IStop running away

di Angye
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Go away ***
Capitolo 2: *** New ***
Capitolo 3: *** Leaves ***
Capitolo 4: *** Fight - part 1 ***
Capitolo 5: *** Lost moments ***
Capitolo 6: *** It's raining ***
Capitolo 7: *** Clash ***
Capitolo 8: *** Toque ***
Capitolo 9: *** Push ahead ***
Capitolo 10: *** January ***
Capitolo 11: *** Care ***
Capitolo 12: *** March ***
Capitolo 13: *** The birthday - part 1 ***



Capitolo 1
*** Go away ***


Salve a tutti.
Tre piccole premesse prima di lasciarvi alla lettura di questa storia:
- chi ha visto ICarly saprà bene che è un programma per un target di bambini/adolescenti, direi tra i 10/12 e i 14/15 anni e, ovviamente, essendo il programma uno show comico, i caratteri dei personaggi sono estremizzati al fine di far ridere.
Nella mia fan fiction, ogni cosa (personaggi inclusi) avrà un tono più serioso e adulto: considerate che Carly, Sam e Freddie hanno sui diciannove anni e credo, inoltre, che non sarei in grado di descrivere appieno sentimenti e cambiamenti se restassi fedele al cento per cento ai caratteri che siamo abituati a conoscere.
La storia, ovviamente, non sarà OOC, i tratti principali di tutti resteranno tali, non ci saranno sconvolgimenti totali, fatte alcune eccezioni, ma non posso garantire un’aderenza totale ai personaggi della serie televisiva, altrimenti non avrebbe senso scrivere.
Del resto, dato che ICarly termina con degli adolescenti, direi che lascia grande margine di licenza poetica quando si tratta di descrivere il loro ingresso e la loro vita nel mondo adulto e le conseguenze di ogni scelta;
- Come leggerete, la storia tiene conto di tutto, compresi “IGoodbye” e “Sam and Cat” e comincia, appunto, dalla puntata “Il salto del tonno”;
- Anche in questa fan fiction sarò betata dalla mia adorata Aduial, che ringrazio infinitamente perché mi sopporta da giorni e non ha ancora mandato un cecchino ad uccidermi.
 
Adesso smetto di sproloquiare e vi lascio alla storia.
Buona lettura.
 
 
 
 
 
 
Ogni cosa, nella vita di Samantha “Sam” Joy Puckett, cambiò radicalmente il giorno in cui Freddie Benson, suo odiatissimo e unico amore, fece la sua comparsa a Los Angeles e, più precisamente, al tavolo che, solitamente, la ragazza condivideva con quella che era stata la sua coinquilina durante l’ultimo anno: Cat.
Sam aveva lasciato Seattle esattamente un anno prima, in una fredda notte di Gennaio, poche ore dopo che l’aereo con a bordo la sua migliore amica, Carly Shay, decollasse per l’Italia, paese che avrebbe ospitato Carly per un lungo periodo durato circa un anno e mezzo.
La ragazza che, spesso e da molti, era stata definita “demonio biondo”, in linea con il carattere freddo, distaccato, duro, cinico e ribelle che sempre l’aveva contraddistinta e che, ovviamente, utilizzava per nascondere l’insicurezza che aveva radici profonde dentro di lei, era partita in sella alla moto che Spencer le aveva regalato il pomeriggio dello stesso giorno, senza avvisare o salutare nessuno.
Nemmeno lui.
Per quanto forte e indipendente Samantha fosse e sempre sarebbe stata, c’erano due persone nella sua vita di cui non sarebbe mai stata capace di fare a meno e, quella notte d’inverno, le aveva perse entrambe irrimediabilmente; senza la presenza mitigatrice di Carly, senza il collante che sempre aveva tenuto insieme i tre lati di quel triangolo così male assortito, Sam sapeva bene che, presto, lei e Freddie – complice anche la rottura risalente a Settembre – si sarebbero persi di vista e, probabilmente, si sarebbero dimenticati, per quanto possibile, l’uno dell’altra.
A quella complessa sfera di emozioni infelici che l’avevano accompagnata durante il viaggio di molti chilometri da Seattle a Los Angeles, c’era stata anche la consapevolezza che svegliarsi ogni giorno sapendo di non avere più accanto la sua migliore amica e non dover registrare lo show che avevano ideato e amato per lunghi anni, sarebbe stato troppo da sopportare.
Così, la ribelle biondina che aveva seminato panico lungo le strade di Seattle, dopo un ultimo sguardo al ragazzo che amava e sempre avrebbe amato nonostante detestasse ammetterlo perfino a se stessa, aveva ingranato la marcia e, da quel giorno, non si era mai voltata indietro.
Fino a quel momento.
Fino a quando, entrando in quel dannatissimo pub di Robot non aveva sentito la risata di Freddie e, voltatasi, lo aveva visto chiacchierare amabilmente con Cat.
Nel giro di pochi istanti, Sam aveva ripercorso l’ultimo anno trascorso, navigando tra i nuovi ricordi che si erano sostituiti ai vecchi, scacciando, lentamente e con fatica, la malinconia, la tristezza e il senso di perdita dei primi mesi lontana da Carly e Freddie, in cerca di qualcosa che le desse la stessa euforia che sentiva a starsene a guardare il bel viso di lui, ridente e luminoso. Non trovò nulla, nulla che reggesse il paragone con quella morsa allo stomaco e il cuore irrimediabilmente fuori controllo.
Fu quel giorno che Sam comprese che anche mille anni lontana da Freddie Benson non sarebbero stati sufficienti affinché lui non le provocasse più reazioni del genere, anche mille anni non sarebbero bastati affinché lei smettesse di esserne innamorata.
E la rovina, la disfatta finale, l’epilogo di una tragedia che non aveva avuto modo di consumarsi durante gli anni precedenti, cominciò in quel modo.
Freddie, come le raccontò più tardi, quando riuscirono a scambiare due parole – urlandosi contro, come loro solito – arrivato in città poiché preoccupato dall’ambigua telefonata di Cat, era inizialmente parso ancora affettuosamente legato a lei e, col passare delle ore, riavendolo accanto, nel cuore della ragazza si era riaccesa la speranza che, forse, quell’anno trascorso sarebbe potuto essere considerato soltanto una pausa momentanea, destinata a finire quel giorno.
Dopo averlo salvato dalla vasca dei tonni assassini, Sam lo aveva raggiunto in ospedale e gli aveva promesso – o imposto, a seconda delle interpretazioni – una cena non appena lui si fosse rimesso.
Quella sera, tornata a casa, Samantha si era sentita di nuovo a casa, nonostante le mancasse ancora un pezzo fondamentale della sua vita: Carly.
Senza riuscire ad addormentarsi, Sam si era accorta che, nel giro di quell’anno lontane, lei e Carly si erano sentite pochissime volte, principalmente via sms e che ogni sorta di calore o confidenza o intimità tra loro era scemata rapidamente fino a svanire, senza che nessuna delle due tentasse in alcun modo di impedirlo.
Sam non l’avrebbe ammesso mai ma, a sentirsi così lontana dagli anni di ICarly e a sapere Carly così indifferente alla loro amicizia, una sorta di panico era dilagato dentro di lei, soprattutto durante i primi mesi, spingendola ad aggrapparsi a Cat, quella strana e svampita fanciulla che sembrava aver bisogno di lei più di chiunque altro al mondo.
E, col passare dei mesi, Sam aveva permesso al suo cuore di affezionarsi a Cat e di volerle bene, così come Cat si era dimostrata una grande amica, sebbene estremamente diversa da lei.
L’arrivo di Freddie aveva messo a rischio i precari ma agognati equilibri che Sam aveva costruito a fatica e aveva riportato a galla tutte le paure e le insicurezze che avevano fatto di lei la “ragazza violenta” forgiata d’acciaio.
Eppure, Sam non aveva potuto impedirsi di sperare, di avvertire nuovamente quel calore andato perduto, di sentirsi nuovamente a casa, quando Freddie aveva varcato la soglia di casa, il giorno dopo essere stato dimesso dall’ospedale.
Avevano pranzato insieme, erano andati in giro per Los Angeles, avevano litigato, lei lo aveva picchiato, erano stati cacciati dal Luna Park e, rientrati, avevano deciso di guardare un film sul divano.
L’alchimia, la complicità e l’attrazione che sempre erano esistite tra loro, si erano fatte sentire prepotentemente, come se nulla fosse cambiato da quell’ultimo bacio scambiatosi nel montacarichi di Carly.
Mentre, seduti sul divano, tanto vicini da poter sentire il calore della pelle dell’altro nonostante i vestiti, si raccontavano dell’ultimo anno trascorso – Freddie, che si era diplomato a pieni voti ottenendo una borsa di studio completa per il College, era parso offensivamente sorpreso quando Sam gli aveva confessato di essersi diplomata a sua volta, online e per questo lei lo aveva colpito col cuscino - il cellulare di Freddie aveva preso a squillare.
E, da quel preciso istante, ogni cosa era cominciata ad andare storta.
Era bastata l’espressione apparsa sul volto del ragazzo a rispondere alla domanda “Chi è?”, che Sam non aveva nemmeno formulato ad alta voce: Carly.
Freddie aveva risposto, ansioso, eccitato, carico di elettricità e la sua voce era suonata tanto allegra che la ragazza bionda si era ritrovata con la testa che vorticava pericolosamente.
Lui non si era accorto di nulla, aveva continuato a parlare con Carly per qualche minuto, poi aveva riagganciato, balzando in piedi, entusiasta. – Sam! Carly è in città! Non è magnifico? Oh, dobbiamo tornare subito a Seattle! – aveva esclamato, mentre afferrava la borsa da viaggio abbandonata ai piedi del divano.
- Cosa?-
- Carly è tornata in città per qualche giorno! Ripartirà alla fine della settimana, dobbiamo sbrigarci!- aveva ripetuto Freddie, cominciando a sistemare tutti gli aggeggi elettronici che si portava dietro nella sacca.
E Sam, trattenendo le lacrime con forza disumana, si era alzata anche lei e aveva abbozzato un sorriso forzato. – Io non vengo.- aveva detto, alzando le braccia.
Freddie si era bloccato, fissandola incredulo, come se si fosse appena trasformata in un troll di fronte ai suoi occhi. – Come? Che significa che non vieni? E’ Carly! – aveva esclamato, scuotendo la testa.
- Ho molto lavoro, domani, non posso proprio partire, Freddie. Salutamela, okay?- aveva risposto, voltandosi, pronta ad andarsene.
La mano di lui, più forte e decisa di quanto la ricordasse, le aveva afferrato un polso, costringendola a restare. – E’ la tua migliore amica, Sam: ti manca e tu manchi a lei. Non fa altro che domandare di te, ogni volta che chiama!- le aveva mormorato, addolcendo il tono.
Sam aveva ritratto il braccio con violenza. – Oh, beh, le manco tanto che non si è ricordata nemmeno del mio compleanno.- aveva detto, mordendosi le labbra nervosamente.
Non voleva che Freddie comprendesse quanta rabbia e dolore vi fossero dietro quel suo atteggiamento e quanto la ferisse sapere che, ancora una volta, lui stava scegliendo Carly.
Era sempre stato così, tra loro, perfino quando erano una coppia: Sam aveva vissuto la loro storia con il pensiero costante e angosciante che Carly, un giorno, avrebbe deciso di volere Freddie per sé e che lui non ci avrebbe pensato due volte a lasciarla per stare con la ragazza di cui era sempre stato innamorato.
La ragazza bionda non si era mai sentita abbastanza per lui, mai all’altezza di Carly; era sempre arrivata seconda nel cuore di chiunque avesse mai conosciuto poiché, al primo posto, c’era sempre stata Carly e, del resto, a Sam era sempre andata bene così, fino a quando non si era innamorata di Freddie.
Allora aveva capito, si era resa conto di essere disposta ad arrivare sempre seconda e a dividere qualsiasi cosa con Carly, tutto, con un’unica, semplice e inappellabile eccezione: l’amore di Freddie Benson.
Lo stesso ragazzo che, quella sera, le aveva detto: - Mi dispiace, Sam, io devo andare. Ho delle cose da chiarire con Carly e non ho idea di quando potrò rivederla.- mentre lei, cercando di attenuare la tensione e la sofferenza, si tuffava in un piatto di spaghetti preparato da Cat prima di uscire.
- Chiarire? Cosa, sentiamo, Signor Lamento?- gli aveva domandato e intanto lui aveva già la borsa in spalla.
Freddie era apparso nervoso, inquieto, agitato; i suoi occhi vagavano, sfuggendo quelli di lei e una morsa di panico aveva stretto le viscere di Sam che, poggiata contro il bancone, si era imposta di respirare profondamente e mantenere il controllo.
- Ecco, vedi… prima che lei partisse per l’Italia, l’anno scorso… noi… lei… -
- Oh, falla finita, Benson! Pensi di riuscire a finire questa dannata frase?- era esplosa lei.
Lui aveva tratto un lungo sospiro, sollevando gli occhi bruni e luminosi a incontrare i suoi.
– Lei mi ha baciato. – aveva confessato, imbarazzato ma felice.
E Sam si era sentita risucchiare in un vortice oscuro dal quale, probabilmente, non sarebbe mai più uscita.
Carly aveva baciato Freddie, nonostante sapesse quanto lei ne fosse ancora innamorata, la sua migliore amica aveva calpestato i suoi sentimenti per l’istante di una sera, che si sarebbe perso nel tempo e nella polvere di quell’anno lontana, per Carly.
Non per Freddie, tuttavia; Sam sapeva bene che Freddie doveva aver ripensato a quel bacio ogni singolo giorno da quando entrambe erano partite e, allora, comprese di aver perso definitivamente il ragazzo che amava.
Quante notti si era rigirata nel letto, domandandosi se lui la stesse pensando, se l’avesse mai pensata in quei mesi, se ne avesse mai sentito la mancanza. Aveva ottenuto la sua risposta, quella sera.
Il giorno che tanto aveva temuto era giunto e una rabbia cieca prendeva vita dentro di lei: se era destino che lui amasse Carly, perché allora il fato le aveva dato la possibilità di rivederlo un’ultima volta e innamorarsi ancora di lui? Era ingiusto.
- Oh.- aveva detto, alzando un sopracciglio biondo scuro con fare indifferente.
- Oh?- aveva fatto eco lui, confuso, forse sorpreso dalla mancata reazione di lei.
L’espressione sul volto di Freddie era parsa guardigna, come se non si capacitasse che Sam non stesse dando di matto come suo solito o, più probabilmente, il senso di colpa per aver tenuta nascosta una cosa del genere alla sua ex-ragazza doveva starlo divorando.
- Beh, che dire, Benson? Congratulazioni! Dopo nove anni – scusami, tu la conosci dalla terza, sono dieci anni – finalmente ce l’hai fatta a farti baciare senza bisogno prima di rischiare la vita!- aveva esclamato, più acida di quanto avrebbe desiderato.
- Sam… -
- Auguri e figlie femmine, Benson, non sia mai che i maschi prendano dal padre!- aveva aggiunto, sorridendo maligna come era solita fare nei primi tempi della loro amicizia, quando si divertiva a tormentarlo.
- Sam… io… mi dispiace… -
Freddie aveva fatto mezzo passo avanti, annullando un po’ della distanza tra loro e, come se fossero due calamite dai poli identici, Sam si era spostata all’indietro.
- Di cosa ti dispiace, Freddie? Non hai nulla di cui sentirti in colpa, credimi. E, adesso, vattene: sono quattro giorni che sei qui e già mi dai sui nervi!- aveva detto, superandolo per aprirgli la porta.
Freddie, con un'espressione rassegnata e dispiaciuta, si era fermato sulla porta, indeciso su come salutarla e, quando si era sporto per sfiorarle una guancia con un bacio, lei si era ritratta bruscamente, spingendolo oltre con i suoi soliti modi. – Non essere mieloso, Benson.- gli aveva detto.
- Sempre la solita.- mentre lo diceva, il suo sorriso era parso nostalgico ma, al contempo, rabbioso.
Sam non aveva saputo spiegarsi il perché di quell’espressione che, tuttavia, era scomparsa così com’era apparsa, nel giro di un’istante.
- Già. Ci si vede.-
La porta si era chiusa sull’espressione frustrata di lui e le lacrime di lei.
Da quella sera, erano trascorsi esattamente otto mesi e, in quel momento, Sam si trovava a bordo della moto che costituiva il ponte tra passato e presente, in viaggio verso Seattle.
 
 
 
Faceva un gran caldo, perfino per lei che, a bordo della più bella motocicletta al mondo, sfrecciava lungo l’asfalto, col vento a sferzarle i capelli biondi che le ricadevano fino alla vita, sfuggendo al casco nero.
Agosto era arrivato, portando con sé l’afa e l’odore salmastro del mare anche nei più remoti angoli della città, i negozianti avevano issato le tende di colori sgargianti così da riparare le vetrine dal sole cocente e carretti che vendevano limonate e gelati si trovavano ad ogni angolo di strada.
Sam accarezzò con lo sguardo ogni vicolo del quartiere in cui Carly e Freddie abitavano e che, in fondo, aveva sempre considerato un po’ anche casa sua; agitata e nervosa, parcheggiò la moto in strada e, messi i cavalletti, scese agilmente, sfilando il casco opprimente e liberando la fluente chioma bionda, infilandovi le mani per rianimare i capelli.
Camminò rapida fino all’ingresso, timorosa di imbattersi casualmente in Freddie e consapevole di non essere pronta a rivederlo, non ancora.
Erano trascorsi otto mesi da quella sera a Los Angeles, la sera in cui, ancora una volta, Freddie aveva preferito Carly a lei e, per di più, le aveva confessato il bacio scambiatosi con la bruna prima che partisse per l’Italia.
Il motivo per cui Sam era tornata a Seattle, in seguito alla telefonata di Spencer, sfuggiva anche a lei, al momento e tutti i buoni propositi con cui era partita parvero essersi persi lungo la strada.
Che cosa ci faceva lì?, si domandò, mentre varcava la porta a vetri e si scontrava con Lewbert, arcigno come al solito, che la fissò quasi fosse un’aliena – come se la verruca sulla sua guancia potesse essere umana!
- Oh, no! Non è possibile! Speravo di non doverti vedere mai più!- commentò, con quel tono lagnoso che usava ogni volta.
- Desiderio reciproco.-
Il portiere la guardò assottigliando gli occhietti scuri. – Non credere di poter continuare a combinare pasticci, assieme a quei tuoi amici!- esclamò. – L’anno scorso è stato un sogno senza voi due a scorrazzare su e giù e, quando anche il nanetto ha tolto il disturbo, ho pensato che finalmente la fortuna mi avesse sorriso e, adesso, guarda! Due su tre di nuovo qui! Non è possibile!- sbottò ancora, dando vita ad uno dei tipici monologhi.
Sam, confusa, si avviò verso le scale, domandandosi cosa diamine significasse che anche “il nanetto” aveva levato il disturbo; si riferiva forse a Freddie? Possibile che fosse andato via? Sua madre glielo avrebbe permesso?
Giunse al pianerottolo sul quale si trovavano gli appartamenti di Carly e Freddie e una morsa di panico le strinse lo stomaco, mentre il cuore cominciava a battere furiosamente; doveva affrettarsi, non voleva rischiare che lui aprisse la porta e la vedesse.
Aveva scelto di arrivare a quell’ora del mattino poiché era certa che Freddie sarebbe stato al College a seguire qualche stupida lezione e le possibilità di scontrarsi si riducevano al minimo, ma, adesso, il timore di poterlo incontrare l’attanagliava, impedendole di mantenere il controllo.
Non voleva vederlo, non voleva incontrarlo, non voleva rischiare che lui le leggesse negli occhi il dolore che la sua ultima partenza le aveva causato e quanta fatica le fosse occorsa per rimettere insieme i pezzi, ancora una volta.
Il capitolo Freddie Benson, per Sam, era chiuso e sepolto sotto un mare di sofferenza e non aveva intenzione di riaprirlo nemmeno per tutte le bistecche del mondo; così, aveva deciso di non rimettere ma più piede a Seattle e di troncare ogni rapporto con Freddie e Carly.
Aveva cambiato numero di telefono, decisa sul fatto che la sua vita, ora, fosse a Los Angeles, con Cat e Dice e Goo e aveva perfino accettato la proposta di Dice di frequentare un corso di quattro mesi per ottenere l’abilitazione di “manager” così da poter seguire la carriera di qualche lottatore di arti marziali miste e entrare nel mondo del lavoro degli adulti.
Peccato che fosse costretta a presentarsi ai corsi due volte alla settimana, che dovesse sopportare un tipo odioso di nome Dylan, che sembrava trovare un gran piacere nel tormentarla e ritrovarsi, ogni volta, pieno di lividi e che Cat, come suo solito, aveva preso la notizia dell’uscita di Sam dalla loro società di baby sitter come un tradimento e non le aveva rivolto la parola per due settimane.
Nonostante tutti i buoni propostiti, tuttavia, quando aveva ricevuto una telefonata di Spencer – l’unico al quale avesse dato il nuovo numero di telefono – che le chiedeva, implorante, di tornare a Seattle appena possibile perché aveva qualcosa di importante da dirle, Sam non era riuscita a dire di no.
Spencer era sempre stato importante per lei e non solo a causa della piccola cotta che aveva avuto per lui; Spencer, proprio come Carly, era stato ciò di più vicino alla “famiglia” Sam avesse mai avuto. Lui l’aveva accolta in casa sua nonostante tutti sapessero della sua pessima reputazione, l’aveva trattata con dolcezza, tenerezza, gentilezza, anche quando Sam si era comportata nel peggiore dei modi, era stato, per lei, un fratello maggiore, nonostante la presenza di Carly.
Spencer era, probabilmente, l’unico ad aver colto, con quella sua strana sensibilità di artista, il dolore e l’insicurezza che si celava dietro il comportamento violento e distaccato di Sam, dietro il disincanto frustrante delle sue idee e aveva saputo avvicinarsi a lei e sostenerla, nonostante avesse già una sorellina a cui badare.
Quando le aveva regalato la moto, forse comprendendo il bisogno di Sam di possedere qualcosa che la legasse eternamente a lui e Carly e Freddie, forse ben consapevole che Sam non avesse un posto che sentisse come “casa” più di quell’affollato appartamento, forse realizzando, prima ancora della ragazza, che anche Sam sarebbe partita, poiché non sarebbe riuscita ad affrontare il dolore della separazione, Spencer aveva, inconsapevolmente, aperto uno spiraglio di luce nel cuore del demonietto biondo.
Ogni volta che Sam si era seduta su quella moto era stato come tornare a casa.
Quindi, in definitiva, Sam era tornata a Seattle perché non avrebbe potuto dire di no a Spencer.
Così, eccola lì, di fronte alla porta dell’appartamento di Carly, col cuore in tumulto e una malinconia prepotente che si faceva strada dentro di lei.
Senza pensarci, Sam aprì la porta, istintivamente, quasi fosse uno dei soliti giorni di riprese e lei non fosse mai partita e stata lontana per un anno e mezzo.
Ciò che vide la lasciò, al contempo, interdetta e divertita: Spencer era in piedi su una scala alta almeno un paio di metri, intento a dipingere strani pois dai colori osceni sul soffitto e, ad ogni pennellata, un po’ di vernice colava già dal pennello, finendogli in viso o tra i capelli scuri.
Sam scosse la testa, chiudendosi la porta alle spalle e contenta del fatto che, almeno Spencer, non sarebbe mai cambiato.
- Chi c’è? Sono campione di arti marziali, sai!- gridò il ragazzo, cercando di voltarsi e ottenendo solo di far traballare pericolosamente la scala.
- Allora sei fortunato: c’è qui una quasi manager a tua disposizione.- rispose Sam, da basso, afferrando la scala per impedire a Spencer di cadere.
- Sam?!- gridò lui, allegro, scendendo in fretta e afferrandola per le spalle come se non riuscisse a credere ai suoi occhi, poi l’abbracciò, sporcandole la t-shirt blu di vernice rossa.
- Quando sei arrivata? Come stai? La moto funziona bene?-
Sam sciolse l’abbraccio, osservando la macchia rossa e scuotendo la testa.
- Calma, amico, sei troppo su di giri!- lo prese in giro, avviandosi verso il frigo per tornare con una bottiglia di frizzicola tra le piccole mani.
Spencer, intento a pulire i pennelli, alzò un sopracciglio. – Vedo che non sei cambiata di una virgola.- commentò, divertito.
Sam allargò le braccia. – Colpevole, agente, mi arresti.- alzò le spalle, sedendosi sul divano e guardandosi intorno: ogni cosa sembrava rimasta esattamente la stessa, come se nulla fosse stato toccato da quando lei e Carly avevano lasciato Seattle.
Spencer, intanto, la osservava, ben consapevole che, al contrario di quanto aveva detto, Sam era cambiata eccome e non solo fisicamente, sebbene quello fosse un cambiamento notevole.
- Sei rimasta bassina.- commentò, raggiungendola e sedendosi accanto a lei.
- E le tue chiappe sono ancora flaccide. Vuoi dirmi perché mi hai fatta venire qui, Spencer?- gli chiese, voltandosi a guardarlo.
- Flaccide?!-
Sam ridacchiò.
- Tse. D’accordo, biondina, sono pronto a parlare con te, ma, prima, vorrei sapere come stai e come te la passi.- le disse, incrociando le braccia.
Sam sospirò, alzando le spalle. – Sto bene, me la cavo. Ho un lavoro, seguo un corso, ho una casa e non sono più stata in prigione negli ultimi… due anni.- dichiarò, orgogliosa, alzando un pollice in segno di vittoria.
- Oh, sono molto colpito, Sam! Brava, sono orgoglioso di te e… ma cosa combini?-
Mentre il ragazzo parlava, lei si era alzata e aveva preso a scavare nel frigo, frustrata.
- Scusa, che maniere sono? Vengo qui dopo quasi due anni di assenza e non mi fai trovare nemmeno una bistecca o un piatto di polpette?- domandò.
Spencer fece roteare gli occhi al soffitto. – D’accordo, mostro divora carne, adesso ordino il pranzo, così almeno non dovrò preoccuparmi che tu possa mangiarmi.- la schernì, afferrando il telefono.
Sam rispose con una smorfia e, mentre lui era al telefono, prese a vagare per il soggiorno, sfiorando con dita tremanti le foto che ritraevano se stessa, Carly e Freddie, quelle con Spencer e Gibby, quelle di ICarly.
Ogni ricordo era un’ondata di malinconia che si abbatteva sul suo cuore, facendole mancare il respiro per qualche istante; perfino il profumo familiare sentito su Spencer, quando l’aveva abbracciata, l’aveva quasi portata alle lacrime.
- Ecco fatto, torna qui, ora.-
Lei obbedì, sedendosi e poggiando i piedi sul tavolo.
- Tu che stai combinando?- gli domandò, indicando il soffitto da cui gocciolava pittura.
- Il mio nuovo progetto! Ho letto su un sito che avere il soffitto a pois colorati aiuta a favorire la creatività e così… -
- D’accordo, smetti di parlare, ho già sonno.-
Spencer le lanciò un’occhiataccia. – Va bene, va bene, vengo al dunque: c’è un motivo importante per cui ti ho chiesto di venire.- le disse, facendosi serio.
Sam sentì l’ansia attanagliarle i muscoli e il respiro mozzarsi. – Sarebbe?-
Il ragazzo si raddrizzò, come se trovasse difficile formulare una frase di senso compiuto, come se qualcosa lo frenasse e preoccupasse.
- Spencer, sto perdendo la pazienza.-
E il piede che scandiva ritmicamente il tempo contro il legno del tavolo confermava l’affermazione della ragazza.
- D’accordo, mantieni la calma. Ecco, il fatto è che da quando sei partita non ti ho sentita per molto tempo e so lo stesso vale per Freddie e Carly; vi siete allontanati e la cosa mi dispiace molto perché voi tre eravate inseparabili.-
Se anche le parole di Spencer fossero andate a fondo dentro di lei, nulla avrebbe potuto dimostrarlo poiché Sam mantenne la sua stoica espressione annoiata e indifferente.
- Vedi, quando otto mesi fa Freddie venne a Los Angeles da te, credetti che sareste tornati assieme, in tutti i sensi. Poi, arrivò Carly a sorpresa e allora mi convinsi che sareste tornati di certo, così da poter passare qualche giorno tutti insieme. Ma tu non arrivasti. Freddie non seppe dare spiegazioni, disse soltanto che eri molto impegnata e sembravi apatica, come se non sentissi il bisogno di rivedere la tua migliore amica. Carly parve l’unica a non sorprendersi della tua decisione, probabilmente perché ti conosce bene così come tu conosci lei e dovette intuire il vero motivo del tuo non-ritorno. Motivo che io, invece, ho capito solo un mese dopo, quando Freddie ha fatto le valige e l’ha raggiunta in Italia.-
Spencer s’interruppe per osservarla e scrutare la sua reazione, cercando di capire se avesse bisogno di qualche istante per assimilare la notizia.
- Freddie è partito per l’Italia?- domandò Sam, con un filo di voce.
Il ragazzo annuì. – E’ partito poco prima della fine di Gennaio. La borsa di studio per il College era comprensiva di alloggio e non aveva confini Nazionali, così ha potuto iscriversi ad un’Università italiana e ha frequentato il primo semestre lì. Nostro padre ha provveduto a procurargli un lavoretto alla Base, nulla di esaltante comunque.  Sam, ti senti bene?- le domandò, notando lo sguardo della bionda perso nel vuoto.
No, non si sentiva bene, in verità non sentiva assolutamente niente.
Quello era peggio di qualsiasi altra cosa riuscisse a immaginare: non solo Freddie aveva scelto Carly, non solo si erano messi insieme, non solo nessuno dei due le aveva detto anche una sola parola di tutto, ma, addirittura, lui l’aveva seguita in Italia.
Era stata una vera idiota a tornare a Seattle perché la sua vita di un tempo non esisteva più.
Avrebbe fatto meglio a restare a Los Angeles, almeno si sarebbe risparmiata quella notizia che, lo sapeva, l’avrebbe tormentata per interi mesi o, più probabilmente, in eterno.
Trattenendo le lacrime con una forza disumana, Sam riuscì a domandare a Spencer, in tono indifferente. – Come ha convinto sua madre?-
Spencer alzò le spalle, senza smettere di scrutarla. – E’ stata una settimana di fuoco, quella prima della partenza. Hanno litigato a lungo e, alla fine, la Signora Benson si è arresa alla decisione del figlio; del resto, non avrebbe potuto fermarlo perché Freddie è maggiorenne e aveva dei soldi da parte per il biglietto.- le spiegò.
Sam si limitò ad annuire, sebbene la sua mente vorticasse, confusa e le dolesse terribilmente.
Il cuore, invece, era semplicemente ghiacciato.
- Sam, ascoltami, la storia non finisce qui.- dichiarò Spencer, posandole una mano sulla spalla per infonderle coraggio.
Per quanto, infatti, lei tentasse di nascondere il dolore e la disperazione, lui poteva percepire ogni sentimento che Sam stava provando e si sentiva terribilmente in colpa a dover essere lui a dirle ogni cosa.
- Io non voglio sentire altro.- dichiarò la ragazza, alzandosi bruscamente.
Spencer la obbligò a tornare seduta. – Ascoltami, Sam: Freddie è tornato a metà Giugno e ha iniziato il secondo semestre di Università qui a Seattle. E’ tornato definitivamente.- disse.
Gli occhi azzurri di Sam scattarono in quelli di lui. – Perché?- domandò.
- Le cose tra lui e Carly non hanno funzionato e lui è tornato a casa; sentiva troppo la mancanza di questo posto e non aveva più motivi per restare lontano.- rispose.
Sam alzò le spalle. – Perché dovrebbe riguardarmi?- chiese.
- Sam, anche Carly tornerà presto a casa, definitivamente.- disse Spencer, arrivando finalmente al punto.
- Carly torna in America?- gli occhi della ragazza si sgranarono.
Lui annuì. – Arriverà a Settembre, si è iscritta ad un corso di scrittura creativa all’Università.- le spiegò. – Tornerà a vivere qui e… - s’interruppe, per poi alzarsi e prendere a camminare lungo la stanza. – Insomma, Sam, devi tornare a casa, ti prego. Sarete di nuovo tutti insieme, risolverete le cose e tornerete il trio combina guai di un tempo.- la implorò.
- Carly avrà bisogno di te, dopo essere stata quasi due anni lontana e tu hai bisogno di tornare a casa e ritrovare te stessa.- le disse, serio, fermandosi di fronte al divano.
Sam si alzò, scuotendo la testa. – No, no, Spencer, non ci pensare nemmeno. Casa mia è a Los Angeles, ormai, la mia vita è lì. Seattle non significa più nulla per me, la Sam Puckett che girava ICarly e faceva da spettatrice all’amore platonico di Freddie e Carly è rimasta qui, sepolta per sempre. Sono stanca di essere paragonata a qualcuno e di non sentirmi mai abbastanza. Mi dispiace, ma Carly dovrà trovare qualcun altro a cui chiedere sostegno. Vedrai che, non appena Freddie la vedrà, tutto tornerà come prima tra loro e ci penserà lui a tenerle compagnia e aiutarla.- disse, afferrando la tracolla che aveva abbandonato sul tavolo.
- Sam.- la chiamò Spencer, posandole le mani sulle spalle e chinandosi per guardarla negli occhi. – Non c’è alcun paragone tra te e Carly, siete diverse eppure entrambe meravigliose. So che ti ha ferita, che sia lei che Freddie l’hanno fatto, ma non abbandonare la tua casa, non rinunciare alla vita che hai sempre amato solo perché non riesci ad affrontare ciò che senti e la rabbia che ti porti dentro.- le disse, dolcemente.
Sam sorrise, scuotendo il capo. – Abbi cura di te, Spencer e abbi cura di Freddie e Carly. Io devo tornare a casa. La tua moto è un bolide, non ti ringrazierò mai abbastanza per averla data a me.- disse, sfuggendo la sua presa e raggiungendo la porta in fretta.
- E’ tua, te l’ho regalata perché ti voglio bene, come se fossi mia sorella.-
Con la mano sulla maniglia, Sam sorrise, chinando il capo per nascondere le lacrime che ormai erano libere di scivolarle sulla pelle chiara. – E’ reciproco, amico.- disse, guadagnando l’uscita e precipitandosi fuori.
Non si guardò mai indietro, nemmeno quando, infilando il casco e partendo a razzo, notò la figura di un giovane, più alto di quanto lo ricordasse, ma che non poteva essere altri che Freddie, fermo a osservarla con aria confusa e indecisa, come se non fosse certo di chi avesse di fronte.
Sam sgommò e imboccò la superstrada, mentre il grido di lui si perdeva nel frastuono delle auto e il rumore del vento.
- Sam!-
 
 
 
Freddie varcò la soglia dell’appartamento di Spencer con irruenza e, non vedendolo, lo chiamò a gran voce.
 – Spencer!-
- Sono quassù!- esclamò il diretto interessato, dalla cima di una delle scale più alte che il ragazzo avesse mai visto, intento a imbrattare il candido soffitto con strane ciambelle colorate.
- Spencer che… oh, al diavolo! Era Sam quella che è sfrecciata via in moto?- gli domandò Freddie, gettando la sacca nera dei libri sul divano in malo modo.
- Ciao anche a te, ragazzo.- lo schernì l’altro, scendendo dalla scala e pulendo le mani su uno straccio.
Spencer entrò in cucina e si versò da bere, porgendo un bicchiere anche a Freddie.
- Allora?-
- Sì, era Sam.-
Il più giovane rimase incredulo a fissare l’altro qualche istante, il bicchiere fermo a mezz’aria, gli occhi spalancati e l’espressione di chi ha lo stomaco sottosopra.
- Cosa… cosa ci faceva a Seattle? Perché non mi hai detto che sarebbe venuta? Aspetta: sapevi che sarebbe venuta? Sta bene? –
Il fiume di domande di Freddie fu interrotto dallo straccio sporco che Spencer gli tirò in viso.
- Ehi, amico, con calma! Una cosa per volta!-  esclamò, alzando le braccia.
Freddie si limitò a guardarlo malissimo e Spencer sbuffò. – La vostra generazione è troppo impaziente.- commentò.
- Spencer!-
- Okay, okay, d’accordo! Le ho chiesto io di venire, per dirle del ritorno di Carly.- rispose, sedendosi sulla sedia accanto al tavolo al contrario.
Freddie fece lo stesso. – Perché non mi hai detto che sarebbe venuta?!- esclamò.
- Non sapevo quando l’avrebbe fatto e, comunque, non credo volesse vederti, Freddie.-
- Perché dici… -
Il ragazzo si rabbuiò e chinò il capo, battendo un pugno sul tavolo.
- Già.- commentò Spencer. – Sai, Freddie, avete commesso un errore a non informarla della partenza e della vostra relazione e tutto il resto.- gli disse, posandogli una mano sulla spalla.
- Sam è molto… cambiata. Certo, in fondo resterà sempre la nostra Sam, un terremoto biondo che semina disastri ovunque capiti, ma è come… spenta. Credevo che l’idea di riavere indietro la vita di prima l’avrebbe convinta a restare, ma non è stato così. E’ decisa, sicura, più testarda di quanto non sia mai stata e, peggio ancora, è ferita e non ha alcuna intenzione di perdonarvi.-
- Io e Sam avevamo rotto da quattro mesi, Spencer, e lei sa che ho sempre provato qualcosa per Carly.- ribatté l’altro, allargando le braccia.
- Certo e sai che ho appoggiato la tua scelta di partire e provare. Dovevate tentare, dovevate vedere com’era stare insieme, perché, altrimenti, né tu né Carly sareste mai stati in grado di andare oltre.- ammise Spencer. – Non è la decisione che avete preso che contesto, ma il modo in cui l’avete fatto. Sei sparito senza nemmeno dirle che ti saresti trasferito per stare con Carly, Freddie!- aggiunse.
- Lei è andata via di notte, senza nemmeno dirmi ciao!- saltò su Freddie, furioso. – E’ sparita da un istante all’altro, mentre avevo il cuore spezzato per la partenza di Carly! Avrebbe potuto restare e ci saremmo sostenuti a vicenda! Invece no, è stata la solita Sam, egoista e indifferente, testarda e impulsiva come al solito. Cosa pretendeva, eh? Che la informassi di ogni spostamento o cambio di direzione che intendevo dare alla mia vita? Ha perso questo diritto quando se n’è andata senza nemmeno darmi il tempo di dirle che… - s’interruppe d’improvviso, col petto che si sollevava rapidamente a causa dell’affanno, i pugni stretti e i muscoli tesi.
- Che?-
- Che mi sarebbe mancata, proprio come Carly.- sospirò Freddie, tornando seduto, come se tutte le energie fossero venute meno.
- Perché allora sei andato da lei, a Gennaio? Perché ti sei precipitato non appena quella tizia strana ti ha telefonato, Freddie?- gli domandò Spencer.
- Credevo fosse ferita ed è ovvio che tenga a lei, no?-
- Certo, è ovvio, così com’è ovvio che lei si sia sentita abbandonata e tradita e che sia giusto se, adesso, non vuole più tornare. Freddie, quante volte le hai telefonato nell’anno che siete stati lontani, prima che di andare a Los Angeles?-
Freddie abbassò lo sguardo, alzando le spalle. – Un paio di volte, credo. Sai com’è fatta Sam, sempre a dire stupidaggini, sempre a fare la dura e io… avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse “mi manchi” e non “puoi rintracciare l’idiota che ha scritto queste stupidaggini su me e Cat su tale sito? Oh, a proposito, sei ancora un nerd, Freddie-racchio?!”. – imitò la vocetta di Sam alla perfezione.
Spencer sorrise. – Freddie, Freddie. – si alzò, battendogli un paio di pacche sulle schiena. – Era quello il suo modo di dirti “mi manchi”. – dichiarò.
- Non era il modo che serviva a me.-
- E cioè il “modo di Carly”?-
- Già. Mi è mancata tantissimo, quel primo anno, tanto che credevo non sarei riuscito a finire il Liceo o appassionarmi a qualcosa. Carly era… serenità e armonia, la sicurezza di avere sempre qualcuno pronto a capirti e incoraggiarti. Sam era adrenalina pura, vita, risate, litigi, tutto a mille all’ora ogni volta. Lei e Sam… loro erano come dinamite per me. –
- Mancano molto anche a me. L’appartamento sembra vuoto, da quando sono andate via.- sospirò Spencer, guardandosi intorno.
- Beh, Carly sarà a casa presto, in fondo.- commentò Freddie, tentando di sorridere.
- Già, ma dubito che sarà felice senza Sam.-
L’altro si limitò a tacere e, qualche istante dopo, guadagnò la porta per raggiungere il suo appartamento.
Quando si chiuse la porta alle spalle, Freddie rimase un istante impalato nel mezzo del soggiorno, ad osservare l’arredamento minimale che aveva scelto quando era tornato a casa, due mesi prima e l’aveva trovata vuota.
Sua madre, infatti, non era riuscita a sopportare di vivere da sola nella casa che, per diciotto anni, aveva condiviso con quel figlio che adorava e amava più di ogni altra cosa al mondo e al quale aveva dedicato la vita così, tre mesi dopo la sua partenza, si era trasferita in periferia, ma aveva mantenuto il contratto di affitto per l’appartamento cosicché, quando e se mai Freddie fosse tornato, avrebbe potuto tornare ad abitarvi.
Il ragazzo, che durante il primo semestre di Università in Italia aveva ottenuto punteggi stratosferici, aveva presto trovato lavoro in un azienda che produceva videogiochi per il pc e, sebbene fosse ancora alla gavetta e faticasse duramente per conciliare lavoro e studio, si sentiva estremamente soddisfatto di poter provvedere a se stesso.
Freddie aveva sempre agognato l’indipendenza da quella madre troppo apprensiva e ricordava ancora perfettamente il giorno in cui era riuscito finalmente a ribellarsi come un adulto e imporre la sua volontà, come mai aveva fatto prima – o, almeno, come non credeva di aver mai fatto.
 
Freddie era rientrato a tarda sera, dopo aver trascorso ore intere nello studio dove, un tempo, registravano ICarly, a chiacchierare con Carly dell’ultimo anno trascorso.
Rivederla, qualche giorno prima, era stata un’emozione incredibile e il suo cuore l’aveva immediatamente riconosciuta come la ragazza che sempre aveva amato.
Carly era apparsa abbronzata, bellissima, solare come solo lei era sempre stata e aveva aneddoti su aneddoti da raccontare, fotografie da mostrare, ricordi da condividere con lui.
Freddie non era riuscito nemmeno a sgridarla per il fatto di non essersi fatta sentire spesso come lui avrebbe desiderato o come sarebbe stato giusto tra due amici come loro, che avevano condiviso la vita per quasi nove anni.
Come avrebbe potuto avercela con lei, con quel sorriso aperto, gli occhi scuri e luminosi, gli zigomi pieni e quel fisico snello, slanciato, forse privo di curve mozzafiato, ma tanto aggraziato?
Carly era dolce, gentile, adorabile com’era sempre stata e gli era mancata troppo per poter sprecare quei giorni insieme a litigare.
Quando poi lei, con espressione giocosa e vivace, gli aveva domandato se ricordasse il bacio scambiatosi prima che partisse proprio in quella stanza, a Freddie era parso di star sognando.
Carly gli aveva detto che, durante quell’anno in Italia, aveva avuto un paio di storie, ma nulla di importante e nessuno che l’avesse “presa” , poiché la sua mente era sempre altrove.
“Dove?”, aveva domandato, allora, Freddie e Carly, la dolce e tenera Carly, l’aveva baciato, rendendo nulla la gravità sul corpo del ragazzo e convincendolo di stare levitando.
Avevano parlato a lungo, confessandosi i reciproci sentimenti, spiegandosi che era stato un bene essersi lasciati, anni prima, perché era quello il momento adatto per stare insieme davvero.
E, allora, Carly gli aveva proposto di andare con lei, di seguirla in Italia, dove c’erano ottime università e dove suo padre gli avrebbe di certo trovato un lavoretto.
A Freddie era parsa un’idea incredibile e aveva accettato immediatamente.
L’unico momento cupo, tra loro, c’era stato quando Gibby, con espressione triste, aveva esclamato: - Come vorrei che Sam fosse qui! Sarebbe tutto come una volta.-
Freddie aveva visto Carly rabbuiarsi e i grandi occhi scuri le si erano riempiti di lacrime.
- Non ha voluto tornare, Carly, mi dispiace molto. Sai com’è fatta, no? E’ così testarda… sono sicuro che sente la tua mancanza.- le aveva spiegato Freddie quando, appena entrato nell’appartamento, lei gli era corsa incontro per abbracciarlo e aveva chiesto di Sam.
Da quel giorno non avevano più parlato del demonietto biondo, mai.
Freddie era tornato nel suo appartamento e sua madre, ovviamente, era sul divano ad aspettarlo.
- E’ molto tardi, Freddie, quella Carly non avrebbe dovuto trattenerti così tanto, hai molto da fare domani, devi consegnare la domanda di iscrizione e… -
- Mamma.-
- … i documenti per la borsa di studio… -
- Mamma, devi starmi a sentire.- le aveva detto, arrestando il suo monologo e sedendosi accanto a lei. Con fare deciso e sicuro, guardandola dritto negli occhi, aveva continuato. – Voglio andare in Italia. La borsa di studio non ha vincoli di territorio e ho deciso di iscrivermi ad un’Università Italiana. Ho a disposizione una stanza e il padre di Carly mi troverà una lavoretto che mi permetta di guadagnare abbastanza da mantenermi.-
La Signora Benson aveva fissato, incredula, suo figlio, mentre la testa cominciava a girarle pericolosamente e il panico prendeva possesso di lei.
- Sei impazzito, Freddie?! Come ti vengono certe idee? Tu sei un bambino, come potrei lasciarti andare a milioni di chilometri di distanza, oltreoceano, da solo?!- aveva esclamato, balzando in piedi.
- Non sono più un bambino, mamma ho diciotto anni e so badare a me stesso da molto tempo.-
- E’ quella Carly che ti ha messo in testa queste strane idee, non è vero? Quella ragazza non mi è mai piaciuta! Ti ha sempre trascinato nei guai e tu, accecato dall’amore, non ti sei mai reso conto che lei non fa per te!- aveva gridato la donna, fuori di sé.
- Mamma, per favore, adesso calmati e siediti, prima di svenire.-
Freddie si era alzato e l’aveva presa per mano, facendola accomodare. – Devi capire, mamma, che non potrai sempre essere tu a gestire la mia vita, risolvere i miei problemi, tirarmi fuori dai guai, salvarmi e combattere le mie battaglie. Non potrà essere sempre come quel giorno, alla gara di scherma. Devo vivere la mia vita come meglio credo e tu devi lasciarmi libero, perché, altrimenti, il mio affetto per te si tramuterebbe in impazienza e frustrazione. –
- Oh, Freddie!- aveva singhiozzato la Signora Benson. – Va contro l’istinto materno lasciare andare il proprio figlio, esporlo a simili pericoli!- aveva detto.
- Starò bene, mamma, te lo prometto e ti chiamerò ogni giorno.- le aveva promesso.
La donna, consapevole che suo figlio fosse ormai un giovane uomo e che, legalmente, fosse maggiorenne e non avrebbe potuto imporgli la sua volontà, si limitò a scuotere il capo, rassegnata e disperata.
- Da quando tuo padre è morto, sei stato l’unico motivo per cui ho vissuto; avevi solo tre anni, e, spesso, ho davvero temuto di non farcela. -
Freddie aveva sorriso. – Sei stata una mamma grandiosa, unica. E io non ti sto lasciando per sempre. Sarò sempre il tuo bambino, solo che devo fare delle esperienze per conto mio, così da essere, un giorno, all’altezza dell’uomo che era mio padre e della madre che sei tu.-
La Signora Benson lo aveva abbracciato. – Sei cresciuto benissimo, nonostante l’assenza di un padre.  Sai, il mio morì quando avevo quattordici anni e so che l’assenza di un padre è uno dei più grandi dolori nella vita di chiunque.- aveva sussurrato. – Sono fiera di te.-
In quel momento, mentre abbracciava sua madre, felice come non mai perché aveva ottenuto il suo consenso di seguire la ragazza che amava in Italia, a Freddie era venuta in mente Sam: come lui, anche la ragazza bionda non aveva mai conosciuto suo padre.
Quando suo padre era morto, Freddie era troppo piccolo per poter avere dei veri ricordi su di lui e, nonostante sapesse che lui gli aveva voluto molto bene, c’era sempre stato una sorta di vuoto nella sua vita, come uno spazio vacante che niente avrebbe mai riempito.
Freddie, quella sera, aveva capito che anche Sam doveva provare spesso quella sensazione, forse si sentiva anche peggio di lui, dato che suo padre era vivo e non l’aveva mai riconosciuta o si era mai interessato di lei e Melanie (sempre che esistesse).
Carly, a differenza loro, un padre ce l’aveva, anche se spesso lontano e sapeva bene che, in qualsiasi momento avesse avuto bisogno di lui ci sarebbe stato.
Inoltre, la famiglia di Sam era davvero disfunzionale e non l’aveva certo aiutata o sostenuta in quegli anni, non aveva tentato di colmare quel vuoto che è tipico dei bambini e degli adolescenti abbandonati.
Proprio come Fred, che non aveva altri parenti al di fuori di sua madre e una lontana zia, sorella di suo padre, che però non aveva mai visto.
Carly, invece, aveva Spencer, i suoi nonni e, ancora, aveva Sam e Freddie; si era sempre sentita amata, perché era sempre stata circondata di amore e calore.
Senza nemmeno rendersene conto, Freddie, quella notte, aveva scoperto il primo punto in comune con Samantha Puckett, la principessa di ghiaccio col cuore di fuoco e i pugni d’acciaio.
Quando era tornato in camera sua e si era messo a letto, mentre scriveva un messaggio a Carly per comunicarle la bella notizia, Freddie si era rimproverato: “andrai in Italia con la ragazza che ami dalla terza elementare, smetti di pensare a Sam. Sta bene, ormai, è felice, non devi sentirti in colpa se ami Carly”.
Quello che Freddie non aveva capito, quella notte, così come non lo aveva capito nei sei mesi della sua relazione con Carly e, addirittura, non avrebbe capito nemmeno vedendo Sam in sella alla sua moto otto mesi dopo quella sera, era che ciò che sentiva non era il senso di colpa, ma qualcosa di molto più profondo e complesso, invincibile.
Qualcosa che lo avrebbe tormentato in eterno.
 
Freddie si gettò sotto la doccia e afferrò lo shampoo per la seconda passata, senza nemmeno rendersi conto di seguire ancora le regole di sua madre.
Sentiva i muscoli indolenziti a causa dell’allenamento in palestra e della scherma; da quando era tornato a Seattle, infatti, si era gettato di nuovo nei duelli, suo talento naturale e grande passione e, al contempo, continuava ad andare in palestra, troppo vanesio e soddisfatto dei suoi muscoli per potervi rinunciare in nome di più tempo libero.
Ricordava ancora i primi mesi, quando aveva osservato il suo corpo cambiare e ne era rimasto tanto sbalordito da sentir nascere in sé una sicurezza mai provata prima.
La prima volta che aveva quasi battuto Sam a braccio di ferro, poi, era stata impagabile, adrenalina pura.
Ripensandoci, probabilmente aveva cominciato a frequentare la palestra proprio per tenere testa alla bella biondina che amava metterlo a tappeto e, del resto, la cosa si era rivelata inutile, poiché Freddie adorava talmente il sorrisetto soddisfatto di Sam ogni volta che lo colpiva da spingerlo a lasciarla vincere ogni volta.
Proprio così: negli ultimi tre o quattro anni, lui l’aveva lasciata vincere, perché sapeva che la cosa la rendeva felice, ma avrebbe potuto tranquillamente afferrare quelle braccia sottili e immobilizzarla, cosa che avrebbe reso davvero felice lui.
Frenare la lingua di Sam… quello era un altro discorso ed era più probabile che Lewbert si mettesse a distribuire caramelle e dolciumi, piuttosto che lei diventasse una signorina a modo invece che un maschiaccio con la risposta sempre pronta. 
Sorrise e un po’ di shampoo gli finì negli occhi.
- Sam, dannazione a te, riesci a farmi male anche se siamo a chilometri di distanza!- esclamò, senza sapere quanto di vero e profondo ci fosse in quell’affermazione.
Tornato in camera sua, il ragazzo s’infilò la tuta che usava come pigiama e afferrò il computer, pronto a mettersi a lavoro su un nuovo codice che stava elaborando.
La sua mente, intanto, vagava ancora e si ritrovò a pensare a Carly e ai sei mesi trascorsi insieme a lei.
I primi tempi in Italia erano stati felici, pieni di novità e di risate, di posti da visitare e cibi da assaggiare e baci da rubare all’ombra dei monumenti senza tempo.
L’università era stata più difficile, poiché il programma italiano prevedeva più materie e i metodi erano diversi, eppure, pur di stare con Carly, Freddie era riuscito a cavarsela magnificamente, sacrificando ore di sonno per studiare fino a tarda notte e poter stare con lei nel pomeriggio.
Carly, diplomatasi l’anno prima, aveva scelto di prendere un anno sabatico e dedicarsi all’arte e alla letteratura e si era iscritta a corsi di pittura e disegno, a club del libro e così via.
Gli aveva presentato i suoi amici e le sue amiche italiane, persone gentili, accoglienti e calorose, eppure Freddie si era accorto che, con nessuno di loro, Carly si sentiva veramente a suo agio o aveva instaurato quell’intimità che, invece, aveva sempre condiviso con Sam.
Col tempo, però, le cose avevano cominciato a cambiare: la monotonia generata dai loro caratteri troppo simili, la noia dei pomeriggi invernali trascorsi al chiuso in camera di Freddie, lo scemare della passione che li aveva tenuti insieme per la loro prima volta in comune, l’imbarazzo di conoscere ogni sfaccettatura del carattere dell’altro, avevano cominciato a pesare.
Addirittura, era cominciato ad essere imbarazzante fare l’amore, sfiorarsi, accarezzarsi, poiché la scintilla non scattava e la mente era vigile e confusa, come se ci fosse qualcosa di sbagliato, come se si stessero entrambi obbligando in qualcosa che era solo fisico e nemmeno soddisfacente, data la passione inesistente.
Freddie aveva iniziato a trovare insopportabile il fatto che Carly fosse perennemente desiderosa di fare qualcosa, di scoprire un nuovo artista, visitare un nuovo museo, vedere un nuovo film e aveva sentito il bisogno di un pomeriggio a leggere un libro, dormire sul divano, mangiare una coppa di popcorn lanciandoli in aria e riprendendoli al volo.
Carly era una sognatrice, perennemente tra le nuvole, sempre desiderosa di conferme e approvazione, di essere difesa e protetta e, a lungo andare, la cosa aveva cominciato a irritare Freddie.
Carly aveva cominciato a rendersi conto che Freddie non era il ragazzo che desiderava, ma quello che tutti si aspettavano lei scegliesse: maturo, gentile, gentiluomo, forte e dalla morale impeccabile.
Lei, però, aveva sempre sognato un artista, qualcuno che non seguisse le regole alla lettera e che non avesse paura di andare contro le mode e le tendenze dell’epoca, qualcuno di costantemente in cerca di ispirazione, desideroso di viaggiare e vivere avventure, qualcuno che non potesse vivere senza di lei.
Freddie, al contrario, aveva sempre cercato e agognato indipendenza, sognava un rapporto abbastanza forte da non temere qualche giorno di silenzio o di distanza, qualcuno con cui non ci fosse bisogno di parlare continuamente, perché per capirsi sarebbe stato sufficiente guardarsi; il ragazzo aveva sempre cercato stabilità, qualcuno con cui condividere i successi della fatica e dividere i frutti del lavoro.
Seattle era troppo piccola per i sogni di Carly, l’Italia troppo lontana da ciò che Freddie desiderava: casa.
Alla fine di Aprile, entrambi si erano resi conto di non essere più innamorati e che, probabilmente, non lo erano mai stati; si erano ingannati, forgiati da ciò che sempre avevano dato per scontato, che sarebbero finiti assieme perché era destino che fosse.
Quando le aveva annunciato di aver sistemato ogni cosa in modo da poter finire il primo anno a Seattle, Carly era parsa sinceramente felice per lui e si erano lasciati senza ulteriori rancori o recriminazioni.
A Giugno, Freddie aveva ripreso l’aereo ed era tornato a casa, sentendosi finalmente se stesso.
Da quel momento, la sua vita era stata proprio come l’aveva sempre desiderata.
Col senno di poi, Freddie capì che Spencer aveva ragione: sia lui che Carly dovevano almeno provare a stare insieme perché c’erano troppe aspettative tra di loro e, altrimenti, sarebbero cresciuti con l’eterno rimpianto di non sapere se fossero stati fatti l’uno per l’altra.
Mentre spegneva il computer, pronto ad andare a dormire, Freddie si rese conto di non sentirsi assolutamente agitato o ansioso all’idea che Carly sarebbe tornata a Seattle.
Comprese, allora, di aver passato tanto di quel tempo a desiderare Carly e cercare di conquistarla da non essersi reso conto che, intanto, quel desiderio era svanito perché lui era cambiato, perché Carly era cambiata e perché Sam era entrata nel suo cuore.
Freddie scosse la testa, scacciando via entrambe dalla mente: doveva dormire e dimenticare tutto il resto.
“Come se fosse possibile”.
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** New ***


Ringrazio la mia splendida Beta, Aduial, per il suo magnifico lavoro.
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le preferite, le ricordate o le seguite e chi ha dedicato del tempo a recensire il precedente capitolo; risponderò in privato ad ognuno di voi.
Buona lettura.
 
 
 
 
Quel giorno Carly si alzò dal letto con una rinata vivacità, allegra ed euforica, infilò le pantofole di peluche e si precipitò in bagno, troppo eccitata per potersi godere, qualche istante ancora, il tepore delle coperte.
L’ultimo mese era stato particolarmente pesante, poiché, mentre tutti sembravano andare avanti con le loro vite, lei rimaneva in una sorta di limbo, in stasi, senza poter far nulla di realmente significativo.
In Italia, aveva l’abitudine di trascorrere le giornate libere acculturandosi riguardo la storia locale, partecipando ad eventi e visite guidate, recandosi presso l’immensa biblioteca cittadina e restandovi per ore; c’era sempre qualcosa di nuovo da scoprire, in quel paese tanto diverso dal suo, e non c’era momento in cui la mente della ragazza fosse libera di pensare alle persone che si era lasciata alle spalle.
Lì a Seattle, invece, era tutt’un altro discorso: il tempo libero, la noia, i ricordi prepotenti che prendevano vita ad ogni angolo di strada o dell’appartamento, evocavano visi sorridenti e istanti ormai perduti, tormentando la bruna fanciulla per ore.
Per quella serie di motivi, l’inizio del Corso di Scrittura Creativa al quale si era iscritta, sembrava una manna dal cielo e Carly sfrecciava lungo la stanza, gettando all’aria camicie e gonne, in cerca di qualcosa di adatto all’occasione.
Era stata un’idea azzeccata svegliarsi due ore prima del necessario dato che, mezz’ora dopo, Spencer fece capolino in quello che sembrava un campo di battaglia e, aggrottando le sopracciglia confuso, scorse la sorellina, seduta in terra ancora in pigiama, che borbottava irritata contro un pantalone che, a suo dire, aveva avuto l’ardire di essere troppo leggero per la stagione.
- Carly? Cos’è successo? E’ esploso l’armadio?- le domandò, facendosi strada tra le scarpe gettate alla rinfusa sul pavimento.
La ragazza sollevò lo sguardo incandescente su di lui. – Non ho niente da mettere!- sbottò, tirandogli il bolero che teneva tra le mani.
Spencer batté le palpebre un paio di volte. – Ehm, scusa, hai notato la mole spropositata di abiti che giace sul pavimento? A chi dovrebbe appartenere, alla nonna?- ironizzò.
- Non ti ci mettere anche tu, Spencer!- balzò su Carly, andando verso il letto e gesticolando animatamente. – E’ il mio primo giorno, tutti saranno impeccabili mentre io, che sono stata via due anni, non so nulla della moda di quest’anno e, così, farò una pessima impressione sul Professore che mi catalogherà come una sciattona e… - il fiume di parole fu interrotto dalla mano che il fratello le posò sulla bocca.
- Carly, respira.- le disse.
Obbediente, la ragazza trasse un grande respiro e, subito, avvertì la tensione scemare.
- Vuoi dirmi che succede? – le domandò Spencer, sedendosi ai piedi del letto.
Carly lo imitò, alzando le spalle e tenendo gli occhi sulle mani. – Ho paura. – confessò.
- Mi sento fuori posto, come se questa città non mi appartenesse più, come se fossi l’ospite che avrebbe dovuto trattenersi qualche giorno e, invece, ha deciso di restare. Ricordi Mandy? E’ come se percepissi di essere come lei, per te, Freddie, Gibby e tutti gli altri. Insomma, voi siete andati avanti, in questi due anni e non mi sorprende che sia difficile trovare un posto nelle vostre vite, ora. Per questo tengo tanto a questo corso: è il mio modo di tornare a casa, di trovare il mio posto qui, con voi. - disse.
- Carly, sei per caso caduta dal letto, stanotte?-
- Sii serio, Spencer.-
- Lo sono! Carly, tu sei mia sorella e nella mia vita ci sarà sempre un posto per te!-
La ragazza scosse la testa, poco convinta e forse incapace di spiegare appieno cosa provava.
Era felice, davvero felice, che le cose andassero così bene a Freddie e che perfino Gibby, con quel lavoro al Pear Store,  avesse trovato un impiego serio, che gli consentisse di diventare più indipendente, tuttavia, ciò che le faceva male e la destabilizzava, era la consapevolezza di aver perso l’ultimo anno di spensieratezza assieme a loro.
Era partita alla soglia dei diciotto anni, età perfetta per vivere tutte quelle avventure per cui, prima e dopo, si era troppo piccoli o si diveniva troppo grandi, così aveva perso gli ultimi ricordi legati al mondo infantile e giocoso di sempre, assieme a loro; ricordi che, lo sapeva, nessuno avrebbe mai potuto restituirle.
Carly temeva fortemente di aver perso, in quell’anno, anche le esperienze fondamentali che avevano cambiato, sebbene impercettibilmente, il suo migliore amico, suo fratello e Gibby, tanto da non sapere come approcciarsi a loro, adesso, forse preoccupata di non riuscire a leggere dentro di loro come in passato.
Erano discorsi complessi, forse più sensazioni, troppo difficili da esternare e a cui dare una logica.
- Carly, ascolta: i cambiamenti fanno parte della vita. Possiamo non trovarlo giusto, ma dobbiamo accettarlo. Prendi me, ad esempio: ho sempre pensato di essere un grande musicista, ma ho dovuto accontentarmi di fare l’artista.. .-
- Tu ami fare l’artista.-
- Sì, è vero, esempio sbagliato.- ammise Spencer, facendola sorridere.
- Quello che voglio dire, è che possono cambiare le persone, ma l’affetto, il volersi bene, quello resta lo stesso, sempre.- le disse, battendole un colpetto sulle mani.
Carly annuì. – Hai ragione. Devo pensare positivo.- decretò, alzandosi. – E devo fare shopping, appena torno dal corso.- aggiunse, guardandosi attorno accigliata.
Spencer si alzò, avviandosi verso la porta, dopo averle dato un colpetto in fronte con l’indice.
- Donne.- commentò, con un sospiro rassegnato. – Ti preferivo quando eri una cosetta alta meno di un metro!- le gridò, dal corridoio.
 
Carly salutò Freddie e scese dall’auto, ringraziandolo ancora una volta per averla accompagnata, prima di andare a lavoro.
- In bocca al lupo!- le disse il ragazzo, sporgendosi verso il finestrino del lato passeggero.
- Crepi.- mormorò Carly, intimorita ed eccitata al contempo, mentre saliva le scale di pietra che conducevano all’enorme ingresso della Facoltà.
All’interno, una folla di persone si accalcava in attesa degli ascensori, gruppetti di professori sostavano presso il chiosco, in attesa del caffè, qualcuno appendeva avvisi nella bacheca e subito altra gente accorreva, protestando o esultando a seconda di ciò che vi leggeva.
Carly si diresse alla reception, dietro la quale si trovavano due donne dall’aria sbrigativa e, picchiettato col dito sul vetro per attirare l’attenzione, sorrise. – Buongiorno. Mi chiamo Carly Shay, Carlotta in verità, ma tutti mi chiamano Carly e… - s’interruppe, notando che la donna la guardava, annoiata.
- … beh, ecco, il mio corso inizia oggi, ho qui il modulo… - estrasse dalla borsa il modulo e vi lesse il nome del professore e l’aula. -  Corso di Scrittura Creativa, professor Trust, aula B-16.-
- Segua il corridoio fino alla seconda colonna,  imbocchi la scala a sinistra e salga fino al terzo piano. L’aula B-16 è la seconda sulla destra.-
- La ringrazio.-
Carly camminò rapida, facendosi strada tra la folla, scusandosi di tanto in tanto quando finiva addosso a qualcuno e, divertita dal caos che sembrava generare l’Università, giunse finalmente alla scala in questione.
Non aveva mai immaginato che degli scalini potessero essere tanto alti, notò, quando raggiunse il terzo piano ansimando di fatica; trovare l’aula fu più semplice di quanto avesse creduto.
Sorprendentemente, a differenza del piano terra, tutti gli altri corridoi sembravano immersi in una quiete e in un ordine davvero ammirevoli.
Carly entrò in classe e si diede una rapida occhiata intorno: vi erano una ventina di posti a sedere, distribuiti con tre sedute per panca e l’intera stanza era tonda e illuminata dai raggi del sole che filtravano attraverso le due finestre alle spalle della cattedra.
Alle pareti, vi erano scaffali colmi di libri e diverse lauree in bella mostra, un mappamondo dall’aria antica padroneggiava nell’angolo a sinistra e il tutto le dava una sensazione di antico e sofisticato.
C’erano un altro paio di persone e Carly si affrettò a prendere posto, scegliendo una panca della fila centrale, decisamente avanti.
Qualche minuto dopo, l’aula si riempì completamente e tutti i posti furono occupati; una ragazza vestita in modo decisamente vintage si accomodò accanto a lei e si presentò come Anne Gallagher, le raccontò, in un soffio, metà della sua vita e la tempestò di domande.
Carly, sebbene stordita, fu contenta di aver fatto la conoscenza di una persona tanto disponibile e gentile, per quanto strana e logorroica.
L’altra ragazza che sedette alla loro panca era una biondina dall’aria glaciale e molto riservata, che si limitò a rivolgere a entrambe un cenno di saluto.
D’improvviso, nell’aula piombò il silenzio e Carly si accorse che un uomo, accompagnato da una giovane donna, stava avanzando tra le file di panche, diretto alla cattedra.
- Buon giorno a tutti.- salutò, con tono profondo e limpido, dopo aver posato una valigetta sulla cattedra.
- Sono il Professor Julian Trust, docente di Scrittura Creativa. – si presentò, appoggiandosi alla cattedra e sorridendo.
Il sole lo illuminò alle spalle, facendo risaltare la figura elegante e robusta, i capelli biondo cenere e gli affascinanti occhi azzurro ghiaccio.
Doveva essere sotto la quarantina, il suo sorriso era aperto e gentile, la postura rilassata, e le piccole rughe agli angoli degli occhi gli conferivano un fascino d’altri tempi.
- La signorina è la mia assistente, Jennifer White.- illustrò, facendo un cenno con la mano in direzione della donna che si era sistemata nella sedia libera accanto alla poltrona.
- Buongiorno a tutti.-
- Considerate la Signorina White come il mio secondo: se doveste avere dei dubbi, problemi, reclami, richieste, e io non fossi reperibile, potete rivolgervi a lei. – spiegò il professor Trust.
Una manciata di teste annuirono e l’uomo tornò dietro la scrivania, aprì la valigetta e ne estrasse un plico di fogli; inforcò un paio d’occhiali dalla montatura dorata e vi lesse qualcosa.
- Non è consuetudine fare l’appello, all’Università, ma, dato che preferirei chiamarvi per nome, col vostro permesso, invece che “Signorina” o “Signore”, mi perdonerete se, per le prime settimane, farò l’appello, così da imparare a riconoscervi.- disse, sempre in tono gentile e amichevole.
Così, il professor Trust prese a leggere, ad alta voce, i nomi delle persone iscritte al suo corso, in ordine alfabetico e Carly si sorprese a scoprire che vi erano un totale di ventidue studenti, di cui sedici erano ragazze e soli sei ragazzi.
Come fosse possibile che la letteratura e la scrittura non interessassero il genere maschile rimaneva, per la fanciulla, un grande mistero.
- … Carlotta Shay?- chiamò il professor Trust, sollevando gli occhi grigi a incontrare quelli di Carly, che aveva alzato la mano.
- Presente.- disse.
- Ehi, un momento! Ecco dove ti ho già vista!- esclamò una voce, proveniente dalla fila a sinistra.
A parlare era stato un ragazzo che sembrava poco più grande di lei. – Sei quella di ICarly!- aggiunse.
Carly arrossì, annuendo vagamente.
- Oh! Ha ragione! Come ho fatto a non accorgermene subito?!- si accordò Anne, sorridendo, radiosa. – Adoravo il vostro show! Adesso che sei tornata a Seattle, riprenderete a girarlo?- chiese.
Il Professor Trust si schiarì la voce, richiamando l’attenzione. – Non sapevo avessimo una star, tra i corsisti.- sorrise, privo di scherno. – A quanto vedo, sei parecchio conosciuta, signorina “Carlotta Shay”.- aggiunse, togliendo gli occhiali.
- Carly.- rispose, istintivamente, lei.
- Carly.- sorrise il Professore. – Mi aspetto grandi cose da te; dall’entusiasmo che ho visto nei tuoi compagni, il tuo show – spero tu voglia perdonarmi se non lo conosco – doveva essere interessante.- disse.
Carly tacque, imbarazzata, limitandosi a stringersi nelle spalle.
Lo sguardo dell’uomo l’accarezzò ancora qualche istante, prima che inforcasse gli occhiali e  tornasse a focalizzarsi sul foglio di carta che teneva tra le mani, riprendendo a leggere.
Finito l’appello, la lezione poté cominciare senza ulteriori intoppi e Carly riuscì a rilassarsi e godersi quel primo giorno senza problemi, fatta eccezione per qualche domanda di troppo fatta da Anne proprio mentre lei prendeva appunti.
Il professor Trust illustrò il programma del corso, spiegando in cosa avrebbe consistito e quali testi avrebbero adottato; l’intera durata del corso era pari a sei mesi e, in seguito, vi era la possibilità di iscriversi ad un ulteriore semestre di approfondimento.
Ogni mese, vi sarebbe stato un test di verifica della comprensione degli argomenti trattati e, alla fine del semestre, un esame orale.
Carly non poté fare a meno di notare che, di tanto in tanto, lo sguardo dell’uomo l’accarezzava, quasi incantato, facendola arrossire bruscamente.
Dandosi della sciocca, la ragazza si impose di seguire attentamente la lezione, concentrandosi sulle parole che le labbra sottili dell’uomo scandivano con tanta enfasi e convinzione.
Quando, due ore dopo, la campanella suonò, Carly si sorprese che il tempo fosse trascorso tanto rapidamente e, frastornata, si affrettò ad alzarsi e sistemare il blocco degli appunti in borsa.
Uscì, sotto lo sguardo del professor Trust e fu subito circondata da un gruppetto di compagni che aveva domande su ICarly e che la trattennero fino al Cortile, dove Freddie l’aspettava in macchina.
Il ragazzo suonò il clacson e Carly si rivolse al gruppetto. – Scusate, devo andare adesso. E’ stato un piacere conoscere tutti voi.- disse.
- Oh! Quello è Freddie?- domandò, trillante, Anne.
- Sì.-
- State insieme?- le domandò la bionda che era stata seduta accanto a lei senza mai rivolgerle la parola.
- No.- rispose, secca, Carly, allontanandosi poi verso l’auto e accorgendosi dello sguardo inespressivo con cui la ragazza li osservava.
- Ciao.-
- Oddio, credevo di non riuscire ad arrivare alla macchina!- sbottò, gettando la borsa sul sedile posteriore.
- Anche io sto bene, grazie.- scherzò Freddie, facendo manovra.
- Scusa, è che è stata una giornata strana.-
- E’ andata così male?-
- No, fin troppo bene, direi.- e, mentre tornavano a casa, Carly raccontò a Freddie del corso e di Anne e poi della bionda algida.
- Quella vestita di azzurro?- le domandò lui.
- Proprio lei.- annuì Carly.
- Sembra carina.-
La ragazza lo sguardò, scuotendo la testa e sospirando tra sé.
 
 
 
Novembre fu il mese in cui il freddo avvolse definitivamente Los Angeles, che, a differenza di molte altre città Statunitensi, aveva mantenuto un clima caldo fino a quel momento.
Sam, avvolta in un giubbotto nero e imbottito, uscì intenta a infilare i guanti, col casco a penzoloni da un avambraccio.
Non appena fu salita a bordo ed ebbe imboccato il vialone principale, il vento gelido le sferzò il viso e capelli, gelandole le mani e penetrando sotto il giubbotto.
- Porca miseria.- commentò la ragazza, ignorando un semaforo rosso e ingranando la marcia.
Non aveva intenzione di congelare, quindi doveva sbrigarsi ad arrivare allo stadio degli incontri dell’ AMM.
Ovviamente, la persona che l’aveva obbligata – o convinta, a seconda che a raccontare fossero lei o lui – a uscire con quel gelo, abbandonando il tepore del divano, la torta di zucca e la cioccolata calda preparata da Cat, per fare chissà che, dato che non aveva voluto rivelarle nulla a telefono, non poteva essere altri che Dylan.
Quell’idiota l’aveva chiamata poco dopo pranzo, ignorando la minaccia che Sam gli aveva rivolto qualche giorno prima, ovvero di spezzargli le dita se avesse osato telefonarle ancora mentre faceva il solito pisolino pomeridiano, l’aveva intontita di chiacchiere e le aveva detto di presentarsi allo stadio per le cinque.
Ora, che quel tipo osasse darle un ordine, dopo essere spartito per cinque giorni, non essersi presentato a lezione e non averle nemmeno mandato un sms per avvisarla di essere vivo – non che le importasse qualcosa o desiderasse sentirlo, si ripeteva, era solo una questione di principio – , non era una cosa che Samantha Puckett poteva tollerare.
Così, dopo aver inveito contro di lui per buoni dieci minuti e averlo, infine, mandato al diavolo, si era arresa all’idea di vestirsi e uscire, decisa più che mai a dare una bella lezione a quello lì.
Mai, tuttavia, avrebbe creduto che l’occasione di tirare a Dylan un paio di calci nel sedere le sarebbe stata offerta proprio dal malcapitato in questione.
Quando, di fatti, Sam fece il suo ingresso nello stadio vuoto, avanzò fino al ring e vi salì, entrando nella gabbia, ecco apparire Dylan, intento a scendere le scale degli spalti.
- Razza di deficiente, chi ti credi di essere?- urlò Sam, avvicinandosi alla rete.
- Ciao anche a te, ragazzina.- ironizzò lui, scendendo gli ultimi gradini con un salto e girando attorno al ring fino a raggiungere l’entrata.
- Ciao, idiota.-
Dylan rise. – Va già meglio.- disse, raggiugendola.
Indossava un paio di jeans pesanti, un giubbotto scuro e aveva i capelli in disordine, come se il vento li avesse scompigliati più volte.
Quando fu sotto i riflettori, Sam notò che aveva un labbro tagliato e un brutto livido su uno zigomo; nervosa, si avvicinò, assottigliando lo sguardo, preoccupata.
- Cos’hai fatto?- gli chiese, allungando le dita per poi ritrarle senza sfiorarlo.
Lui afferrò la mano che lei aveva lasciato cadere e se la posò sulle labbra. – Niente.- disse, mordendole piano l’anulare.
Sam nascose il brivido che quel contatto le aveva provocato nella spinta che gli diede per allontanarlo.
- Dylan, cominci a darmi seriamente sui nervi, vuoi spiegarmi che sta succedendo?- gli domandò, irritata.
Sebbene Sam si riferisse, ovviamente, ai lividi che aveva sul viso, Dylan le diede le spalle e si avvicinò alla porta del ring, chiudendola. – Non è chiaro?- le domandò. – Ti facevo più intelligente.- aggiunse, cominciando a sfilarsi il giubbotto.
Sam incrociò le braccia e prese a scandire il tempo col piede, battendolo ritmicamente.
Dylan fece roteare gli occhi al soffitto. – Dici sempre che vuoi picchiarmi.- illustrò. – Ne hai l’occasione.- aggiunse, indicandole il ring, mentre, intanto, si toglieva l’orologio.
Sam spalancò gli occhi. – Vuoi combattere con me?- gli chiese.
Lui annuì, strizzandole un occhio. – Paura, Puckett?- la schernì.
Sebbene ancora preoccupata per lui , perché era sparito senza dare spiegazioni per poi tornare, pieno di lividi, solo cinque giorni più tardi, Sam sentì l’adrenalina farsi strada dentro di lei.
Ce l’aveva con lui, era furiosa con lui, perché non faceva altro che tormentarla, mandarla in tilt, sparire e farla preoccupare, attrarla e respingerla, senza una logica o un motivo preciso.
Il desiderio di togliergli quel sorrisetto insolente dal viso e, al contempo, baciarlo, creavano una miscela letale nel cuore della ragazza e Sam si ritrovò a sorridere, pericolosa.
Calò la zip del giubbotto e, sfilatoselo, lo lanciò in un angolo. – Vuoi chiamare qualcuno, prima di ritrovarti con le ossa rotte, per informarlo che sarai presto in ospedale?- chiese, gaia.
Sul voltò di lui, per un istante soltanto, un’espressione amara fece capolino, svanendo immediatamente. – No, non c’è nessuno che voglio chiamare.- rispose, camminando fino al centro del ring.
Sam raccolse la massa di capelli biondi in una coda che arrotolò su se stessa e bloccò con un codino, poi lo raggiunse.
- Non ti farò male.- le promise Dylan, sollevando le mani, guardandola dolcemente.
Il primo pugno di Sam lo raggiunse in pieno stomaco, costringendolo a piegarsi.
- Io sì.-
Il ragazzo si sollevò, sorridendo appena e, dopo aver scosso la testa, provò un affondo a destra che Sam evitò facilmente, senza accorgersi, tuttavia, che lui aveva caricato già il sinistro che la mandò a terrà, sebbene senza farle troppo male.
Sam roteò su se stessa e, ancora stesa, scalciò, mandando Dylan a sbattere contro la rete metallica, poi, rialzatasi, si scagliò contro di lui, che, tuttavia, si scansò, arrivandole subito alle spalle e bloccandole le braccia dietro la schiena.
La ragazza gettò indietro la testa con violenza, colpendolo al naso e subito lui la lasciò, evitando per un soffio il calcio rotante che Sam aveva tirando, voltandosi.
Quando, però, lei alzò di nuovo la gamba con violenza, Dylan le afferrò la caviglia, bloccando il suo calcio a mezz’aria e, con un piede, le fece perdere l’equilibrio della gamba con cui si teneva in piedi, mandandola col sedere per terra.
Fu subito sopra di lei, bloccandole le gambe con le proprie e le mani contro il rivestimento del ring.
- Sei al tappeto, Puckett. Arrenditi.- le sussurrò, all’orecchio.
Sam si dimenò sotto di lui, con le gote in fiamme e un velo di sudore a impregnarle la fronte.
Agitandosi, riuscì a piegare un ginocchio e colpirlo dritto nell’inguine, cosicché Dylan fu costretto a piegarsi dal dolore e Sam, rimettendosi dritta, in ginocchio, gli afferrò entrambe l braccia, sbattendolo a terra sulla pancia e, tenendolo fermo, si accostò al suo orecchio.
- Hai parlato troppo presto, Bennett.- disse, lasciandolo solo per tornare in piedi.
Mentre anche lui si rialzava, Sam si massaggiò le braccia, dove le dita di Dylan avrebbero di certo lasciato un segno del loro passaggio.
Il ragazzo si avviò verso l’angolo in cui aveva lasciato la propria roba e Sam, con le mani sui fianchi, gli gridò dietro. – Scappi?- lo schernì.
Lui, ridendo, afferrò qualcosa da terra e glielo tirò. – Sta’ un po’ zitta, Puckett!- esclamò.
La bottiglietta d’acqua tra le mani di Sam era gelida e la ragazza bevve troppo in fretta, gelandosi lo stomaco.
- Non dirmi di stare zitta.- lo minacciò, restituendogliela.
- Certo, certo. Pronta?- le chiese Dylan, tornando di fronte a lei.
- Quando vuoi.-
Stavolta, il primo colpo fu del ragazzo che, colpita Sam al fianco e fattala sbattere contro la rete, avanzò in fretta, pronto ad affondare ancora, se la ginocchiata della ragazza, parata da Dylan, non avesse arrestato il suo attacco.
Lui si piegò, prendendola nello stomaco con una spalla e Sam, istintivamente, si piegò in avanti; Dylan, allora, la sollevò come fosse un sacco di patate e prese a girare su se stesso.
- Idiota! Mettimi giù! Dylan, dico sul serio, voglio scendere!- gridò Sam, tempestandogli la schiena di pugni fino a che, a furia di scalciare, la punta del suo stivale non lo prese nello stomaco e entrambi caddero al suolo.
Dylan rotolò di lato, per non pesarle addosso e, sfiniti, restarono tutti e due stesi a terra, ansanti e seduti, soddisfatti e rilassati.
Avevano bisogno di sfogarsi e quello era il modo perfetto di farlo, per entrambi.
Dopo diversi minuti di silenzio, quando i rispettivi cuori ripresero a battere normalmente, lui voltò appena il capo verso di lei. – Mi dispiace di essere sparito.- le disse.
Sam si ostinò a tenere lo sguardo fisso sul soffitto a punta. – Già.- si limitò a dire, sebbene, per lei, il non mettersi a sbraitare di non aver nemmeno notato la sua assenza, fosse una grande fatica.
- Ti ho fatto male?- le chiese, con quel tono insolente che non riusciva a nascondere del tutto la nota di preoccupazione e timore insita nella sua voce.
Sebbene, infatti, non avesse usato molta forza per colpirla, temeva comunque di aver esagerato senza volerlo; sapeva che Sam, sebbene sembrasse fatta d’acciaio, era come tutte le altre ragazze – e persone -:  fatta di carne.
Sam si voltò a guardarlo con un sopracciglio alzato. – Devo avertele date troppo forte.-
Lui rise, scuotendo la testa. – In effetti, te la cavi, ragazzina.- le disse.
Di nuovo, restarono in silenzio, per niente imbarazzati o turbati, senza bisogno di riempire quei momenti con parole vuote.
Poi, facendo uno sforzo disumano, Sam riuscì a mormorare: - Si può sapere dov’eri finito?-
Il tono timido e, al contempo, brusco della ragazza, impedì a Dylan di mantenere quella distanza che sempre cercava di mettere fra sé e gli altri.
Sam, in particolare, era una sorta di terremoto, un tornado, che andava avanti, lungo la strada che conduceva dritto dentro di lui, inarrestabile, trascinando e distruggendo ogni cosa lungo il percorso, comprese quelle barriere d’acciaio e cemento che proteggevano il suo cuore.
Più tentava di starle lontano, più la cercava, la inseguiva, gli mancava.
- Mio padre era in città.- rispose, sommessamente.
Sam, che il padre non l’aveva mai conosciuto, si ritrovò a chiedersi perché Dylan non sembrasse felice di aver visto il suo.
- E?-
Il ragazzo sospirò, sollevando un braccio e portandolo sulla fronte, i pugni si strinsero automaticamente.
- Mio padre non è stato un grande uomo, per metà della sua vita.- le raccontò. – Beveva, era violento con mia madre e con me.- spiegò, brevemente, perché rievocare quei ricordi, i ricordi di un bambino spaventato, fermo sulla scala tra il primo e il secondo piano della loro casa, in pigiama, intento ad ascoltare le grida e i colpi, gli provocava ancora un dolore immenso.
- Per questo ho cominciato ad appassionarmi alla lotta. Avevo dodici anni e il tizio che insegnava AMM mi notò, dato che, ogni pomeriggio, spiavo gli allenamenti dalle vetrine, non avendo il coraggio di chiedere a mio padre i soldi per l’iscrizione. Era un brav’uomo, così un giorno venne fuori a parlare con me, mi domandò se mi sarebbe piaciuto provare e mi propose di aiutarlo con guantoni, caschi e tutto il resto, in cambio. Ovviamente, accettai.
L’anno dopo gareggiavo nel campionato juniores e, poco prima dell’estate, mandai mio padre in ospedale con due costole rotte e una commozione cerebrale. Non tornò mai a casa, prese un pullman appena dimesso e sparì dalle nostre vite per i successivi cinque anni. –
Sam ascoltava il racconto il silenzio, tanto dispiaciuta per Dylan che il suo desiderio più grande era quello di abbracciarlo stretto e mormorargli che non era solo ma, sapeva bene, l’armatura che lui si portava attorno si sarebbe immediatamente chiusa, lasciandola fuori.
Si limitò a sfiorargli un braccio con le dita, quasi causalmente e lui parve accettare quel contatto come il sostegno di cui aveva bisogno.
- Quando tornò, aveva una nuova moglie, un nuovo lavoro e una nuova figlia.- raccontò, con voce sprezzante. – Si era ripulito, aveva fatto carriera e implorava il mio perdono, oltre che quello di mia madre.- continuò. – Non volli nemmeno parlargli, lo sbattei fuori casa e litigai follemente con mia madre, che insisteva affinché io gli dessi una possibilità.- disse.
Sorrise, amaro. – Sai, forse sono più arrabbiato con lei che con lui: insomma, una madre dovrebbe proteggere i propri figli da qualsiasi cosa e lei non ha mai avuto la forza di buttare quel verme fuori di casa.- fece, pensoso.
- Che stronzata.-
Lui si volse a guardarla, accigliato.
- Sbagli, Dylan, di grosso; tu vedi tua madre solo come tale, in relazione a te. Non pensi che, prima di essere tua madre, lei è una donna, una persona e le persone hanno paure e debolezze. Essere madre non rende, automaticamente, invulnerabili e invincibili. Anche le madri sbagliano, come sbagli tu. Perché a te un errore dev’essere perdonato e a tua madre no?- ribatté Sam, pensando alla propria di madre che, per quanto pessima fosse, le era sempre rimasta accanto, al contrario di suo padre, che aveva abbandonato sia lei che Melanie.
Dylan si tirò a sedere, scontroso. – Lei ha sbagliato per tredici anni.- disse.
- Ritieniti fortunato, allora: ci sono madri che sbagliano tutta una vita e io ne so qualcosa.- rispose Sam, alzando le spalle.
Lui lasciò cadere l’argomento e rimasero zitti qualche istante.
- Cosa c’entra tuo padre con il labbro spaccato e i lividi?- domandò lei.
Dylan gettò il capo indietro. – Torna in città ogni anno, sotto Natale, desideroso di riconciliarsi, chiedendo ancora scusa, pregandomi di trascorrere le feste con lui e la sua famiglia. Ogni anno, finisce con me e lui che ce le diamo di santa ragione, anche se, devo ammetterlo, non picchia duro.- raccontò.
Anche Sam si mise seduta. – E’ da quando avevi diciotto anni che, ogni Natale, tuo padre arriva in città per chiederti scusa e implorarti di dargli una possibilità?- ripeté.
Dylan annuì.
- Dove vive?-
- Da qualche parte in Florida.-
Sam lo guardò a bocca aperta. – E’ lontanissimo!- commentò.
Lui alzò le spalle, indifferente. – Mai troppo lontano, per quel che mi riguarda.-
La ragazza scosse la testa, frustrata, poi decise che non fosse quello il momento di far capire a Dylan quanto desiderasse, lei, avere un padre che, ogni anno, indifferente al lungo viaggio, la raggiungesse per implorare il suo perdono per essere sparito nel nulla.
Del resto, lei non poteva sapere cosa doveva aver provato lui, da bambino, a causa di quell’uomo che, adesso, agognava una possibilità di star vicino a suo figlio.
- Si è risposato?-
- Sì e ha una bambina.- il tono di Dylan si era di molto addolcito.
- Come si chiama?-
- Laura, frequenta la seconda elementare.-
- E tu come lo sai?-
Il ragazzo la guardò di traverso. – La sento al telefono, a volte.- confessò.
Sam sorrise. – Quindi non la detesti.- commentò.
- Lei non c’entra niente, è una bambina adorabile.-
- E’ già un inizio.-
Dylan le lanciò uno sguardo, sospirando.
 
 
 
 
 
 
- Ciao!- esclamò Freddie, chiudendosi la porta dell’appartamento di Spencer e Carly alle spalle.
Il ragazzo sollevò lo sguardo. – Oh, ciao Freddie. Dov’è Carly?- chiese.
- Mi ha chiesto di lasciarla al Centro Commerciale.-
Spencer, intento a dar vita a una delle sue sculture, si arrestò e fissò l’altro. – Papà capirà che è stato uno sbaglio regalarle una carta di credito.- decretò.
- Temo di sì.- annuì Freddie, sedutosi al bancone. – Che combini?-
- Questa, amico mio, è la scultura che mi farà vincere una mostra al Museo di Seattle!- esclamò Spencer, euforico, alzando di scatto le braccia cosicché una palla da tennis, che teneva nella mano destra, volò fino al tavolino e ruppe la lampada che vi era posata.
- Ops.-
- Di che mostra parli?-
- Il comitato artistico del Museo ha indetto un concorso per artisti esordienti: c’è tempo fino alla fine di Novembre per presentare un’opera propria e inedita e, a inizio Dicembre, saranno scelti tre vincitori che avranno la possibilità di organizzare una mostra di tutte le loro opere.-
Freddie alzò un sopracciglio in un espressione sorpresa. – Sembra un’ottima opportunità.-
Spencer batté le mani sul bancone. – Questa è l’opportunità, amico! Quella che capita una sola volta nella vita, quella che decreterà il mio futuro di artista, quella che… -
- Ho capito, ho capito!-
- Parliamo di una mostra nel verso senso del termine: una serata in abito elegante, con cocktail e gamberetti e critici d’arte che vagano per ogni dove, osservando e valutando e criticando… - il volto di Spencer perse colore e lui si aggrappò alla maglia di Freddie.
- Oh, mio Dio, non sono pronto!- esclamò, ansimante.
- Ma se fino a due secondi fa sembravi uno che ha vinto le Olimpiadi!-
- Non capisci! Critici di ogni Paese vedranno i miei lavori e se non dovessero piacere… oh, la critica mi stroncherà e sarò costretto a tornare a lavorare da quel dentista odioso… -
Il treno Spencer era ormai partito e il delirio continuò fino a quando Freddie, esasperato, non gli tirò la mela che aveva addentato.
Spencer lo guardò male, massaggiandosi il braccio. – Ahi! Potevi rompermi qualcosa! Come avrei fatto, poi, a completare la mia scultura?- chiese.
Freddie osservò le palle da bowling impilate sull’asse di legno orizzontale, poi le palline da tennis che creavano una cupola sopra quelle da bowling, poggiandosi anche loro all’asse orizzontale.
- Spencer, non voglio dirti come fare il tuo… ehm, lavoro, ma non credo che quell’asse di legno riuscirà a sostenere il peso di tutto.- commentò, alzandosi e avvicinandosi alla scultura.
L’altro scosse la testa. – Non preoccuparti, è tutto sotto controllo!- affermò, prima di posare l’ennesima palla da bowling.
Si udì, inizialmente, uno scricchiolio, seguito da un rumore sinistro, come di acciaio che stride, e, infine, l’asse si spezzò nel mezzo, tutte le palle da bowling caddero al suolo e rotolarono per ogni dove, mentre quelle da tennis rimbalzavano ovunque.
Una palla in particolare, pesante e color prugna, prese in pieno il piede di Spence, mandandolo al tappeto, cosicché tutte le palline da tennis lo investirono, costringendolo a ripararsi  la testa con le braccia.
Freddie, tiratosi indietro giusto in tempo, osservò la scena scuotendo la testa, rassegnato.
Spencer, riemerso dai cocci della sua “scultura”, mormorò, con voce strozzata. – Sto bene, sto bene.- prima di cadere di nuovo disteso al suolo.
- Freddie?-
- Sì?-
- Mi accompagneresti dal ferramenta a comprare una sbarra d’acciaio?-
- Volentieri.-
Furono di ritorno presto e così Freddie propose di passare al Pear Store, dove, da qualche settimana, Gibby lavorava come commesso.
Parcheggiata l’auto, entrarono nell’immenso negozio, alla ricerca dell’amico, ma l’attenzione di Spencer fu subito catalizzata da una ragazza mora, bassina, che osservava alcune cover.
- Credi di avere chance?- domandò Freddie, indicando la ragazza con un cenno del capo.
Era senza dubbio bella, con gli occhi scuri, le labbra carnose, la pelle chiara e i lunghi capelli mossi.
Spencer si sistemò un immaginario colletto di un’immaginaria camicia. – Guarda e impara.-
La raggiunse e, dopo aver finto per qualche istante di fissare le cover, si rivolse a lei.
- Ciao.-
- Ciao.- fece la ragazza, divertita e curiosa al contempo.
- Vuoi acquistare una cover?-
Freddie si portò una mano alla fronte, ridendo.
Lei, invece, si trattenne. – No, in effetti le fissavo aspettando che mi parlassero.-
Spencer batté le palpebre, allibito. – Oh.- fece, guardando Freddie. – E’ sarcastica?- chiese, mimandolo e nascondendo le labbra con una mano.
Il ragazzo alzò due pollici, annuendo.
- Sei simpatica.-
- Tu sei strano.-
- Sono un artista.- commentò Spencer, sorridendo.
- Davvero? –
- Certo. Tu di cosa ti occupi?-
- Sono sceneggiatrice.-
Spencer si grattò la testa e lei colse il lampo di confusione, perché aggiunse. – Scrivo sceneggiature per programmi televisivi.- gli spiegò.
- Wow, devi essere una importante, allora.-
- Così sembra.- rise, di cuore, la ragazza.
- Sono Spencer.- lui le porse la mano.
- Alison. Sono lesbica.-
Spencer la guardò, a bocca aperta, pietrificato, con la mano, che lei aveva lasciato da un pezzo, ancora a mezz’aria.
La risata della ragazza, dolce e armoniosa, risuonò nel negozio. – Scherzavo.- disse, scuotendo la testa.
 
Freddie, intanto, aveva raggiunto Gibby, intento a sistemare alcuni telefoni in vetrina.
- Ehi, dov’è Carly?- gli domandò questi.
- Al Centro Commerciale.-
Gibby rabbrividì.
- Già. Fortuna che non ha insistito perché restassi a tenerle compagnia.- commentò Freddie.
L’altro ragazzo sospirò. – Sai, prima era Sam a fare queste cose con lei, sì, insomma, tutte quelle stupidaggini da ragazze… - mormorò, interrompendosi quando notò lo sguardo dell’amico rabbuiarsi.
Si voltò, chiudendo la vetrina e fronteggiando Freddie. – Si può sapere perché sei tanto arrabbiato con lei?- chiese, allargando le braccia.
- Io non sono arrabbiato con Sam.- rispose, istintivo, Freddie, accigliandosi.
- Oh, questa è bella! Ogni volta che qualcuno la nomina, ecco che il tuo umore diventa nero. E’ nostra amica, Freddie, è giusto che ci manchi e non voglio dover stare attento a non pronunciare il suo nome.- dichiarò Gibby, frustrato.
Anche lui, come Spencer, aveva sperato di poter vedere di nuovo riunito, tutto il loro gruppo e sapere che, invece, col ritorno di Carly le cose sarebbero rimaste le stesse, era stato un duro colpo.
Quei tre erano stati i suoi primi, veri, amici ed erano egualmente importanti per lui.
Sapeva bene, forse più di Freddie e Carly, quanto Sam avesse sofferto, già prima di partire e lasciare Seattle, per quell’amore troppo difficile da tenere in vita.
Ricordava, come fosse ieri, il giorno in cui aveva aperto il ristorante e Sam aveva capito che Freddie aveva ancora una cotta per Carly: nell’espressione della biondina, il cuore spezzato e il dolore, erano stati evidenti.
Per quel motivo, Gibby non riusciva a tollerare che, ogni volta che si nominava o si faceva riferimento a Sam, Freddie sembrasse folle di rabbia e isterico.
Anche Carly se n’era andata, eppure lui non la guardava come a volerla incenerire.
- Ti sbagli.-
Gibby sospirò, alzando le spalle. – D’accordo, Freddie, come vuoi.- disse.
- Già. Vado, ho un incontro di scherma.- dichiarò il ragazzo, voltando le spalle e allontanandosi.
Gibby aveva ragione, lo sapeva: era furioso con Sam. Quello che, invece, Freddie non sapeva era il perché. Perché non riuscisse nemmeno a sopportare di pensare a lei, perché non riuscisse a rievocare il suo viso, i suoi occhi, il suo sorriso, senza sentire una rabbia folle montargli nel petto.
Solo mesi dopo, messo di fronte a una realtà che mai si sarebbe aspettato, avrebbe capito di non essere furioso con Sam, affatto: lui era furioso con se stesso per ciò che le aveva fatto.
- Spencer,  sto andando via.-
L’altro annuì. – Ci vediamo dopo.- disse, concentrato sulla nuova amica.
- Non avevi una scultura da finire?-
- Stasera.-
- Ci si vede, allora.-
Mentre Gibby osservava Freddie lasciare il negozio, un collega si avvicinò, fissando lo stesso punto.
- Un tuo amico?- chiese.
Gibby si voltò a guardarlo: era alto e robusto, aveva i capelli scuri e gli occhi nocciola.
Sorrideva, amichevole e gli porse la mano. – Non siamo ancora riusciti a presentarci, sono Scott.- disse.
- Gibby.-
 
 
 
Sam chiuse la porta e si gettò, immediatamente, sul divano, schiacciando letteralmente la povera Cat, addormentatasi mentre l’aspettava.
- Ahi!-
- Cat! Perché non sei nel tuo letto?- domandò Sam, tirandosi su e sedendosi.
L’altra, massaggiandosi la schiena, fece lo stesso, raggomitolandosi contro la spalliera e avvolgendosi le coperte attorno. – Si gela. – commentò.
- Mi dici che ci fai sul divano?-
- Ti aspettavo, ovviamente. Sei uscita nel pomeriggio e non mi hai detto niente, non sapevo a che ora saresti tornata, ero preoccupata.- rispose Cat, con quella sua vocetta squillante.
- Dov’eri?- chiese.
- Con Dylan.- disse Sam, scalciando via gli stivali.
- Oh.- squittì Cat, sorridente.
- Cos’era quel “oh”?-
- Quale “oh”?-
Sam alzò un sopracciglio. – Il tuo. L’ “oh” che sembra voler dire “avrei dovuto immaginarlo”.- imitò la vocetta fastidiosa delle ragazze che fanno le oche.
- Ti sbagli, il mio era un “oh” che voleva significare: che carini, finalmente avete fatto pace.-
Sam sbuffò, alzandosi e avviandosi verso la loro stanza e Cat, inciampando nella lunga camicia da notte che indossava, la seguì.
- Allora?- chiese.
- Allora cosa?-
- Dove siete stati?-
- Allo stadio di lotta.-
- Oh. Non è molto romantico, anche se, trattandosi di voi, forse lo è… -
- Non era un incontro romantico, Cat, quante volte dovrò ripeterlo?-
- Non lo so, fino a che non ci crederai?-
Sam le lanciò uno dei suoi cuscini e l’altra si ritrovò supina sul proprio letto.
- D’accordo, come vuoi. – rise. – Oh, dimenticavo; è passato Dice e ti ha lasciato il libro che gli avevi prestato.- la informò.
- Poteva tenerlo, non ho intenzione di perdere tempo a studiare.- commentò Sam, spogliatasi.
- Ma, Sam, come farai a sostenere l’esame?-
- Copierò.- rispose l’altra, già sotto la doccia.
 
 

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Capitolo 3
*** Leaves ***


Ringrazio tutte le persone che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite.
Ringrazio la mia adorabile e magnifica beta, Aduial.
Ringrazio tutti coloro che hanno commentato il precedente capitolo; risponderò in privato ad ognuno di voi.

Buona lettura.



Settembre portò via gli ultimi strascichi di estate, colorando di arancio e giallo le foglie sugli alberi e obbligando le persone a coprirsi più di quanto fosse mai stato necessario in quel mese. Fu come se un freddo prepotente e cattivo avesse deciso di imporre il proprio dominio su Seattle in anticipo, senza rispettare il naturale susseguirsi delle stagioni.
Fu in quel clima gelido che, poco dopo le idi di Settembre, Carlotta “Carly” Shay scese dall’aereo, guardandosi attorno in cerca di suo fratello maggiore – e, da sempre, punto fermo nella sua vita.
Avvolta in un cappotto troppo leggero, mentre un vento fastidioso faceva dondolare la sciarpa nera che portava al collo e le arruffava i capelli scuri, Carly camminò lungo il nastro trasportatore, cercando con lo sguardo il proprio bagaglio.
Lo intravide un istante – la macchia di vernice, opera di Spencer risalente a molti, troppi, anni prima, non lasciava dubbi che fosse il su – e, subito, scomparve alla sua vista, sommersa da altri borsoni e valige.
- Oh, magnifico! – borbottò, tentando di farsi largo tra le decine di persone che affollavano l’aeroporto. – Scusate, permesso, scusate, la mia valigia è laggiù!- affannò.
Quando, scarmigliata e accaldata, raggiunse la fine del nastro, Carly si arrestò, emozionata e sull’orlo delle lacrime; Spencer e Freddie, due dei tre uomini più importanti della sua vita, la attendevano sorridenti, col suo bagaglio lì accanto.
Poco dietro di loro, alto più di quanto fosse umanamente possibile crescere nel giro di otto mesi, se ne stava Gibby, divenuto un caro amico quasi al pari dell’altro, in quegli ultimi tempi.
La ragazza, che tutti conoscevano come “la bruna di ICarly”, si gettò a peso morto contro il fratello, lasciando finalmente le lacrime libere di scivolarle lungo il viso, dalla pelle dorata dal sole estivo. – Spencer.- fu l’unico sussurro che le sfiorò le labbra.
Descrivere la miriade di emozioni e pensieri che le affollavano il cuore e la mente in quell’istante troppo breve e, al contempo, infinito, sarebbe stato impossibile; essere di nuovo a casa, sentirsi di nuovo a casa nell’abbraccio di quello che, quand’era solo un ragazzo di poco più grande di lei adesso, era stato tutta la sua famiglia per lunghi anni era una gioia immensa.
- Mi sei mancata anche tu.- mormorò Spencer, ben consapevole che, se avesse tentato di aggiungere qualcosa, sarebbe di certo scoppiato in lacrime.
La sua sorellina gli era mancata come mai avrebbe creduto possibile, poiché non aveva mai capito quanto quella ragazzina riempisse i vuoti di cui era fatta la sua vita e lo colmasse di quell’amore che il padre, assente, non aveva saputo dargli.
Carly era stata tutto il suo mondo da quando, dodici anni prima, il padre aveva annunciato l’ennesimo trasferimento e Spencer, appena ventenne, aveva imposto la propria volontà di restare a Seattle, assumendo come scusa l’Università.
Era stata una lotta estenuante, quella per convincere il Colonnello Shay ad affidare la sua unica figlia a quel ragazzo tanto strano e svampito, spesso immaturo, eppure, l’uomo aveva sempre percepito l’amore profondo che Spencer nutriva per sua sorella e sapeva che non avrebbe mai permesso che le accadesse qualcosa di male.
Così, per nove lunghi anni, erano stati, l’uno per l’altra, tutta la famiglia di cui avessero bisogno.
Quando, quasi due anni prima, Carly aveva preso la decisione di seguire suo padre in Italia, il cuore di Spencer si era spezzato, poiché sarebbe rimasto completamente solo, senza quella sorellina che, in fin dei conti, gli aveva fatto anche un po’ da madre e gli aveva insegnato a essere – per quanto possibile – responsabile. Eppure, la consapevolezza che, in quel determinato momento della sua vita, Carly avesse bisogno di suo padre, lo aveva spinto a lasciarla andare, con la speranza che, prima o dopo, sarebbe tornata a casa.
Il giorno era giunto.
Carly si asciugò le lacrime con la manica del giubbotto e, sorridente, sollevò il viso verso il fratello. – Non riesco a credere di essere a Seattle!- disse, guardandosi rapida intorno, focalizzandosi, poi, sul ragazzo alto e bruno che era rimasto in disparte, rispettoso.
- Freddie.- mormorò lei, dolcemente e si sporse per abbracciare anche lui.
Spencer, poco distante, li osservò attento, in cerca di un segno che potesse significare una scintilla di romanticismo ancora vivo tra loro; non ebbe sentore di nulla.
Carly e Freddie si abbracciavano come due amici che non si erano visti per lungo tempo che, alla fine dei conti, era ciò che erano.
- Bentornata.-
- Bentornata.- si accorò Gibby, stritolandola in un abbraccio.
- Wow, Freddie, quanto sei cresciuto in due mesi?!- esclamò, fintamente allibita, la ragazza.
Lui, divertito, alzò le spalle in un gesto noncurante e afferrò il bagaglio. – Un paio di centimetri.- rispose, incamminandosi verso l’uscita.
Spencer, alle sue spalle con Carly, fece roteare gli occhi al cielo. – Bla, bla, bla: ammettilo che ti piacerebbe essere alto quanto il sottoscritto, tappetto.- affermò.
- Certo che gli piacerebbe.- ridacchiò Gibby, che era davvero alto quanto Spencer.
Carly rise, sottobraccio con lui.
- Spencer, ho solo diciannove anni e ti arrivo alla spalla.-
- E questo che vorrebbe dire? Ormai hai finito di crescere.-
- Tecnicamente, i ragazzi completano il loro sviluppo fisico intorno ai… -
- Sorellina, devi raccontarmi tutto dell’Italia! Com’è il cibo?-
Freddie lanciò a Spencer un’occhiataccia, mentre passava all’autista del taxi la valigia di Carly.
- Cosa?- fece l’altro, notando l’espressione divertita della sorella. – Freddie, vuoi paragonare questo sermone sulla biologia all’Italia?!- aggiunse, sedendosi.
- E’ bello essere a casa.- commentò Carly, guardando fuori dal finestrino mentre i tre ragazzi continuavano il loro battibecco.
Quel pensiero l’accompagnò, cullandola e tenendola al caldo, per tutta la durata del viaggio dall’aeroporto all’appartamento in cui era cresciuta, aiutandola a far scemare il senso di confusione comune a chi torna a casa dopo un lunghissimo periodo di tempo.
Carly osservava Spencer e i suoi capelli ancora troppo lunghi, le dita sporche di tempera e la camicia in disordine e si sentiva a suo agio, finalmente serena, come se, per tutto quel tempo, non avesse fatto altro che cercare la strada di casa.
In quell’anno e mezzo, aveva vissuto in un Paese meraviglioso, affascinante, ricco di arte e cultura, un luogo da sogno e che le aveva consentito di fare esperienze uniche e indimenticabili.
L’Italia era servita a maturare il suo carattere e aiutarla a comprendere quali fossero i veri sentimenti che nutriva per Freddie, quale fosse la persone di cui aveva realmente più bisogno al mondo e, soprattutto, quali erano le persone di cui non avrebbe mai potuto fare a meno.
Due di quelle persone sedevano con lei, in quell’auto; la terza, era quella biondina di cui Carly non pronunciava più il nome da quasi otto mesi.
In quell’istante, la ragazza si impose di pensare a lei e, chiudendo gli occhi bruni, il volto ridente fece capolino tra i suoi ricordi, dolorosamente.
Sam.
La sua migliore amica, la ragazzina che in quarta elementare le aveva quasi rubato il pranzo, la stessa che l’aveva difesa da chiunque tentasse di farle del male.
Il demonietto biondo privo di grazia e femminilità che tanto aveva desiderato avere come sorella, la furia scatenata che poteva mettere al tappeto un energumeno nel giro di dieci secondi, l’irresponsabile che saliva a bordo della piattaforma del lavavetri senza imbracatura e la stimolava a fare altrettanto, finendo per rischiare entrambe la vita e salvarsi a vicenda.
La ribelle, folle, immorale, irresponsabile, testarda, violenta, arrogante, leale, coraggiosa, simpatica, forte, insicura, bellissima e dolce Sam, che era stata la sua metà – opposta e perfetta - per nove anni.
Come potessero essersi allontanate tanto, nonostante si fossero giurate di restare amiche – sorelle – in eterno, era una domanda che tormentava Carly, forse più di quei sensi di colpa che non l’avevano fatta dormire per lunghe notti, dopo l’inizio della sua relazione con Freddie.
La ragazza aveva sempre provato un senso di tradimento, ad osservare il bruno addormentato accanto sé, ben consapevole di quanto la sua migliore amica fosse innamorata di lui.
Se c’era, infatti, una cosa che Carly non poteva negare, era di conoscere perfettamente quali fossero stati i sentimenti di Sam per Freddie, nonostante la bionda non ne avesse mai parlato.
Sam non aveva un carattere facile, non era il tipo di amica che passa le ore a chiacchierare delle proprie emozioni o a chiedere aiuto e consiglio; eppure, per Carly, che la conosceva così bene, Sam era sempre stata un libro aperto e, forse, per questo motivo la bruna si sentiva ancora più in colpa.
Sapeva che, per Sam, fidarsi di qualcuno al punto di volergli bene richiedeva anni di sforzi e, nonostante questo, aveva ignorato i suoi sentimenti, per vivere la sua storia – fallimentare – con Freddie.
Tuttavia, se anche la loro relazione fosse durata, la cosa non avrebbe attenuato il senso di colpa di Carly: non avrebbe mai dovuto mettere Freddie prima di Sam e quello era quanto.
L’aveva fatto, aveva sbagliato e, adesso, quel senso di vuoto che sentiva a non avere più accanto la sua migliore amica era il prezzo da pagare.
Perché si era comportata a quel modo?
Carly faceva fatica a spiegarlo anche a se stessa.
Dopo i primi, magici e dinamici, mesi in Italia, quando l’entusiasmo generato dalla novità di essere in un Paese nuovo e sconosciuto, aveva lasciato il posto alla malinconia e alla nostalgia per le persone che amava, aveva cercato Sam e si era resa conto che, in quel primo anno, non aveva saputo molto della sua migliore amica.
Com’era potuto accadere? Come poteva aver dimenticato di scrivere, ogni giorno, uno stupido sms a Sam, per condividere con lei ogni emozione provata?
Era successo, semplicemente.
Presa com’era nel turbinio di eventi, aveva accantonato quella vita che le sembrava così lontana per dedicarsi a ciò che era diventata la sua nuova quotidianità.
E Sam non ne faceva parte.
Così, i giorni erano divenuti settimane, le settimane mesi e i mesi un anno.
A metà Aprile, si era accorta di aver scordato il compleanno di Sam e, lacerata dai sensi di colpa, aveva rinunciato a tentare di rimediare, ben consapevole che sarebbe stato peggio.
Da quanto Freddie le aveva raccontato, Sam aveva lasciato Seattle poco dopo di lei e si era trovata una nuova casa e una nuova amica, a Los Angeles.
Quella notizia le aveva fatto paura, molta paura, poiché aveva compreso quanto delicato fosse il cristallo di cui era forgiata la loro amicizia e che, partendo entrambe, era stato come lasciarlo cadere al suolo e abbandonarne i cocci.
Se Sam non c’era più ad attenderla a casa, che senso aveva mantenere in vita quell’amicizia?
Una volta tornata, lei, comunque, non sarebbe più stata la stessa senza la sua migliore amica.
Nonostante quelle idee cupe, aveva deciso di tentare un riavvicinamento, tornando a Seattle per qualche giorno, nella speranza di parlare con Sam e chiarire le cose, scusarsi per essere sparita.
E Sam non era tornata.
Carly aveva capito perfettamente cosa quella scelta significasse: Sam aveva chiuso con quel capitolo della sua vita, il capitolo che comprendeva tutti loro.
Si era sentita abbandonata e ferita e, quando Sam Puckett decideva qualcosa, tutti sapevano che niente avrebbe mai potuto farle cambiare idea.
Allora, Carly si era rassegnata all’idea di aver perso per sempre la sua migliore amica e aveva lasciato che il dolore la inondasse, violento e spaventoso.
Freddie era stata la sua roccia e aveva capito che, a quel punto, poteva provare a stare con lui e amarlo, come, in fondo, tutti avevano sempre voluto e, forse, anche lei desiderava.
Del resto, Freddie l’aveva amata fin dalla prima volta che si erano incontrati e non aveva mai smesso durante tutti quegli anni: come poteva sperare di trovare un’amante più devoto?
Eppure, dopo i primi mesi di idillio, Carly aveva cominciato a sentire una strana sensazione di fastidio, ogni volta che Freddie cercava le sue labbra o le accarezzava dolcemente la schiena nuda.
Era quasi come se, tra loro, vi fosse ancora l’imbarazzo di due amici divenuti una coppia, imbarazzo che, a quel punto, sarebbe dovuto scemare da un pezzo.
Per quanto si sforzasse, Carly non riusciva a vedere in Freddie l’uomo che avrebbe amato per il resto della vita e, al contrario, ai suoi occhi, rimaneva il dolcissimo ragazzino di dodici anni troppo maturo per la sua età.
Ad Aprile, dopo un mese di riflessioni e rimpianti e ripensamenti, la ragazza aveva compreso che, a spingerla a tentare di innamorarsi di Freddie, era stato una sorta di egoismo: aveva paura di rimanere sola, di perdere anche lui, così come aveva perso Sam e, così, si era convinta di amarlo e di desiderarlo al suo fianco, perché lui la conosceva e amava nonostante i difetti che possedeva e Carly non era sicura che, qualcun altro, sarebbe riuscito a fare altrettanto.
In seguito, l’affetto che sentiva per lui aveva preso il sopravvento e Carly aveva capito di non poter tenere legato Freddie solo in virtù della paura di perderlo per sempre, perché non era giusto per nessuno dei due.
E, come se fosse la cosa più naturale del mondo, avevano rotto, di comune accordo, senza bisogno di conversazioni infinite o dichiarazioni solenni; semplicemente, si erano confessati reciprocamente di non essere più innamorati.
Freddie, alle soglie di Giugno, era tornato a Seattle e Carly si era sentita sollevata: le occorreva qualche mese da sola per rimettere insieme i pezzi di quei sei mesi e ritrovare se stessa.
Quando, a Luglio, aveva letto del corso di scrittura creativa aperto all’Università di Seattle, aveva capito che il momento di tornare a casa fosse arrivato.
Così, eccola lì, di nuovo a casa, di nuovo in quell’appartamento, con Spencer intento a canticchiare e Freddie proprio oltre la porta; la sua vita di un tempo, offertale ancora, su di un piatto d’argento. Tutto, tranne lei: Sam.
 
 
 
Settembre era sempre stato il mese che più odiava, in assoluto.
Probabilmente perché, fino all’anno prima, Settembre significava l’inizio della scuola.
Al momento, invece, Samantha Puckett detestava Settembre poiché era il mese dell’”adattamento”, della sofferenza, della tensione che grava sui nervi in modo ossessivo.
La causa di tali, nefaste, riflessioni altra non poteva essere che la consapevolezza dell’imminente ritorno di Carly Shay.
In effetti, Sam non sapeva con esattezza in quale particolare giorno Carly sarebbe tornata a Seattle, ma era sufficiente l’idea di lei, tanto vicina eppure così irrimediabilmente distante, a renderla di pessimo umore.
Ad aggravare le cose, le parole di Spencer riguardo la relazione di Carly e Freddie e la scoperta che il ragazzo l’avesse addirittura seguita in Italia, erano ancora una lama affilata e incandescente piantata dritta nel cuore.
Spesso, in quelle settimane, Sam aveva desiderato cancellare ogni ricordo, bello o brutto che fosse, riguardo la sua vita a Seattle, assieme a Carly e Freddie; più raramente, la biondina si era ritrovata a sperare che Carly, alla fine, decidesse di restare in Italia.
Quest’ultimo desiderio non aveva a che fare con Freddie o con la paura che, tra i due, potesse scoppiare di nuovo la scintilla, dato che Sam aveva seppellito il suo amore per lui sotto i cumuli di macerie del suo cuore distrutto, no; a tormentare la ragazza era la consapevolezza che Carly fosse a poche ore da lei eppure non si sarebbero mai più riviste.
Sam sapeva di non poter perdonare a Carly quell’anno e mezzo appena trascorso e preferiva non incontrarla affatto, dato che, ritrovarla, sarebbe stato, a quel punto, doppiamente doloroso.
Come affrontare la migliore amica, che aveva sempre reputato come una sorella, che le aveva spezzato il cuore, due volte, scomparendo dalla sua vita e innamorandosi del ragazzo che lei amava?
Sam non poteva farlo, non sarebbe stata in grado di dimenticare e darle nuovamente fiducia e, inoltre, aveva troppa paura di essere tradita ancora per rischiare.
Non aveva avuto una vita facile, a causa di quella madre sempre assente e irresponsabile e il padre mai conosciuto, non c’erano state figure esemplari nella sua vita, fino a quando non erano diventate amiche e la biondina aveva capito di aver trovato qualcuno di cui fidarsi ciecamente, qualcuno che non l’avrebbe ferita o tradita.
E, invece, Carly, che per Sam era un modello di morale e lealtà, l’aveva scavalcata, rinnegata, allontanata, ferita, pur di avere Freddie per sé.
 
La ragazza, seduta all’ultima fila di banchi, intenta a mordicchiare una matita, sospirò pesantemente, accasciandosi ulteriormente sulla sedia.
Doveva smettere di pensare a Carly e, soprattutto, di pensare a Freddie.
Un’ondata di panico si fece largo dentro di lei appena il viso pulito del ragazzo fece capolino tra i suoi pensieri e la sua risata parve risuonarle nelle orecchie.
Sam scosse la testa, tentando di inghiottire il groppo che sentiva alla gola.
Freddie era stato anche più bastardo di Carly; lui l’aveva illusa, venendo fino a Los Angeles, passando del tempo con lei, facendole credere di tenere ancora a lei.
Il vero motivo per cui Sam aveva lasciato Seattle subito dopo Carly, le era stato chiaro la sera in cui Freddie, ricevuta la telefonata di Carly, era immediatamente partito per raggiungerla: la biondina aveva temuto che Freddie si aggrappasse a lei e credesse di amarla ancora solo perché la mancanza di Carly era troppo forte da sopportare.
Sam non avrebbe potuto vivere il loro rapporto con il timore che, tornata Carly, quel vuoto nel cuore di Freddie si sarebbe colmato e gli avrebbe aperto gli occhi, facendogli comprendere di non essere innamorato di Sam, ma di aver avuto bisogno di lei solo come surrogato di Carly.
Quel tarlo non l’avrebbe mai abbandonata, fino a quando Carly non sarebbe stata di nuovo con loro e, così, si era messa uno zaino sbiadito in spalla e aveva fatto il pieno di benzina.
In fondo, aveva avuto ragione, come dimostrava la partenza di Freddie per l’Italia.
Eppure, Sam si domandava ancora perché quei due si fossero lasciati.
La ragazza scosse violentemente la testa, decisa a scacciare ogni pensiero e il professore colse quel movimento brusco.
- Signorina Puckett, vedo che anche oggi è particolarmente attenta.- commentò, sarcastico, mentre una manciata di teste si voltava a guardarla.
- Felice del fatto che lei veda, Signor Holmes.- rispose Sam, senza nemmeno mettersi dritta.
L’uomo si accigliò e, lanciatole uno sguardo irritato, tornò alle sue stupide slide.
La ragazza ne approfittò per tirare fuori dalla borsa una merendina e cominciare a divorarla, vorace.
Quel corso era una noia mortale, eppure, se voleva lavorare nel campo manageriale, non poteva fare altrimenti: le lezioni erano obbligatorie, come le ricordava puntualmente Dice.
- Che spreco di tempo.- mormorò, stendendo i piedi sullo schienale della sedia davanti alla sua.
- Cos’hai di tanto interessante da fare?- chiese una voce.
Sam, che aveva imparato a riconoscere quel tono insolente e sarcastico da un paio di settimane, si volse scocciata in direzione del proprietario. – Cosa ti fa credere di potermi rivolgere la parola?- lo scimmiottò.
Il ragazzo, seduto nella fila dietro la sua, sulla sinistra, sorrise, mostrando una fila di perle chiare. – Il fatto che non c’è una legge che lo vieti?- fece.
Sam, per quanto irritata, non poté fare a meno di notare che quel Dylan fosse davvero un ragazzo attraente: aveva i capelli scuri, grandi occhi castani e allungati, il naso dritto e sottile e un sorriso che, in realtà, rassomigliava a un’affascinante ghigno.
Il viso era magro e dalla mascella lievemente squadrata e un piccolo neo faceva bella mostra di sé sulla guancia destra; aveva una barbetta appena accennata, che gli dava un’aria trasandata e, al contempo, attraente.
Non somigliava a Freddie, fu la prima cosa che Sam notò di lui.
Freddie aveva una bellezza classica, dai lineamenti perfetti: zigomi alti, labbra carnose, occhi profondi, capelli folti e scuri, naso perfetto, sorriso malizioso.
Dylan, invece, aveva una bellezza insolente, meno regolare, più affascinante.
- Mi guardi come se volessi sbranarmi.- commentò, dato che lei se ne rimaneva zitta.
Anche il suo tono di voce era insolente, divertito, quasi ci trovasse guasto a darle fastidio.
- Fossi in te, allora, starei attento.- rispose la ragazza, stendendo le braccia sulle due sedie ai lati.
- Dovrei aver paura di una ragazzina alta meno di un metro e che, a occhio e croce, può pesare al massimo quarantacinque chili?- commentò lui, incrociando le braccia e accarezzando la figura di Sam dal basso verso l’alto.
- Sei in cerca di guai?-
- Forse.-
- Torna da papino, amico, non sei pronto per Mama.-
Dylan la fissò per un istante infinito, prima di scoppiare in una risata fragorosa.
Il professore si voltò, infuriato e, osservateli entrambi, puntò loro contro un dito.
- Bennett, Puckett, fuori, immediatamente!- esclamò.
- Lei non c’entra.- rispose il ragazzo, alzandosi e afferrando la sacca con i libri. – E’ stata colpa mia.- aggiunse, fissando l’uomo dall’altro lato dell’aula.
- Ho detto fuori, entrambi. E non aggiunga una sola parola, Bennett.-
Sam si alzò, prima che il tipo potesse ribatter e, data l’espressione inferocita e arrogante che gli era comparsa in viso, sembrava proprio sul punto di farlo.
Lo afferrò per un braccio e, uscita dalla sua fila, se lo trascinò dietro a fatica; fino a quando erano rimasti seduti, infatti, non aveva notato la sua stazza ma, adesso che poteva guardarlo bene, si accorse che non era messo male.
Aveva le spalle larghe e i muscoli ben definiti sotto la camicia chiara, la vita era sottile ma proporzionata alle gambe tornite e muscolose.
Quando ebbero raggiunto la strada di fronte all’edificio, Sam lo lasciò e si accorse, allora, che lui aveva smesso di farsi trascinare da parecchio, ma non le aveva chiesto di lasciarlo.
Se ne stava lì, le braccia conserte, quel sorriso insolente sul volto abbronzato, le sopracciglia arcuate sugli occhi bruni, a fissarla.
- Ti aspetti forse un “grazie”?- le domandò.
- Mi sembra il minimo, dato che mi hanno buttata fuori a causa tua.-
Lui fece mezzo passo avanti. – Non ti ho obbligata a parlare con me.- ribatté.
- Mi hai distratta.-
Lui rise. – Ma se non lo stavi neanche ascoltando, quell’idiota!-
- Sbagli, lo stavo ascoltando.-
- E cos’ha detto?-
- “Cos’hai di tanto interessante da fare?”-
- Mi stai velatamente dando dell’idiota?-
Sam sorrise, radiosa e maliziosa come solo raramente si era concessa di essere. – No,- disse, facendo anche lei un mezzo passo avanti. – non velatamente.- aggiunse.
Approfittando di quella piccola vittoria, la ragazza gli voltò le spalle e si diresse alla moto, parcheggiata qualche metro più in là e tirò fuori le chiavi dal giubbotto di pelle.
Lui la raggiunse con due lunghe falcate, incredulo. – E’ tua?- le domandò, accarezzando la moto con sguardo incantato.
- Non la ruberei in pieno giorno.-
- Di notte sì, invece?-
- Se fosse necessario.-
Sam s’infilò il casco e i riccioli biondi si appiattirono sulla schiena.
Il ragazzo la osservò salire e togliere il cavalletto, affascinato: erano poche le ragazze a saper guidare una moto e, ancora meno, erano le bellissime ragazze, con un carattere tanto scontroso e stimolante e un corpo come quello, a saper guidare un simile bolide.
Per di più, la tipa in questione sembrava sproporzionatamente forte, al contrario di quanto il fisico magro e sottile suggeriva, data la presa ferrea sul suo avambraccio, di cui avvertiva ancora la stretta.
- Pensi si spostarti e preferisci che ti metto sotto?-
Dylan sorrise. – Non vuoi saperlo davvero.- rispose, spostandosi e fingendo un mezzo inchino.
Sam diede gas e rilasciò il freno, partendo a razzo e immettendosi nella strada principale.
Dallo specchietto, poteva ancora vedere il ragazzo, fermo ad osservarla.
 
 
 
Le prime settimane del ritorno di Carly trascorsero un po’ frenetiche anche per Freddie.
Oltre la solita routine, fatta di Università, lavoro, scherma e palestra, si aggiunse il dover e voler aiutare la bruna a riambientarsi, dopo essere stata tanto tempo lontana.
Carly sembrava faticare a ritrovare la quotidianità lì a Seattle, come se non poter riempire completamente le proprie giornate di impegni e mostre e corsi, le risultasse impensabile e tremendamente claustrofobico.
Il corso al quale si era iscritta all’Università cominciava a metà Ottobre, due settimane più tardi e, dopo aver ri-arredato la camera da letto, dipinto le pareti, fatto shopping per rifornire il guardaroba e aver telefonato a tutte le ex- compagne di scuola così da essere aggiornata riguardo le ultime novità, sembrava non riuscire a trovare altri modi di impiegare il – troppo – tempo libero a disposizione.
Freddie, che conosceva molto bene Carly, si trovava spesso ad osservarla, domandandosi se quell’inquietudine che sembrava gravarle addosso non avesse a che fare con Sam.
Da quando era tornata, infatti, erano state molte le volte in cui Freddie l’aveva scoperta a fissare il vuoto, con aria assorta e malinconica e una piccola lacrima a scivolarle lungo una guancia.
Nonostante comprendesse a fondo il dolore dell’amica, il ragazzo non era in grado di esserle di conforto, riguardo quell’argomento: Sam era una ferita ancora aperta e viva, anche per lui.
Il fatto che fosse andata via in modo tanto repentino, senza nemmeno permettergli di urlarle quanto dolore gli avrebbe causato, senza dargli la possibilità di implorarla di restare, fomentava quella rabbia che sentiva agitarsi nei meandri del cuore ogni qual volta lei gli veniva in mente.
E, data la presenza di Carly, pensare a lei era divenuto più frequente di un tempo.
Si domandava, spesso, se Sam lo amasse ancora; non si spiegava, altrimenti, quell’espressione, comparsa sul suo viso per un istante, quando, la sera di diversi mesi prima, Carly aveva telefonato e lui le aveva detto che l’avrebbe raggiunta subito.
Possibile che Spencer avesse ragione, che Sam si fosse sentita tradita e abbandonata dalla sua migliore amica e dal ragazzo che amava?
Il senso di colpa diventava, in quei momenti, opprimente e la vicinanza di Carly gli era insopportabile, così Freddie si rifugiava all’Università, restando a studiare in biblioteca, così da stare lontano da quell’appartamento che pareva intriso di Sam e dell’amore che avevano provato l’una per l’altro.
Freddie desiderava, spesso, che il rapporto con Sam fosse facile da recuperare quanto quello con Carly. Tra loro, infatti, era bastato quel mese insieme a Seattle per tornare gli amici di un tempo, senza che sulla loro amicizia gravassero le ombre della relazione fallita.
Tuttavia, Sam era la persona più complicata che Freddie avesse mai conosciuto e sapeva bene che nulla, con lei, sarebbe mai potuto essere semplice.
Sospirò e, raccolti i libri nella sacca che usava come borsa, si affrettò ad uscire, diretto a casa.
Si cambiò rapidamente e, infilata una camicia pulita, si diresse all’appartamento di Carly.
- Ciao.-
- Ciao, Freddie.-
Carly era seduta al bancone con un album da disegno e diverse matite sparse un po’ ovunque.
Il ragazzo si avvicinò e gettò un’occhiata al disegno. – Non male.- commentò, avviandosi al frigo.
- Trovi?- gli domandò lei, insicura.
Freddie sollevò il bicchiere in cui aveva versato il succo e trasse un lungo sorto, osservandola: rieccola, l’insicurezza di Carly. Sembrava non le importasse affatto di risultare fragile e bisognosa dell’appoggio altrui, come se l’aver costantemente necessità dell’accettazione degli altri non fosse una debolezza.
Se non fosse stata Carly, Freddie non sarebbe riuscito a sopportare il ruolo di “sostenitore”.
Sam, al contrario, era quel genere di persona che, pur di non ammettere di aver bisogno di aiuto, si sarebbe infranta in una miriade di pezzi sotto i suoi occhi.
- Sì, trovo. Perché non ti iscrivi anche ad un corso di disegno?- le domandò.
Carly alzò le spalle e si scostò i capelli bruni – che aveva tagliato alle spalle – dal viso recante ancora gli ultimi sprazzi di abbronzatura. – Il disegno non mi attira quanto la scrittura.- rispose.
- Dov’è Spencer?-
- Non lo so e la cosa mi inquieta molto.- ridacchiò Carly, chiudendo l’album e distendendo le gambe lunghe e magrissime.
- Che programmi hai, oggi?- gli domandò.
- Ho un appuntamento con quel tipo, l’amico di T-Bo.: ha un’auto da farmi vedere, dice che è in ottime condizioni e il prezzo è trattabile.- le spiegò.
- Oh, mi sembra un’ottima occasione, vuoi che ti accompagni?-
- Se non hai impegni certo, perché no.-
Carly si alzò e sorrise. – Prendo la borsa.- disse, sparendo oltre le scale.
Freddie vagò in soggiorno, massaggiandosi una spalla dolorante a causa della palestra e, dopo aver guardato l’orologio, si accostò alle scale. – Carly, datti una mossa, siamo già in ritardo!- urlò. Subito, un ricordo lo risucchiò prepotentemente.
 
Era una delle primissime giornate di sole in un Aprile che si era presentato come particolarmente piovoso e cupo.
Avevano trascorso la giornata in giro, visitando diversi musei e fermandosi a pranzare in uno dei bar-ristoranti situati proprio nella piazza principale; i gestori dei locali avevano sistemato tavolini e sedie all’aperto, approfittando della bella giornata, attirando schiere di turisti.
Carly, che conosceva quella città abbastanza da non perdervisi, ma non sufficientemente da aver già perso l’incanto che suscitava, si era accomodata con grazia sulla sedia di legno chiaro, sorridendo.
I capelli scurissimi erano splendenti sotto il sole tiepido, così come la pelle, dall’incarnato sano e abbronzato. – Mi stai fissando.- gli aveva detto, senza perdere il sorriso.
- Pensavo.-
- A cosa?-
Mentre parlavano, una folata di vento profumato di fiori aveva scompigliato i capelli di entrambi e fatto sollevare di poco la gonna di Carly,
- Al fatto che sei bella.-
Lei aveva sorriso, inclinando di lato la testa, accogliendo quel complimento che Freddie – e molti altri ragazzi – le avevano rivolto spesso.
La musica di un violino era giunta fino a loro, dapprima ovattata, allegra e dolce al contempo.
Una donna dall’aria gentile si era avvicinata al tavolo con un mazzo di rose tra le braccia.
- Una rosa per la bella signorina?- aveva chiesto, porgendo a Carly il fiore.
Freddie aveva tirato fuori il portafogli. – Certo.- aveva detto, mentre la fidanzata accettava l’omaggio con una stretta di mano.
La donna era sparita con un cenno di gratitudine e Carly aveva annusato la rosa color rosso vivo.
Per un istante, un istante soltanto, rapido quanto inesorabile, Freddie aveva pensato a Sam.
Come avrebbe potuto, infatti, dimenticare che, la prima volta che l’aveva baciata, sulla scala antincendio, Sam profumava di rose?
Era rimasto tanto stupito dallo scoprire un profumo tanto delicato su di lei, maschiaccio incallito, da sentirsi quell’odore addosso per settimane, dopo.
E, poi, le labbra di Sam erano dello stesso rosso sangue della rosa che Carly aveva stretto tra le mani.
- Ahi.-
La voce della fidanzata lo aveva riportato coi piedi per terra, in Italia, seduto a quel tavolo con lei.
- Cos’è successo?- le aveva chiesto, apprensivo.
- Mi sono punta.- aveva risposto Carly, mostrandogli il dito macchiato di sangue.
Anche Sam inebriava e feriva, come le rose.
- Vado a prenderti un fazzoletto.- le aveva detto, dopo essersi tastato le tasche e resosi conto di non averne.
Era entrato nel bar e, avvicinatosi al portatovaglioli, ne aveva estratti un paio, ringraziando il barista, che gli aveva permesso di bagnarli sotto il getto della fontana, in un italiano un po’ incerto.
Quando era uscito, aveva visto Carly intenta a parlare con un ragazzo, alto e di bell’aspetto, fermatosi accanto al loro tavolo.
Freddie era rimasto, un istante, congelato a osservare la propria ragazza che conversava amabilmente con un altro, in attesa di quell’ondata di rabbia e gelosia che, era certo, sarebbe giunta presto. Tuttavia, non era accaduto nulla.
Stordito da quella mancata reazione, il ragazzo aveva chiuso gli occhi e si era massaggiato gli angoli degli occhi, confuso; cosa gli stava accadendo?
Perché non era geloso di Carly?
Un tempo, il solo ascoltarla parlare di questo o quel tipo che tanto le piaceva lo aveva mandato fuori di testa e, adesso, se ne stava a guardarla, ridente e affascinante, senza avvertire altro se non un grande orgoglio.
Come se Carly fosse la sorellina appena sbocciata e lui il fratello orgoglioso che osserva gli altri uomini con il sospetto dettato dal desiderio di preservarla.
Freddie era sentito orgoglioso perché quella ragazza calamitava le attenzioni maschili, senza provare la gelosia tipica dell’amore, anzi, contento di poter tornare a sedersi con lei di fronte a tutti.
Quello era stato il primo momento in cui Freddie si era reso conto di non essere più innamorato di Carly e le cose, da quel giorno di Aprile, erano lentamente iniziate a cambiare.
Se al ragazzo era sempre stato chiaro che fosse stato quello il giorno in cui si era accorto di non amare Carly, non avrebbe, invece, mai ricordato che, quel giorno in particolare, era speciale anche per un altro motivo: il compleanno di Sam.
La sera, Freddie e Carly avevano deciso di cenare presso uno dei ristoranti consigliato al ragazzo da un compagno di corso e, alle otto passate, lui era passato all’appartamento che lei abitava presso la Base.
Il Colonnello non era in casa e Carly gli aveva urlato di aspettare un istante, dato che doveva prendere la borsa, dal piano di sopra.
Freddie aveva dato un’occhiata all’orologio, si era seduto sul divano color panna, aveva ammirato il dipinto di un galeone appeso sopra il camino di pietra, aveva ri-guardato l’orologio e constatato che fossero passati cinque minuti.
- Carly, datti una mossa, siamo già in ritardo!- aveva gridato.
 
- Arrivo!-
 
- Arrivo.-
Era stata la sua risposta, irritata.
Ancora due minuti, poi lei era scesa, con grazia, dal piano di sopra, vestita di un abito scuro, lungo fino alle ginocchia e privo di spalline, i lunghi capelli acconciati in uno chignon disordinato e un trucco leggero a illuminarle lo sguardo.
- Sei bellissima.- le aveva detto Freddie, accorgendosi di quanto il suo tono risultasse quello di una mera constatazione oggettiva.
Carly era bella, semplicemente, negarlo sarebbe stato sciocco; eppure, in lui, la bellezza della fanciulla non suscitava alcuna emozione, nessun palpito del cuore, com’era accaduto tante volte in passato.
- Grazie.-
E anche il tono di Carly era parso distratto, come quello di un automa abituato a rispondere sempre la stessa cosa alla stessa persona.
La cena era stata piacevole, come ogni momento trascorso insieme, eppure, in entrambi, il sentore di qualcosa di diverso aveva cominciato a farsi strada, impedendo loro di godersi appieno la reciproca compagnia.
Carly si era resa conto, per la prima volta dopo mesi, che avere accanto Freddie non le dava il calore e la sensazione di essere a casa, che tanto aveva cercato.
Quel giorno in particolare, per lei più difficile di altri, aveva Freddie accanto le sembrava sbagliato, come se lo avesse strappato al luogo e alla persona ai quali apparteneva.
Il giorno del compleanno di Sam, Freddie avrebbe dovuto passarlo con lei.
Mentre lo osservava, bellissimo in giacca e cravatta, si era chiesta se lui desiderasse essere a Seattle, con quella biondina che, anche con un Oceano a dividerli, riusciva a far capolino nei pensieri di entrambi.
E, se anche avesse saputo che la risposta a quella domanda sarebbe stata “sì”, Carly si era accorta che non ne sarebbe stata dispiaciuta o gelosa.
Si era sentita molto confusa, mentre mangiucchiava l’insalata, non capacitandosi del perché non si sentisse gelosa o furente di rabbia o a pezzi, all’idea che il proprio ragazzo potesse desiderare di stare con un’altra.
Possibile che non fosse innamorata di Freddie?
E, se così era, cosa aveva combinato e come avrebbe potuto rimediare?
Aveva allontanato Sam, per la paura di non riuscire a rimanere lontana da lei, sapendola ad aspettarla, poi aveva trascinato Freddie in Italia, egoisticamente desiderosa di qualcuno di familiare a fare da ponte con la sua vecchia vita, lo aveva strappato a Sam e all’amore che, probabilmente, entrambi sentivano ancora per l’altro e, adesso, si era pentita di quella scelta.
Lei non amava Freddie, non l’avrebbe mai amato.
Gli voleva bene, un bene dell’anima, ma quel ragazzo dai lineamenti angelici e il cuore d’oro, il gentiluomo che le sorrideva, pensieroso, dall’altro lato del tavolo, sarebbe sempre rimasto, per lei, l’amico che abita nell’appartamento di fronte, il ragazzino molto più basso di lei che di lei era innamorato dalla terza elementare, la persona su cui contare in ogni istante della vita, proprio come Spencer.
- Ti senti bene?-
 
- Ti senti bene?- le domandò, notando le guance in fiamme, quando scese le scale di corsa.
- Sì, non trovavo il capello, era in fondo al baule.- rispose, sollevando l’indumento incriminato.
- D’accordo, andiamo, T-Bo ci aspetta per le sei.-
 
 
- Ho un leggero mal di testa.- aveva mentito, senza avere il coraggio di incontrare il suo sguardo.
- Vuoi che ti riaccompagni?-
Carly, allora, aveva annuito, scrutandolo senza farsi vedere mentre lui chiedeva il conto; era la prima volta che, dopo un’uscita, Freddie non le proponeva di restare con lei o la invitava a seguirlo nella sua camera all’Università.
Il desiderio di domandargli “ricordi che giorno è?” era forte, ma il timore di leggergli in viso il dolore che la mancanza di Sam avrebbe potuto causargli era un peso troppo grande da sopportare.
Carly non era in grado, in quel momento, di affrontare quel senso di colpa derivato dalla consapevolezza di essere lei la causa di quella sofferenza.
- Vieni?-
- Ti seguo.-
 
 
- Ti seguo.-
Freddie la sostenne con una mano sul braccio, aiutandola a scendere quella scala di ferro arrugginita e instabile.
- Che posto orribile, dovevo aspettarmelo, essendoci di mezzo T-bo.- commentò Freddie, quando raggiunsero la vecchia officina.
- Non essere pessimista, ancora non abbiamo visto l’auto, potrebbe essere perfetta.- sorrise Carly, dandogli una leggera spinta, giocosa.
- Lo spero per lui.-
- Amico, non cominciare con le minacce.- intervenne una voce familiare.
T-bo, uscito da una porticina laterale, alzò la saracinesca e fece cenno a entrambi di avvicinarsi.
Accese l’interruttore collegato a una lampadina penzolante dal soffitto e afferrò un telone polveroso e spesso che copriva l’auto in questione.
- Pensi di darmi una mano?-
Freddie roteò gli occhi al cielo, poco felice all’idea di coprirsi di polvere e agguantò l’altro lato; assieme, scoprirono la vettura.
Il ragazzo si spazzolò le mani e i calzoni, mentre tornava accanto a Carly per osservare l’auto.
Non appena il polverone sollevato dal telo si disperse nell’aria, Freddie spalancò gli occhi: la vettura di fronte a lui era vecchia, certo, ma in ottimo stato, almeno all’apparenza.
T-bo lo affiancò, con un’espressione soddisfatta in viso. – E’ bella, vero?- chiese, retorico.
Carly sorrise. – Sì, molto. – annuì. – Che cos’è?- chiese.
- Una Ford, credo del 2005.- intervenne Freddie, prendendo a girare attorno all’auto.
- Ci hai preso.- commentò T-bo, aprendo la portiera del lato guidatore. – Ha fatto solo un migliaio di chilometri, la batteria è nuova, le gomme sono state cambiate di recente. A te spetta la revisione e l’assicurazione.- spiegò.
Freddie si accomodò al voltante, distese i piedi, afferrò lo sterzo, sistemò lo specchietto retrovisore; gli piaceva quella macchina, ma doveva assicurarsi di poterla mantenere.
- Quanto?-
- Seimila.-
- Cosa?!- commentò Carly, allibita. – E’ troppo!- esclamò.
T-bo alzò le spalle. – Non è mia, io sono il mediatore. L’auto è in ottime condizioni.-
- Ma è vecchia, ha più di un decennio.- intervenne Freddie, uscito dall’abitacolo.
- Da un rivenditore la pagheresti il doppio.-
- Ma la revisione sarebbe inclusa e anche un anno di garanzia, che qui non ho.-
I due si soppesarono con lo sguardo per un momento, Carly, intanto, li osservava, tesa.
- Cinquemila.-
- Tremila.-
- Sei impazzito? Non meno di quattro e cinquecento.- scosse il capo l’uomo.
Freddie lo imitò. – Non più di tre e cinquecento, ultima offerta.- disse.
T-bo lanciò un’occhiata all’auto e poi una al ragazzo. – Oh, d’accordo! Ma ho il diritto di chiederti un passaggio ogni volta che ne ho voglia!- affermò, tendendogli la mano.
Freddie la strinse e Carly, esultante, batté un cinque con l’amico.
- Certo, certo.- rispose Freddie, ridendo.
- Ci vediamo domattina per i documenti.- lo salutò T-bo. – Ragazzini… - e se ne andò scuotendo la testa.
- Congratulazioni, Freddie!- la voce di Carly rimbombò lungo le scale di ferro. – Toglimi una curiosità, come diamine farai a pagarla?- gli chiese.
Lui alzò le spalle. – La borsa di studio dell’Università è comprensiva di alloggio ma, dato che non ne usufruisco perché vivo poco distante da casa, mi rimborsano la differenza con un assegno mensile. Ho risparmiato e comprerò l’auto con quei soldi.- le spiegò.
- L’assicurazione?-
- Se farò attenzione, riuscirò a far rientrare la spesa nello stipendio.-
Carly annuì mentre si incamminavano lungo la strada; attorno a loro, le persone camminavano spedite, distratte, di fretta.
- Non posso crederci.- commentò, d’improvviso, il ragazzo. – Ho un’auto! Incredibile, io ho un’auto!- ripeté, alzando i pugni vittoriosi al cielo.
Lei rise. – Eh bravo Freddie. Così potrai accompagnarmi al Centro Commerciale… -
- Ferma là! Non ci pensare nemmeno!- dichiarò l’altro, aggrottando la fronte. – Non diventerò un taxi, sia ben chiaro!-
- … e al Corso, poi potremmo passare a prendere Gibby e… -
- Come non detto.-
 
 
Ottobre.
 
 
- Dannazione, lo detesto!-
La borsa fu lanciata oltre la sedia, le scarpe scalciate bruscamente e Sam si lasciò cadere, pesantemente, sul divano.
Cat, dietro il bancone della cucina, intenta a spalmare una crema dal colore improponibile su dei muffin dall’aria floscia, sorrise. – Ciao, Sam. – la salutò, sistemando due dolcetti sul vassoio poggiato poco distante e raggiungendola.
Sam osservò, rassegnata, la mise della coinquilina, abituata a quell’accozzaglia di tinte pastello e gonne vintage, stile casa delle bambole. Quel giorno in particolare, Cat aveva scelto una gonna a ruota larga, color zucchero a velo, una camicetta bianca e, come se non bastasse, un cardigan rosa chiaro tutto pizzi e merletti.
- Ciao, signora delle caramelle.-
- Oh, che sciocchina! Sono muffin, non caramelle!- squittì l’altra, ficcandole il vassoio proprio sotto il naso.
Sam, nonostante l’aspetto orribile, ne afferrò uno: il giorno in cui Samantha Puckett avrebbe rinunciato a del cibo gratis, sarebbe stato un giorno nefasto per l’umanità.
- Ti piace?- domandò, speranzosa, la ragazza dai capelli rosso fuoco.
- E’ disfugstofo.- rispose l’altra, a bocca piena.
- D’accordo, farò un nuovo impasto, allora.-
Mentre Cat si allontanava verso la cucina, Sam si alzò, spolverò la maglietta dalle briciole e la raggiunse, sedendo su uno degli sgabelli rotondi.
- Ho detto: lo detesto.- ripeté.
- Ti ho sentita.-
- Allora dovresti chiedermi: “chi detesti, Sam?”.-
Cat rise. – So già di chi parli, perché dovrei chiederlo?-
Sam alzò un sopracciglio. – No che non lo sai.- affermò.
- Parli di Dylan, quel ragazzo carinissimo che è stato qui almeno dieci volte nelle ultime due settimane.- fece Cat, con l’aria di chi la sa lunga.
Che fosse lei, quella perspicace, aveva dell’incredibile e il fatto di essere un libro aperto, per una ragazza svampita e perennemente tra le nuvole come Cat, gettava Sam in uno stato di profonda frustrazione. Frustrazione causata dal suo recentissimo motivo di malumore, alias il bel tipo che, dal giorno in cui, nel cortile, vi aveva scambiato due parole, non faceva altro che tampinarla.
A lezione si sedeva accanto a lei, nonostante Sam lo ignorasse, fatta eccezione per i momenti in cui lo mandava al diavolo e, puntualmente, entrambi venivano gentilmente buttati fuori.
A Dylan non sembrava dispiacere la cosa, dato che approfittava di quell’ora rubata allo studio per tempestarla di domande, obbligarla a farsi accompagnare dovunque dovesse andare e tormentarla con quelle sue frasi ambigue e buttate lì senza un motivo preciso.
“ E così vivevi a Seattle? Non credi che a Los Angeles si stia meglio?”
“ Sei un tipo atletico, di un po’, non è che devi difenderti da un fidanzato geloso?”
“ Hai davvero diciannove anni? Sembri una sedicenne…”
Cominciava seriamente a farla impazzire.
Peggio, però, erano i giorni in cui Dylan non arrivava a lezione e lei se ne stava tesa e agitata, a lanciare occhiate alla porta che, ovviamente, rimaneva chiusa. Oppure, i momenti in cui lui la ignorava, semplicemente, limitandosi a salutarla con un vago e secco cenno del capo e se ne restava assorto nei suoi pensieri per tutto il tempo, per poi sparire subito dopo la fine delle lezioni.
Detestava ammetterlo, ma per Sam, quelle ore in sua compagnia, erano divenute un piacevole diversivo alla routine di ogni giorno e aspettava i giorni di lezione con l’ansia di un primo appuntamento.
Dylan aveva un carattere sarcastico, brillante, deciso e, soprattutto, aveva sempre una risposta pronta, riusciva a tenerle testa e la cosa la irritava e divertiva al contempo.
Quel sorriso, enigmatico e insolente, la tormentava, così come le dita che la sfioravano, sempre casualmente, proprio attorno al polso o lungo la schiena.
Spesso, il suo respiro le accarezzava la guancia, mentre lui si sporgeva a sussurrarle qualcosa all’orecchio durante le lezioni, così che Sam scoppiasse a ridere, mentre, internamente, tremava.
Rendersi conto di essere attratta da quel ragazzo, bello eppure tanto misterioso, era stato un duro colpo; il ricordo di Freddie era ancora vivo e bruciante, dentro di lei e un dolore lancinante, misto a un senso di perdita, si faceva sentire violentemente ogni qual volta si ritrovava a fantasticare, poco dignitosamente, su come sarebbe stato baciare Dylan.
E poi lui faceva qualcosa di irritante e finivano per litigare violentemente e non rivolgersi la parola per giorni, perché entrambi erano troppo orgogliosi e testardi.
- Ho indovinato?- chiese Cat.
- Hm.-
La ragazza applaudì, come se avesse appena vinto un premio. – Oh, Sam, è così carino! Siete così dolci, assieme… - disse, sognante.
- No, no, frena, fata turchina! Io e quello non siamo “voi”. Anzi, farà meglio a non ricapitarmi a tiro, oggi, o lui diventerà lei.- esclamò Sam, mangiando anche l’altro muffin.
Cat scosse la testa. – Cos’ha fatto, stavolta?- le domandò.
- Mi ha battuta a braccio di ferro!- rispose l’altra, allibita e sconvolta, come se avesse subito chissà quale affronto.
- Oh! Dev’essere molto forte, allora! Non è un sogno? –
- Un incubo!-
- Ah, Sam! – la ragazza la raggiunse, avvolgendole le spalle con un braccio, consolatoria.
- Dì la verità: non è che pensi ancora a Freddie?- le domandò, con tutta l’innocenza e del tutto priva di tatto, come sempre.
Lei scivolò via dall’abbraccio e finse di tastarle la fronte. – Hai la febbre? Stai delirando.-
- Come vuoi.- fece Cat, alzando le spalle sottili. – Sai, sembravi così felice, quel giorno in ospedale… - mormorò, tra sé.
- Vedere Benson dolorante è sempre fonte di gioia per me.-
- Sarà. Adesso devo andare, non dimenticare di spegnere il forno, va bene?- dichiarò Cat, Sam fece roteare lo sgabello.
– Dove vai?- chiese.
- A trovare nonna, e porto con me i bambini a cui devo badare oggi.-
Sam scrutò l’amica, cercando di capire se fosse ancora triste o arrabbiata a proposito della sua decisione di uscire dalla società, ma Car sembrava tranquilla e svampita come al solito.
- Se hai bisogno di aiuto… -
- Oh, non preoccuparti, gli anziani adorano i bambini!- squittì, salutandola con la mano, prima di richiudersi la porta alle spalle. – A stasera!- gridò.
Sam si guardò attorno, annoiata, afferrò un pacco di gelatine e tornò al suo posto sul divano, afferrando il telecomando.
Aveva da studiare, certo, ma mancavano ancora due giorni alla lezione successiva e lei non era il tipo che si anticipa i compiti, come quell’idiota di Freddie.
Eccola, la stilettata, proprio al centro del petto.
“Pensa ad altro, Sam…”
Fece vagare i pensieri, finendo, ovviamente, di nuovo su di lui e su Carly: cosa stavano facendo? Erano tornati insieme? Si chiedevano mai lei come stesse?
Scosse la testa, afferrò le forcine che le avevano legato alcune ciocche di capelli dietro la nuca e li sciolse, affondando nel cuscino.
Se smettere di pensare non era possibile, avrebbe dormito, così che l’incoscienza la trascinasse via dai ricordi.
Fu un battere incessante alla porta, misto ad uno strano e pungente odore che le penetrava le narici, a ridestarla, più di due ore dopo.
Quando aprì gli occhi chiari, Sam notò una strana nebbia nell’aria e si domandò se fosse ancora addormentata, prima di rendersi conto che l’allarme antincendio stava suonando fastidiosamente.
Balzò in piedi e, giunta al forno, afferrò la presina e spalancò lo sportello, finendo investita da una nube di fumo nerastro.
Spense il forno e, tossicchiando, corse ad aprire la finestra, prendendo aria a pieni polmoni.
Il battere sulla porta continuava, incessante e violento.
- E che cavolo, arrivo!- gridò, gettando sul bancone le presine.
Quando aprì la porta, Sam alzò un sopracciglio, sarcastica. – Tu non abiti qui.- disse, pronta a sbattere la porta in faccia al ragazzo.
Dylan sorrise, con quel sorriso insolente che le faceva tremare le gambe. – Se non chiami i pompieri, qui non ci abiterà più nessuno.- commentò, indicando il fumo, con un cenno del capo.
- E’ tutto sotto controllo.- rispose Sam, dandogli le spalle e tornando verso la cucina.
Lui, ovviamente, entrò e richiuse la porta, seguendola.
- Non ti ho invitato ad entrare.-
- Non sono un vampiro.-
- Questa era pessima.-
Dylan rise. – Te lo concedo.- disse, girando attorno al bancone per guardare nel forno. – Cosa dovrebbero essere? Dischi da hockey? – fece, ironico.
- Esatto! Ti va di provare? Tu fai la porta.-
- Oh, violenta, mi piace!-
Le afferrò i polsi, obbligandoli dietro la schiena e, tenendola con una mano, le scostò i capelli dal viso con l’altra, avvicinando le labbra alla sua mascella.
- Hm. Gelatine, non male.- commentò, masticando un pezzo di caramella che le era rimasto incollato al viso.
La liberò, parando, automaticamente, il pugno volante che lei aveva tirato.
- Fai la brava ragazza.-
Sam, con le gote in fiamme sorrise, angelica, e finse di chinarsi per tirar fuori dal forno il vassoio ormai inutilizzabile.
Approfittando del fatto che Dylan le stava tenendo aperta la pattumiera – non ebbe il tempo di scandalizzarsi perché lui conosceva già abbastanza casa sua da sapere dove fosse – svuotò il vassoio e, subito dopo, lo colpì allo stomaco con una gomitata.
- Oh!- fece lui, massaggiandosi lo sterno. – Sei tosta, ragazzina.- commentò.
Anche lui lo era, Sam lo sapeva bene; era l’unico ragazzo che le avesse mai tenuto testa, fisicamente e lei davvero non riusciva a capacitarsi del perché non stramazzasse al suolo, quando lo colpiva.
- Che ci fai qui, Dylan?- gli chiese, annoiata, tornando al divano e salendovi in piedi per spegnere l’allarme. Non riuscì ad arrivarvi e Dylan la imitò, spegnendolo al suo posto.
Si sedettero entrambi il ragazzo allungò le braccia sullo schienale.
- Volevo vederti, mi sembra scontato.-
Parlava con una sicurezza davvero fastidiosa, guardandola dritto negli occhi, come se non provasse alcuna vergogna a starsene lì, a confessare quel desiderio che era anche di Sam, ma che, al contrario di lui, la ragazza non avrebbe espresso nemmeno sotto tortura.
- Mi avresti vista Giovedì.-
- Non volevo aspettare.-
- Cosa ti fa credere di poterti presentare a casa mia quando ti pare?-
Dylan alzò le spalle e assunse un’espressione divertita. – Cat. Questa è anche casa sua, no?-
- E che c’entra, Cat?-
- Beh, - fece lui, accostandosi al suo orecchio, come se stesse per confessarle un segreto. – lei mi ha detto, testuali parole: “fa’ come se fossi a casa tua”. E, devo dirtelo, a casa mia ci vado spesso.- le strizzò un occhio, tornando dritto.
- Beh, - Sam imitò il suo tono saccente. – allora puoi aspettare Cat, io non ho intenzione di farti da balia.- e fece per alzarsi, cosa che, ovviamente, lui le impedì, afferrandole un braccio e tirandola giù.
- Non farti sempre inseguire, Puckett!- borbottò, imbronciato.
In alcuni momenti, Dylan diveniva addirittura tenero, con le labbra contratte e gli zigomi gonfi, proprio come i bambini irritati.
- Non voglio essere inseguita!-
- Meglio, non sono un gran corridore!- rise.
- Ah, no?-
Lui scosse la testa, sorridendole, con gli occhi furbi.
- E in cosa sei bravo?-
Quello era un gioco che anche lei poteva giocare, così affilò lo sguardo e contrasse le labbra, divertita; a Seattle, non avrebbe mai osato scherzare a quel modo con un ragazzo, poiché, per tutti, lei era Sam “il maschiaccio” e avrebbe avuto paura di risultare ridicola.
A Los Angeles, poche persone la conoscevano e poteva essere chiunque desiderasse.
Anche Sam, la ragazza carina e un po’ violenta.
Un po’ tanto.
Troppo.
- Ero bravo nei combattimenti.- rispose lui, guardando altrove, come gli fosse sfuggito di bocca.
L’attenzione di Sam fu calamitata immediatamente da quell’affermazione. – Aspetta, cosa? Tu eri un lottatore?- gli chiese, poggiando un gomito sullo schienale, attenta.
Dylan annuì, vago. – Un po’ di tempo fa.- rispose.
- Quanto?-
Lui fece roteare gli occhi cielo. – Due anni.- disse.
- Quanti anni hai?-
- Che cavolo! Davvero non lo sai?! Mi conosci da più di un mese!- esclamò, allibito e offeso.
- Sei isterico.-
- Sono pragmatico! Fai entrare chiunque, di sera, in casa tua, mentre sei sola?- le domandò, affilando lo sguardo.
Sam lo fissò assottigliando gli occhi chiari. – No, solo gli idioti.- rispose.
- E’ la seconda volta che mi dai apertamente dell’idiota.- costatò lui.
- La terza volta vincerai un premio.-
- Posso sceglierlo io?- chiese, guardandola insolente, con un sorrisetto intrigante in viso.
Rieccolo, con quelle frasi strane, quel modo di guardarla… maledizione.
- Sicuro! Puoi scegliere tra un calcio nel sedere e uno sui denti!-
Dylan finse di pensarci. – Posso rispondere più avanti?- domandò.
- Ovviamente.-
Tacquero per un momento, poi lui parlò senza guardarla. – Ho venticinque anni, tanto per informarti. Ero un lottatore professionista, fino a tre anni fa. Mi sono rotto un braccio durante un incontro e i tendini di sono lacerati. Dopo un anno di riabilitazione, l’ortopedico ha decretato che non avrei più potuto combattere, non a quei livelli, comunque.- le raccontò.
Era la prima volta che Sam lo udiva parlare seriamente, senza quel velo di sarcasmo che sempre accompagnava le sue parole.
Aveva in volto un’espressione concentrata, come se faticasse a tenere a freno la forte rabbia che l’aver dovuto rinunciare alla sua passione gli provocava.
Adesso, la ragazza riusciva a spiegarsi perché lui fosse tanto forte e come riuscisse, ogni volta, a parare i suoi colpi e non accusarli troppo duramente.
Certo, aveva steso lottatori di stazza e mole di gran lunga superiori a quelle di Dylan, ma lui aveva un che di istintivo che lo avvantaggiava.
- E così ti sei buttato nel manageriale.-
Lui si volse a guardarla, sorridendo. – Diciamo che non sarei riuscito a stare lontano da questo mondo e che questo era l’unico modo per continuare a farne parte.- spiegò.
Sam si sistemò contro il bracciolo del divano. – E non ti manda fuori di testa essere presente agli incontri e non potervi partecipare?- chiese.
- Sì e no.-
- E… -
- “E” nulla. Per stasera ti ho già raccontato abbastanza della mia vita.-
- Capirai che onore.-
- Sei sempre così acida?- le domandò.
Lei finse di sorridere. – Solo con… -
- Gli idioti, lo so.-
Sam sollevò un pollice e lui lo afferrò. – Sono al terzo “idiota”, ma ti avviso che non ho intenzione di ritirare il mio premio stasera.- le disse.
- Sempre disponibile.-
Dylan rise. – Lo terrò a mente, andiamo.- le afferrò un braccio, obbligandola ad alzarsi.
- Dove? – chiese lei, irritata, infilando gli stivali neri, inciampando.
Lui le porse la giacca di pelle, presa dall’appendiabiti e le passò una mano tra i capelli ricci e biondi, ravvivandoli.
.
- A mangiare. Da quello che ho visto, sei una pessima cuoca e non ci tengo a morire di fame.-
Sam se lo scrollò di dosso, cercando le chiavi. – Deficiente.- commentò.
- Sento il tuo stomaco fin da qui.-
 - Dylan, io ti… -
- Detesto, lo so.- La sua risata si perse nella serata gelida.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Fight - part 1 ***


Ringrazio la mia straordinaria Beta, Aduial.
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite e chi ha speso del tempo per lasciare una recensoine al precedente capitolo: risponderò in privato.
Buona Lettura.




Gibby infilò la maglietta rossa della divisa e si sorprese a constatare che, nel giro di quell’ultimo mese, doveva aver perso almeno una manciata di chili.
Probabilmente, la crescita improvvisa e sproporzionata in altezza aveva giovato alla sua forma fisica e, complice anche il sottile filo di barbetta chiara che cominciava a pizzicargli le guance, il giovane fu piacevolmente colpito dal proprio riflesso nello specchio.
Chiuse l’anta dell’armadietto con una spinta e, mentre si accingeva alla porta, Scott fece il suo ingresso, con una sacca in spalla e l’aria trasandata.
- Ciao.- salutò, sedendosi sulla panca di legno e slacciando le scarpe da corsa.
- Ciao, Scott. Sei andato a correre?- gli domandò Gibby.
L’altro annuì, sfilando la maglietta sudata e avviandosi al lavandino più vicino; si rinfrescò e, asciugatosi alla meglio, infilò la divisa del Pear Store.
Gibby, osservandolo, si ritrovò a pensare che Scott, in effetti, avesse un fisico decisamente atletico, al contrario di lui, che, sebbene dimagrito, rimaneva fin troppo morbido.
- Dovresti venire con me, qualche giorno.- disse Scott, intento a sistemare il cartellino con nome e foto sul petto. – Aiuta a scaricare la tensione.- aggiunse, lanciandogli uno sguardo vivace.
- Sì, penso che seguirò il tuo consiglio.-
Scott chiuse l’armadietto, raggiugendo Gibby alla porta degli spogliatoi. – Io corro tre volte a settimana, prima del turno. Fammi uno squillo e ci accordiamo.- sorrise, precedendolo fuori.
Gibby rimase a osservarlo qualche istante, prima di seguirlo con un sospiro.
 
 
 
- Non ci sono tavoli disponibili.- mormorò, avvilita, Cat, mettendosi in coda.
Il Bots, assurdo ristorante gestito completamente da robot, era sempre pieno di gente e, in quella gelida giornata d’inizio Dicembre, in particolare, sembrava quasi che tutti gli abitanti di Los Angeles vi si fossero rintanati in cerca di un briciolo di calore.
Sam, avvolta in un giubbotto di pelle pesante, allentò la sciarpa azzurra che teneva al collo e, superata l’amica, si fece avanti a spintoni. – Mama non aspetta mai.- disse, raggiungendo il tavolo sulla sinistra che occupavano di solito. Vi sedevano quattro ragazzine, liceali avrebbe detto Sam dal modo in cui erano vestite, intente a starnazzare tra loro.
- Ehi, mocciose, filate.- ordinò, secca, alzando il mento in un cenno irritato.
- Non abbiamo ancora finito.- rispose una biondina dall’aria altezzosa.
Sam la squadrò: aveva i capelli lunghi e lisci, coperti da un basco marrone ed era vestita di una gonna scozzese e calze pesanti chiare.
Senza smettere di fissarla, Sam posò le mani sul tavolo, chinandosi per arrivare alla sua altezza. – Vuoi fare a botte, principessa?- chiese, facendo tamburellare le dita.
La ragazza avvampò e, nel giro di qualche istante, tutte e quattro erano sparite oltre la porta.
Sam si accomodò, facendo cenno a Cat di avvicinarsi.
 - Sono state davvero gentili a cederci il loro tavolo.- sorrise, gaia, Cat, togliendo il copriorecchie di peluche rosa e sfilando il cappotto chiaro che indossava.
Sam alzò un sopracciglio. – Certo, basta saper chiedere le cose in modo gentile.- ridacchiò.
Un robot giunse proprio mentre Cat litigava con il guanto della mano sinistra e Sam, scuotendo la testa, ordinò due cioccolate calde e una torta di mele.
- Sam! Una torta intera?!- esclamò, allibita, la ragazza dai capelli rossi.
- Ho molta fame.-
- Di un po’, sei nervosa?- le chiese l’altra, sporgendosi sul tavolo e posando il mento sulle mani intrecciate.
Sam aggrottò la fronte. – Prego?- fece.
- Sai, ho notato che tendi a mangiare più del solito, quando sei nervosa.- le spiegò Cat, facendo vagare lo sguardo con nonchalance. – C’entra per caso Dylan?- domandò.
- Di’ un po’: cos’è quest’ossessione malsana che hai per quel tipo?-
- Quale tipo?-
Sam sbuffò. – Dylan.- ripeté.
- Oh, certo, il ragazzo che ti rende nervosa.-
- Non sono nervosa!- sbottò la bionda, battendo le mani sul tavolo.
Cat alzò un sopracciglio. – Ti ho sentita parlare al telefono, prima.- mormorò.
- Hai origliato la mia telefonata?!-
- Passavo casualmente di lì.- precisò l’altra, indignata.
- Certo, passavi casualmente per il bagno, mentre c’ero io.- fece, sarcastica, Sam.
- Comunque sia,- Cat liquidò la cosa con un gesto delle piccole mani. – ho capito che verrà a casa nostra stasera.- squittì, euforica.
- Così pare.-
- Sam, è grandioso!-
La ragazza bionda fece roteare gli occhi al soffitto. – Dacci un taglio, Cat, guarderemo un film perché fa troppo freddo per allenarsi allo stadio. – disse, voltandosi poi indietro sulla panca.
- Questa torta arriva o no?!- esclamò, irritata.
- Non approvo questa vostra passione per uno sport tanto violento.- commentò Cat, scuotendo la testa di capelli rossicci.
Sam sbuffò. – Non sei mia madre.- rispose.
- Mi preoccupo per te.-
- Non farlo.-
- Come faccio a non farlo?-
- Non credo sia una domanda sensata.-
- Mi stai prendendo in giro!-
Sam rise e scosse il capo: Cat era così diversa da lei! La ragazza bionda la trovava insopportabile per metà del tempo, con quell’aria da principessa delle fiabe, sempre fiduciosa e innocente e ingenua, a volte le faceva molta rabbia, soprattutto quando non si rendeva conto che le persone tendevano ad approfittarsi della sua bontà.
Eppure, Sam le voleva davvero bene e non riusciva ad arrabbiarsi con lei seriamente, fatte rare eccezioni; Cat era stata la persona che l’aveva aiutata a rimettersi in piedi e a capire che la sua vita non sarebbe finita con ICarly.
Sorprendentemente, dopo quella prima notte in cui le aveva domandato perché avesse lasciato Seattle, Cat non le aveva mai posto altre domande riguardo Carly e la loro amicizia, come se percepisse che quello era un argomento troppo difficile da affrontare per Sam.
Le cioccolate e la torta furono servite e Sam, effettivamente nervosa, divorò una porzione spropositata.
Per quanto svampita, Cat ci aveva preso: l’idea di passare la serata con Dylan, a casa, sul divano, da soli, la mandava in paranoia. E Sam Puckett detestava sentirsi nervosa.
Il problema era che, stando soli, quella tensione-attrazione tra loro diveniva quasi palpabile, tanto che era come sfidarsi a chi avrebbe ceduto prima, avvicinandosi all’altro.
Sam non aveva intenzione di perdere, ma non era certa di poter vincere.
Da quando Dylan le aveva raccontato della sua famiglia e del suo passato, Sam si sentiva così vicina a lui, così legata a quel misterioso ragazzo dall’aria perennemente insolente, da stentare a credere di conoscerlo da soli tre mesi.
Paradossalmente, senza che avessero condiviso chissà quali esperienze, la bionda ragazza sentiva di potersi fidare di lui, sapeva di poter contare su di lui, era certa che non l’avrebbe mai tradita o delusa.
Dylan era una testa calda, perennemente in cerca di guai, strafottente e irritante, ma, mai una volta, aveva infranto una promessa fattale, mai una volta le aveva mentito, mai una volta l’aveva ingannata.
Il confronto con ciò che Freddie le aveva fatto era evidente e Dylan aveva vinto su tutti i fronti.
Nonostante tutto, però, Sam non era riuscita ad aprirsi totalmente con lui e a raccontargli di Carly e Freddie.
Certo, avevano parlato a lungo di sua madre, di Melanie, della sua vecchia vita a Seattle fatta di riformatorio e sospensioni a scuola, ma lui non le aveva mai chiesto di ICarly – Sam nemmeno sapeva se l’avesse mai guardato – o le aveva mai domandato, seriamente, se avesse avuto un ragazzo, prima di arrivare a Los Angeles.
Sam temeva che lui le avesse letto dentro e avesse visto il suo cuore spezzato, ferito, e non si sentisse in grado di rimetterlo insieme.
- Sam?-
- Hm?-
- Hai smesso di mangiare.-
 
 
 
 
 
 
- Sì, le vacanze cominciano il venti e dobbiamo portare la relazione del libro prima della fine delle lezioni.- stava dicendo Carly a Freddie, mentre apriva la porta del suo appartamento.
Non appena ebbero varcato la soglia, un tornado in frak lanciò un grido, afferrandola per le spalle e scuotendola come se non ci fosse un domani.
- Sp-p-e-ncer!- balbettò la ragazza, frastornata.
- E’ arrivata, ho vinto, ho vinto, ho vinto! E’ grandioso!- gridò Spencer, lasciando Carly, che finì seduta sul divano e agguantando Freddie per stritolarlo in un abbraccio entusiasta.
- Si può sapere di che parli?- domandò la sorellina, acconciandosi i capelli.
Freddie, scollandosi di dosso a fatica uno Spencer in lacrime, che sventolava un foglio di carta come fosse la fiacca olimpica, rise. – Credo si riferisca a quel concorso che metteva in palio una mostra.- rispose, andando verso il frigo.
- Il concorso, la mostra!- intervenne l’artista, ficcando il foglio proprio sotto il naso della sorella.
Carly glielo strappò di mano. – Calmati.- disse, cominciando a leggere ad alta voce.
Spencer si sedette accanto a lei, accavallò le gambe e prese a mordicchiarsi le unghia, nervoso.
- Gentile Signor Shay, il Comitato Artistico di Seattle, con la gentile collaborazione di illustri esperti internazionali, ha selezionato la Sua scultura d’arte contemporanea come una delle tre vincitrici del concorso per artisti esordienti.
Se deciderà di accettare il premio, sarà Sua premura inviare una e-mail all’ufficio stampa del Museo di Seattle, per confermare la data dell’evento in Suo onore.
La mostra, su invito, a Lei dedicata, si terrà la sera del ventidue Dicembre, alle ore 21,00.
Il Comitato provvederà a farLe recapitare, presso il Suo domicilio, un numero pari a 10 (dieci) inviti, che potrà distribuire a familiari e ad amici a Sua discrezione.
Ci congratuliamo con Lei e Le porgiamo distinti saluti.
Il Comitato Artistico.-
- Spencer, è fantastico!- commentò Freddie, avvicinandosi al divano e battendogli una pacca sulle spalle.
- Sono davvero fiera di te!- si accorò Carly, sorridendo. – Finalmente dimostrerai a tutti quanto sei bravo come artista!- aggiunse.
Spencer, tuttavia, sembrava paralizzato.
- Credo sia sotto shock.- mormorò Freddie, schioccandogli le dita di fronte al viso.
- Spencer?-
Carly lo schiaffeggiò piano, aggrottando la fronte. – Terra chiama Spencer!-
Scuotendo la testa, Freddie si avviò in cucina e ne tornò con un bicchiere d’acqua gelida che, dopo una scrollata di spalle, rovesciò in testa a Spencer.
Questi balzò in piedi, grondando acqua dai capelli troppo lunghi e, scuotendo la testa come un cane, fissò il ragazzo malissimo. – Mi hai bagnato lo smoking!- gridò, isterico.
- E’ solo acqua.- intervenne Carly. – Si asciugherà.-
- Ma io devo indossarlo alla mostra!-
- Spencer, la mostra è tra due settimane.-
Spencer si lasciò cadere sul divano, rannicchiando le ginocchia al petto. – Io non vengo.-
Carly e Freddie si scambiarono uno sguardo, rassegnati.
- Spencer, se non ci vieni, non ci sarà nessuna mostra.- fece notare il ragazzo.
- Il mio smoking è bagnato.-
- Lo porteremo in lavanderia e sarà pronto già domani sera.- lo rassicurò Carly, divertita.
- E se le mie sculture non dovessero piacere? Se andasse a finire come con Harry Joyner?- domandò, stringendosi al petto uno dei cuscini del divano.
- Sbaglio o, alla fine, tu e quel tipo avete fatto una scultura assieme?- chiese Freddie.
- Spencer.- mormorò Carly, dolcemente. – E’ normale essere nervosi, ma questa è la tua grande occasione! Hai talento ed è il momento che tutti se ne rendano conto.- lo incoraggiò.
Il fratello sorrise, balzando in piedi. – Sì! E diventerò così ricco da poter comprare un’intera piscina da riempire di bacon canadese!- esclamò.
Carly e Freddie risero. – Io comincerei con lo spedire quella e-mail.- suggerì la ragazza.
- Freddie?-
- Certo, ci penso io.- rispose il ragazzo, avviandosi al computer.
- Devi anche decidere a chi dare gli inviti omaggio.- disse, pensosa, Carly.
Spencer annuì. – Hm, fammi riflettere. Tu, Freddie e Gibby,  Socko e papà, ovviamente. – contò sulle dita, sbagliando e Carly gli abbassò il pollice, ridendo.
- Dillo anche alla brunetta del Pear Store!- propose Freddie, che aveva fatto girare lo sgabello per guardarli.
- Quale brunetta?- domandò Carly, curiosa, guardando prima l’uno poi l’altro.
- Si chiama Alison, è una sceneggiatrice e ci siamo visti solo tre volte, grazie Freddie!- borbottò Spencer, fulminando il ragazzo.
- Ehi, un momento! Perché non mi hai detto niente?- lo interrogò, offesa, la sorella.
- Perché non è importante… sì, insomma, ci frequentiamo solo da un paio di settimane… -
- Ti piace molto, vero?- fece, maliziosa, Carly.
Spencer guardò la sorella con un mezzo sorriso a disegnargli le labbra. – Cosa te lo fa pensare?- le domandò.
- Il fatto che non mi presenti le ragazze che ti piacciono davvero.- rispose lei.
- Non è vero, ad esempio ti ho presentato… - Spencer s’interruppe, fissando il vuoto a bocca aperta, poi la richiuse. – D’accordo, è vero.- ammise.
- Perché?- chiese Freddie.
Carly alzò le spalle con fare saggio. – Perché ha paura che mi affezioni a loro.- decretò.
- Possiamo tornare alla lista, per favore, e lasciar perdere le mie ex?- s’intromise il diretto interessato.
- Va bene, rilassati.- ridacchiò Carly. – Con questa misteriosa Alison, siamo a sei.- riepilogò.
- Potresti invitare i nonni.- propose, poi.
Spencer annuì. – Domani telefono.- disse.
- Mancano due persone.- notò Carly.
- No.- la corresse Spencer. – So già a chi spedire gli ultimi due inviti.- decretò, fissando sia Carly che Freddie in modo decisamente troppo serio per un tipo come lui.
Carly ci arrivò prima dell’amico e, immediatamente, il suo cuore accelerò.
- Spencer… -
- Carly. Sarebbe come non invitare papà.- dichiarò il fratello, posando una mano sulle sue.
- Di chi parlate?- s’intromise Freddie, agitato: l’espressione comparsa sul viso della bruna non presagiva nulla di positivo.
- Papà non verrà, lo sai già.- mormorò, timida, Carly, fissando Spencer con i grandi occhi scuri lucidi di lacrime.
- Ciò non toglie che lo vorrei qui e che un invito sia suo comunque.-
Carly sospirò, chinando il capo, sommersa da un misto di ansia, paura, nostalgia ed eccitazione.
Non riusciva a capire se, in fondo, desiderasse che lei accettasse o meno quell’invito, se volesse o meno rivederla, riabbracciarla, sentirla ridere e scuotere il capo di fronte a quel suo atteggiamento divertente e irritante.
Come avrebbe fatto, a guardarla negli occhi e leggerle il dolore del tradimento subito o, peggio, l’indifferenza più totale?
Era disposta a rischiare?
- E’ la tua migliore amica.- sussurrò Spencer.
Sì, sono disposta a rischiare: mi manca troppo.
- Spencer… - la voce di Freddie era lapidaria.
Carly sollevò lo sguardo deciso nel suo. – L’altro biglietto è per Sam.- dichiarò in un tono che non ammetteva obiezioni.
 
Freddie non era felice all’idea che Spencer volesse invitare Sam alla Mostra.
Aveva sinceramente timore che lei potesse accettare e il solo pensiero di rivederla lo gettava nel panico.
Dopo il modo in cui si erano “salutati”, quel giorno, a Los Angeles, il ragazzo non riusciva a sopportare nemmeno il ricordo di lei, figurarsi ritrovarsela in carne e ossa davanti agli occhi.
Frustrato, si rigirò nel letto per l’ennesima volta, osservando la sveglia digitale che segnava le due; andare a lezione e poi a lavoro, l’indomani, sarebbe stata dura.
Tornò supino, sospirando con gli occhi rivolti al soffitto.
Dannato demonietto biondo, sempre e solo colpa sua.
Perché si era comportata a quel modo, rifiutandosi di accompagnarlo a Seattle per far visita a Carly?
Era la sua dannatissima migliore amica, no? Erano come sorelle, maledizione!
Rammentava ancora benissimo gli occhi rossi di entrambe, mentre il montacarichi si chiudeva un’ultima volta su di loro, nascondendo le loro lacrime alla vista di altri.
Nessuna delle due era più stata la stessa senza l’altra, eppure, nessuna delle due aveva mosso un passo per sistemare le cose.
Perché?
Cosa poteva essere in grado di dividere due amiche come loro, che avevano condiviso ogni sfumatura delle rispettive vite per più di nove anni?
Il senso di colpa si fece sentire, pesante e prepotente, costringendolo a chiudere gli occhi e portarsi un pugno alla fronte.
L’amore.
Era stato doppiamente sciocco, andando prima a Los Angeles da Sam e poi seguendo Carly in Italia.
A quel modo, le aveva messe entrambe di fronte all’evidenza del fatto che le rispettive vite erano ormai separate, lontane anni luce, troppo distanti per potersi incrociare ancora.
E, scegliendo di seguire Carly, era stato come immettersi sulla strada della bruna, spezzando ogni contatto con l’altra.
Come poteva, allora, essere ancora furioso con lei, pur consapevole di aver sbagliato in molte, troppe, cose con lei?
Perché lei se n’era andata, maledizione! Lo aveva abbandonato, subito dopo Carly, senza nemmeno avere il coraggio di dirglielo in faccia!
Come aveva pensato che lui avrebbe potuto perdonarle di essere sparita da un giorno all’altro?
Si era alzato, quella mattina di quasi due anni prima, era andato a scuola, pronto a dividere con lei il peso dell’assenza di Carly e non l’aveva trovata.
Aveva aspettato, certo che lei sarebbe arrivata, sperando che lei sarebbe arrivata.
Sam, invece, non era mai più tornata.
Perché, allora, l’aveva raggiunta a Los Angeles?
Sospirò: ovviamente, temeva fosse ferita e, al di là della rabbia e del desiderio di prenderla a schiaffi, non avrebbe mai potuto negare di tenere a lei.
Rivederla, poi, gli aveva annebbiato per un istante la mente, aiutandolo a scordarsi del motivo per cui ce l’avesse tanto con lei.
In definitiva, quindi, Freddie non era intenzionato a rivedere Sam, assolutamente.
A che scopo, poi? Per fingere che tutto fosse come un tempo o, magari, distribuire abbracci e sorrisi falsi, ripetendosi che avrebbero dovuto vedersi e sentirsi più spesso, finendo poi col non incontrarsi mai più?
No, Freddie non ci teneva a riavere Sam nella sua vita per qualche ora, per una sera.
Soprattutto, non ci teneva ad affrontare il suo sguardo, gelido e indifferente, come di certo sarebbe stato, solo per l’emozione che avrebbe comportato rivederla.
 
 
 
- Sam!- la voce allibita di Cat la fece sussultare.
- Ciao, non ti ho sentita rientrare.- le disse, spegnendo il televisore. – Che ora è?-
- L’una passata.-
- E dove sei stata?- chiese Sam, aggrottando la fronte.
- Mi sono trattenuta a casa di Dice, sai, volevo lasciare in pace te e Dylan.- sorrise, maliziosa, la ragazza dai capelli rossi. – Si può sapere cos’è successo al soggiorno?- domandò, poi, indicando lo sfacelo in cui versava la stanza.
Effettivamente, con  tutti i cuscini sul pavimento, le carte di merendine e altre schifezze sparse un po’ ovunque, il tavolino spinto contro una parete, sembrava essere esplosa una bomba.
- Rimetterò a posto domani.- decretò Sam, sbadigliando.
- Vuoi dirmi cosa avete combinato?-
- Abbiamo giocato a un videogioco fichissimo.- rispose, alzandosi e stiracchiandosi.
Cat sospirò, scuotendo la testa. – Non dovevate guardare un film?- chiese.
- Ci siamo annoiati dopo un quarto d’ora.-
- E così vi siete messi a giocare ai videogames.-
- Già.-
Cat ridacchiò. – Non vi capisco, ma mi piacete lo stesso.- disse.
Mentre Sam s’infilava a letto, l’altra le tirò un cuscino. – E di’ al tuo amico di aiutarti a rimettere a posto, prima di andare, la prossima volta!- ordinò, spegnendo la luce.
 
 
 
 
La prima settimana, successiva all’arrivo della lettera con la quale Spencer era stato decretato vincitore del concorso per giovani esordienti, trascorse rapida e caotica per tutti.
L’artista aveva da spedire gli inviti, scegliere le sculture da esibire, organizzare la serata assieme ai membri del Comitato e cercare di rimanere intero, dato il suo hobby di cimentarsi in imprese decisamente pericolose. Carly doveva consegnare una relazione entro la fine della settimana successiva, si tormentava all’idea di rivedere Sam, che, tuttavia, non aveva ancora risposto all’invito via e-mail spedito da Spencer, e, al contempo, doveva sopportare l’umore nero di Freddie. Quest’ultimo aveva fatto in modo di avere ogni istante della settimana impegnato, così da non trovarsi nei paraggi di casa Shay nel caso in cui giungesse la tanto attesa risposta della biondina e, al contempo, poco desideroso di incrociare Gibby, che aveva preso la notizia dell’invito a Sam con tanto entusiasmo da dargli sui nervi.
Fu così che, al Venerdì, stremati e bisognosi di riposo, tutti e quattro si ritrovarono sul divano, intenti a mangiare pizza e guardare uno stupido show alla televisione.
- Che hanno detto i tuoi nonni, Spencer?- domandò Gibby, sorseggiando la sua bibita.
- Ci saranno.- rispose. – Ho finalmente vinto, senza raggiri, la scommessa con mio nonno: ora non potrà più rinfacciarmi di aver lasciato la facoltà di Legge!- disse, alzando un pugno vittorioso al soffitto.
Carly ridacchiò.  – Alison ci sarà?- chiese, poi, con nonchalance.
- Sì, ragazzina pettegola, Alison ci sarà.- la prese in giro il fratello.
- Tuo padre che ha detto?- intervenne Freddie.
- Ha telefonato non appena ha ricevuto l’invito e ha passato un quarto d’ora a ripetere quanto fosse fiero di suo figlio “l’artista”.- rise Carly. – Credo che sarà molto generoso col prossimo assegno, vero?- sgomitò Spencer.
- Lo spero!- esclamò lui,  facendo tamburellare le dita tra loro, per poi alzarsi e avviarsi verso il frigo.
Il suo cellulare prese a squillare in quel momento e, sebbene fosse ancora all’altezza del bancone quando lesse il nome di chi stava chiamando, la sua espressione fu sufficiente a fare impallidire Carly.
 
 
La mail era stata scritta con un font assurdo e un colore improponibile, sebbene, trattandosi di Spencer, Sam non avrebbe potuto aspettarsi nulla di diverso.
Quando aveva letto il nome del ragazzo, inizialmente, il suo cuore aveva tamburellato nel petto con una violenza inaudita e aveva dovuto imporsi di stare tranquilla e respirare.
Quel semplice messaggio sul suo computer portatile significava una finestra su Seattle e questo la mandava in panico.
Sam aveva ricevuto la mail Mercoledì mattina, ma si era decisa a rispondere solo Venerdì.
La ragazza, di fatti, aveva ben chiaro in mente quale sarebbe stata la sua decisione in merito – un “no” secco e senza possibilità di revoca – tuttavia non aveva idea di come dirlo a Spencer senza smontare la sua euforia.
Rilesse ancora una volta le poche righe che lui doveva aver scritto di getto.
Ciao, Sam, come te la passi? Hai assaggiato qualche nuova diavoleria di recente? Dimmi che sei ancora fuori dalla prigione! Comunque, ti ho scritto per invitarti alla mia mostra! Sì, hai letto bene, io terrò una mostra tutta mia! Ho vinto un concorso per giovani esordienti e mandato il mio smoking in lavanderia. Ti allego la copia degli inviti, sono due, perché so che abiti con un’amica e ho pensato che avrebbe potuto accompagnarti. Per favore, vieni.
Spencer.

Ps.: Carly dice che i calzini luminosi sono fuori luogo, io dico che devo metterli assolutamente. Che ne pensi?”
Sam rise, cercando di mandar giù il nodo che sentiva stringerle la gola.
Doveva rispondere, aveva già aspettato troppo tempo e la mostra si sarebbe tenuta entro una decina di giorni.
Si fece coraggio e, dopo aver scartato l’idea di spedire una mail – una telefonata le sembrava il minimo – compose il numero di Spencer.
Il suo cuore mancò un battito, quando lui rispose, allegro e festoso, incredulo.
- Sam?!-
 
 
Gli occhi di Freddie erano scattati su Spencer non appena quel nome era uscito dalle sue labbra e, adesso, il suo pugno stritolava la lattina di frizzicola, colorando le nocche di bianco.
- Ciao, svitato.-
- Ragazzina, porta rispetto! Sono un artista affermato, ormai. O, quasi.-
Carly si torturava le mani, agitata, mentre scandiva ritmicamente il tempo con un piede.
La risata di Sam, sebbene metallica, giunse fino a loro, gelandoli.
- Congratulazioni, allora! Finalmente qualche pazzo ha deciso di darti una chance!- esclamò.
- Che gentile. Come stai, Sam?- le chiese Spencer, appollaiandosi su uno degli sgabelli al bancone.
 
 
Quella era una domanda troppo difficile a cui rispondere, perché non c’era una risposta precisa da dare.
Si sentiva bene, da un po’ di settimane a quella parte, il dolore aveva cominciato a scemare, confinato in una zona del suo cuore sul quale aveva gettato un’ombra silenziosa.
Cosa dire, dunque?
- Sto bene, Spencer.-
- E’ la verità?- le domandò lui, con quel tono di voce che, a volte, lo faceva rassomigliare davvero a un adulto responsabile.
Sam chiuse gli occhi, imponendosi di pensare a Dylan, Cat, Dice e la sua vita a Los Angeles: voleva bene a tutti loro, aveva ritrovato il calore perduto, sebbene non la scaldasse in ogni momento del giorno.
- E’ la verità.- rispose, certa che, la sensibilità fuori dal comune di Spencer, lo avrebbe convinto che dicesse la verità.
Un rumore di passi si udì rimbombare nel telefono e Sam si ritrovò col cuore in tumulto, terrorizzata all’idea che Carly o Freddie, o entrambi, potessero essere nei paraggi.
 
 
- Sono contento, allora. –
Gibby, che si era alzato e lo aveva raggiunto, accostò l’orecchio al telefono.
- Tu come stai?-
- Non sto più nella pelle per la mostra!- esclamò. – Cosa ne pensi dei calzini?- le chiese, serio.
Ancora una volta, la risata di Sam rimbombò nella stanza silenziosa. – Devi metterli assolutamente.- disse. – Non saresti Spencer Shay, senza. – aggiunse.
- Ah! Lo sapevo! Sam pensa che io debba mettere i calzini, Carly!- decretò, a voce decisamente troppo alta, il ragazzo.
I cuore delle due ragazze, distanti chilometri, sussultarono all’unisono ed entrambe rimasero immobili, in silenzio, incapaci anche di respirare.
- Sam, ci sei?-
- Sono qui.-
- Allora, ci sarai vero?- chiese, infine, Spencer, senza staccare gli occhi dai due ragazzi ancora seduti, immobili, sul divano.
 
 
Sam dovette fare appello a tutta la forza di volontà che possedeva per pronunciare le parole successive. – Mi spiace, Spencer, non posso.- disse.
- Oh, andiamo! –
- Mi piacerebbe, davvero, ma seguo un corso e il professore è un tipo odioso, quasi quanto Lewbert, sai… davvero, Spencer, non posso.- ripeté, mordendosi le labbra.
- Sam, è davvero importante per me.-
Il senso di colpa le esplose nel petto, costringendola a sedersi per riprendere fiato; si sentiva uno schifo a rovinare così l’euforia si Spencer, ma davvero non era in grado di rivedere ancora né Carly, né Freddie.
- Lo so, lo so e, sono davvero contenta per te, o orgogliosa, quello che preferisci.-
- Preferirei che tu ci fossi.-
- Sarà come se ci fossi.-
- Andiamo, Sam! E’ una sera soltanto, hai una moto!- gridò, d’improvviso, Gibby.
 
 
Spencer si portò una mano all’orecchio, guardando male il ragazzo accanto a sé.
- Mi hai rotto un timpano!-
- Gibby?- la voce di Sam sembrava divertita.
L’altro ragazzo si avvicinò maggiormente all’artista, incombendo su di lui con la figura massiccia.
- Sì, sono io, ciao Sam!- esclamò.
- Ciao! Come te la passi?-
- Non male, socia*. Ho trovato lavoro!- disse e, sebbene lei non potesse vederlo, sollevò i pollici in segno di vittoria.
Carly, intanto, si era alzata e aveva cominciato a sparecchiare, tanto per tenere le mani occupate, mentre Freddie restava congelato nella stessa posizione di quando la telefonata era iniziata, teso.
- Non c’è modo di convincerti?- chiese Spencer.
- Mi spiace.-
- D’accordo, Sam. Se cambi idea… -
- So dove trovarti.-
Per un momento, rimasero entrambi in silenzio, senza saper bene come chiudere quella conversazione penosa per tutti e due.
- Ci sentiamo, ti mando le foto della Mostra.-
-  Metti i calzini, così tutti sapranno chi pestare a fine serata!- ridacchiò la ragazza.
- Ah ah!-
- Salutami Gibby e… - la voce di Sam parve indugiare un istante. - … e tutti.- disse.
- Ciao, Sam.-
- Ciao, svitato.-
Quando posò il telefono sul bancone, Carly s’interruppe nel mezzo di un movimento, sollevando lo sguardo per incontrare il suo. – Non verrà, vero?- chiese, in un sussurro.
- No, non verrà.- rispose Spencer.
Freddie si alzò, con una scrollata di spalle. – Io vado a dormire.- disse, uscendo e sbattendo la porta.
Carly si sedette al tavolo in cucina, le mani sulle ginocchia, lo sguardo basso.
Gibby accennò a raggiungerla ma Spencer lo fermò, posandogli una mano sulle spalle e facendo cenno di no; entrambi si avviarono verso il montacarichi, lasciandola sola.
Il primo singhiozzo che spezzò il respiro di Carly, tuttavia, lo udirono anche loro.
 
 
 
Sam aprì la porta dell’appartamento, entrando con Dylan a seguito; erano entrambi zuppi di pioggia e Cat, in cucina, emise un verso di orrore strozzato.
- Fermi!- gridò, raggiungendoli e fermandosi di fronte a loro a braccia conserte.
- Ciao.- salutò Sam, sfilando il giubbotto inzuppato.
- Ehi, Cat.- si accorò Dylan, che il suo di giubbotto lo aveva già depositato sull’appendiabiti dell’ingresso.
La ragazza con i capelli rossi li guardò entrambi malissimo. – State bagnando tutto il pavimento!- li sgridò, col cipiglio severo di una matrona.
- Sta piovendo, Cat.- disse Dylan, lanciando a Sam un’occhiata divertita.
Per quanto strana fosse, infatti, il ragazzo la trovava spassosa, come aveva detto a Sam nelle svariate occasioni in cui lei si era lamentata del suo carattere lunatico.
- E io ho pulito il pavimento tre volte, oggi, dopo che quei bambini pestiferi vi hanno rovesciato le loro cioccolate a turno!- esclamò, offesa come se i piccoli si fossero davvero coalizzati contro di lei e, conoscendo i bambini a cui erano solite badare, Sam non avrebbe scommesso che non fosse davvero così.
- Cat, sto gelando.- si lamentò Sam, facendo un pezzo passo avanti.
- Alt! – la bloccò l’altra, parandosi di fronte a lei. – Dove siete stati?- chiese, lanciando a Dylan un’occhiataccia.
Lui le strizzò l’occhio, infilando una mano tra i capelli bagnati di Sam e strapazzandoli.
- Abbiamo fatto un giro in moto sul ponte… - cominciò a raccontare, finendo subito interrotto da Cat.
- Un giro in moto?!- gridò, allucinata, la rossa, portando entrambe le mani a coppa sul cuore e, subito dopo, cominciò a farsi aria, come faticasse a respirare.
- Oh, no, ci risiamo!- fece Sam, facendo roteare gli occhi al soffitto. – Non svenire, Cat!-
Dylan ridacchiò, passandosi una mano tra i capelli scuri.
- Voi… voi due, folli!- esclamò Cat, indicandoli con il piccolo indice. – Siete andati in moto con questo tempo? Sam, vuoi farmi morire di paura?- piagnucolò.
La bionda la superò, avviandosi verso il bagno. – E’ stato solo un giretto e siamo sani e salvi!-
Mentre Dylan si accingeva a seguirla, Cat gli si parò davanti, colpendolo all’altezza del torace col dito. – Basta comportamenti spericolati, Dylan!- lo rimproverò.
Lui annuì, fintamente dispiaciuto, sgranando gli occhi scuri e posandole le mani sulle spalle.
- Non preoccuparti, Cat, faremo i bravi, promesso.- le disse, raggirandola e raggiungendo Sam, che gli tirò un asciugamani, mentre inseriva la spina del phon.
Cat, giunta sotto la porta del bagno, li osservò litigare giocosamente mentre si asciugavano i vestiti e, sospirando, tornò in soggiorno scuotendo la testa.
- Uno di voi due farà bene ad asciugare questo macello!-
 
 
 
Il diciannove Dicembre, Carly aveva preso appunti ordinati e precisi riguardo la lezione appena ascoltata e, sebbene infastidita dal continuo cicalare di Anne, elettasi sua compagna di banco ufficiale da un mese a quella parte, avrebbe potuto definirsi soddisfatta dell’ultimo giorno di lezione.
Quando la campanella suonò, la ragazza non si affrettò a gettare malamente in borsa i libri e i blocchi per gli appunti, come tutti gli altri, poiché sapeva bene che il clima sereno e stimolante di quell’aula le sarebbe mancato molto, durante i venti giorni di feste natalizie.
- Prima di andare, - disse il Professor Trust alla classe, mentre tutti si apprestavano a rimettere i libri in borsa, - vorrei che consegnaste le relazioni del libro. Ricorderete che ho chiesto alla signorina White, martedì scorso, di informarvi del fatto che domani, ultimo giorno di lezione prima delle vacanze, mi sarebbe stato impossibile essere presente, cosicché il termine per la consegna è stato anticipato a oggi.- spiegò.
Un frusciare di carta inondò l’aula, mentre gli studenti si passavano la cartellina nella quale andavano riposte le relazioni.
Carly, seduta in prima fila, fu l’ultima a inserire la propria e così si avvicinò per consegnarle al professore.
- Ecco a lei.- gli porse il plico.
Il professor Trust, seduto in cattedra, sollevò lo sguardo dietro gli occhiali dalla montatura dorata e sorrise. – Ti ringrazio, Carly.- le disse, sfilando gli occhiali. – Ti è piaciuto il libro?-
La ragazza annuì, sistemandosi la borsa sulle spalle sottili. – Molto, anche se non amo i finali strappalacrime.- rispose, alludendo al lieto fine che tutti si aspettano sempre.
Trust si spostò indietro sulla sedia, poggiandosi allo schienale e la guardò aggrottando le sopracciglia chiare; Carly, notando il modo curioso in cui la stava osservando, avvampò.
- Ho detto qualcosa di sbagliato?- chiese.
L’uomo si affrettò a scuotere la testa, sorridendo. – No, assolutamente, mi hai solo sorpreso: in genere, le persone, le ragazze, in particolare, adorano i lieto fine.- spiegò.
- Sarò un’eccezione, allora.- ribatté lei, scrollando le spalle.
Trust annuì, fissandola con quegli occhi dal colore impossibile che la ipnotizzavano, attraendola come fossero calamite. – Non ho mai avuto dubbi a riguardo.- commentò.
Quasi tutti gli studenti erano ormai usciti, fatta eccezione per qualche ragazza che si tratteneva a chiacchierare; Carly sapeva che Freddie era fuori, in auto, ad aspettarla, eppure non riusciva a salutare il professor Trust, consapevole che l’avrebbe rivisto quasi un mese dopo.
Lui, del resto, sembrava restio come lei a congedarla, così, restarono a scambiare qualche opinione sulla trama del libro e l’uomo le consigliò delle letture integrative che Carly promise di acquistare.
Parlare con lui le veniva naturale, come se non fosse il suo professore, ma un semplice amico col quale si hanno interessi in comune ed è tanto piacevole fare una chiacchierata da perdere la cognizione del tempo.
Inoltre, era così affascinante, elegante nella sua giacca sportiva, imponente eppure dal sorriso giovanile e sghembo, quasi come quello di un ragazzino.
La risata del professor Trust, poi, era calda e profonda, piena.
Quando, alzatosi, le porse una mano, augurandole, anticipatamente, buone feste, la ragazza la strinse cercando di trattenere il brivido che il contatto con la pelle di lui le aveva causato e, a sguardo chino, lasciò l’aula in fretta, scuotendo il capo.
 
Freddie, stanco di aspettare in auto, aprì lo sportello e lo chiuse con una spinta, girò attorno al veicolo e si poggiò contro il lato passeggeri, a braccia conserte.
Dopo aver trascorso due ore in palestra a lavorare sui muscoli delle gambe, stare seduto nella stessa posizione per quindici minuti buoni, non era il massimo.
Il ragazzo guardò ancora una volta l’orologio, sollevando la manica del giaccone blu scuro che indossava: le quattro erano appena passate.
Cosa diamine stava combinando Carly, perché ci metteva tanto a uscire?
Sbuffò, massaggiandosi il collo e sollevando appena lo sguardo sul cielo che cominciava a divenire più scuro: di lì a un’ora il sole sarebbe definitivamente tramontato.
Quando sospirò, ancora, l’alito si condensò davanti al suo viso e fu in quell’istante che la figura sottile e sinuosa di una ragazza bionda prese a scendere le scale dell’edificio.
Freddie non poté vederne subito il viso, poiché teneva un basco grigiastro chino sul capo, eppure il suo cuore, per un istante, si fermò, poiché, ai suoi occhi, quella era Sam.
Quando, però, guardò oltre il biondo miele dei capelli e il fisico slanciato, riuscì a notare dei particolari che lo riportarono alla realtà, spingendolo a darsi dell’idiota: Sam non avrebbe mai indossato nulla del genere.
La bionda era avvolta in una gonna lunga fino alle ginocchia, color glicine e sotto aveva calze velate di bianco che sparivano oltre gli stivaletti dal tacco alto e sottile; un capotto chiaro, col risvolto sulle spalle, lasciava intravedere il dolcevita nero e la collana d’argento che portava al collo.
Quando raggiunse il marciapiede, la ragazza sollevò lo sguardo e, inevitabilmente, incontrò quello di Freddie che, allora, la riconobbe come la bionda vestita d’azzurro che aveva visto con Carly un mese prima.
Era carina, constatò, aveva grandi occhi nocciola, sfumati di verde, un naso piccolo e un po’ a patata e labbra sottili; accennò un piccolo cenno di saluto, imbarazzata eppure sicura di sé.
Freddie sorrise, sebbene confuso: non si erano mai rivolti la parola, perchè lo salutava?
Quando lei si incamminò lungo il marciapiede, di nuovo a Freddie parve il fantasma di Sam, poiché i capelli biondi e lunghi ricadevano, disordinati a causa del vento, sulle spalle.
Senza pensarci più di tanto, si scostò dalla macchina. – Ehm, scusa?- la chiamò.
Lei, sorpresa, si voltò, sollevando le sopracciglia castane. – Sì?- fece, in tono decisamente distaccato.
- Sono un amico di Carly Shay, se non sbaglio tu sei una sua compagna di corso, vero?-
La bionda annuì, limitandosi a restare in attesa che lui continuasse.
- Ecco, volevo chiederti se l’hai vista, è un po’ che l’aspetto… -
- Quando sono uscita dall’aula, stava consegnando le relazioni al Professor Trust; l’avrà trattenuta.- rispose, scrollando elegantemente le spalle.
- D’accordo, ti ringrazio.-
Freddie sollevò una mano a mo’ di saluto e tornò alla macchina, frustrato e nervoso: cosa gli era venuto in mente? Mettersi a tampinare le ragazze per strada. Sospirò, accorgendosi che lei lo stava ancora guardando, decisamente stranita.
Lo scalpiccio di passi in corsa ruppe il silenzio creatosi e, vedendo Carly raggiungere l’amico di corsa, la bionda volse le spalle e proseguì per la sua strada.
- Scusa, scusa!- esclamò la bruna, fermandosi per riprendere fiato.
Freddie, distratto, annuì. – Non importa, andiamo.- disse, con lo sguardo ancora fisso sulla strada.
Salirono in auto e Carly, che aveva intravisto l’amico parlare con la ragazza mentre scendeva le scale, si volse a guardarlo. – Di cosa parlavate tu e Louisa?- gli domandò.
Freddie la fissò, confuso. – Chi?- chiese, mentre si immetteva sul vialone principale.
- La bionda.-
- Oh.- fece lui. – Si chiama Louisa?-
- Già.-
- Le ho domandato dov’eri.- rispose il ragazzo, con una scrollata di spalle.
Se anche Freddie avesse notato lo sguardo rassegnato che Carly gli rivolse, finse di non averlo fatto.
 
 
Quando giunsero a casa Carly chiamò a gran voce il fratello, che arrivò, sbattendo un po’ ovunque, sfrecciando sui rollerblade.
- Spencer, non avevi detto che saresti stato più prudente, almeno fino alla Mostra?- chiese Freddie, poggiatosi con i gomiti sul bancone.
L’altro picchiettò con il pugno sul casco da ciclista che portava in testa. – Sono prudente!- esclamò.
Freddie e Carly si scambiarono un’occhiata divertita, mentre lei tirava fuori dal congelatore delle ali di pollo con patate e le sistemava in un recipiente.
- Ti fermi a cena?- chiese all’amico.
- Volentieri.-
- Carly, sì o no: il vetro di chicchi di riso?- s’intromise Spencer, intento a girare attorno al divano.
- Sì!- esclamò la sorellina, partecipando al gioco che lui aveva inventato per scegliere le sculture da esporre la sera della Mostra.
- Andata. Freddie?-
- Sono pronto!- fece il ragazzo, fingendo di essere carico di adrenalina.
- L’albero di nasi?-
Carly, comparsa al suo fianco, gli pizzicò violentemente un fianco. – Ahia… no!- mormorò il ragazzo, guardandola male.
Spencer assottigliò lo sguardo, attento. – Vi tengo d’occhio.- disse. – Sapete che barare è reato.-
- Lo sappiamo.- risposero, in coro, i due, facendo roteare gli occhi al soffitto.
- Bene. Perchè la mia scorta di senape andata a male è ancora nascosta da qualche parte!- li minacciò.
- Hai del cibo andato a male nascosto da qualche parte qui in casa?- si allarmò Carly, portando le mani sui fianchi, contrariata.
Spencer si affrettò a negare. – No, no, certo che no, sarebbe… -
- Disgustoso!-
- Esatto, disgustoso!- ridacchiò, nervoso.
- E’ pronto, venite a sedervi.- sospirò la ragazza e Freddie si affrettò ad apparecchiare.
- Spencer, togli i pattini.-
- D’accordo!- esclamò, sedendosi sul divano e slacciando i rollerblade. – Che lagna… - aggiunse, sottovoce, ma non abbastanza perché a Carly sfuggisse il “complimento” e gli tirasse una nocciolina.
Cenarono tranquillamente e, quando Gibby telefonò a Freddie, Carly gli disse di invitarlo per una fetta di dolce, perché aveva qualcosa di importante da dire a tutti loro.
Così, mezz’ora dopo, si ritrovarono al completo, seduti sul divano; i ragazzi erano nervosi, dato che, quando una donna ha “qualcosa di importante da dire”, si può star certi che quel qualcosa sarà devastante.
La tensione crebbe, raggiungendo picchi vertiginosi, fino a quando, esasperato, Spencer non balzò su. – Allora, vuoi parlare? Non riesco a godermi questa delizia!- esclamò, picchiettando con la forchetta sul piatto.
Carly, scuotendo il capo di fronte all’incapacità di avere pazienza del fratello e del genere maschile in generale, si alzò e si pose di fronte a tutti loro, che, come perfettamente coordinati, deglutirono contemporaneamente.
- D’accordo, prima di tutto, non voglio che nessuno di voi mi interrompa prima di aver ascoltato fino in fondo quello che ho da dire.- decretò, in quel tono imperioso che usava di tanto in tanto.
Tre teste annuirono in perfetta sincronia.
Carly prese un bel respiro; ci aveva riflettuto bene ed era così decisa che nulla avrebbe potuto farle cambiare idea.
Non aveva alcuna intenzione di perdere ancora qualcosa o qualcuno, non aveva intenzione di permettere ad un principio stupido come l’orgoglio di negarle per sempre l’affetto di una delle persone più importanti al mondo per lei, non aveva alcuna intenzione di dire addio alla “bruna di ICarly”, perché voleva dover essere distinta dall’altra, la bionda.
Rivoleva Sam nella sua vita, per quanto difficile sarebbe stato ricevere il suo perdono, ricostruire il loro rapporto, convincerla a non arrendersi.
Avrebbe lottato, perché, tra le due, quella sempre pronta a non darsi per vinta era stata Sam e Carly, in quell’ultimo mese, aveva compreso quanto stanca dovesse sentirsi la sua migliore amica.
Era il momento di dimostrarle che nove anni insieme avevano cambiato entrambe, poiché i loro caratteri si erano influenzati a vicenda, mutandole, eppure, lasciandole uguali.
Carly, a un mese dall’inizio del corso che tanto aveva atteso, si era resa conto che quel senso di inadeguatezza provato al ritorno dall’Italia non era ancora sparito.
Allora, aveva compreso che avrebbe potuto frequentare anche centinaia di corsi ma, se non avesse chiarito le cose con Sam e non le avesse detto che, nonostante quegli ultimi due anni, le voleva ancora un bene dell’anima, non si sarebbe mai sentita a casa.
- Voglio andare a Los Angeles, per convincere Sam a venire alla Mostra.- dichiarò, tenendo lo sguardo fisso in quello di Freddie, l’unico che, sapeva, sarebbe stato contrario.
Mentre, di fatti, sia Spencer che Gibby balzarono in piedi, esultando e battendosi il cinque, Freddie si limitò a fissarla, con un’espressione funerea in volto e, incrociando le braccia, scosse il capo.
- No.- disse.
- Freddie… -
Il ragazzo si alzò e gli altri due si zittirono. – Carly, non ho intenzione di fermarti: va’ pure. Ma non pretendere che io venga con te.- le disse, deciso.
- Stai commettendo un grande sbaglio, amico.- intervenne Gibby, posandogli una mano sulle spalle.
- Ho detto no, Gibby.-
- Freddie, dacci un taglio!- sbottò Spencer.
- Non ho alcuna intenzione di guidare per più di diciotto ore, per arrivare da Sam e sentirmi dire un bel “no”.- rispose, dando le spalle a tutti loro.
- Pensi che ce la farete in tempo a tornare?- domandò l’artista alla sorellina. – Sono, in pratica, due giorni di viaggio, andata e ritorno.- fece, pensoso.
- Tanto non ci andremo, Spencer!- s’intromise Freddie, irritato.
- Se partiamo stanotte, arriveremo nel pomeriggio di domani. Ci rimetteremo in viaggio il ventuno mattina e saremo di ritorno il ventuno sera, un giorno prima della mostra.- rispose Carly, che aveva già calcolato ogni cosa nei giorni precedenti.
- Perché non in aereo?-
- Sam detesta volare.- fece Carly, senza rendersi conto di star pensando al domani come se la bionda avesse già accettato di seguirla a Seattle.
- Io me ne vado a casa.- sbottò Freddie, avviandosi verso la porta.
- Freddie, aspetta.- lo richiamò Gibby. – Carly è decisa a partire, lo sai, no?- chiese.
L’altro si voltò. – Certo, andate pure, non ho intenzione di impedirvelo.- disse, con un’alzata di spalle.
Gibby lo raggiunse. – Partirà da sola, se tu non l’accompagni.- gli spiegò. – Io non posso assentarmi da lavoro, sono ancora in prova.- aggiunse.
- L’accompagnerà Spencer.- ribatté Freddie.
- Scherzi?! A due giorni dalla mostra?! Sei fuori di testa!- esclamò.
Carly parlò senza nemmeno guardare l’ex fidanzato. – Io partirò domattina, Spencer, credi che potrei noleggiare un’auto nel giro di un paio d’ore?- domandò al fratello.
Freddie gettò il capo all’indietro. – Non stai dicendo sul serio.- fece.
- Perché no?- lo sfidò Carly, alzando il mento in un gesto brusco.
- Non puoi guidare per diciotto ore! –
La ragazza si fece avanti, guardandolo con un’espressione decisa. – Ho intenzione di raggiungere la mia amica e, se non vuoi venire con me, non ti riguarda come farò.- disse.
- Bene!- esclamò Freddie.
- Bene!- gridò in risposta Carly, mentre l’altro usciva sbattendo la porta.
Inutile dire che, un’ora dopo, Freddie tornò a casa Shay con una sacca da viaggio che gettò malamente sul divano e le chiavi della sua nuova auto che gli penzolavano dal mignolo.
Spencer, sorridendo, gli porse i termos di caffè che aveva preparato.
- Datevi il cambio al volante ogni due ore, fermatevi se doveste essere troppo stanchi e andate piano. – gli raccomandò, mentre Carly scendeva le scale di corsa.
Quando vide Freddie, sorrise, raggiungendolo e prendendogli una mano. – Grazie.- disse, solamente; l’agitazione di lei era palpabile, proprio come quella di lui.
Mentre uscivano, Spencer gridò loro dietro. – Ehi! Ricordate di telefonare quando arrivate!-
 
 
 
 Dopo aver guidato per tutta la notte e buona parte della mattina, si ritrovarono dalle parti di Sacramento. Si erano dati il cambio tante di quelle volte che non erano riuscite a contarle e, in quel momento, Freddie era al volante, mentre Carly dormiva profondamente da almeno un’ora.
Nonostante fosse molto nervoso e irritato, anche Freddie era riuscito a riposare quel tanto che gli occorreva per non rassomigliare a uno zombie, sebbene, più si avvicinassero a Los Angeles, più il ragazzo avrebbe desiderato fare inversione e ripartire a razzo verso Seattle.
Era assurdo, davvero, che dopo quasi un anno da quella sera, si ritrovasse a guidare per raggiungere Sam, come se non fosse trascorso nemmeno un giorno.
Come faceva, quella lì addormentata accanto a lui – le lanciò un’occhiataccia – a sapere che Sam non avrebbe chiuso loro la porta in faccia?
Magari, avrebbe trovato quella loro visita inattesa un’invasione, un assalto, un agguato.
Cosa le avrebbero detto? Come sperava, Carly, di convincerla, nel giro di un giorno, a seguirli a Seattle, lasciando perdere ogni problema ancora irrisolto tra loro?
Ciò che più spaventava Freddie era l’idea che Carly non avesse alcuna intenzione di limitarsi a quell’unica giornata con l’altra, no; se aveva letto bene, dietro le intenzioni della bruna, lei si era messa in testa di recuperare l’amicizia con Sam, di salvarla dal baratro del disastro in cui era precipitata.
Sospirò: a che scopo?
Sam abitava a Los Angeles, ormai, di certo non sarebbero tornata a Seattle.
Si sarebbero fatti solo del male, tutti e tre, con quella visita, poiché rivedersi sarebbe stato lacerante e penoso, data la consapevolezza che le cose non sarebbero state mai più le stesse.
Inoltre, Freddie non aveva idea di cosa dire a Sam, dopo averla lasciata nel giro di un minuto, quella sera, per correre da Carly e aver letto la sofferenza che lei aveva cercato di nascondere.
Ricordava ancora le sue lacrime, sebbene le avesse viste soltanto un istante, mentre la porta di legno pesante si richiudeva sugli occhi azzurri di Sam.
Era stato un idiota, certo e non sperava affatto che lei lo perdonasse; aveva fatto una scelta ed era pronto ad accettarne le conseguenze, per quanta sofferenza comportassero.
Perché, quello Freddie non avrebbe potuto negarlo neanche a se stesso, stare senza Sam, rinunciare a lei, completamente, anche solo come amica, era stata una delle cose più dolorose che avesse mai fatto.
E, adesso, l’avrebbe rivista e avrebbe potuto solo ripetersi: non sei più niente per lei.
Forse, pensò, quella era la punizione che il fato aveva scelto per lui, forse, decise, il momento di saldare i conti era giunto.
 
 
 
Il battere incessante dei pugni di Cat sulla porta non l’aiutavano a rilassarsi, per questo il suo tono risultò particolarmente isterico. – Dacci un taglio, Cat!- ringhiò.
- Sono due ore che sei lì dentro, Sam, devo fare pipì!- gridò l’altra.
- E io sto facendo un bagno rilassante!-
Il campanello suonò in quel momento e Cat, camminando a gambe strette, raggiunse la porta d’ingresso, aprendola inferocita.
Il ragazzo sorrise, angelico. – Ciao, Ca… -
- Sam! Esci, devo fare pipì!- lo ignorò la rossa, tornando a martellare le orecchie dell’amica.
Dylan si sfilò la giacca e la gettò sul divano, mentre chiudeva la porta.
- Ha di nuovo preso possesso del bagno?- chiese a Cat.
- Già!- sbottò l’altra. – Falla uscire!- piagnucolò.
Lui rise, raggiungendola e bussando. – Sam! – chiamò. – Sei in ritardo!- esclamò.
- Fatti un giro, Bennett, sono solo le nove!- gridò Sam, dal bagno.
- Butteresti giù la porta?- domandò, implorante, Cat.
- Puckett, se non esci immediatamente mangerò da solo le ali di pollo fritte che ti ho portato!-
Ci fu un istante di silenzio, poi la voce della bionda li investì entrambi, salendo di diverse ottave.
- Stai bluffando.- decretò.
- Perché non vieni a controllare?- la invitò Dylan, strizzando l’occhio a Cat.
Lo scroscio dell’acqua non agevolò la situazione di quest’ultima, ma almeno li rassicurò sul fatto che Sam stesse finalmente abbandonando la vasca.
- Giuro, Bennet, che se hai mentito, stavolta ti mando sul serio in ospedale!- dichiarò la bionda, aprendo la porta con indosso un accappatoio di spugna e i capelli bagnati acconciati alla meglio sul capo con una grossa molletta.
Dylan inarcò un sopracciglio, sorridendo di fronte alla sua mise, mentre Cat la spingeva bruscamente di lato e la sbatteva letteralmente fuori, chiudendo la porta.
- Cat! Ci sono i miei vestiti, lì dentro!- gridò l’altra, finendo ignorata.
Sam, allora, si focalizzò su Dylan, che la fissava in modo troppo intenso, a suo parere.
- Dove sono le mie ali di pollo?- domandò, brusca e minacciosa.
- Oh, devo averle lasciate in macchina.- si finse dispiaciuto il ragazzo, battendosi una manata sulla fronte.
- Ti detesto!-
Lui rise, afferrandola per un braccio e attirandola a sé; incrociò le dita sulla sua schiena e, avvicinando il naso al collo della ragazza, mormorò. – Puckett, profumi di mandorle.-
Avvampando, Sam gli posò le mani sul petto, decisa a mettere un po’ di distanza tra i loro corpi e ottenendo soltanto di indugiare con le dita nei punti in cui il suo maglione si era bagnato di lei.
- Cerchi di distrarmi dalle ali di pollo?- chiese, troppo imbarazzata per guardarlo negli occhi.
Dylan ridacchiò tra i suoi capelli. – Forse.- disse, chiudendo istintivamente le gambe, pronto alla ginocchiata che lei gli avrebbe di certo tirato.
- Perché sei venuto in macchina?- gli chiese.
- Sta piovendo.-
- E allora? Non è la prima volta che prendiamo la moto mentre piove.- scrollò le spalle la ragazza.
Dylan fece roteare gli occhi al soffitto. – Ho promesso a Cat che non l’avremmo più fatto.-
- Cat!- esclamò Sam, ricordandosi, d’improvviso, dell’amica. - Esci dal bagno, devo vestirmi!-
- Sono nella vasca!-
- Cosa?!-
- Così impari!-
Dylan rise e Sam lo guardò malissimo.
- Oh, cosa? Non prendertela con me, adesso! Sei in ritardo.- fece lui.
- Ho voglia di pestarti.-
- Allora farei meglio a non dirti cosa ho voglia di fare io.- mormorò Dylan, senza smettere di guardarla; la presa delle sue mani sulla schiena divenne una carezza gentile e Sam avvampò.
 - Non siamo sul ring, Puckett, non hai bisogno di giocare in difesa.-
Lo disse in tono serio e, sebbene la sua espressione rimanesse quella beffarda di qualche istante prima, il suo sguardo aveva acquisito un'intensità diversa.
Sam, abituata a difendersi dai suoi attacchi e ritrovatasi d'improvviso sprovvista di uno spunto che le consentisse di rispondere in modo freddo e cinico, magari antipatico, tacque, rimanendo a fissarlo, confusa, per un lungo istante.
Fu il campanello a salvarla dall'imbarazzo e il disagio che quella situazione le causava e a lui non sfuggì il sorrisetto sollevato che lei aveva in volto quando si affrettò verso la porta.
- Dovrai smetterla di scappare, prima o poi...- le gridò dietro, tornando allegro e canzonatorio, seguendola. - e dirmi chi è l'idiota che ti ha trasformata in un ghiacciaio, spezzandoti il cuore.- aggiunse, fermandosi alle sue spalle.
Sam, una mano ancora a tenere la porta, lo sguardo incredulo a fissare i due volti di fronte a sé e il petto che, improvvisamente, sembrava troppo piccolo per ospitarle il cuore, riuscì solo a sussurrare, smarrita: - Freddie?-.

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Capitolo 5
*** Lost moments ***


Ringrazio la mia adorabile beta, Aduial, per aver betato questo capitolo a tarda sera, nonostante la stanchezza: sei unica!
 
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite e chiunque abbia speso del tempo per lasciare una recensione al precedente capitolo; risponderò in privato.
 
Buona Lettura.
 
 
 
 
 
Freddie, pietrificato accanto alla bruna, tentò invano di convincere il proprio sguardo ad abbandonare quello della ragazza che gli stava di fronte; una ragazza bionda e bassina che, in un primo momento, faticò a riconoscere come Sam.
Possibile che, nel giro di poco meno di un anno, lei fosse cambiata tanto?
Era sempre stata bella, troppo per una con quel caratterino, poiché il suo aspetto era l’ennesima arma a disposizione per ferire e prevaricare sugli altri, Freddie lo aveva imparato a proprie spese. Rammentava ancora bene, difatti, il primo giorno che l’aveva incontrata – vista – e come si fosse ingannato, a osservare i boccoli biondi e i grandi occhi di un azzurro impossibile, credendola una sorta di piccolo angelo. Del resto, se era amica di Carly, si era detto quel giorno di un lontano Settembre, mentre varcava la soglia della scuola media, di certo non poteva che essere una ragazza dolce e sensibile, una vera principessa, come il suo aspetto suggeriva.
E, poi, Sam aveva parlato e a Freddie quasi non era preso un colpo, scoprendo che, spesso, l’apparenza ingannava.
Altro che angelo, quella era un vero demonietto, che avrebbe fatto impallidire Satana in persona!
In quel momento, fermo sulla porta di casa sua, intento a divorarla con lo sguardo, Freddie comprese che, probabilmente, non avrebbe mai conosciuto ogni sfumatura di Samantha Puckett, se anche avesse avuto a disposizione tutta la vita; lei era come il mare, all’apparenza sempre uguale e, negli abissi più profondi, in continua trasformazione.
Se non fosse stato per quegli occhi – tempesta e brina – non l’avrebbe riconosciuta: i capelli d’oro chiaro erano bagnati e tenuti legati sulla testa da uno strano fermaglio, sebbene qualche ciocca, ribelle quanto lei, le sfiorasse il collo sottile e il viso aveva la stessa forma ovale, con gli zigomi bel delineati, ma i tratti erano più decisi, meno fanciulleschi di un tempo.
Le labbra erano imbronciate, ma dello stesso colore che Freddie aveva ricordato mesi prima, in Italia, seduto a un tavolino, intento a osservare una rosa scarlatta; perfino quella piccola gobbetta sul naso, unico neo su quel volto altrimenti perfetto, sembrava appartenere a un’altra persona.
Quando, involontariamente, gli occhi di Freddie scivolarono sul suo corpo, si accorse, finalmente, che lei era in accappatoio e che la curva pronunciata e decisa del seno era coperta solo dallo strato di spugna sottile, bagnato; era scalza e le gambe erano magre e tornite.
Lo sguardo del ragazzo fu calamitato da una goccia d’acqua che, spericolata, si tuffava dai suoi capelli per atterrarle sul collo e cominciare la sua discesa verso la clavicola, anch’essa perfettamente visibile.
Dio, si sentiva un vero idiota: Sam era stata la sua ragazza, sapeva quanto fosse bella e affascinante, quanto quel corpo fosse femminile e sensuale, nonostante la proprietaria si comportasse da maschiaccio, perché, allora, gli sembrava di non riuscire a staccare gli occhi da quella figura, vestita di bianco, che teneva ancora un braccio sulla porta?
Mentre tentava, invano, di trovare qualcosa di civile e sensato da dire, si accorse di due cose:
primo, lo sguardo di Sam gli era sfuggito e, adesso, fissava, tormentato, un punto accanto a lui che, Freddie ne era certo, se avesse seguito, lo avrebbe portato a Carly e, secondo, Sam non era sola.
Alle sue spalle, di almeno una spanna più alto di lei, se ne stava un ragazzo dall’espressione curiosa, divertita e insolente al contempo.
Il cuore di Freddie cominciò una galoppata furiosa, mentre i suoi occhi si scontravano con quelli bruni del tipo, che, da quanto poteva vedere, era davvero troppo vicino a Sam, più di quanto occorresse per guardare fuori.
Quello, per di più, non sembrava assolutamente imbarazzato del fatto che la ragazza fosse in accappatoio e, anzi, qualche istante più tardi, sollevò una mano per asciugarle, con l’indice, una goccia d’acqua dalla nuca; lei rabbrividì e avvampò, facendo scattare lo sguardo, inquieto, sui piedi.
Fu il tocco del tipo a riscuotere Sam dallo stato di shock in cui sembrava caduta e, rabbrividendo, tentò di abbozzare un sorriso, sebbene ottenne solo di contrarre le labbra.
- Carly.- mormorò, emozionata e roca, e il suo alito si condensò, a causa del gelo, in una nuvoletta di vapore davanti al suo viso.
Sembrava stare affrontando una piccola guerra interiore, come fosse divisa a metà tra il desiderio di sporgersi e abbracciare la bruna e, al contempo, scappare il più lontano possibile.
Freddie, tuttavia, non ebbe modo di accorgersi di quale delle due avesse compiuto il primo passo quando, un momento dopo, si abbracciarono proprio sotto la porta, poiché era troppo concentrato a fissare, con gli occhi ridotti a due fessure, quello che ancora stava alle spalle di Sam.
Era un ragazzo decisamente ben piantato, con i muscoli tesi sotto la camicia scura e le spalle larghe, aveva i capelli scuri e occhi felini, la mascella squadrata e un filo di barba sottile sulle guance. Doveva essere più grande di tutti loro, sebbene Freddie non avrebbe saputo stimarne l’età precisa e sembrava perfettamente a suo agio, quasi strafottente.
- Ciao, Sam.- singhiozzò Carly, tentando, invano, di trattenere piccole lacrime negli occhi bruni e stringendo l’amica fino a farle male.
Per un istante, entrambe non sentirono più freddo, come se fosse stato sufficiente il calore emanato dall’altra per smettere di tremare, per non avere più paura.
Poi, l’istante passò e i ricordi tornarono prepotentemente alla mente, così come i motivi che le avevano separate drasticamente; Freddie, lì accanto, era già punto di unione e frattura eterna tra loro.
- Cosa… cosa ci fai qui?- chiese Sam, sciogliendo l’abbraccio e facendo un passo indietro, di nuovo accanto al tipo; non guardò mai verso Freddie.
- Noi… ecco… - la bruna parve faticare a trovare le parole adatte e l’imbarazzo rimbalzò tra le due ragazze, portandole a guardare altrove, anisiché l’una verso l’altra.
Fu quello a spezzare la tensione, rivolgendosi a Sam; quando parlò, la sua voce si rivelò calda e profonda. - Puckett, si gela, perché non li fai entrare?- disse, senza smettere di guardare Freddie.
La ragazza parve rendersi conto solo allora che, da cinque minuti buoni, erano tutti fermi sotto la porta, lei compresa, bagnata e tremante, in accappatoio.
- Oh!- esclamò, impacciata. – Certo, entrate, si gela, lì fuori.- disse, spostandosi per farli passare.
Carly fu la prima a varcare la soglia, fermandosi qualche metro più avanti, imbarazzata e, quando Freddie passò davanti a Sam, non potendosi impedire di lanciarle uno sguardo, di nuovo non incrociò i suoi occhi che, invece, sembravano cercare una qualche rassicurazione nel tipo.
- Sam, non vuoi… vestirti? Stai tremando.- mormorò Carly, accennando un sorriso.
- Sì… adesso vado.- rispose l’altra. – Hm, Dylan, tu… sì, insomma, pensa tu a metter su del tè o roba del genere! – sbottò, poi, brusca, rivolta al ragazzo, incamminandosi verso la stanza che divideva con Cat.
Il tipo, che Freddie aveva appeno scoperto chiamarsi “Dylan”, sbuffò, facendo roteare teatralmente gli occhi al soffitto. – Non metterci troppo, Puckett - le gridò dietro. – o stavolta la sfondo davvero la porta!- aggiunse, strizzandole l’occhio quando lei si volse a fulminarlo con lo sguardo.
Dylan tornò a guardare i due ragazzi e, superatili, si fermò dietro il bancone.
- Beh, potete togliere i cappotti e sedervi, se volete.- disse, indicando loro gli sgabelli. – Non sono un grande casalingo, dovrete accontentarvi di una tazza di caffè.- aggiunse, con un’alzata di spalle.
- Andrà benissimo, grazie… - rispose Carly, mentre sfilava il cappottino, osservandosi attorno con circospezione. Freddie l’aiutò – gesto che, si accorse, non sfuggì al tipo - e depositò entrambe le loro giacche sul divano.
Carly si sedette al bancone, accennando un sorriso. – E’ una bella casa, molto accogliente.-
Freddie, che vi era già stato e aveva troppi ricordi con Sam anche lì, si limitò ad appollaiarsi sullo sgabello e tacere, nervoso.
- Cat! –sentirono gridare, poi, d’improvviso.
- Non ci penso proprio a uscire, Sam!- rispose una seconda voce, più acuta, che Freddie riconobbe come quella di Cat. Dylan, intento a prendere il pacco del caffè dal mobile, ridacchiò, scuotendo la testa.
Freddie notò, interdetto e infastidito, che quel tipo sembrava perfettamente a suo agio, lì dentro, tanto da conoscere il posto di caffè, tazzine e cucchiaini.
- Cat! Vieni qui!-
- Sono nella vascaaa.- protestò ancora la voce, allungando la “a” finale, cantilenando.
- Dylan!- esclamarono, poi, in coro, le due ragazze.
Lui rise ancora, portandosi una mano alla fronte e, girando attorno la bancone, alzò le mani.
- Scusate un attimo.- disse, attraversando il salotto a grandi falcate e sparendo in camera di Sam.
Freddie fece tamburellare le nocche delle dita sul bancone, nervoso, poi si passò una mano tra i capelli, tentando di rilassare i muscoli tesi delle spalle.
Carly lo accarezzò con lo sguardo, preoccupata. – Freddie… - tentò, interrotta dal ritorno di Dylan, diretto alla porta del bagno.
- Cat?-
- No, Dylan, non mi convincerai a uscire! –
- Cat, ci sono qui delle persone.- gridò il ragazzo, indicando Freddie e Carly con l’indice e strizzando loro l’occhio.
- Chi? Non aspetto bambini, oggi.-
- Sono amici di Sam.- il tono in cui pronunciò la parola “amici” non sfuggì a nessuno dei due e Carly arrossì, chinando il capo sulle mani.
- Oh. D’accordo, arrivo.- la vocetta di Cat parve d’un tratto preoccupata e, meno di un minuto dopo, una furia dai capelli rossi spalancò la porta del bagno in asciugamani e, superato Dylan, imboccò la porta della camera da letto.
Il ragazzo sorrise, tornando in cucina. – Saranno qui a momenti, quanto zucchero?-
 
 
Sam, tremendamente agitata e nervosa, camminava su e giù lungo la stanza, decisa a scappare il più lontano possibile dai due ragazzi in salotto.
Cosa ci facevano lì? Perché erano venuti?
Si sentiva frustrata, arrabbiata, triste e nostalgica: rivedere Carly era stata una doccia gelata, non era pronta e forse non lo sarebbe stata mai.
Quando aveva aperto la porta e aveva visto Fredde, il suo cuore si era fermato, come congelato e la ragazza aveva quasi creduto di star sognando, fino a quando il gelo della notte non l’aveva fatta rabbrividire.
Freddie era apparso più bello che mai, con le guance rosse dal freddo, i capelli scuri in disordine, il giubbotto nero che cadeva perfettamente sulle spalle larghe, senza riuscire a celare i muscoli ben definiti. Ciò che, però, le aveva provocato una morsa al cuore, era stato il suo sguardo, i suoi occhi, di quel bruno denso e caldo, profondo, quasi capace leggere le anime altrui; e, poi, le sue labbra, carnose e rese viola dal freddo, l’avevano spinta a chiedersi se avessero ancora lo stesso sapore.
Se non avesse notato la chioma corvina al suo fianco, probabilmente sarebbe rimasta a osservarlo tutta la notte, indifferente al gelo, incapace di fare un passo e abbracciarlo, spezzata internamente dal desiderio di gridargli di andare via per sempre dalla sua vita e quello di gettarsi tra le sue braccia e piangere disperatamente - dopo averlo picchiato, ovviamente.
La presenza di Carly l’aveva aiutata a tenere a mente perché avesse deciso di chiudere ogni sentimento provato per Freddie Benson in un luogo remoto della sua anima e, del resto, anche rivedere lei l’aveva sconvolta moltissimo.
Carly sembrava la stessa di sempre, dolce e impacciata, i capelli bruni un po’ più corti di un tempo, le ciglia infoltite da un filo di mascara.
Tuttavia, la ragazza sembrava nervosa, i suoi occhi erano inquieti e tormentati e faticavano a incrociare quelli di Sam, quasi temesse di leggervi dentro un odio o un disprezzo che non avrebbe saputo sopportare.
Quando Carly si era sporta per abbracciarla, agendo d’istinto e mandando al diavolo ogni paura, Sam non aveva potuto fare altrimenti, poiché, nel profondo, sentiva di averne bisogno, anche se, probabilmente, si sarebbe trattato di un abbraccio di addio.
Forse, aveva pensato, quella era stata l’occasione data a entrambe per salutarsi come si deve, dando una fine adatta a quell’amicizia che era stata colonna portante delle reciproche vite per più tempo di quanto ricordassero.
Carly gli era mancata, tremendamente, fino a sentirsi incapace di essere ancora se stessa senza di lei e, rivedendola, Sam comprese che, per quanto dolore le avesse causato, mai avrebbe potuto dimenticare gli anni trascorsi a esseci l’una per l’altra, sempre e comunque.
Eppure, il loro rapporto era irrimediabilmente compromesso e, per quanto piacevole fosse quel calore che il semplice saperla lì le provocasse, Sam sapeva di non poter dimenticare, di non voler dimenticare.
Doveva calmarsi, uscire da quella stanza e affrontarli, chiedere loro perché fossero venuti e mandarli via, via dalla sua vita, per sempre.
Poteva farcela, non era sola: Cat e Dylan erano lì per lei.
Come evocata dalla sua mente, la rossa fece il suo ingresso in camera.
- Sam? Che succede?- domandò, tremando come un pulcino bagnato.
Ferma al centro della stanza, Sam incrociò il suo sguardo. – Carly e Freddie sono in cucina.- confessò, in un soffio.
L’espressione di Cat cambiò d’improvviso: le sopracciglia si sollevarono, sorprese, sugli occhi, lo sguardo si fece pensieroso, le labbra si imbronciarono, preoccupate.
- Oh.- disse, mettendosi seduta a testa china. – Loro sono… venuti a prenderti?-
- Prendermi?-
- Sì, insomma… a riportarti a casa?- le chiese, con voce tremante.
Cat, per quanto svampita e strana, conosceva Sam davvero bene e, in cuor suo, sapeva che non avrebbe mai potuto sostituire Carly nel cuore dell’amica, nonostante non dubitasse che Sam le volesse molto bene.
Aveva sempre temuto il giorno in cui Carly si sarebbe resa conto di quanto le mancasse Sam e sarebbe tornata a prenderla, strappandola a lei.
Sam era stata il suo punto di riferimento da quando la nonna era andata in ospizio e l’idea di perderla e restare sola la gettava nel panico, rattristandola tremendamente.
- Cat.- la voce di Sam era dolce, come raramente capitava di udirla. Le mani della bionda si posarono su quella di lei, mentre la ragazza si chinava sul pavimento, per guardarla negli occhi. – Questa è casa mia, adesso.- le disse, abbozzando un sorriso.
Ed era vero, Sam lo sapeva. Los Angeles era diventata casa sua, Cat, Dice, Goomer e Dylan erano la sua famiglia, proprio come, un tempo, lo erano stati Carly, Freddie, Spencer e Gibby.
Non si sarebbe mai sradicata dall’unico posto che era stato in grado di farla sentire al sicuro, da quando aveva lasciato Seattle, e allontanata delle uniche persone che erano stati capaci di entrarle nel cuore, da troppo tempo a quella parte, solo perché il suo cuore era ancora straziato all’idea di perdere per sempre Carly e Freddie.
Aveva chiuso con quella vita, non sarebbe tornata indietro.
- Davvero?-
- Davvero.-
Cat sorrise, abbracciandola di slancio.
- Cat, non stringere! Cat!- sbottò l’altra, impacciata, cercando di scrollarsi l’amica di dosso.
- Sbrigati, allora, andiamo a vedere perché sono qui.- mormorò la ragazza dai capelli rossi.
- Cat!- la fermò Sam, mentre l’altra già era sulla porta. – Devi vestirti!- le disse, scuotendo la testa, rassegnata.
- Oh!-
Cat aprì il suo armadio e ne tirò fuori un abitino blu pastello, poi si rivolse a Sam.
- Dovresti andare in cucina.-
- Da sola? Perché? Non ci penso proprio.-
- Una volta non hai detto che Freddie è l’unico ragazzo che avessi mai amato?-
L’innocenza con cui Cat pronunciò quelle parole colpì Sam come un pugno dritto allo stomaco.
-Volevo farti sentire in colpa.- rispose, mentre un’ondata di nausea le faceva girare la testa.
Non voleva ricordare l’amore per Freddie, non voleva rivivere ogni momento, immensamente felice o tremendamente straziante, vissuto con lui.
- Beh, comunque sia, Dylan non sembra molto contento e, se non ricordo male, il tuo amico Freddie è un tipo ben piantato.- spiegò la ragazza, pensierosa.
- Quindi?-
- Quindi, non credo sia un bene che se ne stiano troppo vicini.-
- Tra me e Dylan non… e poi con Freddie è finita anni fa e… - il balbettio confuso di Sam s’interruppe, penosamente e Cat le lanciò un’occhiata eloquente.
In effetti, se anche a Freddie non fosse interessato assolutamente nulla di lei e della possibile attrazione che sentiva per Dylan, di certo a quest’ultimo non sarebbe sfuggito il fatto che lei si fosse praticamente pietrificata alla vista di Freddie.
Dylan non sapeva molto di Seattle e della sua vita, prima che giungesse a Los Angeles, ma, di certo, immaginava che avesse avuto un ragazzo e, era inutile negarlo, lei gli piaceva, come dimostravano quei piccoli gesti che la mettevano tanto in imbarazzo.
In definitiva, quindi, dato il carattere impulsivo di Dylan, il suo essere un ex-lottatore e la sconfinata capacità di Freddie di dare sui nervi, era il caso che tornasse in salotto, decise.
- Datti una mossa, caramellina, non devi andare a una cena di gala!-
 
 
Sam raggiunse il salotto con indosso un pantalone della tuta e una maglietta a maniche lunghe verde scuro, i capelli ancora umidi e l’aria di chi non ha davvero idea di cosa dire per smorzare la tensione.
A peggiorare le cose ci pensò il suo stomaco, che, come ogni volta che si sentiva tesa, cominciò a brontolare nervosamente, desideroso di cibo come un poppante col ciuccio.
La prima cosa che notò fu Dylan in cucina, intento a versare il caffè bollente in alcune tazze color arcobaleno – comprate, ovviamente, da Cat – e immediatamente lo raggiunse, consapevole che mettere qualcosa tra sé e i due ospiti – fossero stati migliaia di chilometri sarebbe stato meglio, ma poteva accontentarsi del bancone  - l’avrebbe aiutata a celare il tremito delle mani.
- Beh… - esordì, guardando la ragazza bruna di sfuggita e abbozzando un sorriso. – vedo che avete già sistemato i cappotti.- ironizzò.
- Il tuo amico è stato molto gentile.- rispose Carly, tentando anche lei di sorridere.
- Si chiama Dylan.- fece Sam, voltandosi a guardarlo. – Non ti sei nemmeno presentato?- lo sgridò.
Il ragazzo, portandosi il cucchiaino con cui aveva girato il caffè alle labbra, sorrise, insolente.
- Nessuno ha chiesto il mio nome.- precisò, con un’alzata di spalle. – E, poi, lei non mi piace.- aggiunse, indicando Carly con un gesto del capo.
La ragazza aggrottò le sopracciglia. – Ma se nemmeno mi conosci!- protestò.
- Ignoralo, ha un problema: è idiota.- intervenne Sam, facendo roteare gli occhi al soffitto.
Dylan la colpì alla fronte con l’indice. – E invece no, ho un motivo valido se lei non mi piace.- insistette, afferrando la mano che Sam aveva usato per tirargli uno scappellotto.
- E quale sarebbe?- domandò Carly, incrociando le braccia sul petto e guardandolo, sarcastica.
- Semplice: - fece Dylan, chinandosi sul bancone come se le stesse confidando un segreto. – sei arrivata e hai spedito Sam a vestirsi, ti sembra un comportamento amichevole? Non si fa così.- finse di scuotere la testa, deluso.
Carly non poté fare a meno di ridere e Sam arrossì bruscamente, colpendolo al fianco con un pugno e strappandogli di mano la tazza di caffè. – Bennett, mi stai dando sui nervi. Vedi di stare zitto, se non hai nulla di interessante da dire!- lo rimbeccò, sorseggiando la bevanda.
Gli occhi le volarono, involontariamente, a Freddie che, appollaiato sullo sgabello, fissava entrambi con aria imperturbabile.
Dylan si schiarì la voce e Sam, sbuffando, lo guardò di traverso. – Cosa c’è, adesso?- chiese.
- Dato che ci tieni tanto alle presentazioni, perché non mi illumini?- rispose il ragazzo.
Sam assottigliò lo sguardo. – Abiti sempre al sesto piano?- chiese.
- Sempre.-
- Buono a sapersi.-
Dylan rise e porse la mano a Carly. – Se dovessero trovarmi morto, tu potrai dire alla polizia chi mi ha fatto fuori.- disse alla bruna. – Piacere di conoscerti.- aggiunse.
- Lei è Carly.- si affrettò a dire Sam.
Gli occhi di Dylan si posarono su Freddie e il ragazzo tese la mano anche a lui, sollevando le sopracciglia, in attesa, insolente; con lentezza estenuante, l’altro l’afferrò e la strinse, probabilmente con più forza di quanto occorresse e entrambi si fissarono per qualche momento.
- Lui è Freddie.- aggiunse Sam, in un soffio, captando la tensione nell’aria.
Anche Carly parve accorgersi di quel silenzio teso e, per spezzarlo, si rivolse a Sam.
- Hai una coinquilina, vero?- chiese.
Sam annuì. – Cat, è in camera a vestirsi e si sarà incastrata nel vestito, come al solito.- rispose.
Come evocata, la ragazza dai capelli rossi comparve in salotto, correndo e, per un soffio, non inciampò sullo scalino.
- Eccomi, dannatissima chiusura lampo!- esclamò, raggiungendo il gruppetto.
Cat si fermò di fronte a Freddie, sorridendo. – Ciao, è bello rivederti!- disse, abbracciandolo leggera.
- Grazie, come stai, Cat?- domandò lui.
- Molto bene, anche se quando piove ho sempre paura che un fulmine possa colpire l’antenna sul tetto.- rispose, allarmata.
Dylan ridacchiò, facendo il giro del bancone e, raggiunta la ragazza, le posò un braccio sulle spalle. – Tranquilla, Cat, ne abbiamo già parlato, ricordi?- le chiese.
Lei annuì. – Sì: a casa siamo al sicuro.- rispose, ripetendo come fosse una filastrocca.
- Dylan, lasciala in pace.- intervenne Sam, divertita. – Cat, ti presento Carly, Carly, la mia amica Cat.- aggiunse, indicando prima l’una poi l’altra.
La ragazza dai capelli rossi guardò, per la prima volta da quando era giunta in soggiorno, la bruna, osservandola attentamente e rammentando a se stessa che non doveva essere gelosa di lei o aver paura che volesse rubarle Sam.
Le tese la mano, incerta. – Piacere di conoscerti.- disse, in tono troppo serio per apparire disinvolta.
Carly annuì, tentando un sorriso. – Piacere mio, Cat, complimenti, questa casa è bellissima.-
Cat piegò di lato la testa in un moto infantile e gioioso. – Oh, lo so! E’ tutta opera di Sam!- esclamò, raggiungendo la bionda dietro il bancone e abbracciandola di slancio.
- Non so come ci sia riuscita, ma tutti i mobili arrivano dal set di “Travestiti”, il mio show preferito!- spiegò, euforica.
Sam, imbarazzata, sorrise. – E’ anche merito di Dice: ha rischiato di finire in cella.- disse.
- Potere delle coinquiline?- fece Cat.
- Non ci pensare nemmeno.-
- Perché non venite a sedervi qui? E’ più comodo.- s’intromise Dylan, adagiato sul divano.
- Oh, sì accomodatevi!- esclamò Cat. – Io preparo dei muffin per tutti.- aggiunse.
- Non vorremo disturbare, - disse Carly. – non sappiamo che piani avevate per la serata, volevamo solo parlare con Sam.- spiegò.
- Tu e Dylan non dovevate uscire?- domandò la ragazza dai capelli rossi, piegata sotto al bancone.
- Non è il caso, rimanderemo, ci sono ospiti.- rispose.
- Sono più tranquilla, allora.- sospirò Cat. – Non mi piace che usciate in moto quando piove così tanto, è da irresponsabili!- decretò, riemergendo rossa in viso per la fatica.
Dylan sorrise, angelico. – Ti ho fatto una promessa, Cat e, difatti, sono venuto in macchina.-
- Sì, d’accordo, Bennett, vincerai il premio di “idiota dell’anno”.- s’intromise Sam, diretta al divano.
-  Non preoccupatevi, fanno sempre così. Andate, forza.- disse Cat, rivolta a Freddie e Carly, che osservavano i due intenti a discutere.
- A quanti premi sono?- stava chiedendo Dylan.
- Ho perso il conto, ormai.-
- Sam, davvero, non c’è bisogno che cambi i tuoi programmi per noi.- intervenne Carly, sedutasi sulla poltrona alla sinistra del divano; Freddie fece lo stesso, sulla poltrona a destra.
Dylan distese le braccia sulla spalliera e afferrò il telefono sul ripiano dietro di lui.
- Ordiniamo la cena, che ne pensi?- chiese a Sam.
- Certo. Carly, sul serio, non è un problema; fermatevi a cena, è tardi ormai. - disse.
- D’accordo, allora.-
Il ragazzo telefonò alla pizzeria preferita di Sam e ordinò pizza per tutti, mentre Sam e Carly tentavano di fare conversazione, imbarazzate.
Sam si era resa conto, quando aveva visto Cat abbracciare Freddie, che, da quando era arrivato, non si erano salutati né rivolti la parola.
Si sentiva tremendamente a disagio e non voleva che lui credesse che fosse arrabbiata o gli serbasse rancore, soprattutto non voleva che Freddie credesse che lei fosse ancora innamorata di lui, così si impose di rivolgergli la parola alla prima occasione.
- Come siete arrivati?- domandò, tirando le gambe sul divano.
- In macchina, siamo partiti ieri notte.- spiegò Carly.
 Sam sgranò gli occhi. – Da Seattle?! Saranno almeno diciotto ore di viaggio!- esclamò.
- Diciotto e quaranta minuti.- sorrise Carly, annuendo.
- E quale macchina avete usato?-
- Quella di Freddie.-
Sam si volse a guardare il ragazzo che, istintivamente, incrociò gli occhi di lei.
- Hai una macchina, Benson?- domandò.
Tutti gli occhi si puntarono su di loro e la tensione nell’aria divenne palpabile.
Lui, dopo un istante infinito, annuì. – L’ho comprata qualche settimana fa da un amico di T-bo.- rispose.
- Beh, congratulazioni.-
- Grazie.-
- Come sta Spencer?- domandò Sam, tornando a rivolgersi a Carly.
La ragazza sorrise. – E’ eccitatissimo per la Mostra, non fa che parlarne, in effetti è ossessionato.- rise.
- Già, ci credo. E Gibby?-
- Ha trovato lavoro al Pear Store ed è dimagrito tantissimo, dovresti vederlo!-
- Cavoli.-
- Già.-
Di nuovo, il silenzio calò nella stanza, dato che nessuna delle due ragazze sembrava trovare il coraggio di porre all’altra le domande che più stavano al cuore ad entrambe.
In sottofondo, la vocetta di Cat che canticchiava una canzone sullo zucchero filato era l’unico rumore udibile, misto allo scroscio della pioggia.
Dylan, seduto accanto a Sam, poteva percepire perfettamente il nervosismo di lei e si sentiva impotente, incapace di aiutarla; avrebbe voluto afferrarle le mani e dirle che sarebbe andato tutto bene, ma aveva la sensazione che tra lei e quel tipo tutto muscoli vi fosse o vi fosse stato qualcosa in passato e che a lei avrebbe dato particolarmente fastidio mostrarsi bisognosa di conforto di fronte a lui.
Così, il ragazzo si accontentò di passare un braccio attorno alla ragazza e lasciar cadere, casualmente, la mano sul suo fianco, possessivo; si accorse che quel Freddie aveva seguito tutto il movimento con attenzione e, quando sollevò i suoi occhi in quelli di Dylan, questi lo fissò imperturbabile.
Sam, compreso ciò che Dylan stava cercando di comunicarle in quel gesto, sospirò, trattenendo, al contempo, un sorriso e un ceffone e, cercando di mostrarsi tranquilla, gli batté un buffetto sul petto.
In quel momento, Cat li raggiunse, sedendosi accanto a Sam. – I muffin sono in forno.- sorrise.
- Sam, dovresti asciugare i capelli.- aggiunse, aggrottando le sopracciglia.
- Eccola che ricomincia.- borbottò Sam, facendo ridere Dylan e offendere Cat.
- Ti prenderai un raffreddore! E tu, Dylan, smetti di ridere; sembrate due bambini.- li sgridò.
Entrambi risero di gusto, scuotendo la testa e guardandola con affetto.
- Oh, andiamo, non essere arrabbiata.- la sgomitò Sam, mentre Dylan allungava la mano oltre la testa della bionda per scompigliarle i capelli.
Cat sorrise, sbuffando. – Va bene, va bene, smettetela!- esclamò.
 
 
Carly, imbarazzata, osservava i tre ragazzi giocare con la familiare intimità che, un tempo, era appartenuta a lei, Sam e Freddie.
Si sentiva terribilmente a disagio, come se avesse imposto la sua presenza in un gruppo di persone che si conosceva da una vita, a starsene lì, in silenzio, così vicina eppure tanto distante da quella che, una volta, era stata la sua migliore amica, sua sorella.
Non avrebbe mai pensato di diventare un ospito sgradito e invadente, per Sam, e, invece, eccola lì, a rubare il suo tempo, a tenderle un’imboscata, a costringerla a sopportare la sua presenza.
Osservava il modo in cui il suo sguardo glaciale si addolciva, posandosi sulla ragazza dai capelli rossi che si era presentata come “Cat” e una morsa di dolore, rimorso e nostalgia le stringeva il cuore; era evidente che Sam le voleva molto bene e che aveva bisogno di lei, sebbene fossero molto diverse.
Nel corso della serata, Carly comprese che Cat era una ragazza decisamente svampita, perennemente sulle nuvole, dolce e innocente, ingenua all’inverosimile e, al contrario di come si sarebbe aspettata, sembrava che Sam non fosse in grado di irritarsi con lei – o almeno non quanto avrebbe immaginato.
Era come se la dolcezza di Cat, il suo bisogno di essere difesa e protetta, avessero scatenato in Sam un istinto più forte dell’impulsività caratteriale, che la spingeva a sopportare e sospirare, invece che strangolarla.
Il modo in cui Cat si teneva vicina a Sam, la spingeva a domandarsi se avesse fatto bene ad andare a Los Angeles, dato che la sua amica sembrava aver trovato una famiglia che le voleva un gran bene e si preoccupava sinceramente per lei.
Forse era stata egoista, aveva pensato solo a se stessa, ignorando il fatto che Sam avrebbe potuto essere felice anche senza di loro.
Carly era stupita e confusa, sorpresa nel trovare una Sam sempre uguale, in fatto di atteggiamenti, risposte acide e sarcastiche, comportamento violento, eppure più matura, diversa, più riflessiva di un tempo.
Certo, la bruna non credeva che Sam sarebbe diventata una signora a modo, ma di certo non era più paragonabile alla ragazzina bionda che si levigava i talloni sul divano del suo salotto.
Probabilmente, la presenza di quel Dylan era uno dei motivi per cui Sam sembrava tanto nervosa – coadiuvata dal loro arrivo, ovviamente – e a Carly non era sfuggito, fin dal primo istante, il modo in cui lui la guardava: era evidente che ne fosse attratto e, di certo, tenesse a lei molto più di quanto ostentasse.
E, del resto, Sam sembrava completamente a suo agio con lui, come se fosse la persona di cui più si fidava al mondo, in quel momento e, involontariamente, aveva continuato a lanciargli occhiate e sfiorarlo, come in cerca di rassicurazione, per tutta la sera.
Spesso, Carly aveva osservato Freddie, cercando di capire se quella vicinanza suscitasse in lui un qualche tipo di rabbia o gelosia, ma la scherma aveva fornito al suo amico una sorta di scudo che rendeva i suoi sentimenti e pensieri indecifrabili per chiunque.
Solo in rari momenti, quando la concentrazione del ragazzo non era al massimo, Carly era riuscita a scorgere, per un attimo, l’amarezza e qualcos’altro negli occhi bruni e cupi.
Il campanello suonò e Dylan lasciò il divano per prendere le pizze, rifiutando di lasciar pagare Freddie o Carly stessa.
Mangiarono chiacchierando del più e del meno, con Carly e Freddie che rispondevano alle domande strane di Cat e Dylan e Sam che si sfidavano a chi mangiava più pizza.
Almeno, constatò Carly, con un sorriso, l’appetito di Sam era rimasto lo stesso.
Quando, esausti e sazi, deposero le posate, era ormai tarda sera.
- Sparecchio.- saltò su Cat, piena di energie.
- Ti aiuto.- decretò Dylan, sorprendentemente; Sam, infatti, gli posò una mano sulla fronte.
- Stai male?- chiese, ironica.
Lui le morse, giocoso, un dito, alzandosi.
Carly comprese che volesse dare a tutti e tre un momento da soli e gliene fu segretamente grata.
Qualche minuto dopo lui e Cat erano in cucina a fare un fracasso incredibile, mentre riempivano la lavastoviglie.
Rimasti soli, i tre ragazzi tennero gli occhi bassi, impacciati e straniti all’idea di essere nuovamente tutti assieme.
- Com’era l’Italia?- domandò, d’improvviso, Sam, senza sollevare lo sguardo dalla pallina morbida con cui stava giocando.
Carly sospirò. – Molto bella, ma non è Seattle.- rispose, sincera e piena di nostalgia.
Gli occhi di Sam scattarono nei suoi ed entrambe scorsero le lacrime che riempivano lo sguardo dell’altra.
Carly avrebbe desiderato, più di ogni altra cosa al mondo, alzarsi dalla poltrona, fiondarsi su Sam e stringerla forte, chiederle scusa per averla abbandonata, essere sparita e non aver dato importanza alla sua presenza nella propria vita, per averla fatta soffrire due volte, distruggendo la loro amicizia e portando via Freddie, confondendo la nostalgia con l’amore, ma sapeva bene di non poterlo fare.
Sebbene, di fatti, le lacrime della bionda significavano che non era indifferente alla sua presenza, Carly si accorse che c’era come un muro, attorno a lei, una sorta di barriera eretta da Sam per tenere fuori loro.
Non che li trattasse con freddezza o astio, semplicemente era molto distaccata, come se fossero semplici conoscenti trovatisi per caso a rincontrarsi dopo molto tempo.
Carly si rese conto, in quel momento, di quanto fossero stati lunghi quei due anni e di quanto la lontananza le avesse spinte sempre più distanti l’una dall’altra, trascinando anche Freddie in quel vortice di perdite e sofferenze.
Quando parlò nuovamente, le lacrime negli occhi di Sam erano scomparse.
- Perché siete qui?- chiese, neutra.
Freddie, che era rimasto sempre in silenzio fino a quel momento, alzò un sopracciglio, sprezzante.- Chiedilo a lei.- sbottò, poggiandosi contro la spalliera. – Io non volevo venire.- aggiunse, fissando il suo sguardo in quello della bionda.
Sam, di tutta risposta, lo ignorò, suscitando un certo sgomento in entrambi e tornò a guardare Carly, in attesa di una risposta.
- Sam, per favore, per favore, vieni alla Mostra di Spencer.- sussurrò questa, sedendosi sulla punta della poltrona, in modo da potersi sporgere verso l’altra.
Sam sospirò. – Mi spiace, Carly, non posso proprio.- rispose.
- Si tratta solo di una sera, per Spencer è molto importante, ci tiene così tanto al fatto che tu venga e… anche io, anche io vorrei che tu venissi.- aggiunse, chinando lo sguardo.
- Mi spiace che abbiate fatto un viaggio a vuoto, davvero, ma non posso.- ripeté lei.
- Perché?- domandò Carly, frustrata, avvampando.
- Ho un corso.-
- E’ di Domenica, Sam.-
Le due si soppesarono con lo sguardo per un momento, poi la bionda fece una smorfia, scocciata. – D’accordo: non voglio venire.- disse, infine, alzando le mani in un gesto eloquente.
Carly sospirò, mordendosi le labbra. – Sam.- mormorò. – Ti prego, non perderti il grande momento di Spencer, perché sei arrabbiata con me.- la implorò.
L’altra aggrottò le sopracciglia. – Non sono arrabbiata con te.- disse, sincera, alzando le spalle in un gesto indifferente. – E’ che non voglio tornare a Seattle, sto bene qui.- aggiunse.
- Non è per sempre, solo per una sera.- insistette Carly. – Tutti sentono la tua mancanza… non è giusto, Sam: quella è anche casa tua.- la voce le si era spezzata.
Freddie, nervoso, stringeva convulsamente i pugni sui braccioli della poltrona.
Sam sollevò lo sguardo triste su Carly, addolorata di dover pronunciare quelle parole, sapendo quanto l’avrebbero fatta soffrire. – Questa è casa mia, Carly.- sorrise, stringendosi nelle piccole spalle.
 
 
Un singhiozzo scosse Carly e, sebbene si fosse affretta ad asciugare la lacrima che le era scivolata lungo una guancia, Freddie si alzò, raggiungendola e appoggiandosi al bracciolo della poltrona.
- Ehi.- mormorò, posandole una mano sulle spalle. – Tranquilla.- aggiunse.
Carly annuì, tentando di sorridere. – E’ tutto okay.- disse.
Sam, incapace di muoversi, assisteva alla scena come se non si trovasse lì, in quel momento, quasi estranea al suo corpo, che aveva smesso di percepire.
Una cosa, difatti, era sapere che tra Freddie e Carly c’era stata una storia, che erano stati insieme, si erano amati e, probabilmente, si amavano ancora, un’altra, era ritrovarseli così, vicini, a sostenersi a vicenda, nel suo salotto.
Il cuore della ragazza, gelido nel petto, era compresso in una morsa violenta e un nodo alla gola le faceva pizzicare il naso di lacrime.
Si impose di restare tranquilla e non lasciare che loro si accorgessero di quanto le facesse male assistere a quella scena: ostentavano il fatto di esserci ancora, l’uno per l’altra, ostentavano quel legame che, un tempo, era stato anche suo e a cui loro avevano rinunciato, calpestandolo.
Cosa credevano? Che sarebbe partita così, solo perché avevano viaggiato per invitarla di persona?
Certo, diciotto ore di viaggio non erano poche, questo doveva concederlo, eppure non riusciva a sopportare l’idea di tornare in quella città che era impregnata di ricordi e che l’avrebbe fatta sentire un’estranea, più di quanto non fosse in quel momento.
Lo sguardo implorante di Carly tornò su di lei e così quello cupo di Freddie, che lei sostenne con decisione.
Proprio mentre la bruna accennava a prendere ancora la parola, la voce di Dylan la bloccò.
- Sam?- la chiamò dalla cucina.
Sinceramente grata al ragazzo, la bionda si alzò e lo raggiunse. – Dov’è Cat?- domandò, guardandosi attorno.
- Nel ripostiglio, cerca il detersivo.- rispose Dylan, poggiato contro il lavello e intento a fissarla a braccia conserte.
- Che c’è?-
Lui alzò un sopracciglio in un’espressione scocciata. – Non credi sia arrivato il momento per un rapido aggiornamento?- le chiese, riferendosi ai due ragazzi in salotto, intenti a osservarli.
Sam gettò il capo all’indietro, posando i gomiti sul bancone. – Non ti devo spiegazioni.- disse, acida.
Dylan assottigliò lo sguardo, irritato e accennò a rispondere in modo brusco, ma, incrociando lo sguardo tormentato della ragazza, sospirò, passandosi una mano sul viso e facendo qualche passo per raggiungerla.
Sollevò una mano a sfiorarle i capelli e, subito dopo, l’afferrò per un polso, attirandola a sé e abbracciandola forte, tanto forte da impedirle qualsiasi ribellione, senza rendersi conto che, quella volta, Sam non si sarebbe ribellata affatto.
La ragazza aveva davvero bisogno di sentirsi, per un momento, al sicuro, nascosta agli sguardi delle persone che aveva creduto di non rivedere mai più e con le quali aveva tagliato ogni ponte.
Aggrappata alla schiena di Dylan, con gli occhi serrati e il cuore in tumulto, si decise a parlare.
- Lei era la mia migliore amica, più di una sorella, la famiglia che mi è sempre mancata e di cui avevo bisogno. Lui era il mio ragazzo, il primo e unico di cui mi sia innamorata e che abbia mai amato e che, ovviamente, detestavo. Lui era innamorato di lei fin dall’inizio, ma… credevo… sono stata stupida. Lei è partita per due anni e abbiamo smesso di sentirci, è sparita… e lui, poi, l’ha seguita per stare con lei. Nessuno dei due mi ha mai detto niente.- raccontò, in un soffio.
Dylan, col mento poggiato sui suoi capelli, annuì solamente, senza pronunciar parola, sollevando gli occhi incandescenti sul ragazzo che, nel mezzo del salotto, lo guardava con un odio gemello nello sguardo.
- Perché sono venuti?- domandò a Sam, senza smettere di abbracciarla.
- Il fratello di Carly ha vinto un concorso e gli faranno tenere una Mostra nel Museo della città. Mi ha invitata ma ho detto di no, speravano di convincermi.- rispose, sospirando e separandosi da lui.
Dylan la lasciò andare a malincuore. – Tu vuoi andarci?- le chiese.
Sam si morse le labbra. – Voglio bene a Spencer, è stato un fratello maggiore per me, ma… -
- Certo, capisco.- commentò Dylan, osservando i due in soggiorno. – Lei mi sembra davvero a pezzi.- aggiunse, assorto.
Sam aggrottò la fronte. – Come?- fece.
Dylan sospirò, guardandola. – Sam, hanno fatto un lungo viaggio, di notte, sotto la pioggia. Quel tipo non mi piace affatto, ma la tua amica sembra davvero distrutta. E’ evidente.- disse.
Sam chinò lo sguardo. – Non riesco a dimenticare.- mormorò.
- Non sei costretta a farlo. La Mostra durerà un paio d’ore, ci sarà molta gente e non sarai costretta a stare con loro, se non vorrai.- le spiegò. – Se davvero vuoi andarci, se senti di doverlo fare per quel tipo, Spencer, allora non pensare a loro e al passato. Non sei tu che mi hai fatto la paternale sugli errori?- sorrise, prendendola in giro.
- E tu non mi hai ascoltata.-
- E’ diverso.-
- Certo, come no.-
Dylan si passò una mano tra i capelli scuri. – Io ci andrei, anche solo per non dar loro la soddisfazione di crederti incollerita.- disse.
Nemmeno a lui piaceva l’idea che Sam passasse del tempo con quel tipo, Freddie, che, adesso che aveva saputo essere l’ex di Sam, detestava profondamente, ma, al contempo, si rendeva conto di quanto alla ragazza servisse superare gli ultimi due anni e andare oltre.
Se non avesse messo un punto a quella storia, alla sua vecchia vita, non avrebbe mai potuto continuare per la sua strada, non sarebbe mai stata capace di fidarsi davvero di qualcuno, ancora.
Ci teneva a lei e voleva saperla felice e non guardarla e sapere che, addosso, si portava il fantasma di una vita passata, di amicizie in frantumi e ferite mai sanate.
Un tonfo preoccupante giunse dal ripostiglio e Sam sussultò al gridolino di Cat.
Sia lei che Dylan si precipitarono alla porta. – Cat? Che hai combinato?- urlò Sam, cercando di aprirla.
- Credo sia caduto uno scaffale.- rispose, allarmata, l’altra. – La porta è bloccata.- aggiunse, battendovi sopra. – Sam? Fammi uscire!- piagnucolò.
La bionda tentò di spostare la tegola dello scaffale spingendo la porta con forza, arrivando perfino a tirarvi un paio di calci. – Maledizione!- sbottò. – Cat, stai bene?- chiese.
- Sì, ma devo avere un bernoccolo in testa e… oh, Sam, non trovo l’interruttore della luce, mi sento male… - fece, isterica, l’altra.
- Cat, non svenire!-
Dylan scansò Sam, cercando di spingere la porta con una spallata. – Lo scaffale è di traverso, credo urti al mobiletto, non c’è modo di aprirla, se non lo sposta.- decretò.
- Sam! Fammi uscire!-
- Cat, tranquilla, ora ti tiriamo fuori.- la rassicurò, guardando Dylan.
- Cat, riesci a spostare lo scaffale?- le domandò il ragazzo.
Una serie di gemiti accompagnarono lo sforzo della rossa, seguiti da un sospiro. – No! Non vedo niente!- esclamò.
Anche Carly e Sam si erano alzati, raggiungendoli. – Possiamo scardinare la porta.- disse Freddie, studiandone le cerniere.
- Quanto ci vorrà?- domandò Sam.
- Venti minuti, dipende da quanto sono arrugginiti e vecchi i cardini.- rispose lui, senza guardarla.
- Sam!- piagnucolò Cat.
- Oh, lascia perdere!- sbottò Sam. – Non resisterà venti minuti là dentro e si farà venire una crisi isterica, ferendosi o svenendo come una pera cotta.- aggiunse, avviandosi verso la porta.
- Dove vai?- domandò Carly.
- C’è una finestrella, nel ripostiglio, che da sul vialetto.- rispose, infilando il giubbotto.
- Sam?! – un secondo tonfo rimbombò nella stanza.
- Provo a entrare da lì.- disse Sam, dando loro le spalle.
- Tu non vai da nessuna parte.- intervenne Dylan, afferrandola per un braccio. – Sta diluviando.- aggiunse, furente.
- E’ solo acqua!- esclamò, irritata, lei.
- Sam… -
- Dacci un taglio, Bennett!-
- Ci vado io, d’accordo? Resta qui.- sbottò lui, uscendo prima che lei avesse il tempo di ribattere. Sam gettò le braccia al cielo, rabbiosa. – Bennett!- gridò.
Carly affiancò la bionda. – Sam, non preoccuparti.- mormorò.
- Non ci passa, lui, dalla finestrella! Idiota! Restate qui, accertatevi che Cat non combini altri disastri, lì dentro.- disse a entrambi, uscendo sotto il  diluvio, al seguito di Dylan.
Freddie e Carly si scambiarono un’occhiata, turbati.
 

Quando, cinque minuti dopo, Sam e Cat uscirono dallo stanzino, una bagnata fradicia e l’altra con un bernoccolo proprio all’altezza della fronte, entrambe si lasciarono cadere sul divano, sfinite.
Dylan rientrò in quel momento, zuppo d’acqua e irritato per non essere riuscito a convincere Sam a tornare in casa – anche se, obbiettivamente, non sarebbe passato da quella finestrella  - e si passò una mano tra i capelli scuri che gli si erano appiccicati alla fronte.
- Ragazzi, che paura!- esclamò Cat, con una mano sul petto. – La luce si è spenta e non ho capito più nulla.- aggiunse.
In effetti, la lampadina del ripostiglio si era fulminata. – Domani sostituirò la lampadina.- sospirò Sam, sorridendo.
- Dovreste andare ad asciugarvi.- disse la ragazza dai capelli rossi agli altri due.
- Già, muoviti, ragazzina, dobbiamo fare due chiacchiere.- borbottò Dylan, incamminandosi verso il bagno, seguito da una Sam divertita e scocciata al contempo. 
- Quanto la fai lunga, Bennett… - le sentirono dire, prima che il rumore del phon coprisse le loro voci.
- Dovremmo andare.- mormorò Carly a Freddie; erano entrambi seduti sulla poltrona alla sinistra del divano, lui sul bracciolo.
Il ragazzo annuì, mentre Cat li osservava, confusa. – Andare? Dove? Sta diluviando.-
- Torniamo a casa, direi. – rispose, rassegnata, Carly.
- A Seattle? Non dovreste viaggiare di notte, con questo tempo. E, poi, come mai siete venuti?- domandò loro, resasi conto di non sapere assolutamente il motivo di quella visita.
Ancora una volta fu Carly a rispondere, alzando le spalle. – Mio fratello dà una Mostra, Domenica e vorrebbe che Sam partecipasse, ma lei non può. I biglietti sono limitati e aveva invitato anche te.- le spiegò, tentando di sorridere.
Cat si illuminò. – Oh, che meraviglia! E’ un pensiero davvero gentile, congratulazioni.-
- Grazie.-
- Com’è possibile che Sam abbia detto di no? E’ strano.- commentò, poi, sfiorandosi il bernoccolo con le dita e gemendo di dolore. – Che botta, ragazzi.- mormorò.
In quel momento Sam e Dylan riemersero dal bagno, spintonandosi.
- Che brutto bernoccolo.- fece la bionda, lasciandosi cadere pesantemente accanto all’amica.
- Molte grazie!-
Sam rise. – Si intona alla gonna rosa, quella larga quanto la testa di Goo.- scherzò.
- Non sei divertente.- rispose Cat, facendole una linguaccia. – Sam, Carly mi ha detto che suo fratello ti ha invitato ad una mostra e che ha invitato anche me. Perché non vuoi andarci? E’ un’idea bellissima.- le domandò, facendo calare un silenzio teso nella stanza.
Sam sospirò, lanciando uno sguardo a Dylan che le sorrise, strizzandole l’occhio.
- Forse hai ragione.- mormorò.
In fondo, Dylan non aveva torto: perché avrebbe dovuto rinunciare a trascorrere una serata con Spencer e Gibby solo a causa di Carly e Freddie?
Non andando, avrebbe dimostrato di essere ancora arrabbiata con loro e non voleva che lo pensassero.
Carly, speranzosa e stupita, la guardò. – Davvero?- fece.
Sam annuì. – Si tratta di una sera soltanto, no?- disse.
- Sì, una sera soltanto. – il tono triste di Carly non le sfuggì.
- D’accordo, verrò. – sorrise Sam, alla fine, guardando Cat. – Anzi, verremo.- si corresse.
Cat, però, assunse un’espressione dispiaciuta. – Ehm… - fece.
- Cosa?- esclamò Sam.
- Io non posso, mi spiace.- mormorò.
- Che significa che non puoi?!-
- Devo tenere Caroline e le cugine domani sera e Domenica pomeriggio Dice mi ha chiesto di badare a Goomer mentre è con sua madre da qualche parte fuori Los Angeles.- spiegò.
- Ringrazia molto tuo fratello, Carly.- aggiunse, sorridendo.
- Allora non vado nemmeno io.- decretò Sam, incrociando le braccia sul petto.
- Sam!- esclamò Cat.
- Non voglio andare da sola.- protestò lei.
- Dylan, perché non la accompagni tu?- propose Cat, rivolgendosi al ragazzo.
Lui si grattò la testa, alzando le spalle. – Se a lei sta bene.- disse.
Sam, avvampando, si strinse nelle spalle. – E’ un problema per te?- chiese a Carly.
La ragazza, sorridendo, scosse la testa. – Assolutamente.- rispose.
- D’accordo, allora. Cat, sicura di non avere problemi a stare da sola?- domandò all’amica.
- E’ solo per un paio di giorni, no?- la spintonò lei.
Sam annuì, sorridendo. – Promesso.- disse. – Perché non vai a mettere il pigiama? E’ tardi.- indicò l’orologio che segnava quasi mezzanotte.
- Sì, sono stanchissima.- ammise Cat, sbadigliando e alzandosi. – Buonanotte a tutti.- borbottò, diretta in camera da letto. Dylan le scompigliò i capelli, quando gli passò accanto.
Carly e Freddie la imitarono. – Andiamo anche noi, ci dispiace di avervi fatto tardare.- disse Carly.- Sam, partiamo domattina presto, per le cinque. Passiamo a prenderti.- aggiunse.
- Dove andate?- domandò Sam.
- Prendiamo una stanza da qualche parte, non preoccuparti.- mormorò.
Freddie annuì, già diretto alla porta.
- Sam, abbiamo una stanza libera.- le urlò Cat dalla loro stanza.
Sam abbozzò un sorriso. – E’ vero, abbiamo un’altra stanza, ha un solo letto, ma il divano è comodo.- disse.
- No, non preoccuparti, davvero.-
- Carly, sta diluviando, è tardi e per trovare un albergo dovrete uscire dalla zona residenziale. Non è un problema, sul serio.- fece Sam, decisa.
Carly la guardò, titubante, volgendosi poi a fissare Freddie, nervoso e irritato.
- Sicura?-
- Sicura. –
- D’accordo, allora, grazie. Freddie, prendiamo le borse dall’auto?- chiese all’amico.
Lui scosse il capo, avviandosi alla porta senza dire niente.
- Dylan, lo aiuti, per favore?- domandò Sam.
L’altro si alzò dal divano e lo seguì fuori.
Rimaste sole, le due ragazze si scambiarono uno sguardo, poi Carly si sporse ad abbracciare l’amica, stringendola forte.
Sam, impacciata, cercò di non apparire fredda e di rispondere all’abbraccio come poteva.
- Grazie.- le mormorò Carly.
 
 
 
I ragazzi rientrarono in quel momento, zuppi e solo Freddie aveva le due borse in mano.
Sam aggrottò le sopracciglia, curiosa e Dylan alzò le spalle, allargando le braccia e scuotendo la testa: l’altro non aveva voluto il suo aiuto.
Freddie era furioso con Carly, perché aveva accettato di restare a dormire lì e con Sam, che aveva accettato di seguirli a Seattle.
Era come se, più lui cercasse di stare lontano da Sam, più l’universo si mettesse all’opera per scagliarla contro di lui come un meteorite.
La bionda indicò a Carly la camera da letto. – E’ tutto in ordine, se dovessi aver freddo ci sono delle coperte nell’armadio.- le spiegò.
- Freddie, vuoi… ?- mormorò Carly e lui scosse il capo. – Io prendo il divano.- rispose.
La ragazza annuì, incamminandosi in camera con la valigia.
- Prendo degli asciugamani per Dylan e poi ti lascio il bagno, Freddie, così puoi toglierti quei vestiti bagnati.- gli disse Sam, sparendo oltre la soglia.
Quando uscì, il ragazzo afferrò la sacca ed entrò in bagno, chiudendo la porta con una spinta irritata.
Si tolse la felpa e i jeans, gettando tutto in una busta che sigillò e, infilatosi sotto il getto caldo, poggiò la fronte contro le piastrelle, chiudendo gli occhi.
Dannazione, dannazione, dannazione!
Si era lasciato convincere da Carly ad andare a Los Angeles, consapevole di quanto stupida fosse quell’idea, e, adesso, eccolo lì, immerso nel peggiore degli incubi.
Non solo rivedere Sam era stato doloroso, amaro, come il profumo di casa che non riesci più a trovare da nessuna parte che, per un istante, ti passa sotto il naso, riempendoti di nostalgia e rimpianti, ma, per di più, aveva dovuto incontrare quel tipo, Dylan.
Freddie si sorprese a scoprire di non aver mai immaginato Sam con qualcun altro, non aveva mai pensato che avrebbe potuto interessarsi a qualcuno o legare così tanto con un ragazzo.
Era sempre stata Carly, delle due, a circondarsi di ragazzi e uscire spesso, mentre Sam, fatta eccezione per un paio di tipi, non si era mai interessata granché a quelle cose, fino a quando non si erano messi insieme.
A Freddie non era sfuggita la complicità che Sam e Dylan avevano, quel cercarsi, sfiorarsi casualmente, quasi involontariamente, l’essere calamitati l’uno verso l’altra, il comprendersi con lo sguardo, e a ogni loro sorriso era stato come avere un coltello piantato nel petto.
Certo, in passato era stato geloso di Sam, ma quello non aveva solo a che fare con la gelosia, Freddie lo sapeva bene: era come se quel tipo avesse preso il suo posto, scacciandolo via dal cuore e dalla mente di Sam.
Il loro battibeccare, i piccoli litigi, le discussioni, le battute acide, perfino il picchiarsi per gioco, erano cose che, una volta, Sam aveva condiviso con lui e vederla così attratta da Dylan, vedere quanto lui le fosse legato, quanto facilmente lei aveva lasciato che qualcuno prendesse il posto che, un tempo, era stato suo, lo mandava su tutte le furie e gli stritolava ferocemente il cuore.
Dannazione, solo dieci mesi prima ogni suo sorriso, ogni frase sarcastica, ogni gesto complice era stato per lui e con lui!
Come aveva fatto a dimenticarlo così in fretta?
E lui che si era sentito in colpa, immaginandola a struggersi per la loro storia finita!
Perché era ovvio che a Sam piacesse quel tipo, forse anche troppo.
Glielo leggeva negli occhi, nel modo in cui si tormentava le labbra, mordicchiandole, quando Dylan era volutamente provocatorio, nei lampi di irritazione quando lui la tormentava.
Sam si comportava con quel tipo proprio come, in passato, si era comportata con lui, poco prima che si mettessero insieme.
All’epoca, Freddie, da grande idiota, non aveva capito che quello strano atteggiamento di Sam serviva a celare quelli che erano i suoi sentimenti ma, adesso, a guardarla, si rendeva conto che si stava innamorando di Dylan e la cosa lo faceva sentire malissimo.
E Freddie non se ne spiegava il motivo, dato che lui, solo qualche mese prima, era ancora innamorato di Carly.
Aveva messo una pietra sopra sulla storia con Sam da tempo, più di un anno prima, a causa del loro essere così diversi, opposti; allora perché, adesso, a scoprirla innamorata di qualcun altro si sentiva ardere di rabbia?
Non voleva più pensare, non voleva pensare a lei.
Batté un pugno sulle piastrelle e si affrettò a insaponarsi alla meglio, uscendo e asciugandosi alla svelta; indossò i pantaloni della tuta e una felpa, mise tutto in ordine e uscì, intento a tamponarsi i capelli bagnati con un asciugamani.
Carly aspettava lì fuori, con il necessario per la toeletta tra le braccia e gli lanciò uno sguardo strano, mentre lo superava.
Freddie raggiunse il salotto, illuminato solo dalla abat-jour sul tavolino alle spalle del divano e scorse Sam in cucina, di spalle, intenta a strofinare un asciugamani sui capelli di Dylan, ridendo, mentre lui le teneva le mani sui fianchi, borbottando chissà cosa.
Era davvero irritante stare lì a guardarli e Freddie sentì montare la rabbia all’idea che, per i due giorni successivi, avrebbe dovuto sopportare spesso viste del genere.
Si schiarì la voce e Sam sussultò, voltandosi di scatto, mentre Dylan riapriva gli occhi.
- Freddie, ti ho preparato il divano.- gli disse la ragazza, raggiungendolo e indicandogli il divano-letto aperto sui cui aveva sistemato delle lenzuola, un cuscino e una coperta pesante.
- Grazie.- si limitò a rispondere lui, evitando il suo sguardo e sedendosi.
- Figurati.-
Lei si voltò, pronta a tornare da quello e, istintivamente, Freddie parlò. – Dovresti andare a dormire, domattina ci metteremo in viaggio all’alba.- fece.
Sam, sorpresa, si volse a guardarlo, curiosa. – Ehm, sì, non preoccuparti.- disse.
Lo sguardo di Freddie fu intercettato da quello di Dylan che si era alzato e aveva preso il giubbotto; a lui, il tono sarcastico, non era sfuggito e la sua espressione era decisamente poco amichevole.
La ragazza, accortasi che l’altro stava preparandosi ad andare via, gli si parò di fronte.
- Dove vai?-
- A casa, è tardi, devi dormire.- rispose lui.
Sam, a disagio a causa della presenza di Freddie, spinse Dylan oltre il bancone, nell’angolo della cucina non visibile dal divano, laddove la luce dell’abat-jour non arrivava.
Nonostante quello spostamento, Freddie poté udire i loro bisbigli e ciò che stavano dicendo.
- Sta piovendo ed è buio pesto.- mormorò.
- Lo so, Sam, non preoccuparti.-
Lei, titubante, indugiò, prima di sospirare. – Resta.- ad occhi bassi.
- Non c’è posto.-
- Dormirò con Cat, puoi prendere il mio letto.-
- Sam… -
- Per favore.-
Lui gettò indietro il capo, passandosi una mano sul viso, poi allargò le braccia, sconfitto.
- D’accordo.- mormorò, gettando le chiavi dell’auto sul ripiano in cucina.
Sam sorrise, sinceramente rincuorata: il mattino dopo, al risveglio, Cat sarebbe stata ancora addormentata e non voleva affrontare Freddie e Carly da sola.
- Nella cassettiera in camera dev’esserci un po’ della roba che dimentichi in giro, come la felpa che mi hai prestato, prendila. Vedo se abbiamo ancora un pantalone della tuta di Goomer, di quando è stato a dormire qui.- gli disse, avviandosi verso la camera di Carly.
Dylan attraversò il salotto, diretto nella stanza di Sam e lui e Freddie si incenerirono reciprocamente con lo sguardo.
Carly uscì dal bagno in quel momento e, passata di fronte a Freddie, gli augurò la buonanotte, facendo lo stesso con Sam, riemersa dall’altra camera con un pantalone blu a motivi infantili tra le mani.
Lo porse a Dylan, ridendo e l’espressione imbronciata di lui fu visibile anche nella penombra.
- Puckett, questa me la paghi.- le disse, entrando in bagno.
Sam rientrò in camera sua e socchiuse la porta, uscendone qualche istante dopo con indosso un pantalone chiaro e largo e una maglietta sformata, che doveva essere appartenuta a un ragazzo – Dylan, sicuramente – e una coperta tra le mani.
Raggiunse Freddie, ancora seduto con i gomiti sulle ginocchia, intento a fissarla.
- Questa la lascio qui, nel caso dovessi aver freddo; la notte qui la temperatura scende molto.- gli disse, impacciata.
Freddie sospirò, passandosi una mano sul viso, colpito da quel gesto premuroso e gentile, dolce, così tipicamente da Sam Puckett: la ragazza, di fatti, aveva l’abitudine di preoccuparsi degli altri proprio quando loro erano furiosi con lei, come se un sesto senso le suggerisse di fare qualcosa di carino senza nemmeno sapere perché, portando così la rabbia di chiunque a scemare.
E, del resto, solo qualcuno senza cuore avrebbe potuto essere sgarbato con quel visetto dall’espressione impacciata e tenera che veniva fuori raramente.
- Beh… buonanotte, Freddie.- aggiunse, dandogli le spalle.
La mano del ragazzo scattò ad afferrarle il polso, quasi avesse vita autonoma.
- Sam…- sussurrò, senza lasciarla, senza sollevare gli occhi dal pavimento, nemmeno quando lei si volse appena, tremante.
- Lo so.- disse la ragazza, piano, con voce tanto sottile da sembrare solo un sussurro.
Freddie strinse delicatamente il polso di Sam, annuendo e lasciandola andare piano, accarezzandole la pelle della mano, sul dorso, poi le dita, lasciando cadere il braccio.
Cosa Sam sapesse e perché Freddie avesse annuito sarebbe rimasto un mistero, per entrambi, almeno per molto tempo ancora.
Era stato il loro modo di salutarsi, dato che, da quando si erano visti, non ne avevano avuto modo o desiderio.
In quel momento, erano il Freddi e la Sam del privato, dei rari momenti da soli, quelli che nessuno poteva vedere o giudicare, che conoscevano tanto bene l’altro da leggergli nel cuore con uno sguardo, quelli che non si vergognavano di essersi amati e odiati e che non avrebbero mai smesso di essere “Frednerd” e “Principessa Puckett”.
Sam tornò in camera, lasciando la porta dischiusa e, mentre Freddie si accingeva a coricarsi, Dylan uscì dal bagno.
Dopo aver lanciato un’occhiata al salotto, scomparve in camera di Sam e Cat, chiudendo la porta e lasciando Freddie fuori, lontano da Sam.
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** It's raining ***


Mi scuso per il ritardo, ma le decorazioni natalizie mi hanno rubato tutto il tempo a libero.
 
Ringrazio di cuore la mia Beta, la straordinaria Aduial, per il suo magnifico lavoro.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito il precedente capitolo (risponderò in privato) e tutti coloro che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite.
 
Premetto una cosa, prima che leggiate il nuovo capitolo: voglio ricordare a tutti che questa storia tratta di un Freddie e una Sam più adulti, che devono affrontare le conseguenze delle scelte fatte in passato.
Al di là delle apparenze, la storia resta una Seddie e, quindi, vi chiedo solo di leggere tutta la storia, fino alla fine, prima di giudicare gli avvenimenti.
Grazie di cuore.
Buona lettura.
 
 
 
 
 
A svegliare Sam, al mattino, non fu la sveglia – che, in ogni caso, non aveva impostato - , ma l’abbraccio soffocante di Cat che, per l’ennesima volta, l’avvolse come fosse un koala.
Irritata, la ragazza bionda si tirò via, brusca, eppure l’altra continuò a dormire come se nulla fosse, quasi non si fosse nemmeno accorta di essere quasi caduta dal letto e, immersasi maggiormente tra le coperte, sorrise, beata.
Sam, invece, era tutt’altro che felice: erano appena le quattro – e non le interessava affatto essersi svegliata in tempo per preparare la sacca da viaggio e mangiare qualcosa prima di partire -, aveva dormito poco più di tre ore e, a completare il quadro, il letto di Dylan – il suo letto – era vuoto.
Infreddolita e affamata, ciondolò qualche istante sul pavimento gelido, indecisa sul da farsi: uscire e raggiungere la cucina, dove caffè bollente e frigo attendevano solo lei e, in questo modo, rischiare di imbattersi in Freddie o Carly da sola, oppure, più saggiamente, attendere che quell’idiota patentato di Dylan si degnasse di tornare da dovunque fosse andato e, non trovandola in giro per casa, andasse a cercarla?
Lo stomaco brontolò prepotente e non vi fu più tempo per riflettere: Sam Puckett non poteva certo morire di fame!
Con soltanto i calzini – mai e poi mai nella vita avrebbe indossato quelle assurde pantofole a forma di peluche regalatele da Cat – lasciò la stanza, cercando di essere il più silenziosa possibile e raggiunse il bagno buio.
Vi entrò, chiuse a chiave la porta e dedicò qualche istante a se stessa, nella speranza che l’acqua gelida la aiutasse a rimettere in moto il cervello alla svelta.
Ancora scalza, uscì dal bagno e giunta alle spalle del divano, smise di respirare, cercando di capire se Freddie fosse ancora addormentato; il respiro regolare e profondo del ragazzo la rassicurò su quel punto e Sam, muovendosi nell’ombra, scivolò giù dallo scalino, fermandosi accanto al bracciolo.
Freddie dormiva a pancia all’aria, un braccio gettato oltre la testa, l’altro abbandonato sulle coperte, il viso rivolto verso di lei e alcune ciocche di capelli castani a puntellargli la fronte del viso perfetto e rilassato.
Sam lo accarezzò con lo sguardo, seguendo il profilo degli zigomi, del naso e della mascella, focalizzandosi sulle labbra carnose e trattenendo il desiderio di infilare le dita tra quei capelli, come aveva fatto mille altre volte in passato.
Qualcosa, dentro di lei, cominciò a sanguinare e la diga di lacrime e dolore rischiò di cedere, sotto il peso di quel fiume impetuoso di ricordi ed emozioni; così, la ragazza volse le spalle e si diresse in cucina, raggiungendo la macchinetta di caffè proprio mentre la porta di casa si apriva.
Una folata di vento gelido giunse fino a lei, facendola rabbrividire mentre Dylan, adocchiatala, dopo aver lanciato uno sguardo a Freddie ancora addormentato, s’incamminava verso di lei.
Posò una busta di carta sul ripiano, assieme a un cartoccio contenente cinque bicchieri di caffè e sorrise, scuotendo il capo per rianimare i capelli ghiacciati.
- Buon…-
- Dove diamine sei andato?!- sbottò lei, puntandogli contro un dito, minacciosa.
Dylan sbottonò la cerniera del giubbotto e, mentre lo sfilava, sorrise ancora. – Buongiorno anche a te, Puckett. Sì, grazie, ho dormito bene nel tuo letto, anche se avrei preferito tu mi facessi compagnia. Oh, hai proprio ragione, si gela, stamattina, forse perché il sole non è ancora sorto. – fece, in tono ironico.
Sam assunse un’espressione scocciata, assottigliando pericolosamente lo sguardo cristallino.
- Sono tornato a casa giusto il tempo di preparare una sacca e sono passato a prendere la colazione.- le disse, spingendo verso di lei la busta, che emanava un calore piacevole e un profumo delizioso.
Sam notò che Dylan aveva pensato anche a Cat, cosicché, quando si fosse svegliata, avrebbe trovato la colazione, nonostante non partisse con loro.
- Dì: “ Grazie, Dylan, mio eroe”. – la istruì lui.
- Grazie, Dylan, mio idiota!- sorrise lei, finta, mentre addentava una ciambellina ricoperta di zucchero.
Il ragazzo la osservò, sconsolato. – Ho la sensazione che tu preferisca le ciambelline a me.- mormorò.
- La tua sensazione è esatta.- rispose lei, con la bocca piena e le labbra ricoperte di zucchero.
Per un istante Dylan rimase a fissarla, incapace di distogliere lo sguardo dalla granella che pareva attirarlo a sé, ipnotica e Sam, con la ciambellina a mezz’aria, aggrottò le ciglia, agitata.
Il suono metallico della sveglia di Freddie la fece sussultare, mentre Dylan chinava il capo con un mezzo sorriso irritato sul volto; Freddie si stiracchiò, aprendo gli occhi lentamente e, messo a fuoco il luogo in cui si trovava, si tirò in piedi, scostando bruscamente le coperte.
- Buongiorno.- scattò, immediatamente, Sam, incapace di sopportare il silenzio imbarazzato che si sarebbe venuto di certo a creare.
- Buongiorno.- rispose Freddie, scompigliandosi i capelli e raggiungendoli in cucina.
- Dylan ha preso il caffè e la colazione.- lo informò Sam, indicando la busta sul ripiano.
- Non ho fame, grazie lo stesso.-
L’altro ragazzo lo ignorò platealmente, sorseggiando la sua bevanda.
- Carly è… - la frase di Freddie fu interrotta dall’arrivo della diretta interessata, avvolta in una vestaglia di stoffa pesante.
- Buongiorno a tutti.- salutò. – Qui si muore di freddo.- aggiunse, impacciata.
- Fame?- domandò Dylan, indicando le ciambelline.
- Oh, grazie, che pensiero gentile.-
Mentre il sole cominciava a illuminare la stanza e scaldare appena l’ambiente, i ragazzi finirono di bere il caffè.
- Sam, preferisci andare al bagno per prima?- le domandò Carly.
- Sì, mi serve solo un minuto, devo lavare i denti, poi posso vestirmi in camera.- rispose.
Poco dopo le ragazze scomparvero nelle rispettive stanze, a vestirsi; Freddie, ben deciso a ignorare Dylan, si chiuse la porta del bagno alle spalle, riemergendone vestito di un maglione pesante e dei pantaloni scuri.
Sam li raggiunse subito dopo, struccata e con i capelli sciolti, un paio di jeans, un maglione rosso accesso e stivaletti dal tacco basso.
- E’ incredibile.- scosse la testa, divertita.
- Cat dorme come un sasso?- ridacchiò Dylan, appollaiato sullo sgabello al bancone.
- Già.- annuì lei, raggiungendolo.
- Se non sbaglio, anche tu non scherzi: non ti svegliano nemmeno le cannonate.- la prese in giro il ragazzo.
- Sta’ zitto.-
- Costringimi.-
- Eccomi, scusate il ritardo.- sorrise Carly, arrivata in soggiorno con una sacca dall’aria pesante al seguito. Freddie la aiutò, depositandola sul divano, sinceramente grato del suo ritorno, poiché irritato dal continuo battibeccare tra Sam e Dylan.
Carly guardò l’orologio che portava al polso. – Sono le cinque meno un quarto, possiamo partire subito, così da fare una sosta a metà viaggio.- propose.
- D’accordo.- approvò Sam.
Mentre si apprestavano a infilare i cappotti, Dylan si rivolse a Freddie. – La tua auto non ha un porta moto, vero? – domandò.
Freddie, sollevate le sopracciglia in un’espressione infastidita, alzò il mento. – No.- rispose.
- Non è un problema, Dylan: loro andranno in auto, noi in moto. – intervenne Sam.
- La strada è ghiacciata e, se dovesse piovere, sarebbe un problema, Sam.- disse il ragazzo, rivolgendosi a lei.
- Sam, perchè vuoi prendere la moto? Abbiamo la macchina di Freddie e… - s’intromise Carly, preoccupata.
- Ci serve la moto per il ritorno.- decretò Sam.
- Dylan ha un’auto, è più sicuro se prendete quella, allora.- insistette la bruna, alla quale non piaceva affatto l’idea dell’altra che sfrecciava lungo le strade bagnate per migliaia di chilometri.
- Scusate?- intervenne Dylan, aprendo la porta d’ingresso. – Stamattina, quando sono tornato a casa, ho chiesto in prestito il porta moto al mio vicino di casa: - spiegò, indicando l’imbracatura di ferro sistemata accanto all’ingresso. – dobbiamo solo montarla.- aggiunse.
Sam sorrise, radiosa. – Ben fatto, Bennett, non sei da buttare, allora.- lo canzonò.
- Molte grazie.- finse di inchinarsi lui.
- Diamoci una mossa.- intervenne Freddie, superando Sam per uscire. – Sai montare quest’affare?- chiese a Dylan.
- Solleva quel lato.- rispose l’altro, aiutandolo.
Diversi minuti dopo il porta moto era perfettamente agganciato.
- Sistemiamo la moto?- domandò Carly.
Sam e Dylan si scambiarono uno sguardo.
- Per il momento, noi andiamo in moto: c’è il sole e il freddo è diminuito. – fece, vaga, la ragazza.
- Sam… -
- Carly, sali.- la chiamò Freddie, che aveva messo tutte le sacche da viaggio nel bagagliaio e se ne stava ad aspettare accanto alla portiera aperta dal lato del guidatore.
Dopo un ultimo sguardo preoccupato alla bionda, Carly salì dal lato passeggero, mentre Sam infilava il casco e toglieva il cavalletto alla moto.
Dylan salì dietro di lei, che mise in moto in contemporanea di Freddie.
- Sam, andate piano!- gridò Carly, dal finestrino.
L’altra annuì con una scrollata di spalle. – Ci troviamo al primo casello sulla West Side Fwy.- disse, sfrecciando in avanti subito dopo.
Freddie, con le mani strette sul voltante, ingranò la marcia, seguendola.
 
 
 
Carly osservava, silenziosa e senza farsi notare, l’amico intento a guidare con maggiore attenzione di quanto realmente occorresse; pareva quasi che Freddie fosse un pilota professionista, intento a disputare la più grande gara della sua vita – e, forse, nel profondo, era realmente così.
La ragazza, rimasta davvero colpita e sorpresa dalla decisione di Sam  di accettare il loro invito e partire l’indomani, aveva trascorso la notte per metà insonne, incapace di spegnere il cervello. Trovarsi in quella che era la “nuova casa” di Sam, osservarne le mura, i pavimenti, i mobili, aveva reso tutto – partenze e amicizie finite – più reale.
Adesso, che aveva visto quanto effettivamente felice fosse, l’altra, quanto affetto la circondasse quanto bene si fosse calata in quella nuova vita, lontana da tutti loro, si sentiva una sciocca: aveva creduto che sarebbe bastato rivedersi, perché ogni cosa tornasse come un tempo, affinché si dimenticassero errori e dispiaceri.
Il bisogno che sentiva di riavere Sam nella sua vita non aveva tenuto conto del fatto che, intanto, Sam si fosse creata una propria vita, lontana da tutti loro e, evidentemente, aveva deciso che loro non dovevano farne parte.
L’egoismo l’aveva spinta a costringere Freddie a seguirla in quel viaggio che – adesso se ne rendeva conto – non avrebbe sortito alcun effetto, alcun cambiamento, se non quello di sentire maggiormente la  mancanza di Sam, dopo averla rivista e perduta ancora.
E, ne era sicura, quello che avrebbe pagato il prezzo più alto sarebbe stato proprio lui: Freddie.
Carly l’aveva studiato attentamente, durante l’ultima settimana a Seattle, aveva scorto i cambiamenti avvenuti in lui, quel suo essere diventato più serioso, tutto casa e lavoro e studio, quella sorta di apatia che lo avvolgeva senza che lui facesse qualcosa per cambiare la monotonia di una vita che aveva scelto e desiderato, ma che si era, poi, rivelata vuota e sterile.
Poi, in viaggio per arrivare a Los Angeles, Carly si era accorta che l’agitazione in lui era cresciuta in maniera inversamente proporzionale al loro avvicinarsi a Sam e la maschera di ragazzo dall’animo imperturbabile era lentamente venuta a mancare, consentendole di riconoscere il vero Freddie, il ragazzino che rideva come un matto a ogni loro battuta sciocca, quando erano le star di un web- show ideato proprio da lui.
Così, Carly aveva capito- complice anche l’aver osservato le reazioni, involontarie, che Freddie aveva alla vista di Sam e Dylan – che il suo migliore amico non aveva smesso di essere innamorato di Sam e, probabilmente, non l’aveva dimenticata nemmeno durante i lunghi mesi in Italia, quando, tra loro, le cose erano parse essere perfette.
Certo, lui doveva essersi sicuramente convinto del contrario, probabilmente ferito e offeso dalla partenza improvvisa di lei, aveva creduto che quel tormento che lo opprimeva, fosse rabbia e dispiacere, che il dolore che sentiva, fosse per l’aver perso due persone tanto fondamentali per lui, che la gioia immensa e il calore di casa che rivedere Carly gli aveva provocato, fosse amore.
Carly non si sentiva offesa o tradita, a rendersi conto che quello che era stato il suo ragazzo per sei mesi, in realtà aveva lasciato il suo cuore nelle mani della sua migliore amica, la notte in cui avevano deciso di rompere.
La ragazza bruna, al contrario, si sentiva terribilmente in colpa, per averlo obbligato in quel viaggio, a rivedere Sam, che, per quanto ancora legata a Freddie – non poteva celare i suoi sentimenti a lei, che la conosceva meglio di chiunque altro –, aveva preso una decisione irrevocabile, mettendo un punto a quella storia troppo complicata e coinvolgente per due ragazzini.
E, del resto, Carly aveva osservato il modo in cui gli occhi di Sam accarezzavano Dylan, il modo in cui lei si muoveva, sfiorandolo senza nemmeno accorgersene, il modo in cui il suo sguardo lo cercava, nei momenti di disagio o timore, certa di trovare in lui rassicurazione e protezione.
Sospirò, chinando il capo, consapevole di essere colpevole della sofferenza del ragazzo seduto accanto a lei che, sebbene negasse anche a se stesso i sentimenti per la bionda, non avrebbe certo potuto impedire al suo cuore di pompare sangue e dolore.
Al rimorso per essere la causa della sofferenza di Freddie, si sommava il proprio dolore, quello nato dal comprendere che Sam non avesse più bisogno di lei, non la volesse nella sua vita, non avesse alcuna intenzione di tornare a quella che – per lunghi anni – era stata casa loro.
- Sta cominciando a piovere.- mormorò, quasi tra sé, Freddie, accortosi delle piccole gocce che s’infrangevano sul parabrezza.
Il suo sguardo era attento, mentre scrutava la strada di fronte a sé, cercando, di certo, lei.
Di Sam e Dylan, tuttavia, non vi era alcuna traccia e, quando la pioggia s’infittì e Freddie attivò i tergicristalli, l’agitazione aveva preso possesso anche di Carly; dove si era cacciata, quella sconsiderata?
Erano trascorse quasi tre ore dalla partenza e da quando l’avevano vista per l’ultima volta.
- Quanto manca al casello per la West Side Fwy?- le domandò il ragazzo.
Carly osservò il GPS. – Solo un centinaio di metri.- rispose.
Con un’espressione irritata e i muscoli tesi, Freddie diede gas, lo sguardo fisso di fronte a sé, la mascella contratta; era preoccupato, la ragazza lo sapeva e non poteva dargli torto.
Quando raggiunsero il casello e l’area di sosta, l’auto rallentò, mentre loro si guardavano intorno, cercando Sam; il rombo di un clacson li fece quasi sussultare e, accostando nella piazzola, scorsero la ragazza seduta sulla moto - issata sul cavalletto.
Si erano riparati sotto la tettoia di un pit-stop, Dylan era accanto a lei, con i gomiti poggiati sul manubrio, ed entrambi sorseggiavano qualcosa.
Freddie parcheggiò alla meglio e Carly aprì lo sportello. – Sam, per fortuna vi siete fermati.- esordì, raggiungendoli.
- In realtà eravamo andati oltre, un po’ di pioggia potevamo sopportarla, ma poi ha cominciato a diluviare.- spiegò lei, con un’alzata di spalle, porgendole un bicchiere di cartone nuovo.
Carly accettò il caffè. – Non avreste dovuto. Adesso sistemiamo la moto e salite in macchina.- decretò, in un tono che non ammetteva repliche.
Freddie, intanto, era sceso anche lui e, fatto il giro dell’auto, la affiancò.
Sam porse un bicchiere anche a lui e il ragazzo lo prese senza commenti.
- C’è un bagno da queste parti?- domandò Carly.
La bionda sorrise. – Non uno che tu utilizzeresti.- disse, quasi ridendo.
L’altra assunse un’espressione offesa. – Io userei… - poi, riflettendo sul fatto che, probabilmente, Sam avesse ragione, scosse la testa. – No, hai ragione, non lo farei.- assentì.
- Dobbiamo ripartire.- intervenne Freddie, gettando il bicchiere nel cassonetto a qualche passo da loro.
Sam scese dalla moto con un piccolo salto e si rivolse a Dylan. – Mi aiuti?- chiese.
Il ragazzo tolse il cavalletto, spingendo la moto fino al retro dell’auto.
- Io sollevo, tu incastri.- le disse. – Pronta?-
Accaddero, a quel punto, tre cose contemporaneamente: Carly aprì la bocca per chiedere a Freddie di dare una mano a Dylan, Freddie si mosse ancor prima che lei potesse parlare, raggiunse i due e afferrò un braccio di Sam, tirandola indietro e occupando il suo posto.
La moto fu sistemata facilmente e, evitando di guardare Sam, Freddie superò Dylan e si pulì le mani sui pantaloni, diretto in macchina. – Andiamo.- disse.
- Freddie, è il mio turno. Sono tre ore che guidi.- intervenne Carly, raggiungendolo e togliendogli le chiavi di mano.
- Ma… -
- Niente “ma”. Sali.- ordinò lei, secca.
Sbuffando, il ragazzo obbedì, salendo dal lato del passeggero, sbattendo la portiera mentre
Dylan faceva salire prima Sam, seguendola.
Il silenzio fu subito imbarazzante e, mentre Carly metteva in moto, un tuono squarciò il cielo e la pioggia s’infittì ulteriormente.
- Sarà un lungo viaggio.- sospirò Sam.
 
 
La previsione della ragazza non fu errata, dato che, giunti praticamente a tre ore d’auto da Seattle, furono costretti a fermarsi e cercare un posto in cui passare la notte.
Sebbene non avessero avuto intenzione di sostare, il buio fitto e la pioggia battente impedivano loro di proseguire a una velocità quantomeno accettabile e Carly insistette affinché non corressero rischi inutili.
Del resto, dopo essersi alternati alla guida – Carly, Freddie e perfino Dylan – per tutto il giorno e aver passato il resto del tempo in silenzio, oppressi dal senso di claustrofobia e tensione che il piccolo spazio dell’abitacolo generava, tenendoli a così stretto contatto, nessuno ebbe da obbiettare alla proposta della bruna.
Sam, che in quel momento sedeva dietro Freddie con Carly accanto, si sporse tra i sedili anteriori, per guardare il GPS.
Freddie, che non aveva fatto altro se non osservarla, sia mentre era intento a guidare che quando qualcuno gli dava il cambio, lanciò un’occhiata di sottecchi a Dylan che era al volante, pronto a cogliere uno sguardo complice tra i due, proprio come aveva fatto molte altre volte durante quel viaggio infinito.
- Devi girare alla prossima, tieniti a destra.- disse Sam, allungando un braccio per indicare con l’indice la strada secondaria di cui parlava e dove, secondo l’aggeggio tecnologico di Freddie, avrebbe dovuto trovarsi un bed and breakfast.
Sporgendosi, i capelli le scivolarono dalle spalle, sfiorando la mano che Freddie teneva abbandonata sul ginocchio sinistro.
Sam non si accorse di nulla, concentrata com’era a dare istruzioni a Dylan, nemmeno quando, muovendo impercettibilmente il pollice, Freddie carezzò un ricciolo, scoprendone la morbidezza setosa.
Fu un momento di debolezza, ipnotico, un istante durante il quale il suo corpo assunse vita autonoma e il ragazzo si ritrovò, senza rendersene conto, trascinato nei ricordi di molto tempo prima, quando era padrone di infilare le dita tra quei capelli, profumati di mandorle,  ogni qual volta lo desiderasse.
Dylan svoltò, Sam si tirò indietro e i capelli scivolarono via dalle dita di Freddie che, sollevando lo sguardo nello specchietto retrovisore, incrociò, per un attimo, quello della ragazza.
Dylan parcheggiò nello spiazzo riservato alle auto, diversi metri più indietro rispetto all’ingresso dell’edificio perché era tutto pieno e, spento il motore, si volse a guardare le due ragazze.
- Entrate a prenotare le camere, noi prendiamo le borse.- disse loro.
Entrambe alzarono un sopracciglio, contrariate dall’essere state relegate al ruolo di “damigella” da salvaguardare.
Insomma, passasse per le moto pesanti e i viaggi lunghi diciotto ore, ma preoccuparsi perfino della pioggia sembrava a entrambe eccessivo.
- Perché non andate voi a prenotare le camere, mentre noi prendiamo le sacche?- fece Carly, afferrando le chiavi che penzolavano dall’indice di Dylan.
Freddie fece roteare gli occhi e, scuotendo la testa, aprì lo sportello, facendo cenno a Dylan di seguirlo. – Lasciale fare, è inutile cercare di capire cos’hanno in testa.- borbottò, rassegnato.
L’altro, con un’alzata di spalle, lo seguì fuori, sbattendo la portiera dietro di sé.
Carly e Sam li guardarono sparire nella pioggia e ricomparire solo nei pressi del chiarore giallastro che emanava l’androne del piccolo bed and breakfast.
Con quel buio e quella pioggia si rivelò praticamente impossibile vedere a un palmo dal naso e quando le due ragazze si ritrovarono, zuppe e infreddolite, a trascinare le quattro sacche – tutt’altro che leggere – fino all’ingresso, la voce di Sam risuonò come un ringhio animale.
- Ma cosa ci hai messo qui dentro, mattoni?!- esclamò.
Carly, i cui capelli scuri si appiccicavano al viso bagnato, si volse, cercandola con lo sguardo.
- Non abbiamo avuto una grande idea!-
- Non me lo dire!-
Giunte finalmente all’ingresso, fradice e praticamente gelate, varcarono la soglia e si ritrovarono immerse in un tepore piacevole e confortante; la reception consisteva in un bancone di legno lucido, dietro il quale sostava un uomo di una certa età e dall’aria affabile che, spalancando gli occhi alla loro vista, esclamò. – Oh, per l’amor del cielo!-
Sam e Carly lasciarono cadere le borse al suolo, dimenando le braccia per scuotere via un po’ d’acqua, rassomigliando a simpatici cagnolini.
- James, sii gentile, prendi i bagagli delle signorine.- disse l’uomo alla reception, rivolto a un tizio occhialuto giunto da chissà dove.
Freddie e Dylan, intanto, se ne stavano – con un gemello ghigno divertito – poggiati contro il bancone,  a braccia conserte, intenti a fissarle, tentando di trattenersi dal ridere.
Con un’ostentata indifferenza, le due li raggiunsero al bancone.
- Avete preso le stanze?- domandò Carly.
Freddie fece penzolare quattro paia di chiavi di fronte al suo viso.
- Secondo piano.- mormorò. - Siamo stati fortunati, - aggiunse. – erano rimaste solo cinque stanze: il temporale ha costretto molte persone a pernottare qui.- spiegò.
- Bene.- fece Sam, afferrando una chiave con poca grazia e avviandosi verso l’ascensore.
Carly prese la seconda e la seguì, così come Dylan e Freddie.
- E togliti quel ghigno dalla faccia!- sbottarono in coro.
 
 
Si separarono in corridoio che le dieci erano passate da un pezzo e, tutti troppo stanchi – perfino Sam abbandonò l’idea di mangiare qualcosa – si salutarono blandamente, dandosi appuntamento alle sette dell’indomani.
Dopo una doccia calda, Sam s’infilò a letto, digitando un sms per Cat con le palpebre che le cadevano dal sonno e, spenta l’abat-jour, crollò immediatamente addormentata.
Fece sogni strani, di quei sogni che, al mattino, non si ricordano mai, ma lasciano una strana sensazione addosso, come se vi fosse la risposta a qualcosa di importante.
A svegliarla fu qualcosa di fastidioso che le martellava, ritmicamente e con la costanza di un innamorato, la tempia destra.
Con una manata, Sam cercò di scacciare quel qualcosa, senza successo.
Ormai ridestata, si allungò a cercare l’interruttore e, accesa la luce e alzati gli occhi al soffitto, una goccia d’acqua la prese in piena fronte.
- Ma che diavolo… ?-  sbottò, osservando la macchia bagnata che andava allargandosi sulla sua testa.
Scese in fretta dal letto e, afferrato il telefono, chiamò la reception.
- Desidera?-
- Sta piovendo in camera mia.- ringhiò la bionda, mentre batteva un piede a terra ritmicamente.
- Come dice?-
- Dico che c’è una macchia d’acqua sotto il soffitto e mi piove in testa!-
Sam la indicò, come se la persona dall’altro capo del telefono potesse vedervi attraverso.
- Che camera è la sua, signorina?-
- 3b.-
- Arrivo subito.-
- Già che c’è, mi porterebbe qualcosa da mangiare?-
- La cucina non è aperta a quest’ora, questo è un bed and breakfast.-
- Oh, quanto la fa lunga!-
Sam riagganciò e, in attesa che qualcuno si degnasse di raggiungerla, bighellonò per la stanza, controllando i cassetti: la gente era sbadata, non era da escludere che qualcuno potesse aver dimenticato roba di valore.
Bussarono alla porta e la ragazza aprì, ritrovandosi di fronte il tizio occhialuto, James.
- Signorina, ha chiamato per un problema al soffitto?- domandò.
Lei si fece da parte, indicando la macchia. – Guarda là.- fece.
James entrò e, sollevata la testa, batté un paio di volte le palpebre, sistemandosi gli occhiali sul naso.
- La prego, aspetti qui, vado a controllare la camera sopra la sua.- disse.
Tornò diversi minuti dopo, assieme al tipo che, quando erano arrivati, stava dietro il bancone.
- Signorina, la prego di perdonarci: le persone che hanno fittato la stanza sopra la sua non si sono accorti di aver allagato il bagno e l’acqua è filtrata nel pavimento.- spiegò.
- D’accordo, non mi interessa, mi dia un’altra stanza.- sbottò Sam, annoiata, affamata e assonnata.
Il tizio con gli occhiali si schiarì la voce. – Ehm, ecco, il fatto è che l’ultima camera disponibile è stata occupata due ore fa.- disse.
- In che senso “occupata”?-
- Nel senso che c’è già qualcuno dentro.- spiegò, lanciando al superiore uno sguardo che era una muta richiesta d’aiuto.
- E io che dovrei fare?!-
- Siamo desolati.- intervenne l’uomo più anziano. – Non sapremmo che alternativa proporle.-
- Assurdo!- esclamò Sam, levando le braccia al soffitto.
- Signorina, lei è qui con un gruppo di amici, giusto?-
- E allora?-
James si strinse nelle spalle. – Può chiedere asilo a uno di loro?- propose.
Sam spalancò la bocca per ribattere, ma comprese che sarebbe stato inutile e lasciò perdere.
- Maledizione!- esclamò, tornando verso il letto.
- Signorina, devo chiederle di lasciare la stanza, non vogliamo correre rischi di alcun genere.-
- Chiamami ancora “signorina” e correrai un rischio davvero grave!-
L’uomo più anziano afferrò James per una spalla. – Vieni, giovanotto, diamo alla si… a questa ragazza un momento per organizzare le sue cose.- disse, uscendo e portando l’altro con sé.
Frustrata, Sam cominciò a raccattare la propria roba sparsa un po’ ovunque e a infilarla nella sacca a casaccio; la sua mente, intanto, vorticava freneticamente: dove sarebbe andata a dormire, o, meglio, da chi?
Freddie era fuori discussione, assolutamente, le ginocchia cedevano al solo pensiero.
Carly? Non voleva però rischiare di ritrovarsi un tête-à-tête con lei, di stare a sentire le sue scuse tardive, di provare la sensazione che nulla fosse mai cambiato e, poi, al mattino, rendersi conto che, invece, quello non era uno dei pigiama party del sabato sera.
Restava Dylan e, per quanto detestasse ammetterlo, l’idea non le dispiaceva più di tanto: non avevano avuto un momento da quando Carly e Freddie avevano suonato alla porta, la sera prima e non avevano ancora avuto modo di parlare di tutto ciò che era accaduto.
Sam sapeva che il ragazzo stava solo aspettando il momento adatto per tempestarla di domande su Freddie e, sebbene non desiderasse rivangare ricordi dolorosi, al contempo sentiva il bisogno di raccontare a un estraneo quali fossero stati i suoi sentimenti.
Non avrebbe certo immaginato che il caos fatto fino a quel momento, tra la piccola discussione con i due uomini e il suo “fare la valigia”, avrebbe svegliato entrambi i ragazzi.
Quando uscì dalla stanza, di fatti, sia Dylan che Freddie se ne stavano sulle porte delle rispettive stanze, con indosso pantaloni della tuta e felpa, intenti a fissarla.
- Che succede?- domandò Dylan, facendo capolino oltre lo stipite.
- In camera mia piove.- borbottò Sam, imbarazzata.
Una cosa, di fatti, sarebbe stata andare a bussare alla porta di Dylan e chiedere ospitalità, un’altra sarebbe stata farlo sotto gli occhi attenti e profondi di Freddie.
- Piove?-
- C’è una perdita.- sbuffò.
- Ti hanno dato un’altra stanza?- domandò Freddie, prendendo la parola per la prima volta.
Tenendo gli occhi lontani dai suoi, Sam scosse la testa. – Sono pieni.- fece.
All’istante gli sguardi di Dylan e Freddie si scontrarono e la mano con cui il secondo teneva la porta intensificò la presa, facendo sbiancare le nocche.
- Sveglio Carly.- decretò Freddie, accennando a muoversi.
 - Sam, puoi stare qui, se vuoi.-  disse Dylan, sorridendo.
Vi fu ancora silenzio, durante i secondi successivi, un silenzio fatto di sgomento, rabbia e tacite accuse.
La ragazza, rossa in viso, annuì. – Sì.- fece, avviandosi verso la sua stanza, superando Freddie, ancora fermo sulla porta con la mascella serrata.
Sam varcò la soglia e Dylan fece un cenno all’altro, chiudendosi la porta alle spalle.
 
 
Freddie chiuse la porta con una spinta violenta e, tirando calci a qualsiasi cosa intralciasse il suo cammino fino al letto, si lasciò cadere tra le coperte, a braccia aperte, con gli occhi fissi sul soffitto.
Nel buio della notte, un’unica immagine a colorare la sua mente agitata: Sam, nella stessa camera da letto di un altro, nella stessa camera di Dylan.
Sospirò, passandosi una mano sugli occhi stanchi, lasciando cadere un braccio sulla fronte, esausto; come se non fossero stati sufficienti gli ultimi due giorni a rendergli la vita un inferno e il prendere sonno un’arte praticamente impossibile, adesso, a quel miscuglio di emozioni e sentimenti repressi, si sommava anche la consapevolezza che lei avrebbe trascorso la notte con lui.
Certo, Freddie aveva la più alta opinione di Sam e della sua “virtù”, sebbene non fosse un tipo all’antica – e, di sicuro, non lo era nemmeno lei – ma, da uomo, non poteva impedirsi certi pensieri e quella rabbia che sentiva montargli nel petto lo mandava ancora più in bestia: non aveva alcun motivo per essere geloso di Sam, né avrebbe dovuto importargli se e con chi sarebbe andata a letto.
Si detestava, perché avrebbe desiderato infischiarsene altamente, essere indifferente a qualsiasi sfera della vita di Sam, comportarsi esattamente per ciò che era: un vecchio amico che aveva perso di vista.
Eppure, non vi riusciva; la sola idea che, in quel momento, proprio mentre lui litigava furiosamente con le coperte e gli scomodi guanciali, Dylan potesse starsene a baciarla, accarezzarla o, semplicemente, godere del suo profumo e di quello sguardo di brina, lo mandava in bestia e lo faceva sentire un fallito.
Maledizione, eppure lui non era più innamorato di Sam!
Insomma: la decisione di rompere era stata presa di comune accordo e, sebbene l’amasse ancora quella sera, di certo col tempo ogni sentimento romantico era venuto meno tra loro, altrimenti non si sarebbe spiegato perché fosse riuscito a stare con Carly.
Si rigirò s’un fianco, infilando un braccio sotto il cuscino e serrando lo sguardo, deciso ad addormentarsi e cancellare Sam e il suo amico idiota dalla mente, finendo, ovviamente, col fallire.
Tornò supino, sospirando, sempre più convinto che la colpa di tutta quella faccenda fosse della bruna: se Carly non l’avesse costretto a seguirla, in quel momento, non avrebbe dovuto affrontare quella confusione di sentimenti e idee, non avrebbe dovuto domandarsi cosa lo spingesse a desiderare di sfondare la porta di Dylan e prenderlo gentilmente a pugni, non avrebbe dovuto impedirsi di afferrare Sam per un braccio e chiederle “Resta con me, stanotte” e restarsene a guardarla mentre, invece, sceglieva lui.
Era un vero idiota, aveva creduto sul serio che lei, dopo tutto, cercasse ospitalità a lui?
Forse erano stati quegli strani pensieri a ingannarlo, spingendolo a pensare, per la frazione di un istante, che, magari, avrebbero potuto vivere quella notte come se fosse “fuori dal tempo e dal mondo”. Una sorta di bolla priva di razionalità, dove tornare a essere i Freddie e Sam di quel “Ti amo”, detto nel momento meno appropriato eppure più necessario.
Si massaggiò le tempie, serrando i denti. – Oh, Dio, basta!- sbottò, implorante, sperando che il suo cervello accogliesse la supplica e smettesse di tormentarlo, concedendogli la tregua che è solo del sonno.
Basta pensare a Sam, basta farsi domande, basta immaginare come sarebbe andata “se”.
Si era ricostruito una vita, a Seattle, faticando e sacrificando quella parte di sé legata all’infanzia e che sempre sarebbe rimasta nel profondo, celata, impossibilitata a vedere la luce perché privata di un pezzo di sé: Sam. Era come se, il vecchio Freddie, il bravo ragazzo, gentile e altruista, generoso, dolce e sensibile, intelligente e affettuoso, fosse stato rinchiuso in un baule a tre serrature, di cui ognuno di loro  - Freddie stesso, Carly e Sam - possedeva una chiave; senza quella di Sam, non sarebbe mai potuto tornare.
E Sam quella chiave l’aveva portata via con sé, quella notte, senza nemmeno sapere quanto preziosa fosse e, adesso, l’aveva persa chissà dove… forse gettata via per accogliere quella di un altro cuore.
Prima di tornare a serrare gli occhi, l’ultima cosa che udì fu un tonfo, seguito da una risata squillante, proveniente dall’altro lato del corridoio.
Sentirla ridere senza poterla vedere, però, era la cosa peggiore di tutte.
 
 
Dylan la guardò malissimo, mentre si rialzava, massaggiandosi il fondoschiena dolorante; al buio, era inciampato nella sacca che lei aveva gettato malamente al suolo, nel mezzo della stanza e lei era scoppiata a ridere.
Come se non bastasse, Sam si era lasciata cadere pesantemente sul letto ancora caldo del corpo del ragazzo e, tirate le coperte, aveva sospirato piacevolmente.
Dylan, ai piedi del letto, la guardò con un sopracciglio inarcato e le mani sui fianchi.
- Cosa?- fece Sam, portando entrambe le braccia dietro la testa.
- Chi ha stabilito che il letto è tuo?-
- Il fatto che per te sia già un onore poter condividere la stanza con la sottoscritta; accontentati, Bennett, non si può avere tutto dalla vita.- rispose lei, sorridendo con aria saggia.
Dylan, a quanto pareva, non la pensava allo stesso modo e, di fatti, afferrò il piumone e glielo strappò di dosso, lasciandola coperta solo del lenzuolo.
- Vuoi morire giovane, Bennett?- grugnì la ragazza, balzando in piedi sul materasso.
Lui rise. – Non ho intenzione di dormire sul divano, ragazzina.- disse, dandole un colpettò alla spalla che la fece cadere seduta e, fatto il giro del letto, vi si sedette, sollevando le gambe e poggiandosi contro la testiera di legno.
Sam, infreddolita, agguantò il piumone nel tentativo di appropriarsene ma Dylan non cedette.
- Ah, ah.- fece, facendo segno di no con l’indice di fronte al suo viso. – Devi imparare a condividere, Puckett.- aggiunse, stendendo il piumone su entrambi e strizzandole un occhio, insolente.
Aveva l’aria di starsi divertendo un mondo e se, da un lato, la cosa irritava terribilmente Sam, dall’altra, non riusciva a non trovarlo terribilmente buffo e attraente.
- Io non ci dormo con te, carino, toglitelo dalla testa!- sbottò, sistemandosi nel punto più lontano da lui.
Dylan alzò le spalle. – Speravo lo dicessi: c’è tanto da fare, al posto di dormire… - disse, provocatorio e, quando lei spalancò gli occhi, pronta a sganciare un destro, lui sorrise. - … oh, come hai detto? Mi trovi carino, allora!- le puntò contro un dito, col viso colmo di luce perfino nella penombra.
Sam gli diede un buffetto sulla mano. – Sta’ un po’ zitto, Bennett! Io voglio dormire, chiaro?- sbottò, scivolando in basso e, poggiato il capo sul cuscino e sistematasi sotto le coperte, gli lanciò un’occhiataccia.
Lui finse di cucirsi le labbra e, con estrema teatralità, la imitò, sistemandosi accanto a lei, lo sguardo rivolto al soffitto e le mani incrociate dietro la testa.
Sam spiò il suo profilo affilato e affascinante, il naso sottile e la mascella squadrata, trattenendo l’istinto di passare un dito sull’invisibile strato di barba che cominciava a crescergli sulle guance.
Dylan volse il capo e i loro occhi si incrociarono; sorrise. - Non dormi?- chiese, canzonatorio.
Subito, aggrottando le sopracciglia, aggiunse. – Hai freddo?- apprensivo.
Sam scosse il capo e un ricciolo le scivolò dalle spalle sulla guancia e sul collo.
Fu un battito di ciglia che celò a Sam il movimento fluido con il quale Dylan sollevò la mano per spostarle il ricciolo dietro un orecchio, carezzandole il profilo della mascella e del collo con un dito, lo stesso dito che, libero dai capelli d’oro della ragazza, scivolò fino alle labbra, soffermandovisi come ipnotizzato, al pari dei suoi occhi scuri e profondi.
D’improvviso, Sam cominciò a sentire troppo caldo per una coperta tanto pesante e il cuore prese a pompare sangue sempre più velocemente, nel vano tentativo di tenere la mente ben ossigenata e vigile; non sortì effetti, ovviamente, soprattutto quando lui incatenò il suo sguardo, ardente, ai suoi occhi.
- Puckett.- sospirò Dylan, prendendo un grande sospiro, come in cerca delle parole giuste.
- Dylan… - il tentativo di arrestare quella conversazione sul nascere fatto da Sam fu ignorato; lui si sporse verso di lei, facendo poggiare la fronte contro quella della ragazza e, chiusi gli occhi, portò una mano ad accarezzarle la schiena, lentamente, dal basso verso l’alto.
Sam represse un brivido e il desiderio di avvicinarsi ulteriormente a lui, di sfiorargli i capelli e posare le labbra nell’incavo del suo collo, sentire il suo profumo e sapore.
La testa le vorticava, si sentiva spezzata a metà tra ciò che il suo cuore martellante implorava e ciò che la mente imponeva.
Un pezzo di sé restava ancorato a quella porta, oltre il corridoio, nella stanza in cui giaceva, probabilmente addormentato, l’unico ragazzo che avesse mai amato.
Freddie.
- Non ti bacerò se tu non vuoi.- le sussurrò Dylan, mentre le sue dita giocherellavano con i riccioli sparsi sulla schiena. – Puckett, tu mi piaci, più di quanto mi fossi reso conto io stesso. E voglio continuare a tormentarti e farmi tormentare, perché… non posso… non voglio fare a meno di te. – aggiunse, sfiorandole una tempia con le labbra gelide.
Sam, paralizzata e tesa, teneva lo sguardo fisso sul petto del ragazzo, le mani abbandonate contro il suo petto.
- So che provi ancora qualcosa per quel tizio e non ho intenzione di ficcarmi in un triangolo amoroso.- aggiunse, sprezzante, mentre la sua mano scivolava fino alla vita, artigliandole un fianco. – Non voglio nemmeno importi di scegliere, non è nel mio carattere, non lo ritengo giusto. Voglio solo baciarti ma, per farlo, devo essere sicuro che tu non immaginerai lui, se dovessi ricambiarmi.- spiegò, col viso immerso tra i suoi capelli.
Sam tentò, invano, di ingoiare il nodo che sentiva stringerle la gola e impedire alle piccole lacrime cristalline di sgorgarle negli occhi chiari; Dylan l’aveva capita così profondamente, aveva imparato a conoscerla talmente bene e a leggere dentro di lei in modo tanto delicato da farla sentire una vera idiota. Continuava a struggersi per un ragazzo che, probabilmente, non l’aveva mai amata davvero, che si era ingannato, cercando di rassegnarsi all’idea che la donna che realmente desiderava non lo ricambiasse.
Freddie, pensava Sam, aveva cercato un surrogato a Carly, qualcuno che lo aiutasse a dimenticarla dato che non avrebbe mai potuto averla e, così, aveva scelto lei, la nemesi della brunetta, tanto diversa da non rischiare che Carly gli tornasse in mente, mai.
E, invece, le cose erano andate storte e tutto era crollato loro addosso, senza che avessero il tempo di abituarsi l’uno all’altra o scoprire quanto, realmente, potessero amarsi.
Sam, tuttavia, lo sapeva bene: aveva amato Freddie da prima ancora di baciarlo, quella notte, a scuola, e continuava ad amarlo, probabilmente avrebbe continuato sempre.
Eppure, talvolta, l’amore non era sufficiente e questo Sam lo aveva compreso nell’esatto momento in cui Freddie aveva lasciato Los Angeles; così, col tempo, si era disinnamorata di lui e, quella notte, in quel momento, tra le braccia di Dylan, raggiunse un compresso con se stessa: avrebbe amato Freddie per sempre, ma si sarebbe innamorata di un altro.
Amare e innamorarsi, comprese, erano due cose molto diverse e lei, in quell’istante, seppe di essere molto vicina ad innamorarsi di Dylan.
Doveva e voleva andare avanti e il sentirsi tanto al sicuro tra le braccia di quel ragazzo così  simile a lei, era la conferma di trovarsi sulla strada giusta.
Sapere Freddie addormentato, a pochi metri da lei, mentre stava per concedere il suo cuore a un altro, era davvero la cosa più dura da sopportare.
Non vi furono dichiarazioni eclatanti o baci mozzafiato; semplicemente, Sam sollevò, timida come mai era stata, lo sguardo a incrociare quello di Dylan e lui vi lesse dentro un tacito assenso, un invito, una promessa.
Non penserò a lui, mentre ti bacio.
Le posò una mano sulla guancia, dolcemente, facendola scorrere fino ai capelli e, chinatosi su di lei, le sfiorò le labbra con delicatezza, una prima volta, assaporando il contatto con la carne calda della sua bocca.
Sam si ritrovò ad avvampare, profondamente grata dell’oscurità che avrebbe celato il suo imbarazzo, almeno in parte e non poté impedirsi di afferrare le spalle del ragazzo, aggrappandovisi come se ne andasse della sua vita.
Non pensò a Freddie, ma al sapore delle sue labbra… a quello forse, per un istante, sì.
Lentamente, la confusione lasciò il posto all’emozione e alla piacevole sensazione che quel bacio le regalava: schiuse le labbra, carezzando con la lingua quelle di Dylan e, quando lui  approfondì il bacio, solleticandole il palato e mordendola appena, Sam sorrise, col cuore che batteva furioso nel petto.
Il freddo, a quel punto, era solo un vago ricordo e le dita di lui che le sfioravano il collo, possessive, incendiavano la pelle, alzando la temperatura.
Quando si staccò da lei, con un’aria dannatamente soddisfatta ed estasiata, Sam si impose di ritrovare una certa compostezza; Dylan, dal canto suo, si lasciò cadere sui cuscini, afferrandola per la vita e trascinandosela accanto, abbracciandola e posando il mento sulla sua testa.
Col capo sul suo petto, Sam udì il battere furioso del cuore, che sembrava pronto ad esplodere.
- Dylan… -
- Non dire niente, non dobbiamo parlarne adesso… -
- Ho fame.-
Lui si scostò da lei quel tanto che gli era necessario a guardarla. – Come?- fece, allibito.
Sam alzò le spalle, facendo un’espressione curiosa. – Ho fame.- ripeté.
Dylan batté un paio di volte le palpebre, prima di scuotere la testa. – Assurdo.- borbottò, offeso, mettendo su un muso degno di un bambino di otto anni e, datele le spalle, scese dal letto, infilando le scarpe. – Tu guarda questa.- continuò, afferrando il portafogli.
- Dove stai andando?- chiese Sam, che tentava, invano, di non scoppiargli a ridere in faccia.
Lui, intento ad indossare il giubbotto, si volse a guardarla malissimo, avviandosi verso la porta.
- Hai fame, no? Vado a cercarti del cibo.- disse, col naso all’in su, infilando la porta.
- Assurdo, davvero, quella mi manderà fuori di testa… - lo sentì borbottare Sam, mentre si allontanava nel corridoio.
Per un momento, Sam rimase ferma al centro del letto, in un groviglio di coperte e lenzuola, come ipnotizzata dal nulla; i suoi pensieri, irrimediabilmente fissi sul ragazzo oltre il corridoio.
Il suo primo bacio, l’aveva dato a Freddie, una sera, sulla scala antincendio del palazzo di lui.
Che cosa sciocca: decidere di baciarsi, così che nessuno dei due rimanesse lo “sfigato” che non aveva ancora baciato nessuno e poi giurare di non rivelare la cosa a nessuno.
Che senso aveva avuto, allora, quel bacio?
A distanza di tempo, Sam comprese che, probabilmente, la tensione e l’attrazione tra loro aveva avuto bisogno di esplicarsi e esplodere e, in virtù dell’istinto di sopravvivenza, quello era stato il modo migliore. O peggiore, a seconda delle interpretazioni sul finale che avevano avuto.
Che avrebbe pensato Freddie, a saperla infatuata, quasi innamorata di Dylan?
Gli sarebbe interessato?
Probabilmente no, dato che era ovvio fosse ancora innamorato di Carly.
Si lasciò cadere sui cuscini, accucciandosi sotto le coperte; non si sentiva in colpa, per aver baciato Dylan e, anzi, qualcosa dentro di lei la riscaldava, come un camino accesso in pieno inverno.
Chiuse gli occhi, rilassata, sprofondando in un dormiveglia piacevole, in attesa che Dylan facesse ritorno con il cibo promesso.
Del resto, la strada per il cuore di Sam Puckett passava dal suo stomaco, era cosa risaputa.
 
 
 
Al mattino, Carly lasciò la sua stanza per il corridoio, dove Freddie se ne stava poggiato contro una parete, a braccia conserte, in attesa. Le sette erano passate da cinque minuti ma di Dylan e Sam nemmeno l’ombra.
La bruna raggiunse l’amico, poggiando sul tappeto la borsa. – Buongiorno.- disse, affiancandolo.
- Ciao.-
Scrutandolo con la coda dell’occhio, Carly si accorse che Freddie era di umore nero e fissava la porta della stanza di Dylan come volesse incenerirla.
- Sam è sempre in ritardo.- tentò di sorridere, nella speranza di spezzare la tensione che aleggiava nell’aria.
Freddie restò in silenzio, immobile, come se non l’avesse nemmeno udita.
Il sentore che qualcosa non andasse prese a martellare come un tarlo la bruna, che, staccandosi dalla parete, disse. – Vado a bussare, forse Sam dorme ancora.- e accennò a muoversi in direzione di quella che credeva fosse la stanza dell’altra.
Freddie sorrise, un sorriso amaro e insolente, che raramente Carly gli aveva visto in volto.
- Non la troverai, lì.-
La sua voce suonò amara e delusa, quasi cattiva, tanto che lei si voltò di scatto. – Che significa?-
In quel momento, la porta di fronte a loro si aprì e Sam ne uscì, vestita di un maglione lungo e pesante e un paio di calze scure e doppie; dietro di lei, Dylan spense la luce, seguendola e chiudendosi la porta alle spalle.
Lo sguardo di Sam volò, istantaneamente, a Freddie e, accortasi del modo in cui lui la stava guardando – quasi volesse trapassarla – s’immobilizzò nel mezzo del corridoio con la borsa tra le mani.
Carly rielaborò velocemente gli ultimi minuti e, con grande sorpresa, si rese conto di ciò che era accaduto; scrutò attenta il volto di Sam, un misto di imbarazzo e confusione e poi quello di Dylan, illuminato da un sorriso radioso e i cui occhi non abbandonavano la bionda neanche per un istante e ogni cosa le fu chiara.
Sebbene non sapesse cosa di preciso, Carly era certa che tra loro fosse accaduto qualcosa, quella notte e, spostando lo sguardo su Freddie, comprese che anche lui lo sapeva o lo aveva capito.
- Buongiorno.- esordì, nel tentativo di rompere quel silenzio carico di tensione.
- Buongiorno, Carly.- mormorò Sam, accennando un sorriso.
Dylan le fece un cenno col capo. – Andiamo?- domandò.
La bruna annuì, tornando sui propri passi e dirigendosi verso l’ascensore, non prima, però, di avere afferrato un braccio di Freddie, i cui occhi inespressivi fissavano Dylan in modo spaventosamente vuoto, e averlo trascinato con sé.
La discesa verso il piano terra fu breve, ma parve durare un’eternità.
Giunsi nell’atrio, tutti e quattro rifiutarono l’invito a colazione fatto dal signore alla reception che, prima di lasciarli andare, si rivolse a Sam. – Le porgo ancora le nostre scuse per stanotte, signorina.- disse.
- Già… non importa.- fece lei, arrossendo bruscamente, mentre Dylan, dietro di lei, sorrideva apertamente.
- E’ stato meglio così.- decretò il ragazzo, spostandosi per evitare la borsa che Sam aveva diretto verso la sua faccia.
- Cammina, idiota!- sbottò.
L’uomo sorrise, assentendo col capo. – Spero di rivedervi presto.- salutò, mentre tutti loro uscivano dall’atrio.
Carly si tenne vicina a Freddie, la cui mancanza di reazioni la preoccupava in modo esagerato: temeva potesse esplodere da un momento all’altro e che quella fosse solo la quiete prima della tempesta.
Davanti a loro, Dylan scompigliò i capelli di Sam in un gesto abituale, eppure, a Carly – e sicuramente nemmeno a Freddie. – non sfuggì l’attimo di esitazione che ebbe prima di allontanare le dita da lei e il sorriso che Sam, il cui sguardo sfuggiva il ragazzo, tentava di celare.
Nel parcheggio, Sam e Dylan si fermarono nei pressi della macchina di Freddie, ad aspettare gli altri due.
Carly, spaesata e confusa dal clima venutosi a creare, guardò la bionda, in attesa.
- C’è il sole.- disse Sam. – E siamo a meno di due ore da Seattle.- aggiunse. – Andiamo in moto.- spiegò, impacciata.
La bruna non obbiettò, dato che immaginava cosa Freddie dovesse star covando nel profondo e non voleva obbligarlo a stretto contatto con gli altri due nelle ore successive, quando era ovvio che avesse bisogno di tempo per ammortizzare quell’ultimo colpo.
- D’accordo. Ci vediamo al Bushweel Palace.- affermò, salutando entrambi con un cenno del capo e dirigendosi verso l’auto.
Si accorse tardi che Freddie, invece, era rimasto fermo, di fronte a Sam, a osservarla, quasi non si accorgesse del suo strano comportamento.
La bionda aggrottò le sopracciglia, stranita, cercando di capire cosa lui volesse dire o fare; Dylan, a qualche passo da loro, li raggiunse, fermandosi accanto a Sam, eppure gli occhi di Freddie rimasero ancorati a quelli di lei.
- Sam, andiamo.- mormorò Dylan, posandole una mano sul braccio per convincerla a muoversi.
Mentre lei accennava a muoversi, lo sguardo incandescente di Freddie scattò su Dylan e questi se ne accorse, fermandosi e alzando il mento, fronteggiandolo.
La voce di Carly risuonò un po’ troppo acuta. – Freddie! Andiamo, faremo tardi!- esclamò.
Il ragazzo, serrando la mascella, voltò loro le spalle e salì in macchina, sbattendo la portiera.
Sam e Dylan raggiunsero la moto e tirarono fuori i caschi, mentre l’altro accendeva il motore.
Freddie fece retromarcia e, immessosi sul vialetto che riportava alla superstrada, sistemò lo specchietto retrovisore che gli regalò un’immagine che gli gelò il sangue: Dylan che agganciava il casco di Sam, seduta sulla moto, per poi chinarsi, con un sorriso divertito in viso, a sfiorarle le labbra, mentre lei teneva l’altro casco a penzoloni da un braccio.
Anche Carly vide la stessa immagine e non si sorprese quando, con un rombo agghiacciante, Freddie accelerò bruscamente, con le mani a stritolare il volante.

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Capitolo 7
*** Clash ***


Chiedo scusa per il ritardo nell’aggiornamento, ma questi giorni di festa non mi hanno lasciato un minuto libero e colgo l’occasione per augurare a tutti voi Buon Natale e felice Anno Nuovo!
 
Ringrazio la mia splendida Beta, Aduial, per il suo lavoro magnifico e la sua pazienza infinita.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito il precedente capitolo (risponderò in privato) o che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite.
 
Auguro a tutti buona lettura.
 
 
 
Gibby, ansante e sudato, si fermò accanto alla fontanella nel parco e, chinatosi con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, fu raggiunto da Scott, che appariva raggiante e che, invece di fermarsi, lo affiancò continuando a saltellare, imitando una piccola corsa sul posto.
- Non… - tentò Gibby, costretto a interrompersi per riprendere fiato. - … non sei stanco?- chiese.
L’altro sorrise, illuminato dal sole tiepido di Dicembre che fece risplendere il biondo dei capelli, umidi di sudore, che gli si erano appiccicati alle tempie. – E’ questione di volontà; non devi pensare alla stanchezza o a quanto male ti fanno le gambe. – rispose, avvicinandosi alla fontanella per riempire la borraccia.
- Come no.- commentò Gibby, tornando dritto e asciugandosi le gocce di sudore con l’asciugamano che portava attorno al collo.
Scott gli porse la borraccia da cui aveva bevuto e gli strizzò un occhio azzurro. – Non sei allenato, tra qualche mese andrà meglio.- lo rassicurò.
L’altro annuì, accettando l’acqua con una scrollata di spalle e si accorse dello sguardo dell’amico che lo accarezzava, intensamente, mentre beveva.
Qualcosa prese a formicolare, sotto la pelle, come un calore improvviso che, inevitabilmente, colorerà le guance di scarlatto e farà languire gli occhi; Gibby tentò, invano, di allontanare lo sguardo dagli occhi chiari e cristallini di Scott, puri come il più limpido dei cieli.
Scott dovette accorgersi di quel prolungato silenzio e, impacciato, si riappropriò della borraccia, battendo una pacca sulla spalla dell’altro. – Andiamo.- fece, precedendolo di qualche passo.
Un sospiro frustrato e Gibby lo seguì, con gli occhi fissi sulla sua schiena.
 
Sam parcheggiò la moto proprio sotto il Bushweel Palace e, tolto il casco, respirò a pieni polmoni l’aria di Seattle, l’aria di quella che, una volta, era casa sua.
Irrimediabilmente, la vista dell’ingresso al palazzo le rievocò ricordi, tanto nitidi da parerle immagini reali, di quei tre ragazzini che, correndo entusiasti, si dirigevano a casa Shay, pronti ad affrontare qualsiasi cosa, purché insieme.
- Posto interessante.- commentò Dylan, che aveva slacciato il casco e messo il cavalletto alla moto.
Sam non rispose, troppo impegnata a contrastare la sensazione di trovarsi strappata a metà: essere a Seattle con Dylan, le causava una crisi di panico, come se due mondi lontani e opposti stessero per collidere o, probabilmente, si fossero già scontrati.
Seattle era il suo passato, il luogo in cui era cresciuta, aveva amato e sofferto per la prima volta nella sua vita, mentre Dylan era il presente, il nuovo inizio, il primo sprazzo di felicità; essere lì, con lui, era come tentare di costringere due calamite di polo identico a stare vicine.
Il silenzio del ragazzo, il modo in cui la scrutava, di sottecchi, era il segnale che stesse cercando di comprendere quanto a fondo, dentro di lei, fossero ancorati i sentimenti e le persone che abitavano quelle strade.
Il rombo dell’auto di Freddie che accostava la riportò bruscamente alla realtà e, ben decisa a liberarsi della sua presenza e di quella di Carly almeno per un paio d’ore, la biondina si preparò a mentire riguardo ad uno ipotetico giro turistico per Dylan.
Quando, tuttavia, scesero entrambi dall’auto, a Sam non sfuggì la tensione creatasi tra i due: Freddie appariva nervoso e irascibile, come raramente l’aveva visto e Carly silenziosa e schiva, quasi preoccupata, mentre scrutava l’altro con lo sguardo.
- Io vado di sopra.- sbottò Freddie, rivolto a Carly, senza degnare lei e Dylan di uno sguardo.
La bruna non rispose, limitandosi a fermarsi di fronte agli altri due.
Dylan, al contrario, assunse un’espressione d’indispettito sarcasmo. – Quanta fretta.- scandì, mentre Freddie varcava la soglia del palazzo.
Se l’avesse udito o meno, sarebbe sempre rimasto un mistero, poiché non si voltò per rispondere nulla.
- Carly, noi andiamo a fare un giro.- esordì Sam, scartando una caramella.
- Ma… non vuoi salire a salutare Spencer, prima?- le chiese l’altra.
Dylan e Sam si scambiarono uno sguardo. – Sarebbe meglio fargli una sorpresa, non credi?.- rispose lui. – Quando sarà a prepararsi per la festa potresti chiamare Sam e farla entrare di nascosto. Una volta pronti, uscirete insieme.- propose.
Carly parve accettare l’idea e annuì vagamente. – Sam, pensi di passare a casa tua?- le chiese.
L’altra spalancò la bocca, disgustata all’idea. – Oh, non ci penso proprio!- esclamò.
- Allora dovreste venire un paio d’ore prima della mostra, così potrete fare una doccia e cambiarvi.- mormorò la bruna.
- Non ho intenzione di mettermi in ghingheri.- protestò Sam.
Dylan rise. – Ci sarà un negozio decente, da queste parti, Puckett! Sarò felice di farti da chaperon.- disse.
La bionda assunse un’espressione scocciata. – Ma non mi dire!- commentò.
- D’accordo, allora: ti chiamo quando Spencer non è nei paraggi.- intervenne Carly, troppo ansiosa di salire a parlare con Freddie per restare a sorbirsi uno dei soliti battibecchi tra i due.
Sam fece un gesto di assenso con la mano e Carly la superò, prima che la voce dell’altra la fermasse.
- Aspetta!- disse. -  Non… non credo tu abbia il mio numero di cellulare.- mormorò Sam, vaga, mordicchiandosi le labbra, nervosa.
- Oh.- fece Carly, incapace di elaborare una frase logica: scoprire che Sam avesse cambiato numero, probabilmente per tagliare ogni contatto con lei e Freddie, di fatti, era una batosta davvero grande da sopportare e le sarebbe occorso del tempo per elaborare quell’informazione.
- Il mio è sempre lo stesso.- sussurrò, a fior di labbra e testa china, con i grandi occhi velati di tristezza. – Se tu lo ricordi… - continuò.
- Lo ricordo.- la interruppe Sam, stringendo le labbra in un’espressione dispiaciuta e fissando gli occhi in quelli di lei.
Carly annuì. – Fammi uno squillo.- disse, voltandosi ed entrando nel palazzo.
Dylan sollevò un sopracciglio e un sorrisetto divertito gli colorò le labbra.
- Cosa?- fece Sam, sospettosa.
- Hai sentito? Dobbiamo trovare qualcosa da farti indossare stasera, ragazzina.- le disse, quasi fosse il manager di una grande diva e lo divertisse un mondo l’idea di passare ore e ore a selezionare e scartare stupidi vestiti.
- Non ci penso proprio.-
Il ragazzo la afferrò per la vita, stringendosela contro e trascinandola letteralmente lungo il marciapiede, mentre le persone attorno a loro li fissavano con un misto di curiosità e divertimento.
- Coraggio, Puckett, non abbatterti: tu sei un maschiaccio, ma il tuo corpo è decisamente femmina. - le disse, con le labbra premute contro i capelli.
In un istante le guance di Sam si tinsero di scarlatto e, quando volse il capo per guardarlo, lui l’aveva già lasciata e si era portato avanti di qualche passo, per poi fermarsi, divertito, a osservare la sua espressione imbarazzata.
Sam aggrottò la fronte, indispettita e irritata. – Bennett, stai rischiando la vita.- gli fece sapere.
Lui scoppiò in una risata liberatoria, col capo gettato all’indietro, verso il sole tiepido e luminoso, proprio come i suoi occhi, mandorle e cannella fuse.
Le porse una mano, in un gesto tanto delicato e naturale da stonare con quell’ammasso di muscoli alto un metro e ottanta e, quando lei rimase a fissarla, titubante, fu lui a incrociare solennemente le loro dita e portare quelle di Sam a sfiorare le labbra.
- Un passo per volta.- disse, sorridendo appena.
 
 
Carly, rientrata a casa e salutato Spencer, gettò sul divano la sacca e si lasciò cadere pesantemente su uno degli sgabelli al bancone.
Il fratello, intento ad alternare, sul vestito che avrebbe indossato quella sera alla mostra, due cravatte che s’illuminavano creando strani ghirigori sulla stoffa, le porse un bicchiere di succo e un pacco di biscotti.
- Com’è andata?- le domandò, poggiando i gomiti sul bancone.
Carly alzò le spalle. – Non sono riuscita a convincerla.- mentì, decisa a fare una sorpresa a Spencer.
Questi contrasse le labbra in un’espressione dispiaciuta e, sospirando, scosse il capo.
- Beh, grazie per averci provato, sorellina.- mormorò. – Dov’è Freddie?- chiese, poi.
Carly si chinò sul bancone in un gesto di resa, poggiando la fronte. – Uccidimi.- disse.
Spencer aggrottò la fronte. – Non credo sia legale.- commentò. – Posso sapere perché, almeno?-
- Perché sono una pessima amica.- borbottò lei, con la voce attutita dal legno spesso.
Il fratello le diede un paio di colpetti sul capo. – Si può sapere che è successo?- domandò.
La ragazza, ritornando dritta, sospirò. – Credo di aver sbagliato a insistere con Freddie per convincerlo ad accompagnarmi da Sam; dovresti vederlo, sembra un’altra persona. – fece una pausa, cercando di trovare le parole adatte a descrivere lo stato d’animo dell’amico. – Non riesco a capire se sia furioso o solo dispiaciuto, geloso di Dylan o semplicemente sconvolto all’idea che Sam possa essere innamorata… -
Spencer, confuso e per nulla abituato a ricevere una tale mole di informazioni, perse presto il filo. – Sam è innamorata? Chi è Dylan? La sua coinquilina non si chiamava Cat?- domandò.
- Dylan è un ragazzo che ha conosciuto al corso di management che segue.- spiegò Carly.
- E perché credi ne sia innamorata?- insistette l’altro, allungando una mano per afferrare un biscotto dalla confezione che aveva passato alla sorella.
- Perché… perché sì! Conosco Sam e ho visto il modo in cui lo guarda… e… oh, dannazione, lo so e basta!- sbottò la ragazza, gettando all’aria le braccia, esasperata.
- Va bene, va bene, non ti agitare!- disse Spencer, alzando le mani in segno di resa.
- Beh, comunque posso capire che Freddie si senta triste, ma non credo tu abbia sbagliato: almeno adesso non avrete il rimpianto di non aver nemmeno tentato di chiarire le cose.- commentò, alzando le spalle.
- Già, questo non aiuta Freddie, però.-
- Carly, Freddie ha fatto delle scelte che hanno portato a questo punto, così come te; non può certo incolpare Sam per essere andata avanti.-
La serietà di quella frase colpì Carly, per niente abituata a tali perle di saggezza elaborate nientedimeno che dal suo strambo e irresponsabile fratello.
- A cosa è dovuta tutta questa saggezza?- gli domandò, assumendo un’espressione sarcastica alla quale seguì quella oltraggiata di Spencer.
- Sorellina! Sono un artista affermato, ormai! Stasera ci sarà una mostra interamente dedicata alle mie opere, indosserò questo splendido smoking, con una di queste due cravatte che Soko ha confezionato per me, non sono più quello di una volta!- esclamò, dandosi arie da grande uomo.
Il suo goffo gesticolare, tuttavia, finì col rovesciare il bicchiere di succo che, inevitabilmente, gli finì sul vestito e su una delle cravatte che, nel giro di un paio di secondi, prese fuoco.
- Oh, oh! Carly, fa qualcosa!- esclamò Spencer, prendendo a battere la cravatta sul bancone nel vano tentativo di spegnere il piccolo incendio.
Sospirando e scuotendo la testa, la ragazza raggiunse l’estintore accanto all’ascensore e lo spruzzò direttamente sul fratello che scomparve in una nuvola grigia.
Quando il fumo si diradò e Spencer riapparve, aveva la camicia macchiata, la cravatta bruciata tra le mani e i capelli coperti di cenere bianca; il ragazzo scosse la testa, tossendo.
- Era la cravatta che preferivo!- piagnucolò, tenendo il capo di vestiario con entrambe le mani e fissandolo sconsolato.
- Io mi preoccuperei più della camicia, Spencer! La mostra è stasera e tu non ne hai altre abbastanza decenti da poterle indossare lì sotto!- sbottò la sorella, incrociando le braccia.
Spencer sgranò gli occhi in un’espressione allarmata. – Oh, no! Devo correre a comprare una camicia, immediatamente!- esclamò, precipitandosi verso la porta.
- Spencer!- lo fermò Carly, facendo roteare gli occhi al soffitto, rassegnata.
- Non ora, non ho tempo… -
- Hai dimenticato il portafogli!-
Il ragazzo tornò sui propri passi ma Carly afferrò il portafogli dal ripiano prima di lui.
- Non è il caso che tu esca in queste condizioni.- disse, dato che non voleva rischiare che Spencer incrociasse Sam per strada. – Andrò io, mi faccio accompagnare da Freddie.- aggiunse.
- Ma…-
- A dopo!-
 
Subito fuori dalla porta, Carly vi si poggiò contro con le spalle, chiudendo gli occhi e prendendo un bel respiro per tentare di rilassarsi: tutta quella tensione rischiava di farla impazzire e lei era una che non reggeva la pressione, era risaputo.
Un tonfo proveniente dall’appartamento di Freddie la fece tornare con i piedi per terra e, preparandosi mentalmente alla prossima discussione, compì i due passi che la separavano da casa del suo migliore amico e bussò alla porta.
Per un momento, ogni rumore dall’interno parve cessare e si udì solo un silenzio opprimente poi i passi di Freddie risuonarono ovattati e il ragazzo aprì la porta, alzando un sopracciglio alla vista di Carly.
- Ehi.- esordì lei, impacciata, accennando un sorriso forzato.
- Ehi.- fece eco lui, confuso. – Che succede?- le domandò.
Freddie doveva aver fatto una doccia appena rientrato e i capelli scuri erano bagnati e gli puntellavano la fronte liscia, aveva le gote arrossate e indossava un paio di vecchi pantaloni e una felpa rosso scuro.
Per un istante, Carly rimase colpita dalla bellezza del ragazzo, da quel fascino tutto maschile che aveva preso il posto dei teneri tratti infantili e, scuotendo la testa, sospirò.
- Sei bello.- le sfuggì di bocca, prima che potesse frenarsi e, tuttavia, non si sentì imbarazzata per quelle parole poiché, in quel momento e a quel punto della loro relazione, sapeva di aver fatto una pura constatazione oggettiva priva di qualsiasi implicazione maliziosa.
Freddie,  interdetto e imbarazzato – e, in parte, compiaciuto – accennò un sorrisetto curioso.
- Anche tu sei bella.- le disse, semplicemente.
Carly gli regalò un sorriso sincero. – Credi sia sempre stato questo, tra noi?-
- Non ti seguo.-
La ragazza alzò le spalle. – Un bel ragazzo, una bella ragazza, caratteri simili, una conoscenza profonda dell’altro: la relazione perfetta.- commentò, sarcastica.
Freddie chinò il capo sotto la consapevolezza che, in fin dei conti, la pensavano allo stesso modo.
- E’ probabile. Ma… - s’interruppe, incerto su come continuare senza offenderla e senza rinnegare i sentimenti provati in passato.
Fu Carly a toglierlo da quell’impiccio, dato che sapeva perfettamente cosa lui volesse dire e condividesse quel pensiero. – Ma le relazioni perfette non sempre sono ciò di cui abbiamo bisogno e che vogliamo.- disse.
Freddie si limitò ad annuire, senza sorprendersi del fatto che lei sapesse leggergli dentro così bene.
Se solo entrambi si fossero accorti prima che l’altro non era ciò che avevano sempre desiderato…
- Ti andrebbe di accompagnarmi a comprare una camicia per Spencer?- gli chiese, cambiando argomento.
Freddie assunse un’espressione strana, come se fosse fortemente indeciso e non avesse voglia di lasciare casa sua per nessun motivo al mondo.
Lanciando uno sguardo all’interno, Carly notò che l’amico stava disfacendo la valigia.
- Se sei impegnato... –
- Non preoccuparti, entra.- la interruppe, sbrigativo, lui.
La ragazza obbedì e Freddie la seguì fino al salotto. – Devo vestirmi, puoi prepararti un caffè, intanto.- le disse, indicandole la cucina.
- Sto bene così, grazie.-
Quando Freddie scomparve in camera da letto, Carly lasciò che lo sguardo libero di vagare sul mobilio essenziale ed elegante che lui aveva scelto in sostituzione a quello di sua madre, camminò fino al corridoio, per osservare le foto che adornavano le pareti e che raffiguravano tutte Freddie stesso, lei e, infine, una ragazzina bionda dai grandi occhi azzurro cielo.
Carly si domandò se ogni mattina, uscendo dalla sua stanza, Freddie si ritrovasse a scontrarsi con quelle immagini, di un passato tanto lontano da sembrare frutto di un sogno a occhi aperti e col dolore, che la consapevolezza di non poter mai più essere spensierati e felici come in quelle foto, doveva provocargli.
Non si accorse che lui, vestitosi, l’aveva raggiunta e, adesso, se ne stava dietro di lei, in silenzio, a osservare quelle stesse immagini con un senso di perdita e amarezza a dilagare nel cuore.
Quando notò la sua presenza, Carly si affrettò a tornare in salotto e lui la seguì.
- Scusami.- gli disse.
Freddie, in piedi alle spalle del divano con le mani poggiate sullo schienale, alzò il mento.
- Per cosa?-
Carly sospirò, allargando le braccia in segno di resa. – Per tutto; per averti costretto a venire con me, soprattutto.- affermò, arricciando le labbra in un’espressione dispiaciuta.
- Non vedo il motivo di queste scuse.- fece Freddie, alzando le spalle in un gesto indifferente.
Carly piegò di lato la testa in un moto di tenerezza. – Freddie.- mormorò, raggiungendolo per afferrare le sue mani. – So che sei… arrabbiato o triste o qualcos’altro, a causa di Sam.- aggiunse.
Lui, che era rimasto impassibile a fissarla, ritrasse brusco le mani, dandole le spalle.
- Sam non c’entra niente, ti sbagli: non sono arrabbiato, né triste, per lei.- decretò, avviandosi verso il ripiano nell’ingresso per prendere l’orologio.
- Non sei il solito Freddie, non lo sei stato per niente in questi ultimi giorni.- ribatté la ragazza.
La risatina ironica di lui ebbe la capacità di irritarla e, mani sui fianchi, assottigliò lo sguardo.
- Che c’è da ridere?- gli chiese.
Lui, intento ad allacciare il cinturino, si volse a guardarla. – Vuoi davvero saperlo, Carly?- la sfidò.
Carly, sebbene spaventata dalla piega che quella conversazione stava prendendo, annuì.
- Certo, voglio davvero saperlo, Freddie.- rispose, usando il suo stesso tono.
- Bene!- sbottò il ragazzo, sollevando le mani in un gesto infuriato. – Hai ragione, sono furioso, come mai mi era successo prima in tutta la vita!- esclamò. – Sono furioso con te, perché sei tornata, quel week-end di Gennaio e mi hai chiesto di venire con te, in Italia; se tu non fossi tornata, io sarei rimasto qualche altro giorno a Seattle, con Sam e, forse, adesso, le cose sarebbero state molto diverse per tutti!- quasi gridò. – Ma, più di tutto, sono furioso con me stesso, perché ero libero di dirti di no e, invece, ho creduto di essere ancora follemente innamorato di te e ti ho seguita, commettendo il più grande errore della mia vita: andarmene senza nemmeno chiarire le cose con Sam. – parlava tanto velocemente da sembrare un fiume in piena; un fiume di parole dolorose e terribili.
- La cosa peggiore, Carly, è che, se tornassi indietro, ti seguirei ancora, in Italia, per cercare di far funzionare le cose tra noi, per scoprire come sarebbe stato stare insieme davvero, da adulti e non come i ragazzini di tredici anni che eravamo, quando davvero ero innamorato di te.
Ti seguirei ancora, ti sceglierei ancora, per il semplice fatto che sono un codardo, un vigliacco, che non ha avuto, né ha il coraggio di prendersi ciò che davvero desidera e ama.
Solo quando abbiamo rotto, ho capito cos’era che mi aveva fatto innamorare di te: tu eri dolcezza, sicurezza, tranquillità, stabilità, la certezza che, in qualunque momento e indipendentemente da cosa potesse accadere, saresti sempre rimasta al mio fianco, che mi avresti sostenuto e aiutato. Tu sei la mia anima gemella, Carly, eppure non sei la persona che amo più di ogni altra cosa al mondo, non sei la persona di cui ho bisogno quando il mondo intorno a me finisce in frantumi, non sei la persona che voglio accanto quando la felicità mi acceca, non sei la persona per cui rischierei… - parve, d’improvviso, svuotato di ogni energia e chinò il capo, chiudendo gli occhi, come se un’idea devastante si fosse materializzata nella sua mente.
- Non ho avuto il coraggio di… rischiare tutti miei sogni, progetti, piani per il futuro, solo perché, all’improvviso, c’era qualcosa che mi attraeva, qualcosa d’incontrollato e che non avevo previsto. Ho provato a stare insieme a Sam e il trasporto, la scarica di energia, il senso di libertà che mi dava mi ha spaventato, perché era come vivere ad alta quota, senza avere mai la certezza che l’atterraggio sarebbe stato privo di rischi. – lo disse a fil di voce, come se gli costasse troppa fatica, troppo sforzo, ammettere di aver provato e di provare quei sentimenti.
Batté un pugno contro la colonna dell’ingresso una volta, poi una seconda e una terza, fino a quando Carly non si precipitò verso di lui e, afferratigli le mani, lo abbracciò, con le lacrime agli occhi, e nascose il viso sul suo petto.
- Mi dispiace.- gli disse, sincera, straziata da un dolore che era di entrambi e che bruciava senza tregua.
Lui la strinse, cercando in lei quella forza che gli mancava e che, lo sapeva, non sarebbe comunque bastata per affrontare la più grande delle verità: erano cresciuti, cambiati, avevano commesso molti errori e avevano dei rimpianti che non avrebbero potuto riscattare.
- Mi dispiace.- ripeté Carly, cercando di frenare il pianto contro la stoffa striminzita del maglione che indossava.
- Non è colpa tua, Carly. E non mi pento di essere stato il tuo ragazzo: dovevamo entrambi capire che… - s’interruppe, in cerca delle parole più adatte.
- Che l’anima gemella non sempre è il vero amore?- fece lei, staccandosi da lui e accennando un piccolo sorriso.
Freddie annuì, passandosi una mano sul viso stanco e pallido.
- Freddie.- tentò, ancora, Carly. – Se sei ancora innamorato di Sam, sei tieni ancora a lei, se la ami, allora devi combattere per lei, non devi arrenderti… - lo incoraggiò, prima che lui le desse le spalle e tornasse sui propri passi, diretto alla porta.
- No.- disse, deciso come mai la ragazza lo avesse mai udito. – E’ una storia chiusa. Tra me e Sam è finita e lei non fa più parte delle nostre vite.- aggiunse, prendendo il cappotto e aprendo la porta.
- Ti sbagli, Freddie: Sam farà sempre parte delle nostre vite e commetterai un grave errore se la lascerai andare senza… -
- Senza cosa, Carly?- sbottò lui, voltandosi di scatto. – E’ mai esistito un modo per obbligare Samantha Puckett a fare qualcosa che non volesse? – le chiese, retorico. – Cosa dovrei fare, eh? Chiederle di dimenticare l’ultimo anno e mezzo, buttare all’aria la vita che si è costruita a Los Angeles e farsi passare la cotta per quel tizio, solo perché io, adesso, mi sono accorto di essere ancora in… - si portò bruscamente un pugno tra i denti, guadagnando la porta che fece sbattere contro il muro, tanta fu la violenza con cui la spalancò.
Carly lo seguì. – Freddie… - mormorò.
- Basta, Carly. – decretò, irritato. – Non voglio più parlare di Sam, d’accordo?-
Sospirando, la bruna non poté fare altro che seguirlo lungo il corridoio.
 
 
 
- Basta, Dylan, sul serio.- decretò Sam, dallo stanzino in cui era rinchiusa e la sua voce giunse bassa e affannosa.
Il ragazzo, seduto su uno dei divanetti messi a disposizione per le decine di uomini – povere vittime sacrificali – che, puntualmente, erano costretti dalle rispettive fidanzate a fare da pubblico durante l’abominevole e inumano rituale che era lo shopping, sospirò.
- D’accordo.- acconsentì, poggiandosi contro lo schienale e distendendovi le braccia.
Aveva passato l’ultima ora a tempestare Sam di domande riguardo Carly e Freddie e la sua vita a Seattle prima che si trasferisse a Los Angeles, ma, soprattutto, riguardo la sua storia con l’unico ragazzo che sembrava essere stato capace di entrarle nel cuore.
Dylan aveva intuito, fin dal primo istante in cui gli occhi di Sam si erano spalancati di fronte alla vista di Freddie, che quel tipo doveva essere stato tutto per lei, non molto tempo prima e l’idea che qualcuno fosse riuscito a penetrare la corazza di ghiaccio e acciaio che era Samantha Puckett, prima e meglio di lui, lo ingelosiva e intristiva molto.
Certo, anche lui aveva avuto storie importanti e aveva amato profondamente, prima di conoscere Sam, e, proprio perché sapeva cosa volesse dire essere innamorati tanto intensamente, detestava Freddie Benson, primo e –  fino a quel momento –  unico amore di Sam.
Sorprendentemente, la biondina non aveva opposto molta resistenza nel rispondere alle sue domande, sebbene, più di una volta, si fosse rifiutata di descrivere questo o quel dettaglio che, dentro di lei, era fondamentale e personale, segreto e puro e non doveva essere contaminato dai pensieri di altri.
Dylan aveva capito che Sam aveva amato e sofferto più di quanto ama e soffre una persona normale, poiché il suo carattere privo di freni l’aveva spinta ai limiti, legandola a quel Freddie e a Carly senza riserve e con tutta se stessa; il ragazzo non dubitava che, non molto tempo prima, se Sam avesse dovuto rischiare la vita per uno dei due lo avrebbe di certo fatto senza riserve o ripensamenti.
E, proprio per quel suo essersi data fino a quel punto, fino all’ultimo respiro dell’anima e all’ultima goccia d’essenza, il tradimento subito era stato come una lama incandescente che l’aveva tranciata a metà, di netto e l’aveva lasciata in terra, straziata, ancora sanguinante.
Ciò che più rendeva Sam incredibile e impossibile da non amare, agli occhi di Dylan, era la consapevolezza che lei volesse ancora un bene dell’anima a entrambi i ragazzi, nonostante tutto e che, se avessero avuto bisogno di lei, sarebbe stata lì, li avrebbe aiutati, magari senza che lo sapessero.
Dylan sapeva di essere innamorato di Sam, lo aveva capito non appena le loro labbra si erano sfiorate, la sera prima e se ne rendeva conto ogni volta che incrociava il suo sguardo cristallino, la sua pelle liscia, i suoi capelli morbidi.
Sapeva anche che lei non era innamorata di lui e che, nel profondo, amava ancora quel Freddie e, forse, lo avrebbe amato sempre e, proprio per quel motivo, voleva che avesse la possibilità di chiarire le cose con lui, se fosse stato destino che andasse a finire così.
Non voleva Sam a metà, non voleva legarla a sé con l’inganno, approfittandosi di una debolezza nell’armatura che avvolgeva il suo cuore, quindi doveva farsi da parte, adesso e aspettare: se lei avesse deciso di tornare a Los Angeles con lui, nonostante Freddie Benson, allora avrebbe potuto provare a farla innamorare di sé e dimenticare quel tizio.
Per quel motivo, non aveva ancora accennato a ciò che era accaduto tra loro, la notte prima, a quei baci che si erano scambiati - come fosse una cosa naturale e perfetta, per le loro labbra, trovarsi.
In quel momento, la ragazza che tormentava la sua mente uscì dal camerino con un’espressione omicida in volto e i capelli arruffati.
- Ti ha dato di volta il cervello?- chiese, alzando, minacciosa, un pugno contro di lui.
Dylan ridacchiò senza ritegno, attirando l’attenzione di una delle commesse.
- Oh!- cinguettò. – Le sta benissimo, signorina!- commentò, irritando maggiormente Sam che, avvolta in un abito rosa cipria, con un corpetto aderente e una gonna di tulle lunga fino ai piedi, tentava di controllare un tic nervoso all’occhio sinistro.
- Come no, sembro un cupcake!- sbottò, litigando con la gonna che la intralciava nei movimenti.
- Per una Mostra d’Arte il tulle è perfetto… - precisò la commessa, stranita e confusa da quella bellezza angelica che parlava e gesticolava come uno scaricatore di porto.
- Bennett, questo è l’ultimo abito che hai scelto tu che provo: ficcati tu in quest’affare,  se ti piace tanto. – sputò, sollevando con poca grazia la gonna e sparendo nel camerino.
- Non puoi andarci con i jeans, Sam!- le gridò dietro il ragazzo, divertito.
- Lo vedremo!-
 
 
Il cellulare di Sam prese a squillare e lei lo afferrò con le mani sporche di pomodoro, portandolo all’orecchio destro. – Sto mangiando, chi diavolo è?- ringhiò.
- Sam?- la voce di Carly, incerta ed esitante, giunse fino a Dylan, seduto sul muretto accanto a lei.
- Carly.- fece Sam, ritrovando una voce umana. – Ehm, sì?-
- Volevo avvisarti che Spencer è appena entrato in bagno per fare una doccia: deve ripassare il discorso per stasera e sai com’è fatto, dice che le idee migliori… - le spiegò la bruna, prima che l’altra la interrompesse, finendo la frase per lei.
- … gli vengono quando è bagnato.- concluse Sam, catapultata nei ricordi di molto tempo prima, quand’era solo una ragazzina di quattordici anni piena di appetito.
- Già.- mormorò Carly, dall’altro capo del telefono, persa nello stesso passato dell’altra.
Il silenzio regnò sovrano per un istante, gli occhi di Sam incrociarono quelli incoraggianti di Dylan, intento a pulirsi le labbra con un tovagliolo.
- Beh, potete tornare adesso, se volete; in camera mia potrai prepararti senza che Spencer ti veda.- riprese Carly.
- D’accordo, arriviamo tra cinque minuti.- fece Sam, sospirando e, subito dopo, chiuse la comunicazione.
Il suo sguardo si fissò sul ragazzo che le sedeva accanto.-  Bennett?- mormorò.
- Hm?-
- Tu cosa ti metti stasera?- gli domandò.
Un sorriso malizioso si disegnò sulle labbra perfette di Dylan e le fece girare la testa.
 
Quando bussarono alla porta dell’appartamento di Carly, questa si fiondò ad aprire, agitata e, afferrati entrambi i ragazzi per un braccio, li trascinò letteralmente dentro, continuando a lanciare occhiate in direzione del bagno.
- Che succede?- domandò Sam, seguendola con lo sguardo.
- Spencer è nervoso, mancano solo due ore alla mostra e continua a chiamarmi ogni due… -
- Carly?!-
La ragazza scattò come una molla e, saliti con un balzo i due scalini del soggiorno, raggiunse la porta del bagno. – Sì?- fece, irritata.
- Dov’è il bagnoschiuma che Soko mi ha regalato lo scorso Natale?- chiese la voce di Spencer, carica di panico, attutita dalla porta e dallo scrosciare dell’acqua.
- E’ finito un mese dopo che te l’ha regalato: l’hai usato per rendere scivolosa la pista di skateboard che hai costruito con Gibby!- gridò lei, tornando dai due.
- Sembra fuori di testa.- commentò Sam, senza avere il coraggio di guardarsi intorno.
Ritrovarsi in quell’appartamento, con Carly, era come ricevere una coltellata dritta nel petto: il profumo, perfino, era lo stesso dei suoi ricordi e sembrava darle il bentornato a casa, senza sapere che, invece, lei era solo un’estranea, adesso.
- Carly?!-
- Che c’è?!-
- Non riesco a trovare il mio spazzolino!-
- Perché è nel bicchiere del succo d’arancia, dove l’hai lasciato stamattina!- esclamò la ragazza, portandosi entrambe le mani al viso, sfinita.
Dylan, a braccia conserte, osservava la bruna, divertito dal vederla tanto stressata e dal sentire le assurde domande e risposte che i due fratelli articolavano.
- Carly?!-
- Oh, che diamine vuoi, adesso, Spencer?!-
- Dov’è la mia camicia?!-
- Freddie è tornato al negozio per cambiarla, come hai preteso, dopo aver visto che era beige e non color champagne!- gridò Carly, pronta a scagliare qualcosa contro la porta del bagno.
- E quando pensi tornerà?!-
La porta si aprì in quel momento e un trafelato Freddie fece il suo ingresso, fermandosi alla vista di Sam e Dylan in piedi nel salotto.
- Carly?!-
- E’ appena arrivato, Spencer, adesso tappati la bocca o giuro che lo faccio io!-
- Va bene, va bene!-
Ignorando gli altri due, Freddie alzò un sopracciglio, rivolgendosi a Carly. – Ecco, la commessa per poco non mi sbatteva fuori.- le disse, porgendole la busta.
- Grazie, Freddie.- fece lei, depositandola sul divano. – Ci troviamo qui per le otto in punto: Spencer deve arrivare un’ora prima dell’inizio per le ultime prove e il controllo delle sculture. Un taxi ci aspetterà qui sotto.- spiegò.
Il ragazzo annuì, cercando di tenere gli occhi lontani da Sam e Dylan, poco distanti: lui stava dietro di lei, tanto vicino da poterla sfiorare e con il mento quasi a poggiarle sul capo, proprio come, tante volte, lui stesso era stato, prima e dopo che si mettessero insieme, senza nemmeno rendersi conto di quanto si avvicinasse a Sam in quegli istanti.
Carly, che aveva colto uno sguardo sfuggito al suo controllo, si voltò verso la bionda.
- Sam, noi possiamo usare il bagno di sopra.- le disse. – E cambiarci in camera mia.- aggiunse.
La ragazza parve titubante e i suoi occhi sfrecciarono su Dylan.
Anche Freddie colse quella reticenza e, irritato dal fatto che lei non sembrava sopportare l’idea di allontanarsi da quel tipo nemmeno per qualche minuto, parlò senza riflettere.
- Lui può cambiarsi da me.- disse, fissando gli occhi in quelli dell’altro.
Dylan, sorpreso e diffidente, assottigliò lo sguardo, alzando un sopracciglio.
Sam, colta la tensione, si affrettò a fare un passo avanti, sollevando le mani per rifiutare al suo posto. – Non importa, Dylan può… - fu interrotta dallo stesso Dylan, che, posatele una mano sul capo, sorrise.
- Tranquilla, Puckett.- disse, tornando a guardare Freddie. – Accetto la tua offerta, grazie.- fece, sarcastico, alzando il mento in un gesto sprezzante.
Freddie, stretti i pugni contro i fianchi, serrò le labbra e si limitò a voltare le spalle mentre Carly, rimasta in silenzio, nervosa, gli lanciava uno sguardo implorante col quale lo pregava di comportarsi bene.
Mentre apriva la porta, Freddie colse la voce di Sam, carica di un significato che, sebbene non lo riguardasse, comprese perfettamente.
- Bennett.- disse, in quel suo tono autoritario e dolce al contempo.
- Lo so, Puckett. – fu la risposta di Dylan, carica di promesse, solenne.
E Freddie capì che, per Sam, quel tipo avrebbe fatto qualsiasi cosa, perfino evitare uno scontro agognato da entrambi.
Proprio come lui, del resto.
 
 
 
 
Carly si allontanò qualche istante dal salotto, per gridare a Spencer che sarebbe andata di sopra a vestirsi e di non provare a seguirla o chiamarla ancora, se voleva che fosse pronta in tempo per la Mostra.
Il ragazzo, intento a canticchiare un motivetto stonato e nervoso, blaterò qualcosa sull’affabilità della sorella, liquidandola.
Sam, rimasta impalata accanto al divano, con la busta contenente il vestito che aveva acquistato per la serata con Dylan, tenne gli occhi bassi, cercando di frenare il violento insorgere dei ricordi nella mente agitata.
La bruna, di ritorno, si fermò a qualche passo da lei, incerta e timida, trovando assurda e odiosa quella sensazione di disagio: era sempre stata l’unica a potersi rivolgere a Sam in qualsiasi modo o tono, senza temere le ripercussioni di un carattere tanto imprevedibile e ribelle, eppure, adesso, perfino invitarla a salire in camera sembrava riuscirle difficile.
Si schiarì la voce, richiamando su di sé lo sguardo dell’altra. – Vieni?- domandò.
Sam, allargando le braccia in un gesto familiare – come faceva ogni volta che sapeva di non aver scelta – accennò a seguirla ed entrambe sparirono oltre le scale.
La stanza di Carly era rimasta esattamente come, anni prima, lei, Freddie e Spencer l’avevano decorata, in seguito al devastante incendio causato dalla lampada di orsetti gommosi e ritrovarvisi le provocò un senso di stordimento, come se fosse appena scesa dalle montagne russe.
Carly richiuse la porta dietro di sé e, salito lo scalino, indicò a Sam la porta alla destra del letto. – Spencer, mentre ero via, ha fatto costruire un piccolo bagno, sfondando la porta dello stanzino.- le spiegò, accendendo la luce nella stanza minuscola in cui troneggiavano solo una doccia, un water e un lavandino tanto piccolo da non potervi poggiare nemmeno il bicchiere con gli spazzolini.
- E ci entri, lì dentro?- domandò la bionda, saggiando lo spazio angusto.
Carly sorrise. – Ho imparato a destreggiarmi.- rispose, allontanandosi verso la cabina armadio elettronica e dandole le spalle.
Sam la seguì con la coda dell’occhio e, quando Carly pescò una gruccia con appeso un abito scuro, i loro sguardi si scontrarono.
- Tu… cosa metti?- le domandò la bruna, avvicinandosi circospetta.
Sam sollevò la busta che teneva tra le mani e, in un gesto secco, gliela lanciò.
Carly l’afferrò al volo e scavò all’internò. – Oh, Sam, è davvero bello!- commentò, tenendo sollevata la stampella per osservare bene il vestito rosso scuro.
Sam, sceso lo scalino, alzò le spalle. – L’ha scelto Dylan, io mi ero stufata di provare vestiti.- rispose, tentando di camuffare l’imbarazzo con l’indifferenza.
- Ha buon gusto.- sorrise l’altra, volutamente allusiva, ben consapevole che tra Sam e il ragazzo era accaduto qualcosa e decisa a capire se i sentimenti di Freddie – che lui si sforzava di tenere così a freno e seppellire a fondo – fosse unilaterali o se anche lei fosse ancora innamorata di lui, come sospettava.
Certo, il fatto che, praticamente, lei e Sam al momento non fossero le amiche di un tempo, tanto in confidenza da comprendersi con un semplice sguardo, non aiutava la causa eppure Carly non aveva alcuna intenzione di arrendersi: doveva a Freddie e Sam una mano, dopo ciò che era accaduto loro per causa sua.
Sam, in reazione alla sua frase, si era limitata a lanciarle uno sguardo in tralice, aggrottando le sopracciglia bionde. – Posso usare il bagno?- aveva chiesto, indicandolo con l’indice.
- Certo.-
Si erano date poi il cambio e Sam aveva bloccato la porta con la sedia della scrivania di Carly, a causa del continuo bussare di Spencer che, implorante, agognava l’opinione della sorella riguardo la cravatta da indossare (gialla con i funghi rossi o verde con le prugne viola?).
Le due ragazze non avevano avuto modo dei parlare, fino a quel momento così, quando si ritrovarono entrambe intente a indossare i rispettivi abiti, bisognose del reciproco aiuto con cerniere lampo o bottoni sulla schiena, il silenzio si fece imbarazzante e pesante.
Fuori il cielo era buio e la neve si depositava sul cornicione della finestra, ma la soffice luce bianca del lampadario di Carly illuminava in modo confortevole e, lì dentro, il calore sembrava non essere mai sparito dai cuori di entrambe.
Fu Carly la prima a parlare, mentre osservava l’altra salire sui tacchi alti e allacciare i cinturini sottili alle caviglie. – Ti sta bene, questo colore.- le disse.
Sam, con la folta e lunga massa di capelli gettati su una spalla, piegata, alzò il viso.
- Grazie, ho sempre pensato che il rosso fosse il tuo, di colore, di fatti non volevo comprarlo.- rispose, senza nemmeno rendersi conto di aver pensato a voce alta.
La frase di Sam, sebbene pronunciata d’istinto, fu allusiva quanto quella di Carly e, di fatti, la tensione si fece più oppressiva e pesante, agitando entrambe più di quanto fosse previsto.
Carly, colpita nel segno, decise che il momento di affrontare le questioni irrisolte con Sam fosse giunto e, posizionatasi di fronte a lei, sospirò. – Che intendi dire, Sam?- chiese, atona.
Rimessasi dritta, la bionda la fissò, senza capire dove realmente volesse andare a parare.
- Hm?-
- Hai detto di aver sempre pensato che il rosse fosse il mio, di colore e che, di fatti, non volevi comprare il vestito.- ripeté Carly, sfiorando con le dita la stoffa leggera dell’abito dell’amica.
Sam assunse un’espressione scocciata, tipica di chi non ha alcuna voglia di iniziare una discussione che, di certo, non porterebbe da nessuna parte.
- Facevo una semplice osservazione.- rispose, dando le spalle a Carly e raggiungendo l’altra scarpa, poco distante.
- Era solo questo, Sam? Una semplice osservazione?- insistette l’altra, con le mani sui fianchi.
- Proprio così.-
- Io non credo.-
Sul visetto di Sam comparve un sorriso a metà tra il divertito e il rassegnato. – Non ho dubbi a riguardo.- disse.
A quel punto fu Carly ad aggrottare la fronte, perplessa. – Che significa?- domandò.
Sam, indossate entrambe le scarpe, si alzò dal materasso e allargò le braccia, fronteggiandola.
- Tu cerchi sempre significati nascosti, segreti, nelle parole degli altri, anche quando non ce ne sono, Carly. – sputò, irritata dal sentirsi sotto analisi.
- Forse hai ragione, ma lo faccio solo con le persone a cui tengo, Sam.- ribatté la bruna, cercando di tenere ferma la voce e non distogliere lo sguardo da quello dell’altra.
Sam rimase zitta, mordendosi l’interno delle guance per non dare sfogo a tutta la rabbia che le era montata dentro all’udire quelle parole e, fingendo di dover pettinare la massa di riccioli biondi, afferrò la spazzola dal comodino.
- Sam.- la voce implorante di Carly la raggiunse mentre era di spalle e, tentando di ignorarla, rientrò in bagno, dove aveva lasciato il piccolo borsello col trucco.
- Sam.-
Sospirando, la bionda si volse. – Cosa c’è, Carly, cosa vuoi che ti dica?- esclamò, esausta.
Carly fece un mezzo passo avanti, ignorando il fatto di zoppicare a causa dell’unico tacco che indossava. – Dimmi cosa pensi, dimmi come stai, dimmi cosa provi. Io… - s’interruppe, chinando il capo. – Vorrei che tu mi urlassi contro che sono stata una pessima migliore amica, che ti ho abbandonata, che sono sparita, che ho infranto ogni promessa che ci eravamo fatte, che ho buttato all’aria un decennio di amicizia, che ti ho tradita nel peggiore dei modi, portandoti via Freddie… - a interromperla, quella volta, furono gli occhi di Sam, due lame ghiacciate che si conficcarono in quelli caldi di lei.
In quel momento, Carly poté leggere nell’anima di Sam, priva di difese, quanto dolore avesse patito a causa sua e di Freddie, quanto si fosse sentita abbandonata dall’unica famiglia che avesse mai avuto, quanta forze le fosse occorsa per rimettere insieme i pezzi e riuscire ad aprire di nuovo il suo cuore a qualcuno – come a Cat – e fidarsi – come di Dylan - , soprattutto per una come lei, abituata a non aspettarsi niente dalla vita.
Comprese, allora, di essere stata più egoista di quanto avesse creduto e non solo nei confronti di Freddie, ma anche in quelli di Sam, poiché l’aveva costretta a guardare le macerie di quella che, un tempo, era un’amicizia forte quanto un legame fraterno che aveva donato loro calore,  sicurezza e amore.
- Sam… - al singhiozzo di Carly seguì un’imprecazione di Sam.
- Smetti di piangere!- le disse, con voce tremante eppure decisa.
Carly sussultò a quella reazione tanto inusuale per Sam, che mai, mai era stata capace di darle addosso quando, in passato, era scoppiata in lacrime anche per motivi futili e che, adesso, sembrava indifferente alla rugiada che le rigava le guance.
- No, devi ascoltarmi!- esclamò la bruna, frenando il pianto. – Mi dispiace, Sam! Mi dispiace di aver creduto di essere innamorata di Freddie, di averlo baciato, quella sera, di averlo convinto a partire, senza dirti mai niente, proprio io, che avevo preteso una promessa in cui giuravamo che non ci sarebbero mai stati segreti tra noi… -
Ancora, fu interrotta da Sam che, con aria amareggiata, si avvicinò, scuotendo la testa.
- Ma ti senti?!- sbottò. – Mi conosci così poco da credere che avrei troncato ogni rapporto con te, che avrei mandato al diavolo la nostra amicizia e ogni cosa che abbiamo condiviso solo perché avevi baciato Freddie e non me ne avevi parlato?!- gridò.
Carly parve confusa e ferita, mentre osservava Sam camminare lungo il quadrato formato dal letto e la finestra.
- Io credevo che tu ti fossi sentita tradita e che avessi sofferto… -
- Ed è stato così!- esclamò Sam, fermandosi bruscamente di fronte a lei. – Ho sofferto perché quella che reputavo la mia migliore amica ha baciato il ragazzo che amavo, indifferente ai miei sentimenti! Ma, di certo, non ti avrei persa per questo, Carly! Avrei potuto perdonarti, avrei potuto capire, avrei potuto… - anche Sam s’interruppe, sotto il peso di quel dolore per troppo tempo ignorato e seppellito.
Sollevò i grandi occhi, colmi di lacrime, in quelli della bruna. – Tu mi hai cancellata, Carly.- disse, in un soffio. – Quando siamo diventate amiche, in quarta elementare, ci ho messo un bel po’ a fidarmi di te e raccontarti ogni cosa, riguardo la mia famiglia – disastrata – e per fidarmi di te, per volerti bene, per convincermi che non mi avresti mai delusa o abbandonata, come ogni altra persona importante nella mia vita. Tu sapevi che tipo di persona fossi, conoscevi ogni sfumatura del mio carattere e la paura paralizzante di essere abbandonata, di sentirmi non necessaria, di non essere… abbastanza.- parlava a voce bassa, come se qualcuno, udendola, potesse usare quelle parole contro di lei per piegarla, spezzarla, annientarla.
- Non ti ho costretta a essermi amica, l’hai scelto tu e hai scelto di accettare quella parte di me che, sempre, avrebbe avuto bisogno di essere rassicurata. E, quando sei partita, mi è costato moltissimo accettare l’idea che la nostra amicizia sarebbe stata diversa, che avrei dovuto abituarmi a fare a meno di te e dei tuoi consigli, del tuo affetto. Ma l’ho fatto, per te, perché ti volevo bene e volevo che fossi felice e, per me, quello era più importante della stupida paura di perderti. Io ho fatto il mio passo indietro, tu avresti dovuto fare un passo avanti. Avresti dovuto scrivermi, chiamarmi, inviarmi un maledetto sms, per rassicurarmi sul fatto che non ti eri dimenticata di me, della nostra amicizia, del legame sincero e profondo e unico che ci legava, di ogni cosa che avevo fatto per te e che avevi fatto per me, di quanto avessimo bisogno l’una dell’altra. – s’interruppe ancora, fissandola dritto negli occhi.
- Tu mi hai cancellata, Carly, semplicemente hai preferito tagliare i ponti, perché era più facile, perché le cose erano troppo complicate e dolorose per lottare, perché… -
- Perché avevo paura.- intervenne Carly, avvicinandosi a lei. – Avevo paura di non riuscire a restare in Italia, se avessi capito quanto bisogno avevi di me. Perché sapevo che avevi lasciato Seattle ed ero terrorizzata all’idea di tornare alla mia vecchia vita e non trovarti. Perché mi sentivo in colpa per averti abbandonata, nonostante sapessi quanto bisogno avevi di me.-
- Non ti ho mai fatto una colpa per essere partita, non sono mai stata arrabbiata con te perché avevi bisogno di tuo padre.- s’intromise Sam, decisa e solenne.
- Lo so. Ma io sì. Tu sei stata la persona che, quanto Spencer, mi è sempre stata vicina, durante tutta la vita, che ha affrontato ogni problema con me, che c’era nei momenti essenziali della mia esistenza, eppure, io ho preferito lasciarti per inseguire mio padre.- mormorò Carly, ancora in lacrime.
- Aver bisogno del proprio padre non è una debolezza, né significa non voler bene a qualcun altro o fare una scelta.- alzò le spalle Sam.
- Mi dispiace, Sam. Non saprei che altro dire.- fu un sussurro, quello della bruna. – Sono stata una codarda.- aggiunse.
- Già.- un sorriso amaro e nostalgico disegnò le labbra tinte di pesca dell’altra.
- Anche per Freddie. Non avrei mai dovuto baciarlo o chiedergli di partire con me, sapendo quanto ne eri innamorata, ma mi sentivo sola, confusa, impaurita, avevo bisogno di… un ponte, con la vecchia me.- cercò di spiegarle. – Non avrei mai voluto farti soffrire.- aggiunse.
Sam chinò il capo. – Eri l’ultima persona che credevo avrebbe mai potuto farlo.- rispose, sincera.
Carly accusò il colpo in silenzio, torcendosi le mani e mordendosi le labbra.
- Non voglio più parlarne, Carly, d’accordo?- disse, d’improvviso, Sam. – Non so perché sei venuta a Los Angeles, se credevi che una stupida serata potesse lavare via ogni cosa e farci tornare quelle di un tempo, ma, se vuoi che resti, devi smettere di guardarmi con quell’aria ferita e cercare di capire cosa provo per te o Freddie. Ho chiuso con quella storia, ho chiuso con la Sam Puckett che girava ICarly e faceva da terzo incomodo. – decretò.
- Tu non… -
- Carly.-
- D’accordo. D’accordo, Sam, non cercherò più di capire cosa provi, ma non puoi obbligarmi a smettere di tenere a te o di preoccuparmi per te.- ribatté la bruna, alzando il mento, decisa.
Sam alzò un sopracciglio. – Fa’ come ti pare.- rispose.
Per qualche minuto non si rivolsero parola, entrambe intente a riorganizzare i pensieri e tenere a freno lacrime e rabbia; finirono di truccarsi, vestirsi, fino a quando la voce di Spencer non arrivò attutita dalla porta, facendole sussultare.
- Carly?- gridò.
- Che c’è?!-
- E’ arrivato Freddie… con un tipo.- l’avvisò il fratello e, subito, le due ragazze si fissarono, agitate.
- Ehm, sì, è un suo amico.- balbettò Carly, portandosi una mano alla testa.
Sam assunse un’espressione scettica che dimostrava quale fosse la sua opinione riguardo l’affermazione dell’altra e Carly alzò le spalle, scuotendo la testa, agitata: inventare bugie non era il suo forte.
- Ah, davvero? Non sembrerebbe... - commentò Spencer, in tono confuso. – Non mi avevi detto che avrebbe portato un amico alla Mostra!-
- L’ho dimenticato!-
- D’accordo, posso entrare?- la maniglia si piegò pericolosamente.
- No! Ehm, scendi di sotto, arrivo subito devo… - la bruna fece vagare lo sguardo, in cerca di un’idea e Sam, afferrata la spazzola, la sollevò nella sua direzione, agitandola.
- … devo pettinarmi!-
- D’accordo, non metterci una vita, però! Devi ancora vedere le mie cravatte!-
- Chiedi a Freddie, intanto!-
I passi di Spencer si allontanarono verso le scale e Carly trasse un sospiro di sollievo.
Sam sorrise, divertita. – Solo tu puoi definire Dylan un “amico” di Freddie.- fece.
L’altra la guardò male. – Ero nel panico, non ho pensato che Spencer l’avrebbe visto e si sarebbe chiesto chi fosse.- spiegò, volgendole le spalle. – Ti spiace?- le chiese, indicando la lampo dell’abito.
Sam, facendo roteare gli occhi al cielo, le tirò su la zip. – A Freddie piacerà questo vestito.- le disse, in tono neutro.
Carly si volse a fronteggiarla. – Io e Freddie ci siamo lasciati mesi fa, non siamo innamorati, Sam.- dichiarò, solenne.
Sam sfuggì il suo sguardo e afferrò il capotto e la borsa, diretta alla porta.
- E tu, Sam?- la fermò Carly. – Sei innamorata di Dylan?- le chiese, raggiungendola e superandola.
 
 
 
Freddie e Dylan, entrambi ben dritti, se ne stavano con una gemella aria truce ai due lati del divano, in piedi e a braccia conserte; nessuno dei due aveva accettato l’invito che un turbato Spencer aveva rivolto loro di accomodarsi.
L’artista, intento ad alternare le due cravatte luminose sulla camicia color champagne, li osservava, attento, con la coda dell’occhio e si domandava come mai due amici sembrassero tanto a disagio l’uno con l’altro e, soprattutto, sembrassero fare a gara per chi era il più elegante, atletico, pompato?.
L’amico di Freddie, inoltre, aveva un nome che a Spencer pareva di aver già sentito: Dylan.
Tuttavia, preso com’era dall’agitazione e l’ansia, diciamo pure il terrore, dell’imminente esposizione delle sue opere, non gli riusciva davvero di ricordarsi dove avesse già udito quel nome.
Eccolo di nuovo, quello sguardo omicida!, colse il giovane, intento a scrutare gli altri due e le loro occhiatacce; sembravano tesi e nervosi, pronti a strozzarsi a vicenda.
Scuotendo la testa con fare rassegnato – era un adulto, lui, non poteva certo immischiarsi nelle questioni di due ragazzini! – tornò alla sua mise, chiedendosi come fosse possibile che entrambe quelle splendide cravatte si abbinassero in modo magnifico al suo abito, ignaro che, poco distante, gli altri due stessero combattendo una muta battaglia per trattenersi dallo scagliare un bel pugno all’altro, come conseguenza della discussione avuta poco prima.
Dylan e Freddie, di fatti, erano entrati nell’appartamento del secondo e, subito, si erano separati, ognuno diretto ad un bagno; quando, freschi di doccia e sbarbati, erano riemersi nel salotto, quasi del tutto vestiti, la tensione era cresciuta a dismisura.
Freddie, intento a infilare le scarpe dal taglio classico, aveva osservato l’altro che, dopo aver sistemato il polsino della camicia, aveva indossato la giacca blu scuro, sistemandola sulle spalle larghe.
Dylan, aveva notato Freddie, aveva scelto di non mettere la cravatta, al contrario suo, impeccabile nel suo smoking e, inizialmente, non se n’sera spiegata la ragione, dato che l’abito che indossava la richiedeva di certo. Poi, lentamente, alcuni ricordi avevano preso a ronzargli fastidiosamente nella mente e, tra questi, uno in particolare: il giorno in cui Carly era andata al ballo Padre-Figlia, quando ancora tutti erano convinti che il Colonnello Shay non sarebbe arrivato in tempo per accompagnare la ragazza, lui e Gibby si erano vestiti di tutto punto, su richiesta di Sam ed erano andati da Carly, pronti a farle da chaperon.
Quando, tuttavia, il Colonnello Shay era arrivato, il loro aiuto non era occorso più e, mentre Carly si divertiva al suo ballo, lui aveva scambiato qualche parola con Sam, ignaro del fatto che, di lì a qualche ora, l’avrebbe persa per sempre – le avrebbe perse entrambe – senza nemmeno poterle dire addio.
Così, mettendo su uno di quei sorrisetti vanitosi che sapeva la irritavano a morte, le aveva domandato: - Che ne dici?-, allargando le braccia a facendo un piccolo giro su se stesso.
Sam, mantenendo quell’espressione impassibile e annoiata, aveva sorseggiato la sua bevanda.
- Non male, ma detesto i papillon.-
Freddie aveva fatto roteare gli occhi al soffitto: Sam, incontentabile, Sam. – La cravatta non era adatta.- aveva ribattuto e, stavolta, lei aveva sorriso, abbagliandolo per un istante.
Era saltata giù dallo sgabello e, avvicinatasi al suo orecchio, quasi volesse rivelargli un segreto, aveva sussurrato. – Non mi piacciono nemmeno le cravatte, meglio niente.- e, dopo avergli battuto un colpetto sul petto, se n’era andata a festeggiare con Gibby e Spencer, ballando come se non avesse alcun pensiero al mondo.
Quelle parole, adesso, acquistavano un significato diverso, alla vista di Dylan, senza cravatta, intento a sistemare il colletto della camicia.
Un moto di irritazione aveva fatto serrare la mascella a Freddie e, quando l’altro se n’era accorto, l’aveva guardato. – Tutto bene, amico?- aveva chiesto, con quel tono insolente e fastidioso.
Freddie, alzatosi per afferrare la giacca, aveva assottigliato lo sguardo. – Tutto bene, amico.-
Dylan aveva sorriso, un sorriso soddisfatto che era stata la conferma di quanto gli piacesse irritare e provocare gli altri, di quanto gli piacesse provocare Freddie, in particolare.
Fuori, una neve sottile aveva preso a cadere dolcemente e Freddie aveva notato Dylan osservare fuori, preoccupato e dare una rapida occhiata all’orologio che portava al polso.
Cose gliene importava del tempo?, si era domandato, prima di arrivarci da solo: probabilmente aveva intenzione di ripartire subito dopo la Mostra e non voleva che le strade ghiacciassero.
La rabbia era presa a montargli nel petto, nutrita dalla sconsideratezza e la presunzione di quel tipo; come gli era venuto in mente l’idea di mettersi su una moto in piena notte, con quel gelo e la neve? Cosa gli faceva credere che Sam non avrebbe preferito passare la notte a Seattle? Perché aveva tanta fretta di andarsene e portarla via da loro, ancora?
- Non è consigliabile viaggiare di notte.- aveva detto, d’improvviso, spezzando il silenzio opprimente.
Dylan, sollevate le sopracciglia scure in un’espressione strafottente, aveva scrollato le spalle. – Allora non farlo.- aveva detto.
Freddie, respirando tanto profondamente da allargare le narici, lo aveva fulminato con un’occhiata. – Non potete partire subito dopo la mostra, sta nevicando.- aveva ribattuto.
Dylan, con un sorrisetto irritato, aveva scandito molto lentamente. – Non-ti-riguarda.-
Freddie aveva fatto un passo avanti, rabbioso. – Non voglio che Sam si faccia male, lei mi riguarda.- aveva decretato.
L’altro, rimasto impassibile, aveva alzato il mento in un gesto di sfida. – No, lei non ti riguarda più. – aveva detto. - Sam non è affar tuo, non più. – aveva aggiunto.
Erano entrambi colmi di rabbia repressa e la stanza prese a colorarsi di rosso e un calore bruciante a scorrere al posto del sangue.
- Lei è stata mia… amica per anni! Tu la conosci da quanto? Un mese?! Che diritti hai su di lei?-
Dylan aveva annullato ogni distanza tra loro con un’unica falcata, fronteggiandolo.
- Amica, eh?- aveva sputato, schifato. – Sam è adulta, prende da sola le sue decisioni e ha scelto di restare a Los Angeles, con Cat e me. Sei stato un coglione, Benson e l’hai persa: arrangiati, fattene una ragione, leccati le ferite in un angolo, senza cercare di trascinare anche lei giù con te. Hai la tua brunetta, no? Cos’è, una soltanto non ti basta o semplicemente non sopporti l’idea di perdere?- aveva chiesto, in un sussurro.
E il braccio di Freddie era scattato, pronto a schiantare il pugno sulla faccia di Dylan, ma questo si era scansato facilmente, spingendolo indietro.
- Tu non sai niente di noi! – aveva gridato Freddie, vibrante di rabbia.
- So che Sam ha sofferto, a causa tua. E so che tengo troppo a lei per romperti la faccia.- aveva risposto l’altro, alzando le mani e facendo un passo indietro.
Freddie aveva serrato i pugni, tentando di trattenersi dall’attaccare ancora: doveva scaricare il dolore, la disperazione, l’ira e quello sembrava l’unico modo in cui farlo.
Eppure, l’idea di ferire ancora Sam, facendo a botte col ragazzo di cui si era invaghita, lo aveva frenato e costretto a ingabbiare di nuovo ogni emozione.
- Io ci tengo a lei. – aveva detto Dylan, guardandolo dritto negli occhi, sincero.
E Freddie si era ritrovato a pensare che Sam dovesse aver davvero smesso di amarlo,  perché Dylan non aveva occhi chiari o capelli biondi, che avrebbero potuto aiutarla a non pensare mai a lui: non aveva di quei problemi, non doveva tenere la mente lontana dal suo ricordo perché era troppo doloroso.
Dylan era bruno, alto, aveva gli occhi di poco più chiari dei suoi e, tuttavia, non gli somigliava.
- Se lei dovesse scegliere di restare non farei nulla per convincerla a ripartire: io la voglio onestamente, Benson.- aveva aggiunto, con molta più maturità di quanta Freddie avesse dimostrato fino a quel momento.
- Cosa ti aspetti che dica, Bennett? “Grazie” perché lascerai Sam libera di decidere?- aveva sputato Freddie, stringendo gli occhi.
Dylan aveva sorriso, insolente. – No. Mi aspetto che tu faccia lo stesso.- aveva risposto.
- Io non sono come te.-
- Su questo non ci sono dubbi.-
La discussione era finita a quel modo, sebbene la tensione li avesse accompagnati fino a casa Shay e, adesso, se ne stavano lì, impettiti e nervosi, ad aspettare Carly e Sam.
La voce della bruna li raggiunse entrambi dalle scale e precedette la sua comparsa.
- Spencer?- chiamò.
L’artista, raggiunti i due per ammirare la sorella, fasciata nel suo tubino nero, aderente e ornato solo di piccoli cristalli sui polsi e sullo scollo a V, truccata di argento e dalle labbra colorate di pesca, sorrise.
- Wow, Carly!- esclamò. Poi, subito dimenticatosi di lei, si affrettò a farsi largo tra Freddie e Dylan per mostrarle le due cravatte.
- Quale delle due?- chiese, piagnucolando implorante.
- Hm, forse conosco qualcuno che può darti una mano.- fece Carly, fingendosi pensosa.
- Chi?- le domandò Spencer, curioso e sospettoso.
- Lei.- sorrise la bruna, facendosi da parte.
Sam comparve al suo fianco, sorridendo, imbarazzata, con le guance imporporate e l’aria spaesata di chi non ama trovarsi al centro dell’attenzione – non in quei casi, almeno.
Lo sguardo di Dylan, orgoglioso e famelico, accarezzò i riccioli morbidi che le sfioravano la vita, stretta nel velluto dell’abito scarlatto e le labbra, tinte di corallo.
Freddie, al quale si era mozzato il respiro, si ritrovò a scrutare i grandi occhi di Sam, sfumati d’oro e ambra e a seguire la curva del seno, stretta nella stoffa aderente che la fasciava fino alla vita, come le maniche lunghe che terminavano in polsini di seta, ammirando le gambe velate dalle calze bianche che spuntavano dalla gonna morbida e s’infilavano in un paio di scarpe alte col cinturino alla caviglia.
Lo sguardo del ragazzo vagò dalla bruna alla bionda, che, vicine, parevano muse, dipinte dalle mani esperte di un artista acclamato che aveva voluto fissare su tela quelle bellezze d’altri tempi.
Fu la voce di Spencer a riscuotere gli altri due dalla contemplazione delle ragazze.
- Sam?!- gridò, senza darle il tempo di scendere gli ultimi gradini per raggiungerlo e le fu addosso in un lampo, stritolandola in un abbraccio che le spezzò il respiro.
- Maledizione, Spencer, non respiro, scollati!- gridò la ragazza.
Freddie e Dylan sospirarono all’unisono, scuotendo la testa rassegnati: beh, Sam sarebbe sempre rimasta Sam, anche se vestita da bambolina, no?
- Giuro che ti mando in ospedale con tutte le ossa rotte, babbeo.-
Già.
 
 
 

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Capitolo 8
*** Toque ***


Ringrazio la mia splendida beta, Aduial, per il suo impeccabile lavoro.
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite e chiunque abbia recensito il precedente capitolo (risponderò in privato).
 
 
 
 
 
 
L’arrivo di Gibby, impeccabile e affascinante nel suo smoking blu scuro, contribuì al caos generale provocato da Spencer per la comparsa di Sam; i due ragazzi, per niente intimoriti dalle minacce della bionda, continuavano a strapazzarla in un abbraccio che, al resto del gruppo radunatosi nel salotto dell’appartamento, pareva più un grosso panino.
Fortuna volle, difatti, che Gibby varcasse la soglia di casa Shay proprio mentre Spencer urlava il nome di Sam e, notata la ragazza, un sorriso radioso gli si disegnò sul volto.
- Socia!* Sapevo che non saresti potuta mancare!- disse, battendole una pacca sulle spalle sottili.
Sam, riconquistata la libertà a fatica, con i capelli in disordine e il viso arrossato dal divertimento e l’imbarazzo, scese gli ultimi scalini che la separavano dalla cucina e, diretta al frigo, gettò la borsa sul bancone.
- Due ore buttate… - borbottò, fintamente scocciata, alludendo a trucco e parrucco.
Spencer si accostò alla sorella, avvolgendole le spalle con un braccio. – Grazie.- le disse, solamente, facendo aderire, per un momento, le labbra alla sua tempia.
Carly abbozzò un sorriso. – Era importante per te e… - il suo sguardo vagò, in cerca dell’altra e, quando si posò su Sam che teneva una frizzicola in una mano e un pezzo di pizza avanzato dal giorno prima nell’altra, sospirò, come se, fino a quel momento, l’aria le fosse mancata. - … e per me.- aggiunse, per poi voltarsi a guardare Freddie, stoicamente immobile nello stesso punto di qualche minuto prima, a braccia conserte e con l’aria accigliata.
Accanto a lui, Dylan sembrava più tranquillo, quasi curioso, mentre osservava il nuovo arrivato, studiandolo.
Carly si ritrovò a domandarsi se Sam gli avesse mai parlato di loro, prima che comparissero a Los Angeles, tendendole un’imboscata; decisa a mantenere il clima disteso, si avvicinò a lui.
- Dylan, questo è mio fratello, Spencer.- disse, rivolgendosi poi all’altro. – Spencer, lui è Dylan, un… - s’interruppe, confusa, senza sapere come continuare quella frase.
Cos’era Dylan, per Sam?
Quel momento d’indugio non sfuggì a nessuno dei presenti, fatta eccezione per Sam e Gibby, che, in cucina, chiacchieravano a voce alta, ridendo.
Spencer tese una mano al ragazzo, sorridendo. – Piacere di conoscerti.- disse, dando poi uno strattone a Dylan per avvicinarlo a sé. – Tratta bene Sam, o dovrai vedertela con me!-  sussurrò, giocoso e perentorio al contempo.
Dylan parve sinceramente sorpreso e, sebbene divertito, annuì solennemente.
- Non ha bisogno di essere difesa, ma lo farò.- proclamò.
Spencer annuì, teatralmente, come fosse un padre che ha appena dato la sua benedizione a un matrimonio agognato e, data una rapida occhiata all’orologio dal cinturino in cuoio che portava al polso, quasi non gridò. – Sono le otto e quaranta minuti!- esclamò, afferrando il gomito di Carly e dirigendosi verso la porta.
- Spencer… - protestò la sorella, cercando di arrestare la sua corsa.
- Siamo in ritardo, Carly! Dovevo essere al Museo alle otto, devo controllare la scaletta, la disposizione e poi la lista e… -
- Spencer!-
Carly puntò i piedi sul pavimento, aggrappandosi allo stipite della porta e il rinculo di quella brusca frenata fece rimbalzare Spencer nell’appartamento.
- Che c’è?!- chiese, irritato.
- Primo, non sono le otto e quaranta, ma le otto meno venti minuti! Hai confuso le lancette!- decretò la bruna, scuotendo la testa, rassegnata. – Secondo, i tuoi appunti per il discorso sono nella mia borsa e la mia borsa giace abbandonata sul divano.- aggiunse, indicando la pochette nera che faceva bella mostra di sé sul sofà. – Terzo, devo prendere la giacca e le chiavi!- sbottò, avviandosi verso il corridoio.
Spencer, nervoso e agitato, si gettò al suo inseguimento. – Allora prendila, su, in fretta, ti porto io!- esclamò, afferrandola per le spalle e spingendola come fosse un carrello della spesa.
- Spencer!- le grida di Carly fecero ridacchiare Gibby e, quando i due fratelli tornarono in salotto – Spencer intento a massaggiarsi una spalla e Carly a sistemarsi i capelli lisci – fu evidente che anche la brunetta dovesse tenere molto alla capigliatura appena sistemata.
Dylan, intanto, aveva raggiunto Sam al bancone e lei gli presentò Gibby; entrambi parvero accettare tranquillamente la presenza dell’altro e la ragazza ne fu sollevata: non avrebbe sopportato altra ostilità.
Il citofono suonò in quel momento e Freddie, senza degnare il gruppetto in cucina di un’occhiata, rispose, mormorando qualcosa e riagganciò.
- Il taxi è qui sotto.- annunciò, sistemando i polsini della camicia.
- D’accordo, andiamo.- annuì Carly, superandolo e facendo un cenno agli altri.
In fila, tutti lasciarono l’appartamento e Sam, prima di varcare la soglia, diede un rapido sguardo all’interno, consapevole che non vi avrebbe più rimesso piede per molto tempo, forse per sempre.
Carly, ultima, colse quello sguardo mentre chiudeva a chiave e si fermò di fronte a lei; per un attimo, i loro sguardi s’incontrarono e negli occhi dell’altra si rividero bambine e adolescenti.
Un sorriso malinconico disegnò entrambe le loro bocche e, con un sospiro, Sam fece un piccolo cenno col capo. – Andiamo?- chiese.
Carly, chinato il capo, annuì. – Andiamo.- mormorò, incamminandosi accanto a lei, vicina, ma senza sfiorarla.
 
 
Spencer fu l’ultimo a salire e il primo a scendere dal taxi, che si accostò al marciapiede proprio sotto le scale di granito che conducevano all’ingresso del Museo.
La neve aveva attecchito al suolo e tutto sembrava coperto di bianco.
Si prese un attimo per ammirare lo splendore di quel luogo, maestoso e ricco di cultura, e, fatto un bel respiro, sorrise, sinceramente felice: fin da quando era solo un ragazzino sognava di diventare un artista e, sebbene non gli fosse mai interessato cosa la gente pensasse di lui, sapeva bene che il riconoscimento del pubblico era fondamentale per essere riconosciuto tale.
In quel momento, era come starsene a osservare tutto ciò che si è sempre desiderato palesarsi davanti agli occhi, pensò, quando, saliti un paio di gradini, gli fu possibile leggere il grosso cartellone che annunciava e pubblicizzava l’evento di quella sera e il suo nome scritto a caratteri cubitali.
Fermatosi a qualche passo dall’ingresso per aspettare Carly e gli altri, scorse una figura che, come lui, se ne stava ad ammirare il cartellone e ne notò il sorriso compiaciuto e radioso.
Era una ragazza bassa e minuta, vestita di un abito chiaro coperto da un cappotto color panna e teneva le mani infilate in tasca.
Quando la giovane donna si voltò e potè vederla in volto, il riflesso di quel sorriso comparve anche sulle sue labbra e Spencer si ritrovò a sistemarsi i capelli con un gesto nervoso.
- Ho sentito dire, - esordì lei, avvicinandosi con fare cospiratorio.-  che l’artista che esporrà stasera è un tipo davvero in gamba.- disse, tornando a guardare il cartellone. – Un certo “Spencer Shay”, che, si dice, abbia perfino costruito una scultura con Harry Joyner, suo mentore e artista preferito.- continuò.
- Un tipo del genere non dovrebbe fare il suo ingresso da solo, non credi?- le domandò, voltandosi verso di lei.
La giovane alzò le spalle in un gesto condiscendente e, sospirando con aria teatrale, si decise a guardarlo. – Se proprio ne va della tua immagine, farò il sacrificio di accompagnarti.- concesse, prima di scoppiare  a ridere.
- Alison.- sussurrò lui, afferrandola in vita e attirandola a sé. – Sei così bella!- commentò, quasi oltraggiato, come fosse un’accusa.
La ragazza rise, scostando dal viso il ciuffo che sfuggiva alla coda di cavallo alta e morbida.
- Grazie, credo.- fece, prendendolo a braccetto e indicandogli la piccola folla radunatasi dietro di loro. – Non vorrei sbagliare, ma penso che loro siano con te e si stiano domandando io chi diavolo sia, o, almeno, sono certa che lo stiano facendo loro due.- sussurrò, alludendo a Sam e Carly che, con gemelle espressioni sospette, fissavano la ragazza.
Spencer, imbarazzato, si affrettò a raggiungerle. – Ehm, Carly, ti presento Alison, la mia… ehm… ti presento Alison! Alison, lei è Carly, mia sorella.- balbettò.
La ragazza porse una mano alla bruna. – E’ un piacere conoscerti, finalmente, Carly. Ho sentito molto parlare di te, Spencer non fa altro che parlare di te, in verità e ti ho anche vista su ICarly, qualche anno fa.- le disse, sorridendo e facendo comparire due fossette sulle guance.
Carly sorrise di rimando. – Oh, il piacere è mio. – mormorò, colpita dall’allusione a ICarly poiché sentir nominare lo show, con Sam proprio al suo fianco, era una vera pugnalata al petto.
Freddie, Dylan e Gibby, intanto, scrutavano la ragazza, affascinati e colpiti, domandandosi come Spencer avesse fatto a conquistare una tipa del genere e perché lei sembrasse sia bella sia normale, conoscendo i gusti di Spencer.
- E tu devi essere Sam!- esclamò Alison, intanto, rivolgendosi alla bionda. – Non ti ho riconosciuta subito perchè sembri più… - parve non trovare l’aggettivo adatto, cosa che innervosì parecchio Spencer, che conosceva il caratterino di Sam.
- … più dolce, passami il termine. E dire che scrivo sceneggiature!- borbottò tra sé.
Sam, che aveva a stento ascoltato tutto il cianciare di Alison, si limitò a battere un paio di volte le ciglia, scocciata. – E’ il vestito che inganna, immaginami su una moto e allora potrai dire di aver conosciuto Sam.- ribatté, con quel tono acido di sempre che, tuttavia, non intimorì o indispettì Alison per nulla.
- Oh, sì, Spencer mi ha detto della moto e sono sicura che non avrebbe potuto scegliere una persona più adatta a cui regalarla.- sorrise, voltandosi poi a guardare l’artista, che si torturava le mani quasi temesse più quell’incontro che la Mostra.
Tutti gli altri, distribuiti fuori dall’ingresso, aspettavano che Spencer si decidesse a varcare la soglia e, quando questi finalmente si mosse, assieme a Alison, lo seguirono nell’ampia e calda reception.
Il direttore del Museo li accolse immediatamente e altrettanto in fretta sequestrò Spencer – e Alison, che non si allontanò mai troppo da lui, quasi percepisse il suo bisogno di averla accanto -, mentre alcuni camerieri prendevano le loro giacche e indicavano loro il bar.
Alison si trovava al bar, intenta ad aspettare la propria ordinazione, quando Spencer tornò da un rapido giro di controllo delle sculture e la raggiunse.
- Ehi.- disse.
- Ehi.- sorrise lei, indicandogli il bicchiere di champagne che il barista aveva posato sul bancone di marmo nero e lucido.
Spencer assaporò la bevanda di gusto, bisognoso di qualcosa che gli distendesse i nervi.
- Andrà tutto benissimo.- mormorò Alison, guardandolo con i grandi occhi castani pieni di ottimismo e orgoglio. – Ogni cosa è perfetta, Spencer e i tuoi nonni saranno molto fieri di te, proprio come Carly.- aggiunse, posandogli una piccola mano candida sul braccio.
Senza riuscire a spiegarsi cosa quella giovane donna provocasse in lui o perché, Spencer si sentì subito invadere da un calore che lo avvolse e tranquillizzò e, istintivamente, si sporse a baciarla, assaporandone le labbra nude da qualsiasi rossetto o lucidalabbra.
Lei gli passò una mano tra i capelli, scompigliandoli un po’ e, quando si separarono, sorridenti, non dissero nient’altro, poiché non ne sentivano il bisogno.
Restarono lì, uno accanto all’altra, con le spalle poggiate al bancone, intenti a osservare la sala ancora vuota, fatta eccezione per gli amici più cari di Spencer e gli organizzatori che andavano di qua e di là, di corsa.
D’improvviso, Alison gli tamburellò le dita sul braccio. – Ho una domanda.- fece, curiosa, mentre il suo sguardo si fissava su un punto lontano.
- Quale?-
- Sam e il ragazzo che faceva le riprese di ICarly… Freddie!, sono stati insieme?- domandò.
Spencer spalancò la bocca e la richiuse, poco virilmente. – E tu come lo sai?!- quasi si strozzò.
Alison rise. – E’ evidente da come lui guarda l’altro tipo, quello che non stacca gli occhi di dosso a lei.- gli spiegò, indicandoli uno a uno con un gesto del capo.
E, allora, anche Spencer si volse a guardare i ragazzi e comprese ciò di cui lei stava parlando:
Freddie, poggiato contro il muro con Carly accanto, teneva tra le mani un bicchiere e i suoi occhi cupi non si allontanavano mai di molto da Dylan che, accanto al buffet ancora chiuso, rideva scuotendo il capo di un’imbronciata Sam, alla quale Gibby tentava di spiegare perché fosse logico che il cibo non fosse ancora stato servito.
Spencer, che preso nel turbinio di eventi non aveva ancora modo di elaborare le ultime ore, si ritrovò a riflettere su quanto accaduto quel giorno e solo in quel momento comprese le parole che Carly aveva pronunciato appena tornata a casa: “ Non capisco se sia geloso di Dylan…”.
In principio, il nome Dylan gli era sfuggito e l’aveva rimosso, sebbene Carly avesse accennato al fatto che potesse essere il ragazzo di cui Sam si era invaghita, forse perché non gli riusciva d’immaginarsi Sam innamorata di qualcuno che non fosse Freddie.
Poi, quando Dylan era entrato in casa, seguendo Freddie, che lo aveva presentato scocciato e con aria tetra, si era domandato da dove spuntasse quel ragazzone ben fatto che sembrava troppo… normale, per essere di Seattle: era risaputo, no, che quei pochi bravi ragazzi che abitavano in città finivano per cadere giù nelle trombe degli ascensori!
E, inoltre, il suo nome aveva risvegliato un ricordo, di cui, tuttavia, non era stato consapevole fino a quando non aveva visto Sam, ferma sulle scale.
Per un momento, però, rivedere la biondina gli aveva offuscato la mente di gioia e il suo cervello si era spento, perché lui desiderava solo abbracciarla e sentirsi insultare da lei, com’era sempre accaduto.
Spencer voleva sinceramente bene a Sam, proprio come fosse sua sorella e si fidava di lei, non aveva timore del suo giudizio o di sentirsi inferiore o stupido, con lei, forse perché, proprio come lui, Sam era una ragazza istintiva e irresponsabile, ma col cuore grande.
E, inoltre, Spencer sapeva quanto Sam fosse importante per Carly e quante volte, durante quei lunghi otto anni di amicizia, Sam fosse stata la protettrice e l’ancora di sua sorella, proprio come Carly era stata la sua guida e coscienza.
Sperava davvero che il loro rapporto tornasse quello di un tempo, poiché, a guardarle insieme, su quella scala, si era sentito di nuovo completo, come se la sua famiglia si fosse riunita dopo tanto tempo.
Con la mente, l’artista rievocò l’istante in cui aveva visto Sam, vestita di scarlatto – colore perfetto per lei – e si sorprese a costatare quanto fosse diversa dalla ragazzina tutt’ossa e muscoli che aveva abitato per anni il suo appartamento: quella era una Sam adulta, donna, più controllata e bella, eppure ugualmente maschiaccio e attaccabrighe, proprio come una volta.
La differenza più grande, però, era il fatto che i suoi  occhi non fossero più trasparenti e colmi di luce e non cercassero più Carly e Freddie, per sentirsi al sicuro, no; gli occhi di Sam erano diventati come il ghiaccio, talmente ricco di crepe da non riuscire a vedervi all’interno, eppure fermi e sicuri, indifferenti.
Spencer si era accorto solo allora, mettendola a paragone con Sam, che anche Carly era cambiata moltissimo e che anche i suoi occhi erano cambiati radicalmente: niente più ambra e onice, niente più calore e dolcezza con cui confortare le persone che amava, solo freddo granito nero e cenere.
Gli occhi di Carly non sorridevano, quelli di Sam non sapevano piangere.
Sospirando, l’artista fece vagare lo sguardo dall’una all’altra che, così lontane eppure come fossero in perfetta simbiosi, sollevavano una mano a scostare una ciocca di capelli dal viso e, subito dopo, sorridevano chinando lo sguardo a terra, imbarazzate.
Sembravano le stesse, eppure agli occhi di Spencer era chiaro che, entrambe, fossero spezzate a metà: era come guardare un quadro, bellissimo, eppure incompleto.
La figura imponente di Dylan lo privò della vista di Sam per un momento e Spencer si ritrovò a studiare l’espressione cupa di Freddie che, nonostante la vicinanza di Carly, sembrava faticare a mantenere un certo controllo.
I suoi occhi tormentati erano come una brace ardente e la mascella serrata gli marcava gli zigomi, rendendo il viso spigoloso; dall’altro lato della stanza, invece, Dylan, di nuovo accanto a Sam, conversava amabilmente con Gibby, lanciando, di tanto in tanto, uno sguardo alla bionda, come se i suoi occhi fossero magneticamente attratti da lei.
Spencer, per quanto tentasse, non riusciva davvero a trovare nulla che non andasse in Dylan – era amico di Freddie da una vita, gli doveva la sua lealtà, in fondo – e, nel profondo, nemmeno voleva trovargli un difetto o una ragione per cui non sarebbe stato adatto a alla loro Sam.
Il motivo era semplice: per quanto bene volesse a Carly e Freddie, ne voleva molto anche a Sam e sapeva quanto lei aveva sofferto e - pur essendo brava a celarlo - ancora soffrisse per causa loro.
Comprendeva come Sam si fosse sentita, durante quegli anni e, soprattutto, dopo la notizia della partenza di Freddie per l’Italia e, dato che il brunetto non sembrava intenzionato a buttare l’orgoglio dalla finestra, ammettere i suoi sbagli e prendere finalmente una decisione, desiderava ardentemente che la bionda fosse felice. Se Dylan si fosse rivelato la persona in grado di realizzare la cosa, allora per Spencer sarebbe stato il benvenuto in famiglia.
Certo, nel profondo avrebbe sempre sperato che Freddie aprisse gli occhi e si desse una mossa, ma, fino a quando il ragazzo non fosse stato all’altezza del terremoto che era Sam Puckett, sarebbe stato meglio che se ne tenesse lontano, perché di danni ne aveva provocati e ricevuti già abbastanza.
Osservando lo sguardo argenteo di Sam che accarezzava i lineamenti di Dylan, addolcendosi, Spencer si augurò che Freddie si desse una mossa, o sarebbe stato troppo tardi.
- Sai, quando guardavo qualche puntata di ICarly, le prime volte, credevo che Freddie sarebbe stato perfetto per Carly.- mormorò Alison, intenta a sorseggiare dal proprio bicchiere, sovrappensiero. – Poi, la chimica tra lui e Sam mi ha colpita e ho capito.- sorrise.
- Cosa?-
Alison si voltò a guardarlo. – Gli amori migliori nascono con una risata o un litigio.- decretò.
 
 
 
L’apertura della Mostra, la musica sottile – jazz -, l’ingresso caotico di critici e invitati, l’arrivo dei nonni suoi e di Spencer, stordì Carly, che, sebbene fiera del fratello e felice per lui, sentì il bisogno di ritagliarsi un momento tutto per sé.
Si diresse al bar, decisa a bere qualcosa, accaldata a causa dei riscaldamenti e, mentre attendeva la bibita ordinata picchiettando le dita smaltate sul bancone, qualcuno la affiancò, facendo un gesto secco e affascinante al barista e fu immediatamente servito.
Pronta a protestare riguardo all’ingiustizia della cosa, Carly sollevò gli occhi e si ritrovò a perdersi in quelli azzurro limpido del Professor Trust che, sorridente, le indicò con l’indice i due bicchieri sistemati dal barista.
- Prima le signorine.- disse, prendendo il bicchiere e tenendolo in aria affinché Carly potesse fare lo stesso e, fatti tintinnare l’uno contro l’altro, sorseggiò elegantemente.
La ragazza, ammirando il modo in cui la giacca verde scuro si tendeva sulle braccia ben definite, rimase col bicchiere a mezz’aria, fino a quando lui non lo indicò con un cenno del capo.
- Non è di tuo gradimento?- domandò, preoccupato.
Carly, arrossendo imbarazzata, scosse la testa. – No, no, cioè, sì, mi piace!- balbettò, sorseggiando per dare man forte a quell’affermazione.
- E’… una sorpresa incontrarla qui, Professore.- aggiunse, tamponando le labbra con un tovagliolino.
L’uomo, sistemati gli occhiali con la punta dell’indice, sorrise. – Sono un grande appassionato d’arte.- rivelò. – Io stesso non disdegno di abbozzare qualche dipinto, ma non sono all’altezza di definirmi “artista”. Mi manca la costanza e l’applicazione e, in ogni caso, il mio grande amore resta la scrittura.- spiegò, con lo sguardo ardente di quella stessa passione che andava professando.
Carly, colpita e ipnotizzata, annuì. – Capisco cosa intende: mio fratello è lo scultore a cui è dedicata la Mostra. Lui è un grande artista, crea concretamente, io preferisco inventare mondi fantastici che rimangono mera fantasia.- disse.
Il Professor Trust la osservò. – Devo confessarti che ho richiesto l’invito alla Mostra quando ho letto il cognome dell’artista: “Shay”. La curiosità di sapere se fosse un tuo parente era tanta e ho ceduto.- rivelò, carezzandola con lo sguardo chiaro che fece formicolare la pelle di Carly.
- Se avessi saputo che le interessava le avrei procurato io stessa un invito.- riuscì a dire la ragazza, sebbene le guance tinte di rosso acceso le conferissero un’aria timida e impacciata.
L’uomo sorrise, sfiorandosi il mento con fare pensoso. – Sei molto gentile, Carly e, permettimi, anche deliziosa, vestita così.- si complimentò da vero gentiluomo.
Carly si limitò a sorridere e chinare il capo, imbarazzata, sebbene desiderasse ardentemente rivelargli che anche lui era molto affascinante, con i capelli biondi sistemati in modo da sfiorargli appena la fronte e la cravatta pigramente allentata.
- Ho avuto modo di visitare il tuo sito e guardare qualche minuto del programma che conducevi e devo dire che non mi meraviglia che tu sia tanto conosciuta: eri solo una ragazzina, quando quello show è cominciato, eppure eri già brillante.- disse, in quel suo tono profondo.
La ragazza batté le palpebre, sorpresa. – Ha visto ICarly?- domandò.
Il professor Trust annuì. – E sono rimasto piacevolmente colpito.- dichiarò.
Per un lungo istante si fissarono, occhi negli occhi, entrambi seri e pensosi, poi il cellulare di lui prese a squillare e la voce stridula della nonna di Carly li raggiunse.
- Il dovere chiama.- sospirò l’uomo, sollevando il cellulare a mo’ di spiegazione.
- Va già via?- domandò Carly, facendo un piccolo passo avanti, contrita.
Lui alzò le spalle. – Ho un meeting, domattina e devo discutere gli ultimi dettagli dell’editing di un libro che sto revisionando per un giovane scrittore.- le spiegò, dispiaciuto.
- Fai le mie congratulazioni a tuo fratello, Carlotta: ho trovato ogni scultura originale.- aggiunse, restando a fissarla, indeciso, per un momento.
Poi, sorridendo appena, si chinò a sfiorarle una guancia con un bacio delicatissimo, che a stento le sfiorò la pelle ma che ebbe ugualmente l’effetto di farle esplodere il cuore nel petto e avvampare bruscamente.
Quando sua nonna la raggiunse, per domandarle dove si trovasse Spencer, il Professor Trust era già sparito oltre il maestoso portone d’ingresso.
La nonna si volatilizzò e insieme a lei quel suo vestito tutti fiori e colori sgargianti e, prima ancora che potesse accorgersene, Carly si ritrovò affiancata da un nuovo compagno di drink.
Dylan, gomiti sul bancone, si voltò a guardarla, curioso. – Tipo interessante.- esordì, facendo un cenno di ringraziamento al barista e sorseggiando la propria bevanda con aria distratta.
- Come?- fece lei.
Dylan incrociò il suo sguardo, celando malamente un sorrisetto. – Il… tipo che era qui con te, qualche minuto fa. Sembrava… uno di quegli scrittori squattrinati che si vedono nei film, sai, quelli che, alla fine, si beccano sempre la ragazza.- ridacchiò, strizzandole l’occhio.
Carly, colpita dall’acume del giovane, rimase un attimo in silenzio, ben consapevole che qualsiasi menzogna avesse detto non sarebbe stata credibile, così decise di cambiare argomento.
- Dov’è Sam?- gli domandò, guardandolo di sottecchi mentre lui si voltava, poggiandosi al bancone.
- Al buffet, ovviamente.- sorrise, dolcemente, senza nemmeno accorgersene.
- E come mai tu non sei con lei?- insistette Carly, sarcastica. – Credevo non fossi in grado di lasciarla nemmeno un istante.- aggiunse.
Gli occhi scuri di Dylan si sollevarono, pigri e divertiti, in quelli della ragazza. – Con me non attacca, Carly: non sono uno che si fa provocare, se non vuole.- decretò. – Non mi caverai niente, a quel modo, chiedi e basta, se vuoi sapere qualcosa.- aggiunse.
Colpita e affondata, Carly sorrise. – Touché.- fece, alzando un dito e mimando un fioretto.
- Allora, la mia domanda è: perché non sei con Sam, in questo istante?- continuò.
Dylan chinò il capo, abbozzando un sorriso amareggiato e comprensivo al contempo.
- So che stare qui è difficile per lei e credo avesse bisogno di qualche momento sola con i suoi amici.- spiegò, sollevando gli occhi per cercarla e indicarla a Carly.
La ragazza seguì il filo di quello sguardo e, alla fine, vi trovò Sam, intenta a ridere con Gibby, di qualche battuta che lei non poteva aver udito.
Subito, Carly cercò Freddie e, poco dopo, lo trovò seduto a uno dei divanetti sistemati da una parte della sala, insieme a Spencer, silenzioso e imperturbabile.
Ovviamente, Dylan colse quello sguardo. – Il tuo amico non sembra contento.- fece, sarcastico.
Carly si voltò a fulminarlo. – Con me non attacca.- lo scimmiottò. – Se vuoi sapere qualcosa, chiedi e basta.- aggiunse.
Il ragazzo rise di gusto. – Me la sono cercata, in effetti.- ammise, passandosi una mano tra i capelli in un gesto nervoso. – D’accordo, Carly: Benson è ancora innamorato di lei?- chiese, a bruciapelo, facendosi serio e attento e fissando lo sguardo in quello di lei.
Carly quasi sussultò e il respiro le si mozzò, a causa del tormento che poteva leggere negli occhi di Dylan e, quando sfuggì quegli occhi, cercando Freddie per osservarlo e trovare una risposta che fosse sincera, scoprì che anche lui la stava guardando, curioso e irritato.
Si affrettò a tornare su Dylan, prima che i due ragazzi si accorgessero di quel gioco di sguardi e la tensione divenisse insopportabile. – Forse. Se lo è, non ne è consapevole, non completamente, almeno.- rispose, sospirando.
- E’ una risposta vaga.- protestò Dylan, incrociando le braccia in un moto infantile.
Carly alzò le spalle. – E’ l’unica che so darti.- ribatté.
In quel momento, Sam si volse a cercare Dylan e il suo sguardo vagò nella folla, posandosi per errore su Freddie e indugiando qualche istante, per poi riprendere a sondare la stanza, fino a trovare il ragazzo.
Sorrise, prima di accorgersi che lui era accanto a Carly e il sorriso si congelò sul volto per un istante e scomparve, rapidamente, sostituito da un’espressione di finta calma che Dylan non mancò di riconoscere.
Sam e la sua insicurezza, era qualcosa che non avrebbe mai capito: come poteva pensare che lui provasse un qualche interesse per la bruna? Era evidente che stravedesse per lei, che fosse innamorato di lei, che volesse lei.
Quanto a fondo quel Benson l’aveva spezzata, ferita, resa fragile?
Dylan si accorse che anche Carly stava guardando Sam, con la nostalgia negli occhi bruni.
- Ti manca molto?- le chiese, senza bisogno di specificare altro.
Carly sorrise e gli occhi si fecero lucidi. – Più di qualsiasi altra persona al mondo.- rispose, cercando di controllarsi. – Sai, ho sempre pensato che mio padre mi mancasse troppo per poterne sopportare la lontananza ancora a lungo e così sono partita con lui. A quel punto ho creduto che Spencer mi mancasse così tanto da non sopportare di essergli distante e sono tornata. Ora, mi rendo conto che è Sam la persona che mi manca più di ogni altra. E’ come… essere spezzata a metà.- mormorò.
Dylan annuì, distogliendo gli occhi da lei per non farla sentire a disagio.
- Sei innamorato di lei?- gli domandò, timida e piena di tatto.
Il ragazzo sospirò. – Sì.- disse, in un soffio.
- Allora abbi cura di lei.- lo pregò Carly, solenne. – Lo merita e ne ha bisogno, anche se fa di tutto per dimostrare il contrario.- spiegò.
- Già, è una dura.-
- Sì, come il vetro.-
Dylan si staccò dal bancone, pronto a tornare da Sam, ma Carly lo fermò un istante prima che s’incamminasse.
- Credi che… - sembrò non trovare le parole giuste, ma Dylan comprese ugualmente.
- Sì, le manchi molto anche tu.- disse, voltandosi appena.
- Cat è una buona amica, per lei?- chiese ancora Carly, torturandosi le dita.
Dylan sospirò, chinando il capo. – Io non voglio ferirti, Carly, dicendoti qualcosa che non vuoi sentire.- spiegò.
La ragazza fece un passo avanti. – Sono io che voglio saperlo.- decretò.
Lui alzò le spalle. – E’ tutta la sua famiglia, ora.- rispose, in un soffio.
Carly accusò il colpo, annuendo come un automa e si affrettò ad allontanarsi; non prima, però, che Dylan, guardandola dritto negli occhi, mormorasse. – Ti vuole ancora molto bene, Carly, credimi.- sincero.
 
 
Il vociare allegro tutt’intorno, le luci bianche che accarezzavano i tendaggi maestosi e la sala, il flash di qualche macchina fotografica di chissà quale giornalista, erano solo un contorno per Sam Puckett.
Per la bionda diciannovenne, non esisteva altro, in quella stanza, se non il delizioso tavolo da buffet, lungo e rettangolare, dal quale proveniva un profumino delizioso e dal quale non si era mai allontanata per più di qualche minuto.
Data, poi, la recente scomparsa di Dylan, che si era allontanato con un “Vado a prendere qualcosa al bar” e non era ancora tornato, Sam aveva eletto Gibby suo portapiatti personale e lo aveva sistemato in un angolo, con i palmi rivoli all’in su sui quali aveva adagiato un vassoio, preso dal sopracitato tavolo e ricoperto interamente di cibo.
- Per un momento, quando ti ho vista, ho pensato che fossi cambiata, che fossi diventata più femminile… - sospirò, sconsolato e rassegnato, il ragazzo, intento a osservare la bionda che divorava senza ritegno una coscia di pollo e, subito dopo, due o tre dolcetti.
Sam, con la bocca piena, fece roteare gli occhi al soffitto. – Confinua a fsognare!- ribatté.
Gibby s’incamminò verso uno dei divanetti, certo che Sam lo avrebbe seguito: fino a quando il cibo era in suo possesso, non c’era pericolo di vederla sparire, evaporare come neve al sole.
Per quanto, difatti, Sam lo avesse torturato e malmenato in passato, per lui quella biondina pazza e violenta era divenuta una cara amica, più di quanto si sarebbe mai aspettato.
Forse era stato perché aveva creduto in lui – o nelle sue polpette – quando aveva deciso di aprire il ristorante nella scuola e gli aveva dato il suo aiuto e appoggio, divenendo sua socia e guarda del corpo, forse perché, quando lei e Freddie avevano rotto, lui l’aveva scoperta più fragile e umana, beccandola più volte con lo sguardo perso e l’aria triste che, ovviamente, lei si affrettava a celare sotto l’acido sarcasmo, forse, semplicemente, perché Sam non era poi così male e lo aveva accettato come parte di quel loro gruppo tanto ristretto ed esclusivo.
Qualunque fosse il motivo, Gibby voleva bene a Sam e aveva sentito molto la sua mancanza, quindi voleva poter parlare con lei per un po’, magari chiederle di quel Dylan e se avesse intenzione di tornare a Seattle definitivamente, prima o poi.
Come previso, Sam si sedette accanto a lui su uno dei due divani che formavano un angolo a destra dell’albero di Nasi di Spencer, esposto su un piedistallo bianco.
- Allora, Sam: parlami di quel tuo amico, Dylan.- esordì, ben consapevole che in qualunque modo avesse cercato di farla sbottonare non sarebbe riuscito, quindi tanto valeva andare al punto.
Lei, addentando una fetta di salame, scrollò le spalle. – Non c’è niente da dire.- decretò.
- Oh, andiamo! Si vede lontano un miglio che ha una cotta per te.- incalzò il ragazzo, sgomitandola e beccandosi un’occhiata omicida.
- Se speri di farmi paura, caschi male: ho il cibo e non rischieresti.- scherzò.
Sam sbuffò. – Posso sempre ignorarti.- fece notare. – E limitarmi a gustare questo delizioso Sandwich! Mi chiedo perché non abbiano preparato delle bistecche.- aggiunse, poi, pensosa.
- Perché non è una cena di Gala.- rispose Gibby. – Come vanno le cose a Los Angeles?-
- Bene.-
Gibby sospirò. – Come sta la tua amica Cat?- chiese ancora.
- Bene.-
- Il tuo lavoro di baby sitter?-
Sam alzò le spalle, scocciata. – Non lavoro più come baby sitter. Sto frequentando un corso di management.- spiegò.
Gibby si illuminò. – Oh, Sam, è una grande notizia!- esclamò.
- Non entusiasmarti troppo.-
- E lì che hai conosciuto quel tipo?- insistette il ragazzo, indicando col capo Dylan, intento a chiacchierare con Carly al bancone del bar.
- Già.-
Gibby notò il modo in cui lo sguardo di Sam si posava, di continuo, sul ragazzo e come cercasse di trattenersi dal guardarlo ancora, senza però riuscirvi.
- Sembra un tipo a posto.-
- Buon per lui.-
Restarono zitti per un po’, poi Sam, decisa a non toccare più l’argomento “Dylan, sentimenti”, si voltò a guardare Gibby. – E’ vero che hai trovato lavoro?- chiese.
In fondo, molto in fondo, anche a lei era mancato quel ragazzo impacciato che, un tempo, amava togliersi la maglietta ed esasperare chiunque ci avesse a che fare.
- Certo! Al Pear Store.- spiegò, ben consapevole che i ricordi di Sam sarebbero volati, immancabilmente, a Freddie e a quando anche loro avevano lavorato lì.
E così fu: Sam si ritrovò a quel giorno, in casa Shay, quando Freddie aveva portato quattro pere e ne aveva data una a ciascuna di loro, ma non a lei.
Eppure, la quarta pera c’era, non era stata dimenticata, semplicemente, giaceva ancora nel cestino, sola, in attesa.
- Non volevi aprire un ristorante?- chiese a Gibby, scacciando quei pensieri dalla testa.
L’altro sospirò, rabbuiandosi. – Certo, ma non ho i mezzi finanziari per farlo, Sam. E’ un investimento troppo grosso.- mormorò.
Sam annuì. – Non dovresti escluderla come idea, comunque: quelle polpette erano una bomba!- esclamò.
Gibby rise. – Saresti ancora mia socia?- chiese.
- Potrei mangiare gratis ogni volta che ne ho voglia?-
L’altro annuì.
- Puoi contarci!-
Per qualche istante rimasero in silenzio, poi Gibby si grattò il naso, imbarazzato.
- Credo che mi piaccia qualcuno, sai?- le disse, con un filo di voce.
Sam, per niente avvezza a fare da confidente, soprattutto non di un ragazzo, alzò le sopracciglia in un’espressione sorpresa. – Ah, si?- fece, cercando di suonare interessata e discreta.
Dov’era Carly, quando serviva?!
Ah, certo, a parlare con Dylan al bar!
Scosse la testa di riccioli biondi, per scacciare via il timore e l’ansia che sentiva crescerle dentro.
- E’… una persona diversa, dal mio tipo abituale.- continuò Gibby, attento a selezionare le parole adatte.
Non aveva ancora realizzato nemmeno lui cosa provasse realmente per Scott, eppure sapeva che, se c’era una persona con cui ne avrebbe parlato senza timore di essere giudicato, quella persona era Sam Puckett.
Sam era priva di pregiudizi, non badava alla forma ma al contenuto e quello bastava per fare di lei un’amica fidata.
- E la cosa ti dispiace?- chiese.
- No, ma… è strano, mi confonde, sono confuso.- replicò il ragazzo.
Sam scrollò le spalle in un gesto sprezzante. – I cambiamenti a volte fanno bene.- disse. – E’ stupido sforzarsi di farsi piacere qualcuno solo perché è ciò che gli altri si aspettano da te. Se ti piace un’altra persona, per quanto ti sembri strano e bizzarro e impossibile, è giusto fare un tentativo.- disse, sovrappensiero.
Gibby si sorprese di sentire tanta saggezza provenire nientemeno che da Sam Puckett e, voltatosi a cercare Freddie con lo sguardo, si chiese se si fosse reso conto di quanto lontana la bionda fosse, col cuore e la mente, da quella ragazza che aveva sabotato la sua domanda di iscrizione al corso a cui lui teneva tanto.
Freddie, in piedi a qualche metro da loro, di profilo, intento ad osservare la scultura fatta di yo-yo, sembrava assorto e perso, come fosse completamente assente.
Gibby sospirò, guardando Sam. – Tornerai mai a Seattle, Sam?- le chiese, a bruciapelo, sperando di coglierla di sorpresa e spingerla a dire la verità.
Lei, sorprendentemente, rimase stoicamente calma e, tranquillamente, scosse la testa.
- No, Gibby. Los Angeles è casa mia, adesso. – decretò, come se fosse stanca di dover ripetere quelle parole.
Il ragazzo, sgonfiandosi, si passò una mano sul viso. – Vado a cercare Carly e Spencer.- mormorò, posando il vassoio sul tavolo basso sistemato di fronte al divano.
Sam annuì, distratta, sorseggiando dal bicchiere che si era portata dietro.
 
 
 
Freddie si era tenuto in disparte tutta la sera, ben deciso a non rovinare la serata a Spencer e, per farlo, c’era un unico modo: non stare mai troppo vicino a quel Dylan e la sua aria da “Io sono meglio di te”.
In verità, a Freddie pareva più che la sua faccia dicesse: “Prendimi a pugni”, ma, dato che tutti gli altri sembravano pronti a saltar su ogni qual volta i loro sguardi si incrociavano o lui e Sam se ne stavano troppo vicini, aveva deciso che fosse più intelligente stargli alla larga, poiché non voleva certo costringere i suoi amici a rischiare di farsi male per causa sua.
Era vero anche che trovava frustrante gli sguardi allarmati che Carly gli lanciava di continuo e il modo per nulla discreto in cui tentava di distrarlo dalla coppietta intenta a ridere, scambiarsi occhiate complici e sfiorarsi, certa che nessuno li vedesse.
Lui lo vedeva eccome, Dylan, che raccoglieva i lunghi capelli di Sam, sistemandoglieli su una spalla e sfiorandole – casualmente, certo!- il collo.
Lui la vedeva eccome, la mano di Sam, che sfiorava le dita di lui, proprio sopra il tavolo e, tremante, si ritraeva, come si fosse scottata.
Lui le vedeva eccome, le guance di Sam, tingersi dello stesso scarlatto del vestito che indossava e che, ovviamente Dylan aveva scelto.
Lui lo vedeva eccome, lo sguardo bruciante di Dylan, che si posava sulle labbra color sangue di Sam e il modo in cui lei mordeva quelle stesse labbra, nervosa e ipnotizzata da lui.
E, poi, il suo cuore batteva, furioso, eppure l’ossigeno sembrava non arrivare al cervello e ogni cosa si tingeva di rosso, quel rosso, il rosso di Sam, privandolo della vista e della ragione.
Il suo profumo, che avrebbe riconosciuto tra mille, lo raggiungeva, anche dall’altro lato della stanza, come se il fato si divertisse a tormentarlo, spingendolo alla pazzia.
“Io non sono innamorato di Sam”, pensò, dichiarò a se stesso, cercò di tenere a mente.
“La mia è solo la reazione di un ex ragazzo che ha tenuto molto alla fidanzata, di un migliore amico che non è più tale e ne sente la mancanza”, aggiunse, mentalmente, mentre mille immagini di sé e Sam gli esplodevano in testa.
Sam bambina, quel primo giorno, durante le riprese dei provini a scuola, come punizione;
Sam ragazzina, sulla scala antincendio dove avevano condiviso il primo bacio, giurando poi di non dirlo a nessuno, senza accorgersi di quanto poco reggesse quella scusa usata per celare un desiderio troppo vergognoso per entrambi; Sam ragazza, quasi precipitata dalla piattaforma del lavavetri, che, per la prima volta, si lasciava aiutare da lui; Sam adolescente, che lo baciava nel mezzo del cortile della scuola, scusandosi subito dopo; Sam giovane donna, che gli diceva “Ti amo anch’io”, nell’ascensore di casa Shay; Sam adulta, lontana, vestita di scarlatto, innamorata di un altro.
Il ragazzo, seduto su uno dei divanetti nell’angolo della sala, cercò con lo sguardo quel tipo, Dylan e lo trovò al bar, intento a parlare con Carly.
Era certo, sicurissimo, che l’argomento fosse Sam e odiava il fatto che la bruna sembrasse aver accettato così di buon grado la presenza di  Dylan nella vita della bionda; per Carly, evidentemente, c’erano due sole alternative: o lui si decideva a riconquistare Sam o avrebbe dovuto farsi da parte, per sempre.
Che, poi, era anche quello che gli aveva fatto capire Spencer, mezz’ora prima, parlando a vanvera e lasciandosi scappare qualche frase finemente elaborata per colpirlo, qua e là.
Nessuno di loro, nemmeno Gibby, che sembrava estasiato all’idea di rivedere Sam, sembrava mettere in conto il fatto che, di lì a qualche ora, lei sarebbe andata via, di nuovo, per sempre.
Perché erano tutti convinti che sarebbe bastata una sua frase, a trattenerla?
Non capivano, forse perché non erano rimasti abbastanza a Los Angeles con lei, che Sam si era rifatta una vita, aveva trovato un equilibrio, una stabilità, una sicurezza per tanto tempo perduta, lontana da Seattle e non avrebbe rischiato ogni cosa solo perché sentiva la mancanza di un’amicizia e un amore di cui restavano solo le ceneri.
Si alzò, camminando per la sala, la sua stessa pelle sembrava dargli fastidio, si sentiva stordito e irritato, nervoso, doveva rilassarsi e darsi una calmata.
Qualcuno lo urtò, scusandosi e il nonno di Spencer, intento a elogiare le opere del nipote ad un gruppetto di ospiti, lo salutò con un gran sorriso; Freddie si affrettò a raggiungere un punto più isolato e si ritrovò di fronte alla scultura di yo-yo.
Quel profumo, il profumo di Sam, lo avvolse ancora e, voltandosi appena, la vide: sedeva con Gibby, sorprendentemente da sola, senza Dylan a incomberle addosso e, ovviamente, mangiava, mantenendo comunque un certo contegno, cosa che non mancò di scioccarlo.
Era bella, bellissima, più di quanto avrebbe potuto permettersi una come lei, troppo egoista per lasciarsi amare, per innamorarsi, per amare.
Almeno, troppo egoista per lasciarsi amare da lui.
Non gli aveva mai reso le cose facili e, forse, lui si era arresto troppo in fretta, forviato da quel tarlo che gli ripeteva che Carly era quella giusta e che doveva provare a stare con lei.
Si era ingannato da solo e, adesso, non poteva far altro che starsene a guardare la ragazza che aveva amato e perduto, chiedendosi perché, una volta, il fatto che lei usasse troppo parmigiano lo avesse mandato fuori di testa.
Che irrecuperabile idiota!
Poi, come se fosse lo spettatore di un film, la musica s’interruppe e cambiò, riprendendo dolce e sinuosa, invitante e Gibby, seduto accanto a Sam, si alzò, posando il vassoio sul tavolo e sparendo, lasciando una grande macchia bianca che era il posto libero sul divanetto.
Freddie tentennò, indeciso, stringendo i pugni e serrando la mascella; per quanto tentasse di vincere quell’attrazione che, magnetica, irresistibile, lo spingeva verso di lei, non vi riuscì.
A passi lenti, tanto pesanti che avrebbe potuto lasciarne l’impronta nel pavimento lucido, la raggiunse, superando persone e sculture, voci e risa che divenivano solo rumore di fondo, colori e oggetti che sfumavano attorno a lei, unica persona dai dettagli perfettamente nitidi.
Si fermò davanti a lei, in attesa che Sam alzasse il capo e lo notasse, senza sapere che la ragazza lo aveva già visto arrivare e che, nervosa e agitata, aveva tentato di mantenersi calma.
Sam sollevò il mento e i suoi occhi, illuminati dalla luce bianca che li rendevano ancora più chiari, si posarono su di lui, apparentemente sereni; alzò un sopracciglio in un’espressione curiosa, interrogativa.
Non disse nulla e, del resto, Freddie non si sarebbe aspettato nulla di diverso da lei: “Tuo il primo passo, tua la palla”, gli sembrava leggerle in mente.
Nemmeno il ragazzo disse niente, si limitò a indicare, con un cenno, il posto vuoto accanto a lei e Sam lo invitò a sedersi con un gesto della mano.
Freddie si sedette, sistemandosi i pantaloni e posando un gomito sulla spalliera e l’altro sul bracciolo del divano; respirò a fondo, accarezzandosi le guance con un gesto della mano.
- Che cosa fai?- le domandò, cercando di mostrarsi tranquillo e dandosi mentalmente dell’idiota per quell’esordio tanto banale.
Sam, difatti, si volse a guardarlo, trattenendo una risata e i capelli biondi scivolarono sulle spalle, coprendole il seno e rifinendo d’oro il vestito.
- Mangio.- rispose. – Polpetta?- gli chiese, indicando il vassoio col mento.
I loro sguardi si incrociarono ed entrambi seppero a cosa l’altro stesse pensando, in quale ricordo fosse perso, quali sentimenti stesse cercando di dimenticare.
Sam chinò il capo, tornando a guardare di fronte a sé e Freddie ne studiò il profilo, passandosi una mano tra i capelli, frustrato.
- E’ ridicolo.- commentò, d’improvviso, lei.
Attento, lui aggrottò le sopracciglia. – Cosa è ridicolo?- chiese.
Lei si volse a guardarlo, scrollando le spalle. – Il fatto che parlare sembri tanto difficile, che ci sentiamo così a disagio.- rispose, storcendo le labbra in una smorfia.
Freddie sospirò, gettando indietro il capo nel tentativo di rilassarsi. – Mi dispiace.- disse, chiudendo gli occhi un istante, solo per riaprirli e trovarsi perso in quelli di lei che, spalancati, lo fissavano.
- Di cosa?- gli chiese.
Lui tornò dritto, posando i gomiti sulle ginocchia. – Non lo so, Sam, per ogni cosa che ho fatto e che ti ha fatto soffrire.- sbottò, allargando le braccia.
Sam sorrise, amareggiata: per un istante, aveva creduto che lui si fosse reso conto di cosa lei avesse provato, di quanto avesse sofferto e del perché se ne fosse andata.
Si era sbagliata: Freddie, semplicemente, si sentiva in colpa e chiederle scusa era un modo per lavarsi la coscienza; “Scusa se ti ho lasciata perché non ti accettavo per quella che eri”, “Scusa se non ho mai smesso di amare Carly e ho scelto te solo perché eri diversa da lei”, “Scusa se ho baciato Carly e non te l’ho detto”, “Scusa se ti ho illusa, venendo fino a Los Angeles per poi fuggire non appena Carly ha schioccato le dita”, “Scusa se sono volato in Italia con Carly”, “Scusa se sono un pezzo di merda”.
Già, forse quell’ultima scusa era quella che avrebbe ascoltato più volentieri.
Era una vera idiota, perché, ogni volta, Freddie Benson riusciva a farla capitolare, nonostante tutto, nonostante lei fosse Sam Puckett.
- Tu non lo capisci, vero?- chiese, in un sussurro.
Freddie la guardò, con un’espressione confusa, frustrata, perché era evidente che non riuscisse a capire.
- E tu non me lo spieghi, Sam.- obbiettò, perché, come sempre, Freddie Benson doveva avere un’attenuante, perché lui era un bravo ragazzo, che non avrebbe mai ferito nessuno, intenzionalmente.
Ovviamente.
Accanto a lei, Freddie batteva il tempo con un piede, ritmicamente, nervoso, come se non riuscisse a controllare il desiderio di alzarsi e cominciare ad urlare.
- Già, non importa, non più.- decretò lei, lanciandogli uno sguardo impenetrabile e deciso.
Freddie rimase a fissarla, pietrificato, sgomento, scioccato da quanto lei sembrasse impassibile alla sua presenza e vicinanza.
E gli occhi di Sam si ritrovarono in quelli di Dylan che, poggiato contro una parete, la osservava, senza accennare a intromettersi in quel momento con Freddie, sebbene la cosa lo rendesse follemente geloso.
Il senso di colpa prese a dilagare dentro di lei, mentre le parole del ragazzo le risuonavano in mente: “So che provi ancora qualcosa per quel tizio e non voglio importi di scegliere…”
Non era giusto, non voleva che Dylan passasse ciò che aveva passato lei con Freddie e Carly.
Non l’avrebbe trasformato nel terzo lato di un triangolo destinato a far soffrire entrambi.
- Devo… andare.- mormorò, accennando ad alzarsi.
A cosa sarebbe servito, poi, restare accanto a Freddie per qualche minuto?
Lei sarebbe partita comunque, lui non avrebbe potuto cambiare il passato, entrambi non sarebbero stati in grado di dire nulla che potesse farli stare meglio.
Perfino un “Ti amo ancora”, in quel momento, sarebbe stato tremendamente doloroso, poiché entrambi sapevano che, nonostante tutto, le cose non sarebbero mai più state le stesse.
Era inutile, allora, illudersi che quel calore e quell’eccitazione e quel senso di completezza che sentivano, a starsene semplicemente seduti vicini, potesse durare più di qualche mero istante.
- Sam.- la voce di lui, la sua mano intorno al polso, i suoi occhi che la incatenavano a sé.
La ragazza tornò seduta, le guance in fiamme, lo sguardo incandescente e furioso; perché credeva di poterla trattenere così semplicemente e perché lei non si scrollava la sua mano di dosso, andandosene subito?
Le dita di Freddie indugiavano ancora sulla pelle diafana di Sam, su quel polso tanto sottile che, spesso, quando stavano insieme, lo aveva portato a chiedersi come diamine facesse lei a essere tanto minuta e forte al contempo.
Era difficile dar voce a ciò che avrebbe voluto dirle, perché non era chiaro nemmeno a lui cosa sperasse di fare, perché non volesse lasciarla andare.
- Benson.- la voce di Sam, secca e decisa, fece scattare i suoi occhi in quelli di lei che, alzando un sopracciglio, s’indicò il polso prigioniero.
Assottigliando lo sguardo, il ragazzo la osservò, attento. – Cosa c’è, Sam? Qual è il problema?- chiese, tagliente, rabbioso, ben consapevole di cosa stesse pensando lei.
Era evidente temesse che Dylan li vedesse, non voleva renderlo geloso, non voleva pensasse che tra loro ci fosse ancora qualcosa.
Lui aveva dovuto guardarle le mani di Dylan addosso tutta la sera, a quello non ci pensava?
- Mi dà fastidio.- rispose lei, cercando di ritrarre il braccio e sorprendendosi di non riuscirvi.
I suoi occhi indugiarono sulla mano di Freddie e poi sul proprio braccio, ancora prigioniero, come se non riuscisse a spiegarsi, a capacitarsi del fatto che lui fosse più forte, ora.
Perché Sam non era capace di accettare i cambiamenti che non riguardassero se stessa e Freddie lo sapeva: non si era accorta che, in quei due anni, anche lui era cresciuto, che aveva lavorato su se stesso, aveva fatto esperienze, aveva commesso errori e tratto insegnamenti da ogni situazione.
E, adesso, le dava fastidio perfino che la toccasse: quanto a fondo vuoi ferire, Sam?
Gli occhi bruni del ragazzo si scontrarono con quelli di Dylan, in piedi davanti alla parete proprio di fronte ai divanetti, intento a fissarlo, con odio e possessività nello sguardo.
Freddie attirò a sé Sam per il polso e si accostò al suo orecchio.
 - E’ a te che da fastidio o al tuo amico?- chiese, in un sussurro sprezzante e carico di rabbia.
Il profumo di Sam gli si legò addosso, penetrando i vestiti, la carne e raggiungendolo fino in fondo al cuore, dove aveva sepolto l’amore che provava per lei.
Sam, le cui gambe sfioravano le sue, i cui capelli gli solleticavano le mani, il cui respiro gli sfiorava il collo, si scostò da lui, con le guance in fiamme e gli occhi pieni di odio.
Si dimenò dalla sua presa, ottenendo di liberarsi e, subito, un ceffone lo prese in pieno, con tanta violenza da fargli voltare la faccia verso il bar.
Era furiosa, che, dopo averla ignorata per due giorni, osasse trattarla a quel modo solo per far arrabbiare Dylan e dimostrare che potere aveva su di lei.
Stava sputando su tutto ciò che era stato il loro amore e nemmeno se ne rendeva conto.
Mentre lui tornava a guardarla, sconvolto, lei si era già alzata ed era pronta ad andarsene; intorno a loro, nessuno sembrava essersi accorto di nulla, eppure alle persone più importanti di quell’intreccio di relazioni e legami la scena non era sfuggita.
Così, quando Freddie si alzò, pronto a seguirla, Carly sopraggiunse, ponendosi davanti a lui e impedendogli di proseguire e Sam, incontratasi con Dylan a metà strada, che, furioso, si era già mosso per raggiungerli, lo afferrò per un braccio e lo trascinò dall’altro lato della stanza, tenendolo lontano da Freddie.
Alison, al bar, posò il bicchiere e s’incamminò verso Carly con calma, sorridendo ad un ignaro Spencer intento a rispondere alle domande di alcuni giornalisti.
- Carly, perché tu e il tuo amico non prendete una boccata d’aria? – propose, incrociando gli occhi fiammeggianti di Freddie.
La bruna annuì. – Sì, è una buona idea.- disse, spingendo il ragazzo più avanti. – Muoviti, Freddie.- aggiunse e il ragazzo, scrollandosela di dosso, guadagnò l’uscita a grandi falcate.
Alison le posò una mano sul braccio. – Partirà subito dopo la Mostra?- chiese, alludendo a Sam.
Carly sospirò, annuendo, stanca. – Credo di sì.- disse.
- Spencer non lo sa e ci tiene a salutarla. Pensi che Freddie… - la donna lasciò la frase a metà, non c’era bisogno che la completasse.
- No, ha solo bisogno di calmarsi, non ci saranno problemi.- decretò Carly. – Lo raggiungo.- aggiunse, notando il fratello che si avvicinava.
Spencer si accostò a Alison. – Che succede?- domandò, passandole un braccio attorno alla vita.
- Oh, niente, problemi di donne.- sorrise lei, strizzandogli l’occhio.
- Bleah!- esclamò l’artista. – Non voglio sapere niente!- aggiunse. – Ehi, sai che un tizio mi ha offerto tremila dollari per la “pupazza di neve”?- le domandò, entusiasta.
 
 
 
A mezzanotte, in perfetto stile Cenerentola, le luci si spensero e gli invitati defluirono fuori dal Museo e così i giornalisti e i critici.
I nonni di Spencer e Carly salutarono i nipoti, rifiutando l’invito a trattenersi per la notte e, dopo aver sganciato un bell’assegno, orgogliosi, se ne andarono.
Il direttore del Museo trattenne Spencer ancora qualche istante, per organizzare un incontro riguardante la creazione di un dépliant che raffigurasse le sue opere più apprezzate e ne stabilisse un prezzo per l’acquisto.
La serata era stata un successo, perfino quando, durante il suo discorso, i calzini di Spencer avevano preso e il direttore stesso era stato costretto a scaricargli addosso l’intero estintore.
Quando si ritrovarono nel taxi, diretti a casa, Spencer si sentì terribilmente felice all’idea che Alison fosse lì, con lui, che, per una notte, sarebbe rimasta a casa sua, senza dover fuggire prima che Carly si svegliasse.
Non era ancora certo di come la sorella avesse preso la sua storia, dato che di storie serie non ne aveva mai avute, eppure Alison era diversa, non si era stancato di lui come accadeva ogni volta.
Raggiunsero il Bushweel Palace e si radunarono sul marciapiede lì davanti, con un senso di nostalgia che già aleggiava nell’aria.
- Beh, saliamo, no?- fece Spencer, allegro, ma le espressioni scure di tutti gli altri fecero scemare in fretta la sua allegria.
Dylan e Sam, cambiatisi d'abito nei bagni del Museo, se ne stavano vicini, a pochi metri dalla moto che lei aveva parcheggiato nel vialetto lì accanto mentre Carly, e Freddie, al quale la prima aveva fatto una bella ramanzina, imponendogli di controllarsi e non rovinare la serata a Spencer, tenevano le mani in tasca e gli occhi bassi, Gibby invece, scuoteva la testa, rassegnato e dispiaciuto.
Fu Alison a parlare, posandogli con delicatezza una mano sul braccio. – Spencer… - disse.
- Non potete ripartire subito.- decretò l’artista, ottimista. – E’ tardi, dovete riposare e… -
- Ci fermeremo lungo la strada.- lo interruppe Sam, facendo qualche passo avanti.
- Sam… -
- Promesso.-
- Ma ha nevicato… -
- Staremo attenti.- ribatté la ragazza.
- Sam… -
– Dobbiamo tornare a casa, Spencer.- sospirò lei, allargando le braccia.
E Spencer capì che non ci sarebbe stato modo di trattenerla; in fondo, aveva già fatto un grande sforzo a venire e lo aveva fatto per lui, non poteva chiederle altro.
Quel senso di perdita era l’ovvia conseguenza di sapere che, di certo, non l’avrebbero più rivista per anni, forse per sempre.
Stavano perdendo Sam di nuovo e, quella volta, lei non stava scappando, di nascosto, senza dire niente a nessuno, no: lei era lì, li salutava, forte e decisa, come non era stata in grado di essere la prima volta che se n’era andata.
Adesso aveva un posto da chiamare “casa” e una famiglia ad aspettarla.
Chinando il capo, Spencer la raggiunse, abbracciandola forte, indifferente alle proteste di lei.
- Non sparire, d’accordo?- le sussurrò, scostandosi quel tanto che bastava per guardarla.
- Contaci.- rispose Sam, tirandogli un piccolo pugno sul petto.
Mentre Spencer e Dylan si stringevano la mano, Gibby si avvicinò alla ragazza, cercando di controllare il pizzicore al naso che, di certo, lo avrebbe fatto piangere presto.
- Sei sempre la mia socia.- le disse, sollevandola quasi da terra.
- Ricordati la promessa: cibo gratis, quando voglio.- scherzò lei, cercando di ignorare quel nodo alla gola.
- Quando vuoi, ma torna.- promise Gibby.
I due ragazzi si allontanarono e Alison, sorridendo appena, li afferrò entrambi per una manica.
- Noi vi aspettiamo di sopra.- disse, rivolgendosi a Carly. – Fate buon viaggio, ragazzi e state attenti.- aggiunse, salutando Sam e Dylan.
Quando sparirono nell’androne del palazzo, Carly, sospirando, si fece avanti e sia Dylan che Freddi chinarono gli occhi sulle scarpe, per concedere loro un po’ di privacy.
Le due ragazze si fissarono qualche istante, cercando di piegare le labbra in un sorriso e senza tuttavia riuscirvi.
Le lacrime rigarono le guance di Carly, prima e, subito dopo, quelle di Sam, che si morse labbra.
- Accidenti.- sputò, frustrata e arrabbiata con se stessa: non voleva piangere, non doveva.
Perché non riusciva ad essere furiosa con Carly, perché si sentiva spezzarsi all’idea di perderla di nuovo?
La bruna si sporse ad abbracciarla, così forte che quasi ad entrambe mancò il respiro e, quella volta, le braccia dell’altra si chiusero attorno a lei, aggrappandovisi.
I singhiozzi le scuotevano più del vento e le loro voci erano spezzate e inudibili.
- Mi mancherai, Sam. Mi dispiace tanto, scusa, mi mancherai.- ripeté Carly, posando il viso nell’incavo della spalla della bionda.
E a quel punto Sam si chiese a che sarebbe servito, poi, essere arrabbiata, serbare rancore e fingere che la loro amicizia non fosse mai esistita.
Avrebbe potuto conservare i bei ricordi, pensare a lei come a qualcuno che si è perso di vista, col tempo, parlare di lei e di ciò che erano state, l’una per l’altra.
Ma doveva tornare a casa, perché quel posto non la riscaldava più e non la faceva sentire al sicuro.
Ti perdono, Carly, ma devo andare.
Sam chiuse gli occhi, cercando di riprendere il controllo di sé. – Ti voglio bene, Carly.- le disse, in un sussurro che fece smettere di tremare entrambe per un istante.
La bruna sollevò il viso a incrociare gli occhi della bionda e, quando si separarono, esplose nuovamente in un pianto inconsolabile, ma silenzioso.
- Ti voglio bene anch’io, Sam.- singhiozzò, facendo un passo indietro.
Sapeva che Sam doveva andare via, sapeva che non la odiava e non era arrabbiata con lei e la cosa la rendeva ancora più infelice e disperata: nonostante l’avesse perdonata, nonostante le volesse ancora bene, quello non era sufficiente a trattenerla, a farla tornare.
Perché le cose erano troppo cambiate e Sam non aveva più fiducia nella loro amicizia e in ciò che era stato.
Aveva un’altra casa ed era lì, che stava tornando.
Dylan le fece un cenno di saluto, abbozzando un sorriso triste, quando Carly sollevò lo sguardo su di lui.
La bruna tornò accanto a Freddie, voltandosi a guardarlo: non aveva intenzione di salutare Sam?
L’avrebbe lasciata andare via, senza dir niente, anche quella volta?
La bionda rimase immobile un istante, gli occhi fissi in quelli del ragazzo che, con i pugni stretti e la mascella serrata, fece un passo avanti, stringendola un istante.
Sam rimase pietrificata, incapace di ricambiare quell’abbraccio, eppure perfettamente a suo agio tra le braccia di Freddie, che conosceva così bene da riconoscerne ogni muscolo anche da sopra il cappotto.
Freddie non disse nulla, mentre il suo viso riemergeva dai capelli di Sam, portandosi via un po’ di quel profumo, i suoi occhi si scontrarono con quelli di Dylan, fermo alle loro spalle.
Durò pochi secondi e poi la lasciò andare, facendo un passo indietro e tornando accanto a Carly, senza nemmeno guardarla.
Sam si voltò, indossando il casco che Dylan aveva già preso dalla moto. – Guidi tu? – gli domandò.
Il cuore di Freddie si fermò nel petto, gli occhi scattarono sulla ragazza: amava quella moto in modo ossessivo, più di qualsiasi altra cosa al mondo e lasciava che a guidarla fosse Dylan?
Carly, anche lei sorpresa, sospirò, seguendo lo stesso filo di pensieri che, inevitabilmente, conduceva ad un’unica soluzione: Sam era innamorata di Dylan.
- Monta.- le disse lui, dopo aver tolto il cavalletto ed essere salito.
Sam si sistemò agilmente dietro, abbracciandolo all’altezza della vita.
- Andiamo?- chiese Dylan, aspettando che fosse lei a decretare la partenza.
La ragazza annuì e la moto scattò in avanti, i capelli di Sam fluttuarono nel vento, mentre lei sollevava una mano per salutare Carly – e Freddie – ancora sul marciapiede.
I due rimasero a osservare la sagoma della moto divenire sempre più piccola, fino a quando non girò al semaforo e scomparve dalla loro vista.
L’ultima immagine che si stampò nelle loro menti, fu quella di Sam, col capo poggiato sulla schiena di Dylan.
- Andiamo, Carly.- mormorò Freddie, incamminandosi verso l’ingresso.
Carly, ancora in lacrime, si voltò, inferocita. – Smettila di fare finta di niente!- esclamò.
Freddie si arrestò, altrettanto arrabbiato. – Cosa vuoi che faccia, eh, Carly?!- gridò. – Non sei stata tu a dirmi di stare buono, stasera?- le chiese, avanzando verso di lei.
- Perché dare spettacolo nel mezzo di una Mostra d’Arte non mi sembra un buon modo per chiedere scusa a qualcuno!- ribatté lei, pestando un piede a terra.
- Io non voglio chiedere scusa a Sam!- urlò lui, allargando le braccia. – E’ lei ad essersene andata, ad essere sparita, senza avere il coraggio di dirmelo, di salutarmi, è solo colpa sua tutto quello che è successo dopo, è solo colpa sua se adesso le cose stanno in questo modo!- esclamò.
Carly lo fissò a bocca aperta, incredula: possibile che Freddie fosse ancora furioso con Sam, per essere partita senza dirlo a nessuno?
Perché?!
- Sam è andata avanti, Carly e anche io. Ti conviene accettarlo e fare lo stesso.- mormorò lui, d’improvviso sgonfiato di energie, con lo sguardo fisso sulla strada vuota.

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Capitolo 9
*** Push ahead ***


Ringrazio, come sempre, la mia splendida Beta, Aduial, per il suo lavoro impeccabile e la strabiliante cura dei dettagli, che, personalmente, adoro.
 
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le preferite, le ricordate o le seguite e chiunque abbia dedicato del tempo a recensire il precedente capitolo (risponderò in privato).
 
Buona Lettura.
 
 
 
 
Il rientro a casa fu dolce e amaro al contempo, poiché ogni chilometro che la avvicinava a Los Angeles, a Cat e alla vita che aveva scelto, era un chilometro che la allontanava da Carly, Freddie, Spencer e la vita che aveva vissuto, definitivamente.
Stretta a Dylan, a cavallo della motocicletta regalatale da Spencer, con la mente stordita da ricordi passati e recenti, Sam pianse lacrime che il vento asciugò in fretta, anche se non abbastanza da impedire che il ragazzo alla guida le notasse; Dylan, tuttavia, non infierì, né le domandò come stesse, una volta arrivati a casa, ben consapevole che non ci sarebbe stata una risposta adeguata.
Con quelle lacrime, Sam si ripromise di buttare fuori tutto il dolore che il rivedere e separarsi ancora da Carly e Freddie le aveva provocato, per poter così riprendere in mano la vita di qualche settimana prima, alla quale si era abituata e che, in fondo, amava.
Cat li accolse con gridolini e moine che, irrimediabilmente, la irritarono, eppure Sam non poté impedirsi di sorridere, mentre le braccia della rossa la cingevano, tanto forte da farle mancare il respiro e la sua voce le forava un timpano.
- Finalmente siete tornati!- gridò, staccandosi da lei solo per dar inizio a uno strano balletto entusiasta.
Dylan, issata la moto sul cavalletto, affiancò Sam sotto la porta, posandole un braccio attorno alle spalle e, lanciatole uno sguardo complice, ammiccò, regalandole un sorriso dolcissimo – uno di quei sorrisi davvero rari da vedergli in volto.
- Siamo proprio a casa.- commentò, sospirando e rilassandosi, come se, fino a quel momento, la tensione lo avesse avviluppato, stritolandogli i muscoli e la mente, senza tregua.
Sam fece vagare lo sguardo sul salotto, da lei stessa ammobiliato, fino a Cat, che canticchiava in cucina mentre cercava, invano, di aprire un barattolo di marmellata e, infine, su Dylan, presenza rassicurante al suo fianco e un piccolo sorriso le affiorò in volto nello stesso istante in cui un raggio di sole penetrò le finestre, illuminando ogni superfice.
La voce di Dice risuonò nel cortile. – Goomer, lascia in pace i miei capelli!- ridacchiò, mentre i suoi passi e quelli del lottatore risuonavano sulla strada, in avvicinamento.
- Sam è tornata?- stava domandando Goomer all’amico/manager, eccitato quanto Cat.
Per un momento, qualcosa di caldo le avvolse il cuore e lo stomaco in una sensazione provata raramente prima e la cosa la lasciò interdetta e confusa, quasi spaventata: era la stessa sensazione di quando, anni prima, si soffermava un istante a osservare Freddie, Carly e Spencer, sul divano, pronti a guardare uno stupido programma televisivo e si accorgeva che lo sguardo di Carly vagava, cercando qualcosa, cercando qualcuno, cercando lei.
Come se fosse impensabile, per la bruna, sentirsi completa, senza Sam al suo fianco e, del resto, anche lo spazio che Freddie lasciava libero accanto a Carly, nonostante l’attrazione che sentiva per lei, testimoniava quanto fondamentale Sam fosse in quella “famiglia”; in quei momenti, la bionda rammentava di essersi sentita parte di “qualcosa” per la prima volta in tutta la sua vita, una parte essenziale, che non sarebbe mai potuta essere sostituita.
Provare quella stessa sensazione lì, a Los Angeles, con Cat, Dylan, Dice e Goomer era fonte di felicità e malinconia allo stesso tempo perché significava che il suo cuore aveva cominciato a dimenticare.
 
 
 
Il mattino successivo alla mostra, quando Carly si svegliò, ancora vestita e col trucco sbavato, una sensazione di vuoto la inghiottì immediatamente e la fece rabbrividire, nonostante il piumone - che qualcuno le aveva posato addosso durante la notte – fosse caldo e confortevole.
Il sole le picchiettava fastidiosamente le palpebre, penetrando il finestrone e annunciandole l’inizio del nuovo giorno e della nuova vita a cui avrebbe dovuto abituarsi.
Già, perché Carly aveva vissuto quegli ultimi mesi come in un limbo, in attesa di qualcosa; in attesa del ritorno di Sam, che avrebbe riportato ogni cosa alla normalità e restituito alla bruna e a tutti loro la vita di un tempo, bramata e rimpianta.
In quel momento, abbandonata a letto, senza la voglia o la forza di alzarsi, Carly comprese di avere atteso invano, proiettata in un futuro che non sarebbe mai stato come lo aveva desiderato e immaginato e seppe che quegli ultimi mesi, lasciati scorrere via perché non ritenuti importanti, erano stati solo l’inizio della sua nuova vita.
Si ritrovò, allora, a domandarsi se fosse stata una scelta saggia, quella di lasciare l’Italia: anche lì a Seattle, nonostante la presenza di Freddie, Spencer e Gibby, continuava a sentirsi sola e stordita, come al risveglio da un sonno agitato.
Eppure, Carly Shay era una tipa determinata, che sapeva rialzarsi in ogni circostanza ed aveva insito nell’animo quell’ottimismo che è tipico dei sognatori e dei creativi; per questo motivo, la bruna ripromise a se stessa di smettere di crogiolarsi nei dubbi e nei ricordi dolorosi, nei rimorsi e nei rimpianti, nella paura e nell’ansia che la divoravano ogni notte, nel buio della camera da letto che i suoi migliori amici avevano creato per lei.
Carly fece un patto con se stessa, quel mattino: sarebbe andata avanti, proprio come aveva gridato Freddie la sera prima, avrebbe finito il corso all’Università, magari ne avrebbe frequentato un secondo, non avrebbe più dato per scontato nemmeno un singolo giorno, avrebbe, riso, pianto, ballato e sarebbe caduta, avrebbe sofferto e commesso errori.
Avrebbe vissuto.
Una cosa, però, che Carly Shay non avrebbe mai fatto, sarebbe stata dimenticare, dimenticare Sam e il bene che si erano volute e ancora si volevano; avrebbe semplicemente lasciato uno spiraglio, una porta, una timida fiamma a illuminare e scaldare quell’angolo del suo cuore destinato alla migliore amica, in attesa che il vento cambiasse e il fato le desse una nuova possibilità di rimettere ogni cosa al proprio posto.
Compromesso, ecco di cosa aveva bisogno Carly Shay: la possibilità di vedere riunite entrambe le vite che aveva vissuto.
Poi, non avrebbe avuto più nulla da chiedere.
La risata trattenuta di Alison, proveniente dal piano inferiore, la fece sorridere e sospirare e Carly poté consolarsi col pensiero che almeno a Spencer le cose sembrassero andare così bene.
Un tintinnio di posate e il rumore di pentole e sportelli sbattuti la convinse che la neo-coppia dovesse essersi cimentata nell’impresa di preparare la colazione e la bruna si ritrovò a sperare che Alison non possedesse la dote di dar fuoco alle cose che era caratteristica di Spencer.
Senza nemmeno conoscerne la ragione, Alison le piaceva e la cosa aveva dell’assurdo, dato che l’aveva incontrata solo la sera prima; eppure, c’era qualcosa in lei, una sorta di spontaneità che gli adulti tendono a perdere o forse era  quel fidarsi degli altri e comprenderne con uno sguardo sentimenti e timori, ad averla piacevolmente colpita.
In ogni caso, qualunque fosse il motivo, Alison le piaceva e questo bastava affinché non l’infastidisse l’idea che avesse dormito a casa loro, con suo fratello e che fosse stata la prima persona a cui lui aveva dato il buongiorno.
Per una sorella minore, difatti, era sempre difficile accettare l’idea di perdere il primato nel cuore di un fratello, soprattutto se quel fratello l’aveva cresciuta ed era stato tutta la sua famiglia per anni e Carly, prima di allora, non aveva mai dovuto preoccuparsi realmente di quella “competizione”, poiché Spencer non era tipo da relazioni stabili e durature.
Quando raggiunse la cucina, a piedi nudi e con una vestaglia ad avvolgere i vestiti stropicciati, Spencer, intento a versare del succo d’arancia, aggrottò le sopracciglia.
- Dove sono le pantofole che ti ho costruito?!- chiese, incrociando le braccia in un moto infantile.
Alison che, vestita di una tuta grigia stava sistemando delle frittelle in tre piatti, sorrise, curiosa.
- Lui costruisce pantofole?- domandò a Carly, lanciandole uno sguardo complice.
La bruna sospirò, scuotendo la testa con teatrale rassegnazione. – Ha staccato la testa a due orsacchiotti e vi ha fatto un buco.- spiegò, avvicinandosi al bancone.
Alison annuì, ridacchiando. – Buongiorno, Carly, ti vanno delle frittelle?- le chiese, porgendole un piatto.
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo, poi la bruna annuì, sorridendo.
- Grazie, adoro le frittelle.- rispose, avviandosi verso il divano con l’altra a seguito, che portava il suo piatto e due bicchieri di succo su un vassoio.
Spencer, facendo girare lo sgabello su cui era seduto, le guardò accigliato.
- Scusate? Perché nessuno ha preso il mio, di piatto?- domandò ad entrambe, già comodamente sedute.
Alison sorrise, angelica. – Hai le mani, caro e anche le gambe, mi sembra. – rispose, cercando di non scoppiargli a ridere in faccia.
Carly ebbe meno tatto.
- Io sono un artista affermato!- esclamò Spencer, balzando in piedi.
Le due fecero roteare gli occhi al soffitto in contemporanea.
- La finirà mai?- mormorò Alison.
Carly sospirò. – Temo che andrà avanti così per mesi.- rispose.
L’artista, sbuffando indignato, si diresse in cucina, borbottando qualcosa a proposito di avere a che fare con due donne di prima mattina.
 
 
 
Era uscito di casa che il sole non era ancora sorto e i primi bagliori di luce s’intravedevano a stento, dietro gli alti palazzi che formavano il centro della città.
Con il borsone gettato malamente su una spalla, il passo deciso e l’alito che si condensava a causa dell’umidità, aveva percorso i quattro isolati che lo separavano dalla palestra e, arrivato, si era immediatamente cambiato ed aveva iniziato la sessione di allenamento.
Più sudava, più i muscoli bruciavano, implorando pietà, più lo sforzo fisico pretendeva concentrazione, più Sam sembrava lontana.
Tenersi impegnato, agire concretamente, pianificare, realizzarsi, ecco cosa gli occorreva per dimenticarla una volte per tutte.
Aveva avuto ragione fin dall’inizio: non avrebbero mai dovuto percorrere migliaia di chilometri per cercarla, non avrebbero dovuto incontrarla e riaverla nelle loro vite per la mera illusione di una notte.
Sapeva che, per settimane, tutti – Carly, Spencer, Gibby -  avrebbero dovuto affrontare le conseguenze di averla rivista, la sofferenza, il dolore e la perdita che ciò aveva implicato.
E non era disposto a sopportare le loro espressioni malinconiche, le frasi nostalgiche, i sorrisi di tenerezza, no; Sam aveva fatto una scelta due anni prima, per quanto lo riguardava e lui non l’aveva mai superata.
Perderla ancora era solo qualcosa a cui era abituato e aveva dato per scontato, risultando vincitore su tutta la linea.
Non sentiva compassione per la sofferenza di Carly o quella di Gibby, perché loro non avevano avuto riguardi nei suoi confronti, non l’avevano ascoltato, quando aveva spiegato che era meglio lasciare le cose come stavano e non costringere tutti a un riavvicinamento nocivo.
Quelle erano le conseguenze della loro testardaggine e amen, dovevano affrontarle e andare avanti.
Andare avanti, era stanco di ripeterlo a tutti: cosa c’era di difficile da capire?
Non sempre le cose possono essere aggiustate, non sempre si può combattere, lottare e non arrendersi, non sempre esistono le seconde possibilità.
Quindi, la scelta era tra abbandonarsi all’apatia o andare avanti, oltre, dimenticare e cancellare, iniziare una nuova vita.
E lui non aveva intenzione di gettare all’aria ogni cosa, di distruggere la stabilità che aveva costruito solo per la possibilità – inesistente – che, un giorno, le cose sarebbero potuto cambiare.
E come, poi?
Sam aveva Cat e Dylan, non aveva certo bisogno di lui o Carly; quasi l’ammirava, perché lei era andata davvero avanti, cosa che Carly sembrava non capire, non recepire o non riuscire a fare.
Freddie si sentiva sollevato, perché, almeno, quei due giorni d’inferno era finiti e lui avrebbe potuto mettere una pietra sopra a tutta quella storia e riprendere il controllo dei propri pensieri.
La vicinanza di Sam, difatti, tendeva a offuscare la sua capacità di giudizio e raziocinio, era sempre stato così e, forse, quello non sarebbe cambiato mai, quindi era meglio per tutti e due che lei se ne rimanesse a Los Angeles, a distanza di sicurezza.
Non voleva saperne niente di lei e di ciò che avrebbe fatto della sua vita e quella era una cosa che avrebbe messo in chiaro anche con Carly, che, testarda com’era, di certo avrebbe tentato di rimanere in contatto con Sam.
Certo, augurava a Sam ogni bene, ma cosa le riservasse il destino o quale strada avrebbe intrapreso e con chi, non voleva saperlo, assolutamente.
Era cinico, cattivo, bastardo? Di sicuro Carly lo avrebbe definito così.
Beh, pazienza, non poteva farci nulla, lui la pensava a quel modo e niente gli avrebbe fatto cambiare idea.
- Benson, è mezz’ora che sei su quell’attrezzo, la tua sessione prevede solo dieci minuti.- lo richiamò l’allenatore.
Sudato e con le guance rosse dalla fatica, il ragazzo sollevò gli occhi sull’orologio appeso alla parete di fronte, aggrottando le sopracciglia, perplesso: non si era nemmeno accorto che fosse passato tutto quel tempo.
 
 
Il Lunedì mattina, Gibby entrò nello spogliatoio e vi trovò Scott, intento ad allacciare le scarpe.
Il vociare degli altri dipendenti del Pear Store che cominciavano ad affollare il negozio faceva da sottofondo, assieme al rumore elettronico dei computer che venivano accesi e alle suonerie dei cellulari.
- Ciao.- salutò il ragazzo, diretto al suo armadietto.
- Ciao.- rispose, distratto, Scott, alzandosi e sistemandosi il tesserino sulla maglietta rossa.
Non gli domandò se l’appuntamento per andare a correre fosse sempre alle sette, l’indomani o come fosse andato il week-end, come, invece, faceva ogni volta.
Gibby percepì qualcosa di strano, nell’amico, come se tenesse le distanze o fosse un po’ freddo, con lui e non seppe spiegarsene la ragione.
- Tutto okay?- gli domandò.
Scott annuì, vago, avviandosi verso la porta per poi fermarsi e tornare sui propri passi, proprio di fronte all’altro.
- Com’era la Mostra?- chiese, a bruciapelo, sorridendo appena.
Gibby assunse un’espressione stranita, aggrottando le sopracciglia. – Ehm… interessante. Non ricordavo di averti detto che… - iniziò, finendo per essere interrotto da Scott.
- No, infatti, non me l’hai detto.- spiegò. – Sono passato in auto davanti al museo, Sabato e ti ho visto, assieme a quel tuo amico che era qui l’altra volta.- continuò, arricciando appena le labbra, infastidito, mentre accennava a Freddie. – Così ho letto il cartellone che annunciava la Mostra.- disse.
Gibby chiuse il suo armadietto, appuntando il cartellino sul petto. – Non sapevo ti interessasse l’arte, altrimenti ti avrei invitato, eravamo un gruppo di amici.- spiegò, alzando le spalle.
Scott sorrise, amaro, annuendo a testa china. – Già, non era l’arte che mi interessava.- commentò, voltandosi e guadagnando la porta, lasciando, dietro di sé, un Gibby confuso e stranito.
 
 
 
 
 
Il freddo aveva letteralmente gelato Los Angeles e la neve accumulatasi rendeva impossibile distinguere i marciapiedi e le strade vere e proprie.
Dylan guidava più lentamente del solito, teneva i fendinebbia accesi e lo sguardo fisso di fronte a sé, concentrato e non si voltava mai a strizzarle l’occhio o scompigliarle i capelli, come faceva di solito.
Sam sapeva che, quando era così applicato alla guida, era preoccupato dal ghiaccio che rendeva scivoloso l’asfalto ed era intento a ripetersi, in mente, come un mantra: “ Fa’ attenzione, fa’ attenzione”.
Ciò che innervosiva e, al contempo, inteneriva la bionda, era sapere si comportasse così prudentemente solo perché c’era lei, in quel momento, in macchina insieme a lui, mentre se fosse stato solo, di certo non avrebbe esitato a premere sull’acceleratore.
Se quella sorta di ansia fosse stata spontanea o gli fosse stata inculcata da Cat, Sam davvero non avrebbe saputo dirlo e, intanto, per ammazzare il tempo in attesa di arrivare a casa, mangiucchiava la gelatina usando un dito come cucchiaino.
- Sam, quella è per la cena.- la rimproverò Dylan, senza staccare gli occhi dalla strada.
- Che peccato.- commentò la ragazza, mostrandogli i denti resi verdi dall’impasto gommoso.
Lui rise, scuotendo appena la testa. – Credi che Cat abbia finito di cucinare?- domandò.
Sam alzò le spalle, poggiando i piedi sul cruscotto. – Lo spero, siamo stati via due ore e mezza.-
- Perché tu volevi sottrarti al doverla aiutare a preparare la cena.- sottolineò Dylan.
- Dettagli.-
- Nemmeno il giorno di Natale ti rende più buona, Sam Puckett?- la prese in giro.
Lei assunse un’espressione oltraggiata. – Ho comprato i regali a tutti, mi sembra!- protestò, indicando i pacchetti gettati alla meglio sul sedile posteriore.
Dylan rise. – Sì, solo oggi e mezz’ora prima che il centro commerciale chiudesse!- esclamò.
- Dettagli.- ripeté lei, sorridendo a sua volta.
Il ragazzo aveva ragione, in ogni caso: era il venticinque Dicembre e Cat aveva invitato Dice, Goomer e Dylan a cena, per festeggiare il Natale tutti insieme.
Nona aveva rifiutato giorni prima, spiegando che alla casa di accoglienza avevano organizzato un vero e proprio cenone e Cat, sebbene triste, aveva capito che la donna sarebbe stata più felice così.
Tutta la settimana la rossa si era messa all’opera per l’occasione, facendo la spesa – accompagnata da un’annoiata Sam  e da Dylan, autista privato – per la cena e aveva acquistato una quantità industriale di libri di cucina.
Tutti e tre erano andati a comprare un albero di Natale, sebbene Sam, dapprincipio, fosse scocciata all’idea; quando, però, aveva visto gli occhi di Cat luminosi ed entusiasti, si era fatta coinvolgere da quell’assurdo clima di spensieratezza e magia e si era anche divertita.
Nonostante il freddo e gli aghi del pino che le pungevano le dita, aveva aiutato Dylan a issare l’albero sull’auto, mentre Cat dava istruzioni gridando con quella vocetta stridula che si ritrovava.
Avevano addobbato l’albero e la casa tutti insieme, loro cinque, impiegandoci un’intera nottata: Goomer e Dylan erano funti da scale, prendendo sulle spalle le due ragazze, mentre Dice passava loro le palline di mille colori diversi.
Al mattino, sfiniti, si erano addormentati in soggiorno, riversi l’uno sull’altro, i sorrisi ancora ad aleggiare sulle labbra.
Sam, quell’anno, aveva sentito il Natale più di quanto fosse mai successo prima, salvo rare eccezioni che riguardavano, sempre e comunque, Carly, Freddie e Spencer.
Aveva pensato a loro, certo, e si era chiesta come avrebbero trascorso le feste e che tipo di albero l’artista avrebbe realizzato, quella volta.
Poi aveva accantonato il pensiero, con un sorriso malinconico ed era andata avanti, sentendosi al caldo, protetta e al sicuro.
Lei e Dylan avevano parlato ancora di suo padre e del fatto che, anche quell’anno, si fosse presentato per implorarlo di trascorrere il Natale con lui e la sua famiglia, con la piccola Laura, che non vedeva l’ora di conoscere suo “fratello”.
Il ragazzo, ovviamente, aveva rifiutato e Sam, come ogni volta, gli aveva spiegato che stava sbagliando, per poi lasciar cadere l’argomento che, lo sapeva, avrebbe generato una discussione che non avrebbe visto vincitori né l’uno, né l’altra.
Sam gli aveva domandato di sua madre e Dylan le aveva spiegato che, ogni Natale, si recavano a Santa Monica, dove abitavano i nonni materni e che, quell’anno, lui aveva preferito rimanere con lei, con l’approvazione della donna.
Sam si era sentita arrossire e aveva distolto lo sguardo dal suo, seduto di fronte a lei sul divano e Dylan non aveva detto altro, limitandosi a giocherellare con i suoi capelli.
La sera prima, invece, era stato il ragazzo a domandarle di sua madre e del perché Sam non sentisse il bisogno di sentirla o vederla e le spiegazioni che la ragazza aveva dato erano parse, d’improvviso, vuote di ogni contenuto e assurde, per una che cercava di convincere il figlio di un ex alcolista violento a perdonare suo padre.
Così, quando Dylan l’aveva salutata, la sera della Vigilia, Sam aveva preso il telefono a aveva chiamato sua madre, limitandosi a fare gli auguri e riagganciare, in fretta, dopo aver risposto “Sto benissimo”, alla domanda apprensiva eppure brusca di Pam Puckett.
Dannato Dylan, capace di mandare al diavolo tutti i suoi ragionamenti.
La mattina di Natale, Sam era stata svegliata praticamente all’alba – le nove del mattino come altro avrebbero potuto essere definite?!- dalla voce isterica di Cat che dava ordini a Dice e Goomer, intenti ad aiutarla a preparare la cena.
Così, aveva inviato un messaggio a Dylan e gli aveva imposto di passare a prenderla e, vestitasi in fretta, era sgattaiolata via, assumendo come scusa gli ultimi regali da acquistare – e, dato che di regali non ne aveva comprati affatto, la sua non era proprio una bugia, no?
- E premi sull’acceleratore, Bennett, le vecchiette a piedi ci superano!- sbottò.
Lui assunse un’espressione decisa e superiore. – Pazienza, arriveremo quando arriveremo. – rispose, guadagnandosi un’occhiataccia.
- E, poi, - aggiunse. – non mi spiace affatto stare da solo con te.-
 
 
 
Dire che il caos regnasse sovrano a casa Shay sarebbe stato come affermare che Carly Shay si prendeva raramente una cotta, Freddie Benson fosse vagamente interessato alla tecnologia e a Sam Puckett piacessero abbastanza le bistecche.
Il motivo del trambusto e del disordine in cui versava l’appartamento, altro non poteva essere che Spencer – cappello bianco da cuoco e mestolo in una mano – intento a “cucinare” la cena di Natale.
Tutti erano stati invitati a casa Shay per l’occasione e, sorprendentemente, tutti avevano accettato, Alison e Signora Benson compresi.
Nella sua smania di voler fare, misto al non saper cucinare o organizzarsi, Spencer si era ritrovato con una lista di dieci persone attese entro qualche ora e un mezzo pollo bruciacchiato in forno.
L’albero fatto di nasi – scelto da Carly come ufficiale per la festività – faceva bella mostra di sé accanto al divano e sotto vi era depositata una mole spropositata di regali.
Carly rientrò in casa in quel momento, seguita da Alison, fasciata in un abito rosso a maniche lunghe e privo di scollature, molto sobrio ed elegante.
Le due si erano date appuntamento al Centro Commerciale, dato che Alison doveva passare in ufficio a ritirare una sceneggiatura nonostante il giorno festivo, per ritirare il regalo che la donna aveva ordinato per Spencer e che Carly l’aveva aiutata a scegliere e, trovandosi lì, avevano deciso di fare qualche acquisto, ovviamente.
- Spencer, che è successo?!- esclamò, allarmata, la bruna, indicando la gelatina esplosa sul muro accanto al frigo.
Alison depositò la borsa sul divano e sfilò il cappotto, raggiungendo i due in cucina.
- Non ne ho idea, non avrebbe dovuto succedere!- piagnucolò l’artista, abbandonandosi col capo sulla spalla della donna.
Alison sorrise, scuotendo la testa. – Sei un disastro e non credo che le pizzerie siano aperte, il giorno di Natale. Cosa pensi di far mangiare ai tuoi ospiti?- gli domandò, scherzosa.
Spencer riprese a lamentarsi con maggiore enfasi e Carly sospirò, rassegnata.
- Da’ una ripulita al salotto, qui ci penso io.- dichiarò, arrotolando le maniche della felpa che indossava e infilandosi un grembiule.
- Oh, sorellina!- esclamò l’artista, lasciando Alison per stritolare Carly in un abbraccio.
La bruna si dimenò, ridacchiando. – Telefona a Gibby e chiedigli se può venire adesso ad aiutarmi. E’ un ottimo cuoco.- ordinò al fratello che, annuendo, si precipitò in salotto, inciampando ovunque.
Alison si avvicinò alla cucina a isola e indicò la gelatina riversa ovunque. – Posso aiutarti io, se vuoi, me la cavo abbastanza con i dolci.- sorrise.
- Oh, non preoccuparti, ti rovineresti il vestito e i capelli…- fece Carly, scuotendo la testa.
Alison, diretta al divano, ne tornò con la borsa dalla quale tirò fuori un elastico che usò per legare i lunghi capelli neri e liscissimi in una coda di cavallo. – Mi fa piacere aiutarti, chi se ne frega del vestito.- sorrise.
Carly sorrise a sua volta e le porse un grembiule. – Va bene, allora, grazie.- disse.
- Carly!- chiamò Spencer, dalla sua stanza.
- Cosa?-
- Gibby vuole sapere se può portare un certo Scott alla cena, dice che è un suo amico… oh, cosa?, un collega? D’accordo, aspetta… è un collega, Carly!- gridò.
Alison rise e Carly scosse la testa. – Spencer, non mi interessa chi è, può portare chi vuole, basta che si sbrighi a venire a darci una mano!- sbottò.
Poco dopo, Spencer, sui pattini, riemerse dalla camera da letto e, di fronte alle espressioni allibite di Carly e Alison, alzò le spalle in un gesto incurante. – Cosa?- fece. – Sono più veloce, così!- decretò, prima di inciampare e rovinare a terra, seguito dall’albero di nasi.
- Ahia! Che dolore!-
Alison e Carly si scambiarono un’occhiata.
- Credi ci voglia altro zucchero?- domandò la donna, sollevando il cucchiaio di legno e accostandolo alle labbra dell’altra.
Carly, dopo aver assaggiato, scosse la testa. – E’ perfetta.- affermò.
 
 
 
 
La cena trascorse lenta e piacevole, nonostante la baldoria e i battibecchi, la confusione e la tovaglia che prese fuoco quando Goomer, inavvertitamente, rovesciò la candela rossa sistemata con cura da Cat proprio al centro del tavolo.
Il buio era calato da un pezzo e fuori iniziò a nevicare, dolcemente; le lucine dell’albero di Natale si accendevano ad intermittenza e dal televisore acceso proveniva lo scampanellio tipico di quei film sul Natale che fanno impazzire le famiglie.
Si decisero a spostarsi in salotto e Dylan si offrì di accendere il camino, mentre le ragazze si sistemavano sul divano, sotto una coperta bordeaux.
Dice e Goomer presero posto rispettivamente su una poltrona e sul tappeto e Dylan si sistemò accanto a Sam, spintonandola un po’ per farsi spazio.
- Direi che è il momento di aprire i regali!- esclamò, entusiasta, Cat, allungandosi per afferrare i pacchetti da lei sistemati sotto l’albero e rischiando di cadere dal divano se la presa ferrea di Sam non l’avesse tenuta per una gamba.
- Ecco, questo è per Dice, questo per Dylan, Goomer e questo è per te, Sam!- ridacchiò, porgendo i pacchetti uno ad uno. – Tanti auguri!- squittì, battendo le mani.
- Allora? Apriteli, no? Dai, dai, aprite, aprite!-
- Va bene, va bene, stai calma!- sbottò Sam, mentre stracciava la carta rossa.
Cat aveva regalato a Dice un set di shampoo e lozioni per capelli ricci, che lasciò il ragazzo interdetto, mentre per Goomer aveva comprato una lampada notturna a forma di lottatore, dato che lui le aveva confidato di aver paura del buio.
Dylan rimase, al contempo, divertito e perplesso del proprio regalo: un walkie-talkie che, scoprì, aveva ricevuto anche Sam.
- Ehm, grazie?- fece, ridacchiando e scambiandosi uno sguardo con Sam, intenta a rigirarsi l’aggeggio tra le mani.
Cat sorrise. – Sam si lamenta sempre che il credito del suo cellulare finisce troppo in fretta a causa tua.- spiegò. – Così ho pensato che con questi potevate parlare quanto vi pare.- continuò, felice.
- Ehm, Cat, sai che questi affari hanno un limite di copertura che è di circa mezzo chilometro?- le domandò Sam.
- Certo! Mezzo chilometro è taaantissimo, no?-  domandò, speranzosa.
E né Dylan, né Sam se la sentirono di rovinarle l’umore, così sorrisero, annuendo.
- Grazie di cuore, Cat, è uno splendido regalo!- disse il ragazzo.
- Oh, figurati! – squittì lei.
- D’accordo, tocca a noi.- s’intromise Dice, porgendo agli altri i regali acquistati da sé e Goomer.
Dopo, fu il turno di Sam che, priva di grazia, lanciò a ciascuno il regalo come fosse una palla da rugby, eccezione fatta per Cat, il cui regalo dovette essere trascinato sul pavimento.
Dice, entusiasta del suo buono per creare etichette personalizzate, si dedicò a montare il trenino di Goomer, mentre Dylan e Cat scartavano i loro regali.
Dylan si rigirò i guantoni rossi tra le mani, sorridendo appena, per poi alzare lo sguardo in quello di Sam e perdersi negli occhi di ghiaccio della ragazza, che si addolcirono, sciogliendosi in uno specchio d’acqua limpida.
- Non puoi più gareggiare, ma puoi sempre lottare per divertimento.- mormorò la ragazza, con un’indifferente alzata di spalle.
- Apri il tuo.- le disse, ficcandole in mano il suo regalo.
Sam, interdetta, scartò il pacco, per ritrovarsi tra le mani un paio di guantoni gemelli, blu acceso.
Invece di scoppiare a ridere, come Cat, la ragazza quasi spalancò la bocca, col cuore in tumulto e un rossore improvviso a colorarle le guance.
Dylan, di fronte a lei, scosse la testa, sospirando. – Puckett, mi rendi le cose difficili, sai?- fece, sorridendo.
Lei alzò un sopracciglio biondo. – La smetti di parlare come il vecchio saggio maniaco di un film di cent’anni fa?- sbottò.
Dylan rise e lei continuò. – Che intendi dire?- chiese.
Lui, tornato serio, chinò il capo. – Che sto cercando di darti il tuo spazio, ma non è semplice, non quando… -
Il gridolino di Cat, che era balzata in piedi sul divano, quasi li fece sussultare, interrompendoli.
Sam, che si era aspettata una reazione del genere, si preparò al tornado che l’avrebbe investita di lì a poco: del resto, quando regali un bidone da un chilo di Bibbles ad una drogata di Bibbles, che altra reazione puoi aspettarti?
 
 
La casa versava in condizioni disastrose, ma almeno la cena era stata salvata e tutti sembravano sazi e sereni, intenti a godere di quello stato di stordimento postumo a un’abbuffata.
Spencer e Alison sedevano sul divano, assieme alla signora Benson, con la quale la ragazza aveva intavolato una conversazione riguardante il dolce e i modi per prepararlo, mentre l’artista giocherellava ai moschettieri assieme a Gibby, con le forchette, sotto lo sguardo divertito di Scott.
L’amico/collega di Gibby si era rivelato un ragazzo simpatico, sportivo e amante dei vecchi film, così da renderlo gradito sia a Carly che a Freddie, che avevano intavolato con lui piacevoli conversazioni tutta la sera.
Lo conoscevano poco, certo, sapevano solo che la sua era una famiglia allargata, dato che i genitori si erano separati quand’era piccolo ed entrambi risposati, avevano avuto altri figli e lui sembrava totalmente sereno e adorava ogni fratellastro e sorellastra.
Poiché, ogni Natale, le due famiglie erano solite riunirsi nella casa in montagna che i genitori avevano acquistato nei primi anni di matrimonio, ma Scott era stato costretto a lavorare anche alla Vigilia, aveva deciso di restare a Seattle e Gibby lo aveva invitato ad unirsi a loro.
T-bo russava sonoramente, riverso sul tavolo in cucina, facendo rotolare una nocciolina sempre più verso il bordo, pronta a gettarsi nel vuoto.
I nonni di Carly e Spencer, venuti per la cena, si erano accomiatati presto, stanchi per il viaggio e si erano ritirati in albergo, dato che casa Shay era davvero troppo affollata per poter sperare di riposare.
Freddie sedeva sulla poltrona con un libro tra le mani, eppure a Carly non pareva stesse leggendo: se ne accorgeva dal fatto che non voltasse quasi mai pagina.
Quando lui, sentendosi osservato, alzò gli occhi in quelli di lei, seduta sul tappetto intenta a giocherellare col cellulare, entrambi seppero a cosa l’altro stesse pensando, a chi: Sam.
Carly aveva combattuto una piccola guerra interiore con se stessa, durante quell’intera giornata, indecisa tra il chiamare, inviare un messaggio o una mail d’auguri alla bionda oppure no.
Alle undici della sera di Natale, non aveva ancora deciso e, sebbene avesse accennato a Freddie la cosa, quel pomeriggio, l’occhiata irritata che lui le aveva rivolto e la risposta secca che le aveva dato non lasciavano sperare che si unisse a quegli auguri.
- Non voglio saperne più niente, Carly, niente. Quindi, per favore, se dovessi restare in contatto con Sam o sentirla di tanto in tanto, a me non dire nulla e non chiedermi di parlarle o salutarla. Sono serio, Carly e non fare quella faccia: voglio andare avanti, rispetta la mia decisione, ti prego.- le aveva detto, serio e deciso come raramente la bruna lo aveva visto.
Freddie tornò a posare gli occhi sul libro, regalo di Carly e Spencer e Carly a digitare il messaggio per Sam, come aveva già fatto tre volte.
Ogni frase le sembrava banale e scontata o piena di un buonismo che le faceva girare lo stomaco.
Eppure sentiva di dover inviare quel messaggio, per dimostrare a Sam che il suo desiderio di sistemare le cose non si era spento in seguito al primo fallimento e che avrebbe continuato a lottare per la loro amicizia.
Che non avrebbe ripetuto due volte lo stesso errore, quello di lasciar perdere.
“Sam, ti auguro dal profondo del cuore Buon Natale e spero che questo giorno sia felice e pieno d’amore per te. Mi manchi, ti voglio bene. Carly”, scrisse, alla fine e, decisa a non tormentarsi ancora, ben consapevole che presto le sarebbero parse parole inadeguate, premette invio e osservò la girandola annunciare il caricamento e la spedizione.
Sospirò, posando il telefono sul tavolo e guardandosi intorno: le carte dei pacchetti giacevano accatastate in un angolo, buste di regali era sparse ovunque, gli avanzi della cena erano sistemati sull’isola in cucina.
Alison, educata e dolce, annuiva degli sproloqui della Signora Benson, dando, ti tanto in tanto, una tenera occhiata al bracciale di perle che Spencer le aveva regalato e che le piaceva anche se l’artista aveva avuto la brillante idea di ricoprire le perle di gesso e dipingerne ognuna di un colore diverso.
Carly sorrise, scuotendo la testa del suo infantile e dolcissimo fratello, felice che sembrasse aver trovato la persona in grado di apprezzarlo e capirlo, come dimostrava il kit per scultori professionisti, con tanto di astuccio in velluto, che Alison gli aveva regalato.
Carly sospirò, distendendo le gambe sul tappeto e gettando il capo all’indietro, contro il bracciolo del divano, rilassandosi; irrimediabilmente, la sua mente prese a vagare e solo quando gli occhi chiari del Professor Trust s’insinuarono prepotentemente nei suoi pensieri, comprese che doveva essere molto tempo che si era persa nel mondo della fantasia.
Scosse il capo, arrossendo, eppure il bel viso dell’uomo rimase stoicamente dov’era, nel profondo dei ricordi, così come quel profumo di muschio e tabacco che si portava cucito addosso.
D’un tratto, l’idea che mancassero ancora due settimane all’inizio del corso le parve angosciante e la cosa la imbarazzò parecchio: sapeva bene di essersi presa una cotta per il professore e si sentiva preda dei cliché.
Del resto, nella vita reale le cose non andavano come nei film e di certo lei non sarebbe finita in una storia complicata e romantica che avrebbe fatto soffrire entrambi.
Carly chiuse gli occhi, sospirando.
Quella notte, mentre il sonno cominciava a impossessarsi di lei, il cellulare s’illuminò nell’oscurità e il nome di Sam lampeggiò sullo schermo.
“Buon Natale Carly”
 
 
 
I rumori dei botti spaventavano terribilmente Cat, timorosa che “uno di quegli affari che quei due incoscienti (Dylan e Sam) stanno facendo esplodere in giardino” avrebbe presto preso in pieno la casa, dandole fuoco.
La sera di Capodanno non fu molto diversa da quella di Natale, fatta eccezione per le bottiglie di champagne che Dylan aveva portato e il fatto che lui e Sam sarebbero usciti, dopo la mezzanotte.
Dice e Goomer sedevano sul divano, intenti a giocare con il nuovo videogame regalato loro da Dylan a Natale, mentre Cat alternava, sul vestitino rosa confetto che aveva indosso, i due cardigan che lo stesso ragazzo le aveva regalato sempre a Natale, indecisa su quale stesse meglio sul completo.
Sam e Dylan rientrarono dalla portafinestra, infreddoliti ed eccitati come due bambini, con le dita sporche di polvere da sparo e le orecchie che fischiavano, ridendo come matti.
- Dovreste smetterla, darete fuoco alla casa!- esclamò, isterica, Cat.
- Non c’è pericolo.- rispose Sam, buttandosi con poca grazia sul divano e schiacciando Dice, per poi rubargli lo stuzzichino che stava mangiando.
- Allora perché hai parcheggiato la moto in camera nostra?!- domandò Cat, china sul il forno da cui proveniva un delizioso odore di lasagne.
Sam la ignorò, troppo intenta a battere Dice, dopo aver scippato il joystick dalle mani di Goomer.
Dylan, elegante in camicia scura e jeans, con tanto di cravatta bordeaux, si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona, ridendo dell’espressione oltraggiata della rossa.
Cenarono tardi e allo scoccare della mezzanotte brindarono nel caos generale, con Cat che saltellava ovunque, abbracciando chiunque le capitasse a tiro e Dylan che cercava di sottrarre lo champagne dalle sue mani e da quelle di Dice.
Seguirono per un po’ i festeggiamenti alla tv, ballando assieme ai ballerini le stesse musiche di ogni Capodanno e suonando le trombette che Dice aveva portato per tutti, mentre indossavano i buffi capellini a cui Goomer teneva tanto.
Fecero il trenino e finirono per cadere gli uni sugli altri quando Cat inciampò nel tappetto e mentre gli altri tre si rialzavano, ridendo come matti, Sam si ritrovò addosso a Dylan, che le teneva le mani intrecciate sulla schiena.
I loro visi erano così vicini che i gli occhi dell’uno apparivano all’altro giganteschi e i loro respiri si confondevano, stuzzicando le loro labbra.
- Puckett, sei davvero bella, stasera.- le disse, sorridendo e carezzandole una spalla nuda.
Sam arrossì, nonostante la faccia tosta che sempre l’aveva contraddistinta e sperò che lui ne attribuisse la causa allo champagne.
Aveva scelto quel vestito solo perché avevano deciso di uscire e, per una volta, voleva apparire bella accanto a lui, voleva essere bella per lui.
Non che l’abito fosse chissà che, un semplice tubino con spalline sottili, rosso scuro, lungo fino al ginocchio e sul quale avrebbe indossato l’amato giubbino di pelle nera, oltre che i suoi stivali da motociclista.
Eppure, sapere che lui la trovava bella, nonostante fosse rimasta la stessa Sam di sempre, maschiaccio e senza tacchi alti, le faceva battere furiosamente il cuore di una felicità prima mai provata.
- Ehi, voi due, pensate di alzarvi o no?- li canzonò Dice, facendo cadere su di loro una manciata di coriandoli, che s’infilarono tra i riccioli biondi di Sam e i capelli ribelli di Dylan.
 
 
 
La sera di Capodanno fu diversa dal Natale, poiché Gibby e Scott erano rimasti a casa, con le rispettive famiglie e Alison non aveva potuto rientrare da San Francisco, dove si era recata due giorni prima per lavoro, a causa del maltempo, che aveva costretto le linee aeree ad annullare tutti i voli.
Freddie e sua madre si erano recati a casa della sorella della donna e l’unico ad essere rimasto a casa Shay era T-bo.
Cenarono tranquilli, dopo aver fatto gli auguri al colonnello Shay tramite video chat prima che tutte le linee si bloccassero e, allo scoccare della mezzanotte, si erano scambiati gli auguri allegramente, eppure senza entusiasmo, ognuno perso nei propri pensieri.
Guardarono i fuochi d’artificio dalla finestra, poi, non appena il rumore dei botti cessò, Spencer afferrò la giacca e si rivolse alla sorellina. – Ti spiace se… esco?- le chiese.
Carly  scosse la testa. – Certo che no, dove vai?- gli chiese.
L’artista scrollò le spalle. – Faccio un giro. T-bo, mi presi la macchina?- chiese, poi, all’altro.
Il barista, mezzo addormentato a causa dello champagne, biascicò di prenderle dalla giacca e ripiombò sul divano.
- Sta’ attento al ghiaccio sulle strade!- gli gridò dietro Carly.
 
Freddie sbuffò, cercando di staccare la piccola Stephanie, quasi sei anni, dalla propria gamba e sottrarle il peraphone dalle mani appiccicose di gelatina.
Tutte le sorelle e cugine di sua madre si erano riunite a casa della zia Susan e lui era stato costretto a sopportare la mole di cugini e parenti troppo simili a Marissa Benson, in fatto di ossessioni.
Ovviamente, sua madre gli vietò di uscire, quella sera e così, passata la mezzanotte, Freddie si ritrovò a costruire uno dei più grandi puzzle che avesse mai visto assieme a tutti gli altri.
I bambini si addormentarono nella stanza preparata da zia Susan, dopo essere stati costretti a lavare tre volte i denti e usare litri di collutorio e Freddie, pur di sottrarsi alla tortura infernale che erano i suoi parenti, finse di aver anche lui sonno e si ritirò nello studio di suo zio, rintanandosi alla scrivania e dedicandosi all’elaborazione di un nuovo videogioco che stava mettendo a punto per proporlo al direttore dell’azienda di software in cui lavorava.
Mentre inseriva i codici necessari alla creazione del gioco, si accorse che uno dei personaggi già creati rassomigliava terribilmente a Sam, con quei capelli biondi e l’aria selvaggia e decise che avrebbe dovuto assolutamente sistemarlo.
Il rumore ovattato dei fuochi d’artificio giunse fino a lui e, accostatosi al vetro, Freddie osservò la miriade di colori che accendeva il cielo buio, mentre la nostalgia gli attanagliava il cuore.
 
 
Alison si era versata un bicchiere di spumante da quattro soldi, unica cosa reperibile in aeroporto e, sedutasi sulla scomoda poltroncina, si era dedicata alla lettura della sceneggiatura che le era costata il capodanno con Spencer.
Inutili erano state le preghiere degli addetti alle pulizie o degli impiegati alla reception, che le avevano chiesto di passare la notte in albergo perché non era certo che i voli sarebbero stati ripristinati l’indomani, Alison era rimasta lì: non appena fosse stato possibile, voleva tornare a casa.
Aveva telefonato a suo padre, recatosi con degli amici a sciare in montagna e gli aveva fatto i suoi auguri, evitando di dirgli che non era riuscita a tornare a Seattle perché non voleva preoccuparlo o farlo sentire in colpa per non averla accompagnata.
Da quando sua madre era morta, tre anni prima, Alison aveva insistito affinché suo padre non restasse a casa, nei giorni di festa, a crogiolarsi nel dolore e la nostalgia che la perdita causava a tutti loro.
Avevano abbastanza soldi da potersi permettere di viaggiare e passare settimane in residence o villaggi turistici, così, la ragazza aveva radunato un fedele gruppo di amici dell’uomo e aveva fatto ripromettere loro di non lasciare mai il Signor Kendall da solo.
Quella soluzione era parsa funzionare alla perfezione, poiché suo padre aveva ritrovato un po’ di spensieratezza e lei aveva potuto dedicarsi al lavoro e cercare di renderlo fiero.
Il lavoro, di fatti, era stato sempre uno degli argomenti che li aveva visti discutere appassionatamente: Elliott Kendall era stato un grande editore e la loro fortuna derivava proprio dai giornali che, un tempo, erano stati tra i più importanti della nazione.
L’uomo aveva sempre sperato, in cuor suo, che Alison, sua unica figlia, subentrasse nell’azienda al suo posto e ne prendesse in mano le redini ma, quando aveva capito che lei era irremovibile nel suo desiderio di diventare autrice, sceneggiatrice, si era rassegnato a vendere e liquidare ogni cosa.
La signora Kendall, che da giovane era stata ballerina e cantante, fino a quando non si era sposata e dedicata interamente alla famiglia, aveva, invece, sempre appoggiato e incoraggiato il lato artistico di Alison, sin dalla nascita.
Margaret, difatti, le aveva dato il secondo nome di Sanja, nonostante a suo marito non fosse mai piaciuto, dal significato di “lei sogna” e le raccomandava sempre di non aver paura di immaginare e sognare mondi diversi da quello in cui viveva.
Mentre si abbandonava ai ricordi e alla malinconia, non si accorse di essersi praticamente addormentata sulle poltroncine, fino a quando gli altoparlanti dell’aeroporto non cominciarono a gracchiare fastidiosamente.
Riaperti gli occhi, Alison guardò l’orologio e si accorse, con sgomento, che erano le sette del mattino e che un via vai di gente affollava tutto l’edificio.
Si alzò in fretta e si accostò al banco informazioni.
- Salve, le piste sono di nuovo aperte?- domandò, speranzosa.
- Sì, signorina, dalle cinque di questa mattina.- rispose il ragazzo, intento a digitare freneticamente al computer.
- Oh, magnifico! Posso avere il mio biglietto?-
Mentre porgeva al tizio la carta d’imbarco, una sorta di tornado le rovinò addosso, facendola sbattere contro il bancone.
Irritata e scioccata, la ragazza si volse, pronta a mollare un paio di sberle a chiunque le fosse piombata addosso a quel modo e si ritrovò di fronte a Spencer, pallido e con due occhiaie da far paura, a corto d’aria.
- Spencer?! Come diamine hai fatto ad arrivare?!- gli chiese, scostandosi dal banco informazioni e trascinandolo con sé.
Si sedettero sulle poltroncine e l’artista l’afferrò per un polso, avvicinandosi a lei e baciandola a lungo, per poi abbracciarla e mormorare, senza fiato, tra i suoi capelli: - Buon anno nuovo, Alison.-
La ragazza, completamente dimenticatasi del volo, del lavoro e di tutti gli impegni che l’attendevano a Seattle, ascoltò di come Spencer avesse guidato per tre ore e mezza, fino a Portland, impiegando quasi il doppio del tempo necessario a causa della nebbia e di come avesse saputo, per puro caso, ascoltando la radio, che gli aeroporti avevano ripreso a funzionare.
Si era precipitato così all’aeroporto di Portland e si era accorto di non avere la carta di credito con sé, così aveva telefonato a Carly, implorandola di prenotare un biglietto online e di inviarglielo via fax proprio lì, assieme alla carta d’identità.
Dopo aver discusso per un po’ con l’impiegato, questi aveva capito che Spencer non era un terrorista ma solo un imbranato e gli aveva rilasciato la carta d’imbarco, così da permettergli di salire sull’aereo diretto a San Francisco.
E, adesso, eccolo lì.
Alison, cercando di trattenere timide lacrime negli occhi castani, ripromise a se stessa di non rovinare tutto a causa dell’insicurezza anche con quella sottospecie di folle di cui si era appena innamorata.
 
 
 
Alla fine, dopo aver passato tre giorni a pianificare la serata perfetta con tanto di giro della città in moto e gara di velocità, Dylan e Sam non uscirono.
Semplicemente, quando Cat, rattristatasi alla vista dell’amica e del ragazzo intenti a indossare i cappotti, aveva augurato loro, con un sorriso dolce, di passare una bella serata, i due si erano scambiati uno sguardo e avevano sospirato, togliendosi di nuovo i cappotti.
Cat era parsa perplessa. – Non uscite?- aveva chiesto.
Dylan, sfilatosi la giacca e lasciatosi cadere pesantemente sul divano, scosse la testa, sorridendo.
- No, Cat, restiamo qui con voi.- aveva risposto, scompigliandole i capelli e ottenendo un abbraccio soffocante come ringraziamento.
Sam, diretta in camera a cambiarsi, fu raggiunta dal tornado dai capelli rossi che le saltò praticamente addosso e, nonostante le proteste e le minacce, non poté fare a meno di sorridere del fatto che bastasse così poco a rendere felice Cat.
Tornata in salotto con l’amica, vestita di un paio di pantaloni della tuta e una felpa pesante, Sam si sedette accanto a Dylan, mentre Dice portava popcorn e dolciumi e Goomer sistemava quantità industriali di giochi in scatola sul tavolo del salotto.
Trascorsero la nottata tra il monopoli, le carte e perfino il gioco dei mimi e Sam si sorprese del fatto di riuscire a divertirsi anche a quel modo, senza bisogno di correre con la sua moto lungo le strade deserte, col vento a sferzarle il viso.
Il calore l’avvolse tutta la notte, complice la mano di Dylan che le accarezzava un ginocchio o cercava la sua, che giocherellava con i suoi capelli o le pizzicava un braccio.
Quando Dice e Goomer le salutarono, assonnati, era ormai l’alba e Sam accompagnò Cat, praticamente mezza addormentata, a letto.
Tornata in salotto, trovò Dylan intento a raccogliere i resti della nottata e la bionda si accomodò sul divano, imitata poi dal ragazzo, che passò un braccio dietro di lei, posandolo sulla spalliera.
Restarono in silenzio per un po’, troppo sereni per rovinare un momento così dolce e felice con chiacchiere inutili, fino a quando lui non si volse a guardarla.
- E’ mattina. – fece.
- Già.-
- Dovresti dormire.-
- Probabilmente.-
Dylan sorrise appena, accennando ad alzarsi e Sam lo bloccò, afferrandogli un braccio.
- Dove vai?- chiese.
- A casa, Sam, ti lascio dormire.- rispose lui, scostandole i capelli dal viso e sistemandoli dietro un orecchio.
Sam rimase in silenzio qualche momento, fissandolo in quegli occhi scuri e profondi che, troppo spesso, la confondevano e facevano perdere, chiedendosi perché diamine avesse tanta paura.
Paura di provare, di innamorarsi ancora, di sentire di nuovo il cuore bruciare d’amore.
- Resta.- disse, con un filo di voce, mentre le gote si arrossavano, prepotentemente.
Lui sospirò, chinando il capo. – Perché?- le domandò.
Sam, preso un bel respiro, alzò le spalle. – Perché io voglio che resti.- rispose, mordendosi le labbra.
Dylan si piegò a slacciare le scarpe e le scacciò via con due calci, per poi allungarsi ad afferrare la coperta rossa che sistemò su entrambi, prima di afferrare Sam per un polso e tirarsela addosso, distesa accanto a lui, su di lui.
La ragazza si raggomitolò al suo fianco senza fare storie, posandogli la testa sul petto e chiudendo gli occhi, abbandonandosi alla piacevole sensazione che le dita di Dylan le regalavano, scorrendole lungo la schiena.
Prima che il sonno l’inghiottisse, si sollevò sui gomiti, sporgendosi a guardarlo e i riccioli solleticarono il collo e il viso del ragazzo, intento a osservarla, curioso.
Sam si chinò a baciarlo, senza staccare gli occhi dai suoi, delicata e timida e subito tornò ad accucciarsi sul suo petto, serrando gli occhi, imbarazzata.
Lo udì sorridere e poi Dylan le depositò un bacio sul capo. – Buon anno nuovo, Puckett.-
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** January ***


Mi scuso per il ritardo, purtroppo ho avuto problemi familiari e lavorativi.

Ringrazio di cuore la mia beta, Aduial, che nonostante sia malata ha comunque revisionato il capitolo.

Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le preferite, le ricordate o le seguite e chiunque abbia lasciato una recensione al precedente capitolo (risponderò in privato).
 
Buona Lettura.
 
 
Gennaio.
 
 
Affermare che Carly non avesse atteso il giorno del rientro all’Università con trepidazione sarebbe stata una vergognosa menzogna; per quanto, difatti, la imbarazzasse l’idea di aver speso tanto tempo a sognare a occhi aperti il bel viso del professor Trust, immersa nelle reminiscenze del suo profumo, che pareva esserle rimasto cucito sulla pelle, scossa dai brividi che il suo bacio – casto e timido – le aveva provocato, quella era la verità.
L’ultima settimana trascorse, per sua fortuna, rapida e colma di impegni, così, al mattino della ripresa dei corsi, la ragazza scattò a sedere sul letto, gettando malamente di lato la mascherina dell’apparecchio che l’aiutava a non russare e, infilata in fretta e furia una vestaglia, si precipitò all’armadio elettronico, in cerca di qualcosa di adatto da indossare.
Ammettere a se stessa di essersi presa una cotta – terribile e infantile – per il proprio Professore era qualcosa che non avrebbe mai creduto possibile, soprattutto non per una come lei, tanto ligia al decoro, eppure, nel profondo, sapeva bene che quella morsa allo stomaco non sarebbe scomparsa al suo arrivo in facoltà ma, anzi, si sarebbe fatta sempre più prepotente quando anche Trust avrebbe varcato la soglia.
E, difatti, così fu.
Carly sedeva, apparentemente tranquilla, nella solita fila di panche e ad affiancarla, immancabilmente, vi era Anne, con i suoi capelli color carota e la parlantina impossibile da eguagliare, che teneva particolarmente a ragguagliarla sugli ultimi sviluppi della sua “relazione” con il ragazzo della settimana.
La bruna non le prestava grande attenzione e si limitava ad annuire di tanto in tanto e, dato che Anne non necessitava di ulteriore incoraggiamento per continuare col suo racconto, le sue chiacchiere andarono avanti fino all’arrivo del professore.
Trust varcò la soglia con la solita eleganza e vestito di grigio, gli occhiali dalla montatura in oro infilati nel taschino dove sarebbe andata una penna e gli occhi azzurro cielo che fecero sussultare il cuore di Carly, nell’esatto momento in cui incrociarono i suoi.
Trust, seguito dall’immancabile signorina White, depositò la valigetta di cuoio sulla scrivania e sorrise, allargando le braccia come se volesse abbracciare l’intera aula.
- Ragazzi e ragazze, bentornati. Mi auguro che abbiate speso in modo costruttivo il tempo libero delle vacanze. – e, detto ciò, ammiccò nella direzione della bruna, soffermandosi qualche istante a osservarla profondamente.
- So per certo che almeno qualcuno di voi lo ha fatto.- aggiunse, prendendo posto e afferrando il plico di fogli che Jennifer White gli stava porgendo.
Carly, che aveva trattenuto il fiato fino a quel momento, riprese a respirare, cercando di tranquillizzarsi e darsi una regolata: non doveva essere sciocca e credere che quell’allusione si riferisse proprio a lei e al loro incontro alla Mostra di Spencer.
Il professor Trust era un uomo di una certa cultura e di certo non si sarebbe interessato a una studentessa appena maggiorenne, priva di alcuna attrattiva intellettiva per lui.
Eppure, durante la lezione, Carly non poté fare a meno di sentirsi addosso i suoi occhi, più di una volta, insistenti e magnetici, penetranti e, ogni volta che i loro sguardi si incrociarono, la ragazza avvampò bruscamente e fu costretta a chinare il viso sul testo poetico assegnato.
Non si accorse, tuttavia, delle occhiate colme di disappunto e disapprovazione che Louisa, seduta proprio nella panca accanto alla sua, le lanciava e degli occhi verdi di Jennifer White che la fissavano, imperturbabili e vuoti.
Quando le due ore furono passate e la lezione terminò, Carly rispose in fretta ogni cosa nella borsa e, timorosa di fare figuracce, insicura e agitata, guadagnò l’uscita, bisognosa d’aria.
In cortile, sospirò, portandosi entrambe la mani a coprirsi il volto: perché si era invaghita di Trust?! Non aveva alcuna speranza con lui e, di certo, sarebbe passata, ai suoi occhi, come una sciocca ragazzina dall’infatuazione facile!
Decisa a non cadere in un banale cliché, si diresse spedita verso il centro e raggiunse la biblioteca pubblica; voleva mettersi immediatamente all’opera e scrivere la relazione assegnata per la settimana successiva.
Così, almeno, si sarebbe dimostrata un’allieva modello e non una scansafatiche interessata solo a stupide smancerie romantiche.
Doveva essere all’altezza delle aspettative che il professor Trust aveva risposto in lei.
 
 
 
- Sam, perché il tuo libro di economia è sotto il tavolino?- domandò Dylan, seduto in poltrona con un quaderno ricolmo di appunti aperto sulle ginocchia e una matita mordicchiata tra le dita.
La bionda, stesa a testa in giù sul divano e con una coscia di pollo in mano, sbuffò.
- Il tavolino traballava, ora non più.- spiegò, tornando a gustarsi la sua merenda di metà pomeriggio.
Cat, intenta a studiare anche lei al bancone della cucina, fece girare lo sgabello e sorrise.
- E’ stata molto brava, io non ci avevo pensato.- illustrò, battendo le mani estasiata.
Dylan si massaggiò le tempie, sfinito dall’intera giornata trascorsa con entrambe.
- Cat, non distrarti.- disse, indicando il libro di storia della rossa con un cenno del capo.
- Oh, è vero! – trillò Cat, tornando a leggere qualcosa che, poco dopo, avrebbe commentato come “ … un gesto molto maleducato!”, riferendosi al Boston tea Party.
- Sam, perché il tuo libro di economia è sotto il tavolino?-
La ragazza si tirò a sedere, gettò malamente sul tavolo l’osso spolpato della coscia di pollo e fissò Dylan come se fosse il Bigfoot in persona.
- Bennett, cosa diamine c’era nelle polpette che hai mangiato a pranzo?- fece, fintamente allarmata.
L’altro sospirò. – Ragazzina, il nostro esame è tra due settimane e ti ricordo che Holmes ci detesta!- rispose, tirandole la gomma da cancellare e colpendola in fronte.
Sam fece roteare gli occhi al soffitto e si lasciò cadere distesa. – Mi inventerò qualcosa!-
Dylan chiuse il quaderno e lo gettò sul tavolo, si alzò e la raggiunse, sedendosi accanto al  suo fianco e posando le mani ai lati della sua testa.
Sam, come accadeva ogni volta che lui le era troppo vicino, nonostante fossero passate ormai due settimane dall’inizio della loro “relazione”, avvampò e sfuggì il suo sguardo, imbarazzata.
Il ragazzo, soddisfatto e intenerito, mise su il solito sorrisetto arrogante e si chinò maggiormente per sussurrarle all’orecchio.
- Devi studiare, Puckett.-
L’alito di Dylan le solleticò una guancia, insinuandosi tra i suoi capelli e Sam, impulsivamente, allungò le braccia a cingergli il collo.
- Non darmi ordini.- ribatté, risultando più timida che arrogante.
Il ragazzo le baciò la mascella, seguendone il profilo e lasciandole una scia umida che terminò sulle sue labbra; Sam accolse quel bacio incerta, imbarazzata dalla presenza di Cat a qualche metro da loro.
Da quando si erano “messi insieme”, difatti, era raro che si fossero lasciati andare a simili gesti in pubblico poiché condividevano il desiderio di riservatezza.
O, forse, anche perché quando cominciavano a baciarsi, sfiorarsi, accarezzarsi, finivano quasi sempre col perdere il controllo e ritrovarsi accaldati e ansanti, con gli occhi languidi e le labbra gonfie.
Esattamente ciò che stava accadendo.
Sam davvero non si spiegava come quel bacio si fosse trasformato da casto e dolce a passionale e profondo, eppure eccoli lì, persi l’uno nel respiro dell’altra, gli occhi chiusi e le mani tra i capelli.
Cat si schiarì la voce e ridacchiò e Dylan si tirò su, le gote leggermente arrossate, i capelli scompigliati e l’aria del tipo che è appena stato beccato dal padre della propria ragazza sulla porta di casa.
Sorrise, cercando di celare l’imbarazzo assumendo un’espressione strafottente e afferrò il quaderno, col quale colpì Sam sulla testa per poi lasciarglielo in grembo.
- Studia.- le ordinò, alzandosi e avviandosi verso la cucina, dove aveva abbandonato il suo giubbotto su uno degli sgabelli.
Sam, stordita, si tirò su. – Dove vai?- chiese.
- Michael mi aspetta per una partita a biliardo.- rispose, solleticando Cat sotto il mento e facendola ridere mentre si allontanava.
Passò dietro il divano e si chinò a rubare un bacio alla bionda.
- Salutamelo.-
Dylan varcò la soglia e, dopo averle fatto un cenno col capo, chiuse la porta dietro di sé.
Sam sospirò e si allungò per afferrare la bibita che aveva lasciato sul tavolo e si ritrovò con Cat che, appollaiata sul bracciolo del divano, la fissava eccitata.
- Cosa?- fece.
- Oh, Sam! Siete così carini!- squittì la rossa, ottenendo un grugnito in risposta.
- Mi ricordate moltissimo Jade e Back!- fece, sognante. – Certo, loro litigavano di continuo, ma anche voi non scherzate.- aggiunse, pensosa.
Sam, ovviamente, aveva smesso di ascoltarla.
- Michael è quel tipo con la cicatrice sull’occhio che sembra un cinque?- domandò, ancora, Cat.
- Già.-
- Sono molto amici, non è vero?-
- Si conoscono da tempo, si allenavano insieme, quando Dylan ancora gareggiava.- rispose Sam, stiracchiandosi e tornando a stendersi, dopo aver gettato malamente il quaderno sul tavolo.
Cat aggrottò le sopracciglia, interdetta. – Non dovresti studiare?- fece.
Il mugolio che ottenne in risposta fu un eloquente no e, pochi minuti dopo, Sam russava sonoramente.
 
 
 
 
- Benson, voglio essere sincero: il tuo lavoro è buono, molto buono, per un tipo giovane come te, ma non posso darti la certezza che lo prenderanno in considerazione.-
Il signor Coleman, supervisore dell’ufficio tecnico, si abbandonò pesantemente contro la spalliera della sedia color fango e incrociò le dita sul grosso pancione.
- Il fatto è che riceviamo ogni tipo di software, videogame, applicazione in grande quantità ogni giorno e, per colpire il Presidente, - a Freddie parve che il suo capo si chinasse in modo reverenziale sotto quel appellativo. – una creazione deve essere unica e strabiliante.- aggiunse, lisciandosi i baffetti ispidi e grigi.
- Certo, mi rendo conto.- sospirò il ragazzo, seduto di fronte all’uomo.
- Inserirò il tuo videogame insieme alle altre proposte valutate positivamente dal  primo gruppo di selezione, più di questo non posso davvero fare.- continuò, alzandosi e dichiarando, a quel modo, concluso il colloquio.
Freddie lo imitò e gli strinse educatamente la mano. – La ringrazio molto.- disse.
Coleman liquidò la frase con un teatrale gesto della mano. – Torna a lavoro, adesso.-
Freddie trascorse il resto della giornata a resettare computer e programmare siti web, fino a quando l’orologio non segnò le cinque e si diresse, insieme a tutti gli altri del suo team, a registrare la fine del turno con la tessera magnetica.
Raggiunse il parcheggio interno e si mise al volante, con una manciata di idee per migliorare il suo progetto che gli vorticavano in mente e guidò come un automa fino all’Università di Carly.
Parcheggiò nel solito spiazzo e, dato che il tempo era decisamente migliorato quella settimana, spense il motore e uscì dall’abitacolo, sistemandosi contro la portiera, in attesa.
Qualche minuto dopo, mentre il buio iniziava ormai a calare, piccoli gruppi di studenti cominciarono a defluire dall’istituto, scendendo le grandi scale di pietra.
Nel caos di persone, gli occhi di Freddie furono catturati da una chioma color miele legata in una treccia impeccabile e, quando la fanciulla ebbe raggiunto il marciapiede, il ragazzo la riconobbe come Louisa, l’algida bionda di cui aveva “parlato” un mese prima.
Gli occhi nocciola della giovane incrociarono i suoi e il viso affilato si tinse di scarlatto.
Era carina, proprio come la ricordava e Freddie si ritrovò, d’improvviso, a domandarsi perché non si fosse ancora deciso a salutarla e scambiare due chiacchiere con lei, magari invitarla a uscire una sera.
Erano settimane che proclamava platealmente di voler “andare avanti”, ma, si rese conto solo in quel momento, non aveva fatto nulla di concreto per chiudere definitivamente il capitolo “Sam/Freddie/Carly” della sua vita.
Louisa poteva essere un inizio, un inizio piacevole e allettante.
- Ciao.-
Si rese conto di essere stato lui a parlare quando la ragazza sobbalzò appena, arrestandosi nel mezzo di un passo.
- Ciao.- rispose, in quel tono sicuro eppure guardigno.
- Ti chiami Louisa, giusto?- chiese il ragazzo, infilando le mani sudate in tasca.
Stava facendo la figura dell’idiota e, del resto, non era mai stato sveglio con le donne.
- Esatto.-
Il silenzio si protrasse qualche istante, Louisa se ne stava ferma di fronte a lui, la figura elegante avvolta in un soprabito scuro e la treccia francese a sfiorarle il collo sottile.
Sorprendentemente, fu lei a rompere l’imbarazzo.
- Tu sei Freddie, non è vero? L’amico di Carly Shay.- disse, in tono neutrale che, tuttavia, al ragazzo parve sarcastico.
Annuì. – Proprio così. – confermò. – Hai mai visto lo show?- le chiese.
Louisa scosse il capo. – No, mi spiace, ma da quel che ne so aveva un discreto successo.-
Freddie sorrise, impacciato. – Già, vecchi tempi.- mormorò.
A quel punto fu la ragazza a sorridere e le labbra sottili si tesero, disegnando una curva perfetta. – Aspetti Carlotta?- domandò.
- Sì, è sempre in ritardo.- scherzò Freddie.
- Non stento a crederlo.- commentò Louisa, più tra sé e sé, che a lui.
- Come?-
- Nulla. – liquidò la ragazza con un gesto della mano guantata.
I suoi occhi, piccoli e abbelliti dalle folte ciglia, scintillavano, ridenti; sembrava una bambina che conosce un segreto di cui nessuno sa nulla.
- Freddie!- la voce di Carly li interruppe e la bruna prese a scendere le scale, sventolando una mano a mo’ di scuse per il suo ritardo.
- Devo andare.- mormorò Louisa, chinando il capo di lato dolcemente. – Mi ha fatto piacere rivederti, Freddie.- sorrise.
Il ragazzo batté le palpebre, sorpreso e balbettò. – Anche… anche a me. Magari potremmo, non so, uscire, una sera, insieme, intendo, non io e te, separati, ognuno per conto suo e… -
Louisa rise, leggera. – Sì, mi piacerebbe. – fece, salutandolo con una mano, mentre si avviava lungo il marciapiede.
- Louisa! Non… non ho il tuo numero, come faccio a contattarti?- si ricordò, d’improvviso, Freddie, proprio mentre Carly lo affiancava, guardando anche lei l’altra.
La bionda alzò le spalle. – Sorprendimi.- mimò con le labbra, riprendendo a camminare.
Il ragazzo rimase a fissarla per qualche istante, prima di accorgersi di Carly che, con espressione scocciata, lo guardava a braccia conserte.
- Che c’è?- chiese lui, mentre faceva il giro per salire in macchina.
- Oh, niente, Romeo.-
 
 
 
 
C’era puzza di fumo, qualche bottiglia di birra rovesciata e gruppetti di ragazzi appollaiati qua e là intenti a giocare, mentre ragazzine tutte gonne e rossetto sedevano a fare il tifo.
Dylan, camicia risvoltata sugli avambracci, sorrisetto arrogante e stecca da biliardo nella mano destra, tirò e mandò la palla in buca.
- Non hai perso il tocco.- commentò Michael, in piedi alle sue spalle, che teneva la mazza da biliardo puntata a terra a mo’ di bastone.
Dylan tirò ancora e sbagliò. – Mi hai portato sfortuna.- disse, spostandosi.
L’altro, alto quanto lui e leggermente più tarchiato, si chinò e chiuse un occhio, prendendo la distanza e mandando la palla in buca.
Due ragazze, sedute sulle sedioline di plastica, ridacchiarono e, quando Michael strizzò loro un occhio castano, sventolarono le mani in segno di saluto.
- Dacci un taglio.- intervenne Dylan, indicandogli il biliardo con un cenno del capo.
- Dylan, sei il mio migliore amico, ma quella bruna è davvero uno schianto. Non fare il guastafeste.- lo prese in giro Michael, passandosi una mano tra i capelli cenere.
- Tira e basta.-
Il ragazzo mancò il bersaglio e Dylan si sistemò per tirare, mentre le voci divertite delle due ragazze lo investivano, facendolo sbagliare.
- Merda.-
Michael scosse la testa, sospirando con fare teatrale. – Ah.- fece.
Dylan lo guardò, alzando un sopracciglio. – Cosa?- chiese.
L’amico alzò le spalle. – Nulla, nulla, riflettevo su quanto tu sia cambiato, tutto qui.-
- Michael, cominci a darmi sui nervi.- lo avvisò l’altro.
- D’accordo, non diventare aggressivo, da queste parti non ci sono ring e, comunque, ti stenderei.- lo prese in giro Michael.
- Sì, continua a ripetertelo.-
- Sul serio, Bennett, ci hai pensato alla proposta di Carl?- gli domandò.
Dylan si morse le labbra e passò una mano in viso, sospirando; era un discorso difficile da affrontare, per lui.
- Ci sto ancora riflettendo.- rispose, infine.
Michael lasciò perdere la partita. – Non puoi più gareggiare a livello professionistico, Dylan, lo sai. Devi ficcartelo in testa e smettere di credere che, magari, un giorno… e così via. – gli disse, guardandolo dritto negli occhi.
Dylan si accigliò. – Lo so, Michael.- sputò, a denti stretti, teso.
L’altro gli afferrò le spalle, di forza. – Ehi. Sono il tuo migliore amico e non voglio che tu ti faccia male seriamente, d’accordo? Anche tua madre è preoccupata, lo sai. – affermò.
Il ragazzo si scrollò di dosso l’amico e sbuffò. – Michael, ho detto che lo so.- ripeté, più pacato.
- D’accordo, allora accetta la proposta di Carl di prendere il suo posto come allenatore! La palestra è sua e sai bene che vuole lasciarla a te!- esclamò Michael.
Dylan si chinò a tirare, ignorando l’altro.
L’idea di non poter più combattere lo tormentava, sebbene in superficie sembrasse essersi rassegnato; essere un lottatore era stata tutta la sua vita per molto tempo, gli aveva consentito di sfogare la rabbia e la frustrazione e il dolore che sentiva.
L’infortunio era stata una botta tremenda e si era ripreso a stento, solo grazie al sostegno di sua madre, di Michael e di Carl, il loro allenatore fin da ragazzini.
Michael era ancora un lottatore e, sapendo quanto Dylan soffrisse all’idea di non poter più gareggiare, aveva cominciato a evitare l’argomento, con lui, per non girare il coltello nella piaga.
Anche Carl aveva capito quanto dura fosse, per Dylan e, non avendo figli, aveva deciso di farne il suo erede, sperando che aiutare altri ragazzini problematici, come aveva fatto lui, potesse aiutarlo.
Accettare quella proposta, però, avrebbe significato accettare definitivamente l’idea di non poter più lottare e Dylan non sapeva se fosse pronto a farlo.
- Bennett.-
- Ci penserò.-
Michael, conoscendolo, capì che non avrebbe ottenuto di più e lasciò cadere l’argomento.
Intanto, la bruna che aveva definito uno schianto, li raggiunse al biliardo e sbatté le lunga ciglia scure.
- Ciao.- fece.
- Ciao a te.- rispose il biondo, sorridendo.
Dylan la ignorò, limitandosi a indicare a Michael il biliardo. – Tocca a te.- disse.
La ragazza non parve offendersi e poggiò le mani dalle unghia smaltate sul bordo del tavolo.
- Io e la mia amica stiamo per andare a bere qualcosa, vi va di venire?- domandò.
Michael si passò una mano tra i capelli, guardando l’amico.
- Vai pure.- alzò le spalle Dylan.
- Perché non vieni anche tu?- intervenne la bruna, inclinando di lato la testa.
Dylan sorrise. – Non sono interessato.- disse, glaciale, alzando un sopracciglio un un’espressione strafottente.
Michael si batté una pacca in fronte, mentre la ragazza arrossiva vistosamente e, girati i tacchi, se ne andava, offesa.
- Amico, mi rovinerai la piazza.- commentò, sconsolato. – E’ tutta colpa di Puckett.- aggiunse.
Dylan lo ignorò.
- Almeno è forte: è bella e stronza, non avrei sopportato che diventassi un pappamolle per una qualsiasi. – insistette Michael.
Lo sguardo bruno e incandescente di Dylan scattò nel suo.
- Sam non è una qualsiasi.- decretò, in un tono che non ammetteva repliche.
L’amico scosse la testa, ridendo. – Sei proprio andato, Bennett.- lo prese in giro.
- Tira e basta.-
 
 
 
 
 
L’area riunioni versava in un vero caos: telefoni che squillavano di continuo, assistenti intenti a entrare e uscire trasportando quantità industriali di fogli e cartelline, bicchieri di caffè abbandonati sul lungo tavolo rettangolare e una dozzina di persone, tra uomini e donne, sparpagliati sulle sedie e intente a discutere.
- D’accordo, d’accordo, signori e signore, abbassiamo la voce e vediamo di riepilogare.- richiamò all’ordine Elizabeth Jones, produttrice televisiva del canale per cui Alison lavorava.
- Mark?- aggiunse, quando il brusio di voci scemò, invitando il direttore dello stesso a parlare.
Questi, un uomo di colore e di bell’aspetto sulla quarantina, si alzò e si schiarì la voce.
- I due programmi di punta del network sono stati riconfermati per un’altra stagione. Le riprese cominceranno in Marzo e gli episodi saranno mandati in onda a partire da Giugno, fino agli inizi di Novembre; le date settimanali sono state fissate, momentaneamente, a Lunedì e Mercoledì, prima serata. – lesse, dalla cartellina che teneva in mano.
- James, segna che devo mettermi in contatto con gli emittenti europei per trattare l’acquisto delle nuove stagioni.- intervenne Elizabeth, rivolta al suo assistente tutto occhiali, che, attento e svelto, appuntò sull’agenda.
Mark attese un cenno per riprendere a leggere. – Lo show “Julie” terminerà quest’anno, in Agosto e abbiamo bisogno di qualcosa che lo sostituisca il Venerdì sera, sullo stesso genere: leggero, comico, giovanile, originale.- spiegò.
Sceneggiatori e consulenti si scambiarono occhiate avvilite ed Elizabeth sospirò, massaggiandosi le tempie.
- Non è semplice trovare qualcosa di adatto.- mormorò.
- “Julie” è stato lo show principale del canale per quattro anni, Liz.- intervenne Alison, seduta alla destra della donna. – Sarà difficile sostituirlo e, soprattutto, sarà difficile far apprezzare la novità agli spettatori affezionati. Non dovremmo spaventarci, tuttavia, se, inizialmente, lo share risulterà inferiore alla media.- tentò di rassicurarla.
- La concorrenza è alta, Alison, lo sai meglio di me, dato che, in passato, hai lavorato in altre emittenti.- spiegò Elizabeth.
- Certo.- ammise l’altra. – Ed è in base alla mia esperienza che credo non dovremmo creare qualcosa troppo di fretta solo per non lasciare buchi nel palinsesto e rischiare, tuttavia, di dar vita a un prodotto che sarebbe criticato qualitativamente.- illustrò.
Un altro paio di scrittori concordarono con Alison e Elizabeth si rivolse a Mark.
- Tu cose ne pensi?- chiese.
L’uomo alzò le spalle. – Potremmo mandare le repliche di qualche vecchio telefilm che è stato particolarmente apprezzato, fino a quando tu e gli scrittori non troverete l’idea giusta.- disse, pensoso.
- D’accordo.- fece Elizabeth, posando la penna, con cui aveva giocherellato fino a quel momento, sul tavolo. – Quanto tempo mi dai?- chiese, ancora.
- Fino a Giugno, Liz, poi andremo col piano B. – sospirò Mark. – Mettere in piedi uno show richiede tempo e, tra casting, sceneggiature, set, costumi e registrazioni impiegheremo mesi. Le repliche possono coprire fino a Dicembre, ma da Gennaio prossimo mi occorre uno show nuovo di zecca.- spiegò.
Elizabeth annuì e lei e Mark si diedero appuntamento a pranzo, poi l’uomo lasciò la sala e la riunione fu così dichiarata conclusa.
Mentre le persone cominciavano a uscire, il cellulare di Alison iniziò a squillare.
- Spencer?-
- Ciao, bellezza!- esclamò l’artista, mentre, in sottofondo, un trambusto infernale rendeva difficile distinguere la sua voce.
- Spencer, cos’è questo caos?- domandò la ragazza, accostandosi alla finestra per avere un po’ di privacy.
- Sono in un negozio di batterie! Ricordi che ti ho raccontato di quando sono entrato in una band e poi mi hanno sbattuto fuori?- le chiese e, poi, senza darle il tempo di rispondere, riattaccò col suo racconto. – Beh, stamattina mi sono svegliato e, dopo aver incassato l’assegno per la scultura che quel tale, il tizio con la faccia incipriata e il parrucchino, ha acquistato dopo la Mostra, ho pensato che sarebbe stato uno splendido modo di spendere il denaro, quello di comprare una batteria nuova, tutta mia, così da poter riprendere a suonare e, magari, cercare un nuovo gruppo… -
Mentre Spencer continuava il suo monologo, Elizabeth fece cenno a Alison di volerle parlare.
- Arrivo subito.- mimò questa con le labbra.
- … è così, ti dicevo, sono indeciso: blu elettrico o giallo acceso? Sai, sembra più oro, forse… -
- Spencer, scusa, devo riattaccare, ti richiamo.- fece.
- Oh.- la nota di delusione nella voce dell’artista non le sfuggì.
- Mi spiace molto, sono a lavoro e il mio capo vuole parlarmi.- spiegò Alison.
- Certo, tranquilla. Vieni da me, quando stacchi?- le domandò Spencer, comprensivo.
- Sì, sì, ci vediamo a cena.-
Alison spense il telefono e lo gettò in borsa ( non voleva che Elizabeth s’irritasse a sentirlo squillare di continuo ) e raggiunse lei e James, diretti nello studio della donna.
L’intera giornata trascorse in un’altra serie di riunioni, fino a quando gli scrittori non furono chiamati da Elizabeth per la stesura del nuovo episodio di una delle serie televisive e, dato l’umore pessimo che sembrava incombere su tutti, non uscirono dalla stanza fino a tarda sera.
Stanca e affamata, con gli occhi che le si chiudevano dal sonno, la ragazza raggiunse in taxi il suo appartamento e, toltasi il cappotto, si lasciò cadere sul divano, addormentandosi dopo aver sfilato una sola scarpa.
Al mattino, a ridestarla, non fu la sveglia della camera da letto ma un battere nervoso sulla porta.
Alison si sollevò, stordita e, gettata un’occhiata all’orologio sulla parete del camino, spalancò gli occhi, allarmata: erano le nove ed era in un tremendo ritardo.
Su di un solo tacco andò ad aprire, saltellando e si ritrovò di fronte a Spencer, accigliato.
- Ciao! Sono in ritardo!- gli disse, facendogli cenno di entrare e scalciando via l’altra scarpa, per poi correre in camera da letto e agguantare qualche vestito pulito.
- Sì, sei in ritardo, in effetti, di quasi tredici ore!- esclamò l’altro, raggiungendola sulla porta del bagno.
Alison, intenta a lavarsi i denti, lo fissò riflessa nello specchio con lo spazzolino a mezz’aria e un’espressione confusa in volto.
Spencer, sbuffando, allargò le braccia. – La cena, Alison, dovevi venire a cena da me, ieri sera.- le ricordò.
La ragazza sputò nel lavandino e si sciacquò la bocca. – Oh, cielo! Hai ragione, scusami, me ne sono completamente dimenticata!- disse, passandosi una mano sul viso bagnato. – Ero sfinita e la sessione di scrittura è durata più del previsto, era tardissimo, quando sono uscita.- cercò di spiegargli.
Spencer si morse l’interno delle guance. – Potevi chiamarmi e dirmelo, avvisarmi che non ce l’avresti fatta.- protestò.
Alison, che doveva fare una doccia veloce, vestirsi e raggiungere l’ufficio entro mezz’ora, sospirò.
- Spencer, mi dispiace, davvero, ho spento il telefono per non essere disturbata durante le riunioni e la stanchezza mi ha… -
L’artista la interruppe, sconcertato. – Disturbata? Non pensavo di essere… un disturbo.- mormorò.
Lei si morse le labbra, chiudendo gli occhi, frustrata. – Non intendevo questo, Spencer, tu non sei un disturbo, ma quando lavoro non posso distrarmi o prendere pause, non posso semplicemente lasciare tutto solo per rispondere al telefono e parlare con te, non ho la libertà di gestire quel tempo come voglio, come puoi fare tu. - gli spiegò, gesticolando.
Spencer la osservò, con un sorrisetto amaro a disegnargli le labbra. – Stai cercando di dirmi che il tuo lavoro è più importante del mio, solo perché io non ho orari da rispettare e stupide e noiose riunioni a cui partecipare?- chiese.
Alison spalancò la bocca, confusa e offesa. – Io… no! Certo che no! Sto solo dicendo che lavoriamo in due modi diversi, in due ambienti diversi e io ho delle regole da rispettare e… oh, maledizione, è tardissimo!- esclamò, poi, quando il telefono di casa prese a squillare freneticamente.
La ragazza saettò fuori dal bagno e rispose, agitata. – James? Sì, sarò lì tra quindici minuti, ho avuto un contrattempo… - si scusò e riagganciò, tornando di corsa in bagno.
- Spencer, mi spiace, devo proprio sbrigarmi, ne riparliamo stasera, okay?- fece.
Lui alzò le mani a mo’ di resa. – Come vuoi, spero ti ricorderai di esserci, stavolta.- e, voltando le spalle, lasciò l’appartamento.
 
 
 
- Non credete che io abbia ragione?-
Freddie e Carly si guardarono per un lungo momento, poi entrambi fissarono Spencer.
- No.- dichiararono in coro.
L’artista li fulminò, balzando in piedi dal divano. – Ma se non mi ha nemmeno telefonato!-
Carly si alzò anche lei. – Era sfinita, Spencer e si è scusata, da quanto hai raccontato. –
- E, poi, da quando se così attento a queste cose?- intervenne Freddie, seduto su uno sgabello.
- Che intendi?-
L’altro alzò le spalle. – Non sei mai stato un tipo “responsabile”, uno di quelli che richiama o si ricorda gli appuntamenti o… -
Carly venne in suo soccorso. – O anche i nomi delle ragazze con cui stai!- fece.
- Ricordo ancora quando chiamasti Rebecca “Rachel” e lei ti stampò la sua mano sulla faccia.-
Spencer tornò a sedersi con un’espressione dolorante in viso. – Oh, sì, che male!-
- E aveva ragione, dato che Rachel era sua sorella!- aggiunse la bruna.
Freddie rise e Spencer si accigliò. – D’accordo, solo perché in passato sono stato un po’… distratto, questo non significa che adesso la mia ragazza possa semplicemente dimenticarsi di me.- protestò.
Carly si sedette accanto a lui e gli batté una mano sul ginocchio. – Non si è dimenticata di te, Spencer, era solo molto stanca. E, comunque, ha ragione riguardo il lavoro: tu sei libero di impiegare il tuo tempo come meglio credi, lei no. Ha delle scadenze, degli appuntamenti, delle riunioni e mille altre cose di cui tener conto, da rispettare. Siete diversi, ma questo non deve farti paura, non devi aver timore che lei possa… essere troppo complicata, per il tuo modo di vivere. – mormorò, dolcemente.
Spencer, imbronciato come un bambino, si strinse un cuscino al petto. – E’ che mi manca, quando non ci vediamo per molti giorni. – piagnucolò.
Carly sorrise e Freddie lo prese in giro. – Ah, l’amore!- fece.
- Ah ah, ridi pure, tu. – lo scimmiottò l’artista, tornando a rivolgersi alla sorella. – E se uno di quei tizi con i completi gessati e le cravatte noiose le facessero la corte? Eh? Lei potrebbe pensare che sono più adatti al suo stile di vita e mi lascerebbe e si sposerebbe e... – andò in iperventilazione.
- Spencer!-
Carly lo afferrò per il bavero della camicia. – Respira.- gli ordinò.
Il giovane eseguì e tornò a rilassarsi.
- Smettila di essere pessimista e trova il modo per scusarti, piuttosto. – lo rimproverò la sorellina.
Spencer balzò in piedi. – Certo! Devo farmi perdonare.- decretò.
- Come pensi di fare?- s’informò Freddie, mentre l’altro guadagnava la porta.
- Non ne ho la minima idea.- rispose, urlando, già in corridoio.
 
 
 
- Signora Lenz, queste lasagne sono buonissime! Dovrebbe fare la cuoca nel mio ristorante!-
Gibby accompagnò il complimento sollevando la forchetta sporca di sugo in direzione della padrona di casa.
- Oh, ti ringrazio, Gibby, non sapevo avessi un ristorante!- esclamò la donna, seduta di fronte a lui.
- Non ce l’ho ancora, ma aprirne uno è il mio sogno.- disse il ragazzo.
Maddie Lenz, una bella donna sulla cinquantina, alta e magra, capelli biondo cenere e grandi occhi chiari, sorrise di quello strano ragazzo che suo figlio maggiore gli aveva presentato come un “amico”.
Scott era sempre stato un ragazzo estroverso e solare, uno sportivo, bravo a scuola e decisamente vivace, inoltre era un gran bel ragazzo, eppure, tralasciando qualche piccola storiella da scuola media, non aveva mai intrapreso relazioni sentimentali.
Sua madre, donna sveglia e in carriera, si era spesso domandata come mai, quel figlio tanto socievole e di gran cuore, non sembrasse interessato a quell’aspetto della vita, fino a quando, qualche anno prima, non aveva visto, per puro caso, un abbraccio decisamente affettuoso tra Scott e un “amico” dell’epoca.
Così, si era resa conto che suo figlio aveva interessi, gusti diversi, da ciò che aveva sempre immaginato e creduto e, inizialmente, la cosa l’aveva lasciata confusa e stordita.
Aveva osservato Scott, per qualche mese, sorprendendosi a scoprire che non c’era nulla di diverso in suo figlio, a parte la sua preferenza romantica: Scott restava un ragazzo generoso, gentile, beneducato, leale, vivace, allegro e sereno.
Allora, si era sentita una vera sciocca per essersi sentita così stranita dall’aver scoperto l’omosessualità del figlio e, non appena aveva avuto occasione di incontrare l’ex marito, ne aveva parlato con lui, per prepararlo e aiutarlo a capire che non c’era nulla di sbagliato o anormale, in Scott.
Sorprendentemente, l’uomo l’aveva presa anche meglio di lei e, qualche mese dopo, era stato lo stesso Scott a dichiarare ogni cosa ai genitori e al resto della famiglia, spiegando che, sebbene la sua relazione fosse terminata, lui aveva avuto la conferma di essere gay.
Adesso, adesso che Maddie Lenz, osservava suo figlio accarezzare dolcemente il loro ospite con sguardo perso, si sentiva così partecipe dei suoi sentimenti e così intenerita dalla timidezza che questi gli infondevano che avrebbe voluto stringerlo forte, come faceva quand’era un bambino.
- Mamma! Mamminaaa!- la voce squillante di Emma, sei anni, terzogenita e ultima figlia, li raggiunse tutti, annunciando il suo ingresso.
- Ciao Scottie!- esclamò la bimba, balzando in braccio al fratello e facendo rovesciare il bicchiere d’acqua che questi teneva in mano.
- Ciao Emy, non sei stanca dopo un giorno di scuola?- chiese questi, ridendo.
- No, no!- ridacchiò anche lei.
- Emma, lascia in pace tuo fratello e va’ a lavarti le mani, scaldo le lasagne. Dove sono tuo padre e tuo fratello?- intervenne Maddie, alzandosi.
- Stanno parcheggiando.-
La bambina obbedì, scivolando giù e i grandi occhi chiari si soffermarono su Gibby.
- Ciao.- fece questi.
- Tu sei quello di ICarly?!- chiese Emma, alzando il visetto paffuto.
- Proprio io.-
- Ahhhhhh!- il suo grido raggiunse anche il padre, entrato in casa in quel momento.
- Ma che succede?!- domandò, irrompendo in cucina seguito da figlio maggiore e osservando allucinato Emma che saltellava intorno all’ospite.
- Ciao Scottie.-
- Ehi, Ben, come sono andate le selezioni?- chiese il biondo al fratellino.
- Papà! Papà, è quello di ICarly!- esclamò Emma, afferrando una manica della giacca dell’uomo.
- Sono state rimandate, l’allenatore ha avuto un problema con la palestra.- rispose Ben.
- Iche?! – il Signor Lenz fissò la moglie, in cerca di aiuto.
- Ciao, caro. Lui è Gibby, un amico di Scott.- intervenne la donna.
- Molto piacere, John Lenz.- salutò l’altro, raggirando la figlia saltellante per stringere una mano all’ospite, poi si sporse a baciare una tempia della moglie e batté una pacca sulle spalle di Scott.
- Ehi, ragazzo, mi hai lasciato qualcosa o hai spolverato tutto come al solito?- lo prese in giro, sedendosi di fianco a lui.
- Emma, Ben, le mani!-
Nel caos generale creato dai ragazzi, John e Maddie si scambiarono un’occhiata e un sorriso,  nascosti dai bicchieri che portarono alle labbra.
 
 
 
 
Faceva più freddo della sera prima e un vento leggero soffiava trasportando foglie secche e sollevando la polvere delle aiuole seminate lì intorno.
Spencer si scaldò le mani alitandovi e le ficcò nuovamente in tasca, in attesa.
Erano ormai le nove, quando le prime persone cominciarono ad abbandonare l’edificio e l’artista si diede una raddrizzata, cercando di scorgere Alison.
La vide: camminava di fianco ad un tipo con gli occhiali quadrati e parlavano fitto, gesticolando.
Spencer sentì una morsa di gelosia e ansia stringergli lo stomaco, eppure rimase immobile, tentando di tenere a mente i consigli di Carly.
Alison e il tipo si fermarono sui gradini, intenti a discutere di qualcosa, poi lui le porse dei fogli e lei annuì un paio di volte.
Quando si volse verso il marciapiede e lo vide, i suoi occhi si illuminarono e sul volto comparve un sorriso radioso.
Senza nemmeno guardarlo, salutò il tipo accanto a lei e scese di fretta le scale, con il cappotto che ondeggiava dietro di sé e i capelli al vento, si gettò tra le sue braccia, aggrappandovisi.
Spencer la cinse malgrado i fiori che aveva acquistato e le baciò il capo, sospirando di felicità.
Era stato sufficiente vederle in volto quell’espressione di pura gioia e innocenza, in viso, per capire che Alison era trasparente e sincera come appariva e non lo avrebbe mai tradito.
- Mi dispiace, sono stato un idiota.-
Lei sollevò il viso a incontrare il suo sguardo. – Già. – concordò, fingendo di stare sulle sue.
- Mi perdoni?-
- Hm.- fece la ragazza. – Dipende.-
- Da?-
- Quelli sono per me?- gli chiese, indicando i fiori maltrattati.
Spencer annuì, ficcandoglieli in mano.
- E va bene, farò uno sforzo.- esclamò Alison, come se gli stesse concedendo chissà che.
Scoppiarono a ridere insieme e si incamminarono abbracciati lungo il marciapiede.
 
 
 
 

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Capitolo 11
*** Care ***


Salve a tutti.
Mi scuso per il ritardo, ho sforato di qualche giorno a causa di problemi personali.
Come sempre, ringrazio la mia splendida Beta, Aduial e il suo lavoro impeccabile.
Ringrazio chiunque abbia recensito il precedente capitolo (risponderò in privato).
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite.
Buona Lettura.
 
 
 
Febbraio.
 
 
 
- Sei sicura che il cognome sia “Beillard”? –
Carly sbuffò sonoramente, fece roteare gli occhi al soffitto e si lasciò cadere pesantemente sul letto, di schiena, gettando all’aria le braccia in un gesto esasperato.
- Sì, Freddie, per la milionesima volta: sono sicura che quello sia il suo cognome!- sbottò.
Il ragazzo, seduto sul divanetto bianco, con il portatile in grembo e l’aria accigliata, si volse a rivolgerle un’occhiata carica di disappunto. – Va bene, va bene, non c’è bisogno di irritarsi.-
Carly si tirò a sedere sul letto e le sopracciglia scure si arcuarono a disegnare un’espressione allibita sul viso. – Mi hai fatto la stessa domanda centinaia di volte, Freddie! Mi dispiace, ti ho già detto che non posso aiutarti a rintracciare Louisa; non ho idea di dove abiti, non ho il suo numero di cellulare e a stento ci rivolgiamo la parola in classe! – esclamò, alzandosi e afferrando la borsa contenente i libri dell’Università, abbandonata poco prima in terra.
- Dovrai trovare un altro modo per conquistare la tua bella, io me ne tiro fuori!- aggiunse, diretta alla porta.
- Dove vai, adesso?- le domandò Freddie, senza staccare gli occhi dallo schermo del computer, intento a digitare freneticamente.
- A studiare in biblioteca. Ci vediamo dopo.-
La bruna lasciò la camera da letto e salutò il suo migliore amico, intestarditosi a rintracciare quella Louisa tramite uno qualunque degli infiniti social network a disposizione.
Raggiunto il salotto, Carly afferrò le chiavi di casa e uscì in fretta, decisa a terminare la ricerca che Trust aveva assegnato solo a lei, sotto sua richiesta, per ottenere crediti extra.
Certo, ovviamente, il fatto che il bel Professore fosse rimasto talmente impressionato dal suo ultimo lavoro da essersi fermato a discuterne con lei almeno un quarto d’ora, dopo l’ultima lezione e che, in questo modo, Carly avesse potuto godere della sua compagnia da sola, era senza dubbio un incentivo a portare a termine quel nuovo compito.
A chiunque le domandasse cosa la appassionasse tanto, di quel corso di scrittura creativa, Carly rispondeva di sentirsi viva, ogni qual volta metteva su carta emozioni e pensieri, trasformandoli in arte.
Avvertire su di sé gli occhi fieri e appassionati di Trust era parte essenziale di quel gioco di emozioni e la bruna sapeva perfettamente di aver intrapreso una strada dalla quale non sarebbe potuta tornare indietro.
E, del resto, non desiderava farlo.
 
 
 
Sam guardò di nuovo il cellulare, in modo meccanico, quasi senza rendersene conto; dall’altro lato del tavolo, Dice e Cat si scambiarono uno sguardo preoccupato.
Tutt’intorno ai tre ragazzi, un vociare allegro di persone e coppiette intente a scambiarsi effusioni e smancerie.
San Valentino era giunto con tutto il suo carico di melenso romanticismo: le vetrine dei negozi erano agghindate con cuori e petali di rose, uomini – giovani o di una certa età, non c’era differenza – camminavano col volto nascosto da immensi fasci di fiori, dovunque risuonavano canzoni d’amore che avrebbero fatto venire il diabete a chiunque.
Quando il robot posò le loro ordinazioni sul tavolo, Sam allungò una mano per afferrare una patatina fritta e si accorse che in cucina avevano dimenticato di aggiungervi la salsa piccante, la sua preferita.
Cat e Dice si preparano alla scenata che sarebbe conseguita, magari a qualche circuito distrutto a suon di calci, ma, sorprendentemente, non accadde nulla.
Sam si limitò a guardare di nuovo il cellulare e tamburellare, pensosa, le dita sul tavolo.
Cat, intenta a sorseggiare il suo frullato alla fragola, si schiarì la voce.
- Ehm, Sam, va tutto bene?- le domandò, battendo le ciglia dei grandi occhioni scuri.
La bionda sollevò lo sguardo nel suo e, alzando il mento in un gesto stizzito, annuì.
Dice e Cat sospirarono, sgomitandosi l’un l’altro sotto il tavolo in una muta battaglia a chi dovesse rivolgere ancora parola a Sam, per cercare di capire cosa la rendesse tanto preoccupata e irritata da non dare in escandescenze di fronte all’assenza di salsa sulle patatine.
Dice perse la battaglia, complice anche il gomito appuntito di Cat e, grattandosi la testa con fare nervoso, tentò: - Ehm, dov’è Dylan?- chiese.
Gli occhi di ghiaccio di Sam scattarono nei suoi, taglienti, quasi trapassandolo e il ragazzo sussultò, tirandosi indietro.
Cat, rimasta con la cannuccia tra le labbra, fissò l’amica spaventata, certa che, da un momento all’altro, Sam avrebbe afferrato Dice per il bavero e l’avrebbe scaraventato oltre il tavolo.
Anche quella previsione si rivelò errata, poiché la bionda si alzò, afferrando le chiavi della moto e si allontanò a lunghe e pesanti falcate, guadagnando l’uscita.
Dice riprese a respirare normalmente solo in quel momento e si volse a fulminare Cat con un’occhiata.
- Cosa?- chiese, docile, lei.
- Cosa?!- fece il ragazzino, allargando le braccia, frustrato. – Per poco non mi sbranava!-
Cat liquidò le sue parole con un gesto della mano. – Non esagerare.- disse, sorridendo. – Al massimo ti avrebbe rotto un braccio: è molto più controllata, ora.- aggiunse, tornando a sorseggiare il suo frullato.
 
Sam diede gas, saettando tra le auto e svoltando verso il ponte: aveva bisogno di scaricare lo stress e la tensione e una corsa in moto, col vento a sferzarle il viso e i contorni troppo sfocati per poter essere messi a fuoco, era ciò che le occorreva.
Il cielo si era tinto di sfumature rossastre e violacee e il sole tiepido andava tramontando oltre gli alti grattacieli di Los Angeles.
Era furiosa, davvero furiosa e preoccupata, cosa che accresceva ulteriormente la sua rabbia.
La colpa, ovviamente, era di quel decerebrato di Dylan.
Cercò di scacciare via dal cuore e dalla mente il ragazzo e ogni sentimento che lo riguardasse, ma, per quanto veloce fosse la sua moto, non vi era modo di seminarli.
Sam accostò alla fine del ponte, scendendo agilmente e mettendo il cavalletto, ignorando i clacson delle auto che le ricordavano il divieto di fermarsi su quel tratto di strada e si portò di fronte alla ringhiera.
Il panorama che si apriva di fronte al suo sguardo lasciava senza fiato: l’immensità della città, le montagne in lontananza, il cielo sfumato di tonalità pastello, lo scrociare dell’acqua proveniente dal fiume sottostante.
Sam afferrò le ringhiera con entrambe le mani e sospirò, chiudendo gli occhi e cercando di placare il battito accelerato del cuore; dov’era Dylan?
La sera prima si erano accordati per vedersi, eppure lui non si era presentato.
Lo aveva chiamato, quella mattina, per ben tre volte, ma il suo cellulare aveva squillato invano, fino a quando, d’improvviso, si era spento.
La bionda aveva fatto un ultimo tentativo e aveva telefonato a Michael, cosa che l’aveva irritata ulteriormente: detestava fare la figura della fidanzata gelosa, ossessiva, ansiosa, che arriva a chiamare gli amici del proprio ragazzo.
Michael aveva risposto dopo una manciata di squilli e aveva dovuto gridare per farsi sentire da lei, poiché, dovunque si trovasse, vi era un casino indescrivibile fatto di urla, applausi e imprecazioni.
Sam gli aveva domandato se avesse visto o sentito Dylan e dal tono vago e preoccupato che l’altro aveva assunto aveva intuito che Michael le stesse nascondendo qualcosa, magari proprio su richiesta di Dylan.
Prima di riagganciare, un “dong” troppo familiare aveva rimbombato nel suo orecchio e l’intuito aveva lavorato rapidamente, portandola ad una conclusione che non voleva accettare.
Era il giorno di San Valentino e avevano programmato settimane prima di recarsi fuori città, in una bettola scoperta durante le loro corse notturne, in cui si sarebbe svolto un torneo di poker, eppure lui non si era presentato in tempo, come concordato.
Non le importava nulla di non festeggiare quel giorno che per lei era una semplice trovata ridicola, ma non poteva accettare che lui sparisse così, soprattutto non per andare…
Sì, ne era certa: Dylan era a incontro, la sera prima e, sicuramente, aveva combattuto.
Avevano parlato e discusso di quella sua malsana ossessione fino allo sfinimento e sapere che non gli interessava affatto la sua opinione o il fatto che si preoccupasse per lui la mandava in bestia.
A quello si sommava l’ansia che gli fosse successo qualcosa, che si fosse ferito gravemente, motivo per cui non si era fatto vivo.
Un clacson risuonò più potente degli altri e Sam si decise a tornare in sella e dirigersi verso casa.
Quando svoltò nel vialetto di casa, lo vide quasi subito, nonostante fosse illuminato appena dalla luce giallognola del lampione poco più avanti.
Dylan se ne stava poggiato contro la sua auto, a braccia conserte e piedi incrociati, in attesa.
Sam si impose di rimanere calma, mentre accostava e scendeva dalla moto, si sfilava il casco e percorreva la manciata di passi che la separavano dalla porta di casa.
Lo superò, senza degnarlo di uno sguardo e infilò le chiavi nella toppa.
Non aveva ancora fatto il primo giro, che lui le fu addosso, le sue braccia le si strinsero attorno alla vita e Dylan immerse il viso tra i suoi capelli, stringendola.
Sam deglutì, trattenendo negli occhi piccole lacrime e, con una scrollata brusca, se lo tolse di dosso, voltandosi a fronteggiarlo con lo sguardo fiammeggiante.
- Non toccarmi.- disse, lapidaria, avanzando di mezzo passo con fare minaccioso.
Dylan, in penombra, rimase al suo posto, per nulla intimorito.
- Vattene al diavolo.- sibilò la ragazza, dandogli le spalle per entrare in casa.
Quando Sam spinse la porta con una manata, per richiuderla, Dylan la bloccò, seguendola dentro.
- Dovresti almeno concedermi il beneficio del dubbio, no?- fece, sarcastico.
Sam gettò il giubbotto sul divano e raggiunse il frigo, afferrò una lattina di frizzi cola e prese un gran sorso, tenendo gli occhi fissi sul ragazzo, rimasto in piedi nel salotto.
Posata la lattina sul bancone, si diresse all’interruttore e accese la luce, con un sorriso amareggiato a disegnarle le labbra carnose.
- Beneficio del dubbio, eh?- disse, ironica, raggiungendolo e afferrandogli la mascella livida con una mano.
Dylan sussultò per il dolore, tirandosi indietro.
- Mi credi stupida, Bennett? – esclamò la ragazza. – Sei coperto di tagli, hai il labbro spaccato, un occhio nero e credi che non mi sia accorta che zoppichi?!- gridò.
Lui incassò quelle accuse in silenzio, poiché era colpevole e niente di ciò che avrebbe potuto dire l’avrebbe assolto.
Sam, intanto, era un fiume in piena, un fiume di rabbia e dispiacere, frustrazione e ansia.
- Sei un vero idiota, un imbecille, un demente! Sei sparito per quasi due giorni, non sapevo dove fossi, se ti fosse capitato qualcosa e non avevo modo di rintracciarti!- la sua voce era intrisa d’ira.
- Sam… -
- No, Dylan, no, niente “Sam”! E se avessi avuto bisogno di te? Eh? Se avessi avuto un problema, un’emergenza, se fossi stata male, se avessi avuto un incidente?- chiese, fermandosi di fronte a lui con le braccia allargate in modo interrogativo.
Lui sospirò, gettando il capo indietro. – L’avrei saputo.- disse.
- E come?!-
- Avrei trovato il modo di saperlo.- decretò, sicuro, il ragazzo.
Sam assottigliò lo sguardo pericolosamente. – Tu non capisci, sei un idiota. Non capisci che ero preoccupata, che quando ho parlato con Michael e mi sono resa conto di dove fossi, ho solo aspettato di ricevere una telefonata dall’ospedale?!- gli chiese, avanzando verso di lui.
- Non è successo.-
Sam, furiosa, sollevò i pugni e prese a colpirlo. – Stavolta! Stavolta non è successo! Non puoi più lottare, Dylan, devi rassegnarti, devi accettarlo, metterti l’anima in pace! – gridò.
Dylan le afferrò i polsi, bloccandola. – Sam, stammi a sentire.- le ordinò, chinandosi per guardarla negli occhi. – Io ti amo, - Sam sussultò, mentre lui continuava, deciso. - ma questa è la mia vita. Non puoi dirmi cosa fare, non puoi decidere per me, non puoi obbligarmi a fare quello che pensi sia giusto. Nessuno ha mai deciso per me. Decido io, io e nessun altro.-
La lasciò e la ragazza chinò un istante lo sguardo, chiudendo gli occhi, per poi sollevare gli occhi lucidi nei suoi.
Quando parlò la sua voce era amara e delusa.
- Non hai capito che, adesso, non sei più solo tu. Adesso ci sono anche io e non puoi comportarti come… Io non sono quel tipo di persona che resta a casa ad aspettare, senza protestare mai, che accetta tutto quello che il suo ragazzo fa o dice. Non puoi pretenderlo.
Sei un ipocrita, perché mi hai obbligata a studiare e passare quel maledetto esame, nonostante a me non importasse nulla di riuscirvi. E adesso parli come se io non avessi il diritto di fare lo stesso.- mormorò, tirandosi indietro.
- Non starò qui ad aspettare che tu ti rompa una gamba o ti lesioni la spina dorsale, Bennett. Se non sei abbastanza maturo da capire che ti stai comportando da bambino ottuso, evidentemente mi sbagliavo sul tuo conto.- aggiunse.
- Sam. -
Dylan fece un passo avanti, allungando una mano per cercare di afferrarla e lei si ritrasse, rapida.
- Sam, andiamo. Stai esagerando.- fece, mentre la voce perdeva di sicurezza, incrinandosi.
- Tu credi?- sorrise, amaramente, la bionda. – Mi hai detto “ti amo” solo per spiegarmi che non è sufficiente a impedirti di continuare a lottare! Sei tu quello che ha esagerato, Bennett e, adesso, vattene al diavolo.- esclamò, spingendolo malamente verso la porta.
- Sam!-
La protesta di Dylan fu resa ovattata dalla porta di legno pesante che si richiuse sulla sua faccia.
- Sam!-
I pugni batterono sull’uscio, pesanti e martellanti, ma rimasero ignorati.
Quando Cat tornò a casa, quella sera, trovò il ragazzo seduto in macchina, col capo chino sul volante.
 
 
- Di’ la verità: ti ho sorpresa.-
Freddie sorrise, insolente, arcuando le sopracciglia in un’espressione divertita di fronte all’evidente sgomento di Louisa.
Aveva parcheggiato l’auto fuori dal grattacielo in cui viveva e aveva aspettato quasi due ore che lei scendesse.
Trovarla non era stato facile, anzi: aveva dovuto restringere la zona tramite il localizzatore del cellulare, che postava stati riguardo dove si trovasse, per poi applicare un calcolo riguardante il tempo che Louisa impiegava dall’università fino a casa, dato che si muoveva a piedi.
Ne aveva dedotto che dovesse abitare in pieno centro, a qualche minuto da scuola e alla fine, sebbene non l’avrebbe mai ammesso, era entrato in ogni grattacielo della piazza, informandosi presso il portiere se vi risiedessero i Beillard.
La ragazza scese gli ultimi scalini di marmo, con un cenno rapido al portiere che le aveva tenuto aperto il portone di vetro e sorrise.
- Non posso negarlo.- disse, fermandosi di fronte a lui.
Freddie si concesse di ammirarne la bellezza e la classe: indossava un abito aderente, scuro, dal taglio semplice e sul quale aveva abbinato un tranch polvere, che portava aperto.
I capelli erano legati in uno chignon ordinato e le palpebre sfumate di azzurro.
- Vai da qualche parte?- le domandò.
Lei annuì. – Vado a pranzo con un’amica, una ex compagna di liceo e poi ho il corso di equitazione. Vuoi venire?- gli domandò.
Freddie, impacciato, prese qualche istante per riflettere: non si erano mai visti, da soli, non avevano mai cenato insieme e nemmeno erano semplicemente andati al cinema.
Un primo “appuntamento” con una ex compagna di scuola non sarebbe stato troppo impegnativo, personale?
La mano di Louisa, dalle unghie perfettamente curate, sfiorò il suo braccio.
- Allora?- domandò, sottovoce, sinuosa.
Il ragazzo sorrise. – D’accordo, sali.- rispose, indicando l’auto parcheggiata dietro di loro.
La bionda assunse un’espressione titubante. – Ehm, puoi lasciarla qui. Il mio autista è proprio lì.- gli indicò un uomo alto e robusto che la aspettava poco distante dal marciapiede.
- Oh, d’accordo, ma devo parcheggiare… - fece Freddie, colto alla sprovvista.
- Non preoccuparti.- lo rassicurò. – Francis? – chiamò, poi, con un gesto della mano, il portiere.
- Sì, signorina?- arrivò subito l’uomo.
- Ti spiace accertarti che l’auto del mio amico venga parcheggiata?-
- Nessun problema, signorina. Dia pure a me le chiavi, signore.- rispose il portiere, rivolgendosi poi a Freddie.
I due ragazzi si allontanarono, raggiungendo l’auto scura e lunga di Luisa e l’autista precedette Freddie, aprendo loro la portiera.
 
Pranzarono in un ristorantino elegante ma semplice e Freddie trascorse un’abbondante mezz’ora ad ascoltare aneddoti riguardo Louisa, narrati da Danielle, l’amica del liceo, che si scoprì essere, precisamente, la compagna di stanza della bionda durante il collegio in Francia.
Da ciò che Freddie ebbe modo di comprendere, ne evinse che Louisa era di famiglia benestante, decisamente benestante: suo padre era un Diplomatico francese e sua madre una professoressa universitaria.
Aveva una sorella maggiore, Joanna, laureatasi da poco e impegnata in svariati stage in giro per il mondo.
L’altra metà del pranzo Freddie lo trascorse a rispondere alle domande, maliziose e divertite, di Danielle, riguardo la sua “relazione” con Louisa.
Quando, poco dopo le tre, si salutarono, Joanna, baciando sulla guancia Louisa, le sussurrò:
- E’ proprio carino.-
Salirono in auto e, diretti verso il Country Club, parlarono a lungo e Louisa gli raccontò di essere cresciuta tra Parigi, San Francisco, Londra e Seattle, a causa del lavoro dei genitori e di essere molto legata a sua sorella, poiché, spesso, si erano ritrovate da sole, accudite dallo stuolo di tate e governanti.
Louisa era raffinata, elegante, matura, posata e decisamente affascinante.
Aveva interessi diversi, suonava il pianoforte, andava a cavallo e parlava tre lingue.
Al momento, abitava con sua madre a Seattle, ma quella non era una situazione definitiva, dato che, a quanto pareva, ogni anno cambiavano residenza.
Freddie era ammaliato da lei, sebbene, fin dal principio, avesse notato il suo atteggiamento involontariamente snob e il modo che aveva di giudicare le persone, squadrarle, valutarle al primo sguardo.
Louisa era una grande ascoltatrice, gli fece molte domande, s’informò riguardo il suo lavoro e i suoi piani per il futuro e si dimostrò una pianificatrice nata.
Non gli fece mai domande riguardo Carly o il web-show ma quando, per caso, il bruno la nominò, per un istante potè vedere il suo viso assumere un’espressione sarcastica.
Restò con lei per tutto il pomeriggio, disdisse l’appuntamento con Gibby che avrebbe dovuto accompagnare a comprare un nuovo cellulare e rimase ad ammirarla mentre cavalcava, sicura e affascinante, stretta in un paio di pantaloni a vita alta e un casco scuro.
Una frase in particolare gli rimase impressa, quando le domandò quali fossero i suoi sogni per il futuro lei, guardandolo seria e decisa, rispose: “Io non ho sogni, Freddie, ma obbiettivi”.
Quando la “riaccompagnò” a casa, lasciandola proprio fuori al portone, mentre il portiere si prodigava a spalancare le porte, Louisa gli porse un bigliettino, sporgendosi a baciargli una guancia.
- Direi che te lo sei guadagnato.- mormorò, facendo qualche passo di spalle e sparendo oltre le vetrate.
Il portiere gli allungò le chiavi della macchina. – La sua auto è proprio lì di fronte, signore.- gli disse, gentile.
Freddie ringraziò distrattamente e scese le scale, salì a bordo e, accesa la luce nell’abitacolo, si affrettò a leggere il bigliettino.
Scritto in un corsivo armonioso, fatto di ghirigori e leggermente inclinato a destra, lesse il nome di Louisa, il suo secondo nome, Adriane e il cognome, Beillard, seguito dal numero di cellulare.
Freddie sorrise e, riposto in tasca il biglietto, mise in moto.
 
 
 
- Carlotta, puoi fermarti un momento, per favore?-
Il professor Trust pose quella domanda in maniera distratta, mentre allineava i bordi dei temi consegnati facendo sbattere il plico sulla scrivania ripetutamente.
Carly ebbe un sussulto e avvampò, sperò che nessuno lo avesse notato e nascose il viso nei capelli, annuendo. – Certo.- mormorò.
Jennifer White, ferma accanto a Trust, la guardava impassibile, eppure i suoi occhi verdi erano profondi e inquieti, come se celassero un segreto inconfessabile.
La classe lentamente si svuotò e Carly, afferrata la borsa e gettatala su una spalla, si avvicinò alla cattedra, schiarendosi la voce.
L’uomo parve rammentarsi solo a quel punto della presenza della signorina White e, togliendosi gli occhiali, le sorrise distratto.
- Jennifer, va’ pure, riporto io il proiettore.- la congedò.
Senza dir nulla la giovane afferrò la valigetta e si allontanò, uscendo dall’aula e chiudendo la porta.
Trust sollevò gli occhi chiari e incrociare quelli della ragazza e Carly sentì il cuore accelerare rapidamente.
- Vuole parlarmi, Professore?- chiese, timidamente.
L’uomo annuì, poggiandosi contro la scrivania e sorrise, mentre si voltava a prendere delicatamente un plico di fogli dalla cattedra.
- Volevo parlare con te di questo.- disse, inforcando di nuovo gli occhiali e sfogliandolo.
- Sono molto colpito, Carlotta… -
- Carly.- lo interruppe la ragazza, sorridendo a sua volta.
Trust le lanciò un’occhiata e poi riprese. – Dicevo, sono molto colpito. Devi averci lavorato moltissimo e i risultati sono stati eccellenti.- continuò, togliendo di nuovo gli occhiali e abbassando il foglio.
- Grazie.-
Il Professore sospirò, sfiorandosi il mento con una mano. – Non voglio girarci intorno, Carly: sei una delle studentesse più valide del mio corso, la migliore probabilmente.- le disse.
- L’Università mi ha stanziato dei fondi per un progetto sperimentale: composizione poetica mista. Si tratta di un lavoro ambizioso, vale a dire raccogliere testi poetici di autori diversi, di nazionalità e lingue diverse e trovarne similarità e messaggi nascosti. – le spiegò.
Gli occhi di Carly s’illuminarono. – Sembra magnifico.- mormorò, conquistata.
- Lo è.- annuì Trust. – E voglio sapere se ti interesserebbe aiutarmi, collaborare con me. Certo, sarà un lavoro impegnativo, che richiederà tempo e fatica. Se non te la senti o credi che sia troppo, per te… -
- Certo!- saltò su la ragazza. – Certo che voglio, sì, insomma, certo che mi farebbe piacere aiutarla!- esclamò.
Il Professore la guardò, attento e i suoi occhi chiari l’accarezzarono, facendo fremere ogni cellula della sua pelle.
- Ne sei certa? Hai compreso la mole di tempo e lavoro che occorrerà? Non so come sei solita passare il tempo libero, ma non vorrei che ti tirassi indietro a causa di fidanzati gelosi o amiche asfissianti.- le spiegò, passando una mano tra i capelli cenere.
Carly arrossì, liquidando le parole con un gesto. – Nessun fidanzato e nessuna amica asfissiante. Sono sicura.- rispose, trovando il coraggio e la determinazione necessarie a sostenere quegli occhi.
A quel punto Trust sorrise, un sorriso radioso, giovanile, insolente e tenero e le afferrò una mano, d’impeto. – Sapevo che non mi avresti deluso. Sei così talentuosa, Carlotta.- mormorò, respirando a fondo.
Il cuore di Carly galoppava furioso nel petto, le gote erano in fiamme e sentiva la testa leggera.
Trust sollevò le loro mani e baciò la sua, sul dorso, per poi lasciarla andare a malincuore.
- Va’, adesso, ti ho già trattenuta abbastanza.- le disse. – Buona serata.- aggiunse, con un cenno del capo.
Incerta sulle sue stesse gambe, Carly guadagnò l’uscita mormorando un impacciato: “Anche a lei”.
 
 
 
 
- Spencer!- la risata di Alison si perse in un frusciare di lenzuola e coperte.
L’artista rimase a osservarla con gli occhi luminosi, innamorati e non resistette all’impulso di stringersela al petto nudo.
Lei si lasciò andare contro di lui, i capelli neri in disordine che profumavano di viole e gli occhi chiusi; rilassata, ecco come si sentiva.
Felice.
Avevano passato l’intera serata assieme, Alison aveva cucinato, lo aveva invitato a restare nel suo appartamento per la notte e Spencer, dopo aver telefonato a Carly ed essere stato rassicurato, aveva accettato.
Non si poteva dire che avessero obbiettivamente parlato, poiché buona parte del tempo era stata spesa in baci, carezze e impeti di passione, eppure entrambi si sentivano più vicini all’altro, come se qualche ora avesse concesso loro di conoscersi più a fondo.
Avevano mangiato con gusto e bevuto qualche bicchiere di vino, avevano fatto l’amore una volta, si erano assopiti e, qualche ora dopo, avevano ricominciato.
In quel momento erano stesi l’uno accanto all’altra, nudi e accaldati, avviluppati in un abbraccio profumato di amore e tenerezza, ipnotizzati dalla pace che le ultime ore della notte portava con sé.
- Potremmo farlo davvero, sai?- esordì la voce dolce di Alison, sognante e provocatoria.
Spencer alzò un sopracciglio, chinando il viso per osservarla. – Di che parli? – chiese.
- Del week-end al lago.- rispose la ragazza, posandogli una mano sul petto e sollevandosi leggermente.
Spencer assunse un’espressione curiosa. – Parli sul serio?- volle sapere.
Alison annuì, regalandogli un sorriso radioso e pieno di promesse.
Ne avevano parlato per gioco, durante la cena, certi entrambi che nessuno dei due avrebbe avuto il coraggio di allontanarsi da casa e dalle rispettive vite anche solo per lo spazio di qualche giorno.
Eppure, adesso, eccoli, con quell’idea allettante a vorticare nelle menti e il desiderio di fare qualcosa per la loro relazione, per loro stessi, una volta tanto.
Alison gli aveva raccontato che suo padre possedeva una casa sul lago, proprio fuori città, a meno di tre ore di macchina e aveva commentato che sarebbe stato un sogno trascorrervi un week-end da soli.
Spencer aveva concordato e, poi, ovviamente, entrambi si erano resi conto di quanto una tale impresa sarebbe stata difficile: famiglia, lavoro, amici, impegni e appuntamenti vari, tutto da rimandare.
In quel momento, però, la casa al lago sembrava più vicina che mai.
- Non avrai problemi con Elizabeth?- le domandò Spencer.
Alison si lasciò cadere sul cuscino, di lato, guardandolo con i grandi occhi scuri e vispi.
- Non mi importa. Ho diritto a due giorni di vacanza. Se tu ci stai, ci sto anche io.- promise, sollevandogli il mignolo minuscolo di fronte al viso.
Spencer prese un grande respiro, cercando di trattenere il desiderio di afferrarla e stringerla fino a farle male e sorrise anche lui, incrociando il mignolo col suo.
- Ci sto.-
 
 
 
- Vuoi un passaggio?-
Scott se ne stava in piedi, un giubbotto marrone gettato malamente addosso, accanto alla sua auto e con le chiavi che penzolavano da un dito.
Gibby, con una scrollata di spalle, annuì, attraversando il parcheggio semi deserto e illuminato malamente dalla luce dei pochi lampioni funzionanti.
- Grazie.- disse, salendo dal lato passeggero.
- Figurati.- fece Scott, sistemando lo specchietto retrovisore e mettendo in moto.
Guidava con disinvoltura, tenendo una mano sulla parte alta del volante e l’altra abbandonata mollemente sul cambio; un paio di volte, a causa dei dossi, le sue dita sfiorarono il ginocchio di Gibby che s’impose di guardare fuori dal finestrino, fingendo una tranquillità che non gli apparteneva.
Si sentiva frustrato e anche un po’ arrabbiato con se stesso, non riusciva a capire se quella tensione che avvertiva nell’aria, ogni qual volta lui e Scott si ritrovavano da soli, vicini, fosse reale o solo frutto dell’immaginazione.
E, del resto, perché stare solo con Scott avrebbe dovuto metterlo in agitazione?
Insomma, lui era… sì, beh, era… etero, no? Gli erano sempre piaciute le ragazze, rifletté.
Rimuginò su quel concetto a lungo, quasi per l’intera durate del tragitto, ripercorrendo gli ultimi anni alla ricerca di un indizio, qualcosa che potesse confermare che tutti quei problemi che si stava creando fossero solo nella sua testa.
Non vi riuscì.
Per quanto si sforzasse di concentrarsi sulle relazioni che aveva avuto e rammentasse svariati episodi nei quali era rimasto colpito da bellezze femminili, in quel momento, nessuna sembrava possedere la bellezza insolente e luminosa di Scott.
Si concesse di lanciargli uno sguardo e ne studiò il profilo, rilassato, gli occhi chiari persi in chissà quale pensiero, le mani forti dalle dita tamburellanti sul volante.
- Ehi, mi hai sentito?- gli domandò questi, d’improvviso, voltandosi nella sua direzione.
Gibby si ritrovò catturato dallo sguardo ipnotico di Scott, che lo fissava, curioso.
- Come?-
Il biondo sollevò appena una mano a indicargli qualcosa, fuori dal parabrezza.
- E’ qui che abiti, no? Ho sbagliato palazzo?- chiese, aggrottando le sopracciglia.
Solo allora Gibby si rese conto che erano arrivati e che Scott aveva anche accostato, per permettergli di scendere.
Erano in penombra, appena fuori dal raggio di luce di un lampione giallastro e l’aria fredda della sera si andava condensando, minacciando di appannare i vetri dell’auto.
- Beh, grazie.- mormorò, impacciato, Gibby, posando la mano sulla maniglia per far leva e uscire.
Scott annuì appena, distratto e, un istante prima che l’altro potesse chiudere lo sportello, lo chiamò.
Gibby si sporse all’interno, chinandosi e Scott fece lo stesso, afferrandogli il bavero del cappotto e posando delicatamente le labbra sulle sue.
Fu un contatto lieve, che ebbe, tuttavia, la capacità di far salire la temperatura di entrambi che, storditi come se una scossa elettrica li avesse presi in pieno, sussultarono.
Scott si ritrasse e fissò Gibby in silenzio, per un lungo istante, prima di lasciare la presa sul suo giubbotto.
- E’ stato un piacere.- mormorò, chiudendo lui stesso lo sportello e accendendo il motore.
 
 
 
 
 
Quella sera Cat aveva preparato la cena o almeno ci aveva provato, anche se il forno a microonde sembrava non voler collaborare.
Forse Sam non l’aveva presa in giro quando le aveva detto di non inserirci contenitori di plastica, rifletté, osservando la poltiglia verdognola che una volta era la sua ciotola.
Si era rassegnata a preparare dei tramezzini, stando bene attenta a non tagliare a triangoli quelli per Sam e, dopo averli sistemati assieme a un succo su di un vassoio, li aveva portati in camera loro, lasciando tutto sul comodino dell’amica.
Sam era immersa sotto le coperte e, dal grugnito che era stata la risposta alla timida domanda di Cat “Sam, ti senti bene?”, la rossa aveva capito che era meglio lasciarla in pace.
Era tornata in cucina e aveva ficcato gli altri due tramezzini in una busta di carta, aggiungendo una lattina di frizzi cola e un termos di caffè bollente ed era uscita, aveva camminato qualche metro e aveva bussato sul finestrino dell’auto di Dylan.
Il ragazzo era rimasto lì, semplicemente, per tutta la sera, perfino quando Dice, preoccupato, gli aveva detto di tornare a casa e che qualunque fosse il problema con Sam, avrebbe potuto risolverlo l’indomani, invece di restare a gelare in macchina.
Dylan era rimasto, con lo sguardo vuoto, tormentato, spento, le mani dalle nocche bianche a furia di stringere il volante e la mascella tesa.
Era sussultato, quando aveva avvertito la presenza di Cat di fuori e aveva aperto lo sportello, guardandola senza cenno di colore in volto.
- Che ci fai qui fuori, Cat? – le domandò.
La rossa gli porse la busta e il termos di caffè e lui le lanciò un’occhiata colma di tenerezza, anche se ignorò la cena improvvisata e accettò soltanto la bevanda calda.
Il suo sguardo volò nuovamente alla finestra della camera da letto, dove Sam era rimasta, senza dar alcun segno di vita.
- Dylan, cos’è successo?- gli domandò Cat, aggrottando le sopracciglia scure in un’espressione preoccupata.
Lui sospirò, scuotendo la testa come se si rifiutasse di pensarci. – E’ complicato.- disse.
La ragazza chinò un attimo il capo, per poi tornare a fissare i grandi occhi castani nei suoi.
- Stare qui fuori non ti aiuterà a farti perdonare, sai?- decretò.
Dylan sbatté le palpebre, perplesso di fronte all’acutezza mentale che, di tanto in tanto, Cat esplicava, lasciando tutti di sasso.
- Vedo Sam furiosa ogni giorno, la conosco meglio delle mie tasche e posso assicurarti che non l’ho mai vista così.- aggiunse, gesticolando.
Dylan si passò una mano in viso. – E’ davvero arrabbiata, vero?- chiese.
Cat sorrise, dolce e rassegnata. – No, Dylan, non è arrabbiata; è ferita, il che è molto peggio.-
Il ragazzo accusò quel colpo, chinando il viso sul volante e battendovi un piccolo un pugno.
Poi, d’improvviso, si tirò su e lanciò a Cat un’occhiata piena di supplica.
- Pensi che mi lasceresti… -
- Avanti, muoviti, sto gelando!- rispose lei, senza dargli il tempo di terminare la sua richiesta.
Dylan balzò fuori dall’auto e chiuse lo sportello con una spinta, prima di precedere Cat in casa.
La rossa si sistemò sul divano, accese il televisore e alzò il volume, ridacchiando: era sicura che le urla non si sarebbero placate presto e non voleva certo essere invadente!
 
 
 
Probabilmente quella era solo una tregua, nata dal bisogno fisico e mentale di entrambi.
Del resto, dopo aver passato le ultime due ore ad urlarsi contro ogni epiteto conosciuto e cercare di trattenersi dal lanciarsi qualsiasi oggetto a disposizione, un po’ di riposo lo meritavano.
Sam era stesa sul suo letto a pancia all’aria, le braccia aperte e il fiatone e Dylan, seduto in terra a gambe incrociate, si lasciò scivolare contro il legno della cassettiera, poggiando la schiena.
Restarono in silenzio per un pezzo, fino a quando Sam non si voltò su un fianco e Dylan sollevò lo sguardo a incontrare il suo.
Fu sufficiente quell’istante, il tempo di un battito di ciglia, una ciocca bionda scivolata sul viso, un ricordo, una stilettata al petto e il calore familiare tornato a riscaldare entrambi.
Dylan si alzò e raggiunse il letto, vi si sedette e attese che gli desse il permesso di stendersi accanto a lei, la tacita domanda nello sguardo bruciante di dispiacere e desiderio.
Sam non parlò, semplicemente si scostò quel tanto che occorreva affinché anche lui potesse sdraiarsi e Dylan scivolò accanto a lei, afferrandole una mano per tirarla a sé.
Sam gli posò la fronte contro la mascella e le sue ciglia gli solleticarono il mento, il respiro di Dylan a soffiarle tra i capelli, le sue braccia a cingerla con forza.
Illuminati dalla fioca luce del lumetto da notte di Cat, restarono ad ascoltare il rumore delle poche auto che passavano sul vialone principale, l’abbaiare di un cane randagio e il battito dei loro cuori, feriti ma vicini, tornati a battere a un ritmo regolare.
Fu Dylan a spezzare quel silenzio quando, con voce tanto bassa da parere un sibilo di vento, le mormorò sul capo. – Accetterò la proposta di Carl.-
Sam s’irrigidì per un istante, gli occhi azzurri sgranati nel buio, la mano, che giocherellava con la catenina che Dylan portava al collo, d’improvviso paralizzata.
- Lo giuro, Sam.-
La ragazza si puntellò su un gomito, per guardarlo in faccia. – Non voglio che tu lo faccia per me.- decretò, decisa. – Non avrebbe senso e mi farebbe arrabbiare di più. Mi interessa che tu capisca, Dylan, che ti renda conto, non che mi accontenti, non sono fatta così.- disse.
Lui si sporse a baciarla, afferrandole il viso tra le mani, succhiando le sue labbra come se ne andasse della sua vita.
Quel bacio li lasciò entrambi a corto di ossigeno e Dylan posò la fronte contro quella di lei.
- Lo faccio per te, ma perché ho capito. –
Sam alzò un sopracciglio in un’espressione poco convinta e lui si lasciò cadere sui guanciali.
- Puckett, mettiamola così: ti voglio nella mia vita e per averti nella mia vita, devo avercela una vita. – fece, carezzandole le braccia.
A Sam quella risoluzione parve già più sensata e coerente per uno come lui.
- Devi farlo per te. – non si arrese, nonostante tornò ad abbracciarlo, incastrando le gambe con le sue.
- E’ la stessa cosa.-
- Mi hai detto ti amo.-
- Lo so.-
Silenzio, ancora, un silenzio pesante e opprimente, fatto di paure e promesse e porte lasciate socchiuse.
Una flebile luce, poco più avanti, una carezza, un profumo, una voce sussurrante.
Sam chiuse gli occhi.
- Nemmeno tu mi dispiaci, Bennett.-
 
 
 
Essendo loro Dylan e Sam, meno di un’ora dopo si ritrovarono affamati e bisognosi di cibo, grasso e poco sano, per la precisione.
Uscirono in salotto, dove trovarono Cat addormentata sul divano e rimasero a osservarla qualche istante.
Dylan le era grato, per la capacità che aveva di star accanto senza essere prepotente o invadente e per il gran cuore che dimostrava, ogni giorno, da quando l’aveva conosciuta.
Sam le era grata, perché, anche se poteva sembrare solo il contrario, Cat si prendeva cura di lei in mille modi, comprendendola e aiutandola a non chiudersi in se stessa.
Il ragazzo la sollevò in braccio e, seguito da Sam, la depositò nel suo letto, mentre la bionda le posava accanto il suo peluche preferito e le rimboccava le coperte.
La lasciarono così, illuminata dalla luce rosa del lumetto, un sorriso beato a disegnarle le labbra.
 

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Capitolo 12
*** March ***


Mi scuso per il ritardo, stavolta ho davvero esagerato!
Ringrazio di cuore la mia beta, Aduial, che ha praticamente battuto ogni record, revisionando il capitolo velocissima!
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le preferite, le ricordate o le seguite e chiunque abbia lasciato una recensione al precedente capitolo (risponderò in privato).

Buona Lettura.
 
 
Marzo.
 
 
- Sam.-
Silenzio, nessun movimento, niente reazioni.
- Sam.-
L’ammasso di coperte rimase immobile, floscio e inanimato.
- Sam!-
Il grugnito ovattato e roco, seguito da una serie infinta di imprecazioni irripetibili, fu il segnale che Sam Puckett era uscita dallo stato comatoso che aveva l’ardire di definire “sonno profondo”.
Cat, seduta ai piedi del letto della bionda con una spazzola tra le mani, scosse la testa, sospirando rassegnata: per quanto avesse fiducia nell’amica, difatti, aveva seri dubbi sul fatto che sarebbe riuscita a svegliarsi a quell’ora ogni mattina, da lì al resto della vita.
I movimenti lenti e le smorfie di disperazione con le quali Sam si tirò fuori dal groviglio di lenzuola e coperte e si mise seduta contro la testiera del letto, furono la conferma alle riflessioni di Cat.
- Buongiorno!- trillò, vivace, questa, intenta a spazzolare i lunghi capelli.
Sam tacque, limitandosi a gettare il capo indietro, contro la parete ed emettere un lamento degno di un cucciolo ferito.
- E’ l’alba. Chi diavolo si sveglia a quest’ora, eh? – domandò, gettando un’occhiataccia alla sveglia, colpevole di segnare le sette e mezza passate.
- Le persone normali che hanno un lavoro o la scuola.- rispose, allegra come sempre, la rossa.
Sam la guardò con un sopracciglio alzato e, subito dopo, scosse la testa disgustata alla vista dell’abbigliamento dell’amica.
- Sembra che un unicorno ti abbia vomitato addosso.- commentò, stiracchiandosi. – Se ti guardo ancora mi brucio le cornee.- aggiunse, lasciandosi cadere nuovamente sui guanciali.
Cat, turbata e con la fronte aggrottata, lisciò le pieghe della gonna bianca e il colletto della camicia gialla, domandandosi se, per caso, avesse sbagliato ad abbinarvi il golfino rosa polvere con le fragole.
- Sam, non riaddormentarti; devi essere a lavoro tra mezz’ora!- esclamò, poi, accorgendosi che l’altra aveva assunto la tipica posizione da “sto per addormentarmi”: pancia in giù, una gamba piegata, braccia sotto il cuscino.
- Hmm. Lasciami in pace, mi licenzio.- protestò la bionda, scrollando le spalle in un gesto indifferente.
- Sam! Alzati immediatamente!- sbottò Cat, scuotendola animatamente. – Hai promesso a Dylan che ci saresti andata!- le rammentò.
Inferocita e sbuffando come un toro imbufalito, Sam si decise ad alzarsi e, spinta bruscamente Cat di lato, si appropriò del bagno, imprecando coloritamente contro Dylan Bennett e i suoi “contatti”.
Da quando aveva accettato di prendere il posto di Carl alla direzione della palestra, circa un mese prima, Dylan si era dedicato anima e corpo all’impresa e, trascorse le prime due settimane di assestamento, le cose avevano ingranato e il ragazzo era parso sinceramente soddisfatto.
Lavorava tutti i giorni, eccezione fatta per la domenica e, fino alla settimana prima, le cose erano andate benissimo anche a Sam che, infatti, coglieva ogni momento libero per recarvisi in cerca di divertimento e un bell’incontro che la tenesse in allenamento.
Poi, Bennett se n’era uscito con la storia che un amico di un amico – Sam avrebbe tanto desiderato che fosse un eremita, invece che un imbecille socievole – lavorava in un’agenzia di manager sportivi e che, dato l’ottimo punteggio che Sam aveva ottenuto all’esame, avrebbe potuto inserirla come stagista retribuita.
La proposta aveva creato, inizialmente, attrito tra i due fidanzati, poiché, sebbene la paga fosse discreta, Sam davvero non era la persona giusta per essere al servizio di qualcun altro.
Poi, dopo che Dylan aveva insistito affinché lei incontrasse questo famigerato “amico” e aveva scoperto che si trattava di un cinquantenne amico di famiglia, la bionda era stata costretta ad ammettere che l’occasione era davvero allettante.
L’uomo le aveva spiegato che nel mondo manageriale non si badava alla “forma” ma al “contenuto” e che l’importante erano i risultati, non il modo in cui questi si ottenevano.
Le disse anche che, se si fosse dimostrata un tipo sveglio, acuto, in grado di fare affari e contrattare, nel giro di sei mesi avrebbe potuto iscriversi al concorso che dava accesso alla carriera manageriale vera e propria e essere assunta dall’azienda a tutti gli effetti.
I sei mesi di stage erano, tuttavia, obbligatori in quanto tirocinio formativo.
Alla fine, Sam era stata costretta ad ammettere che, dopo aver sgobbato mesi interi per passare quel dannato esame, valeva la pena di sacrificarsi altri sei mesi per ottenere un lavoro che le avrebbe aperto la strada a un futuro roseo e pieno di grana.
Così, eccola lì, alle otto meno qualche minuto di un Venerdì mattina, vestita delle prime cose che aveva afferrato dalla sedia su cui vi era una montagna di panni sgualciti, i capelli arruffati e gli occhi gonfi di sonno, pronta a mettersi in sella alla sua adorata moto.
Era il suo quinto giorno e non ne poteva già più, eppure doveva farlo, voleva farlo.
L’indipendenza era tutto ciò a cui aspirava nella vita, la libertà ciò di cui aveva bisogno per sopravvivere.
E, poi, dopo aver insistito tanto con Dylan per convincerlo che fosse giunto il momento di mettere la testa a posto e cominciare a costruirsi una vita, un futuro, non poteva di certo tirarsi indietro: lui non le avrebbe dato pace.
- Cat, smetti di dondolare e non tirarmi la giacca!- sbottò la bionda all’indirizzo dell’amica che, seduta dietro di lei, l’aveva cinta con tanta forza da farle tornare su il pollo fritto della sera prima.
- Scusa, è che tu vai così velooooooooooooceeeee… - la frase si tramutò in grido quando Sam diede gas, sfrecciando lungo il ponte, diretta a scuola di Cat.
Quella era un’altra abitudine venutasi a creare da quando Sam aveva iniziato a lavorare: accompagnare Cat a scuola in moto.
La sua bici rosa, infatti, era un po’ malandata e consunta per poter sopravvivere ancora a lungo e Cat aveva scelto di usarla solo per diletto, così, da quel momento in poi, era Sam a portarla fino all’ingresso della Hollywood Arts, per scaricarla in fretta e furia, evitando i suoi saluti eccessivamente affettuosi.  
E, anche quel giorno, le cose seguirono uno schema fisso: Cat scese dalla moto di Sam stordita e con i capelli pieni di foglie, ciondolò qualche istante sul marciapiede, si guardò intorno in cerca di Jade o Tori e, avvistata la prima, si rivolse alla bionda.
- Sam, grazie per il passaggio, mi raccomando vai piano e… -
Le raccomandazioni furono ignorate, come al solito, e Cat fu completamente dimenticata quando Jade le raggiunse.
- Ehi.- disse questa alla bionda.
- Ehi, Jade.-
Come ogni volta che quelle due si trovavano insieme, Cat incrociò le braccia e prese a fissarle con aria imbronciata, offesa e dispiaciuta dell’essere esclusa: Sam e Jade avevano caratteri simili, sebbene con differenze notevoli e andavano molto d’accordo, soprattutto se si trattava di prendere in giro Cat e la sua mega cotta per Robbie Shapiro.
Lo stesso Robbie che, come ogni mattina, se ne stava imbambolato nel cortile con quel suo fantoccio tra le braccia, l’aria pallida e impacciata, apparentemente ignaro dei sospiri innamorati di Cat.
- Ci sono più probabilità che io stoni, piuttosto che quello si dia una svegliata e, conoscendo il mio talento, la cosa è tutta un dire.- ridacchiò Jade, scostando i lunghi capelli neri meshati di blu elettrico.
Cat le rivolse uno sguardo offeso, per poi tornare ad ammirare il suo “bello”.
- Devo andare, dannazione!- sbottò Sam, infilando il casco.
- Ancora quel lavoro? Pensavo avresti lasciato.- commentò Jade, alzando il mento.
- Anch’io, ma il pollo fritto non posso sempre rubarlo, se mi beccano ancora da Chico sono in guai seri. – scrollò le spalle Sam.
- Ehi, Cat, - aggiunse, togliendo il cavalletto e immettendosi sulla strada. – Robbie è tutto solo soletto, perché non ne approfitti? – la stuzzicò, strizzandole l’occhio dalla visiera trasparente, mentre sgommava sull’asfalto, ridendo.
Cat rimase a fissare il punto in cui era sparita, ancora più offesa e con le labbra curvate a disegnare una “Oh” indignata.
Jade, annoiata, fece roteare gli occhi al cielo. – Ti muovi o no?- sbottò, avviandosi.
 
 
 
 
Freddie l’aspettò, come lei aveva chiesto, giù dalla scalinata in marmo del suo immenso e signorile palazzo.
Louisa fu discretamente in ritardo, proprio come le gran signore e, quando il portiere le aprì il portone di vetro, Freddie rimase abbagliato dalla sua classe: indossava pantaloni scuri, una blusa verde acqua, giacca scura e portava i capelli legati in una coda di cavallo che le rimbalzava attorno al capo.
Teneva al braccio una borsa di medie dimensioni, intonata agli stivaletti alti e un paio di occhiali da sole posati sulla testa.
Sorrise, scendendo gli ultimi gradini di corsa e lo raggiunse, baciandolo delicata sulle labbra.
Freddie assaporò il sapore del suo lucidalabbra, pesca e more e ne respirò il profumo, una fragranza di viole e mughetto.
- Allora, mio cavaliere, hai intenzione di dirmi dove mi porterai, oggi?- gli chiese, prendendolo a braccetto.
Freddie sorrise, scuotendo il capo con fare misterioso. – Dovrà attendere, signorina: è una sorpresa.- rispose, aprendole la portiera dell’auto che, per l’occasione, aveva portato a lavare da cima a fondo.
Louisa sembrava emozionata e curiosa, eccitata come una bambina e lo tempestò di domande lungo tutto il tragitto.
Era molto presto e il sole si era alzato solo da qualche ora in cielo, così che, quando giunsero a destinazione, lo spettacolo che si parò di fronte ai loro occhi li lasciò senza fiato: il mare, calmo e trasparente, accarezzato dai raggi cocenti che ne facevano scintillare la superfice.
Soffiava un vento leggero e la giornata era ideale per quell’uscita in barca, che Freddie stava programmando ormai da settimane.
Aveva provveduto a noleggiare una barchetta piccola ma elegante e gli era costata un occhio della testa, ma l’espressione estasiata di Louisa valse ogni soldo sudato e speso a quel modo.
- Mon dieu!- si lasciò sfuggire, facendo qualche passo verso la banchina.
Freddie, posate le chiavi dell’auto nel giubbotto di pelle, le prese una mano, portandosela alle labbra.
- Ti piacerebbe passare la mattina in barca con me?- le chiese.
Louisa si volse a guardarlo con gli occhi luminosi e, allacciate le braccia al suo collo, annuì, prima di baciarlo appassionatamente.
Ad attenderli sulla barca vi era lo skipper che avrebbe condotto l’imbarcazione, che li accolse con grande gentilezza e mostrò loro la zona sottocoperta, che consisteva in un bagno e un piccolo salotto.
Il pranzo che Freddie aveva richiesto era già stato sistemato in una borsa termica, così come il mazzo di fiori che aveva acquistato per lei e che l’uomo le posò tra le braccia quando tornarono di sopra.
- Oh, Freddie, è magnifico!- esclamò la ragazza, accomodandosi sul divanetto bianco a poppa, mentre lo skipper metteva in moto.
- Sei contenta?- le chiese Freddie, sedendosi accanto a lei e passandole un braccio intorno alle spalle.
- Certo.- annuì Louisa, infilando gli occhiali per combattere il sole che, ormai alto in cielo, batteva su di loro, scaldandoli.
Nonostante il bel tempo, comunque, fu necessario avvolgersi nelle coperte fornite dall’imbarcazione, poiché, più si allontanavano dal porto, più il vento si faceva freddo e potente.
Si fermarono e ancorarono, lo skipper si congedò, ritirandosi sottocoperta per lasciar loro un po’ di privacy e i due goderono del profumo del mare e della reciproca compagnia a lungo.
Parlarono a lungo, del lavoro di Freddie, degli studi di Louisa, di Joanna e perfino di Gibby che, da quanto raccontava il ragazzo, era parso strano, negli ultimi giorni.
Pranzarono con gusto, assaporando la frutta fresca e i tramezzini e si concessero un bicchiere di vino, rigorosamente bianco – come piaceva a Louisa.
Mentre osservavano il mare sconfinato aprirsi di fronte a loro, Freddie si fece pensoso e Louisa se ne accorse.
- A cosa pensi?- gli domandò.
Il ragazzo, preso in contropiede, si arrovellò alla ricerca di una bugia convincente e, d’impeto, scrollò le spalle.
- Stamattina ho telefonato a Carly per ricordarle che oggi saremmo andati in barca, ma era già uscita per andare all’Università.- buttò lì così.
Il timore che Louisa potesse sospettare che quella fosse una menzogna, gli impedì di cogliere il sorrisetto allusivo e l’espressione colma di biasimo che, per un momento, si disegnarono sul suo viso.
Lo sguardo di Freddie corse di nuovo al mare cristallino che, pochi istanti prima, gli aveva riportato alla mente gli occhi trasparenti di Sam, luminosi e incandescenti, eternamente baciati dal sole.
Si volse a guardare la ragazza che gli sedeva accanto, col capo chino sulla sua spalla e sospirò:
no, davvero non era il momento adatto per pensare a Sam, decise.
Non ci avrebbe pensato mai più.
 
 
 
 
Gibby si sentiva agitato: camminava nervosamente fuori dalla porta degli spogliatoi, afferrava la maniglia e, un istante prima di entrare, si tirava bruscamente indietro.
Tutto quello stress non gli faceva bene, davvero; era un tipo sensibile, lui e una tale mole di tensione aveva effetti terribili sui suoi nervi.
Era capitato già altre volte, come quando i pantaloni gli si erano calati proprio nel mezzo dello show di Jimmy Fallon e, per giorni e giorni, non aveva fatto altro che combinare disastri a causa del nervosismo derivatone.
A stressarlo, in quel momento particolare della sua vita, ci stava pensando il “caro” Scott che, di punto in bianco, come se la sera di due settimane prima, in auto, non fosse accaduto assolutamente nulla di rilevante, si comportava con una naturalezza esasperante.
Andavano a correre, pranzavano assieme, di tanto in tanto uscivano per una partita a bowling o, assieme a Freddie, andavano al cinema a vedere uno di quei film fantascientifici che li divertivano tanto, e Scott non faceva una piega; sempre sorridente, sempre allegro, quasi come se quel bacio non fosse mai esistito.
La cosa frustava Gibby enormemente e lo rendeva particolarmente rabbioso, soprattutto quando, per puro caso, qualcuno dei suoi amici toccava l’argomento “Scott”.
Non che lui avesse le idee chiare in merito all’accaduto o avesse voglia di prendere una posizione più chiara e definire “quello”, ma almeno non fingeva che le loro teste avessero colliso per puro caso e le loro labbra si fossero trovate a sfiorarsi di conseguenza!
Il miscuglio di sensazioni che, da quella sera, da quel bacio, si erano scatenate in lui, erano pari solo alla mole spropositata di domande e dubbi che gli vorticavano in testa.
Come evocato dai suoi pensieri, Scott aprì la porta degli spogliatoi proprio mentre Gibby accennava ad entrare e si ritrovarono faccia a faccia, vicini eppure divisi da un muro invisibile.
- Ehi.- salutò Scott, allegro come sempre, col sorriso luminoso a ingentilirgli i tratti marcati del volto.
- Ehi.- sbottò Gibby, superandolo senza cerimonie e con poca gentilezza.
L’espressione frustrata sul viso del ragazzo non passò inosservata al biondo e anche il suo sorriso si spense, fino a scomparire completamente quando tornò sui suoi passi per raggiungere Gibby.
- Va tutto bene?- domandò, in piedi accanto alla panca su cui l’altro sedeva.
- A meraviglia.- ringhiò, tra i denti, l’altro.
Un sopracciglio biondo scuro di Scott si sollevò, perplesso, sulla fronte.
- Non si direbbe.-
- Tu dici? E cosa ti ha portato a questa conclusione? La tua spiccata sensibilità o forse la capacità di leggere l’animo altrui? O, magari… -
Gibby si era alzato, rabbioso e con lui il tono di voce, che continuò a salire, mentre, per metafore, riversava su Scott l’insicurezza che quei giorni di silenzio gli avevano provocato.
Il biondo ascoltò in silenzio la sfuriata, impassibile, stoico, conscio di quanto l’altro avesse bisogno di sfogarsi, di frantumarsi in pezzi e ricomporsi, prima di poter accettare anche solo l’idea di essere diverso da come avesse sempre creduto.
Quando Gibby tacque, spompato, sfinito, ansante, con lo sguardo fisso in quello di Scott e i pugni stretti lungo i fianchi, il ragazzo sorrise appena, dolcemente.
- Sei più calmo, ora?- chiese.
L’altro annuì, portandosi una mano alla fronte e carezzandosi le guance, come a voler lavar via tutta quella rabbia repressa e si sedette.
Scott lo imitò, tenendo gli occhi fissi sul pavimento.
- Non avevo capito che, per te, fosse tanto importante parlare di quel bacio.- spiegò, chinandosi con i gomiti sulle cosce.
- Non avevamo mai parlato del nostro orientamento sessuale e non sapevo se tu fossi interessato a me in quel senso. Ho agito d’impulso, quella sera e, quando mi sono reso conto di aver superato un limite, ho immaginato che tu avresti preferito dimenticare ogni cosa e così ho fatto finta di niente.- aggiunse, stringendosi nelle spalle e sollevando il viso per guardare Gibby.
Questi, scosso e imbarazzato, teneva gli occhi fissi sulla parete dietro Scott e si torturava le mani, nervoso.
Cosa avrebbe dovuto rispondere?
Non aveva le idee chiare, anzi, se possibile, si sentiva anche più confuso di prima.
Gli erano sempre piaciute le ragazze e, sebbene non avesse mai avuto pregiudizi o idee razziste, non aveva mai capito come diamine facessero, gli omosessuali, a preferire il loro stesso sesso.
Eppure, adesso, con il fianco di Scott che gli sfiorava una gamba e il suo respiro proprio sulla guancia, sentiva di non essere indifferente a quel ragazzo tanto aperto, sincero e solare.
Un desiderio istintivo, viscerale, lo spingeva ad afferrargli le mani, assaporarne ancora le labbra e scoprirne la morbidezza dei capelli biondi.
- Non… non so che… -
Scott sorrise, comprensivo e lo invitò a tacere con un gesto gentile.
- Non devi dire qualcosa per forza, non voglio costringerti a pensare a qualcosa o prendere una decisione per la quale non sei pronto.- spiegò.
- Io sarò qui, se e quando vorrai.- aggiunse, semplicemente, battendogli una mano sulla coscia.
Gibby si limitò ad annuire, mentre Scott si alzava e raggiungeva la porta.
Non avrebbe saputo dire se fosse stata l’amarezza celata eppure visibile negli occhi chiari, se il calore che si propagò, dalle gambe fino al ventre e poi al cuore o il semplice prendere atto del fatto che Scott se ne stesse andando, seppur per qualche giorno, dalla sua vita, ma Gibby si alzò, lo raggiunse in due lunghe falcate e gli afferrò una spalla, costringendolo a voltarsi.
Quella volta, il loro bacio non fu un semplice sfiorarsi di labbra, timide e incerte.
Gibby afferrò Scott per il colletto della camicia, attirandolo a sé bruscamente e, dopo un attimo di sorpresa, l’altro gli agguantò la nuca con altrettanta forza.
Scoprire che le loro labbra si modellavano perfettamente fu motivo di entusiasmo ed eccitazione e, quando si separarono, ansanti e con gli occhi luminosi, lo sguardo che Scott gli lanciò fu sufficiente a placare ogni dubbio di Gibby: evidentemente, indipendentemente dal sesso, ci si innamorava di una persona, del suo carattere e della sua essenza.
 
 
 
 
- Spencer? Volevo solo avvisarti che ritardo di qualche ora.-
La voce di Alison gli arrivava a stento, a causa del vociare di gente tutt’intorno alla ragazza.
- Siete ancora in riunione?- le domandò l’artista, intento a dipingere delle uova sode.
- Proprio così e non credo ne usciremo prima di un’ora. Poi dovrò passare agli studi per ritirare uno script.- spiegò la giovane. – Preferisci che annulliamo la cena?- domandò, dispiaciuta.
Spencer, pulito un pennello sui jeans, si passò una mano tra i capelli corti.
- No, Alison, non dirlo nemmeno. Ti aspetto, non importa a che ora finisci, ti terrò in caldo la cena.- promise, comprensivo.
Sebbene non potesse vederla, seppe che suo visetto della sua fidanzata era comparso un sorriso dolcissimo.
- D’accordo, faccio prima che posso. – gli disse, riagganciando.
 
Quando, due ore dopo, Alison aprì la porta di casa Shay, non si sorprese di trovare Spencer addormentato sul divano, con la camicia chiazzata di vernice e le scarpe ancora ai piedi.
Abbandonò la borsa sulla poltrona e, sedutasi accanto a lui, gli accarezzo i capelli in un gesto dolce, per ridestarlo.
Avvicinandosi, si accorse che le labbra di Spencer erano macchiate di blu e verde e un’altra manciata di colori che non riusciva a distinguere.
- Spencer?- chiamò, confusa, scuotendolo appena.
L’artista si svegliò con un lamento e, subito, si portò le mani allo stomaco con fare teatrale.
- Che male terribile!- esclamò, affondando il viso nel cuscino.
- Cos’è successo?- gli chiese Alison, osservando la cena intatta abbandonata sul tavolo in cucina.
L’artista si tirò lentamente a sedere, emettendo una serie di gemiti di dolore e raccogliendo le ginocchia al petto, confessò di aver “assaggiato” le uova che stava dipingendo.
- Come ti è saltato in mente?!- esclamò Alison, allibita, allargando le braccia in un gesto esasperato.
Mettendo su un broncio degno di un decenne, Spencer spiegò di non aver saputo resistere al profumino di uova e che, per giunta, i colori magnifici di cui erano dipinte lo avevano ulteriormente istigato.
Assicuratasi che Spencer non avesse ingerito una quantità esagerata e pericolosa di uova dipinte, scuotendo il capo, rassegnata, Alison scoppiò a ridere e gli accarezzò la schiena.
- Beh, tesoro, avrai mal di pancia per un pezzo.- commentò, alzandosi.
- Dove vai?- piagnucolò Spencer.
- Tu avrai anche “mangiato”, ma io muoio di fame!- rispose la ragazza, accomodandosi a tavola.
- Uova?- lo prese in giro, sollevando un ovetto tinto di scarlatto al suo indirizzo.
Spencer, dopo averla fulminata con lo sguardo, si precipitò in bagno.
 
 
Dylan aveva osservato a lungo il gruppetto, fatto di quattro o cinque ragazzi, durante l’ultima settimana.
Era capitato, più di una volta anche nell’arco di una stessa giornata, che bazzicassero da quella parti, fermandosi proprio fuori dalla palestra o, talvolta, erano perfino entrati e avevano chiesto di poter fare un po’ di boxe.
Dylan aveva chiesto agli allenatori di tenerli d’occhio, sebbene, fino a quando si fossero comportati in modo civile e non avessero dato fastidio a nessuno, sarebbero stati i benvenuti.
Erano tipi che portavano guai, questo gli era stato chiaro fin da subito: urlavano di continuo, entravano carichi di birre, spintonavano gli altri clienti passando loro accanto, cercavano sempre di attaccare briga.
La prima volta che era stato costretto a intervenire, era stato il Mercoledì di quella stessa settimana, poiché avevano rifiutato di cedere il ring a uno degli allenatori che stava preparando alcuni allievi per una gara agonistica.
Ne era seguita una discussione accesa, durante la quale Dylan aveva dovuto far presente che quella era la sua palestra, nonostante non gli facesse affatto piacere ergersi a capo e imporsi, dato che, anche lui, fino a qualche settimana prima, aveva amato lottare per puro sfogo.
I tizi se n’erano andati promettendo rogne e, come tutti i bravi cattivi ragazzi, avevano mantenuto la parola.
Quel Venerdì sera, Sam lo raggiunse subito dopo il lavoro, stanca ma eccitata all’idea che fosse ormai giunto il week-end e ansiosa di programmare con lui un’uscita in moto, un torneo di poker o una fuga verso qualche birreria dozzinale e rozza fuori città.
Era già buio e ad illuminarli vi erano solo le rade luci di lampioni sistemati a casaccio nell’immenso parcheggio.
Sam mise il cavalletto e si sfilò il casco, che abbandonò penzolante sul manubrio, si sedette con le gambe di lato e legò i capelli in una coda disordinata.
- Comincia a far caldo.- disse, mentre Dylan infilava nel giubbotto le chiavi.
Il ragazzo la raggiunse e, immediatamente, la baciò, infilandosi tra le sue gambe e agguantandole i fianchi in una morsa possessiva.
Sam lo lasciò fare, infilandogli le mani tra i capelli e artigliandone le ciocche, per poi carezzargli la nuca e sorridere.
- Ti sono mancata, eh?- lo prese in giro, mentre lui, ignorando il fatto che lei stesse parlando, le morse un labbro, facendole male.
- Idiota!- sbottò Sam, colpendolo in pieno stomaco con un pugno.
Dylan rise, abbracciandola. – Sono due giorni che non ti vedo, Puckett.- si giustificò.
Lei scrollò le spalle con fare indifferente. – E’ colpa tua.- decretò.
Dylan si staccò da lei per mostrarle l’espressione perplessa che aveva in volto.
- Io sarei venuto da te lo stesso, Puckett, eri tu a essere troppo stanca… -
- Non mi riferivo a questo.- sbuffò la ragazza. – Sei stato tu a insistere perché accettassi il lavoro, ora pagane le conseguenze!- sbottò.
Dylan fece roteare gli occhi al cielo. – Non sarai mai in grado di svegliarti a un orario umano e essere civile, vero?- chiese, retorico.
- Sono geneticamente programmata in questo modo.- ribatté Sam. – Non è colpa mia.-
Il ragazzo annuì, fintamente comprensivo e si avvicinò, baciandole il profilo della mascella e scivolando poi verso il lobo dell’orecchio.
- Che… che fai?- chiese Sam, d’un tratto meno sicura di sé.
- Dato che è colpa mia, se sei tanto stressata e nervosa… - mormorò il ragazzo sulla sua pelle.
- … voglio rendermi utile e aiutarti a rilassarti.- le soffiò in un orecchio, per poi dedicarsi a lasciarle una scia umida sul collo, fino alla clavicola.
Le mani di Sam artigliarono il suo giubbotto e la ragazza si morse le labbra, frastornata.
Fu probabilmente il fatto di essere persi l’uno nei respiri dell’altro, a impedir loro di accorgersi dell’auto che, rombando, sfrecciava a pochi metri da loro.
Si udì un fracasso tremendo che fece sussultare entrambi e, subito dopo, l’auto scomparve con una sgommata, mentre un paio di allarmi di auto nei paraggi cominciavano a suonare.
Dylan, che si era chinato e aveva trascinato Sam con sé, l’afferrò per le spalle.
- Stai bene?- le chiese, controllandola.
La ragazza annuì, scrollandoselo di dosso. – Che diamine è stato?!- esclamò.
Dylan, rialzatosi, diede una rapida occhiata tutt’intorno e, poi, si avvicinò alla vetrina della palestra, infranta, i cui pezzi di vetro erano sparsi un po’ ovunque, dentro e fuori.
- Pezzi di merda.- lo sentì dire Sam, come un ringhio, tra i denti.
Lo raggiunse e la suola delle sue scarpe schiacciò alcuni cocci.
- Sai chi è stato?- chiese, stando bene attenta a non avvicinarsi troppo: conosceva Dylan e sapeva che, quand’era arrabbiato, aveva bisogno di spazio e di tempo per calmarsi.
Il ragazzo annuì, stringendo convulsamente i pugni.
Il cellulare di Dylan prese a squillare e lui rispose come un automa, gli occhi ancora fissi sulla vetrina infranta.
- Michael. Sì. Quei figli di… sì. Okay, fa’ presto.-
La telefonata fu chiusa e Sam riuscì a carpire soltanto il nome di Michael.
Era preoccupata per Dylan, poiché sapeva quanto si sentisse responsabile della palestra, dato che Carl aveva avuto una fiducia smisurata in lui, per cedergliela e non voleva davvero deluderlo.
Inoltre, era stata lei a spingerlo ad accettare e, adesso, aveva timore che Dylan cercasse di vendicarsi o farsi giustizia da solo e finisse per farsi male.
- Dobbiamo chiamare la polizia.-
Stentava a credere che quelle parole fosse uscite dalle sue labbra; ogni fibra del suo corpo rifiutava l’idea, ma la sua mente era attiva e in ansia per Dylan e quello aveva la meglio sul rifiuto di avere a che fare con le autorità.
- No.- rispose, secco, il ragazzo, chinandosi per raccogliere un coccio di vetro appuntito.
Sam allargò le braccia. – Dylan, hai detto di sapere chi è stato.- fece.
Lui sollevò lo sguardo incandescente su di lei. – E’ così.- decretò.
- Allora dobbiamo… -
- Ci penso io, Sam. – disse, perentorio, solenne, con quel tono di chi non ammette repliche e ha già preso tutte le decisioni.
La ragazza sentì la rabbia montare, eppure tentò di frenarsi: Dylan era sconvolto e furioso, doveva capirlo, non aggredirlo, o sarebbe finita male.
Pochi istanti dopo, l’auto di Michael entrò nel parcheggio e il ragazzo si fermò accanto alla moto di Sam, scendendo in fretta.
Li raggiunse e, lanciata un’occhiata ai danni, fece una smorfia disgustata.
- Pezzi di merda.- commentò, quasi sputandolo.
Dylan gli lanciò una lunga occhiata. – Come lo hai saputo?- chiese.
Il biondo alzò il mento. – Ero al bar dietro lo stadio e c’erano Johnny e altri stronzi che ne parlavano. Pare che sia da ieri notte che Bill va a dire in giro che intendeva “dare una lezione” allo “stronzetto arrogante che si crede un grande uomo”. – spiegò.
- Si può sapere di che state parlando?!- intervenne Sam, con le mani sui fianchi.
Fu ignorata.
- Quando sono arrivati sgommando, lui e i suoi amici idioti, erano già sbronzi e sovraeccitati. –
- Sono lì, adesso?- domandò Dylan, lapidario.
Michael scosse la testa. – Li hanno buttati fuori.- rispose.
- Dylan!-
La voce di Sam rimbombò nel parcheggio semi-vuoto e Michael si volse a guardarla come se si fosse accorto di lei solo in quel momento.
- Puckett. Stai bene?- le domandò.
- No, per niente, sono incazzata. Di che diamine parli? Bill, chi? L’idiota delle birre?- chiese.
Michael guardò Dylan e, subito dopo, posò una mano sulle spalle della ragazza.
- Non pensarci, Puckett. Dovresti tornare a casa e anche tu Dylan.- aggiunse, rivolgendosi all’amico.
- Non ci penso proprio.- rispose Sam.
- Bennett, mi occupo io della vetrina. Porta Puckett a casa.- insistette Michael, stringendo una spalla dell’amico.
Dylan serrò la mascella e annuì, afferrando le chiavi che l’altro gli porgeva.
- Sam, sali in macchina.- le disse.
La bionda, ovviamente, non accennò a muoversi.
- Sam.- la voce di Dylan cominciò a perdere il tono fintamente calmo utilizzato fino a quel momento.
- Bennett, ti avviso… -
- Ho bisogno di saperti a casa, Puckett, cosa c’è di difficile da capire, eh?- gridò, d’improvviso, il ragazzo, voltandosi a fronteggiarla, frustrato.
- E io ho bisogno di sapere cosa diamine ti passa per la testa, miserabile idiota!- lo imitò lei, alzando la voce di diverse ottave.
- Ragazzi.-
Il tono neutrale e pacifico di Michael fu una nota stonata, in quel momento.
- Bene!- sbottò Sam, superando il fidanzato con una spallata.
- Dove diavolo vai?!- sputò lui, allargando le braccia.
Sam salì in sella alla moto e accese i motori, infilando il casco senza abbottonarlo e togliendo il cavalletto.
- A casa! –
Lui parve sorpreso che lei avesse capito e accettato la sua richiesta.
- Puckett… - il tono di Dylan tornò normale, la voce più bassa, roca.
- Sì, certo, Bennet, lo so.- sputò lei, dando gas un istante prima che Dylan potesse afferrarla.
 Scomparve, lasciandosi dietro una nuvola di polvere.
 
 
 
- Carlotta, è molto tardi, se sei stanca, non fare complimenti e lascia pure. E’ stata una settimana impegnativa ed è Venerdì sera: avrai di meglio da fare.- le disse Trust, tornato dalla cucina del suo appartamento, dove aveva preparato del caffè per entrambi, mentre lei, seduta in terra nel mezzo del salotto, sfogliava libri e prendeva appunti.
L’uomo le porse una tazza fumante e lei, prendendola, gli sfiorò casualmente le dita.
Sorrise. – Non sono stanca, ma se lei preferisce che vada… - accennò ad alzarsi e l’uomo, che si era seduto sul divano foderato di verde scuro, scosse il capo e la fermò con un gesto della mano.
- Resta pure, non ho alcun programma e la tua compagnia è davvero piacevole.- le disse, togliendosi gli occhiali e depositandoli sul mobiletto lì accanto.
Carly avvampò e, per nasconderlo, si alzò con il libro che teneva tra le mani aperto di fronte al viso.
- Ho trovato questo passaggio che mi sembra interessante.- disse, avvicinandosi all’uomo.
Trust le fece cenno di sedersi e lei eseguì, stando bene attenta che la gonna alla marinaretta che indossava stesse al suo posto.
Trust inforcò di nuovo le lenti e si chinò, avvicinandosi, per leggere con lei.
- Vede? Dal punto in cui dice: “ … è gloria o distruzione?”.- indicò con l’indice la pagina.
Il Professore annuì. – Sì, mi piace. Potremmo inserirlo nel capitolo terzo, che ne pensi?-
Si volse a guardarla e si sorpresero di quanto fossero vicini.
Carly assentì, sorseggiando il caffè per celare l’imbarazzo.
Era ormai una settimana che, ogni sera, lei e Trust si attardavano a far ricerche, sfogliare libri di poesie e battere a macchina – lui era all’antica, non amava i computer.
Le prime volte si erano incontrati nel suo ufficio ma, dato che l’Università chiudeva troppo presto, per i loro gusti, avevano deciso di spostarsi a casa dell’uomo, sebbene la cosa mettesse Carly a disagio.
Certo, non un disagio dettato dal fastidio o dall’ansia; semplicemente, si sentiva molto nervosa a starsene lì, in casa dell’uomo per il quale aveva una cotta terribile, a respirarne il profumo e invaderne gli spazi più intimi e personali.
Eppure, Trust sembrava accettare la sua presenza in quel luogo, come se lei vi fosse sempre stata e, magari, se ne fosse allontanata per qualche tempo e, adesso, vi fosse ritornata.
La voce del professore le solleticò la guancia. – Sicura di non essere stanca?- le domandò, proprio a un soffio dal volto.
Voltandosi, Carly si ritrovò immersa nell’azzurro bruciante dei suoi occhi e, quando si sporse verso di lui e le loro labbra si sfiorarono, non si accorse nemmeno del libro che, abbandonato, le scivolava via dalle mani, cadendo al suolo.
Fu un bacio vorace, appassionato, fatto di desiderio a lungo represso e mani che si sfiorano, ansiose e timorose al contempo.
Trust fu il primo a riaversi e, scostandosi da lei come se si fosse bruciato, si alzò, portandosi una mano alla bocca e prendendo a camminare lungo il quadrato del salotto.
- Sono… sono mortificata… - balbettò Carly, stordita e rossa in volto.
Si sentiva una sciocca, una ragazzina superficiale e, per giunta, rifiutata.
Trust si fermò di fronte a lei e, afferratele le mani, la fece alzare.
- Oh, Carlotta, non dire così.- la pregò, carezzandole il viso con la nocca dell’indice.
Afferrò delicatamente una ciocca di capelli bruni e ne assaporò la consistenza setosa sotto le dita.
- Sono io a dovermi scusare.- disse, mentre i suoi occhi brucianti divoravano le labbra rosse della ragazza.
- Io sono l’adulto, il tuo professore, non avrei mai dovuto… invaghirmi, avvicinarmi a te.- mormorò.
I grandi occhi scuri di Carly si spalancarono, sorpresi e luminosi, eccitati, increduli: Trust era invaghito di lei!
Lui la voleva, non era solo una povera illusa!
Quell’uomo fine, elegante, colto, saggio, bello e intelligente, voleva lei!
Carly sorrise appena, scuotendo il capo. – Non dica così… io… io voglio che lei mi stia vicino, vicino quanto più lo desidera.- sussurrò, avvampando.
Trust la osservò a lungo, tormentato, poi sospirò, come se avesse combattuto una muta battaglia contro se stesso.
- Oh, Carlotta, sei così innocente e candida… come posso… come posso starti lontano?- sussurrò, prima di prenderle il viso tra le mani con delicatezza a baciarla, dolcemente, assaporandone l’essenza.
 
 

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Capitolo 13
*** The birthday - part 1 ***


Salve a tutti.
Mi scuso per il tremendo ritardo, purtroppo ho avuto e continuo ad avere una serie di problemi di salute discretamente gravi e, presto, mia madre dovrà subire un intervento cardiaco.
Prego quindi tutti voi di avere pazienza e perdonarmi se gli aggiornamenti saranno più lenti (diciamo una volta ogni 8/9 giorni).
Ho deciso di dedicare un capitolo intero al compleanno di Sam (il prossimo), quindi potete considerare questo e il prossimo due capitoli legati.
Risponderò alle vostre recensioni in privato.
Approfitto per farvi auguri di Buona Pasqua, sebbene con grande ritardo.
 
Ringrazio, come sempre, la mia Beta, Aduial.
 
 
 
 
 
Aprile.
 
Alison quel giorno sembrava pensierosa, Spencer se ne accorse nell’istante in cui aggiunse al suo caffè il terzo cucchiaino di zucchero, proprio lei che lo preferiva amaro.
La osservò a lungo e notò che giocherellava con l’anello sottile in oro che suo padre le aveva regalato anni prima, gesto tipico di quand’era in pieno fermento mentale: stava rimuginando su qualcosa, su un pensiero che le dava il tormento, un’idea che non aveva il coraggio di esprimere a voce.
Per l’artista, le altre persone, Alison compresa, sarebbero sempre rimaste un mistero; non comprendeva, davvero, il motivo per cui si facessero sempre tanti problemi a dar voce ai propri pensieri, desideri, sogni e a inseguirli, senza dar peso a ciò che la gente avrebbe pensato a riguardo.
A lui non era importato di essere visto come uno “strano”, quando si era precipitato alla Sala Giochi per vincere un delfino che agognava dall’infanzia.
Sorrise al ricordo, aggrottando poi le sopracciglia, scocciato: dove diamine l’aveva messo, poi, quel pupazzo?!
Doveva cercarlo, decise, sfilando i guanti di gomma, ma, quando lo sguardo gli cadde nuovamente su Alison, seduta sul divano con le gambe incrociate, si rese conto che il delfino avrebbe potuto aspettare ancora un po’ e affiancò la fidanzata.
- Ehi.- le disse, distendendo un braccio sulla spalliera dietro di lei.
Gli occhi scuri di Alison si appuntarono su di lui, profondi e ipnotici come al solito e Spencer si sporse a baciarla senza nemmeno rendersene conto.
- Ehi.- sorrise lei, arricciando le labbra in un’espressione maliziosa e dolcissima al contempo.
Era una Domenica pomeriggio e avevano pranzato assieme a casa Shay, da soli, dato che Carly aveva qualcosa da fare all’Università – a Spencer era sorto il dubbio se fosse possibile che una scuola restasse aperta anche di Domenica, ma dato che lui era allergico anche solo alla parola “Università”, aveva preferito non indagare per principio.
Ad Alison, invece, non era sfuggito il fatto che, recandosi a casa Shay, quella mattina, era passata proprio di fronte alla scuola di Carly, ovviamente chiusa e, poi, gli occhi luminosi della ragazza e il suo abitino elegante e sobrio, le avevano tolto ogni dubbio.
Sapeva che c’era di mezzo un ragazzo ed era felice per Carly: negli ultimi mesi aveva avuto modo di conoscerla e capire che, sotto quell’aria di ragazza dolce e ottimista, si celava una bambina costretta a crescere in fretta a causa dell’assenza dei genitori e bisognosa in modo spasmodico d’avere qualcuno accanto, qualcuno che l’amasse e la facesse sentire sempre unica e speciale.
Alison se ne intendeva di caratteri umani, aveva intrapreso la carriera di sceneggiatrice proprio grazie alla sua abilità nel decifrarli ed era certa di non sbagliare, a pensare che Carly fosse una di quelle donne che, nella vita, necessitano dell’amore sopra ogni altra cosa.
Spencer, che dopo pranzo era stato obbligato a lavare i piatti dalla fidanzata – parità di genere -, adesso giocherellava con le ciocche lisce dei suoi capelli, osservandole con la venerazione di un fedele di fronte a una reliquia sacra.
Sorrise, sporgendosi contro di lui e abbracciandolo in un gesto istintivo, colmo di tenerezza e lui la ricambiò automaticamente, comprendendo quel tacito bisogno di sostegno.
- Vuoi dirmi cosa c’è che non va?- le chiese, quando si furono separati.
Lei sospirò, passandosi una mano sul viso struccato e gli lanciò uno sguardo colpevole che fece trasalire l’arista, terrorizzato all’idea che lei volesse lasciarlo o che dovesse confessargli un tradimento.
Doveva c’entrare quel James, maledetto, si era lasciato ingannare dagli occhiali e l’aria svampita!
- Spencer? Ti senti bene?- la vocetta divertita di Alison lo innervosì: insomma, stava per confessare qualcosa che gli avrebbe spezzato il cuore e lo trovava anche divertente?!
La guardò malissimo.
- Si può sapere che ti prende?- domandò, ancora, lei.
L’artista serrò i pugni, si mise seduto composto – rigido – sul divano, chiuse gli occhi e prese un grande sospiro.
- Sono maturo e non salto alle conclusioni.- disse, lasciando la fidanzata sbigottita.
- Eh?-
Spencer riaprì un solo occhio. – L’ho letto su quel giornale che piace tanto a Carly! “Donne e amore” o una roba del genere! – spiegò.
Alison, confusa, aggrottò le sopracciglia. – Tesoro, stavolta dovrai sforzarti di più: non ho capito nulla.- fece, sistemandosi contro i cuscini.
L’artista sbuffò, sgonfiandosi e, tirate su le maniche della camicia, prese a gesticolare.
- Su quel giornale dicevano che le donne sono convinte che gli uomini si dividano in tre categorie: gli eterni bambini, gli eterni infelici e gli eterni dongiovanni, e che ciò che le donne odiano maggiormente nel loro partner è il non essere ascoltate e litigare perché lui è saltato subito alle conclusioni.- illustrò, accompagnando il tutto con occhiate cariche di significato.
Alison tacque qualche istante, trattenendosi dallo scoppiare a ridere e, quando non vi riuscì e Spencer assunse un’espressione oltraggiata e imbronciata di fronte a quella reazione, praticamente gli saltò addosso, sedendosi a cavalcioni su di lui e baciandolo ovunque.
L’artista, estasiato e confuso, decise che, se quelli erano i risultati, avrebbe letto ogni giornaletto di sua sorella.
Quando, diversi minuti dopo, si separarono, Spencer la guardò a lungo.
- Se non c’entra James e non vuoi lasciarmi, cos’è che ti rende tanto nervosa?-
Alison scosse la testa. – James?! Spencer, credevo fosse chiaro, ormai, che preferisco i tipi meno imbellettati!- lo prese in giro.
L’altro, tuttavia, rimase serio e lei comprese di essere alle strette.
Tornò seduta e, riprendendo a tormentare l’anellino, parlò.
- Siamo ad Aprile, ormai, Spencer, Giugno è più vicino di quello che sembra ed è anche il mese in cui scade il periodo di tempo che il Direttore del Canale ci ha dato per creare un nuovo Show. – sospirò, mettendosi dritta. – Vedi, dar vita a uno show è difficile e, prima che possa essere registrato anche solo il pilot (che comunque dovrà essere pronto almeno un mese prima del lancio ufficiale del programma), occorrono mesi di preparazione. Giugno è il limite massimo e noi non abbiamo ancora alcuna idea. – il suo tono si fece basso e stanco.
- O, meglio, un’idea ce l’avrei, ma ho davvero timore di ciò che potrebbe comportare.- aggiunse, sollevando finalmente gli occhi nei suoi.
Spencer sentì qualcosa agitarsi nello stomaco ed era quasi sicuro che non c’entrassero nulla gli spaghetti-takos.
- Quale idea?- domandò.
- Pensavo che… il nuovo show potrebbe essere ICarly.- disse lei, tutto d’un fiato.
Spencer impiegò qualche secondo per comprendere ciò che Alison aveva appena sussurrato.
- Spencer, non… preoccuparti. Non ho proposto nulla in Sala Sceneggiatori, è solo un’idea mia, qualcosa che mi frulla in testa da tempo, da quando ho conosciuto tua sorella, Sam e Freddie alla Mostra. Il loro show era grandioso e sarebbe incredibile lavorare con loro a livello professionale, ma non è che un’idea, davvero, niente di più. - aggiunse, subito, timorosa che il fidanzato potesse essere contrario.
Sapeva  che per Carly abbandonare Seattle, ICarly e i suoi amici era stato devastante ma, ancora di più, lo era stato tornare e rendersi conto che tutto era ormai perso.
Alison aveva visto Spencer soffrire, in quei primi mesi dopo il ritorno della sorella, insieme a Carly per quel passato che nessuno voleva lasciarsi alle spalle e si rendeva conto di quanto fosse difficile per un fratello sentirsi impotente e non poter rendere felice la propria sorellina.
Adesso che Carly sembrava di nuovo serena, non felice, ma almeno serena, lei rischiava di rovinare tutto, rivangando quel passato che ancora faceva soffrire tutti loro.
Spencer tacque a lungo e Alison si pentì amaramente di aver dato voce a quell’idea, fino a quando il primo non sospirò, passandosi una mano tra i capelli.
- Non saprei dirti se si tratta di una grande idea o di una pessima idea.- fece, in tono neutro.
- Lascia perdere, era solo un pensiero, te l’ho detto… -
Spencer scosse la testa. – No. No, Alison, ascolta: devi parlarne con Carly. Lei non è più una bambina e io… io non potrò sempre proteggerla da tutto. Deve essere lei a decidere. Chissà, potrebbe uscirne qualcosa di buono… - aggiunse, sottovoce.
Alison lo osservò, osservò l’espressione triste e gli occhi persi chissà dove e comprese che nemmeno per lui, il passato era passato e, nel profondo, ancora sperava di vedere riuniti i tre amici di sempre e ritrovarsi la casa invasa di adolescenti, grida e risate.
Spencer si volse a guardarle e le prese una mano, sorridendo; anche lui stava pensando la stessa cosa, anche lui immaginava di riavere tutta la sua famiglia proprio lì.
Ma, nei suoi pensieri, allo scenario si sommava un’altra persona, colei che, nel giro di qualche mese, era divenuta fondamentale per lui, essenziale affinché tutto il resto scaldasse e girasse in perfetta armonia: Alison.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le ultime due settimane erano trascorse così rapidamente che Sam quasi non se n’era resa conto.
Era sempre stata un’esperta nel litigare e urlare e sfogare la propria rabbia, eppure, dell’incidente avvenuto nel parcheggio della palestra e della “discussione” che ne era seguita, lei e Dylan non avevano più parlato. O, meglio, non avevano più parlato di niente.
Era stata una sorta di lento assopirsi, come due persone troppo stanche o troppo furiose l’una con l’altra e che temono di poter esplodere e arrivare a ferirsi reciprocamente troppo a fondo: tacevano, evitavano di discutere, di litigare, di ritrovarsi l’uno contro l’altro per qualsiasi motivo, dal più futile al più grave, per paura di una nuova frattura, stavolta insanabile.
Su due persone dai caratteri forti e ribelli quali erano i loro, quella situazione pesava in modo indicibile, arrivando a trasformarli in automi e, perfino nei momenti di tenerezza, la tensione delle cose non dette aleggiava su di loro, innervosendoli.
Non avevano parlato di ciò che era accaduto alla palestra, né del se e come Dylan avesse risolto le cose e, del resto, non sarebbe stata certo lei a tirare in ballo l’argomento, non fino a quando non avrebbe avuto la forza e il coraggio di affrontare il litigio e la frattura che ne sarebbero conseguiti.
Dylan nemmeno sembrava intenzionato a riaprire un discorso che, probabilmente, considerava acqua passata: il più grande ostacolo, tra loro, era sempre stato il fatto che lui non si accorgesse di quanto il suo comportamento ferisse Sam.
A distrarre – e irritare – quest’ultima, ci aveva pensato egregiamente Cat, soprattutto in quegli ultimi giorni, a causa delle sue idee sciocche ed infantili che, in quel contesto, si riassumevano semplicemente con le parole: festa di compleanno.
La dolce fanciulla dai capelli rossi aveva, da sempre, una vera ossessione per i compleanni e adorava festeggiarli, soprattutto quelli dei suoi amici più cari.
Per questo motivo, conoscendo Sam e quanto sapesse essere apatica, si era messa d’impegno per organizzarle una festa di compleanno – a sorpresa, ufficialmente – con i fiocchi, arruolando come aiutanti i ragazzi della Hollywood Arts.
Ovviamente, Sam era a conoscenza di tutta la faccenda e, sebbene la sua intenzione iniziale fosse stata quella di sparire il giorno del suo compleanno, Tori l’aveva convinta a non comportarsi a quel modo, spiegandole quanto importante fosse per Cat.
Così, Sam aveva deciso di passare meno tempo possibile in casa, lontana dall’eccitazione incontrollabile della ragazza dai capelli rossi e aveva preso l’abitudine di trascorrere le serate in cui non usciva con Dylan (che divenivano sempre più frequenti) con Jade.
Si erano prese fin dal primo incontro, era vero, poiché i loro caratteri erano molto simili ed entrambe erano disposte a tutto per ottenere ciò che volevano, arrivando, a volte, anche a ferire le persone a cui tenevano, ma, a distanza di mesi, si erano accorte di conoscersi essenzialmente poco e che parlare tra loro era più facile che con altre persone.
Così, spesso, si erano date appuntamento sul vecchio ponte, di sera tarda e avevano parlato a lungo, tanto da veder sorgere l’alba, raccontandosi quel tanto che occorreva per comprendersi ma non troppo da rischiare di poter restare ferite dall’eventuale affezionarsi all’altra.
Sam aveva scoperto che Jade aveva vissuto una situazione sentimentale simile alla sua, sebbene lei, Beck e Tori non si conoscessero fin da bambini.
Anche adesso che, apparentemente, Jade era felice senza Beck, Sam poteva leggere dietro i suoi gelidi occhi, tanto simili ai suoi, la sofferenza che a nessun altro era dato di vedere: la mancanza di quella persona che è unica e insostituibile, radicata, nel cuore di ognuno.
Non conosceva bene Beck, lo aveva visto sporadicamente e non si era mai ritrovata a parlare con lui, eppure, qualcosa nel modo in cui il suo sguardo accarezzava Jade ogni volta che era convinto non lo notasse, le suggeriva che anche lui non aveva dimenticato.
Poi, però, Sam si accorgeva di Tori e del suo sorriso luminoso, della dolcezza che il suo volto irradiava e del modo in cui Beck ne sembrava conquistato e,  sebbene Cat le avesse assicurato che tra loro non vi fosse ormai più nulla, il tarlo del dubbio s’insinuava in lei, tormentandola.
Si rendeva conto di applicare vecchi e dolorosi schemi che erano suoi ad altre persone, rievocando ciò che lei, Freddie e Carly erano stati una volta, ma non poteva farne a meno.
Del resto, su chi avrebbe potuto spostare la sua attenzione?
Su Cat, tanto imbranata da non accorgersi che anche Robbie era invaghito di lei?
Ogni volta che si ritrovava a osservarli, impacciati e imbarazzati, a balbettare frasi insensate o parole a casaccio, le veniva voglia di prendere le loro teste e farle sbattere l’una contro l’altra.
Un’idea le balenò in mente, quella sera, dopo che ebbe riaccompagnato Jade a casa in moto e infilò la chiave nella toppa: se proprio doveva subirsi lo strazio di una festa di compleanno organizzata da Cat, almeno avrebbe potuto divertirsi.
Poteva trasformarsi in Cupido e provare ad aiutare Cat e Robbie, pensò.
Ridacchiando, entrò in camera loro e vide Cat che, facendo un fracasso infernale e cadendo dal letto, cercava di nascondere dei fogli rosa sui quali, probabilmente, vi erano gli appunti per la festa.
- Ehi, Sam!- gridò quasi Cat, nervosa.
La bionda finse indifferenza e si avvicinò al suo armadio.
- Ciao, Cat. – rispose, prendendo il necessario per la doccia.
Si avviò in bagno e, un istante prima che mettesse piede fuori dalla stanza, il suo cellulare squillò.
Tornò sui suoi passi e, letto il nome sul display, la sua espressione mutò, rattristandosi.
Sam gettò il telefono sul letto e uscì, mentre il nome di Dylan lampeggiava sullo schermo.
Cat sospirò, scuotendo la testa, col visetto rassegnato.
 
 
 
 
Carly se ne stava seduta comodamente sul divano del Professor Trust, senza scarpe, le ginocchia piegate e un libro tra le mani.
Il sole tramontante la illuminava alle spalle, colorando di rosso i capelli corvini.
L’uomo, rimasto incantato un istante sotto la porta, si riscosse, entrando in salotto col vassoio su cui poggiavano le tazze di tè e i biscotti.
Depositò tutto sul tavolino di cristallo e si accomodò accanto a lei, porgendole una tazza.
Carly sorrise, dolce. – Grazie, ha un profumo squisito.- mormorò.
Trust si sporse a baciarle una tempia e indugiò tra i suoi capelli, respirando a fondo.
- Mai quanto il tuo.- commentò, facendola ridere.
Da quel loro primo bacio, settimane prima, la loro relazione era proceduta lenta e armonica, priva di scossoni o grandi ostacoli sul percorso.
Perfino le lezioni erano state più semplici da affrontare di quanto la giovane avesse mai creduto possibile: Trust era abilissimo nel non lasciar trapelare nessuno dei sentimenti profondi che provava per lei.
La trattava normalmente, con distanza e rispetto, senza mai divenire, però, egoista di  gentilezza.
E, sebbene lo sguardo profondo e indagatore di Jennifer White la tormentasse più spesso del solito, Carly era ben decisa a star lontana da quella soglia di coscienza dove avevano preso dimora il senso di colpa e la vergogna.
Non era una stupida, sapeva bene che il loro rapporto non poteva definirsi sano o giusto, che, almeno fino a quando lei non fosse stata più grande e non avesse lasciato l’università in cui lui lavorava, non avrebbero potuto vivere quella relazione alla luce del sole, eppure si sentiva ugualmente appagata.
Certo, talvolta, una fitta di dispiacere e dolore faceva capolino, quando guardava Louisa e Freddie uscire a cena, andare a teatro o a ballare, magari prendere una semplice fetta di torta al bar in centro e, segretamente, li invidiava, desiderosa di quella semplicità, ma era abile a mettere a tacere quei pensieri.
Del resto, era senza dubbio eccitante vivere una storia clandestina, no?
Come nei migliori romanzi.
- Per oggi non credi di aver lavorato abbastanza?- le domandò, con quella voce calda e roca che aveva il potere di farle contrarre le viscere.
- Non voglio restare indietro solo perché…-
- Perché stiamo insieme?- terminò Trust per lei.
La bruna annuì, imbarazzata, mentre l’uomo le accarezzava dolcemente un braccio.
- Oh, Carlotta…- sospirò, intenerito, scuotendo la testa. – Sei così responsabile.- aggiunse, sfiorandole il collo con le labbra.
Immediatamente il cuore della ragazza prese a tamburellare violento nel petto e le guance s’imporporarono mentre le loro labbra si incontravano, avide.
Gli afferrò le spalle, salendo con le dita tra i capelli, mentre lui le afferrava la vita, tirandosela addosso.
Il loro respiro divenne irregolare, il sole uno spettatore indiscreto e Trust la lasciò un istante, dopo averle depositato un bacio leggero sulle labbra, per chiudere le tende.
Carly sapeva che le immense vetrate del suo appartamento non aiutavano il loro bisogno di privacy e quel pensiero le diede una stilettata al cuore che, tuttavia, scomparve, non appena Trust fu di nuovo accanto a lei.
- Sei bellissima.-
Lo disse con tanta convinzione da farla avvampare e nascondere il viso sul suo collo, depositandovi piccoli baci.
Era appagante vedere l’espressione rapita di Trust, i suoi occhi chiusi, il suo capo abbandonato contro lo schienale del divano e sapere di essere lei a fargli quell’effetto.
I libri sui quali avevano lavorato giacevano abbandonati ai piedi del tavolo, penne e fogli di carta stropicciati erano stati gettati di lato, poco graditi in quel momento.
Al rumore dei loro respiri si sommò il rumore della sera, calata d’improvviso e il vociare allegro dei ragazzi che uscivano a divertirsi, le risate degli innamorati che si rincorrevano sul marciapiede, la musica leggera proveniente dai ristoranti.
Carly si perse a guardare le luci di Seattle, lo sguardo fisso su un punto indefinito alle spalle di Trust e lui, intento a baciarle il profilo della mascella, se ne accorse.
- Qualcosa ti turba?- le domandò.
Carly scosse la testa, incrociando i suoi occhi.
- Credi che… noi potremo mai… non so, andare a cena?- domandò, timorosa.
L’uomo rimase a osservarla in silenzio, a lungo e la bruna temette di aver rovinato tutto con le sue pretese da ragazzina sciocca e insicura.
Era sul punto di rimangiarsi la domanda, quando le mani dell’uomo le afferrarono il viso con delicatezza.
- Non voglio che tu abbia timore di dirmi ciò che ti rende infelice.- le disse, solenne.
- D’accordo?- aggiunse.
Carly annuì.
Trust l’abbracciò, stringendosela al petto. – Ti porterò a cena Sabato, se non hai altri impegni, mia piccola Carlotta.- promise.
La ragazza sentì il calore avvolgerla e gli occhi riempirsi di piccole lacrime.
Si strinse a lui, con gli occhi chiusi, felice.
 
 
 
 
Freddie svoltò e s’immise sul vialetto, procedette per qualche metro e tirò il freno a mano, scendendo dall’auto e chiudendo lo sportello con un gesto secco.
Incamminandosi verso i gradini d’ingresso sistemò il colletto della camicia linda e perfettamente stirata, passò una mano tra i capelli ben pettinati e ripose in tasca le chiavi.
Era agitato, temeva di non passare l’accurato esame della donna, quella volta.
Non fece in tempo a bussare il campanello che un tornado profumato di biscotti e sapone lo travolse, stritolandolo in un abbraccio soffocante.
- Mamma, non respiro!- protestò, fintamente contrariato; sua madre, nel bene e nel male, gli mancava.
Solo dopo essere partito per l’Italia – e una volta rientrato a Seattle – si era reso conto di quanto dolce e sicuro fosse, l’essere “figlio”.
Responsabilità, problemi, paure, per ogni cosa vi era sempre qualcuno pronto a schierarsi dalla sua parte, a rassicurarlo e combattere per lui.
Adesso, invece, tutto dipendeva dalla sua volontà, dalle sue azioni e nessuno, al di fuori di lui, avrebbe affrontato le conseguenze delle sue scelte.
Quel giorno, in particolare, c’era un tarlo a tormentarlo che, tuttavia, non aveva nome o volto, come un pensiero sempre costante, ma dispettoso, che si divertiva a nascondersi nei meandri della sua mente per non farsi trovare e leggere chiaramente.
Cosa poteva divertirsi a tormentarlo a quel modo?
Non ebbe modo di cercare una risposta, poiché l’occhio aquilino di Marissa Benson si appuntò su di lui, studiandolo dalla testa ai piedi in cerca di qualcosa che non andasse.
Freddie temeva quegli appuntamenti mensili, durante i quali sua madre trascorreva metà del tempo a darsi pena e a sentirsi in colpa per “l’aver abbandonato il suo bambino a se stesso”.
Il rimorso, a dir suo, derivava sempre da qualcosa che, nell’abbigliamento o nel peso,  nel contegno o nella salute di Freddie, non risultava perfetto agli occhi di Marissa.
La donna lo fece accomodare e Freddie tolse la giacca leggera, adagiandola accorto sul divano.
- Non fa ancora caldo abbastanza da poter andar in giro con un semplice soprabito, Freddie.- commentò sua madre, rientrata con un vassoio sul quale faceva bella mostra di sé del tè e un piatto di biscotti.
- A Seattle fa più caldo, mamma. – rispose, educatamente.
Marissa, espressione contrariata e pensosa, si sedette accanto a lui e gli accarezzò la testa, acconciandogli un ciuffo di capelli.
- Mi sembri più… grosso.- disse, tastandogli una spalla e poi un braccio.
- Oh, Freddie, dimmi che non frequenti ancora quella sudicia palestra piena di tizi poco raccomandabili!- lo implorò, in quel suo tono lagnoso e spaurito.
- Mamma, per favore, non ricominciare.- sospirò il ragazzo, liberandosi delicatamente dalla sua stretta.
Marissa, oltraggiata, si appropriò di una tazza di tè, dosando meticolosamente il raso cucchiaino di zucchero e borbottando riguardo la sciagura di un figlio che non ha rispetto per la preoccupazione materna.
Freddie, nel tentativo di rabbonirla, si affrettò a raccontarle gli ultimi sviluppi lavorativi, del suo progetto di creare un videogioco e degli ultimi esami all’università, andati egregiamente.
Marissa si compiacque di entrambe le cose, sebbene non apprezzasse particolarmente l’idea che suo figlio si trasformasse in uno di quei fissati con i videogame che impazziscono dietro a codici numerici.
E, nel profondo, Marissa Benson sapeva bene che il primo distacco di suo figlio da lei era avvenuto proprio a causa di quel talento informatico, che lo aveva condotto ad ICarly e a quelle due ragazze dal carattere tanto opposto e, al contempo, complementare.
- Mamma, ti vedo pensierosa, va tutto bene?- domandò Freddie, fissandola con quegli occhi castani tanto profondi e duri, così diversi dallo sguardo caloroso di un tempo.
- Certo, Freddie, tutto benissimo.- mormorò.
A causa del suo istinto materno iperprotettivo, dapprincipio dopo la partenza delle due ragazzine, Marissa si era sentita sollevata e aveva ringraziato il cielo che quei due uragani che avevano sconvolto la vita di suo figlio calamitandone su di loro l’attenzione e strappandola a lei, fossero sparite dalla sua vita.
Poi, col passare dei giorni, la donna aveva assistito al lento e inesorabile cambiamento di Freddie, all’indurimento del suo carattere, alla perdita dell’allegria e al senso di apatia che lo aveva colto.
Si era anche accorta di quella sorta di rabbia che era montata dentro di lui, sebbene non se ne spiegasse la ragione e che, evidentemente, nemmeno Freddie comprendeva e riusciva a gestire.
Per quanto ossessiva e fanatica fosse, si era allora resa conto che suo figlio era davvero infelice e, per questo motivo, la sua opposizione quando le aveva domandato – quando le aveva comunicato!- di voler partire alla volta di Los Angeles per andare da quella Sam, non era stata violenta come tutti si sarebbero aspettati.
Marissa aveva visto qualcosa riaccendersi, negli occhi di Freddie, anche di fronte alla sola idea di rivedere quel demonio biondo e non aveva avuto il cuore di impedirgli quel viaggio, nonostante ne fosse terrorizzata.
Del resto, si era detto, sempre meglio dell’Italia, che si trovava oltreoceano!
E, adesso, eccolo lì, a quasi due anni di distanza, suo figlio: un uomo ormai adulto, in grado di provvedere a sé – per quanto possibile – e, soprattutto, vuoto.
Del Freddie che la faceva ammattire per stare sempre al passo con quelle due ragazzine non era rimasta traccia e, le costava l’anima ammetterlo, la cosa l’addolorava.
- Come mai sei venuto, Freddie?- gli chiese, d’improvviso seria.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia scure e sorrise, forzato. – Vengo sempre a trovarti, mamma, come ti ho promesso.- rispose.
Anche Marissa sorrise. – Oggi non è Domenica, Freddie. Tu vieni sempre a trovarmi l’ultima Domenica del mese, vedi?- gli indicò il calendario appeso accanto all’attaccapanni e il cuore rosso che campeggiava sulle domeniche.
Freddie alzò le spalle. – Avevo voglia di vederti.- tentò, impacciato.
La verità era che nemmeno lui sapeva perché si fosse recato in visita a sua madre, quel giorno.
Avrebbe dovuto uscire con Louisa, sua ragazza da ormai un mese, eppure all’ultimo momento aveva assunto una chiamata di Marissa come scusa per annullare l’appuntamento.
Semplicemente, quel giorno, sentiva il bisogno di stare lontano da Louisa e dalla vita che stava vivendo, poiché quel tarlo lo aveva tormentato fin da quella notte, perfino nel sonno e non aveva mai smesso di assillarlo per tutta la mattina.
Così, aveva preso l’auto e guidato per l’ora e mezza che occorreva per raggiungere la piccola cittadina di periferia in cui si era stabilita sua madre, sperando che mettere un po’ di distanza tra sé e Seattle lo avrebbe aiutato a sfuggirgli.
Si era sbagliato.
Qualcosa, nello sguardo di Marissa, aveva acuito quel senso di fastidio, quell’insoddisfazione di quando qualcosa sfugge al conscio eppure non svanisce dalla mente.
- Mi preoccupa l’idea che tu abbia un’auto tua.- esordì Marissa, comprendendo quel bisogno di essere distratto che Freddie tentava di celare.
Il ragazzo sorrise. – Non preoccuparti, mamma, sono molto prudente.- la rassicurò.
- La prudenza non è mai troppa, Freddie.-
Il ragazzo ascoltò per un altro quarto d’ora gli sproloqui della donna riguardo una guida sicura e, alla fine, decise che fosse giunto il momento di rientrare in città.
- Devo andare, mamma, prima che faccia buio.- le disse, certo che lei sarebbe stata d’accordo sul non guidare di sera.
Marissa, difatti, si alzò e annuì, accompagnandolo alla porta.
Lo abbracciò in modo soffocante e, mentre lo guardava allontanarsi, pensò alla ragazzina che  occupava ancora tanto prepotentemente il cuore di suo figlio da impedirgli di essere felice.
Forse a Freddie non era chiaro, forse non se n’era reso conto, forse non lo avrebbe mai capito, ma Marissa Benson non era una sciocca; fin dapprincipio aveva capito cosa quel demonio biondo significasse per lui.
Marissa aveva detestato profondamente Carly Shay perché era stata lei a “iniziare” Freddie alle cotte e a fargli aprire gli occhi sul mondo femminile cosa che, inesorabilmente, aveva condotto all’altra.
Marissa aveva potuto detestare Carly, perché aveva sempre saputo che l’amore di Freddie per lei sarebbe passato, si sarebbe esaurito, come una scintilla priva di conseguenze.
Marissa aveva potuto odiare Carly, perché non vi era pericolo di perdere l’affetto di Freddie nel farlo.
Marissa aveva temuto l’altra, la biondina, perché quello che legava Freddie a lei era qualcosa che non aveva previsto e che la confondeva.
Marissa aveva temuto l’altra, perché Freddie era cambiato per lei, eppure sembrava sempre lo stesso, come se quella lì conoscesse il suo bambino meglio perfino di se stesso.
Marissa aveva temuto l’altra, perché Freddie era dipendente dai loro litigi, dai piccoli momenti di tenerezza condivisi in segreto e perfino dai lividi che gli procurava.
Marissa non si era mai opposta all’altra, non l’aveva mai aggredita, nemmeno quando quella aveva tormentato il suo bambino con scherzi orribili, perché temeva di essere la miccia di quella scintilla tra loro.
Marissa aveva tentato di separarli, perché quel loro amore, troppo ossessivo e travolgente per due ragazzini, l’aveva spaventata al punto da temere per la salute mentale di suo figlio.
Marissa non aveva mai potuto odiare Samantha Puckett, perché sapeva che Freddie l’aveva amata e l’amava e non le avrebbe mai perdonato una cosa del genere.
Piccolo demonio biondo.
 
 
 
Freddie guidò annoiato fino a casa, desideroso solo di trovare un istante di pace e placare quell’irrequietezza.
Entrò in ascensore e raggiunse il pianerottolo, cercò le chiavi dell’appartamento e, inserita quella giusta nella toppa, qualcosa giunse alle sue orecchie.
Il volume di un televisore decisamente più alto del lecito, talmente alto che le voci degli attori di una qualche sit-com gli arrivavano nitide e perfettamente udibili.
La signora Mitchell, che abitava due appartamenti più avanti rispetto a lui, doveva di nuovo aver dimenticato di accendere l’apparecchio e, Freddie ne era certo, a momenti sarebbe arrivato Lewbert, gracchiando come una cornacchia e avrebbe trascorso l’ora successiva a battere sulla porta della donna, nel tentativo di farsi aprire e ordinarle di abbassare il volume.
Poiché la donna gli aveva fornito un mazzo di chiavi di riserva dato che, sovente, si recava dalla figlia fuori città per trascorrervi qualche settimana e c’era bisogno di qualcuno che desse da mangiare alla sua gatta, il ragazzo s’incamminò verso il suo appartamento con l’intenzione di avvertirla lui stesso.
Mentre infilava le chiavi nella serratura, tuttavia, qualcosa lo gelò.
“ … mi causi costantemente traumi fisici ed emotivi!”
La voce di un giovane, fintamente offesa e irritata, poi la risata di una ragazza, cristallina.
Freddie perse, per un istante, contatto con la realtà, mentre, nella sua mente, una miriade di immagini e voci si susseguivano, senza una logica, come i pezzi di uno specchio caduto al suolo e frantumatosi.
Ogni scheggia era il riflesso di un ricordo.
“Perché è una brava ragazza…”
I mille colori dei palloncini piovuti giù dal soffitto dello studio.
Anche se mi causi costantemente traumi fisici ed emotivi, credo che ci leghi un’amicizia profonda…”
Un sorriso sghembo, un bicchiere sollevato nella sua direzione, lei seduta su quel trono di timidezza.
“ Evidentemente non ti ho traumatizzato abbastanza...”
Lei, imbarazzata e dalle gote arrossate.
“Buon Compleanno, Sam.”
Urla, applausi, lei e il suo sguardo triste.
Una spinta violenta lo riscosse improvvisamente e la voce fastidiosa di Lewbert gli forò i timpani.
- Togliti, moccioso. Signora Mithceeeel!-
Freddie lo ignorò, camminando lentamente verso casa sua, completamente stravolto.
Entrò e, nel buio, si lasciò cadere sul divano, lo sguardo perso nel vuoto, un senso di nostalgia a stilettare il cuore.
Lo schermo del suo cellulare s’illuminò, il nome di Luisa comparve lampeggiante.
Non rispose.
La data in alto a destra dello schermo parve farsi beffe di lui: diciassette aprile.
E il tarlo ebbe finalmente volto e nome.
Cos’altro avrebbe potuto divertirsi tormentarlo a quel modo?  No, non cosa: chi?
Il suo compleanno.
Sam.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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