дело 17

di Caelien
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


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È un foglio bianco. Potrei scriverci pagine e pagine di bugie, ricordi, impressioni fittizie, solo per farlo diventare ancora peggio di come è, un burattino.

Ma non posso. Ho troppo rispetto per la vita umana.

Strano, detto da una psichiatra addestrata ad uccidere con le parole.

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Quando, scappando dall'edificio in fiamme, vidi distintamente il Capitano e il Soldato d'inverno combattere sull'helicarrier, pensai di stare rivivendo New York. Sconvolta, sorpresa, confusa.E così mi sentivo anche ora, con un biglietto della metropolitana in mano, obliterato in modo da formare un codice che solo chi lavorava a stretto contatto con Lui poteva capire.
Quando Maria Hill me lo porse, durante un rapido incontro al grattacielo Stark, non mi scomposi, anche se dentro di me si scatenò una bufera di emozioni.

 

Aspettai che la cenere consumasse quel veleno, prima di entrare nella tavola calda. La stessa dove, qualche tempo prima, Lui incontrò il signor Stark. Quella gigantesca ciambella sul tetto mi sembrò instabile; così come lo era il mio respiro.
Buttai a terra la sigaretta, accesa per non so quale antico vizio, e respirai profondamente.
Ed eccolo lì, al tavolo infondo, dove le tende erano ben tirate sui vetri incrostati di grasso e frustrazioni.

"Salve Sage."

Nick Fury era avvolto in abiti di tre taglie più grosse della sua. Spessi occhiali da sole, con lenti a specchio, non lasciavano intravedere i suoi occhi. Una lunga barba nascondeva la fisionomia del suo volto.

"Salve Las."

Il biglietto della metro diceva anche 'Chiamami Las.' Cercava in ogni modo, anche il più stupido, di non essere trovato. Ormai era 'Las' anche sui pochi, falsi, documenti.

"Voglio sperare che Hill ti abbia fatto pervenire i miei documenti in tempo. E che il tuo problema di.. Stress, sia risolto."

Disse, addentando una ciabella e sorseggiando un caffé acquoso e nero.


"Puntuale come sempre. E sì, sto meglio. Al diavolo i convenevoli. So di essere brava nel mio campo, ma non potevi sguinzagliare i cani?"

Dietro le spesse lenti riuscivo a intravedere le sopracciglia aggrottate.

"Sai, qualcuno abituato a missioni di questo genere. Erano anni che non lavoravo fuori dai sotterranei."

Scosse la testa, accennando un sorriso.

"Steve è già in giro, Sage. Chiedere aiuto a un altro di loro sarebbe troppo rischioso. Scoprirebbeo me e il nostro lavoro nel giro di un millisecondo. Non possiamo concederci sviste. Adesso prendi i fogli dalla cartella. Ah, tieni questi."

Mi porse un paio di occhiali da vista, apparentemente banali, ma che io riconobbi immediatamente.

I fogli che avevo davanti erano articoli di giornale; Vanity Fair, Times, Guardian. Nonappena indossai gli occhiali, vidi tutt'altro. Irradiandosi come stelle cadenti, vidi cominciare a delinearsi scritte, informazioni, mappe, fotografie.

"Cavolo, sne ha fatta di strada, per essere a piedi."

Sussurrai sarcasticamente.

"Non può essere stato tanto difficile per lui. È addestrato come mercenario."

Avevo scordato l'udito straordinario di Nick. Ops, Las.

"Maria Hill e Steve sono riusciti a localizzarlo fino in Colorado. Ha preso mezzi di fortuna, ha soggiornato in qualche rifugio per nomadi. E sì".

Aggiunse, riconoscendo il mio sguardo impaziente.

"Ha ucciso dei civili."

"Cosa devo fare Las? Come devo muovermi?"

Chiesi, porgendogli gli occhiali che avevo indosso. Inutile girare attorno ad inutili convenevoli.

"Vogliamo che lo trovi, e lo faccia lentamente rinsavire. A cose fatte lo porterai da noi. E ripeto, da noi. Non alla CIA, non all' FBI. Lo voglio da me. È chiaro?"

Mi disse, perentoriamente.

"Se si trattava solo di mentire, potevi dare l'incarico a Natasha."

"Natasha non ha l'esperienza da psichiatra che hai tu. Non sa pesare le parole come te. Sa mentire magistralmente, ma serve qualcuno in grado di non ferirlo, di non farlo scappare. E non mi fido di nessun'altro a parte te, per questo."

"Pensi che non si ricorderà di me? Potrebbe uccidermi, se solo gli si ripresentasse anche un minimo flash. Ne sei consapevole?"

Las respirò profondamente, facendo spuntare piccoli cerchi concentrici nel suo caffè.

"Verrai dotata di armi e dispositivi per la localizzazione. Se succederà qualcosa lo sapremo."

Si alzò da posto, infilando un pesante cappotto, lasciando venti dollari sul tavolo e riporgendomi gli occhiali. "Tieni gli occhiali, c'è altro da leggere. Per quanto riguarda la sua memoria; nessuno meglio di te può evitare che sorgano flash o cose del genere. Sii prudente Sage. Puoi passare da Natasha appena vuoi ed iniziare il lavoro. Ti darà tutto lei, macchina e soldi compresi."

Annuì e lo salutai con un cenno del capo.

 

Avevo visto centinaia di criminali, li avevo interrogati, visitati e picchiati. Ma nulla mi segnò mai quanto ciò che mi fu assegnato nonappena uscì dalla NSA."Sage, allo S.H.I.E.L.D. non vedrai ladri, non vedrai furfanti di quartiere. Nick Fury non raccatta l'immondizia dalla strada. Recupera bombe ad orologeria. Interpreta la te stessa più fredda. E sii coraggiosa". Così mi disse il mio capo, prima di congedarmi dagli uffici del pentagono.

Ma ciò che mi avrebbe attesa allo S.H.I.E.L.D. mi colse, quasi, del tutto impreparata.

Ciò che gli facevano era animale.Tutto quello era orrendo.
Quella parte del mio lavoro mi orripilava; era inumano, era crudele, era malvagio, era shockante.Ma in che modo poteva stare lì seduto e sopportare tutto quello? Ci ripensavo spesso, nei momenti morti. Come ora.
Dopo aver lasciato Las, mi precipitai in auto, per dirigermi verso l'indirizzo che Natasha mi aveva lasciato, prima di sparire da Washington.
Lasciai dietro di me la città; mi ritrovai in mezzo a campi di grano desolati. Mentre percorrevo quelle strade, un ricordo: quelle giornate estive, quegli allenamenti infiniti, quel sudore di cui non riuscivo nemmeno più a sentire l'odore, tanto mi aveva impregnato il naso. Le urla del sergente, quelle che mi facevano vibrare il timpano tutte le volte. Quei capannoni di latta, forni di paglia.
Ancora due kilometri. Ed eccola là, una classica casa coloniale, rudere di legno.

Natasha mi aprì la porta, cigolante.

"Ciao Sage. Sei arrivata presto."
Mi abbracciò senza energia.

"Conoscevo già questa strada."
Mi fece cenno di seguirla nel seminterrato.

Scendemmo una rampa scricchiolante di scale. Una porta di legno davanti a noi. Uno scanner-retina esaminò l'iride di Natasha. La porta di legno si rivelò un portellone di vibranio. Entrammo in un grande garage, pieno di monitor e con un'utilitaria nuova di fabbrica.
Guardai Natasha premere freneticamente i tasti dei computer, aggiungendo chissà quante parole a chissà quanti file top secret; la sua espressione era impassibile, ma le sue mani tremavano.

"Che ti succede?"
Le chiesi. Sapeva che l'avevo notato.

"La Digos mi ha contattata. Vogliono farmi qualche domanda circa il mio coinvolgimento in alcune operazioni in Italia. E tu sai cosa intendono con 'qualche domanda'."

Annuì.
"Sei sopravvissuta al Kgb e, da poco, all'Hydra. Che vuoi che sia la Diogs in confronto?"

Accennò un sorriso, per poi tornare seria.
"Stavolta sono allo scoperto. Totalmente. Ma non siamo qui per me. Nel baule dell'auto troverai tre valigette; una con le armi e i dispositivi di localizzazione, cellulari, staellitari e ciò che può servire per le emergenze. Una con ulteriore documentazione sul caso e i tuoi documenti falsi. L'ultima con circa un novecentomila dollari. Io non potrò esserti utile, ma potrai contattare Steve e Maria Hill per ogni emergenza. I numeri li hai già salvati nella memoria dei dispositivi, rispettivamente sotto #1 e #0."

"L'incontro con Las è stato breve, hai idea di dove possa trovarsi adesso Steve? Tanto da farmi un'idea anche sui suoi spostamenti. Sai, per ogni evenienza."

Natasha mi guardò con complicità. Mi conosceva bene; sapeva che non volevo essere seguita, mai.

"È a Los Angeles. Sembra che il fuggitivo sia passato di lì da poco. Troverai tutto nei documenti."
Ci scambiammo un altro rapido e stanco abbraccio. Mi infilai nella nuova auto, notando con piacere che era come la mia vecchia berlina, dotata cioè di comando vocale.
Un portellone che dava sulla strada, si aprì, lasciando entrare la luce del tramonto in quella cassaforte di dati sotterranea.

"Poluchit' povezlo*"
Le sorrisi. Sinceramente.

"Spasibo, moy drug.*"

L'odore dei sedili in pelle di quell'utilitaria sarebbe stato il mio nuovo profumo.

*

Alle tre del mattino mi fermai presso un motel sulla strada.
Uno di quelli con mobili dozzinali, tessuti anni Settanta e lampadine mal avvitate.La mia identità falsa era ora Jenna Smith; se ne sarebbe accorto anche un infante, che quel nome era di plastica. Ma mi fidavo di Las.
Posati gli abiti sulla poltrona della stanza, e infilatami a letto, presi ad esaminare tutti quanti i documenti. La stanchezza c'era, il sonno le stava ben lontano.
Inforcai gli occhiali dello Shield; costellazioni di dati davanti ai miei occhi.

| James Buchanan Barnes | Orfano | Cresciuto a Fort Lehigh | Trovato nel 1945 nel canale della Manica privo di un braccio | Catturato dall'Hydra ancora vivo. | Subìto l'impianto di una protesi bionica. | Sottoposto a elettroshock per impedire a memorie antecedenti di riemergere | Invecchiato di soli cinque anni dal recupero ad oggi.

Non lessi oltre. La sua storia, del resto, già la conoscevo bene.
Presi invece le carte coi suoi spostamenti; Washington, Chicago, New York, Seattle, Los Angeles. Proprio mentre fissavo il punto blu sulla costa californiana, uno nuovo prese a lampeggiare molto più in sù nella mappa:
Denver, Coloardo.
Non c'era tempo. Forse Steve era già in cammino. Ma non volevo essere trovata, raggiunta, affiancata.
Presi, dalla valigetta numero uno, un piccolo cilindro argenteo. Ne uscì un sottile ago, e feci con questo pressione sulla giugulare. Quanto bastava per dormire tre ore e ripartire.

*Buona fortuna RUS

*Grazie, amica mia RUS
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Ciao a tutti. Sono nuova in questo fandom; ho da poco visto il film Captain America 2 e non ho saputo resistere alla tentazione di scrivere qualcosa a proposito! Spero non me ne vogliate e che la storia possa piacervi ed intrigarvi.
Sage non è ancora ben delineata, ma per quello ci sarà tempo. Premetto che mi baso sulle informazioni che ho ottenuto dal Film, non leggo i fumetti.
Che dire, se vi va e avete tempo, una recensione è sempre gradita. Soprattutto, e ve lo chiedo per favore, non celatemi nessuna critica. Inoltre, volevo fare un ringraziamento speciale alla mia preziosa amica Giovanna, che mi ha aiutata e mi sta aiutando tanto. Grazie della vostra attenzione, un grande abbraccio,

Crys*

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Capitolo 2
*** II ***



 

Servi all'esercito, servi ai servizi segreti, sei un uomo buono, ti hanno solo manipolato per anni ed eliminato la memoria a loro piacere.

Quanto poteva essere facile il mio lavoro, con un soggetto così soggiogabile?
Facile come contare: Uno – Ti chiami James Bachanan Burnes.
Due – Hai ucciso quasi un migliaio di persone coscientemente, ma non è colpa tua.
Tre – Nick Fury ti vuole arruolare nel suo corpo di vendicatori.
Ma se in ogni istante tutto muta, tutto è nuovo, facile non lo è più niente.


 

 

Avevo attraversato quasi metà del tragitto verso Denver; mancavano dodici ore, ma io ne avevo al massimo otto. Non c'era fretta, ma non amavo la puntualità, tanto meno il ritardo. Anticipare. Era stata quella la mia miglior qualità, da quando facevo il mio lavoro. Riuscivo, interpretando parole, sguardi, movimenti impercettibili, ad essere quasi sempre un passo davanti agli altri.
Quando il sonno tentava di vincermi, le sante iniezioni made in S.H.I.E.L.D. di non so quale sostanza, mi rendevano vigile per altre due o tre ore. Chissà quanto avrebbe pagato quel drogato all'angolo del supermercato lì a destra, per un goccio di questa roba.
Il viaggio era ancora lungo. Dovevo sfruttare il tempo 'libero' in qualche modo. Ripresi il mio studio sul soggetto.

"Comando, leggi il documento numero diciassette."

Non avrei mai pensato che ci si sentisse così stupidi a dare ordini ad un' atuomobile, prima di provare a farlo.

"Documento numero diciassette: verbale dell'agente Bell, settore Psichiatria. Trentesimo test sul soggetto diciassette."

Che sfortunata coincidenza numerica. Mi ricordavo di Bell. Mai saputo il suo nome. Ricordavo solo quella voce, che se avessi raffigurato, sarebbe stata un pozzo.

"Количество семнадцать*'. Soggetto in stato confusionario. Rientra oggi dalla missione in Siberia. Esaminato dall'agente Trope, riporta informazioni circa il riconoscimento di un luogo. Un campo di prigionia abbandonato. Dice di riconoscere l'odore dell'aria e l'aspetto dei capannoni. Simili a quelli di un imprecisato luogo degli Stati Uniti. Presenta ferite da sparo sull'anca sinistra. L'agente Trope riferisce uno stato emotivo malinconico, nostalgico. Viene dato l'ok per l'elettroshock. Il soggetto non si oppone. Si sdraia sul lettino. Le calamite vengono poste sulle tempie. Il morso di gomma inserito nella sua bocca. L'agente Trope fa domande al soggetto e gli stringe la mano, prima di lasciare la stanza. Il soggetto annuisce. Le rivolge uno sguardo, poi annuisce verso i dottori. Il corpo del soggetto subisce scariche elttriche. Urla. Esce sangue dalla bocca. Il soggetto perde conoscenza. Test numero trenta: esito positivo."

"Comando, cripta il documento numero diciassette."
Abbassai il finestrino: accesi una sigaretta. Inspiravo consapevolezza. Esalavo colpevolezza.

Perché se ne stava lì, senza reagire? Ogni volta.
Era come se a parlare fosse lui. Tutte le volte.
Non conosceva niente di migliore di quello che aveva ora.
Era stato riformato in qualcosa che non doveva pensare. Qualcosa che doveva solo rispondere ad ordini che gli venivano dati.
'Sono un'arma' disse. 'Sono un giocattolo' disse.'Sono un burattino, i cui fili sono strattonati e tirati in ogni direzione.' Ripeteva 'Sono qualcosa che non ha libertà di scegliere.'
Era consapevole. Quando parlava, era consapevole. Sempre, prima di quella scarica di vuoto plumbeo e bugie.

*

Passai davanti ad una farmacia. Quindici Marzo. Denver. Diciannove e quarantuno. Meno dieci gradi. Sessanta percento di umidità.
"Del paracetamolo per favore."

Chiesi a... Elizabeth. Così diceva la sua targhetta di plastica.

"Bayern o generico, signora?"
Disse, con una voce al limite dello stridulo.

"Generico per favore."
Mi sforzai di non sorridere. Bayern. Sorrideva fin troppo il suo amministratore delegato, quando lo interrogai, durante lo scandalo dei vaccini placebo in Kenya.
Tornai in macchina. Ad est della città mi era stata assegnata una casa, strategicamente acquistata da Las. Quando vi fui davanti lo chiamai.

"Sono qui. Potevi avvisarmi del sonnifero. Trentotto e mezzo."
Dissi, con voce atona.

"Pensavo lo spessi. Come hai fatto ad arrivare lì in dodici ore? Ti ha dato un passaggio Stark?"
Rise.

"Rogers?"
Chiesi.

"Ancora a Los Angeles. Dice di aver scoperto qualcosa di interessante. Se volessi raggiungerlo.."

"Sai che non voglio. Dormo tre ore ed esco."

"D'accordo. Avvisami su qualunque spostamento o novità. Sta' attenta."

Entrai nella casa e accatastai le valige dove capitava. Non prestai minimamente caso a come fossero disposti i mobili o se la casa rispecchiasse il mio giusto.
Mi capitò solo un'altra volta di vivere una situazione del genere, e fu durante la mia prima missione all'NSA. Imparai a non affezionarmi troppo alle cose, al prezzo di una coltellata nella spalla.
Le valige di vetranio dello Shield avrebbero trovato posto nel mezzo dei due materassi del letto. Finito l'iter di controllo, mi feci un'altra puntura di sonnfiero; dormii poco e sudai molto.

*

La Luna era calata, dovevano essere le ventitrè passate. Mi toccai la fronte; la febbre era sparita, anche se sapevo sarebbe tornata in poche ore.
Feci una rapida doccia. L'acqua gelida faceva dolere i miei muscoli, ma era l'unico modo per lavarmi senza urlare di dolore. La cicatrice sulla spalla non aveva mai finito di fare male, e l'acqua calda era come quella santa sul demonio. Non capì mai il perché.
Indossai abiti dimessi e nascosi i capelli in un cappuccio, per poter passare il più inosservata possibile. Attivai le armi automatiche e i sensori di movimento, prima di uscire.

 

Percorrendo la strada a piedi verso la periferia Sud di Denver, cominciai a ripercorrere con la mente tutti gli istanti passati nel mio 'ufficio' con lui.
Cercai di ricordare ogni minimo particolare; gli abiti indossati, le capigliature, i gioielli, i profumi, le scarpe, il loro rumore e quello della stoffa, a contatto con il corpo e con le sedie in alluminio. E ancora, i miei gesti abitudinari, le mie parole, il suono della mia voce, il mio modo di respirare, di arricciare le labbra, di sbattere le palpebre.
Tutto era fondamentale, ai fini di un rapido riconoscimento, o al contrario, di un sicuro nascondiglio.
Jenna Smith doveva essere rumorosa, doveva avere un accento marcato, una postura ingobbita, una voce acuta o troppo profonda, essere sbadata e svogliata, perennemente annoiata. Il contrario di Sage.
Mentre sforzavo la mia mente per tornare agli istanti delle visite psichiatriche, non potevo fare a meno di ricordare quell'uomo distrutto, demolito. Ricordo quando, il primo giorno, annotai: 'discarica del cinismo della società. Anima in cenere'. Sembrava davvero, allora, di avere davanti un automa. Era incredibile che quello, in passato, potesse essere stato un uomo. 'Ricorda il suo nome?' 'Ne ho uno?' 'Ricorda da dove viene?' 'Dove sono adesso?'
I primi tempi era stato solo uno scambio di domande. Non ottenni risposte per lungo, lungo tempo. Fu dopo la missione dove fu ferito in modo grave, che mi riferì di starne sensazioni, fuggevoli nebbie.
Niente di rilevante, sosteneva lui, ma per me erano fitte galassie.

La mappa mi aveva segnalato proprio il sud della città; tipico, pensai, rifugiarsi ai margini, quando ti senti un estraneo. Precisamente, mi indicò un'area abbandonata, che quando raggiunsi si rivelò essere un grande, brullo, campo nomadi. Mandai immediatamente la mia posizione a Las, attraverso il dispositivo che avevo al polso.

Jenna Smith nacque a mezzanotte del sedici Marzo.

Con la sua insospettabile figura trascinata, guardinga, iniziai a perlustrare la zona. Un fortissimo odore di scarichi fognari mi riempiva le narici; l'aria era pesante, sudicia, rarefatta. Constatai dopo poco che in lontananza si scorgevano le ciminiere di una fabbrica di metalli. Vi erano venti roulotte in tutto; solo sei avevano le luci accese. Lui doveva essere in una delle altre quattordici. Bussai cautamente a quella con le ghirlande di fiori finti fuori dalla porta; un finestrino era aperto e l'odore di sigarette vi usciva serpentino. Pesanti passi fecero scuotere la casa mobile da un lato all'altro.
Davanti a me un vecchio uomo, sudaticcio e lentigginoso.

"Che vuoi a quest'ora?"
Chiese, per poi tossire. Asmatico, cancro ai polmoni in fase terminale. Non aveva qualsi capelli in testa.

"Una sigaretta. Le ho finite."
Sfoderai un formidabile accento del luogo.

L'uomo grugnì, per poi passarmi una Pall Mall unta all'inverosimile. La misi tra le labbra e mi sporsi in avanti. La accese, per poi guardarmi dritto in faccia.

"Sei nuova? Vuoi entrare? Ti do sessanta dollari." 
Rise, per poi tossire un'altra volta. 
"Ti do io sessanta dollari se mi.."

In lontananza, un rumore di passi veloci mi fece troncare la frase. L'uomo continuava a parlare a Jenna, mentre io rimanevo con l'orecchio vigile. Analizzai la cadenza della corsa. Lo stesso che imparai, a suon di urla, nei campi vicino Washington. Il terreno non veniva calpestato con energia, ma veniva scalfito velocemente. Mi allontanai dalla roulotte a passo lento buttando la sigaretta e lasciandomi indietro quell'uomo robusto e le sue squallide proposte.
Svoltato l'angolo a sinistra, alla fine della linea delle poche altre case mobili, quello che doveva essere un ex campo di rugby era completamente inabissato dal buio. Mi accostai di fianco ad un capannone lì vicino.
Nella totale oscurità, una figura percorreva l'area con agilità e altrettanta velocità. Sapevo che era lui. Avrei riconosciuto quel passo rassegnato, rigido, austero e perso dovunque. Iniziai a modulare il respiro, in modo da renderlo impercettibile. Dovetti costringere me stessa a dimenticare in che situazione mi trovavo, ad un passo dal mio potenziale assassino. Avevo paura. Tanti allo Shield se lo dimenticavano, quando me lo trascinavano in ufficio cieco di rabbia, ma ero un essere umano anche io.
Continuava la sua ritmica corsa; quello poteva essere il suo mantra, il suo modo per non sentire il peso di quello da cui fuggiva. O forse contava i suoi ricordi, quelli rimasti, racchiudendoli nei cerchi che disegnava correndo, come in un rito.
Smisi di analizzare i suoi movimenti, così banali, ma così simbolici. Un rumore proveniente dalle roulotte vicine mi fece distrarre. D'istinto, allungai la mano all'interno della mia maglia, estraendo la pistola e tenendola pronta ad uccidere. Vidi qualcuno aggirarsi, poco lontano, con quella che sembrava una spranga, diretto chissà dove. Allora non mi importava.
Cominciai a sentire una fastidiosa sensazione all'altezza del plesso solare, come un bruciore: pericolo.
La sensazione si amplificò, quando i passi che contavo con tanta minuzia divennero muti. Rimasi immbile dov'ero, anche se con una certa fatica, conscia che ora ero avvolta da un vuoto plumbeo; nulla più mi avrebbe permesso di distinguerlo.

"Il maledetto si è attaccato di nuovo alla mia corrente! Chi pensi di essere? Mi hai sentito, figlio di puttana?!"
Una voce, prepotente, si alzava dal campo. Il parlante, probabilmente l'uomo che avevo scorto poco prima, cominciò a sbattere la sua spranga sulla roulotte di fronte alla sua.
Mi sporsi, quel tanto da capire meglio cosa stesse accadendo.

"Vieni fuori bastardo! Cos'è, stanotte non te ne vai a correre?!"
Il fastidio, fino ad ora sopportabile, mutò in bisogno di agire, implacabile. Sapevo che, se avesse reagito, non lo avrebbe mai risparmiato: nè lui nè un goccio del suo sangue.
Mossi ancora qualche passo, quando una pesante spallata mi travolse come un uragano, quasi facendomi rovinare a terra. Senza aver tempo di intervenire, il rumore secco di uno scontro contro qualcosa di metallico, mi disse ogni cosa.
Dovevo essere scaltra e veloce. Niente sviste, niente errori.
Con la pistola ben stretta e ben nascosta, mi avvicinai. In un lago di sangue, occhi pieni di orrore e un uomo agonizzante: il mio sileziatore gli risparmiò altro dolore. 
Non fui pronta, forse non lo sarei mai stata, quando James Buchanan Barnes riapparve ai miei occhi, intento a gettare in uno zaino delle armi e altro, pronto a scappare ancora. Lo stesso James che mi fissava con quello sguardo vacuo e allo stesso tempo infrangibile, ad ogni nostro incontro.
Lui, che non sarebbe mai scappato 'nemmeno accanto ad una bomba atomica in esplosione', mi disse, cercava ora un altro rifugio, un altro ancora, come un cane randagio alla vista dell'accalappia cani.
Con rapide pressioni del polpastrello, inviai, tramite il dispositivo che avevo al polso, un codice a Las. Gli avrebbe segnalato la mia situazione. Deglutì, forse troppo forte. Tolsi le scarpe, tenendo gli occhi ben puntati sul terreno, il primo a muoversi ad ogni vibrazione.
Scalza, silenziosa, mi avvicinai alla porta della casa mobile. Le luci spente. I rumori ridotti a qualche flebile fruscio.

Mi sembrò surreale, come durante le esercitazioni virtuali che facevo all'NSA, che nessuno fosse accorso in aiuto di quell'uomo. Forse erano le leggi della strada, e non erano quelle che conoscevo io. Un'occhiata a destra. Una a sinistra.
Mi costarono care. La spalla bruciava, come se l'acido muriatico vi fosse colato sopra. Il braccio era immobile, la pistola a terra. Jenna Smith era fuggita, lontano, terrorizzata, dissolta. In un ironico protosecondo pensai che fosse assurdo che, quella che mi stava per rompere una scapola, non fosse nemmeno la sua mano artificiale.
Per quella che mi parve un'infinità di tempo, non alzai lo sguardo.

"Chi diavolo sei."
Mi chiese. Tono automatico.
"Mi segui da venti minuti, chi diavolo sei."
Voleva risposte rapide, automatiche. Come le sue, agli ordini.

"Venivo ad avvertirti che lui" mossi il capo verso il cadavere "voleva venire a farti il culo."
La ghiaia del terreno calcò circoletti sul mio viso, quando vi venni scaraventata. Così fece anche la suola di uno stivale da marines sulla mia trachea.
Avrei voluto respirare, sparargli alla gamba e immobilizzarlo, ma la copertura, già allora fragile, si sarebbe frantumata.

"Menti. Rispondimi."

Scostai il cappuccio dagli occhi e li vidi; i suoi fondali senza un'età, fissarmi come la canna di un fucile, pronti ad uccidermi ed inghiottirmi. 
Richiamai Jenna, ma non tornò più. 
Il suo peso era assassino, sulla mia gola.

"Ho dei figli" Mentì ancora. "Ti prego. Ti ho detto la verità." L'aria era diventata una sconosciuta, il cuore un tamburo rotto.

Vecchio, ma infallibile amico, il cianuro era dietro il mio terzo molare destro. Ruppi la capsula con i canini; sentì bruciore. Vidi follia in quegli occhi.
Una botta allo sterno. Una alla schiena. Gli occhi si chiusero.


*Количество семнадцать: numero diciassette


Buonasera a tutti! Ecco qui il secondo capitolo! Mi ha fatto piacere ricevere le vostre recensioni e vi ringrazio davvero tanto di aver inserito la storia fra le seguite, qualcuno addirittura tra le preferite! Grazie della fiducia, spero di non deludervi.
James ha fatto la sua entrata in scena, brusca, ma l'ha fatta. Che ne pensate? Sage stringe i denti, è abituata al dolore, ma proprio non riesce ad abituarsi a quello che vede ora in lui.
Che dirvi? Spero davvero che la storia continui a piacervi! Un grande bacio e un abbraccio. Alla prossima!
Crys*
p.s. Come sempre, grazie di cuore a Giovanna 

 

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Capitolo 3
*** III ***



Anni di torture psicologiche. Congelato e scongelato come un cibo noioso, dal gusto sempre uguale, di cui però non riesci a stancarti.
Anni di torture inflitte. Vite spezzate per il volere di chissà chi.
Chi eri, negli anni Quaranta? Chi eri, a Forth Lehigh? Sembravo un'aliena, ai suoi occhi, quando glielo domandavo.
L'alieno vero era lui. Terrestre, ma non umano. Vivente, ma non partecipativo.

Quanto valeva quel silenzio?




Il gusto ferruginoso del sangue. Quello amaro del cianuro. Uno non riuscivo ad identificarlo.
Tossì spaventosamente, quando mi sentì viva. Inaspettatamente viva. Spalancai gli occhi, in preda ad un attacco di iperventilazione ed ansia.
Ero ancora dove lui mi aveva lasciata, vicino alla pozza di sangue: ero accerchiata una decina di sagome. La vista era appannata, l'udito ovattato.
Mi sentivo come un animale, sventato per un soffio al mattatoio, ma ancora in preda all'effetto degli anestetici.
L'odore della fabbrica era ancora intenso, l'ossigeno ancora rarefatto nei miei polmoni.
Sentivo il terrore di quella situazione farsi strada dal mio stomaco alla mia bocca. Non facendo caso a dove, ma rigettai.

"..Ina? ... st... ne? Ci... nte?"

La vista tornò chiara. Era l'alba.
Medici e poliziotti accerchiarono la zona. Il cadavere era sparito, al suo posto le targhette e la sua sagoma fatta con lo scotch, da prassi.
Gli abitanti del campo erano raggruppati dietro a due giri di nastro dell'FBI, intenti a fissarmi come se fossi stata un animale allo zoo.

"Signorina? Tutto bene? Ci sente?"
L'udito tornò.

"Ho una spalla rotta, credo una rotula lussata. Dovrei fare una lavanda gastrica."
Dissi, tutto d'un fiato. Quel poco che avevo ritrovato.
Il paramedico annuì, facendo cenno a un poliziotto di avvicinarsi. Quandò arrivò, gli sussurrò qualcosa all'orecchio, forse il fatto che ero lucida. Non riuscì a leggere bene il labiale in quel momento.
"Un nostro collega la seguirà in ospedale."
Mi disse, non posando mai lo sguardo sul mio viso e scrivendo, su un blocco, il probabile verbale.

"Non ce ne sarà bisogno. Sono dell'NSA. Farò rapporto io stessa sull'accaduto."
Mostrai la mia targhetta di riconoscimento, tenuta al collo da una catenella.

A ciò che accadde dopo, non prestai attenzione.
Nel tragitto verso l'ospedale, riuscì solo a pensare a come fosse stato possibile che io non fossi morta. Il cianuro non era un amico sleale. Manteneva la sua promessa mortale, sempre.
Nella marea di domande, una bottiglia con dentro un messaggio fece capolino.
Insperato, inaspettato: ferruginoso, amaro. Cos'altro ingerì? O meglio, cosa non ingerì volontariamente?
Una risposta lampeggiava con la luce di un faro, ma la sua assurdità mi portò a non prestarvi attenzione.
Quell'aspetto dell'avvenuto fu eclissato, non appena scorsi un piccolo rivo vicino ad un parco, avendo mossi gli occhi in direzione del finestrino.
Prepotentemente, il ricordo dello sguardo di James mi travolse. E ancora mi trascinò da un'altra parte. In un altro tempo.

Non riesco a smettere di tamburellare le dita sulla scrivania di vetro e di far tremare la gamba destra. È la prova del nove, oggi non posso fallire.
L'appuntamento era stato fissato per le dodici: sono le sedici e trenta, e nello studio ci sono ancora solo io.
Ad ogni passo che sento, mi metto dritta sulla sedia, porto i capelli dietro le orecchie ed aggiusto la maglia sotto al camice.
Il sudore freddo mi bagna la schiena; grazie al cielo non credo dovrò alzarmi.
In questo maledetto sotterraneo mi manca l'aria, non respiro. Non c'è nemmeno una finestra, per distogliere il pensiero dai fascicoli dei casi e distrarmi un po'.
La mia preoccupazione era aumentata quando, qualche giorno fa, ho parlato a Fury di questa visita. Era sorpreso, e non piacevolmente.
Cosa può aspettarmi di così sorprendente?
Sono una psichiatra, un'analista.
Non posso assistere a nulla peggio di quel terrorista georgiano con una sindrome di Tourette post traumatica. Al solo pensiero mi aumenta ancora il battito cardiaco.
L'essere persa in questa foresta di pensieri, mi fa scattare in piedi, quando la porta si spalanca con non troppa grazia. Sono sorpresa, ma lo nascondo bene.
Non riesco a fare altrettanto, però, con lo sgomento dovuto alla vista di chi ho davanti.
"Agente Trope, ha a disposizione un'ora. Noi saremo di guardia qui fuori. Se avesse bisogno del nostro intervento, conosce la prassi."
In questo momento, in realtà, non riesco a ricordare nemmeno la prassi del mio lavoro. Quel viso ha incatenato la mia attenzione.
I medici scortano il soggetto davanti alla mia scrivania; ha metà del viso coperto da una mascherina nera.
Ironicamente, penso ad Hannibal Lecter. Un terrorista cannibale? Originale. Molto utile per il curriculum.
L'ironia svanisce, se lo guardo negli occhi. Mai viste due iridi così deserte.
La visita al manicomio criminale di Baltimora mi ha lasciato decisamente meno impressionata.
Gli agenti tolgono la mascherina dal suo viso, scoprendolo totalmente. Uno dei due mi fa un cenno di saluto, poi insieme escono dalla stanza.
'Sia professionale, agente Trope. Non lasci sfuggire un solo sentimento. Il trattamento del soggetto richiede freddezza estrema. Eviti ogni tipo di tecnica non indicata.' Mi hanno raccomandato, quelli dei piani alti.
Ci devo riuscire, per me stessa e per la mia reputazione. Ma, davanti a quest'uomo, sento come se tutto ciò che conosco non possa essere d'aiuto. Non mi succedeva da quando ero alle prime armi, all'NSA.
"Molto bene. Iniziamo." Ho la voce atona. Come previsto.
"Sta perdendo tempo." Non vi è ombra di supposizione, nelle sue parole. Per lui è un'ovvietà. Ma non mi scalfirà col suo tono di sfida.
"Credo proprio di no. Sono l'agente Sage Trope. Oggi inizieremo uno di una serie di incontri per inserirla nel nostro programma."
"Non voglio essere inserito da nessuna parte."
Cerco di rimanere impassibile, ma non riesco a capire come mai io mi senta così improvvisamente inabile. Meglio dare un calcio alle insicurezze e procedere.
"Ricorda il suo nome?"
"Perché, ne ho uno?"
I suoi occhi sono fissi su di me. Ghiacciai.
"Ricorda da dove viene?"
"Dove sono adesso?"
La sua voce è monotona. Inespressiva.
"Sa perché si trova qui?"
"Me ne voglio andare, adesso."
Mi risponde, ma non certo ciò che speravo. Ho sentito chiaramente una minaccia, in quelle cinque parole, ma faccio finta di nulla.
Intanto, sul mio quaderno scrivo: soldato-fantoccio. Mente obliata. Memoria a breve termine. Stato maniacale. Sguardo vauco. Voce monotona. Minaccioso. Privo di personalità propria. Non da segni di ricordare il passato. Sembra spaesato, ma lo nasconde con l'arroganza.
"Il suo ricordo più datato? Scavi nella memoria. Fin dove riesce ad arrivare?"
Il suo sguardo, finalmente, cambia direzione. Mi era diventato insostenibile.Ma lo avrei preferito, al fatto che ora è scattato in avanti, e ha saltato la scrivania. Io scatto all'indietro; sapevo che mi sarei scordata del pulsante per le emergenze.
I suoi occhi non vedono in me un essere umano, ma un obbiettivo, una preda. Vedo, dalla sua divisa, spuntare una mano metallica. Riesco solo a pensare a come fronteggiarlo. Non è armato.
Mi sporgo in avanti per dargli una gomitata dello sterno, ma è incredibilmente agile, e mi blocca il braccio. Lo gira dietro alla mia schiena. Quando sento l'osso rompersi, urlo di dolore.
Cerco di divincolarmi, tirando un calcio all'indietro, ma sono completamente bloccata contro al muro e lui mi sta letteralmente col fiato sul collo.
"Sono un'arma, un giocattolo, sono un burattino, i cui fili sono strattonati e tirati in ogni direzione." La sua voce ora è un'unica e rapida iniezione di veleno.
"Sono qualcosa che non ha libertà di scegliere." Conclude quella che sembrava una recita e mi strappa via la manica sinistra del camice insieme a quella della maglia. Vede la mia cicatrice, e con la sua mano artificiale la apre. Sento scariche elettriche, pungenti come aghi ardenti, immobilizzarmi e quasi uccidermi di dolore.
Ora sono io un giocattolo, un burattino ed è lui strattonare i miei fili.
Sento ora la mano allontanarsi bruscamente. Libera, cado a terra; non riesco a non spalancare gli occhi, tanto ho i muscoli del viso tesi.
In me esplodono orrore e sorpresa; il primo per non essere mai stata addestrata per una lotta così tanto impari. La seconda per vedere lui, adesso, premere il bottone sul bracciolo della sedia, quello per le emergenze, e far entrare gli agenti.
Mi guarda, ma non vedo pazzia. È lucido, perfettamente. Comprende ciò che fa.
Mi ha risparmiata volontariamente.
Mentre vengo soccorsa, lui viene portato via; ho tempo di vederlo venire sbattuto sul sedile della macchina dell'elettroshock, prima che il sedativo mi annebbi i sensi.


Decisi di andare incontro alla luce del faro. Quel tanto da poter sostare sulla terra ferma, e poi, in caso fosse stata quella sbagliata, ripartire verso il mare aperto.

*

In ospedale dovettero sedarmi, per riuscire a tenermi in osservazione. Mi divincolai come un animale, come quello che avevano osservato con tanta insistenza al campo all'alba, per potermene tornare a 'casa'.
Quando mi svegliai, era di nuovo buio. La stanza era piccola e angusta.
Voltai il viso a destra; una finestra, un piccolo armadietto dei medicinali e la porta verso un terrazzino. Le veneziane mi impedivano lo sguardo all'esterno. Non capii in che lato della città fosse distuato l'ospedale.
Cercai con lo sguardo un orologio o una sveglia; trovai il primo, illuminato da un neon traballante. Erano le ventidue e diciotto. Guardai le mie braccia; erano un punta-spilli. Staccai tutte le flebo con rapidi gesti.
Nelle tasche degli abiti indossati la notte precedente, avevo degli antidoti dello Shield. Resurrezione in bottiglia, li chiamava a volte Natasha. Per adesso avrei lasciato l'organismo libero dai medicinali convenzionali.
Aspettai di riprendere la sensibilità del mio corpo, prima di muovermi.
La gola doleva, così come la spalla, fasciata e sorretta da un supporto rigido. Mi sedetti e mi allungai verso il bordo del letto, per poter prendere la mia cartella clinica. Accesi la piccola luce sul comodino:
'Avvelenamento da cianuro. Presenza di idrossicobalamina nel sangue . Temperatura corporea: 40,7°. Lussazione della rotula e della scapola sinistra.'
La mia attenzione si fermò ad 'idrossicobalamina'.
Per poco non imprecai ad alta voce.
Lui ricordava. Ricordava qualcosa. La dottoressa Trope prese a riparlare, dopo ore, giorni di silenzio.
Si ricordava qualcosa: qualcosa che rappresentava tutto per lui.
Aveva un'immagine da tenere con sé, con cui potersi sentire meno solo.
E la tratteneva disperatamente, impaurito che un nuovo furto di memoria potesse strappargliela via, sostituita da altro, nuovo, vuoto, e da un'attitudine forzata ad eseguire ordini.
Mi portai una mano alla bocca.
Fissai la finestra. Mi ci avvicinai silenziosamente e lentamente. Constatati di essere al secondo piano.
Fare un salto da 3 metri e mezzo era fuori discussione. Ma fortuna volle che le scale di emergenza fossero di fianco al mio terrazzino.
Tolsi il camice dell'ospedale, recuperai i miei pochi effetti personali e indossai immediatamente i miei abiti; inviai un breve messaggio a Las, informandolo che ero viva: avrei continuato la missione. Mandai mentalmente al diavolo l'FBI e il loro verbale, i medici e le loro medicine.
Anche dopo due aggressioni, o meglio, due tentati omicidi, non riuscivo ad arrendermi.

*

Quando fui abbastanza lontana da poter smettere di correre, nonostante gamba e spalla dolessero in modo impressionante, mi fermai a riprendere fiato vicino ad un albero.
Quel quartiere era avvolto dal silenzio; molte case popolari e nessuno in giro. Pensai che Denver fosse la città più noiosa del creato.
Camminando furtivamente, perlustrai la zona per qualche minuto, quel tanto da poter recuperare il senso dell'orientamento. Il cielo era coperto, non potei affidarmi a lui, per trovare la via verso 'casa'.
Continuando a camminare, trovai un parco e una pineta, alla mia destra: feci una sosta, sedendomi ad un tavolo con delle panche. Respirai a fondo, cercando di regolarizzare il battito cardiaco. Poi il mio dispositivo al polso lampeggiò; era Las.
'Il Soldato risulta ancora in città. Fa' attenzione.'
Respirai ancora più profondamente.

"Ferma."

Una leggerissima pressione sulla nuca, mi fece spostare lievemente in avanti.
Una voce che avevo riconosciuto qualche decina di ore prima, mi gelò qualsiasi liquido avessi in corpo. Altrettanto fece un dito metallico, posato alla base del mio collo, pronto a scaricare altra elettricità.
Un pesante silenzio durò per molti istanti. Fu rotto solo dallo scrosciare improvviso della pioggia.

"Non mi hai uccisa ieri."
Tenere a freno la lingua non fu mai un mio pregio.
Di nuovo quella morsa sulla spalla. Ma stavolta non rimasi immobile. Però non spostai il suo braccio. Feci in modo di poterlo osservare dritto negli occhi, ora spalancati all'inverosimile.
La luce di qualche solitario lampione, mi permise di notare che le sue pupille si dilatarono in modo smisurato, quando incrociammo gli sguardi.

"Chi sei."
Disse, come per un ordine perentorio.

"Lascia la presa e, hai la mia parola, te lo dirò."
Non mi lasciò, ma allentò notevolmente la pressione sulla spalla.

"Tu ricordi."
Gli dissi, col suo stesso tono di voce.
"Perché mi avresti dato l'antidoto per il cianuro, altrimenti?"
Il mio tono non suonò arrogante. Ma identico a quello che usai quando cominciò a fidarsi di me, tempo prima. Fu un tono comprensivo.
Il suo petto era un mare in tempesta. Non fermò quell'affanno, non ce la fece.

"Dimmi chi sei."
Le sue parole tremavano di speranza e rabbia.

"Sage. Ti prego. Ti ho detto la verità."

Quando vidi le sue palpebre muoversi impercettibilmente, il suo petto bloccarsi per un secondo, e quando la mia spalla fu di nuovo nella sua letale morsa, seppi di aver premuto sul tasto giusto.
Mi lasciò andare, quando gridai per il dolore.

"Sage."
Sussurrò.
"Sage."
Le sue labbra tremarono allo stesso ritmo della pioggia, pronunciando il mio nome.
Tese la mano di carne ed ossa verso il mio viso, torcendolo e avvicinandolo al suo; osservò i miei occhi, bagnati di lacrime, fortunatamente inconfondibili tra le gocce di pioggia.
Mi lasciò andare all'improvviso; distinsi chiaramente un rapido cambio di personalità. Il Soldato lasciò spazio anche a James.
Con un rapido gesto, alzò il cappuccio della giacca sui lunghi capelli bagnati, si voltò, e sparì tra i pini.
Ferita e spaesata, di nuovo, mi risparmiò.





 
Ciao a tutti!
Scusate il ritardo, ma ho avuto un esame abbastanza stressante e sono stata occupata per molto tempo. Spero che il terzo capitolo vi trovi bene e che vi piaccia!
La questione comincia ad infittirsi, James è tornato e Sage dovrà assicurarsi la spalla hahahah. Spero che tutto sia sempre all'altezza delle vostre aspettative e che possa piacervi! Per ogni suggerimento o critica sentitevi libere di scrivermi :)
Un grande grazie a Giovanna e a Lucy
Che dire, grazie di essere passati e un grande abbraccio!
Crys*

 

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