Dirty Little Secrets di StarFighter (/viewuser.php?uid=120959)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A chance to change my lonely world ***
Capitolo 2: *** Sliding Doors ***
Capitolo 3: *** Don't give up ***
Capitolo 4: *** When can I see you again? ***
Capitolo 5: *** Frozen Heart ***
Capitolo 6: *** Take me home ***
Capitolo 7: *** Awakenings ***
Capitolo 1 *** A chance to change my lonely world ***
CAPITOLO
1:
A chance to change my lonely world
New York al tramonto
era qualcosa che riusciva ancora a
sorprenderla, nonostante la Grande Mela fosse diventata la sua nuova
casa da
almeno quattro mesi: il Sole si stava tuffando dietro quel mare di
grattacieli
e cemento armato, facendo risplendere le infinite distese di vetro come
cristalli d’ambra. Ma nonostante
l’oscurità stesse progressivamente avanzando
dall’Oceano, le milioni di luci che pian piano stavano
prendendo vita, facevano
apparire le strade come in pieno giorno: una fiumana di gente si
affrettava da
un capo all’altro delle immense avenue; i tipici taxi gialli
sfrecciavano per
quanto possibile nel traffico, perennemente imbottigliato. Non
c’era posa per
la città e per i suoi abitanti, se n’era resa
conto dal primo momento: quando
era arrivata la prima volta alla Central Station era rimasta
disorientata dall’infinità
di persone che le passavano accanto senza degnarla di uno sguardo,
ognuna persa
nel proprio microuniverso personale. Era partita con il sogno di vivere
una
grande avventura nella città più famosa del
mondo, la città che non dorme mai,
quella stessa città che aveva da offrirle tutto e niente.
Aveva fantasticato
tante volte di voler andar via da casa, vivere la sua vita, libera
dalla
costante e asfissiante presenza dei suoi genitori, lontano
dall’aria
provinciale della piccola cittadina del Colorado dov’era nata
e quando
finalmente era stata accettata all’NYU, il suo sogno si era
realizzato: aveva
messo otto stati tra sé e il suo passato. Avrebbe avuto
quello che aveva sempre
desiderato, nuove amicizie, una laurea in una prestigiosa
università e, tempo
permettendo, ci sarebbe stato anche spazio per una grande storia
d’amore, come
quelle delle commedie romantiche che tanto la facevano piangere. New
York le
sembrava lo scenario ideale per la sua nuova vita. Ma dopo il primo
mese di
permanenza, aveva cominciato a sentire la mancanza di qualcuno con cui
parlare
o fare una passeggiata sulla quinta strada; insomma, era in una
megalopoli con
migliaia di divertimenti e party ad ogni angolo, ma non aveva nessuno
con cui
godere di tutto quello. Era davvero sola e in quattro mesi non aveva
fatto
grandi passi avanti, se si escludeva la comparsa della sua nuova
coinquilina
Merida, una scozzese psicopatica che dormiva con un arco appeso sul
letto, e la
ragazza della tavola calda dove andava a fare colazione ogni giorno da
almeno
due mesi, Ashley.
Ma non aveva mai
instaurato un vero rapporto di amicizia con
loro due, nonostante fosse la persona più socievole del
mondo: Ashley era una
ragazza un po’ più grande di lei così
dolce e carina, con cui scambiava
volentieri quattro chiacchiere; ma non rimaneva mai molto tempo in sua
compagnia, perché troppo pressata dalla proprietaria del
locale, che le urlava
dietro ordini su ordini. Merida invece era una causa persa in partenza:
i loro
dialoghi si limitavano ai semplici saluti. A volte la sua coinquilina
la
portava sull’orlo della sopportazione, molte volte avrebbe
voluto urlarle
contro che avrebbe dovuto tenere le sue cose nei posti a loro
designate, che
avrebbe dovuto lasciare la biancheria sporca nel cesto apposito, non in
giro
per l’appartamento, che rivolgerle la parola più
di una volta al giorno non l’avrebbe
uccisa, e cosa più importante, avrebbe dovuto dirle quando
un bene di prima
necessità finiva, non farglielo scoprire in ritardo, come
quando aveva trovato
il cartone del latte vuoto nel frigo. Avrebbe voluto ammazzarla. Ma non
le
aveva mai detto nulla di tutto ciò, troppo preoccupata per
la sua incolumità.
Durante una delle
tante telefonate settimanali, la madre le
aveva consigliato di stringere amicizia con i suoi colleghi di corso.
Le aveva
detto che ci avrebbe provato, ma i suoi tentativi erano miseramente
falliti:
nessuno sembrava essere interessato a fare amicizia in quel posto, le
loro vite
scorrevano come tante rette parallele incapaci di trovare un punto di
contatto.
Era una situazione scocciante e pesante, a cui non aveva ancora trovato
soluzione.
Anche ora che si
trovava schiacciata nella metro, tra
centinaia di persone, si sentiva sola. Mai come in quel momento avrebbe
avuto
bisogno di qualcuno con cui parlare, con cui sfogarsi: aveva appena
chiuso una
chiamata e la rabbia che le aveva lasciato addosso le parole della sua
interlocutrice, ancora la scuoteva. Stringeva forte la sbarra della
metro per
tenersi ferma, mentre lo sferragliare ritmico e metallico delle rotaie
la
calmavano pian piano: cosa si aspettava? Perché avrebbe
dovuto ricevere una
risposta differente rispetto ai mesi precedenti? Ancora si ostinava a
non
volerla vedere, ma perché?
-“Elsa,
dimmi solo perché?”- l’aveva supplicata.
-“Lasciami
in pace Anna...”- glielo aveva sussurrato quasi,
ma quelle parole l’avevano colpita come un pugno nello
stomaco.
Non
s’incontravano da tre anni e sentiva terribilmente la
mancanza
della sua unica sorella, l’unico legame con il passato che
avesse in quella
città. In tre anni aveva ricevuto solo sporadiche chiamate e
cartoline di New
York imbiancata dalla neve, per Natale. Non era mai tornata a casa per
le feste
o in estate, non aveva mai accennato ai suoi studi o alla sua
situazione finanziaria.
Anche lei frequentava la NYU, ma nella sede di Brooklyn: ogni tanto
aveva fatto
un salto per chiedere di lei e le avevano indicato il numero del suo
appartamento. Aveva bussato fino a farsi male alle mani e poi una
ragazza le
aveva aperto, ma non era Elsa, era una certa Megara, la sua
coinquilina, una
tipa altezzosa, che le aveva intimato infastidita di togliersi di
mezzo, che
Elsa non c’era e che non sarebbe tornata prima di sera.
-“Ritenta,
sarai più fortunata la prossima volta!”- le aveva
detto con voce piatta.
L’aveva
salutata sgarbatamente e poi aveva atteso all’esterno
dell’edificio il ritorno della sorella, ma quando il freddo
della notte ormai
le era entrato fin nelle ossa, di Elsa non s’era vista
nemmeno l’ombra.
Era tornata
sconfortata al suo piccolo appartamento e aveva
trovato Merida che giocava alla PS, con una fetta di pizza in bocca e i
piedi
poggiati sul tavolino da caffè davanti a lei. In un altro
momento le avrebbe
detto di mettersi composta, ma non aveva nemmeno la forza per
arrabbiarsi: si
era rinchiusa in camera sua a piangere e non ne era uscita se non il
mattino
successivo, con gli occhi gonfi e rossi.
Uscire dal vagone
della metro era sempre un’impresa e quella
sera non fece eccezioni: spintonò per uscire e si
guadagnò una sfilza di
occhiatacce e imprecazioni che si lasciò alle spalle, troppo
sconfitta nello
spirito per potervi prestare anche la minima attenzione.
Per fortuna
l’appartamento era a pochi passi dalla fermata
della metro e non dovette indugiare molto ancora tra le strade grigie
del
quartiere. Scivolò come un fantasma tra i corridoi della
struttura, non facendo
molto caso alle decine di studenti che chiacchieravano davanti alle
porte degli
appartamenti, lanciandole occhiate strane: doveva essere davvero uno
spettacolo
pietoso, pensò.
Aprì la
porta e la richiuse con un sospiro, sperando che
Merida non avesse fatto nulla per farla arrabbiare ulteriormente. Le
stanze
erano stranamente silenziose, di solito a quell’ora la
scozzese era sempre in
piena attività.
-“Sono
tornata.”- gridò con poco entusiasmo, al nulla.
Niente. Nessuna risposta o nessun rumore che rivelasse la presenza
della
ragazza. Si diresse in camera sua e gettò la borsa a terra;
si buttò a peso
morto sul letto e scalciò via le scarpe che le avevano
massacrato i piedi per l’intera
giornata. Sentì la porta d’ingresso sbattere e poi
dei rumori concitati
provenire dalla camera della coinquilina. La vide, o meglio, vide la
sua chioma
rossa fiammeggiante passare davanti alla sua porta semiaperta e poi
fermarsi e
tornare indietro.
Chiuse gli occhi,
stanca: non aveva voglia di scoprire cosa
stesse macchinando quella testa calda.
-“Ehi!
Tutto bene?”-
Sobbalzò
colta di sorpresa: da quando in qua, Merida le
chiedeva come stava?
-“S-sono
solo stanca, grazie.”- mugugnò.
-“Sicura?
Perché non hai una bella cera.”-
-“Senti,
non è serata, chiaro? Quindi se devi prenderti
gioco di qualcuno va altrove!”- le disse col tono di voce
più acido che avesse
mai usato in vita sua, inchiodandola con lo sguardo.
-“Qualcuno
è stato morso da una vipera, a quanto vedo. Sai
in casi come questi l’antidoto ideale è una buona
dose di svago. Hiccup da una
festa stasera, che ne dici, ti va di venire?”-
La fissò
per un minuto buono, senza parole: Merida le aveva
appena rivolto la parola di sua spontanea volontà, le aveva
detto una frase con
più di tre parole e l’aveva invitata ad una
festa…qualcosa non andava, forse era
morta in un incidente della metro oppure si era addormentata sul letto.
Si tirò
su a sedere e si schiarì la voce:
“Perché me lo stai chiedendo? Noi non siamo
amiche, giusto? Di solito a stento mi saluti e ora salta fuori
addirittura un invito!
Cosa hai rotto? Su, avanti puoi dirmelo, prometto di non
arrabbiarmi.”- si fece
una x sul cuore.
-“Non ho
rotto niente! Ma per chi mi hai presa, per una
poppante? Era solo per essere gentili; insomma so di non essermi
comportata al
meglio in questi mesi e volevo farmi perdonare: la scelta era tra un
invito ad
una festa o una cena preparata da me. Ma la cena sarebbe stata un
tantino
ambigua, non credi?”-
Continuava a non
risponderle.
-“Senti se
non ti va, puoi tranquillamente rimanere qui a
macerarti nella tua depressione. Non sono problemi miei, ma sappi che
sei vuoi
parlare sono qui, nella stanza accanto alla tua o schiacciata sul
divano a fare
zapping.”- Merida aveva fallito, ma almeno lo aveva fatto
tentando.
-“Perché?”-
quella parola le sfuggì di bocca, mentre la
scozzese le girava le spalle.
-“Perché,
cosa?”- le rispose scocciata.
-“Perché
proprio adesso, insomma perché aspettare tanto per
instaurare uno straccio di rapporto?”-
-“Semplicemente
perché sei la mia coinquilina e lo rimarrai
per almeno altri sette mesi; e perché per quanto tu possa
essere fastidiosa a
volte, non mi va di continuare ad ignorarti. Siamo entrambe sole e
lontane da
casa: morale della favola potremmo diventare amiche.”- Merida
si avviò nella
sua camera e la lasciò lì a riflettere su quello
che le aveva detto.
Quella pazza
l’aveva lasciata senza parole. Forse qualcosa
era cambiato quel giorno; forse il karma la stava premiando per averla
sopportata ogni giorno di quei quattro lunghi mesi; forse la vita le
stava
aprendo una nuova porta davanti, dopo che sua sorella
gliel’aveva bellamente
sbattuta in faccia. Forse, forse…se avesse accettato
l’invito, quella sera la
sua vita sarebbe cambiata! Forse era la svolta che avrebbe cambiato il
suo
solitario mondo fatto di libri, corse per arrivare in orario a lezione,
metro
piene di persone e sere spese a guardare i vecchi episodi di
‘una mamma per
amica’.
Saltò
giù dal letto e corse nella camera della rossa,
trovandola intenta a rovistare nei cassetti: “A che ora hai
detto che è questa
festa?”-
NDA:
piccolo esperimento senza pretese che mi è saltato in
mente una notte che non riuscivo a dormire. Ovviamente è un
AU/crossover, ce n’è
bisogno su questo fandom. Il piano iniziale era quello di inserire
tutte le
disney princess, ma mi sono resa conto che sarebbe un po’
difficile gestire così
tanti personaggi, ma vedrò di inserirne quante
più possibile. Anzi se avete
idee su una vostra principessa preferita, vi esorto a scrivermele,
così da
creare una AU in comunità…non sarebbe una cattiva
idea!XD Ashley, la ragazza
della tavola calda, è Cenerentola, giusto per chiarire.
La
trama comunque è ancora in pieno cambiamento quindi per
ora il rating è arancione, ma potrebbe diventare
rosso…non lo so.
Coooomunque, nn so
che dirvi se non grazie x essere passate…ci
si becca in giro! Amen.
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Capitolo 2 *** Sliding Doors ***
Capitolo
2: Sliding
doors
La
sera stava
calando sui grattacieli, lasciando intravedere nel cielo già
livido di nuvole,
le prime stelle, quelle più luminose, le uniche che non
impallidivano rispetto
alle luci di Times Square o a quelle dei cartelloni pubblicitari di
Broadway.
La temperatura era scesa fin quasi allo zero, costringendo i newyorkesi
a
coprirsi con abiti pesanti ed ingombranti: il meteo aveva preannunciato
neve
per la notte.
Anna
correva sulla
32ma strada, stringendosi nel suo cappotto rosso, in ritardo come al
solito
all’appuntamento del venerdì sera con i suoi nuovi
amici; era passato quasi un
mese e mezzo da quando Merida l’aveva trascinata alla festa
di Hiccup, e dopo
quella ne erano venute altre, quasi ogni sera, lasciandole ben poco
tempo per
commiserarsi o per pensare ad Elsa. Aveva conosciuto più
gente in quell’ultimo
mese che in tutto il suo soggiorno newyorkese, entrando in confidenza
con
persone a cui non avrebbe pensato mai di poter rivolgere la parola.
Primo su
tutti, lui, il ragazzo più bello su cui avesse mai posato
gli occhi; fisico
asciutto, sguardo magnetico, sorriso accattivante e un patrimonio
pecuniario da
far invidia a quello dei Tramp: Hans Westerguard. Uno dei tredici eredi
dell’immensa fortuna della compagnia navale più
importante della East Coast, la
Westerguard Oceanic Trade Company.
L’aveva
visto ad
un party esclusivissimo dell’élite
dell’Upper East Side, una di quelle feste
che ti fanno venir voglia di non voler più tornare nel mondo
reale, piena di
lustrini e champagne, a cui si erano imbucate lei e Merida; aveva
ballato con
lui, confondendosi perfettamente tra le ragazze vestite come modelle di
Victoria Secrets, con abiti così succinti da lasciar poco
all’immaginazione;
ricordava d’aver bevuto parecchio e che ad un certo punto,
con una penna
spuntata dal nulla, gli aveva scritto il suo nome e il suo numero sulla
mano.
Da quella sera non l’aveva più dimenticato, anche
perché, prima di andarsene
alla chetichella alle prime luci dell’alba, lui
l’aveva fermata e l’aveva
baciata.
Merida
l’aveva
dovuta trascinare via a forza, prima che lei avesse avuto la
possibilità di
gettarsi ai suoi piedi e dirgli che poteva fare di lei quello che
voleva. Nei
giorni successivi aveva pensato incessantemente a lui e aveva
cominciato a
fantasticare su una loro possibile storia, anche se lui non
l’aveva ancora
richiamata.
Diede
uno sguardo
all’orologio: era in ritardo di ben quarantacinque minuti.
Merida le avrebbe
fatto una strigliata di capo, che non avrebbe di certo dimenticato: la
scozzese
infatti non amava chi tardava agli appuntamenti.
Le
mancava ancora
più di mezzo isolato da percorrere e fu quasi tentata di
fermare un taxi ma,
osservando bene la coda infinita del traffico, valutò che
quella breve corsa le
sarebbe costata troppo. Allungò il passo, facendo lo slalom
tra la folla; in
lontananza riusciva già a vedere le luci al neon
dell’insegna del pub: Olaf’s
place.
Qualche
minuto
dopo arrivò a destinazione. Si fermò a riprendere
fiato davanti alla vetrina
del locale, sbirciando tra le decorazioni natalizie, cercando con lo
sguardo il
resto del gruppo: c’erano tutti, ma la chioma fiammeggiante
di Merida non si
vedeva da nessuna parte. Tirò un sospiro di sollievo e con
un sorriso
trionfante entrò nel bar, facendo tintinnare la campanella
sulla porta. Il
proprietario, Olaf, si voltò per accogliere il nuovo cliente
e quando la vide
si illuminò con un enorme sorriso: “Anna! Sempre
in ritardo come al solito,
eh?”-
Anna
gli lanciò un
bacio con la mano, mentre si sfilava la sciarpa: “Ma stasera
non sono l’ultima
arrivata almeno!”
Olaf
la guardò con
un’aria interrogativa con i suoi occhietti neri, che le
ricordavano tanto due
bottoni di ossidiana, inarcando un sopracciglio scuro. Poi
tornò a servire i
clienti al bancone, canticchiando allegramente il ritornello di Jingle
Bell.
Raggiunse
il
tavolo dove s’erano sistemati gli altri e prese posto,
togliendosi il cappotto
e i guanti: “Ciao a tutti, che si dice stasera?”-
disse mentre si accomodava.
-“Stavamo
scommettendo sul tuo ritardo. Ormai è una cosa
così certa che possiamo
tranquillamente puntarci qualcosina su.”- Flynn, il ragazzo
di Rapunzel, una
sua compagna di corso, non si smentiva mai, sempre sicuro e pieno di
sé, con la
battuta sempre pronta –“Anzi, a proposito, mi devi
cinque dollari, caro.”- si
sporse a recuperare la sua ricompensa dalle mani di uno sbuffante
Hiccup.
-“Ripongo
troppa fiducia
in te, Anna. Ho scommesso che avresti fatto meno di mezz’ora
di ritardo, ed
invece hai battuto il tuo precedente record, stavolta hai tardato quasi
di
un’ora.”- le disse sconfitto il ragazzo mingherlino.
-“Hai
ragione, ma
almeno stasera non sono l’ultima arrivata.”-
sentenziò- “Dov’è Merida, io
non
la vedo: per una volta è più in ritardo di me. Le
rinfaccerò tutte le scenate
che mi ha fatto, ah!”-
Rapunzel,
seduta
difronte a lei, rideva sommessamente, guardando alle sue spalle, mentre
gli
altri due, scoppiarono a ridere.
-“Che
c’è tanto da
ridere? Ho qualcosa in faccia?”- recuperò
velocemente uno specchietto dalla
borsa e si esaminò il viso in cerca di una macchia di
qualcosa o di un brufolo
pronto ad esplodere, ma niente, era in ordine come al solito. Una
macchia di
colore rosso fuoco, però, faceva capolino
nell’angolo destro dello specchio;
regolò l’angolatura e il riflesso di Merida le
sorrise dalle sue spalle:
“Dicevi, riguardo alle sfuriate?”
-“E
tu da dove
spunti?”- chiese pallida: dove cavolo si era nascosta! Ora le
aspettava un
discorso sull’educazione di almeno una ventina di minuti.
-“Ero
al bagno ad
incipriarmi il naso, ovviamente.”- ironizzò la
rossa, sedendosi al suo posto, e
solo in quel momento Anna notò la custodia
dell’arco e l’impermeabile verde
militare della coinquilina, appoggiato ad una sedia.
-“Stasera
Anna
sarà così gentile da pagare da bere a tutti.
Così la prossima volta eviterà di
farci aspettare.”- la rossa era davvero infastidita.
-“Aspetta,
che?
Non è giusto, prometto che non lo farò mai
più, giuro! È solo che il prof ci ha
trattenuti dopo la lezione e…”- cercò
di scusarsi.
-“Anna,
seguiamo
lo stesso corso, ricordi? Perché allora io sarei arrivata
prima di te?”- le
chiese retoricamente Rapunzel.
Anna
le rivolse
uno sguardo omicida: “Perché tu, fiorellino, hai
Flynn, che ti fa da chauffeur
con la sua bella Mustang antidiluviana.”- sospirò
–“ Io invece per arrivare qui
devo prendere la metro!”- si lamentò,
accasciandosi contro lo schienale della
sedia e incrociando le braccia al petto- “Ricordatemi,
perché continuiamo a
venire qui?”-
-“Perché
Olaf ha
la migliore birra d’importazione di tutta New
York.”- le disse Hiccup.
-“Ehi,
la mia auto
non è affatto antica, semmai è un pezzo da
collezione.”- le rispose Flynn.
-“Non
è comunque
una scusa accettabile, non ci vogliono quarantacinque minuti per
arrivare fin
qui. Saranno si e no tre isolati
dall’università.”- continuò
imperterrita
Rapunzel, sprezzante del pericolo che correva ad insistere contro Anna.
-“Punzie,
se fossi
in te mi guarderei le spalle d’ora in poi: non si sa mai,
potrebbe accaderti
qualcosa di spiacevole.”- ridacchio sadicamente Anna.
-“Ma
io ho Flynn
che mi protegge!”- si attaccò al braccio del
ragazzo –“Vero?”- gli chiese con
gli occhi dolci.
-“Ovviamente,
biondina.”-
disse, passandosi una mano tra i capelli e sorridendole in maniera
seducente.
-“Prima
o poi
capiterà che ti ritroverai da sola in un vicoletto buio e io
sarò lì, pronta ad
attendere nell’ombra la mia vendetta!”- concluse
ridendo sguaiatamente, imitando
la risata malvagia dei cattivi dei cartoni animati.
-“Si,
si, come no.
Se prima non ti uccido io.”- la interruppe Merida, e tutto il
tavolo fece
silenzio –“Ehi, stavo scherzando.”-
-“Con
la faccia
che ti ritrovi e con quell’arco a portata di mano, lo scherzo
è abbastanza
inquietante.”- ridacchiò nervosamente Hiccup,
grattandosi la nuca.
-“Orrendo*,
taci!”- lo zittì la rossa, con
un’occhiata di fuoco.
-“Scusa,
è solo
che…”- il povero ragazzo non concluse la frase che
un’altra ragazza dai capelli
rossi, raccolti in una coda di cavallo, si avvicinò al
tavolo, interrompendolo.
-“Salve
ragazzi,
cosa vi porto?”- chiese con un sorriso enorme.
-“Ciao
splendore!”- Flynn le fece l’occhiolino,
prendendole la mano- “Io sono Flynn e
tu sei?”-
-“Oh
scusate, io
sono Ariel. Oggi è il mio primo giorno qui.”-
disse accennando un saluto con la
mano.
-“Molto
piacere di
conoscerti Ariel. Io sono Anna e questi sono fiorellino, schizzata,
singhiozzo**
e bellimbusto, che si è già presentato. Tieni a
mente le nostre facce perché ci
vedrai spesso qui.”- fece indicando gli altri e sorridendole
calorosamente.
Ariel
le lanciò
uno sguardo preoccupato, non sapendo cosa rispondere. Rapunzel
notò il suo
imbarazzo crescente e accorse in suo aiuto: “Io sono Rapunzel
e loro sono
Merida e Hiccup.”- precisò.
-“Piacere
di
conoscervi.”- disse facendo vagare lo sguardo sui tre ragazzi.
-“Non
far caso
alla svampita qui, è pazza.”- sussurrò
Merida, coprendosi la bocca con una mano
come se le stesse rivelando un segreto.
-“Ehi!
Sono a
portata d’orecchio: ti ho sentita.”-
sbuffò Anna, lanciandole uno sguardo di
sfida.
-“Okay,
il teatro
delle meraviglie chiude i battenti. Non fatele perdere tempo, lei sta
lavorando.”- Hiccup le fermò, prima che potessero
ricominciare con le loro
infinite diatribe su chi fosse più pazza
dell’altra, rivolgendo un sorriso
incoraggiante ad Ariel- “Per me una pinta di Lysholmer Ice,
grazie.”
-“Una
Augustus
Weiss per me e una tequila sunrise, per raggio di Sole.”-
ordinò Flynn,
scorrendo con lo sguardo la lista delle birre d’importazione.
-“Oddio
non ci
avevo mai fatto caso, c’è una birra al
cioccolato!”- urlò tutto ad un tratto
Anna, con lo sguardo puntato sul menù.
-“Si,
la Brooklyn
Black Chocolate Stout. Segno?”- Ariel era pronta ad inserire
l’ordine nel
palmare.
-“Ovviamente
si.”-
confermò Anna, battendo una mano sul tavolo.
-“Per
me una Tennent’s
Super.”- disse piatta Merida.
-“Ma
dai, è la
birra più scontata di questo mondo. Puoi scegliere tra tutte
queste varietà e
opti per una scozzese?”- la punzecchiò Anna.
-“Stasera
ho
nostalgia di casa, problemi?”- la zittì acida.
-“Arrivo
subito con le vostre ordinazioni.”- Ariel si
dileguò, tirando un sospiro di sollievo: nel giro di qualche
minuto, quei
cinque le avevano mandato il cervello sottosopra.
Qualche
minuto
dopo Ariel tornò con il vassoio delle loro ordinazioni,
più due ciotoline con
noccioline e salatini.
-“Allora,
quel
tizio del party non ti ha ancora richiamata? Come si chiamava: Hans,
giusto?”-
-“Oh
ti prego,
Punzie! Perché gliel’hai chiesto? Ora
passerà l’intera serata a parlare di lui,
con quella voce idiota che usa quando è fusa.”- si
lamentò Merida.
-“Ehi
non è vero
che parlo sempre di lui. Lo nomino solo ogni tanto.”- Anna si
sentì punta sul
vivo: perché dovevano sempre prenderla in giro?
-“Se
per ogni
tanto intendi almeno una volta ogni ora, allora posso accettarlo; ti
ricordo
che due giorni fa ho sprecato un’ora e mezza della mia vita
ad ascoltare i tuoi
discorsi farneticanti sul vostro matrimonio e la casa che comprerete
giù a
Boca!”- la incalzò Merida- “Cavolo Anna,
non lo conosci nemmeno e già hai
stilato una lista di nomi per i vostri futuri figli!”-
Eugene
e Hiccup
per poco non si strozzarono per le risate- “Sei un caso
irrecuperabile.”-
-“Hiccup,
pensa
per te; ho una sola parola da dirti: Astrid.”- Anna lo
guardò sorridendo,
alzando e abbassando velocemente le sopracciglia.
Il
sorso di birra
che aveva appena fatto, gli andò di traverso e tossendo si
ripulì le labbra
dalla schiuma: “Andiamo! Dovevi per forza cacciar fuori
questa storia?”-
-“Allora
smettila
di ridere di me. A quanto pare, io non sono l’unica ad avere
un’ossessione.”-
-“Ma
devi
ammettere che questo è un colpo basso da parte
tua.”- le rinfacciò Eugene
–“Insomma tu ci hai parlato con questo tizio,
Hiccup invece si limita solo a
fissarla da lontano, come un pesce lesso.”- e
scoppiò a ridere, mentre Merida
gli batteva il cinque.
-“Piccoli
stolker
crescono.”- disse la rossa, lanciandogli una nocciolina in
faccia.
-“Ah-ah!
Molto
divertente. Ridete pure delle mie sciagure.”- rispose
infastidito con il viso
in fiamme.
Calò
il silenzio,
mentre il piccolo locale si riempiva di gente, che come loro si riuniva
per
bere: ormai tutti gli sgabelli e i tavoli erano occupati. Olaf, dietro
al
bancone, chiacchierava animatamente con due tipi enormi con due boccali
di
birra davanti, mentre Ariel si destreggiava tra la folla con il vassoio
delle
ordinazioni, impugnando il palmare ogni volta che sentiva tintinnare la
campanella della porta. L’aroma pungente del cibo che usciva
dalla cucina,
pizzicava i sensi, confondendosi con l’odore del fumo delle
sigarette, che
usciva in bianche volute dalla saletta dei fumatori, quando qualcuno
apriva la
porta. L’aria era piana del cozzare tra loro dei bicchieri,
delle risate
sguaiate di un gruppo di ragazze sedute vicino alla vetrina, che come
le amiche
di Sex and the City sorseggiavano cocktail colorati, adocchiando i
ragazzi al
bancone, e della voce acuta e simpatica di Olaf che metteva ogni
cliente a
proprio agio.
Anna
osservò i
suoi amici, persa nei propri pensieri: erano tutti diversi, ognuno con
le
proprie passioni e i propri problemi a cui far fronte, ma tirando le
somme
erano un gruppetto ben assortito. Eugene osservava la folla di
avventori, con
un braccio posato mollemente sullo schienale della sedia della
fidanzata;
Hiccup sospirava guardando il fondo del suo bicchiere; Merida osservava
seria
i riflessi ambrati del suo boccale e Rapunzel…cosa diavolo
stava facendo?
-“Fiorellino,
si
può sapere cosa stai facendo?”- Anna si sporse sul
tavolo di legno, scostando
una ciocca di lunghi capelli biondi, dal viso dell’amica,
intenta a
scarabocchiare qualcosa sul legno consunto.
-“Cosa?”-
Rapunzel
uscì dal suo mondo, raddrizzandosi- “Oh,
niente…ho pensato che questo è il nostro
tavolo e che c’era bisogno di qualcosa che lo differenziasse
dagli altri.”-
disse scostandosi i capelli dal volto, chiudendo un pennarello spuntato
dal
nulla.
-“Dove
l’hai preso
quello?”- le chiese Merida lasciando perdere per un momento
il suo boccale.
-“Io
giro sempre
con un pennarello in tasca o anche con una matita. Ma la matita non
avrebbe di
certo funzionato su tutti questi intagli.”- fece scorrere le
dita su tutte le
scritte lasciate nel tempo da quelli che avevano occupato il tavolo
prima di
loro.
-“Fa
vedere.”-
Eugene si sporse per guardare meglio- “Wow, biondina
è davvero bello.”- le
disse stringendole un braccio attorno alle spalle.
-“Grazie.”-
rispose arrossendo appena la ragazza, soffiando sul disegnino che
aveva
lasciato sul tavolo –“Guardate, siamo noi.
Cioè, le nostre caricature.”-
Anche
gli altri si
avvicinarono per vedere meglio. Anna sorrise eccitata alla vista del
suo alter
ego d’inchiostro, mentre Merida sbuffò
contrariata: “Te lo concedo, è carino.
Ma i miei capelli non sono così gonfi.”-
-“No,
hai ragione,
lo sono di più!”- rise Hiccup, spingendola,
attirandosi il suo sguardo
infastidito.
-“Guardate.
Nevica!”- Anna spostò la loro attenzione dal
tavolo alla strada oltre la
vetrina: la neve cadeva lieve sulle teste dei passanti, scendendo dal
cielo in
spirali candide, imbiancando i tetti delle macchine parcheggiate lungo
il
marciapiede.
-“Era
ora!”-
esclamò Olaf al di sopra del frastuono del locale,
cominciando a canticchiare
Let it snow, mentre metà delle persone lo seguiva in
quell’intermezzo canoro.
Anche Anna e Rapunzel si unirono al gruppo, mentre Hiccup tirava fuori
il suo
smartphone per immortalare il momento: “Un sorriso per i
posteri.”
Le
due ragazze si
abbracciarono, tirando con loro anche Merida, sfoderarono i loro
luminosi
sorrisi.
-“Credo
mi verrà
una paresi facciale. L’hai scattata questa foto?”-
si lamentò Anna pochi
secondi dopo, continuando a sorridere.
-“In
realtà è un
video, quindi potete continuare a cantare.”-
spiegò ridacchiando.
Merida
gli lanciò
la prima cosa a tiro: “Cosa aspettavi a dircelo?”
La
bionda e la
rossa ricominciarono a cantare, sgolandosi per superare con le loro
voci il
coro del resto dei clienti del pub.
-“Che
spettacolo
imbarazzante.”- esclamò confuso Eugene continuando
a guardare le due amiche
cantare a squarciagola, attirando l’obbiettivo
dell’ iphone di Hiccup su di sé.
-“Questo
va
direttamente alla regia di American Idol!”- disse il ragazzo,
stoppando la
registrazione, mentre la gente batteva le mani, applaudendo la propria
esibizione –“Dobbiamo assolutamente fare una serata
karaoke.”- concluse.
Rapunzel
e Anna si
guardarono e poi cominciarono a lanciare urletti estatici, come se
quella
parola avesse un certo potere su di loro.
-“Come
si chiama
quel sushibar dove fanno il karaoke il sabato sera?”- chiese
a Merida.
-“Il
Mushu
Palace?”-
-“Già,
quello del
tuo amico Shang.”- intervenne Eugene- “Che tipo
strano.”- disse scuotendo il
capo.
-“Dobbiamo
tornarci, c’era una cameriera davvero carina, come si
chiamava?”- chiese
Hiccup.
-“Mu…”-cominciò
Merida.
-“Elsa!”-
la
interruppe tutto ad un tratto Anna, con gli occhi spalancati e lo
sguardo
rivolto fuori dal locale.
-“Ma
no, si chiama
Mulan.”- la corresse la rossa, non facendo caso al suo
comportamento, abituata
alle sue pazzie.
-“No,
no. Non
capisci: lì c’era Elsa!”-
esclamò esasperata, scuotendo il capo.
-“Anna
calmati, ma che…”- ma non concluse la frase che la
sua
coinquilina si era già fatta strada nel pub, spingendo per
uscire in strada.
Il
freddo della
sera le entrò nelle ossa non appena mise piede fuori dalla
porta, in mezzo alla
strada innevata. La neve continuava a cadere instancabile, andandosi a
posare
sui suoi capelli, mentre correva tra la gente, incurante del freddo:
aveva
lasciato il cappotto appeso alla sedia, ma non se ne era preoccupata.
Non aveva
esitato nemmeno per un istante e si era lanciata
all’inseguimento della
sorella, o almeno di quella che sembrava Elsa: vedeva i suoi capelli
biondi, di
quel colore quasi platino che avrebbe riconosciuto tra mille, raccolti
in una
lunga treccia che le oscillava alle spalle.
-“Elsa!”-
la
chiamò, allungando il collo per vederla meglio.
Il
moto perpetuo
dei capelli della bionda si fermò, quando la ragazza si
bloccò di colpo,
girandosi piano.
Anna
la vide, vide
i suoi occhi chiari cercare qualcuno tra la folla e poi spalancarsi per
la
sorpresa quando si posarono su di lei. Poi prima che la rossa potesse
anche
solo farle un cenno con la mano, Elsa si voltò di scatto e
cominciò a correre,
cercando di confondersi con la calca di persone che stava scendendo le
scale
della metropolitana.
Anna
spintonò per
passare e quasi cadde, inciampando sulle scale.
-“Elsa!
Fermati!”-
chiamò di nuovo, ma l’altra continuava
imperterrita a non voltarsi e a
procedere nella sua fuga.
La
rossa si bloccò
davanti alle sbarre delle macchinette dei biglietti e si maledisse
quando,
frugandosi nelle tasche dei jeans non trovò nemmeno un
centesimo. Alzò lo
sguardo per cercare ancora Elsa, e la vide, ferma a pochi centimetri
dalla
linea gialla del binario.
Anna
scavalcò la
sbarra, incurante delle proteste della gente dietro di lei e
cercò di
raggiungerla, ma un secondo prima che riuscisse a prenderla, la bionda
sgusciò
nel vagone della metro e le porte scorrevoli si richiusero dietro di
lei.
Elsa
la guardò per
alcuni secondi con uno sguardo dispiaciuto, mentre il mezzo partiva
lento, poi
abbassò gli occhi triste.
Anna
rimase ferma
sul bordo del binario, dove un attimo prima sostava la sorella, e si
lasciò
sfuggire un verso disperato, mentre lacrime di frustrazione
cominciavano a
caderle dagli occhi. La metro era sparita nel tunnel buio e con lei la
speranza
di parlare con Elsa. Inspirò profondamente, per cercare di
calmarsi, ma l’aria
malsana della ferrovia sotterrane di New York fece solo peggio, acuendo
il suo
stato di malessere: il fetore di urina e di gomma bruciata, le ardeva
in gola,
lasciandola senza fiato.
Si
asciugò gli
occhi con la manica del suo maglione, con un gesto furioso, riducendo
il suo
make-up ad un ammasso informe di matita e mascara. Si
incamminò a testa bassa
verso l’uscita, non prestando molta attenzione a dove andava,
resa parzialmente
cieca dalle lacrime che continuavano imperterrite a riempirle gli occhi.
Per
quale ragione
Elsa l’aveva evitata quasi come fosse la peste bubbonica,
fuggendo via, come se
non volesse vederla? Perché il suo sguardo era
così triste? Doveva esserci
qualcosa che non andava, altrimenti il suo comportamento non si
spiegava!
Trascinata
dal
flusso inesauribile dei suoi pensieri non si rese conto di quello che
aveva
davanti e andò a sbattere contro quella che a prima vista le
sembrò una
colonna, cadendo sul suo didietro.
-“Ouch!”-
si
lamentò.
Qualcuno
le urlò
dietro qualcosa di incomprensibile in un tono di voce basso e
minaccioso. Ma i
suoi occhi si spalancarono quando si rese conto che la colonna era in
realtà
una persone e le parole incomprensibili erano una lunga fila di
imprecazioni.
Risalì la figura dello sconosciuto, su, su, sempre
più su…ma quanto cavolo era
alto quel tizio?
Si
alzò, massaggiandosi
la parte dolente: “Sei sempre così
fine?”- gli disse di rimando, mentre lo
sconosciuto si passava una mano sul cappotto sporco e con
l’altra manteneva un
bicchiere di caffè.
-“Dove
diavolo hai
la testa, eh?”- le urlò contro, puntando i suoi
occhi scuri su di lei,
spostandosi i capelli biondi dalla fronte.
Anna
fece un passo
indietro intimorita, poi cercò di riprendersi:
“Non c’è bisogno di essere
così
alterati. Scusa, non volevo ero sovrappensiero.”-
Il
ragazzo grugnì
in disappunto, gettando il bicchiere mezzo vuoto in un cestino
lì vicino.
-“Senti,
ti pago
la lavanderia. Ecco tieni.”- cercò di nuovo nelle
tasche, ma ovviamente non
trovò nulla e con un sorrisino imbarazzato gli disse:
“Ehm, al momento non ho
contante, ma se mi lasci provare posso…”-
cominciò a strofinargli la manica del
suo maglione sulla macchia di caffè, cercando di farla
sparire, peggiorando
solo la situazione.
Alzò
lo sguardo
sul ragazzo di fronte a lei, temendo una sfuriata: quel tizio era
grande e
grosso, alto almeno due metri.
-“Lascia
perdere.”- le tirò via le mani e sbuffò
contrariato, mentre si allontanava-
“Imbranata!”- esclamò a mezza voce, ma
lei lo sentì.
-“Idiota!”-
gli
rispose arrabbiata. Lui si voltò di nuovo nella sua
direzione e la fissò per un
secondo con uno sguardo strano. Anna temette il peggio e se la
svignò tra la
folla, su per la scala per tornare in superficie.
Una
volta fuori
tirò un sospiro di sollievo
-“C’è mancato poco.”- disse
piegandosi in due a
riprendere fiato.
La
neve aveva
smesso di cadere ed ora la città sembrava avvolta da una
fredda coperta di
quiete, nonostante l’andirivieni incessante della gente che
affollava le
strade. Si allontanò lungo il marciapiede, stringendosi le
braccia al petto per
riscaldarsi, ma una voce la chiamò.
-“Anna?”-
Si
voltò a fissare
chi l’aveva fermata e per un secondo si scordò di
respirare.
*Orrendo,
riferito
al fatto che Hiccup nel suo universo di cognome fa Horrendus.
**
Hiccup in
inglese vuol dire singhiozzo.
NdA:
scusate
l’enorme ritardo, ma davvero non sapevo cosa scrivere in
questo secondo
capitolo e mi sono resa tristemente conto che gestire più di
una long per volta
è molto difficile e stressante. Spero di non avervi
annoiate; anche se questo
capitolo è molto statico e non dice niente di che, introduce
nuovi personaggi e
situazioni. Con i prossimi aggiornamenti vedrò di inserire
più indizi sul
comportamento di Elsa.
Comunque
grazie
per aver letto e grazie ad Amberly_1, bioshock1988 e robylovatic98 per
aver
inserito la ff tra le loro preferite e a chiarotti2000, giascali,
ily95,
LysL_97, mintheart e Poseidonson97 per averla annoverata tra le loro
seguite.
Al
prossimo
aggiornamento XD
Mi raccomando:
R&R!!
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Capitolo 3 *** Don't give up ***
CAPITOLO 3:
Don’t give up
La metro era
piena di persone, come ogni sera,
come ogni singolo giorno da quando era arrivata in quella maledetta
città. Ma
quella sera c’era qualcosa di diverso, qualcosa che la
disturbava e le faceva
venir voglia di scappare, di diventare invisibile: era come se gli
occhi di
tutta quella gente fossero puntati su di lei, come se le avessero
voluto
scavare dentro, come se conoscessero il suo segreto e la biasimassero
per
quello. Si strinse di più nel suo cappotto bianco, candido e
puro rispetto alla
sua espressione scura e ai suoi pensieri tetri, cercando di
nascondersi,
alzando il colletto e affondando il naso nella sciarpa che aveva
stretta
attorno al collo. Le mancava l’aria e avrebbe voluto urlare.
Non era da lei
dare di matto, di solito era sempre pacata e silenziosa, ma tutti
quegli
sguardi puntati addosso la stavano facendo impazzire: forse stava
davvero
impazzendo, forse nessuno la stava guardando ed era la sua testa che le
faceva
vedere occhi accusatori ad ogni angolo.
Ancora una
fermata e poi sarebbe scesa, sarebbe
uscita da quella trappola infernale e sarebbe tornata in strada. Odiava
prendere la metropolitana, perché non sopportava tutta
quella gente che la
spingeva, la urtava e le si strusciava addosso senza chiedere nemmeno
scusa. Ma
quella sera aveva fatto un’eccezione: aveva dovuto
allontanarsi il più
velocemente possibile da Anna. Per un attimo aveva temuto che quelle
porte
scorrevoli non si sarebbero chiuse in tempo e che la sorella
l’avrebbe
raggiunta; ma subito dopo, per un istante infinito, aveva sperato il
contrario:
aveva desiderato che le porte rimanessero aperte per permetterle di
toccarla,
parlarle anche solo per un secondo.
L’aveva
fissata a lungo, con uno sguardo
affranto e il cuore che le si spezzava nel petto, finché la
sua figura si era
confusa con quella delle altre centinaia di persone in attesa sul
binario,
sperando che Anna riuscisse a capire che non c’era posto per
lei, nella sua
vita.
‘Mi
dispiace, Anna.’- si ritrovò a pensare,
mentre guardava due ragazze che sorridevano e chiacchieravano
amabilmente tra
loro- ‘Proprio come noi, prima di tutto questo.’
-“Prospect
Park”- la voce metallica
nell’interfono del vagone la fece sobbalzare, era arrivata.
Salì
in superfice, anelando l’aria fredda della
sera, con il vento gelido che le sferzava il viso; se da una parte
quella
sensazione di lame ghiacciate sulla pelle delicata la tormentava,
dall’altra la
faceva sentire viva. Ormai erano pochi i momenti in cui riusciva a
sentirsi
così: la maggior parte del tempo si trascinava nella
quotidianità come uno
zombie, una non vivente.
Alla sua destra
gli alberi di Prospect Park si
muovevano seguendo il ritmo del vento: era come se quei rami, spogli e
rinsecchiti dal rigido inverno newyorchese, ballassero una danza
macabra,
beffandosi del suo stato d’animo, della sua condizione di non
vita.
Camminò
su per i marciapiedi grigi e
semideserti, per un altro po’, nonostante il suo appartamento
fosse vicino alla
fermata della metro dov’era scesa. Non se la sentiva di
rinchiudersi in quelle
quattro mura che puzzavano di sottomissione. Vagò per almeno
un’ora nel
quartiere, senza meta, poi decise di prendere la strada di casa; i
negozi del
vicinato erano tutti chiusi, ad eccezione del minimarket aperto
ventiquattrore
al giorno proprio di fronte agli appartamenti degli studenti, e le
strade erano
stranamente troppo tranquille; guardò l’orologio:
erano quasi le undici.
Prese
l’ascensore e fissò il suo riflesso allo
specchio: quella non era lei. Gli occhi che la scrutavano erano quelli
di una
sconosciuta debole, meschina ed egoista. Dove era andata a finire la
Elsa dei
bei tempi, la ragazza più corteggiata dei corsi di legge,
quella con la media
più alta, quella che con un solo sguardo faceva capitolare
tutti gli uomini nei
paraggi?
‘È
morta!’- pensò con amarezza.
Uscì
sul pianerottolo e si avvicinò alla sua
porta: sopra c’era appesa una lavagnetta con su scritto
‘Elsa & Meg, Rules!’.
Megara aveva tanto insistito per metterla, per conservare un minimo di
normale
apparenza. Fuori da quella stanza era tutto un ‘sorridi-
saluta- sii cordiale-
ridi alle battute’, poi quando quella porta si chiudeva non
c’era altro che
silenzio e frasi mezze dette; lì dentro non c’era
posto per la felicità, anche
se c’era stato un tempo in cui quell’appartamento
brulicava di gente e di feste
ogni sera.
Inserì
la chiave nelle toppa e quando la porta
si aprì con un sonoro click, la accolse
l’oscurità. L’unico angolo di luce era
lo spicchio che entrava dalla porta, dischiusa sul corridoio illuminato.
-“Meg?”-
chiamò preoccupata.
-“Dove
sei stata?”- la voce di Meg la colse di
sorpresa, da un luogo imprecisato in quel buio.
Richiuse la
porta sospirando: “In giro.”-
rispose seccamente. Brancolò nel buio fino
all’interruttore della luce e l’accese.
Le ci vollero un paio di secondi per abituarsi alla
luminosità della lampadina
che riverberava sulle pareti bianche.
Meg era seduta
sul divano, con le gambe tirate
al petto e il mento posato sulle ginocchia, con il viso girato verso la
finestra che dava sulla strada.
Lasciò
la borsa e il cappotto su una sedia, poi
si avviò nella piccola cucina alla sua sinistra:
aprì uno dei mobili e ne tirò
fuori lo scatolo dei cereali al cioccolato, che tanto le piacevano:
solo quello
in quel momento poteva tirarle un po’ su il morale. Poi prese
una ciotola e ci
versò il latte che aveva recuperato nel frigo; infine ci
tuffò dentro i cereali
e prendendo un cucchiaio si avviò verso la sua camera. Non
aveva voglia di
sorbirsi il silenzio persistente di Meg.
Proprio prima di
chiudersi la porta alle spalle
però la coinquilina la fermò: “Devi
dire a tua sorella di lasciarti in pace,
non vuoi che si faccia male, vero?”
Elsa rimase
congelata sulla soglia della sua
stanza, immobile, con un boccone di cereali fermo in bocca.
Inghiottì, e fece
un respiro profondo, cercando di calmarsi.
-“Come…?”-
fece per chiedere, ma Meg l’anticipò.
-“Mi
ha chiamata Herc. Ha detto che una rossa
ti seguiva: ho fatto due più due e ho pensato che fosse tua
sorella. È un po’
che non si fa vedere da queste parti. Pensavo avesse rinunciato, ma a
quanto
vedo è tornata alla carica.”- disse con tono
ironico.
-“Perché
Herc mi seguiva? Non ho bisogno di
essere pedinata.”- le rispose seccamente.
-“Gliel’ho
chiesto io.”- la interruppe
bruscamente-“ Non voglio che ti capiti qualcosa di
brutto.”- aggiunse poi con
un tono di voce addolcito.
Elsa non
rispose. Sapeva che dietro quelle
parole brusche c’era nascosta la frase ‘ti voglio
bene’, e anche lei gliene
voleva, ma non aveva la forza per risponderle. Tornò
indietro e si accomodò sul
divano, con la ciotola dei cereali ancora stretta tra le mani, accanto
a lei,
che non accennava a cambiare posizione.
-“Come
stai?”- le chiese Meg qualche secondo
dopo in un sussurro. Sapeva che ogni volta che vedeva o sentiva Anna
poi il suo
umore peggiorava e l’aveva vista piangere tante volte per
quel motivo.
-“Non
bene. Insomma dovrei essere felice, sono
riuscita ad evitarla per l’ennesima volta; ma non ci
riesco…non ce la faccio
più a nascondermi dietro la segreteria telefonica o dietro
stupide cartoline di
Natale. Io ho bisogno della mia famiglia, ho bisogno di
Anna.”- si lamentò con
la voce tremante, mentre posava la ciotola sul tavolino da
caffè davanti a lei.
-“Elsa,
dai lo sai che…”- cominciò la ragazza
accanto a lei cercando di consolarla.
-“No
Meg, basta! Sono stufa di questa storia,
va avanti da due anni! Capisci? Due! Quando finirà? Doveva
essere una cosa
temporanea, ed invece ci siamo dentro fino al collo e non possiamo
uscirne.”-
tremava, non riusciva a controllarsi, ed aveva anche alzato la voce
–“Io mollo!”-
concluse.
-“Non
dire idiozie! Non puoi mollare ora, siamo
ad un passo dalla fine.”- Meg cercava di farla ragionare.
-“Eravamo
ad un passo dalla fine anche un anno
fa ed invece siamo ancora bloccate in questa…”-
-“Merda.
Lo so. Ma l’ultima che aveva deciso di
mollare ora è stesa supina in un letto d’ospedale.
Aurora è viva per miracolo,
eppure sono le macchine a tenerla in vita e la cosa più
straziante non è tanto
vedere lei immobile, ma Phil al suo capezzale che si deprime giorno
dopo giorni
e che spera che prima o poi lei si svegli dal coma. Come vedi credere
nelle
favole non l’ha aiutata: il bacio del vero amore non la
salverà.”- concluse sprezzante,
voltandosi verso di lei. Un enorme livido si stava formando sul suo
zigomo
sinistro, proprio sotto l’occhio.
Elsa
sussultò: “Meg…chi te l’ha
fatto?”- le
disse non riuscendo a staccare lo sguardo da quella macchia violacea.
-“Oh,
niente. Ho sbattuto contro lo spigolo
della porta.”- disse cercando di sorridere.
-“Meg,
non sono stupida. Chi è stato?”- la
incalzò.
La ragazza
tirò un respiro profondo,
aggiustandosi i capelli scuri che le erano scivolati davanti al volto
come una
cortina: “Mr Ades.”- sputò fuori quel
nome in tono velenoso, con tutto l’odio
che provava per quell’uomo.
Elsa non le
chiese il motivo di tale gesto,
aspettando che fosse Meg a continuare il racconto: “Big Mama
lo ha chiamato
dicendogli che una ragazza ti aveva seguita, urlando a squarciagola il
tuo nome
per strada. Lui è venuto qui, voleva sapere chi fosse, ma io
gli ho detto che
non lo sapevo e lui ha continuato a richiedermelo dicendomi che mi
avrebbe
tirato a forza un nome dalle labbra. Poi io l’ho mandato al
diavolo e lui mi ha
colpita.”- sospirò, voltandosi
dall’altra parte per non lasciarle vedere le
lacrime di rabbia che le stavano riempiendo gli occhi.
Elsa rimase
spiazzata: Meg aveva protetto la
sorella, aveva taciuto il suo nome, salvandola dalle conseguenze. E ora
stava
soffrendo per colpa sua, perché non era stata capace di
tenere Anna lontana da
lei.
Le si
avvicinò stringendola in un abbraccio: “Meg,
mi dispiace tanto. Grazie, ma perché l’hai
fatto?”-
La bruna
tirò su con il naso e si ripulì dal
mascara sbavato, allontanandosi dalla sua stretta:
“Perché so quanto tieni a
tua sorella e perché conosco il dolore che si prova quando
un tuo caro ti viene
strappato via con la forza. È un dolore che non augurerei
nemmeno al peggiore
dei miei nemici.”- Elsa le accarezzò una guancia,
rigata da lacrime nere.
Conosceva il passato di Meg e ammirava la sua forza di
volontà, si era tirata
su da sola, andando contro tutto e tutti, diventando una delle persone
più
forti che conoscesse.
-“Come
faceva Big Mama a sapere di Anna?”-
-“Ti
ha sguinzagliato dietro i gemelli pel di
carota. Anzi mi chiedo come non te ne sia accorta, sono così
ingombranti e i
loro capelli sono catarifrangenti, non passano di certo
inosservati.”- le
rivolse un mezzo sorriso, cercando di smorzare l’atmosfera
pesante che si era
venuta a creare tra loro.
-“Credo
che dopo questa storia mi toccherà
andare in analisi.”- sbuffò Elsa, recuperando i
cereali sul tavolino e
mettendosene una cucchiaiata in bocca. Il significato allegorico di
quella
frase era ‘d’accordo, hai vinto tu,
cercherò di farcela fino alla fine’.
Meg la
osservò masticare rumorosamente, con la bocca
piena, come uno scoiattolo con le guance piene di ghiande:
“Insieme ce la
faremo, vedrai.”-
Elsa le sorrise
riconoscente: anche quella sera
Meg aveva risollevato il suo umore nero.
NdA: Buonsalve
gente! Allora come promesso ecco
qualcosa su Elsa, non so se si comincia a capire qualcosa, ma non
disperate saprete
tutto nei prossimi capitoli. La scrittura di questo capitolo
è stata davvero
veloce come la luce, c’ho messo solo due ore(cosa strana per
me che di solito impiego
giorni per scriver quattro righe!), in primis perché ce lo
avevo scritto
praticamente in testa e in secundis perché dovrei studiare
invece di perdere
tempo a scrivere ff e quindi ottimizzo i tempiXD Quindi se trovate errori fatemelo sapere, mi raccomando.
Mmm non saprei
cosa dirvi più, perché sono
davvero a corto di parole ultimamente XD Comunque spero che questo
capitolo vi
sia piaciuto e se vi va fatemi sapere cosa ne pensate, sono aperta a
qualsiasi
critica; vi dico solo che se qualcuno, in questo momento, mi dicesse
cancellala
perché è pessima, io lo ascolterei! Quindi datemi
un buon motivo per non farlo!
;)
*Rate&Review*
A presto!
|
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Capitolo 4 *** When can I see you again? ***
Capitolo
4: When can I see you again?
-“Anna?”-
la chiamò una voce alle sue spalle.
Si
voltò per scoprire a chi appartenesse e per
un momento si dimenticò di respirare.
Era LUI, in
tutto il suo splendore, con i
capelli rossicci perfettamente pettinati, le basette curate (cavolo,
non
conosceva nessuno che ce le avesse!), gli occhi verdi che la scrutavano
luminosi, e un sorriso che avrebbe fatto scogliere la donna
più frigida del
mondo. Era lui, il solo ed unico, inimitabile: Hans Westerguard.
-“Hans?”-
chiese incerta.
-“Ehi,
ti ricordi di me!”- esclamò felice,
avvicinandosi a lei.
Come
dimenticarti, pensò:
“Mmm, certo.”- gli sorrise,
lasciando cadere le braccia lungo i fianchi e riprendendo a respirare.
-“Sai,
pensavo di aver preso una svista, ma
quando ti sei voltata ho visto questa e”- le disse
sfiorandole una ciocca di
capelli più chiara delle altre -“ho capito di aver
davanti la persona che
cercavo.”
Il fiato le si
smorzò in gola e il cuore
cominciò a galopparle furioso nel petto, quando lui le
rimise la ciocca dietro
l’orecchio. Il suo sguardo si oscurò quando
scrutò attentamente il viso di
Anna: “Qualcosa non va? Sembri stravolta.”- le
chiese sinceramente preoccupato,
passandole l’indice sotto il mento.
Anna cadde dalle
nuvole, sbattendo più volte le
palpebre e facendo un passo indietro, si sottrasse malvolentieri al suo
tocco:
“N-no. Va tutto bene. Ho solo...”- non voleva
raccontargli dei suoi problemi,
non voleva che si facesse un’idea sbagliata di lei
–“niente.”- concluse,
sforzandosi di sorridere.
-“Scusa,
non volevo intromettermi nelle tue
faccende personali.”- le disse rivolgendole uno sguardo
dispiaciuto.
-“No,
ma figurati è solo che…non mi va di
parlarne.”- rispose sfregandosi le mani sulle braccia,
intirizzite per il
freddo che passava tra i buchetti del suo maglione.
-“Dio,
ma tu stai congelando. Tieni questo.”-
si tolse il cappotto e glielo posò sulle spalle. Anna
inspirò il profumo di
colonia costosa, che impregnava la stoffa chiara, chiudendo gli occhi
per un
momento –“Va meglio?”- le chiese,
riscuotendola dalle sue fantasie.
-“Si,
grazie. Ma ora quello che congelerà sei
tu.”- constatò, abbozzando un sorrisino divertito.
-“Non
preoccuparti. Il freddo non mi ha mai
infastidito.”- le disse, accompagnando le sue parole con un
gesto della mano,
per sottolineare la sua indifferenza per l’aria gelida che
soffiava sopra New
York- “Ma tu non saresti dovuta uscire fuori senza nulla
addosso. Saremo almeno
a due gradi sopra lo zero!”-
-“Beh,
in realtà hai ragione, ma è una lunga
storia.”- Anna si perse per un momento nel suo sorriso caldo
e rassicurante,
poi si accorse di essersi imbambolata a fissarlo e si
schiarì la voce: “Allora…
hai detto che mi stavi cercando?”- cambiò discorso.
-“Già.
Ma anche questa è una lunga storia, ti andrebbe
qualcosa di caldo? Una cioccolata, magari? Così posso
raccontartela mentre
stiamo comodamente seduti ed entrambi al coperto.”- le
propose su due piedi.
-“Ehm,
si perché no.”- accettò subito,
però poi
si bloccò di botto –“In
realtà, dovrei recuperare il mio cappotto e scusarmi
per il mio comportamento con dei miei amici.”- disse,
dispiaciuta che
quell’incontro fortunato fosse avvenuto in un momento
così poco appropriato.
-“Beh,
potrei accompagnarti, se ti va e poi
potremmo comunque andare da qualche parte.”-
-“D’accordo.
Mi sembra un’ottima idea.”- gli
sorrise davvero riconoscente per la sua cortesia- “Vieni,
è da questa parte.”-
Anna lo condusse
verso il pub di Olaf,
ripercorrendo al contrario la strada che aveva fatto per raggiungere
Elsa. Per
tutto il tragitto, commentarono il tempo, trovandosi
d’accordo sul fatto che
quella nevicata avesse aggiunto un’aria ulteriormente
natalizia alla città, già
bardata a festa con milioni di lucine e ghirlande. Anna si
ritrovò a pensare
che, nonostante Hans avesse i natali e l’apparenza di un
ricco figlio di papà,
interessato solo al proprio tornaconto, parlare con lui le riusciva
proprio
facile: l’aveva messa a proprio agio fin da subito,
dimostrando una galanteria
e una cordialità che era difficile ritrovare nei ragazzi di
quei tempi.
Sembrava fosse uscito da uno di quei film in costume in bianco e nero,
che
tanto piacevano alla madre.
Un
perfetto principe azzurro, pensò
mentre camminava al suo
fianco e cercava di non fissarlo troppo.
Una
volta davanti alla vetrina, si tolse il cappotto e glielo porse:
“Tieni, faccio
in un attimo.”- disse mentre spariva nella calca del locale.
Si fece strada a
forza di gomitate, cercando di
raggiungere il tavolo dei suoi amici: erano ancora tutti lì.
-“Anna!
Ma che ti è preso?”- le chiese
Rapunzel, non appena uscì trionfante dalla folla e si
avvicinò a loro. Gli
altri si voltarono a guardarla, interrogativi, aspettando una risposta.
Prese fiato:
“Niente, poi vi dirò tutto.
Scusate se sono scappata via così.”- disse mentre
recuperava il suo cappotto e
sfilava una banconota da dieci dal portafogli.
-“Dove
stai andando?”- fece Merida, fermandola
per un braccio.
-“Già.
Almeno questo ve lo posso dire:
indovinate chi ho incontrato per strada?”- disse mentre
recuperava il suo
boccale, bevendo un sorso al volo. La corsa le aveva seccato la gola e
l’incontro con l’uomo dei suoi sogni non aveva
fatto di meno.
-“Babbo
Natale?”- chiese Flynn, alzando un
sopracciglio.
-“Il
fantasma del Natale passato?”- fece eco
Merida, ridacchiando.
-“Lady
Gaga?”- esclamò Hiccup, speranzoso.
Quattro paia di occhi si voltarono verso di lui, osservandolo con uno
sguardo
perplesso –“Che ho detto?”- fece lui,
indispettito dal loro comportamento.
Merida lo colpì dietro la testa, facendolo sbandare in
avanti: “C’è che sei un
idiota! Lady Gaga? Ma ci pensi, prima di dirle le cose?”- la
scozzese sospirò,
scuotendo la testa.
-“Hans?”-
concluse Rapunzel, piantando gli
occhi in quelli di Anna.
La rossa
squittì esaltata, saltellando sul
posto e annuendo con forza: “Si!”-
esclamò al settimo cielo –“È
qua fuori che
mi aspetta, andiamo a prendere qualcosa insieme.”- concluse
infilandosi il
cappotto e la sciarpa.
-“Tu,
fortunella, voglio tutti i particolari
quando torni. Se sto dormendo, ti autorizzo a svegliarmi.”-
le disse Merida.
-“D’accordo.
Sarà fatto.”- acconsentì
sorridendo e facendo il saluto militare.
-“Vacci
piano, tesorino. Non spomparlo già al
primo appuntamento!”- le raccomandò Flynn.
Anna rise
imbarazzata, con il volto in fiamme:
“Ehi, per chi mi hai presa? E poi questo non è un
appuntamento.”-
Flynn
ignorò le sue proteste, scacciandole con
un gesto della mano, come si fa con una mosca fastidiosa:
“Si, si.”
-“Scappo,
non voglio farlo aspettare troppo.
Potrebbe cambiare idea e mollarmi qui.”- si voltò
per andarsene e mentre era di
nuovo sommersa dalla folla, sentì le due amiche urlare:
“Vogliamo un resoconto
dettagliato!”
Ridacchiò
fra sé e prima di uscire si fermò al
bacone, dietro il quale c’era uno specchio lunghissimo che
rifletteva l’interno
del locale. Si osservò attentamente, si raccolse i capelli
in una coda di
cavallo, rimosse le ombre del mascara sbavato dagli occhi e si
pizzicò le
guance per colorire un po’ il volto pallido. Annuì
soddisfatta e si accorse che
Olaf e alcuni clienti si erano fermati a guardarla: “Come
sto?”- chiese
sorridendo imbarazzata.
-“Una
meraviglia.”- le rispose il proprietario
del pub, accompagnato dalle occhiate di apprezzamento degli uomini al
bancone.
Anna gli fece
l’occhiolino e sparì in strada,
con il sonoro tintinnio della campanella appesa sulla porta.
Con suo sommo
piacere, Hans era ancora lì,
fermo sul marciapiede con le spalle voltate verso la vetrina del pub,
mentre si
soffiava sulle mani. Il ragazzo si voltò, attirato dal
rumore della porta che
si chiudeva: “Ehi.”- l’accolse con un
sorriso.
-“Ehi,
scusa
l’attesa.”- gli sorrise di
rimando–“Andiamo?”-
Hans la condusse
lungo la 42ma strada, sotto la
neve che aveva ricominciato a cadere lenta, fermandosi davanti ad una
piccola
porta di legno, che sarebbe passata inosservata, se non fosse stato per
il
colore rosso brillante con cui era dipinta. Anna alzò lo
sguardo sull’insegna,
dall’aria alquanto antica, che riportava la scritta
‘Snow White’.
-“Non
ti ho fatto camminare tanto, per
niente.”- le disse prima di entrare
–“Quando avrai assaggiato la loro torta di
mele, non potrai più farne a meno, credimi.”-
abbassò la maniglia e la fece segno
di entrare per prima.
Anna diede uno
sguardo in giro e rimase a bocca
aperta; anche se la torta avesse fatto pena, quel posto sarebbe
risultato
comunque fantastico ai suoi occhi: alle pareti, ricoperte da panelli di
legno
scuro, erano appesi quadri raffiguranti boschi e castelli dal sapore
europeo; i
lampadari, molto simili a candelabri, diffondevano una luce calda e
soffusa;
decine di tavolini dallo stile moderno, contrastavano, ma allo stesso
tempo si
mescolavano bene, allo stile retrò del resto del locale; le
note di un
pianoforte, accarezzavano le orecchie, donando ancora più
atmosfera
all’ambiente, senza infastidire. Ma quello che
catturò l’attenzione di Anna,
facendole spalancare gli occhi per lo stupore, fu l’enorme
albero che
capeggiava al centro della sala, ricoprendo con i suoi rami frondosi
alcuni tavolini:
tra le foglie, spiccavano delle lucine gialle e alcune decorazioni
natalizie.
-“Vieni.”-
Hans la colse di sorpresa,
prendendole la mano, conducendola proprio sotto l’ombra
dell’albero: le scostò
la sedia e la fece accomodare, sempre sorridendole, poi prese posto
difronte a
lei.
-“Dalla
tua espressione direi di averti sorpresa.”-
constatò ridacchiando
adorabilmente, facendole l’occhiolino.
-“Oh…oh
si. Questo posto è fantastico!”- riuscì
solo a dire, troppo presa da quello che le stava attorno e dagli occhi
chiari
di Hans, puntati saldamente nei suoi.
-“Già,
è un piccolo gioiellino che ho scoperto per
caso, nel mio girovagare per la città. Mi piace scovare
posti insoliti e poco
conosciuti.”- ridacchiò fra sé,
passandosi una mano tra i capelli perfettamente
in ordine –“So che potrà sembrarti
strano, ma almeno quando sono da solo, di
giorno, preferisco frequentare posti calmi e silenziosi, lontani dal
chiacchiericcio mondano.”-
-“No,
non mi sembra una cosa strana, anzi la
trovo…carina.”- gli disse arrossendo
–“Però se non ricordo male, noi ci siamo
incontrati in uno dei locali più in voga di tutta New York,
o sbaglio?”- chiese
sfacciata.
-“Già,
beccato. Almeno di notte, diciamo, che
mi piace fare baldoria. Ma anche in quel caso non mi piace eccedere,
non sono
uno di quei tipi straviziati che per uscire dalla propria apatia, osano
superare il limite della decenza. Diciamo che mi diverto.”-
confessò,
scrollando le spalle.
-“Buono
a sapersi. Allora…non dovevamo parlare
di qualcosa?”- fece abbassando lo sguardo imbarazzata.
-“Hai
ragione, ma prima ordiniamo.”- le
rispose, alzando una mano per attirare l’attenzione di una
cameriera.
Una ragazza, con
un corto caschetto di capelli
neri e un rossetto rosso ciliegia, si fece strada tra i vari tavolini
con passo
aggraziato, evitando per un soffio un’altra cameriera che
portava tra le mani
un vassoio in bilico: “Buonasera, benvenuti allo Snow White.
Cosa posso
portarvi?”-
Hans rivolse un
sorriso alla ragazza e poi si
voltò verso Anna, guardandola con uno sguardo strano:
“Ti fidi di me?”
Anna rimase
interdetta per un istante, poi
rispose prontamente: “Si!”
-“Allora
prendiamo due cioccolate calde alla
cannella e due fette di torta di mele. E non dimenticare il gelato con
la
torta.”- recitò, non staccando mai lo sguardo da
Anna, quasi ignorando la
ragazza che trascriveva sul palmare.
-“Wow,
mi stai invitando a nozze?”- gli chiese
Anna, non filtrando quello che le diceva il cervello, prima di aprire
la bocca.
Hans la
guardò confuso: “Cosa?
-“Oh,
io…cioè intendevo dire che adoro la
cioccolata e con la tua scelta mi hai invitata a nozze, ma non una
proposta di
matrimonio: perché sarebbe da pazzi, ci siamo appena
conosciuti! Non che non mi
piacerebbe, intendiamoci, se me lo chiedessi risponderei di si;
insomma, sei
così galante e…”- Anna si
fermò a rirendere fiato, con la faccia in fiamme,
mentre Hans, con un sopracciglio alzato, rideva sommessamente
–“Imbarazzante…”-
concluse Anna, abbassando lo sguardo, poi si riscosse, come colpita da
un’idea
fulminante: “N-non tu, solo per…io sono
imbarazzata, tu sei bellissimo.”- si
tappò la bocca con le mani e lo fissò con gli
occhi spalancati dal terrore.
Hans continuava
a ridere: “Grazie. Anche tu sei
molto bella.”- le disse con quel suo charm intossicante,
mentre lentamente le
toglieva le mani dalla bocca.
Anna lo
fissò interdetta, stordita quasi dalle
sue parole e dall’intensità del suo sguardo:
“Oh…lo pensi davvero?”- gli chiese
sinceramente incuriosita: insomma, lei non era un granché,
con quelle
lentiggini sparse un po’ dappertutto come se avesse la
scarlattina, i capelli
di un colore indefinito tra il biondo e il rosso (per non parlare
dell’inconfondibile ciocca bianca)e le spalle troppo piccole
e i fianchi troppo
larghi e il naso all’insù! Insomma quando si
guardava allo specchio non pensava
certo alla parola bella, ma ad un più semplice carina,
tuttalpiù passabile. Lui
aveva a disposizione le donne più belle di New York, come
poteva dirle che era
bellissima?
-“Assolutamente,
altrimenti non saremmo qui.”-
le sorrise –“Anzi, per questo ti cercavo. Alla
festa mi hai colpito, devo
ammetterlo, ed è raro, credimi. Però prima che
potessi fare una qualsiasi mossa,
sei scappata via come una moderna Cenerentola, lasciando dietro di te
solo un
nome: Anna.”-
Anna manteneva
un’espressione tranquilla, quasi
neutra, ma dentro urlava dalla gioia: i suoi neuroni stavano ballando
la conga
e nello stomaco sentiva uno sciame di farfalle svolazzare su di giri.
‘Ho fatto
colpo su Hans Westeruard…Hans Westerguard!
Ohmiodiocredochestopersvenire!
Respira Anna, inspira ed espira, lentamente… lui ti sta
guardando, non dargli
una buona ragione per scappare via.’
–pensò fra sé, mentre continuava a
guardarlo –‘Di’
qualcosa, altrimenti
crederà di star parlando con una celebrolesa!’
-“Ma
io ricordo di averti scritto il mio
numero, da qualche parte…”- fece dubbiosa.
-“Oh,
si. Me l’hai scritto sul palmo della
mano, ma ho salutato parecchi gente quella sera e dev’essersi
cancellato. In
poche parole, non avevo nulla per rintracciarti, nessun elemento che
potesse
servirmi. Così ho chiesto un po’ in giro se
qualcuno ti conosceva, ma nessuno
sembrava conoscerti o averti mai vista; era come se tu non fossi mai
stata a
quella festa. Così ho pensato di averti sognata. Da pazzi,
eh?”-
-“Oh,
beh, veramente io…in teoria non sarei
dovuta essere a quella festa.”- Hans la guardò
interrogativo -“Mi sono imbucata
con una mia amica…scusa, lo so che non si dovrebbe
però…”-cominciò a scusarsi
per il suo comportamento, ma lui la fermò.
-“Ehi,
ehi. Sta tranquilla!”- la rassicurò
–“Anch’io mi sono intrufolato senza
invito ad alcune feste private.”- spiegò.
-“Si,
ma tu sei Hans Westerguard. Io sono
solo…io. Se ti avessero scoperto sarebbero stati onorati
della tua presenza,
invece se avessero preso me, non sono sicura che sarebbe andata a
finire
proprio bene.”- disse, cercando di spiegargli il suo punto di
vista.
-“Non
ti seguo: siamo due persone completamente
uguali, dove sarebbe il problema?”- chiese scettico.
Anna prese un
respiro profondo: “Il problema è
che tu appartieni ad una casta chiusa, che di rado lascia entrare nella
propria
cerchia gente come me, diciamo qualcuno con un cognome non altisonante,
capisci?”
-“Oh,
ora capisco il tuo punto di vista. Ma
credimi, se ti dico che non tutti sono come pensi: io ti sembro uno di
quelli
che badano al cognome e al conto in banca, di una persona?”-
le chiese con tono
leggero.
-“No,
affatto.”- rispose lei sorridendogli
timidamente. I loro sguardi si incontrarono, rimanendo incatenati per
interi
secondi, senza che nessuno dei due dicesse niente.
-“Ecco
la vostra ordinazione.”- vennero
interrotti dalla ragazza che aveva preso l’ordinazione, che
posò sul tavolo le
tazze fumanti e i piatti con la torta.
Hans si
schiarì la voce: “Grazie mille.”
La ragazza fece
un sorriso e poi sparì veloce
com’era arrivata, lasciandoli in un imbarazzante silenzio.
Anna
posò le mani attorno alla tazza bollente,
godendosi il calore che sprigionava la cioccolata calda; se la
portò alle
labbra e ne prese un sorso, lasciando che il liquido denso e scuro le
riscaldasse la gola e lo stomaco. Arricciò il naso, al
sapore amaro della
cioccolata: allungò una mano verso lo zucchero e
sobbalzò quando le sue dita
incrociarono il dorso della mano di Hans. Perfetto cliché,
secondo i suoi
canoni romantici.
-“S-scusa.”-
blaterò sottovoce, ritraendo la
mano.
Lui scosse il
capo, come per dirle che non importava, mentre girava il cucchiaino
nella sua
tazza: “Allora, eravamo qui per raccontarci delle storie: la
mia l’hai già sentita,
ti va di raccontarmi la tua?”
L’orologio
alla parete puntava la mezzanotte e
lui era ancora inchiodato lì, seduto su quella scomodissima
sedia di legno
pressato, con l’osso sacro che gridava vendetta dal fondo
della sua spina
dorsale, a farsi un solitario contro il pc. Il dipartimento di polizia
era
vuoto, e sarebbe potuto tranquillamente tornare a casa, se non fosse
stato che
a parte lui e il capo, che se ne stava rintanato al caldo dentro il suo
studio
da almeno due ore, non c’era nessuno. Si era offerto di
sostituire Herc per il
turno di notte, lasciandolo alle sue faccende incasinate.
Guardò
fuori dalla finestra accanto alla sua
scrivania e sospirò alla vista della neve: avrebbe tanto
voluto essere fuori da
quel posto triste e silenzioso, magari al caldo, nel suo letto
abbracciato alla
sua adorabile mogliettina. Sospirò di nuovo, stropicciandosi
gli occhi stanchi.
Si alzò per sgranchirsi le gambe e si avvicinò
alla macchina del caffè,
versandosene una tazza. Aprì il catone delle ciambelle e
quasi urlò dalla gioia,
quando ne trovò una sopravvissuta alla mattanza mattutina.
Il primo morso era
andato e quasi gli andò di traverso quando le porte
dell’entrata principale si
aprirono violentemente, lasciando entrare il collega, che avrebbe
dovuto essere
altrove: “Ma che..?”- esclamò, quasi
lasciando cadere la tazza che teneva tra
le mani.
Herc si
fermò a guardarlo un secondo, con il
fiato corto, come se avesse corso fino ad un momento prima:
“È ancora lì
dentro?”- gli chiese indicandogli la porta del capo.
-“S-si,
ma che ti prende…ehi, lascialo stare
non tira una buona aria!”- gli urlò dietro, mentre
il ragazzo si avviava a
grandi falcate verso la porta chiusa.
-“Dopo
che gli avrò parlato, sarà anche peggio.
Tienitene alla larga Woody.”- abbassò la maniglia
di scatto, spalancando la
porta, facendone vibrare il vetro opaco su cui era scritto a caratteri
cubitali: Comandante Buzz Lightyear.
Il comandante
alzò la testa dalle sue carte,
senza scomporsi più di tanto, guardando in malo modo chi
aveva interrotto il
suo minuzioso lavoro organizzativo: “Non avevi la serata
libera tu?”- chiese
distogliendo lo sguardo e spillando dei fogli.
-“Devi
tirarle fuori da quel posto!”- esclamò Herc,
per niente intimorito dal comportamento freddo e distaccato del suo
superiore.
-“Come?
Di chi stai parlando?”- chiese
innocentemente.
-“Sto
parlando di Elsa e Meg. Devi porre fine a
questo giochetto, sta diventando troppo pericoloso.”-
sbottò infastidito.
-“Quando
hanno firmato sapevano a cosa andavano
incontro: erano e sono le migliori, sapranno cavarsela per un altro
po’. E poi
non butterò tutto all’aria proprio ora che siamo
ad un passo dalla fine.”-
-“Ades
ha picchiato Megara! Non bastava che
dovessero sopportare carezze lascive e complimenti di quei vermi
schifosi, ora
devono subire anche le angherie di quel pazzo?”- gli
urlò contro, mentre
sbatteva una mano sulla scrivania, rovesciando un portapenne.
Il comandante
rimase in silenzio ad osservarlo,
mentre riprendeva fiato.
-“Basta
con i tuoi giochetti di potere! Se a
loro succede qualcosa non avrai la tua tanto ambita promozione, meglio
fermarsi
finchè siamo in tempo, prima che qualcuno si faccia male sul
serio.”- disse con
tono più calmo.
Woody era fermo
sulla porta, ad osservarli,
mentre si scrutavano intensamente in silenzio, come se aspettassero un
contraccolpo da parte dell’altro: “Herc, porta
pazienza vedrai che…”-cominciò,
cercando di placare gli animi.
-“No,
Woody. Questa storia finisce ora!”- lo
bloccò.
Il comandante lo
guardò serio, sistemò dei
fogli negli appositi portadocumenti e poi incrociò le mani
davanti a sé: “Decido
io quando finisce il gioco. Non devi intrometterti, non
lascerò che i tuoi
interessi personali distruggano il lavoro di due anni. Quando
sarà tutto
finito, avrai Meg tutta per te, ma fino ad allora lei rimane una delle
pedine
più importanti del piano.”- osservò
Herc stringere i pugni per la rabbia, fino
a far sbiancare le nocche –“Questa è la
mia decisione. Non ritornerò sull’argomento,
ora dovesti andare.”- concluse con tono piatto.
-“Se
non posso sperare nel tuo aiuto, allora
sarò costretto ad agire per conto mio. Ma sta pur certo che
non me ne starò a
guardare mentre le riducono a meri esseri consenzienti.”-
promise con voce
tagliente.
-“Ma
che bravo, da zero a eroe, a meno di un
anno dalla tua uscita dall’accademia: sai, il corpo della
polizia avrebbe
bisogno di più gente come te.”- lo
canzonò.
-“Io
vado. Non sono venuto qui per farmi prendere
in giro da te. Non dire che non ti avevo avvisato,
però.”- fece per andarsene.
Herc ebbe solo
il tempo di fare due passi verso
la porta, prima di essere fermato: “Tu non vai da nessuna
parte.”- sentenziò il
comandante alzandosi.
Il ragazzo di
voltò per fronteggiarlo e se lo
ritrovò a pochi centimetri di distanza: “Come hai
intenzione di trattenermi?”-
fece, abbozzando un mezzo sorriso beffardo.
-“Così…”-
-“No,
Buzz!”- urlò Woody, prima che il pugno
destro partisse, diretto alla faccia del ragazzo, ma il comandante non
si
fermò, mandando a segno il suo colpo.
Herc
stramazzò stordito ai piedi dei due,
mentre Buzz faceva scrocchiare le dita della mano con cui
l’aveva colpito: “Chiudilo
nella cella numero due. Lo terremo buono fino a domattina,
chissà la notte
potrebbe portargli consiglio.”- sogghignò,
riaccomodandosi sulla sua poltrona,
dietro la sua scrivania.
Woody gli
lanciò
uno sguardo strano, ancora scioccato dal gesto del capo: “Si,
signore.”-
acconsentì sottovoce, prima di trascinarsi
un’inerme Herc per le spalle.
-“Wow,
non dev’essere stato facile vivere con
dodici fratelli maggiori.”- esclamò sorridendo
Anna.
Hans la stava
riaccompagnando al suo
appartamento, dopo averle tenuto compagnia per tutta la serata,
intrattenendola
con storielle divertenti sull’élite newyorchese.
Avevano lasciato lo Snow White
quasi un’ora prima e avevano tranquillamente continuato a
camminare lungo le
strade, sempre piene di vita, del centro, godendo della reciproca
compagnia.
Anna non era mai stata tanto bene in vita sua: le preoccupazioni di
qualche ora
prima, sembravano essere evaporate grazie al buonumore in cui
l’aveva
precipitata Hans.
-“No,
infatti. Se a questo aggiungi che in
realtà siamo fratellastri, capirai che la situazione in casa
Westerguard non è
mai stata delle migliori.”-
-“Cosa,
fratellastri?”- chiese stupita.
-“Già.
Mio padre si è risposato per ben quattro
volte. Immagino che non avesse ancora trovato la donna della sua
vita.”-
constatò imperturbabile –“ Quello che ai
miei fratelli non va giù, è che mio
padre stia ancora con mia madre. Quindi per gran parte della mia vita
ho dovuto
subire la loro frustrazione e sorbirmi il frutto della loro gelosia.
Pensa che
due di loro, per due anni, hanno fatto finta che io non esistessi. Era
snervante, devo ammetterlo, ma almeno dovevo sopportare meno prepotenze
da
parte loro.”- le confessò sorridendole.
-“E io
che pensavo di essere sfortunata con i
miei parenti. Grazie Hans, mi hai finalmente fatto capire che
c’è chi sta
peggio di me.”- cominciò a ridere e lui la
seguì, spingendola piano.
-“Prego,
è stato un onore.”- le rispose
scherzando, facendole una finta riverenza.
Rimasero in
silenzio per alcuni minuti,
camminando l’uno al fianco dell’altra, poi lui
disse: “Tranquilla, sono sicuro
che presto tu e tua sorella Elsa, tornerete a parlarvi.”- la
rassicurò.
-“Spero
tanto che sia così. Questa situazione è
davvero pesante da sopportare.”- si lamentò.
Camminarono per
altri cinque minuti e
raggiunsero gli alloggi degli studenti: “Ehi, siamo
già arrivati.”- Anna si
fermò, dispiaciuta che quella serata fosse giunta al termine.
-“Peccato,
si sta così bene in tua compagnia.”-
commentò lui, facendola arrossire.
-“Beh,
allora grazie di tutto e…buonanotte.”-
disse, battendogli goffamente una mano sulla spalla, cercando di
imitare un
saluto amichevole.
Hans sorrise del
suo imbarazzo e come aveva
fatto per tutta la serata, la sorprese con un ultimo gesto eclatante,
che le
mandò in circolo una scarica di adrenalina che di certo non
l’avrebbe fatta
dormire: la baciò. Piano, a fior di labbra, ma comunque fu
un bacio.
Quando lui si
allontanò, le scappò un verso
strano, come di disappunto: “Allora, quando posso
rivederti?”- le chiese.
-“Cosa?”-
fece lei, presa alla sprovvista.
-“Hai
superato la prova, hai i requisiti adatti
per un vero primo appuntamento.”- le disse ammiccando.
-“Ah,
quindi questa era solo una prova…e
sentiamo, quali requisiti avrei?”- rispose stando al gioco.
-”Beh,
sei bella, simpatica e possiedi un acuto
spirito intellettuale, inoltre non sei una squilibrata e nemmeno una
cacciatrice di ricchi eredi, quindi posso ritenermi
soddisfatto.”- ridacchiò
per le sue parole.
Anna rise e poi
prese un lungo respiro: “Allora,
se è così…sono sempre disponibile per
un primo appuntamento.”- gli rispose.
-“Bene,
allora ti farò sapere presto il posto e
l’ora del nostro incontro.”- le fece il baciamano,
non staccando gli occhi dai
suoi- “Buonanotte.”
-“B-buonanotte.”-
balbettò lei, prima che lui
si allontanasse lungo la strada.
Aprì
il portone d’ingresso in trance e salì in
ascensore fino al suo piano, in uno stato di catalessi totale. Solo
quando
richiuse la porta dell’appartamento dietro di sé,
metabolizzò tutto quello che
era appena accaduto. E l’unica cosa che le venne spontanea da
fare, fu
cominciare a saltellare come un’idiota, urlando a bassa voce:
“Si, si, si.”
Merida
uscì di corsa dalla sua camera, con i
capelli sparsi a raggiera attorno alla sua testa e gli occhi socchiusi
per il
sonno: “Allora, com’è andata?”
NdA: buon sabato
gente! Come va? Era da un po’
che non aggiornavo, ma sapete com’è è
un periodo un po’ incasinato XD Comunque
oggi ho cercato di buttar giù qualcosa ed è
uscito questo…capitolo. Non dice un
granché, ma ho inserito altri personaggi quindi
boh…spero vi piaccia e vi
prometto che cercherò di destreggiarmi meglio nella vita
reale per poter
pubblicare più in fretta. Come sempre vi invito a farmi
sapere cosa ne pensate,
e mi riferisco a voi, si proprio a voi lettori silenziosi, uscite dal
vostro
mutismo! Una recensione farebbe felice me e anche chi mi sta intorno,
si perché
meno recensioni per me vuol dire più rottura per mia sorella
e co. So che non
ve ne può fregare di meno ma pensateci ;) Ah e poi le
recensioni mi carburano,
quindi potrei scrivere più in fretta…questo forse
vi interessaXD
Ovviamente grazie mille a
chi ha inserito la
storia tra le seguite/preferite/ricordate…ci si legge alla
prossima! Baci ^.^
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Capitolo 5 *** Frozen Heart ***
Capitolo 5:
Frozen Heart
E il loro primo vero
appuntamento c’era stato, eccome. Due
giorni dopo il loro fortuito incontro, ed il cervello di Anna, da
allora, era
andato in vacanza su una nuvola rosa di zucchero filato. Era tutta
sospiri
sognanti e occhi persi nel vuoto a costruire castelli in aria. Nemmeno
i
disastri di Merida erano riusciti a riscuoterla dal suo buon umore: la
scozzese
aveva rotto la sua tazza preferita, le aveva fatto restringere il suo
maglione
rosa cipria, regalo di Elsa, e aveva lasciato i suoi vestiti sporchi
sparsi in
giro per l’appartamento. Lei non aveva fatto una piega: aveva
ripulito tutto, pezzo
per pezzo senza fiatare, canticchiando sottovoce una sdolcinata canzone
d’amore;
aveva scrollato le spalle alla vista del maglione diventato della
misura di un
neonato e aveva raccolto i vestiti della coinquilina, portandoli nella
lavanderia nel seminterrato del palazzo.
Merida le aveva
tastato la fronte per sincerarsi che non
avesse la febbre e poi l’aveva scossa energicamente per le
spalle: “Ritorna in
te, Santo Cielo! Dove l’hai messa Anna, quella che si
arrabbiava per ogni
minima cosa?”- le aveva urlato qualche giorno dopo il famoso
appuntamento.
-“Ma di
cosa parli? Ehi, mi stai facendo male!”- si
lamentò,non riuscendo a sottrarsi alla presa
dell’amica.
-“Si
può sapere che cos’hai in questi giorni? Sembra tu
viva
su un altro pianeta.”- Merida mollò la presa,
rimanendo davanti a lei, ridacchiando
sorniona.
-“Si!”-
sospirò-“Sul pianeta del vero amore.”-
-“No,
direi più sul pianeta degli idioti innamorati
persi.”-
sbottò-“ Ma che diavolo ti ha fatto questo Hans,
il lavaggio del cervello?”-
Anna si
lasciò cadere sul divano, stringendosi le ginocchia
al petto, sospirando per l’ennesima volta.
-“Soffri
d’asma?”- le chiese Merida.
-“Che?”-
fece, colta di sorpresa.
-“Non fai
altro che tirare lunghi sospiri inquietanti, da
quando sei tornata da quell’appuntamento!”-
puntualizzò, facendo rinvenire per
un momento Anna, dai suoi sogni ad occhi aperti.
-“Oh, Mer.
Non puoi immaginare quanto lo ami…”-
mugugnò in
un cuscino che aveva stretto al petto, stringendolo forte, arrossendo
come una
ragazzina alle prese con la sua prima cotta.
-“Che? Ma
non lo conosci che da pochi giorni! Come puoi dire
di amarlo? E non cacciarmi fuori quelle scemenze del colpo di fulmine,
del vero
amore e dell’essere fatti l’uno per
l’altra. Non attaccano con me!”- le disse,
sedendosi sul tavolino basso tra il divano e la tv, di fronte
all’amica, che
continuava a tenere la faccia rintanata nel morbido
cuscino-“Dev’esserci
qualcos’altro, per forza: raccontami dell’altra
sera.”
-“Ma
l’ho già fatto.”- le giunse la voce
ovattata di Anna.
-“No,carina.
Hai solo cacciato fuori urletti isterici,
continuando a ripetere cose del tipo ‘oh mio dio,
è l’uomo della mia vita’
oppure ‘è perfetto, è carino,
è galante’ eccetera. Non mi dilungherò
su tutti
gli aggettivi che gli hai affibbiato, alcuni sono addirittura ridicoli
per un
essere umano del genere. Ma di quello che avete fatto, non hai detto
una
parola. È ora di sputare il rospo: non dirmi che siete
arrivati al sodo, già al
primo appuntamento?”- esclamò scioccata .
-“Ma per
chi mi hai presa?”- Anna alzò la testa dal
cuscino,
tirandolo alla scozzese che lo evitò facilmente-“E
poi Hans è un gentleman, non
oserebbe mai avanzare tali proposte così presto. Al
contrario si è comportato
come un vero principe delle favole.”- puntualizzò
con l’ennesimo sospiro.
-“Già,
come quello del film che abbiamo visto qualche
settimana fa? Ora che ci penso non si chiamava Hans anche lui? E
indovina un
po’: lui era carino solo all’apparenza, ma in
realtà aveva delle idee
deplorevoli in mente.”-
-“Ah-ah,
molto divertente. Ma quello era un film per bambini.
Hans è diverso!”- sbottò scocciata.
-“Non ne
dubito…”- blaterò sottovoce,
incrociando le braccia
al petto.
-“E con
questo che vorresti insinuare?”-
-“Niente,
ma non vorrei che tu ti affezionassi troppo. Sai
come si comportano quelli della sua stessa estrazione sociale. Tutti
che girano
nella Jaguar del paparino e che cambiano le ragazze, come cambiano la
biancheria al mattino.”- le disse con la faccia seria.
-“Ah, ed
è qui che ti sbagli!”- le rise in
faccia-“Hans
guida una Maserati.”
Merida la
guardò per alcuni secondi senza dire niente e poi
scoppiò a ridere, seguita da Anna: “Niente e
nessuno ti farà cambiare idea su
di lui, vero?”- le chiese alzandosi dal tavolino,
scompigliandole i capelli.
-“Assolutamente
no.”- ridacchiò Anna, scacciando la mano
della coinquilina, cercando di aggiustarsi i capelli.
-“Bene,
spero tu non ti sbagli sul suo conto. Mi
dispiacerebbe vedere la mia svampita preferita, triste.”- le
disse mentre
entrava nella sua stanza.
-“Ehi!”-
Anna la rincorse fin sulla soglia della
stanza-“Oddio, scusa.”- si coprì gli
occhi. Merida si stava svestendo.
-“Ah, non
preoccuparti, entra.”-
Anna, la
spiò tra le dita della mano che le copriva gli
occhi, sospirando di sollievo quando vide che l’amica aveva
indossato un’altra
maglietta, con un paio di jeans strappati.
-“Dove
stai andando?”- le chiese mentre curiosava tra la
roba sulla sua incasinatissima scrivania.
-“Devo
vedermi con Hic. Deve insegnarmi ad usare un
programma di grafica per un esame che ho tra qualche mese. Meglio
partire in
anticipo, non si sa mai.”- le rispose, mentre infilava il suo
portatile in
borsa, assieme ad alcuni libri e blocchi da disegno.
-“Tu e
Hiccup mi nascondete qualcosa. Ne sono certa.
Cos’è
questa storia dello studio? Di domenica pomeriggio per giunta! Potreste
trovare
una scusa migliore.”- la stuzzicò la rossa, mentre
passava in rassegna alcuni
oggettini carini, tra tutte le cianfrusaglie presenti in quella stanza.
Ne
prese uno: un semplice laccio nero, con un ciondolo a forma di
orso-“E questo
cos’è?”
Merida si
voltò verso di lei e lanciò uno sguardo a quello
che Anna teneva stretto tra le dita: “È un regalo
di mia madre. Diciamo più un
monito: ‘guarda che sono sempre con te, quindi riga
dritto’. A casa la
chiamiamo mamma orso, per questo quel ciondolo. L’ha fatto
lei.”- Merida
sorrise pensierosa, mentre lo raccoglieva dalle mani
dell’amica e se lo
infilava al collo-“ Pensavo d’averlo perso, grazie
per averlo ritrovato.”
-“Se
mettessi un po’ d’ordine ritroveresti molte cose,
compresa la maglia che mi incolpi d’aver preso senza
chiedertelo.”-
l’accusò Anna.
Merida le
lanciò uno sguardo incredulo: “Dici sul serio? Tu
vuoi fare la paternale a me sul tenere in ordine le mie cose? Mi
sbaglio o tu
sei quella che come armadio ha una sedia con decine di vestiti buttati
alla
rinfusa, che lancia le scarpe sotto il letto e che ha una scrivania
così
disordinata che sembra ci sia scoppiata sopra una bomba.”
-“Come non
detto.”- Anna fece dietrofront-“Divertiti con
Hic, non traumatizzarlo mi raccomando, è un così
bravo ragazzo.”-
Nonostante fosse
fuori dalla stanza, sentì distintamente i
grugniti contrariati di Merida, e lo spostamento d’aria della
scarpa che le
volò dritta sopra la testa, mancandola per poco.
-“Io non
nascondo niente a differenza tua: tra me e Hiccup
non c’è nulla che non vada oltre il rapporto
amici/colleghi di corso. Se
dovesse mai esserci qualcosa sarai la prima a saperlo, non temere. Ma
fino ad
allora tieni la bocca cucita sull’argomento.”- le
lanciò uno sguardo infuocato.
Anna si ritrasse
sbuffando: “Perché tanta curiosità sul
quello che ho fatto con Hans? Se proprio lo vuoi sapere ecco il sunto
della
serata: siamo andati a cena, a passeggiare sotto le stelle e poi mi ha
riaccompagnata a casa, punto.”
-“Oh, ci
voleva tanto? Sai, raccontata senza sospiri
sognanti e parole sdolcinate, la vostra serata sembra essere stata
davvero
noiosa.”- ridacchiò, mentre si allacciava le
scarpe ed indossava il cappotto.
-“Già,
noiosa come il Big Bang.”-
-“Ci
vediamo dopo, non so quando tornerò. Se hai bisogno,
sai dove trovarmi.”- fece per uscire, ma Anna la
fermò.
-“Uffa, io
che faccio ora? Sai se Punzie è libera da
Fitzherbert?”-
-“No,
Flynn ha l’appartamento libero, il suo coinquilino
è
partito per le vacanze. Passeranno di sicuro una romantica
serata…da soli.”-
le fece l’occhiolino.
-“Oh mio
dio, ma sono insaziabili!”- sbottò arrossendo Anna
-“L’unica che non si divertirà stasera
sono io, a quanto pare.”- constatò.
-“Il tuo
principe azzurro dov’è?”- le chiese
corrucciando la
fronte.
-“Oh, lui
ha detto d’avere un improrogabile impegno di
famiglia, al quale non poteva assolutamente mancare.”-
-“Mm-mm.”-
annuì Merida.
-“Dico sul
serio…e ora cosa faccio?”- si lamentò,
mordicchiandosi il labbro inferiore.
-“Hai
l’appartamento tutto per te, puoi fare quello che
vuoi: salta, canta, guarda la tv, gioca alla xbox, ordina da mangiare,
leggi.
Cose così.”- le propose.
-“Mmm
credo che andrò da Olaf, per non restare da sola.
Forse farò nuovi incontri, chissà.”-
-“Beh,
buona serata allora.”- le fece l’occhiolino e
chiuse
la porta dietro di sé, lasciandola da sola nel bel mezzo
dell’appartamento
silenzioso.
Si guardò
attorno, aspettando qualcosa che le rivoluzionasse
quel tardo pomeriggio invernale: “E adesso che
faccio?”- chiese al nulla.
Senza pensarci
più di tanto, si precipitò in camera sua,
tuffandosi tra i vestiti gettati alla rinfusa sulla sedia, tirando
fuori un
pantalone nero e un maglione rosso sgualcito. Li infilò
saltellando, mentre
correva in bagno a lavarsi i denti.
Si guardò
allo specchio e fece un verso disgustato: aveva
un’aria terribile, doveva assolutamente rimediare. Okay, non
doveva fare colpo
su nessuno perché lei aveva già il suo Hans, ma
la sua faccia pallida e i suoi
capelli spettinati, erano un crimine contro il genere femminile.
Raccolse i
capelli in due morbide trecce, si passò un leggero velo di
ombretto sugli occhi
e concluse con tocco di mascara. Si guardò ancora una volta
e annuì alla se
stessa riflessa: “Così va meglio,
ragazza.”
Raccolse in un
angolo la sua borsa e ci buttò dentro tutto
quello di cui avrebbe potuto aver bisogno. Poi raccattò un
libro che Rapunzel
le aveva prestato qualche giorno prima, consigliandoglielo
calorosamente. Se
non avesse incontrato nessuno di interessante, almeno si sarebbe potuta
rintanare in un angolo del pub a leggere.
Infilò
i suoi stivaletti nuovi
di zecca, il cappotto e la sciarpa, e uscì di casa fuggendo
dal silenzio,
pronta a gettarsi tra il chiacchiericcio della gente.
Anche se il pub di
Olaf distava pochi isolati dal suo
appartamento, e avrebbe potuto tranquillamente raggiungerlo a piedi,
decise che
per quella volta avrebbe preso la metro. Aveva voglia di arrivare
presto alla
sua meta, per rifugiarsi al caldo. Le strade erano gelide, spazzate da
folate
di freddo vento del nord, che le schiaffeggiavano, senza troppe scuse,
le
guance arrossate.
Per una volta, fu
piacevole ricevere dritta in faccia l’aria
afosa e maleodorante della metro, che le procurò un
piacevole brivido lungo la
schiena.
Durante la breve
corsa, cacciò dalla borsa il libro
prestatole e cominciò a leggerlo, per intrattenersi. Non
l’aveva mai sentito
nominare e ad essere totalmente sincera non leggeva spesso, ma le rare
volte
che lo faceva preferiva buttarsi su romanzetti romantici e
strappalacrime,
scritti discretamente. Questo non era uno di quelli di certo, non era
niente di
che, anzi avrebbe quasi osato dire che era piatto e scritto male, ma
Rapunzel
aveva tanto insistito nel darglielo, le aveva detto che le avrebbe
svelato un
mondo. Si era fidata e aveva promesso di leggerlo al più
presto. Non aveva
nemmeno cercato la trama su internet, né aveva letto la
quarta di copertina per
avere ulteriori informazioni.
Insomma, si era
gettata alla ceca in questo libro
“rivelazione”: Cinquanta sfumature di grigio.
-“Vedrai,
ti piacerà.”- le aveva detto una ragazza seduta
proprio di fronte a lei, che le aveva rivolto un sorrisino divertito.
-“Ne
dubito.”- le aveva risposto Anna, ricambiando con un
timido sorriso.
Un volta arrivata
alla sua fermata, aveva letto appena
quattro pagine. Lo chiuse gettandolo di nuovo nella bolgia che chiamava
borsa,
e si apprestò a scendere.
Una volta in strada
osservò distratta le vetrine illuminate
dei negozi, pensando a cosa stesse facendo Hans in quel momento.
‘Forse anche lui si
sta annoiando a morte e sta pensando a me.’
Sospirò, sorridendo tra sé.
Quando
entrò nel pub, l’accolse il rumore delle voci di
decine di persone,per lo più uomini, intenti a gridare
contro il megaschermo
appeso su una parete: come aveva fatto a dimenticarsi della
partita di
campionato? Di solito anche a lei piaceva guardare le partite, seduta
comodamente
sul divano, con il telecomando in una mano e una fetta di pizza
nell’altra; ma
da quando usciva con Hans, i suoi interessi erano stati messi in ombra
dalla
voluminosa presenza del ragazzo. Fu tentata di fare dietrofront e di
tornarsene
al suo appartamento ma, prima che potesse fare anche solo un passo, la
voce
squillante di Olaf la bloccò sul posto:
“Anna!”- le fece segno di accomodarsi
in un posto libero al bancone.
-“Hey
Olaf, come vanno le cose da queste parti?”- lo
salutò,
mentre si sedeva sullo sgabello traballante.
-“Alla
grande e tu invece, è un po’che non ti facevi
vedere
da queste parti! Non è che mi tradisci con la
concorrenza?”- le chiese
facendole l’occhiolino.
-“Perché,
tu hai anche una concorrenza?”- rispose
ingenuamente, sporgendosi sul bancone.
Olaf rise di gusto,
mentre sistemava dei bicchieri sulle
mensole dietro il bancone: “Allora, tutta sola
stasera?”
-“Chi ti
dice che non stia aspettando i miei amici?!”- fece
un sorrisino enigmatico.
-“Anna,
per favore…tu che aspetti loro?! Non si è mai
sentito.”-
-“Beh…si
sono sola soletta, anzi no, sono in compagnia di
questo libro.”- e tirò l’oggetto
incriminato fuori dalla borsa, mostrandoglielo.
Olaf
spalancò gli occhi e per poco non si strozzò per
le
risate: “Non ti facevo tipa da certe
letture…audaci.”-
-“Audace?
Ma di che parli, questo libro è banale e per
niente intrigante, lo leggo solo per far piacere a Punzie.”-
-“Ma sai
almeno di cosa parla?”- le chiese alzando un folto
sopracciglio nero.
-“Mmm, in
realtà no. Sono arrivata appena a pagina quattro,
perché?”-
-“Beh,
niente, non voglio rovinarti la sorpresa. Quando lo
avrai finito ne riparleremo.”-
-“Sembra
quasi che tu lo abbaia letto.”- lo rimbeccò lei.
Olaf
arrossì violentemente, rimanendo muto per almeno dieci
secondi, cosa molto strana per lui: “N-no, affatto, ma so di
cosa parla e se tu
non lo sai, beh vuol dire che negli ultimi mesi hai vissuto su un altro
pianeta!”-
-“Può
darsi…”- sussurrò tra sé e
sé.
-“Piccoletto,
da questa parte. Un altro giro per me e il mio
amico.”- un omaccione sulla quarantina, interruppe la loro
chiacchierata,
sbracciandosi sopra la folla, sovrastando con il suo vocione il rumore
del
locale.
-“Scusami,
il dovere chiama.”- si scusò il proprietario.
-“Va pure
non preoccuparti…”- cominciò, ma Olaf
era già
fuori portata d’orecchio-“…chi si muove
da qui.”- concluse aprendo il libro e
cominciando a leggere da dove aveva interrotto.
Dopo aver letto
altre tre pagine, cominciò a ricredersi su
quel libro tanto misterioso, facendosene un’opinione diversa.
Qualcuno si frappose
tra lei e la luce del faretto appeso di
fronte: doveva essere Olaf di ritorno.
-“Ascolta
Olaf, potresti portarmi il solito?”- chiese senza
alzare lo sguardo dalle pagine fitte.
Olaf non rispose, ma
l’ombra non si spostò dal libro. Forse
era Ariel: tremenda gaffe chiamarla Olaf, ma perché non
diceva nemmeno una
parola?
-“Scusa
Ariel pensavo fossi…”- Anna alzò
spazientita lo
sguardo sul suo interlocutore e rimase con la bocca spalancata nel bel
mezzo
delle sue scuse.
E
questo chi cavolo
è?!- pensò tra sé, quando le
sinapsi del cervello ritrovarono il contatto,
dopo il breve blackout. Lasciò vagare lo sguardo sul ragazzo
che le stava
davanti, sui suoi occhi scuri, di un colore tra il caramello e il
cioccolato al
latte; sui capelli biondi che gli ricadevano scomposti sulla fronte e
soprattutto sui bicipiti scolpiti che nascondeva sotto una maglietta
nera con
il logo del pub.
-“Ehm…tu
non sei Ariel.”- riuscì a dire.
-“A quanto
pare.”- le rispose seccamente il tizio.
-“E
nemmeno Olaf.”- proseguì.
Il tizio
sbuffò scocciato: “No.”
Silenzio.
-“Chi sei
allora?”- continuò imperterrita.
-“Kristoff.”-
Ancora silenzio.
-“Sei un
chiacchierone a quanto vedo.”-Anna cercò di
smorzare l’imbarazzante silenzio-“Lavori qui,
Christofer?”- gli chiese, recuperando
un po’ della voce che aveva perso.
-“È
Kristoff, per la precisione. E si, lavoro qui.”-
-“E da
quando?”-
-“Da
ieri.”-
-“E
dov’è Ariel?”- chiese ancora, guardando
l’espressione
del tizio cambiare da scocciata ad alterata.
-“Ma
cos’è questo, un terzo grado?”-
sbottò, facendo
sobbalzare Anna sullo sgabello. Kristoff si accorse subito della
tremenda
figuraccia che aveva fatto, quando Anna abbassò lo sguardo
sul suo libro
chiuso.
-“Ascolta”-
cominciò
per attirare di nuovo la sua attenzione, ma si
bloccò non conoscendo il
suo nome.
-“Anna.”-
rispose prontamente lei, con un sorriso.
-“Ascolta
Anna, scusa per la risposta brusca, ma è stata una
giornata un po’ pesante e non sono proprio in vena di
chiacchierate.”-
-“Oh, okay
scusami tu.”- si affrettò a dire, mentre si
sistemava una ciocca di capelli inesistente dietro
l’orecchio.
-“Allora?”-
chiese lui.
-“Allora,
cosa?”- fece lei guardandolo fisso negli occhi.
-“Cosa ti
porto?”-
-“Oh, ma
certo”- ridacchiò nervosamente, dandosi
mentalmente
della stupida-“un…un Vodka Lemon!”-
esclamò, sollevata di essere riuscita a
trovare il nome di uno dei tanti tipi di drink che le giravano nel
cervello in
quel momento.
-“È
il tuo ‘solito’?”- gli chiese lui, mentre
le porgeva un
sottobicchiere.
-“N-no, ma
mi ci voleva qualcosa di più forte di una
birra,stasera.”-
disse sovrappensiero, sedendosi meglio sullo sgabello.
Le
preparò con mani
esperte quello che aveva chiesto e si incantò ad osservarlo:
“Sei bravo.”- gli
disse mentre lui le porgeva il bicchiere.
Kristoff
scrollò le spalle, sena dire nulla.
Anna invece, non ce
la faceva a rimanere in silenzio e per
di più, la curiosità di conoscere qualcosa in
più su di lui la stava uccidendo.
-“Sei un
barman?”-la buttò li, per fare conversazione.
-“Oh
certo, è l’aspirazione della mia vita rimanere per
sempre dietro un bancone a servire uomini molesti e donne
depresse.”- le
rispose, incrociando le braccia al petto.
-“Sei
ironico, vero?”- le chiese lei turbata, girando la
cannuccia nel bicchiere.
-“Certo.”-
rispose solo.
Anna
continuò a concentrarsi sul liquido giallognolo del suo
bicchiere, sorseggiando pian piano, arricciando il naso al sapore aspro
dell’alcool,
che le bruciava la gola. Cercava, senza molto successo, di ignorare gli
occhi
di lui, puntati su di lei, provando a convogliare la sua attenzione
verso le
pagine del libro che aveva aperto di nuovo. Con un’occhiata
veloce si assicurò
che lui non la stesse ancora fissando, ma sfortunatamente incrociò i suoi
occhi socchiusi. Una strana
sensazione le fece contorcere lo stomaco e le mani cominciarono a
sudarle,
appiccicandosi poco graziosamente alla copertina del libro.
-“Cosa?”-
gli chiese, ricominciando a respirare. Non si era resa
conto di star trattenendo il fiato.
-“Credo…
di averti già vista da qualche parte.”- le disse,
scrutandola attentamente.
-“Impossibile,
mi ricorderei di te.”-disse lei senza
pensarci-“Ehm, cioè non che tu sia una persona
così particolare da ricordare,
ma tu ecco…sei…sei”-
cominciò a blaterare, gesticolando ampiamente verso di
lui, mentre il viso le andava in fiamme. Poi affondò la
faccia nell’incavo delle
sue mani, incapace di fare o dire altro per tirarsi fuori da quella
situazione
imbarazzante: perché continuava a dare fiato alla bocca
senza pensare prima di
parlare? Era un suo difetto congenito, ce lo aveva da quando era nata e
non
poteva fermalo dal rovinarle la vita!
-“Ora mi
ricordo!”- esclamò lui, puntandole un dito contro.
Lei lo
fronteggiò con la faccia rossa, osservando la sua
espressione contrariata, e solo allora qualcosa le balenò
nella mente: una
colonna che non era una colonna, parole ringhiate a denti stretti,
l’aria
malsana della metro, odore di caffè versato, occhi scuri
arrabbiati…
-“Il tizio
del caffè!”-
urlò saltando quasi giù dallo
sgabello.
-“L’imbranata
della metro.”- confermò lui, sporgendosi sul
bancone per guardarla meglio.
-“Ah, vedo
che vi siete conosciuti!”- li interruppe la voce
gioiosa di Olaf, mentre loro si voltavano a guardarlo-“Spero
ti abbia trattata
bene, Anna. Sai, lui tende ad essere un tantino brusco, non
è vero cugino!”-
disse, battendogli una mano sulla spalla, mentre Kristoff abbassava lo
sguardo
colpevole.
-“Oh, ehm
si si, non preoccuparti è stato…molto
gentile.”-rispose,
guardando di sottecchi il diretto interessato, accennando un sorriso
tirato.
-“Bene.
Non vorrei interrompere la vostra chiacchierata, ma
lì c’è bisogno di te.”- disse
indicando dei tavoli in fondo al pub.
-“Affatto,
non sono in
vena di chiacchierate.”- rispose subito Anna,
ripetendo le parole che lui
le aveva detto qualche minuto prima.
-“S-si,
vado subito.”-Kristoff, scattò
sull’attenti,
rivolgendole uno sguardo strano, mentre si allontanava.
Se Olaf non fosse
stato li a guardarla, gli avrebbe di certo
fatto una linguaccia, ma si contenne.
-“Ciao Christofer,è
stato un piacere conoscerti.”-gli disse invece, sventolando
una mano nella sua
direzione, con il sorrisetto di una bambina pestifera.
-“Si
chiama Kristoff.”- la corresse Olaf.
-“Lo
so.”- disse semplicemente lei, mentre riprendeva a
bere, sorridendo tra sé. L’idiota della metro, chi
l’avrebbe mai detto.
-“Ma
allora perché…”- cominciò
Olaf.
-“Lui lo
sa.”- tagliò corto, facendogli
l’occhiolino.
Olaf si strinse
nelle spalle, non capendo cosa c’era tra
quei due che non andasse.
-“Allora,
dov’è finita Ariel e come mai l’hai
rimpiazzata
con… tuo cugino!? Sul serio Kristoff è un tuo
parente? Non vi assomigliate per
niente. Cioè tu sei…e lui
è…”- okay,aveva di nuovo parlato senza
filtrare i
suoi pensieri. Stupido cervello
difettoso!
Olaf rise, intuendo
le sue parole: “Perché io sono basso, emaciato
ma bello, mentre lui è alto quasi due metri, ha il fisico di
un giocatore di
football, ma è brutto…lo so, lo so è
questo che stavi per dire, vero?”-
Una risatina nervosa
scappò dalle labbra di Anna, mentre si torceva
una treccia con le mani tremanti, tremendamente imbarazzata.
-“È
una lunga storia, ma comunque si, siamo imparentati in
un certo modo.”- spiegò senza scendere nei
particolari.-“Ariel se n’è dovuta
andare. A quanto pare non aveva diciotto anni, ma quindici, ed era
scappata di
casa.”- fece una pausa quasi teatrale, sospirando e scuotendo
il capo-“Il padre
è uno dei magnati più influenti di Wall Street e
quando ha scoperto che la
figlia intratteneva una relazione con il figlio di uno dei suoi rivali
economici, ha sbarellato. Lei pensava di poter sfuggire al controllo
paterno e
di poter tirare avanti con un lavoro da cameriera, certa che il suo
principe
azzurro sarebbe venuto a salvarla dalla situazione in cui si era
cacciata, ma
lui invece si è appena fidanzato con
un’altra…povera Ariel era distrutta quando
lo ha saputo.”
Anna
annuì distratta solo parzialmente interessata alle
sventure della ragazza, mentre con gli occhi seguiva le mosse di
Kristoff, che
si aggirava con la grazia di un elefante tra i tavoli del pub, con
un’espressione
frustrata sul volto, davvero esilarante secondo lei.
Non
durerà nemmeno una
settimana - pensò tra sé.
-“Kris
aveva bisogno di lavoro e io di un aiutante, quindi
ho preso due piccioni con una fava.”- continuò
Olaf, riscuotendola dai suoi
pensieri.
-“Mmh,
capito.”- commentò, finendo il suo drink e
mettendosi
in bocca un cubetto di ghiaccio- “Me ne porteresti un altro o
qualsiasi cosa tu
mi consigli, ma che abbia un tasso alcolemico un po’
più alto di una Coca Cola.”-
gli chiese, spostando verso di lui il bicchiere, ormai pieno solo di
ghiaccio
semi sciolto.
-“Sicura
di reggere?”- le chiese con un sopracciglio alzato.
-“Ma
certo…dovrò pur svoltarla questa serata, e se non
sono
almeno brilla la partita perde d’interesse per
me.”- disse indicando il
megaschermo alle sue spalle.
-“Non
sapevo ti piacesse il football.”-
-“Sono
molte le cose che non sai di me.”- gli disse a bassa
voce, avvicinandosi a lui.
-“D’accordo.
Allora ti preparo un Frozen Heart.”- Olaf cominciò
a tirar fuori, dall’apparentemente infinita riserva di super
alcolici alle sue
spalle, diverse bottiglie colorate.
-“Frozen
Heart?”- chiese lei, sporgendosi per vedere quello
che stava facendo l’amico. Olaf annuì
sorridendole, mentre con gesti esperti
versava e dosava le quantità dalle varie bottiglie-
“Mai sentito.”- sentenziò,
risistemandosi al suo posto.
-“Ti fidi?
È un drink di mia invenzione.”- le disse infine,
porgendole un bicchiere con i bordi ghiacciati e un liquido denso e del
colore
del cielo terso-“Pronta? Quando l’avrai assaggiato
non potrai tornare più
indietro.”-
Anna prese il
bicchiere tra le mani, osservando i ghirigori
del ghiaccio lungo i bordi, e ne odorò il contenuto. Poi con
un sorriso disse:“Olaf,
si vede che non mi conosci: sono nata pronta!”-
NdA:
Salve, salvino gente! Come ve la passate? Era da un po’
(tanto!) che non aggiornavo questa ff, e quindi mi sembrava ora di
farlo XD So che
va un po’ a rilento e che le situazioni sembrano sempre le
stesse, ma non la
scartate dopo la lettura di questo capitolo, perché vi
prometto che l’azione ci
sarà e anche i colpi di scena…se potessi dirvi
quello che viene dopo lo farei,
però poi non avreste più nessun interesse nel
leggere quindi…dovete aspettare!
;) Sono lenta nelle pubblicazioni, direi quasi eterna, ma non lascio
mai una
cosa incompiuta, quindi con un po’ di pazienza arriveremo
alla fine anche di
qst ff!
Piccolo
spoiler: nel prossimo capitolo vedremo davvero cosa
aveva da fare Hans…e ci sarà anche Elsa.
Comunque
volevo precisare che io non ho MAI letto “Cinquanta
sfumature di grigio”,quindi il giudizio di Anna sul libro non
è il mio! Il
Frozen Heart è un drink a tema che ho inventato al momento e
se esiste davvero,
non ne sapevo nulla, giuro XD Ovviamente con quello che scrivo non
voglio
invogliare al bere e nemmeno esaltare l’alcool, anzi
disapprovo il bere con
tutta me stessa…fatelo anche voi, mi raccomando! Ma mi serve
far bere Anna per
esigenze di trama ;)
Okay,
dopo la paternale vi incito a farmi vostre
considerazioni su questo capitolo (non siate troppo cattive/i, sono
debole di
cuore!) e se avete idee per il seguito della storia sottoponetemele :)
Baci,
ci si legge alla prossima!! *.*
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Capitolo 6 *** Take me home ***
Capitolo 6: Take
me home
Continuava a rigirarsi quella
coppa
di Dom Perignon tra le mani da troppo tempo ormai. Il liquido dorato,
era
diventato caldo ed imbevibile, ma avere qualcosa con cui tenere
occupate le
mani, lo rilassava. Se non fosse stato altrimenti, avrebbe di certo
tirato un
pugno a uno dei suo fratellastri, che si erano riuniti come un piccolo
coro a
cappella, in un angolo dell’enorme salone principale del
Waldorf Astoria,
chiacchierando animatamente delle loro famigliole perfette, delle loro
conquiste di una notte, o semplicemente di quanti soldi avessero
guadagnato
quel giorno, ignorandolo completamente.
Ma a lui andava bene
così: rimanere
semplice spettatore di tutto quell’andirivieni di uomini
d’affari e ricche
ereditiere, lo faceva sentire come un giudice super partes.
Aveva mentito ad Anna, quando le
aveva detto che i galà mondani non gli interessavano,
perché non era vero: i
lustrini e l’oro erano il suo elemento naturale, come
l’oceano per uno squalo.
Lui c’era cresciuto in tutto quel lusso inutile, conosceva
pregi e difetti di
ognuna delle persone che popolavano quella sala, gli piaceva vestirsi
bene e
sguazzare nella superficialità di quella gente, il cui unico
pensiero, era
rimpolpare i propri conti bancari alle Cayman.
Aveva amato più di una
di quelle
donne finte e calcolatrici, strette in vestiti griffati, con parure di
diamanti,
che gli lanciavano occhiate provocatorie, a cui lui rispondeva con un
lieve
sorriso: tutte storie di una notte e via, perché per quanto
potessero essere
belle, nessuna di loro meritava davvero la sua considerazione. Tutte
troppo
vuote, nonostante avessero studiato nelle università
più prestigiose del mondo,
come delle bambole a molla, che ripetevano un certo numero di frasi,
all’infinito.
Quando a quella festa aveva visto
Anna, aveva subito pensato che si trattasse di una di quelle, ma quando
aveva
aperto la bocca, dalle sue soffici labbra non erano usciti fuori i
ricchi
resoconti delle proprietà di paparino. Non ricordava come,
ma erano finiti a
parlare dell’arte e del bello, più in generale:
Anna sembrava intendersene e
restare ad ascoltare, tra tutto quel vuoto chiacchiericcio, le sue
considerazioni sulle opere di Monet e Renoir, era stato per lui un
piacere.
Aveva capito subito che lei era diversa e quando l’aveva
salutata, si era reso
conto troppo tardi di non averle chiesto nulla più che del
suo nome.
Ritrovarla tra le strade innevate
di New York, era stata una piacevole sorpresa, e con suo grande
stupore, il suo
cuore aveva fatto una capriola quando l’aveva vista con il
viso rigato di
lacrime.
Non aveva la bellezza sofisticata
delle donne che di solito frequentava, ma quella più
semplice e genuina di una
ragazza qualunque, e stranamente la trovava più attraente di
molte altre. E poi,
da quello che ne sapeva, le rosse erano tutte fuoco e fiamme: di certo
non si
sarebbe annoiato con lei.
Quella serata, a cui
l’avevano
trascinato a forza, si stava protraendo troppo, per i suoi gusti e non
c’era
nulla di interessante con cui far passare il tempo, nemmeno un
giocattolino
carino: erano tutte accompagnate da fratelli e padri iperprotettivi. Se
non
fosse accaduto nulla di interessante nei successivi trenta minuti,
avrebbe
tolto le tende.
Ed invece qualcosa accadde.
Qualcosa
che cancellò dalla sua mente Anna, i suoi fratelli e la
gente stipata nella
sala.
Fu come se un fulmine lo avesse
colpito in pieno petto, facendogli perdere la cognizione di quello che
aveva
attorno, lasciando che la sua mente si concentrasse solo
sull’elettricità che
gli circolava in corpo.
Da una delle porte del salone,
entrò Mr Ades, che a dirla tutta era fondamentalmente un
ospite onnipresente
a serate del genere, ma quello
che catturò la sua attenzione, furono senza ombra di dubbio
le due bellissime
ragazze che portava sottobraccio. Una bionda e una bruna. Ma la prima
aveva
qualcosa che la seconda non aveva: una grazia nei movimenti, simili a
quelli di
un felino. Aveva tutta l’aria di uno di quegli animai
pericolosi, da cui non
riesci a distogliere lo sguardo, troppo preso da tanta bellezza, come
una tigre
siberiana a caccia.
Un viso di porcellana,
incorniciato
da capelli così biondi da sembrare fatti di candida neve, su
cui spiccavano gli
occhi, due acquemarine finemente tagliate. Aveva qualcosa di esotico,
ma
familiare al tempo stesso, qualcosa a cui non sapeva dare un nome. La
stoffa
argentata del vestito che indossava, fasciava perfettamente la sua
figura,
mettendo in risalto le curve giuste, lasciando ben poco
all’immaginazione. Era
come se fosse vestita di stelle.
Ades si fece strada tra la folla
di
ospiti, trascinandosi dietro le due ragazze, attirando gli sguardi di
molti
ospiti, e si fermò proprio davanti a suo padre, Mr
Westerguard. Il capo, come
lo chiamava lui, salutò calorosamente il nuovo arrivato con
una stritolante
stretta di mano, ignorando le due ragazze, che si staccarono da Ades e
si
confusero tra la folla. Ma due tipe del genere non potevano passare
inosservate: passeggiavano per la sala, con gli occhi di tutti gli
uomini e di
tutte le donne puntati su di loro, incuranti dei risolini o delle
cattiverie
che queste ultime riversavano loro addosso.
Aveva già visto quella
spettacolare
creatura, in precedenza, all’annuale crociera
sull’Hudson che suo padre aveva
organizzato per festeggiare il 4 Luglio. Aveva calamitato la sua
attenzione fin
da subito, con quella sua aria altezzosa, la postura rigida e
l’indifferenza
agli sguardi degli uomini presenti. Non aveva parlato con nessuno se
non con la
sua compagna, scambiandosi occhiate tetre, e con Jack North, uno dei
suoi
migliori amici. Cosa avesse North che gli altri presenti non avessero,
non era
riuscito a capirlo, stava di fatto che solo in sua compagnia la
ragazza, di cui
non conosceva nemmeno il nome, aveva sorriso: un sorriso timido e quasi
tirato,
ma che le aveva illuminato gli occhi.
Anche quella sera, non fece
eccezione: Hans le tenne gli occhi puntati addosso, fissandola con
malcelata
curiosità da un angolo della sala, mentre lei scivolava
silenziosa come
un’apparizione, facendo attenzione a non urtare nessuno,
guardando sempre
davanti a sé, senza incrociare lo sguardo di nessuno.
Qualcosa era cambiato
dall’ultima volta che l’aveva vista: la luce di
fiera dignità, che le aveva
visto brillare negli occhi, aveva lasciato il posto ad uno sguardo
opaco ed insicuro,
quasi spento. Stava cercando qualcuno tra la folla, se ne rese conto
quando la
vide fermarsi e guardarsi attorno. Cercava qualcuno che accorresse in
suo
aiuto, glielo leggeva negli occhi.
La tentazione di avvicinarsi fu
troppo forte per metterla a tacere, e con passo certo si fece strada
verso di
lei, salutando con un gesto del capo alcuni suoi conoscenti. Non aveva
uno
scopo preciso: voleva solo sentire la sua voce.
-“Cerchi qualcuno in
particolare?”-
le chiese senza troppi preamboli, arrivandole alle spalle.
La vide sobbalzare
impercettibilmente, mentre si voltava verso di lui, recuperando una
postura
rigida e una faccia neutra: “No.”- rispose
solamente, fissandolo negli occhi.
-“Quindi posso offrirmi
di essere
il tuo salvatore per questa sera?”-
-“Da cosa dovrei essere
salvata?”-
fece lei, alzando un sopracciglio chiaro, interrogativa. Aveva ragione,
la sua
voce era quanto di più melodioso avesse mai sentito.
-“Ah, non saprei, ma la
tua faccia
mi dice che questo non è il posto dove vorresti essere al
momento.”- lei si
strinse le mani, come per nasconderne il tremore
–“Credimi, gettarsi nella
vasca degli squali da soli non è granché, meglio
se si è accompagnati. Come si
dice: un problema condiviso è un problema
dimezzato.”- le sorrise affabile.
-“Ti crea problemi,
rimanere qui?
Non mi sembri il tipo da disprezzare una serata del genere.”-
puntualizzò lei ,
distogliendo lo sguardo, facendolo vagare sulla sala.
-“No, affatto. Ma senza
una
compagnia decente, anche la festa migliore perde d’interesse.
Ti andrebbe di
farci compagnia a vicenda?”- fece una pausa studiata, per
osservare la sua
reazione.
-“Non conosco nemmeno
il tuo
nome…di solito non do corda agli sconosciuti.”-
ribatté fredda.
-“Perdona la mia
mancanza, sono un
maleducato: Hans Westerguard.”- fece un piccolo inchino,
portandosi la mano
destra la petto.
-“Oh, tu sei il figlio
di…”- la
ragazza lo guardò con gli occhi spalancati, gesticolando
verso la folla.
-“Del grande capo,
si.”- confermò
lui sorridendo-“E tu sei?”
-“Elsa.”-
soffiò fuori.
Come la sorella di Anna? Che
strana
coincidenza.
-“Elsa e
…?”-
-“Elsa e
basta!”- scattò lei.
Hans rimase per un momento
interdetto, ma lasciò perdere il suo comportamento:
“Allora, Elsa e basta,
andiamo a bere qualcosa?”-propose.
-“Se posso evitare, non
bevo.”-
rispose diplomaticamente, stringendo ancora di più le mani.
Hans sembrò
contrariato dalla
risposta, ma non le fece pressione, perché la vide osservare
qualcosa e spalancare
gli occhi, impaurita. E all’improvviso si ritrovò
una delle sue piccole e
affusolate mani, nell’incavo del gomito.
-“Ma se
insisti.”- blaterò, mentre
lo conduceva verso il free bar, sul lato lungo della sala.
Hans si lasciò
condurre in
silenzio, ma prima si voltò verso la cosa che
l’aveva fatta impallidire: Mr
Ades li fissava scuro in volto, seguendo ogni passo di Elsa con uno
sguardo
indecifrabile, ma quando si accorse di essere osservato, gli rivolse un
sorriso
inquietante e un veloce saluto con la mano.
Un brivido
gli scese lungo la schiena, e l’unica cosa naturale che gli
venne da fare, fu
stringere la mano fredda di Elsa.
-“Cavolo, passala!
Passa quella
palla, maledetto egoista!”- Anna aveva già da un
po’ cominciato ad inveire poco
finemente verso il megaschermo. Al suo terzo drink, era scesa dallo
sgabello e
si era avvicinata per sentire meglio il commento dei cronisti,
sovrastato dal
vociare della clientela. Dei ragazzi le avevano fatto posto al loro
tavolo,
invitandola a bere con loro e lei aveva accettato su di giri.
Da quando era quasi caduta sui
suoi
stessi passi, Olaf non le aveva tolto un attimo gli occhi di dosso, per
paura
che potesse succederle qualcosa. E poi, una ragazza sola e brilla, nel
bel
mezzo di un branco di bestioni esaltati, non lasciava presupporre nulla
di
buono.
Lui e Kristoff si erano fermati
un
momento per osservare l’azione di gioco: “Dai
passala.”- commentò Olaf-“
Perché
non la passa?”- chiese poi rivolgendosi al cugino, che gli
rispose facendo
spallucce, senza staccare lo sguardo dal megaschermo
–“Secondo te la sa
passare?”- continuò.
Intanto sullo schermo, il
quarterback continuava a correre, dopo aver superato con una finta la
prima
linea di difesa sulla linea delle 50 yards. Il ricevitore si sbracciava
sulla
linea delle 20, cercando di smarcarsi dai due corner back che gli
alitavano sul
collo. Da un momento all’altro il quarterback avrebbe di
sicuro lanciato.
Doveva farlo, altrimenti l’azione sarebbe stata un
fallimento. Superò illeso
anche la seconda linea difensiva e nel pub c’era
già chi gridava al miracolo,
poi caricò il destro e tirò la palla verso il
fondo sinistro del campo. La
palla ovale atterrò direttamente tra le braccia del
ricevitore, intento a
zigzagare tra gli strong safety, l’ultimo baluardo della
difesa avversaria.
Nel pub scese il silenzio, mentre
diverse persone rimasero con il fiato sospeso, pronti per esultare: tra
questi
c’era Anna.
Quando la palla
rimbalzò sull’erba
verde della meta, scoppiò il caos. L’ovazione che
seguì il touchdown fu
qualcosa di emozionante. Anna gridò così forte da
farsi male alla gola, e
abbracciò i suoi compagni di bevuta, esultando felice:
“Si,si, si!”
I pochi tifosi della squadra
avversaria, rimasero muti a scuotere il capo demoralizzati. Olaf
improvvisò un
balletto, imitando il ballo della vittoria in cui si stava esibendo, a
bordo
campo, il giocatore che aveva appena segnato.
-“È davvero
imbarazzante,
smettila.”- commentò Kristoff, mentre si
allontanava di un passo dal cugino.
Olaf si fermò nel
mezzo di un
moonwalk sgangherato e lo fissò serio: “Ma tu sai
divertirti?”
A salvare il proprietario del
pub,
dallo sguardo omicida del cugino, ci pensò Anna, che
arrivò tutta sorridente e
traballante: “Non posso crederci, non ci speravo nemmeno! Ma
te lo immagini? I
Denver Broncos alla finale del Super Bowl!”- si
riaccomodò sullo sgabello che
aveva abbandonato poco prima- “Devo chiamare mio padre,
starà esultando anche
lui. Deve assolutamente procurarsi i biglietti per la
finale.”-si sporse per
recuperare il cellulare dalla borsa e quasi cadde.
-“Tutto
okay?”- le chiese Olaf
preoccupato.
-“C-credo di si. Mi
gira solo un
po’ la testa, non è nulla, sono stata in
condizioni peggiori.”- gli scoccò un
sorriso divertito-“ Te lo avevo detto che riuscivo a
reggere,no?!”-.
Dietro di lei, arrivò
uno dei
ragazzi del tavolo dove era stata invitata poco prima: “Ehi
rossa, bicchierino
della staffa?”- le chiese, sedendosi sullo sgabello libero al
suo fianco.
-“Prima di tutto io
sono
Anna.”-disse alzando un dito-“E secondo non so
davvero cosa sia un bicchiere
della staffa! C’entrano
per caso i
cavalli?”- chiese ingenuamente, sorridendo.
-“Sei uno
spasso.”- esclamò il
ragazzo, battendo una mano sul bancone, facendo sobbalzare Olaf
-“No, intendevo
l’ultima bevuta prima di andare via. Ci stai?”
-“Ma certo!”-
esclamò felice Anna,
attirando lo sguardo severo del proprietario del pub.
La ragazza era chiaramente
alticcia
e sembrava non essersi resa conto del faccia poco raccomandabile del
tizio
seduto al suo fianco: “Anna, so che non sono fatti miei, ma
direi che per
stasera può bastare, no?”- cercò di
farla ragionare, avvicinandosi a lei, per
non essere sentito dal tale.
-“Ehi, piccoletto,
servici da bere
e non discutere! È quello il tuo mestiere, no?”-
intervenne il tizio, che
cominciava ad assumere un’aria poco affidabile, ogni minuto
che passava.
Olaf rimase interdetto per pochi
secondi e fece per rispondere a tono, quando Anna lo
anticipò,lasciandolo con
la bocca semiaperta, pronto a ribattere: “Aspetta che? Non
osare rivolgerti al
mio amico in questo modo!”-
-“Andiamo rossa, non
c’è bisogno di
prendersela tanto.”- cercò di metterle un braccio
attorno alle spalle-“Stavo
solo scherzando, vero piccoletto?”-
Anna si scansò
indignata, mentre
Olaf gli rivolgeva uno sguardo omicida.
-“Smettila di chiamami
così, ti ho
già detto che mi chiamo Anna!”-
protestò lei, alzandosi a fronteggiarlo-“ E lui
è Olaf e non è un
piccoletto…è solo un po’ più
basso.”-
Olaf fece un colpo di tosse,
alzando un sopracciglio, scoccandole uno sguardo dubbioso.
Anna si riprese dal lapsus:
“Ehm,
volevo dire che è basso, ma è un concentrato di
zucchero, cannella e ogni cosa
bella!*” –
La ragazza stava straparlando
più
del solito, lasciando che le parole sconnesse, che le si formavano in
testa,
fluissero libere sotto la spinta dell’ebbrezza , attraverso
le sue labbra
screpolate.
-“Non sapevo fossi una
Power Puff
Girl!”- scoppiò a ridere il tizio, indicando Olaf.
-“Anna!”- si
lamentò il piccoletto,
voltandosi verso di lei.
-“Che
c’è?”- chiese, scuotendo le
spalle, ignara del casino che aveva appena fatto.
-“ Allora, questo
bicchierino
quando arriva?”- continuò imperterrito il tizio.
-“Bevitela da solo la
tua staffa!”-
borbottò Anna, recuperando la sua borsa per uscire.
Il tizio
l’afferrò per la vita,
prima che potesse fare due passi: “Te ne vai così?
Senza nemmeno il bacio della
buonanotte?”- le alitò in faccia, stringendola di
più.
Anna cercò di
divincolarsi,
aggrappandosi al suo braccio con le unghie laccate di rosso:
“Lasciami andare,
brutto…”-
Olaf cercò di
scavalcare il
bancone, cadendo rovinosamente in terra tra gli sgabelli, per aiutare
l’amica.
-“Ehi, toglile le mani
di dosso.”-
intervenne una voce alle loro spalle.
Il tizio si voltò
verso Kristoff,
che era accorso non appena aveva visto Olaf cadere goffamente.
-“E tu chi diavolo sei,
per dirmi
quello che devo fare, eh?”- gli chiese alzandosi a
fronteggiarlo, continuando a
tenere ferma Anna, che per quanto si applicasse, non riusciva a
liberarsi dalla
presa ferrea di quell’idiota, che ora fronteggiava
l’idiota del caffè: “Il suo
ragazzo?”
-“No,
sono…suo fratello.”- sputò
fuori Kristoff, cercando di mantenere il sangue freddo.
-“Sul serio? Non vi
assomigliate
per niente.”- ridacchiò, spingendolo indietro con
una mano.
-“Abbiamo un padre
diverso.”-
proruppe Anna, cercando di dare manforte al biondo-“Ora, dopo
la spiegazione
del nostro albero genealogico, ti dispiacerebbe
lasciarmi…andare?”- continuava
a dimenarsi senza esito.
-“Sentito mia sorella?
Lasciala
subito, altrimenti ti ritrovi con il culo nella neve nel giro di tre
micro
secondi.”- continuò Kristoff, facendosi sempre
più vicino al tizio,
sovrastandolo con la sua altezza.
Il braccio che teneva ferma Anna
si
allentò, fino a lasciarla completamente libera.
-“Ehi, stiamo calmi.
Volevo solo
divertirmi un po’.”- esclamò facendo un
passo indietro.
-“Con me? Hai sbagliato
persona,
fratello.”- gli rispose Anna, aggiustandosi il maglione
sgualcito, e agitando
un dito davanti alla faccia del tizio.
Kristoff la osservò
ondeggiare
paurosamente, quasi stesse perdendo l’equilibrio, e prima che
potesse cadere
addosso all’idiota o con la faccia sul pavimento,
l’afferrò per mano, tirandola
su: “Calmati furia scatenata, il tuo amico se ne sta andando,
vero?”-
Il tizio scoccò
un’altra occhiata
ad Anna e poi alla mano di Kristoff che la teneva ferma: “Non
c’era bisogno di
tutta questa scena, te la puoi tenere. Non mi interessano i giocattoli
di
qualcun altro.”- poi si girò e raggiunse il gruppo
di amici che aveva lasciato
al tavolo.
Anna cercò di
avventarsi su di lui,
ma Kristoff la tenne ferma: “Credo sia ora che tu torni a
casa.”- le disse
facendola sedere.
-“Già, lo
credo anch’io.”- disse
Olaf, massaggiandosi il fianco dolorante-“La accompagni tu?
Posso finire io
qui.”-
-“Che?”-
proruppero entrambi.
-“Posso farcela da
sola, non ho
bisogno della tata.”- sbottò lei.
-“Io non porto la gente
a casa.”-
si lamentò lui.
Olaf li fissò per
pochi secondi,
prima di puntare il dito verso Anna: “Tu non lascerai questo
posto, se non
accompagnata da qualcuno di mia fiducia.”- si
voltò verso Kristoff- “E tu sei
l’unico di cui mi fidi al momento. E poi lei non è
‘gente’! Lei è Anna, una
delle mie clienti affezionate e da ora anche ottima amica.”-
sorrise alla
ragazza.
Le labbra di Anna si piegarono in
un morbido sorriso, prima che le parole di Olaf giungessero al suo
cervello in
tutta la loro chiarezza: “Senti, Olaf apprezzo il fatto che
ti preoccupi per
me, ma…”
-“Shh!”- la
zittì lui.
-“Ma
io…”-cercò di continuare.
-“Shh-shh!”-le
puntò un dito alle
labbra-“ Niente obiezioni. Ci vediamo Anna. Dormi
bene.”- le augurò dandole un
buffetto sulla guancia, lasciandola senza parole.
-“Kristoff, noi ci
vediamo domani.
Mi raccomando portala a casa sana e salva.”- aggiunse
allontanandosi.
I due rimasero a fissarlo, senza
muoversi, poi si voltarono l’uno verso l’altra e i
loro sguardi si incrociarono
per un imbarazzante secondo, prima che lui si schiarisse la voce:
“A-aspetta
qui, i-io devo prendere le chiavi.”-
Anna lo guardò
avventurarsi nel
retro del pub e uscirne qualche minuto dopo con un mazzo di chiavi in
mano e il
cappotto addosso, quello su cui gli aveva versato il caffè,
da come poteva
dedurre dall’alone scuro sul petto.
Lui si avviò verso
l’uscita,
aspettando che Anna lo seguisse, ma lei rimase seduta a guardarlo con
un’aria
strana: “Allora, vieni?”- le chiese sospirando
scocciato.
Anna si riscosse e recuperando la
sua borsa lo seguì fuori, in silenzio.
-“Senti, non
c’è bisogno che mi
accompagni, davvero. Ce la faccio anche da sola e poi io abito a
qualche
isolato da qui, potrei prendere la metro.”-
-“Non se ne parla. Se
Olaf viene a
sapere che ti ho lasciata vagare per le strade di New York”-
si fermò a guardare
l’orologio-“…all’una di notte!
Cavolo non pensavo fosse così tardi. Comunque
non me lo perdonerebbe mai.”- disse, scrollando il capo.
-“Se ci tieni
tanto…beh, allora
portami a casa.”- accettò, seguendolo barcollante
sul marciapiede, fino ad una
macchina nera-“Non posso crederci, ma voi maschi siete
fissati con le Mustang?
Cos’è vi impiantano la voglia di averne una nel
codice genetico?”- sbuffò,
guardando la vecchia macchina, tirata a lucido.
-“Spero tu stia
scherzando! Questa
è una Impala del ’67, della
Chevrolet…non ha nulla a che vedere con una
Mustang.”- le rispose accarezzando la carrozzeria e aprendo
lo sportello del
guidatore.
-“Si, è lo
stesso. Per me una vale
l’altra.”- lo liquidò, salendo al posto
del passeggero, battendo la testa.
-“Ce la fai a salire o
ti serve una
mano?”-
-“Ehi, non sono
ubriaca, mi gira
solo un po’ la testa.”- in realtà vedeva
quasi doppio e la testa le vorticava
come sulle montagne russe, ma non gli avrebbe mai dato la soddisfazione
di
cadergli davanti agli occhi.
-“Come
vuoi.”- tagliò corto, mentre
lei chiudeva lo sportello-“ Metti la cintura.”-
Lei obbedì come una
brava bambina,
tirò la cintura e cercò con tutta la buona
volontà di inserirla al suo posto,
ma non riusciva a capire quale, delle due fessure che vedeva, fosse il
congegno
per fermare la cintura.
Kristoff la guardò,
cercando di non
ridere: “Hai fatto?”- le chiese facendola trasalire.
Anna alzò lo sguardo
su di lui, lo
fissò attraverso i capelli che le erano sfuggiti dalle
trecce, imbarazzata:
“Ehm, potresti…”-
Click. La cintura era la suo
posto,
senza che lei avesse avuto il tempo di concludere la frase.
Quando il rumore del motore
riempì
il silenzio dell’abitacolo, Anna si accasciò
contro lo schienale del
seggiolino, sospirando: chi avrebbe mai pensato che l’idiota
del caffè, sarebbe
potuto diventare il suo salvatore! Doveva ringraziarlo. Se non
l’avesse fatto
subito, ne era certa, se ne sarebbe dimenticata.
-“Garzie…p-per
prima.”- biascicò a
metà tra il sonno e la veglia –“Gli
idioti come quello meritano di essere presi
a calci.”-
-“Anch’io allora, perché
secondo il tuo giudizio rientro
nella categoria degli idioti.”- la punzecchiò,
mentre sostavano ad un semaforo.
Anna ci pensò su un
attimo: “Nah,
stai facendo passi avanti: ora sei nella categoria
finto-fratello-che-non-sapevo-di-avere-che-mi-ha-salvata-dall’imbecille-di-turno.
Continua così e potresti anche diventarmi
simpatico.”-
Il sorriso
che gli vide spuntare sulle labbra, mentre ripartiva, le fece
attorcigliare lo
stomaco, o forse era solo quello che aveva bevuto che le si stava
rinfacciando.
Così impari a bere a stomaco vuoto,
idiota.- si accusò, chiudendo gli occhi e
scivolando in un piacevole
torpore.
Elsa stringeva tra le mani il
bicchiere, come se da esso dipendesse la sua stessa vita, mentre
ascoltava con
poco interesse quello che il rampollo Westerguard aveva da dirle.
Megara la
fissava dal fondo della sala, con uno sguardo preoccupato, scoccando
delle
rapide occhiate tra lei e Ades, che chiacchierava animatamente con un
nutrito
gruppo di lupi di Wall Street.
Hans era stato
un’ottima
scappatoia, prima che Ades la costringesse a fare compagnia a qualcuno
dei suoi
vecchi amici. Era stato gentile e finora non aveva fatto passi falsi,
le aveva
offerto da bere e si era lanciato nel riepilogo delle storie scandalose
dei
presenti, quindi per il momento era al sicuro.
-“Vedi quello
laggiù?”- le disse
indicando un vecchio con il doppiopetto e un sigaro tra le
dita-“Quello è Joe
Dallas, uno dei petrolieri texani più ricchi della nazione.
Ha settant’anni
suonati, tre matrimoni alle spalle, una decina di figli e continua ad
importunare le giovani ragazze. È un giocatore incallito di
poker e proprio il
mese scorso, ha perso un ranch di sua proprietà con una mano
sfavorevole.”-
sorrise tra sé, sorseggiando il suo Martini.
-“Perché mi stai raccontando tutto
questo?”- gli
chiese, cercando di capire dove volesse andare a parare con tutte
quelle
storielle indecenti.
-“Solo per dimostrarti
che non devi
temere questa gente. Anche loro hanno dei segreti e delle
debolezze.”- le
sussurrò in un orecchio.
Il suo fiato caldo, contro la
pelle
delicata del collo, le fece correre un brivido lungo la schiena:
“Io non ho
paura di queste persone.”- disse in un soffio, guardandolo
negli occhi.
-“I tuoi occhi dicono
il contrario,
cara Elsa. La paura è una cosa che non si può
nascondere. Affiora in superficie
senza che tu possa far nulla, con piccoli segni evidenti: le mani che
tremano,
le pupille che si dilatano.”- le disse posandole una mano,
sopra le sue, chiuse
attorno al bicchiere, fermandone il tremito-“ Chi
è, che ti fa tanta paura qui
dentro?”- le accarezzò una guancia con il dorso
della mano, libera dal Martini.
Lei si fermò a
fissarlo in quegli
occhi di un verde innaturale, per capire cosa si nascondesse dietro
tanto
interesse, mentre tratteneva il respiro. Si scostò brusca,
facendo un passo indietro:
“I-io devo andare, è stato un piacere fare la sua
conoscenza signor
Westerguard.”- si affrettò a dire, prima di essere
bloccata da un braccio
attorno alla vita.
-“Els, vedo che hai
conosciuto il
figlio del capo di tutta la baracca.”- le sorrise il nuovo
arrivato-“Come va
West?”- chiese porgendogli una mano.
Lei tirò un sospiro di
sollievo,
nello specchiarsi negli occhi chiari del suo amico Jack.
-“Bene, prima che
arrivassi tu,
North.”- Hans strinse la mano dell’amico di
controvoglia, dato che gli aveva
appena rubato il suo passatempo.
-“Di che stavate
parlando? Spero
non di me, mi offenderei a morte.”- fece fintamente offeso.
-“In realtà,
me ne stavo andando.”-
puntualizzò Elsa.
-“Direi che ritirata
strategica, si
addice di più a quello che stai facendo.”- la
provocò Hans, scoccandole uno
sguardo divertito.
-“Bene allora, che ne
dici se ti
accompagno io a casa?”- le chiese Jack, ignorando il commento
dell’altro.
-“Si. Portami a
casa.”- lo supplicò
quasi lei, stringendosi al suo braccio, non staccando lo sguardo dagli
occhi
magnetici di Hans.
-“Come desidera mia
regina.”-
scherzò Jack-“West, è stato un piacere
rivederti. Dovremmo vederci qualche
volta, per una partitella o che ne so.”- gli disse sorridendo.
-“Si,
certo.”- lo liquidò Hans
recuperando il suo Martini e svuotando il bicchiere in un sorso, mentre
li
guardava allontanarsi verso l’uscita.
Quando Elsa
si voltò a guardarlo un'ultima volta, prima di varcare la
porta, decise che
sarebbe stata sua, in un modo o nell’altro. Al diavolo tutto
il resto: se
poteva averla Jack North, di certo poteva farcela anche lui.
-“Grazie.”-
gli sussurrò una volta
che furono da soli.
-“Elsa, non devi
ringraziarmi.
Finché potrò salvarti da certe situazioni, lo
farò sempre.”- Jack fissava la
strada davanti a lui, tenendo una mano sul volante e l’altra
stretta a quella
di lei.
-“Spero tanto che
finisca tutto e
in fretta.”- si lamentò nel buio della macchina.
-“Lo spero tanto
anch’io. Tooth non
vorrebbe vederti in questo stato, le si spezzerebbe il cuore se fosse
qui.”-
Silenzio. Solo silenzio, pesante
come un macigno.
-“Credi che ce la
farò?”- una
lacrima le scese lungo la guancia, mentre guardava fuori dal finestrino.
-“Non ho dubbi. Sei
più forte di
quanto tu creda.”-
Ancora silenzio.
-“Credo che
tutti voi riponiate troppa fiducia in me.”-
La macchina inchiodò
all’improvviso, riscuotendola dal suo improvviso attacco di
narcolessia, e
facendole rivoltare lo stomaco. Spalancò gli occhi di botto,
portandosi una
mano alla bocca.
-“Siamo
arrivati.”- disse con calma
Kristoff, voltandosi verso di lei e cominciando ad agitarsi alla vista
della
sua faccia pallida e delle mani saldamente premute sulle sue
labbra-“Qualcosa
non va?” le chiese, sperando che lei non gli rispondesse
quello che temeva.
-“Sto per
vomitare.”- Anna confermò
le sue paure, mugugnando in disappunto.
-“Non pensarci nemmeno
per sogno!”-
sbottò lui-“Ho appena finito di
pagarla.”- cominciò ad agitarsi sul seggiolino
mentre combatteva contro la cintura, per togliersela.
-“Avresti dovuto
pensarci prima di
inchiodare a quel modo! Un aereo che atterra, frena con meno forza di
te!”- gli
rispose stizzita, portandosi una mano allo stomaco, sentendo che
l’attacco di
nausea cominciava a scemare. Scese con non poca fatica dalla macchina,
mantenendosi allo sportello chiuso.
Si voltò a guardare
l’enorme
palazzone grigio dove abitava e una domanda le sfuggì dalla
bocca: “Come facevi
a sapere dove abito?”- spalancò gli occhi, colta
da una nuova rivelazione-“ Oh
mio dio, sei uno stolker. Stai indietro sono cintura nera di
shiatsu.”- gli
intimò portando i pugni chiusi davanti alla faccia. Che
strano, vedeva quattro
delle sue mani.
Kristoff sospirò
sfinito dal suo
modo di fare: “Se vuoi stendermi a colpi di massaggi, fa
pure.”- ridacchiò
della sua espressione contrariata- “Sta tranquilla, me
l’ha detto Olaf.”- la
rassicurò, voltandole le spalle e avviandosi verso
l’entrata -“E poi non sei il
mio tipo.”- blaterò sottovoce.
Anna abbassò la
guardia e lo seguì
verso l’entrata. Una volta dentro l’ascensore, si
lasciò scivolare vicino alla
parete di metallo: “Guarda che non c’era bisogno di
accompagnarmi fino alla
porta.”- gli disse senza alzare lo sguardo dalla punta dei
suoi stivali.
-“Io sto salendo al mio
piano.”-
replicò con poco entusiasmo, stropicciandosi gli occhi. Era
stata un giornata
davvero pesante e non vedeva l’ora di buttarsi con la testa
sul cuscino, per
dormire fino al mattino successivo.
-“Abiti anche tu
qui?”- gli chiese
sorpresa, mettendosi dritta.
Lui annuì
semplicemente, mentre le
porte dell’ascensore si aprivano sul pianerottolo
illuminato:“Allora,
buonanotte.”- la salutò.
-“Cosa? No, questo
è il mio piano,
non esiste al mondo che tu possa abitare qui e che io non me ne sia mai
accorta!”- uscì in fretta, prima che le porte
dell’ascensore si
richiudessero-“Com’è possibile?- chiese
al nulla, avvicinandosi alla porta del
suo appartamento.
-“I misteri della
vita.”- borbottò
lui, mentre infilava le chiavi nella toppa della sua porta.
Anna intanto cercava di fare lo
stesso, con miseri risultati: fece cadere le chiavi e abbassandosi a
raccoglierle, un capogiro fece capitolare anche lei. Si tirò
su a sedere, con
la schiena rivolta verso la soglia, sbuffando. Ok, era così
tanto ubriaca che
non riusciva ad aprire la porta e a rimanere in equilibrio per
più di tre
secondi, e allora?
-“Serve
aiuto?”- la sua voce,troppo
vicina, la fece
trasalire. Lei lo
guardò, mentre le tendeva una mano per rialzarsi. La
tirò su e lei gli mise le
sue chiavi in mano: “So che avevo detto che ce la facevo, ma
ti
dispiacerebbe…”- gesticolò verso la
porta ancora chiusa, mentre vi si poggiava
con tutto il suo peso.
Kristoff rovistò tra
le varie
chiavi e ne provò alcune, mentre Anna chiudeva gli occhi per
l’ennesima volta,
senza che lei potesse fare nulla per evitarlo. Quando sentì
la serratura
scattare ne fu sollevata, e fece un passo dentro il piccolo
appartamento.
-“Da qui in poi ce la
faccio da
sola, grazie. Non credo serva che tu mi porti a letto.”-
biascicò, mentre lanciava
la sua borsa da qualche parte al buio, ignara di quello che aveva
appena detto.
La faccia di Kristoff
cambiò
cinquanta sfumature di rosso in pochi secondi: “Oh,
beh…okay. C-ci vediamo.”-
fece per andarsene, sollevato che il suo compito fosse finito, ma un
tonfo e
parolacce dette a denti stretti, lo fecero tornare sui suoi passi.
-“Sto bene, s-to bene.
Sono solo
inciampata.”- cercò di difendersi.
Sospirò demoralizzato,
mentre
l’aiutava per la seconda volta a mettersi in piedi:
perché lo faceva? Ormai era
arrivata a casa, era un problema suo se cadeva e ci rimaneva secca sul
pavimento. Avrebbe potuto tranquillamente chiudere la porta del suo
appartamento
dietro di sé e scivolare nel mondo dei sogni, senza doversi
preoccupare della
sorte di quella svampita.
-“Sto bene, davvero,
ma…”- si voltò
per ringraziarlo, ed incrociò il suo sguardo caldo e
rassicurante, così diverso
da quello che gli aveva visto nella metro o quello che le aveva rivolto
quella
stessa sera al pub. Trattenne il fiato, mentre lui la guardava di
rimando,
tenendola ancora stretta per…quale motivo?
-“Lasciala
immediatamente o per
quanto è vero che gli scozzesi indossano il kilt, ti ficco
questa su per il…”-
Merida sostava sulla porta della camera, imbracciando l’arco
armato, puntandolo
verso Kristoff.
-“Woah! Mai sei
pazza.”- esclamò
lasciando andare Anna, che barcollò all’indietro
presa alla sprovvista,
cercando di recuperare l’equilibrio.
-“Mer!”-
scattò verso l’amica,
facendole abbassare l’arco, che sembrava molto fuori luogo
tra le quattro mura
di un appartamento per collegiali-“Ti sembra il
modo?”- la rimproverò.
-“Anna, ma quanto hai
bevuto?”-
Merida si scostò dall’amica.
-“Un
po’.”-
-“Un po’
quanto? E lui chi diavolo
è?”- protestò, indicandolo bruscamente.
-“Ehm, io sono quello
che toglie le
tende e se ne va a dormire.”- Kristoff uscì alla
svelta, evitando di guardare
l’invasata con l’arco.
-“No, tu non vai da
nessuna parte!
Ora mi dici perché Anna è in queste condizioni
e…”- cercò di seguirlo.
-“Mer! Lascialo stare,
mi ha solo
riaccompagnata a casa.”- la rabbonì, mettendosi a
sedere sul divano.
-“Ma
come…?”-
-“Chiudi la porta, la
luce mi fa
male agli occhi.”- si lamentò, lanciandole un
cuscino-“Christofer, ti devo un
favore!”- urlò poi, indirizzata al ragazzo che
aveva battuto in ritirata,
barricandosi nel su appartamento.
-“Anna!”-
Merida chiuse di scatto
la porta, facendo sobbalzare la coinquilina per il rumore, che nelle
sue orecchie
ubriache rimbombava come il motore di un jumbojet.
-“Shhh!”- la
zittì-“Ne parliamo
domani.”- Anna si stese sul divano, premendosi un braccio
sugli occhi, troppo
pesanti per tenerli aperti.
-“Non
finisce qui.”- l’avvertì la
scozzese.
NdA: come butta bella gente? Ho
aggiornato alla velocità della luce secondo i miei
standard…spero siate felici
almeno la metà di quanto sono felice io d’aver
postato ;)
Allora non ho nulla da dire,
perché
tipo questo capitolo è la continuazione del precedente.
Spero solo vi sia
piaciuto.
Ho alcune cose da chiarire: non
conosco il football americano e per descrivere un’azione mi
sono dovuta
documentare su Wikipedia, quindi se ho detto cavolate lasciatemele
passare XD I
Denver Broncos sono la squadra di Denver appunto, la capitale del
Colorado, lo
Stato da dove viene Anna nella mia ff, per questo lei tifa questa
squadra.
Inoltre i Broncos sono stati per davvero alla finale del Super Bowl
quest’anno,
che poi abbiano perso contro i Seattle Seahawks è un altro
discorso XD
Anna dice che Olaf è
un concentrato
di “zucchero, cannella e ogni cosa bella” e il
tizio molesto ride, dicendo che
non sapeva che lui fosse una Power Puff Girl. Spiegazione: le PPG sono
le
Superchicche, non so se qualcuno di voi se le ricorda e la sigla diceva
che il
loro creatore aveva usato zucchero, cannella e ogni cosa bella, per
realizzarle. Forse spiegata non fa più ridere, ma
tant’è…XD
La macchina di Kristoff,
l’Impala
del ’67, è la macchina dei fratelli Winchester di
Supernatural e mi piaceva per
lui.Ora avete capito che mi piacciono i riferimenti a telefilm e
cartoni di
vario genere? Spero li apprezziate :)
Se
qualcos'altro non è chiaro
fatemelo sapere :) Credo d’aver detto tutto…
Anzi NO! Rullo di
tamburi…c’è una
sorpresa, o almeno per me lo è stata ;) La dolcissima e
talentuosissima Laura,
alias weepingangel qui su efp, mi ha inviato dei bellissimi disegni
ispirati da
questa ff eccoli qui: Grazie mille!
|
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Capitolo 7 *** Awakenings ***
Booom! Questo chap è per te Adri!! X’D
Capitolo 7: Awakenings
7:22
del mattino. Chi diavolo era che la disturbava a quell’ora
assurda? Di lunedì
mattina per giunta!
Il
cellulare continuava a vibrare nella sua pochette, che aveva gettato
senza
tanti complimenti da qualche parte sul pavimento la sera prima. E lei
continuava a fissare l’orologio digitale, con i suoi numeri
rossi e giganti,
che in quel momento batteva le 7:23.
Rotolò
via dalla presa dell’uomo al suo fianco, infinitamente piano,
per non
svegliarlo: non voleva vedere i suoi occhi e nemmeno il sorriso
divertito che
le avrebbe rivolto appena avesse posato il suo sguardo su di lei. In
effetti non
c’erano pericoli: dormiva così
profondamente da sembrare morto.
Con
l’aspetto che si
ritrova, direi più il dio dei morti,
concordò con se stessa, lasciando vagare lo sguardo sulla
figura possente e
semi coperta dell’uomo.
Recuperò
la sua camicia dal pavimento e se la infilò, non per
romanticismo o per
qualcosa che implicasse il fatto che lui le piacesse, ma solo
perché infilarsi
il vestito che lui le aveva tolto con tanta velocità la
notte precedente
avrebbe richiesto troppo tempo, tempo in cui il vibrare del cellulare
le
avrebbe trapanato il cervello.
Raggiunse
velocemente l’oggetto incriminato e sbloccò lo
schermo, sospirando nel leggere
il messaggio che le avevano lasciato.
DOVE
SEI?
-H
Se
solo lo sapessi, non mi
guarderesti nemmeno più in faccia,
pensò oscurando lo schermo, senza rispondere.
Rimase
a fissare il cellulare tra le sue mani per alcuni minuti, vergognandosi
come
una ladra per quello che aveva fatto. L’uomo alle sue spalle
si rigirò nel
letto, riscuotendola dal suo stato di torpore. Uscì in
fretta dalla stanza,
chiudendo la porta dietro di sé. La luce del sole che
sorgeva su un altro
giorno la avvolse non appena mise piede nell’enorme salotto,
che si affacciava
sullo skyline di New York. Addormentarsi in un superattico aveva i suoi
pregi,
e tra le tante cose, quella era una delle poche che le piacesse
così tanto:
vedere la città svegliarsi pian piano, animarsi di taxi e
pedoni indaffarati,
che da quell’altezza sembravano formiche impazzite. Anche lei
sarebbe dovuta
essere per strada, lontana da quel posto. Il suo riflesso nella
gigantesca
vetrata le rimandava l’immagine di una piccola donna, troppo
coinvolta in
qualcosa più grande di lei, schiava degli istinti e della
paura.
La
sentì arrivare, la crisi di nervi imminente del giorno dopo.
Strinse i pugni e
ricacciò indietro le lacrime. Rovistò tra le
tasche della sua giacca, lasciata
sul divano di pelle, alla ricerca delle
sigarette. Le teneva in una scatolina di metallo nero laccato, assieme
allo
zippo decorato con un teschio.
Così
fine eppure così kitsch, sorrise tra
sé, mentre ne
sfilava via una e se la metteva in bocca.
La
piccola fiamma dell’accendino le bruciò i
polpastrelli, mentre l’estremità
della sigaretta diveniva incandescente. Posò
l’accessorio dove l’aveva trovato
e inspirò profondamente. Trattenne il fiato per tutto il
tempo possibile, poi
cacciò il fumo, guardando le volute grigie diradarsi
nell’aria attorno a lei. A
volte anche lei si sentiva così, come se il più
semplice refolo di vento avesse
potuto dissolverla, trascinandola via nella corrente.
Aspirò
ancora una volta, poi di nuovo, persa nel momento di quiete dopo la
tempesta.
Poi una mano, la sua mano, le
tolse
la sigaretta dalle dita, spegnendola con un movimento veloce nel
posacenere di
cristallo, sul tavolino da caffè, che sembrava
più un pezzo d’arte che un
mobile d’arredamento.
Non
l’aveva sentito arrivare.
-“Sai
che odio quando lo fai?”- le soffiò la sua voce,
arrochita dal sonno.
-“Cosa?
Fumare?”- lei lo sapeva, lo faceva di proposito ogni volta
che si risvegliava
nel suo appartamento. Qualunque cosa pur di fargli dispetto: era la sua
piccola
rappresaglia per fargli sapere che lui non comandava su tutto, che
almeno
qualcosa le era ancora concessa.
-“Già.
È davvero volgare, sembri una…”-
-“Prostituta
d’alto bordo? Ma lo sono.”- lo beccò,
interrompendolo, un’altra cosa che lo
infastidiva.
-“Smettila
di giocare alla bambina cattiva. Il broncio non ti si
addice.”- le disse.
-“Non
mi sembra d’avere molto per cui sorridere.”- gli
rispose, voltando il viso
lontano dal suo sguardo penetrante. Lui prese a giocherellare con i
suoi
capelli, lasciati liberi a coprirle le spalle.
-“Sicura?
Avresti potuto svegliarti nel letto di Dallas o peggio ancora di uno
dei
Westerguard: sai, ho sentito dire che sono parecchio
esigenti.”- ridacchiò a
labbra strette -“Invece eccoti qui fiorellino. Mi sembrava
che apprezzassi la
mia compagnia, ieri sera.”- le disse, tirandole una ciocca di
capelli scuri,
che aveva arrotolato attorno al dito indice.
-“Mi
fai schifo.”- sibilò tra i denti lei, sottraendosi
al suo tocco.
-“Non
è vero Meg cara, e lo sai, altrimenti non saresti
qui.”-
E
lei lo sapeva perfettamente e si odiava per quello. Lo disprezzava con
tutta se
stessa, ma non poteva fare a meno di lui. Sindrome
di Stoccolma, le avrebbe detto Elsa. Ma non era vero
perché, per quanto lui
fosse il suo aguzzino, lei gli si era consegnata spontaneamente, senza
giochetti psicologici o violenza fisica. Quando qualche tempo prima
l’aveva
colpita, lo aveva fatto colto da un eccesso d’ira, per cui
poi si era scusato
in un modo molto efficace. E quando Elsa l’aveva trovata
rannicchiata sul
divano in lacrime, con un livido sulla guancia, non le aveva detto il
vero
motivo per cui piangeva; non per il dolore, o per la paura, ma solo per
il
disgusto che provava verso se stessa: gli si era concessa, allettata
dalle
languide carezze e dalle frasi sussurrate sulle sue labbra. Era umana,
donna
per giunta, e per quanto ne potesse dire la sua coinquilina, non era
per nulla
forte. Aveva bisogno d’amore nella sua vita piena di fantasmi
e, anche se
quella era la cosa più lontana dall’amore che
esistesse, lui la faceva sentire
desiderata e amata, a modo suo.
E
poi lui era…lui. Anche
con i suoi
quasi 40 anni, rimaneva l’uomo più piacente e
seducente che avesse mai visto.
-“Non
mi pare d’aver avuto molta scelta. Se te l’avessi
chiesto, mi avresti lasciata
andare?”-
-“No.”-
rispose secco, facendole accapponare la pelle. Sapeva farla
rabbrividire di
piacere e al tempo stesso farle venire la pelle d’oca per la
paura, solo con
un’inflessione della voce.
-“Sai,”-
cominciò, prendendole il mento e voltandole il viso verso di
lui –“potrei
decidere di non lasciarti andare mai più; potrei decidere di
tenerti per me
soltanto, senza l’intromissione di altri uomini; potrei
decidere di lasciare
solo la tua amichetta a fare il lavoro sporco.”- le
sussurrò sulle labbra –“Ti
piacerebbe?”-
Meg
lo fissò intensamente, con gli occhi spalancati per la
paura: non poteva dire
sul serio.
-“Come
puoi chiedermelo?”- fece quasi sconvolta
–“Non potrei mai lasciare Elsa da sola
in mezzo a tanti”- temporeggiò pensando alle
parole da usare –“… rifiuti
umani!”
-“Meg,
Meg, Meg.”- la canzonò
–“L’altruismo e il cameratismo poche
volte aiutano e, di
solito, non ti portano lontano.”- le sue carezze diventarono
più insistenti.
Meg
chiuse gli occhi, cercando di non cedere alla malia di quelle mani
esperte e
tentatrici.
-“E
poi Elsa non sembra avere nei tuoi confronti la stessa premura che hai
tu verso
di lei.”- quelle parole la riportarono con i piedi per terre,
risvegliandola da
quel torpore intossicante in cui la gettava la presenza di Ades, come
una
secchiata d’acqua gelata –“ Ti ha
lasciata da sola ieri sera, o sbaglio? È
fuggita via assieme a quel bamboccio del figlio di Nick North, senza
preoccuparsi di te, di quello che sarebbe potuto accaderti, o di chi ti
avrebbe
riaccompagnata a casa…o se,
saresti
tornata a casa.”
-“Stava
lavorando anche lei, no? Perché avrebbe dovuto preoccuparsi
di me?”- cercò di
eludere la domanda, anche se il pungiglione velenoso delle sue parole,
l’aveva
colta su un nervo scoperto: il solo pensiero che Elsa
l’avesse lasciata di
proposito da sola o che, ancora peggio, non si fosse interessata della
sua
sorte, la faceva sentir male.
Sobbalzò,
presa alla sprovvista, quando Ades le strinse forte i fianchi e
l’attirò a sé
con prepotenza, con uno sguardo irato negli occhi: “Credi che
non mi sia
accorto a che gioco sta giocando la tua amica? Crede di essere furba,
mmh? E tu
di certo non puoi sperare di prendermi in giro come lei, tesoro. Sei un
libro
aperto per me: riesco a leggere tutto quello che ti passa per la mente,
attraverso il tuo sguardo.”- ridacchiò compiaciuto
–“Ad esempio, in questo
momento vorresti colpirmi, ma la paura ti blocca. Fallo , Meg. Colpisci
forte.”- la stuzzicò.
Meg
cercava di mantenere un’espressione neutra e lo sguardo
impassibile, così che
lui non potesse leggervi altro, anche se il cuore le batteva impazzito
nel
petto ed era sicura di essere diventata di una sfumatura di bianco
cadaverico.
La
battaglia di sguardi durò alcuni infiniti secondi, prima che
lui la lasciasse
andare, con un sorriso, quel
sorriso
che lei tanto odiava, trionfante.
Lo
aveva fatto di nuovo. Aveva vinto lui.
-“Ho
una riunione importante e non posso far tardi. Ci rivediamo
stasera.”- le disse
dandole le spalle –“Nic ti
riaccompagnerà al tuo appartamento.”-
Lo
guardò allontanarsi di qualche passo e poi voltarsi di nuovo
verso di lei: “E
di’ ad Elsa che non ci sarà sempre Jack North a
salvarla.”
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
L’odore
dei pancake l’aveva ingannata, facendole immaginare di essere
di nuovo a casa,
al caldo nel suo letto, con le coperte tirate fin sul naso, Anna che
ronfava
nella camera accanto e la mamma giù in cucina a preparare la
colazione per
tutti. Ed invece, quando aprì gli occhi, con un sorriso
davvero felice sulle
labbra, si ritrovò in una camera che non era quella di casa,
né quella del suo
appartamento.
Le
ci volle qualche minuto per realizzare dove fosse.
Le
camere degli ospiti le facevano sempre uno strano effetto,
perché erano vuote,
prive di un’anima propria, senza un pizzico di vita a
colorarne le pareti o le
suppellettili: la facevano sentire estranea e non voluta, come un
regalo
indesiderato, lasciato in un angolo. Questa, per quanto accogliente
fosse, non
faceva eccezione.
Eppure,
era solo una sua strana sensazione, nessuno l’aveva accolta
lì di controvoglia,
anzi. La sera prima aveva pregato Jack di non riaccompagnarla al suo
appartamento, ma di portarla ovunque ci fosse la vita vera. Andiamo
a bere, per quanto ne possiamo sapere potremmo essere morti entro
domani
mattina, gli aveva detto. Ma Jack non si era lasciato
impressionare da
quelle parole: l’aveva guardata trattenere a stento le
lacrime che le
riempivano gli occhi e aveva ingranato la quinta, senza rivelarle la
loro
destinazione.
Quando
erano arrivati nei garage sotterranei del North Building,
l’aveva ringraziato
silenziosamente per non averle dato ascolto e, appena ne aveva avuto
l’opportunità, lo aveva stretto in uno di quegli
abbracci che molto raramente
concedeva, trattenendolo a sé più del necessario.
Ma lui non si era scostato.
Aveva ricambiato il gesto con più trasporto di quanto Elsa
s’aspettasse.
-“Preferisci
dormire nella camera degli ospiti o…”- le aveva
chiesto, appena avevano varcato
la soglia del suo appartamento.
-“La
camera degli ospiti andrà benissimo.”- lo aveva
interrotto prontamente lei,
abbassando lo sguardo imbarazzata.
Lui
le aveva fatto strada, anche se lei avrebbe saputo trovarla ad occhi
chiusi
quella stanza. La vista dell’enorme letto a doppia piazza
aveva immediatamente
risvegliato la sua stanchezza, lasciandole addosso il desiderio di
tuffarsi tra
quei morbidi cuscini e non risvegliarsi mai più.
-
“Vuoi che resti a farti compagnia finché non ti
addormenti?”- le aveva chiesto
ancora, quando lei aveva tentennato sulla soglia, tremando
impercettibilmente.
Aveva
annuito, senza pensarci due volte. Quel letto così invitante
le era sembrato
all’improvviso troppo grande, freddo e vuoto. Jack le aveva
rivolto un piccolo
sorriso rincuorante ed era sparito per alcuni minuti, per riapparire
poi con
indosso la sua tenuta da notte e degli indumenti adatti per lei, tra le
mani.
-“Credo
che questi ti vadano bene…erano di Tooth.”- le
aveva detto, depositando sul
letto gli abiti piegati.
Aveva
annuito sovrappensiero, poi si era cambiata in fretta e in silenzio,
evitando
di indugiare troppo sui suoi pensieri tetri, sui ricordi conservati in
quella
casa, tra le pieghe di quelle lenzuola, nel profumo di quegli abiti che
non le
appartenevano, ma che non avevano più un proprietario.
Si
era lasciata cullare dall’abbraccio di Jack finché
il sonno non l’aveva vinta,
non trovando nessun imbarazzo in quella loro vicinanza o nelle parole
di
conforto che le aveva rivolto. In realtà, sarebbe stata bene
con lui anche in
silenzio, ma lui sembrava ostinato a voler riempire quelle pause con
gesti
premurosi e frasi apprensive. Si era sentita amata, come non le
accadeva da
molto e il suo sonno era stato piacevole e ristoratore, privo degli
incubi che
la turbavano quasi ogni notte. Si sentiva a casa tra le braccia di
Jack. Eppure
non aveva sognato lui quando il sonno l’aveva vinta.
Un
paio di occhi giada avevano danzato dietro le sue palpebre chiuse, per
tutta la
notte. Occhi che la scrutavano attentamente, che le scavavano dentro,
alla
ricerca di un tesoro dimenticato sul fondo della sua anima. Per quanto
assurdo
fosse stato il loro incontro, Hans Westerguard, con il suo portamento
fiero, il
sorriso luminoso, lo charme di un uomo d’altri tempi e i suoi
modi affabili, si
era indubbiamente scavato una piccola nicchia nei suoi pensieri. Le era difficile decifrare quali
sensazioni le
suscitasse il ricco erede: oscillavano dall’inquietudine ad
un’insana
attrazione. Ma anche ora che si trovava in quel letto troppo grande per
lei
sola, ad osservare il soffitto stuccato, non riusciva a venire a capo
di quel
mistero che era il più giovane dei Westerguard.
Tutto
in lei aveva gridato fuggi, quando
lui le si era avvicinato come un predatore, con passo sicuro e
silenzioso,
quasi temesse di farla scappare se avesse fatto il minimo rumore. Si
era
sentita come un uccellino in gabbia, messo all’angolo dal
gatto. Tuttavia la
sua voce calda e pacata, e il suo tocco leggero sulle sue mani fredde,
aveva
calmato il ritmo accelerato del suo cuore.
E
quando Jack l’aveva portata via, sottraendola alla sua
presenza ingombrante,
non aveva potuto fare a meno di voltarsi a guardarlo per
un’ultima volta,
incrociare il suo sguardo sicuro e penetrante, guardare quegli occhi
troppo
belli per essere veri e la sua espressione delusa nel vederla andare
via.
Un
bussare alla porta la richiamò alla realtà:
“Els, sei sveglia?”
Si
alzò a sedere, stropicciandosi gli occhi: “Tra un
po’.”- disse sorridendo a
Jack, che si era fermato sulla soglia.
-“Babbo
Natale e signora sono seduti a colazione, ti andrebbe di farmi
compagnia?”- le
chiese, prendendo il giro il padre con quel soprannome calzante.
-“Con
piacere.”- disse
strofinandosi di nuovo
gli occhi. Le mani erano diventate nere, piene del makeup con cui era
andata a
dormire –“ Forse dovrei rendermi presentabile
prima, che dici?”-
-“Il
bagno sai dov’è e per quanto riguarda i vestiti,
puoi benissimo venire in
pigiama, ma se vuoi l’armadio di Tooth è sempre
nello stesso posto.”- le disse
abbassando lo sguardo.
Elsa
gli si avvicinò e gli lasciò un bacio sulla
guancia: “Grazie.”- Si ritrovò a
pensare che, molto probabilmente, non avrebbe mai smesso di ringraziare
Jack
North.
*-*-*-*-*-*-*
Rovistare
tra i vestiti della sua migliore amica morta, come fosse in uno dei
tanti
franchising Target, non era il modo migliore per cominciare la
giornata.
Purtroppo le toccava se non voleva scendere in strada con un pigiama
verde con
stampe di colibrì, o ancora peggio con un vestito Armani
ricoperto di paillette
a specchio che avrebbe praticamente calamitato l’attenzione
di mezza New York
su di lei. Essere al centro dell’attenzione era tutto
ciò che non voleva in
quel momento. Così scelse gli abiti più semplici
che riuscì a trovare: un paio
di jeans, un maglione blu e delle snickers che un tempo dovevano essere
di un
bianco immacolato.
Si
vestì in fretta, guardando in giro, osservando i resti
materiali della vita di
Toothiana North, la prima amica che avesse mai avuto, la sua spalla al
liceo,
la sua complice, la sua migliore amica, la sua sorella maggiore. Erano
praticamente cresciute assieme. Quando i North avevano lasciato
Arendale per
trasferirsi nella Grande Mela, aveva sofferto come un cane: non
c’era più alcun
divertimento senza Tooth. Ma quando anche lei era arrivata a New York
tre anni
prima, le scorribande erano ricominciate e il divertimento si era
triplicato,
fino a quando... Ancora non le sembrava vero che lei non ci fosse
più. Era
qualcosa che la consumava dentro, il dolore della sua perdita. Poteva
solo
immaginare come dovesse sentirsi la sua famiglia, cosa provasse Jack.
Toothiana
era stata una figlia devota, un po’ pazza,
ma dedita alla sua famiglia, una studentessa modello,
prima in tutti i
suoi corsi, ed un brillante futuro chirurgo. Eppure tutti i suoi sogni
erano
andati persi, rinchiusi in un scatola. Per sempre.
I
suoi occhi luminosi le sorridevano dalle foto appese nel lungo
corridoio che
portava alla sala da pranzo. C’era anche lei in alcune di
quelle foto e in una
c’era persino tutta la sua famiglia al completo: gli Aren e i
North erano amici
di lunga data. Alcune foto ritraevano il signor North con suo padre
Agdar,
insieme alla squadra di canottaggio di cui avevano fatto parte al
college. In
un’altra, i coniugi North si abbracciavano, con il piccolo
Jack che faceva
capolino da un fagottino tra le braccia della madre. Ingrid North le
era sempre
piaciuta, con il suo portamento elegante e i lunghi capelli biondi e
quegli
occhi scuri, profondi come due pozzi, capaci di inghiottirti, colmi di
una
tristezza che sembrava bruciarle l’anima. Si era sempre
chiesta cosa
nascondessero quegli occhi tristi, quale segreto celassero sul fondo.
Eppure il
suo sguardo era dolce e attento.
-“Eccoti
Elsie.”- la salutò la padrona di casa, chiamandola
con quel nomignolo infantile
che le ricordava giorni più felici.
-“Buongiorno.”-
sorrise, sedendosi al fianco di Jack che leggeva il giornale.
-“Elsa!
Dovresti farti vedere più spesso da queste parti. Sai che
casa nostra è sempre
aperta per te.”- la rimproverò con un sorriso
bonario il signor North.
-“Sono
stata parecchio…impegnata negli ultimi tempi.
Vedrò di farmi perdonare, zio
Nick.”- rispose, versandosi del caffè.
North
rise di gusto: “Era da tanto che non mi chiamavi
più così. Ma tu in fondo
rimani sempre la piccola Els, non è vero?”-
-“Già,
la piccola Els.”- borbottò pensierosa, portandosi
la tazza alle labbra. Era
davvero quella di una volta? Molto probabilmente, no. Ma glielo avrebbe
lasciato credere, ci avrebbe creduto anche lei per il momento,
perché alla
vecchia Elsa mancava sentirsi così, parte di qualcosa. Parte
di una famiglia.
-“Quando
Jack mi ha detto che eri nostra ospite, ho chiesto a Mariah di
preparare i pancake
per colazione. I tuoi preferiti, se non ricordo male.”- le
sorrise Ingrid
dall’altro lato del tavolo- “Lì
c’è lo sciroppo d’acero e lì
la cioccolata.”-
le indicò due contenitori affusolati.
-“Si,
grazie.”- le se illuminarono gli occhi: quanta premura
mostravano nei suoi
confronti, e lei non era stata capace di perdere due minuti per
chiamare e
chiedere di loro, di come se la passavano. Erano quello che di
più vicino ad
una famiglia avesse a disposizione al momento. Doveva ricordarselo
più spesso.
Si
riempì il piatto e ci versò su il cioccolato. Il
primo boccone mandò in estasi
le sue papille gustative e il secondo le mandò in circolo
una quantità
sproporzionata di endorfine, facendola rilassare ancora di
più.
-“E
Anna?”- chiese Nick. La semplice menzione del nome di sua
sorella annullò tutti
gli effetti benefici del cioccolato, che si trasformò in
fiele sulla sua lingua
-“Dovremmo
organizzare una cena una di queste sere e stare tutti
assieme.”- continuò
Ingrid, girando il cucchiaino nel suo tè.
Elsa
scambiò un’occhiata con Jack, che non aveva ancora
aperto bocca.
-“G-già”-
farfugliò –“sarebbe una bella idea. Ad
Anna farebbe sicuramente piacere.”-
Jack
notò il suo disagio e intervenne: “Els io devo
fare delle commissioni ad
Harlem, vuoi che ti riaccompagni a casa?”-
-“Jack!
Lasciala finire in pace. Posso farla riaccompagnare da uno degli
autisti.”- lo
rimproverò il padre.
-“No,
no. In realtà avrei anch’io da fare. E uno strappo
mi farebbe comodo.”- si
scusò politicamente, pulendosi le labbra con un tovagliolo e
alzandosi –“È
stato bello stare con voi, anche se per poco.”- sorrise.
-“Torna
quando vuoi Elsie.”- le ricordò ancora la madre si
Jack, andandole incontro e
stringendola in un abbraccio. Lei ricambiò, inspirando il
profumo della donna,
così simile a quello di sua madre.
Lasciò
a malincuore casa North quella mattina.
Un pezzo di lei era rimasto lì con loro, nella rassicurante
routine quotidiana,
fatta di gesti piccoli e ripetitivi. La vecchia Elsa, quella vera.
Jack
la riaccompagnò al suo appartamento di Prospect Park:
“Mi dispiace per prima.
Loro vogliono bene sia a te che ad Anna, e non immaginano nemmeno
lontanamente
tutta questa brutta situazione.”
-“Non
c’è bisogno che tu dica niente, Jack.”-
lo rassicurò –“Sono stati magnifici,
come sempre. Anzi, sono stati un toccasana per me. Mi hanno fatto
sentire meno
la mancanza di casa.”
Jack
le sorrise triste, prima di sporgersi sul seggiolino e posarle un bacio
leggero
sulla fronte: “Quella è anche casa tua, Els. Lo
è sempre stata.”
-“Lo
so.”- disse guardando fuori, evitando di incrociare il suo
sguardo –“Grazie di
tutto, J.”- aprì lo sportello.
-“Ci
vediamo presto.”- la salutò l’amico.
Osservò
la macchina sparire tra le strade trafficate e poi si voltò
verso il palazzone
grigio che le si stagliava davanti. Sospirò sconfitta.
-“Ricomincia
la recita.”-
.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
Era
in coda, da quanto? Venti minuti, mezz’ora? Non lo sapeva di
preciso, ma sapeva
con assoluta certezza che tra non molto sarebbe esplosa come una
supernova. Cosa mi aspettavo? È
lunedì mattina, si
lamentò tra sé, battendo insistentemente il piede
in terra. Il tizio alla
cassa, davanti a lei, aveva ordinato venti diversi tipi di bevanda, tra
caffè
macchiati e tè al ginseng, da mandare ad un ufficio nel
palazzo adiacente alla
caffetteria. Stava sciorinando, con una cadenza lenta e fastidiosa, i
nomi di
tutti i suoi colleghi da apporre sui bicchieri.
-“Karis,
con la K o con il Ch?”- chiese il commesso dietro al bancone,
con un pennarello
in un mano e un bicchiere di carta nell’altra.
Non
ci vide più dalla rabbia: “Insomma amico, stai
scherzando?”- sbottò,
calamitando l’attenzione di mezzo negozio- “Quante
Karis potranno mai esserci
in un ufficio? Che importanza fa se è con a K o con il
CH?”-
-“Finalmente
qualcuno l’ha detto.”- sentì qualcuno
borbottare dal fondo della fila alle sue
spalle.
Il
commesso scribacchiò veloce sul bicchiere, poi
liquidò il cliente con uno
sterile ‘Arrivederci’.
Merida
scalò di un posto, finalmente capace di ordinare per
sé: “Un doppio espresso e
un London Fog.”-disse al ragazzo, che ormai la guardava come
si guarda un bomba
ad orologeria, mentre lei, ignorandolo, digitava un messaggio sul
cellulare, da
mandare ad Hiccup.
M-
Prendi appunti. Oggi foldo, faccio
da balia alla testa rossa.
H-
Sta male?
M-
Notte di bagordi…è tornata a casa
con uno sconosciuto.
H-
Uno che non era Mr.IoHoUnContoInBancaaSeiZeri? Voglio
tutti i retroscena.
M-
OMG! Ti rendi conto che sembri una
vecchia zitella in cerca di scoop? E ti chiedi anche perché
Astrid ti ignora?
H-
Sono curioso…tutto qui.
M- Devo andare. Ti aggiorno
dopo Miss
Marple XD
Gettò il
cellulare in borsa, passò una
banconota al cassiere e recuperò la sua ordinazione.
Sorseggiò il suo tè,
rigorosamente bollente ed amaro, mentre ritornava
all’appartamento, ammettendo
con sé stessa che la teiera che aveva acquistato qualche
mese prima, era
praticamente diventata un soprammobile, da quando aveva scoperto la
comodità
della caffetteria all’angolo.
Quando
arrivò alla porta, aveva bevuto
quasi tutto il contenuto del bicchiere, senza accorgersene, persa nei
propri
pensieri. Poggiò l’altro bicchiere ai suoi piedi e
rovistò nella borsa alla
ricerca delle chiavi, maledicendo quella sottospecie di pozzo nero e la
tutta
la paccottiglia inutile che si portava dietro. Quando finalmente
riuscì ad
entrare, trovò tutto come l’aveva lasciato quasi
un’ora prima: Anna doveva
ancora risvegliarsi dal suo coma indotto. Al suo risveglio
l’avrebbe aspettata
un terzo grado coi controfiocchi, dal quale poi avrebbe redatto un
sunto da
inviare ad Hiccup, che a sua volta lo avrebbe inoltrato a Rapunzel e in
meno di
dieci minuti la bionda si sarebbe fiondata nel loro appartamento,
salendo tre
rampe di scale a due a due, per accertarsi delle condizioni fisiche e
mentali
dell’amica in stato comatoso.
Sperò
solo che Anna si svegliasse
presto, perché a) il caffè che le aveva preso si
sarebbe altrimenti freddato,
diventando una ciofeca imbevibile e b) i suoi nervi avrebbero
cominciato a dare
i numeri.
Sbatté
con forza la porta.
Anna,
eccoti un piccolo aiuto.
*-*-*-*-*-*-*
Il rumore della
porta che sbatteva la
richiamò alla realtà, trascinandola via da un
sonno senza sogni, popolato solo
da ombre scure e visioni distorte. Rotolò nel letto,
aggrovigliandosi nelle
lenzuola; non ricordava di essere mai arrivata al letto o di essersi
tolta le
scarpe, ma eccola, distesa lì, più morta che viva.
Aveva un sapore
atroce sulla lingua,
una banda di mariachi scatenati che le suonavano la cucaracha in testa,
e un
buco allo stomaco profondo come la faglia di Sant’Andrea. Si
stropicciò gli
occhi e provò a mettere a fuoco la stanza e soprattutto la
sveglia sul
comodino.
9:35…la
bastarda traditrice non aveva
suonato!
-“Merda!”-
saltò a sedere, con la
conseguenza che la stanza cominciò a vorticarle furiosamente
attorno e ricadde
scomposta sul materasso, con le gambe ancora avvolte per
metà nelle lenzuola.
Sospirò,
scostandosi i capelli
finitigli davanti agli occhi, analizzando la situazione: era tornata a
casa
ubriaca, accompagnata da qualcuno, di cui al momento non ricordava
né il nome
né i connotati, a cui associava senza sapere
perché la cioccolata; ricordava
anche del rosso che le aveva danzato davanti agli occhi per alcuni
minuti, e
quella non poteva che essere la prova schiacciante che ad un certo
punto, nel
suo stato delirante, Merida era saltata fuori dalla sua stanza, e un
boato assordante,
proprio come quello che l’aveva appena svegliata.
Poi buio. Solo
benefico e piacevole
buio, seguito da un altrettanto gradito silenzio.
Provò di
nuovo a rimettersi in piedi,
con più calma stavolta, liberando le gambe dalle lenzuola. I
primi passi che
mosse, furono accompagnati da un senso di rallentamento
inquietantemente
fastidioso. Si fermò due volte, tenendosi la testa, prima di
arrivare alla
porta della sua stanza.
-“Eccola
che risorge dal regno dei
morti.”- la accolse la voce della coinquilina, non appena
mise piede nel
piccolo salotto-“Pensavo d’averti persa per sempre.
Avevo già fatto piani per
la tua stanza: sappi che sarebbe diventata il mio
imaginatorium.”-
-“Devi
smetterla di farlo.”- biascicò
con la bocca impastata, ignorando le sue frecciatine.
-“Cosa?”-
le fece eco Merida dalla
cucina.
-“Quella
porta verrà giù un bel
giorno.”- sbottò indicandola, mentre si lasciava
cadere sul divano e richiudeva
gli occhi, ancora troppo pesanti da tenere aperti.
-“Tieni.
Giù, senza fiatare.”- la
scozzese le si parò davanti, porgendole un bicchiere
d’acqua e una compressa
bianca.
-“Vuoi
drogarmi?”- le chiese con un
sorrisetto, prendendo il bicchiere e ingoiando la pillola con un sorso
d’acqua.
-“Come se
avessi bisogno di una pillola
per farti perdere conoscenza.”- Merida roteò gli
occhi e si riavviò in
cucina-“Basta darti una serata libera e una bottiglia. Farai
tutto da sola.”-
-“Questo
è un colpo basso.”- si lamentò
stiracchiandosi -“Non stavo così male.”-
-“Mmh-mh.”-
la rossa tornò indietro,
con il caffè –“Chi è
Christopher?”- le chiese a bruciapelo, sedendole accanto.
Anna prese un sorso
di caffè e fece una
faccia disgustata: “Mio dio, è amaro!”-
-“È
caffè, cosa ti aspettavi?”-
-“Sinceramente,
della cioccolata.”-
-“Non
sviare il discorso…Christopher, chi
è?”-
-“Lui
è…ehm.”- valutò le varie
risposte
che le frullavano in mente, poi scelse la meno improbabile -
“Il fattorino
carino della pizzeria all’angolo.”-
Il sopracciglio
sinistro di Merida
schizzò su, fin quasi all’attaccatura dei capelli:
“Sul serio? Questa è la
risposta migliore che quel tuo cervello spostato riesce a
darmi?”-
-“Mi sono
appena svegliata, cosa
pretendi!”-
-“Non
è il sonno che ti annebbia la
mente, mia cara. Sono i fumi dell’alcool che ancora ti
circolano in corpo.”-
puntualizzò, facendole segno di bere il caffè
–“Si può sapere quanto hai bevuto
ieri sera? Per la pellaccia di Mor’du, non ricordi nemmeno
chi ti ha
riaccompagnata a casa!”-
-“Chi
è Mor’du?”-
-“Anna!”-
Sospirò:
“Christopher?”- chiese
esitante, guardando Merida dal bordo del bicchiere.
La coinquilina
annuì: “Ti ho trovata
sulla porta, tra le braccia di questo Christopher, mezza intontita e la
faccia
di una che si era divertita abbastanza.”-
ridacchiò a quelle ultime parole-
“Cos’è, hai già dimenticato
il tuo principe azzurro senza macchia e senza
paura, in sella al suo cavallino rampante?”- la
pungolò con un dito.
-“Aspetta
che?”- balzò
sull’attenti-“Cosa
intendi per tra le braccia di questo
Christopher? Noi
stavamo…”-lasciò in sospeso la frase,
ingoiando a vuoto.
-“Non
sulla porta di casa, per lo meno.
Ma non so prima dove tu sia stata e cos’abbia
fatto.”- scrollò le spalle-“Ti
sei divertita?”-
-“Non
è successo niente, ne sono
assolutamente certa: sono stata da Olaf, e c’era la
semifinale di campionato e
credo d’aver bevuto da sola, almeno all’inizio.
Poi…poi”- si colpì la fronte
-“Ma certo, Christopher! Tranquilla, è il cugino
di Olaf. Ora ricordo tutto: mi
ha solo riportata a casa, non è successo
nient’altro.”- sorseggiò ancora il
caffè- “Che ti dicevo, dovevo solo svegliarmi
meglio.”- incrociò i piedi sul
tavolino davanti a sé, poi li riabbassò
velocemente, colpita da un pensiero-
“Hans non dovrà mai venire a sapere di questa
cosa, non vorrei che si facesse
un’idea sbagliata. Intesi?”- farfugliò.
-“Croce
sul cuore.”- la prese in giro
l’amica.
Merida prese il
telecomando,
abbandonato sul tavolino, e si sistemò meglio sul divano,
accendendo la tv: “Peccato
che non sia successo niente.”- blaterò, facendo
sobbalzare Anna.
-“Che vuoi
dire?”-
-“Sai,
Christopher non è niente male.”-
ridacchiò.
-“Ah si?
Non me ne sono accorta.”-
tergiversò, guardando casualmente lo schermo della tv dove
passavano una replica
dei Muppets.
-“A me non
sembrava: lo guardavi come
si guarda qualcosa da mangiare. Avrei scommesso che l’avresti
morso.”-
-“Non
essere ridicola. Christopher è
l’idiota del caffè, non potrebbe mai piacermi in quel senso.”-
-“L’idiota
del caffè?”- chiese Merida,
sempre più curiosa.
-“Storia
lunga e noiosa.”- tagliò corto
Anna, strappando il telecomando dalle mani dell’amica. Fece
zapping per alcuni
secondi, poi scelse il notiziario: il giornalista della pagina sportiva
si
stava lanciando in un caloroso resoconto della schiacciante vittoria
dei
Broncos alla semifinale della sera precedente.
-“Dico sul
serio. Sei sicura che Hans
sia sempre la tua prima scelta?”- Merida si
riappropriò del telecomando,
facendole quasi versare il caffè addosso.
-“Assolutamente
si. E poi non lascerei
mai Hans per uno appena conosciuto.”- puntualizzò.
-“Hans
l’hai conosciuto una sera di tre
mesi fa, te ne sei innamorata al primo sguardo e state praticamente
assieme…grande coerenza da parte tua.”-
-“Ma Hans
è…”-
-“Ti prego
non dire l’uomo della tua
vita.”- la stoppò sul nascere-“Se
dovessi ascoltare ancora una volta i tuoi
discorsi deliranti sul vero amore, potrei morire sul serio.”-
-“Ma
è così! La nostra è una di quelle
storie d’amore che capita una volta in dieci generazioni:
siamo fatti l’uno per
l’altra.”-
-“Hai
fame?”- le chiese all’improvviso,
alzandosi dal divano e dirigendosi nella piccola cucina.
-“Cos’è
questo cambio di registro?”-
chiese sospettosa Anna.
-“Devo
trovare un modo per tapparti la
bocca.”- aprì il frigo e ne cacciò le
uova e il latte -“Allora? Qualche
preferenza?”-
-“Mmm no.
Basta che sia roba
commestibile. Ho una fame che mangerei anche te.”-
-“E che
pancake siano, allora!”-
esclamò Merida, soddisfatta d’aver messo a tacere
sul nascere qualsiasi
sproloquio/soliloquio sulla compatibilità di coppia tra Anna
e il suo principe
delle favole.
-“Credo
dovremmo fare della spesa se
non vogliamo mangiare cereali e Coca Cola per pranzo. Te la senti di
scendere?”-
-“Certo.
Dammi da mangiare per riempire
questo buco nero che ho nello stomaco, un’altra aspirina e
mezz’ora per
prepararmi e sarò operativa.”- le rispose tra uno
sbadiglio e l’altro.
-“Le
aspirine sono nell’armadietto in
bagno, i pancake saranno pronti tra un po’
e…Anna?”-
-“Mmh?”-
-“I denti.
Lavali.”-
-“Mer!”-
fece scandalizzata.
-“Hai un
alito che sveglierebbe i
morti.”-
Anna le
lanciò una delle sue ciabattine
rosa fosforescente, che volò dritta dal salotto alla cucina,
colpendo in pieno
il cartone del latte, rovesciandone fuori tutto il contenuto.
-“Anna! Ma
dico, sei impazzita?”-
sbraitò la scozzese rossa in viso, con goccioline di latte
che le cadevano dai
riccioli rossi.
-“Ops…quando
sono sbronza la mia mira
ne risente.”- disse trattenendo a stento le risate.
-“Ah, ora
saresti sbronza?! Beh, grazie
alla tua mira puoi dire addio ai pancake. Ci toccherà andare
alla tavola
calda.”-
*-*-*-*-*-*-*
-“Che
ti avevo detto: fare la spesa a stomaco pieno, aiuta a non comprare
cose
inutili e nocive per la salute.”- sorrise contenta Merida
spingendo il carrello
pieno di frutta e verdura giù per la corsia del supermercato.
Avevano
da poco lasciato la tavola calda sotto casa, dove avevano consumato una
colazione degna di quel nome: uova e bacon, pancake e caffelatte.
-“Per
me abbiamo esagerato con la natura... ci sono troppi pochi coloranti e
zuccheri.”- si lamentò Anna mentre osservava con
l’acquolina in bocca gli
scaffali pieni di biscotti e dolciumi che le correvano ai lati.
Un
verso deliziato le sfuggì di bocca quando passò
davanti ad uno scaffale pieno
di buste colorate e si fermò estasiata.
-“Mer!
Mer, ti prego! Una di queste, una sola, poi chiuderò il
becco e non mi lamenterò
più per il resto della settimana.”-
le mostrò una confezione di marshmallows ricoperti di
cioccolato.
-“Poniti
questa domanda: sono necessari?”-
-“Assolutamente
si!”- sbottò.
-“A
cosa ti servono, sentiamo.”-
-“Te
l’ho mai detto che soffro di cali di zuccheri?”-
-“Tu?
Di cali di zuccheri?”- Merida scoppiò a ridere
–“Tu hai una raffineria di
zucchero in corpo, non uno stomaco, altro che cali.”- la
scozzese riprese a
camminare, spingendo il carrello verso le casse.
-“Allora?
Posso prenderne una?”- continuò Anna, correndole
dietro con la confezione
stretta saldamente tra le dita, come se da essa dipendesse la sua vita.
Merida
guardò prima la faccia sorridente e supplicante di Anna, poi
il pacchetto
incriminato. Annuì rassegnata, indicandole di metterlo nel
carrello con il
resto della spesa.
-“Sai,
da quando abito con te, non ti ho mai vista mangiare nulla di sano.
Praticamente
ti nutri di biscotti, pasticcini, noodles in scatola, degli hamburger
di Olaf,
occasionalmente di uova e bacon della tavola calda e non sia mai che
manchi
cioccolato in quantità industriale nella tua
dieta!”-
Anna
mise su il broncio, farfugliando tra sé che era grande e
poteva mangiare ciò
che più le aggradava.
-“Almeno
stasera mangerai qualcosa di buono. Ho deciso di preparare lo stovies
(*).”-
disse mettendosi in coda per pagare.
-“Devo
preoccuparmi?”- saltellò sul posto Anna,
affiancandola.
-“Fidati,
mi chiederai di rifarlo.”-
-“Se
è buono la metà della cena del Ringraziamento,
allora di sicuro.”-
Merida
controllò velocemente che ci fossero tutti gli ingredienti
necessari e sospirò
scocciata- “Ho dimenticato le carote. Ti dispiacerebbe
andarle a prendere?”-
-“Poniti
questa domanda:”- le fece il verso-“sono
necessarie?”-
-“Si.”-
le rispose con la faccia più seria che riuscì a
tirare fuori.
Anna
si avviò sconfitta giù per i corridoi del
supermercato, canticchiando a bassa
voce, fino al reparto degli ortaggi che, per quanto non le piacessero,
erano
una gioia per gli occhi: il rosso dei pomodori, il giallo delle
pannocchie, il
verde dei cavoli e l’arancio delle carote.
Si
avvicinò a passo svelto allo stand e valutò quali
prendere, osservandole con
occhio critico, con una mano sotto il mento e il dito indice che le
batteva
sulle labbra al ritmo della musica che suonava bassa
nell’aria.
A
casa non era mai lei a fare la spesa. Di solito se ne occupava la
governante o
al massimo la mamma. Né lei né Elsa avevano mai
messo piede in un supermercato,
prima di New York. Si vergognava di confessarlo alla coinquilina,
perché
avrebbe potuto tacciarla di essere ancora più inutile di
quanto già non fosse.
Sostò
lì per alcuni minuti indecisa: non voleva scegliere quelle
sbagliate,
altrimenti Merida l’avrebbe rimandata indietro a prenderne
altre. La scelta di Anna,
borbottò tra sé.
Quando cominciò a battere anche il piede destro in terra, e
prima che
cominciasse ad ancheggiare come un’invasata al ritmo della
musica, qualcuno si
schiarì la voce alle sue spalle, facendola sobbalzare. Si
portò le mani al
cuore, voltandosi di scatto.
-“Oh
mio dio!”- esclamò- “Sei solo
tu.”- poi si ricompose.
-“Ciao
anche a te.”- la salutò Kristoff cercando di
aggirarla.
Anna
arretrò, presa alla sprovvista, andando a sbattere contro lo
stand: “C-che
fai?”
-“Carote.”-
-“Che?”-
-“Dietro
di te.”-
-“Oh…c-certo.”-
Anna gli fece spazio e lui afferrò le prime che gli
capitarono a tiro. Poi le
rivolse un cenno del capo e fece per andarsene.
-“Aspetta!”-
lo richiamò, guadagnandosi uno sguardo interrogativo e
lievemente scocciato
–“I-io…ti dispiacerebbe sceglierne anche
per me? Si, insomma le…”- fece un
colpo di tosse per nascondere l’imbarazzo della
voce-“ ehm, carote.”-
-“Dici
sul serio?”-
-“Ti
sembro una che scherza?”-
-“Tu
sei pazza.”- si voltò di nuovo per andarsene.
-“Anche,
ma ascolta: devo sceglierle per la mia coinquilina, che è
già alla cassa, e se
prendo quelle sbagliate potrebbe anche decidere di sbattermi fuori sul
pianerottolo e, per quanto sia confortevole, non mi sembra proprio il
luogo
ideale per vivere. Inoltre ti disturberei a tutte le ore del giorno per
ogni
minima cosa, quindi se non vuoi che…”-
-“Cosa
stai blaterando?”-
-“Le-carote-sono-di-vitale-importanza!”-
sillabò.
Kristoff
la osservò bene, senza parole: la rossa sembrava venuta
fuori da uno di quei
cartoni animati per le bambine, tutta pimpante e chiassosa, e il
maglione
natalizio con una renna sul davanti che le spuntava dal cappotto, non
faceva
altro che confermare la sua teoria sulla dubbia sanità
mentale della ragazza
che aveva di fronte.
Sospirò
demoralizzato, acconsentendo in silenzio alla sua richiesta; prese un
mazzo di
carote e gliele passò: “Contenta?”-
-“Sicuro
vadano bene?”-
-“Fidati.”-
-“Cos’è,
sei un esperto di carote?”- indagò petulante.
-“Le
vuoi o no?”- sbottò scocciato, agitandole gli
ortaggi arancioni davanti al
viso.
Anna
le afferrò e gli rivolse un’occhiataccia:
“Non c’è bisogno di essere
scortesi.”
Il
ragazzo le voltò di nuovo le spalle e si avviò
giù per un altro reparto. Anna
lo seguì a ruota e lo affiancò, scrutandolo da
capo a piedi con un sorrisino
sulle labbra.
-“Vedo
che ti sei ripresa alla grande dalla super sbronza di ieri.”-
-“Mmh,
si. Merito del caffè e delle aspirine.”-
Fecero
silenzio. Era una situazione imbarazzante.
-“Non
hai qualcun altro a cui dare i tormenti, lentiggini?”- le
chiese, innervosito
dalla sua presenza assillante.
Anna
storse il naso al soprannome, ma lasciò correre:
“Non ti sto seguendo. Stiamo
solo facendo la stessa strada.”- puntualizzò,
rovistandosi nelle tasche del
cappotto.
Tirò
fuori degli incarti di caramelle, le chiavi
dell’appartamento, un biglietto
usato della metro e degli scontrini di Starbucks, prima di trovare
quello che
stava cercando.
-“Tieni.”-
gli porse un cartoncino giallo.
-“Cos’è?”-
le chiese senza prenderlo, guardando il pezzo di carta come fosse un
serpente
velenoso.
-“U-un
buono per la lavanderia. Si insomma, per ringraziarti per ieri sera e
per le
carote. Ti devo ancora un caffè, ma questo mi sembra un buon
inizio.”- gli
sorrise, facendogli cenno di prendere il buono.
Lui
arrossì impercettibilmente, almeno così le
sembrò, e distolse lo sguardo:
“N-non ce n’era bisogno. Ho fatto solo un favore ad
Olaf…”-
-“Insisto.
Ti ho creato solo guai dal primo momento: ricordi l’incidente
della metro?”-
gli disse correndogli dietro per mantenere il suo passo.
-“Come
dimenticarlo.”- ridacchiò lui, indicando la
macchia di caffè schiarita che
ancora imbrattava la fronte del suo cappotto.
-“Prendilo,
su.”- continuò, sorridendogli riconoscente.
Lui
lo afferrò e per un momento le loro dita si sfiorarono, ma
nessuno dei due
sembrò accorgersene.
-“Grazie.”-
le disse guardandola per la prima volta dritto negli occhi.
-“Figurati.”-
gli rispose scrollando le spalle, sostenendo il suo sguardo. Ecco
perché quella
mattina aveva associato il cioccolato alla sua figura: i suoi occhi
erano
praticamente del colore della cioccolata calda che amava tanto.
-“Anna!
Ma quanto c’hai messo?”- la riscosse una voce,
facendola sussultare.
Merida
aveva un diavolo per capello: l’aveva aspettata per ben dieci
minuti davanti
alle casse e aveva ceduto il posto a venti persone diverse. Odiava
aspettare.
-“Stavo
per mandare una squadra di soccorso a cercarti!”-
esclamò, prendendo le carote
dalle mani dell’amica-“Ci voleva tanto per delle
stupide carote?”-
Anna
e Kristoff si scambiarono uno sguardo: “Cosa ti avevo
detto?”- disse lei
scuotendo il capo.
La
scozzese sembrò accorgersi solo in quel momento del ragazzo
e lo squadrò da
capo a piedi: “Heilà, Christopher!”- lo
salutò come fosse il più vecchio dei
suoi migliori amici, con un sorriso raggiante sulle labbra mentre
punzecchiava
il fianco di Anna con un gomito.
-“Heilà
mmm…pazza con l’arco.”-
ricambiò titubante.
-“Già!
Scusa per ieri sera, non volevo essere così violenta,
ma Anna era in quelle condizioni e tu sei...”- lo
indicò gesticolando
ampiamente-“Insomma, chi non avrebbe frainteso? Mettiti nei
miei panni
Christopher, badare alla testa rossa qui, non è
facile.”- si lamentò.
-“Si
chiama Kristoff, Mer. E poi non ho mica bisogno della tata, sono capace
di
cavarmela da sola.”-
Kristoff
omise il fatto che si era appena fatta aiutare a scegliere delle
verdure, per
non peggiorare la sua situazione.
-“Ah,
siamo già passati al nome di battesimo?”- la
stuzzicò, glissando sulle sue
proteste.
-“Che?”-
-“Lascia
perdere.”- ridacchiò la scozzese, rimettendosi in
fila- “È stato un piacere, Kristoff.”-gli
disse porgendogli la
mano-“E per la cronaca, io sono Merida.”
Kristoff
la afferrò e Merida la scosse energicamente:“Si,
si, anche per me.”- si
affrettò a dire, anche se conoscere l’altra rossa
gli era sembrato più un
incontro del quarto tipo. Da dove venivano fuori quelle due invasate?
-“Beh”-
si intromise Anna- “Ci vediamo in giro, o sul pianerottolo
o…dovunque sia.”-
farfugliò, ripetendo il gesto della coinquilina.
Il
ragazzo strinse anche la sua mano e una scossa di
elettricità statica li fece
saltare sul posto.
-“S-si…c-ci
vediamo in giro.”- bofonchiò lui allontanandosi.
Anna
si strinse la mano al petto e lo guardò allontanarsi con le
spalle incurvate.
-“Tipo
singolare.”- le disse Merida ridacchiando sorniona.
-“Smettila,
ho capito a che gioco stai giocando.”- la ammonì-
“Se proprio ti interessa
tanto perché non te lo prendi tu?”-
-“Non
è il mio tipo.”- tagliò corto.
Prima
che Anna potesse controbattere che il suo tipo ideale poteva essere
solo un
orso, il cellulare le cinguettò in tasca.
Passo a
prenderti alle 9 in punto. Andiamo a cena in un posto speciale.
-“Anna?
Anna!”- Merida le agitò una mano davanti al viso
–“Stai bene? Fissi quello
schermo con uno sguardo che potrebbe bucarlo.”- la
trascinò per un braccio alla
cassa: era finalmente arrivato il loro turno –“Chi
ti ha scritto?”
-“Hans.”-
soffiò fuori, con occhi sognanti.
-“Ah,
ecco spiegato quello
sguardo.”-
sbuffò –“Cosa dice? Che anche stasera ha
da fare?”-
-“Tutt’altro.”-
Anna le piazzò il cellulare sotto gli occhi
–“Credo che il tuo stovies dovrà
aspettare.”-
(*)Stovies:
piatto tipico scozzese a base di carne e verdure. Tipo un Gulash, per
capirci.
NdA:
Saaaaaaalve! Come ve la passate da queste parti? Spero con tutto il
cuore che
stiate tutti bene ;) Era da un po’ che questa storia non
veniva aggiornate, eh!
Credevate che fossi morta, vero?! Non vi libererete mai di
me...muahuhauahuah!
Ne è passata di acqua sotto i ponti in tutti questi mesi,
sono successi fatti,
ho fatto cose e la vita è andata avanti. Eppure il fatto di
dover aggiornare
questa ff ha continuato a martellarmi in testa per tutto il tempo XD
Sarò
sincera: sono stata tentata di abbandonare tutto e tirare i remi in
barca. Non
avevo proprio voglia di continuarla, né questa né
le mie altre ff, un po’ per
mancanza di ispirazione, un po’ per pigrizia e un
po’ per i tiri mancini della
vita reale, che sembrava essere di mezzo ogni volta che mi accingevo ad
aprire
word. Ma grazie ad Adriana (aka Amberly_1, accendete una candela per
questa
santa ragazza che mi ha praticamente tenuto compagnia tutti i giorni,
mi ha
letteralmente raccolto con la paletta e mi ha rimesso in carreggiata
con le sue
dolcissime parole e i suoi preziosi consigli! Senza di lei questo
capitolo non
esisterebbe!) e alle recensioni che non sono mai mancate in questi
mesi,
nonostante la mia lontananza da efp, la voglia mi è un
po’ ritornata, se non
per il bene della storia, almeno per la vostra felicità
(spero! XD).
Anyway,
now I’m back snowflakes ^.^
Spero
di poter aggiornare presto anche Slice of Life in Arendelle e la
raccolta di
one shot Kristanna *.*
Come
sempre, ci si legge in giro! ;)
Ah,
per poco non me ne dimenticavo: in questi mesi mi sono un po’
cimentata con
Gimp, che per chi non lo sapesse è un programma di grafica,
e dopo vari
tentativi e molti fallimenti, sono riuscita a creare delle
cover/copertine per
questa ff. Fanno schifo, lo so! XD Vorrei che voi ne sceglieste una e
quella che piacerà di più sarà la
copertina permanente di Dirty Little Secrets :) Se poi queste non vi
piacciono
e qualcuno di voi a tempo perso volesse cimentarsi come me e ne volesse
creare
una propria, io sono aperta a tutto XD
Ecco,
ora ho davvero finito!
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