Streets Of November

di Virgyl Item
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Falling down. ***
Capitolo 2: *** Colours. ***
Capitolo 3: *** Eyes and Streets. ***
Capitolo 4: *** Clouds. ***
Capitolo 5: *** Streets of Heart. ***
Capitolo 6: *** Let's go. Together. ***
Capitolo 7: *** The world out the window. ***
Capitolo 8: *** What is Love? ***
Capitolo 9: *** Stop looking at me ***
Capitolo 10: *** Everybody Hurts. ***



Capitolo 1
*** Falling down. ***



                          Streets
                             Of
                       November
                                                               ***
 
PROLOGUE.
L'altezza è un'invenzione dell'universo.
Anche noi siamo un'invenzione dell'universo.
Poi ci sono alcuni di noi che hanno paura dell'altezza.
Ma non sanno che l'altezza non esiste. 
Non esiste perché non c'è niente di alto, rispetto all'Universo.
L'universo è infinito.
In realtà neanche la paura, esiste.
Gli umani hanno creato la paura per potersi proteggere dalla vita.

La vita fa paura.

I miei genitori tutto questo non lo sanno.
Non sanno che quando non rispondo alle loro domande è perché sto pensando. 
Non sanno che anche io sono in grado di riflettere.
Non se lo chiedono.
Come non si chiedono il vero motivo per cui adesso mi trovi seduto sul bordo della terrazza di casa mia.
Hanno troppa paura per scoprirlo.
Così, per evitare eccessive diramazioni mentali, riassumono tutto in un'unica parola.
Suicidio.

La cosa che mi diverte, è che pensando questo si ritrovano in largo mare.
No che non voglio suicidarmi.
Non lascerò mai la presa da questa ringhiera.
La mia vita è troppo preziosa per poter essere donata all'interminabile traffico newyorchese che scorre cinquantotto metri sotto le mie converse nere, lasciate penzolare nel vuoto.
Sono qua sopra soltanto per guardare.
Osservare la gente.
Chiedermi quante altre persone, in questo momento, stiano pensando ad una certa cosa, a cui magari sto pensando anche io.
Voglio soltanto essere consapevole del fatto che prima o poi, tutti i miei pensieri, moriranno, insieme al mio corpo.

La morte però non mi fa paura.
Lei arriva improvvisamente, non te ne accorgi neanche.
La vita invece va vissuta, lentamente.
E non sai mai in che modo farlo.
È per questo che io osservo tutto.
Voglio imparare a vivere.

Ma come ho già detto, nessuno si chiede mai il vero motivo dei miei gesti.
E io non faccio niente per impedirlo.
Non m'importa se hanno deciso di pensarla così.
Nessuno può alterare i propri caratteri.
E nessuno cambia quando riceve l'ordine di farlo. 
Neanche io sono mai cambiato.
E non perché sono un bambino indaco.
Ma perché sono un bambino.

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Capitolo 2
*** Colours. ***


                                                                                                                         STREETS
                                                                                                                              OF
                                                                                                                       NOVEMBER
                                                                                                                              ***

Canzone: Life on Mars- David Bowie

Capitolo Primo.-Colours.

Mi sono sempre piaciuti i colori.
La mia cameretta aveva le pareti gialle.
Poi iniziai a ricoprirle di poster e la vernice sparì dietro dozzine di fotografie delle mie band preferite.
Ma non ho mai smesso di amare i colori.
Però non avrei neanche mai pensato di esserlo io stesso, un colore.
Sono un colore abbastanza triste. Uno di quelli sconosciuti, che non trovi nelle confezioni di tempere perché nessuno lo userà mai. Bhè, neanche io vengo usato poi molto. 
Tutti amano i colori. Tutti hanno bisogno di sfumare la propria vita con un paio di pennellate. Ognuno di noi è dipinto da varie tonalità. E allora perché, mi chiedo, nessuno vuole starmi troppo vicino, sebbene sia un colore?
Non sono eccessivamente acceso, e preferisco starmene zitto da qualche parte, piuttosto che sputare cazzate.
Preferisco confondermi tra gli altri, e non risaltare nel grigio mondo che mi circonda.
"È malato. Ha una malattia che si chiama come un colore", sentivo spesso dire dai miei compagni della scuola materna, che mi osservavano interrompendosi fra risate sommesse e ghigni divertiti. Non me la sono mi presa più di tanto, infondo avevo cose ben più importanti a cui pensare.
Il cielo, ad esempio. O il mare. Sono sempre stato dell'idea che se potessi viaggiare nel tempo, scoprirei di derivare da un uccello. O un pesce, magari. Sento dentro di me che la terra non fa al caso mio. Troppo ferma, troppo monotona. Troppo limitata.
Quando ero nato, nella sala parto di un piccolo ospedale del Jersey, avevo gli occhi completamente aperti, pronti per osservare e già verdi come quelli di mia nonna. Per i dottori risultò strano, e non esitarono a farmi delle analisi. Mi tennero là dentro per settimane, mi aveva detto mia mamma. Non oso immaginare la noia che provavo in quei giorni. 
Menomale che non ero in grado di raccogliere informazioni da aggiungere alla mia memoria, dato che io, una memoria, non la possedevo ancora.
Il tutto si concluse con un verdetto da parte del dottor Wayne, in cui dichiarava apertamente che "il bambino era affetto da gravi distorsioni mentali non ancora analizzate dalla scienza". Sono ancora alla ricerca di quel dannato dottore e delle sue teorie decisamente discutibili.
In poche parole, mi ritrovai intorno tutor di ogni tipo, fra parenti e insegnanti, infermieri e parroci della chiesa.
Non so quali problemi li tormentassero, e da dove provenisse la loro interminabile voglia di chiedermi, ogni fottutissima volta, cosa vedevo quando uno di loro entrava nella stanza. "Pensano che sia un alieno", mi dissi fra me e me, un giorno.
Così, la ventiquattresima volta che mi ripetevano quella frase -le avevo contate, tutte- risposi con un secco,
"Vedo una luce verde che vi avvolge e vi trascina da me.".
Questo bastò per levarmeli dai piedi per qualche giorno, evitando di perdermi in inutili sessioni psicologiche, come le chiamava mio padre.
Sessioni psicologiche era un termine pressoché professionale, e mio padre era un tipo molto professionale.
I professionisti che usavano parole professionali, i masochisti che usavano parole decisamente masochiste, e gli strani, come me, che si esprimevano nel modo più strano che gli umani conoscessero. Tutto tornava.
E mentre io ridevo dell'evidente scherzo sugli alieni, loro realmente si preoccupavano del fatto che io potessi soffrire di allucinazioni.
Trascorsi così un anno intero fra la mia stranezza e la professionalità -ma soprattutto noia, degli assistenti che mi circondavano ogni giorno.
Poi, i medici capirono che la mia non era affatto una malattia, bensì un fenomeno abbastanza raro -o così mi sembra che avessero detto-.
Non feci molto caso a quel termine che la dottoressa Marshall aveva usato, limitandomi ad aspettare ansioso la loro resa, e il ritorno alla libertà.
Quando finalmente successe, sperai immediatamente in una gloriosa entrata nella nuova scuola. Ma la mia felicità da bambino sognante di appena sei anni, non durò così a lungo. Infatti bastarono pochi sguardi, pochi discorsi insensati -ma di per sé giusti- che gli insegnanti sentirono uscire dalla mia bocca, per farmi cominciare nuove sedute psicologiche. Non in ospedale, fortunatamente, ma pur sempre noiose e insignificanti.
Cominciavo a stancarmi di quella storia.
Se non fosse stato per mia nonna, a quest'ora sarei ancora rinchiuso fra le quattro mura dello studio psicologico che frequentavo settimanalmente. E chissà, magari non sarebbe stato così male, ripensandoci.
Mia nonna Elena è poco più alta di me, mingherlina e arzilla, modello della classica donna del dopoguerra. 
Fu proprio lei, una domenica mattina, a trascinarmi sul taxi che ci aspettava fuori all'entrata dell'edificio, senza troppi giri di parole.
"Nonna, cos-", riuscii a balbettare, mentre inciampavo sulle mie stesse scarpe. Avrei compiuto di lì a poco dieci anni, e le mie gambe non erano secche come quelle dei miei coetanei. 'Ben vengano', mi dicevo, pensando alle loro stecche ossute. Possedevo molta più forza, se non altro.
"Ringraziami Gerard, ringraziami", aveva borbottato lei in risposta, senza mollare la presa dal mio avambraccio.
Salito sulla vettura, scoprii in poco tempo che la direzione era proprio casa di mia nonna. Mi piaceva quella piccola villetta di periferia, circondata da rare piante di garofani che mio nonno portava puntualmente al ritorno dei suoi lunghi viaggi all'estero. Poi mio nonno era morto, e con lui tutte le nostre speranze di poter costruire la più grande serra di garofani esistente al mondo. La sua morte, comunque, non fu così dolorosa. Mia nonna passò solamente qualche giorno di digiuno, mia madre scappò da suo fratello per una settimana, mentre io me la ridevo in un qualche angolo della casa. E intorno giaceva il silenzio.
Qualcuno mi disse che i bambini piangevano quando perdevano un parente, e quindi provai a farlo anche io. Dai miei occhi uscirono sì e no un paio di lacrime, ma poi mi annoiai, e ricominciai a ridacchiare davanti allo schermo di quella televisione che era la mia famiglia.
Il tempo scorreva comunque velocemente, e fu facile per gli altri riprendersi. Mia nonna, addirittura, stanca di quel digiuno, mangiò talmente tanto  che mise su quattro o cinque chili tutti in una volta. Insomma, mi piaceva davvero molto casa sua. Lì erano successe tante cose belle quanto brutte. Anche se io, in verità, il brutto non sapevo neanche cosa fosse. Non ero un bambino allegro, ma non mi piangevo mai addosso. Anzi, diciamo che non piangevo mai, in generale.
Dopo due anni in ospedale, e quattro di sedute psicologiche, arrivare davanti alla porticina bianca della villetta, non fece che riaccendere quell'ultimo spiraglio di speranza che si era spento con il mio ricovero. 
"Tuo padre mi ha concesso di prenderti con me per non più di una settimana, mentre tua mamma sa solo di un weekend 'diverso' a casa della nonna. Non voglio guai.", mi disse, non appena fummo dentro.
Annuii solennemente, scegliendo una sedia vicino al tavolo rettangolare di legno scuro, e mettendomi Fluffy sulle gambe. Fluffy era il gatto di mia nonna.
Aveva un nome orribile. In effetti, nessun nome è apparentemente giusto per un animale, secondo me. Infatti, preferivo chiamarlo semplicemente col suo nome tecnico. Gatto.
"Ehi, Gatto!", lo chiamai, il primo giorno,  stravaccandomi sui vimini della sedia.
Un miagolio ruffiano si fece spazio nel silenzio dell'abitazione, mentre il grasso gattone rosso saliva goffamente su di me.
Infilai le mie dita sottili fra i suoi peli folti e massicci. Mi piaceva quel gatto. E io piacevo a lui. Forse ero l'unica persona che non aveva mai marchiato con i suoi artigli affilatissimi. E gli ero immensamente grato per questo. Tutti tendevano sempre ad assalirmi, in ogni modo e in ogni luogo.
Ma come ho già detto, niente di tutto questo era mai riuscito a farmi piangere, o deprimere dietro un muro di solitudine. L'idea di cambiare per qualcun'altro che mi vedeva come 'strano', non mi passava neanche per la testa. Non avrei mai alterato alcun carattere di me stesso. Dopotutto era la mia vita. E le critiche facevano parte della mia vita.
Così non rispondevo a nessuna di esse, né le accumulavo dentro di me, come facevano i ragazzini depressi che ogni tanto vedevo in giro.
Semplicemente, le accettavo.

E fu così, tra i gemiti del gatto, e le telefonate interminabili di mia nonna, che passai la prima settimana fuori dall'immutabile percorso vitale che avevo fatto fino ad allora. Stavo piuttosto bene, lasciando perdere piccoli inconvenienti come il pallone che avevo lanciato sul finestrino della signora accanto, infrangendolo in migliaia di pezzi.
"È stato un incidente, signora Crowell, prometto che Gerard non lo farà mai più", aveva detto mia nonna alla donna.
Ma nessuna delle due, aveva realmente capito la ragione del mio gesto. Nessuno se lo chiedeva mai. Tutti davano un senso monotono e scontato alle mie azioni.
Nessuno ha mai saputo che avevo lanciato quel pallone perché volevo scoprire quanto tempo impiegava a raggiungere il vetro della finestra, e in seguito a distruggerlo. E dire che avevo scelto una traiettoria perfetta, prima di calciarlo.
Ma non m'importava. Se questo era il loro modo di pensare -ma soprattutto di etichettarmi, allora non avevo niente da ridire. Anche se avessi provato a controbattere, loro non avrebbero mai capito cosa davvero intendevo.
Nessuno cambia quando riceve l'ordine di farlo.
Nessuno.
È logica.
In seguito a quella settimana, successero varie cose simili a quell'ultima della finestra, ma niente di grave. E fui costretto a lasciare la villa, immerso nel mio solito silenzio che mi caratterizzava da tempo.

Giusto il tempo di ritornare a casa, iscrivermi e poi lasciare la scuola per altre cinque volte, tagliarmi i capelli e sottopormi ad altre sedute psicologiche, e sono diventato un bel sedicenne, alto quanto basta e non troppo robusto.
Le sedute continuano a tormentarmi, e ogni mercoledì il mio psicologo mi aspetta dentro il piccolo ospedale distante qualche isolato da casa mia.

Tocca a Fred accompagnarmi, ogni giorno, davanti alla porta di quell'edificio.
"Qual è la specialità di oggi, Fred?", chiedo, col mio solito tono cauto e strafottente.
"Psicologo, Gerard", mi risponde lui, la stragrande maggioranza delle volte. E io sbuffo, facendo roteare gli occhi.
"Ancora? Ma non si stancano mai di strizzarmi il cervello?", scherzo riluttante.
E lui ride.
L'unico assistente sociale che ride.
Che fortuna avere Fred come autista.
In effetti, è una fortuna soltanto avere un autista, chiunque egli sia.
Gli autisti ti fanno da guida, rispondono alle tue domande, e ti rispettano perché hai dei problemi mentali "non ancora analizzati dalle scienze".
Uh, giusto. Il dottore. Non l'ho ancora trovato. Il mio istinto omicida è comunque perennemente puntato sulla sua espressione da perfetto idiota.
Se non fosse stato per lui, in questo momento mi troverei fra i banchi di una scuola a fare il ragazzo normale.
Ma è chiedere troppo, forse. Chissà.
Scendo dalla macchina con eleganza, aggiustandomi gli occhiali da sole sul naso. Li porto per evitare ogni tipo di contatto visivo con la gente.
Le persone mi danno fastidio, e i miei occhi ne attirano anche troppe.
Entro nell'edificio con qualche colpo di tosse, e immediatamente l'infermiera biondina che si occupa di me mi fa strada verso il reparto 'psicologia-psichiatria'. A molti fanno cagare sotto, quei due nomi. A me no. A me divertono. Mi piacciono i nomi lunghi.

Entro nella stanzetta accompagnato dalle sottili dita della ragazza.
Si chiama Emily Merdens, e indossa sempre la solita divisa da infermiera raccomandata, lasciando scoperte le sue cosce fino alla base.
Ha ventidue anni, ma ne dimostra una trentina. Il mio desiderio è quello di ammazzarla. Sì, un giorno, magari, mentre sfoglia le pagine di quelle noiosissime riviste di moda. Una lama alla gola, colpo secco.

Come dicevo, mi ritrovo catapultato ogni settimana in quella minuscola aula, di fronte allo psichiatra e ad una lunga poltrona nera.
Mi ci sdraio ormai da anni, ma ho sempre un po' di timore, prima di poggiare il mio sedere su quell'ammasso di cuscini.
"Gerard, come hai passato questa settimana?", é solito domandare il dottore.
"Uhm...ho guardato il cielo...e il pavimento...e...", faccio illuminare sempre il mio viso, all'ultimo "e...", così da far illudere l'uomo con la speranza che dica qualcosa di interessante.
"...e le mie dita. Sono delle gran belle dita, non pensa?", dico indifferente.
Sento puntualmente uscire degli sbuffi dalla sua gola, ma me ne importo.
Ho pur sempre sedici anni, e devo trovare il modo di divertirmi anche io.
Ed è così che continuano le mie giornate.
Sempre le stesse noie.
Sempre gli stessi volti, le stesse parole che si ripetono di tanto in tanto in quella piccola sala da terapia. Costretto a parlare di faccende che non mi appartengono con un uomo coperto da un angosciante camice bianco.
Il mio nome è Gerard Way.
E sono un ragazzo indaco.

Le cose però, oggi hanno deciso inspiegabilmente di cambiare.
Come sempre, Fred mi invita a salire sulla sua auto nera, accompagnandomi davanti all'edificio bianco senza troppe parole.
Forse anche troppo poche, di parole.
Scatto velocemente fuori, senza perdermi in troppi saluti, e filando dritto verso la stanza.
Oggi sono inspiegabilmente di fretta. Già, tanto che riesco ad ignorare le smorfie di Emily, continuando per la mia strada da solo. Infondo la conosco bene. Ho sedici anni, un cervello niente male, e una malattia mentale*. A cosa serve un'infermiera a farmi come guida?
Spalanco la porta dell'aula senza bussare. Questo è il mio turno, e l'orario è già fissato. Tocca a me parlare col dottore, in quest'ora, e anche se ci trovassi un ritardatario a scambiare le ultime chiacchiere, ascolterei accanto a lui le sue parole finché non finisce. Odio perdere tempo. Soprattutto il mio, di tempo.

"Cerchiamo di sbrigarci", farfuglio entrando, e imitando tutto ciò che non sono-un professionista. 
Sono accolto dallo psicologo con una tentata stretta di mano, che riesco ad evitare gettandomi a capo fitto sulla poltrona.
"Come stai?", chiede, ignorando la mia evidente mancanza di affetto nei suoi confronti.
Faccio spallucce, mentre afferro uno dei biscotti che posano sempre in una ciotola alla mia destra.
Ne scelgo uno che ha il colore del cacao, rigato da sottili linee di quello che pare essere del cioccolato fondente.
Sembra buono. È come uno di quelli delle pubblicità, che prima desideri, poi compri, e infine getti nella pattumiera perché sei rimasto deluso dal loro reale aspetto -e sapore-.
"Uhm...sto bene", rispondo, annusando il dolcetto.
Noto con la coda dell'occhio le labbra del dottore piegarsi in un largo e falso sorriso, mentre si accomoda sulla sua solita sedia. Una di quelle sedie da professionisti.
"Mi fa piacere. E dimmi, cosa hai fatto durante questa settimana?", continua, afferrando il suo dannato block notes rivestito in pelle.
Eccola, la domanda che fa da ritornello alle sue sedute.
Mi ficco finalmente il biscotto in bocca, prima di rispondere, fra un boccone e l'altro,
"Bhè-ugh-non molto. Se vuole le posso raccontare del-uhm-cielo, ma immagino che lo conosca abbastanza bene da potersi raccontare ogni cosa da solo.".
Lui fa roteare gli occhi, allentando la presa della penna, già pronta per annotare qualsiasi cosa ritenesse importante.
"Gerard", esclama pacatamente, dando al mio nome un'intonazione interrogativa.
"Dio Dottore, questi biscotti fanno schifo", borbotto in risposta io, ignorando completamente la sua voce.
"Gerard...", insiste lui, sospirando.
"Insomma, capisco che stiamo parlando di uno come lei, ma", ridacchio, gesticolando, "almeno potrebbe impegnarsi un po' di più nella scelta dei dolcetti", continuo.
"Gerard, ascoltami", la sua voce si fa vagamente più ferma.
"Sa che i pazienti potrebbero lamentarsi, di fronte a questo scempio? Io non lo faccio perché le voglio bene, ma non tutti la pensano come me", spiego, strizzandogli un occhio.
Osservo il suo petto gonfiarsi e sgonfiarsi sempre di più, e sempre più velocemente.
"Va bene, ci penserò, ma adesso ascoltam-"
"Eh no, non rimandi niente al futuro", lo interrompo, sporgendomi in avanti,
"Il colore di questi biscotti inganna molto facilmente. Vede, la sfumatura scura, che ricorda il cioccolato al suo stato grezzo, e queste striature tendenti al nero, lo fanno apparire come qualcosa di assolutamente delizioso.", faccio cadere il pezzo rimasto sul tappeto di blu che entrambi stiamo calpestando, per poi concludere con un secco "questi biscotti fanno schifo almeno quanto l'ambiente che li circonda, dottore.".
"Gerard! Adesso basta!", questa volta urla, mentre si alza scattante dalla sedia, con lo sguardo di chi vorrebbe ammazzarti lì, sul posto, senza ripensamenti o sensi di colpa.
"Non siamo qui per parlare di biscotti!", ringhia.
E io, tranquillo, mi alzo, avvicinandomi lentamente a lui.
La nostra altezza combacia, quindi non ho bisogno di alzare o abbassare eccessivamente lo sguardo.
Mi schiarisco la voce, e con aria solenne sussurro,
"Siamo qui per parlare di me. E io voglio parlare di biscotti. Dopotutto ho dei problemi mentali, no? Mi assecondi, faccia il suo lavoro da professionista, e poi mi congeda. Avrà tutto il tempo per uscire, cazzeggiare, e ritirare il suo stipendio. E tutto questo per aver ascoltato le mie teorie sui biscotti. Non male, non pensa?".
Questo basta per farlo indietreggiare, lanciare due colpi di tosse, farfugliare qualche imprecazione e risedersi al suo posto.
È la prima volta che sputo questa roba sullo psicologo, solitamente preferisco tenermela per me. Come ho già detto, le persone non cambiano mai.
Picchiettando ritmicamente due dita su una gamba, mi stravacco di nuovo sulla poltrona, afferrando un nuovo orribile biscotto.
Il dottore mi guarda interdetto, mentre lo porto alla bocca.
"Perché ne hai preso un altro, se ti fanno così schifo?", chiede. Noto in lui la calma che poco prima aveva perso.
Una smorfia appare sul mio viso, mentre alzo le spalle e sospiro.
"Diciamo che...", una breve pausa interrompe la mia spiegazione. In effetti neanche io so bene il perché stia addentando quel biscotto.
Socchiudo gli occhi, e mi invento una qualunque stupida scusa che, detta in un certo modo -nel mio modo-  è in grado di ingannare anche un dottore.
"...diciamo che preferisco dare una seconda possibilità a tutto. Anche noi siamo stati beneficiati da molte possibilità, perché non darne una ad un così tenero biscotto?", le mie parole assumono un leggero sarcasmo, verso la fine.
Vedo il dottore sbuffare in segno di resa, e accavallare le gambe.
"Dunque. Passiamo a qualcosa di serio", iniziò.
"Mi sta dicendo che il cioccolato non è un argomento abbastanza serio di cui discutere?!", esclamo io, sedendomi velocemente sul bordo della poltrona, e sollevando le mani verso l'alto.
Questo movimento è probabilmente stato un pretesto per poter far cambiare posizione alle mie gambe.
Lui, comunque, mi ignora.
"Secondo le ultime analisi, Gerard...", spiega, scandendo le ultime lettere e rovistando nella sua cartella.
"...i miei colleghi hanno riferito che saresti riuscito a captare, senza alcun aiuto di nessun tipo, la traiettoria di una biglia lasciata cadere da uno scivolo di quattro metri interrotto da sette ostacoli differenti tra loro. Ed è la terza volta che ci riesci, questo mese.". Sul suo viso appare una finta espressione compiaciuta.
"Non male", conclude.
Un ghigno fa piegare le mie labbra.
"Gliel'ho detto che non sono normale", decreto, senza offendermi per l'insulto che mi sono appena dato da solo.
"La cosa che nessuno di noi riesce a spiegarsi, Gerard, è che con sedici anni di vita sulle spalle, non puoi arrivare a certe deduzioni così in fretta.", continua.
Dopo averci riposto dentro le analisi, chiude la cartella provocando un buffo rumore. Poi mi guarda, sfilandosi gli occhiali con la mano destra.
"Riuscire a capire la direzione che quella pallina avrebbe preso dopo appena un metro di percorso, è impossibile.", decreta infine.
Deglutisco appena, spostando il mio sguardo dal suo e cercando un nuovo appiglio nella stanza.
Provo a fissare la statua in bronzo sulla scrivania, ma ha una forma decisamente fallica, e mi scandalizza.
Così decido di osservare meglio il cestino cilindrico che posa vicino alla libreria, alla mia sinistra.
Al di fuori sembra vuoto, ma posso facilmente intravedere della carta bianca fuoriuscire dal bordo. Il che sta a significare che no, non è affatto vuoto, ma anzi, chiede sofferente di essere vuotato.
Ma...svuotato da cosa? Conoscendo il mio psicologo, il dottor Patter, là dentro non possono che esserci moduli, deleghe, analisi mal riuscite che, in un suo impeto di rabbia o noia, sono state accartocciate da quelle grasse manone che si ritrova. Ecco la vita di un foglio di carta in un ospedale.
Io, ad esempio, le cose non le butto, in special modo se fatte di carta.
La carta è la mia salvezza, e buttandola farei di me un corpo senza vita, destinato alla dura sofferenza dell'inerzia.
Quindi, preferisco piegarla in più parti, e infilarla nel primo posto in cui ci sia spazio.
La fortuna è che non scrivevo troppo, quindi la presenza di fogli nella mia stanza è davvero minima.
La vera carta di cui parlavo, è quella su cui disegno.
Fumetti, paesaggi, ritratti di persone che a malapena conosco. Tutto, ogni fottuta cosa che esce sotto forma di disegno dalle mie mani, è destinata a rimanere con me, per sempre.
Persino le pennellate che ogni tanto dò in preda a un improvviso e incompreso attacco di rabbia, vengono conservate da me con una certa eleganza.
Molti di questi schizzi sono appesi alle pareti, altri nei cassetti ai lati della mia scrivania, altri ancora sparpagliati fra i libri, sugli scaffali.
Niente è in ordine, nella mia stanza.
Si tratta del il mio angolo. A nessuno, neanche a mia mamma, è permesso entrare. Certo, sono consapevole che una volta uscito fuori di casa chiunque potrebbe fare irruzione là dentro, ma aver attaccato quel cartello minaccioso alla porta, in cui prometto di levare ogni singolo neutrone dalle cellule cerebrali di chiunque si avvicini, rompendo così il legame fra i protoni, mi fa sentire più sicuro.

Per questo mi chiedo come Patter possa consumare tutta quella carta in un solo giorno lavorativo.
Poi mi guardo intorno.
Quell'aula è troppo ordinata.
"Gerard, non evitare il mio sguardo", è proprio la sua voce a risvegliarmi dai miei pensieri. Attende con ansia una di quelle mie rispostine acide, che infondo ama molto.
Ma in questo momento non ho voglia di  soddisfarlo.
"Hm?", riesco ad esclamare, alzando le sopracciglia e sporgendomi leggermente in avanti. In effetti, non ho capito bene cosa intenda con quel suo 'non evitare il mio sguardo'.
Io non lo sto evitando. Lo sto semplicemente contemplando lasciando spazio alla minore importanza degli 
oggetti che ci circondano, tutto qui.

"Questa aula è troppo ordinata", dico ad un tratto, annuendo e riportando i miei occhi sulla traiettoria del cestino.
"Non si chiama aula, Gerard", lo sento spiegare.
"Lo so. Ma almeno mi faccia illudere che lo sia, così che quando ritornerò a scuola, e metterò piede in una vera aula, sarò felice di vedere che sarà molto meglio dell'idea che mi ero fatto sulle aule come questa. Mentre, in realtà, resterà sempre e comunque un'orribile aula.", esclamo gesticolando, concludendo con un leggero sorriso, come se ciò che ho appena detto sia la cosa più ovvia al mondo.
Il dottore sbuffa per l'ennesima volta.
Non mi sopporta più.
"Ad ogni modo, non voglio insistere troppo sulle tue analisi. Immagino che neanche tu, sappia come prevedere per tre volte di seguito la traiettoria di una biglia. O mi sbaglio?", indaga, sollevando un sopracciglio.
Annuisco, socchiudendo gli occhi.
"Certo che si sbaglia. Mi sembra ovvio che io sappia come prevedere certe cose!", esclamo, sorridendo.
"E allora perché non ce lo spieghi? Eh, Gerard?", chiede, abbassando il tono di voce e chinandosi verso di me.
Lo imito, piegandomi sul mio busto e trattenendo le mie corde vocali.
I nostri volti duellano in uno scontro all'ultimo sguardo.
"Perché se lo dicessi, non sarei più l'unico a sapere come fare, e diventerei normale" sussurro, senza lasciare che il ghigno abbandoni il mio viso.
Lui alza le braccia, in segno di resa, e scuotendo la testa dice,
"Va bene, Gerard. Ho capito che oggi non è giornata per una seduta psicologica insieme a me.".
Mi ricompongo sulla poltrona.
"In effetti non è mai giornata", aggiungo, con un sorrisetto soddisfatto.
Patter si alza, aprendo la porta e allungando una mano verso l'esterno.
"Sei libero per oggi. Ma sta attento a non uscire di qui finché qualcuno non sarà venuto a prenderti, perché altrimenti potremmo finire in guai seri", spiega.
Lo raggiungo quasi correndo, e ringraziandolo frettolosamente, sgattaiolo fuori dalla stanza trascinando con me un ultimo disgustoso biscotto.

Non è la prima volta che vedo il resto dell'ospedale, ma è la prima volta che lo vedo senza che il braccio ossuto e fastidioso di Emily si avvinghi al mio corpo.
Mi sento libero, finalmente. Certo, lo spazio rimane strettamente limitato, ma mi va bene così.
Esco accompagnato da un sorriso sornione dal reparto psichiatria, per recarmi verso le macchinette della hall.
Sto per gettarmi contro il pulsante del caffè, quando mi ricordo che ai pazienti non è consentito l'uso dei distributori.
Mi mordo un labbro.
Poi però guardo verso il basso.
E mi accorgo che nessuno, almeno che non mi conosca, potrebbe riconoscermi come paziente.
Indosso un paio di pantaloni neri, semplici e aderenti, e un sottile maglioncino grigio.
Quelli ricoverati ballano in casacche verdi o enormi pigiami sterili.
Io, in questo momento, non sono un paziente.
Sono un ragazzo.
Nessuno potrebbe mai scambiarmi per un malato.
Non oggi.
Sorrido fra me e me, e scelgo un altro distributore, un po' più lontano, giusto per assicurarmi che non mi veda nessuno a cui possa risultare 'familiare'.
Con fare indifferente, inserisco una moneta nella macchinetta, selezionando il mio gustoso caffè. Immediatamente una tazzina di plastica esce dall'erogatore, e posso vederla riempire da dietro l'opaco vetro che ci divide.
Mi piego sulle ginocchia per osservare meglio quel liquido marrone, mentre cola lentamente nel contenitore bianco.
Un magnifico contrasto, penso,
Poi, sento qualcosa toccarmi pesantemente una spalla.
Mi volto di scatto, sgranando gli occhi, quasi impaurito.
È la mano di un uomo, alto, robusto, sulla sessantina, quella che mi ha distratto.
"Bello, non trovi?", mi chiede, con una voce leggermente roca, e attenuata dall'età.
Ci metto un po' per capire la sua domanda.
Lancio uno sguardo alla tazzina che si sta ancora riempendo, e poi di nuovo a lui.
"Direi...Diabolico.", specifico, allibito.
Divide il suo braccio dal mio corpo, facendolo ciondolare su un fianco.
Sta sorridendo, che strano.
Nessuno mi sorride.
O meglio, nessuno mi sorride se non sotto uno stipendio.
"Le diavolerie fanno parte della nostra vita, dopotutto", aggiunge.
Riporto la mia attenzione sul distributore, che nel frattempo, ha cessato di far uscire caffè.
Adesso non so davvero come fare.
Non avevo mai usato una macchinetta simile, prima d'ora.
Lancio un'occhiata preoccupata all'uomo, che non ha smesso un attimo di osservarmi.
Quando si rende conto della situazione, non esita ad avvicinarsi.
"Aspetta, lascia che ti aiuti.
Ecco, così.", spiega, mentre apre lo sportello trasparente e estrae il bicchierino.
Me lo porge.
La sua espressione implica un invito.
Dannazione.
Allungo una mano, lentamente, mentre cingo la circonferenza del bicchiere con le dita.
"Grazie", sussurro, mentre lo porto alle mie labbra.
"Mi chiamo Ivan. Lavoro al reparto neurologia e psichiatria", aggiunge.
Tossisco, facendo tremare il caffè, non appena le sue labbra scandiscono quelle due parole.
Accidenti, lavora allo stesso reparto in cui vado a fare le sedute.
Magari non mi ha riconosciuto. O magari invece sì.
Non resta che accertarmi che non sappia chi sono.
"Oh. Oh, sì, ho un parente lì", mento, bevendo due nuovi sorsi del mio vizio preferito.
"Mi spiace molto per il tuo parente, ma... potrei sapere il suo nome? Magari sono proprio io, il suo dottore", chiede, accennando un sorriso comprensivo.
Scuoto la testa lentamente.
"No. Non è importante. Le posso dire comunque che mi somiglia molto, e data la mia unicità, non penso che impiegherà molto a vederlo", puntualizzo.
Merda, forse mi sono spinto un po' troppo in là.
Lo vedo mordersi un labbro e accigliarsi.
Ha un viso molto squadrato, capelli brizzolati, barba incolta e sottili occhiali posati sul naso imponente.
"Hm, capisco. Davvero pensi di essere unico nel tuo genere?", continua.
Sussulto internamente.
Genere? Quale genere? Umano? Oppure si riferisce ai malati di mente? Panico.
"Di che genere sta parlando?", domando impaurito.
Lui solleva una mano per guardarsi le unghie scure.
Poi alza entrambe le sopracciglia, e spiega,
"Bhè, il genere. Insomma, ci siamo capiti. Il genere di persone degli ospedali".
Deglutisco sonoramente, buttando giù anche il fondo rimasto del caffè.
Devo immediatamente trovare una risposta che riesca a zittirlo.
"Ma, dottor Ivan. I generi non esistono.
Come può, uno psicologo come lei, etichettare i pazienti di un ospedale in base al genere?", la mia voce trasmette del sarcasmo che non dovrei far sentire a quell'uomo.

Bhè, lo ammetto, la scusa che ho usato per deviare i sospetti del dottore è decisamente priva di senso, ma almeno ha rallentato il processo della mia condanna a morte.
"In realtà non sono uno psicologo", ha esclamato, posando le mani dietro la sua schiena e gonfiando leggermente il petto ricoperto dal camice.
"Mi occupo dei malati rari. Malati mentali, rari.", specifica.
Perfetto, tutto ciò che mi poteva capitare di brutto si sta catapultando su di me.
Ma io non vedo mai nulla di brutto.
"Oh...e mi dica, uhm, le piace il suo lavoro? Si diverte a far strizzare i cervelli dei malati dai suoi colleghi psicologi?", indago, ormai prossimo alla fine.
Sorprendentemente, lui scuote la testa.
"No. Odio terribilmente il mio lavoro.
Spesso desidero quasi diventare uno dei miei pazienti. Magari uno di quelli...uno di quei ragazzi...", interrompe la sua frase fingendosi in mancanza di una parola.
Vuole che io la continui, svelandogli chi sono realmente.
Ma io non gli concedo la vittoria. Non così in fretta.
"Mi dispiace, ma se la sua intenzione era quella di lasciare a me l'onore di completare la sua frase, sono immensamente dispiaciuto dal doverle riferire che non sono bravo in questi ambiti. Sa, gli ospedali non mi sono mai piaciuti.".
Certe volte capita che mi sorprenda di quanto sia abile nell'uso della parola.
Lo vedo portarsi una mano al mento.
"E va bene. Mi hai scoperto.", sospira, abbassando lo sguardo.
"Però, che ne dici di fare due chiacchiere nel mio ufficio?", mi propone.
Alzo immediatamente un sopracciglio.
"Lei mi sta davvero invitando nel suo ufficio? Insomma, si rende conto che potrebbe essere un perfetto pedofilo, ai miei occhi?", sputo in risposta, gesticolando col bicchierino mezzo vuoto in mano.
Il dottore annuisce, per poi aggiungere,
"E tu ti rendi conto che vi sono almeno tre infermieri che controllano, intorno alla mia stanza? Se volessi molestarti sceglierei il bagno. Quello sì che sarebbe un posto davvero carino, non pensi?".
In effetti, non ha poi tutti i torti.
E parlare un po' diminuirebbe la mia perenne noia.
Così, stringendomi fra le spalle, e esitando ancora per qualche minuto, accetto, e mi faccio strada nell'ospedale dietro al suo grande camice bianco che mi guida verso la sua stanza. Ma io conosco quel posto come le mie tasche.
O meglio, non proprio come le mie tasche.
Ogni tasca dei miei pantaloni è diversa, e spesso non mi ricordo neanche cosa ci sia dentro. Quindi, correggendomi, diciamo che conosco quel posto come...come la mia mente. Sì, conosco me stesso meglio di chiunque altro.

Entriamo nello studio -o ufficio, come lo chiama lui- seguiti dallo schiocco della maniglia della porta dietro alle mie spalle.
"Accomodati, e finisci pure di bere il tuo caffè", mi intima, sedendosi e indicandomi una piccola poltroncina color carne alla mia destra.
Faccio spallucce, bevo l'ultimo sorso dal bicchierino, e mi stravacco là sopra.
La sua sedia nera si trova dietro a un'enorme scrivania di legno.
Punto i miei occhi verdi sui suoi, scuri e severi. Passiamo un bel po' di minuti in silenzio, in cui ho la possibilità di studiarlo meglio. Non è cambiato poi molto dopo l'entrata in quella stanza, e l'unico nuovo particolare che noto è un cartellino bianco appeso al taschino sinistro del suo camice.
"Uhm-dunque dottor...Cooper? Si può sapere cosa vuole da me?", chiedo, leggendo chiaramente il suo cognome dalla targhetta.
Il dottor Cooper scuote la testa, ripetendo,
"Volevo semplicemente fare due chiacchiere con te...uhm...?", attende che io dica il mio nome.
Ma ignoro la sua evidente richiesta, e sposto la mia attenzione su un piccolo vaso vitreo posato sul bordo della scrivania, e riempito da minuscoli fiorellini violacei. Mi avvicino, strizzando leggermente gli occhi.
"Che fiori sono?", domando.
Non che me ne freghi poi così tanto, ma voglio far passare il tempo velocemente.
Non ricevo nessuna risposta.
Sollevo un sopracciglio nella direzione del dottore, interrogativo.
Ma continua a starsene zitto.
"Insomma, ha detto che voleva fare due chiacchiere con me. Se non ha nulla da dire, potrei anche alzarmi e...", poso entrambe le mani sui braccioli della poltrona, con l'intento di andarmene, attendendo la scontata frase che interromperebbe i miei movimenti.
Ma quella frase, non arriva.
Mi fermo, guardandolo dritto nelle iridi cupe. E per un attimo, penso che non sia la stessa persona di poco fa, quella che mi sta squadrando, qui di fronte.
Qualcosa fa sembrare la situazione molto più semplice, calma, quasi sicura.
Riesco a vedere minuscoli frammenti della sua vita, in quelle due pupille seminascoste da un ciuffo di capelli. Vedo un sorriso, una spiaggia, e poi un mare in tempesta, che infrange le sue onde su spigolosi ed enormi scogli. Scogli impenetrabili.
E improvvisamente, è come se conoscessi quest'uomo da anni.
Quando invece so a malapena il suo nome.
Tutto questo inizia a spaventarmi.
Accenno un mezzo sorriso tranquillo.
"Veda di dirmi qualcosa e di non limitarsi a guardarmi con quell'espressione da maniaco, perché ci sono due infermieri proprio qui fuori", lo avviso, accentuando il tono delle ultime parole.
Ma Cooper scuote TENERAMENTE la testa, facendo gonfiare d'aria le sue larghe guance.
"Non ho niente da dire, per quale motivo dovrei parlare?", domanda con una strana calma.
Sollevo le sopracciglia, e sono sicuro che la mia bocca si sia spalancata appena.
"Ma io le ho chiesto che cosa sono quelli", insisto, indicando i fiori.
"Ma neanche io so cosa siano", ribatte, alzando leggermente entrambe le braccia per poi riposarle sulla scrivania con un piccolo tonfo.
"Spiegami perché dovrei risponderti.", conclude, incrociando le dita e posandoci definitivamente il mento sopra.
Deglutisco.
Il dottore si sta mettendo contro di me. Ma io non sono una preda così facile, Cooper.
"Sembra simpatico, Ivan", controbatto, accentuando il tono sul suo nome.
I dottori odiano quando li chiami per nome.
"Lo pensano in molti", annuisce lui, serio.
Evidentemente non è come tutti gli altri. E questo mi preoccupa.
"Mi fa piacere. Dunque, cosa vuole dirmi?", domando io, sviando il discorso, e cercando di diminuire i tempi. Ho un'inspiegabile improvvisa voglia di tornare da Patter e affondare il mio sedere nella sua poltrona nera.
"Voglio sapere il tuo nome", spiega Cooper, sorridendo.
Scuoto violentemente la testa
"No, non è per questo. Non può avermi fatto entrare qui dentro soltanto per sapere il mio nome. Insomma, non sono un suo paziente!", urlo, quasi.
"E allora?", insiste, con falsa ingenuità.
E va bene, mi mancano anche i biscotti, di Patter.
"E allora mi lasci andare!", strillo, alzandomi dalla sedia provocando un fastidioso rumore ferreo, e senza ormai più un barlume di pazienza nel sangue.
"Va bene", ripete, con un'inspiegabile calma che modella il tono della sua voce.
"Eh?", esclamo confuso.
"Va bene, esci pure, non agitarti", ridacchia.
"Stai facendo tutto da solo. Io ti ho semplicemente invitato a fare due chiacchiere, tutto qui.", spiega, annuendo e gesticolando lentamente.
Deglutisco.
Il Dottor Cooper è riuscito ad impaurirmi.

Inciampo sui ciottoli della strada che le mie Converse stanno calpestando violentemente, ritrovandomi in poco tempo di fronte al magazzino dell'ospedale, mezzo ferito dalle continue cadute.
È soltanto un dottore, 
mi ripeto mentalmente, staccandomi nervosamente una minuscola striscia di unghia dal pollice destro, e posando la mano libera sulla fronte dolente.
Comincio a camminare senza meta fra le ambulanze depositate. E mi chiedo cosa ci stia facendo, lì.
L'ospedale è un posto per malati. Per i pazienti di Cooper. Non per me. 
Per quale motivo sono costretto a frequentarlo così spesso, allora?
Perché nessuno vuole capirlo?
Al diavolo i dottori, agli psicologi come Cooper. Al diavolo i camici spiritici che ti seguono ovunque.
Che vadano tutti a bruciare all'inferno, a rovinare le proprie pelli sguainate dalle fiamme.
Io voglio essere libero.
Soltanto questo.
Vorrei potermi sporgere dalla terrazza del mio cuore, e poter urlare all'Universo di aspettarmi, di avere pazienza. 
Perché io faccio parte dell'infinito.
E sto arrivando.


 
Una settimana più tardi.

Con un ultimo colpo finisco di buttare in terra anche l'ultima fotografia.
Le cornici di vetro si infrangono all'impatto col pavimento, e rumori assordanti si dileguano nella stanza.
"Gerard!", urla mia madre da non so dove.
In tutta risposta grugnisco, e afferro il ritratto di famiglia, scaraventandolo dritto contro il muro.
"Gerard, adesso smettila!", riconosco la voce di mio padre.
Ma non mi fermo, anzi, scelgo l'attestato di volo che mi è stato dato quando ho partecipato in Europa ad un raduno di alcuni ragazzi indaco.
Trascinandomelo fra le mani, spalanco la porta, già consapevole di trovarmi davanti i volti preoccupati dei miei genitori.
"Questo non è un attestato di volo! Questo non è volare! Andare incontro alla tua rovina non è volare! Questo non è un cazzo!", esplodo, strappandolo con violenza.
"Oh, Gerard...", piagnucola mia madre portandosi una mano a coprirsi le labbra socchiuse.
Ma io la ignoro, tuffandomi nelle coperte nere del letto, e scomparendo fra i cuscini.
I discorsi di quel dottore hanno scatenato in me una rabbia incontenibile.
"Dicci che succede e risolviamo insieme", sussurra dolcemente mio padre, avvicinandosi.
Mi limito a scuotere la testa, facendo ondeggiare i capelli troppo lunghi. 
"Gerard, possiamo aiutarti.", insiste.
"Ho già sentito troppe volte questa frase", mormoro, attenuando le mie urla interne con il cuscino.
"E la continuerai a sentire, se non ci spieghi cosa succede.", ripete.
"Lasciatemi stare", la mia voce è simile a un ringhio.
Sento mio padre sbuffare, e borbottare qualcosa in risposta.
Infine, il materasso su cui sono disteso si alleggerisce, e capisco che l'uomo che poco fa ha cercato di aiutarmi, si è alzato, e adesso sta abbandonando la mia stanza.
La verità è che mio padre non sa cosa voglia dire, aiutare.
Per lui tutto è molto semplice.
Per lui ogni cosa ha il suo senso, la sua natura logica. Ogni cosa si può sistemare allo stesso modo.
Ma non è così.
Dopo l'incontro con il Dottor Cooper, ho continuato le mie sedute stando più attento. Non voglio rischiare di incontrarlo di nuovo, e di ricadere nella sua trappola.
Ma sia chiaro, adesso non ho più paura.
No.
Oh, ovviamente, la mia situazione è sempre la stessa. Genitori che fingono di ascoltarti, un Fred che si ostina ad accompagnarmi ogni settimana in clinica, e una voglia matta di lasciare questo mondo per poter imparare a volare.
A volare nell'Universo, s'intende.

Mi sollevo leggermente, lasciando cadere il peso del mio corpo sui gomiti.
Mi stropiccio un occhio, e lentamente mi metto in piedi.
Mi guardo attorno per qualche attimo.
Tutte le fotografie incorniciate che mia mamma mi aveva costretto a tenere in camera, adesso si trovano buttate sul pavimento, staccate dai bordi in vetro, e strappate in più parti.
Non mi pento assolutamente di averlo fatto.
Erano tutti scatti di me e mio fratello in braccio a papà, oppure cartoline della nonna.
È inutile conservare troppe cose.
Finiranno tutte per essere dimenticate.
Un po' come l'uomo.
Nasce, cresce, studia per diventare qualcuno.
E poi, improvvisamente, muore, lasciandosi alle spalle ogni ricordo.

E allo stesso modo nessuno si ricorderà mai di me, né tantomeno delle mie fotografie.

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Capitolo 3
*** Eyes and Streets. ***



                                                                                                                                                      Streets
                                                                                                                                                         Of
                                                                                                                                                   November
                                                                                                                                                        ***

Canzone: Homecoming- Green Day (sembra fatta apposta per questo capitolo)
Capitolo secondo-Eyes and streets.

Avete presente quel momento in cui vi ritrovate a fissare qualcosa di effettivamente inutile, e immergervi in milioni di pensieri che riguardano tutto tranne l'oggetto che state guardando?
Bhè, a me capita con la mia vita.
La guardo, la osservo, l'analizzo. E infine scopro che non me la sto godendo.
La vita è tutta un po' così, priva di senso. 
Nessuno sa come si fa davvero a vivere.
Ognuno di noi è costretto a seguire una strada che non gli appartiene pienamente.

Un po' come quella che sto calpestando io, adesso.
È una di quelle enormi strade americane dimenticate dal mondo, che ti portano verso la tua meta già prefissata, e che ti impediscono di voltare gli angoli. Quelle strade che ti costringono a guardare dritto.
Niente di nuovo, niente di spettacolare.
Le solite, immutabili, fredde e cupe strade di Novembre.
Tutti camminano qua sopra.
Ma nessuno si chiede mai il perché.
Siamo cosí abituati a seguire la nostra via, che ci dimentichiamo di chi siamo realmente.

Tutti, tranne me.

Ho scoperto dell'esistenza di molte, moltissime altre stradine da poter seguire. Basta saper osservare. 
Basta rendersi conto del fatto che la nostra non è una vita a senso unico. 
È troppo vasta per poter essere divisa in sensi unici.
Unico è chi ha il coraggio di cercare qualcosa di piú, di una strada. Di incamminarsi verso la desolazione, lontano dalle idee corali che ci obbligano a smettere di seguire le nostre ambizioni.

In contraddizione con tutto ciò, devo ammettere che anche io, oggi, mi trovo diretto verso una strada a senso unico.
Per la prima volta dopo anni, sono stato iscritto ad una nuova scuola.
Ho convinto Patter a parlare con i miei, e insieme siamo arrivati alla conclusione che io non sono fatto per le lezioni private.
Ed eccomi qui, solo, intimorito, e spaventato dai continui lampi che sento alle mie spalle.
Non male come mese, Novembre.
Pioggia, pioggia, pioggia su pioggia.
Pioggia e freddo.
Freddo su freddo su pioggia.
Uno schifo.
Mia madre mi ha abbandonato sul marciapiede, dopo avermi riempito la testa di mille raccomandazioni su come devo comportarmi in classe.
Mi sono limitato ad annuire, sorridere con netta falsità, e scendere sbuffando dalla sua auto grigia.
E ho provato un certo odio, mentre la vedevo allontanarsi diretta all'ufficio in cui lavora.
È un avvocato civile.
Si occupa dei divorzi.
Penso che sia il lavoro più triste che una donna possa fare. E altrettanto tristi sono i clienti che le chiedono aiuto.
Troppe persone si prendono gioco del matrimonio. Se un giorno mi sposerò, starò bene attento a scegliermi qualcuno di abbastanza intelligente. Almeno quanto me.

Mi dirigo lentamente verso il grande portone verde, che mi aspetta spalancato. Devo dire che è molto inquietante.
Salgo gli scalini che mi dividono dall'entrata, e mi faccio strada verso quello che molti chiamano "l'inferno degli adolescenti".
Un enorme corridoio si materializza davanti ai miei occhi, e centinaia di voci esplodono intorno.
Deglutisco.
Vedo studenti che si incamminano velocemente verso le proprie classi, anziani professori che cercano inutilmente di gestire la situazione, gruppetti di ragazzine che ammirano estasiate le enormi finestre che occupano gran parte delle pareti. 
Devo ammetterlo, è tutto molto strano.
Ogni cosa è diversa da ciò che ricordavo della scuola.
Va bene, ho abbandonato gli studi in prima media, ma non pensavo che sarebbe stato così...Traumatico.

"Smettila Paul!", sento strillare.
Mi volto verso destra, e sorprendo un ragazzo impegnato a strappare dei libri dalle mani di un tipo basso e paffuto.
Quello che penso essere Paul, è alto, biondo, con un fisico ben scolpito e due occhi brillanti.
L'altro sembra fragilissimo.
Due spessi occhiali gli ingrandiscono eccessivamente gli occhi, facendolo sembrare più basso di quanto già sia.
Lo vedo saltare e strillare, mentre prova disperatamente a riprendere i suoi libri.
"Non riavrai mai indietro i tuoi stupidi libri, Denny Mosca", lo provoca Paul, alzando volontariamente il braccio, così da aumentare le difficoltà del ragazzino.
Aspetta, Denny Mosca?
Che diavolo di nome è?
Strizzo leggermente le palpebre, e cerco di ascoltare ciò che dicono.
"Basta chiamarmi così!", insiste Denny, stringendo denti e pugni. Avrà sì e no quindici anni, a giudicare dalla sua altezza. 

"Way?", è la voce di una donna, a farmi voltare.
Mi giro quasi immediatamente, e non sono sorpreso di vedermi davanti il voluminoso corpo della Preside. 
L'ho conosciuta qualche settimana fa, quando sono dovuto andare a firmare dei documenti per l'ammissione alla scuola.
"Sì, sono Gerard", puntualizzo io in risposta. Al contrario dei dottori, odio essere chiamato per cognome.
"Benvenuto alla Redflame High School, caro! Per di qua", continua con troppa enfasi, indicandomi un corridoio secondario alla mia sinistra. 
Faccio spallucce, e la seguo.
La Gullivan è una preside davvero ridicola.
Lunghe mosse ciocche di capelli biondo limone la coprono fino a due grosse spalle, a loro volta attaccate ad un corpo non troppo...sottile, ecco.
Un vestito rosso le mette in mostra le forme, lasciando per metà scoperte le gambe imponenti, sorrette da due tacchi troppo alti.
Sbuffo, mi sembra una donna davvero orribile.
"Eccoci qui, Way", esclama, aprendo una porta che appartiene alla stanza della Presidenza.
"Preferirei essere chiamato col mio nome", controbatto, senza mostrare troppa rabbia.
La Gullivan mi sorride, e con gli occhi leggermente contratti ripete,
"Ma certo, Way, accomodati pure".
Sollevo contemporaneamente entrambe le sopracciglia.
Sta scherzando, vero?
Insomma, non è seria quando mi parla, giusto?
Che massa di matti.
Decido di ignorarla, e di ricambiare forzatamente il sorriso.
Infine scelgo una sedia di fronte a quella che dev'essere la sua scrivania, e mi metto comodo.
La Preside occupa pesantemente quella opposta, rivestita in pelle nera.
Mi ricorda quella di Patter.
E questo cade a suo svantaggio.
"Dunque, ragazzo, come ti senti?", chiede raggiante la Preside.
"Uhm...bene, credo.", rispondo io, domandandomi dove voglia andare a parare con le sue domande.
"Fantastico!", strilla, alzando leggermente le braccia.
Deglutisco.
Ho paura di certa gente.
Non la stessa paura che ho avuto con Cooper, ovviamente.
"Conosci già i tuoi nuovi compagni?", indaga annuendo.
Scuoto lentamente la testa.
"Fantastico!", ripete urlando lei, stavolta facendomi ritirare nella sedia.
"Sono più emozionanti, le nuove avventure! Vediamo un po'... La tua classe è la settantadue, terzo piano, la prima a destra.", spiega.
"Oh, grazie dell'aiuto, arrivederci", esclamo io, alzandomi si scatto dalla sedia, e cercando di scappare da quel posto il prima possibile.
"Lascia che ti accompagni", dice seguendomi lei.
Annuisco in silenzio, sospirando.

In pochi secondi, sono di nuovo dietro la Gullivan, e sto camminando impacciatamente verso la mia nuova classe.
Mi chiedo come faccia lei a correre su dodici centimetri di tacco.
"Eccoci", sussurra, allungando una mano verso la maniglia di una porta color panna.
Annuisco solennemente, preparandomi al peggio. O al meglio, chi lo sa.
La Preside aspetta un 'avanti' proveniente dall'interno dell'aula, per poi abbassare la maniglia ed entrare, seguita da un me tremante e preoccupato.
"Buongiorno ragazzi", esclama Gullivan.
Un coro di "buongiorno Preside" si alza intorno a lei, e un forte rumore di metallo mi fa capire che gli studenti si sono alzati.
Dopo un grande respiro, metto anche io piede nella stanza.

Mi guardo velocemente intorno, cercando di raccogliere più informazioni possibili sul posto in cui trascorrerò gran parte del mio tempo. 
La prima cosa che noto, è la presenza di due grandi lavagne alle spalle del professore, coperto dalla schiena della Preside.
Poi, quattro finestre, di cui una a lucernario, contornate da ricamature color panna che richiamano la tinta della porta da cui sono entrato.
I muri sono dipinti di un semplice bianco, senza sfumature, senza le solite crepe che si vedono normalmente nelle scuole.
Infine, sposto il mio sguardo verso gli studenti.
Approssimativamente, posso dire che siano una ventina, non di più.
Noto immediatamente che prevale il numero di ragazze, e il che non mi spiace affatto.
I ragazzi sono tutti raggruppati nei posti infondo, fatta eccezione per due o tre sfigati mischiati fra le donne.
A prima vista, non riesco proprio a farmi delle idee su che tipo di compagni di classe possano essere.
Alcuni sembrano buoni e tranquilli, altri svegli e magari anche un po' cazzoni. Come la maggior parte degli adolescenti, d'altronde.
I miei occhi si spostano ritmicamente da una persona all'altra. Ma non riesco a vedere più di qualche chioma bionda e un paio di espressioni annoiate.
La cosa che mi sembra più strana, però, è che nessuno di loro si è davvero sorpreso dell'entrata della Preside.
Nessuno ha dimostrato troppo interesse per il nuovo arrivato.
Forse sono io che-
"Avanti Gerard, presentati", esclama ad un tratto la Gullivan.
La guardo in silenzio.
È come se non avessi afferrato a pieno il senso della sua frase.
"Hm?", dico.
Un onda di risatine si fa spazio fra le mura dell'aula.
"Ho detto, presentati", scandisce la Preside.
"Oh. Si bhè, io-io mi chiamo Gerard. Way. Gerard Way, ecco", balbetto, con lo sguardo rivolto verso i ragazzi.
"Way come Strada", sento esclamare da qualcuno fra i banchi.
Le risate questa volta arrivano con maggiore enfasi alle mie orecchie.
"Bella questa, Paul", urla qualcuno.
Paul? 
Mi ci vuole davvero poco tempo per rendermi conto che il Paul che ho visto poco fa, adesso siede nella mia classe.
Come diavolo avrà fatto ad arrivare qui prima di me?
Questo posto mi preoccupa.
"Insomma, smettetela ragazzi!", li rimprovera Gullivan con uno sguardo stranamente serio. E la vorrei infinitamente ringraziare, per questo.
"Prendi pure posto dove vuoi, Gerard", mi intima poi, addolcendo la sua espressione.
Annuisco in silenzio, per poi dirigermi verso il primo banco libero che vedo.
Faccio per posarci il mio zaino nero sopra, quando una voce acuta mi ferma.
"Occupato, strada", esclama la biondina al mio fianco, con un'aria decisamente narcisista ed egocentrica.
Sbuffo di rimando, e vado verso un altro posto.
Prima di commettere ulteriori errori, mi assicuro di non aver scelto un altro schifo di compagno di banco.
"Posso?", esclamo.
Il ragazzo a cui ho chiesto il permesso mi guarda per un attimo. Noto che stringe fra i denti una matita rovinata.
"Fai che cazzo ti pare", borbotta riluttante infine.
Mi convinco che non c'è niente di meglio, e controvoglia mi seggo.
"Bene, se tutto è apposto posso andarmene, allora. Arrivederci ragazzi", saluta la Preside sorridendo, e abbandonando la stanza.
Il secondo coro della giornata rompe nuovamente il silenzio.
"Arrivederci", esclamano tutti insieme i ragazzi. Tutti tranne me e il mio nuovo compagno di banco.

"Allora, Gerard, come ti sembra questa scuola?", domanda improvvisamente il professore.
Adesso che posso guardarlo meglio, devo dire che è proprio come me lo immaginavo.
Calvo, scuro di pelle, voce leggermente roca ma forte.
"Bella", rispondo, limitandomi ad una sola parola.
"Grandioso. So bene che il primo giorno può sembrare difficile, ma vedrai presto che non lo è affatto. E tu, Bob, cerca di essere gentile con il tuo compagno di banco.", dice il professore.
Involontariamente mi ha svelato il nome del ragazzo.
Bob, che nome di merda.
Lo guardo meglio. Sembra alto, e piuttosto robusto. Una ciocca di capelli biondicci gli copre metà della fronte, e un minuscolo piercing splende dal labbro inferiore. Odio i piercing, e odio i capelli biondi.
Bob non sarà mai mio amico.

Improvvisamente, mi ricordo di Paul.
Mi volto leggermente per puntare i miei occhi sui suoi, che inspiegabilmente mi stanno fissando.
Mi mordo lievemente l'interno della guancia. 
Il ragazzo sfodera un ghigno, facendomi stringere nel cappotto, che ancora non mi sono sfilato di dosso.
Improvvisamente inizia a mimare una frase con le labbra.
BENV...
...TO
...FERN
O...

Non capisco.
Poi ripete.

Benvenuto all'inferno.
E stavolta afferro il concetto.

La voce dell'insegnante mi desta dallo stato di shock a cui sono andato incontro, e il mio primo giorno alla Redflame inizia.





Il suono metallico della campanella, che segna l'inizio dell'intervallo, esplode in tutto l'edificio dopo due ore di lezione col professore iniziale, che ho scoperto essere insegnante di Inglese, e una con la Smith, una donna sulla cinquantina più ridicola della Preside, che ci ha spiegato quanto sia importante mangiare sano e roba simile.
Esco dalla classe con il mio blocco da disegno rosso fra le mani.
Cammino lentamente per il corridoio, osservando con cura ogni singolo studente che incontro.
Hanno tutti il solito sguardo da perfetti idioti, addobbati con vestiti di marca e caratterizzati da voci stridule e provocatorie.
Tanti Paul tutti in un corridoio.
Sbuffo, deluso, mentre finisco di scendere le rampe di scale che mi dividono dal piano terra, uscendo nel cortile.

Un forte odore di fumo mi pervade le narici, costringendomi ad arricciare il naso.
Non avrei mai pensato che agli studenti di una scuola così rinomata come la Redflame fosse permesso fumare. 
Mi allontano dalla nuvoletta di aria grigia alla mia destra, inoltrandomi verso orde di gruppi di studenti.
Con un po' di spinte, riesco a raggiugere una panchina, proprio sotto una grande quercia.
Mi accomodo, trionfante, e sospiro.
Poi guardo in alto.
Le nubi che questa mattina hanno scatenato il temporale se ne sono andate, e al loro posto splende un sole caldo e luminoso.
Mi sforzo di osservarlo per qualche secondo.
Amo guardare il cielo.
In sedici anni ho imparato a studiare ogni suo comportamento, dalle previsioni metereologiche, alle eclissi solari e lunari.
Ma non fraintendetemi, non voglio diventare un weatherman.*.
Preferisco agire da autodidatta.
Voglio tenermi l'Universo tutto per me. Soltanto io, posso essere ospitato dall'infinito blu.
Soltanto io.
Sono costretto a distogliere lo sguardo dall'enorme stella, giusto per evitare di accecarmi.
E ho ancora troppe cose da scoprire, per poter permettermi di perdere la vista.
Decido di aprire il blocco da disegno.
Ma scopro immediatamente di non avere ispirazione.
Mi inumidisco le labbra, e provo a guardarmi intorno.
Ragazzi.
Ragazze.
Ragazzi che baciano ragazze.
Ragazze che parlano con ragazze di ragazzi.
Ragazzi che guardano le ragazze perché vogliono che le ragazze parlino di loro.
Tutto così.
Tutte persone uguali.
Comincio a pensare che forse le lezioni private non erano troppo male.
Sbuffo, annoiato, e chiudo di scatto le pagine del quaderno, ancora bianche.
Ho deciso di comprarne uno nuovo appositamente per questo anno scolastico.
Ne ho molti, in casa, ma per le nuove avventure come questa, vanno conservati fogli altrettanto nuovi.
E anche se la scuola è una merda, segnerà in qualche modo la mia vita.
Nel bene.
E nel male.
O forse soltanto nel male.

Mi guardo intorno per l'ennesima volta, in cerca di qualcuno o qualcosa di interessante.
E non sorprendetevi se vi dico che l'oggetto che attualmente sta attirando la mia attenzione è un cestino dei rifiuti.
Poi, ad un tratto, da dietro il contenitore appare Bob, il mio compagno di banco.
Stringo appena le palpebre.
Lo vedo spostarsi il ciuffo biondo dalla fronte, e lentamente poggiarsi ad un albero.
Sembra più annoiato di me.
Il nostro incontro non è stato dei migliori, lo ammetto, ma quel ragazzo mi appare in modo diverso, rispetto agli altri.
Sento che qualcosa brilla in lui.
E quando un ragazzo indaco sente qualcosa, allora credetemi, è quella giusta.
I colori non sbagliano mai.

Senza accorgermene, mi ritrovo a camminare nella direzione di Bob.
"Bob", esclamo, alle sue spalle.
Il ragazzo si volta, e dopo avermi lanciato uno sguardo di fuoco, mi ringhia,
"Sparisci.".
Penso che sia stato più un ordine, che un invito ad allontanarmi.
Ma lo ignoro.
"Che professore avremo alla prossima ora?", insisto, non pienamente consapevole di ció che sto dicendo.
Il ragazzo continua a guardarmi male.
Deglutisco in silenzio.
Incredibile quanto riesca a intimorire le persone senza dire nulla.
Punto gli occhi sulle mie scarpe, che improvvisamente mi appaiono come le cose piú interessanti che avessi mai potuto trovare.
"Ti ho detto. Sparisci.", scandisce poi Bob, stavolta senza guardarmi.
Decido di dargli retta, e con piccoli passi, mi allontano.
La nostra conversazione è durata troppo poco.

Mi ritrovo davanti alla panchina su cui ero seduto poco fa molto piú in fretta di quanto pensassi.
Guardo l'orologio legato al mio braccio sinistro. Mancano sei minuti alla fine dell'intervallo.
Dopodiché dovrò resistere un'ora ad ascoltare la prossima lezione, e infine ci sarà il pranzo.
Ed è proprio il pranzo, che mi preoccupa.
Non ho conosciuto nessuno, da quando sono arrivato qui. E nella mensa, se non hai amici, ti ritrovi a mangiare in un tavolo lontano dagli altri.
Da solo.
O almeno questo è quello che vedo nei film.
E così ho provato a parlare con Bob. Ho pensato che interagire con il mio compagno di banco avrebbe reso tutto molto più semplice.
E invece eccomi qua, su una panchina, circondato da centinaia di persone, ma pur sempre maledettamente solo.
Faccio roteare gli occhi, posandoli nuovamente sulle lancette, e accorgendomi che altri tre minuti sono passati.
Magnifico, un'ora e tre minuti di tempo per decidere accanto a chi mi siederò nella pausa pranzo.


"Buongiorno ragazzi!", esclama raggiante il nuovo professore.
È un tipo alto e robusto, con i capelli neri laccati e una camicia a pois colorati.
Alzo un sopracciglio.
Chi cazzo indosserebbe una camicia a pois, per di più colorati?
Qualcuno bussa alla porta, e i discorsi dell'insegnante vengono fortunatamente interrotti.
Una donna si avvicina, e sussurra qualcosa al suo orecchio.
Mi sforzo di leggerle il labiale.
E Dio, sono sicuro di averla vista scandire il mio nome.
Sbuffo.

Le mie supposizioni si confermano quando la donna abbandona l'aula, e il professore punta il suo sguardo su di me.
"Oh, tu devi essere Gerard, hm?", domanda retoricamente.
Annuisco.
"Allora, Gerard, cosa mi racconti di te?", continua.
Raccontare? Io? Di me? Non se ne parla.
Scuoto velocemente la testa.
"Eh no, ragazzo," ridacchia, "qui non si scherza. Ognuno dei miei alunni è obbligato a presentarsi, la prima volta. Vuoi spiegarlo meglio tu, Bob?".
Bob sembra svegliarsi da una morte apparente.
"Perché proprio io?", esclama irritato.
Il professore lo ignora, e il biondo è costretto a parlare.
"Uhm. Quando hai per la prima volta una lezione con il Professor Ramirez, sei...obbligato a dire tre cose che ti piacciono, e tre che invece detesti o temi", mi spiega, evidentemente controvoglia.
Annuisco, un po'preoccupato.
Tre cose che mi piacciono? Ci può stare.
Tre cose che detesto? No, ci saranno almeno un migliaio di cose che non sopporto. O come dice Bob, che temo.
"Avanti Gerard, sorprendici!", esclama curioso Ramirez.
Ramirez.
Benvenuti alla scuola dei nomi di merda.
"Io...A me piacciono molto il cielo, il mare, e... I colori." mi esprimo, senza pensarci troppo.
L'insegnante fa segno di comprensione, e il movimento della sua testa mi fa capire che devo, purtroppo, continuare.
E gli sguardi dei miei compagni mi spaventano.
"Invece-ugh-non amo eccessivamente...-stop.
Ho davvero troppe cose da poter dire.
Odio le persone.
Ma non penso che sia troppo carino da dire.
Odio i cereali con il latte, ma dubito che possa davvero interessare a qualcuno.
Odio anche i fast food, in effetti, ma resta ancora una cazzata.
Detesto le ragazze con le unghie perfette, e i ragazzi biondi, ma dannazione, niente di tutto ciò è davvero sensato.
"...non mi piacciono gli aghi, e neanche il vomito...", dico infine, nominando due delle mie più grandi fobie.
Ma ecco che manca la terza parola.
"Avanti, dicci la terza cosa, siamo tutti molto impazienti di saperla", mente Ramirez.
So benissimo che a nessuno frega un emerito cazzo delle mie fottute paure.
"E...", ammetto che non so cosa scegliere.
Gli occhi dei miei compagni ancora tutti puntati su di me.
L'ansia che sale.
Il respiro che si appesantisce.
L'irritante sorriso di Ramirez che si allarga sempre di più.
E il fastidioso rumore di legno e saliva proveniente dalla matita fra le labbra di Bob.
Non pensavo che una semplice domanda potesse rendermi così nervoso.
Infine mi faccio forza stringendo il bordo del banco, e sposto lo sguardo verso la finestra.
Il sole è ancora alto, le nuvole non sono più ritornate.
Sembra tutto così semplice, visto dal di fuori. 
Tutto così piccolo.
Non penseresti mai di essere così insignificante, nell'Universo.
E invece sì, lo sei eccome.
Spesso ci preoccupiamo di come possiamo apparire agli occhi degli altri, mentre l'Universo, d'altro canto, ci osserva sornione pensando che siamo tutti uguali.
Tutti piccoli, insignificanti, impotenti umani.
Non sforziamoci di urlare, di farci sentire.
Siamo il silenzio, nell'infinito.
Convinciamocene.
"Del silenzio", dico infine.

La mia voce sembra essere uscita da me sotto forma di un sussurro, di un pigolio.
"Del silenzio?", chiede il professore leggermente deluso.
"Ho paura del silenzio", ripeto io, questa volta più sicuro.
La classe esplode in una risata corale, forte e acuta.
Mi guardo intorno deglutendo, e arrossendo appena.
"Insomma ragazzi, un po' di contegno!", strilla Ramirez colpendo la scrivania con una mano e producendo un rumore in grado di sovrastare le voci degli studenti.
"Gerard, va benissimo così, grazie", conclude poi voltandosi verso di me.
Va benissimo cosí?! Eh?! Dopo minuti in cui ho cercato disperatamente la risposta giusta, lui mi viene a dire che VA BENE COSÌ?
"Bastardo", borbotto, stando attento a non farmi sentire dall'insegnante.
Ma non mi sono troppo curato di Bob.
"Ci farai l'abitudine", sussurra infatti dopo poco, rivolgendomi per la prima volta parola -tralasciando la storia dell'intervallo.
Faccio spallucce, e mettendomi comodo, mi preparo a trascorrere un'altra ora di noiosa lezione.


Se pensavate che la Preside Gullivan fosse ridicola, allora non avete mai assistito ad una lezione di Storia Americana insieme a Ramirez.
È il più bizzarro, stravagante e essenzialmente pazzo di tutto il personale della Redflame. O almeno per ora.
Ho scoperto che è nato in Messico, ma è dovuto venire ad abitare a New York per il trasferimento di cattedra. Qui ha conosciuto una bellissima moglie con cui ha avuto due figli, ma uno di loro è morto gettandosi dal quinto piano di un grattacielo, comportando la separazione fra Ramirez e la donna.
Ho pensato che fosse stato carino, da parte sua, avermi raccontato tutto questo, ma l'entusiasmo si è pacato quando Bob mi ha spiegato che almeno una volta al mese, si ostina a ricordare a tutti gli studenti quanto sia difficile la sua vita.
Oh giusto, Bob. Con mia grande sorpresa, ha iniziato a scambiare qualche parola con me, alternandosi con la disgustosa masticazione di quella che una volta doveva essere una matita.

Ad ogni modo, il fatidico momento della pausa pranzo è arrivato, e come sospettavo, non ho trovato ancora nessuno con cui poterla passare.
Mi faccio strada nel cortile, stringendomi nel mio maglione grigio, diretto verso la mensa.
"Attento al silenzio, strada", sento esclamare qualcuno.
Istintivamente mi volto, e non sono sorpreso di vedere un Paul tutto impegnato a mettermi in ridicolo di fronte ai suoi scagnozzi.
Grugnisco appena, ed evito il suo sguardo continuando il mio cammino.
"Buon appetito, visino di porcellana", conclude infine il biondo, accompagnato da una forte pacca sulla mia schiena. Tanto forte da farmi cedere le ginocchia.
Dalla mia bocca esce un gemito soffocato, mentre mi accartoccio sulle gambe e seguo con gli occhi il ragazzo che si allontana.
"Cazzo", borbotto, rialzandomi lentamente e pulendomi alla meglio i vestiti impolverati dalla terra e dall'erba del cortile.

"Dovresti stare alla larga da Paul, ragazzino", una voce familiare approda alle mie orecchie.
Sposto il mio sguardo verso sinistra.
Un Bob stranamente preoccupato mi si è piazzato davanti.
"Oh", commento io, senza saper bene cosa voglia intendere.
"Dico, quando lo vedi, gira l'angolo e corri", spiega in poche parole lui.
Annuisco con insicurezza, ma quando afferro il concetto muovo la testa energicamente.
"Bene. Buon appetito", esclama Bob con un cenno del capo, pronto ad allontanarsi nell'ombra. Come al solito, da quando lo conosco -ovvero quattro ore e dodici minuti di orologio.
"Aspetta, Bob", lo chiamo d'un tratto.
Aspettate, cosa ho appena fatto?
Il ragazzo si volta, interrogativo.
Deglutisco, rendendomi conto della situazione imbarazzante in cui mi sono infilato.
"Non è che potremmo...insomma, passare il pranzo insieme?", spiego infine gesticolando.
Aiuto.
Bob mi guarda sospettoso, sollevando appena un sopracciglio, e aprendo quindi maggiormente le palpebre, fino ad ora tenute sempre abbastanza socchiuse.
Ha degli occhi strani.
Non che abbiano un colore troppo particolare.
Ma trasmettono una certa inquietudine, e nascondono cose che soltanto un ragazzo indaco può notare.
No, non mi sto vantando di esserlo.
Sto solamente puntualizzando.

Lo fisso di rimando, abbastanza calmo.
Non ho mai avuto paura di chi mi sfida ad un gioco di sguardi.

"Vieni", mi invita poi improvvisamente, con un movimento della mano.
Sorrido internamente, e lo seguo fino alla mensa.

Un odore acre di cibo e adolescenza mi fa rallentare il passo, una volta entrato nella stanza.
Ma subito noto che Bob ha già preso posto intorno ad un tavolo rettangolare infondo, e sono costretto ad iniziare a correre per non fare la figura dell'idiota.
Mi seggo di fronte a lui, posando il vassoio con il pranzo sul piano.
Ho scelto qualcosa che è definito con il nome di purea, ma che somiglia più ad un fiume in piena sporcato di patate.
Ho contornato il piatto con una salsa arancione che ho notato essere molto popolare fra i ragazzi del primo anno.
Ma qualcosa mi dice che sarà una merda, a giudicare da chi frequenta il primo anno.
Con un po' di disgusto, afferro una fetta di pane e la immergo lentamente nel purea.
Sto per addentarla, quando,
"Non mangiarla, se non vuoi morire congestionato", è la voce di Bob a bloccarmi.
Con rigetto, mollo immediatamente la presa dal pane, facendolo rumorosamente cadere sul vassoio.
"Hm", grugnisco disgustato.
"Prova questa, invece", la sua mano robusta mi offre un sacchetto rosso che odora di fritto.
"Cos'è?", domando ingenuamente.
"Pollo", risponde.
Annuisco, e ne pesco un pezzo dal contenitore.
Mi fido imprudentemente di Bob, e lo assaggio senza troppi pensieri.
Mi rendo conto di essermi fidato di qualcuno che a malapena conosco quando la carne è già completamente agganciata ai miei denti.
Sorprendentemente, è fottutamente buona.
Mi inumidisco goloso le labbra, cercando lo sguardo del ragazzo.
Quando lo trovo, noto che mi sta osservando con aria tranquilla.
"Prendilo tu", esclama, mettendomi il sacchetto fra le mani.
Scuoto velocemente la testa, allontanandolo.
"Ma no, tu cosa mangerai?", chiedo imbarazzato.
"Non mangio, sono a dieta", risponde.
Sarebbe potuto essere divertente, se soltanto non lo avesse detto con quello sguardo cupo e severo.
Con coraggio lo ringrazio, e afferro il sacchetto.
Mangio il secondo pezzo di pollo fritto aiutandomi nuovamente con le dita.
Devo ammettere che non ho mai mangiato troppe cose fritte. Non ne vado eccezionalmente pazzo.
Diciamo che io non vado pazzo per nessun tipo di cibo in particolare.
Odio la cucina americana, sempre se si possa definire tale.
Niente di quello che trovi in giro è mai stato realmente cucinato, fatta eccezione per il Tacchino del Giorno del Ringraziamento e qualche altra pietanza tradizionale.
Lo stesso pollo fritto, avrà girato città, stati, se non continenti prima di arrivare qui.
E in seguito sarà stato surgelato, unto da sostanze ipercaloriche e confezionato in graziosi sacchetti rossi, spediti nelle mense dei licei Americani.
Ho un leggero conato di vomito, al solo pensiero.
Ma decido di avere fiducia nel pollo, e gli dò il terzo morso.
Subito dopo, noto Bob sorridere.
Mi fermo.
Bob? Sorridere? È uno scherzo.
E invece no, le sue labbra si sono realmente piegate in un sorriso.
Imbarazzato, deglutisco, e cerco di far sembrare la situazione il più normale possibile.

E ammetto di rimanere leggermente deluso, quando scopro che il motivo del suo gesto non sono -ovviamente- io, ma un gruppo di ragazzi che si è avvicinato alle mie spalle.
"Ehy, Bry!", esclama un tipo basso e rotondo.
Aspettate, io ho già visto quel ragazzo.
Ma certo, questa mattina Paul gli aveva strappato i libri di mano.
"Ciao Denny", lo saluta Bob accennando una leggera felicità.
"Facci spazio Bry, siamo di fretta oggi", è la voce di una ragazza, che parla.
Bry? Non bastava il nome "Bob" a metterlo in ridicolo? Adesso anche Bry? Immagino che sia un abbreviativo di Bryar, comunque, il suo cognome. Disgustoso.
I due si siedono, accompagnati da un terzo ragazzo alto e riccioluto, serio ed educato, a quanto sembra.
Mi sento leggermente di troppo.
Come se lo avesse intuito, la ragazza mi rivolge uno sguardo sospetto.
"Bry, chi è questo?", esclama, senza distogliermi gli occhi di dosso.
Deglutisco sonoramente.
"Si chiama Gerard, è della mia classe", spiega Bob gesticolando.
"Uhm-ciao", saluto io, ingoiando l'ultimo pezzo di pollo fritto.
Silenzio.
Silenzio.
Ancora silenzio.
Ho paura.
Silenzio.
La mano della ragazza si allunga verso di me, e non posso evitare di tirare un sospiro di sollievo.
"Annah. Ma tu puoi chiamarmi Ann", si presenta, strizzandomi l'occhio.
Faccio unire le nostre dita.
"Gerard", dico.
"Benvenuto fra noi, Gee", mi sorride Anna.
Mi piace il suo sorriso.
Ma quel "Gee" è uno schifo.
Più di Ramirez, più di Bob, più di mio padre Donald. Gee è insopportabile.
"Gerard, per favore", puntualizzo schiarendomi la voce.
Annah alza le mani giocosamente in segno di resa, e annuisce.
"Sono Danny", tocca al nanetto presentarsi.
Gli stringo la mano, evitando di ripetere il mio nome, già stato sufficientemente appreso.
Infine, il ragazzo riccioluto si alza dalla sedia per raggiungermi, e con una voce sottilissima esclama un debole,
"Ray".
Istintivamente, gli sorrido.
Che nessuno mi chieda il motivo.
"Bry, dov'è il tuo pollo fritto?", domanda Danny Mosc-ehm, Danny, quasi balzando addosso a Bob.
"L'ha mangiato Gerard", risponde il biondo tutto d'un fiato, indicandomi con il dito.
"Accidenti, Bry! Era l'ultimo sacchetto rimasto!", si lamenta Denny.
"Gerard, non farci l'abitudine, il pollo fritto ce lo danno una volta a settimana, se tutto va bene", continua poi strillando il nanetto.
Mentre i due gesticolano e discutono, sposto  ancora una volta lo sguardo su Annah.
A differenza degli altri, dimostra più esperienza.
Porta lunghi capelli scuri legati in una treccia, e il suo viso sembra essere stato truccato da più e più strati.
Gli occhi color castagna sono circondati da due leggere occhiaie violacee lungo i bordi, e minuscole rughe le si formano agli angoli quando sorride troppo.
Ha dei bei denti, brillanti, delineati da due labbra rosse e sottili.
È poggiata al tavolo con il peso sui gomiti, in un modo molto mascolino e poco seducente.
I suoi gesti, la sua voce, le dita lunghe e sottili, ogni cosa mi fa pensare che sia una ragazza che ha lasciato le sue ambizioni da parte, all'altezza del cuore, qualche anno fa.
Qualcosa mi dice che ha sofferto.
Molto.
Lo si vede dallo sguardo perso nel vuoto che apparentemente dedica al bicchiere di plastica che ha di fronte.
È tutta un po'alternativa e particolare, immersa nel suo mondo di favole fatate.

"Paul stamattina ha ricominciato a perseguitarmi", esclama sconfortato ad un tratto Denny, portandosi alla bocca una lattina di cola.
"Ancora con Denny Mosca?", chiede comprensiva la ragazza.
Il nanetto annuisce, e sospira di rimando.
Denny è davvero molto basso. Ha due guance rosee e paffute, coperte per metà da un paio di enormi occhiali, che contribuiscono ad ingrandirgli gli occhi.
Oh! Ecco svelato il mistero.
Le mosche hanno gli occhi grandi.
Denny Mosca non è una scelta così infondata, per un soprannome.
Sembra un ragazzo affettuoso, però.
Uno di quelli a cui ti affezioni subito, ma che ti romperanno le palle per sempre.
Ridacchio leggermente, pensandoci.
"Ehi tu, cosa ridi?", strilla Denny notando la mia espressione divertita.
"Non sto ridendo", controbatto, serrando immediatamente le labbra.
"Tu stavi ridendo", insiste il nanetto, annuendo.
"Ti sbagli", lo convinco io.
"Avanti, perché stavi ridendo?".
"Ti dico che hai visto male, Denny", ripeto.
"Non chiamarmi per nome! Dico, avete visto che faccia tosta?", domanda poi irritato  ai compagni, che esplodono in una -vera- fragorosa risata.
Denny sembra non esaurire mai le energie.
E chissà cosa nasconde, anche lui, sotto quel fisico da Puffo.
Sí, perché tutti nascondono qualcosa.
Ogni singolo umano riesce a nascondersi dietro una maschera che non gli appartiene.
Ma preferisco non pensare a questo.
Non voglio rendermi conto del fatto che altri sette miliardi di persone stanno riflettendo su faccende a me sconosciute, su problemi e problemi che riguardano le loro vite private.
Miliardi di altre vite private come la mia.
Detesto sentirmi così piccolo.

"Dov'è il bagno?", sputo ad un tratto io.
Denny cessa di parlare, e Bob sbadiglia rumorosamente.
"Primo corridoio a destra, Gerard", mi indica poi Annah accentuando il tono sul mio nome.
La ringrazio e mi alzo velocemente.

I pochi secondi mi ritrovo nel corridoio di cui parlava la ragazza, e in altrettanto tempo riesco a trovare i bagni.
Con una certa fretta entro, e apro la prima porta.
Un "occupato" mi fa imprecare sottovoce, e passo alla seconda cabina.
Stavolta busso.
Niente.
Busso di nuovo, non si sa mai.
Niente.
Convinto, spingo la maniglia.
Ma la porta è chiusa.
Dall'interno.
"Cos-", esclamo, cercando di forzarla senza ottenere alcun risultato.
"C'è qualcuno?" domando, provando a rendermi utile.
Nessuna risposta.
In quel momento, un ragazzo esce dalla porta che avevo inizialmente provato ad aprire.
"Serve aiuto?", chiede dopo avermi osservato accigliato per un po'.
"No, io-la porta sembra essere chiusa dall'interno", farfuglio in risposta, senza smettere di tirare la maniglia.
"E dai, staranno scopando", ridacchia il ragazzo poggiandosi al muro.
"Chi?", esclamo guardandolo ingenuamente.
"Non lo so, i due là dentro, immagino", spiega con ovvietá.
"Due?".
"Sì, saranno sicuramente in due".
"Cosa ne sai?", insisto.
"È sempre così. Due innamorati si chiudono dentro e si inculano come forsennati. Semplice.", dice.
Non so se sorprendermi più per il fatto in sé, o se per la volgarità e la tranquillità con cui il ragazzo mi sta parlando.
Deglutisco più volte, fermando i miei movimenti.
Potrebbe avere ragione quanto torto.
E accidenti, forse la verità è proprio questa.
Forse due innamorati stanno davvero facendo sesso in quel bagno.
"Oh. Sì,", mi schiarisco la voce "hai ragione tu.", concludo.
"Mi pare ovvio", puntualizza il giovane uscendo dalla stanza, e dirigendosi verso la mensa.
Sbuffo, infastidito e anche un po' imbarazzato per il mio gesto.
Entro nella cabina libera, assicurandomi di chiuderla bene, e finalmente mi sbottono i jeans neri liberandomi nel water.
Tiro un mezzo sospiro di sollievo, socchiudendo gli occhi.
Tutta la tensione della giornata si sta ora riversando in un pozzo senza fondo laccato in ceramica.
È triste pensare che tutti i rifiuti, che fino a poco fa facevano parte del mio corpo, adesso scorrono in enormi tubi sotterranei.
Un po' come perdere una parte di noi.
Scuoto la testa, e premo il pulsante dello sciacquone.
Ondate di acqua esplodono nella tazza del water, e dopo essermi riallacciato pantaloni e cintura, esco dal bagno.
No, decido di soffermarmi allo specchio.
Un me completamente spettinato prende forma sul vetro di fronte.
Mi avvicino leggermente, e sono costretto a socchiudere le palpebre per evitare di vedere le occhiaie scure che mi si stanno formando sotto gli occhi.
Mi scappa un verso di disgusto nei miei stessi confronti.
Non male, Way.
Way, oppure strada.
O ancora meglio, Viso di Porcellana, come mi ha chiamato Paul poco fa.
Con un rapido gesto, apro il rubinetto dell'acqua fredda sotto lo specchio, e mi sciacquo lentamente -e dolorosamente la faccia.
L'acqua fredda mi fa sentire bene.
La doccia preferisco farla fredda, piuttosto che calda, anche con la neve fuori.
Passo la mano attraverso gli occhi, la fronte, arrivando ad inumidirmi alcuni ciuffi di capelli.
Schiudo leggermente le labbra, lasciando che un paio di rivoli d'acqua scivolino dentro di me. Mi sento quasi meglio.

Poi, un ticchettio.
Un altro.
Più forte.
È nella mia testa, e sta iniziando a diventare doloroso.
Il mio corpo cessa di muoversi, insieme al mio cuore e ai miei polmoni.
In un attimo spalanco gli occhi, e il fastidioso ticchettio si trasforma in un potentissimo rumore.
È come se mi stessero improvvisamente fracassando il cranio a suon di martellate.
Ho paura.
Ho paura di voltarmi e scoprire di cosa si tratta.

Ma la verità, è che conosco fin troppo bene questo ticchettio.
Ed è impossibile da descrivere.
Sembra un avviso, un messaggio di pericolo che soltanto io posso sentire.
Con un po' di coraggio, mi giro indietro.
La vista inizia improvvisamente ad appannarsi, gli arti che tremano vistosamente.
La luce sembra scomparire, e in poco tempo mi ritrovo al buio.
Mi strofino violentemente gli occhi, mentre sussurro parole incomprensibili, pensando che possano in qualche modo farmi capire cosa sta succedendo.
L'oscurità della stanza aumenta vistosamente, ed è qui che mi accorgo di un luminoso fascio rettangolare davanti a me.
Mi avvicino lentamente, e con cautela lo tocco.
È un materiale freddo, ruvido, pare essere legno.
E sì, è legno, e appartiene ad una delle porte del bagno.
Deglutisco sonoramente, e la spingo con forza.
Ma poi mi accorgo che si tratta della cabina chiusa dall'interno.
"Qualcuno apra, per favore", ansimo mentre il martellamento nella mia testa aumenta.
Continuo a forzare inutilmente la maniglia.
"Aprite, dannazione!", riesco ad urlare.

Ci sono due ragazzi che fanno sesso là dentro, lasciali stare Gerard,

Mi sento ripetere in lontananza.
Una volta.
Due volte.
Dieci volte.
La frase continua a rimbombare nella cupa stanza.

No, non ci sono due ragazzi.
Nessuno si è chiuso là dentro per stare da solo nella sua intimità di adolescente.
No, no, no.
Io so che non è così.
Io lo so.
Io lo so.
Me lo sento.
Aprite questa porta.
So cosa sta succedendo.

Con un ultimo strattone, riesco finalmente a sbloccare i cardini dell'anta, facendo tentennare la cabina e provocando un'esplosione luminosa che mi costringe a coprirmi gli occhi.
Poi, silenzio.
Un incredibile, spaventoso silenzio.

Quando sposto le mani dal mio viso, sembra essere ritornato tutto alla normalità.
È come se niente di tutto questo sia successo, come se il tempo si sia improvvisamente bloccato.
Ho un vago ricordo di ciò che ho appena fatto. 
Cerco di sforzarmi, ma l'immagine che mi si proietta davanti passa avanti ad ogni mio pensiero.

La porta è spalancata, leggermente ammaccata.
C'è del sangue, in terra.
Ed è guardando le mie mani, che capisco che si tratta del MIO sangue.
Infine alzo lo sguardo.
Apro la bocca, e urlo.
Urlo in silenzio.
Mi accascio per terra, mentre sento arrivare qualcuno dall'esterno.
 
 
 
-


 

Mi muovo nervosamente, cercando di non sforzare troppo le mani arrossate.
"Insomma, mi volete spiegare cosa succede?", domanda irritata.
"Signora, quante volte glielo dobbiamo ripetere? Nessuno del personale era al corrente di questo fatto. La cabina è rimasta chiusa a chiave per giorni, senza che nessuno studente ci avvisasse.
Sicuramente pensavano ad un guasto, e invece...", cerca si spiegare il vice Direttore, che viene però nuovamente interrotto dalla voce di mia madre.
"Le ho chiesto di dirmi cosa succede. Cosa è che non riesce a capire?".
"Bhè, vede-", tenta di insistere l'uomo.
"Mamma, va tutto bene", intervengo io, stanco di questa discussione.
"Gerard, tu stanne alla larga", prende le distanze lei, allontanandomi con una mano.
"No, ascoltami", grugnisco.
Mia madre mi guarda accigliata.
"Ti prego", concludo.
La donna annuisce.
"Neanche io avrei mai pensato di trovare una cosa simile dentro ad un bagno.
E invece eccoci qua.".
"No Gerard, tu hai aperto quella porta, solo tu sai cosa ti ha spinto a farlo!", strilla, posandosi due dita sulla fronte.
"Cristo, sai come sono fatto. E sai cosa succede quando sento qualcosa di questo tipo.", piagnucolo, convincendola.
Dopo avermi osservato per qualche secondo, socchiude gli occhi e annuisce.
"Va bene. Okay.", sussurra, nascondendo l'evidente preoccupazione. 
Sbuffo, guardandomi le nocche infiammate.
Devo aver spinto quella porta con tanta forza da riuscirmi a fare male.
Grandioso.

"Donna e Gerard...Way?", esclama ad un tratto una segretaria, esitando sul mio cognome.
Io e mamma annuiamo all'unisono, ed entriamo nella sala della presidenza.
Qui, ci aspetta una Gullivan spaventata e al tempo stesso eccitata ed irrequieta.

"Gerard! Oh, Gerard, caro!", urla stringendomi in un disgustoso abbraccio.
Mia mamma provvede immediatamente a separarci, e spingendomi indietro chiede,
"Mi dica cosa succede o mio figlio abbandonerà questa scuola, immediatamente", noto della rabbia nella sua consueta sottile voce.
"Donna-ehm, possiamo parlarne fuori?", propone in un modo stranamente tranquillo la Gullivan, aprendo la porta ed uscendo con mia madre.
"Pretendo che mi dia del Lei, comunque", sento pronunciare, mentre le due si allontanano.
Certe volte mi somiglia, la mamma.
Sì, perché è lei che somiglia a me, non il contrario.
Insomma, i figli sono o non sono le ragioni i vita delle madri? 
Ecco risolto tutto.

Mi stravacco sulla solita sedia di fronte alla scrivania.
Osservo un vasetto riempito da decine di caramelle al miele, e quasi non trattengo un conato di vomito.
Le caramelle fanno schifo.
Fanno schifo quelle alla frutta, quelle al miele, quelle al latte, e ancora quelle al miele. Ma quelle al miele della Gullivan.
Avrei paura di assaggiare qualcosa offerto da lei.
Come avrei paura a convivere con lei.
È da quando l'ho vista la prima volta, che mi preoccupo per suo marito.
Sì, la Preside Tacco Dodici è sposata.
Ho notato la fede, sapete.
È un anello argenteo e sottile, ma si intravedono due iniziali.
Quindi o la Gullivan è sposata, o quello apparteneva ad un ex compagno deceduto.
Di solito funziona così.
E credetemi, preferirei essere il compagno deceduto.

La mia gamba inizia a muoversi ritmicamente, seguita dalla mia mano.
Sono passati trentasei minuti, da quando mia mamma è fuori a parlare con Miss Tacco Dodici.
E questo mi spaventa.
Con un balzo, mi metto in piedi, e raggiungo la porta.
Lentamente, poso un orecchio sull'asse di legno.

Il nulla.
Ecco cosa sento, nulla.

O meglio, questo è ciò che sentirebbe un ragazzo normale..
Io sono Gerard.

Spingo con più decisione la testa contro la porta, socchiudo gli occhi, e inizio ad unirmi con l'esterno.
Il tempo si ferma, le luci si spengono, mi sento leggerissimo.
Un grazioso cigolio si fa spazio nella mia mente, e come per magia, ecco le prime voci.
Sembrano mormorii, parole divise a metà da sospiri e rumori di lacrime che scendono.

"Certo, Vanessa, ma non saprei... Sono anni che succede così...", è mia madre, che improvvisamente chiama la Gullivan per nome.
E va bene, ne ho sentiti di peggio.
"Donna, la situazione è sotto controllo! Gerard ha scoperto tutto questo grazie a qualcosa che... Che... Lo rende speciale, cara!", la rassicura la Preside.
"No. Non stavolta. Gerard sta male, Vanessa. Gerard ha bisogno di aiuto. Ha scoperto...quella cosa... Nel suo primo giorno, qui alla Redflame. È preoccupante!", insiste mia mamma.
"Non ha bisogno di aiuto, te lo posso assicurare".
"Sì, invece. Ha bisogno di ritornare dal suo psicologo. E il prima possibile.", conclude.


La porta si spalanca sotto la mia spinta violenta.
"Non ci provare", ringhio, puntando un dito contro mamma.
"Gerard, va' via", mi ordina con fermezza.
"Io non ritornerò là dentro", insisto però io, alzando la voce.
"Gerard, adesso basta, tornatene a casa, arriverò fra un po'.".
Scuoto energicamente la testa.
"Se ho aperto quella fottutissima porta, non vuol dire che ho bisogno di Patter e dei suoi odiosi ragionamenti da capra addomesticata", esclamo, ignorando la presenza della Gullivan, che però non sembra troppo scandalizzata.
"Vattene", la voce di mia madre inizia ad impaurirmi.
La guardo con gli occhi già gonfi per le prime lacrime.
Mi inumidisco le labbra, e scuoto leggermente il capo.
Non pensavo che sarebbe andata a finire così già dal primo giorno di scuola.
Non lo pensavo affatto.
No.
"Va bene", sussurro tremolante, raccogliendo da un angolo il mio zaino.
"Va bene", ripeto, allontanandomi, ed uscendo dall'edificio.
Attraverso l'entrata ritrovandomi velocemente all'esterno.
Posso sentire mia mamma scoppiare in lacrime.
 
 

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Capitolo 4
*** Clouds. ***


                         STREETS
                              OF
                      NOVEMBER

                              ***
Canzone: Mirrors -Justin Timberlake.

CAPITOLO TERZO.

"Allora. Come ti è sembrato questo primo giorno alla Redflame, Gerard?".
"Uno schifo".
"Non essere prevenuto. Hai incontrato nuovi amici?".
"No".
"Insieme a chi hai pranzato?".
"Bob e qualcun'altro".
"Chi è Bob?".
"Il mio compagno di banco".
"Allora puoi ritenerlo tuo amico".
"No".
"Smettila di negarlo".
"E lei la smetta di farmi il suo fottuto interrogatorio ogni volta".
Patter sbuffa, gettando su un angolo della scrivania un pezzo di plastica verde che conteneva una disgustosa caramella alla menta.
"Se non parli non posso aiutarti", continua a cantilenarmi muovendo ritmicamente il collo, e dando l'idea di essere affetto dal morbo di Parkinson.
"Nessuno le ha chiesto di aiutarmi", controbatto sbadigliando.
Dopo la vicenda del bagno mia mamma ha deciso di farmi davvero continuare le sedute con lo psicologo.
Non riesco a capire se lo faccia per punizione di una qualche cosa o per puro odio nei miei confronti.
"Cosa c'era dietro la porta?", sputa dopo un po' Patter, facendomi sobbalzare.
Mi alzo immediatamente dalla poltrona nera, puntandogli un dito contro.
"Questo non le riguarda!", sto quasi urlando.
"Parlane con me, Gerard, ti sentirai meglio!", cerca di convincermi.
Si alza anche lui, venendomi incontro.
"Mi sentirei meglio se tutto questo non fosse successo", ringhio, indietreggiando di qualche passo.
Il Dottore si sfila gli occhiali da vista, massaggiandosi con cura gli occhi stanchi.
Poi si passa una mano sui corti capelli corvini, e sospira pesantemente.
"Qualcuno di tormenta, Gerard?", chiede spazientito improvvisando una specie di sorriso triste.
Scuoto la testa.
"I professori non ti piacciono?", insiste.
"Niente. Che. La riguarda.", ripeto scandendo al meglio le parole.
"Di cosa vuoi parlare, allora?", dice risedendosi dietro la scrivania, e afferrando un quaderno. 
La sua voce è nauseante.
"Voglio parlare del fatto che io non ho bisogno di un FOTTUTO PSICOLOGO!", gli strillo in faccia, chinandomi sul bordo del tavolo di legno.
Lui mi guarda dal basso con un espressione tranquilla.
Poi comincia a muovere delicatamente la testa da destra verso sinistra in segno di negazione.
Lo osservo sospettoso.
"Che tipo è Bob?", domanda con voce pacata.
Grugnisco rumorosamente.
Sto perdendo la pazienza.
La sto perdendo.
Davvero.
Focalizzo il mio sguardo arcigno su Patter, che peró non sembra esserne troppo turbato.
Inizia a fissarmi anche lui.
Si schiarisce la voce.
Stringo i denti.
Stringo anche i pugni.
Patter tossisce.
Rimango impassibile.
Respiro.
Momento di tensione.
"E cosa mi dici della tua classe?".
 E mi getto sulla sua scrivania, facendo cadere tutte le sue inuili scartoffie da strizzacervelli.
L'uomo si alza scattante, cercando inutilmente di fermarmi.
"Gerard! Calmati!", urla, con un'espressione allibita in viso, mentre io scaravento sul pavimento un saggio sulla Pedagogia, strappandone alcune pagine.
Terribile.
Senza darmi il tempo di reagire, lo vedo avvicinarsi, e afferrarmi con fermezza entrambe le spalle.
"Mi lasci andare!", urlo.
Ma lui non sembra cedere.
"Gerard, devi ascoltarmi! Parlane con me, risolveremo tutto!".
Grugnisco, cercando di liberarmi dalla sua presa.
"Io posso aiutarti. E Dio ci accompagnerà in questo percorso!", insiste.
Sgrano gli occhi.
Spalanco la bocca.
Stringo le dita della mano destra fino a graffiarmi la pelle.
Un balzo e un rumore sordo, Patter si ritrova in terra agonizzante con il sangue che scorre copiosamente da una narice.

Osservo la mia mano grondante del liquido rossastro, mordendomi un labbro per alleviare il dolore.
Non pensavo che dare un cazzotto potesse fare cosí male.
E invece sì, fa male.
Cazzo se fa male.
Ma soprattutto non pensavo di poter stendere un uomo con un solo gesto.
Le soluzioni sono due.
O sono un supereroe incapace di contenere la mia forza, o Patter è fatto di burro.
Ma ammetto che entrambe non mi convincono completamente.
Dedico un ultimo sguardo allo psicologo, impegnato a rialzarsi lentamente tamponandosi il naso, prima di lasciare la stanza deglutendo.
No, aspettate.
Ritorno indietro.
"Avanti, provi ad invocare il suo Dio. Magari viene a soccorrerla.", esclamo dietro ad un ghigno che trasmette una certa cattiveria.
Patter geme dal dolore, e io mi allontano correndo.

Il pavimento lucido dell'ospedale non agevola affatto i miei movimenti.
Sono costretto a farmi forza con le pareti che mi circondano, per evitare di scivolare in terra.
Riesco comunque a mantenere un passo veloce, e in men che non si dica mi ritrovo catapultato all'uscita del reparto Psichiatrico.
Mi accascio in un angolo, respirando affannosamente e cercando di ristabilizzare il battito cardiaco.
Correre negli ospedali dovrebbe diventare uno sport.
Con un mano mi scosto una ciocca di capelli dal viso, e senza un apparente motivo, sorrido.
Per la prima volta, sono uscito dallo studio di Patter prima che la seduta fosse finita.
Probabilmente mia madre mi segregherà in casa legato ed imbavagliato, ma credetemi, ne è valsa la pena.
No, non mi sento un ribelle.
Mi sento un ragazzo di sedici anni.
Nient'altro.

E sono pronto per alzarmi da quest'enorme fosso che mi ancora alla piccolezza di un mondo troppo semplice.

Mi sollevo lentamente, stirandomi un po'le gambe, e sbadigliando sonoramente -senza chiaramente preoccuparmi di coprirmi la bocca.
A cosa servirebbe coprirsi?
Tutti sbadigliano. 
Tutti sanno come funziona.
Nessuno dovrebbe scandalizzarsi per uno sbadiglio.
Sghignazzo e riprendo a camminare.

Ogni passo segna per me come un piccolo tassello di un gioco.
Un tassello in piú, un pensiero in meno.
E come in ogni gioco occorrono i dadi.
Dadi che non posso purtroppo controllare.
Cubi numerati che dominano il caso, che scelgono ció che più è giusto per noi.
Perché infondo la vita è un po' tutta così, in caduta libera.
Respiro un'altra volta, e ricomincio a correre.
 


Sto per voltare l'angolo, quando il mio sguardo cade su una porta di fronte a me.
"DR. IVAN COOPER", è inciso sulla targhetta di bronzo.
Deglutisco appena.
Ho un ricordo ben nitido di quel dottore e delle sue idee maniacali.
Ma soprattutto di quello che ne seguì dopo.
Odio quella persona.
La odio.
La odio.
Molto.
Ma nonostante questo disprezzo, ho qualcosa, dentro di me, come un presentimento, che quasi mi spinge ad aprire quella maledetta porta.
Devo controllarmi.
Socchiudo le palpebre.
E provo a superare questo insignificante ostacolo che mi si è posto davanti agli occhi.

Ma basta un attimo.
Un passo.
Un sospiro interrotto.
Un battito perso.
E mi ritrovo a spingere quella fottuta maniglia.


"Prego, ha fissato un appuntamento?", è una voce femminile ad accogliermi nello studio.
Mi guardo furtivamente intorno.
La stanza è occupata da una giovane ragazza.
Ha dei lunghi capelli castani, e due occhi verdi smeraldo.
Non riesco a vedere di piú, nel buio della stanza.
"Dov'è Cooper?", chiedo insospettito.
"Oh, capisco. Mio padre è dovuto andare urgentemente nel reparto terapia intensiva. Puó aspettare qui, se le va.", mi spiega la ragazza, che ho appena scoperto essere la figlia del dottore.
Peró, non me lo aspettavo.
"Voglio Cooper", ripeto.
Lei si alza, e mi si avvicina elegantemente.
"Le ho già detto che non è possibile vederlo, adesso", insiste.
Un faretto posto all'entrata provvede ad illuminarla, mostrando il suo giovane viso leggermente truccato.
Devo ammettere che è molto affascinante.
"Sa quando posso trovarlo?", chiedo allora, facendo riferimento a Cooper, e iniziando a fissare la punta delle mie scarpe.
Da quando sono cosí interessato ad uno psicologo?
"Immagino che fra poco dovrebbe rientrare", spiega.
Annuisco in silenzio.
Poi alzo lo sguardo, e mi imbatto nei suoi occhi chiari.
Lentamente, con gentilezza, mi focalizzo su quelli che dovrebbero essere i nostri specchi dell'anima.
Dopotutto è questo il pregio di essere come me.
Riesco ad affrontare i riflessi delle persone.

Ma il riflesso di questa donna sembra essere così...malinconico.
Vedo qualcosa brillare, qualcosa di molto acceso.
Qualcosa che luccica accompagnato da una piacevole musica, una colonna sonora di cinguettii e fishi ventosi.
Un'immagine che trasmette serenità, calma.
Infanzia.
E poi, il buio.
Un'esplosione di oscurità improvvisa.
Un ritorno alla realtà.
E un rumore assordante, irriconoscibile, interrotto da parole incomprensibili.
Infine, delle urla.
Immense, strazianti urla.
Urla umane.
Di quelle che ti spaventano.
Il rumore, il buio, le urla, si assimilano infittendosi sempre di piú.
Dolore.
Debolezza.
Tristezza.
Inerzia.
Decadenza.
Oblio.

E ad un tratto, ogni cosa si scaglia violentemente contro di me.

"No!", strillo, scuotendo la testa.
Indietreggio di qualche passo, ansimante, senza curarmi dello sguardo preoccupato formatosi sul viso della giovane.
"Tutto bene?", chiede preoccupata.
Annuisco energicamente.
Non voglio che sappia nulla su ció che ho visto.
Né lei, né nessun altro.
È un male che ci giochiamo io e la mia fottuta mente.
"Tutto bene, soltanto mal di testa", mento, ritornando alla posizione iniziale.
Lei deglutisce, per poi improvvisare un sorriso.
Non provare a mascherare il tuo sttrazio.

"Mi chiamo Jennifer", lentamente, una sottile e pallida mano si tende verso di me.
Senza esitare, la stringo.
"Gerard", dico.
Accidenti, quante volte mi sono presentato nel giro di così pochi giorni?
"Sei un paziente di mio padre?", indaga Jennifer.
Mi affretto a scuotere il capo.
"Assolutamente no", farfuglio in difesa.
E lei sorride di nuovo.
Sempre piú falsa.
"Allora, Gerard, quanti anni hai?", esclama.
"Cosa?", domando irritato.
Per quale motivo tutti vogliono sapere la mia età? L'etá è una cosa PERSONALE.
"Quanti anni hai?", ripete.
"Non le deve importare", ringhio sghignazzando.
"Va bene. Io ne ho ventisette", sussurra lei avvicinandosi a me.
Faccio spallucce, ed entro definitivamente nello studio.
Di fronte a me si materializzano una scrivania in legno e un'enorme libreria di ferro battuto.
Le pareti che ci circondano sono state dipinte seguendo diverse fantasie, alcune tendenti a quadri orientali, o roba simile.
Il soffitto sembra inesistente, scuro come la notte, trasparente come l'anima.
La flebile luce che illumina parzialmente la stanza deriva da una minuscola lampada a muro posta infondo.
Cose che soltanto uno come Cooper avrebbe potuto mettere in uno studio.

"Vuoi sapere qualcosa in particolare da mio padre?", chiede poi ad un tratto Jennifer, facendomi voltare verso il suo viso pallido.
"No. Solo un saluto", rispondo annuendo.
Lei si esibisce in un timido sorriso, sfilando dalla tasca dei jeans un telefono, e scrivendo qualcosa a qualcuno.
Ne approfitto per sbadigliare, e dondolare sui talloni.
Cooper si sta facendo attendere da troppo tempo.
Sono stanco.
Basta.
Me ne vado.
Conto fino a dieci e scappo via.
Mi schiarisco la voce, poi inizio mentalmente a contare.
UNO.
DUE...TRE.
QUATTRO.
CINQ-
Come se mi avesse ascoltato, la porta si spalanca, consentendo l'accesso ad un uomo alto e robusto, che ahimé, conosco bene.
"Jennifer?", esclama interrogativo Cooper, senza staccare peró gli occhi da me, che tranquillo me ne sto in equilibrio fra una poltrona e il bordo della scrivania.
"Papà! Questo ragazzo ti cercava", spiega la ragazza, provvedendo immediatamente a riporre il cellulare.
L'uomo annuisce, e le fa segno di uscire.
Quando Jennifer abbandona la stanza, una leggera onda fredda si infrange sul mio cuore.

"Chi si rivede", ridacchia compiaciuto Cooper, non appena si assicura che la figlia se n'è andata.
"Già", scandisco, grattandomi nervosamente il collo.
È un punto molto strano, nel mio corpo.
Quando sono in ansia, per qualunque cosa, le mie dita si avvinghiano alla parte sinistra del mio collo, e lo assalgono ferocemente.
Non riesco a controllare nulla di tutto ciò.
E questo mi preoccupa.
"Come va?", chiede il dottore, prendendo posto dietro il tavolo in legno, e indicandomi la poltrona di fronte per farmi accomodare.
Ubbidisco, sedendomi, e facendo spallucce in risposta alla sua domanda.
"E il tuo parente?", indaga poi, chinandosi leggermente in avanti, e facendo scorrere in basso gli occhiali da vista.
"Parente?", rispondo confuso.
"Bhè, mi hai detto che hai un parente nel reparto Psich-"
"Oh sì, ma certo, mio cugino", lo interrompo, non appena capisco a cosa di riferisce.
Mi ero completamente dimenticato della bugia che gli avevo raccontato per deviare i suoi sospetti.
Lui sa che il paziente è un mio parente, non io.
"Sta bene?", insiste Cooper.
"SÌ!", strillo io.
Basta parlarne.
Basta.
"Va bene. Ti serve qualcosa da me?".
"Ehm-no. Dove è stato fin ora? Sa che lasciare incustodito lo studio mentre va a divertirsi potrebbe portarle dei problemi?", invento.
Il dottore sghignazza divertito, per poi iniziare a parlare:
"Il mio studio era sotto osservazioni di  Jennifer, e no, non ero affatto andato a divertirmi".
Aspetta.
Jennifer.
Perché ha detto soltanto 'Jennifer' e non 'mia figlia Jennifer'? Insomma, non era detto che ci fossimo presentati.
Jennifer potrebbe essere chiunque.
Ha sicuramente dato per scontato il fatto che ci fossimo stretti le mani.
Il dottore si fida un po' troppo di me.
"Problemi?", domando disinteressato.
"Uhm-sì. Una persona a cui voglio bene sta male", spiega, lo sguardo impassibile.
Deglutisco appena.
"Davvero?", insisto.
Lui annuisce, lasciando a me l'onore di immaginare cosa sia successo.
"Quanto male?", esclamo dopo pochi secondi.
Cooper solleva entrambe le spalle, per poi aggiungere,
"Molto".
Deglutisco di nuovo.
La mia mano va a strusciarsi freneticamente sul tessuto dei miei jeans, scaldandoli, e dando l'idea di un principio di incendio sulla mia gamba.
"C'è qualcosa che non va?", indaga Cooper guardandomi con fare sospetto.
"È malata, questa persona?", lo ignoro peró io, intromettendomi in fatti che non mi dovrebbero riguardare.
"Sì.", decreta seccamente il dottore.
"Nessuno ha mai fatto del male a questa persona?", puntualizzo, lasciando da parte ogni forma di educazione.
Cooper si schiarisce la voce, per poi aggiungere,
"Non mi sembra il caso di-",
"Mi risponda", insisto, senza smettere di muovere la mano, e portando l'altra dritta al collo.
"Sì. Le hanno fatto del male", dice, abbassando per la prima volta lo sguardo.
"Fisico?", oramai la Privacy non mi spaventa più.
"Basta", chiarisce secco lui.
"Le ho detto di rispondermi".
"No"
"Mi risponda, subito"
Silenzio.
"Lo faccia!", alzo notevolmente il volume del mio tono.
"Fisico, morale, ogni tipo di male. Ma adesso, ti prego, smettila!", urla irritato, alzandosi con uno scatto dalla sedia girevole, facendo leva, e spostandola così alle sue spalle.
Indietreggio di qualche passo.
"È riuscito a salvarla?", la mia voce è diventata un sottile e acuto lamento, e i miei occhi sono spalancati.
Cooper si ricompone al posto inziale, sistemando fogli casuali con l'aiuto delle mani tremanti.
Stavolta non risponde.
E anche io me ne sto zitto.

"Salvare le persone è un male?", domanda poi dopo un po', recuperando tutta la calma persa poco fa.
Stringo con forza i denti e le palpebre.
"Un grande male", rispondo poi, riaprendo gli occhi iniettati di sangue.
"Perché?", indaga Cooper, dedicandomi un triste sguardo.
Io peró distolgo il mio, folcalizzandolo su un oggetto abbastanza lontano da me, che sembra possedere la forma di un vaso.
"Hm?", insiste il dottore, attendendo una risposta valida che possa giustificare la mia terribile reazione.
Inizio a mordicchiarmi l'interno del labbro inferiore, e tramutando la mia espressione arcigna in un vero specchio di terrore.
"Io...", provo a spiegare, interrompendomi immediatamente per colpa di un enorme nodo in gola.
Ho paura di parlare, di dire ogni cosa.
Chiudo nuovamente gli occhi, muovendo ritimicamente una gamba, poggiando i gomiti sui braccioli della sedia, e incrociando le dita delle mani in un tocco caldo e sudato.
Il mio cuore sembra chiedere disperatamente aiuto, sembra voler sfondare il petto da un momento all'altro.
E improvvisamente, il freddo. 
Un freddo invernale, accompagnato da un' inquietante musica sognante e leggera.
Ed ecco che tutto si avvicina lentamente.
Serenamente.
La musica che mi pervade i timpani, i brividi che si impossessano della mia pelle diafana.
Sento che sta arrivando la fine.
La fine di un qualcosa mai iniziato.
Mi preparo ad un implosione di sensazioni che il mio fisico adolescente non sarà in grado di gestire.

"E va bene. Risponderó io per te.
Sai cosa voglio dirti? Che aiutare è l'atto più bello che un uomo possa compiere. Un aiuto è una porta chiusa perennemente a chiave, il cui lucchetto puó essere aperto soltanto da chi lo vuole davvero.
E se anche tu provassi ad aprirla, una porta, ti sentiresti molto bene, ragazzo", dice cauto  un Cooper soddisfatto, accomodandosi meglio sulla poltrona scura che lo sorregge.
E io, invece, scatto in piedi.
Gli occhi sono spalancati, le pupille ridotte a due punti neri.
"NO! No, dannazione, no! Smettetela di ripetermelo! Le porte devono restare chiuse! E anche quella, sì. Non doveva essere aperta... No!", urlo, con tutta la forza che riesco a raccimolare.
"Ragazzo, guardami. Spiegami cosa succede", Cooper si avvicina preoccupato a me, guardandomi con uno sguardo terrorizzato e al tempostesso incuriosito, che immediatamente ricambio.
"Avanti, parla", mi incita, chinandosi, e poggiando le mani sulle mie spalle.

Ma le mie ginocchia cedono, e con un rumoroso tonfo atterro dolorosamente sul pavimento.
Bastano altri pochi secondi, che i miei occhi esplodono in miliardi di bollenti e interminabili lacrime.
E non faccio nulla per impedirlo.

Improvvisamente, mi ritrovo coinvolto in un abbrraccio potente e forzato, percependo delle mani accarezzarmi la nuca.
"Mi lasci!", urlo, liberandomi dalla stretta presa delle grosse braccia del dottore.
Lui ubbidisce, lasciandomi cadere nel vuoto di quest' apparente solitudine che mi assilla, isnsieme alla solita musica, diventata oramai troppo potente.
"Basta, basta, basta!", mi copro inutilmente le orecchie con entrambe le mani, strizzando le palpebre e scuotendo la testa.
"Fermate questa musica", imploro ansimante.
"Cerca di calmarti!", insiste Cooper scoprendomi la fronte con due dita.
Ma il ritmo nauseante della melodia esplode in un tono ancora maggiore, eclissandomi dalla vita reale, e rinchiudendomi in una bolla di dolore.
Sento lo stomaco fare un paio di capriole, e i polmoni gonfiarsi a tal punto da provocarmi fitte allucinanti al petto.
Il mio pianto liberatorio continua peró imperterrito, trascinandosi dietro questa musica che non esiste.
È un insieme di note senza nome, prodotte da stumenti inesistenti, che mi entrano dentro con violenza inaudita.
È terribile.
È terribile sentire una musica insesistente.

Ma un'improvviso colpo al cuore, mi fa capire di cosa si tratta.
Questa è la colonna sonora che accompagna la mia vita.
È la trama di una storia che sto seguendo da ormai tempo.
E accidenti, è troppo tardi per riscriverla.

In un attimo, tutto mi abbandona, e cado a terra come un corpo morto.
Ma sfortunatamente, sono vivo, sano, e dannatamente sveglio.

Una mano si tende verso di me, e in poco tempo mi ritrovo seduto di fronte ad un Cooper tutt'altro che tranquillo.
Lo vedo sospirare.
Poi, mi guarda.
"Cosa c'era là dietro?", chiede quasi comprensivo.
Finisco di asciugarmi le ultime lacrime con il polsino della felpa, che subito dopo faccio passare dalla punta del naso arrossato.
Anche io sono costretto a prendere un bel respiro, prima di rispondere.
"Un ragazzo. C'era un ragazzo.".
E questa volta, mi tuffo fra le braccia aperte del dottore.

***

"Sei pronto?".
Mi limito a scuotere la testa.
Cooper sbuffa irritato.
Sono minuti che ci troviamo davanti all'entrata di una stanza in cui non ho il coraggio di entrare.
"Hai paura?", domanda.
"No!", provvedo immediatamente a rispondere.
"E allora apria la porta e vai", mi incita, poggiandomi una mano sulla schiena, e spingendomi verso la maniglia dorata.
"Aspetta! Un attimo...", lo blocco io, rimediando uno sguardo stanco e annoiato da parte sua.
"E se non volesse?", insisto.
"Non volesse cosa?".
"Vedermi", spiego scoraggiato, abbassando lo sguardo.
"Smettila, ragazzo. Respira ed entra. Io ho una seduta, adesso, e sono costretto ad andarmene.", mi afferra per entrambe le spalle.
"Promettimi che lo farai.", conclude, prima di lanciarmi un ultimo sguardo fiducioso, ed allontanarsi attraverso il corridoio.
Lo seguo con gli occhi di chi attende un segnale, uno qualunque, fiché non lo vedo scomparire dietro l'angolo di una parete.
E capisco che adesso, tocca a me.
Stringi i pugni, Gerard.
La porta ti aspetta.

Entro nella stanza limitandomi a fare una leggera pressione sulla porta, già leggermente socchiusa.
Un ambiente freddo e silenzioso si materializza davanti a me, ai miei occhi rigidi, e ai miei capelli disordinati.
Ci sono due lettini, uno a destra e uno a sinistra, accompagnati lateralmente da due comodini gialli canarino.
Il giallo canarino riesce sempre a stonare, in qualunque situazione.
Ecco perché non mi vestirei mai di giallo canarino.
Stonerei troppo nella melodia che accompagna la mia vita di tutti giorni -anche se devo ammettere che non si è rilevata così piacevole-

Le mattonelle che calpesto sono bianche e lucide, raramente sporcate da orme scure di scarpe decisamente piú grandi delle mie.
Infondo alla parete, una grande finestra delineata da un'orribile cornice stile Liberty fa capolino dietro da uno dei due lettini -lettini che rendono il posto ancora piú triste e deprimente.
Ed è lí che lo vedo.

Un rigonfiamento spunta dal lenzuolo che ricopre il materasso, e una chioma scura si nasconde dentro la morbidezza dell'enorme cuscino celeste.
Sembrerebbe un cadavere di una bestia appena uccisa, se non fosse per il fatto che respira e che no, gli animali non hanno le mani.
Infatti, cinque pallide dita fuoriescono dall'involucro di stoffa bianca, lasciandomi capire chi davvero si nasconde lì sotto.
Con fare indifferente, mi avvicino al lettino.
Il silenzio è talmente soffocante, che sono sicuro di riuscire a sentire ogni sigolo battito del mio cuore.
E perché no, anche di quella persona che se ne sta lì, beata, immersa in una nuvola di soffici lenzuola ospedaliere.
Avanzando, mi accorgo che l'ospite è steso in posizione fetale, con le ginocchia poggiate al petto e un braccio allontanato dal resto del corpo, penzoloni sul bordo.
Devo amettere che è una scena abbastanza inquietante.

Con un colpo di tosse, mi schiarisco la voce, rimediando un sussulto da parte del lettino.
"Scusa il disturbo", sussurro, chinandomi.
Cerco comunque di mantenere una certa distanza.
Mai fidarsi di un letto che respira.
Non ottengo nessuna risposta.
"Ciao", scandisco, deglutendo ed inspirando con alternanza.
Ancora silenzio.
Poi un piccolo movimento della sua mano.
E ancora silenzio.
"Ehi", esclamo, insistendo.
"Ehi tu", ripeto.
Mi sento un perfetto idiota.
Forse perché sto parlando con una specie di morto, o forse perché il giallo canarino delle pareti rende tutti un po' confusi.

La situazione si sta rivelando più grave di quanto immaginassi, e l'attesa di una qualunque risposta è diventata troppo lunga.

I palmi delle mie mani iniziano a sudare vistosamente, e sono costretto ad asciugarmele sul tessuto dei jeans, prima di prendere un respiro profondo e azzardare qualcosa di più.
Con due dita, mi allungo verso il lenzuolo, ne afferro un lembo, e senza pensarci troppo, lo tiro verso di me.

Ció che accade dopo è molto insolito.
La scura chioma iniziale si alza di scatto, trascinandosi con sé due braccia scoperte, e riportandosi indietro il suo prezioso lenzuolo.
Con la stessa velocità, mi alzo dal letto, indietreggiando anche di qualche passo.
"Vattene", esclama poi una voce roca e sottile.
"Io-", provo a spiegarmi meglio, deglutendo, ma venendo nuovamente interrotto dalla stessa voce:
"Va' via".
Mi guardo intorno con una certa esitazione.
Mi sento offeso.
"Perché?", chiedo di rimando.
Stavolta nessuno risponde.
Mi avvicino di nuovo al materasso.
"Insomma, mi vuoi rispondere?", insisto arrabbiato.
E il corpo che sembrava essere inanimato, scatta in avanti per la seconda volta.
Ma senza preoccuparsi dell'assenza del lenzuolo.

Velocemente mi ritiro indietro, sgranando leggermente gli occhi.
Un viso pallidissimo, e chiazzato da alcuni lvidi violacei, si fa spazio davanti a me, costringendomi a prendere qualche centimetro di distanza.
"Ti sembro in grado di rispondere?", esclama, stringendo le palpebre, e scostandosi un ciuffo di capelli corvini dall'occhio destro.
Involontariamente, lo imito, passandomi una mano dalla chioma nera che mi ricopre, e cercando si vederci più chiaro.
Lo osservo guardarmi con aria irritata e confusa.
Sebbene il gonfiore, posso facilmente intravedere due occhi chiari e spenti, privati di una luce troppo bella per poter essere stata reale.
Perché è ridotto così?
Ho paura di chiederglielo.
Ho paura di avventurarmi in foreste troppo pericolose per uno che come me ha già abbastanza problemi da risolvere.
E inoltre, sento che non c'è bisogno di parlare.
Così, mi limito a sedermi sul bordo del suo materasso.
"Che cazzo fai?", domanda il ragazzo disgustato.
Gli allungo una mano.
"Il mio nome è Gerard", sussurro, lasciando che la mia voce trasmetta un certo timore.
Poi chiudo gli occhi.
Nessun movimento.
Accidenti.
Non avrei dovuto.
Maledizione.
Va bene, adesso ritiro tutto e scappo da questo posto di mostri.
Faccio fuori i due psicologi e mi rifugio in un bosco.
Ma le mie fantasie ribelli vengono interrotte da una fredda sensazione al braccio.
"Frank", mormora il ragazzo, stringendomi delicatamente la mano.
Improvvisamente non percepisco più nessuna rabbia nel suo tono.
Apro gli occhi.
Il ragazzino accenna un flebile sorriso.
Un BEL sorriso.
Deglutisco appena, per poi fare lo stesso.
In pochi attimi, il nostro contatto si trasforma in qualcosa di strano.
Come poco fa è successo con Jennifer, i miei occhi si vanno a scontrare con i suoi, tristi e pieni di luci rinchiuse dentro un opaco schermo tendente al verde.
Così opaco, da diventare impenetrabile.
Per la prima volta, non riesco a superare lo specchio che mi divide dai pensieri di una persona.

E così, con un colpo secco, mi alzo dal letto.
Frank mi guarda stranito.
"T-tutto bene?", balbetta.
Il crattere duro di prima sembra averlo abbandonato definitivamente.
Annuisco energicamente.
"Devo andare", esclamo poi, iniziando ad allonatanarmi lentamente.
Il ragazzo perde anche l'ultimo spiraglio di felicità che il suo viso aveva assunto.
Lo vedo deglutire.
Mi fermo un attimo, prima di guardarlo.
"Mi dispiace", sussurro.
La sua espressione si fa sempre più confusa.
"Dovevo lasciare chiusa quella porta", esordisco tremando.
Lo noto irrigidirsi tutto ad un tratto.
"Scusa", concludo, prima di voltarmi completamente e correre fuori, nel corridoio, fino ad arrivare alla porta principale dell'ospedale.

Mi catapulto all'uscita, sforzandomi di arrivare al cortile di fronte, per poi accasciarmi stancamente sul prato.
Mi ritrovo a fissare il cielo puntellato da candide e leggere nuvole.
Anche io vorrei essere una nuvola, oggi.
E domani.
E domani ancora.
E il prossimo mese, il prossimo anno, secolo, millennio.
Vorrei volare nell'universo per sempre.
E lasciare cadere ogni pensiero al di sotto del mio corpo fluttuante.
Vorrei che i miei occhi non riuscissero a perforare le anime di chi mi circonda, vorrei essere un comune e superficiale ragazzo.
Vorrei non aver aperto quella porta, non aver visto Frank e non essere riuscito a guardarlo dentro, come succede sempre.
Non sono un ragazzo come tutti.
Io riesco a scavare nel cuore di ognuno.
Ma non stavolta.
E accidenti, sono spaventato da questo.
Frank è riuscito a farmi sembrare un ragazzo normale.
Un sedicenne senza virtù troppo particolari.
Per la prima volta, non mi sono sentito nessuno.
Semplicemente, io.

*~*~*~*~*~*~*~*~*~*

Buondì.
Dunque, so che sono passati un bel po' di giorni dall' ultima pubblicazione, e so anche di aver scritto un capitolo più corto dei precedenti e decisamente più noioso.
Ma, ahimé, ho passato un periodo abbastanza brutto, da cui devo ancora riprendermi del tutto.
Ho scritto questo terzo capitolo con un peso sulla coscienza che non sono riuscita a spostare.
E so che voi lettori ve ne accorgete leggendo, già.
Lasciando da parte depressioni e sciocchezze varie, vorrei esultare insieme a voi per l'arrivo di Frrrrrrrrannnkk.
*cori gloriosi e braccia verso il cielo*
Inoltre, spero che vi piaccia il modo con cui sto descrivendo la figura imponente e oscura di Cooper, l'ignoranza di Patter, e la perenne angoscia di Gerard -insieme a tutte le sue crisi-.
Detto questo, vi lascio poiché Francese non si studia da solo, purtroppo.
Au revoir,
Virgyl,
Ps: suggerimenti su canzoni che potrebbero essere adatte a questa storia? :p















 

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Capitolo 5
*** Streets of Heart. ***


                            STREETS
                                  OF
                         NOVEMBER
                                 ***
Canzone: Comptine d'un autre Ete- L'apres midi (è un brano classico molto bello e abbastanza famoso per aver fatto parte della colonna sonora del film Amelie, ve lo consiglio vivamente)
***
Piccola premessa: Dunque, terrei a dirvi che io non ho a disposizione un computer. Quindi, ogni capitolo, nota e quant'altro di questa Fanfic, è scritto interamente su un minuscolo iPod touch quarta generazione- il trash del trash.
In poche parole, vi chiedo di avere pazienza se trovate qualche errore dovuto alla tastiera troppo piccola, e al trasferimento in Html che, accidenti, mi risulta davvero complicato da fare, ogni volta.
Grazie per l'attenzione (?)
***

CAPITOLO QUARTO.

Se le sveglie potessero parlare, avrebbero sicuramente la voce di mio fratello.
È impossibile evitare di svegliarsi, ogni mattina, senza concedersi il piacevole sottofodo degli strilli acuti e inspiegabili di Michael, in casa mia.
Mio fratello è uno di quei tipetti alti e ossuti che se ne stanno zitti in un qualche angolo del mondo senza prosferire troppe cazzate, con due dita sempre occupate a sorreggersi gli occhiali da vista e una forza d'animo disarmante nascosta dietro ad un impenetrabile e silenzioso scudo di timidezza.
Le cose che più mi colpiscono di lui, sono le sue espressioni, il modo in cui osserva il mondo cambiare, sua madre darsi all'inerzia, me tornare a occhi bassi da una seduta psicologica.
Il suo silenzio non è interrotto da alcun tipo di svago.
Né un sorriso.
Né un gesto affettuoso.
Niente.
Ma ha comunque appena compiuto quattordici anni, il che lascia sperare in un futuro cambiamento.

Il primo cambiamento, come dicevo, lo si puó vedere la mattina, mentre New York ci circonda dormiente, e la tranquillità viene interrotta dalle sue insopportabili urla dovute al terrore di ritardare a scuola.
Lui peró non frequenta la Redflame.
Studia in un Liceo privato in periferia, insieme ad un paio di amici scansafatiche conosciuti al campo estivo lo scorso anno.
Questo è il suo primo semestre.
Quanto vorrei essere al suo posto.
Cominciare il mio percorso scolastico dal primo anno, senza dubbi, ripensamenti, false aspettative e porte dei bagni chiuse dall'interno.
E invece eccomi qui, bloccato tra il materasso del mio letto ed il comodino, con i capelli scompigliati e un odio crescente nei confronti di quel ragazzo che occupa il bagno da già troppo tempo.

"Mikey! Muoviti!", ringhio grattandomi nervosamente il collo.
"Zitto", risponde lui dall'interno.
Grugnisco rumorosamente, facendomi spazio nella stanza e spalancando le ante dell'armadio a muro.
Senza pensarci troppo, ne estraggo un paio di jeans scuri e una felpa completamente nera.
In pochi secondi infilo tutto, gemendo per il freddo quando sono costretto a rimanere a petto nudo e gambe scoperte, e finisco col restare ad osservare insoddisfatto la porta del bagno.
"Esci immediatamente", ordino a Micheal bussando violentemente.
"Un attimo", esclama di rimando lui.
Sento lo scroscio dell'acqua e capisco che si è lavato i denti, e adesso sta sputando nel lavabo la melma bianca e disgustosa al sapore di menta.
Aumento la forza dei battiti sul legno.
Nessun lamento da parte sua.
"Apri questa cazzo di porta", borbotto.
"No, aspetta", dice lui.
E io insisto nel picchiare la porta, alternando i movimenti con qualche urlo.
"Michael, ti vuoi decidere ad aprire questa fottuta porta?!", grido poi senza più un barlume di pazienza.
Dopo pochi secondi, vedo la maniglia abbassarsi, e un rumore metallico che la sblocca.
Senza neanche dare il tempo a mio fratello di aprirla, provvedo a spalancare la porta gettandomici contro, e con un sospiro di sollievo esclamo,
"Finalmente".
Michael sgambetta fuori, trascinandosi il suo berretto verde e infilandoselo velocemente.
Apro il rubinetto, e aiutandomi con le mani, mi rinfresco il viso.
Sbuffo e mi asciugo, per poi poggiarmi con le braccia sul bordo del lavabo.
Guardo il mio riflesso nello specchio.
Sono semplicemente disgustoso.
I miei capelli seguono un ordine casuale, separandosi in ciocche annodate e arruffate.
Il mio viso è pallido, come al solito, e la fronte è puntellata da orribili bollicini adolescenziali. 
La verità è che fra miliardi di adolescenti della mia età, l'unico ad esserne ricoperto sono io.
Persino Bob ha il viso più liscio di un bambino.
Incredibile, no?

Afferro lo spazzolino nel contenitore alla mia destra, ci spalmo sopra un po' di dentifricio e mi lavo velocemente i denti.
I denti sono come un'ossessione.
Li lavo ogni giorno dopo i pasti, stando bene attento ad eliminare ogni minimo residuo di sporco e ripulendomi con il colluttorio alla menta che mia madre compra sotto mia grande richiesta.
I miei denti devono essere sempre perfetti.
Sorrido poco, è vero.
Ma quando lo faccio, voglio farlo nel modo giusto.




Esco di casa inciampando sbadatamente sul marciapiedi, e correndo impacciatamente verso la strada che mi porta, ogni mattina, alla scuola.
Sembra incredibile, ma sono esattamente quindici giorni che frequento la Redflame.
Quindici giorni che conosco Bob.
Quindici giorni che pranzo insieme ad Ann e gli altri.
Quindici giorni che convivo con gli stessi professori da ricovero.
Quindici giorni che quella fottuta porta mi tormenta.
E dieci giorni che conosco Frank.
Conosco.
Conoscere è un termine troppo vago.
Io non conosco davvero quel ragazzo.
Non sono riuscito neanche a guardarlo negli occhi, figuriamoci a conoscerlo.
È una situazione di squilibrio del mio solito essere, una sensazione di diretta caduta nel vuoto.
In un nuovo vuoto.
In un vuoto senza inizio.









"Way, potresti chiudere la porta?", esclama ad un tratto il professor Ramirez, facendomi sussultare e immediatamente ricordare il mio cognome.
"Certo", farfuglio alzandomi e raggiungendo l'entrata della classe.
Afferro la manglia e la chiudo delicatamente, per poi ritornare indietro verso il mio banco.

BOOM.

E mi ritrovo con il viso spalmato sul pavimento.
Una cascata di risate si rovescia contro di me.
Posso giurare di aver intravisto una gamba di Paul saettare davanti alla mia, prima di cadere.
Dannazione.
Con fare indifferente, mi rialzo, e allo stesso modo mi siedo.
Ramirez sembra non accorgersi di tutto ciò.
E questo fa capire molte cose.
Ricomposto il silenzio nell'aula, poggio stancamente la testa sul palmo di una mano, sospirando rumorosamente e spostando lo sguardo verso la finestra.
È una giornata fredda, scura, decisamente invernale.
Ma Novembre è tutto così, cupo e solitario.
Serve ad isolare le persone da ciò che le circonda.
Da ciò che non possono o che non vogliono vedere.
Da ciò che più le spaventa.
Le persone hanno paura di guardare negli occhi ogni cosa che le spaventa maggiormente.
Come la vecchiaia. O semplicemente l'adolecenza.
Mai far notare a qualcuno quanto sia vecchio, o peggio ancora paragonarlo ad uno stupido adolescente.
Le persone vogliono sentirsi lusingare per coprirsi dalla verità.
Non apparire per ciò che sono.
Semplicemente adattarsi.
Noi umani siamo troppo orgogliosi per poter sentirsi dire la verità.
Troppo orgogliosi.

"Oggi c'è l'iscrizione ai club", sussurra Bob ad un tratto.
Con espressione confusa gli rivolgo un secco,
"Eh?".
Il biondo sbuffa annoiato.
"Oggi, iniziano le iscrizioni ai club scolastici", ripete.
Club Scolastici? 
"Cosa sono?", domando sbadigliando.
"Sono dei club organizzati dai ragazzi dell'ultimo anno. Ogni club ha una specializzazione, e tu puoi partecipare settimanalmente ad al massimo due di questi, purché rimanga qualcosa svolto all'interno della scuola", spiega brevemente Bob, senza però mollare dalla bocca la sua solita matita, ridotta oramai ad un mozzicone giallognolo.
Annuisco.
Poi mi guardo un po' intorno, e stando ben attento a non attirare lo sguardo di Ramirez su di me, chiedo in un sussurro,
"Quali tipi di club ci sono?".
Il ragazzo scuote la testa e alza entrambe le spalle.
"Un po' di tutto", risponde, "si va dal gruppo di studio, a quello di lettura e di disegno, per arrivare a uno più complesso come quello musicale o cinematografico".
Annuisco nuovamente.
Mi interessa questa storia dei club.
"Come funziona ?", indago.
"Per cosa?".
"Per iscriversi", puntualizzo.
"Al piano di sopra ci sono le stanze in cui si svolgono i club, ne scegli uno e ti iscrivi", dice Bob con ovvietà.
"Grazie", concludo io, ritornando a spiaccicarmi contro la mia mano, costretto a sorbirmi una nuova ora di lezione, e con un unico pensiero fisso che mi martella la testa.
Paura.


Che poi, infondo, la paura iniziale stava nel bussare a una di quelle stramaledettissime porte.
Dopo ragionamenti e consultazioni insieme a Danny, ho scelto il club di disegno.
Il modulo richiedeva "passione per il disegno e buone abilità".
Mi piace disegnare e ci riesco discretamente.
Sono perfetto, no?
Ho completato l'iscrizione durante l'intervallo iniziale, e adesso, dopo aver deciso di saltare il pranzo per dedicarmi al club, mi sto incamminando verso il terzo piano.
E le scale non sono mai sembrate tanto faticose.
Giungo all'aula ventitré con il respiro corto, e busso senza pensarci troppo.
Ad aprirmi è un volto che riconosco immediatamente.
"Ann?", esclamo, vedendomela arrivare davanti.
"Gerard! Che sorpresa! Anche tu qui al club di disegno?", domanda incuriosita sorridendomi.
Mi piace quando sorride.
"Uhm-sì, io credo che sia interessante", improvviso sporgendomi leggermente verso l'entrata.
E Ann sembra accorgersene, dato che con un movimento della mano mi incita ad entrare ed accomodarmi.
Annuisco, e metto piede nell'aula.
È uno spazio abbastanza ampio, occupato in gran parte da ragazzi più grandi e vistosamente alternativi.
Sono tutti un po' diversi, aria sognante e con matite che ballano fra l'incavo delle loro dita.
Alcuni hanno persino delle auricolari che pulsano di musica.
"Mi fa piacere che tu abbia scelto il club di disegno, Gee", esclama ad un tratto Ann, strizzandomi un occhio.
"Gerard", rispondo facendo roteare gli occhi.
"Siediti pure dove vuoi, fai amicizia con qualuno e prepara le tue cose, oggi pomeriggio ci sarà il primo incontro", mi spiega ignorando il mio lamento la ragazza, indicandomi poi qualche banco infondo.
Proprio vicino alla parete c'è un ragazzo con gli occhiali, barba incolta e immerso in un mare di fogli e quaderni.
Subito accanto invece c'è una ragazzina, forse una primina. Sembra graziosa, ma preferisco non fidarmi.
Infine, una chioma folta e riccioluta spunta da un ammasso di pennelli e scartoffie varie.
Allungo il collo.
"Ray!", dico.
Il ragazzo alza la testa.
Il tempo di riconoscermi, e subito mi dedica un timido sorriso.
Senza esitare mi avvicino al suo banco, e mi siedo accanto a lui.
"Anche tu qui?", chiede.
Possibile che tutti siano sorpresi dalla mia presenza?
"Hm. Non sapevo che ti piacesse disegnare", rispondo, cambiando immediatamente discorso.
"Bhè, è una passione un po' vaga. In realtà non mi riesce disegnare", spiega Ray scrollando le spalle.
Sollevo un sopracciglio.
"Il club musicale era al completo", continua scuotendo la testa con rassegnazione.
Ora capisco.
"E Ann? Lei disegna?", indago incuriosito.
"Sì. Le piace illustrare le storie a vignette. Ma quest'anno ha la maturità, e non ha tempo per gli svaghi, così si limita a gestire le iscrizioni al club", risponde il ragazzo intingendo un piccolo pennello in una ciotola riempita d'acqua fino all'orlo, per poi iniziare a delineare qualcosa su un foglio color crema.
Oramai io e Ray possiamo definirci abbastanza amici.
Ogni giorno pranzo insieme a lui e agli altri, con o senza pollo fritto nel mezzo.
A mensa parliamo del più e del meno, approfittando della situazione per distrarci un po' dalla solita routine.
Bob passa il suo tempo con  Danny, che ho scoperto provenire dal secondo anno, proprio come me, mentre io e Ray preferiamo osservare ció che ci circonda alternandoci con rare parole.
E poi c'è Annah.
Annah è strana.
Strana almeno quanto me.
Con i suoi occhi truccatissimi e le due labbra carnose ricoperte da un vistoso rossetto la rendono interessante ed inquietante allo stesso tempo e allo stesso modo.
In realtà nessuna ragazza mi ha mai interessato quanto lei.
Interessato, o devo dire attratto?
Ah bhè, non ne ho la più pallida idea.
Ann è un po' come un gelato.
Un duro cono ricoperto da uno strato dolce e cremoso.
In un gelato, più consumi e più ti avvicini alla parte peggiore.
In Ann funziona ugualmente.
Mostra agli altri la sua parte zuccherosa, lasciando raramente arrivare al sottosuolo grezzo e amaro.
Perché sì, ha una base rude e sofferente, dietro quel luminoso sorriso.
Rude e sofferente.

Con un suono deciso e straziante, la campanella interrompe i miei pensieri e i movimenti di tutti i ragazzi nella stanza.
La pausa pranzo che io ho consapevolmente saltato, è giunta al termine.
Fra sbuffi e imprecazioni, io e Ray usciamo, e ci soffermiamo nel corridoio per qualche istante.
"Ricordati del primo incontro, oggi alle quattro", mi dice.
"Oh, sì. Farò il possibile", rispondo piegando appena le labbra.
"Bene. A dopo", mi saluta il ragazzo, per poi voltarsi e tornare nella sua classe.
Ray è molto riservato.
Lo si nota dal modo di camminare e di parlare.
Non vuole mettersi troppo in mostra, e lo capisco.
Anche io sono un po' così.
Ma io sono un ragazzo indaco. Lui no.
Scuoto la testa per il mio insensato ragionamento, e mi dirigo verso la mia aula.
Due ore di inglese mi aspettano impazienti.






Posso giurare di aver visto il professore socchiudere gli occhi e addormentarsi per qualche secondo, mentre Brianna Smith leggeva solennemente la sua relazione su Sheakspear prodotta in due settimane senza interruzioni.
Brianna, oltre ad essere disgustosa, ha anche un nome di per sé disgustoso, e un fastidioso tono di voce che ti invita a gettarti dalla finestra per la disperazione.
Per non parlare della sua intellettualità da perfetta studente modello.
Il suo sogno è quello di studiare perrennemente all' Università di Princeton, nel Jersey, in cui probabilmente si sentirà ancora più secchiona di quanto già non sia.
Ma so benissimo che certe persone finiranno per invecchiare insieme alle loro ambizioni gettate al vento di una sicurezza temporanea.
Sono quel tipo di ragazzi che fanno il possibile per brillare nello studio, ma che infine, arrivati ad punto di solida carriera, realizzano di essere soltanto delle piccole, insignificanti, tristi pedine di un gioco chiamato vita.
I loro sogni sono morti in un angolo, accumulati dietro ad un involucro di squallida e falsa soddisfazione dovuta a diplomi e certificati scolastici.
Ma il loro limite è stato raggiunto.
Il punto è stato segnato.
Ed è un punto di non ritorno.

Quindi, se mi chiedessero quale sia stata la cosa più orribile che ho trovato alla Redflame, parlerei sicuramente di Brianna.
E poi della porta del bagno.
Ma prima di Brianna.

Ed è incredibile quanto sia stata lunga la sua relazione su uno scrittore inglese, per lo più morto, che ormai è diventato una moda nei licei.
Ma accidenti, finalmente la lezione è finita, e sono libero di uscire da questo inferno.
Mi alzo sbuffando dalla sedia, prendo le mie cose e in fretta cerco di allontanarmi.
"Ciao Way", una voce strafottente e una pacca sulla schiena mi si gettano violentemente contro.
Paul e un suo amico uguale a lui starnazzano accanto a me, e soddisfatti se ne vanno.
Quasi mi dispiace per loro.
Loro che non hanno un senso.
"Gerard", mi chiama poi Bob alle mie spalle.
Mi volto.
"Paul ti da ancora noia?", indaga accigliato.
"A volte. Ma non m' importa", rispondo tranquillamente io.
"Va bene. Ma per qualunque cosa avvisami", quasi mi impone il ragazzo, annuendo.
Annuisco anche io, leggermente confuso.
Cosa potrà fare mai Bob per impedire a Paul di infastidirmi? 
Mi sembrava di essere stato chiaro.
Le persone non cambiano quando ricevono l'ordine di farlo.
E Paul non diventerà un tenero coniglietto, se eventualmente Bob parlerà con lui.
E io non diventerò mai come Brianna.
Né probabilmente Brianna diverrà come me.
Ma questo è abbastanza ovvio.

Con sicurezza, abbandono l'aula, e mi dirigo verso il mio armadietto.
Giusto, pochi giorni fa mi hanno assegnato un armadietto.
È davvero molto squallido.
Ma posso adeguarmi, volendo.
Lo apro con una botta -non funziona neanche bene- e ci infilo i libri con forza.
Mi carico lo zaino sulle spalle, e velocemente mi allontano dalla scuola.
Arrivato alla strada che porta a casa mia, però, mi soffermo un attimo a guardarla.
È la stessa strada che mi porta all'ospedale, per andare incontro alla mia fine, sempre più vicina.
La stessa strada che ho percorso correndo quel giorno, in cui ho incontrato per la prima vota Cooper davanti ad un distributore di caffè.
Non so come potrei definire Cooper.
Se uno sbaglio, un danno, o un miracolo.
Infondo è stato lui che mi ha consigliato di parlare con Frank.
Frank.
Merda.
Lui sì che è stato un errore.
Non avrei dovuto trovarlo.
Non avrei dovuto aprire quella maledetta porta.
Eppure, accidenti, l'ho fatto. Qualcosa mi ha spinto a farlo. 
Una sensazione di speranza che ha portato la mia mano su quella maniglia.
Come un destino già programmato.
Qualcosa di semplicemente perfetto.
Io che arrivo in una scuola, io che entro in un bagno, io che apro una porta e trovo un ragazzo quasi morto per terra.
Io che mi dispero, io che mi sfogo con Cooper.
Io che vado a parlare con il ragazzo, e il ragazzo che mi dice il suo nome e mi sorride.
Io che scappo e scopro di non essere riuscito a vedere quella fottuta luce dietro i suoi occhi*.

Scuoto la testa, e senza rimorsi continuo a camminare.
***



"Come è andata oggi a scuola, Gerard?", la voce di mia mamma interrompe il silenzio che ricopre il salotto.
"Come sempre", rispondo annoiato.
"A te Michael?", insiste provando con mio fratello, che se ne sta sdraiato sul divano ad osservare impietrito l'immutabile forma del soffitto.
"Bene", sussurra senza distaccare lo sguardo dalle travi di legno.
Mamma sorride con falsità.
Mamma è falsa in ogni cosa che fa.
Anche quando sorride.
O semplicemente ci parla.
Noto sempre quell'accenno di tensione nelle sue parole che mi lascia quasi perplesso.
È normale nascondersi, ogni tanto.
Ma continuare a farlo con tanta insistenza non lo è affatto.
Il nome di mia madre è Donna.
È un bellissimo nome.
Solitamente tendo a disprezzare i nomi, dato che sono soltanto lo specchio di ciò che scelgono i nostri gentori -insomma, chi mai sceglierebbe di chiamarsi Bob?- ma quello di mamma è bello.
Donna si è sposata molto presto.
Ha avuto un figlio.
Ne ha avuto un altro.
Ha pianto per anni.
E poi si è divorziata.
Così, come se nulla fosse successo.
E adesso, con due adolescenti che le occupano maggior parte del tempo, cerca inutilmente di trovarsi qualcuno.
E con 'qualcuno' intendo un uomo.
Un fidanzato.
Un compagno.
Uno di quelli conosciuti in rete.
E questo mi spaventa.
Voglio bene a mia mamma. La ritengo la mia salvezza. Ma non sono mai d'accordo con lei.
Abbiamo due modi di vedere il mondo troppo diversi.
Di fronte ad un problema, lei piange.
Di fronte ad un problema, io rifletto e annuisco in silenzio.
Di fronte ad una bella notizia, lei sorride, mentre io riesco a trovare il modo di renderla orribile.
Di fronte alla morte, lei si chiude in un guscio impenetrabile.
Di fronte alla morte, io mi perdo.
Mi perdo come ci si perde nel buio.
Con paura.
Curiosità.
E salvezza.

"Vado in bagno", esordisce ad un tratto Michael alzandosi, e correndo su per le scale.
Notevole.
Uno squillo di un telefono.
Due squilli.
È quello di mamma.
Tre squilli.
"Mamma, il telefono", la avviso.
"Telefono?", domanda confusa lei.
"Ti stanno chiamando", chiarisco.
"Non è vero.", insiste.
Quinto squillo.
"Credimi, ti stanno telefonando", ripeto.
"Spero che non sia uno scherzo", dice abbandonando di fretta il salotto, ed entrando i cucina.
Tre.
Due.
Uno.
"Pronto?", la sento esclamare.
Rido di gusto, mentre mi stravacco sulla poltrona rossa alla mia destra.
Non sono sicuro se il problema sia io, oppure mia mamma.
Forse lei non sente.
O forse io ho un udito troppo sviluppato rispetto agli altri.
Voglio analizzare meglio la seconda opzione.
Mi interessa.
Sposto lo sguardo verso l'orologio a lancette davanti a me.
Sono le quindici, ventidue minuti, trentasei secondi.
Trentasette.
Trentotto.
Trentanove.
Quaranta!
Quaranun-un nuovo squillo.
Ma non è lo stesso telefono.
Bene.
Quarantatré.
Quarantaquattro.
Il terzo squillo che risuona nel vuoto della stanza.
E mi accorgo che proviene dal mio telefono.

"Pronto?", rispondo con la voce impastata dalla stanchezza.
"Ehilà, Gerard.", la voce di mio padre risuona roca ma potente.
"Ciao Papà", rispondo, alzandomi dalla poltrona e stirandomi gli arti.
"Programmi per oggi?", mi domanda.
"Uhm-no, non penso".
"Benissimo. Che ne dici di una chiacchierata?", mi propone stranamente di buon umore.
"D'accordo".
"Alle quattro al parco?".
"Alle quattro al parco", cerco di concludere in fretta io, picchiettando ritmicamente una mano sul fianco.
"Okay. A dopo, Gee", mi saluta.
Gee.
"A dopo Papà", e la telefonata termina.
Incredibile quanto possano essere articolate le conversazioni con mio padre.
Sempre le sue solite proposte, sempre le mie solite risposte monosillabiche.
Sbuffo rumorosamente, facendo roteare gli occhi, e gettando il telefono sul divano.
Porto entrambe le mani a coprire il viso.
Il contatto è magico.
La temperatura fredda delle mie dita in contrasto con quella bollente delle mie guance.
Ho un' improvvisa voglia di succo ai mirtilli.
E non esito un attimo, prima di camminare anche io verso la cucina.

"Gerard", mi chiama mia madre.
"Sì?", mi volto verso di lei.
Se ne sta ferma, poggiata saldamente al bancone infondo alla stanza.
Non sapevo che avesse già cocluso la sua eterna telefonata con Emily, una delle sue amiche over cinquanta determinate a restare adolescenti per tutta la vita.
"Come va a scuola?", domanda.
"Bene", rispondo confuso.
Possibile che con lei si debba parlare esclusvamente delle mie avventure scolastiche?
"Gli amici?", insiste.
"Uhm...bene?", dico, ancora più confuso.
"Stai diventando un uomo adulto ormai", esclama avvicinandosi, e poggiandomi una mano sulla spalla.
"Già", sospiro.
"Michael purtroppo non sa ancora badare bene a sé stesso. Ma tu puoi aiutarlo, no?".
Annuisco in silenzio.
"Che ne dici se... Questo fine settimana lo dedicassi a lui? Hm?", mi propone sorridendo nervosamente.
Sbuffo.
Ridicola.
"Mamma? Dove devi andare?", chiedo annoiato.
La vedo roteare gli occhi, delusa dalla mia infallibile intuizione.
"Icontro con vecchie amiche, niente di che. Mi prometti che starai insieme a tuo fratello?", spiega.
Annuisco di nuovo.
"Bene", dice infine, stirandomi la maglietta con le dita e dedicandomi un nuovo falso e malinconico sorriso.
Poi, volta le spalle, ed inizia ad allontanarsi.
Fisso le mie scarpe nere, e mi mordo con forza il labbro inferiore.
Le mie mani sono immobili, così come il resto del mio corpo.

"Come si chiama?", chiedo alzando la testa.
Mia madre, dall'altra parte della stanza, si ferma improvvisamente.
"Daniel", risponde, senza guardarmi.
"Buona fortuna", sussurro.
"Grazie", conclude lei.
E in un attimo, sparisce nel corridoio.

Daniel.
So già come andrà a finire.
Un nuovo nome da aggiungere alla lista dei modi per dimenticare il passato usati da mia madre.
Un nuovo capitolo da legare alla trama di questa vita troppo semplice.
Con un ultimo respiro di assestamento, prendo un enorme bicchiere dalla credenza alla mia destra, e lo riempio per metà di succo ai mirtilli.
Un sorso, ed è già finito.
Noi umani siamo così, come un succo ai mirtilli.
Versati in un contenitore troppo grande, e tendenti a scendere nella gola del nostro destino nel modo più effimero che esista.
Scivolando, lentamente.
Tristemente.
Consapevolmente.




Sono quasi le quattro del pomeriggio, e io sono fermo nel parco ad aspettare l'arrivo di mio padre.
Il freddo è glaciale.
Novembre sta finendo, e il tempo non fa che peggiorare.
Rivolgo uno sguardo al cielo.
Perché lui lá sopra e noi qua, su un pianeta così piccolo, costretti ad ammirare i limiti di una vita così breve ed insignificante?
Sia chiaro, mi sto riferendo al cielo, non a Dio.
Dio è una faccenda a parte.
Sono quasi le quattro, e mio padre non arriva. 
Mi sto stancando.
Il parco d'inverno è triste.
Così come le strade.
Tristi.
Strade buie, nebbiose, vuote.
Illuminate dagli ecessivi traffici newyorchesi.
Piene di macchine.
Vuote di persone.
È così che funziona.
E soltanto io riesco a rendermene conto.
Io, e forse qualcun altro.
Magari Bob. Magari Ann.
O magari entrambi.
Mi sembrano abbastanza intelligenti.
E infondo anche Ray lo è.
Danny invece coviene lasciarlo stare lì dove si trova.
Mancano pochi minuti alle quattro, e io sono da solo in un parco di New York.
Le nuvole sono scure e ammassate in un preciso punto, lassù.
Ho le mani nelle due tasche del giubbotto, e inconsapevolmente sto tastando il mio minuscolo blocchetto da disegno.
Ne ho uno così per tutte le evenienze.
Non si sa mai.
A volte l'ispirazione potrebbe sorpredermi da un momento all'altro e farmi soffrire per la mancanza di un foglio e una matita.
Ma con questo nuovo metodo non mi sento mai solo.
Ogni tanto la vena artistica si fa sentire, e illustro le prime immagini che mi saettano nella mente.
A volte sono paesaggi, a volte animali o persone, altre invece delle semplici figure senza lineamenti.
L'ultima cosa che ho provato a disegnare è stata la porta del bagno della Redflame.
Ma sono andato nel panico ancora prima di fare il corpo inanime di Frank accasciato nell'angolo.
È un'immagine che ancora mi terrorizza.
Un ragazzino fragile e sanguinante ridotto ad un vegetale.
E i custodi che non controllavano.
E gli studenti che ridevano.
E io che forzavo la maniglia e urlavo.
Ma è tutto così, un po' strano.
Nessuno si aspetterebbe di trovare qualcuno mezzo morto in un bagno di una scuola.
E invece eccoci qui, tutti spaventati per ciò che potrebbe disastrosamente influenzare negativamente l' immagine patriottica di un' America unita e perfetta.
Non è così che funziona.
Il liceo dovrebbe essere un posto sicuro.
Non è così che vanno le cose.
Ma se i custodi hanno deciso di non salvaguardare quelle stramaledette cabine, allora che si divertano.
La vita continua.
Alcuni ragazzi guariscono.
Altri si rinchiudono in una sala d'infermeria.
Altri ancora si rinchiudono in sé stessi.
E benvenuti nel mondo.

Sono le quattro in punto.
Ci sono io, c'è un parco, ci sono le strade, e non c'è mio padre.
Lui che mi ha chiesto di incontrarci.
Lui che ha detto di voler parlare con me.
Lui che-oh, ecco una figura scura e alta camminare verso di me.
Poi vedo una chioma grigia.
Una sciarpa a strisce.
Degli inutili occhiali da sole.
Un cappotto di velluto marrone.
E delle scarpe di pelle.

"Ciao Papà", lo saluto avvicinandomi a lui.
Mi sorride, facendo sollevare di qualche millimetro gli occhiali estivi.
"Gerard", mi abbraccia affettuosamente.
"Come va?", mi domanda staccandosi, e unendo le mani.
"Alla grande", rispondo io annuendo.
Spero che non mi chieda anche lui della scuola.
Altrimenti dovrei dire di avere due genitori troppo monotoni.
"Ragazze in vista?", indaga.
Orginale, papà, davvero.
"No", mi limito a dire.
"Brutto affare, le donne", ridacchia scompigliandomi i capelli.
Ridicolo gesto ironico.
Piego appena le labbra in un sorriso forzato.
"A casa come sta andando?", ritorna improvvisamente serio.
"Bene", il mio sguardo si abbassa.
"Michael frequenta ancora quei due ragazzi?", insiste.
Si sta riferendo ai due idioti del campo estivo.
Annuisco in silenzio.
"Bene. Vuoi qualcosa? Che so, una cioccolata? Caffe?", mi offre.
"No, non mi va niente. Grazie", mormoro.
Ho sempre paura di dire 'no' a mio padre.
Ho il terrore che possa innervosirsi.
Ma non lo fa, e resta fermo.
"Tu, piuttosto. Tutto bene?", chiedo.
Lo vedo sospirare.
"Sì. Il lavoro sta continuando fra alti e bassi.". 
Conosco bene questa espressione.
Quando mio padre dice "alti e bassi", allora vuol dire che ha un lavoro da schifo.
Ormai ci ho fatto l'abitudine.
"Per il resto vivo ancora in affitto nella casa dei Bryar", spiega infine.
"Bryar?", indago curioso.
È il cognome di Bob.
"Sì. Sono una coppia un po' solitaria. Mi sembrava di avertelo detto, no?".
"Non ci vediamo da due mesi, papà", replico.
Momento di silenzio.
"E comunque, hanno un figlio?", continuo.
"Chi?".
"I Bryar", puntualizzo.
"Oh. Uhm-sì, bhè, un ragazzo alto e biondo. Lo conosci?".
"È il mio compagno di banco", rispondo alzando lo sguardo verso le nuvole, sempre più fitte sopra le nostre teste.
"Immagino che dev'essere una vita dura, la sua", esordisce ad un tratto.
Lo guardo confuso.
"Sì, insomma. Essere adottati e sapere di vivere accanto ai genitori biologici che ti hanno abbandonato non è il massimo per un adolescente", dice con ovvietà mio padre.
Silenzio.
"Non capisco", sussurro.
L'ansia che cresce.
Papà che deglutisce sonoramente.
Il cuore che sembra essere vicino a spaccare il petto dolorante.
"Gerard...Tu...Tu non lo sapevi, vero?".
Cosa non sapevo?
"Papà, sei sicuro di ciò che stai dicendo?", domando insicuro.
Si schiarisce la voce.
"Bhè, vedi, ha una storia un po' complicata alle spalle.", inizia, rivolgendomi poi uno sguardo di approvazione.
Gli faccio cenno di continuare.
Ma lo ammetto, ho paura.
"I suoi genitori lo hanno abbandonato in un orfanotrofio del Jersey, quando era soltanto un neonato. E casualmente è stato adottato da una famiglia di New York, che senza saperlo si è trasferita non troppo lontana da quella...Originale. Qualche anno fa il ragazzo ha scoperto le sue vere origini semplicemente cofrontando la sua scheda anagrafica con quella del padre biologico.
Ed ecco fatto.", finisce il tutto con un respiro profondo.
Rimango un istante perplesso.
Non può essere.
Bob non può essere stato adottato. Non può avere tutto questo alle spalle.
Bob è un ragazzo felice.
"Perché lo hanno abbandonato?", chiedo in un sussurro.
"Vedi, i suoi genitori avevano anche un altro figlio. Ma a causa delle loro...sì, insomma, SCARSE risorse economiche, hanno fatto una scelta.", conclude.
Annuisco senza parlare.
Il cielo è sempre più cupo.
E l'aria sembra opprimermi, questo pomeriggio.

"Papà", mormoro poi.
"Sì?", risponde lui.
"Non vorresti mai abbandonarci, vero?".
"Non scherzare", dice.
"Non scherzo. Non lo faresti, vero?", insisto.
"Gerard. Siete la cosa più importante che ho", adesso ha le mani sulle mie spalle.
"E non farei mai come i Remberg".
Aspetta.
I Remberg?
"Chi?", domando cofuso.
"Sono...sono-i genitori biologici del tuo compagno di classe.", il suo sguardo si abbassa.
E il mio si allarga, facendomi spalancare gli occhi.
"C-cosa?" balbetto, indietreggiando
Mio padre mi guarda accigliato.
"Remberg?", ripeto inquieto.
"Sì, c'è qualcosa che non va, Gerard?".
Scuoto velocemente la testa.
"No. No, assolutamente", mormoro, più per rassicurare me stesso che mio padre.
"Okay", commenta lui dubbioso.
"Ora devo andare", esordisco frettoloso.
"Va bene, ti accompagno io a casa", si offre avvicinandosi.
Ma io lo blocco.
"No. Per favore. Preferisco andare da solo.".
Papà si sfila gli occhiali da sole.
I suoi occhi sono cupi e tristi.
Sono gli occhi di un uomo solo.
Solo, in mezzo a troppe persone.
"Lascia almeno che ti abbracci", dichiara timidamente.
Deglutisco appena.
Lo guardo.
E non come i figli guardano il proprio padre.
Ma come un ragazzo guarda negli occhi la sua più grande paura.
"No.", concludo.
Quel nome.
Quel nome ha cambiato tutto.
Quel nome appartiene ad una sola persona.
Paul.
Paul Remberg.


Senza aspettare alcun tipo di reazione da parte di mio padre, volto le spalle e me ne vado.
Con indifferenza.
Con disinvoltura.
Con paura.
E con un'inspiegabile ed improvvisa voglia di parlare con Cooper.



Afferro frettolosamente il telefono e digito il numero con mani tremanti.
Trovarlo sull'elenco è stato fin troppo semplice.

"Pronto?", la sua voce è roca e ovattata.
"Devo parlarle", dico in fretta.
"Posso sapere chi-",
"Sono sempre io, quello della porta", lo interrompo.
"Oh", esclama.
"La prego, mi dica dove posso trovarla".
"Sono fuori turno, oggi", chiarisce seriamente.
"È urgente. Mi aiuti.", lo imploro.
Un istante di silenzio.
Il rumore di qualche macchina in lontananza.
Poi, nuovamente la sua voce:
"E va bene. Troviamoci davanti all'ospedale fra qualche minuto", accetta.
"Grazie", sussurro.
La chiamata, termina subito dopo.
Ed il mio cuore ricomincia a battere.


L'ospedale non mi è mai sembrato tanto bello come oggi.
Ho un assoluto bisogno di parlare con Cooper.
Devo raccontargli di mio padre.
E di mia madre.
E di Bob.
E degli occhi di Frank.
Maledizione.
La mia vita sembra essersi avvolta su se stessa, finendo con l'annodarsi attorno a me e ai miei pensieri sovrapposti.
Tanti bombardamenti così dolorosi che mi ancorano al fondo.
Sì, devo assolutamente parlare con Cooper.

Come se la mia mente fosse diventata trasparente per qualche attimo, di fronte a me appare un uomo alto e robusto, che si stringe compulsivamente in un enorme cappotto color seppia.
Gli faccio un segno con la mano.
E lui si avvicina.
Ci guardiamo negli occhi per qualche attimo.
Noto dell'amaro vuoto nei suoi.
E lui nota del nervosismo nei miei.
Riconosco certe espressioni.
Ad un tratto, il dottore sorride.
Potrebbe sembrare quasi felice.
"E così hai cercato il mio numero. Hai bisogno di me.", scandisce lentamente.
Faccio roteare gli occhi, e mi inumidisco le labbra.
Semplicemente, odio.
"Avanti, sono qui per te", esclama.
"Qui? Insomma, davanti ad un ospedale?", domando allibito indicando la squallida struttura alle mie spalle.
"Non penso che il luogo sia di fatale importanza in una chiacchierata", risponde con ovvietà.
"C-certo", balbetto poi io. Non sono affatto in vena si proteste, oggi.
Lo vedo sospirare.
"Avanti, vieni con me, conosco un parco qui vicino", propone.
Preferisco accettare e seguire Cooper fino ad una panchina in ferro battuto vistosamente arrugginita, al centro di un giardino pubblico semi-abbandonato.
Ci sediamo entrambi.
"Allora. Cosa mi racconti?", indaga lui, osservando con falso interesse un albero spoglio davanti a noi.
Voglio arrivare subito al dunque.
"Mia madre ha trovato un tipo con cui uscire. Mio padre mi ha raccontato una cosa sul mio compagno di banco. Frank ha degli occhi che non sono riuscito a guardare nel modo giusto.", elenco brevemente.
"Non male", annuisce lui, in attesa di maggiori particolari.
"Mamma nel weekend uscirà con Daniel. Ho già paura di lui.", aggiungo tristemente.
"Perché?", chiede Cooper.
"Perché so già come andrà a finire.", concludo.
"Meraviglioso. Vuoi parlarne?", si offre.
Scuoto la testa.
"Bob è stato adottato. Ed è il fratello di Paul", dico cambiando discorso.
"Chi è Paul?" domanda il dottore.
"Uno dei soliti bulli della mia classe. È suo fratello. Paul è suo fratello. Cazzo.", sospiro accennando un triste ghigno.
"Vuoi raccontarmi di più?", insiste Cooper.
Ma anche stavolta lo ignoro.
"Frank ha degli occhi diversi", mormoro.
Le palpebre pesanti che bruciano.
"Chi è Frank?".
"Il ragazzo del bagno", rispondo con forza.
"Cosa intendi con 'diversi'?", continua.
"Intendo che gli occhi di Frank sono impenetrabili", spiego.
"Impenetrabili?".
"Sì. Dietro quel verde c'è dell'altro, oltre ad un colore così vivace", mi gratto il collo.
"Cosa ti ha detto?", domanda Cooper.
"Nulla, a parte il suo nome.
Io sono scappato prima che potesse aggiugere altro", la mia gamba inizia a seguire il ritmo nervoso del mio cuore, battendo sull'asfalto e provocando un rumore insopportabile.
Il cielo è leggermente illuminato dall'ultimo sole.
Saranno le sei del pomeriggio.
Ma non ho voglia di controllare l'orologio.
"Dovresti trovare una distrazione", mi consiglia improvvisamente il dottore.
Continuo a fissare il cielo.
"Ci ho provato", dico.
"Cosa hai fatto?", chiede.
"Club di disegn-", mi interrompo subito.
Merda.
Il club di disegno.
Alle quattro ci sarebbe stato il primo incontro.
Avevo promesso ad Ann e Ray che avrei fatto il possibile per andarci.
"Il club di disegno!", ripeto, accertandomi di finire la frase.
"Interessante", commenta incuriosito Cooper.
"L'appuntamento era alle quattro!", eclamo paonazzo.
"Sei tu che hai scelto di chiamarmi, ragazzo", si giustifica immediatamente.
Poggio la testa sui palmi delle mani.
"Accidenti", piagnucolo.
Una mano del dottore si posa dolcemente sulla mia spalla.
E basta quel gesto.
Quel fottutissimo gesto.
Basta una pacca sulla spalla per farmi scendere la prima lacrima.
Non sono più tanto sicuro di essere triste per la faccenda del club.
Quelle cinque dita mi hanno riportato ad un tempo, a delle sensazioni che non sento da ormai troppi anni.
Ricordo bene l'ultima volta che mio padre mi dedicò un gesto simile.
Ero nella piscina pubblica di Belleville, nel New Jersey, per una gara di nuoto.
Sì, io praticavo nuoto agonistico.
Odiavo farlo.
Ma rendeva orgoglioso mio padre.
E quando vinsi, quel giorno, e lui si complimentò felice e soddisfatto, mi sentii il bambino più fortunato al mondo.
E fu troppo tardi, quando scoprii di non esserlo affatto.
Un po' perché le gesta di mio padre erano false.
E un po' perché la fortuna non esiste.
La vita è nelle mani del caso, no?
Sì, decisamente.
Una voce calda e potente interrompe il mio flashback.
"Ehi, ragazzo".
Non sa neanche il mio nome.
Ma si ostina comunque ad aiutarmi.
"Alzati. Prendi un respiro. E vai.".
Mi volto leggermente verso di lui.
Tiro rumorosamente su con il naso, per poi chiedere un flebile,
"Dove?".
Il suo tocco si sposta verso il centro del mio petto.
Un sorriso si fa largo sul suo viso.
"Qui", dice con fermezza.
Mi asciugo impacciatamente le guance rigate dalle amare lacrime.
"Non posso", mormoro.
Scuoto la testa.
"Non posso", ripeto tremolante.
"Scava infondo al tuo cuore, amico", insiste lui.
"Amico?", domando socchiudendo gli occhi.
Sorride di nuovo.
"Siamo amici, adesso".
"Perché adesso?", chiedo.
"Perché tu mi hai chiamato in cerca del mio aiuto.", risponde.
"Non è vero. Molte altre persone che non sono mie amiche sono corse in mio soccorso", controbatto leggermente irritato.
Ed ecco di nuovo la sua mano sulla mia spalla.
Il suo viso che si avvicina.
"Ma nessuno ti ha mai aiutato dicendoti di agire con il cuore" conclude sorridendo.
Spalanco leggermente gli occhi.
Detesto ammetterlo.
Ma sì, ha ragione.
Ha ragione.
Accidenti se ha ragione!
Mi alzo con uno scatto dalla panchina.
Lui mi segue con lo sguardo di chi aspetta qualcosa.
"È sicuro?", domando impaziente.
"E di cosa?", risponde lui scrollando le spalle e sorridendo beatamente.
Gli sorrido anch'io di rimando.
E con un movimento delle gambe, mi allontano, correndo, verso la mia direzione.
Ed è ansimando e sbuffando che mi ritrovo di nuovo di fronte al portone dell'ospedale.
Mi fermo, per riprendere fiato.
"Vai dove ti porta il cuore", mi ripeto sussurrando.
È l'ora di liberarsi di questi pesi, Gerard.
Dimenticati di quella fottuta porta.
E senza pensarci troppo, entro.

È L'ISTINTO CHE MI GUIDA.

È LA CURIOSITÀ DI SUPERARE QUELL'OPACO VERDE CHE MI SPINGE.



Sospiro, e con un po' di coraggio, spingo lentamente la porta.
Il giallo canarino dei comodini immediatamente risalta, spiccando dietro ad un ammasso di lenzuola e cuscini bianchi.
Dopo essermi guardato bene intorno, decido di avanzare a passo lento verso il solito lettino.
Il pavimento è lo stesso che ricopre il resto dell'ospedale, lucido e scivoloso e-oh, aspetta, lo avevo già detto?
Dglutendo mi avvicino al materasso gonfio di stoffa ospedaliera, e in un sussurro dico,
"Ciao".

Nessuna risposta.
Allungo il collo in avanti.
Ancora lo stesso involucro di lenzuola.
"Ciao", ripeto con più sicurezza.
Ancora silenzio.
Barcollo fino al bordo del letto, e con una mano lo sfioro.
Un tocco calmo, leggero e delicato.

Quel che basta per farmi scoprire che là sopra non c'è nessuno.

Indietreggio immediatamente, spostando lo sguardo verso il resto della stanza.
Non può essere scomparso.
Gli infermieri avrebbero dovuto vederlo.
Non può essere fuggito.
Il panico che mi si getta contro.
Maledizione.
La stanza è una sola.
Una squallidissima stanza infermieristica.
Mi guardo ancora intorno.
E poi, un'onda che si infrange violentemente su di me.

Mi accorgo infatti di una piccola porticina, che da entrata ad un lato della parete.
Leggo la targhetta di bronzo.
Toilette.
Un colpo al cuore mi destabilizza, costringendomi a tenermi in equilibrio con uno dei comodini canarino.
Le mie ginocchia iniziano a tremare, e un atroce dolore si impossessa della mia testa.
"No...", sussuurro, avvicinandomi lentamente alla porta.
"No, no, no", mi ripeto, quando poggio una mano sulla manglia.
Non il bagno.
Non di nuovo.

"Frank?", la mia voce esce con una flebile scia.
Il silenzio è devastante.
Busso timidamente.
"Frank", ripeto, tremolante.
Due strazianti colpi di tosse che provengono dall'interno del bagno mi fanno sussultare.
E con la velocità di un felino, mi avvinghio alla porta, spingendola e forzandola.
I miei occhi spalancati e le mie mani sudate contribuiscono ad esaltare negativamente la situazione, aumentando i miei sospiri affannosi e i miei calci sul legno della porta.
"Apri, maledizione", ringhio, aumentando la forza.
I pugni che si scontrano fra di loro alla ricerca di un'unica salvezza.
Il fiato che si accorcia, la testa dolorante che pulsa.
Le nocche delle dita che sbiancano e subito dopo assumono un colore vivace e ardente come il fuoco.
"Cazzo", dico sfinito piagnucolando.
Spingo ancora di più la porta.
Ma niente.
Niente.
Niente!

Poi un gemito soffocato.
Dei passi felpati.
Un nuovo colpo di tosse.
Un urlo strozzato da parte mia.
Il rumore ferreo di una chiave che sblocca la serratura.
La paura che mi si getta violentemente contro.
Ed infine, il mio cuore che esplode in infiniti sanguinosi frammenti.

Non so bene cosa succede. Non lo so.
Ed è incredibile il calore che emana il corpo di Frank quando lo stringo con un inspiegabile potenza fra le mie braccia.
E per un attimo, sono in grado di sentire i nostri respiri sommessi sovrapporsi, i nostri battiti cardiaci esibirsi in una danza disconnessa all'interno dei petti in fiamme.
Un attimo.
Tutto in un fottuto attimo.

Immediatamente due sottili braccia mi spingono indietro, facendomi scontrare contro il lettino.
Il colpo mi fa tentennare, e un rumore sordo mi spinge a voltarmi verso di Lui.
"Mi spieghi che cazzo fai?", urla Frank indietreggiando, e chiudendo le mani in due pugni rabbiosi.
"Io...", cerco di spiegare, massaggiandomi delicatamente la testa.
"Tu devi starmi lontano!", la sua voce sembra sempre più forte.
"Io non-mi dispiace Frank", tento di giustificarmi.
Velocemente mi punta un dito contro, mantenendo peró metri di distanza.
"Assassino", righia paonazzo infine.
Spalanco occhi e bocca, confuso e disgustato per l'ultima parola che ha usato cotro di me.
"Cosa hai detto?", gli domando in un leggero sussurro.
Lo vedo deglutire, e circondarsi il busto con le braccia coperte da un sottile maglioncino color crema.
"Che sei un assassino", ripete insicuro e tremante.
Lo guardo negli occhi, come la prima volta.
Quel verde opaco che ancora brilla, dentro di lui.
E quella sensazione di vuoto che riesce inspiegabilmente a trasmettere.
"Non avresti dovuto", esclama Frank ad un tratto.
"Fare cosa?".
"Aprire quella porta".
So benissimo a quale porta si sta riferendo.
E no, non è quella del bagno dell'ospedale che ho cercato di forzare poco fa.
"Lo so", commento abbassando lo sguardo.
"Dovevi lasciarmi morire là dentro", continua lui.
"Eh?". Mi sento confuso.
"Ero lì per morire. Non per essere salvato.".
Stringo i denti.
Poi lo osservo stendersi sul letto.
"Salvandomi, mi hai ucciso", ringhia perforandomi con i suoi specchi verdi.
"Non è vero", provo a controbattere senza successo.
"Sì che è vero! La morte era la mia salvezza. Aprendo quella porta, tu mi hai ucciso.", ripete, appollaiandosi su un angolo del materasso, e trattenendosi le ginocchia al petto.
"Mi hai ucciso, Gerard", conclude infine, la sua voce esce estremamente tremolante e scomposta.
La mia mano si va immediatamente a depositare sul collo, grattandolo compulsivamente e lasciando degli evidenti segni rossi.
"Scusa", balbetto, senza riuscire a guardarlo.
Potrei esplodere in milioni di bollicine fra 
Tre
Due
Un-

"Cosa ci facevi qui?", è di nuovo la sua voce ad interrompere il conto alla rovescia che mi avrebbe portato ad una degna esplosione.
"Volevo vederti", mormoro deglutendo a fatica.
E Frank fa lo stesso.
"Davvero?", domanda.
Annuisco in silenzio.
Annuisce anche lui.
"Quando tornerai a scuola?", chiedo dopo un po'.
"Non so neanche se tornerò", risponde secco.
"I tuoi genitori sono obbligati a farti continuare gli studi. E poi insomma, non sei messo male fisicamente", dico.
Il ragazzo si lascia scappare uno strano grugnito.
"I miei genitori hanno cose migliori a cui pensare, e tu non puoi sapere come mi sento in questo momento", ringhia tutto d'in fiato.
Inclino leggermente la testa da un lato.
"Ti senti male?", indago nervoso.
"No!", urla lui allargando le braccia.
Indietreggio leggermente.
"Va bene. Scusa.", sussurro.
Il silenzio ci avvolge premurosamente.
Simpatico, il mio amico imbarazzo.

"Mia madre ha un turno serale ad un super mercato in periferia.", esclama ad un tratto, fissando un punto indefinito davanti a sé.
"Mio padre ha giocato d'azzardo", aggiunge.
"Quando?", indago con voce flebile.
"Qualche anno fa", risponde socchiudendo gli occhi.
Accidenti.
"E adesso?", insisto sbranandomi l'interno del labbro inferiore.
Frank sospira.
"E adesso continua a giocare d'azzardo. Ma non ha più soldi. E mette in palio tutti i suoi ultimi beni. La casa. La chitarra. La villa dei nonni. Tutto.", spiega tremando.
"Tutto", conclude con un ultimo pesante sospiro.
Sgrano leggermente gli occhi.
"Tutto bene, Frank?", cerco di rianimarlo io vedendolo in uno stato di schock.
Immediatamente il ragazzo si alza dal letto.
È come se ad un tratto si sia svegliato da un perenne sonno.
"Come vuoi che stia? Cazzo, quanto sei stupido. Ti prego, esci fuori. Non so perché ne abbia parlato proprio con te", si sfoga urlando e indicandomi l'uscita.
Indietreggio nuovamente.
In pochi secondi mi ritrovo all'esterno, con Frank davanti che regge la porta.
"Non tornare più. Ti prego.", si limita a dirmi.
Annuisco lentamente.
Sto per voltarmi, quando ancora una volta la sua voce mi ferma.
"Aspetta. Posso farti un'ultima domanda?".
"Certo", rispondo trattenendo le prime lacrime.
"Cosa ti ha spinto a farlo?", domanda.
So benissimo a cosa si sta riferendo.
Scuoto la testa e alzo le spalle.
"Semplicemente non ho seguito la mia solita strada. Ho deciso di voltare l'angolo. E ho trovato quella porta.", spiego a bassa voce, tremando appena.
Frank mi guarda senza parlare.
"Siamo tutti tante strade diverse. Ma le nostre sono strade a sé stanti.", tento di dire.
"Le nostre sono fredde strade di Novembre che hanno deciso di incontrarsi, Frank", concludo, abbassando lo sguardo.
Mi pento immediatamente di ciò che ho appena detto.
Cosa sto facendo?
Dov'è il solito rude e scotroso Gerard di sempre?
Per un attimo, mi sembra di aver già vissuto un'intera vita, e che questo sia soltanto l'inizio di una nuova.
E chissà se non lo sia.
Il ragazzo mi guarda un'ultima volta.
Poi, chiude dolcemente la porta.
E posso sentirlo scoppiare in lacrime.

***

Buonasera, popolo virtuale!
E va bene, sono passati un po' troppi giorni dall'ultima pubblicazione, lo ammetto.
Ma ammetto anche di essere in un momento complicato a scuola- si tratta dello sprint finale, devo riuscire a non essere rimandata (!).
Dunque, mi scuso per l'attesa, per la lunghezza minima del capitolo e per i contenuti pessimi.
Come avrete letto su🔝
per me è molto difficile pubblicare in fretta.
Comunque, avrei una domanda da porvi:
Vi piace questo capitolo? Pensate sia bello e interessante il modo con cui sta avanzando?
Vi prego di rispondermi, non voglio accecarmi davanti ad uno schermo per poi sapere che me ne esco con delle fanfiction orribili :p
Quindi, concludo con un saluto e un ringraziamento a tutti,
Alla prossima! :D

Ps: in teoria avrei bisogno di una beta, per questa storia.
Se a qualcuno interessa, e se la cava nelle possibili correzioni, non esisti a contattarmi per recensione o per messaggio privato!❤











































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Capitolo 6
*** Let's go. Together. ***



                          Streets
                             Of
                       November
                                                               ***
Canzone: Humans-The killers.
 
CAPITOLO QUINTO.
 
Il buio è infinito.
Le palpebre posano con pesantezza sugli occhi stanchi.
Il silenzio è semplicemente indescrivibile.
L'equilibrio notturno che accompagna il mondo verso il risveglio è perfetto.
New York che si gode le sue ore di sonno senza polemizzare.
I letti nelle case che avvolgono le persone desiderose di scaricare la loro tensione accumulata durante il giorno.
I cani nei cortili che mugolano per la solitudine, e i gatti che osservano attenti le strade buie di una città troppo grande.
Nessun apparente problema, nessun fastidioso tintinnio.
Nessuna luce, nessun cigolio.
Non una voce.
Non un sussurro.
Non una porta che si apre.
Silenzio.
 
E mentre intorno stanzia la pace, dentro di me regna il rumore.
Il caos.
Lotte interne fra pensieri repressi.
Inutili resistenze per bloccare il dolore.
La frustrazione.
Il desiderio di abbandonare questo posto così limitato.
Ed è così che ci isoliamo dal mondo esterno.
Quando noi siamo il rumore, e tutto il resto non è nulla.
Solamente uno spazio vuoto e morto.
La vita adesso sono io.
Io e i miei ricordi.
I miei ragionamenti.
Le mie fottute paure.
Come aghi che pungono insistentemente un punto del mio cervello fino a renderlo una maceria di speranze mai esistite.
Ho paura delle speranze.
Ho paura della mia mente.
Ho paura degli aghi.
Sono un insieme di dolorose implosioni.
Fuochi ardenti che si accendono ad intervalli sconnessi, e musiche inesistenti che rimbombano con potenza.
Riflettere.
Danze senza ritmo, voci alterate che mi raccontano la verità.
Nient'altro che la verità.
Ma una verità che non sono in grado di ascoltare.
Resistere.
Giochi senza regole che si sovrappongono l'un l'altro, odore di vacanze senza meta e di un mare freddo e scuro.
Il debole suono di una chitarra scordata.
Ignorare.
L'onda dei ricordi più nascosti che si infrange su scogli troppo bassi, un diluvio interminabile che ci bagna di menzogne e di false aspettative.
Una strada che si incrocia con un'altra, e una luminosa esplosione colorata.
Colorata di grigio.
Urlare.
Poi un cielo infinito ricoperto da miliardi di corpi celesti, che dall'alto ti guardano e ti gridano di smetterla, di lasciar perdere ogni cosa.
Ti dicono di aprire gli occhi, di svegliarti da questo sonno durato troppo a lungo.
Provare.
E infine due occhi.
Due occhi color smeraldo.
Due occhi sofferenti, straboccanti di nere e pungenti lacrime.
E la ricerca della forza.
La forza di scuotere la testa e sorridere.
Una forza che non siamo in grado di trovare.
E il terreno che improvvisamente cede.
E sprofondiamo.
Sprofondiamo.
Lentamente.
Sprofondiamo.
 
Con una sensazione di improvviso vuoto, mi alzo scattante dal letto, ansimante e sudato.
Rimango seduto sul materasso, strofinandomi dolcemente gli occhi, e coprendomi il viso con entrambe le mani.
"Merda", sussurro nel buio della mia camera da letto.
Con un gesto svelto ma impacciato afferro l'orologio da polso che lascio ogni sera sul comodino.
Sono le quattro di notte.
"Merda", ripeto con più enfasi scendendo dal letto.
Mi dirigo lentamente verso le scale che portano al piano di sotto, stando attento a non scivolare ed evitando di farmi male, mentre con una mano mi riavvio i capelli dietro ad un orecchio.
Cammino per qualche altro metro, prima di giungere al salotto e subito dopo alla cucina.
Istintivamente apro l'anta del frigorifero, e ne osservo pensieroso l'interno.
Ci sono delle verdure sott'olio.
C'è del succo ai mirtilli.
C'è del latte, del burro, e della marmellata dall'aspetto disgustoso.
E un pungente odore di cibo surgelato da troppo tempo.
Uno schifo.
Con un'espressione di disprezzo richiudo il frigorifero, poggiandomi con disperazione sul tavolo da pranzo.
Odio svegliarmi di notte.
Svegliarsi di notte vuol dire rendersi conto della nostra inutilità durante questa parte della giornata.
E io non voglio scoprire di stare sprecando il mio prezioso tempo su un letto. 
Ad occhi chiusi, per altro.
Chiudere gli occhi è un gesto da evitare.
Continuando a chiuderli ci stiamo perdendo troppi momenti importanti della nostra vita.
Tutta colpa delle nostre fottute abitudini.
 
Sposto lo sguardo verso la finestra alla mia destra.
È buio.
Il cielo è nero.
Ma lo è anche tutto il resto.
Devo ammettere che la notte è un po' come il momento libero di tutti noi umani.
Umani come me, come Bob, come Ann.
E come Paul, e come il professor Ramirez.
E poi come Danny, Ray, mia mamma, mia nonna e Michael.
Nell'oscurità, siamo tutti uguali.
Miliardi di ombre silenziose.
Sarebbe tutto molto più bello, se fosse sempre buio.
 
Ma purtroppo non è così, e la mia disperazione si esalta ogni volta che la lancetta dei secondi si sposta verso destra.
Fa caldo.
Molto caldo.
Accidenti.
Siamo a Dicembre, e la temperatura di casa mia non è mai stata così alta.
Tanto meglio, un motivo un più per uscire e scappare.
Scuoto la testa, e con passo felpato mi dirigo verso la porta dell'ingresso.
Senza esitare, la spalanco e la varco.
 
L'improvviso contatto con l'esterno mi provoca immediati brividi su tutto il corpo.
Alzo lo sguardo.
Neanche una stella.
Un'infinita distesa di cielo monocromatico, senza sfumature né alternanze di nessun tipo.
L'aria è ferma, e nessun rumore risuona nel vuoto di questo paese dormiente.
Quando ero più piccolo abitavamo in un appartamento in pieno centro a New York.
La tranquillità era più unica che rara.
Lì iniziarono le mie paure.
Lì iniziarono i miei lunghi ragionamenti esistenziali.
Lì ho provato per la prima volta l'ebrezza di sedermi sul davanzale di una finestra dell'ottavo piano, e sentirmi per un istante qualche metro più in alto del Mondo.
Ma le cose cambiano, si sa.
Città che diventano vie di villette a schiera, ospedali che si trasformano in enormi scuole pubbliche, porte che si chiudono e ti aprono un portone.
O quasi.
Ma le strade.
Le strade restano così, ferme, dritte, inanimate e maledettamente tristi.
Non mutano la loro forma.
Non possono.
Non vogliono.
 
E io?
Io sono cambiato?
No.
Anch'io ho scelto di non cambiare.
Mi piace la mia vita.
Mi piace essere diverso.
E poi mi sembra abbastanza chiaro.
Nessuno cambia quando riceve l'ordine di farlo.
 
È freddo, qua fuori.
L'aria è ferma, ma la Terra no.
Ed io mi sento così solo.
 
"Gerard", sento mormorare alle mie spalle.
Mi volto, ritrovandomi un Michael assonnato e spettinato davanti.
"Cosa ci fai qui?", esordisco irritato, pur mantenendo un pacato tono di voce.
"Cosa ci fai tu qui?", ripete però mio fratello.
Sposto di nuovo lo sguardo verso il cielo, poggiandomi alla staccionata di legno che circonda la casa.
"Non potresti capirlo", spiego annoiato, sbuffando.
"Nessuno riesce a capirmi", enfatizzo poi con un ghigno sulle labbra.
"Cazzate", borbotta Michael avvicinandosi, e posizionandosi alla mia sinistra.
Il mio sguardo resta impassibile, così come la mia espressione.
"Non pensare di essere speciale", replica lui.
"Infatti non lo sono", controbatto io.
"Non lo sei, ma ti comporti come se ti trovassi tanto più in alto di noi", obietta gesticolando.
"È la verità", dico di rimando.
"Non è vero! Lo vedi che ti senti speciale?", esclama.
Adesso mi volto verso di lui.
La poca luce dei lampioni riesce ad illuminare il suo viso magro e pallido, lasciando intravedere qualche lunga ciocca di capelli chiari.
Scuoto lentamente la testa.
"Essere speciali non porta ad essere migliori. Il dottore lo diceva sempre, che ero un bambino speciale", sorrido.
Guardo nuovamente il cielo scuro.
"Ma io non voglio essere ciò che il dottore cercava di farmi credere", concludo abbassando gli occhi.
"E cosa significa essere migliori?", domanda mio fratello dopo pochi secondi di beato silenzio.
Le mie dita raschiano inutilmente il legno della staccionata su cui il mio peso fa forza.
Sento un forte bruciore agli angoli degli occhi.
Poi guardo di nuovo Michael.
E scuoto la testa con più convinzione.
"Non lo so", sussurro, forzando un falso ghigno.
 
E in un attimo, mi ritrovo stretto fra le sue braccia ossute.
No, non sto piangendo sulla sua spalla.
Non piango mai in queste situazioni.
"Sei il migliore per me", mormora Michael, rinforzando la presa sul mio corpo.
Non rispondo, né annuisco.
Semplicemente, ricambio l'abbraccio.
Mi piacciono gli abbracci.
Ma non quelli preparati, finti ed organizzati.
Sto parlando di quei contatti fisici che si hanno esclusivamente per farsi forza a vicenda, per unirsi in qualcosa di assolutamente voluto e sentito.
Semplice, no?
Più o meno.
Le braccia di mio fratello si separano lentamente, posizionandosi sulle mie spalle.
Mi guarda negli occhi con il suo sguardo serio ma profondo.
Dimostra molti più di quattordici anni.
"Ricordi il giuramento?", esclama ad un tratto.
Giuramento?
"Certo", rispondo improvvisando.
"Pioggia e vento...", inizia con tono teatrale.
Ma certo.
Il giuramento.
Avevo sei anni quando glie lo insegnai.
Lo inventai per sentirmi più sicuro.
Per sentirmi unito a qualcuno.
"...mali e morte", continuo con un sussurro.
"Giuro che niente dividerà un amore così forte", concludiamo insieme.
E insieme, scoppiamo in una tenera risata.
"Eravamo molto più carini da piccoli", sdrammatizza lui sghignazzando.
"Io lo sono ancora", puntualizzo io, con sarcasmo.
"Coglione", Michael scuote la testa, e mi molla un delicato pugno sulla spalla sinistra.
Poi si stira le braccia, facendo per allontanarsi.
"Dove vai?", chiedo senza guardarlo.
"Ritorno a letto. Tu?", domanda assonnato.
Un leggero soffio di vento fresco mi scompiglia leggermente i capelli.
"Mi trattengo ancora un po'.".
"Buon divertimento", borbotta lui, mentre rientra in casa.
Ed io sorrido.
È bello non sentirsi soli, per una volta.
È quasi rassicurante.
 
 
 
La scuola inizia davvero a sembrarmi un grande manicomio.
Ed io mi sento il più normale.
Divertente, no?
Bob è malato da due giorni, e per quanto ne sappia non è uno di quei tipi sportivi che entra in classe anche se in fin di vita.
Danny si è iscritto al club d'informatica, e passa il suo tempo libero davanti ad un infernale display.
Ray invece è riuscito ad entrare nel club di musica, fortunatamente uno dei componenti si è reso conto delle sue conoscenze in materia e ha abbandonato il gruppo, lasciandogli il posto.
E poi c'è Annah.
Lei c'è.
Ed è qui davanti a me, con una matita che le balla fra l'incavo delle dita, e lo sguardo concentrato sul suo album da disegno.
"Posso sapere perché non sei venuto?", esordisce ad un tratto senza guardarmi.
Si sta riferendo al primo incontro del gruppo di disegno.
"Me ne sono dimenticato", rispondo.
"Non è vero", controbatte lei.
"Eh?", esclamo.
"Stai mentendo", scandisce.
Sbuffo.
"È la verità", ripeto.
"Sei un bugiardo", dice sorridendo.
"Va bene", borbotto io, offeso.
Ann smette improvvisamente di guardare il foglio, e punta i suoi occhi scuri sui miei.
"Perché non sei venuto?", ripete con più convinzione.
La verità è che me ne sono realmente dimenticato. Mentre mio padre mi raccontava la storia di Bob, loro se ne stavano beati tra china e colori a tempera.
"Ho incontrato mio padre, e ho perso tempo in chiacchiere insieme a lui", spiego velocemente.
"Hm hm hm", ridacchia lei, ghignando.
"Cos'è questa espressione?", domando inarcando un sopracciglio.
"Qualcosa mi dice che non erano semplici chiacchiere", sussurra.
Faccio roteare gli occhi.
"Non deve importarti cosa ci siamo detti", l'aggredisco ringhiando io.
E lei diventa incredibilmente seria.
"Non ti fidi di me?", chiede, assottigliando gli occhi in due sottili scaglie.
Mi avvicino a lei, chinandomi sul tavolo a cui siamo poggiati.
"Esatto", sussurro sorridendo.
Ann spalanca la bocca, ma sorride anche lei.
Noto che ha una voglia matta di infamarmi e picchiarmi, ma quando sento che il cruciale momento sta arrivando, una voce familiare ci interrompe.
"Gerard, posso interromperti?".
Mi volto.
La Gullivan mi osserva dall'alto, imbottita con i suoi soliti addobbi colorati e sgargianti.
"Certo", rispondo io deglutendo.
Poi lancio uno sguardo ad Ann, che mi rassicura annuendo.
Abbandono il tavolo insieme alla Preside, seguendola fino al suo ufficio.
 
"Allora, Gerard, come va?", domanda con il suo solito ed eccessivo entusiasmo, quando arriviamo.
"Alla grande", affermo insicuro.
Insomma, mi trovo pur sempre in presidenza.
"Benissimo. Accomodati pure, dovrei parlarti di una cosa", dice indicandomi l'orribile poltroncina.
Mi siedo immediatamente.
E anche lei lo fa, dall'altra parte della scrivania.
"Dunque. Come ti senti dopo ciò che è successo?", domanda.
La guardo stranita.
"Si riferisce alla faccenda del bagno?", indago, ricevendo subito un segno di assenso.
Abbasso lo sguardo.
Come mi sento? Confuso? Impaurito?
"Dispiaciuto", rispondo.
"E per cosa?", insiste lei.
"Per il ragazzo, ma anche per chi è passato davanti a quella porta ma ha fatto finta di nulla", spiego irritato.
"Lo so. Ma vedi, devi capire che quel ragazzo ha dei seri problemi. È stato dentro quel bagno per un giorno intero, con intenti suicida", esordisce la preside con espressione compassionevole.
Deglutisco.
Lo sapevo. Sapevo che era là dentro per farla finita.
Ma loro, loro come fanno a saperlo?
"Ve lo ha detto lui?", domando con voce tremante.
La preside si schiarisce la voce, per poi aggiungere:
"Ha parlato con uno psicologo, e ha ammesso di aver provato ad uccidersi".
Uccidersi.
Questa parola ha un suono tanto orribile quanto il suo significato.
Uccidersi.
Ricordo le parole che mi ha detto Frank, l'ultima volta.
Mi hai ucciso, aprendo quella porta.
Stringo i denti e annuisco.
"Cosa vuole sapere da me?", chiedo.
"Bhè", inizia, insicura.
Dopo lunghi attimi di silenzio, si fa forza e continua:
"Insieme a tua madre, e agli altri professori, siamo arrivati alla conclusione che forse questa non è la scuola adatta per farti continuare gli studi, Gerard", spiega tutto d'un fiato.
Sgrano gli occhi.
"E perché?", esclamo.
"Ecco-", tenta di argomentare la Gullivan,
"Come avrai notato sono successe strane cose, tutte insieme. Sono sicura che sarà dura per te lasciare i tuoi nuovi compagni, ma credimi, è per il tuo bene", conclude sorridendo.
Scuoto la testa.
"Da qui non me ne vado", esordisco.
"Non c'è molta scelta, Gerard", controbatte lei.
"Pensa che uscendo da qui mi faccia una nuova vita? Pensa che essere sbattuto in uno studio psichiatrico mi insegni a stare al Mondo? Sono stanco di essere trattato così", mi sfogo, mantenendo però un tono contenuto e al tempo stesso fermo.
"Assolutamente no! Sono a conoscenza dei tuoi precedenti, ma-",
"Ah, i miei precedenti. La mia adolescenza insolita e difficile, eh? È questo che le avrà raccontato mia madre", obietto, interrompendola.
Il suo sguardo si fa immediatamente serio.
"Non interrompermi. Sono la Preside, ed esigo rispetto dai miei studenti", esclama, con un tono di voce alto e severo.
Mi zittisco subito.
Incrocio le braccia, sprofondando nella sedia, e distogliendo lo sguardo dal suo.
Che essere orribile.
Si schiarisce la voce, ricomponendosi sulla poltrona.
"La decisione è stata comunque approvata da tutti. Nessuna tua obiezione potrebbe far cambiare idea".
Sbuffo. Che fregatura.
E con un serio sospiro, la Gullivan scandisce le ultime parole:
"Ti dichiaro sospeso dalla Redflame.".
Deglutisco.
"Adesso puoi andare.", conclude.
 
 
 
 
È sempre emozionante saltare una seduta insieme a Patter.
Dopo il cazzotto che si è beccato in pieno viso, ha deciso di lasciarmi andare, promettendomi di non raccontare nulla a mia madre.
Vigliacco.
Ingenuo, e vigliacco.
Ed io sono qui, davanti alla porta dello studio di Cooper, che attendo il suo arrivo insieme a Jennifer, anche oggi addetta ad accogliere i clienti al suo posto.
"Cosa ha da fare di così importante?", domando ad un tratto, poggiandomi con la schiena al muro.
"Si tratta sempre di quella persona in terapia intensiva", spiega seria la ragazza.
"Che palle", sbuffo io di rimando.
"Problemi a casa?", indaga ad un tratto Jennifer.
Eh? Che razza di domanda è?
"No", rispondo seccamente.
"Bhè, scuola, allora?", insiste.
"Sì", annuisco confuso.
"Anche io studio psicologia. Ho a che fare con i ragazzi come te", esordisce sorridendo.
Cosa intende con ragazzi come me?
"Si diverte?", chiedo.
"A fare cosa?".
"Ad ascoltare le storie degli adolescenti come me".
Jennifer ghigna.
"Sono stata piccola anch'io. E credimi, ho molte cose da insegnare", mi dice strizzandomi un occhio.
"Uhm-del tipo?", domando senza mostrare alcun interesse.
"È difficile vivere con un padre che ti odia", sussurra sorridendo lei.
Sgrano gli occhi.
Cosa?
E nello stesso istante, Cooper sbuca da un angolo del corridoio.
"Ciao ragazzo", mi saluta con una pacca sulla spalla.
"Jennifer, puoi andare", si rivolge poi a sua figlia, che annuisce e si allontana in silenzio.
"Entra pure", mi invita in seguito il dottore, aprendo la porta del suo ufficio.
Lo seguo fino all'entrata.
Poi mi blocco.
"Perché la tratta così?", esclamo con serietà.
Cooper si volta confuso.
"Così come?".
"Sembra che disprezzi sua figlia. Cosa le ha fatto?", indago.
Lo psicologo tossisce, per poi rispondere,
"Ti sbagli alla grande. Le rispondo così perché ci troviamo in ambito di lavoro. Ed io devo prendere il mio lavoro con diplomazia e serietà", spiega velocemente.
Non rispondo, e mi limito a sedermi.
Passano minuti di silenzio.
"Allora? Cosa mi racconti?", inizia cordiale lui.
"Mi hanno sospeso dalla scuola", rispondo scettico io.
"Ahia! Devi averla combinata davvero grossa", ridacchia annuendo.
La mia espressione rimane impassibile.
"Dicono che la storia del bagno ha fatto cambiare tutto", continuo ignorandolo.
"Oh. Continua", borbotta il dottore, rendendosi conto della scabrosa situazione.
"La Preside ha detto che la Redflame mi farebbe soltanto del male", proseguo.
"E tu cosa hai fatto?", indaga Cooper.
Scuoto le spalle.
"Ho risposto.", dico.
"E...lei?", insiste.
"Mi ha sospeso ufficialmente", rispondo annuendo.
Il dottore fa spuntare un'espressione dispiaciuta sul suo viso.
Il silenzio mi inquieta.
“Ha conosciuto anche lei Frank?”, domanda ad un tratto lui.
“Non lo so. Ma uno psicologo ha parlato con Frank, e hanno scoperto che-”, mi interrompo, guardandomi intorno ed iniziando a tremare leggermente.
Lo psicologo sembra capirmi, e non controbatte.
Faccio un profondo respiro, chiudendo gli occhi per qualche attimo.
Ho quasi paura di dire ciò che è ovvio.
"Che ha tentato il suicidio", dico poi tutto d'un fiato, arrendendomi.
"Va bene. È passata ormai. Tu lo hai salvato e-", no riesce a finire la frase, che io scatto in piedi:
"L'ho finito di uccidere! Gli ho dato io il colpo di grazia! Non dovevo intromettermi nella sua vita. Non dovevo aprire quella porta", urlo, tremando con più evidenza.
"Smettila con questa storia, ragazzo! Se ti fa  sentire così male, va' da lui e diglielo", anche Cooper si alza.
Il suo tono è rude e possente.
Non pensavo che potesse diventare così aggressivo.
E non avevo neanche mai pensato a questa opzione. Forse dovrei davvero andare da Frank e parlargli? Dirgli quanto tutto ciò mi faccia deprimere e impaurire? E magari chiedergli cosa si nasconde dietro quell'penetrabile velo verde che gli ricopre gli occhi?
Annuisco lentamente.
"Va bene", piagnucolo di rimando.
"Ma so già quanto le cose provvederanno a peggiorare", concludo.
Sto per abbandonare la stanza, quando la voce del dottore mi ferma.
"La vita è una sola, ragazzo".
Non mi volto.
"Certe cose vanno fatte. Certe cose no.
Ma tutto va provato, almeno una volta. Viviamo per agire, non per scomparire.", esordisce con poca sicurezza nella voce.
Lo guardo un'ultima volta.
E me ne vado.
Incredibile quanto possano arrivare a durare poco alcuni incontri, in un ospedale.
 
 
***
 
"Insomma, Donald, è anche tuo figlio!", sento urlare mia madre dal salotto.
Qualcosa che cade.
"Ma io non ho alcuna colpa in questa faccenda, Donna!", risponde mio padre.
Un oggetto che si rompe.
Un urlo.
"Non è possibile che succedano tutte a lui", continua mamma.
"Cosa ho fatto di male? Perché non ho un figlio normale come tutti gli altri?", conclude infine.
Rumore di lacrime che scendono copiosamente dai suoi occhi.
 
Sbuffando, mi stendo pesantemente sul letto.
La giornata di oggi sembra essere passata troppo velocemente.
Annah che si interessa alla mia vita privata, la Gullivan che mi sospende, Cooper che fa durare la nostra chiacchierata troppo poco, e i miei genitori che discutono in salotto su cose che a quanto pare gli riguardano molto più di quanto immaginassi.
Porto entrambe le mani a coprirmi il viso.
"Che palle", borbotto.
Mi chiedo cosa ne pensa Frank, di tutto questo.
Si sentirà in colpa?
Bhè, dovrebbe.
Dopotutto è a lui che è balzata in mente la magnifica idea di suicidarsi nel bagno pubblico della scuola.
Io non lo avrei mai fatto.
Né in un bagno, né fuori, né tantomeno a casa mia.
Semplicemente, avrei contato fino a cinque.
Perché?
È facile.
Uno.
Ho sedici anni, e ci sono ancora troppe cose da vedere. Insomma, morire mi farebbe chiudere gli occhi perennemente, e io non voglio questo. Nessuno lo vuole.
"Sei uno stronzo!", strilla mia mamma dall'altra stanza.
Rumore di vetro che si infrange.
Due.
Qualcuno mi ha dato la vita.
È come un regalo, no?
Chi è questo qualcuno? Non voglio saperlo.
Ma seriamente, chi darebbe mai un regalo indietro? È da maleducati.
"Ti avevo detto che la scuola privata sarebbe stata migliore anche per lui!", questa è la voce di mio padre.
Un nuovo urlo che si fa spazio nella casa.
Tre.
Ammettiamolo, nessuno prova a suicidarsi perché davvero lo vuole.
Ci prova perché lo vuole qualcun altro.
È tutta una farsa per attirare l'attenzione, per sentirsi importanti mentre ci teniamo in equilibrio sul bordo del balcone in attesa che nostra madre venga a soccorrerci e ci protegga per sempre.
Ma se perdiamo la presa.
Se quelle dita decidono di scivolare.
Noi scivoliamo con loro.
Ed è orribile quel momento, in cui improvvisamente tutto sembra essere successo in un momento.
E immediatamente, ce ne rendiamo conto.
Troppo corta, forse, questa vita?
"Voglio parlare con i genitori di quel ragazzo. Se Gerard è stato sospeso, è soltanto colpa sua", è stata mia mamma a pronunciare questa frase.
Un altro rumore sordo.
Quattro.
Basta pensare a quando non eravamo ancora nati. Nessuno si ricorda nulla di quel periodo.
Il motivo? Non esistevamo.
Adesso i sembra tutto così semplice, ma proviamo invece a pensare alla morte.
È la stessa identica cosa.
Metteremmo fine ad un'esistenza che abbiamo coltivato fino a questo momento.
Morendo chiuderemmo gli occhi per sempre.
E non arriverà mai quel momento in cui saremo in grado di riaprirli, iniziando qualcosa di nuovo.
Tutti i nostri ricordi, pensieri, tutte le nostre esperienze.
Gettate al nulla.
Al vuoto.
 
Un urlo particolarmente forte mi fa scattare in piedi.
"Ma insomma! Che motivo ci sarebbe di andare a parlare con lui? Gerard è abbastanza grande da potersela cavare da solo", la voce di mio padre non mi è mai sembrata così forte.
"Smettila, Donald", insiste mamma.
"Va bene. Ne discuteremo direttamente con lui-Gerard!", strilla il mio nome.
"Non è il caso", insiste mia madre.
"Non è mai il caso per te, Donna.
Gerard, scendi di sotto!", il suo tono mi spaventa.
"Basta, vattene. Siamo separati, no? Vai a casa tua", obietta nuovamente lei.
"Non dire cazzate. GERARD, SCENDI IMMEDIATAMENTE", stavolta inizio a tremare.
"Adesso ci penso io", conclude mio padre.
Poi silenzio.
Contraggo ogni mio muscolo, stringendo denti e pugni.
Sono in grado di sentire il mio battito cardiaco farsi pesante e irregolare.
I respiri che cerco di trattenere mi gonfiano dolorosamente i polmoni.
Le gambe cercano disperatamente un supporto.
Improvvisamente, dei passi che si fanno strada per le scale che portano nella mia stanza.
Gli occhi sembrano sciogliersi in milioni di lacrime nere e pungenti.
Cosa vorrà dirmi?
Magari vuole picchiarmi.
O semplicemente parlarmi?
O magari-
La porta si spalanca con un rumore assordante, e una figura alta che conosco bene si materializza davanti a me, avvicinandosi svelta.
Neanche il tempo di portarmi un braccio davanti al viso, che una sua mano va ad afferrarmi una spalla, seguita immediatamente dall'altra.
Dalla mia bocca escono gemiti incomprensibili.
"Ascoltami bene", dice mio padre con rabbia incontenibile.
"Se la Preside ti ha sospeso, lo ha fatto per te, capisci? Non fare il bambino, Gerard", esordisce tenendomi ben stretto da entrambe le parti.
Annuisco, mentre cerco di trattenermi dal non scoppiare a piangere davanti a mio padre.
"E quel ragazzo, quello che hai salvato-"
"Frank", lo interrompo.
"Sì, insomma, lui. Posso sapere dove si trova?", domanda.
"In ospedale, sotto osservazione. O almeno credo", rispondo insicuro.
"Bene.".
Abbasso lo sguardo e deglutisco.
"Domani mattina andrai a parlare con lui", esclama poi.
Spalanco gli occhi, irrigidendomi subito.
"Perché?", chiedo tremante.
"Perché dovete chiarirvi. Quel ragazzo ti sta facendo del male. I professori ti hanno trovato molto distratto negli ultimi giorni, Gerard. Nei compiti in classe racconti sempre di un qualcosa riguardante degli occhi verdi, lettini d'infermeria e comodini giallo canarino", spiega mio padre confuso, scuotendo la testa con alternanza.
Sposto nuovamente lo sguardo verso il pavimento.
Silenzio.
Ancora silenzio.
"Quindi stasera cerca di non andare a dormire ad orari impensabili, come sempre, perché domani ti passerò a prendere molto presto. Chiaro?", dichiara con tono serio ed esigente.
Annuisco in silenzio, con un cenno del capo.
"Bene", dice lasciando finalmente la presa dalle mie spalle indolenzite.
Con un ultimo sguardo rude, si allontana dalla camera, scende di fretta le scale, e si chiude la porta d'ingresso alle spalle.
Non più un rumore.
Non più un sospiro.
Non più una lacrima di mia madre che si getta pesantemente sul pavimento.
Mi seggo lentamente sul bordo del letto, lo sguardo fisso su qualcosa che non sto davvero osservando.
Pensavo che certe cose succedessero soltanto nei film.
Di quelli che parlano dei ragazzini difficili senza motivi per vivere.
Io ne ho cinque.
Ma il quinto?
Il quinto va ancora scoperto.
Ogni cosa ha il suo tempo per essere scoperta.
Ed è inutile ragionare immedesimandosi nel ruolo protagonista di un lungometraggio a tema adolescenziale.
I tempi cambiano.
Le cose accadono.
Le persone passano.
E la vita non è un film.
 
 
***
 
 
Odio l'odore delle macchine.
In special modo delle macchine nuove, quelle che emanano ancora il pungente aroma di pelle sintetica e di nauseabondi deodoranti.
E la macchina di mio padre è esattamente così.
Nuova, e disgustosa.
Disgustosa e terrificante.
Pessima.
“Hai fatto colazione?", chiede lui, mentre cerco di aprire il finestrino alla mia destra.
"Sì" rispondo poi, premendo il primo tasto sul cruscotto che mi sembra essere quello giusto.
Non succede niente.
"Perfetto. La colazione è il pasto più importante per una-",
"Vita sana ed equilibrata", lo interrompo io concludendo la frase.
"A scuola ci fanno le lezioni sugli studi alimentari", spiego sbuffando. 
Premo un altro pulsante.
Ancora niente.
"Ti trovavi bene alla Redflame?", esordisce poi papà.
Scuoto le spalle.
"Meglio di quanto voi pensiate", rispondo seccamente.
Poi allungo il dito verso un bottone rosso, premendolo.
Il finestrino lentamente si abbassa.
Centro!
"Conosci benissimo il motivo della tua sospensione", continua poi lui.
Non rispondo, stavolta.
E neanche lui insiste troppo.
"Bhè, comunque l'ospedale è qua dietro, siamo quasi arrivati. Sai già cosa dire al ragazzo?", continua ad un tratto.
"E da quando Gerard Way si prepara i discorsi prima di farli?", sghignazzo sarcastico, roteando gli occhi.
"Non si sa mai", conclude infine mio padre, sorridendomi e parcheggiando.
Poi lo vedo scendere dall'auto.
Tiro un lungo sospiro, prima di seguirlo verso l'esterno.
 
 
Il giallo canarino non mi è mai sembrato tanto orribile.
La stanza ospedaliera è sempre la solita.
Stesse pareti bianche, stessi lettini, stesse mattonelle lucide e scivolose.
Ma manca qualcosa, per ottenere la perfezione di questa composizione quasi artistica.
Manca Frank.
Mio padre mi ha mollato davanti all'entrata, costringendomi a raggiungere la meta da solo.
Ma l'interessato non c'è.
Da nessuna parte.
Anche il bagno è vuoto.
Forse sarà uscito un attimo.
Sbuffo, avvicinandomi al lettino di fronte, e sedendomi sul bordo.
La finestra è socchiusa, e riesco a sentire un debole cinguettio.
Per il resto, regna il silenzio.
Mi guardo bene intorno.
Non so come faccia a passare le sue giornate qui, fra lenzuola, infermiere e medicinali antidepressivi.
Occorrerebbe la flebo, giusto per enfatizzare il tutto.
Sghignazzo fra me e me, mentre mi stiro gli arti.
Poi, il mio sguardo cade inevitabilmente su un piccolo quaderno verde oliva, incastrato fra gli scaffali di uno dei comodini gialli.
Deglutisco.
No, non posso prenderlo.
Non posso sfogliarlo.
Se dovesse appartenere a Frank finirei per entrare nella sua vita privata.
Potrei rovinare tutto.
Come al solito.
Ma accidenti, se non voleva che qualcuno lo vedesse, doveva nasconderlo meglio.
Mi guardo bene intorno.
La stanza sembra deserta.
Sento alcune voci provenire dall'esterno, ma sono abbastanza sicuro che appartengano agli infermieri del reparto.
Respiro profondamente -molto profondamente- prima di allungare una mano tremante verso il quaderno, e lentamente, afferrarlo.
 
È curioso avere fra le dita qualcosa di simile.
E pensare che non ho mai aperto neanche il libretto degli appunti di Michael.
Ho il senso dell'umanità e del rispetto, ogni tanto.
Ma dannazione, adesso ho accesso a qualcosa di più.
Osservo attentamente l'oggetto.
Sulla copertina è stato scritto un nome con un pennarello indelebile.
 
Frank Iero.
 
Appartiene a lui, ne sono praticamente sicuro.
Almenoché non si tratti di un altro Frank.
Dopotutto non sono a conoscenza del suo cognome.
Scuoto la testa.
Con un po' di forza, sfoglio la prima pagina verso sinistra.
Il cuore che batte violentemente nel petto.
 
E poi, appaiono davanti ai miei occhi tre figure geometriche, dei numeri, e dei calcoli improponibili.
Appunti di matematica?
Disgustoso.
Sbuffo, proseguendo.
Anche la seconda pagina è occupata dalle stesse cose.
E la terza.
E la quarta.
La quinta mi offre interessanti appunti di chimica.
La salto.
Arrivo alla sesta.
Alla settima e poi all'ottava.
Ma alla nona pagina, qualcosa cambia.
Non vedo più alcun calcolo, né relazione su esperimenti biochimici.
Restano soltanto delle frasi, scritte disordinatamente per tutto il foglio.
 
Oggi mi hanno ricoverato in ospedale. Uno stronzo ha aperto la porta del bagno, e sono riusciti a fermarmi.
Devo vendicarmi.
 
L'ultima parte mi fa sussultare.
Vendicarsi?
Vuole vendicarsi di me?
Deglutisco, per poi continuare verso la pagina successiva.
 
I giorni qua dentro passano lenti.
Visite generali la mattina, sedute psicologiche il pomeriggio.
Uno schifo. Vorrei soltanto che qualcuno aprisse quella maledettissima porta, e mi dicesse qualcosa.
Una qualunque.
 
Mi mordo violentemente il labbro inferiore.
Merda.
Dovrei continuare?
Chiudo fermamente gli occhi, e porto il lembo di carta dalla parte opposta.
La figura che mi si materializza davanti mi fa indietreggiare sul letto.
 
Due occhi sono disegnati al centro del foglio, contornati da una sottile linea verde.
Anche qui sono presenti delle scritte.
Inizio a leggere:
 
Oggi qualcuno ha varcato la porta della mia stanza. Si chiama Gerard.
Ha i capelli lunghi fino alla base del collo, e degli occhi verdi che gli illuminano il viso con una luce...diversa, dagli altri.
La sua voce è particolare, leggermente nasale e piacevole da ascoltare.
Ma merda, i suoi occhi.
Ti entrano dentro.
Gerard è riuscito a guardarmi nel modo giusto.
Se soltanto non fosse stato lui, a trovarmi tramortito nel bagno...Lo odio per questo.
 
Inizio a tremare.
Nella mia testa si sta scatenando una guerra di pensieri, di emozioni e rabbia.
Tanta rabbia.
Frank ha dedicato una pagina del suo quaderno a me.
Io, quello che lo ha ucciso.
Quegli occhi, sono i miei.
E incredibile, sostiene anche che lo abbia guardato nel modo giusto, mentre io non sono riuscito a superare quel muro opaco che lo ricopre.
No, no, no.
Perché avrebbe dovuto farlo?
Lui mi odia.
Anche io, mi odierei.
Ma allora perché? Perché, dannazione?
 
Con un gesto scattante ripongo il quaderno al suo posto, scuotendo la testa e alzandomi dal letto.
Mi strofino bene il viso, facendo mente locale, e riassestando il respiro.
Dalla porta della stanza, improvvisamente appare Lui.
Ma è strano, è diverso.
Indossa jeans strappati e una maglietta a righe nere e bianche.
Dov'è finito il pigiama ospedaliero?
 
"Cosa ci fai qui?", domanda confuso.
"Ero venuto a cercarti", rispondo inespressivo.
"Eccomi.", continua Lui.
"Bhè, come stai?", indago iniziando a fremere.
"Sono stato meglio", dice, avvicinandosi al letto e afferrando il quaderno verde dal comodino.
Lo guarda per qualche attimo.
"Oggi mi dimettono", parla poi.
"Davvero? E cosa farai?", chiedo curioso.
"Ritornerò a scuola. Alla Redflame.", spiega, riponendo il blocchetto in una borsa ai suoi piedi.
Deglutisco.
Non possono averlo fatto davvero.
Ora capisco perché mi hanno mandato via.
Hanno fatto spazio a Lui.
Alla vittima.
Io sono il carnefice.
Due parole che non possono andare d'accordo.
"Ci incontreremo lì", aggiunge, accennando un timido sorriso.
Con il petto in fiamme, scuoto lentamente la testa.
"No. Mi hanno sospeso.", la mia voce esce come un flebile sussurro.
Frank spalanca leggermente gli occhi.
"Cosa? E per quale motivo?", indaga sbalordito.
"Hanno ammesso te. E hanno mandato via me.", rispondo.
Lui abbassa lo sguardo.
"Io...Mi dispiace", mormora poi.
Faccio spallucce.
"Ce ne faremo una ragione. Hanno pensato che avessi già troppi problemi, per poter continuare a vederti ogni giorno a scuola".
Frank si morde il labbro, puntando i suoi occhi nei miei.
“Ti causo dei problemi?", domanda con una timidezza che non avevo mai notato.
"Tu? No. Sono gli altri che me li causano. Psicologi e parenti vari.".
"Anche tu frequenti uno psicologo?", insiste.
"Sono costretto a farlo. I miei genitori sono convinti che un figlio Indaco necessiti di uno specialista", rispondo.
Il ragazzo apre la bocca, senza produrre alcun suono.
Merda.
Cosa ho fatto?
Non avrei dovuto dirglielo.
No, no, no, dannazione!
Nessuno lo sa.
Nessuno lo deve sapere.
Perché ho parlato?
Frank ricomincia a parlare:
"Non sapevo che tu-"
"E non dovevi saperlo", lo interrompo immediatamente io, le mani che tremano.
"Sarà meglio che me ne vada. Buona fortuna alla Redflame.", lo saluto velocemente, uscendo dalla stanza e catapultandomi all'esterno.
Vaffanculo.
Vaffanculo.
E vaffanculo.
Mi appoggio ad un muretto scolorito ad un lato della porta principale dell'ospedale, sospirando pesantemente e grattandomi nervosamente il collo.
Non è possibile.
Non è possibile che ogni fottuta volta le cose fra noi debbano finire così.
Basta.
Voglio scappare da qui.
Voglio smettere di essere Gerard.
“Fatemi uscire da qui”, borbotto fra me e me, sedendomi definitivamente sul muretto.
 
“Da qui dove?”, chiede una voce alle mie spalle.
Non serve voltarsi, per capire di chi si tratta.
“Dalla mia vita. Sono stanco di essere Gerard.”, rispondo con un sussurro.
“Io ho provato a farlo, ma uno stronzo me l'ha impedito", sghignazza Frank.
“Non sto parlando del suicidio. Non sto parlando della morte. Mi riferisco alla vita. Voglio cambiarla”, spiego irritato.
Non pensavo che mi avrebbe seguito.
Ho pensato bene di andarmene per privarlo di un problema in più, non per farmi seguire.
“Ah.”, commenta seccamente il ragazzo.
Sarà quella parola, suicidio, a ghiacciarlo in questo scudo di rabbia. Rabbia che non gli appartiene.
“E perché vuoi farlo?”, insiste, avvicinandosi, e sedendosi alla mia sinistra.
“Perché nessuno capisce il vero Gerard. Nessuno vuole provare a conoscerlo. Non voglio essere qualcuno che deve apparire per ciò che non è.”, dico freddamente.
Ma cosa sto facendo?
Sto davvero spiegando tutto questo ad un perfetto sconosciuto?
 
“A me piacerebbe conoscerti”, sputa ad un tratto Frank.
Sposto velocemente il mio sguardo allibito su di lui.
“Cosa?”, domando.
Lo vedo deglutire.
Non risponde.
Riprendo a fissare la punta delle mie scarpe.
Odio dover chiedere spiegazioni.
“Scusa”, mormora poi.
Annuisco.
Un leggero vento inizia a soffiare dietro di noi.
“Non ti piacerebbe”, esclamo.
“Fare cosa?”.
“Conoscermi”, rispondo.
“Cosa ne sai?”, domanda irritato.
“Ho esperienza in questo campo”, dico ghignando.
“Ah sì?”, insiste lui con sarcasmo.
“So come vi comportate, voi. Avete compassione per quelli come me, vi fingete interessati alla loro vita, li sopportate per un po', ed infine li abbandonate. Sempre così.”, spiego scuotendo la testa.
Voi?”, chiede aumentando il tono di voce.
“Sì, voi esterni.”.
“Esterni?”.
“Esatto. Voi che siete sicuri di aver capito tutto, senza aver provato nulla.”.
“Ma insomma, ti senti? Pensi che le persone siano tutte uguali?”, esclama alzandosi.
“È questo che pensi di me? Avanti? È questo che pensi di me?”, strilla poi, posizionandosi davanti al mio viso confuso.
Indietreggio di qualche centimetro.
Merda.
“È questo che pensi di me, Gerard?”, ripete riassestandosi.
Non rispondo.
Non so cosa penso.
Non so cosa voglio.
“E allora per quale motivo hai aperto quella porta?”, conclude, con il labbro inferiore tremante, e il solito velo sugli occhi.
Una strana sensazione mi costringe a distogliere lo sguardo, e a farmi muovere nervosamente le dita delle mani.
E se fosse tutto soltanto uno scherzo?
E se niente di tutto questo fosse mai successo realmente?
Se stessi sognando?
 
“Bene. Sono contento che ti abbiano sospeso dalla Redflame per colpa mia.
Almeno posso dire di aver fatto qualcosa di buono”, mormora infine Frank, allontanandosi di qualche passo.
“Ti credevo diverso, Gerard”, conclude poi, scuotendo la testa, e andandosene.
Una fitta allo stomaco mi destabilizza.
Perfetto.
Se questo si chiama dolore, allora devo ammetterlo.
È fottutamente insopportabile.
 
***
 
Una settimana più tardi.
 
I giorni stanno passando nel modo più intenso, spassoso e grandioso che potessi immaginare.
Sole cocente, amici ritrovati, parenti che bussano alla mia porta scaricandomi nella stanza migliaia di magnifici regali.
Continue escursioni, gite in famiglia, feste con musica troppo alta.
E poi gioia interminabile, sorrisi che mi circondano quotidianamente tranquillizzandomi, e rendendo la mia vita qualcosa di magnifico.
 
O forse è tutto il contrario.
 
Non avrei mai pensato di poterlo dire, ma sì, mi manca la Redflame.
Mi manca Bob, e mi manca la sua matita.
Mi mancano Ann e le sue intuizioni paranormali.
Mi manca persino Paul.
Mi manca sentirmi un ragazzo normale.
Ma infondo sono contento per Frank. Avrà anche lui la sua occasione per evitare di chiudersi in sé stesso. Passerà le sue giornate insieme ai suoi amici, alle ragazze, ai professori che lo guarderanno impietositi.
Sembra tutto così strano.
Frank è entrato nella mia vita senza preavviso.
Senza la minima precauzione.
Si è infiltrato nella mia mente come una saetta, bruciando tutto il combustibile rimasto.
Ed io resto qui, fermo, ad osservare la mia vita balzare da una parte all’altra, instabile e delicata, con una forchetta fra le dita, seduto attorno al tavolo da pranzo.
Incredibile quanto possano far male le persone.
 
“Non ho fame”, esclamo ad un tratto, gettando la posata nel piatto, e producendo un fastidioso rumore di ferro e ceramica.
“Avanti, Gerard, sono giorni che non metti qualcosa fra i denti.”, mi rimprovera mia madre scuotendo la testa.
“Sono sazio”, commento io.
“E di cosa?”, domanda ingenuamente Michael.
“Della mia vita”, rispondo con un’espressione impassibile dipinta sul volto.
Mio fratello annuisce e abbassa lo sguardo.
“Se permettete”, aggiungo poi alzandomi dalla sedia, e allontanandomi verso le scale.
Nessuno che prova a fermarmi, nessuno che mi urla dietro.
È bello sentirsi insignificanti.
 
Arrivo fino alla mia camera a passo lento, entrando e distendendomi sul letto.
Guardo le travi del soffitto.
Possono risultare davvero interessanti quando non fai nulla dalla mattina alla sera, non frequenti nessuna scuola, e non hai nessuno con cui parlare.
Ann e gli altri non hanno avuto neanche il coraggio di telefonarmi.
Non un messaggio.
Non un saluto.
Ma se devo ammetterlo, li capisco.
Avranno avuto sicuramente paura di me.
Del mio atteggiamento scostante, e delle mie inquietanti crisi.
Anche io mi faccio paura, qualche volta.
I colori spaventano sempre tutti.
 
Ad un tratto, sento squillare il telefono.
Si tratta del cordless.
“Pronto?”, risponde mia mamma.
Sbuffo.
“Sì, sono la signora Way. Posso sapere chi parla?”, continua mamma.
Silenzio.
Tossisco.
Due volte.
“Oh. Da quando?”, domanda leggermente confusa.
Dev’essere sicuramente successo qualcosa.
Ma non m’interessa.
Preferisco tossire un’altra volta.
“Non so, dovrei parlarne con lui.”, prosegue.
Lui?
Io? O Michael?
“Qual è la fonte della richiesta?”, indaga poi.
Stavolta allungo l’orecchio.
“Capisco. Grazie di averci avvertito. Arrivederci.”.
La chiamata si conclude con il classico segnale acustico.
Bip.
Ed ecco che ritorna il silenzio.
Mi alzo dal letto intonando una qualche melodia inesistente, accendendo il mio portatile e stravaccandomi sulla sedia girevole.
Non amo particolarmente la tecnologia.
Ma accidenti, non posso negare la sua utilità.
E non posso negare neanche l’evidenza: sono il mago della tecnologia.
Certo, non è una gran-
“Gerard!”, sento chiamare mia mamma dal piano di sotto.
E va bene, forse quella telefonata mi riguardava.
“Scendi. Ti devo parlare.”, esclama.
Deglutisco.
Poi, inizio a scendere.
 
“Chi era al telefono?”, dico raggiungendola nel salotto, e colpendo immediatamente il punto focale.
“Una delle segretarie della Redflame”, risponde lei, lo sguardo fisso sul pavimento.
Cosa vogliono ancora da me?
“Che ti ha detto?”, indago curioso.
Mia madre mi punta gli occhi confusi addosso.
“Sei stato riammesso alla scuola.”, risponde freddamente.
Spalanco la bocca.
“E per quale motivo?”, domando paonazzo.
“C’è stata una richiesta per la tua ammissione”, spiega.
Faccio roteare gli occhi.
“E sentiamo, chi sarebbe il pazzo che avrebbe chiesto una cosa simile?”, chiedo alzando il tono della voce.
Non mi arriva alcuna risposta.
Orribile silenzio.
Sollevo un sopracciglio.
“Mamma?”, esclamo in modo interrogativo.
Lei si guarda intorno. Noto una leggera ansia.
Mi avvicino, poggiandole le mani su entrambe le spalle.
“Chi è stato?”, ripeto, in un sussurro.
Un lungo sospiro.
“La signora Iero. La madre di Frank”, risponde mia madre tutta d’un fiato.
 
Mollo immediatamente la presa, indietreggiando.
“Cosa? E perché?”, domando, iniziando a tremare.
Mamma scuote la testa.
“Non lo so, non ne ho idea. Sembra però che la Preside voglia farvi incontrare, prima di ammetterti ufficialmente”, spiega poi mordendosi un labbro.
Sto per obiettare, quando improvvisamente mi fermo.
Noto qualcosa di strano, nei suoi occhi.
“Mamma?”, mi avvicino di nuovo, “tu sai già quand’è che io e Frank dovremo incontrarci, vero?”, indago.
Mia madre cerca inutilmente di distogliere lo sguardo dal mio.
“No”, risponde seccamente.
Scuoto la testa.
“Non sono quel tipo di persona che si fa prendere in giro. Avanti, quando è l’appuntamento?”, insisto.
Lei resiste un po’, prima di cedere ed esclamare un inquietante:
“Oggi. Alle quattordici nel parco qua di fronte.”.
Rimango allibito.
Il mio viso è ghiacciato, così come il mio intero corpo.
“E che ore sono adesso?”, domando in un sussurro.
“Le tredici”.
Meraviglioso.
Annuisco, e senza aggiungere altro, a testa bassa, esco di casa.
Arriverò sicuramente in anticipo.
 
 
 
 
 
Il tempo non è mai passato così velocemente.
Arrivare al parco senza cedere ad un’improvvisa voglia di scappare è stata un’impresa, lo ammetto.
Ma aspettare Frank seduto su una panchina è un gioco da ragazzi.
Basta perdersi in qualche pensiero, fissare il laghetto con le anatre per un paio di minuti, e magicamente…puf, sono le quattordici.
Incredibile, no?
Incredibile quanto la pioggia.
O quanto il sole d’inverno.
O ancora meglio quanto un fulmine a ciel sereno.
O perché no, quanto l’espressione del ragazzo che si sta avvicinando verso la mia direzione.
Lo guardo meglio.
Oh, ma certo.
È Frank.
 
“Ciao.”, mi saluta, sedendosi al mio fianco.
Non rispondo.
Non ce n’è bisogno.
Invece chiedo:
“Come stai?”.
“Bene. E tu?”.
“Peggio di te”, rispondo improvvisando un ghigno.
“Allora devi stare davvero molto male”, ridacchia annuendo.
“Ma tu hai detto di stare bene, o sbaglio?”, commento voltandomi verso di lui, e trasmettendo un evidente sarcasmo.
La sua espressione ritorna maledettamente seria.
“Vai subito al dunque. Cosa ti è saltato in mente di fare?”, domando accorciando i tempi.
Adoro quando esce fuori il Gerard arrogante.
Dopotutto sono sempre stato così, io.
Scostante e opportunista.
Frank distoglie lo sguardo, accavalla le gambe, e infila entrambe le mani nelle tasche della felpa che indossa.
“È passata una settimana, da quando sono rientrato alla Redflame”, inizia, muovendo ritmicamente una gamba.
“So che può sembrare stupido, ma…Vedi, mi sento in colpa a frequentare una scuola pensando che ho privato il posto a qualcuno che se lo meritava più di me.”, continua poi, senza prendere fiato.
Oh.
Commovente.
“E…?”, lo incito.
Lui si guarda intorno deglutendo, e mostrando un certo imbarazzo.
Passano alcuni secondi di silenzio.
Le anatre che starnazzano nel laghetto.
Il vento che soffia intorno a noi.
E il sole che si esibisce in una sorta di danza insieme alle nuvole.
Attendere una risposta non è mai stato così divertente.
 
“E non voglio lasciarti solo.”, conclude poi ad un tratto Frank, arrossendo leggermente.
Un colpo violento mi fa contorcere internamente.
Cosa?
Lui non vuole lasciarmi solo?
Ma dove siamo, in una Telenovela?
“Io sto benissimo da solo”, obietto facendomi un po’ di forza.
“No! Smettila di fingere di essere qualcuno che non sei!”, scatta in piedi il ragazzo.
Anche io mi alzo.
“Perché, tu sai chi sono?”, lo aggredisco con sarcasmo.
Lui indietreggia, ma immediatamente ritorna all’attacco:
“Sì. Sei esattamente come me.”.
Sollevo un sopracciglio.
Frank abbassa lo sguardo, e si inumidisce le labbra.
Diverso.”, mormora poi in un sussurro.
Deglutiamo entrambi.
E ci guardiamo.
Negli occhi.
Come la prima volta.
Senza niente di sbagliato, senza alcun rammarico.
Senza paura.
Con la consapevolezza di essere due semplici ragazzi in cerca di aiuto.
E i nostri sguardi che si cercano, le nostre labbra che tentano di aprirsi per dire qualcosa.
Qualcosa di sicuramente inadatto.
Ma lo sappiamo tutti, ormai, che le parole sono sempre inadatte.
Inadatte come me e Frank.
Così diversi dal mondo.
 
E improvvisamente, non sento più quella solita voglia di scappare via.
 
***
Buona sera, popolo virtuale.
LO SO, non aggiorno da tipo troppo tempo.
Ma ormai lo sappiamo tutti.
Io sono un po’ così, fuori dal mondo, e sempre fra le nuvole.
Allora, ho un po’ di notizie.
Prima (meravigliosa) notizia: ho un computer.
Dopo mesi (anni!) di attesa, i miei genitori si sono accorti dell’assenza di un computer nella mia camera (fino ad ora ritenevano che fossi ancora troppo piccola per averne uno J), e me lo hanno comprato.
Seconda notizia (discreta conseguente della prima): da adesso scriverò ad intervalli del tutto irregolari. Userò sì un computer, che semplificherà notevolmente il lavoro, ma sarò anche obbligata a studiare per i due maledettissimi debiti che mi sono portata dietro.
Quindi bhè, vi invito a non abbandonare questa Fanfic, e anzi, a scrivermi cosa ne pensate.
Perché dovete sapere che questo capitolo, per quanto orribile possa essere, è molto importante per me, e per la storia in generale.
Mi piaceva evidenziare l’affetto fraterno fra Michael e Gerard, e il rapporto magnifico che si sta invece creando con Frank, anche se attraverso pochi sguardi.
Come vedete stanno iniziando a succedere cose.
Con questo vi saluto, e vi auguro un buon proseguimento di vacanze, che spero non saranno orribili quanto le mie.
Xoxo,
Virgyl,
 
Ps: cosa ne pensate del personaggio di Cooper? E di quello della Gullivan? scrivetemiiiii

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Capitolo 7
*** The world out the window. ***


                                                   STREETS
                                                                   OF
                                                          NOVEMBER
 
Canzone: Oceaan- Racoon (La canzone è in lingua olandese, ma vale la pena ascoltarla, è davvero bellissima. Scoprirete più avanti nel capitolo il motivo di questa scelta).
 
CAPITOLO SESTO.
 
 
“Voglio conoscere Frank”.
Guardo mio fratello assottigliando gli occhi.
“Ti ho detto di no”, mi impongo, per la terza volta nel giro di pochi minuti, mentre con una mano cerco di prendere l’enorme valigia blu sopra l’armadio della mia stanza.
“Per favore, Gerard. Voglio conoscere la persona che ti ha permesso di ritornare alla Redflame!”, insiste Michael, afferrandomi per un braccio.
Mi limito a scuotere la testa con più convinzione.
Ho paura che la sedia su cui sono salito possa crollare da un momento all’altro.
Al diavolo i mobili alti.
E al diavolo mia madre che ci poggia le cose sopra.
Ad un tratto mio fratello, con un movimento brusco, mi tira verso di sé, facendomi perdere l’equilibrio.
Rumore di legno e odore di polvere.
E mi ritrovo steso al suolo, con la valigia che preme sul mio stomaco, e un dolore alla gamba destra.
 
“Dannazione, Michael! Ma cosa ti è preso?”, strillo, rialzandomi.
“Non mi ascolti, quando ti parlo! Voglio conoscere Frank”, ripete, scandendo le ultime parole.
“Ascoltami bene”, inizio, avvicinandomi, e puntandogli un dito contro, “Frank non è un’attrazione né tantomeno un fenomeno da baraccone. E no, non è neanche un mio amico!”, il tono della mia voce si alza, quando Michael indietreggia deglutendo.
“Quindi vedi di smetterla. Nemmeno io conosco Frank.”, aggiungo, scuotendo la testa.
“Nemmeno io lo conosco”, ripeto infine, in un debole mormorio.
Michael non replica.
Finalmente, silenzio.
Mi chino velocemente, per afferrare la valigia, e portarla al piano di sotto.
Mia madre mi aspetta, e la colazione non si cucina certo da sola.
 
 
È passata una settimana, da quando ho ricominciato a frequentare il liceo.
Mia madre ha avuto un colloquio con la Gullivan, che ha affermato di non aver mai trovato uno studente tanto speciale quanto me.
Ma sono abbastanza sicuro del fatto che la Preside dica la stessa cosa a chiunque si presenti nel suo ufficio per motivi che riguardano la sua fama in questa scuola.
Dopotutto viviamo a New York.
Qui se non sei qualcuno, muori nessuno.
È questo che importa alla gente.
Alla gente non importa essere.
Alla gente interessa soltanto diventare.
 
 
A Frank invece interessa conoscermi.
Ci siamo incontrati più volte, durante le pause pranzo.
Ma mi sono limitato a qualche saluto, niente di più.
In fondo ha scelto lui di farmi ritornare alla Redflame, per me sarebbe stato meglio lasciar perdere.
Dimenticare.
E lasciar perdere.
Frank è più solo di me, comunque.
Mentre io mangio attorno al tavolo di Bob e gli altri, Lui stuzzica lentamente il suo pasto in un angolo della mensa, senza nessuno che gli tiri su il morale con un qualche  tipo di cazzata.
Nessuno che gli si siede accanto.
Nessuno che chiama il suo nome.
 
“Insomma, Gerard. Vai da lui, ti cerca con lo sguardo da quando sei entrato.”, mi ha detto Ann ieri, mentre mi stavo pregustando il mio pollo fritto.
“No”, le ho risposto.
“Cosa ti ha fatto di male?”, ha insistito lei, spostando il sacchetto del pollo dalla mia vista.
“E me lo chiedi anche?!”, ho esclamato irritato, allungando una mano verso il mio pranzo.
Ma non sono riuscito a riprenderlo.
E ho capito che Ann è una ragazza a cui le cose vanno terminate di dire.
“È soltanto colpa sua se adesso mi ritrovo in questa situazione”,  ho aggiunto rassegnato, sbuffando.
“Quale situazione? Non mi sembra che sia cambiato qualcosa da quando lo hai trovato morto nel bagno”, mi ha aggredito, e ha stretto a sé il sacchetto.
“Non era morto”, le ho ringhiato.
“Ma davvero?”, ha commentato sarcastica lei.
Ho aperto e richiuso immediatamente la bocca.
“Non ho voglia di andargli a parlare”, ho affermato infine.
“Ho paura di diventare-”, mi sono bloccato mentre parlavo.
Una sensazione di vuoto mi ha colpito improvvisamente lo stomaco, impedendomi di continuare.
La mano ha iniziato a tremare.
“Diventare suo… amico?”, ha provato a precedermi Annah.
Ho scosso la testa, velocemente.
“Ho paura di diventare la sua salvezza.”.
 
E poco dopo, avevo il mio pollo fritto di nuovo stretto fra le mani.
 
 
E adesso mi sto preparando per partire.
La scuola è chiusa, siamo in vacanza.
 
Le vacanze di Natale sono sempre le più attese, ma anche le più noiose.
Quest’anno io e la mia famiglia siamo diretti a Belleville, nel New Jersey.
Passeremo questa settimana insieme a mia nonna.
Tengo molto a lei.
In fondo è grazie al suo intervento se non sono dovuto rimanere chiuso in uno studio psichiatrico durante tutta la mia infanzia.
Mia madre però pretende che ogni anno io debba portare a mia nonna un regalo.
Ma lei non sa che a Elena non piacciono, i regali.
Mia mamma non conosce bene mia nonna.
Lei non vuole conoscerla.
Non ha voluto.
Io invece sono stato obbligato a farlo.
Nonna è sempre stata la mia migliore amica, insieme a mio padre.
Ho passato insieme a quella donna momenti tanto allegri quanto tristi, che lei ha saputo rendere insignificanti con i suoi modi duri e selettivi.
È per questo che non voglio ricevere regali da parte sua.
Ha già fatto abbastanza per me.
Ha già provato a rendermi uguale alle altre persone.
E diverso dal mondo.
 
 
 
Faccio scivolare la valigia sul sedile posteriore, indirizzandola verso il portabagagli.
L’ho riempita con tutto l’occorrente.
Qualche maglietta, tre paia di pantaloni rigorosamente scuri, biancheria intima e il berretto verde militare che indosso d’inverno.
Oh, ci ho infilato anche il mio album da disegno.
E le matite.
E i carboncini.
L’essenziale, insomma.
 
“Sei curioso di sapere cosa ti ha regalato la nonna?”, mi domanda mia madre, sorprendendomi alle spalle.
“Non mi piacciono i regali”, rispondo, incastrando al meglio la valigia sul ripiano dell’auto.
“Frank ti ha regalato qualcosa?”, mi ignora lei, aiutandomi a caricare la roba.
“Certo che no!”, esclamo io, sulla difensiva.
“Tu avresti dovuto, però”, commenta con tranquillità.
“E cosa se ne fa di un mio regalo?”, borbotto, irritato.
“Lo faresti davvero felice, Gerard”, dice sorridente mia mamma, passandomi una mano sul viso.
“Sciocchezze”, controbatto sbuffando.
“Perché non vai a comprargliene uno? Sei ancora in tempo”, ribadisce lei, annuendo.
Faccio roteare gli occhi.
“Se dico di no cosa succede?”, invoco con sarcasmo.
“Potrai dire addio al tuo album da disegno”, mi avverte, stendendo le labbra in un odioso sorriso.
“Ti aspetteremo qui, tu vai a fare ciò che devi fare. A dopo”, mi saluta, baciandomi la guancia.
Maledizione.
Se c'è qualcosa peggiore dell'andare a comprare un regalo per qualcuno, allora sono proprio curioso di scoprire di cosa si tratta.
Non pensavo che esistessero persone in grado di obbligarmi a fare una cosa simile.
Come mia madre.
 
 
 
Non fidatevi mai di chi vi dice che New York è una città grande.
New York è la grande città delle persone piccole.
Delle persone che si accontentano.
E no, io non sono una persona che si accontenta.
Non sono neanche certo di essere una persona.
New York è il posto perfetto per chi adora spendere i soldi.
Io ad esempio non spendo mai i miei soldi per sfizi personali.
Preferisco conservarli e poi regalarli a Frank sotto forma di un banale e obbligato regalo natalizio.
È così che funziona.
 
I negozi in questa zona vendono esclusivamente souvenir, torte glassate e vestiti costosi.
Non voglio portare a Frank un braccialetto colorato, né un dolce ipercalorico e né tantomeno una camicia firmata da uno stilista.
Non conosco quel ragazzo.
No ho idea di cosa gli potrebbe far piacere ricevere –per di più da uno come me.
E poi Lui non mi ha regalato nulla.
Non che mi importi, ma dopotutto gli ho salvato la vita.
O quasi.
Dipende dai punti di vista.
Cammino velocemente sulla strada che percorrevo fino a poco tempo fa insieme a Jonah, il ragazzetto alto e ossuto che frequentava le lezioni private di inglese insieme a me.
Non ho mai saputo per certo quali tipi di problemi avesse, quel ragazzo.
Inizialmente pensavo che fosse stato messo lì per farmi compagnia, e che in realtà non aveva alcun danno mentale o fisico.
Poi però ho realizzato che le magliette a maniche lunghe d'estate non si indossano, e che nessuno ha delle escrescenze sul braccio.
Ho scoperto che era malato di cancro, e che i dottori gli avevano applicato un picc* per facilitare l'entrata delle dosi di chemioterapia nelle sue vene.
Jonah è morto l'anno scorso.
Non siamo mai stati amici, ma solitamente dopo due ore di letture e analisi testuali ci ritrovavamo in questo posto per mangiare insieme un gelato.
Oh, ecco il posto in cui lo compravamo.
E se ne prendessi uno per Frank?
No, si scioglierebbe.
E mia madre non sarebbe eccessivamente contenta di vedermi tornare con una scatola di crema ghiacciata fra le mani.
Continuo a camminare, soffermandomi di tanto in tanto ad osservare le vetrine di qualche punto vendita che pare essere vagamente più interessante degli altri.
Ma adesso sono più confuso di prima.
Mio padre mi ha sempre detto che le persone che vediamo spesso ma che non siamo in grado di conoscere a fondo sono quelle più simili a noi.
Non so quanto possa essere vera questa sua teoria.
Ma se dovesse aver ragione, significherebbe che il regalo giusto per Frank è qualcosa che piace a me.
Dovrei forse comprargli un fumetto?
Oppure un nuovo album da disegno?
O magari il nuovo CD del mio gruppo preferito!
Non scherziamo, Frank ed io siamo due universi a contrasto.
 
Dopo lo scontro con qualcosa e un forte rumore, mi ritrovo improvvisamente carponi. Le mani che poggiano sull'asfalto, e la caviglia destra pulsante e dolorante.
“Merda!”, esclamo, cercando di capire cosa diavolo sia successo.
In terra, vicino a me, c'è uno spesso tubo di metallo.
Impreco mentalmente, chiedendomi chi possa averlo messo inutilmente sul bordo di un marciapiede.
“Lo dicevo, io, che i ragazzi di oggi non stanno bene attenti a dove mettono i piedi”, è una voce maschile a farmi voltare.
Un uomo alto e magro se ne sta sulla soglia della porta di un negozio, scuotendo lentamente la testa e sghignazzando sotto due enormi baffi corvini.
Due delle sue dita sorreggono una sigaretta.
“Insomma, dico a te, giovanotto!”, esordisce, guardandomi, e subito dopo scoppiando in una risata soffocata.
“Non l'avevo visto”, mormoro, alludendo al tubo.
“Cosa stavi facendo? Stavi per caso mandando un messaggio a qualcuno? Siete troppo distratti, ragazzi!”, insiste, senza smettere di ridacchiare.
“Stavo pensando”, affermo, sicuro di me.
Lui smette lentamente di ridere, soffermando il suo sguardo sul mio.
“Davvero? E a che cosa?”, mi domanda, incuriosito.
“A questo posto. Non mi piace.”, rispondo, sollevando le spalle.
“New York è la meta dei sognatori, ragazzo”, dice con teatralità, sollevando leggermente la mano con cui tiene la sigaretta.
“Può darsi. Ma io la trovo una città molto superficiale”, controbatto.
“Questo perché non visiti i posti giusti”, dichiara con saggezza.
“Dice così per spronarmi ad entrare nel suo negozio?”, chiedo sospettoso.
L'uomo sorride, annuendo.
“Lo dico perché sono un negoziante. E ho bisogno di soldi.”, conclude, invitandomi a seguirlo.
Deglutendo, mi avvicino.
Guardo attentamente l'insegna.
O ciò che ne è rimasto.
Un pannello sbiadito e consumato pende pericolosamente sopra la mia testa.
Guardo l'uomo.
Mi fa cenno di avanzare.
Respiro profondamente.
E sono dentro.
 
Le pareti ocra della stanza in cui mi trovo rendono l'atmosfera più inquietante di quanto già non sia.
Per non parlare degli specchi.
Questo posto è pieno di specchi.
Grandi, piccoli, a parete o di medie dimensioni.
Vedo il mio corpo e il mio cappotto nero riflessi da ogni parte.
Quest'uomo dà l'idea di essere un collezionista di specchi antichi, che poi rivende nel centro di New York spacciandoli per pregiati oggetti artigianali.
 
“Colleziono specchi. Mi piace comprarli a basso prezzo per poi metterli in mostra ingannando la gente”, esclama lui ad un tratto, affermando pienamente la mia intuizione.
“Capisco”, commento, spostandomi lentamente e scrutando gli innumerevoli pezzi di vetro.
“Il mio nome è Edmund”, aggiunge poi, sorprendendomi alle spalle.
“Edmund è un nome inglese”, osservo, voltandomi.
“Esatto, vengo da Londra”, spiega, compiaciuto.
Mi chiedo cosa possa averlo spinto a svelare il suo nome britannico ad un cliente casuale come me.
“Edmund Harvey”, ripete aggiungendo il cognome, e porgendomi una mano.
Esito un po’, prima di stringerla.
“Gerard. Gerard Way”, mormoro infine, decidendomi a far unire le nostre dita.
“Non penso che questo sia il posto giusto per te, Gerard”, ridacchia Edmund, indicando gli specchi, e aspirando nuovamente dalla sigaretta.
“Mia madre mi ha obbligato a comprare un regalo”, spiego in fretta, riluttante.
“Dovresti provare al centro commerciale all'angolo. Lì vendono molte cose”, mi suggerisce.
“Non mi piacciono i posti troppo affollati”, ammetto, abbassando leggermente lo sguardo.
Poi, mi allontano di qualche passo, soffermandomi a guardare gli oggetti ammassati vicino alle pareti della stanza.
“Ti piacciono questi specchi?”, chiede poi, sistemandosi dietro il bancone della cassa.
“Neanche troppo”, rispondo, leggermente annoiato, mentre perlustro gli articoli.
“Neanche a me piacciono. Gli specchi sono per i superficiali”, argomenta, con ovvietà.
Annuisco.
“È superficiale la persona a cui devi fare questo regalo?”, indaga, incuriosito.
“Non lo so. Non la conosco bene”, affermo, continuando a guardare il fastidioso luccichio che produce il riflesso della luce sui vetri.
“Allora sì, hai decisamente sbagliato negozio. Compra un libro, andrai sul sicuro. Non osare con un vecchio pezzo di vetro.”, esclama con mia sorpresa Edmund alle mie spalle.
Lo guardo accigliato.
Ma certo, ha ragione.
Cosa sto facendo qui?
Da quando si regalano degli specchi, per Natale?
E da quando io mi fermo a parlare con lo sconosciuto commesso di un negozio simile?
Un libro sarà perfetto.
Uno di quelli famosi con la firma dell'autore.
“Sì, sono d'accordo. Grazie lo stesso dell’aiuto, saluto timidamente il negoziante.
“A presto, Gerard”, mi saluta raggiante lui.
Faccio per voltarmi ed uscire, quando improvvisamente lo vedo.
È lì, poggiato ad uno scaffale, che riposa ricoperto da centimetri di polvere scura.
La forma decisamente singolare lo differenzia da tutti gli altri.
Sembra essere fatto di argento, ma dipinto con qualche pennellata di magenta.
Non è grande.
Non sembra eccessivamente piccolo.
È l'oggetto giusto.
Giusto per guardare negli occhi il nostro aspetto più visibile, ma meno veritiero.
 
“Cos'è quello?”, domando con insolito interesse, avvicinandomi a passo lento.
“Uhm, cosa? Questo?”, chiede Edmund, precedendomi, e afferrando l'oggetto.
Annuisco.
“È un pezzo abbastanza recente, costruito da alcuni ragazzi che pensavano di poter farci soldi. Alla fine me lo hanno regalato”, mi illustra, concludendo con una risata strozzata.
Me lo porge.
Lo afferro.
Non è un semplice specchio.
È un mosaico di specchi.
Quando lo guardo, il mio volto si riflette, proiettandosi in decine di piccole parti.
“È bellissimo”, mormoro, affascinato.
Edmund annuisce.
“Lo è per i giovani come te”, puntualizza.
Lo ignoro.
Ho fra le mani l'oggetto più affascinante che abbia mai visto.
I dettagli del contorno sono ben definiti, dipinti con grazia e precisione.
Aiutandomi con due dita, lo ripulisco sommariamente dallo sporco.
Sono incise delle parole sul bordo.
 
L'inguardabile riflesso della salvezza.
 
Salvezza.
La parola di cui ho più paura.
E la stessa parola che Frank cerca disperatamente.
Respiro profondamente.
“Lo compro”.
 
***
 
Camminare non mi è mai sembrato tanto pericoloso.
Tengo ben stretto al petto il pacchetto verde che contiene lo specchio, stando attento a non scivolare sopra altri tubi di ferro.
Edmund non sembrava troppo orgoglioso di quell'oggetto.
Non deve valere molto, visto il suo costo.
Ma non m'importa.
Non sono il tipo di persona che si fa certi problemi.
Arrivo a casa mia soddisfatto, cercando immediatamente mia madre.
 
“Hai comprato il regalo?”, domanda mamma non appena la trovo.
Annuisco, fremendo.
“Dimmi, cosa gli hai preso?”, indaga, sorridendomi.
“Uhm-nulla di speciale”, rispondo, accelerando i tempi.
Non voglio perdere il mio tempo con lei.
“Ma se ogni cosa che fai è speciale! Avanti, fammi vedere”, ridacchia, tendendo una mano verso il pacchetto.
Lo ritraggo.
Mamma mi guarda accigliata.
Sbuffo.
“È... È uno specchio”, affermo, con un certo nervosismo.
“Oh...”, reagisce lei, facendo in modo che l'espressione esaltata dell'inizio l'abbandoni definitivamente.
“Ma è uno specchio speciale. È diverso dagli altri. È un mosaico di specchi. Penso che sia un nuovo modo di interpretare la mente umana...Composta da centinaia di minuscole parti, tutte una diversa dall'altra”, la rassicuro io immediatamente, annuendo.
“Gerard, sei sicuro che sia il regalo adatto per Frank?”, chiede.
Mi limito ad annuire.
“Ma è un oggetto così... Femminile”, insiste.
La guardo con sorpresa.
“Ma cosa significa?”, esclamo, quasi offeso.
“Insomma, Gerard, hai mai visto nessuno regalare uno specchio ad un suo amico?”, mi aggredisce.
“Ma ti senti? Non devo vedere né prendere esempio da nessuno per poter comprare qualcosa di adatto! E poi pensavo che non esistessero più certi tipi di distinzioni”, controbatto, alzando il tono della mia voce.
“Cosa vuoi dire con questo? Che compreresti un mazzo di fiori ad un ragazzo e un trapano elettrico ad una ragazza?”, urla mia mamma, paonazza.
“Certo che sì!”, le rispondo, con ovvietà.
“Perché?!”, domanda aggressiva lei.
“Ma perché no?”, strillo, disperato.
Mamma boccheggia per qualche secondo.
Al diavolo lei e la sua fottuta mentalità sessista.
Al diavolo tutto.
Come se uno specchio potesse fare la differenza.
“Fantastico”, sussurra, accennando un sorriso.
Quanto farebbe per non avermi come figlio.
“Avanti, fatti accompagnare da Fred fino a casa di Frank. Cerca di sbrigarti, la nonna ci aspetta”, mi ordina infine, indicandomi la macchina nera di Fred.
 
 
Sono anni che Fred ci fa da autista.
Ancora non si è annoiato?
Salgo sull'auto, sedendomi nei posti anteriori, e trascinandomi dietro lo specchio.
“Ehi, Gerard! Dove ti porto?”, esclama con troppo entusiasmo Fred.
“A casa di Frank. Di Frank Iero”, rispondo, aggiungendo il cognome del ragazzo.
“Conosci il figlio di Cheech?”, mi domanda mettendo in moto il veicolo.
“Chi?”, indago confuso.
“Cheech Iero, il padre del tuo amico”, spiega, guardandomi attraverso il finestrino.
“Oh. Sì, lo conosco”, mento.
Io non conosco Frank.
“Dicono che quel ragazzino abbia dei seri problemi” dice Fred, scuotendo la testa, e ritornando a fissare la strada.
“Non è vero”, commento ingenuamente.
“Recentemente lo hanno trovato mezzo morto nel bagno della tua scuola. Non dirmi che non ne sapevi nulla!”, la sua voce sembra salire di tono.
Deglutisco.
Lui non sa cosa è successo, quindi.
“A dire il vero no, non ne sapevo nulla”, rispondo, rendendomi ignaro della pessima situazione.
“Bhè, comunque Cheech è un grande uomo. Lui sì che farebbe di tutto per la sua famiglia.”, aggiunge poi l'autista.
Assottiglio gli occhi.
Mi sembrava che Frank avesse definito il padre un giocatore d'azzardo.
E i giocatori d'azzardo non tengono alla propria famiglia.
Quindi, o io ho giudicato nel modo sbagliato i giocatori d'azzardo, oppure Fred ha mentito, e non è a conoscenza della verità su Cheech.
O magari Fred è il fratello di Cheech, e si finge mio autista per non farmi destare sospetti su suo nipote.
E la madre, di cui non so il nome, potrebbe essere la postina che ogni giorno ci porta il giornale, e che nasconde le notizie che parlano di arresti e ritrovamenti di alcol e droghe soltanto per non farci leggere gli ultimi aggiornamenti sullo stato di suo marito.
O magari la mia immaginazione ogni tanto raggiunge apici troppo elevati, e finisce per confondermi definitivamente.
 
-
 
 
 Arrivo davanti a casa di Frank con un leggero imbarazzo che accende i miei occhi con una luce diversa dal solito.
Mi si presentano davanti una serie di villette a schiera color panna, munite di perfetti giardini con erba all’inglese.
Scendo dall’auto di Fred, incamminandomi verso il campanello con scritto il suo cognome.
Iero.
Con un po’ di coraggio, allungo il dito verso il pulsantino in ottone.
Un rumore metallico si fa sentire dall’interno della casa.
Aspetto.
Aspetto.
Controllo che l'appartamento sia quello giusto.
Lo è.
Aspetto ancora, guardandomi intorno.
Continuo ad aspettare.
La porta si apre con uno scatto.
Indietreggio all’istante.
Una donna alta e castana si materializza sulla soglia.
“Ciao, cerchi qualcuno?”, mi domanda, con aria interrogativa.
“Ehm, sì, mi chiamo Gerard e-”
“Gerard? sei tu Gerard?”, mi interrompe la signora, illuminandosi.
Annuisco, confuso.
“Piacere, sono Linda, la madre di Frank”, si presenta poi, stendendo la mano aperta verso di me.
La afferro, improvvisando un timido sorriso.
“Frank sarà felicissimo di vederti! Mi parla così spesso di te”, dice, annuendo.
Cosa?
Felice di vedere me?
E per quale motivo dovrebbe esserlo?
Sto per commentare, quando sento un'altra voce provenire da dietro alle spalle di Linda.
“Mamma? Mi hai chiamato?”, passi felpati si avvicinano all’entrata.
Ad un tratto, spunta un ragazzino vestito in nero, con i capelli spettinati che gli ricadono parzialmente sulla fronte.
Il mio cuore che fa un salto per l’improvvisa ed imbarazzante apparizione.
“Oh merda”, esclama sottovoce Frank non appena mi vede, nascondendosi dietro ad una delle pareti.
“Avanti, Frank. Gerard è venuto qui per te!”, lo rimprovera immediatamente la madre.
Sento il ragazzo borbottare qualcosa, e vedo Linda incenerirlo con uno sguardo fulmineo.
Dopo qualche secondo, il diretto interessato esce allo scoperto, a testa bassa, mentre sua mamma resta dentro.
Maledizione.
Non sono bravo in questo tipo di situazioni.
“Ciao”, mi saluta.
“Ciao”, lo imito, sorridendo appena.
Lui mi guarda, facendo lo stesso.
Faccio per estrarre il regalo, ma il verde opaco delle sue iridi mi fa esitare.
Ci guardiamo, per qualche attimo.
Ormai siamo abituati ai nostri scambi visivi.
In un modo o nell’altro, finiamo sempre per osservarci reciprocamente.
Osservarci dentro.
“Non ti fai vedere spesso a scuola”, mormora, tornando a fissare la punta delle sue scarpe.
Aagh, accidenti, possibile che io debba sempre sentirmi in colpa, in un modo o nell’altro?
“Lo so. Sono sempre molto impegnato”, mormoro, lasciando scappare qualche nota di imbarazzo.
“Impegnato ad aprire porte dei bagni?”, ringhia lui, sarcastico.
Deglutisco.
“Se non volevi incontrarmi a scuola, allora non avresti dovuto salvarmi”, mi aggredisce, ancora.
“Smettila di parlare soltanto di quel maledetto incontro!”, mi difendo allora io, guardandolo.
Di nuovo.
“E di cosa vuoi parlare? Della nostra chiacchierata al parco? Pensavo che ci saremmo visti altre volte, dopo quel giorno. E invece non mi saluti neanche quando ci incrociamo nella mensa!”, il tono della sua voce sembra alzarsi verso la fine.
Lo fisso negli occhi, spalancandoli e stringendo i denti.
Inizio a scuotere lentamente la testa.
“Non potresti capire”, provo a spiegare.
“Non potrei capire cosa?”, mi interrompe Frank, allargando le braccia in segno di resa.
“Ti ho detto che mi avrebbe fatto piacere conoscerti, diventare tuo amico. Cosa ti ho fatto?”, si lamenta infine, paonazzo.
“Non voglio diventare tuo amico!”, urlo in risposta.
Le palpebre che bruciano.
Il ragazzo sembra spegnersi, lentamente.
Le mani ritornano a pendere lungo i fianchi, e le sue labbra si ricongiungono in un leggero tocco.
L’offuscata luce che fino a poco fa lo illuminava sembra cedere, lasciando spazio a deboli e tristi riflessi.
Rivolgo uno sguardo al pacchetto.
“L’ho comprato prima”, mormoro, senza alzare la testa.
“È per te”, aggiungo poi, allungandolo verso di lui.
Penso che sia tutto inutile.
Penso che sia arrivato il momento di smetterla, con questa storia.
Penso che la miglior cosa da fare sarebbe andarmene da qui.
Ma cinque sottili dita afferrano dolcemente il regalo, provocando un piacevole rumore cartaceo.
I nostri occhi si incontrano, per un momento.
“Grazie”, dice, impassibile.
Non aggiungo altro.
Mi limito a far passare la mano sul mio collo un paio di volte, prima di sentire una voce.
“Frank! Aiutami con questo quadro!”.
Quando una figura maschile esce dall’abitazione, il ragazzo fa nervosamente roteare gli occhi.
“Insomma, Frank! Si può sapere cosa stai facendo?”, esclama l’uomo, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
Poi mi lancia un'occhiata interrogativa.
“E tu saresti...”.
“Gerard Way”, termina frettolosamente la frase Frank, deglutendo.
“Oh, ma certo. Io sono Cheech, suo padre”, si presenta l'uomo, sorridendo, e allungando con gentilezza una mano verso di me.
La stringo, ripetendo il mio nome già svelato.
“Io e mio figlio stavamo appendendo un quadro, fino a poco fa. Ma Frank non sembra molto capace, vero figliolo?”, scherza Cheech, tirando una pacca sulla spalla del ragazzo.
Lui resta fermo.
“E dai, Frank. Non ho vinto quell'asta per portarmi dietro un nuovo oggetto da chiudere in soffitta! Aiutami a fissarlo alla parete, forza”, lo incita poi, rientrando in casa, e salutandomi.
Guardo il ragazzo senza parlare.
 
“Pensavo giocasse d'azzardo, non che comprasse quadri all'asta”, dico poi, dopo qualche minuto di silenzio.
Frank non controbatte.
“Ti diverte raccontare bugie?”, gli domando, accennando un debole ghigno.
“Forse non ti piace avere i genitori ricchi?”, insisto, scrollando le spalle.
“Cosa ne sai tu di ciò che piace a me?”, sibila infine lui, avvicinandosi con uno scatto.
Non indietreggio.
Non mi fa paura.
“Mi hai mentito”, enfatizzo, con delusione.
Il ragazzo abbassa lo sguardo.
Non capisco.
Non capisco più niente.
Mi sento distante da tutto ciò.
Le bugie esistono.
Sono fatte per essere raccontate.
Essere raccontate a qualcuno che non potrà mai arrivare alla verità.
Ma perché a me?
Come se potesse riuscire a fermarmi.
Comincio a pensare che mentre io non sono riuscito a conoscere Frank, lui neanche ha provato a farlo, con me.
 
Le sue mani ad un tratto si tendono, per restituirmi il pacchetto. 
Scuoto lentamente la testa.
“Tieniti pure il tuo stupido regalo”, lo respingo, con un ringhio.
Poi, inizio ad indietreggiare, senza però distogliere il mio sguardo deluso dal suo, straboccante di ormai tardivo rimorso.
Ma incredibilmente, avverto l'ebrezza del nostro solito scambio.
Uno scambio che trasmette rancore.
Che trasmette odio.
Ma anche speranza.
Speranza.
Al diavolo queste cazzate.
Aiuto, speranza, salvezza.
Tutte parole che provano inconsapevolmente a descrivere concetti in realtà indescrivibili.
Con un ultimo movimento, mi volto, e mi avvicino velocemente verso la macchina che mi aspetta.
“Fred, portami a casa. Cerca di accelerare, non vorrei far attendere la mamma”, ordino all'autista, con distacco.
Lui annuisce, e mi fa cenno di salire sull'auto.
Obbedisco, e in poco tempo mi ritrovo a fissare lo specchietto retrovisore.
Il veicolo che si allontana.
Le case che sembrano scorrere come nastri cinematografici.
E Frank che rientra in casa, scartando il suo regalo.
 
***
 
I viaggi in macchina possono essere tanto divertenti quanto noiosi e snervanti.
I viaggi lunghi in macchina, invece, possono essere soltanto di un tipo.
Catastrofici.
O monotoni.
Catamonotoni.
Durante tutto il tragitto, Michael si è lamentato della presenza di troppe curve, e della mancanza di aria condizionata nell'auto.
E mentre mio fratello resisteva ai conati di vomito, mia mamma ci incoraggiava con qualche spumeggiante canzone anni ottanta.
Come se la musica potesse riuscire a consolarci.
Io non faccio mai ascoltare a nessuno la mia musica.
Perché la mia musica mi appartiene.
Perché se una parola non riesce a salvarmi, ci pensa Lei.
Lei, che c'è sempre stata, e ci sarà sempre.
Un po' come Dio.
Io non credo in Dio.
Però l'effetto è lo stesso.
Ma non per tutti.
Dio non è un crocifisso appeso in chiesa.
Non siamo obbligati ad andare alla messa per rivolgerci a Lui.
Chi davvero ha fede, può trovare Dio ovunque, in ogni momento.
E così succede con la musica.
È l'angelo che custodisce il nostro camminare verso la fine.
 
“Mi raccomando, comportatevi bene e non rispondete male alla nonna”, ci avverte mamma, non appena scendiamo dalla macchina e ci avviciniamo alla porta dell'appartamento.
La mia mano che trasporta con fatica l'enorme valigia blu.
Michael allunga un dito, e suona il campanello.
Il tempo di improvvisare un cordiale sorriso, e la porta si spalanca.
Davanti ai miei occhi si materializza una signora bassa e mingherlina, che con i suoi inconfondibili boccoli chiari e il suo tono accorato, si fa immediatamente riconoscere.
 
“Siete arrivati, finalmente!”, ci accoglie, quasi fosse un rimprovero.
Mia mamma si precipita su di lei, abbracciandola e salutandola nel modo più vistoso ed esuberante.
Poi è il nostro turno, mio e di mio fratello, che timidamente ci avviciniamo, e come da copione la ringraziamo per il suo invito.
Infine ci decidiamo ad entrare, trascinandoci dietro dei bagagli troppo pesanti.
Arrivati all'ingresso, nonna Elena ci consiglia di salire al piano superiore, e di sistemare le nostre cose nelle camere da letto.
 
“Gerard, aspetta un attimo”, mi chiama però la nonna, poco prima che salga le scale.
Mi volto, e ritorno da lei.
“Ho saputo che hai iniziato a frequentare il liceo”, mi dice compiaciuta, aggiustandomi il colletto della camicia che porto sotto il mio solito maglioncino scuro.
Annuisco.
“Come ti trovi lì?”, domanda.
Scuoto le spalle.
“Bene”, rispondo.
Non voglio entrare troppo nei particolari.
“Hai già trovato qualche amico?”, insiste.
Possibile che mi venga sottoposto sempre il solito interrogatorio?
“Sì”, la informo, accennando un sorriso.
“Ho saputo che sei in classe col figlio dei Bryar”, continua.
Inizio ad insospettirmi.
“Avanti, dove vuoi arrivare?”, la incito, arrivando subito al dunque.
Elena scoppia in un'arzilla e soffocata risata.
“Mi conosci troppo bene, figliolo”, sghignazza.
Non resisto, e ricambio il sorriso.
Dopo pochi secondi, però, nonna ritorna ad essere seria.
La imito.
“Tua mamma mi ha raccontato cosa è successo”, afferma, annuendo.
Sbuffo, scuotendo la testa.
“Vaffanculo”, borbotto.
Lei mi posa una mano sulla spalla.
“Gerard. Il gesto che hai fatto è bellissimo. Non te ne devi fare una colpa. Hai salvato quel ragazzo da una morte certa”, mi consola.
Non commento.
“Come si chiama lui?”, si interessa, rendendo la situazione il più normale possibile.
Ma no, non lo è affatto.
“Frank”, rispondo velocemente, con disinteresse.
“Frank te ne sarà eternamente grato. Gli hai regalato qualcosa, per Natale?”, indaga, incuriosita.
La guardo accigliata.
“Sì... Sì bhè, gli ho regalato una cosa, ma non sono sicuro che possa essergli piaciuta”, la informo, confuso.
“E perché non dovrebbe?”, insiste lei, con finta ingenuità.
“Perché non lo conosco ancora abbastanza bene da potergli scegliere un regalo. Insomma, vorrei sapere cosa ne pensa ma...”, spiego, interrompendomi verso la fine.
Nonna attende la conclusione.
Scuoto la testa, abbassando lo sguardo.
“Non credo che ci rivedremo ancora”, mormoro, terminando.
Lei non aggiunge altro, si limita a sfiorarmi affettuosamente una mano.
Scuoto la testa con più decisione.
“Non avrebbe dovuto dirtelo”, la ignoro.
“Smettila. Sono una nonna, voglio rimanere aggiornata sui fatti che riguardano i miei nipoti”, mi rimprovera, con il suo inimitabile sguardo di ghiaccio.
Subito dopo, però, mi accarezza dolcemente i capelli.
“So cosa hai passato. Cerca di fartelo scivolare addosso”, mi consiglia.
“E come?”, domando alzando il mio sguardo implorante verso il suo, freddo ma rassicurante.
“Facendoti aiutare da noi. Dalla tua famiglia. E da Frank, perché no. Ti vogliamo bene, Gerard”, risponde, sorridendomi ancora.
Ma io indietreggio, deglutendo.
Una mano sul collo, l'altra che si muove nervosamente, stretta in un pugno.
“Se mi volete davvero bene, allora comportatevi da vera famiglia e lasciatemi in pace”, la aggredisco, ringhiando.
Nonna spalanca leggermente la bocca, per poi richiuderla immediatamente.
Mi inumidisco le labbra facendoci passare sopra la lingua, e poi corro al piano superiore, ritrovandomi in un attimo nella mia stanza.
Sono stanco di sentirmi così.
Solo, fra la gente.
Incompreso, nella mia famiglia.
Succube di infondate prove di orgoglio.
La finestra è aperta.
Il davanzale è grande, come me lo ricordavo.
E la mia pazienza sembra cedere.
 
-
 
“Gerard! Gerard!”, mi urla qualcuno.
Come se li ascoltassi.
Come se gli dessi retta.
L'aria invernale mi scompiglia fastidiosamente i capelli, e inizio a pensare che un maglioncino così leggero non riuscirà ad impedire il mio congelamento.
“Maledizione! Gerard!”, le urla iniziano a stancarmi.
Scuoto la testa, e strizzo le palpebre.
Basta con tutto questo rumore.
“Oh, cazzo”, esclamano.
Adesso ci inseriscono anche le parolacce.
Che si fottano.
È bello qui.
Si vedono un bel po' di cose che da là sotto sembravano non esistere neppure.
“Ci risiamo”, dice un vecchio.
O un uomo.
O un ragazzo.
E chi riesce a distinguere una voce come tante altre?
 
Mi piace stare in alto.
Mi piace vedere l'orizzonte.
Mi piace contare le nuvole.
E mi ricordo di questo posto.
Ricordo che pur sapendo che davanti a me ci fossero soltanto montagne, i miei occhi immaginavano che dietro quella collina ci fosse il mare.
L’oceano.
Che esistesse qualcosa di infinito.
Che non fossi mai solo.
 
Ed eccomi di nuovo qui, a cercarlo.
 
Gli altri sanno cosa è successo.
Sono entrato nella stanza.
Ho chiuso la porta, a chiave.
E poi mi sono semplicemente seduto sul davanzale della finestra.
Esattamente come sei anni fa.
Proprio come quando ero bambino.
No, non sono cambiato.
Cosa avevo detto?
Io non cambio.
Mai.
 
“Lasciatemi passare! Avanti, Donna, fammi salire!”.
Questa voce la riconosco.
Ma certo, è della nonna.
Mentre tutti cercano di arrivare alla finestra tramite uno scaleo, lei si fa spazio fra i curiosi soltanto per raggiungermi.
Per raggiungere me.
Non la finestra.
Lei cerca suo nipote.
 
“Gerard!”, esclama, sbucandomi davanti agli occhi.
Mi ritraggo leggermente.
“Non provare ad allontanarti!”, mi spaventa, facendomi cambiare idea.
Mi punta un dito contro.
“Cosa stai cercando di fare?”, esclama, con sguardo maniacale.
Mi limito a sollevare le spalle.
“Ascoltami bene, ragazzo”, inizia a parlare, con brevi respiri affannosi.
È quando alza la mano che noto il cordless stretto fra le sue dita.
“Ho cercato il nome di quel ragazzo sull'elenco telefonico e-”.
Sbuffo rumorosamente, interrompendola.
Maledizione.
“Lasciami parlare! 
Frank è in linea. Vedi di non rispondergli male, ti vuole aiutare”, mi rimprovera, passandomi il telefono.
Scuoto la testa.
“Oh no, figliolo. Non sono salita fin qui per tirarti giù. Se fosse per me saresti già salvo al piano di sotto, non è questo il problema! Qui si tratta di un favore che ti sto facendo. Che ti STA facendo, Gerard.”, dice, guardandomi profondamente.
Deglutisco.
“Non deludermi. Non deluderci”, conclude poi, allungandomi l'oggetto per l'ultima volta.
Lo fisso, chiedendomi cosa stia pensando Frank.
Dallo schermo illuminato, posso capire che sì, è ancora in linea.
Che non ha ancora ceduto.
Che mi sta davvero cercando.
Che vuole davvero parlarmi.
Lentamente, afferro il telefono.
Poi lancio un'occhiata fuggiasca a nonna.
Sorride, mentre scende cautamente le scale, ritornando giù.
“Mamma! Sei riuscita a fargli cambiare idea?”, sento urlare mia madre.
“Lasciategli qualche minuto, ritornerà qui da solo”, la rassicura Elena con rimprovero.
 
E in un attimo, rimaniamo in due.
Io.
E Lui.
 
“Gerard?”, sento mormorare.
Porto il cordless all'orecchio.
Frank sembra come avvertire il mio movimento.
“Cosa stai facendo?”, mi domanda.
Non rispondo.
Silenzio.
“Mi dispiace per come è andata a finire, oggi”, bisbiglia.
“Ti ho mentito, ma ti chiedo scusa”.
Sembrerebbe quasi sincero.
Continuo a non parlare.
“E... E il regalo. È così... Diverso”, aggiunge.
Percepisco il suo stupore.
Sgrano leggermente gli occhi.
Deve smetterla di usare sempre le stesse parole che uso io.
Deve smetterla di capirmi.
Resisto, non schiudo le labbra.
“Avanti, Gerard, so che sei lì. È inutile continuare a rimanere zitto”, esclama poi.
Deglutisco.
Di nuovo silenzio.
Un respiro, dall'altro lato del telefono.
Deglutisco ancora.
“Merda!”, strilla infine Frank.
Sussulto.
“Pensi che gettarti da una finestra serva a risolvere tutto? Insomma, vuoi dirlo a me? Dopo che salvi il primo pseudo suicida che incontri, decidi di provare a volare e mettere fine a tutto? Non ti credevo così!”, dice tutto d'un fiato.
Faccio roteare velocemente gli occhi, e stringo i denti, subito prima di cedere.
“Lo vedi che anche tu sei come tutti gli altri? Non mi sto suicidando!”, lo aggredisco.
Frank esita un attimo.
Poi riprende:
“E allora perché non lo dici? Non tutti riescono sempre a capire cosa vuoi fare, sai?”.
Spalanco la bocca.
E la richiudo.
E la spalanco ancora.
Accidenti.
Il silenzio è inevitabile.
“Gerard, ma ti immagini? Mi hai salvato la vita”, la sua voce sembra tremare.
I miei occhi bruciano.
Bruciano come fiamme.
Bruciano come me.
“Prima non la pensavi così”, mormoro poi, lo guardo fisso verso il cielo.
“Ho cambiato idea”, aggiunge Lui in fretta.
“E perché? Perché io mi trovo sul davanzale di una finestra?”.
“Perché sto scoprendo chi siamo davvero”, risponde, alzando il tono, e dando immediatamente inizio ad un breve periodo di silenzio.
Un periodo in cui mi chiedo cosa volesse dire.
Guardo in basso.
Sono sempre tutti lì, che sventolano le braccia con disperazione.
“E chi siamo?”, sussurro, come se qualcun altro possa sentirmi, oltre a Frank.
Lo sento prendere un respiro.
Siamo gli inguardabili riflessi della nostra salvezza”, anche la sua voce pare abbassarsi.
Ma certo.
L'incisione sullo specchio.
Sapevo che l'avrebbe letta.
Allora lo ha guardato bene.
Ha osservato il regalo nel modo giusto.
Non ha reagito come mia madre.
Istintivamente, sorrido.
Anche Lui lo fa, posso quasi riuscire a vederlo.
Poi lo sento scoppiare in una debole risatina.
“Avanti, Gerard, dopotutto mi hai trovato tramortito in un bagno pubblico, sono io quello che dovrebbe stare lassù”, ridacchia.
Inconsciamente, lo imito.
“Dovresti essere qui perché ti vergogni di ciò che è successo nel bagno della scuola?”, domando, senza lasciare che il sorriso abbandoni il mio viso.
“No”, inizia Frank, ritornando lentamente -quasi- serio.
“Dovrei essere lì per stare vicino a te.”, afferma poi, deglutendo sonoramente.
Annuisco in silenzio, sebbene Lui non possa vedermi.
“Per sentirti diverso come me?”, aggiungo, in un bisbiglio.
“Per sentirmi diverso con te.”, conclude.
 
E l’orizzonte che mi appare piccolissimo.
E la collina che mi mostra l’Oceano.
 
E le mie gambe che toccano terra, facendomi ritornare nella realtà.
 
“È rientrato!”, sento urlare.
“Ce l’ha fatta!”, grida qualcun altro.
 
Accidenti.
Ce l’ha fatta davvero.
 
***
 
*Il Picc, dovrebbe essere un accesso venoso utilizzato per le iniezioni di chemioterapia. Non ho idea se in America si chiami allo stesso modo, ma non ho trovato altri termini.
 
Ciao a tutti.
Non so quanto tempo sia passato da mio ultimo aggiornamento, e non mi va neanche di saperlo.
Voglio chiedere scusa a tutti.
Ho avuto diversi problemi, dovuti alla scuola che non è del tutto finita, alle vacanze al mare, e alla mia testa, che naviga nella confusione più totale.
Ho preso in considerazione l’idea di abbandonare tutto, e smettere di scrivere.
Poi però mi sono resa conto di quanto sia importante per me questa storia, indipendentemente dal tema che affronta e dalla band a cui è (teoricamente) dedicata.
Il mio è un periodo un po’ casuale, un po’ in caduta libera.
Sono cosciente del fatto che questo capitolo sia più breve degli altri, e che magari non è eccessivamente bello.
Ma basterebbe qualche stimolo in più, per ritornare in carreggiata.
Non esigo recensioni, assolutamente.
Anzi, penso che la costrizione a fare una cosa simile sia una delle peggiori.
Perché bè, le recensioni appartengono al gruppo di quegli atti che vanno fatti istintivamente.
Ma se volete dirmi qualcosa, una qualunque, vi chiedo di scrivermi (anche in privato se alle volte vi vergognaste –come me-  a dire cosa ne pensate).
La scrittura è una passione che mi accompagna sin da quando ero piccola.
E sono sempre contenta di sapere cosa gli altri capiscono realmente mentre leggono ciò che elaboro.
Con questo concludo, e mi scuso ancora (perdonatemi J)
A presto (spero),
Virgyl,
Ps: vorrei ringraziare chi ha aggiunto ai preferiti questa storia, chi la segue, e chi semplicemente, la legge.
Pps: Fate un applauso alla migliore Beta che esista, Coffee_Time (so che mi stai odiando <3)

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Capitolo 8
*** What is Love? ***


                          Streets
                             Of
                        November
                            ***
Canzone: I will follow you into the Dark- Death cab for cutie (canzone che con molta gentilezza mi ha fatto scoprire Coffee_Time, persona bugiarda, incoerente, decisamente antipatica ed insopportabile, ma pur sempre la mia beta) (<3).
Inizialmente avevo pensato a “What is love?”, dei Nevershounever, che sicuramente sarebbe stata molto più adeguata, ma per oscuri motivi ho scelto l’altra. Quindi, vi consiglio di ascoltarle entrambe.
Ci vediamo sotto J
 
***
 
Capitolo settimo- What is love?
 
 
“Gerard! Muoviti, è arrivato!”, urla mia mamma dalla stanza accanto.
Mi infilo velocemente una felpa, e goffamente scendo le scale, fino a ritrovarmi all’ingresso.
“Cerca di essere cortese”, mi raccomanda nonna spuntando alle mie spalle.
Annuisco frettolosamente.
“Quanti anni ha?”, si intromette poi Michael, materializzandosi alla mia destra.
“Cosa?”, gli domando confuso, senza essere realmente interessato alla sua richiesta.
“Vuole sapere quanti anni ha”, gli fa da eco Elena.
Li ignoro, scuotendo la testa, e camminando nervosamente verso la porta.
Sento i loro passi che mi seguono.
“Ti sei lavato i denti?”, inizia la nonna.
“I tuoi capelli non sembrano essere apposto”, aggiunge mio fratello.
Grugnisco.
“Ha ragione, fanno schifo”, enfatizza lei.
“Avresti dovuto prepararti meglio”, mi rimprovera lui.
Continuo ad andare avanti, pronto ad accogliere l’ospite.
“Gerard! Non hai indossato la cintura adatta! E poi quella felpa, è orribile!”, è la voce di mamma, che mi fa improvvisamente voltare.
Anche lei si aggiunge alla comitiva dietro di me.
Sbuffo rumorosamente, ritornando a guardare la direzione giusta.
“Sarà un saluto di benvenuto spregevole”, commenta nonna con riluttanza.
Deludente”, puntualizza  Michael.
Raccapricciante!”, conclude mamma, senza smettere di seguirmi.
A quel punto mi blocco.
E lentamente, mi volto.
Loro mi imitano.
Mio fratello sussulta.
I miei occhi li fissano, pungenti come schegge.
 
“Smettetela”, ringhio, scandendo bene le lettere.
 
Il tempo di ricominciare a camminare, e il campanello suona.
Deglutisco.
Soltanto adesso inizio a realizzare.
 
 
Lentamente, poggio una mano sulla maniglia.
E sembra tutto diverso.
E inizio a guardare la situazione da un altro punto di vista.
Perché sta succedendo?
Succedendo.
Adesso.
Ora.
Ci troviamo il linea diretta con il nemico.
Davanti al più temibile degli incubi.
Faccia a faccia con il pericolo.
Con il peso che più ci opprime.
Il presente.
 
La serratura scatta non appena imprimo maggiore forza.
E l'esterno mi si mostra con un'opaca luce.
La stessa che i suoi occhi emanano, quando mi ritrovo a guardarli.
 
“Ciao”, saluto, improvvisando un mezzo sorriso.
Frank mi imita.
“Ehi”, mormora in risposta.
Deglutisco.
Mia mamma ha davvero avuto l'incredibile idea di invitarlo a passare le vacanze di Natale insieme a noi.
Ha detto che sarebbe stato il minimo per ringraziarlo per ciò che ha fatto.
E magicamente Frank ha accettato.
Come se fosse tutto uno scherzo.
Come se ci stessimo contendendo un match di un qualche assurdo gioco.
Io.
Frank.
Ed in palio tutto il resto.
Frank, io e poi tutto il resto.
Tutto il resto e poi io, Frank e tutto il resto del tutto che è rimasto.
Un fottuto inutile circolo vizioso.
Invito il ragazzo ad entrare, catturando immediatamente lo sguardo di mamma e Michael, che curiosi osservano i movimenti dell'ospite.
Sbuffo, cercando di rimanere indifferente.
Frank ha con sé un trolley ed uno zaino.
Probabilmente dovrei aiutarlo a portare i bagagli al piano di sopra, ma non lo trovo giusto nei miei confronti.
Nessuno ha aiutato me, per quale motivo io dovrei aiutare qualcuno che ha già avuto la sua occasione per farsi aiutare?
Ma un'occhiata di nonna Helena mi fa cambiare idea.
 
“Dammi la valigia, la porto io”, dico a Frank, controvoglia.
E lui deve aver avvertito la mia controvoglia.
Ma mi cede comunque il bagaglio, perché sa che la controvoglia è soltanto un modo alternativo di Gerard Way per essere cortese.
E io mi ritrovo a dover salire faticosamente le scale, fino ad arrivare davanti alla camera degli ospiti.
Apro impacciatamente la porta, imprecando quando il trolley va a scontrarsi con lo stipite.
“Mi dispiace”, mi scuso.
“Uhm-non penso di essere poi così affezionato a quel trolley”, dice con sarcasmo Frank.
Entro finalmente nella stanza, indicando l'armadio ed il letto al ragazzo.
Lui annuisce, ringraziandomi.
“Come è andato il viaggio da New York?”, domando dopo un po', sedendomi sul bordo del letto.
Frank alza le spalle.
“Bene”, risponde, per poi seguirmi sul materasso.
Lo osservo, mentre si guarda intorno con i suoi misteriosi occhi.
I capelli scuri gli ricadono disordinati sulla fronte, arrivando a coprire un occhio.
La luce dietro di lui, che entra soffusa dalla finestra, lo contorna in modo perfetto, delineandolo con un sottilissimo strato dorato.
Potrebbe essere un momento meraviglioso per scattare una fotografia.
Ma tutti sanno che le fotografie non rispettano mai i canoni reali.
E finiscono puntualmente per alterare ogni singolo particolare della scena.
Le fotografie non sono altro che un modo irreale di catturare la realtà.
Fanno sembrare tutto così impossibile.
 
“Come stai?”, domanda ad un tratto Frank, interrompendo i miei ragionamenti.
“Bene”, rispondo, mimando un sorriso.
Lui mi imita, tornando a fissare un punto indefinito di fronte a noi.
Forse potrei provare con il disegno.
Potrei riportare il suo viso su carta.
Inclino leggermente il collo, assottigliando gli occhi.
Ha un profilo davvero delicato.
Probabilmente un contorno a matita lo accentuerebbe.
“Gerard, dovrei parlarti”.
La pelle rosata contribuirebbe a risaltare il colore delle sue iridi.
E le sue labbra risulterebbero sicuramente più lucide di quanto già non siano.
“Dovrei parlarti dell'oggetto che mi hai regalato”.
Il naso segue una traccia lineare, compatta, che non lascia sfuggire alcun’imperfezione.
Gli zigomi potrebbero benissimo aumentare il volume delle guance, se riempiti con del carboncino.
“Non mi sarei mai aspettato una cosa simile.
È... Strana?”.
Posso notare la sua lingua fare capolino di tanto in tanto, mentre parla, scoprendo parzialmente una dentatura bianca e quasi luminosa.
“Il-il problema è che-
È che gli specchi, bè-ehm, gli specchi non-”
La sua mascella è assolutamente particolare, leggermente sporgente dalla parte sinistra, ma pur sempre in proporzione con il resto del viso.
“Ecco, Gerard, io non-”, Frank si volta verso di me, restando un attimo confuso.
Scuoto immediatamente la testa.
“Gerard?”, domanda accigliato.
“Che?”, esclamo, sgranando leggermente gli occhi.
Frank sbuffa.
“Non mi stai ascoltando”, constata.
Sussulto.
Ma certo.
Stava parlando.
Mi porto una mano a ravviarmi i capelli.
“Scusa”, mormoro, strizzando le palpebre.
Non posso essere così stupido da lasciarmi scoprire mentre osservo qualcuno.
Accidenti.
Il ragazzo non sembra troppo convinto, ma continua comunque il suo discorso.
“Stavo parlando del regalo che mi hai fatto. Dello specchio.”, inizia, torturandosi le mani, l'una nell'altra.
Annuisco.
“Ecco, mi è piaciuto davvero molto”, continua, sorridendo.
Sorridendo in modo triste.
Quasi malinconico.
Cerco ti tendere anch'io le labbra.
Con sollievo, abbasso lo sguardo.
 
“Ma il problema è che...”
Lo sapevo.
Ero sicuro che ci fosse un problema.
C'è sempre un problema.
Ritorno a guardarlo.
Negli occhi.
E sono così belli.
“Vedi, io non-”, Frank si interrompe, socchiudendo le palpebre, e cercando di prendere il respiro.
Sembra essere insicuro di ciò che sta per dirmi.
E a me sembra tutto così fermo, intorno.
Tutto così silenzioso.
Così triste.
Il ragazzo scuote la testa.
Si sta arrendendo, non vuole parlare.
Deglutisco, prima di allungare una mano verso di Lui.
Sfioro lentamente il suo braccio.
Frank se ne accorge, e riapre gli occhi, osservando i miei movimenti.
Poi, alza lo sguardo, incontrando il mio.
Annuisco, per incitarlo a continuare.
Per fargli capire che questa è soltanto una stanza.
Vuota.
Che ci siamo soltanto noi.
Io.
E Lui.
 
“Gerard”, sibila, come per non farsi sentire da nessuno, oltre che da me.
“Io...”, la sua espressione è quasi implorante.
Vuole liberarsi di tutto.
Vuole urlare.
Vuole piangere.
Vuole uscire dal suo guscio.
E vuole farsi aiutare da me.
 
Ma non lo fa.
“Io non penso che sia qualcosa di troppo importante”, conclude, facendo indietreggiare il braccio, sfuggendo al mio tocco.
Faccio la stessa cosa.
 
Ci alziamo dal letto insieme, senza aggiungere alcuna parola.
Scendiamo al piano di sotto, trovandoci davanti mia nonna e gli altri due incuriositi parenti.
“Ehm-Lui è Frank”, lo presento, facendomi da parte, e lasciando che il ragazzo si mostri a loro, che ho già sfacciatamente ignorato quando è arrivato.
“È un piacere conoscerti”, lo accoglie dolcemente la mamma, scompigliandogli i capelli in modo infantile.
Frank si limita a sorridere, confuso e in imbarazzo.
Trattengo una risata.
“Quindi tu sei il famoso Frank”, esclama Michael, stringendogli la mano.
L'ospite ritorna serio, lanciandomi uno sguardo impaurito.
Annuisco, rassicurandolo, e mimando con le labbra
È mio fratello.
Consolato, ricambia la stretta, mormorando un riluttante
“Già”.
Infine, è il turno di mia nonna, che con fare furbo e altezzoso, lo squadra per intero.
Il ragazzo deglutisce, mentre la fissa accigliato.
Sembra tutto così stupido, guardato dal di fuori.
“Io sono Elena, la donna con cui hai parlato pochi giorni fa al telefono. Sono io che ho salvato la vita al tuo amico. Tu hai semplicemente fatto il tuo dovere”, lo avverte rigida lei, tendendo le labbra in un antipatico sorriso.
Frank scuote la testa, sollevando un sopracciglio, e commentando con un sarcastico
“Certo”.
Non sa che rispondendo così rischia di finire in guai seri.
E non perché lei è nonna Elena.
Semplicemente lei è.
E chi sa essere, sa anche farsi capire.
Io ho imparato ad essere, eppure non riesco comunque a farmi capire.
Ma io sono Gerard Way.
E frequento sedute psicologiche.
Non dimentichiamocelo.
 
Finiti i saluti, io e Frank ritorniamo nella sua stanza.
“Non sapevo avessi un fratello”, esclama, mentre saliamo le scale.
“Non sai niente su di me”, puntualizzo, guardandolo dal basso, stando attento a non inciampare sui gradini.
Lui resta in silenzio, finché non arriviamo a destinazione.
Poggia una mano sulla maniglia.
Poi si volta verso di me.
“Attento, c'è un chiodo che sporge qui sulla porta”, mi avvisa.
Deglutisco.
Frank entra nella camera, ed io lo seguo, fissando con insistenza la piccola punta di ferro che sporge dal legno rovinato con gli stessi occhi con cui la preda scruta il suo predatore.
“Ha!”, esclama il ragazzo, non appena sposto lo sguardo su di Lui.
“Hm?”, domando confuso.
“Hai paura delle cose appuntite!”, afferma, soddisfatto, indicando il chiodo.
Apro la bocca per controbattere, ma mi ritrovo a non avere parole con cui farlo.
“Adesso so una cosa in più su di te”, mi fa notare, stendendosi pesantemente sul letto.
Gli lancio un'occhiata sprezzante, per poi seguirlo fino al bordo del materasso.
“Tua nonna è stata gentile ad invitarmi qui”, ridacchia.
“Lo ha fatto per me”, sottolineo.
Frank resta un attimo interdetto.
Infine decide di alzarsi, ritrovandosi seduto al mio fianco.
“E tu sei contento che io sia qui?”, chiede.
Mi volto, fino a far incontrare il suo sguardo curioso con il mio, pensoso e riflessivo.
Eccessivamente pensoso.
E dannatamente riflessivo.
“Sono contento che mia nonna sia felice di averti invitato”, rispondo.
Posso vedere la delusione prendere spazio sul suo viso.
E sulle sue labbra, che immediatamente si piegano verso il basso.
E fra le sue iridi chiare.
E sulle sue braccia che cadono con inerzia insieme al suo corpo, ritornando a stendersi sul letto.
Insomma, si aspetta realmente che io sia felice di averlo intorno a me, in casa mia, durante le vacanze di Natale?
Il ragazzo esplode in una risata strafottente, mentre scuote la testa.
Dico che mi piacerebbe diventare un clown.
Però ripensandoci io sono una persona, non un clown.
I clown mentono per far ridere.
Le persone no.
Loro riescono a far ridere senza ricorrere alle bugie.
È per questo che non capisco.
Non capisco perché esistano i clown.
E non capisco perché le persone li chiamino clown.
E non capisco neanche per quale motivo Frank stia ridendo.
Forse sto diventando anche io un clown.
Ma non mi sembra di aver mentito.
Ho mai mentito a Frank?
“Questa settimana sarà una merda”, esclama l'ospite esausto, singhiozzando divertito.
Lo vedo chiudere gli occhi, mentre si porta entrambe le mani a coprire la faccia.
 
“Ehi, Frank”, lo chiamo.
“Dimmi”, risponde con la voce impastata dal peso delle dita sulle labbra, alternandosi con qualche ultima risata.
“Ti ho mai mentito?”, domando, tranquillo.
Il ragazzo smette improvvisamente di ridere.
Ma non sposta le mani.
Osservo il suo torace alzarsi, per poi abbassarsi, e ritornare al suo normale ritmo.
“Cosa intendi con mentire?”, mormora, quasi impaurito dalla mia richiesta.
Ti ho mai mentito?”, ripeto, scandendo meglio le parole.
Frank sbuffa, mentre ritorna seduto.
Poi mi guarda, assottigliando leggermente gli occhi.
Resto impassibile.
La mia domanda era seria.
Le persone restano impassibili quando le domande sono serie.
Ma io resto impassibile anche per un altro motivo.
Ed il motivo è che l'impassibilità non è soltanto la miglior via d'uscita in ogni situazione.
È anche l'unico modo per poter parlare con Frank.
Frank cede, di fronte all'impassibilità.
Lui cede di fronte alla superiorità.
Al controllo.
Al pieno controllo.
Frank non riesce a controllare niente.
A Frank non riesce niente.
 
L'inguardabile riflesso della salvezza.
 
Frank è la salvezza di se stesso.
Ed io il suo fottutissimo riflesso.
 
“Non ricordo di averti mai sentito dire alcuna bugia”, mormora infine il ragazzo.
Annuisco.
“Se dovessi mai arrivare a farlo...
Tu...
Tu svegliami”, gli dico, con sicurezza.
“Cosa?”, mi domanda, accigliato.
“Accidenti, Frank! Ti sto chiedendo di svegliarmi, se mai ti mentirò!”, enfatizzo, quasi fosse un rimprovero.
Lui indietreggia, deglutendo.
“Non ti seguo”, insiste.
Sbuffo.
“Odio le persone che mentono.
Non potrei sopportare di avere a che fare con un me bugiardo”, spiego.
Noto gli occhi di Frank accendersi con una luce differente.
“Se mi sentirai mai dire una bugia, cerca di svegliarmi. Cerca di ricordarmi chi sono davvero.”, argomento.
Penso di non aver mai avuto una conversazione tanto articolata con qualcuno che non fossi io.
Ma perché lo sto facendo proprio adesso? Perché proprio con Lui?
Dannate parole.
Il ragazzo distoglie lo sguardo dal mio, puntandolo sul pavimento.
Lo faccio anch'io.
So a cosa sta pensando.
Alle bugie.
Alle menzogne.
Posso sentire il suo respiro farsi più pesante e veloce.
Il suo stomaco contorcersi su se stesso.
Ed il suo cuore diventare troppo pesante da poter sorreggere.
 
“Gerard, io non volevo”, mormora ad un tratto, con voce tremante.
“Ma lo hai fatto”, puntualizzo.
“Non mi fidavo ancora di te”, controbatte.
“Perché, adesso ti fidi di me?”, insisto.
“Sì! Cioè-non lo so! Ma soltanto ora inizio a conoscerti!”, balbetta, puntando i suoi occhi sgranati su di me, e alzando le braccia in aria, come per enfatizzare il discorso.
“Perché hai inventato quelle stronzate?”, indago, gli occhi come schegge.
“Non erano stronzate”, ringhia lui, sulla difensiva.
“Ah no? E cosa erano? Verità? Realtà?”, mi prolungo.
“Erano la mia realtà!”, mi aggredisce, alzandosi dal letto, e osservandomi dall'alto, paonazzo.
Mi alzo anch'io.
“Ti sarebbe piaciuto avere genitori diversi da quelli che hai?”.
Frank deglutisce.
“Avresti voluto non avere dei genitori? Avresti voluto essere solo?!”, il tono della mia voce si alza.
“No! Aaagh, è inutile provare a parlare con te!”, strilla.
Ghigno.
“Ti sei reso conto che con me puoi essere soltanto sincero, quindi?”, continuo.
“Mi sono reso conto che la mia vita è una merda! E che tu la stai rendendo ancora più orribile!”, urla, stavolta.
“Smettila di lamentarti della tua vita”, dico con falsa tranquillità, scuotendo la testa.
“E tu smettila di essere così-”
“Così come?”, lo incito.
“Così-”, inizia.
Lo vedo pensarci su, con nervosismo.
Poi si illumina.
“Così maledettamente ipocrita”.
E lo dice puntando un dito dritto contro il mio petto.
Spalanco gli occhi, indietreggiando.
Lui annuisce, con convinzione.
“Sì, Gerard, guarda negli occhi la tua fottutissima realtà. Prima mi aiuti, dopo mi ignori, infine ti fai telefonare mentre rischi di finire morto giù da una finestra. E poi?”, allarga le braccia.
Lo fisso, allibito.
“E poi ti fingi migliore di me”, adesso scuote la testa.
“Migliore di tutti.
E mi chiedi se mi hai mai mentito.
E mi dici di svegliarti.
Svegliati, Gerard”, conclude.
E la mia mano trema, mentre velocemente si va a scontrare col suo viso, provocando un rumore sordo.
Immediatamente, indietreggio.
La mia bocca è aperta, ma non ne esce alcun suono.
Tremo.
Sto tremando.
Ancora.
Il ragazzo non aggiunge altro.
Si limita a rendere il suo volto una maschera bianca.
Neutra.
Ma non impassibile.
Neutra, ma sofferente.
Sofferente.
Con una lacrima che attraversa lentamente la guancia arrossata dal colpo.
“Io ti ho salvato la vita”, riesco a sibilare, prima di ritrovarmi a correre velocemente, diretto nella mia stanza.
Entro, chiudo la porta.
E ci faccio aderire pesantemente la schiena.
E poi esplodo.
Piango.
Urlo, ma in silenzio.
Grido.
Faccio uscire tutto.
Ma sempre in silenzio.
Non avrei dovuto.
Non avrei dovuto colpirlo.
Non avrei dovuto farmi aiutare da lui.
Non avrei dovuto salvarlo dalla sua tanto desiderata morte.
Ma la verità è che Frank ha ragione.
Sono soltanto un ipocrita.
Ho la mia maschera occasionale da mostrare ad ogni singola persona.
Con lui ne ho usate troppe.
E troppo spesso.
E troppo false.
E accidenti, sono troppo orgoglioso per poterlo ammettere anche a me stesso.
Voglio andarmene.
Voglio sparire.
Voglio sparire insieme a me, in uno Spazio popolato esclusivamente da me e me.
E tutto ciò che riguarda me, e tutto quello che io ho tanto desiderato.
Non m'importa di cosa pensano gli altri.
Frank ha ragione.
Devo svegliarmi.
Svegliati, Gerard.
Svegliati.
E in un attimo, mi ritrovo disteso sul mio letto, con il viso umido, e gli occhi chiusi.
E la stanchezza che con ostinazione mi ancora alla realtà.
 
 
***
 
 
Percepisco un calore poco lontano da me.
Schiudo lentamente gli occhi.
La vista è ancora offuscata dalle lacrime di prima.
Una figura scura mi osserva dal bordo del letto.
Lo riconosco.
E come non riconoscerlo?
 
“Mikey”, sussurro.
Cerco di alzarmi, ma una mano di mio fratello mi spinge bruscamente indietro.
Non sono abbastanza sveglio per poter replicare.
È tutto buio.
Gli scuri delle finestre impediscono alla luce di filtrare nella stanza.
Riesco appena a vederlo.
“Cosa vuoi?”, domando, con voce fioca.
Lui sta zitto.
Ancora non ho messo a fuoco.
So che mi guarda.
Mi sta guardando.
Ed è tutto fottutamente buio.
Tento nuovamente di alzarmi, ma stavolta non trovo nessuna mano a bloccarmi.
Stavolta è il suo corpo che sceglie di gettarsi su di me, seguito da due sottili braccia che mi bloccano al letto, ai due lati del mio viso.
Senza troppo controllo, provo a dileguarmi.
“Lasciami, Michael!”, esclamo.
Ma quando lui si avvicina, mi accorgo che non è mio fratello, quello che mi tiene ancorato al materasso.
Non sono questi i suoi occhi.
Non è questa la sua stretta.
Non è questo il suo odore.
Michael odora di adolescente.
Chi ho adesso davanti profuma di qualcosa di diverso.
 
“Frank?”, sussurro, aumentando la forza nei polsi, che con potenza l’ospite mi sta stringendo.
Ma Lui sembra non voler mollare.
Mi chiedo cosa diavolo stia facendo.
Tento di allontanarlo.
“No!”, esclama però il ragazzo, spingendosi di più verso di me.
Sono confuso.
Vuole uccidermi?
“Sei uno stronzo”, mormora, scuotendo leggermente la testa.
Deglutisco.
“Non avresti dovuto aprire quella porta”, insiste.
Sgrano leggermente gli occhi.
“Avresti dovuto lasciarmi morire”, continua.
“Smettila”, lo interrompo.
Il ragazzo imprime maggiore forza sulle mie braccia, costringendomi a grugnire per il dolore.
“Tu non mi hai salvato la vita”, sottolinea.
“Tu hai aperto quel bagno senza neanche sapere chi fossi!”.
Non commento, stavolta.
“Ma la verità è che sono uno schifoso essere insignificante”, aggiunge.
“E adesso anche tu lo sai”.
“Basta, Frank”, dico.
“È meglio che me ne vada, ti sto soltanto dando noia”, prosegue.
“Basta!”, esclamo, riuscendo finalmente a staccarlo da me.
Ma con uno scatto, mi ritrovo nuovamente inchiodato al letto.
Il ragazzo mi guarda dall'alto.
Di fronte ai mei occhi.
Ed è ancora tutto buio.
Ma noi riusciamo a vederci.
A guardarci.
“Cosa stai dicendo?”,  gli domando, scuotendo la testa.
“Ti ho mentito. Sono io l'ipocrita. Non tu.”, spiega, con voce tremante.
Ma piena di rabbia.
E di paura.
E di fottuta sofferenza.
Mi inumidisco le labbra.
Si sta sbagliando.
Sono io lo schifoso incoerente.
“E il tuo regalo...Quello specchio”, inizia, socchiudendo le palpebre.
Cosa sta cercando di dire?
“Gerard, non avresti dovuto regalarmi uno specchio!”, mi aggredisce.
Penso di poter essere in grado di morire da un momento all'altro.
“Gerard, tu non capisci!”, ringhia, alzando il tono di voce.
Mi chiedo cosa abbia da urlare.
E mi chiedo anche cosa è che non capisco.
“Io-”, si interrompe.
E sento qualcosa inumidirmi il viso.
E poi un'altra.
E un'altra ancora.
Frank sta piangendo.
Improvvisamente, le sue braccia cedono, liberandomi.
E incredibilmente, il suo corpo si getta sul mio, con le mani strette in due pugni, che picchiano delicatamente il mio petto.
Cosa sta succedendo?
Il ragazzo nasconde il viso nell'incavo del mio collo, stringendo con forza la mia maglietta, e facendo silenziosamente uscire copiose lacrime.
Non so cosa sto facendo.
Non so cosa Lui stia facendo.
Lentamente, porto entrambe le mie braccia a cingergli la schiena, senza che lui opponga nessuna resistenza.
Il suo pianto continua, mentre posso sentirlo singhiozzare.
Il suo respiro è irregolare, così come il battito del suo cuore.
 
“Non mi sono mai guardato allo specchio, Gerard”, mormora poi, con un filo di voce.
Posso sentire il suo fiato caldo sul mio collo.
E in un attimo, è come se avessi capito improvvisamente tutto.
La vicenda del bagno, i segni sul viso, i capelli sempre spettinati.
E la paura di tutto.
E di tutti.
E il bisogno di avere qualcuno.
E il bisogno di restare solo.
“Ho paura di guardarmi. Ho paura di scoprire come mi vedono gli altri”, sussurra, con le lacrime che continuano a bagnarmi la maglietta.
Aumento la stretta, portando le dita ad accarezzargli i capelli.
“Perché hai paura?”, gli domando.
Un nuovo singhiozzo lo fa smuovere.
Poi scuote la testa.
“Non lo so”, risponde.
Poi, alza lo sguardo, incontrando il mio.
I suoi occhi brillano.
“Ho paura di me stesso, Gerard”, sussurra infine, deglutendo.
“È per questo che ti nascondi dietro un'armatura?”, mormoro.
Inizialmente sembra non capire.
Poi afferra il concetto.
E torna ad abbracciarmi.
“Perdonami. Non lasciarmi anche tu.”, riesco a sentirgli dire.
“Non ho mai smesso di perdonarti”, puntualizzo, stringendolo di più a me.
Il ragazzo punta nuovamente le sue iridi chiare su di me.
“E non ti lascerò. Non anche io.”, concludo.
 
***
 
La giornata passa velocemente.
Io e Frank che camminiamo per la casa, mamma e Frank che parlano, Mikey che guarda male Frank, e la nonna che guarda male me.
Tutto normalmente normale.
E magicamente, si è fatta sera.
 
“Ti va di fare un giro?”, propongo a Frank, quando entro nella sua stanza.
“Uhm-certo”, annuisce Lui, tenendo fra le mani un oggetto che conosco fin troppo bene.
Sorrido appena.
Il ragazzo riprende ad osservare lo specchio, tenendolo a distanza di sicurezza.
Sembra essere così insicuro.
Non pensavo che esistessero persone che non si sono mai guardate negli occhi con loro stesse.
Ma Edmund aveva parlato chiaro.
 
Gli specchi sono per i superficiali.
 
Ma né Edmund, né tanto meno Frank, sanno che questo non è un semplice specchio.
Questo mostra il riflesso che tutti cercano, ma che nessuno ha il coraggio di affrontare.
E chi lo ha realizzato ha pensato bene di inciderne il significato sul bordo.
 
Ho deciso di portare Frank in un posto speciale.
Si tratta di un ponte, che attraversa un piccolo fiume qui vicino.
Ho sempre trovato tranquillità, là sopra.
Non c'era mai nessuno.
Ed ero sempre circondato da arbusti verdognoli e spinosi, che mi procuravano puntualmente graffi e sbucciature.
 
“Dove stiamo andando?”, domanda ad un tratto Frank, mentre camminiamo verso la meta.
“Sorpresa”, rispondo.
“Odio le sorprese”, esclama.
“Anch'io”, aggiungo.
Lui mi guarda accigliato.
Ed io lo ignoro.
Il ragazzo scuote la testa, e continua a seguirmi verso il fiume.
 
L'aria fresca dicembrina ci scompiglia i capelli, e lo scorrere dell'acqua ci guida verso il ponte.
Lo stesso ponte che mi ha sentito ridere, urlare, pensare.
Lo stesso ponte che si è bagnato delle mie lacrime.
Ed è tutto così calmo, qui intorno.
Lo indico a Frank.
“Un ponte?”, esclama Lui, confuso.
Annuisco.
Insieme, ci avviciniamo.
“Mi è sempre piaciuto stare qui”, gli spiego.
Poi, poggio entrambe le braccia sulla staccionata di legno che delinea il passaggio sopra il fiume.
Guardo il cielo che inizia ad imbrunirsi.
Frank è al mio fianco, anche lui occupato ad osservare l'ambiente.
C'è un'immensa varietà di colori.
Il verde è sparito, ma al suo posto si sono formate decine di sfumature che vanno dal giallo al marrone, dall'arancione al rosso.
Sembra che ogni cosa, in questo posto, sia parte di una fiaba.
“Sembra che la realtà non esista, qui”, dico, osservando l'acqua scorrere velocemente.
“È un bel problema, allora”, esclama sarcastico Frank.
Ma è un sarcasmo sincero.
“Il problema nasce quando la realtà si confonde con la finzione”, puntualizzo.
Il ragazzo mi guarda.
Lo faccio anch'io.
“E noi cosa stiamo vivendo, adesso? Realtà o finzione?”, domanda, quasi in un sussurro.
Sorrido appena.
“Vivere è un po' come rendere la finzione realtà. Vivi per avverare i tuoi sogni, non per renderli impossibili. 
Quindi, non saprei”, rispondo, alzando le spalle, e allargando tristemente il mio sorriso.
Lui annuisce.
Poi, entrambi ricominciamo a guardare il fiume scorrere verso il nulla.
 
“I miei genitori mi hanno sempre dato tutto”, parla ad un tratto.
Non commento.
È il suo turno, adesso.
“Mio padre è amministratore delegato di un'azienda di elettronica, mia madre è un avvocato”, spiega, mimando una specie di malinconico sorriso.
“E nonostante loro mi dessero tutto...Ogni nuovo giocattolo...Ogni vestito... Io passavo pomeriggi interi a piangere, sdraiato sul mio letto, e fissando il soffitto”, continua.
Una breve pausa fa ritornare il silenzio.
Lo vedo deglutire, e passarsi una mano fra i capelli.
Poi, ricomincia:
“E mi chiedevo perché piangessi!
E guardavo i miei coetanei che avevano i genitori separati, o morti, o poveri!”, la sua voce si alza.
Poi scuote la testa, abbattuto.
“E avrei voluto avere anch'io un vero motivo per cui piangere”, conclude, socchiudendo gli occhi, e prendendo un grande respiro, per poi lasciare andare l'aria lentamente, faticosamente.
Come se fosse qualcosa di cui potrebbe benissimo fare a meno.
“È per questo che ho iniziato a raccontare bugie. Volevo sentirmi diverso. Volevo che la mia vita non fosse così dannatamente semplice.”, dice infine.
Punto i miei occhi su di Lui, che immediatamente ricambia lo guardo.
“Tu sei diverso, Frank”, mormoro.
Ma il ragazzo si limita a ridere.
Ed è una risata forzata, falsa.
“I miei genitori mi hanno dato soltanto tanti beni materiali. Non mi hanno mai saputo dare l'amore. Dimmi come faccio ad essere diverso.”, controbatte.
“Tu sei diverso per me”, esclamo.
Lui non controbatte.
“E hai ancora tutto il tempo per imparare ad amare. E a farti amare”, aggiungo poi, tornando a fissare l'acqua.
 
“E tu? Hai imparato?”, domanda ad un tratto.
Deglutisco.
Ho mai amato qualcuno?
Mi sono mai fatto amare?
Accidenti.
Non so cosa diavolo sia l'amore.
All'inizio pensavo che fosse un gioco.
Poi ho capito che si trattava di un giuramento.
E adesso?
Adesso Frank mi sta chiedendo se sono mai stato innamorato.
 
“No”, scuoto la testa.
Lui mi guarda.
Negli occhi.
“Io penso di aver paura di innamorarmi”, esordisce.
“Te l'ho detto, hai tutto il tempo per innamorarti”, ripeto, accennando un debole sorriso.
Ma il ragazzo scuote la testa.
“No. Non voglio pensarla così.”, dice.
Lo guardo accigliato.
“Sono certo che l'amore sia qualcosa che non arriva col tempo.”, spiega.
“E come, allora?”, indago.
Si inumidisce le labbra.
“Penso che il tempo sia soltanto il peggior nemico dell'amore”, aggiunge.
Deglutisco.
“L'amore accade e basta. È il presente, ciò che porta all'amore”, conclude.
Inizio a non seguirlo.
“Il tempo che passa, o i ricordi che ci seguono... Tutto questo rovina l'amore”, ricomincia.
“Vuoi dire che l'amore funziona soltanto nel presente? Che dura così poco?”, domando, confuso.
Frank si avvicina impercettibilmente.
“Voglio dire che l'amore va vissuto. E non come un passatempo”, risponde.
Poi, si ravvia i capelli come una mano.
“Va vissuto come un'altra opportunità”, adesso mi guarda, di nuovo.
“Come un'altra vita”, dice infine.
Mi ritrovo con la bocca leggermente aperta.
Senza parole, senza alcun suono che ne esce.
Un'altra opportunità.
Un'altra vita.
“Sembra quasi una condanna”, penso.
E poi lo dico.
Frank annuisce.
“Immagino che sia una condanna piacevole”, scherza.
Non saprei come interpretare questa sua teoria.
Non saprei come poter controbattere.
Non saprei.
“L'amore è importante come una vita?”, chiedo.
“La vita non è così importante.”, risponde il ragazzo.
Sbuffo.
“Sei un idiota”, lo accuso.
Frank ridacchia.
“Io ho cinque buoni motivi per amare la mia vita”, dico.
“Beato tu”, esclama sarcastico.
Lo ignoro.
E poi gli elenco tutti i miei buoni motivi.
 
E mentre parlo, lo vedo annuire, riflettere, ascoltare con ammirazione le mie parole.
 
“E il quinto?”, indaga confuso, quando termino di parlare.
Sollevo entrambe le spalle.
“Devo ancora trovarlo. Mi serve soltanto un aiuto. Ma so bene che esiste.”, spiego.
Il ragazzo rimane in silenzio.
Improvvisamente, mi rendo conto che il cielo sopra di noi si è scurito a tal punto da sembrare quasi nero.
A volte ho paura del buio.
A volte invece lo cerco.
Ma se sono in compagnia, allora il buio diventa soltanto un nuovo amico da aggiungere alla comitiva.
 
“Dovremmo tornare a casa”, suggerisco, iniziando ad allontanarmi lentamente dal ponte.
Ma una mano mi trattiene per un braccio.
Non mi volto, so a chi appartengono quelle dita.
“Gerard, ti prego”, lo sento mormorare.
L'osservo con la coda dell'occhio.
Scuote la testa.
“Non andiamocene. Restiamo ancora un po' qui”.
Stavolta mi giro verso di Lui.
“Frank, non possiamo-”, vengo interrotto dal rumore di un singhiozzo.
Resto fermo.
“Ti prego”, mi supplica.
“Voglio aiutarti a trovare il quinto motivo”, conclude.
Vorrei poter tornare indietro, soltanto per ascoltare una seconda volta ciò che ha detto.
Non riesco a parlare, non riesco a dirgli di no.
Così, eccoci qui.
Io.
Frank.
E il buio, che silenziosamente ci segue.
Seduti sul bordo del fiume, a lanciare sassi e guardare il cielo.
A discutere, raccontare, sorridere e pensare.
Come due bambini?
No.
Come le stelle.
Che osservano, brillano.
Ed infine, si spengono.
Insieme.
 
 
“Gerard! L'ho vista! Ho visto una stella cadere!”, esclama ad un tratto Lui, esaltato ed allegro, mentre mi scuote una spalla.
“Era un meteorite, non una stella”, lo correggo, sorridendo.
Lui scuote la testa.
“Non importa! È stato bellissimo!”, strilla.
Ricordo che anche io ho avuto la stessa sua reazione, la prima volta che ne ho visto uno solcare il cielo con la sua fiamma lucente.
E ricordo che immediatamente lo comparai alla vita umana.
Un respiro.
Un colpo.
Un lampo.
E puf, scompariamo nel niente.
 
“Accidenti, non ho espresso il desiderio”, si lamenta sconsolato Frank.
Lo guardo, sollevando un sopracciglio.
“Non dirmi che credi a quella roba”, borbotto.
“Certo che sì”, commenta Lui con ovvietà.
Scuoto la testa.
“Dici che sono ancora in tempo per farlo?”, domanda.
“Fare cosa?”.
“Esprimere il desiderio”.
“Si è sempre in tempo per tutto”.
Il ragazzo sorride.
Poi, rivolge uno sguardo al cielo.
“Desidero che Gerard trovi il suo quinto buon motivo per non mettere fine alla sua vita”, esclama.
Poi, scoppia in una risata.
Lo faccio anch'io.
“Guarda che è una cosa seria”, lo rimprovero scherzosamente.
“Anche il mio desiderio lo è!”, controbatte lui, senza smettere di ridere.
Lo osservo, mentre riprende fiato.
È seduto sulle foglie secche che fanno da tappeto alla terra, al mio fianco.
Le sue gambe sono piegate, e le sue braccia poggiano sulle ginocchia.
I capelli si distinguono bene anche nell'oscurità della notte.
E i suoi occhi.
Maledizione.
I suoi occhi non smettono mai di brillare.
 
“Ehi, Frank”, lo chiamo.
Lui si volta.
La luce non serve, quando una persona risplende così.
“Sono contento che tu sia qui”, affermo.
Sorride.
“Ed io sono contento di sapere che tua nonna non è stata l'unica a volermi invitare”, ironizza poi, guardandomi dritto nel profondo.
Ed il cielo, non mi è mai sembrato così insignificante.
 
Ci alziamo insieme.
Ed insieme, ritorniamo verso casa.
E c'è silenzio.
E non ci sono colori, intorno a noi.
Come se tutto stesse appena iniziando.
 
Cinque.
Sprecare la vita è un atto stupido.
La vita non è un gioco da tavolo da finire in compagnia, né un libro di avventura da leggere in poco tempo.
La vita esiste per un motivo in particolare.
La vita è l'opportunità che ci hanno dato per poter imparare ad amare.
 
***
 
Dunque.
Non sono soddisfatta di questo capitolo.
È corto.
È stupido.
Ed è scontato.
Ma è essenziale per il passaggio al prossimo, che, udite udite, sarà importantissimo.
Anyway, siamo arrivati comunque ad un punto in cui iniziano a succedere cose.
Come avrete visto, Gerard ad un certo punto parla dei suoi cinque buoni motivi per non morire.
Se vi ricordate, lui li elenca tutti nel quinto capitolo, mentre i genitori litigano al piano di sotto.
Il problema è che il padre fa irruzione nella sua stanza poco prima che dica il quinto (rileggete quella parte per rinfrescarvi la memoria), che in realtà Gerard non ha ancora trovato (o almeno fino ad ora).
Molti dei discorsi che ho fatto-ehm, che Gerard ha fatto, sono privi di senso, con parole alla rinfusa, e senza troppo significato.
Oh, e il fatto della fotografia di cui parla Gerard:
E’ una cosa che penso realmente. Ma questo non nega il fatto che adori fare fotografie ad ogni cosa che mi appare sotto la giusta luce (è una grande passione che ho fin da piccola).
Quindi, non odiatemi.
Date la colpa a Gerard.
Anche il discorso di Frank sull’amore: non è altro che un modo casuale di scrivere tutto ciò che mi passava per la mente. Ma dentro la mia testa aveva tutto un suo filo logico, lo giuro!
Ho scritto questo capitolo fra ieri notte e stamattina, dopo aver passato ben tre ore della mia vita con lo sguardo rivolto verso il cielo, ad osservare il magico sciame delle Perseidi sorvolare il nostro pianeta.
Ed è stata un’emozione incredibile.
 
Ma lasciando perdere gli inutili fatti personali, vorrei porvi una domanda.
Arrivati a questa parte della storia, come vi sembra il personaggio di Frank? Vi piace questa doppia personalità (da un lato acido e scostante, dall’altro fragile e bisognoso d’affetto)?
E poi…
In generale, come vi sembra l’andamento della vicenda? Noioso? Squallido? Surreale? Assurdo? Fatemelo sapere, perché io sono capace di non riuscire a dormire per notti intere, pensando a questo.
 
A questo punto, mi sembra di aver detto tutto.
A presto,
Virgyl,
 
Ps: L’ottavo capitolo è già pronto per esplodere!
Pps: Ho finalmente attivato il mio account Wattpad. Il nick è lo stesso, la storia è sempre quella. Date un’occhiata se vi va J
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** Stop looking at me ***


                                                                STREETS
                                                                      OF
                                                               NOVEMBER
                                                                      ***
Canzone: Toxicity- System of a Down (magari il testo non è eccessivamente fedele al senso del capitolo, ma il disordine c’è, e anche il silenzio. E poi è una delle mie canzoni preferite. Enjoy :D)
 
Capitolo Ottavo- Stop watch to me.
 
Se c'è qualcosa che Gerard Way odia fare, allora si tratta sicuramente della preparazione al pranzo di Natale.
Stiamo parlando del venticinque di dicembre.
Lui si sveglia, scende in salotto, saluta sua nonna, e poi impreca, mentre con riluttanza piega i tovaglioli ai lati dei piatti, che adornano con eleganza l'intero tavolo al centro della stanza.
Vorrei proprio poter provare compassione per le sue gesta.
Ma dal momento che Gerard Way sono io, posso soltanto affermare di non aver vissuto momenti più orribili.
 
Stamattina mi sono alzato dal letto nauseato dal forte odore d'incenso che la nonna ogni anno accende, puntualmente, dopo la nascita di Gesù.
Ho sceso con pigrizia le scale, ho salutato mamma, ho salutato Mikey, ed ho ignorato Elena.
 
“Dov'è Frank?”, ho poi esclamato, una volta aver messo piede in cucina.
Mio fratello ha sollevato le spalle, ficcandosi in bocca una qualche schifezza al cioccolato.
Ho guardato mia mamma, che con disinvoltura mi ha avvisato che il mio ospite era andato a prendere una boccata d'aria fuori, da solo.
Ho sbuffato, mi sono vestito, e sono uscito anche io, senza neanche chiedermi dove potesse essere andato.
Sapevo perfettamente la sua meta.
 
E così adesso sono qui, al Suo fianco, sopra il solito ponte, a guardare l'acqua risplendere sotto l'opaca luce invernale che ci circonda.
 
“Mia mamma mi ha telefonato stamattina per augurarmi buon Natale”, mi comunica, scagliando una piccola pietra nel fiume.
“I tuoi sono credenti?”, gli domando, guardandolo.
Lui fa spallucce, afferrando un nuovo sasso, e mirando ad un punto più calmo e meno profondo, provocando così una serie di perfetti cerchi concentrici.
“Abbastanza”, risponde.
 
Anche la mia famiglia è credente.
Credente e praticante.
Mia madre è una di quelle donne che se non lavorano cucinano, e se non cucinano sono in chiesa a pregare.
Mia nonna frequenta la messa da quando è morto mio nonno.
Mikey invece crede in Dio soltanto quando gli conviene.
Gli unici che la pensano diversamente, siamo io e mio padre.
Ma mio padre non fa più parte della famiglia, e io ho tutto il diritto di non essere credente.
Lo ha detto il dottore.
I ragazzi come me spesso non hanno un orientamento religioso ben definito.
Ecco detto tutto.
 
“Tua nonna ti ha regalato qualcosa?”, mi chiede ad un tratto Frank.
“Non mi piacciono i regali, e lei lo sa”, rispondo.
Lui sembra improvvisamente sconsolarsi.
“Io ti ho fatto un regalo”, mormora.
Deglutisco.
“Cosa? Quando? Perché lo hai fatto?”, esclamo paonazzo.
“Ti ho comprato una cosa. L'ho presa prima di partire per il Jersey. Mia mamma mi ha obbligato a farlo per sdebitarmi.”, spiega.
Sbuffo.
“Da quando ci si sdebita materialmente?”, imploro, sollevando le braccia.
Il ragazzo spalanca lievemente la bocca.
“Ma insomma, che noia ti dà Se odi così tanto i regali, vorrà dire che dopo averlo scartato lo getterai! Sai che mi frega”, mi aggredisce, con riluttanza.
Scuoto la testa.
“Lascia stare”, ringhio.
Frank mi guarda confuso.
Lo guardo anch'io, ma con più sicurezza.
Poi decide di tornare a puntare i suoi occhi sul fiume.
Faccio la stessa cosa.
“Comunque penso che domani ritornerò a casa, qui è una noia”, chiarisce, scompigliandosi i capelli con una mano.
Faccio spallucce.
“Fa' come vuoi”, commento.
“Quindi non t'importa poi così tanto della mia presenza”, esordisce, ridacchiando.
Non controbatto.
Mi sembra di aver già parlato abbastanza di questo.
“L'altra sera mi hai detto che eri felice che io fossi qui”, insiste, senza smettere di ridere.
“È così”, affermo, staccando un sottile filo d'erba, e facendomelo passare tra le dita.
“Allora vedi che t'importa di me?”, ironizza, scuotendo la testa subito dopo.
Sento i suoi occhi su di me.
“Non l'ho mai negato”, dico, ritornando a guardarlo.
Frank apre la bocca, ma non ne fa uscire alcun suono.
Poi, si allontana lentamente dalla staccionata del ponte.
“È meglio che vada da tua nonna, magari ha bisogno di aiuto per il pranzo”, esclama.
“E da quando ti piace aiutare le persone?”, gli domando.
“E da quando tu credi a ciò che dico?”, scherza, con quel suo solito tono strafottente.
Da sempre.
“Vado a fare una passeggiata, ci vediamo dopo”, mi avverte, senza aspettare la mia risposta, prima di camminare via velocemente.
Non lo seguo.
Neanche con lo sguardo.
Non lo seguo e non lo guardo.
Un giorno mi dice che gli ho salvato la vita, quello dopo che vuole aiutarmi a trovare il mio quinto motivo per non morire, e poi? 
E poi si scorda di tutto.
Di ogni frase detta.
Ogni cosa fatta.
Ogni strada percorsa.
Tutto.
Frank è un avido pozzo senza fondo, una piccola stanza senza pareti.
Dentro di Lui niente regge.
Niente riesce a rimanere.
Come se fossero tutte barzellette.
Tutte maledettissime menzogne.
 
Ed è così che passa il mio tempo.
Frank se n'è andato.
E io resto qui.
A pensare.
Ad appesantirmi la mente di inspiegabili ragionamenti.
 
Guardo il fiume scorrere velocemente, diretto verso una meta a me nascosta, e che non ho il desiderio di scoprire.
Se vedessi dove realmente va a sfociare questa corrente, la magia svanirebbe.
E ritornerei alla realtà.
Una realtà dannatamente triste.
Eppure era così semplice, da bambino.
Così normale.
Ma la verità è che quando si è piccoli non siamo capaci di guardare in faccia una sola realtà.
Se ne presentano centinaia, davanti ai nostri occhi ingenui.
Innumerevoli realtà che ci portano dritti verso un'ineguagliabile illusione.
La felicità.
I bambini sono sempre allegri.
Sempre sorridenti.
Fastidiosamente ed incomprensibilmente solari.
Accidenti, quanto li invidio.
Quanto invidio loro, e quanto invidio chi riesce a rimanere così anche quando cresce, e diventa adulto.
Chi non pensa.
Chi non fa della sua vita un peso sulla coscienza.
Chi se ne frega di tutto e di tutti, chi non piange su un foglio ormai da tempo redatto, e già celatamente strappato.
Come le foglie di un albero, che nascono con la consapevolezza che prima o poi abbandoneranno la loro salvezza vitale.
E lo faranno perché le battaglie non durano per sempre, e perché le vittorie si ottengono arrendendosi.
O come le onde.
Lente, scure, che adagio si infrangono sulla riva dopo essersi portate dietro un infinito blu chiamato mare.
Il peso di un infinito sulle spalle.
Quanto vorrei non essere umano.
E poter vedere la vita da un altro punto di vista.
 
 
Un forte ed improvviso rumore mi fa sussultare.
Mi volto, accigliato, guardandomi intorno.
Ma sembra tutto così silenzioso.
Così vuoto.
Scuoto la testa, sedendomi su una roccia, e gettando nell'acqua il filo d'erba che avevo staccato poco fa.
Lo vedo svolazzare nell'aria, per poi scendere lentamente, e posarsi delicatamente sul letto d'acqua.
Tanto leggero da poter sembrare invisibile.
Inesistente.
Quasi come me, nell'Universo.
 
Un nuovo frastuono mi obbliga a scattare in piedi.
“Merda”, sussurro, chiedendomi cosa stia succedendo.
Mi allontano a passo lento dal ponte, finendo col ritrovarmi a calpestare l'asfalto della strada parallela al fiume.
Guardo il cielo.
È scuro.
È arrabbiato.
Inizio a camminare, avviandomi verso casa di mia nonna.
Ma il rumore ricomincia.
E stavolta, la Terra inizia a tremare.
Deglutisco, fermandomi.
La mia testa sembra appesantirsi, procurandomi un fortissimo dolore.
 
E il rumore non finisce, non smette di muoversi sotto i miei piedi.
Ritorno a camminare, con cautela.
Mi chiedo quanto sia lontana la casa.
Quanto sia lontana la salvezza.
Una nuova scossa rimbomba con maggiore potenza, destabilizzandomi.
Il terreno non cessa di tremare.
Devo andarmene da qui.
Ma sono solo.
E da solo non riesco a fare niente.
Finirei per immobilizzarmi in un qualche angolo della strada.
Sono solo.
Solo, in mezzo al terrore.
 
Improvvisamente, spalanco gli occhi.
Indietreggio.
Sento i miei occhi prendere fuoco, e le gambe cedere pericolosamente.
“Frank”, mormoro.
 
E in un attimo, inizio a correre.
 
***
 
 
Corro, velocemente, senza voltarmi indietro.
Corro sull'asfalto, e sulla ghiaia che le mie scarpe sono costrette a calpestare, scivolando di tanto in tanto.
E la Terra che continua a danzare intorno a me, e il cielo che non sembra essere più sereno.
E il rumore.
Il rumore che mi rimbomba dentro, e poi rimbomba fuori, e poi rimbomba ancora dentro.
Dentro la mia testa, dentro il mio cuore, dentro ciò che è rimasto.
 
Infine, il suo nome.
Il suo nome, che mi graffia, mi spinge con violenza, costringendomi ad aumentare la velocità.
Il suo nome, che non riesco a pronunciare, e che vorrei aver già urlato, e che vorrei Lui avesse già ascoltato.
 
Vado a fare una passeggiata, ci vediamo dopo.
 
Fanculo alle passeggiate, fanculo a me che non sono andato insieme a Lui, fanculo alla sua incoerenza.
Il vento invernale mi scompiglia i capelli, mi fa bruciare gli occhi, mi rende impotente.
Penso alla casa di mia nonna, penso a tutti i suoi preziosi ed inutili oggettini che si schiantano al suolo, esplodendo in centinaia di irrecuperabili e minuscoli pezzi.
Penso alla preoccupazione di mia madre, che mi cerca ovunque, sperando che io stia bene.
E penso a Frank, che è andato semplicemente a fare una passeggiata, ma che tanto semplice non si è dimostrata.
E che adesso non sa cosa fare, non sa cosa pensare, e non sa dove io sia.
E non sa dove Lui sia.
Corro, corro velocemente, corro senza meta.
Corro seguendo l'unica immagine che la mia mente riesce ad elaborare.
Ed è l'immagine di un vicolo, un vicolo scuro, buio, con l'asfalto rovinato e l'odore acre di sporco, cibo andato a male preparato da persone altrettanto andate a male.
So dove si trova quel posto.
È il posto che tutti evitano, e che nessuno cerca.
È il posto in cui è stato trovato morto il fratello del sindaco di Belleville, pochi anni fa.
È il posto in cui gli spacciatori vendono la loro droga più costosa.
Ed è lo stesso posto in cui le persone si rifugiano da loro stesse.
 
La velocità della mia corsa aumenta.
 
Arrivo davanti al vicolo ansimando, e guardandomi intorno con la paura che cresce dentro di me.
Non c'è nessuno, qui vicino.
È tutto così grigio.
Così triste.
Così diverso dalla parte che il resto delle persone conoscono del Jersey.
O meglio, che vogliono conoscere.
Avanzo furtivo verso la parete dell'edificio che delinea la stretta e oscura strada.
Ma quando poggio la mano sulla superficie polverosa e grinzosa, ricomincia di nuovo a tremare tutto.
Un enorme nodo mi si forma in gola, invitandomi a chiudere gli occhi e a respirare, lentamente.
E sento come un potente brivido attraversarmi le vene, passando per il fegato, lo stomaco, ed infine arrivando violento al cervello.
Sussulto, rendendomi conto di dove mi trovi.
Vedo il grigiore circondarmi, il terrore sopprimere i miei sforzi di sembrare coraggioso.
Deglutisco, prima di fare un passo avanti, e di entrare completamente nel vicolo.
 
Non riesco a vedere quasi niente.
Sebbene sia appena mattina, la luce è poca, e il cielo si comporta in modo tutt'altro che normale.
Mi muovo ancora, inoltrandomi nel buio.
Ed ecco che l'insopportabile odore mi pervade le narici, facendomi arricciare fastidiosamente il naso.
Assottiglio gli occhi, cercando di scrutare meglio l'alone scuro che mi si presenta davanti.
È tutto così maledettamente inutile.
Non riesco a vedere.
Non riesco a capire.
Non riesco a percepire alcun rumore, alcun suono, oltre a quello della Terra, che di tanto in tanto continua a tremare.
Ad un tratto, sento qualcuno tossire.
Mi avvicino.
“Frank?”, sussurro.
Un nuovo colpo di tosse accompagna un rumore cartaceo.
“Frank?”, ripeto, con più enfasi.
Inclino leggermente il collo, aumentando la velocità dei miei passi.
Poi, due piccoli fanali si illuminano, lasciando sfuggire la loro solita opaca brillantezza.
 
E improvvisamente, il cielo sembra piombarmi addosso.
 
Mi getto su di Lui, accovacciandomi al suo fianco.
“Frank, stai bene?”, gli domando, con la voce di chi ha paura di sentire la risposta.
Lui mi ignora, e lentamente si alza.
Lo vedo barcollare, nel buio della strada, e strofinarsi una mano sull'occhio sinistro.
Lo tengo fermo per le spalle, di fronte a me.
“Frank, dobbiamo tornare a casa”, lo avverto.
“Lasciami stare”, sussurra lui, gettando qualcosa ai nostri piedi.
Seguo la traiettoria della caduta dell'oggetto.
È una sigaretta, che lentamente va a stendersi sull'asfalto umido, spegnendosi.
Guardo Frank con espressione interrogativa.
“Tu fumi?”, domando, confuso.
“Vattene, Gerard”, mi ignora il ragazzo, aggredendomi con voce roca, e spingendomi indietro.
Tentenno per un attimo, mentre riprovo ad avvicinarmi.
“Cosa fai qui? Dobbiamo andarcene. Crollerà tutto!”, esclamo poi, paonazzo.
Ma Lui si allontana, scuotendo la testa.
“Ma che stai dicendo? Va' via”, ringhia, scandendo al meglio le sue parole.
Lo guardo spalancando occhi e bocca, stringendomi i capelli con entrambe le mani.
Il terreno sotto di noi ha smesso improvvisamente di tremare, e ogni cosa sembra essere tornata alla normalità.
“Frank, maledizione! Andiamocene di qua!”, urlo, afferrandolo per un braccio.
“Lasciami stare! Ma che cazzo fai?”, controbatte, sfuggendo alla mia presa.
“Il terremoto, Frank. Non hai sentito!?”, strillo.
Lui mi guarda accigliato.
Poi si stringe nel suo giubbotto scuro, indietreggiando.
La mano salda attorno a qualcosa, che porta dietro la schiena.
“Ma di cosa stai parlando?”, mi domanda, assottigliando gli occhi.
“Il rumore, i boati! E la Terra che tremava! Si può sapere cosa stavi facendo?”, rispondo, allungandomi verso di Lui, e cercando di aggrapparmi al suo polso.
“No!”, esclama però Frank, scansandosi.
Deglutisco.
“Cos'hai là dietro?”, mormoro.
“Niente”, sibila, abbassando lo sguardo.
“Frank, cos'hai nella mano?”, ripeto, enfatizzando il tutto.
Non risponde.
Sbuffo.
Poi, con un rapido gesto, lo immobilizzo al muro.
Le mie braccia bloccano le sue, ai lati del viso.
Ci guardiamo per qualche istante.
E posso sentire i suoi respiri su di me.
E il suo cuore battere sul mio petto.
E i suoi occhi unirsi ai miei, come sempre.
 
Velocemente, afferro l'oggetto che le sue dita tengono ancora saldamente stretto, indietreggiando subito dopo.
“Lascialo!”, strilla Lui, saltandomi praticamente addosso.
Ma riesco a farlo allontanare, finché non analizzo bene ciò che adesso è in mio possesso.
Mi sposto verso la luce, all'esterno del vicolo in cui entrambi ci troviamo.
 
Sul mio palmo prende forma una piccola lametta di ferro, che si illumina con un fastidioso luccichio.
E come se le mie dita fossero sabbia, la lama cade nel vuoto.
Cade, cade, cade, finendo con lo sbattere rumorosamente sulla strada.
La guardo.
E poi guardo Frank, che immediatamente si poggia sulla parete di uno degli edifici, coprendosi il viso con le mani.
Lo raggiungo, camminando lentamente.
 
“Tu...”, sibilo.
Scuoto la testa.
“Prima ascolti il mio discorso sull'importanza della vita... E poi... Ti autolesioni?”, lo aggredisco, mantenendo basso il mio tono di voce.
Il ragazzo inizia a singhiozzare.
Con un gesto violento, gli allontano i polsi dalla faccia, scoprendo la sua espressione abbattuta e disperata.
E i suoi polsi sono rossi, sono feriti.
“Cristo, smettila di piangere!”, esclamo.
Lui evita il mio sguardo, cercando inutilmente di trattenere le lacrime.
“Sei così tristemente-”, mi interrompo, sospendendomi con un cazzotto al muro.
E cerco di trattenermi.
E di non esplodere.
E di non pensare.
Ma c'è la delusione, che si unisce alla paura, e che sfreccia selvaggiamente dentro di me.
 
“PATETICO!”, urlo, tornando a puntare i miei occhi su di Lui.
Frank ricomincia a singhiozzare, negando le mie parole con cenni del capo.
“Non è vero”, mormora.
“Ah no?”, gli domando, apparendogli davanti, e afferrandolo da dietro il collo.
“E allora dimmi, cosa ci facevi con quella fottuta lametta?”, lo aggredisco, alludendo all'oggetto metallico intriso del suo sangue.
“Gerard, lasciami stare...”, implora, come fosse una preghiera.
“Frank, io ti ho salvato, e ho provato ad aiutarti! Ma tu non fai niente per resistere!”, esclamo, esausto.
Poi, mi avvicino.
“Perché non provi a resistere, Frank?”, sussurro.
Lui non risponde.
“Perché non ti dai una possibilità?”, continuo, diminuendo la distanza.
Il ragazzo stringe le mani in due pugni, e inizia a respirare con più difficoltà.
Posso sentire la rabbia riempire le sue vene, salire su verso il cuore.
E picchiarlo, picchiarlo con inaudita violenza.
“Perché non ti liberi, una volta per tutte?”, insisto.
Lui continua con il suo interminabile e sofferente silenzio.
Vedo i suoi pugni stringersi sempre di più, e le nocche lentamente sbiancarsi.
“Vuoi picchiarmi? Avanti, vuoi picchiarmi?”, lo incito.
Frank deglutisce.
“Forza, colpiscimi. Fallo.”, esclamo.
Lui abbassa lo sguardo.
“Esplodi, Frank. Su, picchiami”.
Non so più neanche io cosa stia dicendo.
Da quando in qua ho voglia di farmi pestare da qualcuno?
Il ragazzo sembra ignorarmi.
Allora mi avvicino ancora, fino ad arrivare a pochi millimetri dal suo viso.
“Esplodi, Frank”, sussurro.
Un suo sospiro.
Poi, uno mio.
Esplodi”, ripeto, per l'ultima volta.
 
Il primo colpo arriva insicuro ma violento sullo stomaco.
Mi piego su me stesso, allontanandomi di qualche passo.
“Cosa ne sai tu?!”, dice Frank, venendomi in contro.
“Cosa aspetti? Ammazzami”, ghigno.
La mia fragile voce sembra essere divisa da minuscole crepe.
Una nuova spinta mi destabilizza, e sento il peso di Frank piombarmi addosso.
Riesco comunque a rimanere in piedi, trovando appoggio al muro dietro di me.
“Smettila di essere sempre così tranquillo! Che ne sai tu di cosa si prova ad essere costantemente rifiutati da tutti?!”, strilla.
E lo vedo diverso, cambiato.
Non è più il solito ragazzino debole che se ne sta appartato in un qualche angolo del mondo, nell'ombra dell'umanità.
Cosa ne so io?”, gli chiedo con disprezzo, avvicinandomi velocemente, e restituendogli la spinta verso la parete.
Lui sussulta, ma in pochi attimi ritorna sulla difensiva, uscendosene con:
“Anni e anni passati a nascondermi da tutto e da tutti. I miei coetanei che mi attaccavano, e i miei genitori che mi assecondavano...”.
Per un momento, vedo ritornare la sua normale espressione.
Poi, un improvviso rumore sordo.
“COSA NE VUOI SAPERE TU?!”, lo sento urlare, poco prima che mi molli un cazzotto in pieno viso.
 
Perdo parzialmente l'equilibrio.
Il mio udito sembra abbassarsi, e la mia vista appannarsi.
Un fastidiosissimo e acuto rumore si fa spazio tra le mie orecchie, obbligandomi a coprirmele con le mani.
Dopo qualche secondo, mi porto due dita sul viso.
Dal mio naso esce tanto di quel sangue che probabilmente, se riuscissi a vederne chiaramente il colore, ne rimarrei inorridito.
“Merda”, borbotta Frank, davanti a me.
Vedo le sue gambe avvicinarsi, e lentamente tendermi un braccio.
I miei respiri si fanno irregolari e pesanti, il mio cuore sembra pronto a scoppiare.
Non mi piace fare del male ad altre persone.
Non mi piace.
È orribile.
Disgustoso.
E poi Frank, per quale motivo dovrei farne a lui?
Ma accidenti, inizio a credere che non tutto abbia sempre un motivo.
 
Con uno scatto fulmineo, mi getto sul ragazzo, facendolo sbattere sul solito muro, oramai sgretolato.
Afferro con forza il colletto del suo giubbotto, immobilizzandolo.
Non riesco a capire.
Non riesco a capire perché io abbia appena fatto questo.
 
“Tu pensi che essere me sia semplice?”, mormoro, con la voce impastata dal sangue e dalla saliva.
“Pensi che sia divertente frequentare ogni giorno uno specialista diverso? Che ti guarda, ti sorride, e poi si appunta ogni fottutissima cosa che la tua bocca si fa sfuggire sul suo maledettissimo quaderno?”, continuo.
E le parole escono come se fossero le ultime che dico.
Lente.
Tremanti.
E pesanti.
Frank non commenta.
Lo strattono con forza.
“Avanti, pensi che sia divertente?!”, lo aggredisco, urlando.
Lui sposta il viso verso destra, strizzando le palpebre, ed interrompendo l'incontro fra i nostri sguardi.
“Eppure, guardami. Ti ho salvato la vita”, concludo, con un sibilo, allentando la presa, ed indietreggiando di qualche passo.
Il mio zigomo continua a pulsare, e il liquido rosso a scendere verso il mento.
Ma non m'importa.
Non è dolore, questo.
È soltanto fragilità.
 
Stavolta sono io che vengo bloccato dalle sue mani, dopo che con rapidità corre verso di me, e preme sui miei avambracci.
Fissa i miei occhi, ed io faccio lo stesso con i suoi.
E sembrano essere così pieni di ingiustizie, e di un'immensa forza d'animo.
“Io voglio aiutarti, Frank”, esordisco, mentre sento fitte più forti ai miei arti superiori.
Non vuole lasciarmi andare.
Ha finalmente il controllo su di me.
Provo a liberarmi, ma non cede.
Adesso, sono io che devo ascoltare.
 
“Venivo picchiato”, inizia.
Immediatamente vado in allerta.
“Da chi?”, esclamo.
Frank scuote lentamente la testa.
“Non è importante”, risponde.
Deglutisco sonoramente.
“E quando tornavo a casa, papà mi metteva in punizione”, continua.
Apro la bocca per parlare, ma la sua voce mi interrompe:
“E lo sai perché?”.
Passa un attimo di silenzio.
Una lacrima gli sfugge, e corre giù, verso il basso.
Ormai mi sono abituato al buio circostante, e sono in grado di vederla.
 
Perché un vero uomo non deve mai subire, può soltanto combattere e poi vincere. Sempre.”, spiega poi, citando le parole del padre ed imitandone anche il tono.
“Frank, io-”
“No. Non dire che ti dispiace. Mio padre ha ragione. Guardami, a malapena mi reggo in piedi... Dovrei vergognarmi”, continua.
“Non dire cazzate”, esclamo.
Lui ghigna, con la disperazione che si cela dietro le sue labbra tese.
“Essere fiero del proprio figlio è il sogno di tutti i padri. Io sono soltanto una vergogna per il mio”, mormora, annuendo.
Poi, lentamente, molla la presa, distaccandosi.
E con un gesto veloce riesco ad invertire nuovamente le posizioni.
“Non sei una vergogna. Non devi pensare di esserlo”, dico.
Frank scuote la testa, rimanendo in silenzio.
“Smettila di sottovalutarti”, insisto, cercando il suo sguardo.
“Lasciami stare, Gerard. Domani me ne andrò, le cose miglioreranno”, controbatte, provando ad allontanarsi da me.
Ma immediatamente gli stringo i polsi con maggiore forza.
Ritorniamo a guardarci.
Ed è tutto così strano.
Faccio unire le nostre fronti, creando un nuovo contatto.
Lui prova a liberarsi, ma io seguo i suoi movimenti.
E ci riprova, ma no, non lo lascio andare via.
So che non lo vuole davvero.
So che vorrebbe passare così i prossimi minuti, e ore, e giorni.
E che non è casa sua, il posto in cui desidera tornare.
I suoi svogliati tentativi di dimenarsi vengono puntualmente interrotti dal peso della mia fronte sulla sua, della mia pelle che lo trattiene.
Sono qui apposta per lui.
Il rumore, il terremoto.
La Terra che vibrava sotto di me.
Tutto accaduto esclusivamente per avvisarmi.
Tutto.
 
E ad un tratto, Frank sembra riaccumulare le sue forze, e con destrezza riesce ad allontanare un braccio dalle mie dita.
Senza la lucidità che mi trattiene, riprovo ad immobilizzarlo, sfruttando il mio peso su di lui.
Ma le mani non sono abbastanza, il corpo non è abbastanza.
Frank sembra deciso a non cedere.
Il buio non è abbastanza.
Neanche il freddo lo è.
Io non sono abbastanza, nessuno dei due è in grado di vincere.
 
E allora succede.
Succede e basta.
Velocemente, e disperatamente.
Con un gesto rude e sgraziato, violento e deciso.
E le mie labbra finiscono pesantemente sulle sue.
 
Ed il tempo sembra fermarsi.
Accade come un blocco.
Un carismatico momento che ci separa dalla nostra ormai unica realtà.
Dal mondo esterno.
Ci muoviamo all'unisono, con i respiri che si fondono, e il resto che sembra non esistere.
Non è un bacio, non è uno scambio di nessun tipo.
È lontano da tutto questo.
È un'unione.
Come quella che i nostri occhi compiono ogni volta che si incontrano.
Io e Frank, ci baciamo ogni volta che ci guardiamo.
 
Una mano si posa improvvisamente sul mio petto, spingendomi violentemente indietro.
Mi ritrovo a dover combattere per non cadere.
Sgrano occhi e bocca, mentre fisso stralunato Frank.
Anche Lui fa la stessa cosa, schiacciandosi da solo contro la parete alle sue spalle.
Mi fa male la testa.
Mi fa male la gola, e anche lo stomaco.
Mi tremano le gambe, e le braccia, e le mani.
Ho paura.
Ho paura di rendermi conto di cosa è appena successo.
Il ragazzo si porta una mano sulla bocca, sfiorandosi lentamente le labbra.
Deglutisco.
Il contatto mi ha lasciato un sapore amaro, contaminato dal fumo.
Ma è un sapore sincero, vero.
Giusto.
Non avevo mai provato un contatto simile con nessuno, prima di adesso.
Forse perché non ho mai passato il mio tempo insieme ai miei coetanei, o forse perché non ho mai cercato niente di simile.
Eppure non capisco.
Non capisco, non capisco, non capisco.
Ho sempre dato per scontato che gli opposti si attraggono.
Che un giorno sarei diventato come mio padre, e mi sarei sposato con una donna come mia madre.
 
Ma magari questa non è attrazione.
Magari è soltanto confusione.
Scherzi del cervello.
Stupidi ed improvvisi lapsus.
Probabilmente ciò che è successo era esclusivamente un modo per non farlo andare via.
Per non fare andare via Frank.
Accidenti, accidenti e accidenti.
 
Mi allontano lentamente dal vicolo, uscendo finalmente all'offuscata e tiepida luce del sole.
Non c'è nessuno.
Giusto qualche anziano che parla con altri anziani di cose che i giovani non potranno mai capire.
L'aria è ferma.
Il mondo è fermo.
Avanzo con cautela verso la via che porta a casa di mia nonna.
Mi sento intorpidito, e la testa sembra pronta ad esplodere.
 
“Non sono gay”, esclama ad un tratto qualcuno alle mie spalle.
Mi volto, destabilizzato e confuso.
Frank mi guarda con l'imbarazzo che gli colora il viso.
“Non sono gay”, ripete, con più sicurezza.
Annuisco lievemente, poi con più convinzione.
“Lo so”, affermo, ritornando a camminare.
E il silenzio ci segue, rassicurante, durante tutto il tragitto.
 
***
 
“Gerard, dove siete stati? Fra poco pranziamo”, ci accoglie mamma, quando entriamo in casa.
Non rispondo alla sua domanda, e mi dirigo in salotto, dove mia nonna sta addobbando un orribile alberello sintetico.
I suoi oggettini sono tuti al loro posto.
Non una crepa, niente di rotto.
Ecco Gerard e i suoi terremoti interni.
 
“Nonna, posso parlarti?”, le chiedo, raggiungendola, ed appendendo ad uno dei rami una campanella d'argento.
Lei annuisce, mentre inizia ad intonare un'orribile melodia natalizia.
Faccio roteare gli occhi.
“Frank domani tornerà a New York”, dico, alludendo al ragazzo, che sta inspiegabilmente parlando con mio fratello nella stanza accanto.
Elena smette improvvisamente di canticchiare, spostando il suo sguardo allibito su di me.
“Così presto?”, indaga.
Annuisco con un cenno della testa.
“Avete litigato?”, insiste.
“No”, rispondo in fretta.
Lei lascia cadere l'addobbo che aveva fra le mani in una scatola al suo fianco, avvicinandosi a me.
“È successo qualcosa”, esordisce.
“No”, ripeto.
“Non era una domanda”, puntualizza.
Deglutisco.
“Faresti meglio a dirmi cosa c'è, Gerard”, mi aggredisce, puntando un dito ossuto sul mio petto.
“Non c'è nulla! Frank domani se ne andrà, ecco cosa dovevo dirti”, concludo, sfuggendo al suo tocco, e avviandomi verso il corridoio.
Posso sentire lo sguardo di mia nonna su di me.
E vorrei soltanto correre.
Correre fino allo sfinimento.
Cadere affaticato sulla strada, per poi svenire, accasciandomi al suolo.
E rimanere lì.
Per ore.
Giorni.
Per sempre.
Ma per adesso, posso soltanto accontentarmi di un letto, su cui pesantemente gettarmi.
E infine, soffocare le mie urla con il tessuto del cuscino.
 
***
 
“Michael, passami la saliera”, ordino a mio fratello.
Lui mi ignora, raccogliendo i piatti dal tavolo con nonchalance.
Sbatto un pugno sul legno del piano, provocando un rumore che fa voltare il ragazzo.
“Michael, Cristo, passami quella fottuta saliera”, ripeto, ringhiando con riluttanza.
“Sei l'unico della famiglia che continua a chiamarmi Michael”, osserva lui.
Lo guardo accigliato.
“Dovresti iniziare a chiamarmi Mikey”, continua, annuendo.
“Va bene, Mikey, adesso passami la saliera”.
La mia pazienza che va a disperdersi velocemente.
“Parola d'ordine?”, domanda con sarcasmo Michael.
“Passami la saliera”, insisto, non curandomi della sua richiesta.
“Risposta errata”, dice, scuotendo la testa.
Con uno scatto, gli dò una spinta verso sinistra, allungandomi da solo verso la saliera ormai vuota, e portandola al suo posto.
Lui strilla qualcosa di incomprensibile.
Ed io lo mando all'Inferno.
 
“Ma che cazzo ti succede?”, lo sento poi esclamare, alle mie spalle.
Lo ignoro, chiudendo lo scaffale in cui ho riposto l'oggetto.
Il pranzo è iniziato con una preghiera.
Tutti hanno mangiato.
Nessuno ha parlato più di tanto.
E poi il pranzo si è concluso con la stessa preghiera, ripetuta tre volte consecutive da mia mamma e mia nonna.
È stato identico a tutti gli altri pranzi di Natale a cui ho partecipato durante tutta la mia vita.
Tutti.
E la presenza di Frank non ha poi cambiato eccessivamente le cose.
Ha consumato, ha ringraziato, e si è ritirato.
 
Una mano mi strattona la spalla destra, obbligandomi a voltarmi, e a guardare negli occhi mio fratello.
“Insomma, che ti succede?”, implora, agitando le braccia.
“Fatti gli affari tuoi”, rispondo con acidità, avviandomi nuovamente verso il salotto.
Ma lui riesce comunque a bloccarmi.
“Adesso tu mi dici cosa c'è che non va!”, mi ordina, severo.
E sto per parlare.
Per dirgli tutto.
Per raccontargli cosa è accaduto in quel fottutissimo vicolo.
Della lametta di Frank, del suo pugno, e delle mie labbra sulle sue.
E di quanto entrambi avessimo cercato quel contatto, e immediatamente lo avessimo comunque interrotto.
Ma non posso.
Non posso farlo.
Michael potrebbe reagire nel modo sbagliato, io potrei reagire nel modo sbagliato.
E ci allontaneremmo da Frank, e da tutti i suoi problemi.
E dalle sue cicatrici sui polsi, e dalle sue cicatrici nel cuore.
 
E non ce la faccio.
 
“No”, concludo, ignorando le successive parole di Michael, e salendo lentamente le scale, verso la mia stanza.
Mio fratello sembra non aver capito.
Ma la verità è che neanch'io, ho capito.
Probabilmente neanche mia nonna sarebbe in grado di farlo, e figuriamoci mia mamma.
Poi c'è Frank, che si taglia le vene con una lametta rovinata, mi picchia, e infine mi dice di non essere gay.
E io ci credo.
Neanche io lo sono.
Non era un bacio, quello.
Non era niente.
 
Cammino velocemente, cercando di rimuovere, almeno temporaneamente, ogni ricordo di questa mattina.
Ma mentre cerco di arrivare alla mia stanza, evitando di perdermi in inutili grattacapi, vedo la porta della camera di Frank socchiusa.
Trattenendo il respiro, mi avvicino.
Lentamente.
La finestra è aperta, e il sole sembra essersi nascosto da qualche parte nella stanza.
In terra noto una valigia.
È la stessa che ho portato qui io, quando il ragazzo è arrivato.
Capisco che è stata appena riempita dai suoi vestiti, ed è quasi del tutto chiusa.
Ma manca una cosa.
O forse due.
Qualcosa di cui Lui non potrà mai dimenticarsi.
 
Frank se ne sta lì, seduto sul bordo del letto, con lo specchio fra le mani, e gli occhi lontani dall'oggetto, attenti a non incontrarsi involontariamente con il loro riflesso.
Sembra assorto in pensieri confusi, intrecciati, complicati.
Sembra voler provare a guardarsi, una volta per tutte.
Ma sembra anche troppo fragile, troppo insicuro per poterlo fare.
I corti capelli scuri e la pelle liscia e delicata, lasciata intravedere dalla scollatura del maglioncino blu, contribuiscono ad accentuare le sue debolezze, rendendolo così piccolo, e al tempo stesso così grande.
Così pieno di magia, dentro di sé.
E le sue mani sottili, che stringono con potenza il mosaico specchiato.
E lo fanno per sentirsi più forti, per riuscire ad avere controllo su qualcosa che in realtà spaventa il loro possessore.
Un possessore che il controllo non riesce a gestirlo.
 
Entro lentamente e silenziosamente nella stanza, stando attento a non fare troppo rumore.
Ma è tutto così tristemente inutile.
Lui riesce sempre a sentirmi.
Anche se non si volta, se non mi parla.
Frank sa che sono entrato, e anche che lo stavo osservando.
Frank sa che mi sono avvicinato, e che adesso mi sono seduto dietro di Lui.
 
E anche se ho paura, poggio dolcemente una mano su una spalla.
Ma Lui ignora il mio gesto.
Sembra non averlo neanche percepito.
Ma non importa.
Non è questo l'importante.
 
Sento il mio cuore sparare scintille, mentre faccio lentamente scivolare le dita dell'altra mano verso lo specchio.
Frank deglutisce.
Con cautela, lo alzo, fino a ritrovarmi all'altezza del suo mento.
Poi, lo guardo.
Guardo il suo profilo, il suo naso perfetto.
Le sue labbra rossastre, che ho violentemente toccato, mentre lo immobilizzavo al muro di uno sporco edificio grigio.
E la sua espressione decisa, ma al tempo stesso timida e fragile.
Lo guardo con gli stessi occhi con cui lo guardo sempre, andando a catturare i suoi più nascosti pensieri.
 
La situazione è tranquilla, normale.
Come se niente fosse successo.
Come se io fossi semplicemente Gerard, e Lui semplicemente Frank.
 
E infine, con una leggera insicurezza, il ragazzo annuisce.
E capisco che posso continuare.
Lui chiude gli occhi.
Ed io porto l'oggetto davanti al suo volto.
Sento i suoi respiri farsi più pesanti, e la spalla, che sto ancora toccando, iniziare a tremare.
Sa che è venuto il momento.
Sa che deve guardare in faccia quel maledettissimo riflesso.
Che deve finire di nascondersi.
Che deve capire chi è, e come appare.
Osservo meglio lo specchio.
I nostri visi sono proiettati sulla sua superficie, spezzettati in decine di piccole parti informi.
Ci sono io, con i miei soliti capelli neri, che mi ricadono disordinati sul viso.
E poi c'è Lui, che con le palpebre abbassate aspetta di ricevere la giusta spinta per poter guardarsi.
E sembra così delicato.
Che un pugno basterebbe ad infrangerlo.
Che un bacio basterebbe a scioglierlo.
Gli accarezzo con più enfasi la spalla.
E Lui decide di farlo.
Decide di liberarsi.
Decide di lasciarsi scivolare addosso ogni cosa che si porta dietro da ormai troppo tempo.
E con un lento, leggero, delicato movimento, apre gli occhi.
 
Due sottili fessure chiare escono dallo scudo, ingrandendosi sempre di più.
Risplendono, come sempre, in tutta la stanza.
E si espandono, si mostrano al mondo.
E si mostrano al loro maledetto e tanto temuto riflesso.
 
Lo vedo spalancare leggermente la bocca, e incurvare le sopracciglia con sorpresa.
Sorpresa, e paura.
Paura, ed emozione.
Emozione, e tristezza.
Una sottilissima ed impercettibile lacrima scende giù, sul suo viso, attraversandogli una guancia, e andandosi ad infrangere alla fine della mascella.
I suoi occhi scrutano attentamente i lineamenti del suo viso, i colori delle sue iridi e la forma delicata delle sue labbra.
Guarda le ciocche di capelli scuri contornargli la fronte, e le orecchie fare capolino da entrambi i lati del viso.
Con una mano, va a toccarsi gli zigomi, prolungandosi poi verso il mento e infine verso collo.
Vuole sentirsi, vuole essere sicuro di poter reggere il peso della potente immagine che lo fissa costantemente, lì, di fronte a Lui.
 
Poi, ad un tratto, il suo sguardo si sposta sul mio riflesso.
Sul mio volto e sulla mia pelle diafana.
Sulla mia espressione comprensiva, e sui miei occhi verdi.
E improvvisamente, sento come una sensazione di vuoto.
Di un vuoto diverso, di un nuovo vuoto.
Un vuoto che da solo non riesco a colmare. 
Un vuoto che mi spaventa.
Un vuoto che mi chiama, dal profondo.
Frank che guarda me.
Ed io che guardo Lui.
E noi che guardiamo uno specchio.
 
Il ragazzo si volta, lentamente.
Lo faccio anch'io, mollando la presa sulla sua spalla, e abbassando l'oggetto.
Ed in un attimo, ci ritroviamo faccia a faccia.
Lui con i suoi occhi lucidi.
Ed io con il mio infinito vuoto.
Lo vedo inumidirsi le labbra, per poi deglutire.
Un'immensa forza che continua a trascinarmi verso il solito vuoto.
Un senso di inspiegabile torpore.
Abbasso lo sguardo verso il suo collo.
Sembra quello di un bambino.
Quello di un neonato.
Frank ha l'aspetto di un bambino.
Lo ha sempre avuto.
Fin da quella volta che lo trovai accasciato nel bagno della Redflame.
Era un fottutissimo bambino, lasciato solo in un mondo troppo grande.
Solo come sole sono le gocce di pioggia quando cadono sul vetro della finestra, e che con fatica fanno l'impossibile pur di incontrarsi fra di loro, ed unirsi, per poi morire insieme sul fondo.
 
“Non sei più solo, Frank”, mormoro, tornando ad incrociare il suo sguardo.
Lui sorride leggermente, sollevando appena un angolo della bocca, e dando vita ad una simpatica fossetta sulla guancia.
Lo imito, mentre i miei occhi perlustrano per intero il suo viso.
Poi, sento come un cedimento da parte delle mie ossa, dei miei organi, del mio corpo.
Del mio tutto.
Senza smettere di fissare le sue iridi luminose, inizio ad avvicinarmi.
E più mi avvicino, più la distanza diminuisce, e più sono in grado di sentire il suo respiro.
Le palpebre iniziano ad abbassarsi, e non riesco a fare più nulla.
E non riesco a controllare più nulla.
Percepisco il calore di Frank avanzare verso di me, arrivando al limite della vicinanza con il mio viso.
E ad un tratto, sento le sue labbra poggiarsi delicatamente sulle mie.
 
E le labbra si muovono, si uniscono, si esibiscono in una danza dolce ed insicura.
Le mie dita vanno a toccare il suo viso, accarezzandolo.
E non capisco, non capisco più niente.
Non capisco dove mi trovi, e perché io lo stia facendo.
Perché lo stia facendo con Frank.
 
E l’incontro è fatale.
Come la collisione di due Oceani, con le diverse temperature che combattono per restare insieme.
E si fondono delicatamente, lasciando che scosse e brividi si disperdano lungo tutto il corpo.
E se non capiamo non importa.
E se non possiamo, non importa.
Perché la sola cosa che importa, è che noi, ci stiamo salvando.
 
***
 
Buon salve a tutti.
Sebbene avessi detto, l’ultima volta, che l’ottavo capitolo sarebbe esploso presto, sono stata costretta a studiare e studiare e soffrire e studiare.
Conclusione:
Un capitolo discreto ma non troppo.
 
Comunque.
È successo.
Hanno rotto il ghiaccio e si sono guardati allo specchio.
A questo punto, le cose non possono far altro che peggiorare!
 
Scherzi a parte, sono soddisfatta di essere arrivata a questo punto.
Dopo una parte così importante, gli avvenimenti saranno molto più fluidi e decisivi per una futura conclusione (che arriverà, secondo i miei calcoli, fra una decina di capitoli).
 
Vi chiedo di farmi sapere se vi è piaciuto, o almeno se lo avete apprezzato.
(Per qualunque errore, date tranquillamente la colpa alla mia beta).
 
A questo punto, immagino che ci sia poco da dire J
Vi lascio con una domanda:
Come pensate che affronteranno la situazione Frank e Gerard? :P
 
A presto (spero, dato che avrò gli esami di riparazione a breve),
Virgyl,
 
Ps: Se non l’aveste capito –e non perché siete stupidi, ma perché io non riesco sempre ad esprimere ciò che penso- il terremoto non c’è mai stato. Si trattava di un avviso elaborato mentalmente da Gerard che lo avvertiva del pericolo di Frank.
 
Pps: Due capitoli fa, ho chiamato il padre di Frank con il suo nome d’arte, Cheech, e non quello vero, Anthony. Lo dico per non creare ulteriore confusione.
 
Ppps: Ringrazio di cuore le quindici persone che hanno aggiunto questa storia alle preferite, e le altre quattordici che l’hanno inserita tra le ricordate (che poi magari sono le stesse ed io non me ne sono accorta, ma who cares, vi sono comunque immensamente grata).
C:  
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Everybody Hurts. ***


 

  •  

     

                              Streets

                                 Of

                            November

                                 ***

    Canzone: Everybody hurts, REM.

     

    Capitolo nono.

     

     

    Ci dividiamo lentamente, con gli occhi ancora chiusi ed i visi arrossati.

    La mia mano si allontana dal suo collo, tornando a posarsi sul materasso su cui siamo seduti.

    Riusciamo a guardarci soltanto dopo profondi respiri e timidi movimenti.

    Le sue iridi chiare mi fissano sorprese, e le labbra lucide sembrano essersi perennemente serrate.

    Deglutisco sonoramente, per poi abbassare lo sguardo e socchiudere nuovamente le palpebre.

    Passano dolorosissimi minuti di sofferente silenzio, accompagnati dall'aria invernale che entra danzante dalla finestra.

    E non so cosa fare.

    E non so cosa dire.

    Dovrei scappare?

    Dovrei parlare?

    Oppure far finta di nulla? 

    Far finta che tutto ciò non sia accaduto.

    Far finta che non mi sia piaciuto.

     

    È Frank, il primo ad aprire bocca.

    «Scusa», mormora, con la voce impastata dall'emozione e dalla paura.

    Scuoto la testa.

    «Scusami, Gerard» ripete, con più enfasi.

    Continuo a negare.

    Stavolta non controbatte.

    «Forse dovrei preparare i bagagli», afferma poi, dopo essersi alzato dal letto.

    Alzo appena gli occhi, incontrando i suoi, che cristallini mi osservano dall'alto.

     

    Vuoi che se ne vada?

    Vuoi davvero che ti lasci qui, da solo?

    Dopo tutto ciò che è successo?

     

    «D'accordo», dico.

    Il ragazzo annuisce, e velocemente ammonta tutta la sua roba nella valigia che io ho portato qui il giorno in cui è arrivato.

    Lentamente mi avvicino a Lui, aiutandolo.

    I momenti che seguono sono silenziosi, tesi ed imbarazzati.

    Ogni tanto capita che la mia mano sfiori la sua, o che il suo gomito vada a toccare il mio fianco.

    E con resistenza ignoriamo tutto, ogni piccolo gesto che sembra volerci far avvicinare ancora.

    Quando i bagagli sono pronti, seguo Frank fino al piano di sotto, scendendo le scale a piccoli passi e non dando troppo nell'occhio.

    Mia nonna ci lancia un paio di sguardi sospettosi, mentre mia mamma finisce di sparecchiare la tavola ancora parzialmente imbandita.

     

    «Domani mattina Frank partirà per New York», esordisco.

    Elena stavolta sembra ignorarmi, mentre mamma cessa improvvisamente di sistemare le stoviglie.

    «Così presto?», domanda, con aria quasi dispiaciuta.

    Frank annuisce, improvvisando un timido sorriso che immediatamente si trasforma in una smorfia tesa e forzata.

    «Problemi in famiglia, Frank?», indaga mia madre, tornando ad impilare i piatti rimasti.

    «Oh, no. Si tratta di me. Della scuola. Devo assolutamente iniziare a studiare il programma dei mesi che ho perso mentre non-uhm-c'ero», spiega impacciato Lui.

    «Capisco. Gee, hai mostrato al tuo amico il parco dei Petali Neri? Dovrebbe davvero visitarlo prima di andarsene», dice poi la donna, rivolgendosi a me.

    Sposto il mio sguardo verso destra, incrociando quello del ragazzo.

    Lui ricambia, ma dopo pochi secondi è già nuovamente fisso sulla punta delle sue scarpe scure.

    Il parco dei petali neri è il luogo più interessante del posto, senonché l'unico parco nel giro di chilometri.

    Ci sono alcune panchine, c'è una quercia centenaria e c'è un enorme roseto che fa da cornice al prato cupo e arido.

    Il sole batte debole sulle piante selvatiche che nascono ai piedi dei pochi alberi ormai spogli, e molto spesso due opposte correnti d'aria s'incontrano allo sbocco verso il fiume parallelo al piazzale centrale.

    Ed è così maledettamente inquietante, e strano, e affascinante.

    E quindi meraviglioso.

    Così meraviglioso.

     

    «Più tardi lo porterò lì», acconsento, prendendo da solo la decisione.

    Ma che m'importa, oramai non c'è più niente da temere.

    Frank se ne andrà, e tutto tornerà come prima.

    Ogni cosa diventerà normale ogni situazione sarà affrontata nel modo giusto, ogni parola sarà detta senza alcun pelo sulla lingua.

    Tutto come prima.

     

    «No. Andiamoci adesso.», esclama poi Frank, facendomi sussultare.

    Entrambe le sue mani sono strette in due pugni, e lasciate cadere lungo i fianchi rigidi.

    Boccheggio per qualche secondo, poi lancio un'occhiata a mia madre, che con inconsapevolezza annuisce ed esclama:

    «Perché no?».

    Deglutisco sonoramente.

    «Adesso?», domando.

    «Sì», rispondono all'unisono loro.

    Alzo le spalle, lasciando che il mio potere di decisione diventi neutrale.

    «Come volete», dico.

    «Vi consiglio di uscire adesso, prima che il cielo diventi subito buio», ci invita mamma.

    «Cercate di non fare tardi, qui si cena presto», ci avvisa con fermezza la nonna, sbucando da non so quale punto della stanza.

    E noto qualcosa di strano nel suo sguardo.

    Faccio un cenno con la testa, per poi afferrare il giubbotto ed uscire di casa, seguito da un Frank serio ed incupito.

     

    Camminiamo i primi metri senza dire niente.

    Senza parlare, né ridere, né discutere.

    I nostri sguardi non s'incrociano, le nostre mani non si sfiorano.

    Ogni tanto siamo costretti a metterci da parte sul marciapiede per consentire il passaggio di qualche persona o della macchina di turno, ma pur sempre mantenendo le giuste distanze.

    Il viale che stiamo percorrendo è largo e ventoso, e sembra non voler finire mai.

    Oppure siamo noi che non vogliamo che finisca.

    Oppure siamo noi che non sappiamo cos'è che realmente vogliamo.

    Gli alberi ai nostri lati sono secchi e grigiastri, e slanciati verso il cielo ci guardano dall'alto con fare dominante.

    Le nuvole ricoprono gran parte della soffusa luce sopra le nostre teste, rendendo questo Dicembre un mese tanto vario quanto triste.

    Il contatto delle nostre scarpe sull'asfalto rovinato e sulle poche foglie ormai morte genera un susseguirsi di suoni e rumori che danno vita ad una melodia sporca, frastagliata e a tratti fastidiosa.

    Un po' come il rumore della pioggia, o della grandine.

    Inizialmente rilassa.

    Poi tartassa.

    Ed infine porta alla disperazione.

     

    Arriviamo all'ingresso del parco trascinandoci dietro lo stesso silenzio di quando abbiamo lasciato casa di mia nonna.

    Entriamo calpestando il terreno secco e dimenticato, avvicinandoci ad una panchina scura e rovinata dal tempo.

    Intorno a noi ci sono giusto un paio di malinconici anziani, che con sguardo perso fissano il nulla, in attesa che il passato ritorni, e che il futuro riesca a mantenerlo intatto.

    Ci sediamo senza dire niente.

    Senza guardarci e senza muoverci.

    Il parco è esattamente come la mia memoria lo raffigurava.

    Buio.

    Triste.

    E sofferente.

    Ricordo appena di quando mi ci portava mia nonna, ed io contavo le foglie mentre lei e la signora White chiacchieravano in un angolo.

    E mi ricordo anche che la signora White mi intimoriva e al tempo stesso affascinava, ogni volta che mi guardava e tendeva le labbra in quel suo strano sorriso magicamente perfetto.

    Mi ricordo di quando riflettevo su questo posto tanto ambiguo.

    Di tutte le domande che mi ponevo, e di tutte le cose che non capivo.

    Come se questo parco fosse la mia casa degli spiriti.

    Come se il roseto che lo circondava spingesse perennemente verso l'interno con le sue spine affilate, provocando dolorose urla mute.

    Gli alberi hanno smesso anni fa di vivere, e di far cadere le loro foglie al suolo.

    Ma gli alberi anche se morti ci sono ancora, così come le rose secche e le panchine arrugginite e gonfie di lacrime.

    Questo è il parco in cui il tempo non esiste.

    In cui il tempo sembra essersi fermato.

    Questo è il parco in cui tutti soffrono, nessuno escluso.

    Questo è il parco dei petali neri, che tappezzano costantemente ogni piccolo spazio nudo sotto i nostri piedi.

     

    «Perché si chiama così?», chiede Frank ad un tratto.

    Mi volto, scoprendo che i suoi occhi sono ancora fissi di fronte a Lui.

    Ritorno anche io a guardare ciò che mi si presenta davanti, concentrandomi su un particolare cespuglio spinoso.

    «Per il roseto. Per il roseto nero. Dicono che anni fa questo posto fosse circondato da centinaia di rose nere», spiego.

    Il ragazzo resta impassibile.

    Decido di continuare a parlare:

    «Ogni petalo nero caduto da ciascuna di queste rose rappresenta il dolore di una persona».

    Stavolta riesco ad attirare la sua attenzione.

    Mi schiarisco la voce, poi proseguo:

    «Ed ogni dolore caduto insieme ad un petalo resta bloccato in questo posto per sempre».

    Rivolgo nuovamente lo sguardo a Frank.

    Lui deglutisce.

    «È per questo motivo che qui dentro il tempo non passerà mai. È stato già fermato troppe volte», aggiungo.

    Frank allora sembra allarmarsi improvvisamente, rivolgendomi uno sguardo impaurito.

    «È già stato fermato da troppi dolori», constata, gli occhi fermi su un punto indefinito.

    Annuisco.

    «Hai mai lasciato cadere un dolore qui dentro?», domanda poi.

    Alzo le spalle.

    «Venivo qui quando ero più piccolo, e non so se quando si è bambini i dolori esistano realmente», rispondo.

    Lui annuisce con la testa.

    «Oh sì che esistono, puoi contarci», ridacchia nervosamente.

    Sospiro.

    «Se lo dici tu», concludo, infilando entrambe le mani nelle tasche del giubbotto.

    Sento il vento scompigliarmi i capelli, e il freddo provocarmi migliaia di brividi lungo tutto il corpo.

    Il vento.

    Il vento è un po' come un immortale saggio anziano che sorveglia tutti con i suoi racconti magici e non troppo spesso silenziosi.

    Eppure viviamo in un mondo in cui raccontare è sempre più difficile.

    Io per esempio non ho mai raccontato di me a nessuno.

    E raccontare non vuol dire parlare del tipo di musica che si ascolta o dei titoli dei libri che più ci sono piaciuti.

    Quello è soltanto sussurrare.

    Sottili ed insignificanti sussurri.

     

    Raccontare è tutt'altra roba.

    Quando si racconta si è se stessi.

    Si parla nel modo che si preferisce, si usano parole insensate e si arriva a toccare le stelle con discorsi illogici e confusi.

    Raccontare è aprirsi, sventrarsi violentemente facendo uscire il nostro tutto e il nostro niente.

    Perché io non mi accontento dell'esterno, non mi accontento della mediocrità.

    Io racconto per vivere e per poi morire.

    Per nascondere e scoprire, scoprire e riscoprire.

     

    Non tutto è raccontabile come non tutto è vivibile.

     

    «Era un bacio?», mormora ad un tratto Frank.

    «Quale?».

    «Il nostro».

    Abbasso lo sguardo.

    Non rispondo.

    Lui non avrebbe mai risposto a questa domanda.

    Quindi faccio lo stesso, e me ne sto zitto.

    «Ho bisogno che tu mi risponda, Gerard», insiste però il ragazzo.

    Continuo ad ignorarlo, mordendomi violentemente il labbro inferiore.

    Lui sbuffa rumorosamente.

    «Gerard, cristo. Sono stanco di tutto questo silenzio», esclama.

    Deglutisco.

    Frank scuote la testa, innervosito, per poi alzarsi dalla panchina e piazzarsi davanti a me.

    Continuo a fissare il prato.

    Non guardarlo, Gerard.

    «Dannazione! Sarebbe il caso di parlarne, una volta per tutte!», esordisce con un tono di voce sempre più alto.

    Resisti, Gerard.

    Il ragazzo non ha intenzione di mollare.

    «Non sono gay, okay? E questo tuo atteggiamento mi fa innervosire, okay?», strilla, inciampando nelle sue stesse parole, e catturando l'attenzione dei soliti anziani seduti intorno a noi.

    Socchiudo le palpebre, cercando di scaricare tutta la tensione accumulata.

    Ma non ci riesco.

    E non ci riesco perché la tensione non è finita.

    E non è finita perché in realtà niente è finito.

    Niente.

     

    «Gerard», mi chiama Frank.

    Lo ignoro ancora.

    «Gerard, ascoltami», insiste.

    Ed io insisto con l'ignorarlo.

    «Ho bisogno del tuo aiuto, Gerard», mormora, con la voce che inizia a tremare.

    Deglutisco.

    Sento i miei e i suoi affanni farsi pesanti.

    Soprattutto i suoi.

    «Gerard», ripete.

    Non parlare, Gerard.

    Lui prende un grande respiro.

    Poi allarga le braccia.

    E poi respira di nuovo, e respira ancora una volta.

    Infine lo vedo scuotere la testa:

    «Fai che questo giorno non venga dimenticato come tutti gli altri», inizia.

    «Fai che oggi qui dentro non sia lasciato cadere nessuno dei nostri dolori, Gerard», conclude.

    E non c'è più niente da cui scappare.

    Non c'è più niente di cui dubitare.

    Non c'è più motivo di resistere.

    Se questo è ciò che vuole, questo è ciò che sarà.

    Sollevo finalmente lo sguardo, incontrando il suo.

    E mi alzo, lentamente, lasciando che i nostri corpi si avvicinino.

    Frank ha ancora le braccia aperte, e l'espressione di chi non sa.

    Di chi non sa niente.

    Ed è la stessa espressione che si cela dietro il mio viso rigido e pallido.

    Mi inumidisco le labbra con la lingua, prima di sfilare le mani dalle tasche.

    “Gerard...”, mormora Frank.

    Ma le mie dita precedono le sue parole e vanno ad afferrarlo da dietro al collo, attirandolo velocemente a me, e facendo incontrare, di nuovo, le nostre labbra.

     

    Ciò che ne segue è esattamente l’opposto di ciò che ne è preceduto.

    Il vento sembra placarsi, e intorno a noi non c’è alcun rumore.

    Gli anziani signori che poco fa ci fissavano straniti, adesso sono tornati a contemplare il roseto.

    Ci sono gli alberi morti, ci sono le panchine rovinate, ci siamo io e Frank che ci stiamo baciando.

    Ci stiamo baciando e ci stiamo avventurando l’uno nel profondo dell’altro.

    E se le nostre labbra inesperte non riescono a rendere la situazione abbastanza perfetta, a noi non importa.

    Perché in fin dei conti la perfezione è soltanto una conseguenza di tutta l’imperfezione che compone questa nostra vita così breve.

     

    Quando l’aria inizia a mancare ci separiamo, e con clemenza ritorniamo a sederci sulla panchina.

    Guardo il roseto morto e scuro che tutt’intorno ci spia con invidia.

    Invidioso del nostro essere vivi.

    Invidioso del nostro essere noi.

     

    Senza farci troppi assurdi complessi, ritorniamo a sederci, ignari di tutto il male che stiamo e ci stiamo causando.

     

     

     

     

    «Gerard».

    «Dimmi».

    Frank esita qualche istante, prima di continuare a parlare.

    E anche io lo faccio, prima di ricominciare a respirare.

    «Dovremmo smetterla?», domanda.

    Adesso, cosa risponderebbe una persona consapevole? 

    Consapevole del fatto che il ragazzo che ha appena parlato sappia benissimo cosa è appena successo.

    Consapevole della gravità della situazione.

    Consapevole del mancato senso di tutto ciò.

    Probabilmente, tutto sarebbe più semplice se soltanto io accettassi la mia consapevolezza.

     

    Ma la consapevolezza di essere consapevoli non è niente su cui poter sempre fare affidamento.

    Ed io non sono bravo con queste cose.

     

    Quindi, decido di interpretare il ruolo dell'ingenuo sognatore sedicenne con problemi mentali, e con notevole inespressività mi limito ad un:

    “Che importa”.

     

    Lasciamo il parco dopo non molto, zampettando sopra il tappeto di foglie secche e scricchiolanti, provocando il solito piacevole rumore ad ogni passo.

    Il cielo sembra essersi quasi del tutto scoperto, e man mano che avanziamo verso casa di mia nonna con i nasi rivolti all'insù, io mi chiedo se il cielo si sia davvero schiarito oppure è soltanto dentro il parco che sembra più scuro.

    Lascio le risposte ad un momento più opportuno, e seguo - sì, seguo - Frank fino alla meta.

     

    Lui apre la porta velocemente, e con altrettanta velocità corre in camera sua, lasciandosi cadere sul letto con un rumore sordo che riesco a sentire dal piano di sotto.

    Mamma sta guardando una qualche trasmissione indiscutibilmente interessante alla TV, Michael sta usando il Pc nella stanza accanto.

    Mia nonna probabilmente si sarà già scordata della nostra presenza, e posso verificarlo non appena la sorprendo nella sua stanza nel bel mezzo di un riposino, con la bocca spalancata e il petto che si sgonfia ad intermittenza lasciando uscire quel tipo di imbarazzanti suoni che soltanto gli anziani sono in grado di emettere.

    Scuoto la testa con disappunto, poi entro in cucina e bevo qualche sorso di quella roba che somiglia alla Coca Cola, ma che si chiama Pepsi. Vuoi che sia il colore, vuoi che sia il materiale della bottiglia. 

    Ma a me sembrano esattamente uguali.

     

    Il pomeriggio passa nello stesso modo in cui passerebbero tutti i pomeriggi in questa casa, niente eccezioni per le feste come questa.

    Il silenzio è rotto giusto da qualche telefonata casuale da persone che non si fanno sentire durante tutto l’anno, che manifestano così la loro ipocrisia in tutta la sua prosperità e magnificenza.

    Poi è il turno di mio padre, che mi chiama per chiedermi se ho trovato una ragazza, e per sentirsi rispondere allo stesso modo di sempre.

    Infine tocca a Michael, che passa ore a lamentarsi di quanto il Jersey sia noioso e di quanto gli manchino i suoi amici di New York.

    Per non parlare di mamma, alterata ed arrabbiata con sua madre per non averle regalato il vaso in porcellana che le aveva chiesto lo scorso Natale.

    E così via.

    Frank, invece, preferisce starsene da solo, come me.

    Più o meno.

    Abbiamo evitato di passare altro tempo insieme, ma è inevitabile: ci cerchiamo a vicenda.

    Ovunque ed in qualunque momento.

    Ci incontriamo più volte nel corridoio del piano di sopra, e i nostri sguardi puntualmente si agganciano inarrestabilmente.

    Lui decide di giocare alla play Station insieme a Michael, io decido di chiudermi nella mia stanza e disegnare.

    E disegno Lui, soltanto Lui.

    Disegno i suoi occhi, e i suoi capelli, ed ogni cosa che mi ricordo del suo corpo e del suo viso.

    E dannazione, vorrei poter non averlo mai incontrato.

    Ma al tempo stesso sì, cazzo!

    E vorrei averlo osservato di più, vorrei non aver dimenticato nessun particolare.

    Vorrei che la figura che sta prendendo forma sul mio foglio diventasse Lui, e vorrei tenera stretta a me finché non ci incontreremo di nuovo, là fuori, nel corridoio.

    E mi sento così stupido.

    Così confuso.

    Così fottutamente ridicolo.

     

     

    Scendo in salotto trascinandomi dietro la solita bottiglia di Pepsi, quando ad un tratto Frank mi sfreccia davanti ed entra fulmineo in bagno.

    Capisco che non sta bene perché non ha avuto l'accortezza di chiudere la porta e neanche quella di limitare il suono dei suoi conati mentre rigettava violentemente il pranzo di Natale nel WC.

    Lo seguo a passo lento, scoprendo di essere seguito da mio fratello.

    Non c'è più alcun rumore, e tutto sembra essere tornato alla normalità.

    «Sarà morto?», sussurra Michael.

    «Torna al tuo computer», gli ordino.

    «E se fosse morto?», insiste.

    «Vorrà dire che presto qualcuno andrà a fargli compagnia nell'altro mondo», esordisco con sarcasmo, alludendo a mio fratello, che capisce che sto scherzando poiché a) non uccido persone e b) non credo in un “altro mondo”.

    Dopo qualche secondo di esitazione, Mikey si arrende, e si accascia sulla sedia di fronte al suo Pc.

    Bene.

    Mi avvicino ancora al bagno, in attesa di un qualche segnale da parte di Frank.

    «Frank?», lo chiamo.

    «Cosa c'è?», domanda Lui, come se la situazione fosse la più normale delle situazioni normali.

    «Dico, stai bene?», esclamo.

    «Hm hm hm», farfuglia il ragazzo, ed io lo prendo come un cenno di assenso e di contemporanea negazione.

    Poi uno scatto metallico, ed ecco che l'ospite esce dal bagno, strofinandosi sulla bocca il polsino della felpa che indossa.

    Lo guardo accigliato, e Lui sembra innervosirsi.

    «Ho vomitato», mi informa, quasi fosse una confessione.

    «Uh, ma davvero?», dico io, con il sarcasmo che sembra uscire a fiotti dal movimento delle mie mani a mezz'aria.

    Frank fa roteare gli occhi, mentre con violenza mi passa avanti, e ritorna sulle scale che lo portano in camera sua.

    Ma con uno scatto felino lo seguo, e in pochi secondi ho il suo polso stretto fra le mie dita.

    «Cosa cazzo hai?», esclamo riluttante.

    «Lasciami stare», ringhia.

    Sbuffo, avviandomi verso la mia stanza, senza allentare la presa sul suo braccio, e quindi trascinandomelo dietro.

    Lo faccio entrare nella camera, chiudendomi rumorosamente la porta alle spalle.

    Il ragazzo si siede sul letto, con le braccia incrociate sul petto.

    Il cuore va un po' veloce, e le gambe tremano vistosamente.

    Neanche io so dove abbia trovato il coraggio di portarlo qui.

     

    «Frank», esclamo con fermezza.

    Lui si limita a guardarmi, dal basso, con i suoi occhi grandi e luminosi.

    E ho quasi la tentazione di rimandare ad un altro momento il discorso che sto per fargli, e di stringerlo fra le mie braccia fino a domattina, inalando il suo odore e assorbendo il suo tepore.

    Di passare la notte al suo fianco, di rassicurarlo nel sonno, e...

     

    Accidenti, Gerard. Lui non ti piace. Non può piacerti. 

     

    Scuoto la testa, con disgusto.

    «Frank - ripeto - io... Io forse sono la causa di tutto questo», riprendo fiato.

    Il ragazzo rimane fermo, impassibile.

    Stavolta inizia a tremare anche una mano, e poi l'altra, e poi tutto il resto, finché non arriva il freddo.

    Ed è un freddo violento, che si scaglia con forza contro di me, destabilizzandomi.

    Strizzo più volte le palpebre, cercando di assumere un aspetto quasi tranquillo.

    Sto per ricominciare a parlare, sto per affrontare finalmente la situazione.

    Ma Frank mi precede, alzandosi, e posizionandosi di fronte a me.

    Da questa posizione posso facilmente provare che sì, Frank è più basso di me e che no, non è esattamente tranquillo.

    Quasi meno tranquillo di me.

     

    «Gerard, smettila...», inizia, con un mormorio.

    Lo guardo confuso.

    Lui scuote lentamente la testa.

    «Smettila di cercare di aiutarmi», conclude, mordendosi violentemente il labbro inferiore.

    Deglutisco sonoramente, boccheggiando per qualche istante in cerca delle parole adatte.

    Ma accidenti, parole adatte non ce ne sono.

     

    «Sembra una fottuta montagna russa», dice poi.

    «Io sono il passeggero, tu sei il carretto», poi indica ciò che ha intorno, esclamando:

    «E questa è la nostra cazzo di pista! Alti e bassi che soltanto tu puoi aiutarmi a superare».

    Inizio a non riuscire più a seguire il filo del discorso, e mi ritrovo a massaggiarmi le tempie con una mano.

    «E se tu sei il mio carretto, allora sei anche la mia paura, il mio soffrire di vertigini, e la mia nausea, Cristo!», urla infine, respirando affannosamente.

    Abbasso lo sguardo, lasciando cadere il braccio lungo il fianco.

    Ha ragione.

    La verità è questa.

    Devo smetterla di aiutarlo.

    Devo ritornare ad essere il vecchio Gerard egoista di sempre.

     

    Decido di annuire, in silenzio, con un cenno della testa.

    Poi, con il cuore che raggela nel petto, mi allontano, uscendo dalla stanza.

     

    «Domattina partirò presto, non ci sarà il tempo di salutarci», mi avvisa qualche istante prima che io apra la porta.

    Allora mi fermo, mi volto, e gli sorrido.

    Ed il mio è un sorriso triste, probabilmente.

    «Ciao, Frank», mormoro, prima di abbandonare definitivamente la camera da letto.

     

    ***

     

    Il piacevole sottofondo musicale del tamburellare della pioggia sul lucernario sopra la mia testa rende il mio sonno tranquillo, sereno, pulito.

    Tutto il resto non sembra avere peso su di me, sul mio corpo leggero e magicamente irreale.

    Irreale come i sogni che si uniscono e si intrecciano dentro la mia testa, che suonano e si colorano di assurdo, esplodendo in milioni di ardenti e perenni fuochi.

    Irreale come l'azzurro acceso del cielo, che ci illude con la sua insensata allegria.

    Irreale come bene ed irreale come il male, insignificanti parole che le persone hanno inventato per giustificare gli errori, e per giustificare la diversità.

    Ed infine, irreale come me, e come Lui, e come i nostri baci.

     

    Un improvviso e potente colpo di vento fa spalancare le persiane della finestra, ed io sussulto nel mio letto.

    Respiro affannosamente, strizzando le palpebre per mettere a fuoco ciò che mi circonda nel buio della stanza.

    Mi sollevo velocemente, e corro a chiudere le persiane, imprecando contro il pavimento freddo sotto i miei piedi.

    Ne approfitto per sbirciare dal vetro della finestra, soltanto per poter guardare come si comporta la notte di fronte ad un pericolo come il vento.

    Le punte degli alberi sono inclinate, il prato che fino ad oggi brillava lucente sotto il debole sole invernale adesso sembra essersi unito all'asfalto della strada, creando un vastissimo piano scuro.

    Ho mentito, oggi, quando ho pensato che il vento fosse un anziano saggio.

    Accidenti, ho paura del vento.

    Ho paura del suo verso, ho paura dei suoi movimenti, e ho paura della sua inaffidabilità.

    O meglio, non da sempre.

    Tutto è iniziato da quella notte, quella fottutissima notte in cui il vento esplose nel Jersey, portandosi via i fiori del giardino, e con i fiori l'armonia, e con l'armonia mio nonno, che respirava per l'ultima volta nello stesso ospedale in cui io ho iniziato le mie prime sedute. 

    E se da piccolo il vento era la mia saggia ancora di salvezza, adesso è soltanto la grande onda che spezza la prua e fa affondare la nave.

     

    Sospiro rumorosamente, accostando meglio le tende, e voltandomi per ritornare a dormire.

    Ma la porta della camera si spalanca, facendo entrare una sagoma scura e sottile, che con uno scatto mi si getta contro, destabilizzandomi.

     

    «Gerard, ho paura», sussurra Frank al mio orecchio, senza allentare la presa delle sue braccia sul mio corpo.

    Dopo qualche istante di esitazione ricambio la stretta, e con confusione bisbiglio:

    «Di cosa?».

    «Di tutto», risponde.

    «Del vento?», insisto, col solito tono di voce.

    «Di me stesso», sibila Lui.

    Probabilmente sgrano gli occhi, o magari li chiudo particolarmente forte.

    Fatto sta che il ragazzo non cede, e l'abbraccio - o quel che è - si intensifica.

     

    Quando Frank si separa da me sono passati molti minuti, e la sorpresa è grande quando sento le sue labbra poggiarsi sulle mie.

    Non so cosa stia succedendo.

    Non so perché ciò che io non so cosa sia stia succedendo.

    Non ho la più pallida idea del perché di questa stramaledetta situazione.

    Ma c'è Frank che mi sta baciando, e ci sono io che sto facendo la stessa cosa con Lui.

    Merda.

    Il bacio dura poco, tutto dura molto poco.

    Frank mi spinge indietro, e si allontana di qualche passo.

    Scuote la testa, arriva indietreggiando fino alla porta da cui è entrato, e si blocca per qualche secondo.

    «Aiutami a cercare il me stesso che ho perso», tartaglia bisbigliando, mentre l'oscurità torna a coprirci.

    Poi, scompare definitivamente nel corridoio.

    Ed il vento, sembra essersi calmato.

     

    ***

     

    25 dicembre- Natale.

     

    Quando ti ho detto che ti avevo comprato un regalo, non scherzavo.

    Il regalo te l'ho comprato, l'ho anche incartato.

    Ma non significava un cazzo.

    Quindi ho deciso di fare la cosa forse più stupida di sempre.

    Ho cercato i pantaloni che indossavo quel fottuto giorno, ho frugato in una tasca, poi nell'altra, e infine l'ho trovata.

    Eccola qui, tutta per te.

    Ecco l'arma che ti ha ucciso, ecco la causa di tutto.

    È la chiave del bagno.

    Quello in cui mi ero chiuso.

    Perché volevo morire, volevo ingoiare una ad una tutte le pasticche che avevo trovato in giro.

    Volevo chiudere gli occhi e poter essere fiero di aver fatto una cosa giusta.

    Volevo soltanto fare un'esperienza che non avrei avuto modo di raccontare.

    Solamente per dimostrare che alcune esperienze non hanno bisogno di essere raccontate.

    Ma quando pensavo che questa chiave fosse la mia unica salvezza, è arrivato l'unico stronzo che avrebbe potuto salvarmi.

     

    Ti chiedo di gettarla nel più profondo degli abissi.

     

    Auguri,

    Frank.

     

    Ripiego velocemente la lettera, infilandomela nello zaino che porto sulle spalle, e afferro la busta che la conteneva.

    Eccola qui, argentea e splendente.

    La sollevo lentamente, bloccandola fra l'indice e il pollice.

    E non ci posso credere.

    Non posso credere di averla fra le mani.

    Di averla adesso, fra le mani.

    Ora che non serve, ora che è diventata una banale e comune chiave.

    Frank l'ha lasciata qui qualche mattina fa, quando se n'è andato.

    Aveva detto che sarebbe partito presto, e che non ci saremmo potuti salutare.

    Ma io l'ho visto lo stesso.

    Mi sono svegliato con Lui, in silenzio.

    E l'ho guardato uscire di casa, lasciare la busta sotto la porta, e poi girarsi indietro un'ultima volta, prima di entrare nell'enorme Jeep di Cheech e partire verso New York.

    Sì sarà rivolto al padre con un sorriso, gli avrà detto che ha passato delle buone vacanze in mia compagnia, e insieme si saranno avviati verso casa.

    Sarà sceso dall'auto trascinandosi dietro la valigia che non risentiva più dello struggente peso della chiave che mi ha lasciato, e avrà salutato Linda con un abbraccio.

    Sarà andato nella sua stanza, avrà disfatto i bagagli e infine aperto la finestra.

    Si sarà disteso sul letto e avrà pensato:

    “Questa è casa mia. Questa è la mia stanza. E questo sono io. Adesso iniziamo a vivere.”.

     

     

    Seguo Michael e gli altri cercando di restare in equilibrio, mentre con forza trattengo il trolley con una mano e lo zaino con la spalla destra.

    «Cercate di non fare incidenti», ci raccomanda la nonna, con il suo solito tono tragicamente incoraggiante.

    Mamma ridacchia, ed io cammino in fretta per entrare velocemente nell'auto.

    Ma una mano di nonna Elena mi blocca, obbligandomi a voltarmi verso di lei.

    Sbuffo, ritrovandomi i suoi occhi chiari che mi fissano rigidi.

    «Tu credi in Dio, Gerard?», domanda.

    Sollevo un sopracciglio.

    «Io sì, e posso dirti che ti sta guardando, da lassù», prosegue, senza aspettare la mia risposta.

    Deglutisco.

    Ci guardiamo per qualche secondo.

    Lei non trasmette alcuna emozione, e sembra arrabbiata.

    Io non so cosa trasmetto, e ho paura di saperlo.

    Ma quando mia nonna assume questa espressione, allora a) hai combinato qualcosa di grave e lei ti punirà oppure b) hai combinato qualcosa di estremamente grave e lei ha intenzione di organizzarti un personale percorso spirituale presso l'Oratorio della Chiesa.

     

    Ad un tratto, però, Elena fa roteare gli occhi, rilassando i muscoli facciali e facendo scivolare sui fianchi entrambe le braccia, fino ad ora conserte.

    Mi afferra nuovamente il polso, e mi trascina dietro il muro della facciata di casa sua.

    «Ascoltami bene, figliolo - inizia - qualunque cosa tu e quel ragazzino depresso abbiate intenzione di fare, allora cercate di riflettere bene e di non prendere tutto ciò come una cosa da niente, intesi?», conclude, con fermezza.

    Spalanco leggermente la bocca, provando a controbattere, ma...

    «Niente ma. Puoi mentire a tuo fratello, a tua mamma e anche a quell'allocco di tuo padre. Ma nessuno è in grado di ingannare Elena. Intesi?», mi rimprovera.

    Deglutisco sonoramente.

    Ingannare, mentire, cosa?

    Che sta succedendo?

    Poi improvvisamente capisco.

    Lei.

    Me.

    Frank.

    Frank ed io.

    Insieme.

    Il mio cuore pare sussultare.

    Una mano di mia nonna va ad accarezzarmi una guancia.

    «Cerca soltanto di stare attento, Gerard», mi intima, cambiando radicalmente il suo tono di voce.

    Sto per dire qualcosa.

    Sì, lo sto per fare.

    Ma ad un tratto capisco che parlare non serve.

    Non con Elena davanti.

    È lei che parla.

    Ed è lei che sa.

    Così, mi limito ad annuire, con un movimento del capo.

     

    In un attimo, mi ritrovo dentro la macchina di mia madre, appollaiato in un angolino dei sedili posteriori, con le cuffie nelle orecchie e la mano fuori dal finestrino, che con lenti movimenti, sembra navigare dolcemente fra le onde del freddo vento di Gennaio.

     

     

    ***

    Salve.

    Probabilmente sarà passato qualche lustro dall’ultimo aggiornamento.

    E questo capitolo è probabilmente uno dei peggiori.

    Come se non bastasse, è più corto degli altri, e particolarmente insensato.

    E inoltre, non è neanche stato betato perché l’ho finito di scrivere poco fa e avevo fretta di pubblicarlo.

    Abbiate clemenza e sopportate i miei tempi.

    Non ho potuto scrivere molto poiché

  • Ho dovuto fare gli esami di riparazione
  • È un periodo abbastanza orribile, e
  • Non ho mai ispirazione perché sono quasi sempre sola (e le persone mi fanno venire ispirazione, solitamente).
  •  

    Per il resto, ho scoperto di essermi completamente dimenticata di Wattpad e anche di un profilo Twitter di non so di quanti mesi fa. Quindi, per chi mi seguisse anche lì, chiedo di avere un po’ di pazienza :’)

     

    Virgyl,

     

    Ps. Cosa ne pensate del regalo di Frank?

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

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