Ikigai

di papavero radioattivo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO P R I M O ― Era una questione di principio. ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO S E C O N D O ― Non è un appuntamento. ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO T E R Z O ― Tutto per il bene di Sasuke. ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO Q U A R T O ― Mancanze. ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO Q U I N T O ― Fare da padre. ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO S E S T O ― Neko. ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO S E T T I M O ― Ritorno a casa. ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO O T T A V O ― Le cose belle. ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO N O N O ― Ritardo (mentale). ***
Capitolo 10: *** E P I L O G O ― Ikigai. ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO P R I M O ― Era una questione di principio. ***




capitolo

P R I M O

 

Era una questione di principio.

 

 

 

«Sas’ke» Itachi lo chiamò, appoggiandosi alla porta della sua stanza. Lo osservò seduto sul letto, con la schiena curva e un libro appoggiato sulle lenzuola. Sasuke alzò lo sguardo, guardandolo attraverso le lenti degli occhiali. «Vado a fare la spesa, vuoi qualcosa?» gli chiese gentilmente, facendo un passo dentro la camera e scavalcando una valigia ancora chiusa – non gli fece notare che avrebbe doveva aprirla, e soprattutto che glielo aveva già chiesto circa due ore prima, non gli sembrava il caso.

«Pomodori» borbottò, alzando il libro e coprendosi la faccia con quello. Che bambino, si disse Itachi, sorridendo.

«Allora sai ancora parlare» commentò, facendo un altro passo in avanti, nella speranza di poter intraprendere un colloquio con suo fratello. Ma Sasuke abbassò lo sguardo e ritornò a leggere, alzando il libro davanti agli occhi. Sulle lenzuola aleggiava ancora la penna e il blocchetto degli appunti con sopra pasticciate le parole che gli aveva scritto durante il giorno. «Come non detto» si disse Itachi, facendo dietro front e scavalcando nuovamente la valigia, «Non aprire a nessuno» borbottò, andando a fare quella stramaledetta spesa.

 

  -――-

 

Itachi guardò la lista della spesa, infilando il sacchetto di pomodori nel carrello, sospirando mentre tornava a spingerlo, cercando di ambientarsi nel supermercato – per fortuna non c’era tanta gente, altrimenti ci avrebbe impiegato il doppio del tempo.

Il mutismo di Sasuke continuava ad infastidirlo, in un angolo del suo cervello. Si preoccupava che decidesse di fare così anche a scuola, o peggio ancora con l’assistente sociale. Se non dava l’impressione di essere felice – o almeno di stare bene – di sicuro lo avrebbero rispedito in Giappone. Non poteva permettersi di perderlo, di saperlo a Konoha mentre lui era a Londra a lavorare per qualche anno, o forse per sempre, lontano da lui.

Si infilò fra due file di scaffali, cercando delle uova biologiche, concentrandosi sulle condizioni orripilanti in cui le galline erano costrette a vivere piuttosto che alle scenate di Sasuke. Alzò lo sguardo, cercando tra i tabelloni appesi quello che indicava in quale corsia vi fosse il riso, e poi attraversò lo scaffale, finendo nella fila parallela a quella che aveva appena percorso.

Il suo sguardo cadde su una ragazza, in punta di piedi sul primo scaffale, probabilmente se lo sarebbe tirata addosso, Itachi se lo sentiva nelle ossa. Cercava di prendere del cibo per gatti, ma era troppo in alto e non riusciva nemmeno a sfiorarlo con le dita.

«Ha bisogno di una mano?» domandò cortese, senza prevedere che la ragazza si deconcentrasse dal suo obbiettivo e scivolasse in una frazione di secondo con il sedere sul pavimento, con un sonoro tonf. «Si è fatta male?» le chiese, aiutandola a rialzarsi mentre lei rideva, sistemandosi la canottiera che indossava e spostandosi i capelli dagli occhi.

«No, no! Sto bene, sono di pietra, non mi sono fatta nulla» gli rispose, tornando a fissare l’ultimo scaffale prima di arrampicarsi di nuovo. La prima cosa che Itachi notò furono gli occhi  e il loro taglio giapponese – grandi come quelli di Sasuke. «Comunque grazie, ma ce la faccio da sola, è una questione di principio» aggiunse, rubandolo dai propri pensieri,  allungandosi poi nuovamente per prendere il sacchetto di croccantini.

Itachi la guardò a metà tra il preoccupato e il divertito. Se non avesse chiesto aiuto o se non si fosse arrampicata sull’altro scaffale non sarebbe mai riuscita a prendere quei croccantini. Allungò la mano per afferrarli lui, ma le mani della sconosciuta gli strinsero il braccio, «Non ci provare nemmeno!» gli disse, mettendosi tra lui e lo scaffale, «Ti ho detto che è una questione di principio».

«Volevo solo aiutare…» le rispose, intontito da tutta quella determinazione. Da dove arrivava quella?

«Certo, certo, lo so» ribatté, agitando la mano come per scacciare un moscerino, «E io ti ho detto che devo farcela da sola» e annuì vigorosamente, incrociando le braccia. 

Itachi scosse il capo sorridendo, proseguendo con la spesa. Combattendo contro la voglia di girarsi a vedere se ci fosse riuscita – ma dato che non aveva sentito niente cadere per terra, sembrava stare bene. Continuò a depennare un prodotto dietro l’altro della lista, cercando poi in quel labirinto di cibo e utensili per la casa la cassa, mettendosi in coda. Solo dopo sentì un carrello muoversi in sua direzione e, girandosi, si accorse che era la ragazza che aveva cercato di aiutare prima – aveva il carrello pieno di cibo per gatti e altre cose per animali. Alla fine c’era riuscita.

«Allora ce l’hai fatta» commentò lui, ripiegandosi la lista e infilandosela nella tasca dei pantaloni.

«Avevi dubbi?» rispose lei, gonfiando il petto e appoggiando i pugni sui fianchi. Era gracile ma dava l’impressione di essere forte. Beh, si disse, sembra giapponese ma parla un inglese da vera inglese. «Il carrello» gli disse poi, indicandogli il nastro trasportatore. Itachi si era imbambolato a guardarla e aveva fatto la figura dell’idiota, fantastico.

Iniziò a svuotare il contenuto della sua spesa, sentendo la ragazza dietro di lui ridacchiare. Scosse la testa, concentrandosi sul suo lavoro, comprando anche un paio di borse di tela da poter riusare nuovamente.

«Un uomo che fa la spesa, eh?» continuò lei, appoggiandosi al suo carrello, «È un modo per fare colpo sulle ragazze o cosa?».

«Penso che sia “cosa”» rispose, cercando di essere divertente, ma evidentemente non ci era riuscito, «Mi sono solo trasferito da poco con mio fratello, tutto qui» e alzò le spalle, andando dall’altra parte della cassa per inserire i pomodori e il resto nelle borse, preparando le banconote per pagare la commessa totalmente disinteressata alla loro chiacchierata.

Mise in ordine tutta la spesa, trattenendosi dal chiedere alla sconosciuta se aveva bisogno di una mano per mettere la sabbia dei gatti sul nastro trasportatore. Ma quando prese coraggio per tentare di aiutarla, lei aveva già finito e stava già mettendo i sacchi sul carrello, facendoli cadere direttamente dal bancone all’interno della rete.

«Fai sempre così?» le domandò, mantenendosi indietro. Non voleva di certo ritrovarsi in un mare di sabbia per gatti nel caso uno di quei sacchi fosse esploso.

«È un metodo poco ortodosso ma efficace, non trovi?» e si girò verso di lui, facendogli l’occhiolino.

Tra i due, sembrava lei quella che era andata a fare la spesa per rimorchiare.

La aspettò, se non altro per una questione di rispetto – e poi perché pensava di doverla aiutare quando avrebbe messo quei sacchi in macchina, ammesso che ne avesse una. In tutti i casi, lei non sembrò protestare per la sua compagnia, e lui approfittò.

«E da dove vi siete trasferiti, voi?» chiese d’un tratto, e il tiepido sole dell’estate londinese li colpì come una frusta.

«Dal Giappone» generalizzò, nessuno conosceva Konoha, quindi neanche valeva la pena di provare a dire la città.

«Oh!» esclamò lei, «Mio nonno viene da Okinawa, sai?» e gli sorrise, «L’isola da cui viene Miyagi, di Karate Kid».

Itachi ridacchiò, allora aveva delle origini giapponesi o qualcosa del genere, «So dov’è Okinawa, ma non sapevo fosse il luogo di nascita di un personaggio di un film».

Asami si bloccò di colpo davanti ad una macchina, per un momento Itachi pensò di aver detto qualcosa di scandaloso per aver provocato quel gesto tanto bruto. «Non hai mai visto Karate Kid? Ma in che mondo sei vissuto? Bah…» e scosse la testa, aprendo la portiera del passeggero, infilandosi poi le chiavi nella tasca dei jeans. Si avvicinò al carrello, cercando di prendere a due mani il primo sacco di sabbia dei gatti. Se lo strinse al petto e trattenne il respiro, diventando paonazza e sospirando quando lo abbandonò sul sedile. Quando si girò per prendere il secondo dei cinque, Itachi l’aveva già preceduta e reggeva tra le mani la sabbia dei gatti, sorridendo mentre aspettava che lei si spostasse per farlo passare.

Con sua sorpresa, la ragazza si arrese, e lasciò che lui prendesse anche i sacchi rimanenti, quando finì, la sentì ridacchiare e mettere in macchina le buste con dentro il cibo per i gatti, «Sei uno tosto, tu, eh?» commentò, chiudendo la portiera, «Non ti arrendi mai» e prese il carrello per andare a metterlo nell’apposita fila di altri suoi simili, appoggiandosi poi alla macchina, «Beh, in tutti i casi grazie, sei stato davvero gentile» gli disse,  allungando la mano, in attesa che lui la stringesse.

Itachi non la fece attendere un momento di più, la prese la mano e sorrise, «Comunque mi chiamo Itachi» la informò gratuitamente, «È stato un piacere aiutarti con la sabbia dei gatti».

«Asami» disse semplicemente lei, scivolando via dalla sua stretta e mettendosi in macchina.

Non gli sarebbe dispiaciuto parlare con lei un’altra volta.

 

  -――-

 

Itachi prese dei libri da una delle valige, impilandoli con cura sulla libreria bianca, dal più alto al più basso.

Erano a Londra da una settimana, e nonostante tutto l’impegno che ci aveva messo non erano ancora riusciti a sistemare ogni cosa all’interno del nuovo appartamento.

Sasuke sospirò, seduto su una delle poltrone nere, passandogli svogliatamente i libri da mettere in ordine.

«Lo so che non è divertente, ma non possiamo vivere con tutte le borse in soggiorno» gli disse rivolgendogli un sorriso, ma il più piccolo si limitò ad incastrare la testa fra le spalle e a sprofondare meglio sulla poltrona.

Nessuna risposta.

Come da sei giorni a quella parte, del resto.

Itachi scosse il capo abbandonando il tomo che teneva fra le mani sul tavolino, sedendosi sul divano. «Mi è almeno dato sapere perché non mi vuoi parlare?» chiese, e suo fratello lo guardò, ricambiando il suo sguardo e facendo spallucce, come a fargli intendere che non c’era un perché, e anche se ci fosse stato non glielo avrebbe comunque detto.

«Bene» sussurrò più a se stesso ché a quella piccola testolina imbronciata, impegnata a leggere il frontespizio di ogni libro che si impilava sulle cosce.

Non potevano andare avanti così, prima o poi avrebbe avuto bisogno di qualcosa, e allora si sarebbe di certo messo a parlare.

«Pensavo di andare a cenare fuori, stasera» riprese a parlare, da solo, o con il muro, «Ti va?» gli domandò, e Sasuke scosse di nuovo le spalle, e poi annuì con un cenno del capo, portandolo al limite dell’esasperazione.

«Dovrò comprarmi un pappagallo» commentò alzandosi, spostandosi verso la penisola per versarsi un bicchiere d’acqua, «Qualcuno con cui parlare, almeno la smetto di fare dei lunghi monologhi» aggiunse, portandosi poi il bicchiere alle labbra mentre Sasuke restava di nuovo impassibile.

Incominciava a pensare che sarebbe stato meglio lasciarlo in Giappone, che fra di loro, nel loro rapporto, si era formata una crepa, e che se non avesse fatto qualcosa al più presto sarebbe diventata una voragine.

Silenzio.

«Vai a lavarti mentre finisco di sistemare», e senza rivolgergli nemmeno uno sguardo Sasuke posò i libri sul pavimento, infilandosi nella porta del corridoio che dava sulle stanze.

 

  -――-

 

Itachi mangiava in silenzio, seduto davanti a Sasuke, rassegnato al mutismo che si era protratto per più di quanto sperasse.

Aveva deciso di uscire per prendere una boccata d’aria e fargli fare un giro, sperando che si ambientasse un po’ di più, ma la serata si era rivelata un fallimento totale. Lo aveva sentito parlare soltanto per dirgli quello che avrebbe ordinato al bar-ristorante, e poi era sprofondato di nuovo nel silenzio.

«Mi sto dimenticando il suono della tua voce» gli aveva fatto notare con un sorriso, ottenendo come risposta una misera scrollata di spalle che gli aveva fatto pensare che forse aveva sbagliato qualcosa, e che la causa di quel comportamento non era un mero capriccio adolescenziale.

Sollevò il bicchiere portandolo alle labbra, facendo vagare lo sguardo per il locale semivuoto, gettando la spugna e dandogliela vinta una buona volta per tutte.

Avrebbe ripreso a parlare quando avrebbe avuto voglia di farlo. Fine della questione.

Lo guardò rigirare la forchetta nel piatto, piluccando e fissando le patatine, quando qualcosa gli urtò la spalla, facendogli rovesciare buona parte dell’acqua sul tavolo e nel piatto, oramai quasi vuoto.

«Oddio, mi scusi!», parlò la ragazza che lo aveva preso dentro con un’ingombrante borsone, mentre lui asciugava il liquido con il tovagliolo, sembrava mortificata ed imbarazzata. «Mi dispiace tanto, sono così imbranata» aggiunse, e lui alzò lo sguardo dal tavolo, incrociando finalmente quegli occhi a mandorla che aveva già visto qualche giorno prima, al supermercato.

«Si figuri, non è nulla» le rispose, ma prima che potesse aggiungere altro lei lo bloccò.

«Ma io ti conosco!» affermò sicura, lasciando cadere il borsone sul pavimento, «Sei quello del supermercato…» continuò, strappandogli un sorriso, «Itachi, giusto?» domandò retorica, e lui annuì.

«Itachi» le diede conferma, e lei sorrise accomodandosi al tavolo accanto al loro, togliendosi la casacca della tuta grigia che indossava – probabilmente era stata a fare sport.

«E quell’adorabile faccino chi è?» gli chiese, riferendosi a Sasuke che, sentendosi chiamato in causa, arrossì, chinando di nuovo la testa sul piatto, «Tuo figlio?».

Itachi scoppiò a ridere, «No, no! È il mio fratellino» le spiegò, mentre lei si allungava verso Sasuke, tendendogli la mano.

«Io sono Asami, piacere» gli disse, e lui gliela strinse, borbottando il suo nome, ma se non altro aveva parlato. La ragazza sorrise, tornando poi sulla sua sedia, «Mi sembravi un po’ troppo giovane per avere un figlio così grande, in effetti» ammise, raccogliendosi i lunghi capelli scuri in una coda di cavallo, «Ma non si sa mai, è sempre meglio chiedere, magari avevi quarant’anni e portavi tremendamente bene la tua età».

Il discorso fu interrotto per una manciata di secondi da una cameriera che, stringendo il blocchetto fra le dita, prese l’ordine della ragazza e poi se ne andò, lasciandola di nuovo libera di parlare. «Quindi…» riprese, sistemando la casacca sullo schienale della seggiola, «Come vi trovate a Londra?» domandò, accavallando le gambe, appoggiando un gomito sul tavolo mentre si sporgeva verso gli altri due.

«Beh, bene, direi» commentò Itachi, ignorando il grugnito di disapprovazione di Sasuke, «È un po’ diverso dal Giappone… ma non penso faremo fatica ad abituarci» sorrise.

«Sembrate due tipi svegli» ridacchiò Asami, iniziando a giocare con una bustina di zucchero, «Specie il piccolo cupcake» e indicò con il mento Sasuke, il quale – puntualmente – arrossì, «Certo, certo» annuì lei, «Sascake!» disse poi, quasi illuminandosi.

«Sascake?» ripeté Itachi, quasi confuso.

«Sascake» gli fece eco Asami, «Sasuke è un piccolo cupcake, non vedi?» continuò, indicando il più giovane, «ha la faccia da cupcake. Non esistono i cupcake in Giappone?» continuò.

«E tu dai nomignoli alle persone appena le conosci?» domandò Itachi, particolarmente divertito, ricevendo sotto il tavolo un piccolo calcio da Sasuke, che gli chiedeva con lo sguardo di fermare il cervello impazzito della sconosciuta. Se non parla, io non l’aiuto – si convinse Itachi, ignorandolo.

«Che ha Sascake?» domandò  Asami, quasi preoccupata, allungandosi verso il ragazzo che cercava nelle tasche della giacca qualcosa. Quando finalmente trovò una penna, prese il tovagliolo sporco e tracciò alcune linee su questo, passandolo poi a Itachi. «Che c’è scritto?» chiese curiosa.

«Che gli piace il soprannome che gli hai dato» mentì, accartocciando il tovagliolo. In realtà Sasuke gli aveva chiesto di andare via – ma la sua richiesta non coincideva con i piani di Itachi.

«Oh» Asami sembrò delusa, «Che peccato…» e in quel momento la cameriera arrivò, posando sul tavolo della ragazza un panino e una soda.

«Perché? Che pensavi ci fossi scritto?» domandò  Itachi.

Asami addentò il panino senza farsi troppi problemi – con quelle guance piene e il sorriso accennato nonostante stesse masticando, gli ricordò terribilmente un criceto. Ingoiò, pulendosi le labbra con un tovagliolo, «Magari voleva che ci scambiassimo i numeri di telefono» e prima ancora che Itachi potesse risponderle si era già allungata verso Sasuke, rubandogli la penna dalle dita e scrivendo su un tovagliolo pulito il suo numero di telefono. Piegò il foglietto e lo tenne vicino al piatto, afferrando di nuovo il panino tra le mani, «Te lo do quando te ne stai andando, va bene?» gli sorrise, dando un altro morso alla sua cena.

Itachi ridacchiò, arrotolandosi una manica della camicia, «Posso dire di no?».

«No» e sorrise con quella sua smorfia da criceto.

«Vado a pagare» disse lui, afferrando il portafoglio dalla giacca, avviandosi verso la cassa.    

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Oh, buongiorno pasticcini alla crema! ~

Che dire? Finalmente riusciamo a pubblicare Ikigai. Non sarà una long molto lunga: 10 capitoli pubblicati ogni mercoledì da oggi fino al 17 giugno. In caso di problematiche scriveremo eventuali date spostate in ogni note come facciamo già in Colla, per chi arrivasse da lì ;)

Chi fa parte del nostro gruppo facebook, insomma, sa già di che cosa parla Ikigai e del motivo per cui l’abbiamo scritta… chi invece è nuovo, deve sapere che questa è una sorta di prequel della fanfic Colla, AU universitaria dei Konoha 11 nella quale abbiamo supposto che Itachi e Sasuke si trasferissero a Londra per un poco, prima di ritornare in patria.

Motivo per cui, riteniamo che l’apparente OOC di Sasuke sia assolutamente giustificato. Parliamo di un Sasuke di quindici anni che ha dovuto abbandonare i suoi amici per attraversare il globo e mettere radici a Londra per tempo indeterminato. Insomma, non è stato facile per lui. Per questo l’idea del mutismo ci è sembrata carina e abbastanza consone al suo carattere. Ma ci teniamo ad informarvi che non durerà a lungo, non preoccupatevi! ;)

Più che Sasuke, in realtà, questa storia tratta di Itachi e di una nostra OC – detta Asami – che in Colla è la dolce-metà-quasi-signora-Uchiha, e ci sembrava carino scrivere un po’ della sua storia. Pertanto, Ikigai può essere letta indipendentemente da Colla, quindi se siete qui per la Itachi/OC siete assolutamente i benvenuti!

Il titolo, semplicemente, è una parola giapponese che corrisponde più o meno all’italiano «qualcosa per cui vivere» o «una ragione per svegliarsi al mattino». Può indicare anche una persona di cui si è follemente innamorati. Secondo la cultura giapponese, ogni persona ha un Ikigai, anche se la strada per trovarlo può essere difficoltosa e lunga.

Dato che è una impaginazione un po’ particolare, vorrei chiedere ai lettori se riuscite a leggere tutto con facilità e se i separatori si vedono tutti per bene (avrebbero un fiorellino al centro ;u; ♥).

 

Bene! Noi ci rivediamo l’8 aprile con il secondo capitolo

Alla prossima e grazie mille per aver letto ;)

 

papavero radioattivo





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Capitolo 2
*** CAPITOLO S E C O N D O ― Non è un appuntamento. ***




capitolo

S E C O N D O

 

Non è un appuntamento.

 

 

 

Calmati, Itachi. Continuava a ripeterselo, gettando il cellulare nel sedile passeggero, osservando con ansia il semaforo rosso davanti a lui.

Aveva chiamato Sasuke per dirgli che aveva visto un dojo mentre andava al lavoro,  e che forse poteva interessargli. Magari avrebbe parlato, si era detto, cercando di essere ottimista. E invece cos’era successo? Quell’ingrato quindicenne gli aveva chiuso la chiamata in faccia e mandato un messaggio poco dopo, scrivendo che la cosa non gli importava, che il karatè non rientrava nei suoi interessi. Itachi pensò, per un momento, di rispondergli per le rime e sparire fino a tarda notte, per vedere cosa sarebbe successo.

Ma la verità era che non sarebbe successo un bel niente – si sarebbe solo abbassato al livello di bambinaggine di Sasuke, e non era un prezzo che era disposto a pagare.

Respirò a fondo mentre il semaforo diventava verde, concentrandosi sulla strada piuttosto che ripensare al mutismo insensato di Sasuke. Nel momento in cui schiacciò il pedale per ripartire, un tonfo arrivò da dietro e la cintura premette contro il suo sterno, impedendogli di andare a finire con la faccia sul volante.

Un clacson gli riempì le orecchie e la serie di macchine in coda gli sfrecciarono davanti.

Ci mancava solo il tamponamento.

Respirò ancora più a fondo di prima, pregando tutti i kami che conosceva di dargli la forza e la calma di risolvere tutto senza problemi e il più velocemente possibile. Slacciò la cintura e spense la macchina, lì, in mezzo alla strada, ignorando le lamentele in inglese del resto del mondo, concentrandosi sulla sua conoscenza della lingua per patteggiare una soluzione veloce ed efficace che avrebbe giovato entrambi.

Certo, è colpa mia che non sono partito subito si disse in inglese, preparandosi la frase, l’urto non è stato tanto forte, no? Possiamo tranquillamente vedercela tra di noi, senza assicurazione. Gli sembrava perfetto.

«Itachi!» la voce di Asami gli sembrò quasi sollevata che fosse lui la sua vittima. La vide corrergli incontro e per un momento ebbe l’impressione che gli sarebbe saltata addosso. «Mi dispiace per la macchina» gli disse, chinandosi ad osservare la piccola ammaccatura, a suo dire quasi inesistente, che nemmeno si notava.

«Non preoccuparti» sospirò, tirandosi in giù la maglia, infilando poi le mani in tasca, «Va bene così. Ce la risolviamo tra di noi, okay?». Gli aveva fatto piacere vedere Asami, davvero, ma era ancora inviperito dal comportamento senza senso di Sasuke, e non riusciva a concentrarsi su quanto – per dirne una – fosse carina anche in tuta e con i capelli legati, e che di certo gli avrebbe fatto piacere vederla in un’occasione più tranquilla. Senza fratelli lunatici o tamponamenti.

«Mi piace come ragioni, Itachi» disse lei, tirandogli una leggera gomitata sul braccio, «Per questo ho intenzione di offrirti la cena, che ne dici?».

E la macchina?. Per un momento Itachi si chiese cosa avesse detto, se il suo pensiero corrispondesse a quello che poi gli era uscito dalla bocca o se Asami avesse semplicemente capito male. Guardò lei, fiduciosa in un sì, e poi la quasi inesistente ammaccatura. Beh, mettere a posto la macchina di certo non rientrava nelle sue priorità, e una cena fuori senza Sasuke perennemente con il broncio non poteva fargli altro che bene.

«Una cena può andar bene» disse poi, accennando un sorriso, e le labbra di Asami si arricciarono appena.

«Bene!» affermò felice, «se tutti quello che ho tamponato nella mia vita ragionassero come te, a quest’ora avrei abbastanza soldi per comprarmi l’Islanda!» disse, ed Itachi non capì fino in fondo se stesse scherzando, oppure se fosse davvero così avvezza agli incidenti in auto.

 

  -――-

 

Itachi si allacciò le scarpe seduto sul divano, sotto lo sguardo fisso di Sasuke che si era auto-nominato madre nevrotica e apprensiva della situazione.

«Quindi è un appuntamento?»  gli domandò incrociando le gambe, cambiando con un certo disinteresse il canale della televisione.

Il più grande gli sorrise alzandosi, scompigliandogli i capelli con il palmo della mano, «No, non è un appuntamento» rispose, dirigendosi verso la penisola della cucina, «Ti ho lasciato la cena nel microonde, è già impostato, devi solo farlo partire» lo informò, recuperando poi la giacca leggera. «Chiuditi dentro, porto le chiavi» aggiunse mentre se la infilava, «E se chiaman―».

«Se chiama qualcuno dell’Akatsuki gli dico di cercarti sul cellulare, lo so» lo anticipò lui, stendendosi sul divano e strappandogli un piccolo sorriso.

Itachi si sentiva un po’ in colpa a lasciarlo a casa da solo, ma aveva quindici anni, oramai era autosufficiente, e preoccuparsi era praticamente inutile e stupido.

   «Se entro le undici non sono tornato vai pure a letto» si limitò a dire, e poi lo salutò mentre usciva di casa, chiudendosi la porta alle spalle.

Dire che non era in apprensione sarebbe stata una bugia, dopotutto non lo aveva mai lasciato da solo, soprattutto dopo la morte dei loro genitori. Si era sempre comportato più come un padre e una madre, piuttosto che come un fratello, anche quando li avevano affidati ai loro zii.

Shisui era sempre stato più bravo con Sasuke, lo faceva ridere, sapeva farlo divertire, mentre lui si limitava a rimbeccarlo su ogni cosa, e a controllare che avesse fatto tutti i compiti, e che non si facesse male quando giocava in giardino.

Forse avrebbe davvero dovuto lasciarlo a Konoha, con lo zio Kagami e la zia, forse non era stato saggio battersi per il suo affidamento, ma oramai lo aveva fatto, e per quanto il suo fosse stato un mero atto di egoismo, teneva a Sasuke più di ogni altra cosa.

Era lui ad avere bisogno di Sasuke, non il contrario.

Salì in macchina lanciando un’ultima occhiata all’ammaccatura, certo che in qualsiasi caso avrebbe avuto il tempo per riparla più avanti, quando la sua vita avrebbe preso una piega più tranquilla, e la retta della scuola di Sasuke sarebbe stata saldata, e poi mise in moto cercando di ricordare le spiegazioni di Asami per raggiungere casa sua.

Guidò nel traffico, maledicendo Londra, il fatto che fosse stato costretto a trasferirsi per lavoro, e le pessime spiegazioni di Asami, e quando finalmente trovò la via ed il numero civico parcheggiò davanti alla palazzina, mandandole un messaggio per avvisare che la stava aspettando.

Sorprendentemente non ci volle molto prima che la ragazza uscisse dalla portineria con la mano alzata in segno di saluto, aprì la portiera e poi si accomodò sul sedile passeggero, poggiando la borsa nera in pelle fra le gambe.

«Ciao!» sorrise radiosa poggiandosi allo schienale, «Scusami, ma stavo dando da mangiare a Guinness» ammise sotto lo sguardo confuso di Itachi. Probabilmente la stava prendendo per pazza, se non lo avesse già fatto quando si erano incontrati in quel ristorante, «La mia gatta» spiegò, mettendo le mani avanti, «È incinta, e se non le doso le porzioni di cibo si mangia anche la ciotola» scherzò, rubando un sorriso al ragazzo che la guardava.

«Adesso ho capito perché avevi tutto quel cibo per gatti nel carrello» replicò, e lei annuì sorridendo.

«In realtà ne ho due, un maschio e una femmina, ma dal momento che fra qualche mese nasceranno i piccoli mi sto attrezzando» gli disse, certa che probabilmente quella era la ragione principale per cui aveva ventidue anni ed era single. Avrebbe fatto la fine di quelle vecchie che tengono i gatti morti nel freezer, e per quanto amasse gli animali l’idea non l’allettava affatto. «E tu? Hai lasciato il tuo cupcake a casa da solo?» domandò, cercando di cambiare argomento.

Itachi annuì, «Sì, ha la cena nel microonde e tutto quello che gli serve» le rispose, tenendo le mani sul volante, «Un po’ come i tuoi gatti» aggiunse, strappandole una risata.

Asami si ricompose in fretta, sistemandosi la maglia e i pantaloni, «Comunque ti porto in un bel posto, stasera» o almeno, quello che per lei era un bel posto, «Tu ci porti» si corresse poi, dato che era lui quello che guidava, «Ed io ti dico la strada».

Itachi mise in moto seguendo le indicazioni della ragazza che, come un perfetto navigatore satellitare, gli riferiva la strada con frasi come “a destra” oppure “alla rotonda prendi la seconda uscita” fra un discorso e l’altro.

«E dimmi un po’, Itachi» riprese dopo l’ennesima indicazione, «Che ci fate voi due, soli soletti a Londra?» chiese, sperando di non essere troppo invadente.

Il ragazzo rimase concentrato sulla strada, senza guardarla, «Sono qui per lavoro, e dal momento che Saske è affidato a me, siamo qui entrambi» spiegò, continuando a guidare.

Asami non si sentì di domandargli perché fosse affidato a lui, non si conoscevano abbastanza, e in più immaginava da sé il motivo per cui si fosse fatto carico del suo fratellino. «Posso chiederti che lavoro fai?» continuò a tartassarlo, decidendo che era quella la cosa più logica da dire.

«Lavoro per un’azienda ottica» le disse, rivolgendole un sorriso, «E tu? Cosa fai?».

Asami poggiò il gomito al finestrino, guardando fuori «Oltre a tamponare i bei ragazzi con la macchina?» domandò retorica, maledicendosi subito dopo della stronzata che aveva appena proferito, «Insegno karatè in un dojo, a sinistra!».

Itachi mise la freccia all’ultimo, svoltando di colpo e beccandosi gli insulti e le strombazzate del clacson dell’autista dietro di loro.

«Siamo arrivati, è quello là, il posto» comunicò, slacciandosi la cintura e aspettando che Itachi parcheggiasse.

Il ristorante era un semplice all you can eat giapponese, non molto grande, con un nastro al centro sul quale giravano piattini colorati e decorati. Asami gli fece strada con un sorriso, parlando con il cameriere che mostrò loro un tavolo per due, invitandoli ad accomodarsi.

«È un bel posticino, ci vengo spesso  a cena» disse, sfilandosi la giacchetta nera ed appendendola alla sedia, «Il proprietario è un mezzo parente di mio padre, credo» continuò, spiegando il tovagliolo e poggiandoselo sulle gambe, «Ma fra dinastie e tutto il resto non ci capisco niente, sono praticamente per il novantasette percento inglese per quanto riguarda la cultura e queste cose».

Itachi la seguì sistemando il cappotto sullo schienale, «Quindi tuo padre è giapponese» chiese, e sebbene la domanda suonò più come un’affermazione , Asami annuì.

«Anche se è nato qui, quindi non molto, in realtà» rispose, afferrando un piattino lilla dal nastro, «Ma è molto legato alle tradizioni e queste cose» aggiunse, separando le bacchette con un sonoro clack, prima di afferrare il sushi che aveva nel piatto.

Itachi la imitò sorridendole, servendosi a sua volta, «Anche mio padre era molto tradizionalista» le confessò, usando quel verbo al passato che le confermò che lui e Sasuke erano orfani. Lo guardò prendere del pollo con le bacchette, in un movimento così naturale che la fece sentire una cretina.

Erano anni che mangiava nei ristoranti giapponesi, e ancora non aveva capito come si tenessero quei due dannati bastoncini!

«È buono come in Giappone?» la domanda le uscì spontanea, era la cosa più logica che potesse chiedergli dopo il “Insegnami ad usare queste due cose”, ma non le era sembrato il caso di prendersi così tanta confidenza.

Il ragazzo portò il bicchiere alle labbra e poi arricciò appena il naso in una leggera smorfia che rese ancora più dolci i lineamenti del su viso, «Ci siamo quasi».

«Io non sono mai stata in Giappone» confessò, senza che qualcuno glielo avesse chiesto, non sforzandosi nemmeno un briciolo di reprime  il suo problema di prolissità. Parlava solo lei, doveva stare un po’ zitta.

Ecco trovato il secondo motivo per cui era single.

«Voglio dire, sono stata ad Okinawa, ma Okinawa non è né Giappone né Cina, è solo una cosa a metà, più Giappone, forse, ma comunque non lo è» farneticò mentre Itachi  ridacchiava, portandosi un altro po’ di pollo alle labbra.

Il modo in cui Asami gesticolava mentre parlava gli fece temere che potesse accecare qualche cameriere con una delle bacchette, «E non ti hanno insegnato come si tengono le bacchette?» domandò, allungando la mano libera per sistemarle le dita sui due bastoncini.

Asami arrossì, forse per la prima volta da quando si erano incontrati, «… così» le disse, mostrandole come si faceva, e poi tornò composto, mentre lei lo fissava con l’aria confusa. Provò a prendere un’alga, ma a metà strada gli cadde sul pavimento, facendola scoppiare in una risata.

«Si è suicidata piuttosto di vedermi usare le bacchette in questo modo» scherzò, tornando poi ad usarle come aveva sempre fatto, cioè nel modo più sbagliato possibile. «E Sasuke? Si sta ambientando?» gli chiese, cambiando argomento, più che altro per far parlare un po’ anche lui.

Itachi sospirò scuotendo il capo, «No, ma non ha grossi problemi con la lingua, è un ragazzino intelligente e sveglio» spiegò, come a voler dire che non era un problema di comunicazione, quanto di una semplice crisi adolescenziale, «Gli mancano i suoi amici, suppongo» aggiunse, ma in realtà non sapeva nemmeno lui quale fosse il problema. Lui non voleva parlarne, e forzarlo avrebbe solo peggiorato la situazione.

Guardò Asami inclinare appena il capo, le sue labbra dipinte di un rosa pallido si inarcarono appena, «Potresti dirgli di venire a fare karatè al mio dojo» propose, come se dandogli qualcosa da fare avrebbero potuto risolvere almeno in parte il suo mutismo e i suoi comportamenti dispotici, «Così non fa il triste asociale a casa».

Non era un’idea così pessima, ma il problema fondamentale era che Sasuke non voleva saperne di fare nulla, se non di starsene chiuso in camera sua a leggere.

«Se riesco a convincerlo» e non sarebbe stata un’impresa facile, per niente, «Ti faccio sapere per messaggio, tanto il tuo numero lo ho» le disse, preparato psicologicamente al fatto che Sasuke gli avrebbe risposto con dei versi gutturali senza un senso. «È che ultimamente non parla molto, siamo passati dallo scrivere sui fogli, ai mugolii insensati, e mi sto chiedendo se non fossero meglio i fogli, a questo punto» confessò affranto e rassegnato, recuperando un piatto di sushi dal nastro.

Asami ridacchiò coprendosi la bocca con il dorso della mano, «Quanto scommetti che in una settimana te lo rimetto in riga?» parlò poi, bevendo un sorso d’acqua, «Niente torture medievali, lo giuro» si premurò di aggiungere, come se stesse cercando di rassicurarlo sul fatto che non avrebbe legato Sasuke tirandolo per le gambe e le braccia.

«Gli parlerò…» le rispose, ed il discorso Sasuke morì lì.

La cena continuò indisturbata fra i commenti e le domande di Asami, e quando ebbero finito e si alzarono dal tavolo insistette – come aveva promesso – per essere lei a pagare, «Prendilo come una parte del risarcimento per l’ammaccatura della macchina» gli disse, e poi uscirono e salirono in auto.

«Che cosa spinge una ragazza ad insegnare karatè?» le chiese d’un tratto Itachi, concentrato mentre guidava, ed Asami si strinse nelle spalle.

«È l’unica cosa che mi resta di mio nonno, l’unica cosa che ho della mia cultura» spiegò, sistemandosi meglio sul sedile, «E poi mi piace prendere a calci la gente, è una buona valvola di sfogo» aggiunse con un sorriso, spostando lo sguardo fuori dal finestrino. «Mi fa sentire in pace con me stessa, e poi non guarda al sesso e all’età, tutti possono impararlo, esistono maestri di settant’anni che ancora si allenano» ammise, sistemandosi poi i capelli lunghi su una spalla, pettinandoseli con le dita, «Solo che al giorno d’oggi viene insegnato male da molti, quindi passa per lo sport violento che in realtà non è» concluse, poggiando la testa al sedile.

Itachi la guardò per una frazione di secondo, sforzandosi di restare concentrato sulla guida: era una bella ragazza, indipendente e simpatica, sprizzava vitalità da ogni singolo poro, come un piccolo sole che riscalda il minuscolo microcosmo che gli sta attorno.

Era stato fortunato a conoscere una persona come lei, così disponibile in tutto, forse un po’ espansiva, ma nessuno era perfetto.

«Siamo arrivati, la tua gatta ti aspetta» le disse, accostando l’auto davanti alla portineria della palazzina, «Grazie per la cena» e Asami fece un gesto con il braccio, come a voler cacciare una mosca fastidiosa.

«Te l’ho detto, e il risarcimento per la sfortuna di essere stato colpito dalla mia pessima guida» sorrise aprendo la portiera, «Fammi sapere per Sasuke» aggiunse, alzando poi la mano in segno di saluto, «Buonanotte e grazie a te» concluse, chiudendo poi lo sportello dell’auto, avviandosi verso l’entrata del palazzo.

 

  -――-

 

Itachi entrò in casa togliendosi il cappotto, accendendo la luce del soggiorno.

Sasuke dormiva sul divano, con un libro aperto sulla pancia e lo sguardo rilassato. Non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che lo aveva visto riposare così, senza quell’incubo ricorrente in cui i loro genitori venivano uccisi uno dopo l’altro.

Gli sembrò di sentire di nuovo la deflagrazione di quei proiettili, nella sua testa, mentre le sue mani tappavano erroneamente le labbra di Sasuke e non i suoi occhi.

Non doveva gridare, e non lo aveva fatto.

Gli sfiorò i capelli leggermente in disordine con una carezza, indeciso se spostarlo o lasciarlo lì, a passare la notte sul divano.

Non voleva disturbare quel sonno piatto, simile all’acqua del lago di Konoha. Non voleva essere il bambino che lanciava il sasso, distruggendo quella pacifica quiete che avvolgeva ogni cosa. Si sedette sul pavimento, sfilandosi le scarpe e la maglia, osservando il suo petto alzarsi e abbassarsi lentamente, con una regolarità che gli rilassava ogni nervo. Lo aveva protetto per tutti quegli anni, come si custodisce un fiore estremamente raro e prezioso, sotto quella campana di vetro che lui tentava di distruggere.

Forse lo odiava per questo, lo avrebbe fatto per sempre, ma poteva accettare anche questo, anche di essere odiato pur di dargli una vita felice e serena.

Si alzò recuperando una coperta, avvolgendolo in quella, fino alle spalle, e poi poggiò delicatamente la fronte contro la sua.

«Buonanotte, Saske» mormorò piano, con un filo di voce, avviandosi poi verso la camera da letto.

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Che dire? Beh, non c’è molto da dire!

Le cose tra Itachi ed Asami si stanno muovendo, pian pianino

Lasciamo a voi le varie considerazioni, informandovi solo che gli zii di Itachi e Sasuke sono Kagami e sua moglie e che, quindi, Shisui è il loro cugino.

Scusate per la pochezza delle note, ma oggi è una giornata un po’ impegnativa ;)

 

Ringraziamo il seguito che Ikigai ha ricevuto già dall’inizio… non ce lo aspettavamo affatto!

Noi ci rivediamo il 15 aprile con il terzo capitolo

Alla prossima e grazie mille per aver letto ;)

 

papavero radioattivo





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Capitolo 3
*** CAPITOLO T E R Z O ― Tutto per il bene di Sasuke. ***




capitolo

T E R Z O

 

Tutto per il bene di Sasuke.

 

 

 

Quando mise il piede in quella scuola, il primo desiderio di Sasuke fu quello di ritornare a casa e abbandonarsi sul letto fino a quando non sarebbe morto di fame o di sete.

La sua prospettiva di vita, mentre avanzava lungo quei corridoi caotici e puzzolenti, era quella di diventare un NEET, un né-né, un madao… gli sembrava geniale. Tornare a casa e chiudersi in camera giocando con il cellulare e leggendo libri fino a fondersi con il pavimento. Arrivare a sessantacinque anni e venire definito «vecchio completamente inutile» – appunto, un madao – gli sembrava cento volte migliore che rimanere in quelle quattro mura.

Se fosse diventato un NEET, di certo Itachi si sarebbe dimenticato di lui e magari si sarebbe sposato con quella certa Asami, avrebbe fatto la sua bella vita da inglese e lo avrebbe condannato a vivere in uno sgabuzzino senza luce lontano dai suoi amici.

Sospirò, andando in segreteria per chiedere dove andare e che cosa fare, ripetendo continuamente alla vecchiaccia con un improbabile color giallo canarino in testa di parlare più lentamente: era nuovo e straniero e non riusciva a seguire quella parlantina. Aveva già deciso di odiarla, e niente avrebbe potuto fargli cambiare idea.

Sto pensando come un vecchio, borbottò tra sé e sé, mentre si dirigeva verso la sua classe. Arrivando prima della campanella forse nessuno si sarebbe accorto di lui e quindi non si sarebbe dovuto presentare. In caso contrario, stava già pensando ad una presentazione sufficientemente esauriente, in modo che nessuno potesse fargli delle domande.

Mi chiamo Sa-su-ke Uchiha e vengo dal Giappone. Si disse, scandendo bene il suo nome per pronunciarlo nel modo più inglese possibile. Sa-su-ke… Sa-s-ke. No! Aveva sbagliato, e se non riusciva a dirlo nella sua testa, era impossibile che potesse far uscire quelle sillabe anche dalla propria bocca. Mi chiamo Saske Uchiha e vengo dal Giappone, no, non sono nato a Tokyo, ma da una città più piccola che si chiama Konoha. Mi piacciono i gatti e i pomodori, e odio questo posto.

Forse sarebbe stato meglio cancellare quell’ultima frase…

Immerso nei suoi pensieri, Sasuke non si accorse del mormorio che aveva iniziato ad occupare l’aria attorno a lui, e per un momento pensò di essere l’argomento di quel chiacchiericcio che si era creato. Si guardò le mani e poi il petto, cercando un qualche difetto nella divisa che indossava, per un momento pensò persino di essere andato a scuola con le pantofole, per cui si controllò anche i piedi. Niente: era perfetto. Sospirò ancora più profondamente di prima, appoggiando i gomiti sul banco e massaggiandosi gli occhi stanchi, gli sarebbero venute le occhiaie come quelle di Itachi, ne era certo.

«Sei nuovo?» domandò una voce da ragazza. Disattento e nemmeno così incline allo scambio di battute com’era, Sasuke ci mise qualche secondo per elaborare che stavano parlando con lui e che cosa gli avevano detto. Si girò verso la sconosciuta, ritrovandosi rosso in viso per l’imbarazzo del momento (perché doveva parlare con una ragazza, eh, Kami?), annuì nascondendo le mani sotto il banco, prima di alzarsi e chinare piano la testa, «Sono Saske Uchiha e vengo dal Giappone» disse frettolosamente, sentendo altre persone ridacchiare.

«Io sono Emily…» rispose lei, prendendolo per le spalle per metterlo dritto, «Non so se nel vostro paese siete così rispettosi, ma qui non c’è bisogno di inchinarsi…».

Sasuke non capì perché lo aveva fatto, in effetti, dato che sapeva che in Inghilterra il massimo del rispetto era stringersi la mano, neanche si chiamavano per cognome! Avrebbe dovuto riferirsi ad una totale sconosciuta chiamandola per nome? Neanche se lo avessero pagato. Borbottò tra sé e sé, tornando seduto al suo posto mentre chiudeva il quaderno su cui aveva scarabocchiato minacce di morte verso il fratello.

In realtà, Sasuke non capì nemmeno perché aveva risposto a quella domanda, cercando praticamente di fare amicizia con una persona.

Lui fare amicizia con qualcuno di quel posto? Non stava né in cielo né in terra.

Kami, fulminami adesso. Neanche Naruto era così cretino.

«Questo tipo è strano…» mormorò una ragazza dietro “Emily”, vicino all’orecchio di lei. Sasuke capì perfettamente – mannaggia  a lui – quello che le aveva detto, e quelle parole non fecero altro che stressarlo ulteriormente, spingendolo a chiudersi nel suo guscio.

La campa suonò, aumentando il casino attorno a lui mentre i ragazzi prendevano posto. Emily lo salutò con un mezzo sorriso dicendo che sarebbe tornata dopo.

Il resto della giornata fu noioso come solo un primo giorno di scuola poteva essere. Emily, di fatto, era tornata a parlare con lui, appoggiandosi al suo banco come se si trattasse di casa propria, facendogli domande a caso su di lui e sul Giappone. Presto, un gruppetto di curiosi di cui Sasuke non conosceva nemmeno il nome si erano messi attorno a lui come per soffocarlo.

Rispose a tutte le domande come se fosse un interrogatorio, ricordandosi le chiacchierate che si faceva con l’assistente sociale di tanto in tanto. Non era molto diverso da quella situazione, alla fine: in entrambi i casi doveva sorridere ed annuire.

«Ti manca casa tua Sasuke?». Un po’.

«Ti sei abituato alla pioggia?». Non tanto.

«Ma i tuoi genitori sono inglesi o giapponesi?». Alzò lo sguardo, cercando quella voce che gli aveva fatto quella domanda sfrontata e, alle sue orecchie, stupida: aveva la faccia di un inglese? Di uno abituato alle stupide maniere inglesi? Aveva un cognome inglese o una parlata inglese? Era evidente che odiasse quel posto, che non avesse niente a che fare con quella stupida isola (anche il Giappone era un’isola, ma non era stupida come l’Inghilterra) e allora per quale motivo i suoi genitori dovevano essere inglesi.

«Sono giapponesi» borbottò, «Però vivo qui a Londra con mio fratello, i miei genitori sono…» ingoiò qualcosa che gli bloccava la gola, impedendogli di respirare, «sono spesso via, quindi sono stato affidato a lui».

Aveva la scritta “bugiardo” sulla fronte, ma nessuno se ne accorse.

«CHE FIGATA!» urlò uno,  «Anche io vorrei vivere con mio fratello e basta! Giocheremmo alla Playstation tutto il tempo!».

«Tuo fratello è un cretino!» gli disse un altro in risposta, picchiandolo sulla spalla.

«EHI! Non dire che mio fratello è un cretino, tu sei un cretino!» ribeccò.

«Come si dice “cretino” in giapponese, Sasuke?» domandò Emily, facendo zittire tutti e due che, assieme agli altri, sembravano aspettare una risposta.

Prima che partisse Shisui gli aveva detto che le parolacce sono le prime parole che una persona impara di un’altra lingua.

«Cretino?» ripeté Sasuke, cercando di comprendere appieno il significato di quel sostantivo. Ci pensò su, scarabocchiando linee senza senso sul quaderno, «Teme, immagino» concluse.       

 

  -――-

 

Sasuke aprì la porta di casa senza proferire parola, sfilandosi la giacca e trascinando lo zaino sul pavimento.

«Ciao, Saske!» la voce di Itachi arrivò dal tavolo della cucina, dove lui ed uno strano uomo palestrato stavano in piedi, davanti a delle tazze di caffè.

Fu indeciso sul da farsi, se rispondere oppure fiondarsi in camera senza parlare, ma il ricordo della voce dello zio Kagami che diceva “Saluta, Saske! Non essere maleducato” gli impose di ricambiare.

«Ciao…» era tutto quello che aveva da dire, non si sarebbe sprecato più di tanto.

Itachi si girò verso di lui, «Questo è Kisame Hoshigaki, un mio collega» sorrideva, e che diavolo avesse da sorridere Sasuke non lo aveva ancora capito. Solo a lui piaceva stare a Londra, e non bastava la presenza di Asami ad ossessionarli, ora ci si metteva pure quel tizio strano e francamente brutto.

«Piacere» aggiunse allora, tanto per far contento suo fratello e non essere totalmente sgarbato, e poi continuò a camminare verso la sua stanza.

Odiava Londra, odiava dover andare a scuola in quel posto, e detestava pure che in quell’equilibrio familiare che avevano creato si venissero ad inserire degli estranei.

Itachi sospirò guardando Kisame con un’espressione che sembrava chiedere scusa, «Com’è andata a scuola?» domandò poi, quasi urlando, ma nessuna risposta arrivò dal corridoio, soltanto la porta della stanza che sbatteva.

Perfetto.

Kisame lo guardò con un sorriso, «Ed io che stavo per dirti che hai almeno lui che ti tiene allegro!» scherzò e Itachi scosse il capo, accompagnandolo alla porta.

«Non si trova bene, solitamente non è così» ammise con l’ennesimo sospiro preoccupato.

Erano a Londra da un bel po’, oramai, ma Sasuke non voleva ancora saperne di uscire dal suo mutismo, nemmeno andare al dojo, da Asami, l’aveva aiutato a rimettersi in carreggiata. Anzi, lo aveva pure accusato di aver macchinato tutto solo per vedere più spesso la ragazza.

Un altro rumore arrivò dal fondo del corridoio, seguito da un’imprecazione, «Non vado a karatè!» affermò Sasuke dal bagno, probabilmente, dove era inciampato nella cesta dei panni sporchi, ed Itachi non rispose. Non era il momento di litigare, non con ospiti in casa.

«Ne parliamo quando ho finito qui» gli rispose, e poi salutò Kisame, dandosi appuntamento per il giorno dopo.

Itachi chiuse la porta tornando poi a sistemare le scartoffie che aveva lasciato sul tavolo, le impilò e le ripose nella ventiquattrore, pensando a cosa diavolo passasse per la testa di suo fratello in quel periodo. Sciacquò le tazze del caffè e le infilò nella lavapiatti, e poi sospirò, raggiungendo Sasuke in camera.

«Ehi…» lo chiamò socchiudendo la porta, guardandolo mentre trafficava con il cellulare. Non uno sguardo, nemmeno mezzo.

Si sedette ai piedi del letto, prendendogli la caviglia, aspettando che lui lo considerasse con scarsi risultati, «Perché non ci vuoi andare?» chiese, e Sasuke si strinse nelle spalle, poggiandosi il telefono sulla pancia.

«Perché non mi va» rispose, guardandolo con quell’aria di sfida, mista ad una certa superiorità. Era chiaro che non fosse per quello, quanto per il mero piacere di dargli contro in qualsiasi cosa.

Itachi gli lasciò il piede, «Va bene, allora non andarci» era tutto quello che aveva da dirgli, fine. Che facesse quello che voleva, lui era sull’orlo dell’esasperazione, non gli andava di discutere. Si alzò in piedi, deciso a lasciarlo nella sua depressione, ma il più piccolo lo fermò, mettendosi seduto con uno scatto.

«Non mi piace stare qui» gli disse, bloccandolo a metà della stanza, «Ma tanto a te non importa, ti importa solo del tuo lavoro, di Asami e di fare bella figura con l’assistente sociale» si lamentò, inginocchiandosi sul materasso. «Non mi hai nemmeno chiesto se ci volevo venire, in questo posto di merda!» continuò, esprimendo quello che da settimane si teneva dentro, «Quindi te lo dico adesso: voglio tornare a casa!». Parlava con lo sguardo basso e le mani strette alle lenzuola, il cellulare mostrava la scritta “GAME OVER” sullo schermo.

«Sei arrabbiato perché ho chiesto il tuo affido?» domandò Itachi, cercando di mantenere la calma, «Preferivi stare con gli zii?».

Sasuke immaginò per un momento Itachi partire senza di lui, abbandonandolo a Konoha tra le grinfie di Kagami. Certo, lui voleva bene agli zii, ma quando aveva un problema cercava suo fratello, prima dello zio. Alzò il viso, asciugandosi quei due infantili lacrimoni che lo rendevano così bambino che ebbe paura che Itachi ridesse di lui, «Non ho detto questo!» pigolò, schiacciandosi contro la testiera del letto, «Ho detto che non ci volevo venire, qui a Londra, e che tu mi hai costretto, e che fai finta di niente e…» si fermò lasciando perdere un attimo quella lunga lista di “e” che stava dicendo, e poi respirò mentre Itachi si sedeva di fianco a lui, riprendendogli la caviglia, «E non mi piace Asami, e andare a karatè da lei, e la scuola, il cibo, la lingua…».

«Ti mancano i tuoi amici?» chiese apprensivo lui, sforzandosi di nascondere tutto il dolore che provava nel vedere il fratello così. Almeno parla, si consolò in un sospiro, «Sei arrabbiato perché non ti ho chiesto se ti andava di trasferirti a Londra con me?».

Simile ad un cucciolo ferito, Sasuke annuì.

«Ed è imperdonabile!» riprese il più piccolo, «Non si tratta così un fratello minore!  Non sono un animale domestico che ti porti dove vuoi…».

«Beh, allora avrei fatto meglio a lasciarti a Konoha con Kagami» concluse lui.

«No!» ribatté, mettendosi sulle ginocchia, «Non ho detto che volevo rimanere a Konoha con lo zio».

Si stava sentendo? Okay che nell’adolescenza una persona cambia decisione spesso, ma qua si stava superando il limite della decenza… «E allora che volevi, Saske?» domandò, ormai spazientito Itachi, «Io sarei venuto comunque a Londra per lavoro, non potevo fare diversamente, lo capisci?» domandò, senza ottenere risposta, «Non potevo partire sapendo che eri a Konoha con Kagami, non mi piaceva l’idea di essere così lontano» proferì.

Sasuke tirò su con il naso, annuendo un poco, «Ma io odio comunque questo posto…» borbottò.

«Non è che a me piaccia più di tanto, stupido» rise Itachi, avvicinandosi a lui per scompigliargli i capelli, «Però ci posso fare qualcosa? Mi hanno spostato qui a Londra e se dicevo di no mi licenziavano… in più mi pagano molto più di prima, è grazie a questo che mi sono potuto permettere di chiedere il tuo affido».

Sasuke ricordava, in aereo, che Itachi gli aveva detto qualcosa in proposito. Il fatto che fosse così giovane e single non erano buone notizie, ma era pur sempre suo fratello e grazie al lavoro fisso e ben pagato aveva ottenuto l’affido. Alla fine era tutto per il bene di Sasuke.

Che bene del cavolo.

«E comunque non voglio più sentire certe parole uscire dalla tua bocca, altrimenti te la faccio lavare con il sapone!» scherzò poi, stringendogli la guancia in un odioso e dolorosissimo choppy-choppy di cui Sasuke si liberò non facilmente.

«Parli come la zia, adesso» rispose Sasuke, massaggiandosi le labbra.

«Cosa?!» Itachi sembrava sconvolto, ma era ovvio che fingesse. In tutti i casi, quella faccia esagerata lo fece sorridere, «Ti sembra che io sia una vecchia strega che non sa cucinare?».

«La zia non è una vecchia strega che non sa cucinare!» e Sasuke si alzò in piedi sul materasso, spingendo Itachi per una spalla, «Tu sei una vecchia strega che non sa cucinare! Non facciamo altro che mangiare cibo surgelato o d’asporto!».

«Beh» iniziò Itachi, tirandosi in piedi, «Se ti dà tanto fastidio che i miei soldi paghino qualcun altro per portare a casa del cibo buono e caldo…» continuò, e prese uno di quei lunghi e teatrali respiri, degni di una scena di un qualche anime.

Ora mi dirà che ci dovrò pensare io a cucinarmi il cibo, sicuro pensò Sasuke, arreso all’idea di digiunare per un giorno e mezzo, «Morirò di fame» gli disse.

Il suo commento fu bellamente ignorato, Itachi lo guardò senza capire, prima di schiarirsi la voce e rimettersi la camicia nei pantaloni, cercando di ridarsi un’aria composta e sobria, «In realtà stavo per proporti di andare a mangiare in un certo ristorante Giapponese che ho visto a qualche isolato da qui…».

Sasuke sorrise, non tanto perché finalmente non si mangiava d’asporto o surgelato, ma vedere il fratello così felice, mentre si puliva gli occhiali con un fazzoletto di stoffa che teneva in tasca, gli assicurava che non fosse così arrabbiato per tutte quelle cattiverie che aveva detto.

Balzò giù dal letto con un salto, e Itachi lo prese per il braccio, stringendoselo in un abbraccio, «Non volevo rimanere con la zia e lo zio in Giappone se tu venivi qui a Londra… ma io odio comunque questo posto» borbottò contro il suo petto.

Itachi lo strinse piano, con quel fare protettivo che aveva sviluppato dalla morte dei loro genitori, «Ma io non potevo rimanere a Konoha».

«Lo so» borbottò, «Però ci torneremo, a Konoha, vero?» domandò speranzoso. Alzò gli occhi verso Itachi, osservandolo sorridere ed annuire.

«Penso proprio di sì…» rispose, «Senti…» continuò, cambiando argomento, «Davvero non ti piace Asami?» domandò, e dalle guance rosse sembrava davvero preoccupato per la risposta che il più piccolo poteva dargli.

Sasuke, invece che rispondergli, ridacchiò divertito, scoppiando poi in una risata, «Guardati la faccia, sei tutto rosso!» lo derise, puntandogli l’indice contro, «Ti piace una ragazza!» cantilenò, prima che il più grande gli saltasse addosso, catturandolo in una stretta ferra, facendogli il solletico, appellandolo come uno «stupido moccioso che non capiva niente».

Già, Sasuke sembrava proprio non capire niente. 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Ehilà ;)

Siamo ritornate con un nuovo capitolo di Ikigai che, anche se non viene seguita attentamente e da un pubblico vasto come quello di Colla, ci fa ugualmente piacere condividere con voi

Che dire? Beh, essendo la vita di Sasuke e Itachi, ci è sembrato giusto dare uno straccio della scuola che il più piccolo frequenta, giusto perché il primo giorno in una scuola sconosciuta è un evergreen e a noi piacciono gli evergreen da rendere il meno banale possibile! Speriamo di essere riuscite nell’intento~ Per quanto riguarda la traduzione di «cretino»  in «teme», vedetela come una licenza poetica: teme ha vari significati dipendendo dal sito che si consulta, ma alla fine il senso è sempre quello XD Inoltre Sasuke non conosce ancora molto bene l’inglese… più che altro è stata una scelta fatta per muovere in voi un po’ di feels

Per il resto… beh, siete voi i lettori, giudicate a vostra discrezione!

 

papavero radioattivo





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Capitolo 4
*** CAPITOLO Q U A R T O ― Mancanze. ***




capitolo

Q U A R T O 

 

Mancanze.

 

 

 

Quella mattina, quando Sasuke raggiunse la cucina, Itachi era davanti ai fornelli con un grembiule imbarazzante.

«Buongiorno» gli disse, restando concentrato su quello che stava cucinando, mentre lui apriva stancamente il frigorifero, ancora in pigiama.

«Ciao…» borbottò recuperando il latte, poggiando il cartone sulla penisola, «Perché sei a casa?» dopotutto era strano, solitamente spariva verso le cinque del mattino e tornava – quando andava bene – verso le quattro. Si era quasi disabituato alla sua presenza in casa la mattina, da quando aveva incominciato a lavorare Itachi non passava molto tempo con lui, e non era certo che la cosa gli dispiacesse.

Itachi si girò con il manico della pentola stretto fra le dita, «Non lavoro oggi» si limitò a rispondergli, e poi sorrise, mostrandogli l’uovo che se ne stava nella padella, «Ti vanno le uova?» gli domandò poi, sbrigativo, cambiando argomento. Il suo lavoro era un gigantesco mistero, non ne parlava quasi mai, e quando lo faceva dava risposte veloci, cambiando subito dopo argomento.

«Sono come quelle che fa la zia» ammise lui, come se quel semplice uovo gli avesse ricordato il profumo di casa, il sorriso di zia Ran quando gli preparava la colazione a Konoha, in quella villetta accogliente che non era sua, ma che lo era diventata dopo la morte dei suoi genitori.

Se c’era un posto che poteva davvero chiamare casa, quello era la casa di Kagami e di Ran.

«Ci somigliano, ma di sapore non lo so» scherzò Itachi, e poi gli servì la colazione, poggiandogliela sul tavolo, «Mangia, poi ti accompagno a scuola».

Dopo l’ultima discussione che avevano avuto suo fratello sembrava sforzarsi il più possibile di essere presente, di renderlo felice, e per la prima volta da quando si erano trasferiti, davanti a quel piatto di uova, si sentì improvvisamente in colpa per tutto quello che gli aveva detto, per come lo aveva trattato.

Non era stato coretto, si era comportato da egoista mentre Itachi faceva tutto quello per lui.

Era stato uno stupido.

Si portò un pezzo di uovo alle labbra, lo assaporò con calma, e poi spostò gli occhi su Itachi, poggiato al piano cottura mentre beveva la sua tazza di caffè, «Ho mangiato di meglio» gli disse, e le labbra si suo fratello si arricciarono in un sorriso.

«Sbrigati, o farai tardi» gli disse, e poi abbandonò la tazza nel lavandino, attraversando il corridoio.

Alla fine riuscirono ad uscire di casa in orario, Itachi lo lasciò davanti a scuola con la promessa che sarebbe anche andato a prenderlo, e poi se ne tornò a casa.

Le giornate in cui non doveva lavorare sembravano non passare mai, poteva fare la polvere, lavare il pavimento e fare il bucato, ma una volta finito non gli restava più nulla da fare, e così se ne stava sul divano a leggere, con gli occhiali sul naso.

Era arrivato a pagina centododici quando il cellulare vibrò sul bracciolo del divano, catturando la sua attenzione.

 

ASAMI MIYAGI

 

Ehi, che ne dici se stasera andassimo a mangiare qualcosa assieme?

 

Quella domanda lo spiazzò.

Non sapeva esattamente cosa ci fosse che non andava bene in quel messaggio, semplicemente si sentì le guance andare in fiamme e le mani diventare di pietra, incapaci di rispondere a quello che – evidentemente – era un appuntamento.

Accidenti, Shisui aveva ragione quando diceva che lui non ci sapeva affatto fare con le ragazze. Sorrise al ricordo delle gomitate nei corridoi del liceo, quando il cugino lo guardava ammiccando ad una ragazza che lo aveva appena salutato. Per un momento, si focalizzò sul volto di quella sconosciuta e vide il sorriso solare di Asami. Shisui avrebbe detto sicuramente che doveva sbrigarsi e rispondere di sì.

«Una donna come quella non si incontra in tutte le dinastie!» immaginava Shisui ripetere la battuta dell’Imperatore della Cina nel cartone animato Mulan, chiudendo gli occhi mentre si accarezzava una lunga barba bianca inesistente. Glielo avrebbe detto sicuramente, non era difficile sentire il suo irritante falsetto che gli chiedeva se tale ragazza gli piaceva, se sarebbe uscito con quell’altra e via dicendo.

Asami e Shisui si sarebbero di certo piaciuti, magari sarebbero diventati amici… avrebbero sicuramente complottato contro di lui.

Non era una cattiva prospettiva di vita, in realtà.

Riempì i polmoni di aria, ritornando con i piedi per terra e poggiò i pollici sulla tastiera, digitando velocemente la risposta.

 

Nessun problema! Ti passo a prendere io alle 20, va bene?

 

Ed inviò il messaggio prima che potesse pentirsi di aver dato ascolto all’Imperatore Shisui.

Se la storia con Asami prendeva delle pieghe positive gli avrebbe raccontato tutto. Di certo il cugino gli avrebbe detto che voleva conoscerla al più presto, che Itachi finalmente si era deciso a concedersi ad una donna, e data la rarità della situazione era il caso che i due si sposassero immediatamente e procreassero una banda di piccoli Uchiha chiacchieroni.

Di nuovo, sentì il sangue affluire sul viso e non poté non spiattellarsi la mano sulla faccia.

Neanche poteva definirsi «amico» di Asami che già pensava – anche se indirettamente – a matrimonio e figli! E Sasuke dove lo metteva? Scosse la testa, alzandosi mentre abbandonava il cellulare sul divano, iniziando ad avviarsi verso la cucina per preparare la cena al fratello.

 

  -――-

 

Con il fatto che fosse giapponese e che di giapponesi a Londra non se ne vedevano tanti, Sasuke era riuscito ad inserirsi nel gruppo classe senza particolari problemi – anche se non aveva chiesto di integrarsi. Aveva fatto un indirizzo e-mail sotto ordine categorico (travestito da piacere) da parte dello zio Kagami e del cugino Shisui, i quali affermavano che attraverso quella avrebbe potuto parlare con i suoi amici senza spendere soldi in telefonate.

Itachi era riuscito ad avere una connessione internet solo due settimane dopo il loro arrivo ed  aprire la casella di posta gi faceva paura. Probabilmente Naruto gli aveva mandato anche dei messaggi sul cellulare, ma Sasuke aveva dovuto anche cambiare il numero di telefono, e di conseguenza non li avrebbe mai letti.

Quando, il giorno prima, raccolse tutta la sua forza di volontà e aprì la casella delle e-mail, dovette trattenere il respiro davanti a tutti quei messaggi di Naruto dai titoli lunghissimi e tutti in maiuscolo.

Che problemi aveva?

Sospirò, osservando che l’ultima mandata era di poche ore fa.

Preso dalla forza di volontà di poco prima, fece scorrere la pagina fino ai primi messaggi che gli avevano mandato. C’era una mail dove tutto il gruppo dei ragazzi lo salutava e gli chiedeva se Londra era bella e se le ragazze erano interessanti, un messaggio di Sakura – dai toni timidi ed un po’ tristi – che gli chiedeva se poteva darle il suo numero di telefono, così poteva chiamarlo ogni tanto, e qualche messaggio di Naruto che scriveva quanto lo divertisse scrivere lei mail e che pretendeva una risposta a tutte. Naruto usava un sacco di emoticons e di grassetto, rendendo la lettera illeggibile – ma tutto sommato divertente.

Ancora qualcosa di Sakura, sempre meno frequenti. Anche Shisui gli aveva scritto, chiedendogli com’era la scuola, sempre delle ragazze, della lingua… gli aveva anche raccomandato di fare il bravo con Itachi, che suo fratello ci teneva a lui e le solite cose che aveva già sentito dirsi del diretto interessato.

Più leggeva tutte quelle mail e guardava il giorno in cui erano state spedite, più si sentiva in colpa: aveva senso rispondere a tutte? No… forse era meglio considerare solo l’ultima. Pensò anche di scrivere una mail a ciascuno dei suoi destinatari scusandosi di aver tardato a farsi vivo, ma non avevano la connessione. Shisui, però, doveva saperlo sicuramente, quindi parlargli non avrebbe avuto senso.

Naruto e Sakura… un groppo gli si bloccò in gola, offuscando i suoi pensieri: che avrebbe dovuto fare? L’ultima mail di Naruto era piena di insulti perché era ormai quasi un mese che non si faceva sentire e l’idea di rispondere a quell’idiota biondo lo stufava ancora prima di iniziare, non diceva niente riguardo a Sakura, che invece si era fatta sentire una settimana fa con una breve mail nella quale diceva di essere preoccupata. Forse era meglio scrivere a lei, cercare di scrivere delle scuse convincenti (si sentiva davvero in colpa, Sasuke, ad essere scomparso) – ma più pensava alle parole che avrebbe dovuto scrivere e più si sentiva inadatto alla situazione.

Cliccò sul quadratino rosso e osservò le frasi in un inglese improbabile di Naruto sparire dalla sua vista, lasciando il posto ad uno schermo a tinta unita quasi totalmente vuoto.

Anche se prendere quella decisione lo disturbava, sapeva che probabilmente non avrebbe scritto niente a nessuno, che si sarebbe lasciato morire su quel letto e che sarebbe andato avanti con la sua vita a Londra. Forse sarebbe ritornato a Konoha, anzi, sicuramente sarebbe ritornato. Per quanto cercasse di essere un duro, capace di adattarsi ad ogni situazione, non poteva negare che il Giappone avrebbe avuto sempre quel qualcosa in più di qualsiasi paese, non soltanto dell’Inghilterra.

Si stese sul letto, afferrando il libro che aveva iniziato qualche giorno prima per procedere con la sua lettura. Leggere lo avrebbe aiutato a dimenticare.

Forse, finire nell’ombra era la miglior soluzione – magari lo avrebbero dimenticato.

Sapeva di star solo mentendo a sé stesso.

 

  -――-

 

Asami infilò le mani in tasca sorridendo, stringendosi nel cappottino che indossava, l’aria fresca le scompigliava i capelli sciolti, facendola rabbrividire. Non era stata una geniale idea andare a fare un giro ad Hyde Park dopo cena, ma almeno avrebbero digerito quello che avevano mangiato – tralasciando che la compagnia era ottima.

Si trovava bene con Itachi, era a suo agio, e in più lui era pure carino e dolce, con un bellissimo sorriso.

«È il mio parco preferito» ammise passeggiando lungo il fiume illuminato dai lampioni, «Ci venivo sempre con mio nonno, quando ero bambina» spiegò calciando un sassolino con la punta della scarpa, «E poi è pieno di anatre» cosa importante, dato che lei ci andava quasi tutti i giorni a lanciargli del pane raffermo.

Itachi spostò lo sguardo sull’acqua, dove alcuni germani dormivano con il becco nascosto fra le piume, «Ti piacciono gli animali» disse, e ad Asami non sembrò una reale domanda, più una constatazione.

Annuì, «Mio padre dice che ne sono ossessionata» e in fondo aveva ragione, quando si era presa il suo appartamento era arrivata al punto di avere in casa quattro gatti, due conigli, un piccione dall’ala ferita, e delle tartarughe, ma nel giro di due anni i suoi genitori erano riusciti a convincerla a tenere solo due gatti, i suoi preferiti, che presto si sarebbero moltiplicati. «A te non piacciono?» era importante che dicesse di sì, lei non usciva con ragazzi a cui non piacessero gli animali, dato che pensando al futuro avrebbe voluto averne in casa. Ma il loro non era un appuntamento, non stavano uscendo come coppia, più come amici, forse, o almeno così credeva. Non le era più tanto chiaro il loro rapporto, e nemmeno che cosa lui sentisse per lei.

«No, mi piacciono» le rispose continuando a passeggiarle accanto, «Quando ero bambino mia madre aveva un gatto, ma poi è scappato» c’era qualcosa nei suoi occhi che nascondeva una tristezza che le faceva quasi paura. Ogni volta che nominava la sua famiglia sembrava sprofondare in qualche abisso lontano, diventava più freddo, rigido, e lei non poteva farlo altro se non osservare come si chiudeva sempre di più nel suo bozzolo, lasciandola irrimediabilmente al di fuori.

Gli sorrise fermandosi davanti ad una panchina, sistemandosi la lunga camicia a balze prima di sedersi, «Magari ha trovato una gattina interessante e se n’è andato» scherzò, cercando di rompere quel guscio duro in cui Itachi si era avvolto.

Lo vide sorridere appena mentre si accomodava accanto a lei, raddrizzando la schiena, «No, penso che sia stato spaventato dagli spari» e per la prima volta in quasi tre mesi, Asami vide uno spiraglio in quell’armatura da uomo invincibile che si era costruito. «I miei genitori sono morti quando avevo quattordici anni, sono entrati dei ladri in casa e… hanno sparato ad entrambi» spiegò svelto, cercando di cambiare subito dopo argomento. «Gli animali sentono queste cose, no?» chiese retorico, come se avesse voluto affidarsi al suo parere di esperta in materia.

Asami si sforzò di non fargli domande, era già tanto se le avesse detto tutto quello, e lei non era nessuno per costringerlo a rinvangare il passato, «Sì, hanno una sensibilità tutta loro» gli rispose con un sorriso, poggiando la mano sulla sua. Gliela strinse appena fra le dita, conscia che un gesto valesse più di duemila parole, «Il cane di mio nonno si è lasciato morire dopo che lui è venuto a mancare» aggiunse lei, come a voler confermare la sua tesi, «Ha smesso di mangiare e si è lasciato divorare da quella mancanza» mormorò abbozzando un sorriso.

Itachi la guardò in silenzio, per un secondo gli parve che quell’aurea magica e arancione che l’aveva sempre avvolta avesse vacillato appena, come una fiamma mossa dal vento. Era diventata malinconica, quasi triste, e l’idea di aver improvvisamente rovinato il resto della serata lo fece sentire in colpa.

Forse non avrebbe dovuto dirglielo.

«Mia nonna diceva sempre che se ne stava lì, accucciato davanti allo steccato, guardando verso il molo, aspettando di vedere mio nonno tornare con la sua barca» continuò lei fissandosi le scarpe, «Nessun essere umano farebbe una cosa simile per un altro, non siamo migliori degli animali, e la nostra intelligenza ci rende solo incredibilmente più vili» concluse, e poi sorrise alzando il capo, tornando immediatamente raggiante, «So che sembro una folle animalista, ma non lo sono» scherzò poi, e la mano di Itachi sfiorò delicatamente la sua, facendola arrossire come una cretina. «Insomma, non sono vegana, mi piacciono solo gli animali, tutto qui» cercò di salvarsi da quel rossore, di tornare al suo pallido colorito naturale.

«Anche perché mangi sushi, quindi non potevi essere vegana o vegetariana» le rispose, e Asami sorrise.

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Eccoci qui, cari cupcakes. ~

Ci scusiamo per la mediocrità di questo capitolo, ma fra esami di stato ed universitari sta arrivando un periodo terribile, quindi scrivere e restare al passo con tutto sta diventando un’impresa titanica. Chiediamo umilmente perdono, sul serio. Sia per questo, sia per le mancate risposte alle recensioni che – non ce ne vogliate, a noi dispiace tantissimo – non riusciremo a dare in questo periodo. Risponderemo solo ad eventuali domande, dubbi e perplessità vostri, solo se estremamente necessario, e poi riprenderemo quando questo orrendo e massacrante periodo sarà finito.

Speriamo che tutto questo non vi demoralizzi, ma siamo davvero in alto mare, non abbiamo neanche il tempo di andare in bagno.  X’’

Insomma, tutto qui.

Ultima cosa tecnica (?), abbiamo chiamato dato un nome alla moglie di Kagami, abbiamo scelto Ran sebbene nel fandom sia ultragettonato il nome Asami, che abbiamo preferito non utilizzare per non confondere le acque con troppe donne dallo stesso nome.

Detto questo, perdonateci se potete.

Eventuali ritardi nella pubblicazione saranno ovviamente comunicati, anche se già vi diciamo che per il prossimo capitolo forse non saremo pronte mercoledì e di conseguenza non troverete la pubblicazione, che salterà direttamente al 6 maggio. Nel caso vi avviseremo, tanto siete pochini (ma buonissimi).

Buon  pomeriggio a tutti. ~

 

papavero radioattivo

 

 

 





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Capitolo 5
*** CAPITOLO Q U I N T O ― Fare da padre. ***




capitolo

Q U I N T O 

 

Fare da padre.

 

 

 

Itachi si sentì un cretino.

Aveva sempre detto a Shisui che guardare le ragazze nel modo in cui lui lo faceva – con quell’aria gentile, certo, ma con le mani che non volevano saperne di starsene al loro posto – era un comportamento poco educato. L’altro, in risposta a quelle affermazioni così frigide del cugino, schioccava la lingua contro il palato e gli diceva che non si sarebbe stupito se un giorno gli avesse confessato di essere gay. Itachi non era gay. Non che avesse qualcosa contro gli omosessuali, per carità!, ma non era gay.

Semplicemente non gli piaceva l’idea di doversi trovare per forza una ragazza. Certo, Shisui gli faceva conoscere delle sue conoscenti («pretendenti al trono», scherzava) con tutte le buone intenzioni del mondo: «per farti tornare un po’ il sorriso!» diceva, dandogli una pacca sulla spalla.

Itachi non capiva cosa intendesse dire. Lui sorrideva sempre. Aveva imparato che un viso sereno e pacato era il modo migliore per trasmettere fiducia alle persone. Ma se Shisui aveva detto che doveva sorridere un po’, forse Itachi non sorrideva abbastanza – Shisui lo aveva sempre capito meglio di sé stesso.

Pensare al cugino gli venne automatico, soprattutto quando, entrando  nel dojo di Asami, aveva sentito la voce della ragazza ripetere con un fintissimo e fin troppo marcato accento giapponese delle regole sul karate, facendo ridere i suoi allievi. Si fermò sulla porta, osservandola al centro del tatami mentre salutava uno dei ragazzi con un inchino e mostrava agli altri, più indietro, una nuovo attacco.

Era così seria e concentrata che non sembrava nemmeno la ragazza del supermercato che non riusciva ad arrivare all’ultimo scaffale.

Rimase fermo all’entrata della sala, osservando la lezione svolgersi davanti ad i suoi occhi come fosse la scena di un film. Si sorprese nel ritrovarsi così concentrato ad ascoltare ciò che dicevano, invece di pensare all’Akatsuki e alla mole di lavoro con cui lo stavano caricando… In realtà, notò, quando si trattava di Asami, era propenso ad usare tutti i suoi neuroni per concentrarsi su di lei e su ciò che le succedeva attorno, come se la ragazza lo inglobasse nel suo pazzo microcosmo e lo costringesse a farne parte.

Gli piaceva.

Itachi sospirò, cercando di ricomporsi quando si accorse che Sasuke lo stava fissando. Non voleva che capisse che pensasse ad Asami: se Sasuke doveva ritornare a parlare, Itachi preferiva che gli raccontasse della scuola, non che gli facesse domande sulla ragazza, creando situazioni imbarazzanti.

Infilò le mani in tasca e sorrise al fratello, cercando di concentrarsi su altro mentre la lezione volgeva al termine.

 Mentre gli allievi andarono a cambiarsi, Asami gli sorrise, sistemandosi la coda di cavallo in cui aveva raccolto i capelli.

«Sei venuto a spiare un po’ prima di prendere il cupcake?» gli chiese scherzando, sfilandosi la casacca del Karategi e restando in canottiera.

Itachi le sorrise poggiando la schiena alla parete, guardandola mentre lei gli andava in contro, a piedi scalzi sul tatami, «L’idea era quella…» le rispose, e lei si allungò a stampargli un bacio sulla guancia, alzandosi sulle punte delle dita, «Sei in macchina?».

Asami annuì sciogliendosi i capelli, «Ho parcheggiato in Cina, ma sono in macchina, devo andare a cena dai miei» spiegò, e poi si infilò una felpa con il cappuccio, infilando le sue cianfrusaglie nel grosso borsone blu che aveva alle spalle. Avrebbe potuto trasportarci un cadavere, lì dentro.

«Ti accompagniamo fino alla macchina» le rispose Itachi, lasciando passare alcuni ragazzi che si incamminavano verso l’uscita, «Sono qua a piedi» aggiunse, osservandola mentre si infilava ed allacciava le scarpe da tennis, seduta accanto alla porta.

«Sarà felice Sascake di questa notizia!» affermò ridacchiando, «Credo di averlo distrutto abbastanza, probabilmente si addormenterà per strada» mormorò, come se stesse confessando di aver appena fatto una rapina in una banca.

«Sensei!» due allievi le passarono accanto, facendole un leggero inchino, «È il suo fidanzato?» domandò poi uno dei due, mentre l’altro ridacchiava guardando Asami che, con un sorriso dipinto sulle labbra si alzò dal pavimento, stiracchiandosi le braccia.

«Può anche darsi che lo sia» rispose, e poi tirò un leggero calcio nel sedere ad uno dei due, «Ci vediamo mercoledì, e sarà meglio che questa volta arriviate in orario» il tono della sua voce era severo, serio ed autoritario, Itachi non l’aveva mai sentita parlare così.

I ragazzi se ne andarono salutando, continuando a fare battutine idiote su di loro, e poi Asami si voltò di nuovo verso di lui, «Sei arrossito» gli fece notare, puntandogli il dito sulla guancia, recuperando poi il borsone e caricandoselo sulla spalla destra.

Itachi era quasi sul punto di ribattere, ma Sasuke si avvicinò a loro con la borsa sulle spalle, «Ciao» salutò Itachi, spostando poi lo sguardo su Asami che si limitò a sorridergli.

«Stavo convincendo tuo fratello a prendere lezioni di karate» mentì, infilandosi una mano in tasca, «Ma mi ha rifiutata» scherzò, avviandosi verso l’uscita con le chiavi in mano.

Sasuke guardò Itachi come a cercare una conferma, ma suo fratello si limitò a spingerlo verso l’uscita.

«Siamo a piedi» gli comunicò, mentre Asami aspettava che tutti gli allievi lasciassero il dojo, così che lei potesse chiudere e andarsene a casa.

«Stai scherzando?», ma era chiaro che non lo  stesse facendo. Non gli andava di camminare fino a casa, anche se era solo per una decina di minuti, «Ci vogliono sei ore per arrivare a casa» gli fece notare, ed Itachi allungò una mano a recuperargli la borsa.

«Dieci minuti, Saske».

Dieci minuti che sarebbero sembrati una vita intera.

Asami chiuse il dojo infilandosi le mani in tasca, affiancando Itachi e Sasuke, «Volete un passaggio?» chiese, incamminandosi verso il posto in cui aveva parcheggiato.

Sasuke vide uno spiraglio di luce nell’oscurità, ma prima che potesse rispondere Itachi rifiutò.

«No, tranquilla, tanto siamo praticamente qua» le disse con un sorriso.

C’era una complicità fra quei due che lasciava intendere più di una semplice amicizia, ma Itachi continuava a negare l’evidenza, quindi non sapeva davvero più che cosa pensare, riguardo a quei due.

Probabilmente se si fossero fidanzati avrebbero fatto un favore all’umanità intera, e soprattutto a lui, costretto a sopportarsi quelle occhiate e quelle battutine che Asami faceva ogni volta. Che lei piacesse a suo fratello non era poi così complicato da capire, bastava guardare con che faccia da pesce lesso se ne stava seduto sul divano, intento a scambiarsi messaggi con lei. Solo loro due cretini non avevano capito di piacersi l’un l’altra.

«Ti accompagniamo e andiamo » aggiunse suo fratello, le mani nelle tasche mentre si ostinava ancora a sorriderle.

Sasuke sospirò guardandosi i piedi, seguendoli senza aprir bocca, sperando che se non avesse guardato quanto mancava avrebbe sofferto di meno la stanchezza.

«Com’è andata a scuola?» la voce di suo fratello gli arrivò da destra, mentre la mano di Asami si posava sulla sua spalla sinistra.

Era una doppia tortura.

«Come sempre» gli rispose senza alzare la testa, continuando a fissare le punta delle scarpe, mentre la mano di Asami spariva e veniva sostituita dal braccio di suo fratello, che lo scostava per far passare due persone che venivano nel senso opposto al loro.

Itachi evitò di fargli notare che non aveva idea di come andasse sempre, dato che non glielo diceva mai, e poi si fermò accanto ad Asami, che aveva già estratto le chiavi della macchina.

«È la mia ultima offerta per un passaggio» disse, premendo il pulsante e aprendo la vettura, lanciando poi malamente il borsone nel bagagliaio.

Sasuke alzò la testa incrociando lo sguardo del più grande, e senza nemmeno lasciagli il tempo di rispondere si infilò nell’auto.

 

  -――-

 

Sasuke entrò in casa sfilando la giacca, ignorando i borbottii di Itachi riguardo a quanto fosse stato maleducato ad essersi infilato nella macchina di Asami.

«Ti ho fatto un favore» gli disse semplicemente, come a voler giustificare in parte quel gesto – anche se in realtà lo aveva semplicemente fatto perché era stanco. «Così tu sei stato con Asami ancora un po’» aggiunse, sedendosi poi sul divano.

Itachi ridacchiò lanciandogli il borsone accanto, «Sei ancora convinto che siamo fidanzati e che io non te lo abbia detto?» domandò retorico, andando a versarsi un bicchier d’acqua. Quello che a Sasuke sfuggiva era il fatto che non aveva il tempo di frequentare sentimentalmente una ragazza, non prima di aver sistemato la loro vita e le cose con l’assistente sociale. Avere una fidanzata avrebbe solo incasinato di più le cose, e al momento era l’ultima cosa che voleva.

«No, pensavo più al fatto che tu non ti fossi accorto che lei ti sta sempre addosso e che a te non dispiace» borbottò Sasuke svaccato sul divano, accendendo la televisione, «Ma non fa niente, tanto non siete fidanzati».

Itachi sospirò ignorandolo, «Mi dici come sta andando a scuola?» gli chiese gentilmente, sperando in un responso positivo. Quello che contava per lui era quello: che Sasuke fosse mentalmente stabile e che non facesse altre scenate, che si abituasse in fretta e accettasse la cosa.

Il più piccolo emise un verso non identificato, poi rispose, «Prendo bei voti, quindi direi bene».

«Intendo con i tuoi compagni» lo rimbeccò Itachi, sedendosi accanto a lui, sul bracciolo del divano.

«Perché non vi mette assieme?» cambiò argomento, tornando di nuovo al rapporto di suo fratello con Asami.

Itachi inspirò profondamente portandosi una mano alle tempie, massaggiandosele appena con il pollice e il medio, «La nostra vita è un tantino incasinata, adesso, Sasuke» gli rispose, abbassando il palmo e scompigliandogli i capelli.

Ma non aveva negato che le piacesse, e questo significava che aveva ragione: si mangiavano con gli occhi tutte le volte che si guardavano.

«L’assistente sociale sarebbe contenta» buttò lì, cercando di convincerlo che non era una cattiva idea, «Hai un lavoro, una ragazza, io vado bene a scuola».

«Tu non hai relazioni sociali all’infuori di me e Asami» lo interruppe suo fratello, «Non mi sembra che sia salutare, ti pare?».

Ci fu un attimo sconcertante di silenzio, riempito dal sottofondo della televisione accesa, poi Itachi gli strinse appena la spalla sorridendogli, «Lo so che ti mancano gli zii e i tuoi amici, anche a me mancano» confessò, alzandosi poi dal divano. «Ma non significa che non li rivedrai mai più, Sasuke» gli spiegò, e poi tornò verso la cucina, aprendo la lavastoviglie per infilarci il bicchiere che aveva usato per bere, «Non li hai sentiti?».

«Chi?».

«Naruto e Sakura»

Ci fu un momento di silenzio rotto solamente dal cigolio della lavastoviglie mentre si chiudeva. Itachi guardò le spalle del fratello, strette, mentre il ragazzo scivolava lentamente sul divano, come se volesse nascondersi. Prima di perdere quel minimo di comunicazione che era riuscito ad instaurare con il fratello, si sedette di fianco a lui, pizzicandogli il fianco per farlo muovere, «Mi rispondi?» riprovò, «Non ti ho fatto una domanda tanto critica…».

«Ho risposto ad una mail di Naruto ieri» disse. Era chiaro che stesse mentendo, anche il modo in cui si guardava le mani invece che affrontare lo sguardo sempre pacato di Itachi era un chiaro segno che Sasuke nascondeva qualcosa. Prima che il più grande riuscisse ad indagare ulteriormente, però, Sasuke aveva già ripreso a parlare: «Alla fine state assieme?».

Era una domanda assolutamente inopportuna. D’accordo che Sasuke credeva che lui ed Asami si fossero fidanzati senza dirgli niente, ma Itachi pensava che stesse scherzando. Erano in due, su quella barca: da soli dall’altra parte del mondo. Itachi gli avrebbe sempre detto tutto… o quasi.

«Siamo solo amici» ribatté secco, incrociando le braccia mentre accavallava le gambe.

«Certo, solo amici» lo stuzzicò il più piccolo, assottigliando lo sguardo.

«Oh sì» gli diede corda Itachi, «Siamo amici come lo siete tu e Sakura» rispose, «Credi che non abbia visto il modo in cui vi guardate…?» forse stava esagerando, ma, in fondo, non stava facendo nulla di male.

Sasuke arrossì in un modo imprevisto, che lasciò piacevolmente stupito anche Itachi. In realtà, il più grande stava mentendo sul modo in cui i due si guardavano: non si era mai soffermato sulla comunicazione non verbale tra suo fratello e l’Haruno, semplicemente aveva tirato ad indovinare. A quanto pare, però, aveva fatto centro.

Sasuke sbuffò, abbassando lo sguardo mentre incassava la testa tra le spalle, imbarazzato.  

«Eddai… Saske » provò a scusarsi, cercando di trattenere il sorriso. Niente da fare. Senza neanche guardarlo in faccia, si era già alzato ed era fuggito in camera, facendo sbattere la porta della propria stanza.

 

  -――-

 

Si era svegliato con uno strano peso sul cuore. Non gli piaceva l’idea di essere tornato indietro nel rapporto con Sasuke, non dopo tutta la fatica che aveva fatto per cercare di essere presente nella sua vita, di stargli accanto, di fargli superare il trauma del trasloco.

Ogni tanto Itachi si chiedeva come sarebbe stata la loro vista se lui non si fosse spostato per lavoro… forse Sasuke avrebbe davvero frequentato Sakura come Itachi aveva sempre immaginato, e – sempre magari – sarebbero diventate una di quelle coppie che si incontrano al liceo e poi stanno assieme per sempre.

Che diavolo gli prendeva? Si sentiva un cretino.

«Non è che fai questi pensieri su tuo fratello sperando che fosse la tua situazione?» la voce immaginaria di Shisui scherzò, facendo apparire Itachi ancora più deficiente di quanto non si sentisse già. Un lieve dolore al braccio scacciò il tono irritante del cugino, costringendolo a prestare attenzione ad altro. Prese un piatto pulito dalla lavastoviglie e lo posò sul tavolo, andando poi a preparare le uova da mettere sul pane per Sasuke. La colazione era l’unico momento in cui il più piccolo gli dimostrava un po’ di affetto, o quantomeno sembrava darglielo con quello sguardo ancora assonnato e già stufo.

Forse Itachi si preoccupava troppo, ma considerate le mode tra i ragazzi, trovarsi un fratello metallaro o gotico, o vattelappesca che cosa, era l’ultimo dei suoi desideri. Lo sapeva, lo sapeva che se Sasuke iniziava a prendere delle tendenze… alternative, l’assistente sociale gli avrebbe tolto l’affido e rispedito il suo piccolo depresso a Konoha.

L’olio nel pentolino sfrigolò ed una bolla scoppiò, salendo in alto – quasi gli prese un occhio. Provò a scacciare anche quel brutto pensiero, spegnendo il fuoco e afferrando il manico del pentolino, sentendo un’altra fitta al braccio sinistro. Servì le uova e rimase appoggiato al piano cottura, osservando Sasuke sedersi e mangiare in silenzio, senza nemmeno avergli detto buongiorno.

«Ti piace?» provò a chiedere, a disagio, incrociando le braccia. Perché se l’era presa così tanto per aver scherzato sulla sua relazione inesistente con Sakura? Che bambino! Non poteva tenergli il muso per settimane tutte le volte che Itachi faceva qualcosa di sbagliato, nella sua ottica.. Doveva imporsi, decisamente, fare meno il fratello premuroso e più il padre.

«Sei sicuro di riuscire a fargli da padre?»  gli aveva chiesto l’assistente sociale. Lei lo aveva capito che Itachi non ne sarebbe stato capace, che sarebbe diventato troppo permissivo, che gli avrebbe perdonato tutto…

«Vado» sentenziò Sasuke, raccogliendo lo zaino da terra mentre portava il piatto sporco nel lavandino. Quella frase bastò a staccare Itachi dai suoi pensieri, che lo accompagnò fino alla porta e gli aprì il portone dal citofono, «Ci vediamo stasera» salutò il più piccolo, caricandosi i libri in spalla.

Avrebbe chiamato l’assistente sociale. Preferiva chiedere una consultazione piuttosto di dover dare delle spiegazioni quando gli avrebbero portato via Sasuke. Sbuffò, incurvando le spalle sotto un peso che stava diventando troppo da sopportare. Afferrò il cellulare dal piano cottura, sedendosi sul divano, facendo roteare l’aggeggio tra le dita. Avrebbe avuto senso chiamarla? Forse era meglio parlare prima con Sasuke… se avesse chiamato l’assistente, magari, gli avrebbe tolto Sasuke prima di aiutarlo. Non lo avrebbe sopportato.

Si appoggiò una mano sul petto. Accidenti… tutta quella situazione lo stava opprimendo così tanto da togliergli il respiro. Non pensava sarebbe mai stato male per una cosa del genere – e soprattutto non pensava che la situazione sarebbe degenerata fino a quel punto. Si aspettava delle problematiche del genere all’inizio del loro trasloco, non a quel punto, con la scuola avviata, lavoro stabile e Asami.

Magari il problema è Asami, constatò, rifiutando quell’idea subito dopo. Sasuke non poteva prendere in odio una come Asami solo per capriccio… e poi era amico di Naruto Uzumaki, ben più invadente della ragazza. Era un’idea stupida, come tutte quelle che gli erano passate per la testa da quando si era svegliato.

Chiuse gli occhi, massaggiandosi le palpebre mentre cercava di fare degli ampi respiri, gonfiando totalmente i polmoni. L’aria gli si bloccò in gola, costringendolo a tossire. Allontanando la mano dalle labbra, osservò piccole stelle rosse sul palmo – un altro colpo di tosse e il sangue aumentò, facendolo sbiancare.

«No» si disse, sentendo le ossa gelare ed il cuore battere velocemente, prima di iniziare a rallentare, come se volesse imporgli la calma.

Digitò velocemente il 999, accostando il telefono all’orecchio mentre l’aria iniziava a mancargli ed i polmoni non si aprivano più come prima.

Era da un sacco che non gli succedeva. Il dottore gli aveva detto che con le dosi prescritte sarebbe stato bene.

Informò della sua situazione, faticando a parlare, alternando parole a colpi di tosse che sporcarono il divano di sangue. Diede il suo indirizzo e chiuse gli occhi. La voce della donna al telefono che gli diceva di stare calmo e di respirare diventò un ricordo lontano.

Sasuke.

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Eccoci qui. ~

Chiediamo umilmente scusa per il mancato aggiornamento di settimana scorsa, ma abbiamo preferito non pubblicare e portarci un po’ avanti (o almeno provarci). Tanto Ikigai non è così lunga, con questo capitolo siamo a metà, quindi tranquilli. -3-

Per il resto non c’è nulla da dire, ovviamente – non crediamo di averlo specificato – al contrario di Colla qui ci sono molti più salti spaziotemporali, un capitolo non avviene mai il giorno dopo dell’altro, ma qualche settimana/giorno dopo. Tutti eccetto il capitolo cinque ed il capitolo sei, che sono legati.

Ci teniamo a specificarlo, perché ovviamente non è successo tutto così di fretta, noi abbiamo preso soltanto gli avvenimenti fondamentali per spiegare cos’è successo fra Asami ed Itachi. Speriamo non crei disordini

Per il resto vi abbiamo lasciato con tanta suspance, perdonateci, ma ci piaceva(?). Tanto sapete che Itachi non muore (CHISSÀ!), quindi potete state assolutamente rilassate.

Il resto, la vicenda dell’ospedale ed eventuali chiarimenti si concluderà nel prossimo capitolo.

 

Nulla, tutto qui, buon pomeriggio cupcakes, e al prossimo aggiornamento. ~

 

papavero radioattivo

 

 

 





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Capitolo 6
*** CAPITOLO S E S T O ― Neko. ***




capitolo

S E S T O

 

Neko.

 

 

 

L’infermiera comparve sulla porta con il sacchetto della flebo stretto fra le mani, «È arrivata la sua fidanzata e suo fratello» gli disse, ed Itachi la guardò confusa.

«Non credo sia per me, io non», il resto della sua frase fu coperto dalla voce di Asami che, affiancata da Sasuke, entrò nella stanza e lo abbracciò al collo, lasciandogli un bacio fra i capelli.

«Amore, ma cosa combini?» domandò retorica,  stringendo poi la sua mano fra le sue.

Itachi arrossì cercando di capire che diavolo stesse succedendo, mentre Sasuke abbozzava un sorrisetto, guardandosi i piedi.

«Sono così felice che tu stia bene!» continuò imperterrita la ragazza mentre l’infermiera gli sorrideva ed usciva, lasciandoli da soli. Appena la donna con il camicie bianco girò l’angolo Asami si staccò da lui e gli sorrise, «Perdonami, ma hanno detto che per il momento potevano farti visita solo i parenti» spiegò, accomodandosi sulla seggiola accanto al letto, «Così ho detto che ero la tua fidanzata».

Itachi sorrise stancamente cercando di tornare al suo colorito normale, sistemandosi meglio sul letto e lasciando un po’ di posto accanto a sé, dove si sedette Sasuke. Non gli sembrava troppo preoccupato o spaventato, ma forse Asami lo aveva rassicurato sul fatto che oramai lui stesse bene.

«Non importa» le rispose, allungando una mano a scompigliare i capelli di suo fratello, «Mi dispiace di averti disturbata, ma non sapevo chi chiamare» le confessò mentre lei agitava la mano come a voler scacciare un insetto.

«Non avevo nulla da fare, tranquillo» lo rassicurò, e poi gli sorrise di nuovo, «Vado a prendere un caffè, torno subito» aggiunse poi, con il chiaro intento di lasciarli soli. Si sentiva un po’ di troppo, e il panico che l’aveva assalita quando Itachi le aveva detto che era in ospedale le era sembrato stupido ed immotivato.

Oramai teneva a lui più di quanto pensasse, evidentemente.

Asami se ne andò, mantenendo il sorriso fino a quando non uscì dalla camera. Nello stesso momento in cui chiuse la porta, Sasuke sembrò rilassarsi e poi sgretolarsi, socchiudendo gli occhi e sfregandoli con le mani, come se volesse pulire le lacrime ancora prima di versarle.

«Mi dispiace tanto…» disse al più grande, e verso la fine della frase la sua voce si ruppe in un singhiozzo, facendolo arrossire dalla vergogna. Voleva essere forte, Sasuke, e Itachi lo capiva e lo apprezzava tantissimo. «Non volevo essere stronzo con te…» continuò con la sua confessione, osservandosi le scarpe mentre muoveva le gambe, «Ero arrabbiato e…» non seppe più cosa dire.

«Non è stata colpa tua, Saske» lo rassicurò, appoggiandogli una mano sulla schiena, «Quello che mi è successo è perché il dosaggio delle medicine è diventato troppo basso, in più non le avevo ancora prese quella mattina ed ero un po’ stressato per il lavoro…» spiegò, continuando ad accarezzargli le spalle. Gli avevano insegnato, non ricordava dove, che fare le carezze alla schiena alle altre persone era confortante, perché era un punto in cui da sole non ci potevano arrivare. Sasuke, per Itachi, era una carezza continua lungo la colonna vertebrale: non ce l’avrebbe mai fatta senza di lui.

Il ragazzo si girò piano, allungandosi ad abbracciarlo con delicatezza, come se non volesse fargli male, «Ma mi dispiace comunque…» pigolò, completamente indifeso. Non sentiva Sasuke parlare in quel modo da prima della morte dei loro genitori.

«Dai, tranquillo adesso, su» gli lasciò una carezza sui capelli e lo allontanò piano da sé, in modo da guardarlo negli occhi, «Ascoltami, Saske» iniziò, tenendolo per le spalle, «Mi terranno in ospedale per un po’, ma di lasciarti a casa da solo non se ne parla proprio… l’assistente sociale mi toglierebbe l’affido senza pensarci due volte» gli spiegò, stringendo un po’ la presa, «Non posso nascondere il fatto che sono in ospedale…» e sospirò, cercando le parole giuste, «Ho chiesto ad Asami se può ospitarti finché non potrò ritornare a casa, non ho trovato una soluzione migliore».

Il più giovane sgranò gli occhi, «Devo abitare con lei?» chiese conferma, sperando vivamente di aver sentito male.

«Saske» lo chiamò convinto, «Non posso lasciarti a casa da solo…» continuò, mantenendo il contatto visivo, «Starai bene, vedrai» e gli toccò la fronte con due dita, sforzandosi di sorridere.

 

  -――-

 

Appena Asami aprì la porta di casa, un forte miagolio riempì le orecchie di Sasuke, seguito dal tintinnare di un campanello.

Un gatto nero zampettò davanti a loro, strusciandosi sulle gambe della ragazza, mentre un altro li fissava con aria quasi incazzata, seduto sopra lo schienale del divano.

Asami si chinò ad accarezzarlo «Abbiamo ospiti, hai visto Guinness?» disse, e poi chiuse la porta, sfilandosi la giacca e appendendola sopra l’attaccapanni, aspettando che Sasuke le consegnasse pure la sua. «Allora…» incominciò mentre lui si guardava attorno, esaminando quel grosso open space decisamente moderno, sfilandosi il cappotto. «Questa è Guinness, è incinta, e fra qualche giorno probabilmente partorirà» spiegò molto rapidamente, «E lui è Gandalf, non gli piace essere toccato, quindi se non vuoi le braccia ridotte ad un colabrodo ti consiglio di lasciarlo in pace» continuò, appendendo  la sua giacca e facendogli segno di seguirla. «Qui c’è la cucina, frigorifero, tavolo, e lì il soggiorno» e poi si bloccò, girandosi a guardarlo. «In fondo al corridoio c’è un bagno, a destra la dispensa e a sinistra la stanza dove dormono i gatti» parlava in fretta, Sasuke non era certo di riuscire a seguirla, e comunque non comprendeva il motivo per cui dei gatti avessero dovuto avere una stanza tutta per loro. «Al piano di sopra ci sono due camere da letto» gli comunicò salendo le scale, indicandogli poi le porte, «Quello è un altro bagno, questa è la mia stanza, e questa è la tua» disse, e poi entrò nella camera degli ospiti, quella in cui Sasuke avrebbe dormito (o forse vissuto) fino a quando Itachi non fosse uscito dall’ospedale.

Era grande, il letto era matrimoniale, e c’era un sacco di spazio vuoto.

Probabilmente Asami doveva essere ricca, altrimenti non si spiegava il motivo per cui avesse una casa così grande tutta per lei. Faceva solo l’insegnate di karatè, non poteva di certo guadagnare così tanto.

«So che non sei felice di restare qui» la voce di Asami lo riscosse dai suoi pensieri mentre lui lasciava il borsone ai piedi del letto, sedendosi poi sul materasso, «Ma non sarà per molto, quindi cerca di sopportare questa convivenza forzata solo per un po’» e poi sorrise appoggiandosi allo stipite della porta, «Fatti una doccia, forza, poi preparo la cena» e detto questo si allontanò nel corridoio, ricomparendo qualche attimo dopo con un asciugamano in mano.

Sasuke si sforzò di sorridere e prese la salvietta, alzandosi dal letto, «Grazie» le disse, cercando di essere quanto meno riconoscente, anche se avrebbe preferito vivere da solo nell’appartamento che oramai era quasi diventato come una casa – i primi giorni, quando si svegliava, gli  era sembrato di essere in vacanza, ma oramai la sensazione di essere in un posto nuovo si era quasi dissolta.

Asami gli sorrise a sua volta, scompigliandogli poi i capelli, «Oh, hai parlato!» esclamò scherzando, «È un buon inizio» e poi gli fece l’occhiolino, uscendo dalla stanza e tornando al piano di sotto.

  -――- 

 

Sasuke uscì dal bagno, premurandosi di aprire la finestra per far uscire tutto il vapore. La casa gigante sembrava deserta… come faceva una ragazza come Asami vivere in quel posto tutta da sola?

«Aaah!» era decisamente lei ad urlare. Seguì quel suono, arrivando in una stanza con armadio, due poltrone e dei cuscini sparsi a terra, con un tiragraffi enorme che torreggiava su tutta la stanza. Asami gli lanciò un’occhiata mentre con la mano gli faceva segno di avvicinarsi all’anta dell’armadio aperta. Che diavolo ci faceva accucciata davanti all’armadio spalancato? Non riuscendo a darsi una risposta la raggiunse, chinandosi vicino a lei.

La gatta nera, quella con la pancia che sfiorava terra (l’unico dettaglio veramente rilevante che Sasuke aveva memorizzato di Guinness) era stesa su degli asciugamano e teneva le zampe posteriori leggermente divaricate, respirando profondamente.

«Sta per partorire!» informò felice Asami, allungando a lasciare una carezza alla ormai mamma gatto, talmente docile da lasciarsi toccare anche in un momento delicato come quello.

Rimasero a guardare in silenzio, mentre quattro cuccioli, tre fuoriusciti dalla testa e uno dalle zampe, si posarono quasi scivolando sull’asciugamano. Asami sorrise soddisfatta, allungandosi a prendere l’acqua ed il cibo che aveva messo da parte, appoggiando il tutto appena fuori dall’armadio.

«Che schifo» commentò Sasuke, senza però riuscire a staccare gli occhi da Guinness, uno alla volta, rompeva i cordoni ombelicali e bucava il sacco amniotico. Lasciò i quattro gattini sugli asciugamani, reggendosi sulle sue zampe mentre si allungava a bere un poco, uscendo dall’armadio e passando tra Asami e Sasuke. «Se ne va e lascia i cuccioli qui?»  domandò spaesato, guardando le quattro creaturine dimenarsi tra le pieghe dei teli.

«Non preoccuparti, tornerà» lo rassicurò Asami, «Sono i suoi cuccioli, non li abbandonerebbe mai! Tu non toccarli però, altrimenti non li riconoscerà più… vieni» e lo prese per il gomito, facendolo alzare per inseguire Guinness.

La trovarono mentre camminava in cucina, lasciando dietro di sé una scia di sangue che colorò le piastrelle azzurre della stanza. A Sasuke venne da vomitare, «Sta facendo strisciare un gattino… » disse, senza rendersi conto di quanto si sentisse coinvolto nella storia.

Asami provvide, afferrando un asciugamano pulito dalla cucina, fermando Guinness e prendendo il piccolo tra le dita, mostrandolo alla gatta. La mamma ruppe il cordone e il sacco amniotico come aveva fatto per gli altri due, iniziando a leccare via la placenta dal cucciolo. Sasuke tirò un sospiro di sollievo.

«Ti sei spaventato, eh, Sascake?» domandò lei, piegando lo straccio, tenendolo in mano per metterlo nella cesta degli sporchi assieme agli altri, quando avrebbe raccolto anche quelli. «Pensavi sarebbe morto?» chiese, osservando il piccolo gattino aprire quelle minuscoli fauci da predatore e allungare le scheletriche zampine spelacchiate.

«No…» mentì, osservando completamente assorto la scena, «Un po’» si corresse poi. Fece un passo indietro quando Guinness, dopo aver pulito il cucciolo, lo afferrò per la collottola e ritornò nella sua cuccia, prendendosi cura anche degli altri piccoli.

Sasuke aiutò Asami a mettere a lavare gli asciugamani sporchi, sostituendo per quanto possibile quelli su cui la gatta stava ancora pulendo gli animali. La casa si era riempita di striduli miagolii, molto diversi dai versi di un neonato. Gandalf osservava la scena dalla cima del tiragraffi, come se fosse il padre di quei cuccioli e, anche se faceva l’indifferente, se ne stesse importando.

«Ne vuoi uno?» chiese d’un tratto la ragazza, ritrovandosi con il viso così vicino a quello di Sasuke che l’altro si trovò costretto ad allontanarsi.

«Eh?».

«Un cucciolo» specificò lei, «Pensavo che fosse un bel regalo per un musone come te» continuò, scherzando, allungandosi ad afferrare il persiano bianco che si aggrappò alla sua maglia, agitando la sua grossa coda. Lasciò una miriade di bacini vicino all’orecchio di Gandalf e si sedette su una delle poltrone, lasciano che Guinness accudisse i suoi piccoli come solo una mamma gatta sapeva fare.

«Itachi non me lo farebbe tenere…» constatò, con un po’ di tristezza nella voce.

Asami sorrise, facendogli una carezza tra i capelli umidi, «Lo convinco io tuo fratello, non preoccuparti!» gli disse, «Quando Guinness ce lo permetterà potrai prendere in braccio il tuo gatto… sai già quale vuoi?».

Sasuke annuì, girandosi verso la cuccia di Guinness, «Quello tigrato sopra e bianco sotto…».

Asami fece schioccare la lingua sul palato, spaventando Gandalf che, con un balzo, saltò giù dalla poltrona e atterrò con un tonfo. Annusò per qualche secondo i piedi di Sasuke e poi si accomodò su uno dei cuscini, «Lo sapevo! Hai scelto quello che Guinness ha usato per battezzare la cucina!» e gli sorrise ancora, «Bene! Così posso chiamare i gatti Paprika, Yin, Yang e Severus» e indicò ogni gattino con il proprio nome: quello con la peluria arancione era Paprika, un gattino era bianco con delle macchie nere e un altro tutto nero, e Asami aveva avuto la brillante idea di chiamarli con le parti del Taijitu – l’ultimo cucciolino, per un qualche motivo, era stato denominato come il professore di Harry Potter.

Forse Itachi aveva ragione, forse sarebbero stati bene assieme.

    

-――-

 

Asami entrò nella stanza d’ospedale raggiante come ogni volta, con un sorriso stampato sulla faccia, «Ehy…» mormorò avvicinandosi al letto, stampandogli un bacio sulla guancia prima di accomodarsi sulla seggiola accanto al letto. «Come stai?» gli chiese poggiando il gomito sul materasso, ed Itachi sorrise mettendosi seduto, poggiando la schiena contro i cuscini.

«Sto bene, stanno facendo dei controlli, penso che fra qualche giorno mi mandino a casa» spiegò, ed Asami annuì. «Sasuke? Va tutto bene?» aggiunse, ed Asami se lo aspettava, non faceva altro se non parlare di lui, era naturale che fosse preoccupato.

«Sascake mangia, dorme, si lava, studia, è venuto con me ad allenarsi, e oh!» affermò portandosi una mano alla fronte, «Guinnes ha partorito e io gli ho promesso che ti avrei convito a fargli tenere un gattino» ammise sfiorandogli il dorso della mano, facendolo arrossire. «Quindi fatti convincere e dì di sì» scherzò intrecciando le dita della mano alle sue, restando in quella posizione, «Lo ha pure chiamato Neko, che credo che in giapponese significhi “gatto”, il che denota scarsa fantasia, ma a lui piace, quindi non mi sono sentita di dirgli che era un nome strano».

Itachi rise piano, incominciando poi a tossire mentre slegava le dita da quelle di Asami, coprendosi le labbra con il palmo, e quando l’attacco cessò fu quasi impossibile non notare il sangue che gli rigava la mano. Era poco, ma era sangue, e Asami si sentì improvvisamente mancare.

Quanto stava male? Quanto era grave?

«Non è niente, non ti spaventare» la voce di Itachi era roca e dolce mentre si puliva la mano in un fazzoletto, posandola poi sull’addome, sopra le coperte, «Digli che può tenere Neko, basta che impari a prendersene cura» cambiò argomento, lasciandola ancora con e gambe molli e il viso pallido, più bianco del solito.

Come poteva non spaventarsi, sputava sangue!

«Perché  non mi  hai detto che eri malato?» domandò cercando di parlare chiaramente, senza improvvisi cali di tono «Non che fossi costretto a dirmelo, ovviamente, ma-».

«Mi dispiace» la voce di Itachi era come una carezza, non doveva scusarsi, non era obbligato a dirle nulla, dopotutto, «Erano anni che non mi succedeva, ma forse sto lavorando troppo e il dosaggio degli antiaritmici è diventato troppo basso» le spiegò, ma lei non sapeva che cosa avesse, quindi era praticamente inutile. «Ma non è nulla, non devo fare sforzi eccessivi, tutto qui» e sorrise di nuovo in quella maniera rassicurante che riusciva a convincerla perfino che il cielo fosse viola e che piovevano porcospini.

«L’importante è che stai bene» mormorò lei sentendosi una completa imbecille, «Sasuke ha bisogno di te più di quanto voglia ammetterlo».

Itachi le sfiorò il dorso della mano e poi inspirò profondamente, era la prima volta che non lo chiamava con quello stupido soprannome, e la cosa sottolineava quanto fosse seria e preoccupata. «Ho più bisogno io di lui» confessò stringendole la mano, e poi cambiò argomento, fuggendo per l’ennesima volta, evitando ancora di permetterle di poter guardare cosa ci fosse sotto quella scorza spessa che incominciava a sgretolarsi. «Quindi avete fatto partorire Guinnes» disse, ed Asami annuì.

«Credo che Sascake sia rimasto sconvolto» scherzò raddrizzando la schiena, «Ma quando è nato Neko si sono guardati e ha visto che il gattino aveva la sua stessa faccia depressa e apatica e ha detto “Voglio tenere lui”» disse, imitando l’accento di Sasuke e strappando una leggera risata ad Itachi. «Ma basta parlare di cose stupide, poi ti faccio ridere e finisce che ti ammazzo, non vorrei mai diventare un’assassina» continuò in tono ironico, e questa volta il ragazzo si limitò a sorriderle.

«Grazie per essere passata…» le mormorò scostandosi una ciocca di capelli che gli finì davanti al viso, «Almeno ho qualcuno con cui parlare».

«Lo dici come se fossi una donna super impegnata!» replicò lei, notandogli che non aveva nulla da fare la mattina, «E poi ho sotto sequestro il tuo fratellino, è il minimo aggiornarti per farti sapere che non gli ho tagliato né dita né orecchie».

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

E questa è la storia di come è nato Gatto

Perché sì pargoletti, nel caso a qualcuno fosse sfuggito, il cucciolo in questione che Sasuke ha chiamato «Neko» è proprio quel magico animale che si diverte ad uccidere le bestiole di Naruto (ovviamente non è vero, shh). Qui è chiamato Neko perché in Colla, tecnicamente, parlano in Giapponese, e quindi lì è scritto “Gatto”. Sono piccole precisazioni che diamo per essere sicure che ogni particolare arrivi, ahah ;)

Beh… diciamo che l’esperienza di Sasuke è stata abbastanza autobiografica per le autrici, tra gatte che partoriscono e giudici qui ce n’è da raccontare!

Sui nomi dei gatti di Asami… beh, che dire? È pure un po’ nerd… a volte capita! Non possono essere tutte perfette, no? E poi ci vuole una personalità del genere per Itachi, ormai lo avrete capito. -3-

Ormai la storia sta volgendo al termine… nei capitoli sette, otto e nove, ci concentreremo molto sul rapporto tra Itachi e Asami e tra quello di Asami e Sasuke ma… sotto una nuova luce, va, non diciamo più nulla! Il decimo capitolo, invece, rimarrà una sorpresa ^3^

 

Speriamo di riuscire ad aggiornare in tempo, settimana prossima, dato che siamo un po’ indietro con la stesura dei capitoli…

Grazie comunque per il supporto ed il seguito che ci state dando con questo piccolo spin-off… vi amiamo un po’ di più! Abbiamo mentito

 

papavero radioattivo

 

 





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Capitolo 7
*** CAPITOLO S E T T I M O ― Ritorno a casa. ***




capitolo

S E T T I M O

 

Ritorno a casa.

 

 

 

«Allora? Come stai?» la voce di Asami era particolarmente gradevole, quel giorno.  Itachi sorrise nel sentirla così solare e non poté fare a meno di ricambiare il suo abbraccio, quando si chinò a lasciargli il solito bacio sulla guancia.

«Meglio, mi dimettono dopodomani» rispose, quasi fosse fiero di comunicarle quella notizia. La vide allargare il sorriso mentre si accomodava sulla poltroncina azzurra vicino al suo letto, aggiustandosi la borsa sulle ginocchia. Aveva un’aria stanca, Itachi la percepiva dai capelli scompigliati e dalle unghie un  po’ più lunghe di come le portava solitamente – come se non avesse avuto neanche il tempo di tagliarle. «Sas’ke?» chiese, seguendo con lo sguardo l’infermiera che portava via il vassoio con i piatti del pranzo vuoti.

«È giù al bar dell’Ospedale…» spiegò la ragazza, prestando attenzione anche lei al vassoio, «È appena uscito da scuola e aveva fame, così l’ho scaricato là… magari lo prende qualche zingaro!» scherzò, accennando ad una risata.

«Ti fa stancare così tanto?» domandò lui, sincero, sentendosi in colpa per un’eventuale risposta affermativa. Non voleva caricare sulle spalle di Asami la responsabilità di prendersi cura di un adolescente (in crisi) – certo, lei non era stata costretta, ma come avrebbe potuto rifiutarsi di rispondere ad una tale richiesta d’aiuto?  

Stavolta il suo sorriso divenne appena più piatto, come la linea sottile che divide il cielo dalle acque calme del Tamigi. «Non preoccuparti» gli disse, premurosa, allungandosi a mettere una mano sulle sue, congiunte, «Mi ha fatto piacere darti una mano». Lo guardò negli occhi e per un momento convinse Itachi a non sentirsi in colpa o in debito. Lo aveva fatto per buon cuore e non aveva intenzione di farglielo pesare… era una caratteristica che apprezzava molto, nelle persone, quella della bontà gratuita che non sfociava nell’ingenuità o nella sottomissione. Forse perché anche lui era buono, almeno così diceva Shisui. «Pollo e purea, oggi? Accidenti, qui ti trattano proprio bene!»  scherzò poi, ritornando seduta sulla poltrona, facendolo ridere e cambiando argomento.

«Beh» rispose lui, «Mi hanno dato brodo e pesce per due settimane…».

«Se il pesce lo hanno pescato nel Tamigi, ti conviene rimanere qui e farti spostare nel reparto per le intossicazioni alimentari!».

Itachi rise, coprendosi le labbra con la mano quando un’altra infermiera entrò per controllare l’uomo con cui lui divideva la stanza. Guardò Asami che tentava di rimanere seria e composta, trattenendosi dallo scoppiare a ridere davanti all’inserviente che, a suo dire, assomigliava davvero ad un pesce. Il ragazzo si schiarì la gola, cercando di risultare serio o, quantomeno, tranquillo. Lentamente, si mise a sedere e poi si alzò, tenendosi alla flebo. «Mi accompagni a fare un giro? Andiamo verso le scale da dove sale mio fratello…» le domandò, facendo il giro del materasso.

Asami si alzò, abbandonando la borsa sulla poltrona e gli diede il braccio per sostenerlo dall’altro lato. Itachi le sorrise e fu sul punto di accettare, quando Asami gli si parò davanti, «Aspetta…» borbottò, come se stesse parlando a un bambino. Itachi non capì, poi sentì le sue dita carezzargli i capelli sulla fronte, spostandoglieli da davanti agli occhi. Era un gesto d’affetto che lo fece rabbrividire e le mani di Asami erano così vicine che poté sentire il profumo della crema che, con tutta probabilità, metteva prima di uscire.

«Grazie…» le disse di riflesso, e senza pensarci alzò la mano per stringere la sua, piano, con una gentilezza che non dimostrava a nessuno da giorni. Le sorrise osservandola impacciata per la prima volta, come se non sapesse che fare. «Di tutto» specificò poi, mentre i capelli gli ricadevano davanti al viso.

Asami ridacchiò, liberandosi dalla presa di Itachi per tenergli i capelli indietro. Le mani sulla sua testa gli ricordavano le carezze di una madre che non c’era più, «Quando esci di qui magari ti porto pure da un parrucchiere».

Itachi le sfiorò le spalle e i capelli sciolti sulla schiena, premendo la mano contro la sua colonna vertebrale, gli sembrava quasi di poter sentire il calore della sua pelle oltre la maglia.  «E io ti porto a cena fuori» le rispose, prima di chinarsi e poggiare le labbra su quelle di lei.

 

  -――-

 

Sasuke entrò in casa di Asami seguito da suo fratello, senza neanche aspettare il permesso della ragazza. In sole due settimane sembrava essersi ambientato meglio di quanto non lo avesse fatto in quella che era la sua reale casa. Nonostante il suo comportamento fosse abbastanza maleducato (era comunque un ospite!), almeno significava che si era trovato bene, e che Asami lo aveva messo a proprio agio. Alla fine, era la cosa che contava davvero.

La ragazza sorrise chiudendo la porta d’ingresso, «Penso siano nella loro stanza» suggerì a Sasuke, già intento a cercare il gatto per tutta la casa.

Itachi sorrise guardando Asami, ignorando il fratello che camminava per la casa della ragazza come se fosse la propria. Dopo quello che era successo in ospedale, non immaginava ci potesse essere ancora imbarazzo fra loro due, ma in realtà aveva scoperto che la tensione era calata a picco – si sentiva quasi sollevato, come se si fosse tolto un peso dallo stomaco.

Seguì Sasuke lungo il corridoio e poi dentro la stanza dove i gattini  giocavano con la loro mamma sul tappeto. Lo osservò in silenzio mentre si faceva strada tra i cuccioli e sollevava un gattino, grosso quasi quanto la sua mano. Sembrava così fragile e delicato da potersi spezzare, ma Sasuke era altrettanto attento a maneggiarlo con cura.

«È lui» si limitò a dire porgendogli l’animale che non voleva saperne di staccare le unghie dalla maglia di Sasuke, «È il più grosso di tutti» aggiunse poi, come se avesse voluto giustificare il motivo per cui lo avesse riconosciuto all’istante, «Puoi prenderlo se vuoi» continuò.

Itachi gli sorrise, afferrando il micino fra le braccia che provvide ad incollarsi alla sua maglia, facendogli una coccola sulla testa, «Asami ha ragione…» disse sollevandolo appena mentre miagolava e piantava le unghiette sulle sue mani, senza fargli male. Lo guardò negli occhi e sorrise, «Avete la stessa faccia» aggiunse, da schiaffi pensò, ma questo non lo disse.

Era un peccato che ancora non potessero portarlo a casa, ma Asami aveva promesso a Sasuke che sarebbe potuto venire a trovarlo quando voleva finché non sarebbe diventato abbastanza grande. Poi bisognava farlo vaccinare e visitare dal veterinario di Gandalf e Guinness… sarebbero stati dei tempi davvero impegnativi. L’assistente sociale aveva detto che un amico peloso sarebbe servito a Sasuke per ambientarsi e responsabilizzarsi… forse Itachi doveva dare ascolto a quel consiglio subito. In tutti i casi ora avevano rimediato, e il problema non si poneva più.

«Io non ho nessuna faccia» borbottò Sasuke tendendo le mani a recuperare quello che era già diventato il suo gatto, facendo scoppiare in una leggera risata Asami, poggiata allo stipite della porta.

«In tutti i casi inizia a pensare che dovrai dargli tu da mangiare e tu dovrai cambiargli la sabbia, signorino» gli disse Itachi, mettendogli una mano sulla testa, dalla quale il fratello si svincolò immediatamente, «E che quel batuffolo di pelo non dormirà né sul mio letto né su quello degli ospiti né sul divano».

Sasuke strinse il gatto a sé prima di  metterlo a terra, «Tanto ti odierà» constatò, borbottando.

«Non quando scoprirà che i soldi che servono per il suo cibo saranno i miei» gli rispose serenamente. Non valeva la pena arrabbiarsi, non era nemmeno necessario. Itachi riusciva a vedere il sorriso di Sasuke, all’angolo delle sue labbra, mentre cercava di fare il duro. 

«La tua borsa è in soggiorno» disse Asami, trattenendo una risata per quella conversazione. Dovette ammettere a se stessa che la compagnia di Sasuke (anche seppur silenziosa) le sarebbe decisamente mancata. Un po’ le dispiaceva, ma dall’altro lato agognava al completo ritorno della sua privacy –  ricordarsi di non girare mezza nuda per casa era stato piuttosto complicato in quelle due settimane, così come chiudere la porta del bagno.

Se non altro si sarebbero visti tutti e tre più spesso adesso che lei e Itachi avevano messo in chiaro le cose fra di loro.

Sasuke annuì facendo un’ultima carezza a Neko, infilandosi poi le mani in tasca, «Andiamo?».

«Non vedi l’ora di liberarti di me, vero Sascake?» scherzò Asami scompigliandogli i capelli, spingendolo in corridoio.

Sasuke recuperò la borsa in fretta, caricandosela sulle spalle, come se avesse fretta di tornare a casa propria, con suo fratello. Ma quando si fermò davanti alla porta dovette assistere all’ennesima scenetta romantica di Itachi che, con il sorriso stampato sulle labbra, se ne stava davanti ad Asami.

«Ci sentiamo, dai!» gli disse lei, abbracciandolo e stampandogli un bacio sulla guancia mentre lui ricambiava la stretta, accarezzandole la schiena.

Sasuke sospirò poggiandosi alla parete, osservando spazientito. Perché quei due non la facevano finita e si sposavano direttamente?

«Grazie di tutto, Asami» le rispose Itachi, e dopo convenevoli che a Sasuke parvero durare più di mezz’ora, finalmente uscì di casa con suo fratello.

L’idea di riavere Itachi a casa gli piaceva, tornare alla routine che avevano instaurato a fatica, ma era comunque preoccupato.

«Prima che tu lo chieda, sono stato educato e mi sono comportato bene» mise le mani avanti, evitando così che Itachi potesse assillarlo con le sue domande, «Ho anche mangiato tutto. Con la forchetta» aggiunse, come a volergli fare notare che era stato davvero bravo, dato che in casa si ostinava a mangiare ancora con le bacchette.

«Asami me lo ha detto» il sorriso di Itachi lo rese felice, era bello vederlo così, avere la sua mano che gli scompigliava i capelli mentre si avviavano verso casa – anche se quel gesto, ogni tanto, gli dava davvero fastidio.

 

  -――-

 

Non era ancora riuscito a ringrazia Asami per l’enorme favore che gli aveva fatto, e questo lo faceva stare male. Il giorno dopo che Sasuke era tornato a casa, aveva provveduto a mandarle un messaggio appena sveglio chiedendole se le avrebbe fatto piacere cenare con lui, come avevano progettato.  Lei aveva risposto che non c’era problema e, se necessario, si sarebbe tenuta libera tutte le sere per i prossimi otto mesi.

Non ci avrebbe messo così tanto. Itachi aveva in programma di rafforzare i rapporti con Sasuke, dirgli della sua relazione con Asami e chiedergli se gli faceva piacere che lei venisse a cena da loro.

Non era comunque il momento adatto per pensarci. Sasuke stava per tornare da scuola e Itachi aveva ancora un ultimo scatolone da svuotare. Ruppe lo scotch con un coltello e, sospirando, iniziò a svuotarlo seduto per terra. Neanche mezz’ora dopo il citofono suonò e lui fu costretto ad alzarsi.

«Sono a casa» borbottò Sasuke, togliendosi le scarpe all’ingresso – mantenendo quell’abitudine nipponica che, in qualche modo, sembrava farlo sentire ancora a casa. Itachi gli sorrise agitando un volume di qualcosa in segno di saluto, prima di posarlo sullo scaffale più basso della libreria. «Martedì prossimo la scuola organizza un’uscita» borbottò il più piccolo, andando in cucina a versarsi qualcosa da bere, «Dovremo stare via fino a mercoledì sera» e si appoggiò sullo stipite della porta, osservando il fratello, uscito da poco dall’ospedale e da un infarto, che sgobbava come fosse un mulo per rendere quel buco di casa il più abitabile possibile.

Sasuke cercava di non agitarsi. Ma se pensava che suo fratello non aveva ancora trent’anni e che era già finito in ospedale più volte di suo nonno – quand’era vivo – si spaventava. Non voleva perderlo, anche se a volte lo faceva davvero arrabbiare. L’idea di non avere più Itachi in un posto totalmente sconosciuto come Londra lo faceva rabbrividire di paura.

«Vorrei andarci» disse, mentendo un po’ a sé stesso. L’importante, per ora, era che Itachi si riprendesse. E aveva sentito il dottore quando gli diceva che non doveva arrabbiarsi o stressarsi… anche Sasuke voleva fare del suo meglio per farlo stare bene, e cercare di andare bene a scuola e di integrarsi era l’unica cosa che poteva fare. Ritornare in Giappone era impossibile, considerando come si erano evolute le cose.

Itachi fu felice nel sentirlo dire quelle parole, anche se sapeva che Sasuke fingeva di essere interessato. Forse la loro vita poteva prendere una piega migliore di quella che si aspettava visti i primi giorni a Londra.

E infine eccolo lì, che preparava il sushi alle sette di sera, con la tavola apparecchiata  e cellulare a portata di mano, aspettando che Asami si presentasse a casa sua l’ora dopo. Gli faceva piacere pensare di poter stare un po’ da solo con lei in circostanze diverse dall’ospedale, e che potessero comportarsi come fidanzati in un momento più tranquillo della vita di entrambi, mentre Sasuke era in gita.

Pulì la cucina ed apparecchiò la tavola, e nel momento in cui appoggiò le bottiglie sul tavolo, il campanello suonò.

Rispose al citofono indicandole il piano, e poi l’aspettò sulla porta, salutandola con un sorriso e un abbraccio.

Asami si allungò sulle punte dei piedi posando delicatamente le labbra sulle sue, e poi gli sorrise di rimando, mentre lui la invitava ad entrare e l’aiutava a sfilarsi il cappotto.

«Hai una bella casa» gli disse guardandosi attorno, sistemandosi le maniche del maglione, «Più ordinata della mia» aggiunse poi, incapace di togliersi quel sorriso da cretina dalla faccia.

Itachi era il classico esempio del bravo ragazzo, uno di quelli da presentare alla famiglia e da tenersi abbastanza stretto, e le piaceva davvero. Dopo una serie di relazioni storte si era ripetuta più volte che prima o poi si sarebbe innamorata e avrebbe instaurato un rapporto saldo e stabile con qualcuno. Forse questa era la volta buona, indipendentemente dal fatto che lo avesse ripetuto all’inizio di ogni sua storia.

Itachi la ringraziò invitandola a sedersi al tavolo apparecchiato, prendendo posto davanti a lei.

Il sushi al centro del tavolo aveva un aspetto bellissimo, se lo aveva preparato lui non biasimava di certo Sasuke, costretto a mangiare i suoi orrendi piatti per due settimane.

«Hai cucinato tu?» la domanda le uscì spontanea mentre recuperava le bacchette al lato del piatto, e Itachi annuì.

«Volevi mangiare giapponese vero, no?» le rispose strappandole un sorriso, «Così magari impari anche ad usare le bacchette».

Asami rise sistemandosi meglio sulla seggiola, «È solo una scusa per farti due risate mentre mi faccio cadere addosso il cibo» scherzò allungando la mano per sfiorare la sua, «Ma ti perdono perché sai cucinare e per una sera mangerò qualcosa di commestibile».

Itachi ridacchiò servendo prima lei, «Se Sas’ke non si è lamentato significa che non cucini poi così male».

«Allora Sascake non ha le papille gustative» ribatté, ringraziandolo poi per averle servito la cena.

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Ebbene, dopo questo mese e passa di silenzio, siamo riuscite a tornare e – udite udite – con un giorno di ritardo!

Ci dispiace molto per non aver pubblicato ieri, ma  abbiamo avuto un… contrattempo (no, la verità è che ci siamo incontrate e siamo tornate a casa tropo tardi per riuscire a pubblicare qualcosa. Quindi abbiamo deciso di ritardare un giorno ma, almeno, fare le cose per bene.

In tutti i casi siamo qui e, speriamo, che l’attesa sia stata ripagata. Itachi e Asami si sono finalmente messi assieme Ed è una bella notizia, anche se questo significa che Ikigai volge al termine… ;____; Tuttavia, potrete leggere di loro ancora su Colla! Non preoccupatevi ♥♥

Non abbiamo molto altro da dire, se non augurare buone vacanze a chi le ha e buona maturità se qualcuno dovrà ancora dare l’esame orale!

Intanto sveliamo il mistero di Itachi e della sua malattia. Dopo lunghissime ricerche su internet alla ricerca di qualcosa che avesse sintomi simili alla sua malattia sconosciuta nel manga, abbiamo trovato la “stenosi mitralica”. Noi non abbiamo competenze mediche, ma ci siamo aggrappate a internet, e alla fine non è nient’altro se non la riduzione dell'orifizio valvolare mitralico del cuore, causata a volte da un processo infiammatorio che colpisce i lembi valvolari o il loro apparato di sostegno. Questo determina un ostacolo al passaggio di sangue dall'atrio sinistro al ventricolo sinistro e causa sputo ematico, affaticamento dopo piccoli sforzi, mancanza del respiro, e tutto quello che avete visto.

Ecco tutto.

Noi invece riprendiamo le solite abitudini e ci vediamo il mercoledì 8 giugno!

Grazie sempre per il supporto, per aver sopportato l’attesa e per essere ritornati qui! Vi amiamo anche per questo. ;3;

 

papavero radioattivo

 

 





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Capitolo 8
*** CAPITOLO O T T A V O ― Le cose belle. ***




capitolo

O T T A V O

 

Le cose belle.

 

 

 

Itachi entrò in casa dopo una giornata di lavoro, sfilandosi il cappotto e poggiando le chiavi dell’auto nel contenitore che avevano all’entrata.

«Sas’ke, sono a casa!» affermò cercando di capire dove fosse suo fratello – solitamente lo trovava sul divano a studiare, o al tavolo della cucina, ma non era in nessuno dei due posti.

Attraversò il corridoio legandosi meglio i capelli dietro la nuca, e quando arrivò davanti alla porta della sua stanza finalmente lo vide, intento a trafficare con le valige che aveva messo in un ripiano dell’armadio.

«Che stai facendo?» gli chiese, osservandolo mentre faceva cadere una ad una le grosse borse impolverate sul suo materasso. Naturalmente non era un problema di Sasuke se lui avesse dormito nella polvere, gli sembrava ovvio.

Il più piccolo si bloccò per un istante, lanciando sul pavimento un’altra borsa, «Sto cercando una cosa» si limitò a rispondergli, scaraventando fuori dall’armadio anche l’ultima borsa, «Che non è qui, e non è nemmeno in camera mia».

Itachi sospirò passandosi la mano sul viso, era stanco, e francamente non gli andava di stare dietro ai raptus di suo fratello, ma dal momento che stava distruggendo la casa, e in particolare la sua camera, forse era il caso d’intervenire.

«Se mi dici che cosa stai cercando forse ti posso aiutare» gli fece notare recuperando le valige, incominciando a rimetterle al posto mentre Sasuke saltava giù dal materasso, sul pavimento, stendendosi a terra.

Lo vide infilarsi sotto il letto senza dire niente, e qualche secondo dopo riemerge stringendo qualcosa fra il pollice e l’indice, qualcosa che non sarebbe dovuto essere lì. Itachi arrossì chiudendo gli occhi, cercando di trovare qualcosa d’intelligente da dire mentre suo fratello lo guardava con quel reggiseno in mano, altrettanto rosso in viso. Era una situazione decisamente imbarazzante, ma oramai Sasuke era grande, e prima o poi – in un modo o nell’altro – l’argomento sarebbe saltato fuori.

«Non è quello che pensi» gli disse, cercando di spiegarsi, «Asami ha dormito qui quand-».

«Non voglio saperlo» la faccia di Sasuke era qualcosa di comico e indescrivibile, lasciò cadere l’intimo sul pavimento e poi uscì dalla stanza in silenzio. Itachi si massaggiò le tempie cercando di tornare ad un colorito quanto meno umano, ripensando alla sera in cui Asami aveva cenato da loro.

Si era fermata a dormire, ma non avevano fatto sesso, forse lei lo aveva tolto per dormire, ma in qualsiasi caso non era importante.

Raggiunse Sasuke steso sul divano, con il naso dietro un libro che probabilmente non stava leggendo, e poi si sedette accanto a lui.

«Puoi ascoltarmi un secondo?» gli chiese poggiando la mano sul libro, cercando di abbassarlo per guardarlo in faccia, ma lui non ne voleva sapere.

«Tu e Asami state assieme, ed era ora, quindi non credo ci sia niente da dire» borbottò con il suo solito fare piatto e sbrigativo, senza alzare gli occhi dalle pagine.

Itachi lo guardò espirando a fondo, e poi allungò una mano a scompigliarmi i capelli, osservandolo mentre si stringeva nelle spalle e storceva gli occhi infastidito, prendendogli il polso per farlo smettere.

«Comunque cercavo le mie scarpe» gli disse, cambiando argomento, e Itachi sorrise alzandosi dal divano.

«Ti ho detto che le avrei messe sul balcone» gli ricordò, andando verso la portafinestra per recuperargliele.

Sasuke lo guardò allontanarsi, domandandosi come avrebbe fatto a guardare in faccia Asami alla lezione di quel pomeriggio senza pensare al suo reggiseno blu, sotto il letto di suo fratello.

 

  -――-

 

Itachi inspirò profondamente. Il riscaldamento dell’auto era così alto che faceva fatica a respirare.

Non sapeva perché era così agitato. L’idea di essere fidanzato da più di due mesi gli piaceva – a Sasuke, inoltre, sembrava non dare fastidio. Certo, la storia del reggiseno blu di Asami non sembrava essere dimenticata del tutto, ma almeno non ne parlavano più e Sasuke non lo guardava più con quella faccia di disgusto misto disapprovazione.

Certo, come se lui non avesse mai… iniziò a pensare, bloccandosi subito dopo. No. Non voleva entrare nella sfera privatissima di suo fratello. Erano fatti suoi. Se avesse avuto problemi e avesse voluto dei consigli, sapeva dove trovarlo.

Aprì il finestrino, spegnendo il riscaldamento per inspirare profondamente un po’ di aria fresca. Era esattamente quello di cui aveva bisogno: respirare. Non gli sembrava così difficile… lo faceva continuamente da quando era nato. L’idea di non riuscire più a farlo perché era in imbarazzo lo tormentava… imbarazzo di cosa?

Ridacchiò, passandosi una mano sugli occhi, controllando il volante con la mancina. «Devo smetterla di farmi tutti questi problemi senza senso…» borbottò a sé stesso, rallentando per parcheggiare.

Aveva promesso ad Asami che sarebbe andata a prenderla dopo il lavoro al Dojo. Sasuke era a casa con alcuni suoi compagni di scuola per studiare, e Itachi non voleva di certo disturbarli – inoltre, se c’era la possibilità di rimanere un po’ con Asami senza sentirsi gli occhi del più piccolo addosso avrebbe colto l’occasione al balzo. Chiuse la macchina, infilando le mani in tasca per sopravvivere al congelamento mentre aspettava che i bambini uscissero dalla palestra, accompagnati dai genitori che erano andati a prenderli.

«È permesso?» chiese, scherzando, osservando Asami togliersi la tunica bianca per sostituirla con un maglione verde militare. Un colore che, a dire il vero, le donava molto.

La ragazza si voltò e gli sorrise, ritornando a piegare le proprie cose per infilarle in borsa, «Ha preso appuntamento, signore?» domandò sarcastica, sfilandosi i pantaloni per rimanere in leggings. «Se ha qualcosa da chiedere deve rivolgersi direttamente al mio superiore» continuò, cercando il paio di jeans da mettersi. C’erano un paio di sue amiche che, se avessero visto quella sua abitudine dei pantaloni sopra i leggings, probabilmente l’avrebbero uccisa seduta stante. Ma l’importante era stare caldi.

«Veramente volevo scambiare due parole con lei, signorina Miyagi…»  continuò lui, tenendole il gioco.

Asami estrasse i calzini e gli anfibi dalla borsa, chiudendola poi con un gesto secco. Si girò completamente verso di lui slegandosi i capelli, «Mi dispiace, anche io ricevo solo su appuntamento» disse, pettinandosi con le dita.

Itachi le sorrise, e quel gesto gli illuminò il volto. Le prese il gomito con delicatezza, tirandosela vicino per stringersela e si chinò a lasciarle un bacio sulle labbra, «Volevo dirti che Sas’ke ha dei compagni di scuola a casa…» la informò, accarezzandole la schiena prima di lasciarla libera di finirsi di preparasi, «Non mi va di stare lì e fare l’avvoltoio, ormai sono grandi» già, si consolò, non aveva senso continuare a trattarlo come un bambino piccolo. Quindici anni erano tanti e bisognava consentire una certa autonomia. «Ho pensato che potevamo fare un giro, magari» propose, sedendosi sulla panchina che costeggiava la sala, aspettando che lei finisse di mettersi le scarpe, «Se hai bisogno con la spesa…» disse, provocatorio.

«Non ci sperare, Uchiha» rise lei, «La spesa la farò da sola fino alla fine dei miei giorni». Asami sbadigliò, scompigliandosi i capelli prima di mettersi in piedi e caricarsi sulla spalla la borsa, «Ma se vuoi puoi venire a casa mia… Ormai Neko non ha più bisogno di stare con la mamma» lo informò, facendogli intendere dove voleva andare a parare, «Magari portarlo a casa sarebbe una bella sorpresa per Sascake, non credi?» chiese sorridendo.

Itachi annuì, tendendole la mano per stringerla ed accompagnarla alla propria macchina.

Il sorriso di Asami faceva sembrare tutto più bello.

 

  -――-

 

Quando Asami aprì la porta, Gandalf, Guinness e Paprika andarono a strusciarsi sui loro piedi. Addirittura Severus, che doveva essere il meno socievole tra i gatti, si era avvicinato e gettato a pancia all’aria, come a richiedere le coccole.

«Che hanno i tuoi gatti?» domandò Itachi, chinandosi a grattare Severus che, in tutta risposta, iniziò a strusciarsi sul pavimento.

«Vogliono da mangiare, questi delinquenti» rispose l’altra, abbandonando la sacca sul pavimento prima di afferrare Gandalf, il più vecchio, tra le braccia, lasciandogli una cascata di bacini sulle guance, «Yin e Yang lo avranno finito» commentò poi, come a voler giustificare l’assenza degli altri due.

«E i cuccioli di Guinness?» s’interessò Itachi, allontanandosi da Severus quando questo iniziò ad arpionargli la mano per giocare. Severus che giocava era un po’ come sentire Sasuke ridere: un’occasione più unica che rara.

«Saranno di là a giocare, figurati!» ribatté Asami, «Non fanno altro che mangiare, giocare, vomitare, cadere e distruggermi la casa!» gli disse, indicandogli sul tavolo una serie di cocci che, una volta, dovevano comporre un vaso, «Per la cronaca, non è stato Neko» lo rassicurò. Sapeva che Itachi non avrebbe gradito più di tanto avere una piccola bestiola che distruggeva tutto – escluso Sasuke, s’intende.

«Qualcosa mi dice che sarà come avere un altro fratello…» borbottò lui, appoggiandosi sul muro della cucina mentre osservava la fidanzata aprire tre bustine di cibo umido per gatti e versarle nelle ciotole completamente vuote. Si avvicinò per guardare i pacchetti vuoti, leggendone il sapore. «”Tonno al naturale e gamberi in un delicato e raffinato brodo”…» iniziò, cambiando poi la confezione, «”Tonno al naturale con alici e surimi”», ridacchiò e buttò tutto nella spazzatura, «Certo che li tratti bene…».

Asami sorrise, cercando di scavalcare i gatti per arrivare alla porta sana e salva, «Più che un fratello, ti sembrerà di avere un figlio» rispose, facendolo sorridere. Gli prese la mano e lo condusse in sala, sedendosi sul divano e trascinandolo con lui.

«Sei stanca?» le domandò Itachi, mettendosi comodo vicino a lei, lasciando che Asami si appoggiasse alla sua spalla. A forza di stare con i gatti, quella ragazza stava diventando esattamente come loro. Si appoggiava e strusciava sugli altri con quella delicatezza e quella innocenza dei cuccioli di Guinness che gli facevano sempre tenerezza.

«Il gruppo dei bimbi è tremendo» rispose lei, alzando il viso per mostrargli il proprio sorriso. Aveva un viso che gli sembrava minuscolo e fragile, e lui aveva l’obbligo di tenerlo tra le mani e proteggerlo da tutto ciò che potesse romperlo.

«Meno male che Sas’ke non è così piccolo, allora» ridacchiò lui.

«Oh no! Sasuke ha talento… sai?» disse, quasi si illuminasse parlando del proprio lavoro, «Ha dei riflessi pazzeschi. Magari è nel sangue» continuò, ritornando appoggiata alla sua spalla.

«Ha fatto kendo per un po’» confessò lui, «Gli piacciono le katane».

«Che ragazzo violento!» commentò Asami, ridendo, «Addirittura affettare la gente…».

Il suo commento rimase sospeso nel nulla, mentre gli occhi scuri di lei si specchiavano nei pozzi neri di Itachi che, inconsciamente, le sorrideva. Aveva ancora quella sensazione di doverla proteggere, che fosse piccola e fragile come un soprammobile di vetro o di ceramica – esattamente come quello rotto dal vaso. Tutte le volte che pensava a lei, cercava di ricordarsi ogni dettaglio di Asami: le labbra sottili, il naso piccolo e dritto, il taglio degli occhi insolitamente orientale. Ricordava anche le unghie tagliate corte e le clavicole leggermente sporgenti.

«Sas’ke mi guarda ancora male per la storia del reggiseno…» disse lui, quasi senza pensarci, spostandole un ciuffo di capelli dal viso.

«Evidentemente è geloso perché non ne ha mai visto uno su una persona dal vivo in vita sua» ridacchiò lei, mettendosi sulle ginocchia per poterlo baciare sulle labbra senza farlo abbassare.

Itachi voleva farle notare che lui non l’ha vista in reggiseno, e che non avevano combinato nulla di quello che Sasuke pensava fosse successo quella notte. Ma non importava. Le sfiorò le spalle, scendendo sulla schiena, sentendo la sua colonna vertebrale incurvarsi sotto il suo tocco. Il respiro di Asami gli sfiorò le labbra e le guance come una carezza, con gli occhi socchiusi, lei sembrava ancora più bella.

«Forse possiamo rimediare a quella sera…» commentò, facendo scorrere le mani sul petto di Itachi, sfiorando i bottoni del maglione, arrivando alla cintura dei jeans. Lo vide arrossire appena e sorrise. Da una parte, non se l’aspettava minimante – dall’altra invece… beh, era plausibile che reagisse in questo modo.

Itachi non voleva forzarla. Ed era esattamente il genere di ragazzo che non fondava una relazione sull’aspetto fisico o faceva sesso al primo appuntamento. Era così diverso dai fidanzati che Asami aveva avuto! Gli sorrise, spostando una mano verso la sua guancia, lasciandogli una carezza affettuosa prima di allungarsi per avere un altro bacio.

Rimase in silenzio, tenendo le mani sui suoi fianchi mentre la baciava ancora, scendendo poi sul suo collo. Le spostò i capelli con un gesto delicato, di quelli che si riservano ai fiori e ai bambini. E si sentì una bambina quando lui la prese in braccio, stando attento a non calpestare i gatti o inciampare nei tappeti. Asami sorrideva e ridacchiava contro la sua spalla, sentendosi dopo tanto tempo amata da qualcuno. Il letto sembrò più morbido del solito e lo sentì sprofondare quanto Itachi la coprì con il suo corpo, ritornando a battezzare ogni centimetro di pelle del suo viso e del suo collo con le sue labbra.

Asami gli sciolse i capelli, scoprendoli improvvisamente morbidi quanto fastidiosi. Li tenne con una mano mentre Itachi ridacchiava e le faceva notare che era stata una pessima idea.

«Non è stata una pessima idea» ribatté lei, tirandoglieli appena mentre il ragazzo le accarezzava il fianco sotto i vestiti, «È stata un’idea messa in pratica senza ragionarci» rispose poi, gonfiando appena le guance.

E lui sorrise ancora. Sembrava fatto di sole, portava dentro casa quel tepore che ricorda le giornate di giugno, quando il brutto tempo di Londra lasciava spazio al fresco e alla brezza estiva. Gli sfilò il maglione, sbottonandogli piano la camicia, scoprendo i muscoli appena accennati e quel cuore un po’ malandato battere ancora sotto la pelle di neve. Asami si sentiva esplodere ogni volta che le dita di Itachi toccavano una parte di lei che non aveva mai conosciuto, e sorrise nel pensare che, forse, un giorno le avrebbe contato tutti quei minuscoli nei che le ricoprivano la schiena e il ventre.

Lo allontanò appena, quel che bastava per sedersi e togliersi il maglione. Il freddo le penetrò fin dentro le ossa e Itachi sembrò desideroso di provvedere immediatamente, facendola stendere ancora, seguendo le clavicole con le labbra umide, accarezzandole le spalle con le dita lunghe e morbide, intrecciandole poi alle sue.

«Sei la cosa più bella che mi potesse mai capitare…» commentò  lui, baciandola di nuovo sulle labbra mentre afferrava i lembi della canottiera. La osservò mentre sorrideva e arrossiva per quei complimenti che, evidentemente, non aveva mai sentito. La pelle d’oca la impreziosiva come una trama raffinatissima fatta sulla porcellana bianca.

«Evidentemente ti accontenti di poco» scherzò lei, la mano dietro al collo di Itachi per avvicinarlo di nuovo, sentendo il calore della pelle contro la propria, la sensazione di un cuore battere sul proprio. Gli tolse la camicia, lasciandola cadere da qualche parte sul letto, mentre il respiro di Itachi le riempiva le orecchie e annebbiava il cervello. Ebbe l’impressione che quello che aveva visto negli ultimi mesi fosse solo il fantasma di Itachi, un ologramma ben costruito che lei potesse addirittura toccare, ma che fosse freddo. Scoprì che dentro di lui, dentro quel giapponese dagli occhi scuri e la pelle chiarissima, c’era il calore di una persona innamorata che aveva la necessità di essere donato a qualcuno. E si sentì bene quando le sue mani le strinsero i fianchi, ed il suo viso si nascose nell’incavo del suo collo, chiamandola piano mentre tutto il dolore e il freddo della vita andavano via, lasciando il posto a loro due e nient’altro.

Itachi sembrava fatto di aria, quando si muoveva, volteggiava tra le persone senza mai toccarle davvero. Era lontano nella sua gentilezza e pacatezza, come se avesse sempre un segreto da nascondere. Asami lo aveva sentito, mentre gli stringeva le spalle e gli lasciava minuscoli graffi rossi sulla sua pelle, e gli chiedeva scusa perché sembrava che lo avesse attaccato una banda di gatti randagi.

Lui le spostò i capelli dal viso arrossato e le baciò ancora le labbra, osservandola scompigliata tra i cuscini. «Non fa niente» le disse, e Asami pensò che la primavera fosse arrivata davvero, in quella Londra fredda e buia.

              

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Ebbene, anche questo capitolo in ritardo

Lo sappiamo, lo sappiamo che abbiamo giurato e spergiurato che saremo arrivate puntuali dopo la nostra assenza, ma oh, che ci volete fare! Speriamo solamente che l’attesa sia valsa dopo questo capitolo, e che voi abbiate vomitato un sacco di cuoricini come abbiamo fatto noi ♥♥

Chiariamo subito che no, Itachi e Asami non hanno fatto nulla quella sera in cui Sasuke era fuori con la scuola, ma, come aveva chiesto Asami, hanno recuperato tutto quello che c’era da recuperare.

Dopo i sette capitoli, il fermo di un mese e il ritardo nella pubblicazione, speriamo davvero che la piega che Ikigai sta prendendo sia di vostro gradimento ^^ Il prossimo capitolo sarà quello finale e, per chiudere il tutto, pubblicheremo un epilogo. Insomma, ad ogni settimana questo breve viaggio si avvicina al termine! Ci mancherà Asami, ma faremo in modo che compaia anche in Colla, non preoccupatevi! :*

In più ci teniamo a comunicare che i gusti del cibo per gatti sono rigorosamente autobiografici dei nostri gatti viziati che distruggono cucine quando non gli dai da mangiare.

Per ora è tutto, sperando di non arrivare in ritardo, dovremo sentirci mercoledì 15 luglio! Se dovesse succedere che siamo ancora in ritardo, vi assicuriamo che pubblicheremo entro la fine settimana.

Ringraziamo anche le nuove stelline che si sono aggiunte e mandiamo loro un cuoricino!

 

papavero radioattivo

 

 





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Capitolo 9
*** CAPITOLO N O N O ― Ritardo (mentale). ***




capitolo

N O N O

 

Ritardo (mentale).

 

 

 

Sasuke afferrò la maniglia arancione della gabbietta con entrambe le mani, concentrandosi per tenerla ben stretta mentre Neko, al suo interno, dondolava.

«Tienitelo contro la pancia» gli suggerì Asami, posizionando le braccia come se stesse tenendo un grosso cesto di vimini contro lo stomaco, «Così se ci sono degli animali dentro non li vede ed evitiamo il Pandemonio» gli sorrise.

«Dici che è abbastanza grosso da non riuscire a girarsi nella gabbietta?» domandò senza interessi Sasuke mentre seguiva le sue istruzioni, trattenendo il respiro per lo sforzo. Già il gatto pesava, se poi ci si metteva pure l’ingombro della gabbia!

Asami ridacchiò, avvicinandosi al citofono per farsi aprire la porta. «Sono venuta per il cip e l’antirabbica per un gatto» spiegò brevemente, la guancia era quasi incollata all’apparecchio. La porta si aprì con un sono clack che fece sobbalzare un Sasuke sovrappensiero. Ma Neko rimase impassibile.

«Andiamo?» chiese Asami, gentile, tenendogli aperta la porta mentre l’altro entrava con otto chili di gatto tra le braccia.

Asami gli guardò le spalle mentre appoggiava la gabbia di Neko su una sedia, in modo da riprenderla in modo più comodo. Era cresciuto un sacco, aveva lo stesso fisico di Itachi e, se non fosse stato per quel taglio di capelli corto, sarebbe stato di certo uguale al fratello maggiore. Erano passati quasi quattro anni da quando l’aveva visto per la prima volta – sembrava quasi un bambino! E ora lo stava accompagnando dal veterinario per preparare Neko al viaggio fino in Giappone.

Lei lo sapeva che avrebbe pianto quando Sasuke si sarebbe imbarcato. Già si stava preparando i fazzoletti!

«Asami?» la chiamò il ragazzo, girato appena verso di lei. Aveva quel taglio di occhi un po’ stanco, quasi scocciato, e le labbra tirate perennemente in un’espressione apatica. Che faccia da sberle! Aveva confessato più di una volta a Itachi che ogni tanto avrebbe voluto tirargli due calci rotanti in faccia, gliel’avrebbe gonfiata così tanto che sarebbe assomigliato a Majin Bu di Dragon Ball.

Ovviamente scherzava.

«Come sei frettoloso!» gli rispose, raggiungendolo mentre la veterinaria faceva capolino dal corridoio, salutandoli con un sorriso.

«Siete quelli del gatto, vero?» domandò retorica, aggiustandosi il camice, «Da questa parte, prego»  e fece strada verso il suo studio con le pareti di vetro mentre un altro uomo con la tuta verde si univa lei, iniziando ad estrarre da un cassetto l’occorrente.

«È per il passaporto?» domandò la dottoressa mentre preparava tutte le carte necessarie.

«Sì» ribatté Asami, facendo segno a Sasuke di togliere il gatto dalla gabbia, «Va in Giappone».

«Un bel viaggio!» commentò, infilandosi i guanti.

Sasuke aprì la grata e lasciò che Neko zampettasse fuori dalla gabbia arancione, gli lasciò una carezza sul pelo, facendolo stendere sul tavolo in metallo mentre ascoltava Asami chiedere alla dottoressa come fare per passare Neko a lui e per ultimare il passaporto.

«Gli farà più male l’antirabbica o il cip?» domandò poi la ragazza, togliendo la gabbia dal tavolo, osservando la nonchalance con cui Neko se ne stava sdraiato sul tavolo.

«Il cip» rispose la dottoressa con un sospiro, «Ha un ago molto grosso» spiegò, mostrando una sorta di pistola verde con la punta di quasi mezzo centimetro di diametro. «Glielo mettiamo tra l’orecchio e la spalla sinistra, lo registriamo e poi facciamo l’antirabbica».

Asami annuì, osservando Sasuke che continua a coccolare Neko, tirandogli via una consistente palla di peli caduti per il cambio stagione. L’inserviente si avvicinò al ragazzo, mostrandogli come doveva tenere fermo il gatto. «Non avere paura di tenerlo» gli spiegò, facendo afferrare saldamente Neko per la collottola.

La veterinaria si avvicinò, disinfettando la pelle di Neko nel punto in cui ci sarebbe stata l’iniezione, prima di afferrare il lembo di pelle e cercare di bucarlo, «Che pelle da asino!» commentò, prima di riuscire a far entrare dentro l’ago. Neko si irrigidì di colpo e Sasuke aumentò la presa, schiacciandolo appena contro il tavolo. In un momento, la dottoressa estrasse l’ago e tamponò con un batuffolo di cotone, prima di lasciare una carezza alla guancia dell’animale, «Ma che bravo gatto che sei!» gli disse, prima di schioccargli un bacio sul muso.

«Vediamo dov’è…» borbottò l’altro medico, brandendo uno strano strumento con un display verdastro sul lato, assomigliava ad un metal detector e la cosa fece quasi spaventare Sasuke. Tastò il gatto per cercare il cip, «Non lo trova» disse alla veterinaria, passando più volte l’arnese su Neko, il quale iniziava ad agitarsi, «Dobbiamo tosarlo».

Asami ridacchiò, osservando la macchinetta per rasare il gatto mentre la veterinaria faceva stendere Neko, aiutando Sasuke a tenerlo fermo. Quando la breve operazione fu conclusa, il gatto sembrava assolutamente contrariato.

Il metal detector suonò e il cip venne identificato. «Signorina, mi segua» disse l’uomo, facendo segno ad Asami di raggiungerlo al computer, in modo da poter compilare tutto il necessario per mettere in regola lo spostamento del gatto.

«Ora tocca all’antirabbica» informò la veterinaria, andando a prendere l’ago e la fiala necessari, «Tienilo come prima» gli chiese.

«Neko…» lo chiamò piano Sasuke, cercando di calmarlo. La donna lo vaccinò vicino alla zampa posteriore sinistra e, appena estrasse l’ago, il gatto sfuggì alla presa di Sasuke, cercando di saltare giù dal tavolo.

«Buono…» cercò di calmarlo la donna, massaggiandogli la zona della puntura, «È un bravo gatto…» commentò, sorridendo.

«Ha fatto più storie per questo che per il cip» disse Sasuke, osservando Neko arrendersi alla situazione, sdraiandosi sul tavolo con fare melodrammatico.

Ormai mancava solo che fosse pronto Sasuke, poi sarebbe potuto partire.

Tornare in Giappone.             

 

  -――-

 

Asami scese dall’auto mentre Itachi aiutava Sasuke a scaricare le valige dall’auto e lei recuperava Neko, infilando l’indice nel trasportino per fargli una carezza. Non lo aveva mai visto così tranquillo, e anche se sapeva che era colpa del tranquillante, le faceva quasi impressione vederlo così docile e assonnato.

Con i suoi otto chili era il gatto più robusto della cucciolata di Guinness, ma non era grasso, erano otto chili di muscoli e pelo e pesava quanto un cucciolo di cane.

Si era imposta di non piangere, Sasuke non stava partendo per la guerra, e appena Itachi sarebbe riuscito a prendersi una settimana di ferie sarebbero andati a trovarlo in Giappone, quindi non c’era alcun bisogno di fare la vecchia sentimentale.

Entrarono all’aeroporto mentre Sasuke spingeva il carrello i bagagli. Sembrava tranquillo, quasi sollevato dal solo pensiero di tornare a Konoha, non lo vedeva così da… mai, praticamente.

«Devi mandarmi una cartolina, Sascake» gli disse mentre si incamminavano per imbarcare le valige, «E fatti sentire, altrimenti ti chiamerò alle due del mattino senza farmi troppi problemi sul fusorario» continuò con un sorriso, mentre Itachi prendeva la gabbietta di Neko dalle sue mani con un «Lascia a me», probabilmente dettato dal fatto che la vedeva arrancare con quegli otto chili in più. «E mandami le foto di Neko» continuò mentre Sasuke annuiva continuando a camminare.

«E facci sapere come ti trovi all’università» aggiunse Itachi. Quella forse era la cosa che più li preoccupava: non avevano consigli spassionati da dargli a riguardo, dato che nessuno dei due aveva avuto la possibilità di frequentarla.

Sasuke sospirò fermandosi in coda, «Avete altro da dire?» chiese, ma non era scocciato, aveva quell’aria da cucciolo orgoglioso che si finge infastidito per rifuggire all’affetto, «State diventando noiosi» borbottò mentre la mano di Itachi gli si posava sulla spalla in un gesto d’affetto.

«Ti abbiamo già detto tutto in quest’ultimo mese» sorrise, lasciandolo poi libero di fare.

Aspettarono che gli consegnassero la carta d’imbarco al check-in, e poi con il bagaglio a mano e Neko lo accompagnarono fino alla sicurezza, dove Asami lo bloccò prima che potesse andarsene senza nemmeno darle un abbraccio.

«Dammi un bacio, Sascake» gli disse aggrappandosi al suo collo, poggiando le labbra sulla sua guancia e stringendolo un poco, «Un po’ mi mancherà sentirti borbottare» gli mormorò mentre lui la lasciava fare, guardando Itachi sorridere a quella scena.

Sarebbero mancati anche lui.

 

  -――-

 

Itachi entrò in casa chiudendosi la porta alle spalle, cercando di non fare troppo rumore.

L’orologio appeso nel soggiorno segnava le 23:18, ma non gli sembrava comunque il caso di svegliare Asami. Probabilmente già dormiva, aveva avuto tre lezioni quel giorno, e solitamente era stanchissima.

Posò la borsa sul divano, e poi attraversò lentamente il corridoio, inseguito da Paprika e dal suo campanellino che tintinnava nel silenzio. Quando avevano incominciato a convivere si era dovuto abituare anche ai gatti, al loro arrampicarsi sul cuscino e dormire ai piedi del letto, ma non era stato tanto difficile, non quanto convincersi che Sasuke stava bene in Giappone, lontano da lui, in un appartamento con i suoi amici. Da un lato era stato felice di sapere che avrebbe avuto compagnia in casa, ma dall’altro non voleva che se ne andasse, anche se sapeva che prima o poi lo avrebbe fatto.

Non poteva restare con lui per tutta la vita, non era più un quindicenne, era perfino diventato più alto di lui!

Entrò in stanza osservando Asami dormire con Guinness, appallottolata al suo fianco, e poi sorrise chinandosi a lasciarle un bacio fra i capelli. La ragazza mugolò, stringendosi nelle spalle.

«Itachi…» mormorò girandosi a pancia in su, quasi schiacciando la gatta che, stiracchiandosi, si spostò in fondo ai suoi piedi, «Che ore sono?» chiese senza aprire gli occhi, e lui non capì se fosse sveglia oppure se stesse ancora dormendo.

Le accarezzò i capelli sedendosi accanto a lei, coprendola meglio con il piumone, «Tardi, dormi…» sussurrò, ma Asami gli prese la mano, intrecciando le dita alle sue e aprendo finalmente gli occhi.

«Com’è andata al lavoro?» gli chiese, e lui sorrise accendendo l’abatjour sul comodino, accecandola.

«Tutto bene, come sempre» ridacchiò mentre lei strizzava gli occhi, liberandogli la mano, «Adesso la spengo, fammi cambiare» le disse, e lei strisciò fuori dalle lenzuola, allungandosi per abbracciargli il collo e stampargli un bacio sulla guancia.

Oramai erano entrati in sintonia, ognuno aveva metabolizzato le abitudini altrui, i tempi, i ritmi di vita, e non c’era cosa più bella del tornare a casa e avere qualcuno nel letto ad aspettarti.

Asami lo tirò sul materasso con lei, ridacchiando come una cretina, «Devo dirti una cosa…» sussurrò come una bambina, sciogliendogli i capelli mentre lui faceva leva con i gomiti sul materasso, evitando di schiacciarla.

«Domenica andiamo a cena dai tuoi?» la precedette, ma lei sorrise e scosse il capo, sfiorandogli il profilo del naso con la punta dell’indice.

«Ma se ci tieni tanto dico a mia madre che andiamo da loro» ribatté facendo scivolare le mani sul suo petto, iniziando a sbottonargli la camicia. La faccia di Itachi  bastò a suggerirgli che non aveva intenzione di sopportare un’altra riunione familiare, non dopo averli visti praticamente per tutta la settimana. 

«Sono stati qui tutti i pomeriggi da lunedì» ammise facendola ridere, «Non è che non voglia vederli, solo che-».

«Che vuoi restare da solo con me» scherzò lei, raccogliendogli i capelli con le dita. Era divertente metterlo in imbarazzo, anche se oramai non arrossiva più alle sue stupide frecciatine. «Ma adesso stai zitto e ascolta me, per favore» aggiunse tappandogli la bocca con la mano, impedendogli di ribattere in qualsiasi modo. Lo sentì sorridere contro il suo palmo mentre lei si sforzava di restare seria e guardarlo negli occhi senza ridere con scarsi risultati, «Volevo dirti che ho un ritardo» disse semplicemente

Itachi non sapeva cosa aspettarsi. Conoscendo Asami, per lei «avere un ritardo»  poteva significare anche un ritardo mentale, e di certo non si sarebbe stupito di una battuta del genere. Ma c’era qualcosa nel suo sguardo, che gli faceva capire che non si stava riferendo alla sua stupidità. Itachi trattenne il respiro, cercando di concentrare il suo cervello già stanco.

«Asami…» mormorò, prima di sorridere e vedere i contorni del viso di lei sfocati dalle lacrime, si mise in ginocchio, tirandola seduta per stringerla e lasciarle un bacio sulla fronte.

«Spero siano lacrime di gioia» mormorò lei accarezzandogli i capelli, prendendogli poi il viso fra le mani, «Non ho ancora fatto il test, però» gli disse mettendo le mani avanti – magari non aspettava nessun bambino ed era solo un ritardo dovuto allo stress, o agli sbalzi di temperatura. Ma Itachi non le rispose subito, si limitò a sorriderle e ad accarezzarle una ciocca di capelli.

«Volevo aspettare a farlo, ma visto come si sono messe le cose…» la sua voce era un sussurro mentre le scostava i capelli dietro la schiena, «Asami, vuoi diventare mia moglie?» domandò con una certa semplicità che la lasciò spiazzata. Lo guardò trattenendo a stento una risata e poi gli stampò un bacio sulle labbra.

«Oh sì!» gli rispose mentre il cuore le scoppiava nel petto, e la bocca di Itachi le sfiorava la spalla.

«Avrei voluto prima comprare l’anello, magari portarti fuori a cena, ma possiamo rifare tutto  quando sarà il momento e poi rendere ufficiale la cosa» le suggerì baciandole la clavicola e poi la radice del collo.

«E se non sono incinta?».

«Rimedieremo dopo il matrimonio».

                                                                                                  

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Lo sappiamo. Lo sappiamo che siamo in ritardo di una settimana, lo sappiamo che questo non è il “miglior ultimo capitolo” di EFP, ma per chi ci segue anche su facebook avrà notato che abbiamo deciso di rallentare le pubblicazioni, e – purtroppo – questo ha influito anche sul benedetto nono capitolo di Ikigai.

In tutti i casi, speriamo possiate apprezzare almeno il contenuto. Siamo circa quattro anni dopo l’arrivo di Sasuke e Itachi a Londra: ormai si sono ambientati e la relazione tra Itachi e Asami è andata ancora avanti. Dopo la partenza di Sasuke per Konoha (da cui poi parte Colla ).

Come per quasi tutto quello che riguarda Neko, si tratta di autobiografia(…), e anche l’imbarco ha qualcosa di personale – giusto a titolo informativo.

Non vogliamo dare una data specifica per quando uscirà l’epilogo, ma speriamo per fine luglio (sempre mercoledì) – dato che sarebbe molto più corto di un capitolo “normale” di Ikigai, e quindi più veloce.

Ringraziamo tutti coloro che hanno seguito questa fan fiction, siete i migliori

 

papavero radioattivo

 

 





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Capitolo 10
*** E P I L O G O ― Ikigai. ***




E P I L O G O

 

Ikigai.

 

 

 

Dieci giorni di ferie.

Asami gli aveva quasi lanciato il mattarello addosso, ma almeno aveva capito. Lui aveva cercato di farle notare il lato positivo della cosa: avevano finito di ristrutturare la vecchia casa Uchiha, due cani e sei gatti, e pure un laghetto di carpe koi  che lui aveva chiesto alla moglie di tenere. Severus ci era pure finito dentro, una volta, e le carpe avevano pensato bene di morderlo.

«Papà!» era una voce stridula, piedini che scivolavano sul tatami e le lenzuola che scivolavano via, scoprendogli i piedi. Sentì Amaterasu e Susanoo ansimare e salire sul letto, uno dei due gli stava leccando un piede. «PAPÀ!» urlò più forte, e quel piccolo corpicino si sedette sul suo stomaco,  costringendolo ad alzare le palpebre. Gli occhi grandissimi di Mikoto furono la prima cosa che vide.

«Ciao principessa» le mormorò, allungando le braccia per stringerla prima di rotolare sulla parte di letto di Asami, appoggiando la bambina sul materasso, attento a non schiacciarla. La osservò ridere e si chinò a lasciarle un sono bacio sulla guancia.

Uno dei cani abbaiò,  Amaterasu si arrampicava sul letto scodinzolando, mentre Susanoo si limitava a stare seduto ai piedi del materasso.

«Giù» ordinò Itachi severo, mettendosi a sedere mentre il cane ubbidiva al suo ordine e affiancava l’altro. Afferrò gli occhiali dal comodino mentre Mikoto si tappava la bocca per non ridere e si legò i capelli, prima di alzarsi e  prendere la bimba in braccio.

«Papà» lo chiamò accarezzandogli la coda di capelli, «È vero che oggi ci vengono a trovare nonno Kagami, zio Shisui e zio Saske?».

«Mi pare che vengano oggi, sì» rispose.

Mikoto esultò, lanciandosi verso il collo del padre per stringerlo in un abbraccio, «Zio Saske mi porta al parco!». Anche i cani esultarono, abbaiando senza apparente motivo, correndo attorno ad Itachi, impedendogli di andare avanti.

«Asami!» gridò, e la bambina si nascose nella sua spalla, come per non dare fastidio al padre e proteggersi le orecchie dalla voce troppo alta, «I tuoi cani stanno tentando di uccidermi!».

Silenzio, solo i cani che mugolavano e ansimavano per una felicità apparente. Asami comparse dall’angolo, brandendo una paletta da cucina come se fosse un bastone, «Ti ricordo, mio caro Itachi, che abbiamo deciso in comune accordo di prendere Amaterasu e Susanoo» disse, seria, puntandogli l’arnese contro il naso, «E se non ti sbrighi a venire in cucina la colazione diventerà fredda, ho mandato io i cavalieri dell’Apocalisse a chiamarti».

Mikoto rise, agitandosi per essere messa a terra e, quando Itachi la appoggiò sul tatami, la bimba prese a correre con le braccia alzate verso la cucina, gridando qualcosa come “Sono una guerriera!”, inseguita dai due cani.

L’Uchiha rise, scuotendo appena la testa mentre allungava una mano per afferrare piano il polso dell’altra, attirandola a sé in un abbraccio, «Comunque buongiorno» le disse, sorridendo, allungandosi a lasciarle un bacio sulle labbra.

«Buongiorno» mormorò Asami in risposta, tirandogli delicatamente un colpetto sulla spalla con la paletta, «Ha chiamato tuo fratello, ha detto che va a prendere Sakura al tirocinio e poi viene qui» gli comunicò prima di posare nuovamente le labbra sulle sue, spingendolo poi verso il corridoio.

Asami sembrava essersi abituata bene, aveva studiato la lingua in previsione di quel momento, e anche se spesso in casa parlava inglese – cosa che lo aveva portato ad avere una figlia praticamente bilingue – oramai non era poi così pessima a esprimersi in giapponese.

«Con Sakura?» le chiese, e Asami alzò le braccia in un gesto teatrale.

«Ah, non credo, si vergogna troppo della sua famiglia» scherzò raggiungendo la piccola intenta ad arrampicarsi su una seggiola della cucina, aiutandola a mettersi in ginocchio senza cadere.

Itachi sorrise allungandosi per sistemarle il bavaglio, mentre sua moglie gli versava il caffè in una tazza, «Lo sai com’è fatto su queste cose» cercò di spiegarle, e Asami annuì lanciando in qualche modo la paletta nel lavandino.

«Lo so bene, tu sei uguale» replicò con un sorriso, e poi si chinò a lasciare un bacio fra i capelli di sua figlia, «Vado a stendere i panni, voi mangiate» disse, e poi aprì la porta in carta di riso, mentre i cani sfrecciavano in giardino, iniziando a rincorrere Paprika che zampettava tranquilla.

«Non dovevi fare colazione con noi?» le chiese, afferrandole il polso con quella delicatezza con cui ormai si era abituato a toccarla. I suoi occhi, dietro agli occhiali, sembravano quelli di un cucciolo e la fecero ridere.

«Non sei diventato un po’ troppo grande per queste cose?» gli domandò retorica, liberandosi dalla sua presa per fargli una carezza sui capelli, girandogli il volto verso quello della loro figlia, «Guarda Mikoto, tuo padre ha la stessa faccia del Gatto con gli Stivali» scherzò.

«È vero!» rise l’altra, tenendo con le ditina un pezzo di pancake, facendo cadere lo sciroppo d’acero sul tavolo. Itachi sorrise e scosse la testa, lasciando Asami libera di andare a stendere i panni.

Si allungò per pulire il disastro della figlia, rubandole poi una frittella, ridendo alle lamentele della piccola. Era un suono piacevole, e lui – per fortuna – aveva iniziato ad apprezzare presto quei piccoli momenti. Non aveva mai pensato di poter vivere a lungo, di riuscire a farsi una famiglia. La sua malattia era sempre stata una note dolente nella sua vita e lui era convinto che gli avrebbe portato via tutto. La morte dei suoi genitori, inoltre, avevano riempito la sua vita di tristezza. Si era sentito in colpa per aver trascinato Sasuke a Londra  e non si sarebbe mai davvero perdonato per tutto il male che gli aveva fatto.

Continuò a sorridere, osservando come Mikoto si sporcava da orecchio a orecchio con la sua colazione, impiastricciando il bicchiere di plastica mentre trangugiava il suo succo. Era una bellissima bambina. Sua figlia.

Dal giardino, sentiva Asami canticchiare, sgridando i cani che, probabilmente, giocavano con le lenzuola. A Konoha il cielo era quasi sempre azzurro e i fiori di ciliegio erano in fiore.

«Dici che poi zio Sasuke gioca con me, papà?» le chiese la bambina, e Itachi annuì. Mikoto esultò e afferrò finalmente la forchetta, infilzando un pezzo di pancake.

Aveva il naso di Asami e il taglio dei suoi occhi, e il sorriso tipico dei bambini felici. Come quello di Sasuke alla sua età.

Era la punta del diamante. La cosa più bella che aveva costruito assieme ad Asami, senza la quale, probabilmente, non sarebbe lì, a godersi quei dieci giorni di ferie e sua figlia che lo amava tanto, nonostante non lo vedesse spesso a casa.

Tutto quello – la casa, la figlia, la moglie, il fratello quasi laureato e la sensazione piacevole che  non potesse andare meglio – era la sua ragione di vita.

Il motivo per cui svegliarsi la mattina.

Il suo Ikigai.

 

                                                                                                  

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICI → «Aschente!, giuro sui comandamenti».

 

Volevamo iniziare dicendo che stiamo piangendo. E sì, lo stiamo facendo davvero.

Siamo soddisfatte dell’epilogo, stavolta per davvero. È esattamente come lo volevamo: uno spaccato di vita quotidiana di Itachi, parecchi anni dopo. Ora abita a Konoha, nella vecchia casa dei suoi genitori (ristrutturata), una figlia che ha chiamato Mikoto e una vita che ha quel sapore di normale.

Pensavamo che fosse la conclusione perfetta per questa storia. Un po’ di sana felicità, il premio per aver sopportato tutto quello che hanno passato. Per chi segue Colla, ci troviamo più avanti rispetto a dove è ferma adesso la fan fiction (Sakura è al tirocinio e Sasuke ha quasi completato il corso di studi). In tutti i casi la storia di come Asami e Itachi sono finiti a Konoha con Mikoto è un po’ più complicata, ma ce la riserviamo per Colla, quindi stay tuned! ;)

Siamo molto felici che Asami sia stata bene accetta. Sappiamo cosa significa creare degli OC e vedere che sono così apprezzati è una delle gioie più immense che si possano provare. Vorremmo ringraziarvi anche per questo.

Siete stati un seguito bellissimo. Ci avete sopportato nelle nostre assenze, ci avete seguito nonostante tutto. E ci avete riempito il cuore di gioia. Scrivere Ikigai è stato un piacere, nonostante il livello fosse “più alto” rispetto a Colla (non fraintendeteci, ci impegniamo in egual modo con entrambe le storie!) e i protagonisti avessero altre esigenze.

Speriamo che questo epilogo possa essere piaciuto a voi come  a noi, e che ci seguiate anche nei prossimi giorni sia con Colla che con altre fan fiction che pubblicheremo (eh!).

Insomma, è finita spunteremo la casellina “Completa” di Ikigai orgogliose di questa storia e felicissime delle parole che ci avete regalato nelle recensioni o nel semplice gesto di mettere la storia tra le preferite/seguite/ricordate.

Andate in pace(?), e vi auguriamo di trovare il vostro Ikigai, esattamente come ha fatto Itachi.

 

papavero radioattivo

 

 





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