aveva iniziato quel lavoro per mantenere sé stessa e lui, ma non l'aveva mai giustificata. Si era detto che forse in fondo se lo meritava, che da come lo trattava poteva comprendere il motivo per cui il padre l'avesse abbandonata. Si era ripromesso che mai avrebbe aiutato una prostituta. Non sapeva perché l'aveva fatto, ma si disse che quando indossava la pelle di Walter Kovacs tutto era più incerto. Non gli piaceva. Quell'insicurezza, quel grigiore…a volte il debole Walter tornava, e a Rorschach questo non piaceva, non gli piaceva affatto. Nonostante fosse troppo umano e suscettibile, talvolta liberarsi di lui non era per niente facile. Kovacs non riusciva a restare indifferente alla vista di una figura femminile, il suo corpo, non ci riusciva. Era sempre stato così, fin da piccolo. Nel profondo covava un odio radicato verso la madre, ma ne era anche fin troppo influenzato, troppo attaccato alla figura materna. Rorschach non gradiva il travestimento in cui era costretto per mostrarsi alla luce del giorno. Con la sua faccia, invece, si sentiva invincibile, al riparo da tutto. Era come un muro, che lo proteggeva e lo teneva lontano dalle tentazioni. Con quell'armatura poteva scorgere la lussuria della quale il mondo era impregnato e guardarla dall'alto in basso, senza esserne schiavo. Poteva sputarci sopra, dominarla, calpestarla. Poteva essere forte.

Era Walter ad aver aiutato la ragazzina. Walter, che era stato maledettamente compassionevole. Maledettamente fragile. Dannato Walter: così difficile liberarsi di lui. Quello smidollato si stava fidando di nuovo della persona sbagliata, ne era certo. Ne era certo, ma non sapeva come impedirglielo. Odiava ammetterlo, ma era impotente, e lo era perché "quello smidollato" era parte di lui, e sebbene l'avesse abbandonato in quella casa che puzzava di stupro e omicidio, sebbene l'avesse ucciso, per farsi strada e uscire alla luce, Rorschach non era riuscito a farlo sparire. Walter continuava a risorgere, e lui glielo permetteva. Odiava questo suo lato e non si sarebbe mai arreso, non avrebbe mai abbandonato l'impresa apparentemente impossibile, quella che prevedeva l'eliminazione definitiva del vulnerabile Kovacs. 

Ma ora, di nuovo, si sentiva impotente di fronte alla scelta del suo doppio. Anche se aveva visto quella donna aggirarsi tra le puttane, i suoi occhi non avevano perso la purezza. Forse era ancora pulita. 

 

Walter sbuffò leggermente e si strinse nelle spalle.

Hurm.

 

_____________________________________________

 

Raggiunsi la caffetteria. Entrai; la trovai modesta ma carina e mi sedetti con la grazia di un elefante su una delle sedie del bancone, chiedendo un caffè. Mi servì un uomo sulla cinquantina, probabilmente il proprietario, dato che non vedevo nessun altro cameriere nei paraggi, pensai che mi sembrava una brava persona. Stavo per portare alla bocca la tazza quando sentii entrare qualcuno. Non importava, il mio corpo necessitava di caffeina o sarei crollata sul tavolo ancor prima di riuscire ad ingurgitare il pasticcino alla crema che accompagnava la mia bevanda. Un omaggio per la signorina, aveva detto il barman. Gentile da parte sua.

Nel frattempo qualcuno si era seduto di fianco a me, probabilmente la persona che aveva varcato la soglia poco prima. 

“Ehi Walter! Come al solito no?” 

Non ci badai e continuai a sorseggiare il caffè. 

“Sì.” 

 

Un momento, ma quella voce …

 

Mi voltai verso la fonte della risposta monosillabica. Già, era lui. 

 

Walter. Ecco come si chiama.


Ripetei più volte quel nome tra me e me e mi chiesi dove avesse lasciato il suo inseparabile cartello, così, giusto per occupare la mente, per non pensare a cose più serie. Per non chiedermi se la sua vita andasse bene, se avesse una famiglia…tenere a bada la curiosità con altra curiosità, ma più sciocca, era l'unico modo per dominare l'innato istinto che mi portava a pormi costanti domande sulla vita di chi mi interessava. Purtroppo questo metodo non era infallibile.

La caffeina iniziò ad  andare in circolo abbastanza velocemente, quindi mi venne un'improvvisa, irrefrenabile voglia di socializzare e iniziai a parlargli. 

“Grazie mille di nuovo per il caffè.  Mi sono un po' ripresa da prima…” 

Esitò un po' prima di regalarmi un conciso e profondo “Prego". Bastava. Bastava anche se il suo sguardo era fisso nel vuoto e non certo su di me. 

Quel silenzio continuo però mi imbarazzava parecchio perché non potevo far altro che guardarlo, ma l'assenza di dialogo forse dimostrava che in fondo la cosa lo infastidiva ed era solo troppo educato per dirmi di smetterla. No, molto probabilmente l'unica spiegazione plausibile era che a lui di me non fregava proprio niente. Estrasse dalle tasche dell'impermeabile una sorta di taccuino malconcio e una matita che con tutta probabilità era stata temperata con un coltello, e iniziò a scrivere sulle pagine ingiallite del diario.  Inutile, non potevo fare a meno di guardarlo, seppur con la coda dell'occhio. La curiosità esondava, guidando le mie azioni.

“Sei uno scrittore?” 

“No. Appunti.”

Sì, gli stavo dando fastidio. Si vedeva lontano un miglio; eppure continuai e lui continuò a rispondermi, sempre con un certo contegno. 

Strano. Chiunque altro al posto suo mi avrebbe zittito, invitandomi a farmi i fattacci miei. 

Scoprii alcune cose su di lui e lui ne venne a conoscere altre su di me, anche se bofonchiava sempre risposte brevi non lo faceva col tono seccato che mi ero immaginata. Mi rivelò che durante l'adolescenza aveva lavorato in una specie di fabbrica tessile, ma non molto di più…era fin troppo riservato. Nonostante avessi schierato una sola tazza di caffè contro le 20 ore di mancato sonno, resistevo e anzi, non sentivo la stanchezza…stavo…bene. Era da un po’ che non provavo questa sensazione. Il mio stomaco non era d'accordo e iniziò a ribellarsi di nuovo nel tentativo di cercare di dire la sua sul fatto che non riceveva carburante da troppo tempo. Com'era ovvio, stavolta gorgogliava pure più di stamattina…che vergogna. 

 

Improvvisamente Walter si alzò e si rivolse al proprietario della caffetteria. 

“Scatole”.

 

Scatole?

 

Il barman doveva avermi letto nella mente perché gli fece la stessa domanda, ma subito dopo parve pensarci su un attimo e giungere a un'ovvia conclusione, che tuttavia a me ancora sfuggiva, esclamando illuminato: "Oh, ma certo! Ne tengo sempre da parte per te, sai…ormai sei praticamente di casa, qui. Le vado a prendere”.

"Due", si affrettò a rispondere il rosso.

Il proprietario sorrise. "L'avevo capito".

Walter parve indugiare in una smorfia di leggero stupore prima di rispondere con un anonimo “Bene. Grazie” .

Me ne stavo zitta aspettando di capirci qualcosa in più quando vidi l'uomo della caffetteria tornare con due barattoli. Barattoli di fagioli. 

 

Fagioli in scatola?

 

“Senti, amico…so che a te questa roba piace anche così, ma che ne dici se per la signorina li scaldiamo?" e detto questo si affrettò ad aprire la scatola, schiaffare i legumi in un pentolino e mettere il tutto sul fuoco. "Mary! La salvia".

Una ragazza che avrà avuto pressappoco la mia età sbucò di fretta dalle cucine con in mano qualche spezia e una ciotola. "Immaginavo, eheh! Ho fatto un po' di pasta veloce, nel mio paese è un piatto tipico!" aveva un leggero accento italiano. Sembrava stranamente eccitata dalla situazione e mi dava l'idea di essere una persona alquanto iperattiva.

Un piatto dall'aspetto invitante, i cui fumi odorosi mi inebriavano piacevolmente le narici, venne appoggiato sopra il bancone, esattamente di fronte al mio commensale. Ci mancò poco che sbavassi.

"Come ti sembra, eh Walter? Può andare?". 

"Mh". A Walter bastò allungarmi il cibo senza nemmeno guardarmi.

“Buon appetito, oggi offre la casa” esordì il cuoco, che dopo averci fornito due cucchiai tornò a servire gli altri clienti. 

L’uomo dai capelli rossi grugnì come al solito. Non sapevo cosa dire, avevo il cervello in tilt. Encefalogramma piatto, la fame era tanta ma mi sembrava proprio di approfittare della strana gentilezza di una persona che avevo appena iniziato a conoscere, e che non mi sembrava certo potesse permettersi di offrirmi da mangiare. 

"Mangia”. Forse l'avevo infastidito. Come biasimarlo, dovevo avere una faccia da ebete. Però nonostante tutto alla fine per lui ero una sconosciuta…pensai che con tutta probabilità quello era il suo modo per dirmi che mi stava offrendo un valido mezzo di sostentamento, visto il mio penoso collasso mattutino. Riuscivo a scorgere una generosa manciata di gentilezza, dietro quel suo linguaggio duro e stringato; in fondo non sapeva nemmeno il mio nome, eppure stavo pranzando grazie a lui.

Ringraziai e, impugnato il cucchiaio come fosse un badile, mi fiondai sul piatto divorando con una voracità inimmaginabile abbondanti cucchiaiate di fagioli nonostante non fossero il mio cibo preferito. Il silenzio che solo la fame cieca sa generare calò immediatamente fino a quando non ebbi spazzolato tutto per bene; anche lui aveva finito il suo barattolo e si apprestava a scrivere qualcosa sul suo taccuino. Ma la mia bocca ormai era vuota e ansiosa di riprendere la conversazione.

 

“Scusa…ehm…secondo te qui mi assumerebbero come cameriera? Come penso tu abbia intuito, sono rimasta senza soldi e…” 

 

Caspita. Ero davvero insopportabile.

 

“Probabile”.

“Ah, grazie...” 

Silenzio. 

 

Walter parve arrendersi al fatto che non avrebbe potuto scrivere in santa pace così, estratto dalla giacca il suo “New Frontisierman”, (sapevo che era un lettore abituale! Ebbi la certezza di non essermi sbagliata nel dedurre le sue abitudini e gongolai mentalmente) si mise a leggere, cercando di troncare i contatti con l'esterno. Poco importava, ormai l'avevo inquadrato e avevo capito che non amava dilungarsi in infinite conversazioni. Decisi di lasciargli il suo spazio per darmi da fare nella mia ricerca di un impiego con cui campare, così domandai al proprietario, che fu felice di assumermi per un periodo di prova. Sarei stata di grande aiuto a Mary, o almeno questo era il suo parere. E poi gli sembravo una brava ragazza e capiva la mia situazione. Non potevo ancora credere a tutta la fortuna che mi stava piovendo addosso.

 

“L'orario lavorativo va dalle sette di mattina fino alle undici di sera…so che sono orari abbastanza massacranti però vedi, sono disperato. Questa tavola calda per mia fortuna sta riscuotendo un discreto successo e da soli non ce la facciamo più. Ma ovviamente nessuno accetta orari così e quindi non riesco mai a trovare qualcuno” 

 

Uh…dovevo immaginarlo. Pazienza, ho un lavoro. Quando avrò guadagnato abbastanza soldi da potermi mantenere e pagare un alloggio si parlerà di cambiare impiego.

 

Lo ringraziai, a dir la verità avrei voluto inginocchiarmi ai suoi piedi e venerarlo come un dio, ma trattenni i miei stupidi istinti. Non sapevo perché ma la prima cosa che volevo fare era dare la bella notizia al mio silenzioso salvatore, come se fosse un amico, una persona speciale. Era sempre il Walter che non sapeva il mio nome, però. Come al solito ignorai i miei pensieri e seguii l'istinto.

 

“Walter!” 

Abbassò il giornale e si girò verso di me con un'espressione leggermente irritata; forse odiava il suo nome o, decisamente più probabile, si era stufato di sopportarmi. L'incrociare il suo sguardo mi fece sussultare. Erano poche le volte in cui avevo avuto modo di osservare direttamente i suoi occhi abissali, perciò ogni volta mi stupivo di quanto potessero essere penetranti.

 

“Mi hanno presa! Da domani incomincio a lavorare qui!” 

 

Non disse nulla e continuò a guardami fisso negli occhi. Pregai che la smettesse, dato che mi imbarazzava a morte.

 

Finalmente distolse lo sguardo biascicando un “bene” e si apprestò a riporre il giornale all'interno della giacca, sostituendolo con il diario. Ancora. La mia curiosità sfacciata e invadente prima o poi avrebbe avuto la meglio sulla mia già precaria educazione, me lo sentivo. Scrisse per due minuti circa, poi lo mise via e si alzò per andarsene. Sulla soglia, mi guardò con la coda dell’occhio salutandomi con un “a domani” e se ne andò. 

 

Cosa? Cioè … davvero? "A domani" implica il fatto che conta di rivedermi? Forse mi sto solo montando la testa per un briciolo di gentilezza ricevuta…

 

Mi accorsi di essere arrossita leggermente. Brutto segno, stavo davvero iniziando a trovarlo affascinante. Mi stavo scottando per così poco? Assurdo. E intanto lo stavo guardando andar via senza nemmeno salutarlo. Decisi che dovevo seguirlo (che novità) e gli corsi dietro. “Aspetta!”, sfiorai appena il suo braccio e si girò immediatamente, guardando prima la mia mano, poi me. 

 

Oh, Cristo. 

 

Per evitare di distrarmi continuai: “Non ti ho salutato, e non sai nemmeno il mio nome …”  

“Ah. Lasciami il braccio.” Mi accorsi con imbarazzo che adesso le mie dita erano strette intorno al tessuto della giacca che indossava. Mi ritrassi subito, facendo caso al suo disagio in campo "contatti umani". O forse gli dava fastidio solo il mio? 

"S-sì scusa, non volevo…ecco, volevo solo dirti…ecco…”, non finii la frase.

 

Cavolo.

 

“Alex”, ripresi. “Mi chiamo Alex”. 

 

Ce l'avevo fatta. Non era un'impresa così grande, ma in quel momento mi sembrava un'enorme conquista.

 

“Ci si vede, Alex”. Lo disse normalmente, senza particolare entusiasmo o che, ma in quel preciso istante mi sentii pervasa da un'improvviso senso di benessere.

 

Sorrisi, e solo quando non lo vidi più all’orizzonte mi voltai e tornai alla tavola calda. Mi sentivo strana. Era da un bel po’ di tempo che non mi capitava di provare quella sensazione. 

Mi sedetti un attimo al bancone. Tutto sommato per quel giorno ero ancora una cliente del bar, quindi potevo approfittarne per riposare un po'; iniziavo a sentirmi spossata, la caffeina aveva esaurito il suo effetto e l'adrenalina di cui ero colma mi stava pian piano abbandonando. Percepii la testa appesantirsi a poco a poco, cercai di combattere per rimanere sveglia, non potevo certo addormentarmi in un luogo pubblico, ma fu tutto vano. Lasciai fluire liberi i pensieri e lentamente sprofondai in un altro mondo, complici le palpebre appesantite. Buio.

 

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Capitolo 4
*** Distance hurts like injuries ***


Percepii un lieve tepore scaldarmi pelle, aprii un occhio, poi l’altro. Era il sole, che filtrava da una finestra. Una finestra? Mi guardai intorno, accorgendomi di trovarmi all'interno dell'ufficio del gestore della tavola calda. Lo riconoscevo perché c'ero stata il giorno prima. Sì, per accettare un lavoro che si prospettava massacrante ma produttivo. Una morbida coperta mi avvolgeva le spalle; fu in quel momento che realizzai: alla fine ero crollata dal sonno e il proprietario doveva avermi portato lì dentro di peso.

 

Dio, che vergogna. 

 

Guardai l’orologio. Le 6 del mattino del 20 Ottobre; pensai fosse una stranezza il fatto di trovare il sole già alto nel cielo così presto. 

 

Le  6 del mattino… 

 

C'era qualcosa che mi sfuggiva, ma cosa? Le sei del mattino.

 

…un momento… io tra un’ ora …Cavolo! Come faccio? Sono in condizioni indecenti! 

 

Perlustrai l'ambiente con lo sguardo alla ricerca di un posto dove sistemarmi. Vidi qualcosa sul tavolo, un biglietto che diceva: “Qui c’è la divisa, usa pure il bagno per darti una rinfrescata. Walter mi ha spiegato cosa ti è successo, non ti preoccupare. John (il tuo capo).” 

 

Ok, mi ero un po' commossa. 

 

John, che uomo gentile sei, una bravissima persona, pensavo mentre un ridicolo coro angelico mentale accompagnava la mia sensazione di felicità. 

Walter mi ha spiegato cosa ti è successo, non ti preoccupare… e come diavolo aveva fatto? A parte qualche monosillabo o qualche parola usata come risposta esaustiva, solo per darmi il contentino e zittirmi, non l'avevo mai sentito parlare, fare un discorso normale. Era come provare ad immaginare un muto mentre cerca di fornire indicazioni stradali a uno sconosciuto passante.

 

Davvero si era preso l’impegno di spiegare al mio nuovo capo perché ero ridotta così? Come al solito mi stupivo del suo comportamento, era così freddo ma anche così presente…o forse l'aveva fatto giusto per tranquillizzare John, che sembrava conoscerlo da un bel po' di tempo. Si, doveva per forza essere quello il motivo. Io non c'entravo proprio niente. Dovevo solo pensare al lavoro, al momento. Finii di aggiustarmi come potevo e indossai la divisa mentre cercavo di convincermi che in realtà ciò che faceva Walter non era poi così importante. Mentivo a me stessa, ovviamente.

 

“Alex? Ci sei?” Mi fiondai fuori dall’ufficio appena udita la voce del capo. “Sì, sicuro! certo che ci sono!" mi affrettai a rispondere con goffaggine mentre inciampavo tra le piastrelle del locale cercando di legarmi i capelli come potevo. Tutti i miei sforzi di apparire professionale erano vanificati dalla presenza costante della trivella che mi trapanava di continuo le tempie, in quel periodo. Mi arresi al pensiero che probabilmente per un po' di tempo sarebbe stato così, ma mi dissi, cercando di assumere un atteggiamento positivo, che finalmente avrei potuto pagarmi un posto dove stare, e questo significava la possibilità di riposarmi e rifocillarmi a dovere. Mi raddrizzai cercando di darmi un tono dignitoso e di ignorare quella tartassante ma non invincibile - almeno per me -spossatezza.

 

“Ah, sei già pronta! Fantastico… e vedo che indossi il completo che ti ho dato! Mi pare proprio che la misura vada bene, tu e mia moglie avete più o meno la stessa taglia” 

“Si, è perfetto!” sorrisi, e così fece anche lui, di rimando. “Ancora grazie…davvero non so cosa mi sia preso… è solo che ieri…” 

 

Guardavo in basso mentre cercavo qualche scusa per giustificare la mia lunghissima dormita, che comunque non mi aveva ricaricato del tutto, e provai un'infinita vergogna. Mi dissi che era inutile però, perché tanto John sapeva già della mia condizione, dato che era stato informato poco prima da lui. Il mio sguardo doveva palesare il mio disagio interiore fin troppo chiaramente, perché il capo se ne uscì con un improvviso “non importa”, anche se io non avevo ancora detto nulla. La gentilezza e i continui sorrisi di quell'uomo mi confondevano un po'…era davvero troppo cordiale. Doveva essere quel genere di persona che lega proprio con tutti, o comunque si fa benvolere un po' da chiunque, cani o porci che siano. Non mi sembrava un poco di buono però, così scartai l'ipotesi di un corteggiamento nei miei confronti. Pensandoci m'imbarazzai ancora di più, ma per fortuna era arrivato il momento di aprire i battenti, e mi venne chiesto di andare ad accogliere i primi clienti del locale. 

 

Scoprii ben presto a mie spese che l'orario di punta era il lasso di tempo che andava dalle sette alle otto del mattino; a quell'ora nella tavola calda si riversava davvero il finimondo. C’era così tanta confusione che mi domandai come il titolare avesse fatto fino ad allora a mandare avanti la baracca da solo. Comunque, le ore passarono abbastanza in fretta nonostante quel via vai infernale perché anche se ero impegnata a farmi vedere come  una cameriera molto efficiente, avevo un solo pensiero che martellava incessante sulle ipotetiche pareti del mio cervello: aveva detto che sarebbe venuto proprio oggi. Era già mezzogiorno e il rosso ancora non si vedeva…John cercò di tranquillizzarmi, dicendo che non era strano, dato che non si riusciva mai a sapere dove fosse e cosa facesse, "quello". Non aveva un'ora fissa, non aveva un posto fisso, come un randagio. Ma di solito le promesse le manteneva. Per questo, quindi, forse era davvero un po' strano che non si fosse fatto vivo. Cercai di non pensarci troppo: alla fine lo conoscevo da poco, cos'aveva da spartire con me? Poi, poteva benissimo darsi che avesse avuto un contrattempo dell'ultimo minuto. Alla fine però, verso l'una, improvvisamente sentii il campanello della porta suonare, annunciando così l'arrivo di qualcuno. Niente di strano, suonava di continuo a quell'ora - e la mia testa, d'istinto, ne seguiva ogni volta il suono - ma quella volta, quel qualcuno era lui, l'uomo dai capelli rossi, quello strano tappezzato di lentiggini. Il solito, insomma.

 

Eccolo!

 

Fremevo tutta e non sapevo il perché, l'unica cosa che sapevo era che mi sentivo molto stupida, conciata in quel modo. Si avvicinò al bancone e potei scorgere qualche livido sul suo viso. Mi chiesi cosa avesse fatto per ridursi così. Mi lanciò di sfuggita uno sguardo penetrante e subito abbassò la testa, cercando di coprirsi la faccia, un po' con la mano ancora avvolta dal suo guanto di lana verde acido senza dita, un po' sollevando con l'altra il bavero della giacca, che era sempre dello stesso verde dei guanti. Pensai che anche da nuova non doveva essere stata un granché come giacca, ma che a lui stava maledettamente bene, seppur fosse abbastanza messa male: voglio dire, oltre al fatto che la polvere si fosse impadronita del tessuto in un modo che pareva tanto essere permanente, ormai le tarme ne avevano fatto uno scolapasta, anche se alcuni buchi erano stati rammendati con precisione. Frutto della sua esperienza in campo sartoriale, conclusi. Se ne andava in giro con la cravatta e tutto, sempre in ordine, anche se gli abiti si trovavano in condizioni piuttosto tragiche. Malandati, come lo erano adesso i suoi già aspri lineamenti. Mi chiesi perché si coprisse la faccia solo in quel momento, se poco prima era entrato dalla porta come se non gli importasse proprio un bel niente degli sguardi preoccupati della gente. Preoccupati del fatto che fosse un criminale, ovvio, non che si fosse fatto male. Lui invece pareva inquietato da qualcos'altro, come se tutt'a un tratto una forma di vergogna quasi infantile si fosse appropriata di lui. Finii di raccogliere i piatti da lavare con l'intento di potarli in cucina, e con questa scusa ne approfittai per salutarlo. 

 

“Walter, ciao! Sei venuto alla fine!” 

“…” 

“Walter …” 

 

Alzò riluttante lo sguardo continuando a tacere e compresi perchè ci tenesse a non far vedere lo scempio abbattutosi sul suo volto. Era peggio di quello che avevo intravisto un attimo prima.

Aveva un occhio nero come mai ne avevo visti (e io di occhi neri, davvero, me ne intendo), il livido si estendeva fino allo zigomo sinistro, macchiandolo di viola. Il labbro inferiore era talmente gonfio che era difficile pensare che non gliel'avessero spaccato contro i denti a suon di pugni, e un taglio che aveva tutta l'aria di bruciare come il fuoco si estendeva da metà fronte fino quasi alla palpebra, attraversando il sopracciglio destro. Non c'è che dire, era conciato abbastanza male, mi ricordava la mia faccia quando facevo a botte con Beth , quella del quinto anno. Un po' ci rimasi secca, sul momento, perché a dirla tutta in effetti la sua era messa molto peggio della mia.

 

“Che…ti è successo…?” 

“Niente” 

 

Si certo, e io sono Nixon. Niente, come no, a chi voleva darla a bere? Corsi sul retro del locale, avevo intravisto uno di quei piccoli kit per il pronto soccorso nell'ufficio di John. Era davvero essenziale, e sembrava essere stato usato più volte. C'era rimasto dentro un solo cerottino striminzito, che bastava appena a coprire il taglio sulla fronte. Walter rimase immobile con gli occhi socchiusi e lo sguardo basso e apatico mentre lo applicavo alla ferita, ma quando feci per disinfettargli il labbro si ritrasse di colpo. Certo, le labbra devono essere zona proibita, per uno che trova disagevole il minimo contatto fisico. Arrossii notando che i miei occhi erano fermi a osservare la sua bocca bagnata di sangue da almeno una ventina di secondi, tempo che mi parve interminabile.

 

Improvvisamente arrivò John: “Accidenti … hai di nuovo fatto a botte? ….” Grugnito. Il labbro inferiore era messo particolarmente male, non riuscivo a staccarci gli occhi di dosso. Non ci pensai due volte, decisi che non m'importava se gli dava fastidio, la ferita doveva essere disinfettata, o sarebbe peggiorata. Presi un fazzoletto, lo bagnai con dell'acqua ossigenata e glielo misi sul labbro prima che potesse accorgersene e protestare. 

 

"Perdonami, va fatto, s'infetterà".

 

Realizzavo in quel momento la mia sfacciataggine. Ma che diavolo faccio? adesso si arrabbia, me lo sento. Invece nulla, almeno per i primi due o tre secondi parve accettare il mio tentativo di soccorso, ma poi alzò un sopracciglio e sgranò gli occhi con l'espressione di un bambino indignato dopo aver subito una ramanzina, mi guardò per un istante e si rigirò di scatto; si alzò senza spiccicare parola e si avviò verso la porta a grandi passi.

 

"Ehi amico, dove vai! Sei appena arrivato!" gli gridò il capo. Il rosso si fermò sul ciglio della porta e senza nemmeno girarsi disse "scusa, John. Devo andare".

 

Quella precisazione…quel “John” mi fece male. L'avevo combinata grossa. Sentii la mano del principale appoggiarsi sulla mia spalla, in segno di comprensione. 

 

“Non è colpa tua, non hai fatto niente di male … è lui che non riesce ad accettare il contatto con altri esseri umani. Beh, detto così.." - rise - "mi sembra di parlare di un alieno. Ma è una persona buona, in realtà". Tentava di consolarmi come poteva mentre io maledicevo la mia incapacità di rispettare la volontà altrui, o di tenere a bada la mia testardaggine.

"Non so come si rimedi certe ferite, ma è probabile che la sera se la veda brutta, magari a causa di qualche suo vicino…da quello che so non ha tanti soldi e quindi tutto quello che si può permettere è una misera abitazione nei pressi di uno dei quartieri più malfamati di New York…io ho imparato a lasciargli il kit medico sul tavolo, quando lo vedo così. Con disinvoltura, insieme al cibo che ordina. E' una forma di preoccupazione distante, l'unica che lui accetta volentieri. Perché non lo mette in difficoltà. Perché così può arrangiarsi da solo. E' proprio come avere a che fare con un randagio, o con qualche maledetto animale selvatico" - quando si trattava di Walter, la parola randagio occupava sempre la bocca di John. Doveva essersi affezionato parecchio a quello strano ometto - "Sì, quel tipo è davvero strano. Ma in fondo il suo presentarsi nel locale una volta ogni tanto è diventata una specie di routine un po' per tutti, qui, e i clienti non li allontana perché sono per la maggior parte abituali e ormai sono consci della sua presenza, anche se non è che stravedano per lui, ecco”. Quando attaccava un discorso, John sapeva essere indubbiamente prolisso. Venire a conoscenza delle abitudini di Walter mi interessava più di ogni altra cosa, ma sul momento quel discorso mi richiamava alla mente quello che era appena successo, rendendomi consapevole della mia impulsività. Mi faceva sentire stupida, quindi non mi sarebbe dispiaciuto ignorarlo e stare un po' sola con me stessa.

 

“Capisco…” cercai di tagliar corto, ma lui riprese: “Sai, non devi pensare che ti odi, lui è così e basta. Lui è Walter. Bisogna accettarlo com'è”. Dovevo accettarlo com'era…su questo aveva ragione da vendere. La pazienza non è una virtù che mi appartiene, ma decisi che avrei dovuto cominciare a ingabbiare la mia cocciutaggine e provare a diventare un po' più saggia: avrebbe solo potuto giovarmi.

  

“Già…è Walter…” sussurrai. Gettai nel cestino il fazzoletto leggermente macchiato del suo sangue e tornai al lavoro. Era Domenica, quindi quel giorno avrei dovuto staccare alle quattro, perché come mi aveva specificato John all'atto di firmare il contratto di lavoro, gli orari ai quali aveva accennato riguardavano i giorni compresi tra Lunedì e Venerdì. Ma non sapevo che fare, e nonostante non fossi riuscita a dormire un granché rimasi lì ad aiutare Mary a preparare l'impasto dei pancakes. Non avrei nemmeno potuto cercare casa, perché le agenzie immobiliari erano chiuse. John però non era d'accordo sul farmi lavorare troppo, così dopo avermi offerto un panino per il lavoro extra - dovevo rimettermi in forze, diceva- mi consigliò, data la rara e tristemente anomala giornata serena, di andare in un parchetto lì vicino che a sentir lui era “molto carino e colorato" e non c'entrava proprio niente con quei posti caotici come Central Park, "dove i bambini schiamazzano come solo i marmocchi iperattivi sanno fare". Decisi che avrei seguito il suo consiglio, un po' d'aria fresca non mi avrebbe fatto male.

 

Misi alcuni dei vestiti che Mary, a detta sua, non usava più e che poteva regalarmi, perché tanto aveva intenzione di buttarli. In effetti erano un po' piccoli per lei, ma pensai comunque che era stata molto gentile. Abbozzai un sorriso pensando che in quel periodo, nonostante tutto, la vita mi sorrideva di rimando, e mi diressi verso il Madison Square Park. 

Effettivamente il parco era carino, aveva molti fiori anche in quella stagione - il clima era ancora vagamente mite - e nonostante non fosse molto grande c’erano un bel po' di zone d’ombra, grazie alla moltitudine di alberi di cui era costellato. E, finalmente, le uniche panchine non imbrattate di graffiti su cui avessi mai posato gli occhi. Mi ci sedetti subito, perché odio il sole autunnale e molte erano sormontate da imponenti sempreverdi che offrivano un sicuro riparo dalla luce dell'enorme stella.

 

Intorno a me tranquille famigliole passeggiavano sul tappeto di foglie aranciate che copriva la ghiaia dei sentieri che fungevano da camminamenti. Qua e là scorgevo qualche coppietta godersi la tranquillità del luogo e scambiarsi sguardi diabetici. Mi sembravano felici…ah, ma chi volevo darla a bere…stavo cercando - o per lo meno speravo che sarebbe successo - di riuscire a scorgere Walter, che magari si aggirava da quelle parti, ma niente. Dopo mezz’ora decisi finalmente di alzarmi: fissare il nulla nella speranza di vederlo spuntare, così come sobbalzare alla vista di ogni testa rossa che faceva capolino al di là della recinzione di pietra, iniziava a diventare triste.

Volevo parlargli. Sono invadente, me ne capacito, per questo dovevo chiedergli scusa, perché non avrei proprio dovuto comportarmi in modo così irrispettoso…ma era ferito e quindi mi ero sentita in dovere di…no, niente scuse. 

 

Persa ogni speranza mi alzai, passai di fianco al vecchio ammiraglio Farragut e mi diressi verso la caffetteria. Era sulla Venticinquesima, non avrei dovuto fare molta strada e il mio tempo passato all'aria aperta sarebbe finito anche troppo in fretta…quando ad un tratto l'occhio mi cadde su qualcosa di molto ingombrante abbandonato in un cestino: era uno di quei grossi cartelli di legno che la gente usava costruire in occasione di quelle odiose manifestazioni che perlopiù erano una perdita di tempo, una scusa per fare casino…ma mi ricordò lui, e quindi lo esaminai più da vicino.

 

“The end is nigh”. Quella scritta…era il suo cartello, il suo inseparabile cartello. Strano, perché avrebbe dovuto buttarlo via? Dubbiosa, alla fine decisi di lasciarlo lì e di tornarmene a “casa”. Guardai l’orario: erano solo le cinque di pomeriggio lì a Broadway, forse era un po' presto per tornare a rinchiudermi in un posto affollato e senza pace, così decisi di percorrere tutta la 5th Avenue, destinazione ignota. 

 

Non mi guardavo nemmeno intorno, ero troppo assorta nei miei pensieri.

 

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Capitolo 5
*** Sweet Ginger, bad taste from the past ***


Mi stavo decisamente annoiando. Camminai per un po' senza sapere nemmeno dove mi trovavo. Guardai l’ora, erano le 17.30. 

 

Ricordo che di solito, a quell’ora, andavo con Louise in un bar molto carino della mia città natale che si chiamava…no, non ne rammento decisamente il nome…eppure al suo interno si respirava una bella atmosfera. Ci trovavamo bene, io e Louise. Louise era la mia migliore amica, come una sorella, per me. Sono cresciuta con la sua famiglia. Sorrisi in un attimo di nostalgia: nelle mie narici, il ricordo di un odore familiare; odore di casa. Non lo sentivo da troppo tempo, mi mancava la mia adolescenza passata in un paesino senza pretese, che era tutto il contrario rispetto all'immensa metropoli in cui mi trovavo. Nella bocca, invece, un gusto familiare tornava a solleticare le mie papille gustative. Ginger Ale, il nostro cocktail preferito. Di solito stavamo in quel bar per ore, a chiacchierare di gente che nemmeno conoscevamo e bevevamo Ginger Ale. Eravamo le uniche alle quali piacesse quella strana bevanda, troppo dolce per i palati degli altri. Assaporavo la tenera malinconia che si avvinghiava tenace ai miei ricordi mentre con la mente tornavo a quei momenti ormai lontani.

 

Senza accorgermene, avevo arrestato il mio incedere a casaccio per le vie della Grande Mela, e adesso la mia testa era leggermente voltata verso un piccolo bar, che guarda caso somigliava in modo incredibile al locale in cui io e Louise usavamo darci appuntamento. Distrattamente, l'occhio mi scivolò sui tavolini che s'intravedevano attraverso la grande vetrata che fiancheggiava l'ingresso. Fu allora che la vidi: non potevo crederci, ma proprio seduta ad uno di quei tavoli c'era la mia cara amica d'infanzia. Cosa ci faceva a New York?

 

Entrai nel bar senza nemmeno pensare, Louise mi mancava terribilmente…non la vedevo ormai da 5 anni, dalla mia prima volta in prigione. Non era mai venuta a trovarmi, me ne accorgevo solo adesso; 

 

Oh beh, avrà avuto altro da fare.

 

La vidi alzarsi dal tavolino e notai solo allora che indossava un grembiule. Lavorava là e forse il posto era anche suo, visto che si poteva permettere di sedersi un poco a chiacchierare con quelli che sembravano clienti abituali. Cercai di attirare la sua attenzione, ma era alquanto indaffarata, perciò aspettai che avesse meno gente attorno. La guardavo servire ai tavoli e sorridere ai clienti: pareva avvolta da un'aura lucente. Era un po' come nei film, quando ci sono le scene col rallenty, quelle lentissime dove un sorriso viene talmente prolungato da farti vomitare miele. Una cosa idilliaca, insomma, che contribuiva ad accrescere la mia nostalgia del passato. Ebbi modo, in quella frazione di tempo dilatato, di notare il piccolo cerchio dorato che cingeva il dito della mia vecchia amica…immaginavo che prima o poi si sarebbe sposata con Gregory, un energumeno con cui conviveva da quando aveva solo diciotto anni…non capirò mai cosa ci trovasse, in quel tipo; allora come anche adesso, dopotutto. Sì, perché qualcosa mi diceva che all'interno di quella fede c'era proprio il suo nome. Era un po' invecchiata, la mia cara amica d'infanzia, forse proprio a causa della vicinanza di quel tipo che, se non si fosse capito, mi stava decisamente sulle scatole. Ora Louise dimostrava almeno dieci anni più di me, nonostante fossimo coetanee. I capelli inanellati, un tempo di un bel biondo chiaro e lunghissimi, erano ora imprigionati in un severo chignon, e parevano essersi smunti a furia di costringerli in quella rigida posizione circolare. I pochi ricci che adesso spuntavano qua e là dalla pettinatura erano per metà candidi, molto lontani nell'aspetto da quelli che restavano impressi nei miei ricordi adolescenziali: dorati e selvaggi, liberi di volteggiare nell'aria di quel posto sperduto in mezzo al Texas. Avevo sempre invidiato la bella chioma voluminosa di Louise, ma ora mi pareva triste e priva di attrattiva. Le sue espressioni però erano sempre quelle, e di certo non aveva perso il suo smalto; l'attitudine a socializzare che da sempre le apparteneva la rendeva brillante e le permetteva di ingraziarsi la clientela. Mi chiesi quando l'avrebbero lasciata respirare.

 

E finalmente eccola lì, davanti a me. Lo sguardo basso  sul taccuino delle ordinazioni, già pronta a scrivere mentre mi domandava cosa volessi da bere. Doveva aver avuto una giornata pesante, per non riuscire a sollevare la testa e guardare in faccia l'ennesimo cliente. Dapprima me ne dispiacqui, ma poi iniziai a pregustare il suo sguardo sorpreso: non appena avrebbe alzato la testa, i suoi grandi occhi nocciola si sarebbero spalancati, e avrei avuto modo di ammirare un gigantesco sorriso dipingersi su suo volto, entusiasta nel rivedermi spuntare dal nulla dopo secoli.

 

E avevo ragione, almeno in parte. Appena mi vide, gli occhi li spalancò davvero. Mancava solo un piccolo dettaglio: il sorriso. Aveva senza ombra di dubbio uno sguardo sorpreso, ma non mi sembrava affatto fosse sorpreso in senso positivo. Gli angoli della bocca si abbassarono velocemente e potei notare tutta la luce che emanava fino a poco prima spegnersi di colpo. Quando aprì bocca, dopo qualche secondo di assoluto silenzio, la sua voce mi travolse come un tornado, esplodendomi in faccia con una violenza che non mi sarei mai aspettata. Louise stava gridando come gridava la mamma quando scorgeva un ratto aggirarsi per casa, allarmando chiunque si trovasse nei paraggi.

 

“Fuori dal mio locale! Vattene da qui! I galeotti non sono ben accetti in questo posto! FUORI! Gregory, mandala via! ” stava proprio dando di matto.

Ero allibita. Alla sorpresa si unì l'imbarazzo, e all'imbarazzo si congiunse la vergogna. La delusione aleggiava su tutte le mie sensazioni come un oscuro presagio di morte, aggiungendo al già terribile cocktail emotivo un'angoscia insopportabile. 

Tutto il locale si era girato verso di me. Avevo di nuovo tutti gli occhi puntati addosso, proprio come allora, non sapevo cosa pensare o fare. Quegli sguardi…era come se mi braccassero. 

L'unica cosa che desideravo era scomparire dalla faccia della Terra. Avevo incassato il colpo, eppure ancora non ne ero del tutto cosciente: era arrivato troppo all'improvviso perché potessi accorgermene. Mi sentivo intontita peggio di una bestia a cui viene fritto il cervello prima che venga sgozzata. Peggio delle ragazze in discoteca, drogate prima di uno stupro.

Di fianco a me era comparso Gregory, con la sua solita stazza da giocatore di football e la stessa faccia da idiota, quella di cinque anni fa, eccetto per il fatto che adesso era stempiatissimo e il suo stomaco gonfio accertava la fama di bevitore incallito che già aveva iniziato a costruirsi quando ci frequentavamo. Se proprio devo dirlo, mi faceva abbastanza schifo, ora più che mai.

Scimmione senza cervello.

 

Mentre lo insultavo mentalmente, sentii una fitta tremenda al braccio destro, subito prima di accorgermi che la sua mano da gorilla me lo stava stritolando. Senza dire una parola, mi tirò con forza e cercò di trascinarmi fino all'uscita del locale. Quando tentai di ribellarmi, la presa si fece più salda: faceva un male cane, posso giurarlo. D'altronde, per lui non era certo difficile tenermi a bada; nonostante non esercitasse molta pressione sul mio arto, potevo sentire gli scricchiolii delle articolazioni. Se avesse usato tutta la sua forza avrebbe potuto spezzarmi le ossa senza alcuno sforzo, perché ero di costituzione fin troppo esile. Per questo le prendevo sempre da quella famosa Beth del quinto anno. Dovetti seguirlo, il dolore era troppo forte per permettermi di reagire.


Non avevo nemmeno la forza di parlare, mentre attraversavo il corridoio fino alla porta. Sempre quei dannati occhi puntati addosso a me.

Venni scagliata fuori dalla porta come un sacco d'immondizia. Perfino adesso non saprei descrivere appieno come mi sentivo in quel momento. Si era messo a piovere fuori, e forse anche dentro di me. Caddi sull'asfalto bagnato inzuppandomi i vestiti e facendomi pure abbastanza male, la leggendaria delicatezza di quell'armadio di Gregory, a quanto pareva, era rimasta immutata nel tempo. La pioggia mi sferzava violenta il viso e tremavo per il freddo.

 

“Gregory…perché…perché mi fate questo? Io…sono vostra amica! Volevo solo salutarvi, dopo tutto questo tempo io…” sentivo le lacrime pronte a sgorgare dai miei occhi come cascate, ma cercai di resistere.
“Peccato che tu stia facendo un grosso errore, zuccherino”. L'omone sfoggiava un disgustoso sorriso da Neanderthal.

Il mio viso rifletteva le mille domande che mi vorticavano nella testa.

“Non ci arrivi? Non fare la finta tonta. Eri, mia cara…ERI nostra amica. Sai come si è sentita Louise dopo il tuo arresto? Te l'aveva detto di stare attenta! L’hai delusa! E due mesi dopo essere uscita ti sei fatta arrestare di nuovo. Sei solo una delinquente! Hai rovinato la reputazione di Louise, che era tua amica! Non hai pensato al bene delle persone che ti hanno accolto? Non vogliamo più avere niente a che fare con te, è abbastanza chiaro ora?!” 

Mi voltò le spalle bofonchiando un finissimo "stronzetta".

 

Vergogna. Ecco cosa stavo provando.


Mi rialzai senza aprir bocca. Con gli occhi fissi sulle gocce di pioggia che s'infrangevano come bombe sul marciapiede, sentii la porta del locale richiudersi con violenza, ma non riuscii ad alzare lo sguardo. Alcuni passanti mi guardavano senza capire cosa stesse succedendo e anch'io a dir la verità non stavo capendo molto. Non avrei mai immaginato di aver creato problemi a Louise e alla sua famiglia. Mi sentivo un'egoista, ma non sapevo quanto fosse giusto ciò che pensavo, era tutto troppo improvviso, tutto troppo sfocato per riuscire a vederci chiaro. Letteralmente. Le mie guance erano fradice, e non solo a causa della pioggia. La pelle del mio viso era ora attraversata da due piccoli rigagnoli salati, che non ne volevano sapere di esaurirsi. Forse, in fondo, Gregory non aveva tutti i torti.

Mi accorsi che una bambina mi stava indicando.

 

“Mamma, mamma! Perché l’hanno fatta cadere per terra?”

 

Aveva tutta l’aria di essere l'unica figlia di una di quelle famiglie esageratamente ricche, che sicuramente la viziava, dato che era vestita di tutto punto, come se fosse appena uscita da una casa delle bambole. 

 

La madre, si vedeva lontano un miglio, aveva la faccia della classica donna che si fa mantenere dal marito, non certo di una che si sporca le mani lavorando. Capelli ossigenati e cotonati, orrendi occhiali da sole leopardati e pelliccia, il tutto decorato con vari gingilli scintillanti di pessimo gusto, di quelle cose che più sono trash e più costano. E si sa, i ricchi abboccano sempre quando si tratta di sperperare denaro in sciocchezze orripilanti. 

La signora zittì la figlia: “Insomma Jane, la gente cattiva come lei non va nemmeno guardata! Non tutti sono brave persone come noi” e se ne andarono. Ammetto che passai un minuto buono ad insultarle mentalmente.

 

...Pregiudizi del cazzo.

 

Guardai dall’altra parte del vetro, per l’ultima volta. 

Louise discuteva con il suo amato scimmione e probabilmente parlavano di me. 

Quella che fino a pochi minuti fa consideravo la mia unica e vera amica, ora mi sembrava la più distante delle estranee.

D'un tratto i nostri sguardi s'incrociarono di nuovo, per l'ultima volta, e sono certa che in quel momento la mia espressione fosse la stessa di quei cuccioli di cane indesiderati, abbandonati in una scatola di cartone. Senza dir nulla si avvicinò alla vetrina e guardandomi in cagnesco tirò la cordicella che pendeva dalla cornice, srotolando con violenza la tenda, per non vedermi più. Doveva proprio odiarmi. 

Era ovvio che mi avrebbe dato fastidio uno sguardo che lasciasse trasparire la pena che avrebbe potuto provare nei miei confronti, ma sarebbe stato comunque meglio di quello sguardo gelido che mi trapassava l'animo da parte a parte come una freccia di ghiaccio nel torace.

Rassegnata, girai i tacchi e m'incamminai verso una meta ignota, di nuovo.

 

Non ricordo nemmeno per quanto camminai. Le mie gambe si muovevano da sole e tutto il mio corpo le seguiva come se appartenesse a un automa, più che a un essere umano dotato di coscienza. I miei occhi dovevano sembrare vitrei e privi di vita, mentre fissavano scorrere l'asfalto sotto i miei piedi. Ma io guardavo oltre: ciò che osservavo non era il marciapiede, bensì le immagini di Louise che mi scorrevano nella testa come un film. Sono sicura che nel mio sguardo si potesse chiaramente scorgere, se solo si fosse prestata la dovuta attenzione, pezzi di pellicola ritraenti la mia vita. Rullini chilometrici che scorrevano tanto veloce da essere normalmente invisibili alla vista degli altri. Ma non alla mia, non al mio cuore. Quando anche l'ultimo fotogramma mi passò davanti, quando la tenda della vetrina fu tirata per l'ennesima volta, nascondendo l'espressione disgustata della donna che un tempo avevo chiamato sorella…tornai alla realtà.

Era buio e com'era ovvio non ero più nella via di prima; non ero nemmeno ero vicina alla caffetteria…ero…dove cavolo ero? 

 

Fantastico, mi sono persa, ci mancava solo questa! E’ buio, fa freddo…che giornata di merda.

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Capitolo 6
*** Broken ***


Mi guardai attorno. 
Tutti i negozi chiusi, tutto spento. 

La situazione si metteva male. Molto male. Era risaputo, quella zona durante la notte non era certo un luogo ben frequentato. Sentii accapponarmisi la pelle mentre violenti brividi mi risalivano lungo la schiena, fino alla punta dei piedi. Mi sono sempre vantata di essere una persona abbastanza coraggiosa, ma devo ammetterlo: avevo una paura fottuta. Avere coraggio non significa non capire di essere in pericolo, e in quel momento avrei dovuto essere davvero molto cauta. Finsi una certa nonchalance, come se la cosa non mi turbasse affatto. Anche se dentro stavo tremando da capo a piedi, fuori dovevo sembrare sicura e forte, e camminare a testa alta. 

Ad ogni respiro, le mie narici si dilatavano a dismisura. Affrettai il passo, in testa il chiaro obiettivo di raggiungere il prima possibile quella che avevo imparato a chiamare "casa", anche se in fondo non lo era. Ma era un posto relativamente sicuro, e questo bastava. Purtroppo però non avevo idea di dove mi trovassi, e anche orientarmi in quel labirinto di stradine poco illuminate diventava un'impresa. La matassa urbana era talmente intricata che mi riusciva difficile perfino capire dove si trovassero le strade principali. Mi sentivo un topo in trappola. D'un tratto mi ritrovai a camminare a passo spedito, fermandomi solo per guardare i nomi delle vie. Era tutto inutile: i nomi dei cartelli non si leggevano neanche per metà, a causa del buio pesto che dominava la via in cui ero finita. Improvvisamente, sentii delle voci venire da un cunicolo secondario che sbucava in quella strada senza nome.

Mh… uomini. E ubriachi per giunta, a giudicare dal tono della voce.
Probabilmente dei pochi di buono. 
Ma sono gli unici a cui posso chiedere indicazioni. 
Dio… questo è il tuo aiuto? Sai, ne avrei fatto volentieri a meno... 
maledizione… ecco perché ho smesso di pregarti.

Non avendo altra scelta, fui costretta a tentare la sorte anche se ultimamente la fortuna non mi sorrideva di certo.
Sperando in un destino favorevole, mi diressi verso di loro.
Pensai che probabilmente erano dei drogati, o dei motociclisti dei sobborghi, brutta gente che si divertiva a scorrazzare per la New York corrotta a cavalcioni di bolidi a due ruote, andando in giro a minacciare e derubare chiunque si trovasse sul loro cammino…o tutti e due. Teppisti, insomma. Ma erano la mia unica possibilità di uscire da lì. Mi guardai intorno pensando a cosa avrei fatto se la mia ipotesi sulla loro natura si fosse rivelata esatta: non c’era niente, nemmeno un posto in cui rifugiarsi…niente di niente. Comunque, l'idea di rinunciare a trovare la via del ritorno e passare la notte fuori come una specie di barbona era fuori discussione, quindi dovevo agire in fretta. Decisi di buttarmi e mi avvicinai al gruppetto schiamazzante. Non appena mi notarono, le loro espressioni cambiarono: sguardi da bestie fameliche si dipinsero sui loro volti, rossi per l'effetto del calore dell'alcool. 

“Oh oh oh! ehilà! ma che fai qui a quest'ora, bellezza?” 
I loro vocioni e i loro fischi da pervertiti iniziavano com'è ovvio ad infastidirmi non poco. Se avessi potuto, avrei sparato ad ognuno di loro, seduta stante. Nonostante la poca luce che qualche finestrella ai piani alti dei palazzi diroccati lì intorno mandava, riuscivo a percepire abbastanza chiaramente le loro minacciose figure. Tutti abbastanza piazzati, pantaloni di pelle nera, chiodo, borchie che si ergevano come spuntoni sulle spalle, tatuaggi che s'intravedevano un po' ovunque. Il loro abbigliamento mi ricordava qualcosa….ma cosa? Mentre cercavo di prendere tempo e scavare nella memoria, decisi comunque di porre la mia domanda. Tanto valeva provare, in ogni caso non avevo altra via di fuga. Parlare mi avrebbe lasciato qualche minuto per pensare a come uscire indenne dalla situazione, anche se a dirla tutta cominciavo a vedere la cosa con un certo pessimismo.

“Mi sono persa” risposi gelida, senza dar loro troppa corda. Non potevo mostrarmi debole e indifesa. Li scorsi scambiarsi occhiate d'intesa e ridacchiare. Quando, per guardarsi l'un l'altro, ruotarono leggermente le teste, potei scorgere le loro pettinature: pur non avendo tratti asiatici, avevano i capelli legati in modo molto simile agli antichi samurai giapponesi. D'un tratto, ricordai. Ecco dove avevo già visto quel vestiario di pessimo gusto! Recentemente le zone malfamate della metropoli erano affette da una strana moda: buona parte dei malviventi aveva iniziato a concentrarsi tutta sotto un unico nome. I Nodi. Inizialmente era una banda minore formata da un piccolo gruppo di teppistelli, la maggior parte dei quali erano fan di un gruppo punk/rock che andava molto in quel periodo: i "Pale Horse"; coglievano l'occasione per radunarsi ai loro concerti e fare casino, devastando qualsiasi cosa capitasse loro sotto mano. Poi, pian piano, la combriccola si era andata espandendo e adesso vantava un gran numero di seguaci. Storsi il naso al ricordo di tutto il caos che, come i molti telegiornali riportavano ogni giorno, avevano portato in città. Sempre ricercati per stupri e omicidi, ma tutti uguali, facevano del loro "stile" la loro forza. Se il nodo ai capelli era diventato una moda nella zona più buia della città, nelle zone solitamente tranquille era diventato un simbolo che la gente aveva imparato a temere. Non c'era dubbio: avevano soggiogato New York, mettendo in seria difficoltà perfino le autorità locali. Solo i Watchmen sembravano in grado di tener loro testa, ma ora che il Keene act era stato approvato, questa gente la faceva da padrona. Solo lui, non si arrendeva. Solo lui continuava la sua lotta. Maledissi quella stupida legge e pensai a tutti i crimini che avrebbero commesso se non fossero stati prontamente fermati. Adesso, come se non bastasse, il loro obiettivo ero io…e questa volta ero da sola.

Disgustoso. Di certo è un'occasione d’oro, per questa gente... fantastico.

Il più grosso fece esplodere una grassa risata. “Eheh…dove devi andare piccola? Ti diamo noi un passaggio”

Si certo, un passaggio…verso l’altro mondo.

“Non voglio nessun passaggio, solo sapere dove devo andare per tornare sulla ventiquattresima.”

Cercavo di rimanere calma, ma non era facile, prevedendo ciò che sarebbe successo di lì a poco. Il sudore m'imperlava la fronte e potevo sentire distintamente i battiti del mio cuore accelerare in modo vertiginoso.

Che facessero parte dei Nodi o no, li conoscevo bene, tipi del genere; e avevo esperienza di quali fossero le conseguenze delle loro malefatte: quando fui arrestata finii entrambe le volte ad Huntsville, e gli ergastolani non sono affatto socievoli. Proprio per niente. 
Se fai vedere che hai paura sei fregato e questi quattro, anche se non erano dietro alla sbarre, non erano da meno. Costruii con la mente una cella che li circondasse, e per un attimo sperai che potesse materializzarsi per davvero.
Sui loro volti presero ad allargarsi dei muti, inquietanti ghigni.

“…A quanto pare non lo sapete. Arrivederci” risposi fingendo sicurezza.
Mi voltai con l'intenzione di ignorarli e cercai di rifare la strada da cui ero venuta nella speranza di ritrovare una via familiare. Non feci un metro che iniziai a sentire il suono dei passi di quegli energumeni seguirmi ovunque andassi.

Ma perché sempre a me?

Accelerai il passo per poi iniziare a letteralmente a correre non appena udii i motori delle loro moto accendersi e le loro grida di sottofondo che si facevano sempre più forti e vicine: pretendevano un ringraziamento. Ero una maleducata, dicevano. Non li rispettavo a dovere e questa era una grave mancanza, a loro avviso.

Certo… lo so io cosa volete, razza di schifosi.
Ma possibile che tra tutte le case che mi circondano, nessuno senta gli schiamazzi di questi coglioni? Le luci di alcuni appartamenti sono accese! Non stanno dormendo! 
Ah, già… è vero, il menefreghismo delle persone. Quasi me ne dimenticavo.
Cavolo, ho già il fiatone. Mi raggiungeranno subito, hanno delle fottutissime moto!

La mia unica parvenza di salvezza era nel tentare di depistarli andandomi a ficcare in posti dove le moto non potevano passare. Nemmeno un maratoneta avrebbe potuto tener testa a una motocicletta lanciata a tutta birra sull'asfalto. Voltai a destra di scatto, in una strada dove un sacco di macchine erano state parcheggiate in doppia fila e una fila di spazzatura e cassonetti adornava il marciapiede come un festone disgustoso, degno di un party nelle fogne. Chiamando a raccolta tutte le forze che avevo in corpo e l'agilità di cui potevo disporre avendo delle gambe piuttosto lunghe e toniche, feci lo slalom tra i rifiuti, correndo a zig zag tra i cassonetti ribaltando ogni bidone che incontravo, facendolo quindi cadere rovinosamente dietro di me, nella speranza di arrestare (o almeno rallentare) la loro corsa. Ostacoli. Quella era la prima parte di un piano elaborato secondo per secondo, fidandomi ciecamente del mio istinto di sopravvivenza. Correvo come mai avevo corso in tutta la mia vita. Ad un tratto inciampai su qualcosa, e finii carponi sull'asfalto, sbucciandomi palmi e ginocchia. Incitandomi mentalmente a non demordere, mi feci forza e mi rialzai quasi subito, nascondendomi  in un vicolo strettissimo che dava sulla strada che stavo percorrendo fino a pochi minuti prima e che avevo adocchiato quasi di sfuggita: neanche una delle loro maledette moto sarebbe riuscita ad entrare, forse avevo una possibilità…forse.   
All'improvviso sentii tutti i motori spegnersi e venni colta da un orribile presentimento. Sapevo che avrebbero continuato la caccia a piedi. Svelta, mi nascosi dentro un cassonetto cercando di ignorare l'odore nauseante che accompagnava un letto di cibo in decomposizione e chissà che altro, e pregai perché i miei sensi si facessero più acuti. Sentivo i loro passi, ma non potevo vederli. Potevo solo aspettare.
Il cuore mi batteva a mille, sentivo che mi chiamavano, mi cercavano. 
Chiusi gli occhi, avevo una paura atroce che mi faceva contorcere gli organi. Tremavo e sudavo.
Di solito delinquenti del genere dopo averli seminati si arrendevano e se andavano per i fatti loro, questi invece avevano deciso di fare gli alternativi. Maledissi la sfortuna che mi perseguitava.
D'un tratto, con uno squittio e un movimento fulmineo, una grossa pantegana mi passò davanti, sfiorandomi un polpaccio e facendomi sobbalzare. Mi lasciai sfuggire un gridolino.

Merda. 
Merda, merda, merda!

Mi premetti forte le mani sulle labbra fino a farmi venire le nocche bianche, costringendomi a stare calma, ma lo sapevo: sapevo che mi avevano sentito. Era solo questione di tempo. Ero finita.
A confermare i miei sospetti, poco dopo, il coperchio del cassonetto si sollevò emettendo un fastidioso cigolio.
Un sorriso malefico mi comparve davanti e un urlo eccitato uscì da quelle fauci demoniache.
“BECCATA!” 

Cazzo.

Cercai di opporre resistenza alla bestia che mi aveva scovato, inutilmente. Mi afferrò per il bavero della giacca e, mentre con una mano cercavo di sottrarmi alla sua presa, con l'altra sondavo ciecamente il fondo del cassonetto sperando di imbattermi in qualcosa che potesse fungere da arma. Finalmente, proprio quando le mie forze minacciavano di abbandonarmi, le mie dita tastarono qualcosa di appuntito e conclusi di aver trovato un pezzo di vetro scheggiato, probabilmente derivante da qualche finestra infranta. Lo raccolsi incurante del dolore che gli angoli vivi a contatto con le ferite fresche mi procuravano e lo conficcai nel braccio del mio avversario, mirando alla vena principale. Quello cacciò un acuto urlo di dolore, che per me fu un gran sollievo. 

Si accasciò a terra, inveendo contro di me.
"Maledetta puttana! Fategliela pagare! Deve subire le pene dell'inferno e poi crepare! Cazzo! Il sangue non si ferma, Jo! Questa merda di sangue non si ferma! Dammi la tua bandana!"

Purtroppo il mio attacco non era servito a molto; altri suoi due “colleghi”mi presero per la collottola e mi buttarono a terra senza che avessi il tempo di accorgermene, mentre un altro andava a soccorrere il ferito ululante.
Sbattei la testa e poi non vidi più nulla, ma continuavo a sentire, vagamente, i suoni di ciò che succedeva attorno a me. Ero cosciente per metà, come nel dormiveglia.
I muscoli si rifiutavano di rispondere ai miei comandi ed io ero bloccata con la faccia sull'asfalto in uno stato di semi-paralisi. Mi girava la testa, i miei occhi si erano rigirati dentro le palpebre e non obbedivano al mio ordine di tornare a guardare davanti a loro, si rintanavano nella parte superiore delle orbite come avessero paura e volessero stare al sicuro. Ma così ero circondata dal buio. Il mio corpo giaceva immobile esposto al volere di quegli animali frementi di desiderio e vendetta. Potevo quasi percepire la saliva che grondava dalle loro labbra affamate. Ero inerme, in balia dei loro disgustosi intenti e, cosa peggiore, presto i loro pensieri osceni si sarebbero materializzati, accanendosi su di me.

Maledizione!

Sentivo ridere, ma non vedevo le loro facce. 
Sentivo il loro respiro sulla mia pelle, ma continuavo a non vedere le loro facce.
La mia conoscenza si fermava alla consapevolezza di essere bloccata. Poi…

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Capitolo 7
*** Purple Pants ***


Urla indefinite. Suoni storpiati, qualcosa che faceva pensare ad una rissa, rumori sordi di pugni nello stomaco e di ossa fracassate.
Infine, silenzio.
 
Riaprii a fatica gli occhi, costringendo i bulbi ribelli ad uscire dal loro nascondiglio di pelle.
Un lampo sembrò accecarmi. Li richiusi subito dolorante e quando scossi la testa stordita, un lungo fischio simile a un ultrasuono mi trapassò il cranio da parte a parte, rimbombandomi nel cervello. Massaggiandomi le tempie, tentai di schiudere nuovamente le palpebre, questa volta con più cautela, e ci riuscii giusto in tempo per appurare che il lampo di prima non era altro che la flebile luce di quelle stesse quattro finestre che davano sulla strada.
Mi guardai attorno con aria interrogativa. La mia vista era ancora troppo appannata per permettermi di osservare chiaramente ciò che mi circondava.
Ero confusa…terribilmente confusa. Vidi un ombra chinarsi su di me, ma non mi allarmai. Non sapevo dire il perché, ma il mio istinto mi diceva che non era lì per farmi del male. Stravolta, chiusi nuovamente gli occhi e sprofondai in un sonno rigenerante, senza accorgermi della pioggia che aveva iniziato a cadere da pochi secondi e ora mi sferzava la faccia con violenza. Ero appoggiata a un caldo petto e, a chiunque appartenesse, mi donava una piacevole sensazione di sicurezza, molto apprezzata dopo tutta quella fatica e la paura che mi aveva attanagliato così a lungo.
 
______________________________________
 
 
Walter sentì i muscoli delle gambe contrarsi, vittime di un riflesso involontario e avvertì una sensazione odiosamente familiare. Era come un preludio a quel fastidioso fenomeno fisico che era sempre sfuggito al suo controllo e che tornava a tormentare il suo corpo tutte le mattine, da quando aveva iniziato ad avviarsi verso la fase adolescenziale. Lo detestava; lo faceva sentire sporco. Lo faceva sentire umano. Di corpi femminili ne aveva visti fin troppi, lungo le strade, quando la notte avvolgeva New York nel suo manto, più scuro della pece. Ma lei aveva qualcosa di diverso, anche se non avrebbe proprio saputo dire cosa fosse. Perché? Non era diversa dalle altre. Non era diversa da sua madre. E allora cosa, maledizione, COSA diavolo era quella sensazione? Perché il suo corpo reagiva, quando era sempre riuscito a tenerlo a bada col disprezzo, almeno durante le sue escursioni notturne, in cui gli capitava, per forza di cose, di imbattersi in fin troppe "tentazioni", come le avrebbe chiamate uno qualsiasi degli affamati uomini che abitavano i bassifondi della Grande Mela? In lui, alla vista di quella carne esposta così impudicamente, pronta ad essere svenduta, era sempre sopraggiunto un forte senso di disgusto. E allora perché adesso, per la prima volta, alla vista di quelle stesse forme, non riusciva a provare i medesimi sentimenti? No, non era la stessa cosa. In fondo, lo sapeva, quell'ammasso di corpi truccati non era certo paragonabile a ciò che adesso si trovava di fronte. Davanti ai suoi occhi si disegnavano forme flessuose e, allo stesso tempo, purissime. Non poteva credere al fatto che quella donna avesse poco meno della sua età, quando sembrava ancora nel pieno della giovinezza. Forse dipendeva da quello che lei stessa gli aveva raccontato. Da ciò che gli era sembrato di capire, Alex non era mai stata con un uomo, nonostante avesse cercato di guadagnare qualche spicciolo provando a vendersi. La cosa, per fortuna, era morta sul nascere, ed era tutto merito suo, anche se gli scocciava ammetterlo perfino a sé stesso. E ora si trovava lì, imbambolato, con gli occhi fissi su quell'esserino biondo, rannicchiato sul divano logoro. E quel ch'era peggio, non riusciva a distogliere lo sguardo dall'espressione beata che si era dipinta sul volto della ragazza che gli sonnecchiava nel monolocale. Forse lei lo vedeva come un gioco, ma per lui la questione era davvero seria:
 
E adesso come avrebbe fatto, con una donna in casa?!
 
Si voltò dalla parte opposta per sottrarsi alla vista di quel corpo, mentre la fronte gli si imperlava di sudore. La situazione era davvero troppo indecente. Come gli era venuto in mente di portarsela in quell'appartamento così spoglio e inadatto ai bisogni di una donna? Lui, com'era ovvio, di vestiti femminili non ne aveva, e adesso la sua camicia migliore (anzi, quella messa meno peggio) era l'unica cosa che copriva l'esile fisico della ragazza. Fin da piccolo era sempre stato di costituzione asciutta, eppure quella donnina era così piccola che spariva nei suoi vestiti. Non aveva nemmeno trovato un paio di pantaloni da prestarle e questo proprio non poteva sopportarlo: era quasi nuda, per Dio! Dio...ma quale dio. Se non ci fosse stato lui...si ricordò che poche ore prima quel corpo era stato a stretto contatto col suo. Ma non ci aveva pensato, in quel momento, non aveva avuto paura. E anche lei non tremava più, ora; aveva ancora i capelli bagnati dalla pioggia torrenziale in cui s'erano imbattuti e lui sperò che non si prendesse un raffreddore. Da quando si preoccupava così tanto per qualcuno? Certo, si era preoccupato per la situazione sentimentale di Dan, e questo perché, in fondo, lo riteneva un caro amico. Forse l'unico. L'unico di cui potersi fidare, ma anche il più ingenuo del gruppo. Ne avevano passate tante insieme e alla fin fine era una specie di fratello minore che doveva imparare a fortificare la sua spina dorsale. Ce l'aveva ancora con lui per aver abbandonato i Watchmen ed essersi piegato così docilmente al Keene Act, ma in fin dei conti teneva a lui più di quanto volesse ammettere. Possibile che Alex gli somigliasse? Che stesse iniziando a provare lo stesso per lei? No, con lei era diverso. Con lei era diverso perché era una donna. Anche se dava l'impressione di essere una ragazzina, quando si erano rifugiati nella sua umile casa,  fradici a causa del diluvio, i vestiti che portava le si erano appiccicati addosso, rivelando un corpo decisamente adulto. Si era subito pentito della sua scelta, le aveva prestato una camicia meno infeltrita delle altre e l'aveva spedita nel minuscolo bagno, cercando di scacciare il calore che gli faceva ribollire il sangue nelle vene. É un po' tardi per imbarazzarsi davanti a una femmina, pensò. Di solito queste cose succedono agli adolescenti. Invece, adesso, lui provava quelle sensazioni per la prima volta. Non l'avrebbe mai detto. E non avrebbe mai detto che una donna potesse interessarsi a lui in quel modo. Con la mente, ripercorse gli avvenimenti di quel giorno. Avrebbe tanto voluto poterla portare a casa di Daniel, lì sarebbe stata anche più al sicuro, ma da quella volta in cui gli era piombato in casa nel bel mezzo di un incontro intimo con miss Jupiter, Dan gliene aveva dette di tutti i colori. Doveva trovare una soluzione, però: la situazione era fin troppo spiacevole, senza contare che la padrona del palazzo non era una donna della quale potersi fidare, e non permetteva agli inquilini di portarsi a casa estranei di notte, soprattutto se questi erano ragazze. Si girò di nuovo ad osservare la sua ospite, alzando un sopracciglio e un angolino della bocca con fare perplesso mentre gli sfuggiva un piatto grugnito. "Grazie. Sei un vero amico"; le sue parole gli vorticavano nella testa a mo' di flashback. "T-ti voglio bene" aveva fatto fatica a pronunciare quelle parole come lui aveva faticato a comprenderle e accettarle. Sul momento era rimasto basito, cercando di metabolizzare il significato della frase appena udita. Poi aveva sentito il rossore impadronirsi dei suoi zigomi taglienti e aveva sgranato gli occhi per un istante. Ovviamente si era subito accorto del suo stato penoso e aveva fatto di tutto per assumere l'espressione più vuota e vacua di cui era capace e a commentare con un suono sordo. Ma ora ci ripensava, e si accorgeva di non sapere davvero il significato di quelle parole. Aveva già sentito la stessa frase, per esempio, ai parchetti, quando i bambini buttavano le braccia al collo delle madri tutti sorridenti. Sua madre non gliel'aveva mai detto. Nessuno, in verità, si era mai rivolto a lui in quel modo. Ora non capiva davvero come avrebbe dovuto comportarsi. I suoi occhi si fermarono su quelli chiusi di lei e si disse che in ogni caso non avrebbe mai lasciato che facesse la stessa fine di Blair Roche. Appena si fosse svegliata e i suoi vestiti sarebbero stati asciutti, l'avrebbe portata da Dan, non gli importava un bel niente delle regole che gli imponeva. In fondo, lui ne aveva mai seguita una? Si era mai fatto dare ordini? Solo l'imbarazzo del momento, per quanto in quell'istante la sua faccia non lo desse a vedere, l'aveva convinto a sottostare al comando di Daniel. Ma era un uomo, e ormai era abituato a queste cose. A dirla tutta, lo era da una vita; ci era stato costretto. E poi, quella creatura che si era ritrovato tra capo e collo, non sapeva dirne il motivo, lo imbarazzava anche più del ricordo di Dan e Jupiter aggrovigliati tra le lenzuola. Sì, Alex doveva essere portata altrove. Non nel suo nascondiglio, nel suo angolino, a invadere il suo spazio privato. Non a contatto con le sue cose, i suoi appunti, il divano sui cui lui si sarebbe seduto. No. A casa dell'unico compagno che poteva davvero considerare tale sarebbe anche stata meglio.
 
______________________________________
 
Quando, finalmente riposata, mi destai dalla dormita, una fredda luce intervallata da strisce d'ombra regolari mi accarezzava il viso e realizzai che proveniva dalle fessure che una veneziana affissa allo stipite superiore di una finestra lasciava aperte. Doveva essere notte fonda, perchè l'unica fonte di illuminazione pareva essere la luna. Avevo di sicuro un bel bernoccolo sulla testa, perché anche se era immersa in un cuscino morbidissimo (di chi era?), mi doleva ancora. Ripensai alla botta che mi ero presa rovinando sull'asfalto e mi ricordai del fatto che poco tempo prima me ne stavo stesa su una strada a faccia in giù. No! Non era così! Prima…prima c'era stato Walter! Cosa ci faceva lì? Vaghe immagini sfocate mi tormentavano la mente. "Grazie, sei un vero amico…ti voglio bene". Arrossii rifiutandomi di credere ai miei ricordi. Davvero avevo detto una cosa del genere? Perché!? Dovevo essere proprio rintronata per accettare di prendere in prestito i suoi vestiti senza dire una parola. Ora non ero decisamente più nell'umile appartamento di Walter, ma mi trovavo piuttosto in una camera da letto ordinata, sovrastata da lenzuola che profumavano di pulito, adagiata su un comodo materasso. Scostai con delicatezza il tessuto che mi copriva, notando che un paio di pantaloni da notte, molto più raffinati, mi fasciavano la vita. Erano di un tenue color tortora e avevano tutta l'aria di essere in pura seta. Pur essendo chiaramente stati studiati per un corpo maschile, quelli di sicuro non erano dell'ometto rosso che, come sapevo, se ne andava a zonzo per New York con la stessa giacca tutta buchi per mesi, ma scoprii con imbarazzo che indossavo ancora la sua camicia. Un calore improvviso mi colorò le guance con violenza, come dimostrava lo specchio appeso ai piedi del mio giaciglio. Lo raggiunsi gattonando e notai che, persa nei miei pensieri, non mi ero accorta di un cerotto grande più o meno quanto mezzo palmo della mia mano che mi torreggiava sulla fronte, tenuto su da una benda leggera che mi fasciava il cranio. Dovevo avere una bella ferita. Un po' di sangue era filtrato attraverso la garza, ma di certo non era il livido che mi preoccupava. Se osservavo la mia immagine riflessa per più di qualche secondo mi si incrociavano gli occhi, e non era un buon segno.
 
 
Mi alzai dal letto e mi guardai attorno di nuovo per capire meglio dove mi trovavo. Non era l’ospedale e non era nemmeno la stanza nel retro della tavola calda.
Quella stanza apparteneva a una casa che non avevo mai visto prima d’ora, una casa piuttosto carina e accogliente.
Qualche minuto e il mal di testa decise che la tregua concessami era finita. Di nuovo, una fitta rinnovata dal brusco movimento che avevo fatto per alzarmi. La testa prese a girarmi vorticosamente e mi costrinse a tornare a sedermi sul materasso.
 
 
Provai a mettere una mano sulla fronte.
 
No, niente febbre...almeno quello. Però…sembra che la testa mi debba esplodere da un momento all’altro, non ci voleva proprio. Sono in casa di qualcuno che nemmeno conosco e sono pure conciata abbastanza male.
 
Dato che indossavo gli stessi vestiti di quella sera non doveva essere passato molto tempo da quando ero sprofondata nel sonno. Un pensiero fisso mi tormentava: avevo dormito da Walter! Solo per qualche ora, vero, ma era comunque successo. E per di più, senza pantaloni, dato che i miei erano fradici! Sì, la camicia era abbastanza lunga da fungere da vestito, ma…! Nascosi il viso tuffandolo nelle mani mentre arrossivo di nuovo. Non ci ero affatto abituata. Mi chiesi se il suo sguardo si fosse soffermato sulle mie gambe e presi a guardarle distratta. Non avevo ancora ben chiaro che tipo di uomo fosse. Di sicuro, però, non mi aveva nemmeno sfiorata, me ne sarei accorta; come avevo sempre pensato: potevo fidarmi di lui.

Volendo capire meglio dove mi trovavo, mi diressi verso la porta, ma mi fermai immediatamente non appena sentii delle voci.
"Dan, vado a darmi una rinfrescata…ok?”
"Ah…si, Laurie...vai pure."
Il rumore dei tacchi di “Laurie” rimbombava dal corridoio nella stanza silenziosa.
Dove accidenti ero finita?
 
 
Che disastro.
Questi due chi sono … amici di Walter?E da quando lui ha … amici?
Mi trovo in una casa di perfetti sconosciuti, sono ferita e lui è sparito senza dar spiegazioni … di nuovo.
Diamine.
 
 
Con prudenza, cercai di sbirciare attraverso la fessura della porta semiaperta: scorsi un uomo robusto, provvisto di occhiali, avvolto in una vestaglia color prugna dall'aria molto comoda.
 
 
Walter … Walter aveva dei pantaloni color prugna, a righe verticali, tipo gessato; li avevo visti nel suo appartamento. Dove cavolo si è cacciato? Mi ha portato veramente al sicuro?
 
 
L'uomo, dedussi, doveva essere "Dan" ed era impalato davanti a quello che sembrava l'ingresso principale dell'abitazione, intento a fissare un punto indefinito ad altezza ombelico nella penombra dell'appartamento.
 
Cercai di aprire ancora un po' la porta, stando attenta a non farla cigolare, per capire meglio cosa stesse facendo: era visibilmente assorto, immerso in un vortice di pensieri che solo lui poteva sentire, intento a grattarsi la nuca.
Improvvisamente, sospirò: “Eh, si… è decisamente colpa sua. Se non lo conoscessi, sarebbe da denunciare… e adesso chi lo trova uno della Gordon disponibile alle undici di sera?”
 
Continuavo a non capire ma poco importava, il vero problema era riuscire ad andarsene da quella casa. Non volevo essere un peso, e non mi fidavo di nessuno, soprattutto di due sconosciuti di cui non potevo constatare precisamente l'identità. E se non fossero stati amici di Walter? Avevo perso conoscenza parecchie volte in poco tempo, quella notte, ed ero più fuori di un balcone. Chi poteva dire cosa mi fosse successo nei buchi di coscienza che pesavano sulla mia memoria? Colsi l'occasione quando Dan girò i tacchi per seguire Laurie nel bagno. Forse erano dalla mia parte, ma in ogni caso tutta quell'intimità mi infastidiva e mi sentivo una sorta di terzo incomodo. Non vedevo l'ora di sparire, di cercare l'unica persona che avessi davvero voglia di vedere, una persona con troppe lentiggini sulla faccia, una persona coi pantaloni a righe color prugna.
Cercando di fare meno rumore possibile nell'uscire dal mio nascondiglio, tentai di svignarmela e appena raggiunta porta capii a cosa si riferisse Dan, poco prima. Qualcuno aveva distrutto la serratura della porta, il pomello era completamente divelto e penzolava come il cadavere di un impiccato, appeso alle schegge di legno scuro, in bilico.
 
Sarà stato un ladro? No, non penso…in fondo, Dan parlava come se lo conoscesse. Walter? Non mi sembra il tipo, però.
 
Un flash.
Un flashback assurdo, un gorilla che viene scaraventato fuori da una finestra, spargendo pezzi di vetro ovunque. Rorschach e i suoi modi burberi. Un collegamento forzato, uno stupido pensiero nella testa di una ragazza fissata.
Pantaloni color prugna, gessato. Coincidenze. Il pensiero assurdo di un uomo in maschera con una ragazza svenuta tra le braccia, che spacca una serratura con un calcio, che per qualche motivo si fida abbastanza dei proprietari della porta appena abbattuta. Non proprio un gesto carino, c'è da dirlo, ma è guidato dalla fretta.
Un rossore improvviso causato dalle fantasie immotivate di una donna sconvolta, che ne ha vissute di tutti i colori, che cerca protezione nell'unica persona che abbia mai definito un eroe. Ma chi è? Il confine è nebuloso. Walter? Rorschach? Non un uomo qualunque. Quelli se li mangia come niente, lei, che ne ha vissute di tutti i colori, lei che sa badare a sé stessa, anche se non sembrerebbe affatto. No, lui è l'unico del quale si possa davvero fidare, l'unico da cui cercherebbe protezione, l'unico che l'ha tirata fuori dai guai quando davvero non sapeva dove sbattere la testa, quando lo scontro non era equo, quando si sentiva debole, schiacciata dalla tristezza di un passato buttato all'aria, di amicizie infrante, di fede mal riposta.
Ma lui chi?
 
Sarebbe molto più facile, se fossero la stessa persona. Nah.
 
Come al solito, la mia mente galoppa più del dovuto. Resta coi piedi per terra, Alex. Non è il momento di farsi dominare da stupide, inverosimili supposizioni.
“Ehi tu!”
Trasalii, i polpastrelli appena appoggiati sul legno lucido della porta, attenta ad evitare le schegge.
 
Accidenti, mai una buona volta che mi vada bene qualcosa.

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Capitolo 8
*** Home ***


Dan era proprio dietro di me e mi guardava con aria sospetta.
 
Svelta, afferrai l'anta della porta e feci per tirare, ma lui fu più veloce, e in un attimo serrò le dita attorno alla mia spalla. Feci per abbassarmi di scatto, per sfuggire alla presa, ma svelto mi passò l'altro braccio sullo stomaco, immobilizzandomi.
Non era il caso di fare la sbruffona: non ero al massimo delle mie forze, e in uno scontro ravvicinato, data la mia costituzione gracile e la differenza di stazza  avrei avuto la peggio.
Ultimamente trovavo abbastanza difficile sgattaiolare via dagli energumeni che mi si paravano davanti.
 
Mi mancano un po' i miei allenamenti mattutini in prigione: dov'è finita la mia forza? Forse sto invecchiando.
 
Non sapevo se avrei avuto il tempo di riderci su, però. In ogni caso, quest’uomo non somigliava agli altri.
Avevo subito pensato che avesse un volto gentile, e in tutta sincerità non avrei mai immaginato che potesse essere abbastanza forte da trattenermi senza alcuno sforzo. Mi aveva dato più l'aria di un pantofolaio, a dir la verità.
Uno tranquillo, tutto casa e piaceri, tutto occhiali e camicia, una persona perfettamente normale.
Non sapevo quanto mi stessi sbagliando eppure la sua espressione non era mutata, non c'era traccia di malvagità nel suo volto, solo… sorpresa e pur tenendomi in pugno non dava segno di avere cattive intenzioni.
Non opposi resistenza e mi calmai, in attesa della mia sorte.
 
Quando allentò la presa, sul volto di Dan apparve un leggero cipiglio che trasmetteva un misto di rabbia leggera e disapprovazione.
“Ma sei solo una ragazzina… cosa ci fai qui, eh?”
Irritata dal fatto che era l’ ennesimo a definirmi “ragazzina” nonostante dal viso che mi scrutava potessi dedurre che eravamo quasi coetanei, risposi con un semplice “Ehm”.
 
Si, lo so. Patetica, come al solito.
E' strano come nei film e nei fumetti sembri così facile ribattere con frasi ad effetto, perché nella vita vera non succede quasi mai, e spesso ti ritrovi a fare la figura del fesso.
Di fronte al mio fare impacciato, il suo volto si ridistese nuovamente in un'espressione rilassata: “Senti… se sei una ladra, lascia qui le cose che mi hai rubato e vattene, non ti denuncerò alla polizia.”
 
Ecco fatto. Grazie tante Walter, questa è tutta colpa tua, o di chiunque mi abbia portato qui sotto tua richiesta…diavolo, questa gente nemmeno sapeva che fossi qui? Davvero mi hai scaricato nella prima casa a disposizione? Queste persone, tra l'altro, le conosci davvero? E se fossero solo SEMBRATI gente per bene? O volevi solo liberarti di me? Ero di troppo in quel tugurio che chiami casa?
Ma perché soccorrermi allora?
 
“Non sono una ladra! Io…non so nemmeno come ci sono arrivata, fin qui!”
L’espressione di Dan si distorse di nuovo e questa volta parve davvero confuso.
“Mh… vedo che sei ferita.” Fece una breve pausa e poi riprese. “No… quindi… no, impossibile… a meno che… mah.”
Il suo meditare era talmente rumoroso che ad essere confusi ora eravamo in due, così, per evitare di peggiore la situazione, rimani in silenzio.
“Va bene, ti credo. Stai bene?”
"Si, io…io credo di sì. Temo che questi siano tuoi", aggiunsi indicando pantaloni di seta color tortora "ma giuro sulla mia vita che non me li sono infilati io…o forse l'ho fatto, non lo so…Dio, sono così confusa, non capisco più la differenza tra sogno e realtà…però sono certa di non averli tirati fuori da nessun cassetto, non saprei dove mettere le mani, e quando mi sono svegliata, nella camera in cui mi trovavo era tutto in ordine. Mi dispiace di aver usato il letto di qualcuno che nemmeno conosco, per questo me ne stavo andando in fretta. Ma puoi controllare, non ho preso nulla."
Con mia enorme sorpresa, il mio anfitrione mi rivolse un insolito sguardo comprensivo.
"Ho capito. Davvero, ti credo. Ho un amico che … beh, insomma, questo è proprio il genere di cosa che farebbe. Ma non ti dirò altro, perché non so cosa vuole che tu sappia. I pantaloni puoi tenerli, ovviamente. Sei sicura di stare bene? Di voler andare via? Mi sembri conciata piuttosto male, che è successo?"
"Aggressione in un vicolo. Qualcuno mi ha salvata, ma a questo punto, non so più chi. Potrei aver sognato tutto. Ma sì, sto bene, grazie. Meglio di prima di sicuro e mi reggo bene in piedi, quindi sono a posto. Vorrei … vorrei solo tornare a casa, adesso."
"D'accordo. Vuoi che ti chiami un cab?"
"No, ma grazie mille per la disponibilità, sono poche le persone che accetterebbero una cosa del genere … credo che mi farò una passeggiata per rinfrescarmi le idee…Ah, ovviamente mi terrò lontana dai vicoli e camminerò sulle vie principali", aggiunsi cogliendo una certa preoccupazione aleggiare sul viso del mio interlocutore.
 
In qualche modo, mi ricordava John. Era una persona gentile, dopotutto. Comprensibile che il mio salvatore si fidasse di lui.
Che fosse l'unico amico di Walter? Ma Walter c’entrava, in tutto questo? Sì, senza dubbio. Avevo addosso la sua camicia, no? Non poteva essere di Dan, rattoppata com'era e poi non potevo essermi sognata quell’appartamento. Era stato così… reale.
 
Mi fermai sulla porta, esitando per qualche secondo.
“Grazie ancora, comunque…solo, posso chiedere una cosa?”
“Dimmi”, rispose usando un tono dolce e pieno di premura.
“Come faccio a tornare sulla Ventiquattresima? Non sono qui da molto e non conosco bene New York…”
Accennando un sorriso, mi spiegò la strada più sicura da percorrere per raggiungere la tavola calda poi, subito dopo avermi ficcato in mano uno dei suoi "innumerevoli impermeabili color camoscio" mi salutò, lasciandomi andare.
 
Quando l'aria fredda della New York notturna mi sferzò il viso, mi accorsi di avere il cuore più leggero.
Mi ero lasciata alle spalle la confusione del momento ed ero solo grata di essere viva: forse tra qualche anno, avrei raccontato questa storia ridendoci su.
 
Ignorai inconsciamente perfino i manifesti comparsi da qualche giorno, appesi ovunque lungo i marciapiedi. Manifesti che annunciavano una disgrazia, e un pericolo terribile.
"Il dio americano Dr. Manhattan lascia la Terra: il nostro destino è segnato?"
Arrivai ch'era notte inoltrata, era già domani.
Quasi mi venne un colpo quando entrando vidi John in penombra, seduto al bancone con uno sguardo alquanto afflitto e palesemente più che preoccupato, stringeva un boccale di birra mezzo vuoto e in quel momento giurai di aver intravisto qualche segno del passaggio di un sostanzioso pianto solcargli il viso.
Mi sorpresi nel trovarlo in quella condizione, soprattutto visto che era solo.
 
Non aveva detto di avere una moglie?
E’ solo la mia assenza prolungata la causa della sua evidente sofferenza?
 
Finalmente parve notarmi: i suoi occhi cerchiati da vistose occhiaie purpuree si alzarono lentamente su di me e quando incrociai il suo sguardo vi lessi una scintilla di gioia e rabbia mista ad un abisso di disapprovazione, nonché un'infinita propensione al rimprovero, che sapevo imminente.
Doveva essersi preso un bello spavento, oltre che una sbronza.
Si alzò di scatto e iniziò ad urlare.
“Tu! Dov'eri finita! Manchi da molte ore e nemmeno hai avvisato!" tuonò in principio. Poi, abbracciandomi, si mise a piangere come un bambino. "Mi hai fatto spaventare … Stavo seriamente pensando di andare alla polizia! New York di notte non è affatto un posto sicuro per una ragazza."
Mi sembrava un padre che faceva la ramanzina alla propria figlia che aveva violato il coprifuoco … o una cosa del genere.
Quando mi premette la testa contro il largo petto, mi lasciai sfuggire un gemito di dolore, grazie al quale lui si accorse della benda medica che mi fasciava il cranio. Era buio, non l'aveva notata subito, ma quando la vide spalancò gli occhi terrorizzato.
"Oddio Alex! Ma sei ferita! Che è successo?”
 
Scusa John, sto per mentirti.
 
"Sono scivolata e ho battuto la testa…" ridacchiai nel modo più verosimile che conoscevo per alleggerire la tensione " …quindi un passante molto gentile mi ha portato all’ospedale. Scusa se non ho avvisato. In effetti avrei potuto dire ai medici di contattarti. Però sono venuta appena ho potuto reggermi in piedi, anche se i medici dicevano che era meglio rimanere a letto" conclusi assumendo un'aria pentita.
 
Ma a chi voglio darla a bere? Che bugia squallida.
 
Il suo sguardo apprensivo era ancora fisso su di me.
 
“Allora ti riaccompagno all’ospedale. Sei troppo pallida, non mi piace. Hanno ragione i medici, che ti è saltato in mente? Non sarai scappata vero?”
 
"M-ma no, figurati!"
 
Anche se stava andando tutto come previsto, dato che avevo sul serio bisogno di andare in ospedale, terribili sensi di colpa iniziarono a martellarmi l'anima.
 
Non mi piace mentire … soprattutto a chi non se lo merita, come John.
Ma non posso dirgli di Rorschach e di cosa mi sarebbe successo se non mi avesse salvato… no, decisamente no.
 
Il livido mi doleva, ma pensai a quanti guai gli avevo già provocato; stavo diventando un peso per lui, e una causa di stress, a quanto potevo dedurre dal suo stato. In fondo, con un po' di sforzo, avrei potuto arrivarci da sola. Dovevo solo essere forte e, soprattutto, apparire perfettamente in salute ai suoi occhi.
 
Mi misi in testa di cercare di dissuaderlo e raddrizzatami dissi: “John, grazie per tutto quello che fai, davvero ma io…non voglio recarti altro disturbo…e poi tua moglie sarà preoccupata perché non sei ancora rientrato. Con un bella dormita vedrai che domani sarò di nuovo fresca come una rosa!”
Fu tutto inutile. Quell'uomo doveva essere più testardo di me perché non sentì ragioni; sembrava quasi che il fatto che sua moglie potesse essere preoccupata non lo toccasse minimamente. E così mi feci accompagnare all’ospedale, il Bellevue Hospital Center.
Mi cambiarono la benda e fecero tutti gli accertamenti del caso: mi dissero che non avevo subito danni…eppure avevo i miei dubbi.
La tentazione di chiedere se arrossire frequentemente fosse un sintomo era grande, ma mi trattenni dal fare una domanda così scema, in un attimo di lucidità.
Quando ebbero finito, John mi riaccompagnò alla tavola calda e per tutto il viaggio non mi rivolse una parola.
Iniziavo  a sentirmi seriamente la figlia combina guai di un padre deluso, sensazione nuova per me, dato che non ho mai avuto un padre da poter deludere … e ora che l’avevo provata, potevo garantire che non era una bella sensazione.
John decise inoltre che sarebbe rimasto tutta la notte alla tavola calda giustificando il gesto dichiarando che tanto ormai era troppo tardi, ma in realtà sono sicura che non si fidasse a lasciarmi da sola… come potevo biasimarlo?
Mi addormentai abbastanza velocemente, troppo stanca per pensare a uomini in maschera e misteri.

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Capitolo 9
*** Secrets ***


22 Ottobre, era lunedì. 
John, dato quello che era successo qualche ora prima, decise di lasciarmi giorno libero e mi anticipò lo stipendio di qualche giorno. 
Sembrava quasi mi lanciasse segnali sublimali per dirmi che avrei dovuto sloggiare dal suo ufficio per trovarmi un’abitazione … aveva ragione, e così feci.
Otto del mattino, John era intento ad ascoltare il telegiornale: parlavano di un criminale arrestato e mandato a Sing Sing, ma non avevo capito chi fosse, troppo rumore causato dai clienti, tutti concentrati a discutere su questo fantomatico criminale misterioso.
 
… Il mio attentatore? Se così fosse sarebbe la prima volta che la giustizia fa il suo corso.
 
Ci speravo.
Uscita dall’ufficio, passai per la cucina e salutai Mary. Infine oltrepassai il bancone in silenzio per non disturbare John, concentrato sul notiziario.
 
Tutto normale … purtroppo.
 
Sembrava che al di fuori del locale nessuno si fosse accorto di questo arresto così “speciale” eppure la mia curiosità stava avendo la meglio sulla mia ricerca di un posto in cui vivere.
Guardai in direzione del giornalaio, lo stesso giornalaio che tempo fa mi scambiò per una ragazzina, il giorno in cui incontrai per la prima volta Walter.
 
Forse sui quotidiani di oggi c’è un articolo …
 
Ma poi mi accorsi di essere uscita senza uno spicciolo e così presi la pessima decisione di lasciar perdere e tornare all’ obbiettivo principale di quella giornata. Mi diressi verso la prima agenzia immobiliare che vidi aperta, senza farmi distrarre da nulla e da nessuno.
Trovai un appartamento modesto ma molto carino vicino al bar (così vicino che potevo vederlo dalla finestra della cucina), sarei riuscita a permettermelo, con lo stipendio della tavola calda. Mi sarei trasferita lì l’indomani, per non dare più fastidio al mio capo.
 
La fortuna a volte gira dalla mia parte … a volte.
 
Dopo aver ingurgitato un tristissimo hamburger in tutta fretta, mi fiondai nuovamente al “lavoro”. John pareva un po’ pensieroso, non si accorse nemmeno del fatto che fossi rientrata. Andai in ufficio e mi lasciai cadere sul divano rattoppato che era stato il mio letto fino ad allora; subito sprofondai in un sonno pesante, ero molto stanca anche se non avevo fatto nulla di così impegnativo, vista la nottata movimentata appena trascorsa. 
Dormii le mie belle otto ore e appena sveglia, indossai il grembiule. Aspettai che arrivasse il mio capo che, come al solito, si presentò in perfetto orario. 
Gli riferii del mio futuro trasferimento in una “casa” mia e lui mi fece i complimenti, sorridendo sincero. 
Sembrava proprio tutto perfetto. 
Almeno, lo sarebbe stato se la mia mente non avesse continuato a tartassarmi coi soliti pensieri poco appropriati, anche dopo essere tornata all’appartamento.
 
Che fine ha fatto?
 E’ scomparso, e lo stesso vale per Rorschach … cavolo.
E se quel criminale … e se il notiziario si riferisse proprio a lui o, ancora peggio, a Walter? Si spiegherebbe il perché John, fosse così pensieroso, però... no. Impossibile. Perché mai un omino riservato e taciturno come Walter dovrebbe essere così pericoloso da essere mandato a Sing Sing? Ridicolo.
 
Ancora una volta viaggiai troppo con la fantasia. 
Per più di una settimana rimasi sola coi miei pensieri. Nessuna notizia, nessuna traccia, niente di niente. 
Walter e Rorschach erano semplicemente spariti dalla circolazione, volatilizzati. 
Al telegiornale non si parlava più dell’uomo mascherato dai dubbi princìpi, e non ero ancora riuscita a recuperare una vecchia copia di qualche giornale per capire cosa mi fossi persa.
Non ho provato nei cestini di Central Park, però … no, sarebbe inutile.
Avrei dovuto pensarci una settimana fa … ormai è tardi, che sciocca.
La mattina del 31 ottobre mi svegliai particolarmente agitata: incubi terribili senza alcun filo logico mi avevano turbato
 
Non avrei dovuto imbottirmi di pollo fritto a mezzanotte. 


Mi affacciai alla finestra della mia piccola camera da letto e poggiai la mano sul vetro appannato. Una strana sensazione d’inquietudine invadeva il mio essere, ma cercai di ignorarla, ascoltando lo scroscio dell’acqua e il leggero battere ritmico delle gocce sul tetto. 
Ho sempre amato la pioggia, è rilassante.
Solita routine al lavoro, l’indomani: i clienti iniziavano a riconoscermi e a chiamarmi per nome e alcuni erano molto gentili e amichevoli, ma la mia vista ne cercava sempre e solo uno in particolare. Nessun uomo con i capelli rossi, lentiggini e occhi blu in vista, però ormai mi stavo seriamente rassegnando al fatto che non lo avrei più rivisto.
Verso le 21.30, ormai il locale era vuoto e con una scusa, chiamai un attimo in ufficio John. 
Dovevo sapere cosa ne pensava di questa misteriosa sparizione e non appena giunse andai dritto a dunque.
“John … dov’è Walter? Possibile che nessuno si sia accorto della sua sparizione?! ”
Lui mi sorrise e mi disse: “Non ti preoccupare, ovunque sia saprà cavarsela. Ora vai a casa a riposare, buonanotte.” e mi condusse alla porta, chiudendomela alle spalle.
Non provai nemmeno a chiedere ulteriori spiegazioni, sarebbe stato inutile.
 
John sapeva, e voleva lasciarmi all’oscuro.
Perché? 
Forse Walter se n’è andato … forse è fuggito.
L’ho annoiato, forse. O spaventato, dandogli troppa cnfidenza...gli ho dato così fastidio?
Per questo John non mi dice nulla? per evitarmi una preoccupazione in più? Per non ferirmi?
Forse.

 
Rincasai ch'ero uno straccio… tutti quei pensieri mi avevano stancata terribilmente e anche al lavoro era stata una giornata particolarmente intensa.
Cenai e accesi la tv, nella speranza di carpire qualche informazione utile al notiziario. Se Walter non era sparito, ma se n'era andato a causa mia, almeno avrei saputo qualcosa su Rorschach. Ero talmente presa da Walter che mi ero dimenticata di indagare sull'arresto. La mia conoscenza del fatto si limitava alle poche parole che ero riuscita a carpire distrattamente dal giornalista in tv.
Praticamente, dal 22 avevo archiviato la cosa: d'altronde, poteva anche non c'entrare nulla con Rorschach, giusto? Però, dove manderebbe un vigilante così pericoloso, la polizia? In un carcere di massima sicurezza, ovvio. E Sing Sing era un bel candidato, per questo mi aveva insospettito la coincidenza di quell'arresto con la sparizione dell'uomo mascherato.
Comunque, al notiziario non c'era niente di nuovo, quindi lasciai perdere e mi affacciai alla finestra, come se mi aspettassi di vedere Rorschach o Walter passare nella via da un momento all'altro e senza accorgermene, mi addormentai in una posizione ridicola, con una guancia spiaccicata sul vetro.

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