In Silent Screams and Wildest Dreams

di SinisterKid
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Note: Questa shot, scritta a quattro mani da me e PieraPi non è altro che il risultato dell'Operazione Happy Ending (sì, esatto, come l'Operazione Mangusta in OUAT). Questa esperienza non è stata meravigliosa soltanto perchè ci ha permesso di dare un degno lieto a Steve e Peggy, ma soprattutto perchè ha permesso ad entrambe di migliorare e superare i nostri limiti. Spero possiate amare questa storia e i vari easter eggs che troverete al suo interno (parliamo pur sempre di personaggi Marvel, eh) tanto quanto l'abbiamo amata noi.
Nota di servizio: I capitoli I,III,V sono stati scritti da PieraPi; II,IV,VI da me. Buona lettura

Prologo

- Dammi le tue coordinate, ti troverò un luogo dove atterrare.
- Non posso atterrare in sicurezza, ma posso provare un atterraggio forzato.
- Ok, metto Howard in linea, ti dirà cosa fare.
- Non c’è tempo! Va troppo veloce, ed è diretto verso New York. Devo farlo esplodere in acqua. - Ti prego, non lo fare, abbiamo tempo. Troveremo un’altra soluzione!
Peggy aveva cercato di mostrarsi efficiente, professionale addirittura, ma non poté fare a meno di notare un certo tono di urgenza nella sua voce. Iniziava a non sentirsi più l'agente Carter, uno dei soldati che aveva contribuito a risollevare le sorti della guerra, ma semplicemente Peggy, una ragazza consapevole del fatto che di lì a poco, forse, avrebbe dovuto dire addio per sempre all'amore della sua vita. Perché Steve sarebbe stato disposto a sacrificarsi pur di fare la cosa giusta, e lei lo sapeva. Lo sapeva, ma non voleva accettarlo. Non poteva. Doveva esserci un altro modo.
- Al momento sono in mezzo al nulla. Se aspetto, molte persone rischiano di morire - ribatté Steve con voce ferma, che non ammetteva repliche. Quando riprese la parola, però, il suo tono si era addolcito.
- Peggy… questa è la mia scelta.
La decisione di Steve non le giungeva inaspettata, ma il cuore di Peggy si fermò lo stesso per un istante. Aveva scelto di sacrificare la sua vita per la salvezza di quella di molti, e lei sapeva di non avere il diritto di opporsi. Era davvero così egoista da poter anche solo pensare di mettere in pericolo tante persone, solo perché voleva che tornasse da lei? Era davvero così egoista da rinnegare i motivi che avevano spinto lei stessa ad arruolarsi? Combattere per ciò che era giusto, fare la differenza? No, si disse, non lo era, e in quel momento tornò ad essere l'agente Carter. Avrebbe rispettato la scelta di Steve, e il suo altruismo. Dopotutto, era uno dei tanti motivi che l'avevano fatta innamorare di lui.

Steve estrasse da una tasca della divisa la bussola in cui custodiva una foto della ragazza, e la appoggiò su uno dei pannelli di controllo dell'aereo. Contemplò l'immagine per un tempo che parve interminabile, e capì che non era affatto pronto a lasciarla andare. Non lo sarebbe mai stato. Ma aveva fatto la sua scelta. Doveva lasciarla andare.
Con un movimento deciso della barra di comando, Capitan America iniziò a dirigere verso il ghiaccio.
- Peggy?
- Sono qui.
- Ti devo chiedere di rimandare quel ballo. Da adesso, pensò Peggy, non si torna indietro. Digli di no, digli di non farlo, digli di tornare da te...
- Va bene - rispose invece la ragazza, le lacrime che iniziavano a rigarle le guance. - Fra una settimana, sabato prossimo, allo Stork Club.
- Va bene.
- Alle 20 in punto. Non osare fare tardi. Chiaro?
- Ancora non ho imparato a ballare.
Peggy sorrise. Tornò con la mente a quando incontrò Steve per la prima volta, quando lui le confessò che le ragazze non facevano la fila per ballare con qualcuno a cui pesterebbero i piedi. Alla tenerezza del ricordo, però, si sostituì subito la malinconia del presente.
- Ti insegnerò io - disse dolcemente. - Però devi venire.
- Chiederemo all’orchestra di suonare un lento - proseguì Steve, mentre l'aereo continuava la sua picchiata.
Entrambi sapevano che non si sarebbero mai più rivisti, e che ormai era solo questione di momenti, ma parlavano come se avessero ancora tutto il tempo del mondo. Entrambi sapevano che il loro era un addio, ma nessuno dei due era in grado di ammetterlo. Non a se stesso, non all'altro. Avevano deciso di aggrapparsi a quella piccola parvenza di normalità, in una situazione che di normale non aveva più niente.
- Mi dispiacerebbe pestar- la comunicazione si interruppe all'improvviso.
- Steve? - chiamò Peggy, la voce incrinata. - Steve! Steve!
Nessuna risposta.
La ragazza si prese il viso tra le mani e iniziò a piangere. Di lui non le restava altro che la promessa di un appuntamento al quale non si sarebbe mai presentato.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II

Mi pettino i capelli lentamente, così pian piano da non percepire neanche il movimento debole e forzato che la mia mano compie. Evito il mio riflesso alla specchiera perché ho paura di ciò che potrebbe rivelarmi, della persona che potrebbe mostrarmi se gliene concedessi l’occasione: è da giorni e giorni e giorni che mi riconosco a malapena e non riesco ancora a raccogliere i pezzi di me stessa che sono andati in frantumi quel giorno. Darei quel poco che mi resta pur di strapparmi il cuore dal petto, calpestarlo e gettarlo via lontano, piuttosto che sopportare questo dolore, questa perdita, e farci i conti ogni singolo giorno della mia esistenza, piuttosto che intaccare e avvelenare i ricordi, le emozioni, i sentimenti, che conservo gelosamente nell’angolo più remoto della mia mente. Ma per quanto mi impegni, per quanto dannatamente mi impegni, sono annegata in una sofferenza muta, spietata, dalla quale non sono in grado di risalire. Ai soldati sta la sopportazione, ai civili spetta il lutto più buio e profondo e per quanto mi impegni, per quanto dannatamente mi impegni ad agire nel modo in cui agirebbe l’agente Carter, non potrò mai essere capace di reggere tutto ciò come fosse la ferita di un proiettile e ritornare immediatamente in piedi, pronta all’attacco.
Questa guerra non è destinata ad essere vinta da me.
Metto il rossetto concentrandomi solo sull’immagine delle mie labbra e mi trascino fuori casa, verso l’unico posto dove ho il dovere di andare, verso l’unico posto dove la futile, inconsistente, necessaria, speranza spinge il mio corpo stanco a dirigersi, nell’unico posto in cui è convinta lui potrebbe tornare.
Allo Stork Club, come ogni sabato.
Il mio tragitto è una faticosa e ansiosa passeggiata in cui immagino e immagino momenti che non accadranno mai, parole che non verranno mai pronunciate e gioie e aspettative mai realizzate. Si sente nell’aria, quasi la si tocca, questa delusione, questa tristezza che appesantisce il respiro e l’anima; tutti e nessuno sono soli in questa grande tragedia: la guerra è stata vinta, sì, ma qual è il prezzo da pagare? Dando un’occhiata intorno mi accorgo che di signorine dagli occhi tristi come me ce ne sono a decine e decine a New York, più di quante se ne possano contare in venti mani. Promesse spose, giovani madri e fidanzatine appena adolescenti che non riescono a capacitarsi dell’enorme perdita subita e che si lasciano andare ad uno sconforto che le segnerà per sempre. Si riconoscono subito dagli occhi bassi e iniettati di sangue, il pallore e la magrezza cadaverica di chi non mangia da giorni e il cuore sfregiato da invisibile e insanabili cicatrici. Loro al proprio amato non hanno potuto dire addio, tantomeno seguirlo e assisterlo durante la battaglia: non riesco a smettere di pensare a cosa avrebbero dato pur di essere al mio posto e poter parlare un’ultima volta; scommetto che mi considererebbero addirittura fortunata, davvero fortunata per aver amato un grande uomo, l’eroe della nazione, l’unico e solo Capitan America.
Ma loro non sanno che io non ho mai amato l’icona nazionale, il simbolo che egli era per la popolazione: io ho amato il piccolo uomo, colui che mi avrebbe pestato i piedi ad un appuntamento. Io ho amato Steve, ho detto addio a Steve, il mio cuore si è frantumato per lui. La mia più grande fortuna è stata lui e sapere che l’amore che non potremo avere verrà vissuto da altre migliaia di persone è pur sempre una consolazione. È quello che avrebbe voluto Steve ed è quello che ho il dovere di preservare da nuove guerre per rispettare il suo sacrificio e la sua eredità.
Vorrebbe certamente anche che vivessi e proseguissi con la mia vita, ma l’agente Carter non può occuparsi di questioni private.
L’armoniosa e adorabile melodia dell’orchestra dello Stork Club mi accoglie come un amichevole abbraccio. Suonano un brano di Ella Fitzgerald e i clienti sembrano godere di tale musica e, chi può, di una piacevole compagnia. I più esuberanti trascinano i più timidi a ballare, mentre il resto non esita a brindare alla propria salute ogni volta che il cameriere versa altra birra. Alcuni malconci, alcuni invalidi e mutilati, eppure tutti felici di essere tornati a casa. Mi scappa un sorriso ammirando e invidiando il loro stato d’animo perché so quanto Steve avrebbe amato sentire le loro risate e vedere i loro cari felici di riaverli al proprio fianco. E avrebbe amato soprattutto i dilettanti ballerini che si cimentano maldestramente nei romanticissimi lenti offerti dall’orchestra. Una coppia, in particolare, rapisce la mia attenzione. Ballano quasi ai margini della pista, come se vogliano celarsi agli occhi del mondo e perdersi in un universo tutto loro. Lei, non più di diciotto anni, è uno scricciolo dai capelli neri che si muove appena in un vestito rosa a pois bianchi: giovane, ma non così ingenua e vivace. Pare averne vissute parecchie e scommetto che il giovanotto a cui è avvinghiata è la causa della sua espressione segnata. Lui so per certo da dove è arrivato: ha una benda sull’occhio sinistro e alcune falangi mancanti in entrambe le mani. Ha i capelli rossicci e delle lentiggini che gli addolciscono un volto usurpato dalle barbarie della guerra; tiene stretta la sua ragazza come se potesse scivolargli dalle poche dita che gli sono rimaste e non esita a farla ridere di tanto in tanto.
“Un giorno io e Tom balleremo in uno di quei club newyorkesi, vero Peg? In uno di quelli dove suonano il jazz e le cantanti sono belle da mozzare il fiato … vero, sorellona?”
Tutto mi è così familiare, così incredibilmente insopportabile. Anche Thomas amava far ridere la sua – la nostra – piccola Bianca. Ricordo ancora i giorni in cui la mia sorellina toccava il cielo con un dito e non perdeva occasione di canticchiare in casa i pezzi che aveva ballato la sera prima con lui. Volteggiava per i corridoio fischiettando mentre io mi preparavo al severo arruolamento che mi aspettava. Ricordo il tenero modo in cui mi guardava e i grandi sogni che mi raccontava riguardo alla Grande Mela e quello che avrebbe fatto una volta arrivata lì. Voleva recitare e rendere me e Tom orgogliosi: non faceva altro che ripeterlo, come se noi due fossimo più importanti perfino di se stessa.
“Arruolarti sarà solo il primo passo, me lo sento. Eccome se me lo sento! Tu sei destinata a molto più di questo, Peg. Sì, lo sei”.
Aveva un grande cuore, Bianca, e anche lei era destinata a molto più di quello che aveva a Londra. Era destinata, prima di tutto, a vivere.
“L’abbiamo trovata distesa su un bambino: pensiamo lo stesse proteggendo, pensiamo che sia morta per salvarlo. Sua sorella è un eroe”.
“Noi degli eroi non ce ne facciamo niente!”, aveva gridato Tom sconvolto. “Noi dovevamo sposarci, sposarci!”
Sento le lacrime pungermi gli occhi e decido di sedermi sullo sgabello davanti al bancone. Mi reggo in piedi a malapena e appoggio entrambi i gomiti sulla liscia superficie che mi sta di fronte.
- Buonasera, miss Carter - esulta il barista. - Il solito?
Annuisco appena e mi sforzo di guardarlo in faccia, detesto dar a vedere la mia sofferenza.
- Le ho già detto che adoro il suo accento, miss Carter? - finge di chiedermi per tirarmi su di morale.
Infinite volte ha dichiarato la sua simpatia per il mio accento e infinite volte gli ho sorriso per poi dargli le spalle rivolgendo lo sguardo ad un ingresso da cui non sarebbe mai entrato chi aspettavo con grande ardore. Ma stasera sono troppo esausta e lascio che la frustrazione abbia la meglio. Non mi volto e sorseggio quello che mi viene offerto dalla casa, mentre la banda suona la canzone del momento, “Till The End of Time”, e scioglie il cuore di chi ha promesso di amarsi fino alla fine.
- Un altro - chiedo gentilmente al barista.
Mai come stasera mi è chiaro come si sia sentito Steve quando tentava di annegare il dolore immenso per la morte di Bucky bevendo. Mai come stasera vorrei stringerlo a me.
Mi volto, solo una volta, una sola.
Niente, cosa credevo di trovare?





Note: Bianca Carter è un personaggio inventato da me e PieraPi semplicemente per aumentare il carico di dolore per Peggy. Lo so, siamo sadiche.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

In queste settimane avevo diretto così tante volte lo sguardo verso l'ingresso del locale, che ormai continuavo a farlo per inerzia. Iniziavo a rendermi conto che non era più la speranza a farmi alzare gli occhi, ma la forza dell'abitudine. E ogni volta che il barista mi chiede "il solito?", penso sempre che non si riferisca solo al liquore, ma anche a questa routine. Sabato dopo sabato, a guardare una porta dalla quale Steve non sarebbe mai entrato. Sabato dopo sabato, a continuare a voltarmi in quella direzione, aspettando di scorgerlo sulla soglia da un momento all'altro.
E quando vedo la maniglia ruotare, mi accorgo di stare trattenendo il respiro. Chi entra, però, è la persona sbagliata. È sempre la persona sbagliata. Come potrebbe essere altrimenti? Quella giusta è morta da sei settimane, e io devo iniziare a farmene una ragione.
In realtà, farsene una ragione è impossibile. Il dolore prima o poi si affievolirà, come è successo con quello per Bianca, ma passerò il resto della mia vita a domandarmi "perché proprio lui?". Esattamente come faccio con Bianca.
Erano anni che non riflettevo sulla mia sorellina in questo modo. Con molta difficoltà avevo imparato a pensare a lei soltanto in termini di quello che avevo avuto, i bei momenti trascorsi insieme, e non di quello di cui ero stata privata, ma la morte di Steve sembra aver annullato tutti i miei progressi. La guerra mi ha portato via le due persone più care che avevo, e pare che si diverta a torturarmi anche ora che finalmente sta volgendo al termine, facendo riemergere una sofferenza antica, mentre cerco di fare i conti con una nuova.
Con ironico tempismo, l'orchestra attacca un pezzo blues di Walter Davis, "What's the use of worrying?". Lo riconosco subito perché Bianca amava intonarlo quando era soprappensiero. In effetti, so esattamente cosa direbbe Bianca vedendomi in questa situazione. Direbbe "Guardati, così impegnata a preoccuparti di cose che non puoi cambiare. Trascorrerai tutta la tua vita a cantare il blues, se continui a pensarla in questo modo".
Di nuovo, mi dico che devo iniziare a farmene una ragione. Un primo passo potrebbe essere pagare e andarmene a casa, ma non trovo la forza di alzarmi. Tornare a casa, infatti, è la parte più difficile da affrontare, di questi sabati tutti uguali. Perché quando esco per venire qui, la speranza che ho di incontrarlo diventa fiducia. Sarà pure ingenua, irrazionale e cieca, ma è pur sempre fiducia. E tornare a casa, invece, significa che quella speranza altro non era che un miraggio, una fantasticheria, un'illusione.
E non ho certo così tanta fretta di immergermi nel silenzio del mio appartamento, un silenzio che non fa altro che amplificare quei pensieri con cui mi tormento da quando ho sentito la sua voce per l'ultima volta, fino a renderli fisicamente dolorosi. È vero, con quei pensieri mi tormento sempre, anche qui, anche ora, ma almeno la confusione del locale riesce a distrarmi un po'. Il vociare delle persone si trasforma in un rumore di fondo che mi riempie la testa, e per qualche ora il dolore diventa sfocato, evanescente, lontano.
Rigiro per un po' il bicchiere tra le mani, e poi butto giù tutto d'un fiato il suo contenuto.
Ed è allora che accade. Ad entrare da quella porta è finalmente la persona giusta.
Steve.
Avevo immaginato, aspettato, bramato questo momento decine e decine di volte. Pensavo che se mai fosse accaduto sarei stata pronta, e invece dissimulare lo shock è impossibile. La sensazione è quella di essere completamente sopraffatta, travolta da così tante emozioni improvvise, da non saperle nemmeno distinguere.
- Miss Carter, si sente bene? Sembra che abbia visto un fantasma.
Quante volte mi sono sentita crollare il mondo addosso? Tante. Troppe. Dopo un po' ci fai l'abitudine, e ti dici, ogni volta che succede, che quando capiterà di nuovo non ti farai trovare impreparata, che vedrai l'impatto prima che questo ti colpisca, che avrai il tempo di metterti in salvo. Non è vero niente. Quando il barista pronuncia la parola "fantasma" il mondo mi crolla addosso per l'ennesima volta. Perché è ovvio che si tratta di questo, di un fantasma. Come potrebbe essere altrimenti?
I ricordi tornano agli orrori del fronte. Ho visto tantissimi soldati che, dopo l'amputazione, avevano spesso la sensazione della presenza dell'arto amputato. Come se fosse ancora lì. Si chiama sindrome dell'arto fantasma. È come se il corpo non potesse accettare il terribile trauma subìto. La mente cerca di avere di nuovo il corpo tutto intero. Mi rendo conto che il mio cuore, ora, sta facendo lo stesso. Vuole tornare ad essere tutto intero, e inizia ad immaginare di riavere quel pezzo che gli hanno strappato via. Quel pezzo è Steve.
Steve, che ho appena visto entrare da quella porta, contro ogni logica. Contro ogni ragionevolezza.
Sorrido amaramente. Le allucinazioni non fanno bella figura sul tuo stato di servizio, agente Carter.
Però... non sembra un'allucinazione. Sembra così reale, così vero, così… Steve. Non è… possibile. Non…
No, certo che no. Steve è morto, ricordo a me stessa, nel tentativo di stroncare sul nascere quella follia che si sta prepotentemente e irrazionalmente facendosi strada nella mia mente. Quella follia che vuole che lui sia ancora vivo, e che sia tornato da me.
Una follia, nient'altro. Eppure…
Cerco di fare appello al mio lato razionale. O, almeno, a quello pragmatico: non ho mai avuto un corpo su cui piangere, perché non lo hanno mai trovato. È davvero così assurdo, allora, pensare che possa essersi salvato? No, non lo è. E allora, forse è davvero possibile che si sia salvato.
Possibile, sì. Ma probabile… quanto?
Come posso sperare di farmi una ragione della sua morte, se inizio a pensare ai "se" e ai "ma"? Così, prima di permettere all'entusiasmo di trasformarsi nell'ennesima delusione, mi convinco di essermi semplicemente lasciata suggestionare. E allora, perché non ho il coraggio di distogliere lo sguardo? Sono davvero convinta che sia proprio Steve, in carne ed ossa? Andiamo, agente Carter, ragiona.
Il suo sguardo vaga impaziente per il locale, e poi finalmente mi vede. Ed è nel momento in cui i suoi occhi incontrano i miei, che capisco che non si tratta di uno scherzo della mia immaginazione.
Mi alzo così di scatto che tutto intorno a me si fa nero, e ho il terrore che appena tornerò a vedere, lui sarà scomparso.
Non scompare. E inizia a farsi strada verso di me.
Il locale è rumoroso come sempre, ma i suoni mi giungono ovattati. L'unica cosa che riesco a sentire chiaramente è il cuore che mi rimbalza nel petto, così veloce che sembra quasi che abbia imparato a battere per la prima volta.
Dieci metri.
Cinque.
Due.
Uno.
Ora a separarci non c'è più niente, tranne la parte razionale di me che cerca di convincermi che niente di quello che sto vedendo è vero, che mi sto immaginando tutto. Un ultimo, estremo, disperato tentativo di proteggermi dal dolore.
- Ciao - dice semplicemente, rivolgendomi un sorriso impacciato.
Non rispondo. Ho così tante cose da dirgli, che non so nemmeno da che parte iniziare. Almeno rispondi al saluto, sorellona, dove hai lasciato le buone maniere? mi prenderebbe in giro Bianca. Ma la verità è che non posso dirgli "ciao" e poi rischiare un altro "addio". Non prima di essermi accertata che tutto questo sia reale.
- Sei - inizio, ma non mi lascia finire la frase.
- In ritardo.
Eccome se lo sei, vorrei ribattere, anche solo per allentare la tensione che ho dentro, ma dalla mia bocca esce qualcos'altro.
- Vivo.
- Oh. Già. Anche quello.
Vivo. Steve è indiscutibilmente, inequivocabilmente, miracolosamente... vivo.
In un attimo, i colori si fanno più brillanti, i profumi più dolci, i suoni meno stridenti. Mi sembra quasi di essere tornata a vivere una vita a cui mi ero rassegnata a fare da spettatrice.
Ok, Peggy, per quanto ancora vuoi far finta che tutto questo sia un'illusione? Hai già perso fin troppo tempo.
Gli getto le braccia al collo con uno slancio e un vigore che credevo di aver perduto per sempre, dopo aver passato giorni e giorni a trascinarmi nell'apatia. Lo stringo forte a me, terrorizzata all'idea che potesse scivolarmi via come acqua tra le dita. E dal modo in cui Steve mi stringe a sua volta, credo che la paura per lui sia la stessa.
Restiamo abbracciati per un tempo lunghissimo, completamente dimentichi del mondo intorno a noi. È Steve a sciogliersi per primo dalla stretta, ma solo per potermi prendere la mano e accompagnarmi sulla pista dove decine di coppie volteggiavano spensierate al ritmo della musica.
- Ti devo ancora un ballo - mi sussurra all'orecchio.





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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

Nella mente ho una miriade di parole confuse che non riesco né a distinguere né a pronunciare. La voce mi muore in gola, mi è impossibile parlare e stento persino ad annuire quando mi viene detto qualcosa. La sensazione è quella di stare fluttuando in un’altra dimensione ultra terrena, di aver perso la concezione di ciò che è reale e ciò che è razionale: reale siamo noi, reale è la mia mano, la mia pelle, che sfiora quella di Steve e viene percorsa dai brividi, reale è il cuore che mi martella in petto e reale sono le lacrime che mi pizzicano gli occhi. Reale è Steve Rogers, qui e adesso, vivo, e reale è il suo respiro. Ma come può essere razionale un morto che cammina? Come può essere razionale il fatto che la mia speranza, le mie vane preghiere, siano state esaudite? L’agente Carter non si lascerebbe abbindolare, penserebbe che l’HYDRA la stia manovrando facendo leva su ciò che desiderava fortemente riavere, non esiterebbe ad agire.
Ma per stasera, ho deciso di accantonare ogni sospetto, paura, incertezza e di buttarmi tra quella gente che per settimane avevo osservato e considerato irraggiungibile. Mi ero convinta, poco a poco, che non sarei mai diventata una di loro, che la loro felicità era qualcosa che non avrei mai potuto condividere, qualcosa della quale non me ne spettava nemmeno un pezzettino, qualcosa di leggendario, inenarrabile, inafferrabile. Qualcosa che non riuscirei a descrivere neanche ora, ora che ce l’ho tra le dita, stretto intorno al cuore. Non so bene che rumore faccia la felicità e se abbia una forma, eppure credo fermamente che si manifesti nella dolce voce di Steve e nei suoi occhi brillanti e imbarazzati che non riescono a staccarsi da me. Mi commuove il modo in cui mi guarda, il rossore delle sue guance … tutto. Mi guarda come se avesse voluto farlo da una vita intera, come se fosse arrivato al traguardo e niente potesse portarlo via da me di nuovo. Ha un sorriso da fare invidia a chiunque, il sorriso estatico e meravigliato di un bambino che dopo aver temuto il temporale, vede per la prima volta l’arcobaleno.
- Orchestra, un lento per la mia ragazza preferita - esulta Steve scrollandosi per un attimo il suo naturale disagio.
L’orchestra lo accontenta e inizia a suonare “I Love You For Sentimental Reasons”, per la gioia di tutti i presenti. Mi ritrovo la mano di Steve su un fianco e l’altra in alto, intrecciata alla mia. I movimenti di Steve sono talmente impacciati da risultare buffi e adorabili e così mi ritrovo a ridere come non facevo da tempo, ormai. Noto che la ragazza che prima mi aveva ricordato Bianca ci sta guardando e annuendo con il capo: ha la stessa espressione accondiscendente e fiera che mi aveva rivolto la mia sorellina quando avevo avuto il coraggio di confessare ai nostri genitori di essermi arruolata. Le rivolgo un sorriso per poi tornare dal mio ragazzo di Brooklyn che sta sforzandosi per non pestarmi i piedi e fare bella figura.
- Capitano Rogers, devo ammettere che lei è un ottimo ballerino. Chi l’avrebbe mai detto!
Steve alza le spalle, soddisfatto. - Anche lei non è male, Agente Carter. Questo abito le dona molto, sa?
Appoggio la testa al suo petto e scoppio a piangere quando sento il battito di un cuore che pensavo si fosse arrestato per sempre. L’emozione è talmente travolgente che mi è impossibile non venirne sopraffatta. Steve mi asciuga le lacrime con il pollice e prende il mio volto tra le mani. I singhiozzi aumentano: non avrei mai pensato di ritrovarci così vicino ancora una volta. Sento che tutto svanirà da un secondo all’altro, deve sparire, deve. Miracoli del genere non esistono, voglio svegliarmi adesso, adesso che sto realizzando che tutto ciò è impossibile e il risveglio non sarebbe peggiore degli altri giorni. Che qualcuno mi svegli, non posso reggere per molto.
- Peggy … - esordisce lasciando la frase sospesa.
Mi abbraccia senza dire nulla, probabilmente cosciente del fatto che blaterare il solito “andrà tutto bene, ci sono io con te” sia più incredibilmente inutile del solito. Lascia che il mio corpo senta il calore della sua stretta e permetta alla mente di smetterla di opporsi e accettare una realtà a lungo sognata e ora concretizzatasi. Non dice niente, respira soltanto, come a dirmi “la gente morta mica respira, Peggy”.
Seguo il ritmo del suo respiro e a poco a poco mi calmo, allo stesso modo in cui un cielo si rasserena dopo la tempesta.
Non sto sognando, devo farmene una ragione.
- Perché non hai smesso di aspettarmi? - domanda e dal suo tono comprendo che è qualcosa che non vedeva l’ora di buttare fuori.
Gli metto una mano sulla guancia e lo bacio sulla fronte, calda e ruvida.
- Perché non avrei mai potuto lasciar andare tanto facilmente il mio ragazzo preferito …
Steve guarda altrove e so perfettamente cosa sta cercando di reprimere. Gli trema la mano e il suo battito è irregolare: non sono mai stata così felice di percepire queste piccole cose prima d’ora.
-… soprattutto se mi doveva ancora un ballo, giusto? - ribatto per smorzare la tensione.
Steve mi fissa per qualche secondo e mi sorride, gli occhi lucidi e colmi di speranza.
- E allora balliamo, miss Carter. Abbiamo tutta la vita per farlo, adesso.





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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V

Nei romanzi, nelle fiabe, nei racconti, l'amore è spesso celebrato attraverso gesti grandiosi. Il principe che sconfigge il drago per salvare la fanciulla. Giulietta che, non sopportando la morte di Romeo, si uccide a sua volta. Fin da piccola ho sempre trovato queste cose decisamente eccessive. E per Bianca, che invece era solita perdersi nelle romanticherie, ogni occasione era buona per ricordarmi che ero fin troppo pragmatica. Che dovevo imparare a lasciarmi stupire. Se fosse qui, ora, obietterebbe senz'altro che anche "ritornare dal regno dei morti", o aspettare per sei settimane una persona pur essendo certi che non sarebbe mai arrivata siano gesti altrettanto grandiosi. Ed è vero, ma non me la sento di definire in questo modo quello che abbiamo io e Steve. Cosa c'è di grandioso, infatti, nello stare qui, in silenzio, a stringerci tra le braccia? Cosa c'è di grandioso nel mio stare con la testa appoggiata al suo petto per ascoltare il cuore che batte? Perché nella maggior parte dei casi l'amore non lo vedi dalle imprese eroiche e dalle grandi gesta, ma dalle piccole cose. E non hai bisogno di gridarlo, perché puoi sentirlo anche nel silenzio. Come questo.
Anche se, in effetti, adesso il silenzio è fin troppo… silenzioso. Mi guardo intorno e mi accorgo che sulla pista da ballo non c'è più nessuno, e che i musicisti dell'orchestra stanno smontando e riponendo gli strumenti nelle custodie.
- Steve?
- Sì?
- Credo che tra un po' ci cacceranno via...
Come me, anche lui si guarda intorno e ride. Fa strano pensare che, all'improvviso e contro ogni aspettativa, la vita sia tornata ad essere così piena di leggerezza.
Mano nella mano ci dirigiamo all'uscita. Passando davanti al bancone del bar, però, mi ricordo che devo ancora pagare le consumazioni. Faccio per avvicinarmi ma il barista, che era intento a pulire e a riordinare, mi blocca con un gesto della mano e un sorriso caloroso.
- Offre la casa.
Lo ringrazio e ricambio il sorriso. Mi chiedo se sappia quanto i suoi tentavi di conversazione in queste settimane mi abbiano tenuto compagnia. Quando mi allontano lo sento aggiungere, piano, "Stia bene, Miss Carter".

Pur mancando ancora almeno un'ora all'alba, New York è lo stesso una città viva. Anche se, c'è da dire, quasi tutti quelli che sono in giro a quest'ora lo sono perché stanno andando al lavoro, o perché stanno rientrando a casa. Ogni tanto, però, capita di vedere qualche coppia passeggiare senza una meta precisa, quasi ad oltranza, perché ancora non si ha voglia di passare ai saluti. Io e Steve oggi facciamo parte di questa terza categoria. Non c'è alcuna fretta, ma sembra quasi come se sentissimo di dover recuperare in una sola notte tutti i giorni che fino a qualche ora prima credevo persi per sempre.
- Devi raccontarmi tutto - mi trovo poi a chiedere, turbando quella tranquillità silenziosa in cui eravamo piacevolmente immersi.
- No, penso che...
- No?
- Cioè, sì, è ovvio che ti racconterò tutto. Solo, non oggi. Così devi per forza darmi un altro appuntamento - si affretta a chiarire Steve, rivolgendomi un sorriso furbo.
- Se è di questo che ti preoccupi, ti assicuro che non ne hai motivo - dico, sorridendo a mia volta. - Davvero? Perché in effetti avrei in mente qualcosa.
- Per il secondo appuntamento?
- Si e no.
Siamo appena arrivati sul ponte di Brooklyn. Guardo Steve con un'espressione curiosa e leggermente impaziente, mentre lui si appoggia alla balaustra e osserva per un momento le luci di Manhattan brillare sull'East River.
- Ok, senti - dice ad un certo punto, voltandosi verso di me. - Probabilmente dirai che ancora non so proprio come si parla ad una donna, quindi abbi pazienza e lasciami finire.
- Devi ancora iniziare - gli faccio notare.
- Ah… beh, allora fammi iniziare, così poi mi lasci finire.
Lo invito a proseguire restando in silenzio. Un silenzio confuso e divertito al tempo stesso.
- Nel trambusto per salvare il mondo, ho perso la mia bussola. Sai, quella con la tua foto.
La ricordo bene, quella bussola. La prima volta che la vidi, in un filmato di propaganda, ne restai così sorpresa e… imbarazzata. Il colonnello Phillips, seduto vicino a me, non la smetteva di sghignazzare, compiaciuto a dire il vero, sotto i baffi.
- Non riuscivo a trovarla da nessuna parte. Certo, potevo semplicemente limitarmi ad essere grato di essere ancora vivo, ma… voglio dire, Bucky mi diceva in continuazione che ho sempre avuto le priorità tutte sballate.
Steve fa una piccola pausa, subito dopo aver nominato Bucky, ma noto che è deciso a non perdersi nella malinconia.
- In ogni caso - prosegue un istante dopo - poi ho capito che non avevo bisogno di un aggeggio di metallo per ritrovare la strada di casa.
Un sorriso timido. Un respiro profondo.
- Non ne avevo bisogno perché sapevo già dove andare. Perché, Peggy… se il mio cuore fosse una bussola, tu saresti il nord. E io saprei sempre che strada prendere.
Non ricordo l'ultima volta in cui rimasi così senza fiato. Se il mio cuore fosse una bussola, tu saresti il nord. Per la gioia di Bianca, quello era senza dubbio il momento in cui finalmente avevo imparato a lasciarmi stupire. Con suo probabile disappunto, però, il mio lato pratico, forse perché colto alla sprovvista e quindi in preda a panico, non può fare a meno di dire la sua. Così mi trovo a riflettere su quanto sia strano pensare che a pronunciare una frase del genere sia lo stesso ragazzo che, la prima volta che mi rivolse la parola, mi disse che ero una "bella pupa". Scusa, Bianca, un passo alla volta.
Se il mio cuore fosse una bussola, tu saresti il nord.
- Steve… - inizio, la voce che trema dall'emozione.
- Aspetta, aspetta, devi lasciarmi finire.
- C'è dell'altro? - chiedo, in un moto di meraviglia. Più di... questo?
- La parte migliore - sorride Steve, stringendomi le mani nelle sue.
Rimango senza fiato per la seconda volta nel giro di pochi secondi, mentre lo osservo mettersi in ginocchio.
- Ti amo, Peggy. Vuoi sposarmi?






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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

Resto paralizzata per una manciata di secondi e non riesco nemmeno a percepire ciò che ho intorno. La prima cosa che mi balza per la testa è un convintissimo sì, sì, sì, mille, milioni, miliardi di volte sì. Sì, Steve Rogers, che voglio sposarti. Sì che voglio passare ogni giorno della nostra vita insieme, sì che non vorrei altro che recuperare il tempo perduto e sì che non c’è altro al mondo che desideri di più. Quando provo ad aprir bocca, però, nulla di tutto ciò che ho pensato esce fuori e per un attimo temo di aver perduto la voce. Bianca lo diceva sempre che un uomo, un giorno, sarebbe riuscito a zittirmi e mai avevo pensato che qualcuno lo avrebbe fatto con una proposta di matrimonio. Steve mi guarda speranzoso, come chi sta aspettando una risposta che sa a priori essere positiva, e sorride per incoraggiarmi a rispondere. Non ho la minima idea di come non faccia a perdere la fiducia dopo un minuto di imbarazzante silenzio e avendo davanti la mia espressione smarrita che non promette nulla di buono.
Vorrei rispondergli, davvero, lo vorrei con tutta me stessa, ma con il sorgere del sole, la paura che tutto ciò sia solo un’illusione diventa ancora più forte. La paura di lasciarmi andare del tutto, perdere il controllo, prende il sopravvento. Muovo la testa in segno di dissenso e mi allontano.
Odio il modo in cui mi sto comportando, odio il modo in cui sto ferendo Steve. Vorrei che Bianca fosse qui e mi dicesse cosa fare, mi sento così impotente.
- Peggy, mi dispiace. Non volevo …
Essendo di spalle, posso solamente immaginare la delusione negli occhi di Steve e vorrei eliminare questa immagine nella mia testa immediatamente. Ancora una volta, l’intera situazione non ha senso, non ha senso desiderare tanto qualcuno e poi spingerlo via quando si riesce ad ottenerlo. Nulla ha senso ed io voglio solo tornare a casa.
Ma dove voglio andare, dove credo di andare, senza la mia bussola? Margaret Carter, non mandare all’aria questo miracolo, non farlo. Fa’ la cosa giusta: sii felice.
- Steven Rogers … - esordisco, decisa.
Steve è in piedi e mi fissa, le mani che tendono appena verso di me e l’aria afflitta di chi sente di aver commesso un errore e vuole rimediare. Ma qui l’unica da incolpare sono io e voglio rimettere tutto a posto, voglio accogliere con gioia quello che ci meritiamo. Voglio vivere.
- Sì, sì, sì, mille, milioni, miliardi volte sì. Sì, voglio sposarti - la voce tremante, senza fiato. - Non crede anche lei che ci meritiamo una vita insieme, Capitano?
Mi si avvicina con un sorriso talmente radioso da far invidia al sole e mi bacia, eliminando ogni dubbio in me. Non sto sognando, nessun sogno potrebbe mai essere bello come questo. In nessun sogno, potrei mai essere così felice. Mi alzo appena un po’ sulla punta dei piedi e ricambio il bacio, sicura del fatto che mi aspetta un’infinità di baci come questo per il resto dei miei giorni.
- Lei non mi delude mai, agente Carter. Sarà un piacevole onore passare tutta la vita con lei.
- Può dirlo forte, Capitano Rogers! - ribatto scoppiando a ridere e amando terribilmente la sensazione di gioia e leggerezza che mi pervade. - Adesso, però, torniamo a casa.

Dieci anni dopo

- Ed è così che io e vostro padre ci ritrovammo - concludo prima che il sonno abbia la meglio sulle mie palpebre. - Ora a letto!
Bianca, accucciata sulle gambe di Steve, ha un’espressione sognante e sembra fare le fusa come un gattino. Non è la prima volta che gliela racconto, eppure, come la ragazza da cui ha preso il nome, non si stanca mai di ascoltare le storie dove il lieto fine trionfa. E non è nemmeno la prima volta in cui si gira verso suo padre guardandolo come se fosse il suo principe azzurro e riempiendolo di abbracci.
- Oh, papà, come sei romantico!
- Bianca, le tue smancerie sono disgustose!
Ed ecco lamentarsi dall’altra parte della stanza il nostro soldatino James, distratto per un momento dalla lettura dei fumetti delle avventure di Capitan America e del suo omonimo.
- Mamma, Bucky ha detto che le mie smancerie sono disgustose - piagnucola Bianca scendendo dalle gambe di Steve e preparandosi all’attacco.
Steve la ferma afferrandola per le spalle e riprende suo fratello. - Bucky, non parlare in questo modo a tua sorella e fila a letto. Filate a letto tutti e due, piccole pesti.
Questo siparietto è esilarante e trattengo le risate a fatica mentre prendo in braccio James e lo porto a letto; Bianca mi segue camminando con le proprie gambe e non può fare a meno di fargli linguacce.
- Io almeno non mi faccio prendere in braccio dalla mamma, femminuccia!
- Mamma, Bianca ha detto che sono una femminuccia!
- Bianca, il linguaggio!
Chiedendomi se questo chiasso avrà mai fine, rimbocco le coperte al nostro soldatino preferito mentre Steve aiuta la nostra guerriera a salire sul materasso. Lasciamo un bacio sulla fronte ad entrambi e gli ricordiamo quanto sia infinito il nostro amore per loro, come ogni sera. Prima di spegnere le luci, pongo a Steve la solita ma mai scontata domanda.
- Avresti mai immaginato tutto questo?
Lui mi guarda e mi cinge le spalle, dolcemente. Guarda i bambini, guarda la loro camera, le foto del suo Bucky Barnes e della mia sorellina sul comodino dei nostri figli, ed infine torna a guardare me con evidente commozione.
- Tu l’avresti mai immaginato?







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