E se.. e se invece si fossero incontrati di nuovo?

di zucchero filato
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Perchè così? ***
Capitolo 3: *** Fingere di non essere io ***
Capitolo 4: *** Molti mesi prima ***
Capitolo 5: *** Susanna ***
Capitolo 6: *** Una seconda lettera ***
Capitolo 7: *** Cosa sta accadendo? ***
Capitolo 8: *** Candy ed Albert ***
Capitolo 9: *** I bambini dicono che... ***
Capitolo 10: *** Un pomeriggio sul lago ***
Capitolo 11: *** Aiutami ***
Capitolo 12: *** Farfalle d'addio ***
Capitolo 13: *** Ti aiuterò ***
Capitolo 14: *** Susanna, Albert, Eleonor ***
Capitolo 15: *** Richard ***
Capitolo 16: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 17: *** Una foto dal passato ***
Capitolo 18: *** Notturno ***
Capitolo 19: *** Il Duca ***
Capitolo 20: *** Un vaso di rose bianche ***
Capitolo 21: *** Finalmente ad Est ***
Capitolo 22: *** Ultimo giorno dell'anno ***
Capitolo 23: *** La verità ***
Capitolo 24: *** Marian ***
Capitolo 25: *** Fermala! ***
Capitolo 26: *** Una notte insonne ***
Capitolo 27: *** Neve, neve, neve ***
Capitolo 28: *** Fred e Peggy ***
Capitolo 29: *** Finalmente figlio mio! ***
Capitolo 30: *** Ritorno a Chicago ***
Capitolo 31: *** Chiarimenti ed equivoci ***
Capitolo 32: *** Pettegolezzi a New York ***
Capitolo 33: *** Due giorni frenetici ***
Capitolo 34: *** Ancora il duca ***
Capitolo 35: *** E' tutto finito ***
Capitolo 36: *** Spiegazioni ***
Capitolo 37: *** Sono un idiota! ***
Capitolo 38: *** Ricominciare ***
Capitolo 39: *** Vicini al cuore ***
Capitolo 40: *** Vox populi ***
Capitolo 41: *** L'un contro l'altro armati ***
Capitolo 42: *** Festa a Casa Andrew ***
Capitolo 43: *** Lakewood ***
Capitolo 44: *** Una sorpresa di compleanno ***
Capitolo 45: *** Sono felice ***
Capitolo 46: *** Intrecci ***
Capitolo 47: *** Lei e l'altra ***
Capitolo 48: *** Nostalgia di un amore ***
Capitolo 49: *** Non ti credo ***
Capitolo 50: *** Perdonami ***
Capitolo 51: *** Ogni cosa al suo posto ***
Capitolo 52: *** Epilogo 1: Granchester ***
Capitolo 53: *** Epilogo 2: Andrew ***
Capitolo 54: *** Epilogo 3: Susanna ***



Capitolo 1
*** Risveglio ***


 

Capitolo 1

Si svegliò.

Nella penombra si sentivano, smorzati, i primi rumori provenienti dalla strada.

Nella stanza aleggiava ancora il profumo di lei, sapeva di primavera e di sole.

Qualcosa però non andava.

Allungò la mano cercando accanto a se e si sedette di colpo sul letto: lei non c’era più, il suo calore se n’era andato.

La piccola mansarda era fatiscente e umida, le pareti scrostate e macchiate davano un senso di sporco e povertà. Molte bottiglie vuote erano allineate sul tavolino accanto alla finestra, i pochi vestiti che aveva erano appesi ad un paio di ganci vicino alla porta. In un angolo un piccolo lavabo macchiato e sbeccato era sovrastato da uno specchio venato, dalla cornice rozza e spezzata.

Su una mensola traballante pochi libri, per lo più testi teatrali, un pacchetto di lettere legate con un nastrino di raso ed un’armonica, ormai coperti di polvere per il lungo disuso.

Sulla sedia sgangherata non c’erano più i suoi vestiti, mancava anche la piccola borsa che aveva con se; nella penombra cercò traccia del suo passaggio…non poteva essere un’illusione, era stata davvero lì. Si prese la testa tra le mani e cercò di ricordare ma la testa ancora gli pulsava, aveva bevuto parecchio la sera precedente, di nuovo: dopo una breve parentesi tutto era tornato come due anni prima…passò lungo tempo perché alla fine si decidesse ad alzarsi del tutto e ad aprire un po’ le persiane: lo spiraglio di luce quasi lo accecò, il sole estivo era già alto e lui era in ritardo.

Si guardò di nuovo intorno, gli occhi una fessura: le sensazioni che giungevano dal suo corpo gli dicevano che non poteva essere stata un’illusione ma non riusciva a ricordare, si sentiva ancora stordito, quel profumo addosso.

Andò allo specchio che gli rimandò l’immagine di un ragazzo dai capelli scuri e lunghi, profondi  occhi blu, un viso bellissimo e dai tratti nobili ma sciupati da notti insonni, dolore e troppo alcool. Trattenne il fiato: infilato nella cornice c’era un biglietto, vergato da una grafia minuta ed elegante. Lo prese, sapeva di fiori e sole.

 

“E’ stato un errore. Non sarei dovuta venire qui. Non cercarmi, non mi troverai. Torna da lei.”

 

Con un pungo infranse lo specchio, gocce di sangue macchiarono il lavabo e il foglio. Si accasciò a terra piangendo.

Credits

Tutti i personaggi del manga/anime di Candy Candy, presenti in questa Fanfiction, gli avvenimenti ed le frasi eventualmente riportate appartengono di diritto all’autrice Kyoko Mizuki, alla Toei Animation e/o alla Fabbri Editori che curano e distribuiscono il manga/anime in Europa.

Il materiale proposto in questa Fanfiction è a solo scopo divulgativo e non è intesa alcuna violazione dei diritti di copyright.

Tutti i diritti per ciò che è sotto copyright appartengono all’autrice Kyoko Mizuki, alla Toei Animation e alla Fabbri Editori e non vengono dall’autrice Zucchero Filato ripresi con scopi di lucro ma solo a fini amatoriali.

I personaggi originali creati da Zucchero Filato appartengono all'autrice che ne detiene i diritti d'autore; ogni citazione od utilizzo di tali personaggi è sottoposta alle leggi sul diritto d'autore e tutelati in quanto opere originali d'ingegno.

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Capitolo 2
*** Perchè così? ***


Quando era arrivata in città l’aveva cercato a lungo, lui non usava più il suo nome, aveva cercato di cancellare tutto di se. Non recitava più, lavorava come stalliere in una delle fattorie della zona, nessuno sapeva chi era: aveva impiegato più di una settimana prima di riuscire a capire dove abitasse, aveva cambiato più volte dimora.

 

Aveva atteso sulla soglia della sua camera per lunghe ore, man mano che il sole volgeva al tramonto e piano piano la luce andava scemando. Aveva osservato con dolore crescente le condizioni fatiscenti di quella casa, lo squallore del quartiere in cui viveva, le gambe ormai le facevano male per la lunga immobilità quando udì i passi inconfondibili di lui lungo le rampe di scale che portavano fino alla mansarda bassa e umida.

 

Il sangue le pulsava violentemente nelle tempie e nelle orecchie ed il cuore le faceva male per la forza con cui si contraeva. Si alzò in piedi proprio mentre lui arrivava con passo incerto sull’ultimo pianerottolo sotto di lei, iniziando a salire l’ultima rampa senza aver dato segno di averla vista.

Si fermò solo quando giunse davanti alla porta storta e mal chiusa: lei era proprio davanti all’uscio.

 

Non alzò nemmeno gli occhi da terra, era come imbambolato.

“Si sposti, oggi non ho i soldi dell’affitto, ho detto che glieli avrei dati lunedì..”, la voce era roca.

Sapeva di cavalli e di stalla ma la cosa che la fece star male era che puzzava di alcool in maniera insopportabile, barcollava, reggendosi a malapena in piedi.

“Si sposti…” ripeté lui biascicando.

Incapace di parlare gli poggiò una mano sul braccio nella speranza che alzasse gli occhi; così accadde.

Sembrava non averla riconosciuta, certo, era diversa da quando si erano visti l’ultima volta, niente più codini, aveva imparato a vestirsi bene quando era necessario, ma non credeva di essere cambiata tanto.

Si accorse poi che i suoi occhi erano puntati su di lei ma non la guardavano, fissavano qualcosa che era al di là di lei, dentro di lui, perso in qualche piega del tempo e dello spazio.

Sentì le lacrime solcarle il viso.

“Terence..”

 

Lui reagì come se qualcuno gli avesse sferrato un pungo nello stomaco: si appoggiò alla parete opposta ansimando; gli occhi, sbarrati per la sorpresa, ora la stavano guardando.

 

Riprese il controllo e ripeté meccanicamente “Si sposti…” ma la voce era spezzata, prossima al pianto. L’aveva riconosciuta ma cercava di fingere che non fosse così.

Cercò convulsamente la chiave nella tasca continuando a guardare il pavimento consunto ma le mani non rispondevano e alla fine sferrò un pugno fortissimo contro la porta, a pochi centimetri dal viso di Candy.

“CHE VUOI?! PERCHE’ SEI QUI?!” Stava piangendo e non la guardava e non attese risposta.

Alla fine aveva trovato la chiave e cercava spasmodicamente di aprire la porta senza riuscirvi. Candy gli prese dolcemente la chiave dalle mani ed aprì: restò impietrita dalla disperazione che emanava quella misera stanza.

“Benvenuta nella mia reggia” le disse lui quasi spingendola dentro e chiudendo la porta dietro di se.

Lei andò verso la finestra per aprirla e far entrare un po’ dell’aria dolce della notte ma lui la fermò “Non toccare nulla, tanto sei qui solo di passaggio”, il tono era aspro e tagliente ma lei colse la disperazione di lui dietro quelle parole.

“Perché sei venuta? Come hai fatto a trovarmi?”

“Tua madre…”

“Beh, vedo che di nuovo Eleonor non si fa gli affari propri…”

“Non parlare così, è preoccupata per te”

“Anche tu lo sei?”, sempre quel tono sprezzante e disperato.

“Sì, altrimenti non sarei qui”

“Sai perché IO sono qui?”

“Terence….”

“E’ colpa tua, TU hai voluto questo!”

“No, io no, non…”

“No, tu dovevi fare quella che si sacrifica per la felicità altrui, che non pensa alla propria, SACRIFICARTI PER SUSANNA…MA NON HAI PENSATO A ME, ALLA MIA FELICITA’ A CIO’ CHE IO VOLEVO”

“Terence..non puoi continuare così..”

“E chi lo dice? Tu? Eleonor? Susanna? Posso fare quello che voglio della mia vita e tu non hai più voce in capitolo!”

“Terence, ti prego…” Candy vedeva a malapena il viso del ragazzo, offuscata dalle lacrime ed accecata dal buio crescente.

Lui si voltò verso il muro: “Vattene! Non voglio più avere niente a che fare con te! VATTENE!”

Candy gli si avvicinò e posò una mano sulla sua spalla ma lui si voltò di scatto e la colpì violentemente al viso. “VATTENE! TI ODIO!”

 

A Candy fecero più male le parole che lo schiaffo che le aveva dato, sentiva solo dolore là dove avrebbe dovuto esserci il cuore.

Aspettò alcuni minuti per vedere se lui si sarebbe girato di nuovo ma restò immobile, i pugni serrati, le spalle curve, la testa bassa. Aveva sbagliato a venire lì, forse aveva ragione Albert, sarebbe dovuto andare lui.

Aprì la porta e prese a scendere le scale fiocamente illuminate, si sentiva svenire.

Non fece in tempo a scendere un paio di gradini che rivisse quel maledetto giorno: le mani di Terence le stringevano di nuovo la vita e le lacrime di lui le stavano rigando il collo di nuovo. Sapeva che questa volta non sarebbe riuscita ad andarsene. Lui la costrinse a voltarsi e l’abbracciò con una forza tale che non riuscì più a respirare, poi la sollevò di peso e la riportò nella stanza senza dire una parola. Chiuse la porta a chiave mentre Candy continuava a guardarlo tremando per il dolore ed il desiderio che aveva dentro, sapeva quello che stava per accadere, fino a quel momento l’avevano cancellato dalle loro vite come qualcosa di irrealizzabile.

Quando Terence la prese di nuovo tra le braccia e la depose sul letto Candy seppe che non sarebbe più stata in grado di fermarlo e di fermarsi.

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Capitolo 3
*** Fingere di non essere io ***


Perché quel giorno lei era lì

Perché quel giorno lei era lì?

Come vi era arrivata? Come aveva fatto a sapere dov’era?

Aveva fatto in modo di far perdere le proprie tracce, nemmeno il proprio nome usava più, niente rapporti epistolari con chicchessia, niente di niente, eppure lei era lì, l’aveva sentito non appena aveva varcato il portoncino d’ingresso ma la mente annebbiata dall’alcool non gli aveva permesso di portare quella consapevolezza a livello cosciente.

Quando era arrivato in cima alle scale era stato più facile pensare che fosse la padrona di casa alla ricerca dell’affitto non pagato. Lei gli toccò lievemente il braccio e lui la guardò.

Due immagini si sovrapposero: la sua signorina tuttelentiggini e la donna bellissima davanti a se, minuta ed elegante; nella penombra delle scale la fioca luce faceva scintillare l’oro dei capelli come se fosse liquido, gli occhi color smeraldo apparivano quasi neri, non più i buffi codini che lui amava tanto ma riccioli lunghissimi e morbidi che cadevano sulle spalle ed incorniciavano il viso.

Si scosse pensando di avere le allucinazioni.

 

Ma lei pronunciò il suo nome, quel nome che nessuno usava più con lui, e lo colpì con una violenza inaudita, il cuore aveva iniziato a sanguinare. Lei, la sua voce argentina che sapeva di primavera, di corse sui prati, di un’estate lontana, di voglia di vivere: come stonava con quel posto triste e misero. Come stonava con lui e la vita che faceva.

Fingere, fingere, fingere, io non sono Terence!

 

Sferrò un pugno contro la porta che non si apriva, per un attimo aveva desiderato colpire lei.

“CHE VUOI?! PERCHE’ SEI QUI?!” Sentì le lacrime solcargli il viso, non voleva guardarla, se l’avesse fatto avrebbe perso completamente il controllo di se.

 

-Quella maledetta chiave, finalmente, ma non ne vuol sapere di entrare. Lei che mi sfiora, potrei morire perché lo faccia ancora, sto diventando pazzo! Da quando l’ho persa non faccio che desiderarla..-

 

Il sarcasmo, l’unica arma che sapeva usare, uno scudo contro il mondo e contro se stesso:

“Benvenuta nella mia reggia”. –Se tu fossi la mia regina anche questa misera stanza sarebbe sufficiente per noi, non chiederei di più-

 

La vide andare verso la finestra per aprirla la fermò “Non toccare nulla, tanto sei qui solo di passaggio”. –Vorrei che tu rimanessi, resta con me, non lasciarmi mai più, senza di te non sono capace che di sopravvivere-

“Perché sei venuta? Come hai fatto a trovarmi?” –Mi ami ancora così tanto, allora?-

“Tua madre…”

“Beh, vedo che di nuovo Eleanor non si fa gli affari propri…”. – Non sono capace di far altro che rendere infelice chi mi ama-

“Non parlare così, è preoccupata per te”

“Anche tu lo sei?” –Dimmi di sì, anzi, dimmi di no, altrimenti non sarò capace di lasciarti andare via-

 “Sì, altrimenti non sarei qui”.

Il cuore di Terence sanguina ancora di più: -Il sarcasmo, devo usare il sarcasmo o soccomberò-

 “Sai perché IO sono qui?” –No, non ci riesco-

“Terence….”

– Non pronunciare più il mio nome, non così, con…con tutto quell’amore tra le sillabe- “E’ colpa tua, tu hai voluto questo!”

“No, io no, non…”

“No, tu dovevi fare quella che si sacrifica per la felicità altrui, che non pensa alla propria, SACRIFICARTI PER SUSANNA…MA NON HAI PENSATO A ME, ALLA MIA FELICITA’ A CIO’ CHE IO VOLEVO”, -Volevo solo te, l’unica cosa che avevo mai desiderato davvero in vita mia! Non avrei voluto nient’altro, ne il successo, ne la fama, ne la ricchezza, anche il lavoro di stalliere mi sarebbe sembrato il più bello del mondo con te accanto! Perché mi hai respinto?! Perché?!??-

“Terence..non puoi continuare così..”

“E chi lo dice? Tu? Eleonor? Susanna? Posso fare quello che voglio della mia vita e tu non hai più voce in capitolo!”, -Ti prego, salvami! Salvami!-

“Terence, ti prego…” –Non la devo più guardare, non la devo più guardare…-

Lui si voltò verso il muro: “Vattene! Non voglio più avere niente a che fare con te! VATTENE!”

Candy gli si avvicinò e posò una mano sulla sua spalla ma lui si voltò di scatto e la colpì violentemente al viso. “VATTENE! TI ODIO!” –Ti amo, ti amo, ti amo! Non te ne andare, resta perché mi ami e non perché mi compatisci, non perché sei venuta per rimandarmi indietro, all’inferno!-

 

-I passi sulle scale, di nuovo, NO! Non andartene! Non di nuovo, ti voglio, come non ho mai voluto niente in vita mia, non sono capace di restare in piedi senza di te!-

La rincorse per le scale come quella notte d’inverno.

-Amami perché io ti amo-

Le mani intorno alla vita in un gesto disperato, lo stesso profumo, i suoi morbidi capelli contro il viso.

-Questa volta non ti lascio andare, sei mia, ci apparteniamo, non te ne andare, amore mio-

Lei che non fa resistenza, i suoi occhi lucidi nella penombra, le labbra socchiuse per il respiro mozzato da un abbraccio troppo forte perché troppo a lungo rimandato.

-Ti amo­-

La solleva, leggera e minuta fra le sue braccia ormai da uomo, gli sguardi persi in un desiderio a lungo represso.

-Ti voglio, qui, adesso, ora-

Ancora fra le sue braccia, come una sposa che varca la soglia della nuova dimora, così sono ora queste due anime troppo a lungo divise, sposi l’uno per l’altra: il mondo, tutto il resto, con le sue leggi, i suoi doveri, le sue ingiustizie, non conta più nulla.

C’era qualcosa di disperato nei loro gesti, nel modo in cui iniziano a baciarsi e a spogliarsi, qualcosa di disperato e improrogabile e allo stesso tempo dolce e sacro. Sono le due metà di un’unica anima che si ritrovano.

 

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Capitolo 4
*** Molti mesi prima ***


Molti mesi prima

Molti mesi prima

New York, ottobre 1916

               

Terence si era fatto annunciare ed ora attendeva la madre nel salotto della sua casa in Park Avenue: aveva ripreso il rapporto con lei dopo il suo ritorno da Rockstown.

Aveva malamente respinto sua madre quando aveva cercato di aiutarlo, in quel teatro sgangherato da quattro soldi in cui era finito a recitare, ubriaco e barcollante, cercando l’oblio ad un dolore e ad una solitudine senza senso e senza scampo.

Non le aveva raccontato nulla  della visione che aveva avuto, quella che gli aveva permesso di rialzarsi in piedi, quella testa bionda tanto amata in mezzo al fumo e al sudiciume, la madre aveva appena accennato alla settimana che aveva passato lì cercando di farlo ragionare, rispettava il suo riserbo..

 

Da quando era tornato a New York, dopo quella brutta parentesi, molte cose erano migliorate: la voglia di ricominciare e la consapevolezza di dover assolvere ai suoi doveri verso Susanna lo avevano reso più determinato a non farsi distrarre da nulla, meno che mai da notizie in arrivo da Chicago, dove la famiglia Andrew sembrava essere l’unico argomento d’interesse per i giornali.

 

Al suo ritorno aveva avuto un lungo colloquio con Robert Hataway al termine del quale aveva avuto la possibilità di partecipare ai provini per la stagione successiva: avrebbero messo in scena l’Amleto e avrebbe potuto tentare per il ruolo di Amleto stesso.

Aveva ottenuto la parte senza difficoltà, l’interpretazione che ne aveva dato era quanto di più toccante si fosse mai sentito e la critica, già alla prova generale, era in visibilio.

Anche ora Terence stava ripetendo mentalmente il monologo del principe danese, si immedesimava completamente in esso…forse era proprio quello il motivo del suo successo, il sentirsi Amleto in tutto e per tutto, diviso in due, eternamente diviso in due, quello che era e quello che avrebbe voluto essere, un eterno equilibrio, difficile da mantenere al di fuori del palcoscenico.

 

La prima dell’Amleto, a settembre, era stato un successo strepitoso, ben al di là di quelle che erano state le previsioni dello stesso Robert e di Terence. Le repliche stagione della seconda stagione che stava per iniziare erano già completamente esaurite ed erano stati costretti ad aggiungere molte date per soddisfare tutte le richieste che erano pervenute al teatro e alla compagnia. La sua carriera non poteva andare meglio…ma…

 

Candy: aveva cercato di non pensare a lei in tutti quei mesi, si era buttato nel teatro, studiando e lavorando più di chiunque altro, aveva cercato di convincersi che quella era la strada giusta, l’unica via da seguire, l’unica onorevole, l’unica accettabile.

Si ritrovava spesso a chiedersi cosa stesse facendo la sua amata signorina tarzan tuttelentiggini, avrebbe dato l’anima come Faust per saperla davvero felice, avrebbe dato l’anima anche solo per sapere cosa stesse facendo. Allontanava il pensiero di lei più volte al giorno e allo stesso tempo continuava a pensare a lei: solo così trovava la forza di andare avanti. Eternamente divisi, eternamente insieme, solo così poteva essere.

La famiglia Andrew aveva fatto parlare molto di se da quando lui e Candy si erano separati e squarci della vita di lei ogni tanto venivano ad illuminare la sua esistenza, gli sembrava di averla più vicina.

La notizia del fidanzamento di Candy con Neal era stata, per fortuna, subito smentita: lui era stato sul punto di andare a Chicago ad impedire quel matrimonio, trascinandola via con la forza.

Aveva fatto scalpore “la presentazione in società di William Albert Andrew avvenuta insieme a quella di  Candice White Andrew, l’orfana da lui adottata anni fa”: quasi non la riconosceva nelle foto ufficiali, era diventata ancora più bella di quanto non la ricordasse.

Si era stupito solo fino ad un certo punto della doppia identità di Albert: era sempre stato convinto che l’amico fosse troppo colto, troppo consapevole e troppo ben educato per essere davvero un vagabondo; era stato felice di sapere che lui avrebbe vegliato su di lei perché non le accadesse nulla, una piccola goccia di sollievo in un mare di preoccupazioni e di notti agitate.

Qualche tempo dopo un’altra notizia ancora l’aveva sorpreso, insieme dolorosa e bella: Alistear Cornwell, di cui tutti ignoravano la morte in guerra perché taciuta dalla famiglia, in realtà era tornato vivo e vegeto dopo una serie di peripezie e di nuovo lei era apparsa in una fotografia insieme a tutti i giovani della famiglia. Lui stupidamente aveva ritagliato quelle foto per poter avere almeno un ricordo ma il guardarle risvegliava corde così profonde della sua anima, lo faceva stare talmente male che presto aveva smesso di tirarle fuori dalla piccola scatola dove teneva i ricordi di lei: l’armonica, il suo fazzoletto, le lettere.

 

Il fatto che i compagni e i colleghi lo avessero preso di mira con i soliti commenti velenosi e pieni di astio non l’aveva minimamente toccato, preso com’era a studiare la parte, a cercare di dimenticare e a lottare con Susanna perché la ragazza, finalmente, prendesse coscienza che i suoi limiti erano principalmente mentali e non fisici. Aveva cercato di darle quella gentilezza, quella comprensione e quell’affetto che meritava ma il rancore per lei covava in profondità nell’anima di Terence anche se lui cercava di non farlo emergere, di non renderlo cosciente; era lei la causa della solitudine e della sofferenza che continuava a provare, soprattutto di notte, quando il sonno tardava a venire e mille pensieri e ricordi si affollavano nella sua mente, dolorosamente irraggiungibili.

 

Susanna ormai si era convinta di poter tornare a camminare, era riuscita persino ad andare a cavallo, si stava avviando ad essere autonoma ma lui non era felice.

Susanna era un problema comunque, sotto qualunque aspetto: anche se non parlava mai apertamente di matrimonio nulla in lei lasciava trapelare la benché minima accettazione dell’impossibilità di un amore tra loro e lui non sapeva più quali parole e silenzi usare per convincerla.

Non si può amare per riconoscenza, a comando: lui restava in virtù della scelta fatta da Candy, perché l’onore e il dovere questo richiedevano ma Susanna continuava a non voler capire, equivocava volutamente il suo comportamento verso di lei.

Alla fine si era deciso a parlarne con la madre per trovare una via d’uscita: in fondo era una donna e forse avrebbe saputo meglio di lui come far capire ad un’altra donna che quel rapporto era sbagliato e impossibile.

 

Con questi pensieri ed ansie era arrivato da lei quella mattina. La stagione teatrale stava per iniziare, ancora pochi giorni e tutto sarebbe ricominciato: prove, spettacoli ed infine anche la tournee, ne lui ne lei avrebbero più avuto molto tempo per vedersi.

 

Stava vagando con la mente al di là delle finestre del bovindo che davano sul Central Park quando l’occhio gli cadde su una busta color avorio che spuntava da un cassetto dello scrittoio: qualcosa aveva attratto la sua attenzione, si concentrò e dovette appoggiare entrambe le mani al tavolino per non cadere a causa della vertigine, l’indirizzo era stato scritto da Candy.

Prese la busta e la osservò per un attimo, era indirizzata alla madre e dal timbro sembrava risalire a meno di un anno prima: l’aprì, le mani tremavano.

 

Chicago, 3 settembre 1915

 

Gentile Eleonor,

la ringrazio davvero per i biglietti che mi ha inviato ma non credo che ne io ne Albert verremo a Broadway. Albert lavora molto in questo periodo e il giorno della prima sarà assente per un viaggio d’affari ed io senza di lui non me la sento di venire.

Inoltre non credo sia una buona idea per Terence: non credo che ora un nostro incontro possa aiutarlo, non ora che finalmente sta uscendo da un brutto incubo.

Quando recitava, ubriaco e barcollante, sapevo che se avesse voluto avrebbe potuto tornare a splendere come solo lui sa fare.

Spero non le spiaccia se ho dato i biglietti alle due donne che mi hanno allevata e che verranno al posto mio e di Albert, per loro sarà un piacere poter finalmente assistere ad uno spettacolo teatrale in prima fila, sono emozionantissime, anche perché sono molto affezionate a Terence.

La ringrazio ancora per il pensiero che ha avuto, la prego di non dirgli nulla di tutto questo. Sto cercando di dimenticare, lui lo sta già facendo, voglio che questo incubo finisca per entrambi, per lei, per tutti quelli che ci vogliono bene, è l’unica cosa da fare.

Ho la fortuna di avere molti amici preziosi accanto a me, primo fra tutti proprio Albert, loro mi danno la forza di andare avanti;Terence ha solo lei, glielo raccomando ma so già che non è necessario.

Se qualche volta sarò a New York mi farà davvero piacere rivederla.

Con affetto,

Candy Andrew

 

Terence dovette sedersi, aveva ancora la lettera tra le mani ma non la vedeva più, gli occhi ciechi, le orecchie sorde, solo il pulsare del sangue nei timpani.

La mano di sua madre su una spalla lo fece sobbalzare: le mostrò la lettera con sguardo interrogativo, agitandola piano, era sconvolto da non riuscire a parlar, mai avrebbe pensato ad una corrispondenza tra loro.

Eleonor non disse nulla, lo abbracciò ma lui si liberò in malo modo di quella stretta.

“Perché non mi hai detto nulla?”, disse trovando la voce, la rabbia stava iniziando ad impadronirsi di lui.

“Se hai letto la lettera sai perché”

”Era un mio diritto saperlo! Perché non me lo hai detto? Come facevi ad avere il suo indirizzo? Quando vi siete incontrate? Come faceva a sapere…lei hai raccontato di quel teatro?”, poi un’intuizione, “Era davvero lei in quel teatro? Vi siete riviste li? Non glielo hai raccontato tu…”, disse guardando la madre negli occhi, “Dimmelo!”, aveva il viso stravolto, l’aveva afferrata per le spalle scuotendola.

“Sì, era lei. Abbiamo pranzato insieme quel giorno”

Si prese la testa tra le mani: questo era davvero troppo.

“Perché era lì, perché non è venuta da me?”, cercava di dominarsi ma si stava sentendo veramente male, le lacrime cominciavano a salire e un’angoscia ed una rabbia sorda lo stavano assalendo.

“E’ arrivata lì per caso, stava cercando il suo amico William, ehm…Albert, credo lo conosca anche tu..”

Terence la guardò, incredulo: “Per caso? Cercava Albert…”ripetè quasi sottovoce, “Albert”

“Perché non è venuta da me?”

“Terence…”, la voce di lei era supplichevole.

Si era alzato di scatto, passeggiava nervosamente avanti e indietro; Eleonor era seriamente preoccupata che il figlio potesse fare nuovamente qualche stupidaggine, erano mesi che non lo vedeva più in quello stato, quei lampi neri negli occhi, era ricominciato tutto da capo, quelli erano stati, dunque, mesi di calma apparente.

“E poi cosa ha fatto? Dov’è andata?”

“Ci siamo salutate, non mi ha detto molto, si vedeva che era molto preoccupata per William.”

“Tu lo conosci?”

“Sì, l’ho conosciuto”

Terence le fece la domanda senza aprire bocca, corrugando le sopracciglia.

“Prima a Boston e poi ad un ricevimento degli Andrew, l’estate scorsa…sì, c’era anche Candy”

Terence si sedette nuovamente con la testa tra le mani, troppo stanco per stare in piedi, si sentiva invecchiato di colpo.

“Vi scrivete?”

“Sì”

“Regolarmente?”

“Più o meno…”

“E come, come…”non riusciva a finire la frase ma Eleonor capì.

”Bene, sta bene”

“Ed è… ti è sembrata…felice?”

“Sì, credo di sì”

“Con Albert?...”, mormorò.

Lei non capì.

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Capitolo 5
*** Susanna ***


cap 5

Si domandò più volte cos’era che lo spingeva a conoscere Susanna Marlow.

Curiosità, voleva capire.

La sua mente aveva sempre cercato di guardare un problema sotto tutti gli aspetti possibili: era un esercizio che suo padre gli aveva fatto fare spesso, quando da piccolo non riusciva a risolvere una situazione complicata, fosse essa un gioco, materia di studio o problema pratico.

Così lui ora stava facendo la stessa cosa, cercava di guardare l’altra faccia della medaglia. Avrebbe voluto conoscere anche il terzo modo di vedere quella situazione, quello più complesso, difficile e doloroso, anche più doloroso di quello che stava vivendo Candy, ma Terence in quel momento non andava turbato, non ora che sembrava essersi ripreso in modo più che soddisfacente, non finché lui non avesse trovato una buona soluzione a quel rompicapo.

 

Eleonor gli aveva presentato Susanna durante il ballo, l’aveva già vista sui giornali ma di persona era decisamente più bella, malgrado tutto.

Era una persona affascinante, colta, sapeva essere spiritosa ed era in grado di sostenere una conversazione frivola tanto quanto una più impegnata però sapeva perché Terence non avrebbe mai potuto amarla: era come cercare di accontentarsi della luce della luna dopo aver visto il sole, di uno stagno immobile dopo aver visto il mare.

La forza vitale di Candy in lei non c’era e non era dovuto ai postumi dell’incidente, era qualcosa di innato che Candy aveva e lei no, ed era quello che aveva stregato Terence e non solo.

Da molti mesi ormai stava combattendo una dura lotta con se stesso per non farsi travolgere dall’amore che provava per Candy: si era reso conto di amarla molto prima che la memoria tornasse, ed ora la situazione non era cambiata di una virgola, se possibile era peggiorata, sapeva di essere trasparente ai suoi sguardi ma non poteva fare a meno di amarla con tutta l’anima.

Lo straniamento della ragazza, il dolore che lei tentava di nascondere dietro i suoi grandi sorrisi e la sua vitalità lo facevano star male: avrebbe voluto il potere di guarirla da quel male ma l’unico che avrebbe potuto farlo aveva ripreso una vita apparentemente normale accanto alla donna che gli aveva salvato la vita, restando sotto il riflettore al posto suo, sacrificandosi per lui.

 

Il problema vero era che nessuno dei tre era felice: non Candy, non Terence, non Susanna.

Ciascuno dei tre aveva un fantasma che lo perseguitava e quello più fragile tra loro aveva rischiato di perdersi per sempre, nell’alcool e nel disprezzo di se stesso.

Ora che lui sembrava essersi ripreso era Candy che rischiava di cedere sotto il peso di una scelta più grande di lei, una scelta fatta per puro altruismo, senza tenere conto dei propri sentimenti e di quelli di Terence: forse li aveva sottovalutati, forse aveva creduto di essere sufficientemente forte, forse aveva creduto di essere in grado di dominare quello che provava, la verità era che si stava consumando.

La forza vitale che Albert amava in lei si stava lentamente esaurendo, come un fuoco che senza alimento, pian piano, diventa sempre più debole e poi si spegne: non doveva accadere…

Era venuto a New York con lo scopo preciso di capire come mettere mano a quella situazione: ne Candy ne Terence l’avrebbero fatto, per un senso del dovere che faceva onore ai loro giovani cuori ma che li avrebbe rovinati.

Voleva conoscere Susanna e capire meglio quella situazione che a lui appariva paradossale: lei, bella e intelligente che si accontenta di avere accanto un uomo che non l’amava..com’era possibile, la sua mente non riusciva a concepirlo, voleva capire.

 

“Signorina Marlow, mi permetta offrirle il mio aiuto”

Susanna stava discutendo ormai da dieci minuti con sua madre su come fare ad entrare in ospedale: avevano dimenticato le sue stampelle a casa e le scale erano troppo alte perché lei potesse farle da sola o appoggiata alla madre.

Susanna si girò e rimase a bocca aperta per l’incontro inaspettato: era William Andrew.

“Signor Andrew, sono lieta di vederla. La ringrazio per l’offerta di aiuto, è quanto mai gradita. Le posso presentare mia madre? Mamma, questo è il Signor Andrew, te ne avevo parlato, Eleonor Baker ci ha presentato al ricevimento dell’altra sera.”

“Molto piacere signora”, disse William baciando la mano che la signora gli porgeva.

“Piacere mio, signor Andrew, ho sentito molto parlare di lei…”

“Spero bene…”, rispose sorridendo.

“Quello che non si dice di lei è che un uomo decisamente affascinante…”, rispose la donna maliziosa.

“Mamma!!”

William sorvolò sulla risposta della signora e si rivolse di nuovo a Susanna.

“Come posso aiutarla? Deve andare in ospedale?”

“Sì, per un controllo, ma ho dimenticato le stampelle e non riesco a salire…”

“Se per lei va bene la posso portare io, mi sembra la soluzione più veloce”

“Beh, va bene”. Susanna era intimidita e non sapeva bene il perché: ormai era abituata ad essere portata in braccio, spesso anche da estranei, ma ora si sentiva imbarazzata.

William la sollevò delicatamente come se fosse fatta d’aria, era decisamente più forte di Terence. Lo osservò attentamente nello spazio dei pochi gradini che dovevano percorrere: il viso aveva lineamenti perfetti, gli occhi azzurro scuro erano limpidi e sinceri  e, quando sorrideva, parevano diventare ancora più luminosi, capiva il perché di tanta agitazione quando lui era alle feste, faceva lo stesso effetto di Terence.

La depose su una delle panche dell’ingresso e tornò poco dopo con la carrozzella, accompagnato dalla madre.

“Mi scusi se mi permetto, anche lei sta poco bene visto che si trova qui?”, voleva trattenerlo ancora per qualche minuto.

“No, il motivo che mi spinge qui è diverso.”, sorrise, “Posso offrirmi di aiutarla di nuovo quando avrà terminato?”

“La ringrazio ma non so quanto impiegherò e non voglio farla aspettare invano. E’ stato davvero gentile, grazie”

“Di nulla signorina Marlow. Spero di incontrarla ancora, è stato un piacere.”

“Il piacere è stato tutto mio, grazie ancora”

William salutò le due signore con un lieve inchino e si incamminò attraverso l’atrio dell’ospedale seguito dai loro sguardo.

La madre si avvicinò a Susanna: “Che bel giovanotto, e che signore, così elegante e così gentile, ben diverso da certe persone che conosciamo..”la stoccata era rivolta a Terence, lei non lo poteva vedere e ai suoi occhi non si sarebbe redento mai abbastanza, anche se la colpa non era sua.

“Mamma, ti sembrava il caso di fare certe osservazioni davanti a lui? Mi hai fatto vergognare!”

“Dimmi che non  lo hai pensato anche tu ed io non lo farò mai più”

Susanna chinò il capo, l’aveva pensato anche lei ma non le avrebbe mai dato soddisfazione.

“Trovo che non sia poi così diverso da altri uomini che conosciamo”, rispose con noncuranza ma il viso e i modi di fare di William Andrew le tornarono innanzi più volte nei giorni successivi.

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Capitolo 6
*** Una seconda lettera ***


Capitolo 6

Mattina piovosa, strano perché a novembre, a New York, un tempo così porta la neve.

Terence indugiava davanti alla finestra con il caffè in mano guardando i nuvolosi sopra la città; si era alzato presto, in preda ad un’insonnia che lo faceva dormire e svegliare senza regole.

Avrebbe voluto restare a letto ma i pensieri andavano di nuovo dove non era consentito.

Un trafiletto, un’immagine, un nome, anche solo vagamente ricollegabili a lei lo rendevano agitato per giorni e giorni e purtroppo la famiglia Andrew, ed Albert in particolare, sembravano essere molto interessanti per la stampa.

In quel momento lui era il miglior partito d’America, giovane ed affascinate al punto giusto: la stampa era a caccia di pettegolezzi e del nome della probabile futura moglie tra le sue frequentazioni, le voci di una sua relazione con la figlia adottiva si erano andate infittendo e la famiglia non commentava mai.

Quando era tornato a recitare aveva convinto se stesso che Susanna meritasse molto più di quello che le aveva dato fino a quel momento e per un certo periodo era riuscito ad incanalare, pensieri, sentimenti, volontà per aiutare colei che gli aveva salvato la vita. Non riusciva a convincersi ad amarla ma sicuramente era riuscito ad essere più dolce, gentile, affettuoso e talvolta era riuscito anche a passare momenti spensierati con lei.

Da quando aveva letto quello che Candy aveva scritto a sua madre non aveva avuto più requie, niente più pace, di nuovo quel tormento che cresceva dentro fino a farlo piegare in due dal dolore quando la sera cercava di dormire e sentiva solo i crampi allo stomaco per la voglia che aveva di vederla, di toccarla e per la gelosia cieca che gli toglieva il raziocinio.

 

Un’altra lettera era arrivata a turbare il delicato equilibrio che aveva conquistato, una lettera che lui aveva strappato dalle mani di Susanna, una lettera che aveva riconosciuto essere di Candy.

 

Chicago, 25 maggio 1916

 

Cara Susanna,
dovresti sapere che ti ho odiata quando mi hai mandata via dall’hotel a Chicago.

Pensavo di amare Terence più di te, ma quando sono andata a New York e ho scoperto che gli avevi salvato la vita, e che avevi tentato di ucciderti per Terence e me, ho compreso che lo amavi dal profondo del tuo cuore e ho capito cosa dovevo fare.

Ho ancora la lettera che mi hai mandato e che ho letto molte volte.

Quando Terence lasciò la compagnia, mi resi conto che eravate voi due ad avere molti problemi, non io. Io sto bene. Terence è ora nel mio passato e non guardo indietro.

Sono molto felice di avervi incontrati. Un giorno ci rivedremo, forse quando saremo diventati vecchi, e rideremo molto. So che ti prenderai cura di lui. Resta sempre al suo fianco.

Qualche volta ti vedo sorridente sulle pagine delle riviste, nonostante la sedia a rotelle. Ora so di aver preso la giusta decisione.
Candy

(1)

 

Terence è nel mio passato e non guardo indietro. Non riusciva a pensare ad altro, quella frase, incisa a fuoco nella sua carne gli aveva fatto più male dell’addio sulle scale, della vergogna che aveva provato sapendo che era lei in quel maledetto teatro, di tutto il dolore provato quando aveva dovuto lasciarla a Londra da sola.

 

Le parole di lei lo avevano ucciso un’altra volta, lei non era più sua da tempo ed ora lo stava dimenticando ed era ancora peggio. Stava andando avanti per la sua strada e lui era ormai solo un ricordo, qualcuno che aveva attraversato la sua vita ed ora non ne faceva più parte.

Le aveva chiesto di essere felice, anche senza di lui ma…lei felice con un altro, la sua anima si ribellava, scalciava come un cavallo imbizzarrito, no, non era possibile, lo aveva dimenticato, dunque, così in fretta?

In realtà erano passati quasi due anni ma era ieri, solo ieri, poche ore prima, se chiudeva gli occhi sentiva ancora la pelle di lei contro il proprio viso, il suo odore, la forma del suo corpo fra le braccia.

Quella lettera gli faceva male perché sembrava gettare le basi di tutte le voci che giravano indisturbate  di una relazione tra lei e Albert .

Albert era l’unica persona con cui potesse immaginarla, l’unico che potesse curare la ferita dell’anima, l’unico degno, l’unico adatto a lei ma questo lo faceva sentire ancora più inadeguato ed insignificante.

 

I sogni, o meglio, gli incubi della notte, erano spesso ricorrenti, sempre molto simili tra loro, Candy gli sfuggiva, non riusciva a trattenerla sulle scale, lei continuava a correre giù e non la raggiungeva mai, la sfiorava appena senza mai afferrarla e quando poi alla fine lei arrivava in fondo c’era Albert ad accoglierla a braccia aperte e a portarla via. In un altro incubo lei inseguiva il treno, come quel giorno a Chicago ma, con orrore, Terence si accorgeva che stava salutando Albert e non lui.

Al risveglio era sempre madido di sudore e sempre più stanco, le notti insonni cominciavano a farsi sentire anche in teatro.

 

Si odiava per quei pensieri: lui era condannato ad un’esistenza infelice per saldare quel debito di riconoscenza e si sentiva egoista a sperare che nemmeno lei dimenticasse. Era stato proprio lui a chiederle di essere felice ed ora che stava accadendo avrebbe voluto spaccare la faccia a chiunque le si fosse avvicinato.

 

(1) scritta da Kyoko Mizuki

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Capitolo 7
*** Cosa sta accadendo? ***


cosa sta accadendo?

L’angolo dell’autrice

Rispondo qui ai vostri commenti e dubbi.

I parallelismi con “Ragione e sentimento” sono dati dal fatto che i personaggi sono gli stessi e le basi di partenza anche. Ci sono dei punti fermi nella storia di Candy dai quali traggo spunto per le possibili evoluzioni dei personaggi ma, come ha insegnato “Sliding doors” e come è magnificamente spiegato in “Uno” di Richard Bach, vi sono infiniti mondi paralleli che hanno origini comuni ma si evolvono in modo diverso a seconda delle scelte delle persone, del caso o di entrambi.

Albert è innamorato di Candy ed agirà secondo il suo modo di sentire, così come Terence che non riesce a dimenticare Candy mentre la ragazza…beh..non vi posso dire ora cosa accadrà, altrimenti addio storia.

Forse Candy non è un’eroina nel senso comune che si da al termine, è sicuramente un personaggio con molti aspetti positivi ma che combina disastri proprio perché porta all’eccesso sentimenti come l’altruismo, la generosità, la capacità di sacrificio.

Ci sono personaggi, come il duca e la madre di Susanna, che sembrano aver avuto un peso nella storia che abbiamo visto in tv o letto nel manga e che sono figli del loro tempo e, almeno a parer mio, sono le voci della società dell’epoca, con i suoi contrasti e le sue assurdità: rappresentano quindi la coscienza collettiva cui devono sottostare i personaggi (che poi ci riescano o meno è un altro discorso).

La scelta di Terence e Candy di lasciarsi dopo l’incidente in modo che lui possa occuparsi di Susanna è un a scelta d’onore e, senza andare a cercare la morale giapponese, probabilmente molto prossima al modo di sentire dell’inizio del 900, tant’è che Albert dice a Candy, mentre la sta consolando, che lui avrebbe fatto la stessa cosa se fosse stato al posto suo e nessuno dei suoi amici le dice di aver fatto uno sbaglio ma la approvano in silenzio.

Dal fatto che, secondo me ma non solo, questa scelta sia inumana ed insopportabile nasce il racconto.

 

 

Lui era appena uscito.

In silenzio.

Era tornata quella tensione che lei non respirava più già da tempo.

Era arrivato e partito senza dare spiegazioni, senza pronunciare parola, con quello sguardo cupo e disperato che non vedeva più se non come un guizzo, un lampo subito spento nei suoi occhi di nuovo sorridenti.

Chiuse le palpebre e cascate d’immagini le passarono davanti alle iridi: lui che era tornato, trasandato e sporco, chiedendole scusa prima che con le parole con lo sguardo.

Lui, il giorno in cui aveva avuto la parte più importante e l’aveva sollevata tra le braccia portandola in giro per la casa ridendo e poi erano usciti a mangiare sull’erba del parco.

Lui, il giorno della prima, teso e concentrato accanto a lei, poco prima di entrare in scena.

Lui, che la sera della prima, mentre festeggiavano incrociando i calici le aveva dato un casto bacio, ma era molto più di quanto non avesse mai fatto prima.

Lui, che le aveva chiesto se voleva accompagnarlo in tournee per poter continuare a starle vicino.

Ricordava la sensazione delle sue mani sui suoi fianchi mentre l’aiutava a stare in piedi, sulla sua schiena mentre l’abbracciava, il lieve sfiorarla delle sue labbra che l’aveva lasciata piena di desiderio, che non aveva avuto soddisfazione; era convinta che ora non ne avrebbe avuta affatto.

 

Di nuovo quella luce terribile negli occhi, al solo pensiero si sentiva mancare.

 

Sua madre non faceva che ripeterle che doveva fare in modo che si sposassero, in quell’incertezza lei aveva solo da perdere, ma aver passato mesi così tranquilli, senza discussioni, senza tensioni: una primavera dei sentimenti foriera di un’estate luminosa. Aveva creduto di averla sostituita nel suo cuore, di essere riuscita a scalzarla, come si fa con una radice che non serve più e lei era disposta a dargli tutto il tempo che voleva, si sentiva sicura.

Non poteva sopportare l’ostilità aperta che Eleonor Baker aveva per lei ma pensava che prima o poi le cose si sarebbero aggiustate: una volta che avesse visto il figlio felice accanto a lei avrebbe capito che erano fatti per stare insieme, destinati a compiere quello che a Romeo e Giulietta non era stato permesso.

Eleonor: meno la frequentava meglio era; ogni volta che tornava da una visita a sua madre restava stranito per tutta la giornata, talvolta di più; non riusciva a capirne il motivo ma quello era l’effetto che aveva su di lui, che non le raccontava mai di ciò che si dicevano.

Poco prima dell’inizio della seconda stagione dell’Amleto era andato a trovarla e ne era tornato sconvolto; non le aveva rivolto la parola per giorni interi, non era più passato a trovarla, i colleghi del teatro le avevano detto di averlo visto molto strano, scontroso, stranito.

Si guardò, ritratta in una foto pubblicata sul giornale che aveva in grembo, era ancora bella, nonostante la sedia a rotelle che le impediva di mostrare la propria figura snella; gli occhi, grandi e azzurri, i capelli biondi, lunghissimi e lisci, contrastavano con quelli di lui, lunghi e lisci ma scuri, quasi neri.

Uno accanto all’altro, come in quella foto, sorridenti, così avrebbe voluto che fossero per sempre: tutti quanti non facevano che ripeterle e ripetere a lui quale splendida coppia fossero; era proprio in quei momenti che vedeva in lui quei lampi neri negli occhi blu, che diventavano scuri come il mare in tempesta. Il lampo nero spariva subito, spesso non visto dall’interlocutore di turno, e i gli occhi tornavano ad essere due laghi placidi che le sorridevano, ma in quei momenti lei tremava, quelli erano segnali che non tutto era cancellato, che non tutto era passato.

A quasi un anno dall’incidente in cui aveva perso la gamba per salvare Terence, in un gesto istintivo quanto disperato, Susanna stava iniziando a camminare di nuovo, grazie alle cure assidue del ragazzo e del dottore che proprio Eleonor Baker le aveva indicato.

Sua madre era convinta invece che fosse tutta una cospirazione: allontanarla da Terence non appena fosse stata in grado di avere una vita normale; lei aveva ricominciato a fare resistenza, a rallentare le fasi della ripresa, con il cuore pieno di dubbi.

Sua madre l’aveva spinta a scrivere una lettera alla rivale, per capire se fosse ancora in contatto con Terence e la ragazza le aveva risposto, rassicurante.

Terence aveva trovato la lettera, quasi per caso.

Lei aveva avuto il bisogno di andare a rileggere quella lettera per mettere a tacere le voci nella sua mente che la tenevano di nuovo sveglia durante la notte, voci che parlavano di un nuovo addio e di una nuova solitudine ma lui era arrivato inaspettatamente alle sue spalle e le aveva strappato il foglio dalle mani, sempre più bianco mentre leggeva quelle poche righe, con gli occhi sempre più in tempesta.

Se n’era andato senza dirle nulla lanciandole, disgustato, il foglio appallottolato.

 

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Capitolo 8
*** Candy ed Albert ***


Candy ed Albert

L’angolo dell’autrice

Per Lauramaria: nessuna offesa J

La seconda lettera è posteriore alla prima.

I capitoli successivi ai primi tre sono un flashbask per comprendere come mai si è arrivati all’incontro tra i due ragazzi e perché Terence è di nuovo in condizioni disperate.

La madre di Susanna vuole il meglio per la figlia ed è proprio questo il motivo per cui fa pressione su Terence: è colpa sua se la figlia è invalida ed un’invalida non può sperare in un lavoro regolare, farà fatica a trovare un eventuale marito, sicuramente avrà difficoltà economiche, senza contare che gli invalidi non erano visti di buon occhio dalla società dell’epoca (nemmeno ora a pensarci bene) e spesso finivano relegati ai margini del tessuto sociale se non addirittura a mendicare o ad arrangiarsi alla mensa dei poveri. Tieni presente che, molto probabilmente, l'assistenza sociale come la intendiamo oggi non c'era o al massimo era affidata al buon cuore delle dame dell'alta società o di qualcuno volenteroso e non c'era nemmeno la pensione.

Mettici che Susanna è una donna e quindi avrebbe bisogno di un uomo che la protegga: ma chi potrebbe sobbarcarsi un’invalida, anche se bella, anche se giovane? La madre di Susanna teme proprio questo, che la figlia resti sola.

 

 

Candy stava finendo di riordinare l’armadietto degli strumenti chirurgici quando il dottor Martin entrò nella stanzetta dell’ambulatorio massaggiandosi le reni.

“Per oggi abbiamo finito. Che ne dici di andare a prendere un gelato? Offro io, oggi”

“Grazie dottore ma sarà per un’altra volta”

“Ragazza mia non puoi continuare a fare così!”

“Così come?”, era soprapensiero.

Il dottore la guardò da sotto in su. “Albert tornerà presto e se lo conosco non passerà nemmeno da casa ma verrà direttamente qui”

“Già forse ha ragione…solo che è passato già più di un mese…”

“C’è stato brutto tempo, magari ha avuto un contrattempo, non ti preoccupare, il ragazzo sa badare a se stesso”

“Ha ragione ma aveva detto che sarebbe arrivato oggi”, sorrise, “Finisco qui e andiamo, cioccolata calda però, con questo freddo il gelato proprio non mi va”.

Aveva fatto molta fatica a trovarla, a capire dove lavorasse.

Dopo mesi di angoscia e dubbi, dolore e tormento, non aveva retto ed aveva deciso di andare a Chicago per vederla, anche solo un attimo, ma vederla. Voleva vedere con i suoi occhi quanto di vero ci fosse nelle voci che continuavano insistenti.

Voleva parlarle.

Non ne aveva il diritto ma voleva vedere, sapere, meglio una certezza atroce che un dubbio che ti avvelena l’anima giorno dopo giorno.

Avevano scelto insieme di lasciarsi, le aveva chiesto di essere felice, promettendolo a sua volta. Era bravo a fingere agli occhi del mondo ma lei no. Voleva vedere con i suoi occhi, anche se non aveva il diritto di essere lì.

Se davvero lei ora stava dimenticando lui non aveva il diritto di rammentarle il dolore, di rinnovarle la ferita.

Ma doveva vedere: pensava, era convinto che, se l’avesse vista felice, anche lui, una volta per tutte, sarebbe stato capace di dimenticare, di pensarla al passato, di andare avanti.

Vederla, una volta sola, vederla, era ormai un pensiero fisso.

Al Santa Johanna non sapevano dove fosse andata dopo essere stata licenziata. Aveva girato inutilmente tutti gli ospedali di Chicago e alla fine, quasi per caso, era passato dinnanzi ad una piccola costruzione, sbilenca e sgangherata, con un targa piuttosto equivoca; non l’avrebbe degnata di uno sguardo se non avesse visto tanti bambini, ordinatamente in fila, in attesa di entrare.

Malgrado la tensione e la preoccupazione si era fermato poco distante ad osservare la curiosa scenetta.

Il cuore gli scese fino a terra quando la vide aprire l’uscio del piccolo ambulatorio ed accucciarsi davanti ad una bimba quasi in lacrime per la paura del dottore, farla ridere con una smorfia e poi accompagnarla dentro.

Quando l’aveva vista non era riuscito ad ordinare alle proprie gambe di muoversi, era restato per ore a guardarla da lontano nel freddo e nell’umido di quel pomeriggio di fine febbraio.

Ormai intirizzito vide l’ultimo paziente uscire. Le luci erano ancora accese all’interno e poteva vedere la silouette di Candy andare e venire, probabilmente impegnata a riordinare l’ambulatorio, il dottore era seduto ad un tavolo a compilare fogli.

Poi vide le luci spegnersi man mano: cominciò ad avvicinarsi.

I lampioni illuminavano fiocamente il piccolo giardino quando ecco i fari potenti di un’auto creare ombre lunghe con la staccionata per poi fermarsi proprio davanti alla porta.

Dall’auto scese un uomo alto e vigoroso, un lungo cappotto scuro che contrastava con i capelli color del grano, non portava cappello e Terence lo riconobbe subito, era Albert.

In quel momento la porta della clinica si aprì facendo uscire il dottore e dietro di lui Candy con le chiavi in mano.

Quando vide Albert lasciò cadere tutto e volò di slancio tra le sue braccia; Albert la sollevò in alto sopra di lui, facendole fare più di un giro mentre ridevano entrambi felici, occhi negli occhi, la fronte di lei su quella di lui, prima di posarla nuovamente a terra ed abbracciarla teneramente, posando un bacio sulla fronte ed un altro, sonoro, sulla tempia.

Terence restò impietrito: le voci allegre dei tre si stavano affievolendo, dentro di lui sentiva solo il rumore della valanga di cocci rotti, tutti quelli delle sue illusioni: era rimasto in ombra, loro non l’avevano visto, lei non avrebbe avuto comunque occhi per lui, impossibile equivocare quei gesti, troppo intimi, davanti ad un estraneo, in mezzo ad una strada, non che fosse un benpensante, ma lui non l’avrebbe mai fatto, non con un’amica.

Albert continuava a cingere le spalle di Candy con un braccio mentre parlava con il dottore e Terence non poté fare a meno di notare che lei continuava a guardarlo sorridendo, con la testa inclinata verso una spalla, i riccioli a coprire la mano di lui che la stringeva, gli occhi che brillavano anche nel buio; poi appoggiò dolcemente la testa sulla sua spalla mentre lui stringeva l’abbraccio.

Terence cominciava a far fatica a restare in piedi.

Vide il dottore avviarsi a piedi nella direzione da cui era arrivata l’auto; da quella distanza lui non riusciva a sentire le parole ma vide la coppia parlare per qualche minuto.

Il modo in cui si muovevano, i loro comportamento, così sollecito l’uno con l’altro, un abbraccio cui lei si abbandonò come fosse un porto sicuro, una meta agognata, e ancora un altro bacio sui capelli.

Una disperazione nera come la notte lo stava prendendo dentro, divorandogli l’anima: solo ora che l’aveva vista con Albert aveva compreso che tutto ciò che aveva raccontato a se stesso fino a quel momento era solo apparenza, un velo che lui aveva messo a coprire l’oceano di dolore che ancora si agitava in lui, un velo che era stato strappato ed ora mostrava tutto il tormento che aveva covato sotto di esso per tutti quei mesi; era tornato da Susanna con lo scopo di affrancarsi e ed essere finalmente libero di cercare Candy per dirle quanto l’amasse ancora: questa era la verità.

Si scosse un attimo: ora poteva chiaramente udire la risata argentina di Candy, guardò dalla penombra in cui si trovava e vide di nuovo Albert che sollevava Candy sopra la sua testa, ridendo mentre lei rideva a sua volta, raggiante.

Alla fine salirono nell’auto che era rimasta per tutto quel tempo in attesa e ripartirono.

Lui restò solo nella notte, immobile a pensare, fuoco al posto del sangue e dolore al posto dell’anima, aveva bisogno di bere qualcosa, dopo avrebbe pensato al da farsi, domani, o forse dopo ancora, aveva bisogno di non pensare per il momento, faceva troppo male.

Febbraio era freddo e la neve ghiacciata scricchiolava sotto le ruote delle auto e sotto i piedi.

Albert, appena tornato da un lungo viaggio d’affari stava andando a prendere Candy dal dottor Martin, desiderava rivederla al più presto, mancava da un mese e più ormai: lei era il motivo per cui tornava a casa, il motivo per cui restava; sarebbe andato via molte volte se lei non ci fosse stata, forse sarebbe andato via per sempre.

Quando George fermò l’auto davanti alla clinica si accorse di avere fatto appena in tempo: Martin e Candy stavano chiudendo la porta. Scese dall’auto, salutò con un cenno della testa il dottore che diede una gomitata alla ragazza; Candy si girò per protestare  per quel tiro quando vide Albert fermo davanti alla staccionata della Clinica Felice.

Il maltempo aveva fatto funzionare male le poste ed i telegrafi e lui era riuscito a mandarle solo un telegramma tre settimane prima per avvisarla del giorno del suo arrivo e di non stare in pensiero.

Lei corse verso di lui che la sollevò sopra la propria testa facendola volteggiare in aria come fosse una farfalla: erano felici di rivedersi, felici di essere di nuovo insieme, solo con Albert Candy si sentiva leggera, solo con Candy Albert si sentiva completo.

“Fermati mi fai girare la testa”, disse lei continuando a ridere

“Era quello che volevo” le rispose lui sorridendo e stampandole due grossi baci, sulla fronte e sulla tempia.

“Non così forte, mi farai diventare sorda”

Lui rise ancora, poi accorgendosi che rabbrividiva dal freddo le passò un braccio intorno alle spalle per scaldarla mentre salutava il dottore.

“Beh ragazzo mio, finalmente sei tornato, l’infermiera qui era ormai in pensiero…”

“Ma non mi dica!”

“Martin!”, protestò Candy inclinando la testa da un lato.

“Beh, ormai è tardi, vi lascio. Ci vediamo domani Candy. Ciao Albert, spero di vederti in questi giorni, resti a Chicago per un po’?”

“Veramente no, due giorni e riparto”

“Vorrà dire che la prossima volta che torni faremo un pranzo tutti insieme”

“Va, bene”, rispose Albert con un sorriso, “Buonasera. Ah! Mi lascia Candy per un paio di giorni?”

“Sì, certo perché?”, Albert non rispose ma gli fece l’occhiolino.

“Beh, mi racconterai, ciao Candy”

“Buonasera, dottore”

Martin si avviò e Candy si girò verso Albert, posandogli le mani sul petto.

“Davvero vai via di nuovo? E perché domani?”
”Sì, pochi giorni, torno presto e non vado tanto lontano, solo fino a Pittsburg”

“Beh, se è così”

“Che hai?”

“Mi sei mancato, sai la zia Elroy non è di molta compagnia…”, aveva un finto broncio.

“Ti ha dato fastidio?”

“No, no”, sorridendo, “tutto a posto”.

“Hai freddo piccola?” , le chiese scrutandola.

“Un…un….un..po’…ma ddoddomani?”

“Ma senti come tremi! Andiamo che sennò buschi un raffreddore”

Albert la tirò a se cercando di scaldarla con un abbraccio, Candy stava tremando di freddo, da non riuscire ad articolare le parole, le posò un bacio sui capelli, “Andiamo”

“Cosa facciamo ddddomani”, insistette lei.

“Sorpresa!”

Candy lo guardò scuotendo la testa perché non capiva, facendo danzare i riccioli biondi sul panno del cappotto scuro.

“Cosa ne dici se George ci portasse a casa a cambiarci e poi alla Casa di Pony?”

“Davvero?!!! Oh, Albert è tanto che non vedo Miss Pony e Suor Maria!”, e gli gettò le braccia al collo, stampandogli un bacio sulla guancia. Poi aggiunse: “Ma arriveremo tardissimo e non ci aspettano..”

“Ho già pensato a tutto, ho mandato un telegramma stamattina per avvisarle. Ho qualche pensierino per i bambini, sapevo ti avrebbe fatto piacere andare!” La sollevò di nuovo,  facendole fare un’altra giravolta, “Allora?”

“Sì, sì, sì…ma non devi andare dalla zia Elroy?”

La mise giù: “No, la vedrò dopodomani prima di partire, vieni” e la fece salire nella vettura che partì lentamente, proseguendo lungo il viale verso Casa Andrew.

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Capitolo 9
*** I bambini dicono che... ***


I bambini dicono che..

Terence era tornato dalla sua visita in incognito a Chicago con i nervi tesi e i sensi ottusi dal dolore.

Il marciapiede affollato non gli permetteva di camminare completamente immerso nei propri pensieri e guardandosi intorno vide la locandina del giornale.

Il titolo non poteva essere ignorato.

Terence acquistò il giornale e prese a leggere la notizia in maniera febbrile, mentre continuava a camminare alla volta del teatro per le prove.

La foto non era un gran che ma si distingueva chiaramente una coppia in un atteggiamento difficilmente equivocabile, immortalati in un bacio sulla riva di un lago. Non era molto importante cosa vi fosse scritto sotto, che il giornalista strillasse allo scandalo e all’intrigo, alla vergogna di una relazione clandestina, lei arrampicatrice sociale, ecc. La foto era chiaramente rubata, probabilmente nel parco della villa: la cosa più importante è che non c’era più alcun dubbio a cui aggrapparsi, nessuna speranza, niente di niente.

Albert appallottolò con rabbia il giornale, mormorando “Maledizione” a denti stretti.

Avevano pubblicato una foto rubata nel parco della villa: il problema è che erano riusciti a fermare proprio l’unico momento che non avrebbe mai dovuto essere visto da nessuno!

Qualche giorno prima.

“Ehi Candy”, una vocetta di bimbo.

“Dimmi Sammy, però sta fermo altrimenti non riesco a fasciare bene il tuo ginocchio!”

“Ma quando vi sposate?”

Candy strabuzzò gli occhi: “Eh? CHI?”

“Non fare finta di niente!”, le disse Judith, “il tuo fidanzato viene sempre a prenderti!”

“Sì, sì. Ed è così simpatico” incalzò un altro dei bambini fermi nella piccola stanzetta dell’ambulatorio.

“Ed è anche così bello, sembra un principe delle favole!”, sospirò la sorella più grande di Sammy, con gli occhi sognanti.

Candy continuava a guardare i bambini che la stavano provocando senza capire.

“Ma di chi parlate?”, chiese arrossendo.

“Ma dai! Lo conosciamo tutti, viene con quella bella macchina nera, con quel signore sempre serio”

“Ma ha un castello?”

“Ma è un principe?”

“No, no, è solo il fidanzato di Candy e lei non ce lo vuol dire”

“Ma è così bello ed è anche ricco!”

“Ci inviti alla festa?”

“Fermi!” gridò Candy cercando di interrompere il torrente di parole dei bambini, “Ma parlate di Albert?”

“E certo, e di chi altro?”

“Ma non è il mio fidanzato!”

“Ma se lo sanno tutti!”, le risposero in coro, “Sei tu che non ce lo vuoi dire quando vi sposate perché non vuoi che ti vediamo vestita da sposa!”

“Ih, ih, ih, ve la immaginate Candy che inciampa nello strascico e fa un ruzzolone?!”

I bambini iniziarono a sghignazzare e lei iniziò una serie brevi inseguimenti per metterli a tacere ma non smisero di gridare “Candy e Albert si sposano!” fin quando non girarono l’angolo in fondo alla via.

“Che hai, sei strana? Sei tutta rossa..”

“Niente Martin, niente, è che…io e Albert sembriamo fidanzati?”

Martin la guardò un po’, sembrava decisamente confusa, si massaggiò il mento per un attimo..

“Beh…”

Candy arrossì ancora di più e si mise a riordinare le bende e le medicazioni senza più guardare Martin per un po’.

Lui si grattò la testa e pensò: “Mah...Speriamo bene…”

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Capitolo 10
*** Un pomeriggio sul lago ***


Un pomeriggio sul lago

Metà marzo, sabato, primo pomeriggio: il sole cominciava a farsi tiepido e la neve che si scioglieva lasciava grandi chiazze di verde acceso. Passeggiare lungo il lago cominciava ad essere nuovamente piacevole.

Candy era arrivata al suo solito in ritardo ed ora, con il fiatone, stava chiamando Albert che le avevano detto essersi già incamminato verso l’imbarcadero.

“Sono qui”

“Ciao!”, la mano levata per salutarlo da lontano.

“Ciao piccola”, quando lui sorrideva e la guardava in quel modo lei si sentiva strana.

“Ciao Albert!”

“Sei andata da Martin oggi?”

“Sì ma solo per salutare. Tu? Finito?”

“Direi di sì e mi posso concedere un po’ di pace. Fai due passi? Pensavo ti fossi dimenticata di me..”

Lei lo prese a braccetto e si incamminarono lungo il lago: l’acqua scintillava sotto il sole e le onde placide cantavano sulla piccola spiaggia. Albert e Candy dopo un po’ si sedettero su una grossa roccia vicino all’acqua, fermandosi a guadare il paesaggio in quello scorcio di primavera ancora in nuce.

“Albert..”, lui si voltò a guardarla, incoraggiandola a parlare.

“Beh…ecco…lo sai che…”, si grattò la testa, “beh, sai che dicono che noi…la gente..anche i bambini…”

“Che siamo fidanzati? Lo so.”

Candy sbarrò gli occhi.

“Lo sai? E..”

“Beh, da un po’, in realtà lo dicono anche i giornali, sembra trovino divertente cercare di affibbiarmi una fidanzata e dal momento che ci vedono spesso insieme tutti pensano che quella fidanzata sia tu…”

Candy si mise le mani sulla bocca spalancata per la sorpresa.

Albert rise: “E’ una cosa che manda in bestia la zia Elroy”, fece spallucce e si mise a guardare il lago, “Non te ne devi preoccupare, faccio finta di non sentire e così dovresti fare anche tu; non ho nemmeno mai smentito proprio per evitare ulteriori commenti”, la guardò di nuovo, “Beh? Senza parole? Non leggi i giornali?”

Di nuovo quel sorriso che la metteva sottosopra, ora iniziava a capire.…era la luce che lui aveva negli occhi quando la guardava, non era solo perché sembrava attraversarle l’anima e leggere nel più profondo del suo io.

“Beh, io, io non li leggo..”, pensò a Terence, era per quello che non li leggeva, perché non voleva più sapere niente.

“Sai ho pensato tanto, ecco io, noi, siamo…”, non le veniva la parola, “…strani…”

“Cosa intendi?”

“Noi…siamo amici, giusto?”

“Sì”, Albert cominciava a sentirsi a disagio, quella conversazione stava iniziando a prendere una piega pericolosa ma allo stesso tempo voleva vedere dove Candy sarebbe andata a parare.

“Ma con Archie e con Stear non è come con te..”

“E’ la stessa cosa…”, cercò di convincerla lui ma lei lo ignorò.

Candy lasciò vagare lo sguardo sul lago, fin dove poteva arrivare.

Le parole dei bambini l’avevano fatta pensare seriamente al suo rapporto con Albert, a quanto fosse diverso da tutte le altre amicizie che aveva con altri ragazzi: era soprattutto quel loro modo di dimostrasi il bene che si volevano, fatto di abbracci, di baci e, soprattutto da parte di Albert, di infinite attenzioni.

Se pensava a Terence non aveva dubbi ma lui doveva appartenere al passato; con Albert, era tutto così difficile…anche chiarire quei sentimenti era difficile…e poi lui, lui cosa provava?

E quello sguardo che spesso aveva, così dolce e così enigmatico, che la sconvolgeva e la lasciava a volte sognante a volte imbarazzata, cos’era?

Vederlo, rivederlo, quando lui tornava, le faceva provare un calore che partiva da un punto molto profondo in lei e si irradiava come un raggio di sole che scalda ma…

Con Terence era stato tutto diverso, i suoi modi sapevano essere allo stesso tempo ruvidi e dolci. Con lui vi era un conflitto continuo che la faceva sentire viva e vitale; c’erano stati dei momenti in cui avrebbe voluto allontanarlo da se e allo stesso tempo trattenerlo, anche quando diventava insolente ed insopportabile e ora una nostalgia infinita.

Quando lui l’aveva baciata lei gli aveva risposto in modo molto duro ma qualcosa dentro di lei avrebbe voluto che, anziché con uno schiaffo, le avesse risposto con un altro bacio, anche se più rude, anche se più forzato.

Con Albert questo conflitto non c’era, lui era come una calda coperta avvolta intorno alle spalle, come un fuoco acceso nel camino in una notte d’inverno, come la luna riflessa sul lago: qualcosa di bellissimo, che faceva sognare, che ispirava calma e serenità…di cui non sarebbe riuscita a fare a meno ma…

Due anni, due lunghi anni, ora Terence sembrava essere più sereno: il successo in teatro, Susanna che faceva progressi, la lettera di lei della primavera appena passata, sembrava tutto un secondo addio, stavolta definitivo, completo.

Il momento peggiore, quando sia Terence che Albert avevano fatto perdere le proprie tracce, era passato e si domandava, sempre più spesso, cosa ne sarebbe stato di lei ora.

Era tornata a Chicago soprattutto per lavorare con il dottor Martin ma anche perché Albert le mancava molto: restare alla Casa di Pony significava non vederlo per mesi e non le era piaciuto affatto.

Lui era l’unica persona che la facesse stare bene malgrado tutto: accanto a lui tutto sembrava più facile, più semplice, anche dimenticare.

Lo guardò con la coda dell’occhio, il profilo del viso stagliato contro il riverbero del lago: gli occhi avevano lo stesso colore dell’acqua e del cielo.

Era assorto, un’espressione seria ed intensa che faceva apparire il suo viso ancora più bello.

Esercitava un fascino irresistibile di cui lui era quasi ignaro o di cui prendeva talvolta coscienza in modo piuttosto imbarazzato. Aveva visto spesso l’effetto che faceva la sua presenza: tutte quante non avevano occhi che per lui.

Lui, invece, non guardava che lei: aveva notato questo solo di recente, quando aveva iniziato a fare caso ai commenti su loro due.

La faccia che le aveva rivolto il dottor Martin come risposta alla sua domanda l’aveva fatta arrossire fino alla radice dei capelli, qualcosa dentro di lei si era mosso.

“E se noi…davvero…?”, lui capì al volo.

“No, tu non sei innamorata di me”, le disse con un sorriso triste, circondandole le spalle con un braccio e scompigliandole i riccioli, “No…”
”Ma..”

Albert la guardò: da troppo tempo la vedeva soffrire senza riuscire ad aiutarla, da troppo tempo l’amava senza poterle dire quello che sentiva. Da troppo tempo.

Lei era solo bisognosa di affetto per colmare un vuoto che solo Terence avrebbe potuto cancellare.

Anche se…anche se cominciava a diventare difficile starle accanto così: baci, abbracci, carezze, lei che si abbandonava completamente ai gesti che lui non riusciva più a trattenere; i suoi capelli che gli sfioravano il viso, il profumo di lei che gli restava addosso, sul capotto, sui maglioni e gli sembrava di averla vicina anche quando lei non c’era, la desiderava sempre più.

Anche ora: si stavano guardando negli occhi, vicini, sempre più vicini, come due stelle che si incontrano.

Albert si dominava a stento.

Era un tormento e una tentazione a cui aveva resistito fin troppo.

Candy era confusa da tutti quei pensieri e continuare a guardarlo negli occhi in quel modo la rendeva ancora più confusa.

Infine Albert la tirò a se, poggiando lieve le sue labbra su quelle di lei.

Candy sussultò a quel contatto e si ritrasse ma di poco, pochissimo, continuando a guardarlo negli occhi, il respiro breve e leggero.

Albert la strinse di più e la baciò di nuovo ma lei si ritrasse con più forza, quando lui aumentò la forza con la quale la stava tenendo, Candy si scosse del tutto: “Ma cosa stai facendo?”, accigliata.

“Ti ho dimostrato che non sei innamorata di me, se lo fossi non ti saresti sottratta..e non mi avresti guardato così”, sorrise; quanta forza era necessaria per continuare a restare lucido e a proseguire quella conversazione, sapeva che avrebbe scontato tutto più tardi, quando sarebbe stato solo.

Quel lieve sfiorasi delle loro labbra lo aveva sconvolto completamente.

Prima o poi sarebbe venuto fuori tutto, lo sapeva, ed il momento era ora.

Candy lo guardò seria a lungo, poi gli chiese “Ma tu Albert, sei…sei.. innam...”

“Non me lo chiedere, dovrei risponderti, non me lo chiedere”, la supplica negli occhi chiari e limpidi.

“Ma..”

“Silenzio”, le aveva chiuso le labbra con un dito. Depositò un bacio sul dito e le sfiorò di nuovo le labbra con quello. Ancora quello sguardo triste, “Non chiedermelo, sarebbe doloroso ed inutile. Se anche fosse, nessuno dei due sarebbe felice con l’altro, il tuo cuore e la tua mente sono altrove ed io non…”, fece un profondo respiro, “vorrei vederti felice ma non sono io la persona che può renderti tale, piccola mia, non ora, almeno, non così, ci faremmo solo del male a vicenda e forse finiremmo per non sopportarci più o addirittura per odiarci..”

Lo sguardo di Candy era supplichevole: “Io, io, non, non, non …non devi star male a causa mia”

“Ascolta, non voglio che niente cambi tra di noi, va bene?”

Lei stava piangendo in silenzio, sapeva quanto dolore c’è in un amore negato. -Però io…io gli voglio bene -.

“Vieni qui e non fare così, andrà tutto bene, sto bene”, sempre quel sorriso dolce e triste. -Non mi guardare così, Albert, non così triste, mi fai stare male…-

La cullò fin quando non smise di piangere e restarono a guardare il lago increspato dal primo soffio di primavera, sotto un cielo che iniziava a diventare rosa per il tramonto.

La brezza dolce e tiepida lasciò il posto ad un’arietta gelata che fece rabbrividire Candy.

In silenzio Albert si alzò e le tese una mano per aiutarla ad alzarsi a sua volta; si trovarono l’uno di fronte all’altra, immobili. Si guardarono a lungo.

Candy si alzò in punta di piedi e sfiorò le labbra di Albert con le sue.

Albert cedette completamente al suo bisogno di sentirsi amato, la strinse, continuando a baciarla, e lei ricambiò.

 

“Non ci posso credere, è accaduto davvero? Non sto sognando? E’ davvero lei? Io, io non sono mai stato così confuso e felice…amore mio, finalmente posso chiamarti così, finalmente non devo più guardarti da lontano, con la paura che tu capisca cosa provo, con la paura di leggere la disapprovazione nei tuoi occhi. Anima mia, se questo è un sogno non mi voglio svegliare, preferisco dormire per tutta la vita sognando di te piuttosto che svegliarmi ed accorgermi che non ci sei…”

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Capitolo 11
*** Aiutami ***


Aiutami

L’attesa dilata il tempo, non lo abbrevia mai.

La mattina scorre lenta, troppo lenta, un paziente, un altro, Martin che le parla, un paziente, ancora un altro e la sua mente divisa in due.

Una parte segue le sue mani, i suoi movimenti le sue parole, una parte pensa ad Albert.

Quando è lontano è così difficile pensare a loro due come fidanzati, quando è vicino sembra tutto più facile, il suo amore basta per entrambi, va a colmare anche le voragini che lei sente nel proprio cuore.

 

Arriva a casa, la grande villa sembra deserta nel pomeriggio di marzo…aveva sperato che fosse già arrivato e invece…

Passeggia nei corridoi silenziosi: ora tutta la sua mente è concentrata su quello che è accaduto in giardino, niente più pazienti a distrarla.

Quelle labbra morbide e il suo abbraccio, dolce come solo lui sa essere…ma anche così sensuale che ha sentito lo stomaco, e qualcosa molto più giù dello stomaco, contrarsi con forza, quasi a ricordarle che è ancora viva, malgrado tutto…

E malgrado tutti si sente strana, quasi sporca, si vergogna ma sa che ce la può fare, ha dimenticato Anthony, può farcela anche con Terence…Albert, la sua pazienza, la sua forza, sarà lui ad aiutarla, inutile continuare ad infliggere a lui la sofferenza di non sentirsi amato…non è vero, lo ama, diversamente da come ama Terence, ma lo ama.

Quel bacio…un senso di vertigine, ricordi…se chiude gli occhi può sentire ancora la sensazione di lui che la sfiora, le sue braccia intorno a lei e il suo petto sotto le sue mani…vertigine ancora…

Passi risuonano nel salone delle feste, le grandi vetrate lasciano cadere una luce dorata che investe i marmi e gli specchi, illuminando il pavimento policromo. Sta danzando un valzer già danzato ma non c’è Albert in quei ricordi che si affollano in lei come invitati ad una festa.

Si vergogna di nuovo..decide di uscire, ha bisogno di aria, va verso il giardino.

I suoi passi risuonano nel corridoi ma eccone altri, più lenti e pesanti che vanno incontro ai suoi.

-Perché mi guarda così? Cosa le ho fatto adesso?-

La vecchia signora la guarda con odio.

Un crampo allo stomaco l’avverte che quell’aria da divinità oltraggiata ha qualcosa a che fare con lei ed Albert ma non capisce come, è ancora un segreto.

Entra nel salotto da cui è appena uscita la zia, c’è un giornale aperto sul tavolino rococò vicino alla finestra.

Lo sfoglia distrattamente e poi sblocca, le pagine le scivolano dalle mani, il crampo allo stomaco ormai insopportabile, il cuore che batte all’impazzata, quasi non riesce a riconoscersi in quell’immagine, non può essere lei, eppure lui è certamente Albert, quello è il lago, quella la roccia accanto all’acqua…come può essere accaduto? Come?

Doveva restare un segreto tra loro, ancora per un po’, solo per un po’…

Fa fatica a rendersi conto del tempo che passa, non riesce a smettere di guardare quell’immagine, rimane a lungo con il giornale davanti a se, immobile, le braccia lungo i fianchi, attonita.

Un suono la strappa a quel torpore, qualcuno è entrato nella stanza, la sta chiamando ma lei non comprende le parole…perché quella foto, come hanno fatto, perché?!?

Torna alla realtà, una carezza di Albert la riporta al presente, il suo viso gentile le sorride: “Cos’hai? Stai male?”

Gli indica il giornale. “Maledizione!” dice lui appallottolandolo e gettandolo lontano con rabbia.

Finalmente la abbraccia e la vertigine cessa, in quel rifugio sicuro nulla può accadere, nulla..ma lui non è sempre presente….Aiutami

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Capitolo 12
*** Farfalle d'addio ***


farfalle d'addio

L’angolo dell’autrice

Cara Lauramaria, siamo ancora nella finestra temporale antecedente l’incontro tra Candy e Terence…

Il fatto che i capitoli siano più o meno lunghi non dipende dal desiderio di creare suspence ma quanto dal fatto che, mentre scrivo, percepisco un cambio di scena, o un differente modo di scorrere del tempo e quindi mi viene da separare i diversi capitoli. Questo è ancora breve, il prossimo sarà più lungo.

Neil e Iriza non si sono chiamti in questa storia, tra poco arriveranno personaggi molto più interessanti e meno sviscerati finora rispetto ai due Legan.

Abbiate un po’ di pazienza, la storia è lunga perché molte cose si devono snodare per benino… J

Sono stati giorni inquieti, la zia è stata insopportabile: pur tacendo l’aria sdegnata che si porta dietro è palpabile nei corridoi e nei saloni.

Vede arrivare Albert, sembra turbato ma prova a dissimulare, deve aver avuto un altro scontro con la zia.

Sta uscendo, è già vestito, le da un bacio e osserva attento,  con quei suoi occhi che sembrano vedere tutto in lei. Sono occhi buoni, senza giudizio, solo amore ed apprensione, amore e tenerezza, amore e desiderio e rispetto e lei si sente sempre più meschina, non riesce a ricambiare quello sguardo da angelo innamorato, non in quel modo e allo stesso tempo desidera che lui resti con lei.

Gli vuole bene ma sa di non avere quella luce negli occhi, quella luce che ha lui quando la guarda, quando pensa a lei.

“Un’oretta e torno”

“Va bene”

Lei non va da Martin, nei giorni precedenti troppi giornalisti curiosi sono arrivati a far domande.

Di nuovo la grande villa silenziosa.

Siede sotto il portico, non vuole pensare quando lui non c’è, meglio non pensare.

“Lo sapevo io che non sarebbe riuscita a tenerlo lì”, due cameriere parlano, “uno come lui non può certo accontentarsi di una come lei”

“Ma è una bella donna…”

“Sì ma con lei, così com’è, che vita farebbe? E poi bello com’è può permettersi qualunque donna…”

“Ma gli deve la vita, un minimo di riconoscenza…”

“La riconoscenza non sostituisce l’amore…”

Lei non ascolta quasi ma alcune parole cadono dentro di lei come grandine, risvegliando l’ansia.

Si alza e torna dentro, tra poco arriverà Albert, andranno a cavallo più tardi, con il cesto del pic-nic, per stare soli.

La sorella di Albert, la signora Legan avanza nel corridoio, lei si fa da parte, non ha alcun desiderio di scontrarsi con quella donna, la saluta educatamente ma lei la guarda dall’alto in basso, squadrandola in silenzio e prosegue. Sa che la odia, anche più della zia, sa che se potesse le farebbe del male, la allontanerebbe il più possibile da quella casa, da quella città, da Albert.

Prosegue verso la sua stanza ma si sente fermare: è di nuovo lei, con un sorriso maligno, che le mette in mano un giornale, allontanandosi subito.

Candy non capisce, guarda il giornale, le righe si confondono ma un nome le trapassa il cuore.

Scomparso, è l’unica altra parola che riesce a leggere oltre al nome, scomparso…

Un nodo di pianto in gola.

-Scomparso, allora non mi ha dimenticato………. Scomparso……… la riconoscenza non sostituisce l’amore…scomparso…-

Non ha tempo di pensare ad Albert, la mente si è spenta, scivola via.

Ricordi indistinti come sensazioni di un corpo che non è il proprio.

Un profumo nell’aria che è solo di lui e si sente galleggiare, qualcosa di umido sul proprio viso e sul collo, di nuovo la vertigine.

Mille piccole farfalle che si appoggiano su di lei, sulle palpebre, sulle guance, sul collo, lievi, ogni farfalla un brivido, ogni farfalla una lacrima d’addio.

Un viso nell’ombra, un viso che non aveva mai visto così triste: è lei la causa di quella tristezza, sa di essere lei, ancora farfalle lievi che hanno il suo profumo..

 

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Capitolo 13
*** Ti aiuterò ***


Ti aiuterò

Albert si mise a cavalcioni sul ramo dell’albero: il parco della villa giaceva ai suoi piedi, da lì si vedeva il lago e quella roccia sulla quale erano soliti sedere lui e Candy.

L’aria primaverile stava facendo sciogliere la neve ma dentro di lui era inverno.

Sentiva solo un gran vuoto, vuoto e freddo.

Mise una mano in tasca, continuava a portare stupidamente con se quella scatoletta, quasi che il sentirla contro il suo fianco potesse scacciare la realtà.

Il giorno prima era uscito per sbrigare alcune faccende ma soprattutto per quella scatoletta, ormai inutile.

Si prese la testa tra le mani e chiuse gli occhi, sperando di dominare quella sensazione di nausea che aveva. Si asciugò gli occhi con la manica della camicia e prese la scatoletta, aprendola.

Un cerchio d’oro e luce, bellissimo ed inutile. Quando era tornato a  casa aveva cercato Candy con ansia, non vedeva l’ora di darle l’anello, di chiederle di sposarlo ma lei…

L’aveva trovata svenuta, con il giornale tra le mani, il viso bagnato dal pianto; non si era ripresa nemmeno quando l’aveva sollevata e portata nella sua camera.

Era già accaduto in passato, sapeva quale significato avesse, sapeva quale notizia aveva sconvolto Candy, sapeva ormai perché lei si era rifugiata in lui. Aveva il cuore piccolo come una nocciola.

Si era illuso, aveva dato retta alla parte di se che amava Candy fino alla follia, fino al punto di restarle accanto anche solo per vedersi rivolgere uno sguardo, una parola.

Aveva pianto a lungo su di lei, senza riuscire a smettere di baciarla.

 

Non era da lui perdere le staffe ed alzare la voce in quel modo ma era esasperato e stanco e la zia non faceva che tormentarlo: dopo l’avversione iniziale ora voleva che la sposasse per porre fine allo scandalo e ai pettegolezzi, perché non poteva sopportare che un membro della famiglia fosse disonorato, anche se era un’orfana adottata, anche se era stato un altro membro della famiglia a far nascere quello scandalo, anche se era stato lui.

Si domandava sempre più spesso come la zia potesse essere così insensibile e così cieca a ciò che accadeva davanti a lei.

Stava guardando dalla finestra Candy che passeggiava nel viale: non si erano più parlati da quel giorno. Lui non aveva più dormito, si sforzava di mangiare qualcosa ma ormai gli girava la testa al più piccolo movimento e porre attenzione agli affari era sempre più difficile.

Era in grado di esercitare un controllo assoluto su di se di fronte agli altri ma quando restava solo non era in grado di fare altro che sedersi e guardare il lago scintillare nella luce della primavera. In altri momenti la natura ed il suo rigoglio sarebbero stati in grado di regalargli un po’ di serenità, ora invece tutta quella luce e quella vita lo infastidivano, avrebbe voluto fosse inverno. Vedere Candy lo faceva star male, vederla così triste ancora di più ma rabbia e gelosia avevano preso il sopravvento su di lui e stava ancora cercando di averne ragione. Se Terence gli fosse apparso davanti in quel momento probabilmente l’avrebbe preso a pugni.

 

Quando Candy si era ripresa non aveva avuto il coraggio di guardare Albert negli occhi per diversi giorni.

Un pomeriggio l’aveva trovato nello studio ed era rimasta sulla soglia, incerta.

“Vieni avanti, che fai lì sulla porta?”

Lei entrò, un piede dietro l’altro, lentamente, la testa china, lo guardava da sotto in su.

“Sei tanto arrabbiato con me?”

“Non è bello quello che hai fatto, Candy…”,la voce era pacata e tranquilla.

“Lo so e te ne chiedo scusa..ma non l’ho fatto apposta, io…”

“Lo so”

“Albert, io…se vuoi me ne vado, non voglio che tu…”

“No, non te ne andare”, si alzò, girando intorno alla scrivania, andando a mettersi di fronte alla ragazza.

Fuori il lago scintillava nella luce di marzo, era quasi impossibile guardarlo per il riverbero che lo rendeva simile ad uno specchio argenteo.

Albert in controluce sembrava ancora più alto e lei chinò la testa, non riusciva a guardarlo negli occhi, il rimprovero che vi leggeva faceva troppo male, anche se se lo era meritato in pieno.

“Candy, non so nemmeno da dove iniziare”

“Puoi iniziare dal fatto che mi sono comportata come una stupida, dal fatto che ti ho ferito, dal fatto che non avrei dovuto tradire la tua fiducia, dal fatto che se mi cacciassi faresti bene.”

Lui la costrinse a guardarlo negli occhi, sollevandole il viso con una mano. Lei sostenne lo sguardo.

“Perché?”, le chiese.

“Perché ti voglio bene…Perché sto bene con te, non voglio perderti, io…”

Lui continuava a fissarla…

“Perché non ce la facevo a vederti così triste…io ho pensato che…”

Lui scosse la testa.

“Perché mi sento sola se non ci sei e ho creduto che con te avrei potuto dimenticare Terence…” la voce ormai era incrinata dal pianto.

“Non l’hai ancora dimenticato, è lì, fisso nel tuo cuore, come il sole, la luna o le stelle in cielo…ed io non sono niente..”, la voce roca ed incerta, quasi un singhiozzo.

“Non dire così, non è vero!”

“Candy, non si può scegliere di stare con una persona solo perché ci si sente soli o ci manca qualcuno che amiamo immensamente…come credi che mi sia sentito quando ho visto la tua reazione alla scomparsa di Terence?”

“Albert…”

“Sono io che sono stato stupido, sapevo che tutto questo sarebbe accaduto perché ti conosco meglio di quanto tu non conosca te stessa ma ho voluto illudermi che i tuoi sentimenti fossero cambiati davvero…”, ancora quello sguardo triste che la faceva star male fin nel profondo.

“Albert…”

“Dammi un po’ di tempo perché mi possa riprendere e tutto tornerà come prima tra noi…da tempo ormai avrei dovuto allontanarmi da te…”, sapeva che non era vero ma non sapeva cos’altro fare.

“Albert!”, Candy era visibilmente spaventata, “Che vuoi dire?! Cosa…?”

“Non temere piccola”, le disse accarezzandole il viso, “non sparisco e continuerò a rivolgerti la parola ma per un po’ non ci vedremo, ne ho bisogno..”

“Capisco..”, chinò il capo.

“Andrò qualche tempo a New York, mi farà bene stare un po’ lontano da qui”, si era girato verso la finestra, incrociando le mani sulla schiena, “George resterà qui e penserà lui a te in mia assenza”, si girò verso di lei nuovamente, “Non voglio che tu vada  a cacciarti nei guai, troverò Terence e tu non ti muovi finché non ne so qualcosa”, la decisione ormai era presa, forse, agire lo avrebbe aiutato. Se almeno l’avesse vista felice…

 

Il giorno dopo.

“William, William!”

“George, che succede, cos’è quel tono di voce?”

“Guarda tu stesso!”

Albert lesse il breve biglietto.

“Maledizione! Che testa dura! George, vado alla stazione!” e prese il soprabito.

“Ti accompagno”, ma non riuscì a stargli dietro, aveva già sceso le scale e il portone si era chiuso di scatto.

“Non ci sarà mai pace in questa famiglia”, mormorò George guardando William partire di corsa con l’auto.

 

L’aveva raggiunta per miracolo, quasi tirandola giù dal treno che stava partendo.

“Si può sapere cosa pensi di fare!?”

“Vado a cercarlo! Mi hai fatto perdere il treno!”

“Era quello che volevo! Tu non ti muovi di qui finché non lo troviamo! Non vai alla cieca in giro per l’America!”

“Ma ho paura che faccia qualche stupidaggine! E la guerra? E se facesse come Stear? E..”

“CANDY!”, Albert stava alzando la voce, non l’aveva mai fatto con lei, “ORA SMETTILA! Torniamo a casa”, aveva lo sguardo duro ed il tono della voce, deciso, non ammetteva repliche.

Ma Candy scoppiò in lacrime, coprendosi il viso con le mani.

“Candy”, la chiamò Albert, con voce più dolce, “Ascolta, ti prometto che lo troviamo il prima possibile, vedrai che non accadrà nulla, vieni, andiamo, lo capisci che è inutile che tu vada a New York, potrebbe essere ovunque…”

“Ma..”

Lui scosse la testa.

Lei si asciugò un po’ le lacrime, lo guardò poco convinta ma rispose: “Va bene…”

“Vieni” e passandole un braccio intorno alle spalle la accompagnò all’auto.

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Capitolo 14
*** Susanna, Albert, Eleonor ***


Susanna, Albert, Eleonor

Lo specchio restituiva l’immagine di un uomo dai capelli bianchi, dall’aria distinta, occhi neri profondi, una ruga orizzontale sulla fronte, lo sguardo malinconico. Gli abiti, di ottima fattura, li aveva fatti fare dal miglior sarto di Londra e i gemelli, in oro e diamanti, erano un regalo del padre, una tradizione che si tramandava da generazioni nella sua famiglia.

Stava pensando ormai da più di due mesi al figlio, nuovamente scomparso chissà dove.

La prima volta stava per intervenire ma lui era tornato a New York spontaneamente e non aveva quindi interferito: l’aveva promesso a quella ragazza dagli occhi verdi che l’avrebbe lasciato libero di scegliere la sua vita ma non avrebbe comunque permesso che si distruggesse con le proprie mani.

Quel figlio in cui scorreva il suo stesso sangue, in cui rivedeva se stesso quando era giovane, gli era più caro della vita, anche se a ben vedere da lui non aveva avuto che rimproveri e umiliazioni. Aveva scaricato su di lui la propria incapacità, la propria inettitudine, la propria pusillanimità, il rimorso per aveva ripudiato la donna che amava immensamente e che gli aveva dato quel figlio così simile a lui. Aveva scelto, ma si era reso conto ben presto dell’errore.

Rivedere Eleonor o sentirne parlare lo faceva star male, così come il muro che si ergeva tra lui e Terence, muro che si era creato per colpa sua, non per colpa del figlio.

Non era mai stato in grado di amarlo com’era giusto che fosse, l’aveva sempre trattato duramente sperando che servisse a forgiargli il carattere ma era stato un enorme sbaglio.

Non aveva ma compreso che il carattere ribelle del figlio era una richiesta disperata d’amore.

Le notizie che erano arrivate dall’America sulla sua scomparsa l’avevano spinto a partire alla ricerca. Ora si trovava a New York in attesa che un uomo di sua fiducia riuscisse ad avere sue notizie.

Ripensò a quella ragazza dagli occhi verdi che aveva difeso con tanta forza Terence quando era fuggito dal collegio: era molto più di un sospetto che fosse proprio lei la causa di tutti i problemi di Terence, non riusciva a capire in che modo.

 

Se stare a Chicago significava avere la scusa di non partecipare agli eventi mondani perché stanco dei troppi impegni fuori città, stare a New York significava dover, per forza, prendere parte a ricevimenti, balli, pranzi di lavoro ma, stavolta, Albert era ben felice di avere le giornate piene e con persone che conosceva poco: lo aiutava a distrarsi dal pensiero fisso di Candy.

Era riuscito a convincere George a restare a Chicago, vederlo girare intorno a lui con l’aria della chioccia preoccupata lo infastidiva, anche se lo comprendeva.

In ogni caso preferiva che tenesse la zia lontana da Candy finché lui non fosse tornato.

 

Molti dei passanti si voltavano a guardare la bellissima coppia ferma davanti al Caffè.

Lui: uno degli uomini più facoltosi d’America, rampollo ed erede di una delle famiglie più antiche poteva essere definito, senz’ombra di dubbio, un uomo colto, intelligente, affascinante, amabile.

Lei: alta, molto bella, dai grandi occhi blu, lunghi capelli biondi accuratamente raccolti, vestiva con raffinatezza ed eleganza.

 

Eleonor era stata avvertita da un biglietto dell’arrivo a New York di William Andrew; avevano concordato un incontro in un elegante caffè del centro, sicuri che avrebbero potuto parlare senza problemi.

La donna arrivò puntuale all’appuntamento e trovò William Andrew ad attenderla.

“Buongiorno, signora Baker. Mi fa piacere vedere che sta benissimo”, e le sfiorò una mano con un bacio.

“Buongiorno Signor Andrew. Sempre molto gentile, grazie. Devo dire che anche lei sembra in splendida forma”, rispose con un lieve inchino della testa.

Si erano conosciuti poche settimane prima, ad un ricevimento a Boston cui avevano partecipato entrambi. Si erano rivisti a Casa Andrew; reciprocamente curiosi, William l’aveva invitata ed avevano finito per parlare a lungo e l’argomento della loro conversazione era scivolato lentamente verso Terence, irrequieto figlio di Eleonor, di nuovo, misteriosamente, scomparso.

 

“Vogliamo entrare?” chiese William aprendo la porta e precedendo  Eleonor nel locale.

Si sedettero ad un tavolino un po’ appartato.

“Candy non è venuta? Ero convinta che ci sarebbe stata anche lei..”

“No, non sa nemmeno di questo incontro”

Eleonor restò sorpresa ed insieme delusa ma prima che potesse dire qualcosa William proseguì.

“Signora Baker...”

“Eleonor, per favore”

“Eleonor, le ho chiesto questo incontro perché vorrei parlare con lei. Scusi la franchezza ma..cosa pensa della situazione in cui si trova Terence?”

Eleonor sospirò: “Non mi ha mai chiesto un consiglio. Tuttavia ho un’idea ben precisa in merito: credo che abbia sbagliato, non doveva rinunciare a Candy. La signorina Marlow poteva essere aiutata in un altro modo, un sacrificio così grande non era affatto necessario”

“Vedo che la pensiamo allo stesso modo.”

Si guardarono negli occhi, entrambi avevano avuto la stessa idea.

 

La mattina successiva William Andrew ed Eleonor Baker si incontrarono nuovamente al caffè per poi avviarsi insieme a casa di Susanna Marlow: avevano concordato che era necessario parlare con la ragazza per cercare di portarla a più miti consigli, anche se Albert era convinto che non sarebbe servito a molto.

 

La carrozza si fermò all’indirizzo indicato, Albert scese ed aiutò la donna a scendere a sua volta. Pagato il vetturino si diressero verso il portone del palazzo. Albert fu sul punto di suonare quando il portone si aprì e ne uscì un uomo distinto, alto, molto ben vestito, i capelli brizzolati accuratamente pettinati e che aveva un’espressione indecifrabile, tra l’adirato e il disgustato. Non salutò ne Albert ne Eleonor come sarebbe stato educato poiché li aveva praticamente urtati. Albert pensò che quell’uomo aveva qualcosa di familiare, gli ricordava qualcuno. Quando si girò per far passare Eleonor la vide pallidissima e nervosa.

“Eleonor, tutto bene? Sembra che lei abbia visto un fantasma!”

“Tutto bene”

“Conosce quell’uomo?”

Annuì, “E’ il Duca di Grandchester, è il padre di Terence”, sempre più pallida, “temo sia venuto per un motivo simile al nostro ma molto meno nobile”

Albert la guardò e comprese: anche lui aveva avuto la sua buona dose di sfuriate da parte della zia su come vanno conservati l’onore e la dignità di una famiglia e ricordava molto bene le parole di Terence a proposito del padre.

Suonarono al portone e si fecero annunciare.

 

“Signorina Marlow” iniziò Albert, “Eleonor ed io abbiamo convenuto che fosse arrivato il momento di parlare di questa situazione, come dire, anomala, in cui si trova. Immagino che riterrà questa un’ingerenza nella sua vita privata ma le faccio presente che anche noi siamo coinvolti in questa situazione, anche se non in prima persona. Prima di andare oltre aggiungerò che ne Candy ne Terence sanno di questa nostra visita.”

“In che modo lei ha a che fare con questa storia?”

“Ho adottato Candy molto tempo fa e mi sono occupato di lei da quando era bambina ed ora credo sia necessario che…”

Susanna sgranò gli occhi.

“Non pronunci quel nome in casa mia!”, sibilò.

“Credo sarà necessario”, le rispose Albert con lo sguardo fermo; mentre Eleonor si era accomodata sul divano Albert era rimasto in piedi come la sua interlocutrice che si appoggiava al bastone e ora la sovrastava mentre lei si era avvicinata con fare minaccioso.

Non era a suo agio in quella situazione, diede un’occhiata ad Eleonor e si rese conto che era ancora sconvolta dall’aver visto Richard Grandchester, in quel momento non gli sarebbe stata d’alcun aiuto.

Susanna dominava a stento la rabbia.

“Ebbene, cosa volete?”, ringhiò.

“Signorina Marlow, non siamo venuti a minacciarla o a imporle condizioni…”

“A quello ci ha già pensato il Duca!”

“Capisco. Non abbiamo intenzione di fare altrettanto, speravamo solo di riuscire a farle comprendere quanto una persona brillante ed intelligente come lei si stia facendo del male con le proprie mani continuando a mantenere in maniera artificiosa questa situazione. Terence se ne è andato perché non riusciva più a sostenere questa situzione.”

“Non voglio più ascoltare nessuno! Siete pregati di uscire da casa mia!”

“Susanna”, Eleonor si era alzata in piedi iniziando a parlare, “Mi stupisco come non riesci a comprendere quanto sta soffrendo mio figlio per questa situazione.”

Susanna la fissò senza risponderle, non poteva sopportare il modo in cui lei era chiaramente schierata.

“USCITE!”, gridò, voltandosi di scatto per non guardarli più.

“Non crede che una donna come lei meriti qualcosa di meglio dell’elemosina?”, Albert le aveva preso le mani e la stava invitando a guardarlo negli occhi; Susanna sollevò il viso, una lunga scia di lacrime bagnava le gote ed il collo.

“Ed io?! Nessuno ci pensa? Pensate che voglia essere una carceriera? Vorrei che Terence fosse felice con me! Cos’ha lei che io non ho? Anche prima dell’incidente c’era sempre lei tra noi!!! Ma io non posso vivere senza Terence!”

Scoppiò in singhiozzi  coprendosi il volto con le mani, Albert appoggiò le mani sulle spalle nel tentativo di consolarla.

In quel mentre entrò la madre che, alla vista della figlia iniziò a gridare: “USCITE DA QUESTA CASA! ANDATEVENE! NON CREDETE CHE STIA GIA’ SOFFRENDO ABBASTANZA!”

Albert si voltò lentamente, fissando con gli occhi stretti la donna che smise all’istante di strepitare, poi rivolto a Susanna le parlò con dolcezza ma le due donne non udirono le parole.

Piano piano la ragazza smise di piangere e tornò a guardare in viso Albert accennando un sorriso debole.

“Va bene…va bene” gli disse con un soffio di voce.

Le diede un bacio lieve sulla fronte e Susanna restò basita, come se l’avesse visto per la prima volta.

Poi Albert si voltò verso Eleonor che gli rispose con un cenno, era ora di andare ma la madre di Susanna non sembrava soddisfatta.

“Cosa siete venuti a fare qui? Che volete da mia figlia?”

“Mamma, ti spiego dopo, lascia che vadano. William, grazie”

Albert rispose con un inchino, “Sa dove trovarmi, resterò in città per un po’, mi farebbe piacere pranzare con lei e con la signora”, disse con un leggero inchino della testa rivolto alla madre di Susanna.

La donna gli rispose irrigidendosi e voltandosi dall’altra parte.

 

Quando furono usciti Albert cercò di fermare una vettura di piazza. Eleonor era ancora pallida.

“Mi spiace di non esserle stata d’aiuto..”, mormorò

“Si sente bene?”

“Sì, sì, grazie..non riesco a capire come abbia fatto Richard a trovare Susanna”, mormorò quasi stesse parlando a se stessa.

“Per oggi basta, l’accompagno a casa”

“Mi domando dove sia ora..”

“Terence?”

“No Richard”, aveva lo sguardo fisso nel vuoto, sembrava risoluta a fare qualcosa…Alzò gli occhi blu verso Albert, “Devo trovarlo e parlargli, devo capire con quali intenzioni è venuto in America”

“Capisco..ha una residenza qui?”

“Non mi risulta..”

“Questo complica le cose…”

Finalmente arrivò una carrozza, Albert ed Eleonor vi salirono e i cavalli ripartirono veloci, il rumore degli zoccoli sul selciato.

 

Susanna si ritirò in camera sua.

Ripensò al colloquio che aveva avuto con il padre di Terence: era rimasta senza parole quando la domestica le aveva detto chi aveva chiesto di vederla.

Si era offerto di aiutarla a riportare Terence da lei, voleva che si sposassero il prima possibile dopo il suo ritorno, ci avrebbe pensato lui a farlo ragionare, così le aveva detto. Era chiaramente indispettito dal comportamento del figlio. Lei aveva fatto fatica a rispondere, non riusciva a credere alle proprie orecchie: pensava che il padre fosse d’accordo con Eleonor ed invece combattevano su due fronti diversi.

Ripensò a William Andrew: il tono della voce diceva molto in merito al legame tra lui e Candy, c’era una nota di apprensione molto simile a quella che aveva Eleonor quando parlava del figlio.

Le parole che le aveva sussurrato all’orecchio erano state dolci e rassicuranti: se Terence fosse tornato non sarebbe rimasta sola, non sarebbe stata abbandonata ma era necessario che Terence potesse scegliere, solo così anche lei sarebbe stata libera di vivere la propria vita.

Lei aveva provato un brivido e una sensazione di calore nel petto a quelle parole ma non sapeva spiegarsi il perché, forse era colpa di  quegli occhi chiari che sembravano vedere tutto. O forse era la sua stanchezza per quella situazione sfibrante.

Il Duca le aveva detto che sarebbe tornato qualora avesse avuto notizie del figlio; sperò fosse presto.

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Capitolo 15
*** Richard ***


Richard

“Sua Grazia scende subito”, annunciò il servitore con un inchino.

Elonor ebbe così il tempo di guardarsi intorno.

Era finalmente riuscita a trovare l’indirizzo di Richard e si era fatta coraggio, non sapeva bene cosa gli avrebbe detto ma sentiva la necessità di parlargli.

La palazzina era di recente costruzione ma il gusto raffinato dell’architettura e dell’arredamento la rendevano adeguata residenza di un duca inglese, riusciva ad immaginare con quale cura maniacale avesse scelto la casa.

Si sorprese a pensare a quando Richard fosse cambiato in tutti quegli anni: era diventato il genere di persona che lei non poteva soffrire, pieno di sé, della nobiltà del suo sangue, dell’onore della casata; non era così quando si erano conosciuti, era molto più simile a Terence, a Candy, allo stesso William.

Si voltò al rumore dei passi del Duca che fece il suo ingresso nel salotto con un’aria infastidita.

“A cosa debbo l’onore della tua visita?”, domandò con sguardo glaciale.

“A cosa debbo l’onore che ti interessi delle sorti di mio figlio?”, rispose lei senza preamboli.

“Vorrai dire mio figlio!”

Eleonor lo squadrò disgustata.

“Solo perché porta il tuo nome, non certo perché tu ti sia occupato di lui!”

“Nemmeno tu sei stata una madre così sollecita..”, la voce aveva una vena di acido.

“Me l’hai tolto con la forza e non mi hai permesso di vederlo, l’hai minacciato perché non mi vedesse più..”, nella voce di lei c’era così tanta rabbia repressa che Richard pensò che potesse aggredirlo anche fisicamente.

“Sei venuta a rinfacciarmi di nuovo tutto questo?”, i due continuavano a fronteggiarsi a pochi passi l’uno dall’altra, “e poi ti ho fatto un favore, non ha ostacolato la tua carriera..”.

Lei rispose con uno sguardo carico d’odio.

“Sono venuta per sapere cosa facevi da Susanna Marlow, la settimana scorsa”

“Non ti riguarda..”

 “Se riguarda Terence riguarda anche me!”

“Tu cosa ci facevi lì con quel ragazzo? Chi è?”, la gelosia che si insinuava in lui.

“Non ti riguarda..”

 

Nessuno dei due sembrava propenso a concedere qualcosa all’altro ma poi Eleonor: “Ascolta, lo scontro tra noi non porterà a nulla…immagino tu sia qui per cercare di ritrovare Terence ed è ciò che voglio anch’io…perché non uniamo le nostre forze? Forse avremo più fortuna…”

Fece un passo verso di lui e posò una mano sul suo braccio.

 

Richard continuò a guardarla senza lasciar trapelare i pensieri; non aveva pensato alla possibilità che lei lo cercasse, che potesse trovarsela dinnanzi così, adirata e bella, che la ricerca del figlio lo portasse pericolosamente vicino a quella donna che a voce alta diceva di disprezzare ma che amava alla follia, ancora.

Il duca la guardò negli occhi e sentì tremare il cuore. A distanza di quattordici anni non aveva smesso d’amarla come l’amava il giorno in cui aveva preso il piroscafo portandole via Terence. Aveva ceduto alle pressioni di suo padre e di suo zio, l’aveva ripudiata per sposare una marchesa che non aveva mai desiderato avere accanto. Eleonor lo tormentava nei sogni da allora e adesso era troppo vicina. Con uno sforzo sovraumano si era voltato per andare alla finestra.

Avrebbe voluto gettare la maschera e ricominciare tutto da capo ma ormai era tardi.

 

“Credo sia ora che tu vada”

Eleonor si allontanò da lui risentita, aveva sperato che per amore del figlio smettesse di comportarsi come se lei fosse un’appestata e, almeno per qualche tempo, deponesse le armi.

 

“Mi auguro che tu non faccia cose avventate…Terence se ne è andato perché sta soffrendo, era l’unico modo che aveva per sottrarsi ad una situazione insostenibile, non lo costringere a tornare contro la sua volontà…bisogna che le cose cambino” e se ne andò prendendo con rabbia il soprabito gettato sulla poltrona di pelle amaranto.

 

Restò solo con i propri pensieri.

-Non lo costringere a tornare-

 

Già una volta qualcuno gli aveva detto una frase come quella.

Ora Eleonor gli chiedeva la stessa cosa…sembrava che lui non facesse altro che costringere Terence a fare ciò che non voleva.

 

Aveva seguito l’ascesa del figlio e quella giovane attrice gli era subito parsa la persona ideale per lui. Susanna Marlow dolce e gentile. Era sommamente indispettito dal comportamento tenuto dal figlio: le doveva la vita e lui non era stato capace di comportarsi con onore, sposarla e restarle accanto.

Ricordava bene Candy Andrew, non aveva dimenticato quella sensazione di calore che gli aveva trasmesso, gli aveva aperto gli occhi su Terence, era riuscito a farglielo vedere attraverso le sue iridi verdi piene d’amore ma lei non era affatto auspicabile come nuora: se in passato aveva creduto potessero esserlo, le sue origini ed il suo modo di vivere non la rendevano più desiderabile.

Si era informato su di lei ed era venuto a conoscenza di fatti che gettavano ombra sulla sua moralità.

Era necessario trovare quella ragazza e mettere le cose in chiaro, qualunque fossero i rapporti con il figlio.

E, per il momento, Eleonor doveva restare fuori da tutto questo, lo avrebbe solo ostacolato perché non avrebbe compreso.

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Capitolo 16
*** Ritorno a casa ***


Ritorno a casa

L’angolo dell’autrice

Cara Lauramaria, finalmente riesco a risponderti: il lieto fine ci sarà ma come e con chi per ora non è dato sapere...non vale svelare le carte, men che mai in un racconto... grazie ancora per i complimenti!E grazie anche a tutti coloro che stanno leggendo questa storia.

J

Il treno correva veloce attraversando città, campagne, immense pianure e fiumi: tutto si confondeva davanti a lei. Il finestrino le restituiva l’immagine di una giovane donna, minuta, elegante, dai lunghi capelli dorati che si inanellavano in mille boccoli ribelli e morbidi sulle spalle, i codini che aveva tanto amato portare non c’erano più, da qualche tempo ormai aveva rinunciato a quell’ultimo simbolo di un’innocenza ormai perduta. I grandi occhi verdi, di solito luminosi e vivaci, lasciavano tradire uno smarrimento profondo.

Presto sarebbe stata nuovamente a casa, al sicuro.

Aveva commesso una stupidaggine, non avrebbe mai dovuto cercarlo, lui non le apparteneva più già da tempo, non aveva alcun diritto di ricomparirgli davanti così all’improvviso per tentare di dirgli che aveva sbagliato: era anche colpa sua se era ridotto così…lei l’aveva spinto lontano da se.

 

Sembrava che non fosse passato tutto quel tempo, entrambi avevano ancora negli occhi la stessa luce e nel cuore la stessa disperazione.

 

Quando era arrivata lì era rimasta sconvolta da quello che aveva visto. Non erano la povertà del luogo o le condizioni della casa a metterla a disagio ma la disperazione ed il desiderio di annientamento di se che trasparivano da tutto ciò che lo circondava. Aveva intravisto l’armonica che gli aveva regalato nei giorni felici di Londra, l’aveva ancora ma era coperta da uno spesso strato di polvere. I copioni amati erano buttati in malo modo sulla mensola storta e le lettere, le sue lettere, quelle lettere piene d’amore e di speranza che lei gli aveva scritto, vestita di bianco, giovane allieva, piena di sogni come lui, erano lì, legate con un piccolo nastro rosso, le aveva riconosciute subito: quei ricordi li aveva portati con se ma non li toccava da tempo.

 

In quell’anno dall’ultima volta che l’aveva visto in quello sgangherato teatro da quattro soldi si era convinta di aver raggiunto una certa stabilità emotiva.

Sapere che lui era tornato a vivere la rassicurava e la rendeva ancora più convinta che la decisione che aveva preso fosse quella giusta. Sembrava potesse essere finalmente felice con Susanna.

 

Si era sentita via via più forte, l’amicizia di Albert, sempre al suo fianco, la sosteneva e lei aveva provato a toglierselo dal cuore, aveva provato a trovare un ruolo nuovo accanto a quell’angelo che non faceva che proteggerla e amarla, ma non ci era riuscita.

La notizia della sua nuova scomparsa l’aveva gettata nel panico per diversi giorni: aveva avuto il terrore di leggere della sua morte.

E aveva ferito Albert, questo non se lo sarebbe mai perdonata.

Eleonor l’aveva supplicata di aiutarla: era riuscita a trovare il figlio con l’aiuto di un investigatore privato ed era convinta che solo Candy potesse aiutarlo.

 

Era convinta di saper gestire la presenza di Terence, di dominare quell’irrequietudine che le stava crescendo dentro da quando lui era scomparso, che sarebbe stata in grado di avere ragione di lui e di se stessa. Era partita incapace di resistere ancora senza sapere come stava, cosa faceva. La lettera preoccupata della madre, il loro colloquio, l’aveva resa ancora più irrequieta di quanto non fosse dopo la sua scomparsa.

Aveva lasciato che i loro sentimenti ed il loro istinto soggiogassero la loro volontà: quando lui le aveva cinto la vita con le mani, in una presa disperata come quella notte d’inverno, lei aveva compreso in un istante la natura di quel languore che aveva provato da quando aveva deciso di partire alla sua ricerca.

 

Ora guardava il paesaggio scorrere dinnanzi ai suoi occhi e pensava a quelle poche parole che gli aveva lasciato, non era stata in grado di scrivere altro. La vergogna ed il rimorso avevano preso il sopravvento ed era andata via prima dell’alba; non aveva smesso di piangere da allora.

 

Lunghi giorni di viaggio. Ancora poche ore e sarebbe stata al sicuro, non avrebbe detto niente a nessuno, nemmeno a lui, al suo angelo che l’aveva accompagnata alla stazione e l’aveva lasciata partire con un’espressione molto preoccupata negli occhi azzurro cupo.

 

 

 

La grande stazione di Chicago era rumorosa ed indaffarata, un via vai incessante di persone e merci.

Locomotori sbuffanti sembravano fare le fusa vicino alle pensiline mentre passeggeri carichi di bagagli salivano e scendevano dalle carrozze.

Candy scese ed impiegò poco ad individuare il suo angelo biondo che l’aspettava, sovrastando molte delle teste intorno a lui; gli aveva mandato un telegramma quando il treno si trovava a Salt Lake City, il viaggio da Portland era stato lungo e non vedeva l’ora di arrivare.

Albert era sorridente ma lo sguardo era preoccupato.

“Ciao piccola, come stai?”, le disse stringendola in un abbraccio affettuoso.

Lei represse le lacrime che continuavano a voler uscire, sentiva la testa vuota.

“Bene, tutto bene”, rispose con un sorriso, “sono solo stanca per il viaggio, è lunghissimo!”

“Allora?”

“Non l’ho trovato”, mentì.

“Mmmm…”, Albert non sembrava convinto della risposta ma per il momento si accontentò, “Vieni, andiamo a casa, avrai voglia di fare un bagno e poi stasera c’è una cena..”

“Non avrai detto niente a nessuno, vero?”

“No, no, ma ho pensato che, in qualunque modo finisse la faccenda, ti avrebbe fatto piacere vedere i tuoi amici e così stasera abbiamo organizzato un pic nic sul lago ed una gita in barca al tramonto”

Lei sorrise, era sempre così dolce e premuroso, non sapeva proprio come avrebbe fatto senza di lui.

Era partita raccontando che sarebbe andata a trovare una delle colleghe infermiere sulla west coast, non voleva che qualcuno sapesse, stava già male a sufficienza senza dover difendere le proprie ragioni con gli amici e non se la sentiva di vedere lo sguardo di rimprovero di Archie che considerava Terence indegno di lei.

 

La villa degli Andrew appariva enorme nella luce del tramonto che incombeva.

Piccoli lampioncini erano appesi sotto il gazebo in riva al lago ed un’allegra combriccola stava cenando seduta intorno al tavolo al fresco.

Albert aveva riunito Archie, Annie, Patty, Stear, Martin, anche George era con loro, come sempre.

Stavano finendo il dolce e Stear e Archie si contendevano l’ultima fetta, facendo ridere gli altri quando Klin e Puppe, il procione e la puzzola, ebbero la meglio portandosi via l’ultimo pezzo sotto il loro naso e andarono ad accoccolarsi in grembo a Candy per dividersi il bottino. Albert era seduto di fronte a lei e non aveva smesso di osservarla da quando era tornata: sentiva dentro che gli nascondeva qualcosa, si stava sforzando di apparire serena ed allegra ma un velo di tristezza passava sulle iridi smeraldine. Non era la delusione per non averlo trovato, c’era dell’altro.

Ora lei stava accarezzando i due animali ma lo sguardo era perso nel vuoto, solo lui sembrava accorgersene.

 

Le due coppie si alzarono per raggiungere l’imbarcadero e fare un giro sul lago prima che la luce scomparisse. George e Martin si erano lanciati in una discussione di cui lei non afferrava le parole.

Vide Albert alzarsi e venire verso di lei porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi a sua volta.

“Vieni? Mica vorrai restare lì tutta la sera?”, lo sguardo era dolce e attento, un sorriso accennato e sereno. Lui riusciva a farla sentire sicura anche quando, come ora, tutto intorno a lei stava vacillando e cadendo.

Lo seguì senza dire una parola fino alla barca, dove lui l’aiutò a salire. Pochi colpi di remi e si allontanarono dalla riva, gli amici li stavano chiamando a gran voce ma lui lasciò andare la barca per inerzia, smettendo di remare.

Le onde li cullavano dolcemente, il lago sembrava una distesa di porpora e oro, lontano si sentiva lo stormire degli alti alberi lungo la riva, il vento lieve increspava appena la superficie dell’acqua via via più scura, tutto sembrava ispirare quiete e serenità.

Albert continuava a guardare Candy ma lei, appoggiata al bordo della barca, fissava l’acqua sfiorandola con un dito.

“Mi vuoi dire cosa è successo?”

Non rispose ma grandi lacrime caddero come cristalli nell’acqua scura.

“L’hai trovato, vero?”

Annuì.

“Vuoi parlarne?”

Scosse la testa: “Non me la sento, scusa”

“Non ti preoccupare…”

“Albert..”

“Sì..”

“Se mi dovesse cercare…se per caso dovesse venire fin qui…ti prego, fa in modo che non sappia dove trovarmi…”

“Ma..”

“Non chiedermi nulla, non ora, non voglio più vederlo! E’ stato un errore andare”, continuava a guardare l’acqua scura e grandi lacrime segnavano cerchi concentrici sulla superficie ormai completamente calma del lago.

“Va bene, farò come vuoi”, non riusciva a negarle nulla, non quando la vedeva soffrire così, avrebbe voluto sapere il perché di quel nuovo dolore, così forte che faceva star male anche lui.

“Grazie”, la voce era spenta.

“Piccola…”, quanta tenerezza e affetto in quella parola.

Lei si voltò e lo fissò negli occhi: la calma che traspariva da tutta la sua persona la fece sentire ancora più instabile, inadeguata, fragile. Scoppiò in un pianto dirotto coprendosi il volto.

Albert sospirò, passandosi una mano sulla fronte e fra i capelli, poi si mosse piano fino ad arrivare accanto a lei, le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse forte lasciando che gli bagnasse la camicia di lacrime.

Restarono così a lungo, cullati dall’acqua. La notte era scesa e gli altri erano già rientrati da un pezzo alla villa quando loro due toccarono nuovamente la riva erbosa.

Albert legò la barca mentre Candy lo fissava come ipnotizzata.

“Che hai? Sei sicura di star bene?”, squadrandola.

“Sì, sì, ora sì”

“Sai che non ne sono affatto convinto, vero?”

“Sì ma non me la sento di parlarne stasera.”

“Va bene, vieni, rientriamo, inizia a fare fresco e tu sei vestita troppo poco”.

 

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Capitolo 17
*** Una foto dal passato ***


Una foto dal passato

Chiuse la stilografica con un sospiro e la posò sui contratti che aveva di fronte a se.

Si era rifiutato categoricamente di rispondere al posto di Candy alla lettera che Terence le aveva scritto, lettera di cui nemmeno la ragazza conosceva il contenuto perché l’aveva ridotta in mille briciole senza nemmeno leggerla. Sentiva che non era la cosa giusta da fare.

La sera stava scendendo sulla città, il cielo rosa e oro pareva voler contrastare l’arrivo della notte e Albert era ancora nello studio privato.

Stava rimettendo ordine nella confusione che riusciva a creare sulla scrivania quando lavorava: dopo un po’ non ci capiva più niente e doveva passare mezza giornata a riordinare faldoni e cassetti.

Da una pila di fogli in un cassetto emerse un porta documenti in pelle scura, era quello in cui teneva la corrispondenza quando vagabondava con lo zaino in spalla insieme a Puppe, era convinto di averlo perso chissà dove.

Lo aprì e ne emersero fogli di carta da lettera e buste, ben diverse da quelle che usava ora, con lo stemma della famiglia e le proprie iniziali in oro.

 

Tra i fogli ancora bianchi c’erano appunti di viaggio, bozze di lettere che aveva spedito: trovò la brutta copia di quella che aveva inviato a Candy dall’Africa e molte altre.

 

In un’altra busta trovò delle foto, quella della sorella Rose con Anthony ancora in fasce fra le sue braccia, quella di Archie e Stear con il costume tradizionale scozzese del clan cui la loro famiglia appartiene, quella dei genitori, sorridenti, con lui ed le sue tre sorelle.

Cercò ancora e ne trovò un’altra, più piccola. Essa apparteneva ad un passato ormai lontano.

Le mani gli tremarono.

La foto color seppia gli restituiva l’immagine di una ragazza dai lunghi capelli, leggermente mossi, chiari come gli occhi, grandi ed espressivi. Portava la divisa da infermiera, un’espressione dolce sul viso pulito, lui accanto a lei, in abiti coloniali. Sullo sfondo un piccolo edificio in legno, persone in fila per salire la piccola scala, donne e bambini di colore.

Un nodo in gola ed il cuore gonfio di nostalgia.

Albert si ritrovò spesso a guardare quella fotografia.

Lui in Africa, in quel piccolo ambulatorio in mezzo alla savana: era quanto di più bello avesse mai vissuto, quanto di più appagante. Provava un’infinita nostalgia.

 

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Capitolo 18
*** Notturno ***


Notturno

Candy udì il pianoforte suonare mentre camminava lungo il corridoio al primo piano. Si sentiva sempre più confusa, ogni cosa le sembrava priva di senso. Erano passati già più di due mesi e l’estate aveva lasciato posto alla luce dorata di fine settembre.

 

Ormai ogni notte si svegliava di soprassalto, le sembrava di sentire il respiro regolare di lui che dormiva accanto a lei, nello squallore di quella povera stanza.

Non sarebbe mai dovuta andare, non avrebbe mai dovuto andare via da lui in quel modo.

Se n’era andata dopo averlo guardato a lungo mentre dormiva, nella penombra i lineamenti del ragazzo avevano finalmente perso quella contrazione dolorosa che lei aveva visto in tutti quegli anni.

 

Il pianoforte continuava a suonare un notturno di Chopin, dolce e struggente, che ben si accordava con quello che provava in quel momento.

Si domandò chi stesse suonando: lo strumento restava silenzioso molto a lungo aspettando che Annie talvolta lo risvegliasse.

Arrivò all’altezza della sala della musica e sbirciò dalla porta socchiusa: con suo grande stupore vide che era Albert; le dava le spalle e non si accorse di lei che entrò in punta di piedi per non disturbarlo. Finì di suonare il  pezzo e appoggiando i gomiti sul leggio si prese il viso tra le mani sospirando, poi si lasciò sfuggire “Candy…”, come un gemito sommesso.

“Come hai fatto ad accorgerti di me? Sono stata silenziosa..”

Albert sobbalzò, irrigidendosi.

Si voltò sorridendole ma era teso.

“Scusa, non volevo spaventarti, non sapevo che suonassi anche il pianoforte e così bene..”

Albert si schermì con una mano. “Me la cavo meglio col pianoforte che con certe lumache che strisciano…ma non è  niente di che…”

“Perché non continui?” gli chiese sedendosi accanto a lui davanti alla tastiera, dandogli un colpetto con la spalla.

Lui ricominciò a suonare e Candy seguiva le dita agili muoversi davanti a lei: un altro notturno, malinconico e dolce.

La musica finì e lei gli chiese: “Perché hai detto il mio nome, prima, se non ti eri accorto di me?”

Albert contrasse la mascella ma lei non si accorse di quel segno di nervosismo, stava guardando i propri piedi giocare con i pedali del pianoforte.

“Ti stavo pensando, sono preoccupato. Da quando sei tornata sei sempre più strana, parli poco, mangi ancora meno, Martin mi dice che sul lavoro sei sempre più distratta…Mi dici cos’è accaduto con Terence, vorrei poter fare qualcosa. Sarebbe stato meglio se ci fossi andato io.”

“Abbiamo litigato, ecco tutto, e ci siamo lasciati in malo modo”.

La guardò, pensieroso, poi si decise.

“Forse hai bisogno di distrarti un po’, che ne dici di venire con me stavolta?”

Lei lo guardò sorpresa, la bocca aperta che lui le chiuse con un dito ridendo.

“Sai che sembri un pesce così?” e continuò a ridere, provocando un rabbuffo di lei, che lo spinse facendolo cadere. Risero entrambi.

“Allora vieni?”, le chiese nuovamente, alzandosi.

“Dove devi andare?”

“Devo scendere in Florida, poi Boston e New York. Ci vorranno un paio di mesi prima di tornare qui. Pensi che Martin possa fare a meno di te per tutto questo tempo?”

“Glielo chiederò ma credo di sì”

“Vuoi avvisare Eleonor Baker che saremo a New York tra un mesetto?”

“Non saprei che dirle”

“Ad esempio come sta Terence?”

“Meglio di no..”

Lui alzò un sopracciglio.

“La situazione era anche peggiore di quando l’hai trovato a Rockstown.”

Gli occhi della ragazza si persero nel vuoto, Albert si sedette di nuovo accanto a lei e le prese una mano, intrecciando le dita con le sue e lei ricominciò a raccontare: “Non recita più da tanto tempo, la mia armonica… fa lo stalliere in una fattoria..ha ripreso a bere, tanto, e…avresti dovuto vedere la stanza…”, la voce le si spezzò completamente, “tutto così sporco e fatiscente, così…triste e desolante, come fa , come fa a..”, la voce le morì in gola, tremava.

 “Cosa vi siete detti?”

Albert la incoraggiò con lo sguardo ma lei non riusciva a continuare.

“Non molto”, questo era vero, pensò Candy, non avevano parlato molto.

“Perché non è tornato indietro con te?”

Scrollò la testa..non si poteva…non poteva dirgli cos’era accaduto, perché era fuggita…si vergognava di quello che aveva fatto, non voleva che nessuno sapesse…nemmeno Albert, si sarebbe certo vergognato di lei….non avrebbe dovuto cedere così….le signorine ben educate non si comportano così, non si lasciano andare fra le braccia di un uomo che non sia il marito…se lo avessero saputo Suor Maria e Suor Maria…penserebbero di aver allevato una svergognata senza pudore….non poteva dire nulla, doveva restare un segreto. Terence: non l’avrebbe più visto, era così che doveva andare…

“Non è quello che avresti dovuto dirgli, lo sai!”…la voce di Albert la risvegliò da quei pensieri.

“E’ l’unica cosa che si poteva fare, l’unica cosa giusta, me l’hai detto anche tu quando sono tornata..quella volta..”, aveva il respiro affannoso al ricordo di quel viaggio, si alzò.

“Forse allora non avevo capito a cosa vi avrebbe portato quella scelta…vi state distruggendo ….”

Candy abbassò la testa e se ne andò senza proferire parola.

 

Albert restò seduto al pianoforte, la testa fra le mani.

Non sapeva che fare, non sapeva più cosa fare.

Dopo averla vista tornare nuovamente in quello stato, era assolutamente conscio di dover definitivamente mettere da parte ciò che provava e scuotersi da quella sorta di attesa che aveva vissuto fino a quel momento: doveva fare qualcosa prima che fosse troppo tardi.

Albert aveva sperato che con il passare del tempo il dolore di Candy si sarebbe lentamente addolcito.

Era certo che solo un cambiamento potesse giovare alla ragazza, anche se quel viaggio insieme avrebbe alimentato ulteriori illazioni su di loro: non gli importava molto, potevano scrivere quello che volevano, l’unica cosa importante era che Candy tornasse ad essere un po’ più serena.

Di se non sapeva cosa pensare e forse era meglio non pensare: in lui non era cambiato nulla malgrado i mesi passati lontano da lei a New York e la speranza era come una luce in fondo ad un lungo corridoio.

 

Dopo quasi un’ora Albert si alzò dal pianoforte e andò a dare le prime disposizioni per la loro partenza: il treno per Boston era stato prenotato, doveva modificare le prenotazioni, sarebbero partiti entro pochi giorni.

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Capitolo 19
*** Il Duca ***


Il duca

“La signorina Andrew scenderà subito”

Il Duca osservava con interesse il grande salone di Casa Andrew, arredato con un lusso e con un gusto che difficilmente si poteva vedere nelle residenze americane.

Dopo lunghe ricerche e meditazioni aveva deciso di parlare con Candy Andrew per capire cosa sapeva del figlio.

“Buongiorno signor Duca”

“Buongiorno signorina Candy”

Candy lo invitò ad accomodarsi con un gesto ma il Duca restò in piedi e così fece anche lei.

“Mi dica, per quale motivo è qui?”

“Dovrebbe immaginarlo..”

Lei abbassò gli occhi: “Sì, ma non vedo come posso esserle utile..”

“Mi vuol dire che non sa dove sia Terence?”

“No, non lo so”, mentì.

“Signorina, l’ultima volta che ci siamo visti lei mi ha chiesto di lasciare libero mio figlio, ma il risultato non è stato dei migliori: è la seconda volta che fa perdere le proprie tracce e stavolta sono determinato a trovarlo e riportarlo a casa”

Candy lo fissò senza parlare: l’immagine di Terence addormentato nella penombra del mattino le tornò in mente con forza. Sentì gli occhi che bruciavano.

“La scomparsa di Terence non ha nulla a che vedere con quella mia richiesta ne con la scelta di fare l’attore.”, rispose piano

“Come fa a saperlo?”, la voce era aspra.

“Lo so e basta”, mormorò.

“Io credo, invece, che lei in tutta questa storia abbia un ruolo non marginale, che la signorina Marlow non ha voluto spiegare ma posso immaginare. Io non credo che una ragazza nella sua posizione, per quanto porti un nome importante, possa pensare di mettere gli occhi su mio figlio. In Inghilterra non avevo capito che tipo di persona lei fosse. Da quando sono arrivato qui ho raccolto molti elementi che mi fanno pensare che la sua moralità non sia così cristallina come voleva darmi ad intendere.”

Candy piantò gli occhi in faccia al Duca, i pugni stretti per la rabbia: “Cosa vuol dire?! Lei non sa proprio nulla!”

“So molto più di quanto lei creda e se anche riuscisse ad ingannare Terence e sua madre, con me non ha molte speranze, conosco le persone come lei e non ho intenzione di permettere che il buon nome dei Grandchester venga macchiato dalla presenza di una ragazza dalle origini sconosciute e dal comportamento immorale.”

“Lei non sa nemmeno di cosa sta parlando, come si permette?!”

“Dalla sua reazione vedo che ho centrato il problema, signorina. Terence deve tornare alla propria vita e se questo avverrà non ci deve essere più nulla che sconvolga, mi ha capito? Sono pronto a fare qualsiasi cosa perché tutto si sistemi e lei non si metta in mezzo. Ognuno ha il suo prezzo e credo lo abbia anche lei. ”

Candy ormai non era più in grado di reggere la conversazione, aveva una sensazione di nausea che non riusciva quasi a dominare.

“Se dovessi incontrare Terence saprò io cosa dirgli ed ora, se mi vuole scusare, non mi sento molto bene, addio Duca, le auguro di trovarlo” e, appena fuori dalla stanza, corse in bagno reprimendo un conato di vomito, il viso bagnato, gli occhi ciechi.

 

Il Duca si era avviato verso l’ingresso quando una voce maschile lo fermò:

“Lei è il Duca di Grandchester, giusto?”

Si voltò.

“E lei chi è, di grazia?”, lo aveva riconosciuto, era il ragazzo che aveva visto con Eleonor.

“William Andrew”

Il Duca salutò con un inchino accennato e forzato.

“A cosa debbo l’onore della visita?”

“Avevo bisogno di parlare con la signorina Candy”

“La faccio chiamare?”, gli rispose facendo finta di non aver visto Candy correre via.

“Non si disturbi, le ho già parlato”

“Sì e ho visto il risultato…”, la voce era falsamente cortese, gli occhi freddi.

Il Duca lo fissò e William proseguì: “Non permetto a nessuno di venire in casa mia e minacciare la mia famiglia”.

“La sua famiglia”, aveva le labbra atteggiate in un sorriso sarcastico,”mmm…già…La signorina Candy non deve più avvicinarsi a mio figlio, ero venuto a mettere in chiaro questo”

“Lei crede davvero di conoscere quale sia la cosa migliore per suo figlio?”

“Pensa di conoscerlo meglio di me che sono suo padre?”, un sorriso sardonico sulle labbra.

“Sì, direi di sì e lei sta facendo un grosso errore. Candy è l’unica che possa aiutare Terence.”

“Ho i miei dubbi su questo..”, era ormai sulla soglia, “Mi stupisco che una famiglia come la vostra abbia accolto una persona del genere e le abbia dato un nome”

“Il nome è solo una minima parte di una persona, la nobiltà d’animo non sempre va di pari passo con la nobiltà del titolo”, gli occhi azzurri di William Andrew erano gelidi e fissavano il Duca con aria di sfida, la voce lasciava trasparire il disprezzo.

“Mi auguro che le nostre strade non si incrocino mai più”

“Temo per lei che non sarà così”

“Addio” e chiuse la porta dietro di sé.

Che insolente, pensò il duca.

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Capitolo 20
*** Un vaso di rose bianche ***


Un vaso di rose bianche

Perché sei andata via?! Perché vuoi essere una cometa nella mia vita? Sei la mia Stella Polare e non te ne accorgi nemmeno.  Quanto pensi che io possa resistere a tutto questo? Come posso tornare ora da lei? Ora che ti ho avuta, anche solo per una notte…Mi hai voluto anche se sono così indegno..io non posso lasciarti andare! Sembri sabbia fra le mie dita… Ti voglio ancora, ti voglio per tutta la vita. Amore mio, non rifarò lo stesso errore, non ti lascerò andare ancora

Come mai sei venuta fin qui? E io che pensavo di averti perduta per sempre, io che pensavo fossi di un altro…mi sono dunque ingannato così?E’ stato tutto un equivoco dunque? Abbiamo sofferto per niente? Perché te ne sei andata, perché?!?

 

Ormai fa lo stesso sogno tutte le notti: si sveglia accanto a lei, in una piccola casa luminosa, con il profumo dei tigli che permea l’aria; quando si volta lei non c’è, al suo posto Susanna, che porta in grembo suo figlio. Si sente soffocare, annaspa nel sonno, poi si sveglia di colpo.

 

Sono già passati due mesi da quel giorno in cui lei è passata come una meteora nella sua vita.

Non cercarmi, non mi troverai, una minaccia, una promessa. L’ha cercata ma non l’ha trovata, nessuna risposta alla sua lettera.

Nessuna risposta nemmeno da sua madre, in tournee è irraggiungibile…se solo riuscisse a trovarla.

Deve stringere i denti e lottare, lottare per riuscire a guadagnare di più, tutto quello che aveva del teatro non esiste più, la maggior parte è andato a Susanna, il resto l’ha buttato ai quattro venti, tra gioco d’azzardo, alcool, elemosina a chi sembrava avesse qualche speranza di essere felice.

Soldi spesi ancora prima di averli , debiti su debiti da saldare, solo ora si rende conto di quanto è caduto in basso, di quanta dignità ha perduto.

Deve stringere i denti ed aspettare, aspettare di partire, non può far altro.

Può solo pensare, se non diventa pazzo prima.

Vuoto, nostalgia, dolore, senso di impotenza.

Ricorda ancora molto bene il giorno in cui aveva visto la foto sul giornale, era arrivato davanti al teatro e si era chiesto che senso avesse andare avanti: aveva fatto tutto per lei, perché lei potesse essere ancora orgogliosa di lui.

Fino ad allora qualcosa di inspiegabile gli aveva detto che lei lo amava ancora, qualcosa che non aveva un fondamento razionale, qualcosa che gliela aveva fatta sentire vicina, come se potesse leggerle nella mente malgrado la distanza. Un argenteo filo sottile fatto di sogni e di speranza che univa le loro anime.

La realtà gli era stata sbattuta in faccia dalle pagine di un giornale: il filo argenteo era solo suo, lei, la sua anima, erano di un altro, di quello che per giunta avrebbe dovuto essere il suo migliore amico.

Gli era venuto in odio tutto: non avrebbe potuto sopportare un minuto di più i volti di coloro che aveva visto fino a quel momento, ripetere una vita che gli ricordava lei, meglio sparire, diventare altro, meglio perdersi.

Tristezza, solo tristezza, per giorni e mesi e voglia di chiudersi su se stesso come un riccio, per lasciare fuori il mondo. E aveva dormito in quella posizione, quando ci era riuscito: arrotolato su se stesso, l’unico modo perché lo stomaco non gli facesse male dai crampi che da lì partivano e lo facevano gemere di dolore quando arrivavano a chiudergli la gola.

Aveva fatto di tutto, tutti i lavori più pesanti che era riuscito a trovare: la spossatezza fisica riusciva a dare un po’ di requie alla mente, insieme allo stordimento del bere, e talvolta riusciva a dormire sonni un po’ meno agitati.

Il cibo non lo aveva mai interessato, in quei mesi ancora meno, il viso più scavato, gli occhi cerchiati. Spesso si era cacciato in una rissa o l’aveva provocata: talvolta aveva sperato che qualcuno lo uccidesse e ponesse fine alle sue sofferenze.

Poi lei, lei riapparsa dal nulla, senza una spiegazione, senza un perché: parole non dette e gesti che parlavano. Più pensa a quello che era accaduto e meno capisce.

Dov’è lei ora? Cosa sta facendo? Con chi è?

Perché è scappata così?

Ricorda bene di aver pianto fino a dormire quel giorno, dopo aver letto il biglietto. Ricorda bene lo stordimento con cui è arrivato a casa quella sera: bere era l’unico modo per trascinare un’esistenza altrimenti senza senso.

Ma lei?

Lei sembrava un angelo sceso sulla terra per ricordare agli uomini l’esistenza del Paradiso ma era un angelo triste, con la notte negli occhi, una notte senza quelle stelle che lui aveva imparato ad amare nei giorni felici in riva al lago.

Dov’erano andate quelle stelle? Forse erano state spazzate via da una tormenta di neve in una notte d’inverno insieme ai suoi sogni di una vita felice con lei.

Doveva tornare e trovare quelle stelle che erano l’unica via per il Paradiso.

Quello che hanno sopportato in quegli anni è qualcosa che va al di là di qualsiasi soglia del dolore e della disperazione: non è più disposto a scendere a compromessi, a venire a patti con il destino scritto da altri, niente e nessuno si metterà nuovamente in mezzo. Nemmeno Albert. Nemmeno Susanna.

 

Prende l’armonica e comincia a suonare. Suona per lei lontana. Suona e spera che lei lo possa sentire, che per qualche misterioso miracolo le note arrivino fino a lei.

Si guarda intorno: tutto sembra pronto ad accogliere un ospite…ha faticato tanto, niente più bottiglie vuote qui e là, una mano di calce a pulire i muri, ora bianchi, il mobilio rimesso a posto, una tovaglia colorata sul tavolino…c’è anche un piccolo vaso di fiori…rose, rose bianche…se lei tornerà…

 

Dopo tanti mesi riesce quasi a sorridere..la speranza di rivederla…e quelle rose bianche che sanno di lei…

 

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Capitolo 21
*** Finalmente ad Est ***


Finalmente ad Est

“Ragazzo mio, entra, non restare lì, comincia a fare freddo”

“Grazie”, disse varcando la soglia di legno con fare incerto.

Nel caminetto il fuoco scoppiettava, poco dopo una giovane suora alta e snella, una donna anziana dalle linee morbide, ed un giovane uomo sedevano intorno al tavolo sorbendo una tazza di the caldo.

“Mio caro, mi dispiace ma non la vediamo da tanto. L’ultima volta che è stata qui era a giugno, è venuta con il signor William e George a trovarci. Ora lavora a Chicago, nella clinica del dottor Martin. Dovrai cercarla lì”

“Bene, la ringrazio per la gentilezza, spero di rivedervi ancora”, disse il ragazzo alzandosi e prendendo il mantello un po’ logoro.

Le due donne lo guardarono, era cambiato molto da quando l’avevano visto per la prima volta, ospite inaspettato ed enigmatico.

“Non vuoi restare per cena?”

“Vi ringrazio ma preferisco partire subito”

“Comincia a fare freddo, vuoi un mantello più pesante? Tra poco ti sarà necessario..”, i vestiti del giovane erano leggeri e l’autunno, con il suo vento e le sue piogge era iniziato.

“Vi ringrazio ma ne ho già uno..a presto”, ed uscì, avviandosi a testa china verso il grande albero sulla collina.

 

 

“Tu devi essere Terence!”

“Come fa a saperlo?”, gli occhi si strinsero, minacciosi.

“Beh, non è difficile quando si ha un’infermiera che parla di te e tu che hai le foto su tutti i giornali”

In un altro momento la cosa lo avrebbe infastidito ma in questo momento il fatto che quell’ometto basso lo conoscesse gli evitava un sacco di spiegazioni che non aveva voglia di dare.

“Candy dov’è?”

“Non è qui, è partita, starà via per un po’”

“Quando torna?”

“Non lo so, di preciso non me lo hanno detto”

“Hanno?”

“Mmmm…ho detto hanno?”

Terence lo guardò in tralice ma Martin si morse un labbro ed aggiunse: “Scusami ma i pazienti stanno aspettando e senza Candy..” e non finì la frase, facendo entrare uno dei bimbi in attesa.

Terence si strinse nel mantello e ripensò a quella frase: forse sapeva il perché di quel plurale.

 

“Signor George, c’è un ragazzo che desidera parlare con il signor William, gli ho detto che non è in città ma ha insistito tanto che mi sono visto costretto a dirgli di aspettare mentre venivo a chiamarla”

“Di chi si tratta?”, chiese sollevando un sopracciglio.

“Non ha voluto dirlo”

“Dov’è adesso?”

“Nel salottino dabbasso”

“Vengo”

 

Lo riconobbe subito.

“Signor Grandchester, buongiorno, a cosa debbo la visita?”

Terence alzò un sopracciglio, era convinto di aver già visto quell’uomo poi ricordò.

“Buongiorno”, gli rispose tendendogli la mano, “Sto cercando la signorina Candy, lei mi sa dire dove si trova?”

George aveva avuto precise istruzioni da William.

“Non è qui in questo momento”

“E dov’è? So che è partita”

Da chi l’avrà saputo?

“E’ in viaggio con il signor William. Lui aveva una serie di impegni di lavoro e le ha chiesto di accompagnarla.”

“E da quanto sono via?”

George era riluttante a rispondere ma Terence non sembrava disposto a rinunciare ad una risposta.

“Sono partiti da circa un mese.”

“Quando torneranno?”, cominciava a diventare nervoso e non si sentiva bene.

“Non credo prima di un paio di settimane o forse più”

“Lunghetto il viaggio, eh? Credo che lei sappia dove sono ora…”

George continuava ad essere restio a rispondere ma Terence era immobile ed irremovibile.

“A Boston”

“ E dove alloggiano?”

George non rispose, temporeggiva, ma il ragazzo stava assumendo un’espressione irata.

“Al Lenox”

“Bene, grazie” ed uscì senza nemmeno aspettare la risposta.

William non sarà molto felice di sapere che ho fornito tutte queste indicazioni ma se quei due ragazzi si ritrovano forse in questa famiglia ci sarà un po’ di pace e, prima o poi, anche William riuscirà a dimenticare.

 

Boston, sotto la neve, una settimana dopo, Hotel Lenox.

 

“Buongiorno, cosa posso fare per lei?”

Il portiere squadrò il ragazzo che aveva davanti. I tratti del viso e i modi di fare contrastavano nettamente con l’abbigliamento, trasandato, consunto e poco adatto alla stagione. Aveva gli occhi lucidi, come chi non sta bene.

“Buongiorno, avrei bisogno di un’informazione, sto cercando il signore e la signorina Andrew, mi sa dire se sono ancora in albergo?”

“Mi spiace sono partiti da circa un’ora..”

 “Per caso non sa dove erano diretti?”

“Mi faccia vedere…sì, erano diretti alla stazione, li ha portati il nostro autista…”

A Terence girò la testa, allora era lei quella che aveva intravisto alla stazione, subito nascosta dall’incessante movimento della folla e non si era ingannato quando gli era sembrato di vedere Albert di spalle.

“Signore, si sente bene? ….Signore?”

Lo sguardo di Terence si offuscò, le voci intono a lui sempre più deboli, poi il nero.

Il portiere lo soccorse: bruciava per la febbre, fu chiamata un’ambulanza mentre il ragazzo veniva adagiato su uno dei divani della hall.

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Capitolo 22
*** Ultimo giorno dell'anno ***


Ultimo giorno dell’anno

Ultimo giorno dell’anno.

Il roseto dormiva sotto la bianca coltre di neve sognando la primavera ancora lontana.

La neve danzava scendendo dal cielo in larghe falde e coprendo tetti, cancelli, alberi con grandi pennellate che sembravano di zucchero impalpabile.

Il grande abete, che il signor Whitman aveva decorato, scintillava di fronte al portico d’ingresso. Alcuni domestici cercavano di aver ragione della neve che continuava a scendere, tentando di mantenere libero il viale d’ingresso per le auto e le carrozze che di lì a poco sarebbero arrivate per il tradizionale ballo di fine anno della famiglia Andrew.

 

Lei e Albert, appena tornati dal viaggio, avevano trascorso il Natale alla casa di Pony insieme ad Archie, Stear, Annie e Patty, con i bambini, Tom e suo padre, Jimmy e il signor Cartwrite, Miss Pony e Suor Maria ma non avevano potuto sottrarsi al dover essere presenti alla festa di capodanno che la famiglia Andrew organizzava, per tradizione, a Lakewood.

 

Candy continuava a guardare la danza dei fiocchi di neve, incantata. La pendola suonò le cinque, fuori ormai era buio. Gettò ancora un pezzo di legna nel fuoco che lanciò mille scintille ed iniziò a spogliarsi e a prepararsi al bagno.

 

Nuda, si guardò nel grande specchio dalla cornice dorata che le restituì l’immagine di una ragazza dalla pelle bianca, cosparsa di efelidi come il viso, i lunghi capelli sciolti, biondi e ricci che le scendevano sulle spalle. Era piccola e minuta, il corpo snello e ben tornito, braccia sottili, mani dalle dita lunghe e fini, piccoli piedi eleganti. Aveva ragione Archie quando le diceva che se avesse voluto avrebbe potuto far girare la testa a qualunque uomo ma gli occhi verdi come smeraldi erano velati di tristezza: l’unico che aveva mai desiderato non era con lei.

 

Con le mani accarezzò il ventre che mostrava una rotondità che ormai cominciava a diventare evidente: ancora poco tempo e non avrebbe potuto più nasconderlo sotto gli abiti pesanti e i capotti.

 

Una lacrima le scese su una guancia lasciando un solco umido.

Nei suoi sogni di bambina aveva immaginato quella fase della sua vita in modo molto diverso.

Nei suoi sogni vedeva la sua casa come un piccolo nido, un posto caldo e accogliente, un camino acceso e davanti ad esso una coppia.

Nei suoi sogni l’attesa di quella vita che nasceva scaldava più del fuoco di quel camino; nella realtà nulla riusciva a strapparla da quel deserto algido che sentiva intorno a sé, nemmeno il sorriso materno di Miss Pony, nemmeno la serenità di Suor Maria, nemmeno l’amore di Albert, sempre forte malgrado il suo tentativo di celarlo dietro l’amicizia.

 

Si sentiva terribilmente sola, non aveva ancora avuto il coraggio di raccontarlo a nessuno, chiusa come un riccio su se stessa, su quel dramma che stava vivendo, da cui aveva lasciato fuori tutti.

Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto raccontare tutto, ancora poco tempo e la vita che cresceva in lei sarebbe stata evidente.

 

Ripensava a Terence, non sapeva più nulla. Nessuno ne sapeva più nulla.

Prima di partire gli aveva scritto, gli aveva chiesto di vederlo per potergli parlare, era giusto che lui sapesse ma era anche decisa a non chiedergli nulla ma nessuna risposta era arrivata a Casa Andrew durante la loro assenza e nemmeno dopo.

 

Sapeva che lui l’aveva cercata, prima da Miss Pony, poi alla Clinica Felice, poi ancora a Casa Andrew ed infine a Boston, dove si era sentito male nella hall dell’albergo: l’avevano portato in ospedale d’urgenza, aveva un principio di polmonite; se ne era andato contro il parere dei medici.

Lo aveva saputo poco dopo il loro ritorno: George aveva informato Albert della visita del giovane e avevano fatto una serie di ricerche per rintracciarlo ma ormai nessuno sapeva più dove fosse.

Quando era tornata, sconvolta, da Portland aveva chiesto ad Albert di impedire a Terence di avvicinarla: ora avrebbe dato qualunque cosa per rivederlo.

 

Non riusciva più a guardare il suo angelo biondo negli occhi, si vergognava immensamente ed allo stesso tempo aveva paura della sua reazione: da quando lei era tornata a casa, ormai più di quattro mesi prima, Albert non aveva fatto che preoccuparsi per lei, portandola in viaggio con sé, non lasciandola mai sola, circondandola di tutto l’affetto possibile e lei non era nemmeno riuscita a sforzarsi di apparire serena, facendo preoccupare ancora di più tutti coloro che tenevano a lei.

 

Parlare sarebbe servito: avrebbe chiarito molte cose, avrebbe reso meno preoccupati i suoi amici, avrebbe reso meno teso e nervoso Albert, sapeva che gli stava facendo solo del male, che gliene avrebbe fatto ancora di più dopo ma non riusciva proprio a trovare le parole.

I suoi occhi erano sempre più velati ogni giorno che passava, i suoi passi sempre più incerti.

Si era sentita male prima di partire e quando erano in viaggio, le nausee mattutine l’avevano assalita per giorni; anche in quel caso non aveva detto nulla.

Albert sempre più preoccupato e lei, che non voleva essere visitata, era riuscita a fargli credere che fosse una forma influenzale; lui forse aveva letto la menzogna nei suoi occhi ma non aveva detto nulla, limitandosi a curarla.

 

Si preparò accuratamente per la cena ed il ballo anche se non aveva alcun desiderio di prendervi parte: lo faceva solo per i suoi amici, per non farli preoccupare in maniera eccessiva e perché era più facile assecondarli che discutere ogni volta.

 

Aveva scelto un abito in stile impero che nascondeva meglio l’accennata rotondità del ventre: era di un bel rosa cipria con dettagli bianchi. Aveva raccolto i capelli in basso sulla nuca in uno chignon morbido e aveva scelto una collana di corallo ad ornare la scollatura.

Sentì bussare alla porta, era Albert; finì d’indossare i lunghi guanti bianchi e lo raggiunse.

Scesero insieme nel salone per la cena.

 

“Albert…”

“Sì…”

Il dottore continuava ad accarezzarsi il mento guardando una coppia che volteggiava davanti a lui.

“Come sta Candy?”

“E’ sempre triste, non è cambiato molto purtroppo…non so più che fare, niente sembra interessarla”

“Mangia?”

Albert lo guardò aggrottando le sopracciglia.

“Poco e niente, perché?”

“mmm”, rispose Martin continuando a guardarla mentre ballava con Stear.

“Mi vuol dire a cosa sta pensando?”

“Senti ma, quando eravate in viaggio, non stava bene, vero?”

Albert cominciava ad essere allarmato. “Ma come fa a…? No, non è stata bene, ha fatto due settimane in cui aveva nausee continue ed è rimasta a letto perché si sentiva molto debole…dottore, pensa di dirmi a cosa sta pensando, prima o poi?”

“E dimmi, qualcuno l’ha visitata?”

“No, ha detto che era solo influenza e non ha voluto che chiamassi il medico. Allora, dottore?”

“mmm”, fu tutta la risposta che ebbe il ragazzo.

Martin aveva osservato Candy attentamente e la sua esperienza gli aveva fatto intuire la verità ancora prima che Albert aggiungesse dettagli interessanti. I lineamenti del viso erano più morbidi e, sotto il vestito, ad un occhio attento, cominciava ad essere evidente un qualcosa che non poteva proprio essere collegato al robusto appetito che la ragazza sembrava aver perso da parecchio tempo.

Si scoprì a chiedersi se Albert potesse essere in qualche modo coinvolto in quella faccenda: era meglio tacere per il momento, avrebbe cercato di parlare con Candy, non appena fosse stato possibile, voleva visitarla per vedere le sue condizioni, gli sembrava un po’ troppo magra.

 

Candy si stava dirigendo verso i due uomini a braccetto di Stear, non vedeva l’ora di sedersi, si sentiva stanca e con la testa vuota ma Albert non sembrava di quel parere e la trascinò di nuovo al centro della sala per un valzer malgrado le sue proteste: aveva mangiato di nuovo molto poco e sentiva il piccolo che si agitava e le dava fastidio.

Protestò ancora debolmente, poi si sforzò di seguire il ritmo fin quando tutti i suoni si fecero sempre più ovattati e le immagini iniziarono lentamente a sfocarsi, il viso di Albert sempre più confuso per poi non vedere più nulla e sentirsi cadere.

 

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Capitolo 23
*** La verità ***


Albert si accorse che Candy aveva qualcosa che non andava ma non fece in tempo a fermarsi che la ragazza perse i sensi, scivolando lentamente verso terra.

La prese saldamente tra le braccia e, facendosi largo tra gli invitati ammutoliti, la portò nella sua stanza; Martin aveva visto la scena da lontano e li seguì.

 

Albert la depose sul letto e lasciò spazio al dottore che per prima cosa le appoggiò una mano sul ventre cercando di far sembrare il gesto il più naturale possibile, poi spedì il ragazzo a prendere i sali e dell’acqua. La sua diagnosi ora giusta, ora veniva la parte più difficile: che fare e che dire.

 

La ragazza rinvenne ma era molto pallida e debole.

“Albert, per favore puoi aspettare fuori? Vorrei visitare meglio Candy”

Lei non lo guardava in viso anche se lui si era avvicinato per accarezzarla, preoccupatissimo.

Albert uscì ma era teso.

“Candy, guardami negli occhi”

Lei alzò lo sguardo.

“Non c’è niente che mi devi dire?”

Scoppiò in lacrime, Martin aveva capito, non avrebbe dovuto spiegare niente, non a lui.

Lui la lasciò piangere poi cercò di calmarla: “Ascolta, adesso voglio visitarti, voglio vedere come state, sei troppo magra ragazza mia…di quante settimane sei? Mi sa che pesi ancora meno di prima…ascolta..cerca di calmarti, tutta questa agitazione non vi fa bene…”

Candy alla fine riuscì a calmarsi tanto da poter rispondere.

“Candy, Albert non lo sa, vero?”

Lei scosse la testa.

“Non credi dovrebbe saperlo?”

Annuì.

“Perché non glielo hai ancora detto?”

Lei evitò lo sguardo del dottore e le lacrime ripresero a scendere.

Non sapeva come formulare la domanda successiva.

“E’ il padre, vero?”, non gli veniva in altro modo quella domanda.

Lei scosse la testa.

Martin si grattò una tempia.

“Mmmm, forse è il caso che tu glielo dica lo stesso e prima è meglio è. Da tempo è nervoso ed in pensiero per te..”

Finì di visitarla ed iniziò a farle una serie di raccomandazioni.

“Dottore…lo può dire lei ad Albert?”

“Candy dovresti dirglielo tu…”

“Resti con me però..”, lo supplicò.

“Va bene, vado a chiamarlo, se lo conosco sta girando come un leone in gabbia qui davanti da mezz’ora”, ed infatti trovò Albert che passeggiava nervosamente nel lungo corridoio.

Lo interrogò con lo sguardo ma il dottore gli fece cenno di entrare.

 

C’era qualcosa che lo metteva in allarme nel comportamento del dottore e di Candy, c’era qualcosa che lo metteva in allarme in lei ormai da diverse settimane, qualcosa che il suo sesto senso percepiva ma che la sua mente non era in grado di leggere e questo lo metteva a disagio.

Candy gli stava deliberatamente nascondendo qualcosa di importante, qualcosa che la rendeva così triste e malinconica: sentirsi escluso dalla sua confidenza gli faceva forse anche più male del rifiuto che aveva dovuto incassare da lei molti mesi prima.

 

“Albert, Candy deve dirti qualcosa di molto importante”, Martin cercava di spingere Candy a parlare ma lei era rimasta muta a fissare il viso di Albert. Lui si avvicinò e si sedette sul letto.

“Piccola come stai? Mi hai spaventato. Cosa mi devi dire?”, le aveva preso il viso fra le mani e passato le dita nei capelli in un gesto affettuoso, Candy si sentì ancora peggio.

“Albert io…”, lo fissò, deglutì ma le parole non uscivano, guardò Martin supplichevole ma lui scosse la testa, esortandola a parlare.

Alla fine decise di prendere una mano di Albert e posarla sul suo grembo.

Lui lì per lì non capì, poi ebbe un’intuizione e un’espressione incredula si dipinse sul suo viso: “Ma? Come?”

“Nascerà ad aprile…”, mormorò, continuava a scrutare le reazioni di lui.

Questo era troppo anche per Albert!

Si alzò di scatto, gli occhi azzurri velati di pianto e rabbia ed uscì senza proferire parola.

Candy cercò di andargli dietro ma un nuovo capogiro la fece cadere a terra.

 

Perduta per sempre ecco la prima cosa che aveva pensato e le lacrime gli erano salite agli occhi suo malgrado. Per quello era uscito dalla stanza di corsa, non voleva che lei lo vedesse così.

Se lo prendo gli spacco la faccia era stato il secondo pensiero, non c’era bisogno che lei gli dicesse chi era il padre, poteva essere uno solo e il suo cervello aveva fatto due più due.

Passeggiò a lungo nelle neve, solo con il frac addosso, con il rischio di prendersi una polmonite, ma non riusciva a calmarsi a sufficienza da rientrare e parlare con la ragazza.

Si era sentito morire una seconda volta, solo che adesso era davvero tutto finito, nessuna speranza a sostenerlo ancora e, allo stesso tempo, una pena infinita per quella situazione che non sembrava avere apparente soluzione.

Quel disgraziato aveva fatto perdere le tracce da dieci giorni: era andato via dall’ospedale ancora convalescente e con gli stessi abiti inadatti con cui era arrivato. Nessuno sapeva dove fosse.

 

Candy guardava Albert che andava nervosamente avanti e indietro lungo i vialetti del roseto, la neve che ormai si stava fermando sulle sue spalle: “Dottore, vada a chiamarlo, lo faccia rientrare prima che si ammali”

“Candy, se vado ora da Albert rischio la faccia, è meglio lasciarlo da solo, non l’ho mai visto così nervoso”

“Dottore…”

“Stai tranquilla gli passerà…però anche tu, potevi dirmelo prima!”, uno sguardo di disapprovazione e uno scrollone della testa, “Se non ti rimetti a mangiare come si deve farai i conti con me.. e ora va a dormire, penso io ad Albert”

“Ma dottore…non dirà nulla, vero?”

Martin le appoggiò un bacio sulla fronte, la costrinse a sdraiarsi ed uscì.

 

Dopo la mezzanotte Candy udì bussare alla porta.

“Avanti”

Era Albert.

“Ti ho portato un po’ di torta e di succo di mele, mi ha detto Martin che non puoi bere lo champagne. Festeggeremo il nuovo anno con il succo!”, la voce era dolce, come il sorriso che le rivolse.

“Albert…”

“Come stai?”, i suoi occhi azzurri la guardavano con affetto.

“Bene, era solo un capogiro…Scusami…”
”Scusami tu per prima, la situazione è già difficile per te e mi ci sono messo anch’io a complicartela con il mio comportamento…”, le allungò la torta.

“Ti voglio bene, piccola”, proseguì, “ e mi hai fatto preoccupare parecchio in questi mesi. Avrei voluto che tu mi avessi detto tutto molto prima, anche se mi rendo conto che non deve essere facile per te”

“Io, io avevo paura della tua reazione…”

“Ma cosa pensavi che potessi dirti?”

“Io…”

“Ascolta, non so cosa è accaduto tra te e Terence e perché tu non lo voglia più vedere ma ora forse è il caso che lui sappia, che ne dici? Perché lui non lo sa ancora, vero?”

Lei annuì.

“Ho provato a scrivergli ma non mi ha risposto…”, disse lei con un filo di voce.

“Lo cercheremo ancora, anche lui ti sta cercando, vi troverete, vedrai…”

Le accennò ad un sorriso.

Albert la strinse dolcemente in un abbraccio coccolandola per un po’, poi:

“Buon anno, piccola”, le passò un bicchiere di succo di mele, sorridendo.

“Buon anno, Albert…e grazie” gli sorrise lei di rimando, e toccando il suo bicchiere con il proprio.

 

Albert stava già pensando alla reazione della zia Elroy quando lo stato di Candy sarebbe stato troppo evidente per essere nascosto: doveva fare in modo che non si incontrassero da lì in avanti, oltre che mettere Candy al riparo dalla curiosità della stampa che continuava a girare intorno alla famiglia e a loro due in particolare.

La prima cosa da fare era trovare Terence a tutti i costi.

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Capitolo 24
*** Marian ***


Candy si era svegliata di nuovo tardi, finalmente durante la notte riusciva a riposare.

Il dottore l’aveva sgridata molto per il modo incosciente in cui si era comportata durante quei mesi ed ora, con una dieta adeguata, il cuore sgravato dal silenzio e molta calma intorno era riuscita a recuperare un po’ di serenità.

Dopo l’Epifania la villa si era svuotata, la maggior parte degli ospiti era partita e con loro i Legan e la zia Elroy e questa era la cosa che la sollevava di più: non dover incontrare facce poco gradite.

La neve non aveva fatto che scendere, da Natale non era passato giorno senza che le bianche farfalle cadessero dal cielo e tutto aveva assunto un aspetto fiabesco. Le grandi statue del parco sembravano tanti pupazzi di neve e le veniva voglia di mettere carote come nasi e rape come occhi ma le era stato vietato di uscire con quel freddo: l’acqua nella grande fontana era una lastra traslucida e Stear le aveva raccontato che la cascata si era trasformata un una spettacolare colata di ghiaccio.

Ormai era quasi la fine di gennaio. Alla fine erano partiti anche i due fratelli ancora ignari e lei era rimasta da sola: Albert non aveva fatto fatica a convincerla che quella era la soluzione migliore per il momento, quella era la situazione che lei preferiva, senza nessuno intorno, da sola. Martin era molto preoccupato, la giudicava una gravidanza a rischio e aveva fatto mille raccomandazioni ad Albert perché le evitasse ogni possibile ulteriore strapazzo.

Albert aveva intenzione di riportarla a Chicago in primavera, quando il tempo sarebbe migliorato a sufficienza da consentire di viaggiare senza problemi, in modo che Martin si potesse occupare di lei in prossimità del parto.

 

Gironzolando lungo i corridoi deserti e un po’ freddi arrivò al salone dalle grandi vetrate che consentiva di avere una spettacolare vista sugli arabeschi di siepi del giardino all’italiana che si estendeva a nord est della villa fino a lago. Si sedette nella grande poltrona verde e oro che era di solito occupata da Albert e si avvolse nella coperta che aveva con se…voleva restare lì un po’ a guardare il paesaggio: il parco era talmente grande che vi erano numerosi animali liberi e restando in attesa era possibile osservarli.

La svegliò un rumore: senza accorgersene si doveva essere addormentata, aveva mani, piedi e punta del naso congelati e sentiva molto freddo.

“Permesso?”

Si scosse e cercò di capire da dove veniva la voce.

“Permesso? C’è nessuno? Temo di essermi persa”, era la voce di una ragazza, voce sottile ed incerta.

Candy si alzò, rabbrividendo, sempre avvolta nella coperta perché ormai in quella stanza faceva troppo freddo.

Si trovò davanti una ragazza, un po’ più alta di lei dai lunghi capelli biondo cenere, occhi verde giada, un viso pulito, dai lineamenti gentili, snella, con un pesante cappotto blu coperto di neve come il berretto, gli stivaletti alti completamente bagnati, la gonna appesantita dall’acqua. Aveva un foglietto nella mano guantata, sembrava un indirizzo. Era paonazza dal freddo.

“Buongiorno”, le disse Candy.

“Oh, buongiorno! Meno male, ero convinta di essermi persa. Scusi se sono entrata ma ho suonato più volte al portone e nessuno mi ha risposto. Ho provato a spingere e si è aperto, così sono entrata, faceva così freddo fuori…Sono rimasta un po’ nel salone chiamando ancora ma nessuno mi rispondeva e…lo so non avrei dovuto ma…non volevo disturbarla, io…”

“Non si preoccupi mi sono addormentata ma fa freddo è meglio che mi abbia svegliata o avrei rischiato un raffreddore…mi scusi ma non mi ha ancora detto come mai è qui..”

“Ha ragione, sono una sciocca, sto cercando il signor Andrew, mi hanno detto che abita qui.”

“Sì abita qui, ma in questo momento è a Chicago”

“E…e…quando torna?”

“Non saprei, non me l’ha detto di preciso, aveva un po’ di affari da sbrigare ma sarebbe tornato quanto prima…”

La delusione si dipinse sul viso della ragazza.

“Beh, grazie, scusi il disturbo, vado. Arrivederci.”

“Mi scusi”, disse Candy avvicinandosi per trattenerla, “posso offrirle qualcosa di caldo? Magari davanti ad un bel fuoco? E’ tutta bagnata, le farà piacere asciugarsi un po’…”

La ragazza la guardò con aria indecisa, poi: “Grazie davvero, mi farebbe piacere. Che maleducata, non mi sono nemmeno presentata, sono Marian Bailey”, tendendo la mano.

“Piacere, sono Candy Andrew”

Marian impallidì.

“Venga”, le disse Candy liberandosi della coperta per camminare meglio; così facendo, il piccolo pancino tondo fu ben visibile sotto il lungo e pesante maglione che aveva rubato ad Albert per difendersi dal freddo.

Marian impallidì ulteriormente; cominciò a balbettare:

“Beh, in effetti, forse è meglio se vado via subito, così torno a Chicago e posso cercare il signor Andrew lì. Grazie per la sua gentilezza. Arrivederci” e allungò il passo.

Candy restò perplessa di fronte a quel cambiamento repentino di umore ma si risolse a seguirla.

“Signorina, aspetti, l’accompagno, non di là, così si perde…”, la villa era enorme e Marian decise che era meglio resistere all’impulso di scappar via e farsi accompagnare.

Erano sullo scalone che scendeva nell’atrio quando Candy udì due voci molto note sotto il portico. Scese velocemente gli ultimi gradini lasciandosi indietro l’ospite e si lanciò fra le braccia di Albert che stava entrando in quel momento: sapeva di neve e freddo ma lei adorava quell’odore.

“Piccola! Come facevi a sapere che stavo arrivando? Abbiamo dovuto fare il viale a piedi perché la neve troppo alta non faceva passare l’auto…”, la scrutò, come faceva sempre, per capire se tutto andava bene, poi le posò un bacio sulla fronte dopo di che non riuscì a trattenersi: “Si può sapere cosa fai solo con quel maglione addosso con questo freddo? Nelle tue condizioni dovresti stare al caldo davanti al caminetto…sei un’irresponsabile!” e scosse la testa.

Candy rideva dei suoi rabbuffi affettuosi e continuava a tenergli le braccia intorno al collo.

“Ehi,ehi, fammi almeno togliere il cappotto così posso abbracciati meglio e non ti riempio di neve”, così dicendo slacciò i bottoni del cappotto e scrollandolo lo passò un attimo a George che era finalmente riuscito ad entrare e spogliarsi anche lui. Lei lo guardava sorridendo dopo aver sciolto l’abbraccio.

“Si può sapere che hai da ridere, signorina?!”

“Sono contenta che siate tornati, cominciavo ad annoiarmi da sola”

“Non sei sola, c’è Nanà, a proposito, dov’è?

Nanà, la balia di Albert, donnona materna e gentile, lui le aveva chiesto di restare alla villa per tenere compagnia alla ragazza e per occuparsi di lei finché non fosse tornato.

“Non fare il noioso…dev’essere in cucina a prepararti una torta di mele”; lui rispose con un altro bacio, sorridendole.

Quando Marian aveva udito le voci all’esterno era stata costretta a fermarsi, le ginocchia si erano rifiutate di muoversi: aveva assistito a tutta la scena dalla scalinata.

Ora non sapeva come fare: avrebbe voluto non essere mai arrivata fin lì, non essere mai riuscita a trovarlo, ora non sapeva come uscirne.

 

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Capitolo 25
*** Fermala! ***


L’angolo dell’autrice

Andiamo per ordine…

Lauramaria: il Duca è convinto di fare la cosa giusta…è completamente cieco perché vuole esserlo…pensa solo al fatto che ama ancora Eleonor e non alza un dito…In merito a ciò che ha scoperto su Candy …vedrete… ha interpretato a modo suo fatti che, analizzati con la lente giusta, non hanno poi niente di troppo strano…non ti svelo ancora nulla perché saranno parte di uno dei prossimi capitoli.

Il fatto che non combattano insieme, come dici tu, è nato da una riflessione sul quella che era la storia dell’anime, dove i due si rincorrono per 20 puntate senza trovarsi…anche qui il destino ci ha messo lo zampino…

Quanto poi all’essere saggia, beh sono arrossita…non credo di esserlo ma medito molto quando scrivo e tutto deve quadrare nella storia.

Medea78 e Valentina78: grazie molte per  il commento e i complimenti che mi avete lasciato, spero che la storia continui a piacervi.

Blu Rei: beh…anche qui sono arrossita…anche a te grazie per i complimenti…e per i commenti quasi punto per punto…Non so se sono davvero così brava come dici, certo è che scrivere è quasi un lavoro…da quando ho iniziato questa storia è un continuo pensare e ripensare a ciò che ho scritto, ciò che devo scrivere, rivedere, rivedere, ancora rivedere…Quanto poi allo stile…non saprei, è l’unico modo in cui so scrivere… ^_^

Il raccontare lo stesso episodio da due punti di vista mi piace molto e in certi casi (me lo dico da sola) mi viene molto bene e si presta a spiegare tante cose, dal perché la storia prende una certa piega, perché un personaggio pensa certe cose, ecc…

Altra risposta veloce: anche a me Susanna sta sulle scatole…le faccio fare una brutta fine…non nel senso che muore…ma vedrete…

 

Un grazie anche a tutti i lettori silenziosi che non lasciano tracce nelle recensioni… J

 

“Candy, chi è quella ragazza?”, le chiese George.

Candy se n’era completamente dimenticata.

“Oh, scusate. Albert cercava te, se ne stava andando perché non ti aveva trovato ma visto che ora sei qui…”. Candy si era voltata un attimo verso George e poi verso la ragazza, quando i suoi occhi si posarono nuovamente Albert lui era attonito.

“Ma…vi conoscete?”

“Marian…”, mormorò lui, passando una mano nervosamente tra i capelli, “Marian”

“Ciao Albert, non ti aspettavi di rivedermi, vero?”, sembrava intimidita.

“Come hai fatto…?”

“Non è stato facile…alla fine ti ho trovato….per caso….”, solo un filo di voce.

“Marian, io…”, Albert sembrava essere, sempre più, in preda a sentimenti contrastanti.

Si avvicinò alla ragazza che ormai aveva finito di scendere le scale fissandola intensamente.

Deglutì a fatica.

George in quel momento stava cercando di portare Candy al caldo ma non ci riusciva: lei non aveva mai visto Albert in uno stato simile e voleva capire cosa stesse accadendo, chi era quella ragazza.

Marian fece un passo avanti, portandosi a brevissima distanza da lui che non smetteva di guardarla, respirando solo superficialmente anche se in realtà gli sembrava di non respirare affatto.

Alla fine sopraffatto dall’emozione la strinse tra le braccia e lei ricambiò.

“Marian, non ci posso credere, sei davvero tu, è passato così tanto tempo…perdonami se non ti ho detto chi sono..”, la voce era spezzata, quasi un sussurro.

Lei sorrise e lo allontanò dolcemente: “E’ stato bello rivederti Albert ma ora è meglio che vada, si sta facendo tardi, se voglio arrivare a prendere il treno devo sbrigarmi”.

Albert la guardò smarrito: “Perché te ne vai così in fretta?”

Marian non lo ascoltò, camminando verso il portone. Arrivò di fronte a Candy: “E’ stato un piacere signora Andrew”, disse stringendole la mano.

Albert continuava a guardarla con un’espressione indecifrabile, lei aveva lacrime fra le ciglia ma non si voltò.

Marian varcò il portone, stringendosi nel cappotto per l’aria pungente e guardando il cielo che non smetteva di fioccare.

Candy si avvicinò ad Albert.

“Fermala”, qualcosa le diceva che quella ragazza non doveva andarsene così, “fermala!”

Albert la guardò, incerto per una frazione di secondo, poi corse fuori chiamandola ad alta voce.

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Capitolo 26
*** Una notte insonne ***


una notte insonne

Se ne era innamorata non appena l’aveva visto e quel suo modo di essere, dolce, gentile e forte l’aveva stregata.

Avevano lavorato a stretto contatto, nel piccolo ambulatorio dividendo con il dottore quel poco che c’era ma erano stati giorni di felicità incantata.

Poi era arrivata una lettera che l’aveva gettato in un’ansia da cui non riusciva a liberarsi, alla fine aveva deciso di partire, doveva tornare urgentemente a Londra, a causa di una parente, non aveva aggiunto altro.

Il modo in cui si erano salutati aveva fatto capire a Marian di essere in qualche modo importante per lui ma tutto era rimasto come sospeso, lui sembrava restio a lasciarsi andare per un motivo che lei allora non comprendeva.

Quando era partito per l’Italia le aveva promesso di scriverle spesso ma dopo un paio di lettere c’era stato il silenzio; le lettere erano molto affettuose e tradivano una nostalgia profonda, nulla lasciava presagire che non le avrebbe più scritto.

Dopo lo scoppio della guerra, Marian era stata richiamata in patria per assistere i feriti che ormai arrivavano a  decine negli ospedali inglesi, di Albert non aveva più saputo nulla, malgrado le molte domande che aveva fatto a tutti coloro che arrivavano dall’Italia: aveva sperato, continuato a sperare, ma invano.

Lo aveva cercato a lungo come Albert Andrew ma sembrava non esistesse.

 

Durante la cena lei aveva raccontato per sommi capi come fosse riuscita a rintracciarlo.

Era stato un colpo di fortuna: un paio di anni dopo il suo ritorno in Inghilterra un’amica le aveva porto un giornale in cui asseriva di avere trovato la foto di un uomo che somigliava molto a quel ragazzo che stava cercando.

Lei lo aveva preso, piuttosto scettica, ma aveva dovuto ricredersi subito, era proprio lui!

Le era sembrato incredibile che il ragazzo conosciuto in Africa, perennemente squattrinato, senza alcun problema a passare una notte all’addiaccio e a mangiare quando capitava, potesse essere uno degli uomini più ricchi e potenti d’America ma se ne era dovuta convincere.

 

Da lì in poi trovare la villa era stato facile.

 

Ora stava guardando fuori dalla grande finestra che dava sul lago: una falce di luna faceva brillare la neve rendendola azzurrina ed il paesaggio sembrava stesse trattenendo il respiro, come fosse in attesa di qualcosa…

Era arrivata a quella grande villa sul lago con molta fatica a causa della neve, non si era aspettata un’accoglienza molto diversa da quella che aveva ricevuto, Albert si era mostrato affettuoso e attento ma la vista di quella ragazza l’aveva sconvolta e l’aveva riempita di dubbi.

Non aveva osato far domande anche perché i rapporti tra lei ed Albert sembravano essere fin troppo chiari: lo stato in cui si trovava, la tenerezza di lei, la sollecitudine di lui, non vi potevano essere dubbi, il legame che li univa era palpabile anche se aveva notato la mancanza delle fedi.

Sapeva di essere partita alla ricerca di Albert con la certezza che molto poteva essere cambiato da quando si erano conosciuti in Africa, che avrebbe potuto trovarlo sposato, con dei figli ma si accorgeva di aver sperato fino in fondo che lui non l’avesse dimenticata, che le parole che le aveva scritto in quelle lettere fossero ancora vere.

Albert quella sera era stato molto strano durante la cena, era molto turbato.

Con Candy, invece, si era trovata subito in sintonia: avrebbe potuto nascere anche una bella amicizia ma…

La vista le si offuscò per le lacrime che scendevano copiose alla fine fu scossa dai singhiozzi che non riusciva più a trattenere.

 

L’ora era tarda e la luce nello studio di William ancora accesa, una montagna di fogli erano sparsi sulla scrivania in maniera disordinata, ma lui sedeva tenendo in mano una piccola foto color seppia che veniva dal passato. Si rendeva conto solo in quel momento che aveva preso l’abitudine di portarla con se, nella cartella dei documenti.

Era molto confuso ed un sottile mal di testa si era impadronito di lui.

Ripensare al passato gli creava disagio, soprattutto quando i ricordi erano legati ai mesi immediatamente precedenti e successivi all’incidente, inevitabilmente compariva un fastidioso cerchio alla testa che durava più giorni ma quella sera aveva molti motivi per essere sottosopra.

Mille immagini di lui e Marian gli stavano passando davanti agli occhi: quando si erano conosciuti, il lavoro all’infermeria, i cieli d’Africa, le sere sotto le stelle a parlare, le risate insieme, la propria partenza, l’addio di lei tra le lacrime, l’aver capito solo dopo che era una cosa importante, quando ormai era tardi per tornare indietro, poi l’oblio, della memoria, del tempo e dello spazio.

Ma lei lo aveva ritrovato e confuso: anche a lei aveva mentito, come aveva dovuto fare con molte persone ma era stata capace apparirgli dinnanzi dal passato.

 

Vedere Candy e Marian una accanto all’altra, sorridenti, accomunate dalla professione, da quei loro occhi verdi, dai modi schietti, dal sorriso spontaneo, che lo prendevano in giro dolcemente per il suo modo di fare “da chioccia”, lo aveva fatto sentire strano: il passato ed il presente insieme, un presente che avrebbe voluto fosse il futuro ed un passato che tornava ad essere presente.

 

Non si accorse dell’ingresso di George e fece quasi un salto sulla sedia quando lui lo chiamò, distraendolo da quei pensieri.

“E’ molto tardi, cosa fai ancora qui?”

Albert indicò i fogli sparsi.

“Non credo sia solo quello, o meglio non credo affatto che sia quello.”

Albert annuì.

“Vuoi parlarne?”, gli chiese sedendosi di fronte a lui.

Albert rispose con un’alzata di spalle.

“Forse non sono la persona più adatta a dirti che sarebbe ora che prendessi in mano la tua vita e decidessi di uscire da questo limbo in cui ti sei cacciato spontaneamente ma sento il bisogno di farlo…”

Albert fissava il fuoco: “Lo so e sei l’unico a cui consento di dirmi una cosa del genere…”

“Non me ne avevi mai parlato…”

“Non sono cose che si scrivono…”

“Perché non l’hai più cercata?”

“L’incidente, poi, quando la memoria è tornata io…beh lo sai…Candy…In realtà ho ripensato a lei di recente..” e gli allungò la foto che aveva in mano, “l’ho trovata prima di partire per la Florida in mezzo al porta documenti in cui conservavo la carta da lettere…in effetti mi sono domandato dove fosse, cosa facesse ma a distanza di tanto tempo mi sembrava inopportuno cercarla, non dopo essere scomparso nel nulla, non sapendo di averle mentito sulla mia identità, già è stato duro con Candy e con molte altre persone…non avrei mai creduto di trovarla qui…”, Albert ormai parlava a ruota libera, gli occhi fissi sui bagliori del fuoco, “e poi vedere Candy e Marian vicine, così…mi ha confuso ancora di più…George che devo fare?…”, sospirò.

“Beh, direi che il motivo che ha spinto Marian qui sembra essere chiaro…”

Albert sollevò un sopracciglio guardandolo un po’ stupito: “E quale sarebbe?”

“Beh…”

“Non posso accendere e spegnere i sentimenti come se niente fosse…”

“Nessuno ti dice che devi farlo ma Candy non…”, non riusciva a trovare le parole adatte ma Albert comprendeva bene cosa volesse dire.

“Lo so…”, disse con un profondo sospiro, “ad ogni modo non appena smette questo tempo dobbiamo tornare a Chicago. Domani cercherò di capire se e quanto Marian vorrà fermarsi..e poi decideremo”

“Va a dormire ora, oggi è stata una giornata pesante…”

Annuì.

 

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Capitolo 27
*** Neve, neve, neve ***


Il mattino successivo Marian si svegliò tardi e scese in cucina per la colazione. Vi trovò Albert che si era svegliato tardi anche lui dopo essersi addormentato solo a notte fonda.

Entrambi imbarazzati per motivi diversi, presero posto uno di fronte all’altro mentre Nanà, con un abito azzurro e un grosso grembiule bianco, si affaccendava con il caffè e il latte.

“Buongiorno signorina!”, le disse la donna voltandosi. Aveva un viso rubicondo e simpatico, grandi occhi neri e i capelli ormai bianchi raccolti sulla nuca in una treccia avvolta su se stessa.

“Buongiorno”, rispose piuttosto intimidita dalla stazza della donna e dal modo di fare energico.

“Ti presento Nanà, è stata la mia balia e colei che mi ha allevato insieme a George dopo la morte dei miei genitori”.

“Piacere, sono Marian”.

“Piacere mio signorina…dove ha conosciuto William?”

“In Africa, lavoravamo nello stesso ambulatorio”.

“Ah, quando bighellonava ancora…sì mi ricordo, me l’aveva scritto..anche di lei”

Gli scompigliò i capelli in un gesto affettuoso come quando era bambino.

“Nanà!”, protestò Albert ridendo.

Marian sorrise arrossendo leggermente, il ghiaccio era rotto.

“Lo sa signorina che questo lazzarone a momenti non torna a casa dai suoi vagabondaggi? Non fosse stato per la signorina Candy che l’ha aiutato quando ha perso la memoria ora non sarebbe qui..”.

Marian annuì, quella storia Albert l’aveva raccontata la sera precedente, durante la cena.

“Ed ora tocca a lui prendersi cura della signorina Candy…poverina, è così sfortunata, bella e sfortunata…e tu…mi meraviglio di te! Sei uno zuccone!”

“Nanà, per favore! Te l’ho già detto, lo sai com’è andata!”

“Mah..”, rispose poco convinta, “Allora, l’hai trovato?”

“Purtroppo no..”

“L’hai già detto a Candy?”

“No…”, sospirò profondamente, “Non so più dove cercare..Com’è andata mentre non c’ero?”

“Tutto bene, è tranquilla, un po’ malinconica ma tranquilla”

“Ha mangiato, sì?”

“Sì, sì, è una così cara ragazza! E’ un peccato…”

Albert si girò verso di lei con un’aria interrogativa sul viso, aggrottando le sopracciglia.”

“Beh, voglio dire…che … lei…tu..oh! hai capito! Potresti anche sposarla!”

“Nanà, ti prego, te l’ho già spiegato!”

“Sì però è un peccato lo stesso!”, concluse lei servendo il latte ed il caffè, per poi girarsi ed andare a prendere il pane appena sfornato e la torta di mele.

Albert annusò deliziato il profumo della torta e del pane e Nanà non perse l’occasione di scompigliargli di nuovo i capelli, lui scosse la testa sorridendo.

Marian era rimasta tutto il tempo a guardarlo e cercare di capire di più della sua vita da quelle poche, disordinate parole scambiate davanti a lei, aveva tante domande e non il coraggio di farle; Nanà venne in suo aiuto.

“Signorina, qualcosa che non va?”, Marian era pallida.

Albert si girò verso di lei e capì. Marian aveva equivocato.

“Beh…forse è meglio che ti spieghi sennò finisce che Nanà mi fa sembrare un mostro…”, guardava la tazza che stava girando lentamente tra le mani.

“Vedi, per quanto abbia cercato di aiutare Candy in tutti i modi, sembra essere sempre stata perseguitata dalla sfortuna. Per una serie di vicende troppo lunghe da raccontare il padre del bambino che sta aspettando è irrintracciabile, scomparso. Quando si è accorta della gravidanza ha passato un periodo di depressione, è stata molto male. Ho fatto in modo che rimanesse lontano dalla città per evitare uno scandalo e, soprattutto uno scontro con la zia Elroy, se ti ricordi te ne avevo parlato..”, Marian annuì.

“Ci conosciamo da tanto, ci vogliamo molto bene, per me lei è…è… è come una sorella. Sono stato via per lavoro un paio di settimane durante le quali ho cercato di rintracciare il ragazzo ma non c’è stato nulla da fare…”, continuava fissare la tazza fra le proprie mani. Nanà lo guardava di sottecchi e si era trattenuta da fare qualsiasi commento alle affermazioni di lui.

Albert alzò gli occhi ed incontrò lo sguardo di Marian, sembrava essere molto turbata.

“Stai bene?”

“Sì, sì, bene, perché?”, chiese arrossendo. Forse non tutto era perduto anche se…le allusioni della balia e la sua indecisione nella voce le avevano lasciato intuire che forse c’era più di quanto lui non volesse ammettere…

In quel momento entrò George dalla porta esterna, scrollandosi la neve di dosso e provocando le proteste di Nanà: si conoscevano da una vita e da una vita si punzecchiavano come due vecchie comari.

“Guarda che ti faccio pulire!”

“Se pulisco io tu cosa stai a fare qui?”

“Ma sentilo, meno male che sembri un gentiluomo, altrimenti la signorina penserà che sei uno zoticone!”, lui rispose con sorriso.

Albert rise e George ne approfittò per cambiare argomento.

“Nevica ancora, sono andato a vedere l’auto ma è sommersa.”

Albert sbuffò, non ci voleva, il maltempo continuava.

Poco dopo arrivò il signor Whitman, piccolo, capelli bianchi e occhialini tondi, era il giardiniere della villa. Si andò a mettere vicino al fuoco che scoppiettava nel camino per scaldarsi le mani, aveva appena fatto un giro per controllare che tutto fosse in ordine.

“William, c’è sempre più neve…”

“Dice che smetterà di nevicare?”

“Non saprei..non ricordo un inverno così da almeno vent’anni…Ho dovuto liberare i vetri delle serre dalla neve, rischiavano di cedere…”

Albert lo guardò pensieroso, c’era il pericolo di restare bloccati lì.

La conversazione riprese comunque allegra e il tempo passò velocemente.

Ad un certo punto Nanà disse: “William, ma Candy non scende oggi?”

Lui guardò l’ora, era quasi mezzogiorno.

“Vado a vedere”

 

Bussò due volte ma lei non rispose. Aprì la porta chiamandola senza esito. A quel punto si avvicinò al letto e vi si sedette, toccandole una spalla: dormiva su un fianco abbracciando il cuscino.

“Piccola sveglia, è tardi, pensi di passare la giornata a letto?”

Ma non ci fu quasi reazione, Albert aggrottò le sopracciglia, la scosse un poco e lei aprì gli occhi.

“Ciao”, gli disse debolmente.

“Stai bene?”

Non rispose, gli occhi si erano di nuovo chiusi.

Albert le toccò la fronte e il collo, bruciava: non riuscì a fare a meno di mettersi le mani nei capelli, questa non ci voleva! Erano isolati, in mezzo alla neve alta che continuava a scendere, senza un mezzo di trasporto e lei era quasi incosciente per la febbre.

 

Nanà vide entrare Albert, spaventato ed agitato con Candy in braccio avvolta in una coperta,il viso congestionato, gli occhi socchiusi, lucidi.

 

Tre giorni dopo il momento peggiore era passato senza conseguenze, grazie anche all’aiuto prezioso di Marian: era stata una banale infreddatura ma Albert continuava a darsi dello stupido, aveva corso un rischio troppo alto tenendo la ragazza a Lakewood in quella stagione, doveva portarla via subito, dove potesse essere al sicuro da sguardi indiscreti ma anche facilmente raggiungibile da un medico in caso di necessità.

 

Il postino arrancava sulla strada che portava alla grande villa sul lago, erano anni che nessuno abitava quella casa in inverno ed era la prima volta che doveva portarvi un telegramma urgente, fosse stata una normale lettera avrebbe atteso che smettesse di nevicare.

Mentre continuava a faticare sulla salita osservò i segni di una slitta che doveva aver percorso quella stessa strada non molto tempo prima, i segni dei pattini e degli zoccoli dei pesanti cavalli erano ancora ben visibili, era quasi certamente quella del vecchio Jack, solo lui l’aveva così grossa da poter essere trainata da due grandi cavalli, chissà perché era salito fin lassù…

 

Arrivò infine al cancello con lo stemma che recava una grande aquila dorata ad ali aperte, con una A sul petto. Provò ad aprire ma non ci riuscì. Chiamò a lungo ma nessuno rispose, sembrava essere disabitata. I segni dei pattini passavano sotto il cancello e si perdevano lungo il viale, diritti fino al portone d’ingresso, dove si vedeva l’anello che aveva fatto il cocchiere perché i cavalli potessero girare la slitta.

Chiunque fosse stato alla villa ormai era partito, aveva chiamato Jack perché li accompagnasse da qualche parte, alla stazione o in città. Imprecando per aver camminato per più di un’ora inutilmente, prese il telegramma e guardò il mittente, veniva dal qualcuno della famiglia Andrew a Chicago..se erano partiti, quasi certamente era per tornare in città. Il postino decise di andare dritto a casa, ormai era tardi e non aveva senso rimandare indietro il telegramma a quell’ora, l’avrebbe fatto l’indomani mattina.

 

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Capitolo 28
*** Fred e Peggy ***


L’angolo dell’autrice

Grazie di nuovo a tutte per le recensioni. Inizio col dirvi che finirà bene, per cui tranquillizzatevi.

Aggiungo poi che non scrivo per professione, è solo un hobby cara lauramaria, ma grazie lo stesso J

Nelle prossime puntate si scioglieranno un po’ di nodi, abbiate pazienza, ho scritto una storia piuttosto lunga ed articolata e sto facendo un po’ di esercizio nel rendere lo sviluppo psicologico dei personaggi.

Cara blu rei, la zia non è morta, non è quello il contenuto del telegramma, anzi, romperà le scatole ad Albert come al suo solito.

Quanto ad Albert, non è dissociato il poveretto è solo che si ritrova per le mani una situazione terribile in cui la donna che ama aspetta un figlio da un altro e non sa cosa fare. In fondo è un uomo, non un santo, per una volta cede all’istinto e alla rabbia/gelosia. Aveva continuato a sperare che qualcosa cambiasse, in meglio, per lui, e invece si trova con i cocci rotti in mano e deve trovare un modo per non farsi male e non farne a lei. Da qui in poi il ragazzo troverà la sua strada e troverà il modo di risollevarsi: lui, a differenza di Terry, non è portato per l’eccesso, è una di quelle persone che si tiene tutto dentro anche a costo di scoppiare, è una di quelle persone che difficilmente perdono le staffe ma la volta che accade è meglio stargli lontano (lo imparerà qualcuno a sue spese un po’ più avanti).

 

 

Terence continuava a sentire freddo, respirare lo affaticava almeno quanto cercare di camminare nella neve. Aveva ancora ormai pochi soldi, l’anno volgeva al termine e voleva raggiungere New York prima che la madre ripartisse per la tournee. Le aveva mandato un telegramma ma non c’era stata risposta.

Raccolte le poche cose che aveva, era uscito dall’ospedale in piena notte ma almeno stavolta aveva un mantello pesante.

Fuori faceva molto freddo, l’aria gelida lo faceva tossire violentemente, sapeva di non essersi completamente ripreso ma ormai non riusciva più a stare fermo.

 

Il sogno, sempre quel sogno: lui che arriva troppo tardi, quando lei, sfinita per il parto, non ce l’ha fatta e lui non riesce a vedere il figlio in viso. Quel sogno tutte le notti. Sa che potrebbe essere un gioco della mente ma sa anche che quello che è successo a Portland potrebbe portare a quello, ad un figlio. Non è più un ragazzino da tempo.

Ma Candy gli avrebbe scritto se fosse accaduto. Ma la lettera potrebbe essere andata persa.

Non riesce a darsi pace, quel sogno, continuo, ogni notte, come un presagio, come un monito. Deve andare, la deve trovare il prima possibile, ormai sarà rientrata a Chicago ma lui non ha la forza ed il denaro per arrivare fin lì, deve cercare Eleonor e sperare di trovarla in città, New York non è poi così lontana da Boston.

 

Fred aprì la porta e si stropicciò le mani per scaldarle. Guardò depresso il marciapiede davanti a casa, nuovamente ingombro di neve caduta abbondante durante la notte. Pensò al lavoraccio che l’aspettava, per pulire il vialetto di casa e il marciapiede davanti al negozio. Rassegnato, prese la pala e cominciò pazientemente ad ammonticchiare la neve da un lato per riuscire a raggiungere la strada. Si fermò quando notò, sotto uno degli alberi del viale, una figura appoggiata al tronco, avvolta in un mantello nero, immobile.

Si avvicinò chiamando senza avere risposta, doveva essere crollato lì da non molto, non aveva quasi neve addosso. Lo scosse ma non rispose, il cappuccio scivolò di lato rivelando il viso di un giovane dai lunghi capelli castani, era incosciente.

Fred chiamò a gran voce la moglie.

 

Terence sentiva ad ogni inspirazione un peso enorme che gli opprimeva il petto. Si sentiva come galleggiare in un buio che a tratti schiariva come se finalmente il giorno tornasse per poi ripiombare nell’oblio.

Aveva ormai perso il senso del tempo.

Quando infine aprì gli occhi si trovò in un luogo a lui estraneo, una stanza piccola ed accogliente, dai colori chiari, illuminata da un raggio di sole che filtrava attraverso le tende socchiuse.

Tentò di sollevarsi ma gli girò la testa; in quel momento entrò una donna dai capelli neri, raccolti in una lunga treccia, che recava un piccolo vassoio con dell’acqua.

“Buongiorno, sono felice che si sia finalmente svegliato”.

Ma subito dopo fu di nuovo tutto oscuro: gli sembrava di camminare in una notte senza luna ed ogni tanto percepiva delle presenze, vedeva dei volti, come fantasmi; quella donna dalla lunga treccia che lui non conosceva talvolta gli parlava ma non avrebbe saputo dire che cosa gli dicesse.

 

Qualcuno entrò facendo innervosire Robert che non amava che le prove venissero disturbate ma la maschera sembrava piuttosto agitata; il ragazzo consegnò un telegramma urgente che era destinato a Susanna: Robert gli disse di farlo recapitare a casa di lei e gli diede l’indirizzo.

 

Susanna quel giorno era a casa, solitamente frequentava le prove, le faceva bene sentirsi parte ancora di quel mondo. Robert l’aveva incoraggiata quando lei gli aveva detto che le sarebbe piaciuto tornare a recitare e quell’idea era stata caldamente appoggiata da William.

Bussarono alla porta, la cameriera andò ad aprire, poco dopo il Duca di Grandchester faceva il suo ingresso nel salotto.

“Miss Marlow, buongiorno”

“Duca, a cosa devo l’onore…”, gli rispose fredda.

“Sono venuto a comunicarle che non ho ancora notizie di mio figlio e mi domandavo se per caso lei ne avesse avute”, la voce tradiva apprensione.

“No, purtroppo, no”

“Capisco”

Il campanello li tolse dall’imbarazzo di cercare un argomento di conversazione.

La cameriera arrivò con una busta in mano.

“Signorina, è arrivato un ragazzo dal teatro dicendo di essere stato mandato a recapitare questo telegramma urgente per lei”.

Susanna aprì la busta e soffocò un grido, grandi lacrime che parevano di sollievo le caddero in grembo.

“Signorina, tutto bene?”

Lei, incapace di parlare gli porse il telegramma, il Duca lo prese incerto.

 

26 gennaio 1917

Per Miss Marlow, Compagnia Stratford, New York, N.Y.

URGE SUA PRESENZA STOP TERENCE GRANDCHESTER MALATO STOP TROVATO INCOSCIENTE STOP ANCORA DEGENTE STOP

Fred Miller, Roses Mill Road 4, New Haven, CT

 

Fred guardava fuori dalla finestra, in attesa.

Da quando aveva trovato il ragazzo svenuto sotto l’abete il tempo sembrava essersi fermato.

 

Peggy aveva finalmente capito chi fosse o almeno sperava di aver capito. Parole sconnesse mormorate nel delirio, nomi ripetuti come preghiere o imprecazioni, la madre invocata come un angelo…solo dopo molto tempo, ascoltando con attenzione, Peggy era giunta alla conclusione che quel ragazzo era davvero l’attore scomparso che la fidanzata cercava da tempo ma aveva bisogno di una conferma.

Dopo quasi due settimane aveva iniziato a riprendere coscienza, ancora debolissimo. Il dottore aveva detto loro che era un miracolo che fosse ancora vivo.

 

Aveva reagito a quel nome: Susanna Marlow; l’unica cosa da fare era avvertire qualcuno della compagnia, sperando di aver indovinato, per far sapere dove fosse; Peggy avrebbe voluto avvertire la madre ma non era riuscita a farsi dire il nome.

Il telegramma di risposta era arrivato il giorno stesso ed ora, dopo due giorni, una carrozza di piazza si stava fermando davanti a casa.

Ne scesero un uomo alto, distinto, dai capelli brizzolati ed una donna giovane avvolta in un grande mantello scuro che zoppicava leggermente sul marciapiede ghiacciato.

 

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Capitolo 29
*** Finalmente figlio mio! ***


L’angolo dell’autrice

Grazie a kaoru e medea per i complimenti. So di essere veloce ma la storia è quasi completamente scritta ed io sono un po’ compulsiva… ^_^

Per blu rei grazie ancora per le tue numerosissime recensioni… J

 

 

Eleonor passeggiava nervosamente avanti e indietro nel salone.

Era in collera come non le capitava da tempo ma questa volta Richard aveva davvero esagerato.

Aveva trovato finalmente Terence e glielo aveva comunicato con noncuranza solo dopo essere andato a New Haven ed ora non voleva darle l’indirizzo, non voleva che lei andasse da lui.

Si era fatta annunciare ed ora attendeva che Sua Grazia si degnasse di riceverla.

“Eleonor, a cosa devo la tua visita?”

“Oh! Hai ancora il coraggio di chiederlo?”

“Non capisco…”

“Non ci provare!”, Eleonor gli si avvicinò minacciosa.

“Terence sta bene, non c’è motivo perché tu lo debba vedere ora, vi incontrerete quando tornerà a  casa…ora c’è Susanna con lui”

“COSA!? SONO SUA MADRE, HO IL DIRITTO DI VEDERLO!!! SUSANNA! MA SEI IMPAZZITO?”

“Non hai forse sentito?”, l’atteggiamento del Duca continuava ad essere estremamente freddo e guardava la donna con aria di sufficienza, apparentemente indifferente alla sua ira.

“Ho sentito! Come hai potuto pensare di lasciare che Susanna restasse con lui?! Al posto mio!?!”, gli occhi di Eleonor erano stretti e lo fissavano con rabbia.

“Perché?”, lui non l’aveva mai vista così alterata.

“Come perché? E’ colpa di quella streghetta e del suo ricatto se Terence continua a stare male!”

Il duca alzò un sopracciglio e girò intorno ad Eleonor che finalmente aveva smesso di passeggiare nervosamente.

“Non mi dire che ha ingannato anche te?”, gli chiese con voce ironica, seguendolo con gli occhi.

“Spiegati”, le rispose secco.

“Sai cos’è accaduto, vero?”

“Intendi l’incidente e tutto il resto?”

“Sì”

“Sì, ne sono a conoscenza”

“Sai anche che Terence non è innamorato di Susanna?”

Richard restò perplesso.

“Direi di no, vista la tua faccia…cosa ti ha raccontato quella strega?”

“Non permetterti…Susanna è una ragazza molto dolce”

“Sì, una serpe travestita da cerbiatto!”

Il Duca non rispose, il suo colloquio con la signorina Marlow era stato soprattutto costellato da silenzi in risposta alle sue domande, che si fosse sbagliato, che avesse capito male. No, lei lo amava, si vedeva chiaramente. E lui non voleva che quella ragazza, quella Candy li si avvicinasse di nuovo.

 

“Tu forse non sai che Terence si è innamorato di una ragazza quando era a Londra, una ragazza che ricambia i suoi sentimenti e che, dopo il collegio ha ritrovato qui in America. Si sono rivisti ma l’incidente li ha costretti, ha costretto lei a rinunciare a lui perché potesse essere libero di occuparsi di Susanna che gli ha salvato la vita. Quello che non sai è che Terence non l’ha mai dimenticata.

Susanna ha fatto di tutto per sfruttare il gesto altruistico che ha compiuto per legare a sé Terence nel modo più ignobile, ha fatto leva sul suo senso del dovere e dell’onore per costringerlo a restare.”

 

Il Duca ascoltò quello che Eleonor gli disse e restò silenzioso mentre si avvicinava ad una delle finestre.

Poteva immaginare come Terence rivedesse la storia sua e di Eleonor, declinata in modo diverso ma molto simile.

L’onore e il dovere che spezzano un legame altrimenti destinato ad essere eterno: il dolore di un’esperienza del genere era più che sufficiente a portare alla follia una persona meno sensibile e tormentata, il duca poteva ben figurarsi l’effetto devastante che aveva avuto sul figlio.

 

“E’ lei il motivo per cui è sparito?”, non riusciva a guardare Eleonor negli occhi, continuò a fissare il paesaggio.

“Sì, non riesce ad accettare questa situazione e non riesce a dimenticarla..quando credeva di aver saldato il suo debito con Susanna e quindi di essere libero di tornare da lei una serie di circostanze sfortunate hanno fatto sì che lui credesse di averla persa…”

“..e non era così…”

“No..ma lui è troppo impulsivo ed ha sofferto e sopportato già troppo..”

“Chi sarebbe la ragazza, la conosco?”

“Cos’è? Deve passare il vaglio di Sua Grazia? Deve essere di sangue blu?”

Richard si voltò guardando Eleonor tra l’incerto e l’incollerito.

“Eleonor, non ti permettere!”

“Certo che mi permetto!”, gli si era avvicinata di nuovo con aria di sfida.

 “Voglio solo sapere chi è”

Eleonor scosse la testa, quell’uomo la faceva diventare matta. Il Duca le diede nuovamente le spalle.

“Si chiama Candy…”

Lui si voltò di scatto.”Candy? Candy Andrew? Bionda, con i riccioli, due codini, occhi verdi, lentiggini?”

“Sì, la conosci?”

“Sì, sì…è stata lei a convincermi a non costringere Terence a tornare in Inghilterra quando se ne è andato dalla scuola…io..io avevo capito che…ma non pensavo che...”, Richard ora aveva lo sguardo assente, rivedeva quel pomeriggio lungo il Tamigi con Candy, rivedeva Terence che gli chiedeva di intervenire perché lei non fosse espulsa.

“Lei non è degna di Terence, non voglio che una persona dubbia come lei…”, rispose scacciando quei ricordi.

“Non è una persona dubbia, chi ti ha detto una cosa del genere?”

“Credi di conoscerla così bene, eh? Sai che ha vissuto per quasi un anno con un uomo?! Ha detto a tutti che aveva perduto la memoria e che lo stava curando! Una storia bella e buona per coprire una lascività di costumi che non approvo!”

“Non sai nemmeno di cosa stai parlando! Era veramente amnesico ed era William Andrew, anche se lei allora non lo sapeva, sapeva solo che quell’uomo le aveva salvato la vita, era il suo migliore amico, un fratello per lei”.

Lui si girò di scatto. “MA COSA DICI?!”

“Vedo che ne sai meno di me…”

Silenzio, silenzio per diversi minuti, solo la pendola scandiva piano il tempo nel pomeriggio ovattato.

Si sedette prendendosi la testa con le mani. Ricordava bene anche quel giorno in cui l’aveva minacciata, lei era rimasta sconvolta, ricordava le parole dure di William Andrew.

“Cosa hai combinato?”

Inspirò profondamente. “Sono…sono andato a Chicago, ho parlato con lei, le ho detto di non avvicinarsi più a Terence, di lasciarlo in pace, che c’era Susanna…”

“Sei un disgraziato!”

Lui la fissò incerto, non era del tutto sicuro di aver fatto un errore ma di fronte all’incrollabile sicurezza di Eleonor aveva vacillato. Tuttavia il suo sesto senso, di solito, non sbagliava, anche se ora sembrava che tutto fosse contro di lui.

“Richard…”, alla fine gli posò una mano sulla spalla perché la guardasse, “Dimmi dov’è Terence..”

“Andiamo” e si alzò deciso, prendendole la mano.

 

In quello che a lui sembrava il sonno apparve più volte il viso di Susanna, molto vicino al suo: con le mani tentava di respingere quella visione ma sembrava solida e continuava a tornare.

Ripiombò nell’oscurità, il sonno agitato. Ancora una visione: stavolta suo padre…e Candy perché non riusciva a vederla? Doveva alzarsi, doveva raggiungerla, si sentiva come inviluppato in una tela di ragno che gli impediva i movimenti, come se avesse le pastoie.

Il giorno si fece strada un’altra volta, prepotente, e apparve il viso della madre: si destò del tutto, stavolta non era un incubo, era reale. Lei lo abbracciò piangendo.

 

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Capitolo 30
*** Ritorno a Chicago ***


L’angolo dell’autrice

Allora, andiamo per ordine…

La zia: mi serve viva (almeno per un po’, scherzo) per cui resterà fino alla fine.

Il duca: non dormiva ma ha capito quello che ha voluto capire e Susanna, che finalmente aveva un alleato, si è guardata bene dal fargli capire che il figlio non fosse poi tanto innamorato di lei…

L’annuncio della gravidanza avrà i suoi effetti sulla zia, quanto ai Legan continuano a non volerne sapere di entrare in questa storia..mi spiace…Archie e Stear invece torneranno…quanto alla scazzottata ci sarà ma vedrete chi saranno i protagonisti…

Per blu rei, grazie per questa frase: “non sei una scrittrice professionista ma se tu mettessi altri nomi a questa storia io pagherei per comprare il tuo libro”, sono arrossita, lo ammetto…ehem!

 

Ancora il treno, metafora del cambiamento, ancora il paesaggio che scorre, ammantato di bianco. Stavolta non è sola ma è come se lo fosse.

Albert accanto a lei guarda il paesaggio scorrere mentre discute con George degli appuntamenti della settimana. Marian, seduta accanto a George, sembra persa nei ricordi, talvolta sbircia in direzione di Albert ed arrossisce.

Lei non fa altro che pregare perché Terence si faccia vivo, perché finalmente arrivi una notizia, qualcosa che la sollevi da quello stato di attesa che la spossa.

Alla fine si alza, ha bisogno di camminare. Albert la segue con lo sguardo, lei gli posa una mano sulla spalla a rassicurarlo, va tutto bene, solo quattro passi. Lui fa per alzarsi ma lei scuote la testa, non è necessario che l’accompagni.

Candy attraversa le carrozze una ad una, sino ad arrivare in fondo, dal vetro dell’ultima porta si vedono i binari che scorrono via, piccoli, sempre più piccoli, fino ad unirsi, in lontananza, nella neve.

Si appoggia allo stipite, e si lascia cullare da quel movimento che porta quiete. C’è più fresco che dentro la carrozza affollata, si stringe lo scialle candido per non sentire freddo e con una mano accarezza il bimbo dentro di lei, chissà se vedrà mai suo padre, scomparso, inghiottito nel nulla.

Non ha nemmeno più lacrime per piangere, deve farsi forza, per quel figlio inaspettato, per se stessa, per il suo angelo biondo che si sta giocando la reputazione per proteggerla.

 

Non può esporre ancora Albert al rischio di uno scandalo, alle ire della zia, alla sofferenza di vivere vicini, sapendo che lei non potrà mai ricambiare l’amore puro ed incondizionato di lui.

Ha deciso: se ne andrà, non appena potrà tornerà alla Casa di Pony, voleva fermarsi lì già ora ma non si poteva, troppi bimbi con la varicella; quando saranno guariti e non saranno più un pericolo per loro due, lei tornerà ed il piccolo crescerà lì, come in una grande famiglia se Terence non dovesse tornare, se non tornasse più..non ci vuole nemmeno pensare…

 

Non sa quanto tempo trascorre lì, non si accorge della porta che si apre dietro di lei.

Sente il mantello che viene appoggiato sulle sue spalle, non c’è nemmeno bisogno che si volti, sa chi è. Un bacio sulla tempia, un lungo abbraccio, e la lascia di nuovo sola con i suoi pensieri ma avvolta da un amore che scalda più di quel mantello scuro che ha il suo profumo. E’ stata meschina e stupida a pensare di poter ricambiare quel sentimento, a pensare di esserne innamorata o di potersene innamorare  usando la volontà.

Quella ragazza spuntata dal nulla, che l’ha inseguito per tre continenti, merita molto più di lei il suo amore ma finché lei sarà una preoccupazione costante per lui…

Deve andarsene, al più presto, deve andarsene e lasciare che Albert faccia la propria vita, lei è in grado di badare a se stessa, anche questa volta riuscirà a cavarsela…prima o poi troverà Terence, prima o poi. Sperare è l’unica cosa che può fare.

Alla fine rientra, troppo freddo. Si toglie il mantello e attraversa nuovamente le carrozze fino ad arrivare dai suoi compagni di viaggio, fa attenzione a non cadere, alcuni passeggeri le cedono il passo, la sua condizione ormai è visibile sotto il vestito invernale...due paia d’occhi l’hanno vista, due paia d’occhi hanno osservato la scena fuori dalla porta della carrozza, due paia d’occhi che ne lei ne Albert hanno visto.

P.S. Mi sono dimenticata una cosa: le pastoie. E' una fune che si mette alle gambe anteriori dei cavalli o di altri animali lasciati al pascolo, perché non si allontanino e indica anche parte della zampa di un cavallo tra il nodello e la corona, dove appunto va legata la fune.

 

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Capitolo 31
*** Chiarimenti ed equivoci ***


Quando erano arrivati a Chicago, George, dopo aver sbrigato alcune commissioni in città, l’aveva preceduto con Marian a Casa Andrew mentre lui e Candy erano andati dritti dal dottor Martin, certi che avrebbe voluto visitare la ragazza. Albert voleva portare Candy alla villa ma lei voleva chiedere ospitalità al dottore nella piccola clinica per evitare problemi con la zia e tutto il parentado.

Martin si era rifiutato categoricamente, un ospedale non era posto per lei e così, con Candy particolarmente sbuffante, erano arrivati al palazzo.

Lei era andata subito nella sua camera mentre lui aveva cercato la zia che non aveva voluto riceverlo e glielo aveva fatto sapere tramite un domestico.

Albert non si era aspettato un’accoglienza festosa ma nemmeno il rifiuto categorico di essere ricevuto.

 

Non ci volle, però, molto tempo per sapere il motivo di quello strano comportamento.

La signora aveva cenato in camera, adducendo un forte mal di testa ma Albert la vide entrare poco più tardi nel suo studio con un cipiglio ed un’ira nei gesti che lo stupirono.

 

“Zia, vedo che sta finalmente meglio”

“Taci, disgraziato!”

Lui sollevò un sopracciglio, senza scomporsi, appoggiandosi allo schienale della poltrona.

“Fai anche finta di nulla!? Come osi?!”

“Continuo a non capire!”

“Come hai osato portare quella ragazza in questa rispettabile casa?”

“Di chi sta parlando? Non di Marian e non di Candy io spero..”, il tono era mutato scoprendo una leggera minaccia nella voce a non continuare la conversazione su quel tono.

Lei non ci badò: “Sto parlando di quella piccola intrigante che ci ha già procurato uno scandalo! Come hai osato portarla qui in quelle condizioni!”

Albert dovette inspirare profondamente per non risponderle di andarsene a quel paese; represse anche l’istinto di alzarsi ed uscire.

Strinse la mascella e non rispose, fissando dritto negli occhi la zia, lo sguardo glaciale.

“E’ inutile che tu faccia così…un uomo certi errori li può commettere ma permettere che questo diventi di dominio pubblico facendoti vedere in giro con lei è inammissibile!”

Albert trasecolò! La zia non era arrabbiata per la condizione di Candy: era arrabbiata perché credeva che il padre fosse lui e fosse stato un errore.

E ora che faccio? La zia crede che il padre sia io..forse è meglio lasciare che lo creda almeno finché non riesco a trovare Terence…forse lo spettro di un matrimonio con Candy servirà a tenerla buona per un po’….Candy dovrà sapere di questo equivoco, ce ne sono stati anche troppi…come sarebbe stato tutto più facile se davvero io…è inutile pensarci…non sarebbe mai stato possibile…

Pensò velocemente.

“E cosa mi consiglia di fare, zia?”, rispose cercando di apparire rilassato ed interessato all’opinione che aveva chiesto.

“La cosa migliore che avresti potuto fare era darle del denaro e farla sparire,far in modo che anche in seguito non torni a chiedere ciò che non le spetta, per lei e per quel bambino. Inoltre se si viene a sapere quello che è successo la tua reputazione ne verrebbe gravemente danneggiata, lei è ancora minorenne e tu ne sei il tutore…lo sai che la rispettabilità è l’unica cosa importante negli affari…la famiglia ne sarebbe gravemente danneggiata…deve sparire..”

 

Albert fremette: come si permetteva!? Lo conosceva così poco da credere che se fosse stato davvero il padre del bambino si sarebbe comportato così? Anzi, lo conosceva così poco da pensare che fosse solito avere avventure di tal sorta? Se quel figlio fosse stato suo avrebbe sposato la madre e non l’avrebbe mai abbandonata o pagata perché sparisse. Lei pensava solo agli affari e alla reputazione: era disgustato.

Cercò di dominarsi ancora una volta e di rendere tranquilla la voce.

“Forse ho sbagliato ma ha bisogno di cure…”

Lei soppesò un attimo lo sguardo e l’atteggiamento del nipote, sapeva che non poteva prenderlo alla leggera ne, tanto meno, cercare di imporsi con la forza, avrebbe perso la battaglia.

“Potrà restare qui fin quando non sarà nato, nell’ala est, ma non la voglio incontrare per nessun motivo, poi dovrà andarsene, voglio che revochi l’adozione, una persona così non è degna di portare il nostro nome…e non pensare di sposarla”, era una minaccia, Albert non riuscì trattenersi, “Invece pensavo proprio a questo, sarebbe più onorevole…in fondo metà dell’errore è mio…”

“Sei uno stupido, l’ha fatto apposta, per incastrarti e tu ti lasci abbindolare…Dovrai passare sul mio cadavere per fare una cosa del genere!”

“Ne riparleremo”, non aveva intenzione di lasciarle l’ultima parola.

“William!”

Lui la fissò così duramente che lei dovette distogliere lo sguardo, si voltò e fece per andarsene.

“Vorrei capire una cosa”, disse fermandola mentre stava uscendo dallo studio, “Come ha fatto a sapere di Candy, noi siamo arrivati quando lei era in camera e, stando a quello che mi ha detto George, già in collera…”

“Non sei l’unico ad avere qualcuno che ti informa di ciò che accade quando tu non ci sei..”

Lui la fissò gelido, stava ancora aspettando un nome e non l’avrebbe lasciata andare fin quando non l’avesse avuto, lo sapeva bene.

“Qualcuno vi ha visto sul treno e ha visto anche in che modo ti comporti con lei in pubblico, un modo molto sconveniente…”

“Potrei avere la grazia di sapere chi è questa persona che non sa stare al suo posto?”

“Tua sorella è interessata solo al tuo bene ed ha fatto la cosa giusta informandomi…”

Albert dovette respirare nuovamente a fondo per non perdere le staffe…Lily, era lei, solo lei poteva comportarsi così meschinamente, degna madre di Iriza e Neil.

“Bene, visto che è così interessata al mio bene le faccia sapere, la prossima volta che la vedrà, che, per il mio bene, non si faccia sfuggire nulla perché nel caso di uno scandalo sarei costretto a sposare Candy e questo non è auspicabile, giusto?”, il tono era cortesemente minaccioso ed Elroy sapeva che non poteva prenderlo alla leggera.

“Farò in modo che lo sappia..” ed andò via a testa alta, con susseguo.

 

Marian, quanto devo sembrarti strano…quanto deve sembrarti strano tutto questo…

 

Nemmeno se l’avesse invocata..

“Albert, stai bene?”

Si stava tenendo la testa con le mani, i gomiti appoggiati sulla scrivania, gli occhi chiusi.

Lei era rimasta sulla porta.

“Entra”

“Non ti disturbo?”, sempre imbarazzo.

“No, anzi, mi fa piacere.”

Aveva bisogno di parlare con qualcuno e Candy aveva già troppe preoccupazioni.

“Mi spiace che tu sia capitata qui in un momento come questo, ti assicuro che ci sono stati periodi in cui l’aria in questa casa era molto più serena…”

“Non ti preoccupare, non è colpa tua, sono io che ti sono piombata addosso senza preavviso…”

“Già, non avrei mai creduto di rivederti…”, Albert guardò fuori dalla finestra il giardino ancora addormentato sotto la neve.

“Albert…”

“Sì…”

“Io, ecco…”

Ma Albert stava seguendo il filo dei propri pensieri: “Quando dovrai partire?”

Marian restò spiazzata: “Io, veramente…ero venuta proprio per questo, un paio di giorni e devo tornare a New York e riprendere la nave per Lodra”

Così presto, pensò Albert voltandosi, Londra, la guerra…lontana…di  nuovo…

“Ti accompagno, devo andare a Philadelphia per qualche giorno…”, era una mezza verità, ma sarebbe potuto partire anche qualche giorno più tardi.

“Beh, ne sono felice…e Candy?”

Albert divenne serio: “Anche se mi sento più tranquillo quando è con me, deve evitare di spostarsi. Lascerò che Archie e Stear si prendano cura di lei in mia assenza.”

“Le vuoi molto bene, vero?”

“Già..”, lo sguardo era perso nel caos di sentimenti che aveva dentro in quel momento; parlare di Candy con Marian gli faceva uno strano effetto ed ancora più strano gli sembrava il suo istintivo calcolare cosa dire e cosa non dire…aveva paura che lei capisse troppo ora che lui, invece, non riusciva a capire un bel niente di quello che gli si agitava dentro.

Lei gli si avvicinò e gli strinse una mano: “Vedrai che andrà tutto bene, si sistemerà tutto”, gli sorrise.

Restarono a guardarsi per qualche istante, poi lei fece un passo verso di lui, appoggiando la testa sulla spalla e lui la chiuse in un abbraccio stretto, affondando il viso nei capelli; dalla porta socchiusa Candy li vide e sorrise..Albert era in buone mani, ora.

 

Archie sedeva con le mani tra i capelli e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, Stear era in piedi accanto alla finestra, silenzioso, Albert li stava osservando in attesa delle loro reazioni.

“Se prendo quel bastardo lo ammazzo”
”Fratello, calmati, è inutile”

“Mi fa una tale rabbia!”

“Ragazzi, è inutile che ve la prendiate, le cose stanno così e…”

“Anche tu! Come hai potuto tenercelo nascosto!”

“Me l’ha chiesto Candy”

“Ma allora quando si è sentita male a Lakewood era per il bambino”, chiese Stear voltandosi, era restato pensieroso mentre il fratello si agitava come al suo solito.

“Già”, rispose Albert con un sospiro, “Ora, io devo andare via per qualche giorno: la zia Elroy non la vuole incrociare nemmeno per sbaglio, lei non deve affaticarsi altrimenti Martin mi fa la pelle e non deve muoversi di qui, altrimenti la pelle la faccio io a voi”, concluse sorridendo stancamente.

“E’ accaduto quando è andata via ad agosto, non è andata a trovare le colleghe…”, mormorò Stear.

“Sì..”

“E perché l’hai lasciata andare!?”

“Archie, non potevo fare altro, sarebbe andata lo stesso, non pensavo che le cose sarebbero finite così…”

“Cosa pensi di fare ora?”

“Accompagnerò Marian a New York alla nave poi cercherò di sapere qualcosa da Eleonor”

“Sapere cosa?” chiese Archie, poi si diede una manata in fronte, “Ma allora non hai ricevuto il telegramma che ti avevo mandato a Lakewood?”

“Quale telegramma?”

“Quello di Eleonor Baker”

“No..cosa diceva?”

“Che il Duca aveva trovato Terence!”

“Bene, infine una bella notizia, dopodomani sarò a New York, andrò subito da lui”

Ci fu un attimo di silenzio, ciascuno era concentrato sui propri pensieri.

“E Candy? A questo punto viene con te?”, chiese Archie, d’improvviso.

"Terry è a New York?"

"No...ha detto che il duca l'ha trovato ma lei non sa dov'è"

“Il dottore che dice del suo stato?”, domandò Stear.

Albert li osservò un attimo, sospirando.

“E’ piuttosto preoccupato. Durante l’ultima visita mi ha detto che Candy deve assolutamente restare a riposo, evitare qualsiasi tipo di lavoro e di emozione. E non dovrebbe nemmeno viaggiare, a meno di motivi serissimi. Preferisco che rimanga qui. Si è affaticata troppo e ha vissuto molto male i primi mesi, Martin la giudica a rischio e non voglio che le accada nulla…”

“Albert, mi spiace..”, Stear aveva posato una mano sulla spalla di Albert che, mentre parlava, preso dallo sconforto e dalla stanchezza aveva nascosto il viso tra le mani.

“Non ti preoccupare per me, pensate a Candy…e tenete lontana la zia da lei”

 

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Capitolo 32
*** Pettegolezzi a New York ***


La signora Marlow aveva iniziato a parlare non appena entrata in casa, mentre ancora aveva addosso il soprabito da viaggio.

“Susanna! Susanna! Non crederai mai cosa ho visto sul treno! Sono rimasta esterrefatta! Non mi sarei mai aspettata una cosa del genere da un gentiluomo come lui!”

“Susanna! Ma dove sei?”, chiese di nuovo togliendosi i guanti di capretto ed iniziando a sbottonare il soprabito per poi passare al cappellino. Udì il passo ritmico della figlia nel corridoio che portava al salotto grande.

“Ero nell’ultima carrozza e mi sono vista passare davanti una ragazza che mi sembrava di aver già visto. Mi sono messa a pensare dove l’avessi già vista… Susanna! Ma dove sei?”

“Sto arrivando, mamma. Potresti parlare più piano?”, disse a voce alta la figlia avvicinandosi.

La signora era ancora nell’ingresso, intenta a sistemare il piccolo bagaglio che aveva con se, era andata a trovare la sorella a Salt Lake City per qualche giorno e ne era appena tornata.

“Poi ho visto passare William Andrew con un mantello in mano ed è uscito a raggiungere quella ragazza sulla piattaforma esterna…non ci crederai, nemmeno io credevo ai miei occhi, l’ha baciata! L’ha baciata e poi l’ha abbracciata a lungo, davanti a tutti! Allora ho capito chi era! Era quella ragazza, quella che ti ha salvato la vita , come si chiamava, quell’amica di Terence, …Candy, sì, Candy..”

“Mamma, vuoi parlare più piano?”, Susanna finalmente aveva raggiunto la madre nell’ingresso. “Sì comunque Candy e William si conoscono molto bene, non vedo il motivo di tanto stupore! E lui  le vuole molto bene…”

“L’avresti visto anche tu se fossi stata con me…loro non sono sposati per quello che ne so ma lei è incinta, e già avanti, si vedeva molto bene quando mi è passata accanto per tornare indietro…”

La signora Marlow si interruppe al rumore del bastone della figlia che cadeva. Si voltò e vide la figlia molto pallida, appoggiata al muro.

“Tutto bene, tesoro?”

“Sì mamma”, cercò di mantenere la voce neutra, “ e dici che lei…”

“Sì, sì, lei era chiaramente in attesa ed è sicuramente del signor Andrew…avresti dovuto vedere come è rimasto a lungo a guardarla da dentro la carrozza dopo averle posato il mantello sulle spalle…e il modo in cui l’ha abbracciata…si vede da lontano l’adorazione che ha per lei…bacerebbe la terra su cui cammina…e ho sentito una signora seduta dall’altra parte del corridoio, che sembrava conoscerlo bene, che lei si era sicuramente fatta mettere incinta per incastrarlo, per mettere le mani sul patrimonio…ne parlava con la domestica, sottovoce ma l’ho sentito bene…Susanna, che hai?”

“Ascolta…abbiamo ospiti, c’è il Duca, Terence rientrerà a giorni a New York”

“Il Duca? Terence? E non mi hai detto nulla?!”, ripensava al tono di voce che aveva usato, “è molto probabile che li conosca, oh che figura che ho fatto! Mi hai lasciato fare la figura di quella che racconta pettegolezzi non appena entra in casa

“Ti avevo detto di parlare piano…e poi sei solita farlo…”

“Che cosa?”

"Raccontare i pettegolezzi non appena arrivi...!!"

In quel momento apparve il Duca, facendo finta di nulla.

“Signor Duca, va già via?”

“Sì, signora, sua figlia è stata così gentile da ricevermi ugualmente anche se aspettava il suo ritorno a  minuti. Spero abbai fatto un buon viaggio, avrete molte cose di cui parlare”, disse guardando dritto negli occhi la donna che era rimasta senza parole, “non voglio disturbare oltre”.

“Le porgo i miei saluti”, disse il Duca accennando ad un inchino mentre baciava la mano alla donna.

“Susanna, venga a trovare mio figlio quando vuole, sarà sempre la benvenuta. Verrà a stare dalla madre fin quando non si sarà ripreso del tutto e potrà tornare a fare una vita regolare.”

“La ringrazio”

“A presto, dunque”

 

Susanna chiuse la porta con sollievo, il Duca la intimoriva e la metteva in agitazione, si sentiva costantemente sotto esame e poi aveva il bisogno di stare sola: quello che le aveva detto al madre, anziché renderla felice perché l’OSTACOLO tra lei e Terence era ormai rimosso, l’aveva sconvolta e basta.

Il Duca scese le scale sorridendo soddisfatto, già immaginava l’espressione contrariata di Eleonor quando le avesse raccontatola cosa: la piccola, dolce, pura Candy aveva avuto una tresca col padre adottivo. Aveva indovinato molto meglio di lei il carattere di quella piccola intrigante.

 

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Capitolo 33
*** Due giorni frenetici ***


L’angolo dell’autrice

Blue rei, hai ragione, Candy è una testa calda e vedrai in questo capitolo cosa fa…e Terence tornerà, per niente malaticcio..Quanto al duca metterebbe in soggezione anche me…

Semplicementeme: mi spiace per gli infarti che ti faccio prendere ma il problema di pubblicare una storia a puntate è che uno resta col fiato sospeso fino al capitolo successivo senza poterci fare nulla quando in realtà tutto è legato e sarebbe da leggere tutto di seguito. Quanto alle puntate di Candy, se cerchi bene su youtube le trovi anche in italiano, so che le hanno appena messe. In ogni caso se vai sul candycandyforum trovi un sacco di info, compreso il link alle puntate…

Quanto a Susanna è rimasta sconvolta non per quello che pensi tu ma perché…crede che ..il bambino sia di William…

 

 

“Pronto? Qui è il centralino. Il signor Archibald Cornwell desidera parlare con il signor William Andrew”

“Sono io, me lo passi, grazie”

Rumori elettrostatici.

“Pronto, Albert?”

“Sì, Archie, sono io, dimmi…”

“Non so da che parte iniziare…”

“Dall’inizio?”, suggerì ironico Albert

“Non riderai dopo che ti avrò detto tutto.”

“Devo iniziare a preoccuparmi?”

“Riguarda Candy…”

“Che è successo, sta male?”

“Non lo so…”

“Cosa significa non lo sai?!”

“Non la troviamo più da nessuna parte”

“”Archie, ti avevo detto di tenerla d’occhio…me lo aspettavo”

“Anche noi ma non che se ne andasse all’alba. Ha lasciato un biglietto per te nel tuo studio. Ci siamo accorti della sua assenza solo a pranzo, quando siamo andati a vedere perché non scendeva. Aveva detto alla cameriera di non svegliarla perché voleva dormire fino a tardi e così non ci siamo insospettiti..”

“Leggimi il biglietto”

Caro Albert, ho deciso di andarmene perché non posso più essere un peso per te e non posso nemmeno continuare ad essere la pietra dello scandalo per la zia che ti rende la vita impossibile. Non preoccuparti per me, dillo anche ad Archie e Stear, me la saprò cavare. Non mi sento più a mio agio a Chicago. Ti farò avere mie notizie, spero di avere presto buone nuove da darti. Ti voglio bene, grazie per tutto quello che hai fatto per me. Tua Candy.

Albert sei ancora lì?”

“Non hai i dea di dove si andata? Hai provato alla Cada di Pony? Hai mandato un telegramma?”

“Sì ma la risposta non arriverà che tra qualche ora e comunque, se anche fosse diretta lì, prima di stasera non sarà arrivata.”

“Maledizione,Archie! Non doveva muoversi!”

“Me ne sarei dovuto rendere conto, ieri sera era stranamente euforica, non ha fatto altro che sorridere tra se e se e sembrava camminare ad un metro da terra…a proposito, hai sentito Eleonor?”

“Eleonor? So che Terry è ancora convalescente a New Haven…”

“Scusa ma il telegramma dice che Terence sarà a New York domani…”

“Quale telegramma?!”

“Quello di Eleonor di ieri, era sulla tua scrivania…”

“Ieri non è arrivato alcun telegramma, ne tu ne Stear ne George mi avete…Candy!”

“Candy!”

“Ha intercettato il telegramma!”

“Pensi stia venendo a New York?”

“Credo di sì..maledizione!”

“Albert, calmati, non le accadrà nulla e poi è pur sempre un’infermiera, se sentirà qualcosa di strano vedrai che andrà dritta all’ospedale…”

“Se ci arriva…”

“Stai tranquillo! Vuoi che ti raggiungiamo?”

“No! Tranquillizza Miss Pony e Suor Maria…George domani dovrebbe essere qui, semmai mi farò aiutare da lui a cercarla..”

“Va bene, se la trovi fammi sapere…”
”Vale anche per te…”

“Va bene, ciao Albert”

“Ciao Archie”

 

Albert aveva lasciato Marian al porto e aveva visto il RMS Virginian salpare dalla terrazza della grande stazione marittima.

 

Lei voleva che si salutassero alla dogana, mentre faceva controllare il passaporto britannico per il visto.

Si era sentito sempre più restio a lasciarla partire ma il suo lavoro la chiamava e lei doveva tornare.

 

Mentre camminava per la Quinta Strada verso il palazzo di famiglia continuava a veder il viso di lei che cercava di non piangere: due addii si sovrapposero, sotto due cieli diversi ma quello che aveva provato era la stessa cosa.

“Non voglio che tu parta”, era riuscito finalmente a dire, gli occhi azzurri improvvisamente cupi, le mani nelle mani.

“Dici davvero?”, lei sembrava sorpresa e felice.

“C’è la guerra e..io..ti ho appena ritrovata..”, non riusciva a mettere a fuoco quel sentimento che gli attanagliava il cuore al punto di non riuscire quasi a pensare: dolore?  Paura? Ansia? Nostalgia? Senso di impotenza? Vergogna?

“Tornerò se tu vuoi, andrà tutto bene”, sorrideva per non piangere.
”Prenditi cura di te”

“Anche tu”, le diede un bacio sulla fronte, poi si abbracciarono per lunghi minuti mentre i rimorchiatori cominciavano ad agganciare la nave e prepararsi alla partenza.

Albert, alla fine, aveva portato il bagaglio fin sulla la nave ma lei lo stava spingendo ad andarsene.

“Non mi piacciono gli addii così”

“Non è un addio, vero?”

“No”

“Arrivederci allora…”

“Arrivederci Albert”

Lui restò lì, incerto, a guardarla.

Le sirene suonavano e i due marinai vicini alla scaletta lo guardavano con fare interrogativo.

“Allora, te ne vuoi andare o vieni in Inghilterra con me?”

Lui scese di corsa ma quando si girò Marian era già scomparsa, non era voluta restare sul ponte.

 

Stava camminando così distratto dai suoi pensieri da non accorgersi della persona che lo attendeva pochi passi più avanti.

 “Candy!”

“Albert…”rispose lei quasi sotto voce.

“Piccola, ma cosa fai qui seduta al freddo?”

“Albert..non ha voluto vedermi….mi ha fatto dire che non mi vuole vedere…non sono riuscita a parlargli…Albert…”

“Cosa?!”

Albert la osservò, era rimasto senza parole: era pallida, con il viso stravolto, gli occhi spenti che fissavano il marciapiede. Come accadeva sempre, quando era agitata, aveva dimenticato di mettere il cappotto ed i capelli uscivano dal nodo del nastro disordinati e ribelli, ma in lei, di ribelle, non c’era nulla, solo disperazione. Perché l’ha cacciata, cos’è accaduto?

Si scosse dalle sue riflessioni quando vide un’espressione di dolore passare sul viso di lei che istintivamente stringeva con entrambe le mani il ventre teso, come a proteggere il bambino dentro di lei.

“Piccola, che hai?”

“Niente”, ma la smorfia di dolore le alterava anche la voce.

Albert ricordò il monito di Martin e lei, di strapazzi, ne aveva avuti fin troppi.

“Riesci ad alzarti?”

Candy tentò di mettersi in piedi ma una nuova contrazione la fece piegare in due. E’ presto, è troppo presto! Non ora! Non ora!

Gli stessi pensieri attraversarono la mente di Albert mentre una rabbia sorda gli cresceva dentro. Ma cos’ha in testa Terence! Come gli è venuto in mente di cacciarla?! Nel suo stato? E’ suo figlio!

Si sentì afferrare la giacca con forza. Candy aveva il viso deformato da una smorfia di dolore e diventava sempre più pallida.

“Albert aiutami!, con un filo di voce.

Albert però non riusciva a sollevarla, aveva paura di scivolare sul marciapiedi ghiacciato. Alla fine Candy riuscì ad alzarsi e, appoggiandosi a lui, entrò in casa.

Dopo pochi minuti uno dei domestici usciva per chiamare il dottore.

Dopo circa mezz’ora dall’arrivo del dottore William Andrew usciva dal palazzo con il viso adombrato e gli occhi gelidi alla volta della casa di Eleonor.

 

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Capitolo 34
*** Ancora il duca ***


L’angolo dell’autrice

Allora…siete curiose, eh? ^_^ Scazzottate ne vedrete due, quasi, perché certe persone non si abbassano a fare a pugni…

Quanto ai capitoli che mancano la risposta è ardua…alla risoluzione del distacco tra Candy e Terence, pochi, molto pochi…Alla fine della storia non so ancora di preciso quanti perché mi mancano ancora un po’ di cosine da sistemare, anche se la trama ce l’ho ben chiara in testa…comunque pensate che si devono chiudere le storie di Richard, Eleonor, Susanna, Albert e Marian…quindi…c’è ancora un po’ di storia da raccontare…

 

Terence scese le scale. Udiva chiaramente la voce della madre che discuteva con qualcuno di cui, però, non riusciva a capire l’identità. Si avvicinò alla porta socchiusa e vide suo padre che dava le spalle alla finestra e fissava Eleonor con aria infastidita. Restò sulla porta, seminascosto. Non aveva mai visto la madre così alterata, la rabbia fiammeggiava negli occhi blu.

“Sei arrogante e presuntuoso! Come hai osato comportarti come se fossi a casa tua!”

Richard continuò a fissare Eleonor senza rispondere, un’espressione annoiata e di sufficienza sul viso.

“Come ti sei permesso di mandarla via! Mandare via un’ospite da casa mia! Non mi capacito della tua maleducazione ed arroganza! E’ casa mia questa!”

“Non l’ho cacciata, se ne è andata…”

“Avrai mentito perché se ne andasse!”

“Le cose stavano esattamente come mi aveva riferito la signora Marlow, hai potuto vederlo anche tu…”

“Lei è sempre stata un’ospite gradita in questa casa! Se è venuta fin qui a parlare con Terence avrà avuto i suoi buoni motivi e tu non dovevi impicciarti! Sono cresciuti, non sono più bambini!”

“Ah, di questo ne sono certo…si notava…”, le rispose con aria ironica.

“Quella ragazzina è solo un’arrampicatrice sociale!”, aggiunse come se stesse spiegando un concetto difficile ad una bambina piccola.

“Non usare quel tono con me! E poi come ti permetti! Non ho mai conosciuto una persona più buona e disinteressata”

“Ma anche lei ha i suoi scheletri negli armadi! E guarda il tuo caro William, cosa ti ha taciuto..”, con tono di scherno.

“COSA!!!???? Ma sei impazzito, e adesso William cosa c’entra? “

“Ah beh, dovresti immaginarlo, non avrà certo fatto tutto da sola e voci di una relazione tra loro ci sono da un bel po’…”

“Non è di William quel bambino!”

“E questo chi te lo dice, eh?!”, si era avvicinato a lei e le aveva afferrato un braccio con una presa ferrea, per poi tirarla a se con forza, stringendo gli occhi sul viso di lei a pochi centimetri dal suo, “Cosa ne sai?!”, era geloso dell’intimità che sembrava esserci tra i due, “Pensi che ti racconti proprio tutto?”

“Non è di William!”, lei si liberò della stretta con rabbia, non riusciva a capire il perché di quella reazione.

“E di chi pensi che sia, di Terence forse? O c’è stato un intervento divino?!”

“Non essere blasfemo!”

“Eleonor, sto solo cercando di proteggere Terence!”

“Gli stai solo facendo del male! Stai facendo di nuovo lo stesso errore…”

“Cosa vuoi dire?”

“Stai facendo a lei quello che tuo padre ha fatto a me…”, gli occhi di lei erano lucidi ora, malgrado l’ira…

“Eleonor…”, lui le si avvicinò…”io…”, come poteva dirle che ancora l’amava, che non stava facendo lo stesso errore, che quella ragazza non era lei, che le cose erano diverse, che lui l’errore l’aveva fatto davvero ed ora ne stava pagando tutte le conseguenze. Vederla così, con gli occhi lucidi lo fece tremare…che lei provasse ancora qualcosa oltre la rabbia e il ricordo del dolore?

“Si può sapere di chi state parlando?”. Terence aveva ascoltato l’intero scambio di battute con il fiato sospeso e solo alla fine aveva trovato il coraggio di fare la domanda, l’oscuro presentimento che solo Candy potesse essere l’oggetto della conversazione.

Eleonor si voltò di scatto e l’ira lasciò il posto alla preoccupazione.

Il Duca non mutò l’espressione del viso, “Di quella ragazzina che non fa che mettersi in mezzo”, disse.

“Di chi stai parlando”, lo sguardo di Terence era gelido.

“Terence”, intervenne Eleonor, “Candy è stata qui…” ma non fece in tempo a finire la frase che Terry esplose: “E TU, TU L’HAI MANDATA VIA?!”, rivolto al padre.

Si era avvicinato al Duca, ormai alto quanto lui e i due si fissarono negli occhi a brevissima distanza.

“Cosa le hai detto?!”

“Non ha molta importanza, tanto non la vedrai più, questa faccenda deve finire, ti ha già fatto soffrire troppo, si è presa gioco di te fino ad adesso…e ha cercato di farlo di nuovo”, gli rispose pacato il padre.

“COSA LE HAI DETTO?!”, ripeté Terence con rabbia crescente.

Eleonor intervenne prima che la faccenda degenerasse.

“Terry, ascolta…”, si mise tra i due uomini.

Terry abbassò lo sguardo verso la madre, in attesa.

“Candy è andata via da poco, non ho fatto in tempo a fermarla, va a cercarla, non può essere molto lontana da qui.”

Lui annuì poi, rivolto al padre: “Questa storia non finisce qui, ne parleremo ancora. Ti avverto: non metterti mai più tra me e Candy, altrimenti dimenticherò del tutto il rispetto che ti devo!”, ed uscì, sbattendo la porta.

Richard ed Eleonor restarono soli.

“Non finisce qui nemmeno per me”, disse lei fissando il Duca, “questa volta hai passato il segno…”

 

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Capitolo 35
*** E' tutto finito ***


L’angolo dell’autrice

Oggi invio questo capitolo che risolve, in parte, la storia tra Candy e Terence ma non chiude il “romanzo” che sto scrivendo. Per i prossimi aggiornamenti dovrete attendere un po’ più a lungo e con una frequenza minore perché sono sommersa dalle cose da fare e non riesco a riordinare i capitoli come vorrei… Per cui perdonatemi e pazientate.

 

Ormai erano ore che vagava per la città senza aver trovato traccia di lei. Il primo posto dove l’aveva cercata era stato il palazzo degli Andrew sulla Quinta Strada ma lei non era lì. Quindi era tornato indietro per cercare nelle strade adiacenti alla casa della madre e nel Central Park.

Stanco e demoralizzato si sedette su una panchina vicino al parco prendendosi la testa tra le mani.

Aveva passato una notte agitata, ancora sogni e la sensazione che lei fosse più vicina di quanto non lo fosse mai stata in quei mesi.

Si era alzato intontito, era ancora debole. Era arrivato a New York il giorno prima, nella tarda serata, con la madre. Aveva guardato l’orologio e aveva notato che l’ora della colazione era passata già da un po’ ed era rimasto seduto in poltrona a pensare. Ad un certo punto aveva percepito qualcosa di diverso in casa: il portone era stato aperto e chiuso più volte nel giro di pochi minuti ed un’inspiegabile batticuore l’aveva scosso dal torpore che lo aveva avvolto. Non era riuscito a darsi una spiegazione razionale di quell’improvvisa accelerazione del battito ma l’ansia che gli era rimasta addosso l’aveva spinto ad alzarsi e vestirsi per poi scendere dabbasso.

Mentre stava percorrendo il corridoio aveva udito di nuovo lo scatto del portone, i passi affrettati della madre e quindi l’inizio della discussione col padre.

Aveva ripensato allo scambio di battute tra i genitori mentre camminava per la città.

 

Un figlio, Candy aspetta un figlio. Mio figlio?! Perché l’ha mandata via? Cosa ne sa la signora Marlow? Perché mio padre crede che sia di Albert? Non credo a mio padre…Possibile che mia madre non lo sapesse? Ma cosa c’è ancora tra loro?Non so più dove cercarla…mi rifiuto di pensare che sia in un ospedale…ma se non è dagli Andrew dove può essere andata.. e fa così freddo, rischia di prendere la febbre se sta fuori troppo a lungo…un figlio…perché non mi hai detto nulla se è mio? Ma sono stato anche molto malato e forse non sapevi dove cercarmi..chi si è preso cura di te? Albert?

Candy, dove sei?

 

Seduto sulla panchina lungo la strada, immerso nei pensieri, lo sguardo a terra, non si era accorto dell’uomo che lo stava avvicinando. Solo quando vide i piedi fermi di fronte a lui alzò gli occhi.

“Albert! Benedetto il cielo! Meno male che sei qui…” disse alzandosi ma non finì la frase, gli occhi dell’amico erano due pezzi di acciaio blu, duri e freddi.

 

“Non mi sarei MAI aspettato un comportamento simile da parte tua, evidentemente sei molto cambiato…”, la voce di Albert era bassa e minacciosa.

“Non capisco co…”, iniziò Terence ed anche stavolta non riuscì a finire la frase perché Albert l’aveva afferrato e scaraventato contro l’albero lì accanto, bloccandolo contro il tronco, un braccio di traverso sul petto a spingere il ragazzo all’indietro.

Terry era cresciuto ma Albert continuava ad essere più alto e più forte e la rabbia che aveva dentro ne accresceva la forza. Negli occhi aveva una luce sinistra, Terry comprese al volo il perché dell’ira dell’amico.

“Non sono stato io! E’ stato mio padre a mandarla via”, quasi non riusciva a parlare, semi soffocato dalla presa di Albert, “dimmi dov’è, sono ore che la cerco…”

Albert restò un attimo immobile, soppesando le parole e lo sguardo di Terence, poi allentò la presa ma non la sciolse del tutto.

“L’hai vista?”

“No”

“Tu sai che…?”

“Sì, è il motivo per cui mio padre non le ha permesso di vedermi, dimmi dov’è!”, dando uno strattone.

Albert lo fissò senza muoversi: “Tuo padre?”, la sua mente era ancora accecata dalla rabbia e faceva fatica a pensare.

“Già! Dice che il bambino di Candy sia tuo…”, Terence aveva afferrato il polso di Albert e lo stava spingendo via.

Lui mollò la presa, allibito.

“Mio! E come…”

“Forse perché avete fatto parlare di voi mezza America?”, ora erano gli occhi di Terence ad essere duri, “CHE C’È TRA VOI?!”

“Come faceva a sapere del bambino?!”

“La signora Marlow vi ha visti sul treno..e tu eri molto affettuoso a quanto mi ha detto…”, disse con voce acida, “non hai perso tempo, eh?”

Albert lo fissò incredulo, c’erano un po’ troppe persone di loro conoscenza sul quel treno..Poi lo sguardo si indurì di nuovo, al ricordo di quello che era appena accaduto.

“Cosa pensavi che facessi? Che la lasciassi sola quando tu eri disperso chissà dove!”

“Maledizione, Albert! La stavo cercando! E stavo male! Si può sapere che c’è tra di voi?”, stavolta era Terence che aveva afferrato Albert per il cappotto.

“Niente”, rispose mormorando, “niente”

Pensò con amarezza a quanto dolore e quanta sofferenza avevano provocato le malelingue e i ficcanaso in tutta quella faccenda. La voce di Terry lo riportò al presente.

“Albert, dov’è Candy?”, gli disse tirandolo per il bavero.

Lui lo guardò ancora incerto…aveva quasi perso il lume della ragione quando era uscito di casa e solo ora stava riprendendo il controllo di se e dei propri pensieri.

“Dov’è?, stava tremando, “dimmi dov’è..”

“E’ a casa, vieni”, gli rispose piano.

 

Candy sedeva sulla grande sedia thonet a dondolo che la cullava dolcemente. Fuori nel pomeriggio newyorchese che scuriva la neve continuava a scendere. Quello spettacolo esercitava su di lei un fascino ipnotico, avrebbe trascorso ore a guardare i fiocchi  danzare lievi, requie per la mente, quanto e più del sonno.

Aveva affrontato un lungo viaggio per arrivare a New York ed era andata a casa di Eleonor con il cuore leggero e pieno di speranza: dopo tanti mesi di incertezza finalmente sapeva dove fosse Terence. E se era da Eleonor era al sicuro. Aveva sentito le ginocchia cedere quando il duca l’aveva accolta al suo ingresso in casa Baker ma quello che l’aveva stupita era il suo modo di fare da padrone di casa.

Gli aveva chiesto di vedere Terence e lui le aveva risposto che il figlio non desiderava vederla; aveva puntato i piedi, minacciato di salire e andarlo a cercare, aveva chiesto di vedere Eleonor, ma non c’era stato nulla da fare: l’unica risposta che aveva ricevuto era un no.

E poi erano arrivate le contrazioni sempre più dolorose e frequenti…erano iniziate già sul treno ma deboli e irregolari, sapeva quale fosse la sua condizione, Martin le aveva detto chiaramente che cosa rischiava ma lei doveva andare, non poteva stare ancora a Chicago.

Aveva deciso quindi di andare via, rinunciare per il momento e provare a raggiungere l’albergo dove riposarsi e calmare il dolore ma strada facendo aveva dovuto fare diverse soste e infine, stanca, demoralizzata, spaventata si era diretta verso Casa Andrew. Non avrebbe voluto chiedere aiuto nuovamente ad Albert ma in quelle condizioni non desiderava altro che vedere i suoi occhi azzurri e sentire la sua voce rassicurante e, soprattutto, era il posto più vicino dove chiedere aiuto.

 

Sentì aprire la porta lentamente, come se chi stava entrando avesse paura di svegliarla.

“Vieni Albert, sono sveglia, sei tornato presto”, disse continuando a fissare il paesaggio fuori dalla finestra mentre passava lentamente una mano sulla pancia come ipnotizzata.

Non ci fu risposta ma udì i passi attutiti dal tappeto che copriva quasi tutta la stanza.

I passi si fermarono accanto a lei.

“Hai parlato con Terence, l’hai trovato? E’ per questo che sei uscito, vero?”. Una lacrima spuntò sulle ciglia e lei l’asciugò velocemente con la punta delle dita.

“Non devo piangere, ho promesso. Se Terence non mi vuol vedere non piangerò, non se lo merita”. Si sforzò di sorridere per alleviare la preoccupazione che aveva letto sul viso di Albert quando era uscito dalla stanza.

Si sentì circondare le spalle da un abbraccio e posare un bacio sui capelli ma lo shock fu grande quando, invece del profumo di Albert sentì quello di Terence, pensò di avere le allucinazioni e si girò di scatto.

Gli occhi blu del ragazzo le stavano sorridendo, così vicini che avrebbe potuto cadere in quei due laghi. Pensò ancora di avere le allucinazioni. Scosse la testa e sbatté le palpebre ma il viso di Terence era ancora lì.

“Terence..”, mormorò, così piano da essere quasi impercettibile, con la paura di spezzare l’incantesimo parlando troppo forte, svanisse come una bolla di sapone.

“Sono io mia piccola scimmietta”, la commozione nella voce, un nodo in gola.

“Tu…?”

“Sì”

“Ma…”

“Non era vero…”

“Io…”

“E’ tutto finito, sono qui” e mettendosi in ginocchio davanti a lei l’accolse tra le braccia.

Dopo tanti mesi Candy piangeva di sollievo, non si era mai sentita così bene come adesso, scossa dai singhiozzi, incapace di fermare le lacrime che scorrevano sul viso mentre respirava il suo odore.

 

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Capitolo 36
*** Spiegazioni ***


L’angolo dell’autrice

Ehem, sono decisamente commossa per  l’ansia con cui aspettate i miei aggiornamenti…la faccetta arrossita non riesco a farla ma immaginatela.. J

Vedrete che tutto si compirà nel modo giusto…e qualcuno avrà quello che si merita… (risata cattiva!)

Buona lettura

Pian piano i singhiozzi si erano calmati ed avevano lasciato il posto ad un silenzio complice, riempito di sguardi, carezze, baci.

Si erano seduti sul divanetto e Candy si era accoccolata tra le braccia di Terence che non aveva smesso un attimo di guardarla, quasi che dovesse recuperare ogni giorno di quei lunghi mesi in cui non l’aveva vista.

Aveva seguito il profilo del viso con un dito, accarezzando piano le labbra, le guance gli occhi, poggiato mille piccoli baci su di lei. Aveva giocato piano con i riccioli: lei aveva sciolto i capelli, lui non li ricordava così lunghi, una cascata d’oro che scendeva a coprire le spalle e la sua mano che la sfiorava.

Aveva accarezzato a lungo quel figlio che cresceva dentro di lei, sommerso da un’onda di emozioni che gli facevano bruciare gli occhi fin quando non si scoprì a piangere, le dita di lei che gli asciugavano le lacrime tra le ciglia, con gli occhi che brillavano di luce propria, smeraldi nell’imbrunire.

Alla fine Candy aveva ceduto alla stanchezza della lunga giornata, l’irrequietudine  finalmente placata. Era così bella nell’abbandono del sonno.

Sentire il peso di Candy sul proprio petto, mentre respirava piano, calmava i battiti del cuore, faceva svanire lentamente le ombre di quegli incubi che aveva vissuto per tante notti, lasciava la mente finalmente sgombra, solo  il presente contava ormai.

Eppure l’idea di sciogliere quell’abbraccio lo faceva star male, aveva paura di cedere anche lui alla stanchezza: addormentarsi e svegliarsi e non trovarla. Di nuovo.

La sua mente combatteva quella paura irrazionale ma intanto le sue braccia  la stringevano ancora di più, in una presa che non doveva allentarsi.

Ormai era finito, era tutto finito, in quella casa lei era al sicuro, loro erano sicuri, la via del destino era tornata ad essere chiara, niente più dubbi, rimorsi, incertezze, timori.

Le stelle negli occhi di Candy erano tornate a brillare, lui non avrebbe più perso la strada.

Nel silenzio del pomeriggio la pendola scandiva piano il tempo, la mente di Terence, infine scivolò via, il viso poggiato sui capelli di lei.

 

 

Albert bussò piano ma nessuno gli rispose; socchiuse la porta e vide Candy addormentata fra le braccia di Terence, anche lui assopito. Lo svegliò posandogli una mano sulla spalla.

"Tutto bene?", chiese a bassa voce.

"Sì, si è addormentata", mormorò passando le dita tra i riccioli, "Mettila sul letto, io non riesco a prenderla così" .

Albert la sollevò, lei si mosse piano nel sonno, la adagiò sul letto posandole una coperta sulle spalle, fuori ormai era buio.

I due uomini uscirono.

"Sono stato da tua madre, le ho detto che eri qui, era già in pensiero, sei uscito sbattendo la porta..." "Se non lo avessi fatto avrei preso a pugni il signor Duca", gli rispose Terry con gli occhi duri.

Albert lo osservò con aria grave, si sentiva immensamente stanco: "Immagino vorrai stare vicino a Candy..sarai mio ospite fin quando vorrai, a cominciare da stasera, se vuoi. Ho invitato Eleanor a cena, anche per lei è stato un periodo difficile...sarò felice di stare con voi due..."

Terence sorrise, osservando l’uomo biondo di fronte a lui...poi divenne improvvisamente serio. "Possiamo parlare un attimo?"

"Certamente, andiamo nel mio studio, non saremo disturbati"

 

Albert provava disagio a guardare Terence negli occhi:quel che c'era stato tra lui e Candy era stato poco meno di niente ed era stato il destino a deciderlo, lui poteva solo accusarsi di poco autocontrollo e di poca lucidità, chiunque l’avrebbe giustificato e perdonato ma lui si era sentito a lungo in colpa, causa di quello che era accaduto dopo. Si era detto più volte che forse doveva andare così, che, forse, solo cosi le cose si erano potute sbloccare. Riguardando indietro vedeva mille direzioni che il corso degli eventi avrebbe potuto prendere ma, allo stesso tempo, c'era stato qualcosa di ineluttabile nel modo in cui si erano svolte.

Nello studio si sedettero uno di fronte all' altro e si osservarono a vicenda.

"Dimmi. .." iniziò Albert.

Terence guardò l’amico: si vedeva che era stanco, di quella stanchezza data da lunghi giorni e notti insonni ed agitate, doveva aver passato un brutto momento periodo anche lui, non solo Eleanor. Voleva sapere, sapere cosa c'era stato tra lui e Candy, non sarebbe riuscito, altrimenti, a calmare i propri pensieri e la propria gelosia.

 

Albert comprese ed iniziò a parlare.

“Forse sarà meglio che tu parli anche con Candy, se già non l’hai fatto. Da parte mia ti posso dire che, quando tu sembravi aver ripreso una vita normale, lei era sempre più triste e strana e si è aggrappata alla persona che sentiva più vicina, cioè io. Il mio errore e la mia debolezza è stata quella di innamorarmi di lei quando ancora ero senza memoria e senza passato e di non aver saputo tenermi indietro quando si è rifugiata tra le mie braccia.. . .ma io ero solo un ripiego", lo sguardo di Albert si velò, guardando indietro nel tempo, a quel pomeriggio di marzo, "un palliativo ad una sofferenza che solo tu avresti potuto curare. Quando sei scomparso lei non ha capito più nulla, ho fatto molta fatica ad impedirle di andare alla cieca in giro per l’America a cercarti.. .da lì in poi è stato un precipitare di eventi, prima tua madre l’ha scongiurata di farti tornare indietro, poi quando è tornata da Portland si è chiusa in se stessa, non mi ha detto nulla... poi si è sentita male e solo così ho scoperto cos' era successo..il bambino...E solo all'inizio dell' anno.."

"Le ho scritto una lettera.."

"L'ha fatta in briciole senza nemmeno leggerla"

"NON E' POSSIBILE!"

"Non so che dirti, alternava momenti di depressione a momenti in cui sembrava essere quella di prima, anche se più rabbiosa, altre volte era talmente stranita da non prestare attenzione a nulla.. .non mi ha detto niente ed io non sapevo più cosa pensare...Ho pensato di farle cambiare aria portandola con me in Florida ma non è servito ad un gran che... poi tu sei scappato dall' ospedale..e non sapevamo più dove cercarti..perché te ne sei andato? Avresti dovuto immaginare che ti avremmo cercato…"

"Veramente ho pensato che glielo avresti tenuto nascosto...che quell'uomo non avrebbe parlato se tu glielo avessi ordinato.."

"Hai ragione, George non avrebbe parlato se io glielo avessi chiesto ma Candy. .. .come hai potuto pensare che glielo avrei nascosto?"

"lo forse lo avrei fatto...", Terence era serio..."Fossi stato al tuo posto...forse lo avrei fatto"

I due uomini si studiarono per qualche istante..

"Sono felice che sia tutto finito.." disse stancamente Albert.

"Ti ho giudicato male. ..", ammise Terence dopo poco, "ma da quando ho visto quella foto... ti ho odiato..avrei voluto prenderti a pugni..."

"Fossi stato in te l'avrei fatto.. .", sorrise debolmente Albert.

"La verità è che non sopportavo di vedere Candy..."

"Non c'è bisogno che ti giustifichi.."

"Mi spiace..."

"Per cosa?", domandò Albert sollevando un sopracciglio.

"Per quello che hai passato...e ti devo ringraziare per quello che hai fatto."

Terry aveva osservato attentamente Albert durante tutta la loro conversazione e, malgrado lui avesse cercato di nascondere i suoi sentimenti, aveva visto passare sul suo viso dolore, tristezza, frustrazione, ancora tristezza ed in fine sollievo sincero. Aveva lo sguardo inquieto e scuro.

Non poteva essere sicuro che Albert non provasse ancora qualcosa per Candy ma era certo che non avrebbe avuto motivo di lamentarsi del suo comportamento nei loro confronti in futuro.

 

"Non so se sarei stato capace di fare come te, fossi stato nella tua posizione"

"Penso di si.."

Terry scosse la testa: "Non credo di essere così generoso ne di avere la tua stessa capacità di abnegazione"

"Cosa  farai ora?", voleva cambiare argomento, non si sentiva degno di quei ringraziamenti.

“Candy? Tornerà con te a Chicago?"

"Devi chiedere a lei.. .ma non credo che potrà muoversi da New York, non so se ti ha detto qualcosa ma le sue condizioni non sono buone, ha corso un grosso rischio venendo qui..."

Gli occhi di Terence si strinsero..."Che vuoi dire, che ha rischiato di.."

"Sì... "

"E' per quello che eri una furia quando mi hai trovato al parco?"

"Sì, ero piuttosto alterato..... e spaventato", ammise; voleva evitare di dare spiegazioni che rendessero ancora più tesa la situazione tra il ragazzo e il padre...ma fu inevitabile.

"E il fatto che mio padre l’abbia cacciata ha peggiorato le cose. . ."

"In un certo senso sì"

"Cosa significa in un certo senso?!"

"Si.., le ha peggiorate, ma per fortuna il dottore è riuscito ad evitare il peggio.. .ora ha bisogno di riposo e di non avere altri strapazzi. .."

"Ho capito.... "

Qualunque cosa ci fosse stata tra lui e Candy, ormai, non aveva più molta importanza, si era occupato di lei in tutti i modi possibili, con tutte le sue forze, ed ora ancora, continuava a farlo, il rancore piano piano stava sparendo. Doveva tornare da lei.

"Grazie Albert, grazie davvero"

Lui gli rispose con un gesto della mano: di nulla.

 

Quando Terence se ne fu andato, Albert prese la foto di Marian dal cassetto. La nave ormai avrebbe dovuto essere arrivata, lei gli aveva promesso che gli avrebbe scritto non appena giunta a destinazione. Fece i conti: non avrebbe ricevuto posta prima di una settimana.

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Capitolo 37
*** Sono un idiota! ***


L’angolo dell’autrice

Per Lauramaria: tieni presente che le parole servivano…noi sappiamo tutto perché abbiamo letto la storia ma quei due lì non si sono più incontrati dai tempi di Londra anche se si sono sfiorati molte volte e quindi un bel colloquio tra Terry ed Albert ci stava tutto…anche perché il duchino non è tipo da lasciar correre certe cose ^_^

In quanto a Candy e Terry, rilassatevi, ora viene il bello per gli altri personaggi…oggi ne succedono di tutti colori.

 

Il duca si diede dello stupido dal momento in cui uscì da Casa Baker fino a quando arrivò alla propria.

La discussione avuta con Eleanor era degenerata in una vera e propria lite e lui era riuscito a dire esattamente l’opposto di ciò che pensava, intrappolato in un ruolo che si era scelto ma che, ormai, non sapeva e poteva più sostenere.

Dopo che Terence era uscito sbattendogli in faccia la porta Eleanor, invece, gli aveva sbattuto in faccia tutti gli errori commessi col figlio: per anni non lo aveva visto ma sembrava sapere meglio di lui quello che passava per la mente e per il cuore del ragazzo.

Lui le aveva ripetuto per l’ennesima volta le parole del padre: che era una poco di buono, a caccia di un marito facoltoso, che l’aveva fatto apposta a farsi mettere incinta, per incastrarlo…menzogne che ormai non sopportava più.

Si era osservato impotente mentre la sua bocca diceva cose che la sua mente non pensava affatto.

 

La verità era che aveva paura.

Aveva paura di ammettere a voce alta che aveva sbagliato. Dentro di sé lo faceva già da un po’ ma dichiararlo davanti a lei e davanti al figlio significava mettere in discussione vent’anni della propria vita, vent’anni in cui aveva rovinato l’esistenza propria, di Eleanor e di Terence.

 

Vedeva chiaramente la storia ripetersi davanti ai suoi occhi, con se stesso nei panni di suo padre ma non riusciva a fare altro che lasciar scorrere gli eventi, osservarsi vivere una vita che non voleva.

Portare con sé Terence, dargli il proprio nome, renderlo il primogenito anche se era un bastardo non era stato sufficiente a conquistarne l’amore, gli aveva sottratto l’infanzia e il calore di una famiglia.

Come aveva fatto a diventare quello che era ora? Non lo sapeva: qualcosa era scattato, ma quando e perché non lo ricordava.

Anche questo Eleanor gli aveva rinfacciato, quello di essere una persona completamente diversa dall’uomo di cui si era innamorata: Terence sotto questo aspetto l’aveva battuto di nuovo, se non poteva avere colei che amava era meglio non avere nessuno, non vivere affatto ed in questo era molto simile a lui quando era più giovane, quando aveva conosciuto Eleanor, niente era più importante di lei, non il nome, il titolo o la discendenza.

 

Ammirava il figlio per il coraggio che aveva dimostrato e per la sua tenacia: questi aspetti del suo carattere, decisamente, discendevano dalla madre.

Lui aveva preferito mettere una maschera e lasciarsi vivere, lasciare che la propria storia gli scorresse addosso: spettatore impotente e distaccato. Come aveva fatto a sopportarlo?

 

Se riguardava indietro gli unici anni in cui era stato felice e consapevole di esistere erano stati gli anni trascorsi accanto ad Eleanor, con Terry ancora in fasce, quando ancora teneva testa al padre, gli unici anni in cui si era sentito vivo, non quella specie di manichino che gli sembrava di essere ora.

Per lui la moglie era sempre stata la “seconda moglie”: pur non avendo mai sposato Eleanor il legame che li univa era sempre stato sacro come se fosse stato davvero benedetto davanti a Dio.

L’altra non era Eleanor, era la moglie.

Anche quello era un segnale del disagio che provava.

Dopo aver portato via Terence non aveva più rimesso piede al di là dell’oceano perché non voleva più incontrarla.

Si era deciso a tornare solo perché troppo preoccupato per il figlio ed ora, dopo più di sei mesi in America, così vicini, aveva i nervi prossimi al collasso.

 

Durante quel periodo non si erano visti spesso ma quelle poche volte erano state sufficienti a minare le fragili fondamenta del suo equilibrio emotivo, di quel castello di illusioni e di false verità che si era costruito negli anni.

Vederla, poi, accanto ad un altro uomo, così in confidenza, lo aveva scosso ancora di più, risvegliando una gelosia cieca che faceva fatica a dominare, pur riconoscendola ingiusta ed eccessiva.

Lei era sempre stata molto riservata sulla sua vita privata: i giornali non avevano mai avuto motivo di parlare di lei al di fuori dei successi teatrali cosicché lui non poteva sapere se avesse o meno una relazione stabile, sapeva solo che non si era mai sposata.

D’altra parte William Andrew era sufficientemente bello e giovane da poter essere considerato un possibile amante e la loro affinità e confidenza rendeva tutto più plausibile.

 

Appena aveva messo piede in casa propria aveva sentito l’urgenza di tornare indietro, non poteva lasciare le cose così.

 

“La signora ha ricevuto una visita. Mi ha detto che non desidera ricevere nessun’altro nel frattempo.”

“Le dica che sono qui”

“Milord, ha detto che non vuole vedere nessuno.”
”Io non sono nessuno!”, gli rispose avviandosi verso il salotto.

“Milord, la prego, la signora è stata categorica”

Il Duca lo congedò con aria infastidita: “Penso io alla signora”.

Entrò, aprendo con decisione la porta del salotto e restò impietrito dinnanzi alla scena che gli si presentò davanti.

Eleanor tra le braccia di William Andrew.

Richard non capì più nulla.

 

Albert era uscito di nuovo, dopo aver accompagnato Terence da Candy: voleva andare da Eleanor a rassicurarla sulla sorte dei due ragazzi e chiarire l’eventuale equivoco che potesse ancora esserci. Tra loro era nata un’amicizia sincera, che era andata al di là delle preoccupazioni che li accomunavano e lui, ora, era piuttosto in ansia per cosa potesse essere accaduto col duca.

L’aveva trovata seduta in salotto: aveva cercato di ricomporsi dopo la lite con Richard ma il turbamento era visibile: anche lei, come tutti, aveva ormai i nervi sottili per la tensione di quei mesi e lo scontro con il Duca era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

 

“Albert...”

“Eleanor, come stai? Tutto bene?”. Si sedette di fronte a lei.

“Sì, diciamo di sì.. Hai..hai per caso visto Terence? E’ uscito a cercare Candy, è stata qui e Richard l’ha cacciata senza che io riuscissi a trattenerla, ero uscita presto per alcune commissioni in città e lui… si è comportato in modo inqualificabile..e Candy…sai come sta? Sembrava così sofferente..Terry è fuori da diverse ore…”, era inquieta, col viso pallido e tirato, gli occhi rossi.

“Stanno bene, sono da me, a casa, li ho lasciati lì”

“Grazie al cielo! Ma…Candy..perché non mi hai detto nulla?”

“Non mi sembrava il caso di mandarti un telegramma con una notizia del genere, sarei venuto oggi a parlartene ma Candy mi ha preceduto…e poi non è da molto che lo so…me l’ha tenuto nascosto finché ha potuto…”

“E…ed è…è di Terence, vero?”

“Sì, non so cosa ti abbia raccontato il duca, ma è di Terence”.

“Non avevo mai dubitato”, mormorò lei, le lacrime le scendevano lungo il viso suo malgrado. Terence, Terence avrebbe avuto in figlio.

“Elenor..”, mormorò Albert, prendendole una mano.

“Scusa…non so cosa mi sta accadendo..sono..sono davvero stanca e allo stesso tempo sono felice, felice che tutto si sia risolto…felice per quel bambino…”, riprese il controllo di se per qualche istante, si alzò, guardando Albert negli occhi ed iniziò ad andare avanti e indietro per il salone.

“Terence e suo padre hanno avuto una discussione piuttosto accesa, non avevo mai visto Terence così arrabbiato, mi auguro non faccia sciocchezze…anche se non credo che Richard si farà più vedere…”

Albert scosse la testa, non capiva.

“Non vorrei che andasse a cercarlo”

“Non credo che lo farà….almeno non in questo momento. Come fai ad essere sicura che il duca non tornerà..”

Eleanor lo guardò con gli occhi lucidi: “Quando Terence è uscito io e suo padre abbiamo avuto una violenta lite, Richard continua a non voler capire che sta facendo un errore sull’altro…”

Scoppiò in lacrime, coprendosi il viso con le mani, “Gli ho detto di non farsi vedere mai più…per anni non gli è importato nulla di Terence e di me ed ora pensa di poter venire qui e dirmi cosa devo fare della mia vita e…”, non finì la frase, i singhiozzi le avevano tolto la capacità di parlare.

Albert si alzò avvicinandosi alla donna e posandole le mani sulle spalle nel tentativo di consolarla.

“Cerca di calmarti, ora, non serve a niente, siamo tutti stanchi ed innervositi, lo è anche lui. Vedrai che tra qualche giorno forse riuscirai a farlo ragionare.”

Ma Eleanor continuava a piangere suo malgrado: la tensione che aveva accumulato nelle ultime settimane a causa degli scontri quasi quotidiani con Richard l’aveva infine sopraffatta.

Albert si decise ad abbracciarla, cercando di farla calmare, sapeva benissimo come si sentiva ed intuiva che qualcosa ancora scorreva tra i genitori di Terence anche se, forse, nessuno dei due l’avrebbe ammesso. Ma Eleanor lo sorprese.

“Perché? Perché non sei stato capace di fare quello che ha fatto Terence!!”, gridò con rabbia, battendo i pugni, poi si rese conto di avere William dinnanzi e non Richard. “Scusami”

“Lo ami ancora, vero?”

Lei lo guardò sconcertata poi chinò il capo.

“Scusa, non volevo essere indiscreto.”

“Non lo so, non amo la persona che è ora ma ho continuato ad amare il Richard che ho conosciuto vent’anni fa…con questo Richard non voglio avere nulla a che fare…non lo posso vedere!”

“Ascolta”, le disse Albert continuando a tenerla vicino a se, “Cosa ne dici di venire a cena stasera da me? Così potremo finalmente passare una serata tutti insieme e dimenticare …immagino vorrai vedere Candy…”

Lei annuì, un accenno di sorriso sulle labbra.

“Va bene, ora via quelle lacrime”, le disse Albert sorridendo, cercando di asciugarle il viso con una mano.

In quel momento la porta si aprì di colpo mentre il Duca entrava in salotto.

 

“Ma bene…”

“Cosa vuoi?”, Eleanor si irrigidì stringendo gli occhi, Albert aveva sciolto l’abbraccio lentamente e osservava Richard in silenzio, lo sguardo fisso e poco amichevole. Aveva un conto in sospeso anche lui con quell’uomo.

 

“Tutto sommato devo dire che non hai scelto male..non è però un po’ troppo giovane? Non credi?” Sono un’idiota!

“Esci immediatamente da questa casa!”

“Ero venuto ad invitarti a cena ma vedo che sono arrivato tardi”

“Nemmeno morta sarei venuta a cena con te!” E avresti forse ragione.

“Però non ti fai problemi a farti vedere in giro con un ragazzo che ha almeno dieci anni meno di te!”

Albert stava per reagire ma Eleanor lo fermò sfiorandogli la mano.

“Vattene!”, gli ripeté, “Non ti voglio più vedere, te l’ho già detto! Stai lontano da me e da Terence!”

“Questa storia non finisce qui! Non ti permetto di minacciarmi in questo modo.”

Man mano che lo scambio di battute andava avanti Richard si era avvicinato sempre si più ad Eleanor che era rimasta immobile accanto ad Albert che aveva seguito i movimenti del duca con i muscoli tesi: avrebbe voluto tanto fargli pagare quello che aveva fatto a Candy, ma era ospite in quella casa e non poteva permetterselo.

“Tu mi hai sempre minacciata ed insultata a tuo piacimento! Ora lo faccio io! VA VIA”, sibilò.

Richard ormai  sfiorava Eleanor. Guardò in tralice Albert che gli rispose con uno sguardo torvo. La tensione era palpabile nell’aria.

Richard tornò a guardare Eleanor e pensò che non l’aveva mai vista bella come in quel momento: per una frazione di secondo dimenticò tutto ed alzò la mano per accarezzarle il viso ma Albert equivocò il gesto, troppo rapido per sembrare una carezza , e colpì il duca al viso con un pugno.

Richard riprese rapidamente l’equilibro ed osservò la coppia davanti a se.

“Vattene”, gli ingiunse di nuovo Eleanor. William appariva molto teso, la mascella contratta.

Il duca uscì in silenzio, massaggiandosi la mandibola.

Decisamente il ragazzo ci sa fare. Me lo sono  meritato, sono uno stupido, sono tornato per parlarle, spiegarmi e l’ho insultata di nuovo…sono un idiota! Maledizione! Quello è poco più di un ragazzo! Ma che ci trova?!! Possibile che mi faccia perdere il controllo in questo modo?

 

“Scusami..io non avrei dovuto…ho reagito d’istinto”

“No, va bene, grazie…io non so se voleva colpirmi davvero ma è la prima volta che lo vedo andare via così.”

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Capitolo 38
*** Ricominciare ***


Capitolo 38

Terence andava e veniva da casa Andrew, impegnato a cercare di rimettere insieme i cocci della sua vita professionale. Alla fine aveva ceduto alle insistenze di Albert e Candy ed aveva accettato l’ospitalità che gli veniva offerta perché la cosa che desiderava di più in quel momento era passare più tempo possibile con Candy.

Albert aveva fatto in modo che avessero le camere adiacenti, con la porta interna di comunicazione.

 

Come ogni notte, sdraiato accanto a lei, la osservava nella penombra della camera, illuminata fiocamente dalle luci della strada sottostante.

Si sforzava nuovamente di ricordare com’era lei quella notte ma nella memoria visiva non c’era nulla, nessun’immagine. Più si sforzava e più il buio diventava fitto.

Solo la memoria della pelle era rimasta, la sensazione nelle mani, l’odore nelle narici, il brivido dei suoi capelli che gli sfioravano il petto, ma se provava a ricordare c’era il nulla.

Era troppo ubriaco.

 

Perché non ricordo nulla? Nulla… Amore mio, com’è possibile? Se chiudo gli occhi e penso a quella notte non riesco a rivederti, ricordo a malapena il prima e fin troppo dolorosamente il dopo, nel mezzo solo sensazioni e desiderio di te, colori sbiaditi e mescolati.

 

Mi chiedi perché vado via la sera, quando ti addormenti… Non lo so o forse sì…

Se ripenso a quella notte che non ricordo provo vergogna: vergogna per quello che ero, perché hai potuto vedermi in quelle condizioni e allo stesso tempo mi hai amato.

Come hai fatto?

Mille volte mi sono domandato com’è stato possibile che tu mi abbia voluto così, troppo ubriaco anche per ricordare.

Ti ho amata per tutto questo tempo, sei sempre stata nei miei pensieri: a volte come un miraggio, a volte come un anelito, a volte come una dannazione. Avrei voluto strapparti dal cuore perché non riuscivo ad averti ma tu sei rimasta lì, in scalfibile ed indistruttibile.

Ti guardo dormire accanto a me, sorridente, serena ed ho la sensazione di aver finalmente raggiunto il mio traguardo, nient’altro conta. Ti accarezzo lentamente e ti sento muovere piano accanto a me, il mio nome mormorato piano nel sonno: “Terence, non dormi?”

Non ci riesco: non riesco più a dormire accanto a te perché mi è rimasta quella maledetta paura di svegliarmi e non trovarti, scoprire che sei di nuovo andata via, lontano da me. So che è stupido ma è una paura che non sono in grado di dominare.

Tu che mi stringi forte mentre dormi perché io non me ne vada, come ho fatto molte notti fino ad ora; tu che mi guardi accigliata e delusa al mattino, mentre facciamo colazione. Tu che mi guardi ed attendi paziente.

Io, con le mie notti insonni e la confusione che mi stordisce, la voglia di ricominciare ed il bisogno di te.

Albert ci osserva e tace, forse sente che c’è qualcosa che non va.

Guardarti continua a farmi uno strano effetto: sembri un miraggio, anche quando sei così vicina che posso sentire il calore del tuo corpo e l’odore sottile della tua pelle.

Quando ti dico che ti desidero tu ridi e mi chiedi se mi piacciono le balene ma vedo passare sulle tue iridi lo stesso desiderio.

Dobbiamo attendere…e la mia attesa è insieme desiderio, curiosità, paura; tu mi dici di ricordare tutto distintamente, lo dici arrossendo, distogliendo lo sguardo, passando una mano sul mio viso quando io mi sforzo di trovare un’immagine nella memoria.

Tu e il nostro bambino: sai che mi fa uno strano effetto pensare una frase come questa e al contempo sono immensamente felice.

Ti ho ritrovata e porti in te le nostre vite fuse insieme: chissà se avrà i tuoi occhi e i tuoi riccioli ribelli che mi fanno il solletico quando ti addormenti con la testa sul mio petto. Chissà se avrà l’oro nei capelli come te o somiglierà a me, con gli occhi blu e il mio carattere inquieto…

E fai le facce buffe quando il bambino tira i calci e sento lo stomaco fare cose strane quando sotto la mia mano sento passare una manina o un piedino, ancora non è nato e già lo posso toccare…è qualcosa che somiglia molto ad un miracolo.

Sarò degno di te, amore mio, e degno di nostro figlio, ma ora devo andare, tu dormi già e la notte è alta..domani forse, domani riuscirò a dormire accanto a te senza avere più incubi.

 

“Terence”, mormorò lei nel dormiveglia.

“Dimmi amore mio”, lui era già quasi sulla porta.

“Perché te ne vai?”, gli occhi socchiusi.

Lui non seppe cosa rispondere, si sedette nuovamente sul letto e le accarezzò i capelli per poi posare un bacio sulla fronte.

“Così dormi tranquilla”

“Perché vai via?”

Lo sapeva perché…

“Hai bisogno di riposare .”

“Non andare, resta qui”

Lui le diede un altro bacio, questa volta sulle labbra e se ne andò.

“Terence”

 

Era lui che usciva di casa al mattino come se niente fosse e tornava al pomeriggio con mille piccoli oggetti per il bambino, giocattoli, abiti, ninnoli.

Alberto lo canzonava “Non avrei mai creduto che fossi così tenero!” mentre Candy cercava di spiegargli inutilmente che non sapevano se sarebbe stato davvero un maschio e  lui le rispondeva che semmai sarebbero serviti per i prossimi, attirando su di se le finte ire di Candy “Non è ancora nato questo e già pensi di farmene fare altri?!”, ma era felice, felice che fosse con lei, di sapere che ogni sera sarebbe tornato, che l’avrebbe visto ogni giorno, che l’incubo era finito.

Erano giorni in cui camminava come sospesa da terra, indifferente a ciò che le accadeva intorno perché viveva in uno stato di eterno sogno: ciò che provava era l’esatto opposto della solitudine e della disperazione dei mesi in Florida o a Lakewood.

I cugini erano arrivati in visita insieme a Patty ed Annie e l’avevano sommersa di attenzioni e premure.

Anche George sembrava essere preda di un attacco di istinto paterno e, anche lui come Terence, era arrivato con oggetti per il bambino. Candy era sorpresa: George era un uomo buono, che aveva sempre dimostrato di volerle bene, ma non avrebbe mai immaginato di vedergli fare una cosa simile.

Eleanor passava a farle visita ogni volta che aveva un minuto libero: era un piacere vederla e vedere come Albert si trovasse bene con lei come con Terence.

Per un po’ aveva temuto che i due uomini potessero avere problemi di convivenza dati i trascorsi ma presto Terry le aveva raccontato del loro colloquio ed ora sembrava che l’amicizia tra i due fosse divenuta ancora più solida.

Albert alternava giorni in cui era completamente assente, la testa chissà dove, a giorni in cui lui e Terence uscivano presto al mattino e trascorrevano molte ore insieme, senza che Candy riuscisse a sapere cosa facessero. Tornavano a casa con l’aria di chi ha combinato una marachella e si è divertito un mondo.

Lei era felice anche di questo: veder tornare il vecchio Albert, sereno ed allegro, vederlo ridere di nuovo insieme a Terry; il contrasto con i mesi precedenti era stridente, anche se talvolta tornavano i momenti di straniamento.

 

"Ehi, ma che ha Albert? Non mi ha nemmeno sentito?"

Candy si voltò a guardare il ragazzo in piedi davanti alla libreria, immobile, lo sguardo su un libro che in realtà non vedeva. Terence era appena entrato salutando ma non aveva ricevuto risposta.

"Credo sia in pensiero per Marian"

Terry sollevò un sopracciglio. "Uh! E chi sarebbe?"

"E' l’infermiera che ha conosciuto in Africa, ti ricordi? Aveva scritto di lei nella lettera che mi aveva mandato..."

Terry aggrottò le sopracciglia nell' intento di ricordare poi guardò l'amico ed infine di nuovo Candy, seduta sulla poltrona accanto a lui.

"E si sentono ancora?"

"E' arrivata a Lakewood per cercarlo, dopo l'incidente si erano persi di vista...E' dovuta tornare in Inghilterra. Ormai sono più di venti giorni che è partita e non è ancora arrivato niente.."

Terry la guardò malizioso: "Senti, senti! Albert ha un'amichetta!"

“Terry, sei incorreggibile!”

“Sono felice per lui”, rispose seriamente, “se lei lo ricambia...”

Candy sorrise piano, “beh, direi…”

“Londra? Lei è lì..”

“Sì, dovrebbe essere lì, ma non abbiamo sue notizie, potrebbe anche essere stata trasferita.. ma non sappiamo come mai non è ancora arrivata una lettera da parte sua...”

“Capisco...” e guardò di nuovo Albert ancora in piedi di fronte alla libreria, nella stessa posizione, "c'è la guerra in Europa ...sarà preoccupato..."

" Anche io lo sono, soprattutto per Albert"

In quel momento entrò un domestico portando la corrispondenza. Albert gli fece cenno di aspettare mentre scorreva velocemente la posta, poi prese un biglietto, vergò alcune righe e lo consegnò al cameriere dopo avergli indicato l'indirizzo.

"E tu che ci vai a fare da Susanna?!", gli chiese Terence sorpreso.

"Mi ha invitato per il the. Ora devo andare, George mi sta già aspettando, pranzerò fuori", e uscì con la corrispondenza in mano, gli occhi blu velati e pensierosi.

"Se non conoscessi bene Albert direi che ha le idee confuse ma se conosco bene Susanna direi che ha qualche interesse per il nostro amico" .

"Terence, quando tu sei scomparso lei si è chiusa in se stessa, si è rifiutata a lungo di usare la protesi, ha smesso di frequentare il teatro, di uscire. Tua madre li ha presentati e Albert la aiutata molto a riprendere una vita normale, l'ha convinta a lasciarti libero di decidere che fare una volta che fossi tornato...è ovvio che alla fine siano diventati amici..."

Terence le diede un bacio pensando a quanto fosse ingenua, incapace di vedere la malizia nei gesti altrui e non rispose.

 

Susanna sedeva nel salotto, l'ospite era appena andato via.

Dopo il ritorno di Terence aveva trascorso giorni interi impegnata tra il teatro, la beneficenza e la riabilitazione, senza un attimo di respiro.

Con Terry aveva avuto un lungo colloquio, a tratti placido, a tratti tempestoso, che aveva messo la parola fine a quella loro non-relazione. Aveva saputo da lui che il bambino che Candy aspettava era suo, concepito in quei mesi di oblio dal mondo, figlio di un amore disperato ed assoluto.

La notizia le aveva tolto un peso dal cuore: l'idea che potesse essere di William l'aveva lasciata senza fiato, le aveva aperto gli occhi sui suoi nuovi, reali sentimenti.

In quei lunghi mesi le apparizioni sporadiche di William Andrew l'avevano resa felice ma aveva sempre pensato che fosse così perché era qualcuno al di fuori ed al di sopra di quel piccolo mondo meschino che era l'alta società newyorchese, dove gli unici argomenti degni di essere discussi erano i cappellini, gli abiti all'ultima moda e la sua relazione con Terence.

Sapeva che lui era una persona riservata, non amava parlare di se come non amava parlare dei fatti altrui: l'unica volta che avevano affrontato l'argomento “Terence” era stato durante la sua visita in compagnia di Eleonor e di questo gli era grata.

Era, poi, l'unica persona che non le aveva mai fatto pesare la sua invalidità ma era difficile capire che cosa pensasse di lei: si era sempre dimostrato attento e premuroso ma quello sembrava essere un tratto innato del suo carattere.

 

Non lo vedeva ormai da alcuni mesi ma aveva saputo che era di nuovo in città e, dopo molti tentennamenti, aveva deciso di invitarlo per un the, sperando che lui accettasse, conscia che era sempre pieno di impegni.

Lui aveva risposto a stretto giro di posta.

 

"Mi permetta di esprimerle la mia gratitudine per quanto ha deciso di fare con Terence.."

Susanna si schermì con una mano.

"Non avrei potuto fare altro, era giusto cosi, avrei dovuto rendermene conto prima..."

Albert annui con aria grave, poi sorrise mentre si alzava per congedarsi.

"Sono convinto che ora le cose andranno meglio anche per lei, Susanna."

"William... "

"Si?"

"Ecco, ormai è tanto che ci conosciamo, perché...perché non ..non ci diamo del tu..?", chiese arrossendo.

"Va bene", rispose William con un sorriso, "Va bene."

"E...ecco io..."

"Sì.."

Quegli occhi, quegli occhi di quell’azzurro incredibile, le facevano sentire le farfalle nello stomaco e le impedivano di pensare ma ce la doveva fare..un' occasione così non sarebbe capitata di nuovo tanto facilmente.

"Ecco mi domandavo se ...sarai anche tu alla serata di beneficenza dei Lions?"

"Non ho ancora deciso, Candy e Terence non credo che verranno ed io non saprei... dovrei andarci ma non amo molto le feste.."

"Mi chiedevo se...se potessimo andarci insieme, ecco io non, non posso ballare e tu non ami farlo e...così…", lo guardò trepidante, ecco, finalmente si era decisa.

Albert tentennò un attimo, preso alla sprovvista.

 

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Capitolo 39
*** Vicini al cuore ***


L’angolo dell’autrice

Devo dire che il Duca si sta lentamente trasformando in uno dei miei personaggi preferiti in questa storia e forse è per questo che mi sta uscendo straordinariamente complesso. Mi sono sempre domandata cosa abbia spinto un uomo come lui a rinunciare ad una donna come Eleanor per poi praticamente rapirle il figlio per farlo crescere con se ma non dimostrando in alcun modo l’affetto che prova: è qualcosa che mi ha sempre lasciata perplessa.

Quanto a Susanna, beh! Lei è quella che è, il fatto che sia un’invalida le pesa ed usa questa sua invalidità come leva per essere accettata dagli altri, in fondo è un’insicura, lo sarei anche io se uno come Terence mi sbattesse la porta in faccia dopo che gli ho salvato la vita e dopo che tutti mi dicono che sono bellissima, dolcissima, bravissima ma lui preferisce a me una che non è ne carne ne pesce (lo dice Candy stessa che lei non può competere con Susanna in quanto a bellezza e femminilità).

Quanto ad Albert che vi posso dire? Nulla in questo momento! Provate a leggere tra le righe e vediamo se capite come va a finire la faccenda…vi posso solo dire che quando si è troppo buoni spesso si combinano casini senza volerlo.

                                                                                                                                                                      

Terence fece un fischio all’entrata dell’amico, vestito di tutto punto per la serata di gala.

“Caspita Albert! Metà delle signore sverranno al tuo ingresso, l’altra metà quando le guarderai!”

“La smetti di fare lo stupido?”, gli rispose Albert ridendo.

“Stai davvero molto bene”, gli disse Candy dandogli un bacio sulla guancia per salutarlo.

“Grazie piccola…un po’ mi spiace che non veniate…”

“E far sapere a tutta l’America che la tua a splendida pupilla aspetta un figlio illegittimo da uno scapestrato come me? No, grazie!”

“Me ne posso dispiacere comunque? Sai quanto non ami questo genere di cose, pur essendovi condannato…”, rispose Albert con un sorriso.

“E…dì un po’, chi è la fortunata?”

“Cosa intendi?”

“Non andrai certo solo…hai una dama?”
“Susanna”

“EH?!!”
“Susanna..”, ripetè quietamente Albert, “Lei me lo ha chiesto ed io ho accettato. Lei non balla e a me non piace farlo…Se fossi andato da solo mi sarei visto passare davanti tutte le ragazze da marito della festa in attesa di essere invitate…”

“E metà delle loro madri..”, lo interruppe Terence.

“E poi Susanna è una compagnia piacevole”, terminò Albert.

“Terry!”, lo sgridò ridendo Candy, mentre lui celava a malapena una smorfia di disgusto.

“Il nostro amico qui potrebbe fare il Don Giovanni e continuare a passare per un gentiluomo senza che nessuno se ne abbia a male vista la sua faccia da bravo ragazzo ed invece…”

“Invece è una persona seria”, concluse Candy, “Sembra quasi che tu lo invidi”, aggiunse guardando Terence con aria offesa, dopo aver incrociato le braccia.

“Non mi permetterei mai, le scimmie sono gelose e mordono.”

“TERRY!”, ma lui le chiuse la bocca con un bacio.

“Bene, quando avrete finito di fare i piccioncini vi vorrei dire un paio di cose…”

“Scusa ZIO!”, gli rispose Terence ironico.

Albert cercò di guardarlo male ma scoppiò a ridere.

“Candy, la zia e tutti gli altri saranno qui tra qualche giorno…poi daremo l’annuncio anche alla stampa…”

“Annuncio di cosa?!”

Albert guardò Terry sollevando un sopracciglio, lui scosse la testa passandosi una mano tra i capelli mentre abbassava lo sguardo a terra “Non glielo hai ancora detto?! Beh, vi lascio parlare, si è fatto tardi…”

“Cosa non mi hai detto?”

“Ciao piccola”, disse Albert a Candy dandole un bacio in fronte mentre dava uno spintone a Terence aggiungendo: “Dovresti vergognarti!”

“Ciao Albert….Detto COSA?!”, Candy non mollava facilmente la presa.

Terry la guardò sorridendo: la maternità le donava, la rendeva dolcemente femminile e con quel faccino indispettito era irresistibile.

“Aspettami un attimo qui”, le disse scoccandole un bacio sulla guancia, lei sbuffo e lui tornò poco dopo con aria misteriosa.

“Chiudi gli occhi amore mio..”

“Non voglio chiudere gli occhi! Cos’è che non mi hai detto?”, protestò ancora.

“Sei testarda! Chiudi gli occhi!”, l’aveva fatta sedere sulla poltrona accanto al fuoco.

Lei alla fine si decise e lui si mise in ginocchio davanti a lei prendendole le mani: “Non barare, chiudili!”

Lei rispose con una smorfia ma serrò per bene le palpebre.

Terry prese di tasca una piccola scatola, gliela mise tra le mani ed attese.

“Cosa devo fare?”

“Ora apri gli occhi”

Terence di fronte a lei aveva uno sguardo così intenso che fece fare un balzo al suo cuore, aprì le mani per vedere cosa le aveva dato: era piccola, di raso blu, con lo stemma dei Grandchester, si vedeva che non era nuova.

“Aprila!”

Dentro c’erano due fedi d’oro, una più grande ed una più piccola, avevano l’aspetto dell’oro antico ma brillavano ancora di una luce particolare data dalla lavorazione finissima ed accurata. Dovevano avere un grande valore. Candy prese la più grande tra le dita, poi guardò Terence che aveva iniziato a parlare.

“Mia nonna le diede a mia madre molti anni fa perché me le facesse avere quando fossi cresciuto. Sono le fedi con cui si sono sempre sposati i Duchi di Grandchester, tutti tranne mio padre. Mia nonna amava molto mia madre, avrebbe voluto vederla accanto a mio padre. Io sono stato, diciamo un errore, ma mia madre era al settimo cielo quando scoprì di essere incinta, mio padre ancora di più, stando a quello che mi ha detto mia madre. Mio nonno non ne volle sapere e alla fine riuscì a convincere mio padre a ripudiare mia madre.

Mia nonna andò su tutte le furie sia con mio nonno che con mio padre. Prese le fedi e le diede a mia madre: diceva che hanno sempre portato fortuna a chi si è sposato con esse, voleva che le avessi io…”

Candy lo aveva ascoltato con le lacrime agli occhi, un pezzo del passato di Terence e della sua famiglia che emergeva; riusciva ad immaginare la commozione di Eleonor nel raccontare al figlio questa storia agrodolce e riusciva anche ad immaginare quanto rancore ancora poteva aver suscitato in Terry.

Ora lo sguardo di lui era dolce e profondo.

“Sai mi sarebbe piaciuto conoscere tua nonna..”

“Era un sì?”

“Per che cosa?”

“Mi vuoi sposare?”

“Non me lo avevi chiesto?”

“Te lo chiedo ora..”

“Com’è che Albert lo sapeva prima di me?”, gli rispose piccata.

“Sei permalosa lo sai?”

“Sei insopportabile!”

“Allora?”

Lui si era avvicinato ancora, prendendole di nuovo le mani e tirandola delicatamente a se.

Se la guardava così le si bloccava il respiro.

“Sì”, rispose in un soffio, poi aggiunse, “Non potrei fare altro…”

“Cosa vuoi dire?”, si rabbuiò, alzandosi di scatto, “Che se non ci fosse il bambino non mi sposeresti?”, il cuore era stretto in una morsa gelida.

Perché lei riusciva a farlo sentire al contempo sicuro ed insicuro? Un momento prima sentiva l’amore di lei che scorreva attraverso le sue mani che lo sfioravano, un momento dopo la doccia fredda di quelle parole sulle labbra e poi di nuovo la luce calda negli occhi mentre lo guardava.

“Come sei sciocco quando ti ci metti!”, gli rispose protendendosi ed afferrando le sue mani, “E’ perché ti amo che non posso fare altro che dirti di sì”, era arrossita e lo stava guardando da sotto le ciglia.

Terence, per una volta aveva perso la parola, la abbracciò e in un orecchio le sussurrò: “Anche io ti amo, non sai quanto, senza di te non esisto…”

 

Terence quel pomeriggio era uscito per recarsi dalla madre e Candy passeggiava lentamente nella grande serra sul retro dell’edificio. Si fermò quando vide Albert seduto su una delle panchine, appoggiato all schienale, la testa reclinata all’indietro, gli occhi chiusi ed un’espressione indecifrabile, di sollievo e speranza sul viso, le braccia abbandonate in grembo ed alcuni fogli in mano.

“Stai bene?”, lui si scosse alla voce di lei.

“Sì, piccola”, aveva gli occhi che brillavano in un modo che lei non vedeva da tempo, da quei giorni di marzo in riva al lago, “E’ arrivata una lettera di Marian”

“Tutto bene, vero?”

“Sì”, sorrise, “Credevo che non mi avrebbe più scritto”, le fece spazio accano a sè.

“Sono felice che l’abbia fatto”, gli rispose sedendosi.

“E’ stata trasferita non appena è arrivata e non ha avuto un momento libero. Ha scritto poche righe al giorno”, lui continuava a guardare la lettera e vedeva Marian che finiva di scrivere, seduta sull’erba, in una pausa del pomeriggio.

“Cosa pensi di fare?”, sentiva l’irrequietudine di Albert.

Lui però la guardò con aria interrogativa.

Lei gli rispose con un sorriso complice, indicandogli la lettera.

“Aspettare, non posso far altro. Non posso e non voglio muovermi di qui fin quando tutto non sarà sistemato”

“Non siamo bambini, Albert, se vuoi andare vai, io e Terence non avremo problemi”, rispose lei con dolcezza.

“Lo so ma è meglio così. E in ogni caso Marian ha la sua vita, lavora..”, una nota di tristezza nella voce.

“Albert..”, lei gli posò una mano sul braccio, accarezzandolo.

“Sono confuso piccola, molto confuso…quando l’ho vista a Lakewood…io…non avrei mai creduto che mi avrebbe scombussolato tanto, non credevo di essere così importante, al punto di cercarmi così, dopo tanto tempo…”, sospirò, gli occhi che rivedevano quegli anni in cui molte cose erano cambiate di colpo ed in maniera dolorosa.

“Le vuoi bene, vero?”

“Quando l’ho conosciuta ero in un periodo della mia vita in cui non desideravo e non potevo avere, diciamo, una “relazione stabile”. Mentire sulla mia identità in un rapporto non mi sembrava corretto. Ma lei era così diversa. Poi c’è stato l’incidente e tutto è cambiato, tutto così confuso ed incerto. Poi sei arrivata tu ed io..beh, lo sai , mi sono innamorato di te senza nemmeno rendermene conto, dimenticandola completamente, come ho potuto?”
“Avevi perso la memoria, come potevi ricordare?”

“Ma anche dopo, quando è tornata…era come se Marian fosse scomparsa..l’ho ricordata quasi per caso…certe cose non si dovrebbero dimenticare. Poi vedervi di fronte a me, tutte e due, insieme, è stato terribile…la confusione nella mia testa è aumentata…”

“Marian ti vuole molto bene, sono sicura che non le importa molto di ciò che è accaduto…penso che l’unica cosa che conti è il fatto di averti ritrovato…”

Albert la guardò sorridendo, lo sguardo però era triste: “Anche io le voglio molto bene”

“Vorrei che tu fossi felice Albert, lo meriti più di chiunque altro”

“Lo sarò, piccola, vedrai, prima o poi lo sarò. Ora bisogna solo pensare a te e al bambino, per fortuna ora stai meglio.”
“Ti ho fatto preoccupare molto, vero?”
“Un po’”, le rispose sorridendo, “un po’”.

 

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Capitolo 40
*** Vox populi ***


L’angolo dell’autrice

Cara Kaoru, hai ragione il povero Albert ha bisogno di qualcuno che lo ascolti e chi se non proprio Candy?

Rispondo qui ad una quasi domanda di blue rei di qualche commento fa…credo che la prossima storia sarà una storia originale, ho già un’ideuzza ma temo che i tempi saranno lunghi.

Lauramaria, da quello che ho potuto intuire dal tuo incipit sul duca credo che giungeremo a conclusioni diverse.

Quanto ad Albert e Marian, vedremo…vedremo se vincerà lei o Susanna… ^_^

 

Nelle settimane successive i pettegoli di New York ebbero una miriade di argomenti da sviscerare, il primo dei quali era il ritorno di Terence Grandchester in città e la sua probabile partecipazione alla successiva stagione teatrale in uno spettacolo che vedeva come protagonista niente meno che sua madre.

Ormai non era più un mistero per nessuno il legame di sangue che univa il giovane e talentuoso attore con Eleanor Baker così come, ormai, era pensiero comune che il Duca suo padre fosse stato un emerito stupido a farsi scappare una donna del genere.

La duchessa non era conosciuta in America ma tutti erano certi che il Duca avesse perso nel cambio, ben poche donne potevano rivaleggiare con Eleanor Baker in quanto a bellezza, intelligenza e fascino.

Una di queste era Candice Andrew, divenuta negli ultimi due anni una creatura che toglieva il fiato e faceva girare la testa a molti uomini e che, voci sempre più insistenti (a quanto pare messe in giro da persone molto vicine alla famiglia), dicevano essere in attesa di un figlio proprio dal famoso e chiacchierato, giovane attore.

Lei non era mai stata un’assidua frequentatrice dei ritrovi mondani ma era solita accompagnare l’erede degli Andrew a quelli più importanti e non era più stata vista ne New York ne a Chicago oramai da diversi mesi. La famiglia aveva risposto con un secco “no comment” alle illazioni su di lei.

Terence Grandchester, da parte sua, non era più apparso in pubblico accanto a Susanna Marlow ma, date le voci che giravano sulla sua paternità, era piuttosto ovvio che la relazione tra loro dovesse essere finita già da tempo.

 

C’era chi diceva che lei si fosse consolata piuttosto velocemente e non aveva perso nulla, anzi, si era presa una rivincita su Candice Andrew, accalappiando proprio il suo potente tutore e padre adottivo che forse era stato anche il suo amante, visto lo scandalo che li aveva coinvolti meno di un anno prima.

In effetti Susanna Marlow e William Andrew erano visti sempre più spesso in pubblico insieme anche se le male lingue dicevano che era solo un sodalizio di interessi: lei aveva trovato un cavaliere che non amava ballare così non sarebbe rimasta da sola durante le serate, lui sarebbe riuscito a sfuggire alle giovani a caccia di marito con la scusa di non poter lasciare la sua dama a bordo pista; dalla parte opposta c’era chi osservava che erano davvero una bella coppia, lui sufficientemente eccentrico da poter amare una come lei.

Altra fonte di commenti era la permanenza a New York del Duca di Grandchester: in molti avevano pensato che sarebbe tornato in Europa dopo aver ritrovato il figlio e il suo restare alimentava ulteriormente i mormorii a proposito della gravidanza dell’ereditiera degli Andrew ma aveva anche suscitato illazioni su un possibile riavvicinamento tra lui ed Eleanor Baker.

Si sapeva che lei gli aveva più volte sbattuto la porta in faccia, sia in senso fisico che metaforico, a quanto pare disgustata dal comportamento di lui verso il figlio e la nuora ma nemmeno i più curiosi erano riusciti a scoprire un gran che vista la ben nota riservatezza dell’attrice.

Sembrava che lui non perdesse nemmeno una replica e non mancasse di inviare fiori alla fine di ogni spettacolo: non era dato sapere, però, se erano graditi e notati in mezzo a tutti gli altri.

Il Duca sembrava avere almeno un motivo di gelosia, una spina nel fianco, vista la smaccata preferenza di lei per la compagnia del biondo e giovane miliardario con il quale forse stava per imparentarsi.

In un paio di occasioni, durante ricevimenti importanti, i due si erano guardati in cagnesco, prossimi allo scontro. Eleanor aveva preso sottobraccio William allontanandosi dal Duca senza degnarlo di uno sguardo e provocando una ridda di commenti dietro i ventagli sollevati delle signore e le nuvole di fumo dei sigari dei signori.

Il comportamento dei due uomini aveva suscitato scalpore anche perché entrambi erano noti come esempi di bon ton e signorile educazione. William Andrew, poi, era noto per il carattere mite e gentile, che non aveva mai dato segni di insofferenza verso alcuno in pubblico.

Anche in questo caso vi erano due scuole di opinione, divise equamente tra chi vedeva il comportamento del giovane William come una reazione alle mormorate sgarberie del Duca verso la sua pupilla e chi, invece, vi vedeva il segno di un possibile legame intimo con Eleanor, a dispetto dell’apparente inclinazione di lui verso Susanna Marlow.

Certo era che William Andrew aveva lasciato trasparire in quelle occasioni la tempra che molti immaginavano dovesse avere per tenere a bada la terribile prozia e una delle sorelle, piuttosto nota per il caratteraccio e la tendenza ad ordire complotti contro Candice.

Tutto questo aveva fatto sospirare più di una signorina in sala: bello, ricchissimo e, a questo punto, anche con carattere, era ormai da lungo tempo nei sogni proibiti di molte ragazze e anche di qualche signora, che non avrebbe disdegnato di averlo come amante; lui sembrava essere indifferente a qualunque pettegolezzo e a qualunque sguardo, era riservato e non concedeva confidenze.

Si sapeva che le uniche persone in grado di esercitare un ascendente su di lui erano la figlia adottiva e l’arcigna prozia che, dalla presentazione in società del nipote, aveva ridotto di molto gli impegni mondani, preferendo condurre vita ritirata nell’enorme proprietà di Chicago. Il suo arrivo a New York, insieme ad altri membri della famiglia, indicava che qualcosa bolliva nella pentola degli Andrew.

 

“Ebbene William, io credo che questa sia un’offesa senza precedenti per la nostra famiglia! Gli Andrew non sarebbero degni dei Grandchester?! La nostra famiglia è nobile ed è antica almeno quanto quella dei Grandchester! Come si permette?! E poi il nostro patrimonio è almeno tre volte maggiore del loro, dovrebbero essere fieri di imparentarsi con noi.”

Albert stentava a credere alle proprie orecchie. La zia Elroy era arrivata da poche ore a New York ed era già a conoscenza di tutti i pettegolezzi della città e, soprattutto, era alquanto offesa da ciò che si diceva in giro su Richard Grandchester e cioè che avrebbe preferito vedere accanto al figlio quell’attricetta invece che l’ereditiera della famiglia Andrew.

Era talmente stupito da non riuscire nemmeno a rispondere.

“Cosa pensi di fare?”

“Io?!”

“Sì, tu, non lascerai certo passare un affronto del genere?!”

“Dovrei sfidarlo a duello?”, le disse con ironia.
La signora sollevò un sopracciglio, a quello non aveva pensato.

“Non se ne parla proprio!”, le rispose immediatamente Albert al vedere la luce sinistra negli occhi della zia, “Sono cose che si affrontano in modo civile. In ogni caso io non mi farei tanti problemi.”

“E perché?”

“Candy e Terence si sposeranno tra due giorni, il bambino nascerà tra meno di un mese e lei sta bene, grazie al cielo…di quello che dice la gente e di quello che pensa il duca non me ne curo.”

“Come puoi parlare così? Non tieni all’onore e al rispetto della famiglia?!”

“Sì, zia ma vede, qui quello che fa una figuraccia è proprio il Duca, non noi…tutti sanno della gravidanza di Candy perché Lily non sa tenere la lingua in bocca e, a questo punto, tutti pensano che il Duca abbia torto ad opporsi al figlio che vuol adempiere al suo dovere. Comunque il Duca non ha più di queste velleità, gli sono passate da tempo, da quando si è convinto che il bambino è del figlio.”

“Perché prima cosa pensava? No, no, lasciami indovinare, anche lui pensava che fosse tuo…”

“Già…”, Albert arrossì leggermente.

“Questa è la dimostrazione pratica di ciò che accade quando si trascura troppo la forma, mio caro William, tu hai la tendenza a dimenticare troppo facilmente che certi comportamenti, per quanto possano essere spontanei, sentiti ed innocenti, possano generare equivoci pericolosi. Nel tuo caso poi…”

“Quando ha ragione non posso far altro che riconoscerlo.”

“E di te cosa mi dici?”

“Io?!”

“Sì, bisognerà pensare a qualcuno per te…si comincia già a mormorare, tra l’altro proprio di te e quell’attrice…”

“EH?!”

“Vorrai mica restare scapolo per il resto dei tuoi giorni? Hai bisogno di un erede. Ma quella ragazza non mi piace affatto…”

“Zia, lei riesce a togliere romanticismo anche alla cosa più romantica del  mondo…dove ha imparato?”, le rispose Albert semi serio, cercando di sviare il discorso ma la signora non aveva intenzione di mollare.

“Sto parlando seriamente...”

“Va bene, le prometto una cosa…lasciamo correre ancora un po’ di tempo, almeno fin dopo la nascita del bambino, intanto si guardi intorno, lo farò anch’io.”

“Bene William, a più tardi.”

“A più tardi zia”, le rispose baciandole la mano.

Restò solo con i propri pensieri.

Un erede.

Perché la zia riusciva sempre ad essere così cruda?

La sua mente volò al di là dell’oceano…chissà cosa stava facendo Marian in quel momento.

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Capitolo 41
*** L'un contro l'altro armati ***


L’angolo dell’autrice

Rieccomi, devo dire con molta fatica...ahimè! Ho davvero pochissimo tempo e me ne dispiace, la storia scalpita per essere pubblicata e io non riesco a star dietro a tutto...ad ogni modo ecco il nuovo capitolo.

Ringrazio ancora una volta i lettori silenziosi che non lasciano traccia nelle recensioni ma che vedo seguire la storia con costanza (il contatore delle letture dice che siete tanti) o magari siete in tanti a rileggere più volte i capitoli, grazie comunque.

Ed ora veniamo a noi: la zia vi stupirà, prometto e non per la sequenza di figliole che presenterà al nostro principe ma…per sapere perché vi toccherà aspettare il capitolo successivo a questo ma forse l’avete in parte intuito.

Mi sono divertita un mondo a scrivere questo capitolo pettegoloso, come l’ha definito Kaoru, avendo proprio in mente persone che non hanno nulla da fare tutto il giorno se non cianciare degli affari altrui (e possibilmente dirne male): ho immaginato quanto ghiotto avrebbe potuto essere un “rettangolo” lei-lui-l’altro-l’altra tra Albert, Susanna, Eleonor e Richard! ^_^

Rispondo qui ad una nota di Lauramaria sulla questione della successione di Terence al titolo di Duca di Granchester: pur avendo cercato documenti relativi alla successione dinastica tra i Pari d’Inghilterra (come, quando, perché e soprattutto le eccezioni) non sono riuscita a trovare nulla;  così, forte del fatto che la storia è piena di figli illegittimi riconosciuti ed inseriti nelle linee di discendenza, ho immaginato che il Duca abbia fatto tutto il possibile per far sì che Terence fosse il suo erede e futuro Duca e, non a caso ho utilizzato il verbo “rendere” per dare l’idea degli sforzi fatti da Richard perché fosse riconosciuto malgrado tutto (soldi, influenza politica, magari legami con la famiglia reale…dopo tutto è un Duca e in Inghilterra non ce ne sono tanti ed erano influenti e potenti).

Una parte di quella che io ho pensato essere la storia di Terence e del travagliato rapporto tra Richard ed Eleanor viene spiegata in questo capitolo ma non si esaurisce qui: a questa strana famiglia saranno dedicate molte pagine in futuro.

Ed ora la smetto… ^_^ Buona lettura!

 

Lo scontro tra Terence e suo  padre era arrivato ad essere quasi fisico.

Il Duca aveva cercato di parlare col figlio ma questi non gli aveva nemmeno lasciato il tempo di aprire bocca ed Albert aveva rincarato la dose ingiungendogli di uscire da casa propria all’istante. Candy ed Eleonor avevano assistito alla scena a bocca aperta. Candy aveva guardato i due uomini allibita: che Terence reagisse così era nel suo carattere, che lo facesse Albert era quanto mai inusuale.

Terry era andato via a sbollire la rabbia, Candy non aveva nemmeno cercato di fermarlo.

Albert, invece, era rimasto accanto a lei con la mascella contratta e l’aria piuttosto contrariata.

“Perché mi guardi così, piccola?”

“Perché non ti ho mai visto reagire così con nessuno, nemmeno con Iriza o con tua sorella”

“Quell’uomo ha passato ogni limite”, un lampo passò negli occhi blu.

“Albert…”

“Piccola, hai quasi perso il bambino per colpa sua, ti ha trattato come fossi una donnaccia, ha fatto di tutto perché tu e Terry non vi incontraste e poi vorresti che fossi anche gentile con lui? Riesci ad essere indulgente? Io no..”

“Ha sbagliato, è vero ma l’ha fatto pensando al bene di Terence, l’ha fatto perché gli vuole bene, se oggi è venuto qui è perché tiene al figlio. Terry dovrebbe lasciargli la possibilità di spiegarsi…”

“Non cambierai mai, eh?”, le disse dandole un bacio sulla tempia con un accenno di sorriso.

Eleanor aveva assistito in silenzio allo scambio di battute tra i due, pensierosa.

 

Dopo l’ultimo alterco con il figlio, ormai più di un mese prima, Richard si era chiuso in casa in preda ad una crisi profonda: respinto da Terence, respinto da Eleonor, rimbeccato in modo seccato da William, alla fine era crollato.

La moglie gli aveva scritto più volte da Londra chiedendogli del suo ritorno e rimproverandolo di pensare più a quel figlio bastardo che alla sua famiglia ma lui non riusciva a pensare ad altro che a quel nipote che sarebbe nato di lì a poco e che gli sarebbe stato negato.

Non riusciva a pensare ad altro che agli occhi blu di Eleanor e all’odio che traspariva da quelli di Terence.

Voleva provare a parlare con Candy; per una frazione di secondo aveva incrociato lo sguardo di lei mentre si voltava per lasciare quella casa e vi aveva letto pietà e comprensione: proprio la persona che avrebbe dovuto sentirsi più danneggiata dal suo comportamento sembrava essere quella più indulgente.

La sua mente era tornata più volte a quel giorno sulla riva del Tamigi e alla sensazione di calore che aveva provato stando accanto a quella strana ragazza capace di saltare su una carrozza e poi parlare con tanta saggezza e tanto amore per quel figlio che lui non aveva mai saputo capire.

Quel giorno aveva pensato che lei era l’unica che, se avesse voluto, avrebbe potuto far tornare indietro Terence, l’unica che lui avrebbe ascoltato.

Così era stato anche quel pomeriggio a Casa Andrew: i toni della discussione erano andati alzandosi sempre più ma era bastato un “Terence” quasi sussurrato ed un tocco leggero della mano perché il figlio riprendesse il controllo di se e tacesse.

Purtroppo, con la coda dell’occhio aveva visto la stessa cosa tra Eleanor e William, lei lo aveva fermato dall’intervenire ancora con uno sguardo ed un cenno lieve.

Aveva ricordato quando anche per lui era stato così, quando una sola parola o un solo sguardo di Lei avevano il potere di piegare la sua mente e la sua volontà ma quei tempi erano passati.

E a pensarci bene le cose erano precipitate proprio nel momento in cui non le aveva più permesso di avere quel potere su di lui ed era diventato sordo ad ogni parola.

Era stato l’inizio della fine.

 

“Stai mentendo vero?”

“Richard”, gli occhi le si riempirono di lacrime.

“Lo hai fatto apposta..”

“Richard ma cosa dici?! Ancora con questa storia!”

“Quel bambino è stato solo un modo per incastrarmi, vero?”

Eleanor teneva il piccolo Terry tra le braccia, avrà avuto sui tre anni, “Ogni volta che vedi tuo padre arrivi qui parlando come se fossi pazzo”

“E tu invece sei riuscita ad ingraziarti mai madre…”

Terence aveva preso a piangere, sentire il padre alzare la voce lo metteva in agitazione.

 

Ricordi dolorosi, se chiudeva gli occhi poteva sentire il pianto del bambino come se fosse reale.

Dolore, vergogna, rimorso.

 

“Richard…”

“Non fa che ripetermi che dobbiamo sposarci”

“Lo fa per il bene di Terence, a me non importa molto di quello che la gente può pensare di noi ma lui, in questo momento è figlio di nessuno, anche se tu lo hai riconosciuto è poco più di un orfano…Richard ma non ti importa di tuo figlio?”

“E chi mi dice che sia mio figlio? Potresti avermi raccontato benissimo una storia…era pieno di giovanotti che ti ronzavano intorno quando mi hai detto di essere incinta…in fondo non mi somiglia affatto, è il tuo ritratto.”

 

Lei era sbiancata, si era alzata tenendo ancora Terence in braccio, e tremando era andata verso la porta, senza più parlare.

 

Si era reso conto di aver esagerato: si era convinto che lei non faceva per lui, proprio come gli avevano detto il padre e lo zio, ma una lama gelida gli aveva attraversato i polmoni quando aveva capito che niente al mondo le avrebbe impedito di andarsene portando via il bambino.

A nulla erano servite le scuse, le suppliche, le minacce, era partita senza più rivolgergli la parola, senza più nemmeno guardarlo negli occhi.

Lui aveva resistito un anno, poi era andato in America a riprendersi il figlio: suo padre poteva dire quello che gli pareva ma Terence sarebbe stato il suo erede, ad ogni costo.

Aveva portato via il bambino facendo in modo di non incontrarla, aveva agito nel peggiore dei modi ma ora doveva rimediare a tutto quanto, per amore di quel nipote e di quel figlio.

 

Richard arrivò a casa Andrew e non avrebbe potuto sperare in maggiore fortuna: Candy era sola in casa, non William, non Terence, forse sarebbe riuscito a spiegarsi.

 

Ebbero un lungo colloquio al termine del quale il Duca uscì pensieroso ma con un barlume di speranza.

“Lasci fare a me”, gli aveva detto Candy.

Lei aveva sorriso ad Albert che l’aveva interrogata con gli occhi, fremente: era appena arrivato insieme ad Eleanor e trovarsi il Duca davanti era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato. Era prevenuto nei confronti di quell’uomo anche se Eleanor gli aveva riferito che sembrava piuttosto cambiato; aveva cercato di parlare anche con lei e la richiesta era stata quasi una supplica, invece del solito tono arrogante ed autoritario, ma lui non si fidava.

 

“Abbiamo chiarito molte cose”

“Si è almeno scusato?”, le chiese Albert accigliato.

“Diciamo di sì”, gli rispose lei sorridendo…e non fare quella faccia, andrà tutto bene. Sono due testardi ed orgogliosi ma prima o poi forse le cose si aggiusteranno. Terry non vuole che suo padre veda il bambino una volta nato…a me non sembra giusto, ecco, tutto qui…”

Lui le diede un bacio sulla fronte e sperò che Terry non andasse su tutte le furie se avesse saputo di quella visita.

 

“Cosa è venuto a fare qui?”

“Terence…”

“Tu...tu…”, fece un gesto con il braccio come a dire Lasciamo perdere, con aria stizzita.

“Voleva solo parlare.”

“Non ho nulla da dirgli, noi non abbiamo nulla da dirgli!”

“Non sei ragionevole”

“Perché mai dovrei esserlo? Dopo il modo in cui si è comportato, con tutto quello che ti ha fatto e che ha fatto a me! Nemmeno tu dovresti rivolgergli la parola!”

Terence continuava a camminare rabbiosamente avanti e indietro e Candy cercava di calmarlo, Eleanor assisteva alla scena in silenzio.

Candy alla fine si dovette sedere con un’ombra sul viso che Eleanor colse: si era passata una mano sul ventre e aveva socchiuso gli occhi cercando di calmare il respiro.

“Terence, ora basta!”

Lui si voltò di scatto verso la madre e ne incontrò lo sguardo severo che ricambiò stringendo gli occhi con rabbia.

Eleanor uscì dal salotto trascinando il figlio per una mano; incontrarono Albert nel corridoio.

“Possiamo usare il tuo studio?”, gli chiese con un’ombra d’ira nella voce.

“Certamente”, le rispose guardandola con tanto d’occhi.

“Va a vedere come sta Candy…”

Albert non fece in tempo a replicare che lei era già scomparsa trascinando il figlio recalcitrante.

“Piccola, stai bene?”

“Sì, sì”, era sdraiata sul sofà.

“Che succede?”, le chiese indicando la porta con un dito.

“Credo che Terence prenderà una lavata di capo”, gli rispose con un mezzo sorriso.

 

“Ti sembra il caso di fare polemica con lei?”

“Ma…”

“Stai per diventare padre ma continui ad essere un irresponsabile!”

“…”

“Non deve avere altri strapazzi, non ricordi? Non ti sei accorto della smorfia di dolore?”

Terence chinò il capo.

“Hai ragione.”

Sua madre lo stava guardando con le braccia conserte e l’espressione adirata.

“Quando senti parlare di tuo padre non capisci più niente ma, che tu lo voglia o no, è una cosa che prima o poi dovrai affrontare!”

“Non c’è nulla da dire!”

“Se tu l’avessi lasciata parlare…”

“No!”

Due paia di occhi blu scintillanti si guardarono in silenzio.

“Terence!! Ora basta! Siediti e ascolta!

Terence strinse i denti e si sedette, il respiro pesante per la collera trattenuta.

 

Discussero a lungo: Eleanor cominciava a pensare che forse Candy poteva avere ragione ma il figlio fu irremovibile, gli animi erano ancora troppo esacerbati, soprattutto Terry doveva ancora sbollire la rabbia…solo il tempo, forse, sarebbe stato la cura giusta.

Il Duca lo sapeva e, per la prima volta dopo vent’anni, attese…attese con la speranza nel cuore.

 

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Capitolo 42
*** Festa a Casa Andrew ***


L’angolo dell’autrice

Richard è un animo tormentato che si è reso conto di aver sbagliato per una vita, o meglio, di aver sbagliato la propria vita e non gli sarà facile recuperare il rapporto con Terry, visto il carattere del figlio, ma anche il proprio…l’orgoglio è una brutta bestia e giustamente, come mi ha detto qualcuno in merito a questa situazione, il Duca deve toccare il fondo prima di risalire.

Quanto ad Eleanor…beh solo così sono riuscita ad immaginare una donna di inizio secolo che ha avuto la forza di non soccombere al disonore di aver avuto un figlio al di fuori del matrimonio, che se l’è visto portare via e, malgrado tutto si è fatta un nome ed ha successo, non poteva che essere una donna forte…la dolcezza di lei si evince da quel poco che le due autrici ci hanno fatto vedere nell’anime e nel manga, soprattutto quando va a cercare Terry in quel postaggio dove era finito a recitare.

 

Blue Rei: non mi devi ringraziare dei complimenti, scrivi bene e te li meriti. ^_^

 

 

Candy si guardò allo specchio e le venne da ridere, non aveva mai visto una sposa più grassa. Grossa, la corresse un’altra parte della sua mente.

La zia era arrivata due giorni prima della cerimonia, quando i preparativi del matrimonio erano pressoché terminati ma avevano dovuto comunque esprimere il suo parere su tutto; Terence aveva passato quei due giorni cercando di evitarla i tutti i modi senza riuscirvi.

“Ora capisco perché dicevi che somigliava a Suor Grey!”, aveva brontolato dopo l’intera mattinata trascorsa ad andare su e giù per il palazzo per verificare che tutto fosse impeccabile e degno del matrimonio della nipote.

 

Il cambio di atteggiamento della zia nei confronti della ragazza aveva lasciato tutti a bocca aperta, da Albert a Candy, da Archie e Stear, persino George non  sapeva cosa pensare. L’atmosfera in casa era migliorata parecchio ed anche Albert, finalmente riusciva a tirare un po’ il fiato.

 

Il vestito che portava era stato scelto dalla zia in persona che lo aveva fatto preparare a tempo di record, scartando quello che Annie avevano acquistato per lei: entrambe avevano dovuto ammettere che non mancava di buon gusto, almeno per quello che riguardava i vestiti altrui.

 

L’abito era in stile impero di color avorio, il corpino era di pizzo francese, la gonna di organza e raso; aveva una generosa scollatura quadrata che metteva in risalto il seno candido e pieno. Il vestito però non riusciva più a nascondere la gravidanza che ormai aveva superato l’ottavo mese.

La cameriera aveva sistemato i suoi riccioli in una elaborata acconciatura che ricordava quella delle donne greche che aveva visto sui libri di scuola: un nastro dello stesso raso del vestito li teneva raccolti in alto mentre tre piccoli boccioli di rosa erano infilati qui e là.

Lei stessa li aveva trovati nella serra, semi nascosti, e le era sembrato di ottimo auspicio.

Albert era riuscito a procurarsi da qualche parte un piccolo bouquet di rose rosa anche se lei avrebbe desiderato avere le Dolce Candy ma in quella stagione dell’anno le rose di Lakewood ancora riposavano al freddo, in attesa dei tepori della primavera.

 

Il matrimonio sarebbe stata una cerimonia semplicissima e si sarebbe tenuta nella serra, il rinfresco per i pochi ospiti nel salone del primo piano. Lei e Terry avevano concordato con Albert che, viste le sue condizioni, sarebbe stato meglio limitare le dimensioni della festa.

Per rabbonire la zia indispettita per un così misero ricevimento le avevano promesso che ne avrebbero organizzato uno memorabile in occasione del battesimo, in estate, quando Candy avrebbe potuto assolvere a tutti i suoi obblighi di padrona di casa.

Terence ed Albert non le avevano permesso di scendere nella serra e nel salone il giorno precedente, con la scusa che fosse troppo faticoso fare tutte quelle scale; stavano tramando qualcosa, glielo si leggeva sulla faccia, ma lei aveva fatto finta di nulla: era talmente bello vedere Terence con quell’aria soddisfatta e felice sul viso che non le importava molto di sapere in anticipo cosa stessero combinando quei due.

 

Gli inviti non erano stati molti ma avevano cercato di radunare gli amici più cari.

Si rattristò un attimo pensando che Suor Maria e Miss Pony non sarebbero state presenti perché non potevano lasciare i bambini da soli. Avrebbe fatto loro visita dopo il parto, sarebbe andata con Terence a passare un po’ di tempo con loro.

 

Il grande assente della cerimonia era il Duca: Candy non aveva osato invitarlo, la zia e Terry sarebbero andati su tutte le furie e non sarebbero bastati lei ed Albert a calmare le acque.

Susanna, invece, era presente ed era arrivata insieme ad Eleanor facendo sollevare a Terence un sopracciglio per la sorpresa di trovarsela davanti. Lei era arrossita e non aveva commentato, chiudendosi nel silenzio mentre Eleanor pretendeva tutta l’attenzione del figlio per gli ultimi preparativi.

 

Ormai era pronta.

Albert bussò alla porta.

“Se bellissima piccola mia!”

“Sembro un pinguino obeso”, gli rispose con una linguaccia, “Come fai a trovarmi bella? Penso che Terence cambierà idea quando mi vedrà così, questo vestito mi fa sembrare ancora più grassa!”

“Non credo che cambierà idea, sarebbe un pazzo…e se lo facesse poi mi toccherebbe sfidarlo a duello…già devo farlo con suo padre”, e le strizzò l’occhio. Le aveva raccontato dell’assurdo colloquio con la zia. Risero entrambi.

“Ho una sorpresa per te.”

“Ma non dobbiamo andare?”

“Sì, ma questo è più importante”, le rispose facendole l’occhiolino, “Vieni, tanto è di strada”.

“Come più importante?!”

Albert si fermò davanti alla porta del salottino.

“Entra qui…”

Candy lo guardò con aria interrogativa: c’era un silenzio strano, fin troppo silenzio, si decise a far leva sulla maniglia.

Gridolini di gioia la accolsero, i bambini della Casa di Pony la stavano circondando, chiamandola per nome, cercando di darle un bacio e di attirare la sua attenzione.

“Piano, piano, non la fate cadere”, la voce materna di Miss Pony.

“Fate attenzione”, ripetè Suor Maria.

La ragazza aveva le lacrime agli occhi, si rifugiò tra le braccia delle due donne che non trattennero la loro emozione: Miss Pony tirò fuori un grande fazzoletto mentre Suor Maria passò velocemente una mano sugli occhi, mormorando parole di affetto per quella bambina dai riccioli d’oro ormai cresciuta.

 

Albert sorrideva soddisfatto.

“Non potevano lasciare soli i bambini, giusto?”, le disse asciugandole le lacrime.

“Albert sei un tesoro, ecco cosa stavate complottando tu e George...”

“Ti sbagli, stavolta George non ha colpa. L’idea è stata di Terence…e la realizzazione mia.”

Candy sorrise felice, sarebbe stato un matrimonio perfetto.

 

Terence attendeva a fianco della madre che la sposa arrivasse ed una parte della sua mente si chiedeva se quella non fosse una rappresentazione teatrale invece che la realtà, poi si dava un pizzicotto sulla mano e si rendeva conto che era tutto vero: ancora pochi, pochissimi minuti e lei sarebbe stata la sua sposa, sua moglie e niente e nessuno avrebbero più potuto separarli, tenerli lontani.

Ancora non gli sembrava possibile che fosse tutto passato, che quei mesi bui fossero finiti davvero, poi si guardava intorno e vedeva i volti sorridenti degli amici, sua madre accanto a lui faceva fatica a trattenere la commozione, le ciglia vibravano per lo sforzo di trattenere le lacrime, ogni tanto passava la punta del fazzoletto sugli occhi umidi.

 

Eccola finalmente, al braccio di Albert.

Si diede una altro pizzicotto.

Stear ed Annie ai due lati dell’altare aspettavano immobili ed emozionati.

 

Tutto si svolse come in un sogno: Terence quasi non si rendeva conto di ciò che accadeva, guardava Candy accanto a se, gli occhi resi ancora più verdi dalla gioia, si stupì di riuscire a recitare la formula matrimoniale perché aveva il vuoto nella mente ma le parole uscivano da sole, si osservò mentre metteva l’anello al dito di Candy e le  sfiorava la mano con un bacio.

 

La vide fare la stessa cosa, radiosa come solo lei sapeva essere, avrebbe voluto stringerla a sé fregandosene degli invitati e di tutto il resto, baciarla fino a lasciarla senza respiro ma si limitò a sfiorarle le labbra con le proprie, con i nervi al limite della resistenza, gli occhi che non riuscivano a guardare che lei anche se ormai gli ospiti si stavano stringendo a loro per le congratulazioni.

Sentì l’abbraccio virile di Albert che gli diceva qualcosa che colse a malapena, quello di Stear sorridente, il bacio di sua madre, la stretta di mano di Archie e quella di George, l’abbraccio materno di Miss Pony e quello lieve di Suor Maria, il saluto molto compito della signora Andrew che gli diceva qualcosa come benvenuto nella nostra famiglia.

Sentiva il peso del braccio di Candy sul proprio, si appoggiava per non cadere, sapeva quanta fatica facesse ormai a stare in piedi, la commozione e l’emozione rendevano tutto più difficile.

Dopo poco la fece sedere su una delle sedie nel salone, lasciando ad Albert l’onere di aprire le danze mentre lui continuava a tenerle la mano con la propria, gli anelli dei Granchester che brillavano sulle loro dita. Si chinò su di lei e ripeté un gesto che aveva visto fare ad Albert tante volte, un bacio sulla fronte: Ti amo, ti proteggerò, non mi lasciare mai più; solo questo d’ora in poi, io e te.

“Ti amo”, mormorò Candy come se avesse sentito i suoi pensieri. Lui sentì qualcosa di molto caldo al centro del petto.

 

La giornata precedente era stata decisamente pesante e Candy si rigirò nel letto stiracchiandosi voluttuosamente, il bambino si era già svegliato e continuava ad agitarsi dentro di lei, passò una mano sul ventre con lentezza poi si girò sull’altro fianco; la luce filtrava tenue attraverso le tende. Con gli occhi ancora chiusi si stiracchiò ancora ed urtò qualcosa accanto a se, aprì gli occhi, era Terence.

 

Per la prima volta da quando era tornato aveva dormito accanto a lei, senza andare via in piena notte; si domandò se fosse la stanchezza oppure se finalmente Terence avesse trovato requie.

Due occhi blu si aprirono lentamente ed una mano passò tra i riccioli dorati sparsi sul cuscino.

Candy si avvicinò e si sistemò sulla spalla di lui mentre la sua mano le accarezzava piano la schiena e sfiorava con un dito le spalle per poi scostare una ciocca di capelli dal viso.  Le diede un  bacio e si girò un poco verso di lei poggiando la fronte sulla sua, chiuse gli occhi e si addormentò ancora.

Aveva trovato requie.

Candy si sistemò ancora meglio e pian piano il sonno riprese possesso di lei che sentiva il viso sfiorato dal respiro leggero di Terence.

 

I vagiti di un neonato squarciarono l’aria di Casa Andrew un mattino di fine aprile a New York.

Terence non riusciva a smettere di guardare quell’esserino grinzoso dai capelli quasi bianchi e dagli occhi di un indefinibile grigio azzurro che protestava vivacemente a modo suo per essere stata strappata al tepore del ventre materno. In barba a tutte le tradizioni, Terry era rimasto accanto a Candy per tutto il travaglio: era stato lungo e lei, ormai stanchissima, aveva guardato per pochi minuti la figlia accanto a se per poi cadere addormentata.

Terence era rimasto seduto con la bambina in braccio mentre gli zii e la nonna si affollavano intorno a lui che non si rendeva conto di nulla, i sensi interamente catturati da quell’esserino che ora si muoveva piano nel sonno.

“Terence”

Lui alzò gli occhi ed incontrò lo sguardo di Eleanor.

“Madre, come ha potuto farti questo?”

“Non ci pensare più, è tutto passato…”

“Non riesco a perdonarlo.”

Con la figlia fra le braccia pensava al dolore che doveva aver provato la madre quando lui le era stato sottratto. La bambina era nata da poche ore ma già sentiva che sarebbe impazzito se le fosse accaduto qualcosa.

“Non riesco proprio a perdonarlo”

La bimba cominciò a mugugnare ed il neo padre guardò dubbioso la neo nonna che gli disse:

“Comincia ad avere fame…dobbiamo svegliare Candy” e la sollevò dolcemente prendendola dalle braccia di Terence.

Candy aprì gli occhi quando sentì la porta schiudersi.

“Ciao scimmietta”

“Ciao papà”, Terence arrossì vistosamente, compiaciuto.

“Credo che Elisabeth abbia fame”

“Quanto ho dormito?”

“Un paio d’ore”, le rispose Terry accarezzandole i capelli.

La levatrice se ne era già andata e la balia non era ancora arrivata, fu Eleanor a mostrarle come tenere la bambina per allattarla.

Terence osservava le due donne con un misto di imbarazzo, ammirazione e gelosia. Lui aveva fatto fatica a trovare il modo di tenere in braccio la bambina, Candy sembrava saperlo da sempre, i gesti erano naturali e fluidi, si sentiva escluso da un rito che sapeva di antico e primitivo.

“Perché mi guardi così?”, Eleonor era uscita per lasciare da sola la famigliola.

“Non saprei descriverti come mi sento ora…sei bellissima”

Si sedette accanto a lei mentre la piccola mangiava, con gli occhi socchiusi e i pugnetti stretti.

Candy sorrise a Terence, avevano entrambi gli occhi lucidi, lui posò un bacio lieve sulle labbra di lei.

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Capitolo 43
*** Lakewood ***


L’angolo dell’autrice

Beh…il perché del nome della bimba sarà svelato qualche capitolo più avanti ma ti posso dire che è legato ad una donna che ha creduto in Eleanor e nel figlio…chi ha orecchie per intendere… J…vabbè dai, lo dico…ho immaginato che fosse il nome della nonna di Terry, la mamma di Richard…

Non fatevi venire un infarto leggendo… mi raccomando… ;-)

 

 

Lakewood a luglio scintillava di luce, il lago azzurro si intravedeva tra gli alberi che circondavano la villa. Lo stormire degli alberi ed il frinire delle cicale erano gli unici suoni che si potevano udire nel caldo del primo pomeriggio. Talvolta si levavano i vagiti di una bambina, subiti tacitati da una mamma attenta.

Albert aveva ripreso la vecchia tradizione, per quanto gli impegni glielo potessero permettere, di trascorrere le estati in campagna ed aveva esercitato la sua autorità nel vietare ai parenti indesiderati di unirsi a loro.

 

La zia Elroy era rimasta indecisa fino all’ultimo sul da farsi, poi il caldo e la nostalgia di quei luoghi avevano vinto le sue remore.

I primi ad arrivare erano stati Candy e Terence, la piccola Elizabeth ed Albert seguiti dopo pochi giorni da Eleanor.

Dalla metà di giugno era stato un continuo via vai, soprattutto degli uomini, chiamati in città per gli affari mentre le donne erano rimaste alla villa. Annie e Patty avevano raggiunto Candy poco prima del compleanno di Albert che avevano festeggiato in modo informale tutti insieme, poi Albert era ripartito con Archie e Terence per Chicago mentre Stear era rimasto insieme ai genitori appena arrivati dall’estero.

La signora Elroy osservava quell’andirivieni quasi con gioia: era dalla morte di Anthony che non vedeva così tanta vita in quella grande casa e così tante persone felici.

Era rattristata solo da un pensiero che ormai stava diventando fisso: William e la sua solitudine.

Il riavvicinamento a Candy l’aveva portata a fare una scoperta che William aveva osato definire banale: Candy era la bontà fatta persona e lei aveva impiegato la bellezza di otto anni per rendersene conto. Poteva andare peggio, le aveva risposto quello screanzato del nipote, ridendo.

E si era sorpresa a pensare che William, forse, sarebbe stato felice accanto a lei. Le cose erano andate diversamente, lui aveva sofferto molto ed ora sembrava tranquillo ma aveva lo stesso carattere del padre, si teneva tutto dentro e lasciava che il mondo vedesse solo ciò che lui voleva.

Lui ed Anthony erano sempre stati i suoi preferiti e desiderava ormai da tempo vederlo sposato e quella bambina che spesso portava in braccio, viziandola quanto Terence e Candy gli consentivano, sembrava essere una visione che veniva dal futuro, un angelo biondo così simile a lui che avrebbe potuto benissimo essere sangue del suo sangue.

Sarebbero arrivati presto altri nipoti, forse figli di Archibald e Alistear, forse ancora di Candy ma vedere William con Elizabeth la lasciava senza parole e con gli occhi che bruciavano.

Candy aveva intercettato uno degli sguardi straniti di Elroy.

“Sai, credo che alla zia faccia uno strano effetto vederti con Lizzie in braccio”

Lui l’aveva guardata sollevando un sopracciglio.

“Credo che la faresti felice se ti sposassi…”

Albert era perso negli occhi della bimba che teneva.

“Chissa…”, rispose enigmatico, i pensieri, ancora una volta lontani e indecifrabili.

Poi cambiò discorso: “Sai che sei tornata in splendida forma, piccola?”

“Davvero?”

“Ehi, tu! Solo perché sei il padrino non ti permetto di fare la corte a mia moglie!”, lo minacciò Terence.

“Ma tu non stavi dormendo?”

“Mai! Quando il primo padrino che passa di qui ci prova con la madre di mia figlia”, Terry assunse una posa seria , facendo finta di sfidare a duello Albert che si mise a ridere.

“Cos’è non mi prendi sul serio?”

“Se lo facessi dovrei picchiarti e non è bello che il padre della bambina abbia gli occhi gonfi per il battesimo…”

“Senti senti, sei ancora convinto di riuscire a battermi?”

“Quando vuoi e anche con una mano sola!”

“La smettete voi due? Siete ridicoli!!”, li rimproverò Candy ridendo, mentre prendeva la bambina dalle braccia di Albert per andare ad allattarla.

 

Avevano deciso di organizzare il ricevimento in occasione del battesimo della bambina e sarebbe stato anche la festa di nozze che non si era tenuta a New York.

La zia Elroy aveva sorvegliato ogni minimo dettaglio, esonerando sia William che George dall’occuparsi dei preparativi. Loro l’avevano lasciata fare, nessuno era più bravo di lei in queste cose ed entrambi invece odiavano organizzare feste così, mentre lei andava e veniva per la villa con un’energia insospettata per la sua età, la gioventù della famiglia oziava all’ombra degli alberi.

“E dimmi, quando tornerai?”

“Due o tre giorni prima della festa…forse anche prima.”

“Ricordati di passare al negozio a ritirare l’abito.”

“Quale abito?”

“Quello che ho fatto fare per la festa…ricordati di non sbirciare, deve essere una sorpresa! Devi solo ritirarlo, ha già pensato a tutto Terry.”

“Va bene piccola…sarà fatto, tratterrò la mia curiosità.”

“Grazie Albert!”

 

La carrozza si fermò davanti al portico. Candy era volata giù dalle scale, sapeva che era Albert che stava arrivando ed era corsa ad accoglierlo seguita a distanza da Terry che se l’era presa più comoda.

 

La sorpresa di entrambi fu grande quando dalla carrozza scese Albert che si girò per aiutare Susanna a scendere a sua volta.

“Bentornato Albert. Benvenuta Susanna.”

Candy guardò Albert da sotto le ciglia ma lui sembrava imperturbabile.

“Grazie Candy. Come state? La bambina?”, chiese Susanna.

“Bene, stiamo bene, entrambe”, era perplessa.

“Susanna! Che sorpresa!”. Terence infine aveva raggiunto il gruppetto sotto il portico.

“Come mai qui?”, aveva lo sguardo malizioso ma solo Susanna parve accorgersene ed arrossì.

“Colpa mia”, sorrise Albert.

“Ho accettato l’invito molto volentieri”, Susanna sorrise ad Albert, gli occhi che brillavano mentre arrossiva ulteriormente. “Ciao Terence”

 

Candy si apprestò a fare gli onori di casa indicando a Susanna la sua stanza mentre i due uomini rimasero indietro.

“Mi vuoi dire cosa c’è tra voi?”, gli chiese Terence a bruciapelo.

Albert lo guardò come se avesse due teste. “Eh?!”

“Ma mi hai ascoltato?”

“Sì, perché?”, ma si vedeva che aveva la testa altrove.

“Allora?”

“Cosa?”

“Che c’è tra te e Susanna?”
“Assolutamente nulla”, gli rispose Albert con la massima tranquillità, “L’ho incontrata in città. L’avevo già invitata a passare qualche giorno in campagna con sua madre all’inizio dell’estate e ho pensato che poteva fare il viaggio con me e partecipare al ricevimento…tutto qui…”

“E la dolce signora Marlow? Che fine ha fatto?”

“Mi ha detto Susanna che per questa settimana aveva impegni che la costringevano a rimanere in città”

“Ah”, fu la risposta di Terry che si domandò quali impegni avesse mai una come la signora Marlow che di solito si limitava a qualche the con le amiche e mai più di uno alla settimana; sembrava piuttosto essere una tattica per far sì che la figlia passasse più tempo possibile con il suo anfitrione.

Terence provò a ribattere qualcosa ad Albert ma questi gli aveva già messo in mano la grande scatola con l’abito che Candy gli aveva chiesto di ritirare per lei. “Portalo a tua moglie”, gli aveva ingiunto.

Sapendo cosa conteneva e sapendo che Albert non doveva vederlo, sparì subito.

 

“Sai che comincio ad essere seriamente preoccupato?”

“E di cosa?”

“Per Albert”

“?”

“Beh, lui e la dolce Susanna…”
“E perché mai?”

Terence rabbrividì istintivamente : gli occhi da cerbiatto di Susanna potevano benissimo stregare Albert ma non l’avrebbero mai reso felice. Che lei fosse innamorata di lui ormai era chiaro, almeno a ai propri occhi, ma Albert…

“Ma tu non la odiavi?”, chiese a Candy, intenta a leggere un libro.

“Non l’ho mai odiata, certo non sarei mai riuscita a volerle bene visto che ti aveva portato via da me ma ora potrei quasi considerarla con benevolenza e se poi farà felice Albert sarà benvenuta come una sorella.”

“UMMMH”, mugugnò lui poco convinto.

 

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Capitolo 44
*** Una sorpresa di compleanno ***


“Sarà meglio che andiamo a prepararci, se la zia mi vede ancora con questi abiti mi prendo una lavata di capo”

Susanna annuì.

La luce dorata del tardo pomeriggio filtrava tra gli alberi e lei era al settimo cielo. Da lì a poco più di un’ora sarebbe iniziato il grande ricevimento per il battesimo della piccola che si era tenuto il mattino stesso.

Lei e William erano usciti a passeggio come era accaduto ogni giorno da quando era arrivata, ormai cinque giorni prima, insieme a lui.

Con il passare dei giorni il suo imbarazzo era man mano diminuito, William aveva fatto di tutto per farla sentire a proprio agio, così come aveva fatto Candy. Terence si era mostrato più freddo e non aveva perso occasione di lanciarle frecciate sul suo interesse per il padrone di casa, frecciate che, per fortuna, sembrava non aver colto nessun’altro che lei.

“Sai, un poco mi spiace di non poter ballare”, gli disse mentre si dirigevano verso la villa, passando lungo i viali coperti di ghiaia bianca che si intrecciavano nel giardino all’inglese.

Albert si scosse alla voce di lei, la sua mente era di nuovo lontana, per l’ennesima volta lontana. Marian.

 

L’ultima lettera di Marian risaliva a più di 10 giorni prima e con quella gli comunicava che sarebbe andata via per qualche giorno e non sarebbe riuscita a scrivergli regolarmente; gli aveva chiesto di non stare in pensiero e gli aveva detto che gli avrebbe scritto nuovamente non appena di ritorno. Lui aveva sospirato e si era rassegnato, solo non aveva capito come mai non gli avesse detto dove andava e perché, cosa che aveva sempre fatto fino a quel momento. La gelosia aveva strisciato gelida nella sua mente e lui in quel lasso di tempo si era estraniato sempre più spesso da ciò che stava facendo per interrogarsi dove fosse e cosa stesse facendo.

 

“Perché no?”, domandò ma subito si morse le labbra. Idiota, ti sembra una domanda da fare a Susanna?

“Beh…”, era la prima volta che la metteva in imbarazzo sulla sua invalidità ma forse se l’era anche cercata, tuttavia aveva visto, da sotto le ciglia, che era particolarmente distratto, di nuovo, come già era accaduto.

Non riusciva però nemmeno a provare fastidio, stargli vicino così la faceva camminare ad un metro da terra.

“Potremmo provare, magari non davanti a tutti ma potremmo provare, secondo me con un po’ di pratica dovresti farcela.”

“Dici davvero?”, sentì il cuore in gola, ballare con lui, poter finalmente avere una scusa per sentire le sue braccia intorno a lei, sì, avrebbe potuto provare, forse anche farcela, sentì gli occhi inumidirsi.

“Sì, un giorno di questi ci mettiamo col grammofono da qualche parte dove non ci vede nessuno e vediamo come va, che ne dici?”

Susanna annuì senza riuscire ad articolare alcuna parola ma Albert non se ne accorse, i pensieri di nuovo lontani.

 

Arrivò in cima alla scala del primo piano quando il rumore di un’auto sulla ghiaia del viale lo fece affacciare alla finestra, incuriosito, gli ospiti erano tutti arrivati e non attendevano nessun altro, non riusciva ad immaginare chi potesse essere.

L’auto scura portava uno stemma sulla fiancata ma da quella distanza non riusciva a vederlo chiaramente tuttavia riconobbe immediatamente l’uomo che scese dall’auto e che fu accolto da Candy. Il Duca la salutò con un inchino per poi prenderle le mani in un gesto affettuoso.

Sentì montare la rabbia: come osava presentarsi!?

Ristette un attimo, indeciso tra l’andare a preparasi e poi chiedere spiegazioni a Candy o fare l’opposto. Stava già percorrendo il corridoio per tornare indietro quando la vide arrivare sorridente.

“Eccoti qui! Dove ti eri nascosto?”

Lui non rispose al sorriso: “Cosa fa lui qui? Con che faccia tosta si presenta in questa casa?”

“L’ho invitato io”, gli rispose candidamente.

“Eh!?!”

“Sei sordo? L’ho invitato io!”

“Ma, ma…e Terence? Andrà…”

“Lo sa, gli ho detto che la villa è grande, se non vogliono incontrarsi possono riuscirci”

Albert era allibito: “E la zia? Se lo vede…”

“Ci ho già pensato”

Albert restò di nuovo a bocca aperta: “E come…?”

“Le ho detto che era un’occasione per dimostrare al Duca di cosa sono capaci gli Andrew.”

“Ed Eleanor?”

“Lo sa”, rispose lei tranquillamente.

Ad Albert scappò da ridere ma cercò di restare serio: “Senti, ma perché sono l’ultimo a sapere questa cosa?”

“Perché, anche se l’avessi saputo per ultimo, non ti saresti arrabbiato…”

Albert rise.

“Sai che ho paura di te quando fai lavorare quel tuo cervellino? Diventi pericolosa…”

“E non sai quanto”, ribattè lei strizzando un occhio, “Vieni con me, ho una sorpresa per te, il tuo regalo di compleanno”

“Eh? Ma è già passato ed il regalo me lo hai già dato!”

“Ma questo è quello vero!”

“Eh? Senti, devo andare a cambiarmi, chi la sente poi la zia se ritardo, gli ospiti sono quasi tutti in sala, me lo darai dopo..”

“No, no, no, vieni e non far storie!” e preso Albert per una mano lo trascinò correndo verso lo studio.

“E’ qui”, disse arrestandosi davanti alla porta.

Albert la guardò, quando Candy faceva così ne aveva combinata una delle sue.

“Cosa mi devo aspettare, una giraffa? Tonga il leone? “

“Niente di tutto questo, apri e vedrai…”

Albert mise la mano sulla maniglia, il cuore aveva iniziato inspiegabilmente a correre come un pazzo. Il profumo che sentiva nell’aria era quello di lei ma non era possibile che fosse lì.

Aprì la porta sotto lo sguardo sorridente e sornione di Candy che gli sussurrò “Buon compleanno”, chiudendogli la porta alle spalle.

 

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Capitolo 45
*** Sono felice ***


L’angolo dell’autrice

Hai ragione Kaouru a dire che Elizabeth sarà il miracolo che qualcuno dei personaggi aspetta da tempo anche se forse non come l’hai immaginato tu…e ha ragione Blu Rei a dire che Terence vede più lontano degli altri ma sarà ascoltato come Cassandra…

 

 

Marian si voltò all’aprirsi della porta.

Indossava un sontuoso abito rosso amaranto, in raso di seta, che le lasciava scoperte le spalle, sottolineava gentilmente la scollatura e segnava la vita per poi scivolare morbidamente sui fianchi. Lunghi guanti bianco perla le fasciavano le braccia fin sopra i gomiti, i capelli erano raccolti in una elaborata acconciatura e fermati da piccoli pettini d’argento.

 

Era una visione che non avrebbe mai pensato di vedere in quel momento e in quel luogo, quell’abito l’aveva scelto lui insieme a Candy proprio per lei, ecco cosa conteneva la scatola che aveva ritirato dal sarto a Chicago. Avrebbe dovuto essere il regalo per Marian quando fosse tornata in America in autunno, era stato confezionato per un’occasione speciale.

 

“Marian, tu..qui..”

Lei sorrise, imbarazzata, non si sentiva a suo agio in quell’abito, troppo ricco per lei …e troppo scollato.

 

Candy mi ha giocato proprio un bel tiro, pensò Albert.

 

Si avvicinò lentamente , osservandola.

“Sei bellissima”, aveva fatto fatica a pronunciare quelle due parole.

 

Lei sorrise di nuovo, intimidita dallo sguardo profondo ed intenso dell’uomo davanti a lei. Aprì la bocca come per parlare ma non ne uscì alcun suono.

Albert si arrestò ad un passo da lei, immobile a contemplarla: si era già sentito così, solo che dopo aveva passato giorni terribili.

 

“Non sei felice di vedermi”, lei sentiva gli occhi bruciare, forse non è stata una grande idea la sorpresa, “Candy ha insistito tanto perché non ti dicessi nulla..forse avrei dovuto…”

Lui scosse la testa e le prese il viso tra le mani, accarezzandola piano, con gli occhi socchiusi.

Marian sentiva i brividi scenderle lungo la schiena.

“Mi sei mancata…”

“Anche tu”, rispose abbassando gli occhi per una frazione di secondo e sentì che le sollevava il viso e posava le labbra sulle sue. Restò impietrita, il respiro mozzato.

Al diavolo, aveva pensato dei propri timori,  lo devo sapere!

Ma lei era rimasta immobile un momento di troppo.

“Scusami”, tirò un sospiro cercando di restare impassibile ma lo sguardo si era rabbuiato.

“Io…”, mormorò lei a fatica…

 

Terence incontrò Candy lungo il corridoio del secondo piano, lei era andata a cambiarsi mentre lasciava il tempo ad Albert e Marian per restare soli.

“Sei bellissima, amore mio”, le disse abbracciandola e depositando una fila di baci sul collo scoperto.

Indossava l’abito bianco da sposa che era stato rimesso a modello: era la prima festa cui prendeva parte ed era tradizione che indossasse l’abito bianco per l’occasione.

“Mi fai venire i brividi!”, mormorò lei appoggiando la testa sulla spalla di Terry e lasciando così il collo ancor più esposto.

“Ma vedo che ti piace”, la guardò malizioso, poi riprese a scorrere con le labbra lungo la spalla per poi risalire il collo ed arrivare all’attaccatura dei capelli dietro l’orecchio. Candy inspirò profondamente  socchiudendo gli occhi: le piaceva quando Terry la sfiorava in quel modo, glielo avrebbe lasciato fare per una giornata intera. Il cuore prese a correre e il respiro si fece breve, Terence sorrise, adorava sentirla cedere in quel modo sotto le proprie mani.

“Dobbiamo andare…”, protestò debolmente lei mentre gli sfiorava il petto e passava la mano sotto la giacca a cercare il bottone della camicia, “Albert ci starà aspettando”

“Avrà da fare anche lui”, mormorò Terry contro le labbra di Candy poco prima di baciarla fino a toglierle quel poco di fiato che le era rimasto.

Candy riuscì ad agguantare l’ultimo pensiero cosciente prima di perdersi fra le sue braccia e cercò di staccarsi ma lui non sembrava intenzionato a lasciarla andare.

“Senti ma perché non troviamo un posticino tranquillo?”

“Ci stanno aspettando…”

“Allora più tardi, tanto durerà fino all’alba..”

“Terry…non possiamo”, ma era difficile cercare di essere responsabili e convincenti mentre Terence la stringeva a quel modo e faceva scorrere le mani sulla sua schiena come se non volesse fare altro che toglierle quell’abito di dosso.

“Terry…potrebbero vederci!…ora basta…”, era arrossita di colpo quando lui aveva percorso con la mano tutto il fianco fino a sfiorarle il seno.

“Sei mia moglie, no? E poi sono tutti di sotto..”

“Dobbiamo chiamare Albert…”

“Uffa!”, protestò Terry lasciandola andare di malavoglia dopo averle dato una altro bacio, “E sì che quell’arpia di tua zia mi ha mandato a cercarvi..”

“Ecco vedi…”, Candy lo guardò scuotendo la testa e sorridendo, il viso ancora accaldato per i baci e i brividi.

 

Candy bussò alla porta dello studio.

“Avanti”

Sorrise dolcemente quando vide Albert che le sorrideva a sua volta e Marian rossa come l’abito che portava.

“Sì, devo andare a cambiarmi”, si schiarì la voce, un po’ di imbarazzo, “Vado.”

“Ti aspettiamo qui”, gli rispose Terry appoggiato allo stipite della porta.

Marian gettò le braccia al collo di Candy non appena Albert se ne fu andato. “Grazie”, mormorò.

 

Lui fu di ritorno in un attimo e consegnò un lungo astuccio a Candy, “Questi sono per te”, lei annuì. Erano i gioielli che facevano parte della collezione di famiglia e che era solita indossare durante le feste ma Albert aveva in mano un altro astuccio di velluto rosso che lei guardò con aria interrogativa spalancando gli occhi. Lui le rispose con un sorriso enigmatico che ne risvegliò un altro negli occhi di smeraldo di Candy. Terence non aveva perso lo scambio di sguardi e cercò di fare la domanda ma Candy si mise rapidamente i gioielli senza smettere un secondo di dire “E’ tardi, la zia ci aspetta, è tardissimo” e via così per poi trascinare via rapidamente un Terry molto perplesso.

“Ma…cosa..?”

“Vieni!”

“Ma..”

“Ti spiego dopo”, gli aveva sussurrato infine in un orecchio mentre lui la guardava di sbieco, “Muoviti!”

 

Si incontrarono in cima alla scalinata che scendeva nel salone.

Candy ed Albert si guardarono intensamente poi si abbracciarono.

“Sono così felice, Albert!!”

“Anche io piccola!”, poi mormorò pianissimo, “Grazie!”

La signora Elroy vide passare dinnanzi agli occhi i lunghi anni trascorsi da quando Candy era arrivata in quella casa, anni in cui tanto era cambiato: quella serata che si accingevano ad aprire forse segnava l’inizio di una nuova era nella vita della loro famiglia anche se mancava ancora una cosa perché, finalmente, l’ansia che aveva ormai da mesi si potesse placare.

Osservò William; da tempo non vedeva quell’espressione nei suoi occhi, si chiese se finalmente anche lui avesse trovato ciò che cercava, si ripromise di chiedergli qualcosa più tardi, non era il momento giusto quello per discorsi di quel genere.

Albert porse il braccio alla zia e si accinse a scendere le scale, seguito da Terence e Candy.

“William caro, credo che dovrai trovarti un’altra dama per terminare il ballo di apertura”, disse Elroy scendendo lo scalone, “io credo che farò solo i due giro d’obbligo, sono molto stanca.”

Albert annuì: “Si è affaticata troppo, zia cara e devo dire che stavolta ha superato se stessa, il salone è magnifico stasera.”

La signora Elroy sorrise compiaciuta.

“Tieni il Duca lontano da me”, sibilò Terence mentre scendevano.

Candy non rispose, sorrise soltanto, facendo attenzione ai gradini.

 

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Capitolo 46
*** Intrecci ***


Le note del valzer di apertura risuonarono nel salone. Albert portò Elroy al centro della sala e prese a muovere i primi passi seguito, a tempo debito da Terry e Candy e poi, man mano, dalle altre coppie.

Susanna aveva trattenuto il fiato quando aveva visto Albert accompagnare la zia a bordo pista e dirigersi verso di lei: il cuore si era fermato, stava per invitarla a ballare dopo la zia, non riusciva a crederci.

Il cuore si fermò una seconda volta quando ricordò che non poteva ballare ed una terza quando Albert la ignorò completamente, lo sguardo irresistibilmente puntato sulla ragazza accanto a lei, con un abito così sontuoso da far apparire gli altri ben miseri.

Albert le prese la mano e la fece alzare, lei arrossì visibilmente.

Iniziarono a volteggiare mentre un mormorio si diffondeva in sala: una ad una le coppie si fermarono fino a quando Albert e Marian rimasero da soli.

“Che succede? Perché si sono fermati tutti e ci guardano?”

“Perché sei bellissima e nessuno sa chi sei, sono tutti curiosi”, gli occhi di Albert le sorridevano e se guardava quei due cieli azzurri riusciva quasi a dimenticare l’imbarazzo di essere al centro dell’attenzione generale.

 

“Candy, tu ne sapevi qualcosa?”. Archie ed Annie l’avevano raggiunta.

Lei rispose con un sorrisetto malizioso.

Arrivarono anche Stear e Patty e la scena si ripetè. Candy osservava raggiante i due ballerini e non parlava.

“Senti ma mi vuoi dire perché tutti mormorano?”, Terence era spazientito.

“Non conoscono Marian…”

“No, non è quello, si sono fermati tutti, come ad un segnale. Vorreste spiegare anche a me, comune mortale, perché tutti quelli della famiglia hanno quell’espressione un po’ ebete?”

Candy, Stear ed Archie si scambiarono una serie di occhiate e Archie raccontò brevemente il perché di tanto scalpore.

Susanna, malgrado fosse vicina, non riuscì a sentire, Archie parlava troppo piano agli amici che si erano avvicinati per sentire meglio.

 

Al secondo giro di valzer le coppie ripresero a ballare ma i mormorii e i commenti non erano affatto cessati.

 

“George, ne sapeva qualcosa?”

“No, signora…”

“E Candy, crede che lei ne sapesse qualcosa?”

“So che ha organizzato lei l’arrivo della signorina Marian, insieme al Signor Granchester e doveva essere una sorpresa per il signor William ma…”

“Oh, che glielo domando a fare? Tanto lei è sempre pronto a schierarsi dalla loro parte!”

“Ma signora…”

“Oh, è sempre pronto a giustificare quel che combinano quei due!”

“Signora, le assicuro che William non ne sapeva nulla…”

“Se doveva essere una sorpresa, come mai quei gioielli sono qui?!”

“Non ne ho idea”, rispose George osservando Marian.

 

“Dì la verità, Albert, avevi intuito qualcosa”

“No, piccola, è stata una sorpresa”

“E allora come hai fatto a…”

“Sai che non lo so? Quando sono andato alla camera blindata a prendere i tuoi gioielli e quelli della zia non so perché ma ho deciso di prendere anche quelli, chiamala premonizione o come vuoi tu…”

“Lei lo sa cosa significano?”

Scosse la testa.

“Non è leale…”

“Pensi che mi dirà di no?”

“Non credo ma si sente gli occhi di tutti addosso e non sa perché”, gli rispose Candy indicandogli Marian circondata da un gruppo di dame che le facevano domande.

“Vado a soccorrerla”, le rispose ma in quel momento sopraggiunse Susanna.

Albert la salutò con un inchino, baciandole la mano mentre Candy sorrideva. Ci fu un rapido scambio di battute durante il quale Candy non poté fare a meno di osservare la crescente agitazione di Susanna nel constatare che era difficile catturare l’attenzione di Albert che continuamente sbirciava in direzione di Marian; alla fine si congedò per raggiungerla.

 “Tutto bene, Susanna?”

“Sì, sì, tutto bene”, ma lo sguardo inquieto continuava ad andare verso la coppia poco distante da loro.

Che Terence avesse ragione?

 

Il Duca era rimasto in disparte, sapeva di essere lì solo perché Candy si era imposta su tutti e non voleva crearle dei problemi.

Per buona parte del tempo aveva seguito Eleanor con gli occhi, non osava invitarla a danzare ma si rodeva a vedere gli uomini che si affollavano intorno a lei a chiederle un ballo. Aveva osservato a lungo anche Terence che, invece, non lo aveva degnato di uno sguardo mentre Candy, ogni tanto, lo cercava con gli occhi e sorrideva. Non era ancora riuscito a vedere la nipote ma attendeva paziente che l’occasione arrivasse, Candy glielo aveva promesso.

“Duca”

“Candy, sei davvero splendida questa sera.”

Lei sorrise mentre il verde dei suoi occhi diventava ancora più luminoso.

“Non mi invita a ballare?”

Lui trattenne il fiato: aveva un significato ben preciso il gesto che Candy gli chiedeva di compiere e lei, accettando di ballare, avrebbe accettato di dichiarare pubblicamente pace fatta tra loro due ma quel gesto avrebbe quasi certamente fatto infuriare Terence e probabilmente indispettito la padrona di casa.

Candy comprese le remore del Duca ma sorrise ancora una volta con dolcezza e gli porse una mano.

 

Terence con la coda dell’occhio vide il padre prendere posto al centro della sala insieme a Candy ed iniziare a muoversi a tempo di musica.

Sentì la rabbia avvampare e quando i due passarono poco distante fece per afferrare il braccio di Candy e fermarla ma lei lo fulminò con lo sguardo per impedirgli di muoversi. Guardò truce il padre che gli rispose, con sua grande sorpresa, con uno sguardo di supplica.

Ripresosi dallo stupore fece per fermarli di nuovo ma stavolta avvertì una presa ferrea sulla spalla.

“Calmati!”

“Lasciami!”

“No.”

“Non sono affari tuoi!”

“E qui ti sbagli.”

Terence rispose con un ringhio, “Come osa?!”

“Glielo ha chiesto Candy.”

“E tu come fai a saperlo?”

Albert lo fissò con un’espressione che diceva La conosco.

“Probabilmente hai ragione”, gli rispose Terry meditabondo dopo alcuni istanti.

“Ho osservato tuo padre, è rimasto in disparte finora, se Candy non fosse andata da lui non si sarebbe mosso.”

“Ma tu non eri distratto da altro?”, gli rispose maliziosamente cambiando discorso.

“E con questo cosa vorresti dire?”

“Che stasera stai smentendo tutte le dicerie che ti riguardano…”

“?”

“Non ami ballare ma non hai fatto altro fino ad ora, non ti interessa alcuna donna ma è tutta la sera che sei appiccicato a Marian, saresti dovuto restare scapolo e invece, a quanto mi dicono hai fatto il grande passo…”

Albert rise, “Non ancora.”

Terence sbarrò gli occhi: “E le hai dato i gioielli da indossare?”

“Ma dì un po’, tu e Candy pensate con lo stesso cervello?”

“Ti ha detto la stessa cosa, eh?”

Annuì.

“Fa attenzione a Susanna”

“Eh?! Terence, ancora quella storia! Non ha mai avuto motivo di pensare ad un mio interesse per lei e non ne ha mai mostrato nei miei confronti…”

“Se lo dici tu…Ma hai passato più tempo del dovuto con lei, tutti mormorano…conosco Susanna meglio di te.”

Terence ricordava bene quella sera nel teatro vuoto in cui lei gli aveva gridato la sua gelosia per Candy.

E le conseguenze erano state disastrose.

Albert lo guardò un istante poi con una mano scacciò quei pensieri e con gli occhi cercò Marian.

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Capitolo 47
*** Lei e l'altra ***


Dopo i primi balli Albert era stato costretto a fare gli onori di casa insieme alla zia e a Candy e lei era rimasta in disparte ad osservare gli invitati. A quella festa conosceva ben poche persone oltre Candy ed Albert e si sentiva a disagio: non aveva mai frequentato l'alta società, suoi genitori erano di umili origini, era riuscita a studiare solo a costo di grandi sacrifici propri e della propria famiglia. Quell' ambiente le era completamente sconosciuto e non era avvezza nemmeno all' abito: quando Candy glielo aveva mostrato era rimasta a bocca aperta e aveva cercato di convincerla a lasciarle indossare qualcosa di meno appariscente, di più semplice, ma lei non aveva voluto sentire ragioni; quando infine le aveva detto che il vestito era stato scelto da Albert aveva capitolato ma ora si sentiva a disagio.

 

La ragazza che l'aveva osservata dallo specchio quando aveva finito di prepararsi non sembrava nemmeno lei e quella collana che le aveva fatto indossare era la cosa più bella che avesse mai visto; il disegno era semplice ma l’effetto finale era magnifico: una sequenza di rubini a forma di cuore, ciascuno circondato da una fila di diamanti così bianchi che rilucevano anche nella penombra della terrazza dove si era rifugiata per prendere un po' d'aria.

Gli orecchini ed il bracciale avevano lo stesso disegno e le stesse pietre. Nell' astuccio aveva visto anche una tiara ma, con suo grande sollievo, Albert non le aveva chiesto di metterla.

Non osava nemmeno immaginare quanto potessero valere: le aveva detto che erano molto antichi, di proprietà della famiglia da generazioni.

Era strano che nessuno tra gli invitati le avesse chiesto perché li indossasse lei:  pareva esserci un alone di mistero intorno ad essi. Aveva provato a chiederlo ad Albert e lui le aveva risposto con un sorriso enigmatico.

Guardò di nuovo il bracciale, pensierosa: Albert era strano quella sera, non l’aveva mai visto così serio e di poche parole, per più di metà del tempo che avevano trascorso insieme lui aveva taciuto, lo sguardo che non si staccava mai da lei mai i suoi pensieri sembravano inaccessibili, non riusciva a capire a cosa stesse pensando.

Il suo modo disinvolto di comportarsi con gli ospiti la lasciava spiazzata, dove aveva imparato? Era sempre stato così e lei non se ne era mai accorta? Era timido ed incerto solo con lei o era cambiato davvero così tanto? E tutte quelle donne che non facevano che girargli intorno? Perché era stato così strano nello studio?

L’aveva baciata ma sembrava quasi che si fosse costretto a farlo, per quello lei era rimasta incerta, aveva immaginato in tutt’altro modo l’accoglienza di lui dopo quello che le aveva scritto nelle lettere, voleva che lei tornasse in America a settembre, le aveva detto di sentire la nostalgia ma che differenza con l’Albert conosciuto in Africa, non sapeva cosa pensare.

 

“Il tuo nome è Marian, giusto?”, una voce la fece sobbalzare.

Si voltò e vide quella bella ragazza che aveva visto parlare con Albert più di una volta dall'inizio della serata.

“Sì”

“Forse non sai chi sono...”

“Sei Susanna, vero? Candy mi ha detto il tuo nome”

“Sì”

Silenzio, Susanna non sapeva da dove iniziare.

“E’ tanto che conosci Albert”, le chiese Marian pensierosa.

“Sì”, restò sul vago, “E tu?”

“L'ho conosciuto in Africa”, sorrise appoggiandosi con le mani alla balaustra ed alzando la testa a guardare la luna. “Beh, dovete essere molto amici. Ti ha fatto un grande onore invitandoti a ballare dopo la zia”, aveva cercato di mantenere la voce neutra, come se stesse parlando del più e del meno ma era agitata.

Marian arrossì: “L'avevo intuito. Mi ha presa alla sprovvista, non sono abituata a questo genere di cose.”

“Il tuo abito è molto bello.”

“Grazie.”

“Da chi lo hai fatto fare?”

“Non saprei, è un regalo.”

“Candy? Molto gentile da parte sua”, osservò Susanna con non curanza appoggiandosi alla balaustra a sua volta. “Oh, no, non Candy, è stato Albert”

Lo sguardo di Marian era sognante, alzò la mano a sfiorare il girocollo ed il bracciale scintillò nella penombra come se avesse luce propria.

Susanna digrignò i denti. Non sapeva come andare avanti, voleva sapere quello che c'era tra lei e William ma non riusciva a trovare il modo di formulare la domanda senza sembrare troppo indiscreta.

“Tu non balli? Non ti piace?”

Susanna fu colta di sorpresa, non pensava di essere stata osservata.

“Albert non è stato gentile a non invitarti, visto che vi conoscete bene.”

“Oh, io non posso ballare.”

“ Ah..”

“Un incidente.. .ho perso... una gamba...”

Marian restò di stucco e si senti terribilmente imbarazzata. “Scusami”

“Oh, non potevi saperlo, in fondo sei nuova tu qui”, le aveva risposto calcando l'accento sulle ultime tre parole, “ed è nel carattere di William essere molto discreto su queste cose.”

Marian la osservò pensierosa: era molto bella, aveva fascino e femminilità e da come parlava sembrava che tra lei ed Albert ci fosse molta intesa, forse anche complicità; sentì pizzicare gli occhi.

“Sai mi ha aiutata molto dopo l'incidente, è stato così premuroso”.

Marian sorrise: aveva ben presente quel lato di Albert.

Si voltò verso Susanna, a cercare una complicità che non trovò, lei si era voltata verso la porta.

“Bene, vedo che avete fatto conoscenza”, la voce di Albert.

“Sì”, mormorò Marian.

“Avresti potuto presentarmi la tua amica, William, è così dolce.”

Lui sorrise prendendo la mano di Marian e baciandola; gli sguardi si incrociarono, lei abbassò gli occhi sentendo il calore salire alle guance.

“Hai ragione Susanna, sono stato un padrone di casa deprecabile, mi perdonerete?”

“Se ci porti qualcosa da bere…può darsi. Saresti così gentile?”, rispose appoggiando languidamente una mano

sul petto di lui.

Albert restò sorpreso dall’atteggiamento di Susanna, era alquanto strana in quel momento ma rispose: “Sarà fatto mie signore” e si avviò.

Il disagio assalì Marian quando restò di nuovo sola con Susanna, c'era qualcosa di non detto tra lei e quella ragazza, qualcosa che serpeggiava tra loro ma non riusciva a coglierlo. Restò in silenzio.

“Questa villa è molto bella, vero? William me ne ha parlato tanto…è il suo posto preferito.”

“Già ed è così diversa senza tutta quella neve...”

“Neve?”

“Sì, quest’inverno ce n'era così tanta che era arrivata ad ingombrare il portico e Albert e Gorge hanno dovuto lasciare l'auto fuori dal cancello perché non riuscivano a passare… sai...”, aveva iniziato a raccontare tenendo gli occhi sul giardino; ora si era voltata per guardare Susanna e stava per proseguire ma ammutolì quando vide l'espressione della ragazza: Susanna sembrava trasformata,

“E tu cosa ci facevi qui quest’inverno?”, era indispettita, il corpo proteso in avanti in posa minacciosa.

“Beh…io…Albert era qui e io...”

“Ti ha invitata William?”

“No, ecco io cercavo Albert...non lo vedevo da tanto...”

“E sei venuta a cercarlo qui in mezzo alla neve alta?”

“…ma...”

“Beh?! Cosa ci facevi qui? Allora?”

“lo non capisco...”

“Rispondi”

Marian era troppo sorpresa: Susanna sembrava gelosa, la gelosia di chi si sente in posizione dominante. C'era qualcosa che Albert aveva taciuto?

“lo ho conosciuto Albert in Africa ma sapevo poco di lui. Ho scoperto solo molto dopo chi fosse in realtà, per caso e...”

“E hai pensato bene di rinfrescare l' amicizia, eh?!”

“Eh?”, Marian era sempre più allibita dal cambio repentino di modi e di linguaggio.

“Non penserai certo che lui si possa interessare a te, vero? Perché è per questo che l'hai cercato, eh? Stai alla larga da lui!”

“Ma...io e Albert…”, Marian sentì salire le lacrime.

“Non lascerò che me lo porti via”

Marian sentiva ancora le braccia di Albert intorno a se e si domandò se lui…Sì, l’aveva abbracciata, le aveva dato un bacio ma l'accoglienza era stata più fredda di quella che si era aspettata; l’Albert che le scriveva le lettere e quello che l’aveva salutata nello studio sembravano essere due persone diverse. Cosa c'era tra lui e quella ragazza?

“Senti, Albert non mi ha mai detto nulla di te...”

“Se è per questo non mi ha mai nemmeno parlato di te!”, rispose secca Susanna.

Che lui avesse davvero qualcosa da nascondere, pensò Marian.

Albert arrivò in quel momento con due calici. Fece per porgere il bicchiere a Marian ma lei lo rifiutò dicendo: “Vi lascio soli” e si allontanò di corsa.

Albert si girò verso Susanna.

“Cos’è accaduto?”

“Perché non mi hai mai parlato di lei?”, aveva cercato di fare la domanda con voce neutra ma suonava lo stesso come un' accusa ed un interrogatorio.

“Non ne vedevo e non ne vedo il motivo”

“E perché?”

“Dovresti saperlo.”

“Già, la tua riservatezza è leggenda ma questa volta sa di tentativo di tenere il piede in due scarpe.”

Albert sgranò gli occhi, “Cosa?!?”  

“Non puoi prendermi in giro così!”

“Susanna, non ti prendo in giro e non l'ho mai fatto, la mia vita privata non è argomento di conversazione!”

“Non in questo caso! Sei un bugiardo”

Albert stava iniziando a spazientirsi.

“Ancora oggi siamo usciti a passeggio insieme e mi hai detto che mi avresti aiutato a ballare...”

“Susanna, ti rendi conto di quello che stai dicendo? Ho assolto i miei doveri di ospite. Sei qui e non conosci quasi nessuno. Quanto al ballare lo avrei fatto con qualunque amica. Come puoi fare un’affermazione del genere?!” Susanna ormai lo guardava tra le lacrime.

Stavolta non c'è Candy ma la storia è sempre la stessa, io vengo sempre per seconda.. .non gliela darò vinta!

“Anche a New Y ork...”

“Smettila!”, Albert ne aveva a sufficienza ed era preoccupato per Marian; posò i bicchieri sul tavolino accanto alle fioriere e si girò per lasciare Susanna; scese alcuni gradini per andare verso il giardino ma si sentì tirare per la giacca. “William..”

“Cosa c'è ancora?”, era irritato.

Si voltò ad aspettare che lei parlasse, cercando di calmarsi.

“Scusami ecco, io.. .non so come dirlo, non voglio rinunciare a te”, disse rapidamente come a togliersi quel peso dal cuore.

Mio Dio, Terence aveva ragione!

“Susanna, io...”, scrollò la testa, “lo non...”

“William, per favore...io non so nemmeno com'è accaduto ma io...ti voglio bene, non voglio rinunciare a te...quella...quella ragazza, non me ne hai mai parlato”, gli accarezzò il viso con una mano, scendendo uno scalino e trovandosi così vicinissima a lui che era due gradini più in basso.

Alcuni istanti di silenzio durante i quali Susanna continuò ad accarezzare il viso di William, ora con entrambe le mani ma lui la fermò prendendole i polsi.

“Susanna, ascolta…Ho voluto conoscerti perché volevo capire come aiutare Candy. Man mano sei diventata un’amica. Sei bellissima e dolce ma…io…io sono innamorato di un’altra persona…”

“Ti prego, non lo dire, io non posso sopportarlo!”.

Sentì le lacrime sul viso, William le lasciò libere le mani e le asciugò gli occhi.

“Non piangere Susanna, non ne valgo la pena, troverai chi saprà amarti come meriti.”

“Ma io non voglio nessun altro!”, protestò lei.

Albert scosse la testa e fece per voltarsi e scendere, Susanna cercò di trattenerlo ma perse l’equilibrio scivolando sullo scalino, lui la prese al volo e si ritrovò con la ragazza singhiozzante tra le braccia.

“Perché, perché, perché? Prima Terence, ora tu! Che cos’ho io che non va?!?!”

“Nulla, Susanna, nulla, solo che non si può scegliere chi amare…”

Provava pietà per Susanna, sapeva bene come si sentiva, ci era passato anche lui.

Lei continuava a singhiozzare, non seppe far altro che accarezzarle i capelli cercando di consolarla e calmarla.

Infine riuscì a scendere in giardino ma era passato già del tempo da quando Marian era andata via.

 

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Capitolo 48
*** Nostalgia di un amore ***


L’angolo dell’autrice

La storia si sta avviando alla fine ed i nodi vengono al pettine ma si scioglieranno del tutto solo nei tre epiloghi che seguiranno l’ultimo capitolo.

Quanto alla situazione attuale posso solo dire che a me Susanna è sempre sembrata, allo stesso tempo, sprovveduta di fronte agli imprevisti della vita e irragionevole nel suo non saper accettare che il mondo non gira come vorrebbe lei…e mi fa allo stesso tempo pena e rabbia…vedremo quale prevarrà in me e quindi quale destino avrà…

Tra Eleanor e il Duca le cose sono piuttosto complicate: lui è sposato con famiglia…ma almeno il rapporto con lei lo può recuperare, questo è certo, quanto a tutto ciò che li circonda…non sarà facile far convivere il dovere ed il cuore ma lui non può far altro che trovare una mediazione.

Albert avrebbe fatto meglio a dare retta a Terence che non sarà un genio della diplomazia ma sa leggere molto bene le persone….ed ora si trova con una bella gatta da pelare…Marian non è tipo da farsi convincere facilmente…

 

Terminato il valzer con Candy, il Duca si fece coraggio ed attese paziente che Eleonor salutasse il suo cavaliere per chiederle finalmente un ballo; si era aspettato un rifiuto ed invece lei, dopo un attimo di esitazione, aveva accettato.

Per un po’ restarono in silenzio, poi lei gli chiese a bruciapelo.

“Ma almeno le hai chiesto scusa?”

“Sì”

Di nuovo silenzio.

“Hai parlato con Terence?”

“Non ne vuole sapere…”

Ancora silenzio.

“E con William?”

Il Duca ebbe un moto di stizza che subito represse ma Eleanor strinse gli occhi con fare minaccioso.

“Candy mi ha detto che ci avrebbe pensato lei ma avevo intenzione di farlo io di persona in ogni caso.”

“Sei riuscito ad offendere tutta la famiglia, non solo Candy ed Albert”

“Albert?”

“William”

“Siamo a questo punto con la confidenza?”, ma poi si morse il labbro.

“Si direbbe che tu sia geloso, Richard.”, gli disse con aria di sfida.

“Sì”, ammise lui, “ed in particolare non sopporto di vederti con William Andrew”.

Eleanor studiò per un attimo l’espressione di Richard.

“E’ solo un buon amico”, gli rispose pacata.

Scese nuovamente il silenzio.

Mi sei mancata, ti amo ancora. “Sei molto bella, stasera, come sempre”

“Grazie”

Mi sei mancata. Ti amo. Vorrei dirtelo. Se apro ancora una volta la bocca temo che finirò per farlo. Non posso, non devo ma è quello che sento .“Scusami”

“Di cosa?”

“Di tutto”, la voce era triste e lui guardava un punto fisso, “Di tutto…”

“Richard…”

Di nuovo, come tanti anni prima, aveva sentito vibrare i sentimenti di quell’uomo che era stato il più importante della sua vita. Ed ora le arrivavano tristezza, solitudine, amarezza e…desiderio.

Si disse che era impossibile: lui l’aveva rinnegata, le aveva detto che non l’amava più ma avrebbe saputo riconoscere ad occhi chiusi quel suo modo di stringerla mentre ballavano.

Si erano conosciuti ad una festa e lui le aveva fatto capire cosa provava proprio dal modo in cui la teneva tra le braccia e la guidava. Ora quella sensazione si ripeteva, identica e con intensità accresciuta da anni di lontananza e nostalgia.

Entrambi subirono un deja-vue che li riportò indietro a quella sera in cui Terence fu concepito: erano irresistibilmente attratti uno dall’altra, si erano giurati di non passare il limite prima del matrimonio ma qualcosa era scattato quella sera e non erano stati in grado di trattenersi. Eleanor si era sentita amata ed adorata e così era stato anche dopo quella notte, quando Terence cresceva in lei, inconsapevole.

Il sogno aveva iniziato ad incrinarsi, insieme alla fiducia che lei riponeva in lui, qualche mese dopo la nascita di Terence, quando Richard aveva iniziato a rimandare sempre più la data del matrimonio con scuse puerili o stupide.

Lei aveva cercato di tenere insieme i frammenti del proprio cuore spezzato ma ogni volta lui assestava un nuovo colpo.

Quando alla fine non aveva avuto nemmeno più rispetto per lei, trattandola come una sgualdrina, se ne era andata per sempre.

Il tempo aveva curato molte di quelle ferite e le era rimasta una nostalgia profonda per l’uomo che aveva amato in quella notte di aprile di tanti anni prima e che ora traspariva di nuovo nel Richard che aveva davanti.

Gli scontri verbali che avevano avuto negli ultimi mesi li aveva costretti ad un confronto serrato con i propri demoni e le proprie paure ma anche con i propri desideri.

Ed Eleanor aveva talvolta desiderato che Richard gettasse una volta per tutte la maschera, la stringesse e la baciasse, invece di parlare tanto.

Dopo di che si dava regolarmente della stupida: E’ sposato, ti ha detto ormai più di quattordici anni fa che non gli interessi più e sei troppo vecchia per queste romanticherie. Anche se, guardandolo ora, mentre ballava con lei come se fosse in trance, aveva il sospetto che lui pensasse la stessa cosa.

“Usciamo a prendere un po’ d’aria?” Ma sei stupida? Che ti viene in mente?

Lui non rispose ma le passò un braccio intorno alla vita e la condusse fuori, sull’ampia terrazza, in quel momento deserta. Scesero i pochi gradini che li separavano dal giardino e si avviarono lungo il vialetto.

Ad un certo punto accadde.

Richard si fermò di colpo e usando il braccio che le circondava la vita la costrinse a girarsi ed appoggiarsi a se con una certa irruenza, infilò le dita tra i capelli della nuca e la baciò di slancio, la bocca di lei, aperta per la sorpresa, non fece resistenza.

Eleanor, che non aveva desiderato altro da quando avevano iniziato a ballare rispose senza esitazione, facendo scorrere le mani sul suo petto e sulle spalle.

La luna scintillava, piccola falce fra i rami degli alberi sopra di loro.

 

Due donne si erano fermate davanti a Marian, dandole le spalle, non si erano accorte della sua presenza, lei era affacciata alla finestra, seminascosta dalle pesanti tende di broccato. Era appena rientrata da giardino, voleva calmarsi prima di cercare di attraversare il salone con disinvoltura.

“Non capisco davvero come mai abbia scelto quella ragazza…”

“Ma tu sai chi sia?”

“No, nessuno lo sa, nessuno l’ha mia nemmeno vista prima…pare che solo Candice e i Cornwell la conoscano…”

“Ma la sua famiglia?”

“Nulla! Non si sa nulla di lei, ti dico!”

“Certo è strano, la Marlow sarà livida di rabbia…”

“Non hai visto come la guardava?”, rispose con un risolino e muovendo il ventaglio.

A quel nome Marian aveva iniziato ad ascoltare con più attenzione.

“Sì, sì, certo che lei e William sembravano essere molto intimi…si dice ad un passo dal fidanzamento…”, la malizia nella voce.

“Davvero?!?”

“Ma non li hai visti nei giorni scorsi? William è arrivato con lei e non è passato giorno in cui non fossero insieme…”

“E quella ragazza? Quando è arrivata, ieri non c’era…A proposito, come si chiama? Lo sai?”

“Mi hanno detto Marian…”, fece una pausa come a cercare di afferrare una parola, “Marian…Bailey! E’ arrivata stasera, Terence Grandchester in persona è andato a prenderla alla stazione.”

“Davvero?!? E come mai non William?”

“Ma se era con la Marlow fino ad un’ora prima del ricevimento! In giardino. Li ho visti con i miei occhi, passeggiavano a braccetto…”

“Tu dici che la prozia ha qualcosa a che fare con questa storia?”

“Non saprei…Sai bene che William è uno che fa di testa propria, hai visto la faccia che aveva la prozia quando l’ha invitata a ballare dopo di lei…Oh! Ma guarda lì…”, disse indicando con il ventaglio Eleanor che ballava con il Duca; le due donne avevano trovato un nuovo argomento di conversazione e poco dopo si erano spostate, lasciandole via libera per raggiungere la sua stanza, ormai in lacrime e con il cuore ridotto in briciole.

 

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Capitolo 49
*** Non ti credo ***


Candy vide rientrare Albert con un’espressione cupa sul viso.

“Hai visto Marian?”

“No, pensavo fosse con te in giardino”, gli rispose con aria maliziosa che subito scomparve nel vedere gli occhi scuri dell’amico, “Albert che c’è?”

“Terence aveva ragione”

“?”

“A proposito di Susanna…”

“Oh, Albert!”, Candy gli posò una mano sul braccio con affetto.

Lui sospirò, non riusciva ancora a crederci.

“E Marian, da quanto la cerchi?”

“Parecchio, ho guardato ovunque…”

“Anche incamera sua? Magari non si sentiva bene…”

”Veramente no…”

“Andiamo”

Salirono ai piani superiori, Candy andò verso la camera della ragazza, Albert si diresse verso lo studio.

Aprì la porta, la stanza era buia, andò verso la scrivania ed accese la lampada su di essa. Notò l’astuccio di velluto rosso accanto al calamaio Strano, non ricordavo di averlo lasciato in vista.

Lo sollevò e si accorse che non era vuoto, lo aprì, con un tuffo al cuore si accorse che i gioielli erano tutti lì.

In quel momento entrò Candy.

“Albert…”

“…Marian se ne è andata, vero?”

Lei spalancò gli occhi: “Come fai a…?”

“I gioielli sono tutti qui…”

“Cos’è successo?”

Albert non rispose subito, ripensando all’accaduto.

“Deve aver avuto una discussione con Susanna, è andata via senza che potessi seguirla, Susanna mi ha fermato…”

“E…”

“Ho dovuto parlare a lungo con Susanna…”

“Beh, se anche vi avesse visto parlare…”

“Il fatto è che, ad un certo punto, mi sono trovato con Susanna tra le braccia…”, abbassò lo sguardo sull’astuccio che stava aprendo e chiudendo nervosamente.

“Oh, Albert, ma come…?”

“E’ scivolata sul gradino…poi non smetteva di piangere, non sapevo più che fare…”

“E dici che Marian?”

“Non c’è altra spiegazione”

“Vedrai che capirà…”

“Speriamo..”

“Intanto dobbiamo trovarla, non sarà lontana, dove vuoi che sia potuta andare?”

“Ricordati che è stata capace di arrivare fin qui da sola quest’inverno…”

“Sì, ma ora è buio, se nessuno l’ha accompagnata non sarà andata lontano…”

Albert continuava a fissare l’astuccio.

“Prendo un cavallo e vado verso il paese…”

“Vengo con te.”

“No, tu resta qui e trova una scusa per la zia se mi dovesse cercare.”

Albert posò con rabbia l’astuccio sulla scrivania, poi lo prese di nuovo, aprendolo e guardando i gioielli, lo chiuse e lo rimise nel cassetto.

“Ho combinato un disastro, avrei dovuto chiederle subito di…”

“Sei ancora qui?”, lo rimproverò Candy, “Forza, vai!”

Albert la guardò per un attimo poi uscì deciso dallo studio e, senza nemmeno cambiarsi d’abito, si diresse alle scuderie.

 

Entrò; i cavalli sembravano piuttosto nervosi, si sentiva il movimento degli zoccoli attutito dallo strame e lo sbuffare sommesso degli animali. Alzò la fiammella dalla lampada a petrolio che veniva lasciata al minimo, appesa accanto alla porta. Mentre faceva questo vide, con la coda dell’occhio, un movimento sul soppalco del fieno, sopra gli ultimi stalli.  Con una mano sganciò la lampada, con l’altra prese cautamente un forcone ed iniziò a salire sulla ripida scaletta che portava di sopra, cercando di cogliere possibili movimenti nell’oscurità.

Il forcone gli sfuggì di mano quando vide Marian seduta su una balla di fieno, con un paio di briglie in mano e la valigia accanto a se, aveva il viso rigato dalle lacrime.

“Marian! Non sai quanto ti ho cercato! Cosa fai qui?”

Lei non rispose, distogliendo lo sguardo.

Albert appese il lume ad un gancio e si accucciò di fronte a lei.

“Perché te ne sei andata?”, lo sapeva perché o almeno credeva di saperlo ma non era riuscito a trattenersi dal fare la domanda, “E’ più di un’ora che ti cerco, mi hai fatto preoccupare.”

“Potevi anche farne a meno…”, parlava guardando le briglie che aveva in mano, la voce atona.

Lui cercò di prenderle le mani ma lei, con un movimento brusco, lo respinse.

“Torna con me alla festa, cosa fai qui?”, le disse con dolcezza, cercando di leggere ciò che stava pensando la ragazza ma gli occhi di lei erano imperscrutabili.

“E farmi parlare alle spalle da tutti, come è successo per tutta la sera?”, Albert sentì come se gli avessero dato un colpo secco alla bocca dello stomaco, “Preferisco restare qui e andarmene non appena farà giorno, a piedi.”

“Ma…”

“Credi che non sappia di te e Susanna? Lo sanno tutti…”, lo sguardo era diventato improvvisamente scintillante ma si era spento subito, come la voce, “Come ho potuto pensare che dopo tanto tempo mi volessi ancora bene davvero? Due mondi diversi, apparteniamo a due mondi diversi ed io qui sono un pesce fuor d’acqua. Susanna è la persona giusta, fa parte del tuo ambiente, non una come me, che prima di stasera non aveva mai partecipato ad una festa…”

“Marian”, cercò di interromperla lui, il respiro sempre più difficile.
”…che non sa come ci si comporta in questo ambiente che è rimasta tutta la sera in un angolo a guardare tutto e tutti perché non aveva mai visto niente di simile! Io sono stata un giocattolo nelle tue mani…Come ho potuto illudermi…”

“Marian ascolta non ti ho mai preso in giro, non sei un giocattolo…”

“Lasciami in pace!”, gridò lei con voce incrinata.

“Marian, ti supplico, ascoltami”, cercò nuovamente di prenderle le mani.

“No!”, gridò lei secca, “Vattene! Che t’importa di me, va via!”, le lacrime brillavano nell’incerta luce della lampada.

“Susanna non è nulla, è solo un’amica…stasera quando ti ho visto nel mio studio mi sei sembrata un sogno, non ho fatto altro che pensare a te in queste settimane, ho aspettato con ansia l’arrivo di una lettera e invece sei arrivata tu…non mi sembrava vero…”

“Certo che non hai dimostrato molto entusiasmo, sembravi molto più felice di vedere quella ragazza che me!”, lo interruppe con rabbia. Stava torcendo le briglie che aveva in mano.

“Io sono solo rimasto senza parole, avevo così tante cose da dirti ma…eri così bella…e poi quel vestito l’avevo fatto fare apposta per te, Candy mi ha giocato un bello scherzo, era per un’occasione speciale, per quando saresti tornata da me…”

Marian lo guardava parlare, tremava di rabbia, sconforto, disillusione.

Era tornata in dietro quasi subito per chiarire quella situazione ma si era fermata nella penombra per osservare cosa accadeva tra i due. Vedere Albert e Susanna abbracciati, lui chino su di lei così abbandonata, le aveva fatto venire una nausea indicibile e di colpo si era sentita completamente nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era corsa via.

Era poi andata nello studio, a rimettere a posto quei gioielli che lei aveva timore anche solo a toccare ma che Albert le aveva dato da indossare come se fosse la cosa più naturale del mondo, gioielli che sembravano essere al centro dello scalpore generale senza che lei riuscisse a capirne il motivo.

Era andata in camera, si era tolta il vestito lasciandolo sul letto, aveva fatto velocemente la valigia e si era diretta alle scuderie: voleva raggiungere la stazione il prima possibile ma quando aveva aperto il box di uno dei cavalli si era resa conto che non poteva andare via a quell’ora, con un cavallo che non avrebbe saputo dove lasciare, su una strada buia e poco conosciuta, col rischio di azzoppare l’animale e farsi male.

Si era seduta sconsolata su uno sgabello nel corridoio, poi era salita sul soppalco: avrebbe passato la notte lì e sarebbe andata via alle prime luci dell’alba.

Con terrore si era resa conto che qualcuno era entrato nella stalla e con rabbia mista a sorpresa aveva riconosciuto Albert.

Era convinta che lui non l’avrebbe cercata, che non si sarebbe nemmeno reso conto della sua assenza, troppo impegnato in faccende più piacevoli della propria compagnia.

E invece eccolo lì, davanti a lei: sembrava sincero ma l’immagine di lui e Susanna abbracciati nella penombra e i commenti che aveva udito involontariamente durante la festa la perseguitavano.

“Bell’occasione speciale! Essere lo zimbello della festa! Complimenti William Andrew, bel gentiluomo sei!”

“Non mi chiamare William”, la supplicò lui, “Non l’hai mai fatto!”

“Ma questo sei! Non è rimasto niente dell’Albert che conoscevo!”

Lui gemette ma lei proseguì sempre più arrabbiata: “Si può sapere perché hai fatto ballare me dopo la zia, eh? Perché lei non può?”

Albert sgranò gli occhi: “No, non è per questo, Marian ti prego calmati ora e lascia che ti spieghi. E’ tutto solo un insieme di equivoci.”

Lei si era alzata in piedi e aveva sbattuto a terra le briglie che ancora teneva in mano, alcuni cavalli nitrirono nervosi.

“Va via, torna alla festa! E lasciami in pace…”, gridò.

“Per favore, smettila…”

“Tutti dicono che stati per fidanzarti con Susanna! Chi pensi di prendere in giro! Come ti permetti di trattarmi in questo modo!”

“Mi vuoi ascoltare!?”, Albert aveva infine alzato la voce, Marian lo fissava tremando: lui poteva vedere, anche nella poca luce della lampada, lo sforzo che lei stava facendo per reggersi in piedi.

“Avrei dovuto farlo subito, non appena ti ho visto, ma mi è mancato il coraggio, volevo passassi una serata indimenticabile con me e poi…poi ti avrei chiesto di sposarmi…”
”Beh meno male allora che certe cose le ho scoperte in tempo, almeno so con chi ho a che fare e so cosa risponderti!”, ribattè acida ma aveva sentito lo stomaco torcersi alle parole di lui.

Chiedermi di sposarlo? Non ho desiderato altro da quando ho avuto la certezza di averti ritrovato! Ma sei così diverso da come ti ricordavo! Il mio Albert non mi avrebbe mai chiesto di sposarlo dopo aver tenuto tra le braccia un’altra donna in quel modo!

“Dimentica quello che hai visto o sentito e credi a quello che ti dico, che…ti amo”,  ormai faceva fatica anche lui a stare in piedi, chinò il capo, “e che vorrei che fossi mia moglie”, l’aria non entrava nei polmoni, si sentiva sull’orlo di un baratro.

E cadde giù.

“No!”

“Come no?”

“No, non ci senti?”, quanto faceva male dire no, “Io non voglio sposarti  William Andrew!”

“Non mi chiamare William!”

“Non abbiamo più nulla da dirci!”, il tremore diventava sempre più forte, non sapeva quanto ancora sarebbe riuscita a resistere prima di crollare, sperava che se ne andasse il prima possibile, non voleva dargli la soddisfazione di piangere davanti a lui.

“Non dirai sul serio?”, Albert cominciava a provare una sensazione di panico.

“Sì”

“Calmati, vieni con me a casa, ne riparliamo domattina”

“Non c’è più niente di cui parlare”, rispose lei con amarezza.

“Non vorrai restare qui?”

“Sì”, lo sguardo era determinato.

Albert la osservò a lungo, infine chinò il capo, sconfitto.

“Stai facendo un errore… Tra Susanna e me c’è solo amicizia da parte mia, non sono il tipo d’uomo che pensi…”

“Mi hai ferito, non sai quanto…”

Albert la guardò con tristezza. Marian sentì il cuore fermarsi quando vide gli occhi di lui lucidi nella penombra. Albert sollevò una mano, come se volesse accarezzarla ma non finì il movimento, lasciando cadere la mano.

“Almeno rientra in casa e dormi in camera tua, potrai andare via quando vorrai, non ti tratterrò.”

“Non ti preoccupare nessuno saprà che ho dormito qui, non farai brutta figura!”

“Marian”, gemette lui, la bocca dello stomaco stretta in una morsa ancora più dolorosa.

Lei non rispose altro, si voltò a guardare i cavalli sottostanti, con quel gesto lo stava congedando.

Albert scese lentamente la scala ed uscì.

Quando la porta si chiuse Marian soffocò i singhiozzi tra le mani.

 

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Capitolo 50
*** Perdonami ***


L’angolo dell’autrice

L’angolo dell’autrice

In effetti sono soddisfatta del numero di recensioni, ci si sente un po’ centenari  ;-)

Siamo in dirittura d’arrivo, questo capitolo, il prossimo e poi un po’ di attesa per i tre epiloghi, già scritti ma non passati al pc…

 

 

 

Il tragitto dalle scuderie alla villa non gli era mai sembrato così lungo. Si fermò più volte togliendo rabbiosamente le lacrime dalle ciglia: non sapeva se maledire se stesso, la sfortuna o entrambi. Si augurò di non incontrare ancora Susanna, non sapeva se sarebbe riuscito a comportarsi da gentiluomo o se avrebbe, invece, inveito contro di lei.

Doveva rientrare ma gli sembrava di fare un passo avanti ed due indietro, i pensieri ancora sul fieno insieme a lei.

 

Si sedette infine sul bordo della fontana, in quel momento chiusa. Non si rendeva conto dello scorrere del tempo. La luna stava tramontando quando sentì una mano sulla spalla, si voltò, era Terence.

“Se sei qui vuol dire che non l’hai trovata!”

“Ti sbagli…”

“E allora?”

“Non crede a quello che le dico.”

“Ti avevo avvertito.”

“Non ti ci mettere anche tu, adesso!”

Terence osservò l’amico, era seduto con la testa tra le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia.

“Dov’è ora?”

“Nelle scuderie, non è voluta rientrare in casa, dice che andrà via alle prime luci dell’alba…Non voglio perderla così, Terence”, mormorò, “per qualcosa che non è mai successo!”

“Vado a parlarle”, disse Terence voltandosi.

“Lascia stare, non ti starà a sentire, non sai quanto sa essere caparbia, non servirebbe a nulla”

“Beh, ricordati che ho una certa esperienza con Candy…”

“Candy in confronto è una persona ragionevole!”

Terence fece un fischio: “Certo che te la sei scelta bene, eh?”

Albert fece una smorfia.

“Devi rientrare, la zia ti sta cercando da un’ora e Candy non sa più cosa raccontarle…Vado a parlare io con Marian, o almeno ci provo. Tu torna alla festa.”

Qualcuno aveva udito la conversazione tra i due uomini, qualcuno che all’arrivo di Terence si era ritirato nell’ombra per non farsi vedere.

 

“William! Si può sapere dove sei stato? Ti sembra il modo di comportarti? Non mi sembra di averti insegnato questo!”, la signora Elroy era fuori di sé ma cercò di mantenere basso il livello della voce.

Si stupì del fatto che il nipote non replicasse come era suo solito fare, si era limitato a fissarla con un’espressione che le fece venire in mente un cane bastonato.

“Cosa è accaduto, mio caro?”, si addolcì per un attimo salvo poi ricordarsi subito il motivo per cui era incollerita.

“Ho visto che hai fatto la tua scelta, mi spiace solo che tu non mi abbia detto nulla prima…”

“Pensava di mettere il veto?”, rispose Albert serrando la mascella.

“No, caro, so bene che con te è inutile, avrei solo desiderato saperlo prima e sapere con quale famiglia andiamo ad imparentarci…spero che sia un partito migliore di quell’attrice con cui ti sei fatto vedere in pubblico un po’ troppo spesso di recente…”

Lui non rispose limitandosi a scuotere la testa: sarebbero stati giorni difficili quelli successivi, quando la zia sarebbe venuta a sapere tutti quei particolari che lui non poteva tacere, dalle origini di lei al rifiuto di sposarlo.

“Bene, è ora dell’annuncio e del brindisi… William…”

Albert si scosse: “Cosa?”

“Siamo nel bel mezzo di una festa, quale occasione miglior di annunciare il tuo fidanzamento?”

“Zia, non ci sarà alcun brindisi per ora…”

“E per quale motivo?”, Elroy corrugò le sopracciglia, il comportamento del nipote, in quel momento, era quanto mai anomalo.

Candy aveva visto rientrare Terry che le aveva raccontato brevemente di Albert e Marian e le aveva detto di non aver trovato traccia della ragazza nelle scuderie, poi si erano avvicinati alla zia e all’amico ascoltando in silenzio la conversazione tra i due.

 “Perché Marian non c’è, è andata via…”, le rispose senza guardarla negli occhi; quelli erano i minuti più duri di tutta la sua vita, nemmeno quando aveva capito che Candy non l’avrebbe mai ricambiato era stato così male.

“Cosa significa andata via?”, Elroy non riusciva a capire.

“Vuol dire che Marian non si sentiva molto bene e si scusa per l’assenza.”, la voce di Susanna aveva pronunciato quelle parole accanto a lui.

“Co…”

Lei sorrideva anche se era pallida.

“E’ andata in camera sua a rinfrescarsi, tornerà tra poco.”

“Susanna”, Albert la guardava con gli occhi sbarrati, aveva capito il senso della frase ma con la mente vedeva ancora la ragazza seduta sulla paglia e con le briglie in mano.

Lei sorrise debolmente: “Scusate”, si voltò e praticamente scappò via.

Albert stava guardando ora Susanna andare via con un’aria confusa sul viso e accennò a seguirla. Candy lo trattene per la giacca badando di non farsi vedere da nessuno.

“Albert caro, raggiungi Marian”, gli disse a voce alta, “Penso io a Susanna”, gli sussurrò. Ci fu uno scambio di sguardi.

Cosa significa questo?

Ha parlato con Marian.

E dici che?

Vuoi muoverti?!

 

Finalmente Eleanor riuscì a riprendere fiato.

Si guardarono a lungo, la mano di lui le stava accarezzando il viso mentre gli occhi seguivano ogni dettaglio, spostandosi insieme alle sue dita dalle labbra alle guance, agli occhi, alla fronte.

“Mi sei mancata”, mormorò facendola sussultare.

Non seppe cosa rispondere, troppi pensieri tutti insieme e lo stordimento di sentire di nuovo le sue braccia intorno a se dopo tanto tempo e tanto dolore.

Nel corso degli anni aveva avuto altre relazioni ma era come se mancasse sempre qualcosa, si era ripetuta più volte che il problema era in lei, che non riusciva a trovare pace , che non si era rassegnata alla perdita di Terence ed il resto non contava, non era importante, inutile inseguire una felicità parziale.

Richard era troppo potente e troppo influente per poter sperare di ottenere qualcosa in uno scontro diretto: il rapimento di Trence non sarebbe mai stato riconosciuto e comunque il figlio avrebbe pagato le conseguenze di qualunque cosa lei avesse provato a fare per riaverlo.

Malgrado fosse il figlio di una relazione extraconiugale il Duca aveva fatto tanto che era riuscito a far riconoscere a Terence il pieno diritto al titolo e all’eredità, con grande irritazione del padre e della moglie che vedeva negato così quel diritto al proprio primogenito; la cosa aveva alimentato l’odio contro quel bambino che le era stato imposto a meno di un anno dal matrimonio da un Richard che non aveva voluto sentire ragioni da nessuno.

Nonna Elizabeth era morta soddisfatta e aveva predetto che, prima o poi, il figlio sarebbe tornato sui propri passi. Lei non aveva dato peso alla profezia, allo stesso tempo troppo carica di speranze e dolore e aveva dovuto accettare, suo malgrado, che Richard si tenesse il bambino, forse lo avrebbe amato come meritava.

Nel corso degli anni lui le aveva fatto scrivere dall’avvocato brevi lettere per informarla dei progressi di Terence ma aveva taciuto al figlio le proprie origini e a lei la solitudine in cui si trovava il bambino.

L’intelligenze di Terence era viva e pronta e la bellezza che aveva ereditato dalla madre sempre più evidente man mano che cresceva e contrastava con il fratellastro, completamente diverso da lui, lento, poco interessato ai libri e decisamente meno avvenente.

L’infanzia era stata solitaria e vuota d’amore, la matrigna lo teneva a distanza, suo padre ben presto non riuscì più a guardarlo inviso, somigliava sempre più ad Eleanor, sia fisicamente che caratterialmente e stava sviluppando gli stessi interessi.

Richard gli aveva regalato Theodora sperando che il cavallo servisse a distrarlo dai libri e dal teatro in particolare: c’erano state violente liti tra loro, Terence non non riusciva a capire il perché dei continui divieti paterni su certi argomenti. Durante una di quelle liti la duchessa gli aveva gridato in faccia di essere un bastardo, di avere una madre snaturata che l’aveva abbandonato al suo destino.

Lui era partito per l’America deciso a vederla. Eleanor era rimasta così spiazzata nel trovarsi il figlio davanti che aveva reagito nel modo più sbagliato, ripetendo quelle parole  che tante volte aveva udito da Richard nessuno deve sapere che sei mio figlio ma aveva avuto la possibilità di riabbracciarlo di nuovo dopo tredici anni, aveva visto finalmente uno spiraglio in quel muro che Richard aveva eretto tra loro.

Dopo la riconciliazione con Terence però, l’inquietudine era rimasta, nel suo breve soggiorno in Scozia non aveva incontrato Richard e si era meravigliata del proprio disappunto.

Quando se l’era trovato davanti senza preavviso alcuno era stata ad un passo dallo svenire.

Le era passato accanto come se lei non ci fosse e allo stesso tempo come se fosse troppo consapevole della sua presenza su quella scala.

Dopo il bacio che si erano appena scambiati Eleanor aveva rimesso insieme tutti i pezzi di quel rompicapo chiamato Richard ed era indecisa  se mettersi a piangere o piazzargli uno schiaffo in pieno viso.

Finì per fare la prima cosa: si voltò per dargli le spalle e fece qualche passo per allontanarsi da lui e riprendere il controllo dei nervi.

Lui la abbracciò da dietro.

“Elly...”

Non l’aveva più chiamata così dalla nascita di Terence.

Era sconvolta: allo stesso tempo felice e triste, arrabbiata e bisognosa di sentirsi amata, desiderava vendicarsi di tutti quegli anni di sofferenza ma, al contempo, si sentiva annientata nella volontà dalla percezione del calore del corpo di lui e del suo naso che ora le solleticava la pelle sottile e delicata della nuca.

“So che non ne ho il diritto”, mormorò, “ma ti amo ancora, Eleanor”.

Lo stomaco si contrasse violentemente, impotenza ed amarezza la sommersero, non poté far altro che lasciarsi cadere lentamente verso terra scossa dai singhiozzi.

“Mi hai rovinato la vita, cosa vuoi ancora?”

Lui la trattenne, impedendole di finire sulla ghiaia, poi la prese fra le braccia e la fece sedere poco lontano, sotto il pergolato di glicine.

Mentre lei cercava di soffocare i singhiozzi lui le si inginocchiò davanti, scostandole le mani e prendendole il viso con le proprie.

La sentiva distintamente tremare.

“Mio figlio mi ha insegnato  che non bisogna mai arrendersi, che per donne come Candy e come te bisogna lottare con tutte le proprie forze, che nessuno ci può dire cosa è meglio per noi, cosa ci renderà felici...Non so come ho potuto pensare che Terence sarebbe stato felice comunque, con noi in guerra, con me che non riuscivo a guardarlo perché tu mi guardavi con i suoi occhi...”

Lei sollevò una mano e gliele passò sul viso.

“Richard ma tu...”, le dita erano umide per le lacrime.

“Non sai quante volte mi è successo da quando te ne sei andata”

“Perché non sei tornato finché eri in tempo?”

“Perché sono un vigliacco”, ammise, “ed uno stupido...”

Silenzio.

“Pensavo mi odiassi...”

“Hai ragione, ti odio per quello che ci hai fatto ma...”

“...ma?”

“Non sono mai riuscita a dimenticarti del tutto”

“E’ per questo che non ti sei mai sposata?”

“Già”, sospirò abbassando gli occhi e guardando le proprie mani tormentare la gonna.

“Tregua, che ne dici? Tregua tra noi, non ti chiedo di perdonarmi ma basta con questa ostilità, non ne posso più...”

Lei lo guardò con tristezza, “Te l’ho proposta prima io, non ricordi?”

“Non ne faccio una giusta, eh?”

“No, milord”, disse con un mezzo sorriso.

“Quando mi chiamavi così voleva dire che ti stava passando l’arrabbiatura, è ancora così?”

Lei annuì e lui le accarezzò ancora il viso, lo sguardo fisso sul dito che segnava il profilo delle labbra.

“Non sai per quanto tempo ho desiderato poter di nuovo fare questo...”

“Lo facevi sempre...”

“Mi piace la tua bocca”, un sorriso amaro sulla propria e, senza lasciarle il tempo di rispondere poggiò un bacio leggero sulle sue labbra, uno sfiorarsi lieve, appena accennato.

Eleanor chiuse gli occhi mentre i brividi le scendevano lungo la schiena.

Richard si alzò in piedi, invitandola a fare lo stesso. La musica arrivava a tratti, lontana, come in sogno. La abbracciò lentamente, dondolando piano a tempo di musica mentre lei si abbandonava con la fronte poggiata sulla sua clavicola e lui infilava nuovamente le dita tra i capelli della nuca.

 

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Capitolo 51
*** Ogni cosa al suo posto ***


Albert bussò alla porta, era agitato

Albert bussò alla porta, era agitato. Non ci fu risposta.

Bussò di nuovo con lo stesso risultato. Si decise ad aprire, la stanza era vuota, solo la lampada sulla toeletta era accesa, la porta che dava sul balcone aperta, si sentiva la musica attenuata salire dal salone sottostante.

Avanzò fino alla portafinestra e si appoggiò allo stipite, lei aveva le mani sulla balaustra e guardava verso il giardino, non si era accorta della sua presenza.

Marian si sentì abbracciare e riconobbe Albert, che mise la fronte nell’incavo del collo senza dire una parola.

Passò le dita tra i capelli morbidi e giocherellò con una ciocca fin quando lui non sollevò di nuovo la testa per baciarle il collo e poi farla girare verso di se.

“Hai deciso di restare,  mi hai dunque creduto.”

“Susanna mi ha raccontato tutto.”

“Hai avuto bisogno delle spiegazioni di Susanna”, le rispose con amarezza.

Lei non rispose subito: “Sono gelosa come non lo sono mai stata di nessuno, mi spiace.”

“Sei ancora arrabbiata con me?”

Lei scosse la testa; si guardarono negli occhi.

“Sei sempre della stessa idea?”

“?”

“Di dirmi di no?”

“Dicevi sul serio allora?”

“Non te lo avrei chiesto.”

Gli occhi di Albert erano scuri e profondi ed erano vicini, troppo vicini, come le sue labbra. Sentì un bacio sulla fronte, uno sulla tempia ed uno vicinissimo alla bocca, quasi che lui avesse cambiato idea all’ultimo istante.

“Ti amo, Albert”

Lui chiuse gli occhi per una frazione di secondo e sorrise: fu sorpreso dal bacio di lei, lieve ed incerto.

Le prese il viso tra le mani: “Anche io ti amo” e le diede un bacio a sua volta.

Poi infilò una mano nella tasca della giacca e tirò fuori l’astuccio rosso, “Hai dimenticato questi”

“Perché insisti nel volere che io li porti? Appartengono alla tua famiglia…perché nessuno ha trovato strano che li portassi io?”
”Nessuna donna faceva parte della famiglia la prima volta che li ha indossati.”

Marian aggrottò la fronte, non capiva.

“Ti diverti a farmi gli indovinelli?”

“Più o meno…”

“Perché non li ha messi Candy?”

“Perché non le spettano. Prima di te li ha portati mia madre, prima la moglie di mio nonno, prima ancora la moglie del mio bisnonno”

“Beh allora appartenevano alla tua famiglia…mi guardavano tutti, mi sono sentita piuttosto imbarazzata, lo sai che non mi piace sentirmi osservata così…”

Albert sorrise, continuava a non capire, le diede un bacio sulla fronte: “Mia moglie non deve sentirsi in imbarazzo a portare i gioielli che le spettano.”

Marian portò le mani a coprire la bocca spalancata per lo stupore, poi lo spinse via bruscamente.

“Ehi ma?!”

“Sei un disgraziato! Tutti sapevano il significato del tuo gesto! Tutti tranne me! Ora capisco!”

Albert era di nuovo stato colto in fallo, non avrebbe scordato tanto facilmente quella festa.

“Scusami”, riuscì soltanto a dire.

Marian stava rimettendo mentalmente insieme i pezzi di quella serata confusa, dalla faccia della zia quando l’aveva vista alzarsi su invito di Albert, agli invitati che avevano lasciato loro l’intero salone perché potessero ballare da soli, alle signore che si erano presentate a lei per salutarla, alle parole delle due donne che aveva udito da dietro i tendaggi.

”Solo Susanna non sapeva, vero? Come me…”

“Non era necessario che lei sapesse, invece ho sbagliato a non chiedertelo subito…”

Lei lo guardava con le braccia conserte, lui gliele sciolse e le prese le mani.

“Non mi hai ancora risposto”

“Chi sposerò se dico di sì? William o Albert?”

“Entrambi temo…non posso venire meno ai miei doveri, troppe persone e troppe cose dipendono da me ma ti prometto che Albert cercherà di essere il più possibile presente…”

Marian sorrise, “William posso anche sopportarlo qualche volta…”

“Si farà vedere il meno possibile.”

“Sono troppe quelle che ti ronzano intorno!”

“Non ne ho colpa…”

“Lo so, ma sono gelosa lo stesso.”

“Non devi, ci sei solo tu per me…”

 

***

 

“Si può sapere dov’è finita?”

Terence andava avanti e indietro nervosamente, aveva cercato sua madre in lungo e in largo e non l’aveva trovata; quello che lo stava rendendo furioso era il fatto che all’appello mancasse anche il padre.

“Se le ha fatto qualcosa dovrà vedersela con me!”

“Non credi siano abbastanza grandi da cavarsela da soli?”

“È colpa tua, non lo dovevi invitare!”

“Sai come la penso!”

“Anche tu…”

Candy scosse la testa: quando Terence faceva così era tutto inutile.

“Comunque anche io vorrei sapere dove sono i tuoi genitori.”

“E perché?”

“Volevo far vedere Lizzie a tuo padre…”

“Non ci provare! Non si deve nemmeno avvicinare!”

Candy gli rivolse uno sguardo tutt’altro che rappacificante.

“Non sai dire altro?”

“E’ inutile che mi guardi così! Credi forse di spaventarmi?”

“Che tu lo voglia o no, Elizabeth conoscerà suo nonno!”

Terence rispose con uno sguardo torvo, poi si girò di scatto, aveva visto i suoi genitori rientrare ed avevano un’aria strana.

Si diressero verso di loro.

Terence notò subito gli occhi rossi della madre ma non gli sfuggì nemmeno lo sguardo adorante che le rivolgeva il padre: sgranò gli occhi. Che abbiano fatto pace?; la parte più rabbiosa di sé si chiese che cosa volesse ancora dalle loro vite dopo averle quasi completamente distrutte.

Incrociò le braccia: con Candy era inutile discutere; decise di osservare gli eventi stringendo i denti.

 

Entrarono nella camera della bambina che già stava protestando per la fame. Candy la prese dalle braccia della balia, la mostrò un attimo ai nonni e poi si diresse nella stanza adiacente per allattarla lasciando così, di fatto, Terence e suo padre uno di fronte all’altro.

Eleanor la seguì e le fece cenno di non preoccuparsi.

“Non ci sono armi di là, vero?”, le chiese facendole l’occhiolino.

Candy sorrise: “No.”

 

Il Duca si sedette appoggiandosi allo schienale ed osservando il figlio che gli aveva dato le spalle a bella posta.

“Sai, credo che ci abbiano lasciati soli per costringerci a parlare”, gli disse.

Terence non rispose, era talmente infastidito che non vedeva l’ora di andarsene da quella stanza.

“Ti debbo delle scuse, molte più di quante ne vorrei ammettere”, riprese Richard.

Terence, ancora, non rispose.

“Hai ragione a non volermi parlare…non sei obbligato a farlo, ti chiedo solo di ascoltarmi per una volta poi, se vorrai, non mi farò vedere mai più.”

Terence di nuovo non aprì bocca ma si girò, con le braccia conserte, e restò in piedi di fronte al padre in atteggiamento ostile.

Il Duca inspirò profondamente: era un momento difficile, doveva scegliere accuratamente le parole per non urtare ulteriormente il figlio; era seriamente intenzionato a recuperare quel rapporto e sapeva bene che non sarebbe stato facile cancellare anni di incomprensioni.

“Mi rendo conto di aver sbagliato molto nei tuoi confronti, soprattutto negli ultimi tempi, soprattutto con Candy. Ero accecato dai pregiudizi. Ho vissuto molti anni convinto che la scelta che avevo fatto fosse giusta, convinto che fosse meglio sposare una nobile invece di Eleanor. Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto ma non riuscivo più a guardarti, sei troppo simile a tua madre, vederti non faceva che ricordarmi gli errori fatti. Ho creduto che allevandoti con severità avrei fatto il tuo bene, che tenendoti a distanza ti avrei insegnato a cavartela meglio nella vita, non ho capito niente! Ho sbagliato tutto…”. Aveva parlato lentamente scrutando la reazione del figlio.

 

Terence stava tremando: le parole del padre avevano fatto riaffiorare le tante troppe volte in cui ne aveva cercato l’affetto e aveva trovato solo freddezza e distacco.

“Mi hai fatto crescere solo come un cane! Per anni ho creduto che mi a madre mi odiasse per un motivo che non riuscivo a capire! Mi sono sentito sbagliato! Mi sentivo sempre quello diverso! Quella non era mia madre, perché me lo hai fatto credere!?! Ti odio per quello che mi hai fatto! Tutto questo, tutto quello che ho sofferto non sarebbe mai accaduto se tu avessi deciso di aiutarmi a Londra!”, aveva alzato sempre più la voce fino quasi a gridare.

Richard chinò il capo, “Hai ragione, l’ho capito solo ora. Tu e tua madre mi avete aperto gli occhi, Candy mi ha aperto gli occhi: ora so cosa avrei dovuto fare…non posso tornare indietro ma vorrei rimediare in qualche modo…”

 

Si guardarono in silenzio, occhi neri negli occhi blu.

“Perdonami se puoi un giorno…”

“Voglio che tu te ne vada e non torni mai più, non ti avvicinare mai più a me e alla mia famiglia!”

“Ora basta, Terence!”, intimò Candy.

“E stai lontano anche da mia madre…”, poi si voltò verso Candy ma non le rispose, uscì sbattendo la porta.

 

Richard chinò il capo, Candy sospirò mentre Eleanor stringeva la mano di lui nelle proprie e gli si sedeva accanto.

“Lizzie, guarda un po’ chi c’è qua…”

Gli occhi di Richard si inumidirono mentre Candy, per la prima volta deponeva la nipote fra le sue braccia.

Eleanor provò una stretta al cuore ed ebbe un altro deja-vue, rivide la prima volta in cui Richard aveva preso Terence in braccio, a poche ore dalla nascita.

 Perché certi ricordi erano ancora così vivi? Perché quello che provava per quell’uomo non era cambiato nemmeno di una virgola malgrado tutto? Lo amava ora come allora, com’era possibile?

 

Richard cullò la bambina fino a quando si addormentò per poi deporla fra le lenzuola che sapevano di lavanda e restare a guardarla con Eleanor accanto a se. Candy era già uscita per lasciarli soli con la piccola.

 

“Sono davvero passati così tanti anni?”, le chiese.

“Sai che non lo so? Non me ne sono nemmeno resa conto...”

Le passò un braccio intorno alla vita e la fece girare verso di se per poi abbracciarla lentamente continuando a guardare la bimba che mugugnava nel sonno: non l’avrebbe rivista tanto presto, cercò di imprimersi nella mente il suo viso.

 

“Terence”

Lui non rispose ma le fece cenno di sedersi accanto a se.

“Perché devi sempre averla vinta tu, con me?”

“Perché sono più ragionevole di te. Lo sai che è giusto così.”

“Ti rendi conto di cosa ci ha fatto passare?”

“Sì ma…ti vuole bene.”

“Come puoi dirlo?!”

“Se non gli fosse importato nulla di te non sarebbe venuto qui a cercarti, era preoccupato anche lui per la tua scomparsa…”

“E quando sono andato via dalla scuola, perché non mi ha cercato allora?”

“Gliel’ho chiesto io…”

”Cosa?!?”

“Già, gliel’ho chiesto io di non costringerti a tornare, di lasciarti libero di seguire i tuoi sogni.”

“Non me lo avevi mai detto.”

Lei sorrise senza dire nulla, Terence le prese una mano e la portò alle labbra: “Sembra che ti debba il successo, principessa!”

“Quello è solo merito tuo…”

“Ti sbagli, sei tu la mia buona fata…”

Candy poggiò la testa sulla spalla di Terry, accarezzandolo.

“Che ne dici se ci trovassimo un posticino tranquillo?“, le mormorò nell’orecchio.

“Ancora con quell’idea?! Dobbiamo tornare dentro, la zia starà scalpitando per annunciare il fidanzamento di Albert…”

”Hai visto che avevo ragione io?”

“Già, povera Susanna…”

“Povera Susanna? Povera Susanna?!? Io non ti capisco proprio: c’è mancato poco che rovinasse tutto tra Albert e Marian e tu riesci a dire povera Susanna?!? Sai che ti devi far passare un po’ questo tuo essere troppo buona con tutti?”

“Oh, Terence, non dire così, in fondo Susanna ha fatto quello che avrebbe fatto chiunque nella sua posizione, è innamorata di Albert…”

“Sì, tutti tranne te…”, le rispose corrucciato.

“Cosa vorresti dire?”

“Che ci abbiamo quasi rimesso la vita tutti e due perché sei troppo brava e troppo generosa!”

Candy mise il broncio a sua volta incrociando le braccia.

“Ma ti amo anche per questo”, riprese lui, “Se non fossi così non ti saresti fatta carico di un caso disperato come me…”

“Non sei un caso disperato”, gli rispose ridendo per stemperare la troppa serietà di lui.

“Lo ero…”, continuò lui grave, “Ma mi hai insegnato ad amare”

“Terry…”, sentì due grandi lacrime che scendevano, era la cosa più bella che le avesse mai detto.

 

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Capitolo 52
*** Epilogo 1: Granchester ***


Londra, maggio 1918

 

Richard coprì madre e figlia guardandole con affetto ed uscì in punta di piedi dalla stanza. Andò a sedersi nella sua poltrona preferita, accanto al camino spento e prese un giornale, come era solito fare dopo pranzo.

Sembrava una giornata come le altre ma non lo era, nemmeno l’ultima settimana era stata come le altre, nessun giorno ormai sarebbe stato più uguale a prima, il sole era finalmente entrato in quella casa, un sole di riccioli dorati e risa di bambina.

A meno di un anno dall’ultima volta che l’aveva vista, aveva potuto riabbracciare la nipote, che ora dormiva con la madre sul sofà, stanca per la passeggiata in carrozza che avevano fatto al mattino fino ai Kew Gardens.

Era la fine di maggio e Londra scintillava sotto il sole, l’aria limpida e profumata invitava ad uscire: Richard si affacciò alla finestra, incapace di prestare attenzione alle notizie.

 Ripensò a quello che era accaduto nell’ultimo mese: ancora gli sembrava irreale che Elizabeth e Candy fossero nella stanza accanto a dormire mentre gli zoccoli del cavallo di Terence colpivano il selciato del cortile con suono metallico per poi affievolirsi e mutare man mano che si allontanava nel parco.

Era partito dall’America poco dopo il ballo di Lakewood, aveva rispettato la richiesta di Terence di non vederlo più; si era ritirato in buon ordine a Londra, tornando da quella famiglia che orami sentiva come un peso ma che la vergogna ed il dovere imponevano di continuare ad onorare.

La duchessa, tuttavia, non era più disposta a tollerare nulla che riguardasse il figlio di Richard e c’erano state aspre liti per quali lui aveva disperato di riuscire a trovare una soluzione, allo stesso tempo onorevole e definitiva.

Aveva sognato Eleanor tutte le notti ed ogni giorno che passava non faceva che rendere più acuta la nostalgia; lei era rimasta in America: il suo lavoro, la sua carriera, la sua famiglia, erano lì. E lui si sentiva un naufrago su un’isola deserta. Le sue radici erano in Scozia, i suoi affari a Londra ma che senso aveva restare sull’Isola se tutto ciò che aveva di più caro era al di là dell’oceano? Se l’era domandato quasi ogni giorno di quel lungo e nebbioso autunno londinese, soprattutto quando la moglie lo tormentava con le assillanti domande su cosa aveva fatto e chi aveva incontrato a New York e perché mai fosse stato via così a lungo.

Richard aveva cercato di spiegare ma era stato tutto inutile: l’astio nei confronti del figliastro aveva radici antiche e lui ne era in parte responsabile.

L’apatia che era stata la protagonista della sua vita negli anni passati aveva lasciato il posto ad un bisogno profondo di riflessione e di solitudine; manteneva una corrispondenza regolare con Candy ed Eleanor,  le lettere di entrambe lo facevano sentire meno solo nel lungo inverno scozzese in cui si era rifugiato dopo il nuovo anno.

Con la duchessa erano, infine, arrivati ad un tacito accordo: avrebbero cercato di incontrarsi il meno possibile, lui in Scozia in inverno mentre lei era a Londra, viceversa durante la bella stagione, quando le Highlands erano meta appetita dalla nobiltà per le vacanze. A lui non importava molto di restare da solo, ciò che voleva in tutti i modi evitare, o ridurre al minimo, erano gli scontri.

Eleanor lo aveva raggiunto per le festività pasquali ed era ripartita per New York dopo una sola settimana ma era stato un sogno ad occhi aperti: loro due, soli, senza dover salvare le apparenze perché non c’era nessuno a vederli.

Quando era partita aveva lasciato un vuoto terribile, mitigato a malapena da una lettera di lei in cui raccontava la traversata del ritorno e dall’annuncio dell’arrivo del figlio.

Tutto era cominciato con un invito, recapitato alla residenza londinese dei Granchester: quello destinato a Terence che, al compimento della maggiore età, sarebbe stato ammesso per la prima volta a corte insieme a Candy, in occasione del ballo in onore del compleanno di Sua Maestà Giorgio V .

Richard, quanto mai perplesso e convinto che Terence avrebbe fatto coriandoli del biglietto, aveva scritto a Candy, chiedendo consiglio ed aiuto.

Candy gli aveva risposto che ci avrebbe pensato lei: aveva lasciato l’invito in bella vista sullo scrittoio di Terence; lui lo aveva preso senza dire una parola, salvo poi comunicarle, in modo quasi telegrafico, la data della partenza per la quale aveva già acquistato i biglietti della nave.

Candy si era trovata così a passare nuovamente l’Oceano, nuovamente diretta a Londra.

Richard era andato ad attenderli a Southampton: Candy era stata espansiva e solare come sempre, Terence si era mostrato piuttosto riservato ma nel complesso gli era sembrato meno sulla difensiva del solito.

La settimana appena trascorsa era stata l’occasione perché padre e figlio si riavvicinassero: Terence e Richard si erano studiati a lungo per poi, infine, riuscire a parlarsi in modo quasi civile. Candy, in quelle occasioni, faceva in modo di defilarsi con eleganza e discrezione.

La tensione si era dissolta, avevano condiviso molto, cose frivole e superficiali, come una cavalcata, un pranzo al club, il teatro la sera, una partita a polo ed una a cricket ma erano cose che non c’erano mai state tra loro e questo le rendeva quanto mai importanti e preziose.

Richard non smetteva di benedire quella ragazza dai riccioli ribelli e dal carattere d’acciaio che aveva per nuora.

 

Da qualche giorno però si era aggiunta un’altra preoccupazione: ora che le cose cominciavano ad andare per il verso giusto temeva il momento in cui avrebbe dovuto mettere a parte Terence di una notizia che non poteva essere taciuta troppo a lungo. Attendeva l’arrivo di Eleanor per il tardo pomeriggio a Southampton, avrebbero deciso il da farsi.  Sospirando si allontanò dalla finestra per andare a prepararsi; sbirciò nel salotto, Candy ed Elizabeth dormivano ancora, richiuse la porta silenziosamente e diede ordine al maggiordomo di informare la nuora dell’arrivo di Eleanor quando si fosse svegliata.

 

***

“Come l’ha presa?”

“Non bene, ma gli passerà, si deve solo abituare all’idea.”

Richard si voltò verso la finestra.

“Forse sarebbe stato meglio che non fosse accaduto nulla”, poi si rese conto di come suonavano le proprie parole e si affrettò ad aggiungere, “Elly, non fraintendermi, non potrei essere più felice di così ma..”

“Ma?”

“La tua carriera, i commenti velenosi, la tensione con Terence e poi il dottore che dice che devi stare molto attenta, io..”

Gli si avvicinò posando affettuosamente una mano sulla sua spalla.

“Della carriera non ti devi preoccupare, se anche non lavoro per un anno non ci saranno problemi; di Terence nemmeno, pian piano si abituerà all’idea; quanto a me non ho intenzione di sentirmi male e per quel che riguarda i pettegolezzi lascia pure che parlino, non me ne è importato prima, non me ne importa ora.”

Richard la abbracciò da dietro cullandola.

“Non posso fare a meno di essere preoccupato per te ma mi sembra di avere vent’anni in meno ed una nuova vita davanti. Non avrei mai dovuto lasciati andare…ora avremmo avuto la casa piena di marmocchi con la testa dura come Terry!”

“Come la tua, vorrai dire…ma non ne parliamo più, sei d’accordo?”

Richard passò con tenerezza una mano sul ventre di Eleanor mentre lei la copriva con la propria.

“Sai, credo che Terence sia rimasto più sconvolto dal fatto che avrà un fratello dell’età di Lizze piuttosto che per il fatto in se…”

“E’ per questo che dici che si abituerà? Ci credo troppo vecchi, eh?”

“Forse sì, forse lo siamo…”

“Forse hai ragione, lui ormai è un uomo ed avere i genitori che fanno gli innamorati deve essere quanto meno imbarazzante…”

“Gli passerà…”

“Ti amo Elly, e sono così felice…”

Lei reclinò la testa all’indietro fino ad appoggiarla alla spalla e si lasciò cullare mentre il tramonto dipingeva di rosso il cielo sopra Westminster.

 

***

Terence aspirò lentamente il fumo cercando di dare un senso logico a quello che aveva appena sentito.

C’era qualcosa di profondamente sbagliato nell’avere per fratello un bambino che avrebbe avuto pressappoco l’età della propria figlia, ma era quello che stava per accadere.

Quando era riuscito a capire il senso di quello che la madre gli stava dicendo era rimasto a fissarla senza parlare per un buon quarto d’ora dopo di che c’era voluto tutto il suo autocontrollo per non andare a prendere a pugni il padre.

La storia che si ripete, un altro figlio illegittimo: ebbe una fitta al cuore, no, non  andava affatto bene.

Tuttavia sua madre non era mai stata così raggiante.

Scosse la testa spegnendo la sigaretta nel posacenere e si passò una mano tra i capelli: il Tamigi scorreva lento sotto di lui che attendeva il ritorno di Candy ed Elizabeth per la cena.

Non si rese conto della presenza della moglie fin quando lei non si produsse in una perfetta imitazione di Suor Grey che lo rimproverava per la sigaretta, poi gli stampò un grosso bacio sulla guancia. Ma Terence seguiva i propri pensieri.

“Tu lo sapevi?”

“No”

“Uhmm”

Candy lo osservò silenziosa: era chiaramente sconvolto dalla notizia che Eleanor aveva appena comunicato anche a lei. Gli passò una mano tra i capelli scuri, lui si voltò e la abbracciò senza parlare, baciandole il collo e restando poi con la fronte contro la spalla di lei; sentire il profumo sottile della sua pelle che sapeva di rose lo calmava sempre.

“E’ tutto sbagliato”, disse infine.

“No, è strano, non sbagliato”, rispose lei, “ma sono felice per loro.”

“Se le fa ancora del male lo ammazzo!”

“Non voglio sentire una cosa del genere!”

“Spiegami il perché di questa cosa! Se si amavano così tanto perché mio padre ha sposato un’altra?”

Candy scosse la testa, non aveva una risposta, sapeva solo che quel bambino inaspettato era ciò che in quel momento desideravano di più al mondo, una seconda opportunità, il dono di un’altra vita per entrambi.

E Terence non poteva far altro che essere felice per loro.

 

Venne la sera del ballo.

Terence, in frac e guanti bianchi attendeva Candy nell’ingresso, la carrozza con lo stemma dei Granchester già ferma davanti al portone, i cavalli che si strofinavano pigri l’un l’altro. Il tramonto tingeva di rosso il cielo londinese e le rondini stridevano alte sopra le torri ed i campanili.

 

Richard raggiunse il figlio ancora in abiti da casa e questi lo guardò sorpreso.

 

Il silenzio tra i due uomini era, tuttavia, teso, entrambi avevano qualcosa da dire, nessuno dei due sapeva da quale parte iniziare.

 

“Terence…”; “Padre…”

“Prima tu!”; “Prima tu!”

Si guardarono con un mezzo sorriso, Terence lasciò la parola al padre.

“Sono felice che siate qui, non ci avrei mai sperato…”

“Era giusto così”, mormorò Terry guardandolo negli occhi, “in fondo hai fatto tutto il possibile perché questo accadesse un giorno…”

“Sono fiero di te…”

Terence non seppe cosa rispondere, era la prima volta che suo padre gli diceva una cosa del genere.

“E sono davvero molto felice che tu abbia accettato di prendere parte al ballo di stasera”, proseguì, “è molto importante…per me e per te…”

“Deduco che tu non verrai…”

Richard si tolse l’anello con lo stemma ducale e, prendendo la mano del figlio, glielo mise al dito, “Da stasera sarai tu a portare il titolo…”

“Padre, ma…”

“Io e tua madre ne abbiamo parlato a lungo, lo stato di tua madre porterà ad uno scandalo senza precedenti e a molti problemi con la tua matrigna e con tuo fratello. Sei tu il primogenito, il titolo ti sarebbe spettato comunque alla mia morte, abbiamo solo anticipato un po’ le cose…sarai tu d’ora in avanti a rappresentare la nostra casata, è meglio che io mi eclissi definitivamente…d’altra parte l’unica cosa che mi interessa ora è stare con tua madre e basta.”

“Ma…”

“Megan ha già avuto un cospicuo assegno e tuo fratello avrà il titolo di conte che da sempre spetta al figlio cadetto…e Candy sarà un a splendida duchessa…”, sorrise.

Terence sapeva bene che la sua già complicata vita sarebbe stata ancora più complicata, agli impegni del teatro si sarebbero sovrapposti i doveri del titolo: dagli impegni mondani alla Camera dei Lord alle rogne amministrative ma era stato allevato perché un giorno prendesse il posto di Richard, sapeva qual’era il suo compito. Gli venne in mente Albert e sorrise.

“Spero di non deluderti…”

“Non lo farai, ne sono certo...”

“Ma…”

“Niente ma, è deciso!”

 

I due uomini furono interrotti da Eleanor che scendeva le scale tenendo Lizzie per mano e facendola scendere un gradino alla volta: la osservarono orgogliosi, era ancora più bella del solito.

 

“Candy sta per scendere. Sei bellissimo figlio mio”, disse a Terence accarezzandogli il viso.

 

Terence e Richard si voltarono all’apparire di lei in cima alle scale.

Indossava un abito di taffettà di seta color avorio, dalla gonna ampia, completamente scollato, il corpino drappeggiato era ricamato in oro e argento, con piccole perle fissate qui e là e le fasciava il seno e metteva in risalto le spalle; la stola finissima ed impalpabile aveva anch’essa fili d’oro e d’argento nella trama; i guanti erano lunghissimi e confezionati con lo stesso tessuto: quell’abito era stao di Eleanor, indossato per un’occasione analoga, quando era stato il turno di Richard di essere presentato a Corte.

 

Un girocollo di diamanti bianchissimi si accordava con gli orecchini ed il diadema fissato tra i capelli.

 

Richard guardò Eleanor stupito.

“Li avevi tu?”

“Me li aveva dati tua madre insieme alle fedi…”

“Li ho cercati per anni, non riuscivo a capire dove potessero essere…beh, in fondo li aveva dati alla persona giusta”, concluse stringendole affettuosamente la mano.

“Già, sembrerebbe”, Eleanor sorrise.

 

Terence non aveva smesso un attimo di fissare Candy mentre scendeva: Giulietta, la sua Giulietta era diventata donna.

“Sei bellissima, duchessa”, mormorò tra sé.

 

Buckingham Palace, più tardi.

 

“Terence Graham Granchester, Duca di Granchester e Candice White Andrew, Duchessa di Granchester!”

 

I mormorii del salone per un istante furono solo per loro, che si fecero avanti con una sicurezza ed un’eleganza che sarebbero stati l’orgoglio di Richard.

 

“Non hanno occhi che per te, li hai lasciati senza parole”, mormorò Terry,

“Vale anche per te, ma ricordati che le scimmie mordono!”

“Sei la scimmietta più bella del ballo!”, rispose baciandole la mano.

 

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Capitolo 53
*** Epilogo 2: Andrew ***


L’angolo dell’autrice

Ecco qui il penultimo capitolo di questa lunghissima storia.

Un ringraziamento particolare va a Blu Rei che continua a seguirmi in questa mia fatica “letteraria”.

Vorrei ringraziare anche Manu75 per la recensione lasciata a Ragione e Sentimento, ringrazia la tua amica da parte mia ^_^, è stata gentile.

Un grazie anche a tutti coloro che leggono e non lasciano messaggi: va bene così, ho visto che siete stati velocissimi a leggere l’epilogo dopo la pubblicazione, spero vi piacerà anche questo.

L’ultimo epilogo sarà il mio regalo di Natale per tutti voi.

Un bacio ^_^

 

Lakewood, due anni dopo, giugno 1919

 

“No! No, ti prego!”

“Se ti prendo!”

L’aria era tiepida, l’estate incombeva, il profumo dei fiori e degli alberi stordiva; ovunque si posasse lo sguardo c’erano rose ma le due figure che correvano stavano lasciando il giardino incantato in riva al lago per addentrarsi nel bosco.

Lei chiedeva pietà ma rideva di quel riso argentino che solo chi non ha nubi nel cuore sa emettere. Lui minacciava oscura vendetta ma la voce tradiva la sua felicità e la sua allegria per quella corsa a perdifiato dietro quei riccioli d’oro che cercavano di distanziarlo.

“Smettila!”

“Se ti prendo vedi cosa ti faccio!”

“Ci devi riuscire!”

“Ti sto raggiungendo!”

“Non è vero!”, ma una radice o una zolla la fecero cadere ed ecco che lui la raggiunse costringendola a terra prima che lei potesse rialzarsi, accaldata ed ansimante per la corsa, gli occhi splendenti come l’erba che le circondava il capo.

“Presa!”

“Lasciami! Lasciami, bruto che non sei altro!”

“Non ci penso nemmeno, sei mia!”

“Lasciami, sennò…”, fece lei sollevando una mano per colpirlo.

“Sennò?”, le chiese prendendole il polso e avvicinandosi alla bocca, continuando a fissarla negli occhi.

“Sennò, io…”, mormorò lei, “io…”

Iniziò a baciarle le labbra e scese pian piano verso l’orecchio mentre lei, a quel contatto, tratteneva il fiato e chiudeva gli occhi.

“Sai che ti voglio, vero?”, le sussurrò pianissimo nell’orecchio; lei sorrise. “Qui, ora…”

“No! Non si può, ci vedranno tutti…”, il respiro corto per la corsa ed il desiderio che le aveva attraversato il corpo al sentire quelle parole che le avevano sfiorato il collo.

“Siamo lontani”, le rispose facendo scorrere una mano lungo il fianco fino ad arrivare all’orlo della gonna, passare sotto di essa ed iniziare a risalire lungo la gamba, accarezzando ancora una volta quella pelle di velluto che lo faceva impazzire di desiderio.

“Terence, no!”

“Perché no?”, le chiese mentre lei continuava ad annegare in quegli occhi blu che la fissavano.

Terence non rispose, riprese a baciarle l’orecchio, scese a seguire il profilo della spalla che aveva scoperto e quindi ancora, lungo la scollatura mentre con la mano continuava ad accarezzarla sotto la gonna.

Candy socchiuse gli occhi, abbandonandosi a quelle carezze sempre uguali e sempre nuove; li spalancò di colpo quando si rese conto di cosa lui stava facendo in quel momento: la sua mano era arrivata a sfiorare la sua parte più intima, procurandole, allo stesso tempo, una fitta di desiderio nel basso ventre ed un rossore vivo sulle gote, per il timore di essere visti.

“Basta!”, gli fermò la mano.

Terence scosse la testa, riprendendo quello che aveva interrotto.

Candy gemette ma cercò di fermalo di nuovo.

“Terry, potrebbe arrivare qualcuno!”

Lui la ignorò, procurandole un’altra fitta di desiderio: ancora poco e avrebbe ceduto e lui lo sapeva.

“Lo sai che ti amo alla follia, principessa?”, il respiro che vibrava nel suo orecchio.

“Mi sembra che tu me l’abbia detto qualche volta…”

“Te lo dirò ogni giorno della mia vita!”, si fermò un attimo e la guardò socchiudendo gli occhi, “anche quando avrò cent’anni.”

Candy rispose accarezzandogli il viso, velato da un accenno di barba e passò le dita tra i capelli scuri e lucidi.

“Ti amo”, e lui sentì un brivido attraversargli il corpo. Sei mia, solo mia.

“Dov’eravamo rimasti?”, le chiese facendo finta di baciarla ma in realtà ricominciò con il solletico, fino alle lacrime, poi riprese le carezze sensuali ed i baci, senza lasciarle il tempo di riprendere fiato.

“Terence”, mormorò ansante, “dobbiamo rientrare, Lizze si sarà già svegliata…”

“C’è Nanà con lei e anche Molly…”

“E poi deve arrivare Albert!”

“Sai che comincio ad essere un po’ geloso? E’ una settimana che non fai che parlare di Albert!”, sbuffò.

“Sei ingiusto!”

Terence indurì lo sguardo ma Candy lo ignorò.

“Non lo vediamo da un anno e mezzo…”

“Ed è per questo che non fai che parlare di lui?”, rispose a denti stretti.

“Oh, Terry, quando fai così sei insopportabile! Essere geloso di Albert!”

“Sono geloso di tutti, non ti voglio dividere con nessuno!”

“Terence”, Candy lo stava guardando offesa, “dubiti forse di me?”

Terry, incapace di portare oltre lo scherzo scoppiò a ridere.

“Ti sei offesa?”, le chiese ricominciando a farle il solletico.

“Oh, brutto….! Ora ti sistemo io! No! No! Basta! Basta!”, Candy continuava a ridere fino alle lacrime per colpa dell’impietoso marito che la stava torturando.

Le risate dei due ragazzi si spandevano nell’aria e si mescolavano col canto degli uccelli, lo stormire degli alberi, il mormorio del piccolo fiume poco lontano.

Terence si fece improvvisamente serio: “Ora ti voglio e non dire di no!”, lo sguardo scuro ed intenso.

Candy restava stregata, incapace di resistere al fascino e al desiderio che trasparivano da quegli occhi blu come zaffiri.

Dapprima le labbra si sfiorarono poi, con passione crescente, i baci divennero sempre più famelici.

“Certo che se non volevate farvi scoprire dovevate fare meno rumore!”

Candy e Terence balzarono in piedi di scatto, come fossero una persona sola: la voce aveva parlato molto vicino a loro.

Si voltarono e per Candy, rendersi conto della presenza di Albert e volare tra le sue braccia, fu un tutt’uno.

“Albert!! Oh! Albert!!”

“Piccola!”

“Sono così felice di rivederti!”

“E piangi per questo?”

Lei annuì sorridendo e piangendo insieme mentre lui ripeteva quel saluto che le mancava ormai da tempo, un bacio sulla fronte; Candy nascose il viso nella sua giacca per un attimo, prima di alzare di nuovo gli occhi e farsi asciugare le lacrime da Albert.

I due uomini si salutarono sorridendo.

“Terence! Sono felice di rivederti!”

“Anche io Albert, bentornato!”, si scambiarono un abbraccio fraterno.

“Dov’è Marian?”

“E’ rimasta a casa, era stanca e aveva bisogno di riposarsi. Io sono uscito a cercarvi”

“Come hai fatto a trovarci?”, chiese Candy.

“Era impossibile non trovarvi, ti si sentiva ridere dal roseto!”, le rispose spingendole via la fronte con un dito mentre lei arrossiva vistosamente.

 

Poco dopo Terence, Candy ed Albert sedevano di fronte ad un the freddo servito sotto il pergolato.

Le poltrone ed il tavolo in stile coloniale erano fresche ed accoglienti. Albert aveva ancora indosso gli abiti da viaggio.

“Siamo venuti direttamente qui. E’ stata lunga e pesante ma non avevamo voglia di perdere tempo.”

“La zia, comunque, è qui…”

“Eh?”

“Sì, è arrivata la settimana scorsa. Non riesce a stare lontana da Lizze”, Candy sorrise maliziosa.

Albert sgranò gli occhi: “Davvero?”

“Passa più tempo con lei che con la balia”, confermò Terence.

“Questa sì che è bella”, sorrise Alber appoggiandosi allo schienale.  Vide Candy e Terence sollevare gli occhi e restare a bocca aperta, si voltò leggermente anche se aveva percepito l’arrivo di Marian.

“Ciao Candy, ciao Terence”

Malgrado l’anno passato in Africa, Marian aveva conservato la pelle chiara e delicata, divenuta solo leggermente dorata, mentre Albert, accanto a lei, mostrava molto di più i segni del sole africano.

Dopo il matrimonio erano stati più di sei mesi in Europa, a sistemare alcuni affari degli Andrew e a trascorrere un po’ di tempo con la famiglia di Marian; erano poi partiti alla volta della Tanzania, dove Albert aveva diverse proprietà e dove si erano fermati più di un anno.

Quando Marian era rimasta incinta, Albert aveva deciso che era ora di rientrare: il bambino sarebbe nato a Chicago ma avevano deciso di raggiungere Candy e Terry a Lakewood per trascorrervi l’estate.

 “E non ci avete detto niente?!”, chiese Candy mentre si alzava per andare ad abbracciare la ragazza che era rimasta in piedi accanto ad Albert.

“Beh”, mormorò lei, “volevamo farvi una sorpresa…”

“Ce l’avete proprio fatta!”, rispose Terry.

“Non ti vuoi sedere”, le chiese Albert premurosamente, stringendole piano una mano nella propria.

“No, amore, resto in piedi, non ne posso più di star seduta!”

 “Come stai?”, Albert le accarezzò la piccola pancia con tenerezza.

“Bene, grazie, va tutto bene.”

Candy e Terence si scambiarono uno sguardo sorridente.

“Sai Terence che la tua fama è arrivata fino in Africa? Non si fa altro che parlare di te…”, disse Marian.

Terry fece spallucce: “Non è colpa mia, io mi impegno e basta…”

“Senti il modesto!”, gli rispose Candy.

“Merito tuo, principessa”, le disse baciandole la mano.

Il successo e la fama di Terence erano diventati tali per cui era riconosciuto e fermato per strada, gli impresari se lo contendevano e qualunque compagnia avrebbe fatto carte false per scritturarlo ma lui, dopo la breve parentesi in cui aveva recitato a fianco della madre, era tornato alla compagnia Stratford.

I pochi fortunati che lo frequentavano al di fuori del teatro, dipingevano un ritratto del Terence domestico molto diverso dal Terence attore, taciturno, solitario, pignolo e perfezionista; quasi nessuno credeva a ciò che i pochi amici raccontavano di lui: dolce e premuroso con la figlia, allegro e scanzonato con gli amici, adorante ed affettuoso con la moglie.

Quest’ultimo aspetto era saltato agli occhi di tutti coloro che avevano visto Terence in compagnia della consorte in pubblico. Candy era stata l’oggetto dell’invidia di tutte le donne non solo perché aveva un marito bellissimo ed affascinante ma, soprattutto, perché lui la guardava come se fosse una dea scesa in terra.

“Devo dire che sei migliorato molto…”, gli disse Albert.

“Che intendi dire?”, ribattè Terence.

“Non ti ricordavo così galante, hai imparato le buone maniere…”, lo canzonò.

“Sai com’è, sennò le scimmie si offendono” e gli fece l’occhiolino.

“Terry!”, ma lui ed Albert stavano ridendo di gusto delle smorfie di Candy.

“Piccola, non ti arrabbiare, lo sai che sei la nostra scimmietta preferita!”

“Oh, Albert, non ti ci mettere anche tu adesso!”, gli rispose con una faccia comicamente triste.

“E tu piccola, non mi racconti niente? Non ti hanno ancora scoperta, vero?”

“No”, rispose con aria maliziosa.

Passata l’estate dopo la nascita di Elizabeth, Candy aveva seguito Terence a New York ma si erano ben presto resi conto entrambi che la vita cittadina non faceva per lei e tutto quell’interesse che circondava Terence si rifletteva negativamente sulla vita di Camdy e della bambina. Non c’era giorno in cui non venisse importunata mentre usciva di casa o rientrava e, alla fine, era tornata a Chicago, dove la zia era stata felice di accoglierla e dove Terry la raggiungeva non appena aveva qualche giono libero.

Dopo non molto aveva ripreso a dare una mano al dottor Martin: era impossibile per lei stare lontano da quel  lavoro che sentiva come una missione; la zia aveva sorriso e, con finta sopportazione, si era apprestata a fare da balia alla nipotina mentre Candy era all’ambulatorio.

Secondo la versione ufficiale degli Andrew e dei Granchester, Candy trascorreva  le giornate tra la gestione della villa di Chicago e la cura della bambina cosicché, almeno per il momento, a nessuno era venuto in mente di andare a curiosare alla Clinica Felice, dove Candy continuava a portare i buffi codini e a far ridere i bimbi quando avevano paura del dottore.

“E dimmi, come sta Martin?”

“Bene. Non siete passati a trovarlo?”

“No, siamo venuti dritti qui”, rispose Marian.

“Sei sicura di non volerti sedere?”

“Davvero, preferisco stare in piedi, grazie Terence”, e le guance divennero leggermente rosate.

Non aveva perso l’abitudine di arrossire ed ora aveva un motivo più che valido per farlo.

Albert le sorrise, sapeva quanto lei odiasse essere al centro dell’attenzione e l’essere in attesa di suo figlio gliene avrebbe procurata fin troppo, soprattutto nella famiglia ma anche all’esterno: quello era uno dei motivi per cui si erano rifugiati a Lakewood e vi avrebbero trascorso l’estate lontano da occhi indiscreti.

“Lizze!”, esclamò Candy.

Una bimbetta di due anni e poco più fece capolino da dietro la poltrona di Albert, infilandosi sotto la gonna di Marian che la sollevò leggermente per riuscire a vederla meglio.

Due occhi blu mare fissavano i nuovi venuti, riccioli castano dorati scendevano morbidi dalla coda alta chiusa con un nastro indaco. Piedi scalzi ed un abitino azzuro completamente pieno di macchie di ogni sorta completavano il quadro.

“E’ bellissima!”, mormorò Albert estasiato.

I lineamenti richiamavano ora il padre, ora la madre e, nell’insieme, la piccola somigliava ad una di quelle bamboline di porcellana dal viso delicato; possedeva, tuttavia, una forza ed una sicurezza nei movimenti non comuni per la sua età. Albert sentì un nodo in gola, per pochi istanti aveva rivisto la piccola bambina bionda che piangeva sulla collina.

“Ciao”, le disse Marian.

“Chi shono?”, chiese alla madre indicando gli estranei.

“Zio Albert e zia Marian”

Lei guardò interrogativa prima la madre e poi il padre che annuì ripetendo: “Albert e Marian.”
”Perché shono qui?”

“Sono appena arrivati.”

“Da dove?”

“Da lontano”, rispose Albert.

“Qua’to lontano?”, chiese Lizzie e, uscendo da sotto la gonna di Marian, si piazzò di fronte ad Albert per guardarlo meglio.

“E’ il tuo ritratto, Terence: ha la stessa tua espressione di quando studi qualcuno.”

“Qua’to lontano?”, ripetè la bambina.

“Oh, no! Lo fa di nuovo!!”, esclamò Candy, “Fermala!” ma Terence non fece in tempo a prenderla.

Incurante del fatto che sul tavolo vi fossero piattini, tazzine, biscotti e teiere, Lizzie si arrampicò su di esso e si mise in piedi per poter guardare Albert dritto negli occhi.

“Tanto lontano”, le rispose serio. “Sai Candy? In questo è uguale a te, un piccolo ciclone!”, le disse poi ridendo e prendendo la bambina in braccio per darle un bacio.

Lei lo scrutò ancora poi cominciò a giocare con la lunga chioma di Albert ed infine: “Hai i capelli come mamma ma shono molli…mi piaci ‘io.”

“Anche tu mi piaci piccola”, le rispose dandole un altro bacio mentre Marian sorrideva.

 

“Lizzie! Lizzie!”

I quattro giovani si voltarono alla voce della zia Elroy alla ricerca affannosa della nipote.

Albert sollevò entrambe le sopracciglia in un’espressione di stupore: la zia aveva un abito chiaro, semplice ma chiaro, con piccoli fiori, niente grigio o nero.

Candy soffocò una risata così come fece Terence alla vista della faccia di Albert.

Elroy si fermò di colpo quando si rese conto della presenza del nipote e di Marian.

“William!”

“Buongiorno zia!”

“Non mi avete detto nulla!, balbettò.

“Lo so, vi abbiamo fatto una sorpresa”, disse alzandosi per andarle incontro, la bambina ancora in braccio che la guardava seria, “la trovo molto bene!!”

Lizzie fece una boccaccia alla zia “Non voijo fare bagno!”e Albert non riuscì a trattenere un sorriso divertito.

“Ma devi! Sei conciata in modo scandaloso!!! Prima o poi Lizzie mi farà morire! Candy! E’ inconcepibile! Si è rifiutata di fare il bagno e cambiarsi d’abito ed è scappata via!”

Candy non riusciva a frenare il riso, tutta la situazione era comica: Albert stupefatto per l’abbigliamento della zia che, a sua volta, guardava il nipote come se fosse un alieno, accaldata per l’affannata ricerca della bambina che la guardava truce al sicuro tra le braccia di Albert.

“Zia cara, convinceremo Lizzie a cambiarsi d’abito…”

“No,no,no! No voijo!”, protestò la piccola.

“…ma ora perché non si siede?”

Fu in quel momento che Elroy si accorse di Marian e del suo essere in stato interessante: ebbe quasi un mancamento. Terence la accompagnò alla poltrona e le diede una tazza di the.

Quando si riprese a sufficienza Albert si prese una lavata di capo per non averla avvisata ne del loro arrivo ne del bambino ma anche Candy ebbe la sua parte.

“Candy! Si può sapere che hai da ridere? Possibile che tu non riesca ad occuparti di tua figlia? E’ un disastro! Proprio come te!”

“Zia, vedo che non ha perso la sua vena!”, le rispose Albert mentre Candy cercava, inutilmente, di assumere un’aria contrita.

Mentre rientravano in casa per il pranzo Albert si avvicinò a Candy e le domandò: “Ma cosa è successo alla zia?”

“Un giorno Lizzie le ha detto che era brutta, che sembrava un pipistrello e si è rifiutata di andarle in braccio fin quando la zia ha cercato un vecchio abito colorato e se l’è messo. Da allora Lizzie si è rifiutata di avvicinarla ogni volta che si è di nuovo vestita di scuro. Alla fine la zia si è rassegnata!”

Albert rise mentre stringeva affettuosamente la mano di Marian nella propria. “Perché non me lo hai scritto?”

“Perché volevamo vedere la tua faccia”, rispose Terence con aria maliziosa.

Albert scosse la testa sorridendo.

 

Elroy si voltò per un istante a guardare i quattro giovani cui era affidato il futuro della famiglia e sorrise: il suo lavoro era finalmente finito, aveva promesso molti anni addietro al fratello che avrebbe fatto del nipote un uomo di cui sarebbe stato fiero e così era accaduto.

Quella bambina ribelle che William aveva voluto a tutti i costi nella famiglia era stata perno e motore di tutto ciò che era accaduto negli anni successivi: stimolo e motivo di vita per William, che aveva cercato di proteggerla ed aiutarla in tutti i modi, divenuta, a sua volta, la mano inconsapevole che aveva guidato il suo destino e quello di tutta la famiglia Andrew.

 

Nella sua mano raggrinzita sentiva il calore della manina della piccola Elizabeth: non era sangue del suo sangue ma non avrebbe più potuto fare a meno dei suoi baci, dei guai che combinava in giro, delle sue risate e dei suoi pianti di bambina. Tornavano alla memoria i nipoti ormai cresciuti e diventati uomini e, solo ora, si rendeva conto di quanto aveva perso delle loro vite tenendoli sempre troppo distanti da sè.

 

Non riusciva ad essere meno brusca, si rendeva conto di essere, a volte, troppo severa ma gli anni in cui aveva dovuto sostituire Wuìilliam nol ruolo di comando l’avevano segnata e si meravigliava sempre della serenità con cui il nipote riusciva a svolgere i propri compiti ed assolvere ai propri doveri.

Lei era sempre stata sola, spinta e tirata in ogni direzione, sommersa dalle preoccupazioni, dal dolore della perdita di Anthony, dai problemi creati da Candy, dalle incomprensioni con William, dall’angoscia del non sapere dove fosse.

Ma William in quegli anni era divenuto un uomo forte ed Elizabeth era il dono più bello che qualcuno le avesse mai fatto: ancora ora faceva fatica a capire ed accettare Candy e quel ragazzo, Terence, così scostante ed affascinante, continuava a lasciarla interdetta ma quella bambina era un dono del cielo arrivato ad illuminare l’ultima età della sua vita.

Con una preghiera silenziosa chiese al cielo di veder crescere l’erede degli Andrew, anche se fosse stata troppo debole per poterlo tenere fra le braccia.

Lizzie sorrise tirandola per avere l’attenzione della zia ed Elroy le restituì il sorriso; la piccola le mandò un bacio con la manina.

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Capitolo 54
*** Epilogo 3: Susanna ***


L’angolo dell’autrice

Comincio quest’ultimo angolino dell’autrice col ringraziare akane_val, blu rei, gobra1095, kaoru, medea78, perlanera, rayne, rina, semplicementeme, valentina 78 per aver messo questa storia tra le vostre preferite; anche se alcune di voi non hanno mai lasciato commenti la cosa mi ha fatto comunque davvero piacere.

Ringrazio ancora kaoru per gli ultimo commenti che mi hai lasciato, mi piace sempre molto l’entusiasmo che traspare da ciò che scrivi ^_^

Con quest’ultimo epilogo dedicato a Susanna si chiude questa storia lunghissima ed articolata che mi ha portato via molte notti e molto sonno ma sono decisamente soddisfatta del lavoro svolto. ^_^

Un saluto a tutti e Buon Anno Nuovo.

New York, Natale 1919

Quando le luci si spegnevano veniva il momento peggiore: la realtà tornava ad essere padrona della sua esistenza e con essa la solitudine e la nostalgia. Il sipario si chiudeva, gli applausi scrosciavano, ovazioni con il suo nome ma poi doveva fare i conti con se stessa, tornava ad essere Susanna e niente più.

Quella era l’ultima rappresentazione ed improvvisamente sentiva tutto il peso di un anno passato ad annegare l’amore e la nostalgia nel lavoro e negli impegni: ora, con il Natale che incombeva,i fantasmi e gli angeli del passato tornavano a farsi vivi più che mai, come l’anno passato, come l’anno ancora prima ma ora faceva più male, lui era tornato in America, con la moglie che gli aveva dato un erede ed i giornali non parlavano che di loro.

Osservò il camerino: come sempre c’erano fiori ovunque e, come sempre, spiccavano le rose rosse di Jason Walton, l’impresario.

Era ormai un’abitudine vedere quei fiori nel suo camerino da due anni a questa parte.

Si alzò e ne accarezzò una mentre fissava la notte fuori dalla finestra e gli spettatori che sciamavano allegri dal teatro.

Era l’antivigilia di Natale.

Non lo aveva ancora dimenticato, non si poteva dimenticare così facilmente un uomo come lui. Sua madre per un po’ l’aveva spinta ad uscire, a fare vita sociale ma era al di sopra delle proprie forze mostrarsi allegra e socievole quando l’unica cosa che avrebbe voluto fare era morire…

Senza la sua voce e i suoi occhi con cui vedere il mondo e se stessa nulla aveva più avuto senso ma per quegli occhi e per quella voce lei era andata avanti, aveva fatto quello che lui si sarebbe aspettato da lei: aveva ripreso a recitare, teneva una rubrica di critica su un giornale importante, aveva persino imparato a ballare di nuovo anche se era comunque rimasta un po’ limitata nei movimenti.

Erano decine le lettere di ammiratori che riceveva ogni giorno, rispondeva cortesemente a tutti ma declinava qualsiasi invito, da parte di chiunque: non se la sentiva e basta.

Ed ora lui era tornato in America.

Non lo avrebbe incontrato, non frequentava i ritrovi mondani se non lo stretto necessario ma i giornali si erano letteralmente innamorati della bellezza e timidezza della sua sposa e di quel bambino che avrebbe ereditato l’immensa fortuna degli Andrew.

Lei, semplicemente, aveva smesso di vivere al di fuori del teatro.

Ancora pochi giorni e sarebbe partita per un viaggio: aveva bisogno di stare sola, di allontanarsi da New York cercando quiete per finire la sua sceneggiatura. Sua madre sarebbe rimasta a casa, glielo aveva chiesto espressamente, aveva necessità di stare sola.

Lo sguardo inquieto vagò di nuovo dalle rose ai giornali aperti sul tavolino, dove la famiglia Andrew occupava le pagine insieme a Candy e Terence.

Bussarono.

“Avanti!”

“Altri fiori, Susanna!”, disse una voce dietro un enorme mazzo di rose rosse.

Lei sorrise debolmente,  “Non so più dove metterle!”

“Mi offendo se non trovi un posto per le mie rose!, disse Jason spuntando da dietro il mazzo.

“Credevo fossero quelle le tue.”

“Te ne ho mai regalate così poche?”

Susanna non rispose, non sapeva mai cosa rispondere a quell’uomo che ora aveva deposto i fiori sul tavolo e la guardava con occhi scintillanti.

“Sei stata magnifica anche stasera!”

“Grazie Jason”, desiderava che se ne andasse e allo stesso tempo temeva di rimanere sola, con i fantasmi del passato che la perseguitavano.

“Susanna, io…”

Lui non sapeva più come prenderla, aveva provato tutti i modi per scuoterla da quel torpore in cui sembrava a proprio agio, non riusciva a rassegnarsi all’idea che lei lo considerasse solo l’impresario.

Jason Walton era un bell’uomo dai tratti mediterranei, dai modi piacevoli ed allegri, che fino a due anni prima era  stato il proprietario di una piccolissima compagnia che non aveva nemmeno una sede propria ed allestiva spettacoli qui e là a seconda della stagione; gli attori della compagnia erano piuttosto apprezzati dal pubblico ma penalizzati dal non avere un teatro.

All’inizio dell’autunno del 1917 Susanna Marlow si era presentata nel suo ufficio chiedendo di entrare a far parte dell’organico della compagnia.

Lui, per lo stupore, era quasi caduto dalla sedia. La conosceva di fama, per il talento e la sfortuna, sapeva, da quel che si diceva in giro, che di persona fosse molto più bella che nei manifesti o in fotografia ma era rimasto abbagliato soprattutto dalla dolcezza e tristezza di quel viso che gli ricordava una Madonna di Raffaello.

Sulle prime non aveva preso sul serio la proposta ma lei era determinata, non le importava molto del salario, l’importante era tornare a recitare. Gli aveva spiegato che alla compagnia Stratford non si trovava più a suo agio, i problemi con Terence erano risolti ma la rivalità con Karen Klies non si era mai assopita e il suo essere menomata pesava sulla sua vita all’interno della compagnia.

Lei era alla ricerca di un posto dove ricominciare, con ruoli secondari, un posto dove la sua invalidità non venisse continuamente utilizzata per metterla da parte.

Walton era rimasto pensieroso a lungo: un’attrice come lei poteva essere causa di attriti tra i membri della compagnia ma era anche una meravigliosa opportunità per avere più visibilità e forse, finalmente, soldi a sufficienza per una sede stabile.

Walton aveva chiesto il parere ai suoi attori e l’inserimento di Susanna era avvenuto senza problemi: il carattere dolce e remissivo di lei aveva facilitato tutto e la sua assoluta mancanza di protagonismo le aveva attirato la simpatia dei suoi compagni; alla fine, inevitabilmente per il suo talento, aveva avuto ruoli di primo piano.

Ora, a due anni da quell’incontro inatteso, la compagnia era divenuta finalmente famosa: avevano un teatro proprio e le pagine dei giornali erano dedicate più o meno equamente a loro, alla compagnia Stratford e a Eleanor Baker, tornata a calcare le scene.

Di tutto questo Jason Walton era molto soddisfatto: il suo sogno di bambino, di quando andava a vedere le prove del padre in teatro, era sempre stato quello di far parte di quel mondo ma poiché non amava calcare le scene aveva trovato più congeniale misurarsi con la difficoltà di gestire una compagnia ed aveva iniziato con quel gruppo di giovani attori usciti dalla scuola del teatro stabile.

Susanna era stata una presenza silenziosa e discreta, tanto brillante in scena quanto poco appariscente nella vita quotidiana della compagnia: osservava gli eventi, le persone, le piccole gelosie e rivalità tra i colleghi senza mai intromettersi, senza mai mostrare maggiore simpatia per questo o quello.

Jason Walton, dapprima colpito dalla sua bellezza, fu infine soggiogato dal mistero di quel volto che solo raramente sorrideva e senza mai quella luce negli occhi che hanno le persone felici ed appagate.

Aveva discretamente chiesto informazioni su di lei ad amici fidati che avevano raccontato in dettaglio la sfortunata storia con Terence Granchester ma poco sapevano, a parte i pettegolezzi scritti dai giornali, di quello che poteva essere accaduto con William Andrew.

Quello che aveva notato era che Susanna era molto più nervosa ed assente da quando la stampa aveva iniziato a a parlare del miliardario di Chicago e della sua consorte di ritorno dall’Africa.

Ora, finito l’ultimo spettacolo, lei sembrava ancora più assente.

“Susanna, io…vieni a cena con me stasera? Mi piacerebbe portarti in un ristorantino molto grazioso qui vicino, non ci disturberà nessuno, tanto per festeggiare…”

Jason ormai era bersaglio delle prese in giro di amici e colleghi: da due anni ormai faceva una corte serrata e costante a Susanna che non si accorgeva di nulla (i più maligni dicevano che lei faceva finta di non accorgersi delle attenzioni di lui per farlo cadere sempre più nella rete), questo malgrado lui stesso fosse oggetto di attenzioni da parte di molte signorine, più o meno costumate.

A volte sfacciato, a volte consapevolmente galante, era difficile che non si notasse la sua presenza ad un ballo, in strada o a un cocktail.

Prima dell’arrivo di Susanna la sua fama di conquistatore era mormorata alle sue spalle mentre ora veniva preso in giro platealmente perché aveva abbandonato le vecchie abitudini e lasciato molte signorine a bocca asciutta.

Susanna lo aveva colpito anche per la sua indifferenza a tutti i trucchetti che era solito usare per affascinare le sue prede: era come se lui nemmeno esistesse.

Sulle prime lui l’aveva presa come una sfida: più alta era la posta, più difficile la preda, più divertente sarebbe stato farla cadere ma si era infine reso conto della solitudine che quella tristezza ed indifferenza nascondevano. E se ne era innamorato, perdutamente.

Non riusciva a capire come Terence Granchester e William Andrew avessero potuto rinunciare a lei e spezzarle il cuore in quel modo…era menomata, era vero, ma questo non era un valido motivo.

“Susanna”, la chiamò di nuovo.

“Scusami Jason…non…non ho capito cosa hai detto…”

“Vieni a cena con me?”

“No, scusa, non mi va…”, sorrise debolmente, lo sguardo sui giornali, “vado a casa, sono molto stanca.”

Jason era al limite della sopportazione.

“Smettila di pensare a William Andrew!”

Le parole la colpirono come uno schiaffo: come aveva fatto a capire?

Lo fissò, vedendolo forse per la prima volta.

“Possibile che tu debba pensare ancora a lui? E’ sposato, ha un figlio!”

Susanna fece un passo indietro, Jason si era proteso verso di lei, arrabbiato e minaccioso. Lo guardò senza riuscire a pensare ad una risposta coerente.

“Non puoi andare a avanti così!”

Lei scosse la testa: “Non puoi capire…”

Lui era sempre più furente.

“Non posso capire, eh? Capisco che per lui hai rinunciato a vivere! Capisco che sei tornata a recitare per non pensare a lui! Capisco che sarebbe ora che tu la smettessi! Nessuno merita il sacrificio della tua vita sull’altare del ricordo, qualunque cosa ci sia stato tra voi!”

“Smettila, non parlare così!”, mormorò flebilmente Susanna.

Jason le si era avvicinato, prendendola per le spalle.

“Qualunque cosa ti abbia fatto quel vigliacco non merita che tu smetta di esistere!”

“Non è un vigliacco, è un uomo meraviglioso, un angelo”, gli rispose, lo sguardo perso nei ricordi.

“Sei ti ha ridotta così tanto angelo non può essere stato!”, strinse ancora di più le mani sulle spalle di lei.

Susanna sollevò lo sguardo e gli rispose con un tono che mai le aveva visto usare al di fuori del palcoscenico: “Non tutti ti considerano un trofeo da conquistare!”, aveva stretto gli occhi fissandolo con freddezza.

La stilettata lo colpì in pieno.

“E’ per questo che mi hai sempre trattato come se non esistessi?”

“Perché tu non esisti!”, gli rispose durante.

Ah, è così che la pensi, allora?!  “Avevano ragione quando mi dicevano che la facevi apposta ad ignorarmi, era per esasperarmi!”

“Non mi interessa essere l’ennesimo trofeo di Jason Walton!”

“Ma avresti voluto essere il trofeo di William Andrew!”

“Non sei degno nemmeno di pulirgli le scarpe!”

“Ah, davvero!?!?”, strinse ancor di più la presa e la tirò a sé per poi circondarle le spalle mentre la baciava in modo rude ed impetuoso.

Susanna cercò inutilmente di opporre resistenza ma si sottrasse al bacio solo quando lui le consentì di farlo.

“Sei un essere spregevole!”, gli disse con le lacrime agli occhi mentre lui continuava a tenerla saldamente contro di sé. Le lacrime velavano gli occhi azzurri ma non riusciva a muoversi.

“Ti aveva mai baciata così?”, le chiese con ancora la rabbia nella voce.

Lei scosse la testa: “No! Non mi aveva mai baciata e basta! Come hai potuto?!”

Con una mano le accarezzò il viso, la risposta che gli aveva dato lo aveva fatto sentire un verme: “Scusami Susanna, ho perso il controllo” ma lei continuava a piangere silenziosamente.

“Dammi una possibilità, ti prego…”

“Jason, io…”

“Fidati di me, non ho fretta, saprò aspettare ma dammi una possibilità.”

“Io, io…non ci riesco…”

“Non ce la farai mai se continui a chiuderti in te stessa…”

Le lacrime continuavano a scendere, inarrestabili. Senza sciogliere l’abbraccio prese a baciarle il viso, asciugandole le lacrime ora con le dita, ora con le labbra; la sentì rabbrividire.

Susanna si sentiva come febbricitante, aveva perso tutte le forze: da troppo tempo aveva bisogno di sentirsi accarezzare, baciare, coccolare.

Quando aveva compreso il proprio errore aveva cercato Marian per spiegarle tutto, non voleva avere sulla coscienza anche William dopo Terence.

Marian era stata difficile da convincere.

Presentarsi poi nella sala gremita cercando di apparire tranquilla era stato l’ultimo sforzo che era riuscita a fare prima di chiudersi in camera propria e guardare il soffitto incapace di piangere e sfogarsi.

Era stata Candy a consolarla come meglio poteva e ad accompagnarla alla stazione; non aveva voluto vedere William, troppa vergogna, anche se lui aveva chiesto sue notizie.

Così, mentre il treno lasciava la piccola stazione di Lakewood, Susanna aveva guardato a ritroso nella memoria alla ricerca del punto in cui aveva iniziato ad equivocare il proprio rapporto con William e non era riuscita a venirne a capo: sapeva solo rintracciare il momento in cui era divenuta consapevole del sentimento che provava per lui.

Tutto ciò che era avvenuto dopo il suo rientro a New York era stato uno stillicidio continuo di notizie dolorose: il fidanzamento ufficiale, il matrimonio, la partenza per Londra e quella per l’Africa e tutti i pettegolezzi su una coppia tanto ricca e conosciuta quanto schiva e riservata ed ora, dopo due anni, la nascita di quel bambino che lei aveva desiderato a lungo di poter portare in grembo. Invano.

Le notizie erano state, tutto sommato, poco numerose , la riservatezza di William non aveva dato molte occasioni per spettegolare ma, a maggior ragione, ogni notizia sugli Andrew aveva un peso reale perché comunicata per via ufficiale.

Non aveva così potuto dubitare nemmeno per un attimo che quell’unione non potesse andare meno che bene e che quel bambino che Marian portava in braccio con orgoglio e tenerezza non fosse stato voluto con tutte le forze da entrambi i genitori.

Un altro sogno che si infrangeva sugli scogli della realtà.

Il senso di vuoto che provava nel cuore e nella mente da mesi si era spostato più in basso, là dove avrebbe voluto sentire suo figlio muoversi. Il desiderio di maternità che la attanagliava da tempo era divenuto via via più acuto e, con esso, la consapevolezza che non si sarebbe mai realizzato con William…e forse con nessun altro.

Era difficile riuscire a pensare il proprio mondo senza di lui, era impossibile pensare qualcun altro accanto a sé al posto suo.

Impossibile, non quando ciò che si era perduto era così prezioso, nemmeno per Terence aveva sofferto tanto e tanto a lungo, forse su Terence si era illusa di meno.

Jason era entrato nella sua vita perché lei l’aveva voluto: era andata a cercare quel giovane impresario di cui tutti parlavano con simpatia per trovare un modo di riavvicinare quel mondo che le mancava.

Aveva parlato con Terence, poi con Robert Hataway, le prospettive erano incoraggianti ma lei non se la sentiva di tornare in quel teatro dove la sua vita era andata in pezzi insieme al riflettore. Terence aveva capito e l’aveva aiutata a trovare una soluzione e proprio grazie ad un amico di Terry era arrivata a Jason e alla sua compagnia.

Aveva dovuto ammettere che era un bel ragazzo ma la fama di libertino  che lo seguiva ovunque gli aveva conferito un aura di poca rispettabilità che non le piaceva affatto: di fronte a William, poi, non c’era aspetto in cui non risultasse sconfitto.

Jason  però aveva anche molti pregi, sempre allegro, pieno di brio, paziente fino all’esasperazione, tenace ed infaticabile, si faceva perdonare i suoi eccessi di galanteria e i suoi modi talvolta troppo sfacciati e troppo diretti.

Si era accorta dell’inclinazione che lui aveva per lei ma non vi aveva dato peso, prendendola più per una posa assunta da Jason per mantenere la sua fama di dongiovanni.

Forse, in un altro momento lei avrebbe anche potuto considerarlo di più ma ora l’ultima cosa che voleva era sentirsi di nuovo presa e rifiutata.

Ora doveva riconsiderare tutto quanto ma si sentiva incapace di pensare: il calore del suo petto sotto le proprie mani la stordiva come il suo profumo che sapeva di sandalo e muschio.

“Non ce la farai mai se continui a chiuderti in te stessa…”

“Io vorrei solo morire”, mormorò Susanna, “mi sento così sola” ma quella frase non era per lui, era solo un pensiero a voce alta.

Jason la strinse di più, cullandola come si fa con i bambini impauriti e Susanna lentamente si lasciò andare, ricambiando timidamente l’abbraccio.

“Brava, così”, le disse nascondendo il viso nei capelli di lei e baciandole il collo, molto vicino all’orecchio.

Sentì una scossa percorrerle la schiena e provò una fitta al basso ventre; si vergognò ma desiderò che lo facesse ancora. E lui lo fece mentre lei non riusciva ad impedire alla propria testa di muoversi percettibilmente ed appoggiarsi a quella di lui.

Jason sorrise: “Brava Susie, lasciati andare…”, mormorò.

La guardò per un attimo e le appoggiò un bacio sulla fronte: non poteva sapere cosa stava evocando.

Susanna ebbe una fitta al cuore e chiuse gli occhi: William!

Scoppiò in un pianto dirotto che la portò ad avere i conati per la violenza dell’emozione, due anni di lacrime trattenute: non aveva più pianto da quando lo aveva fatto, per l’ultima volta, tra le braccia di William.

Jason la lasciò piangere, cullandola: aveva compreso che quel pianto era l’inizio del cambiamento.

Quando si fu calmata un poco Jason le prose un bicchiere d’acqua mentre con un fazzoletto umido le lavava il viso.

“Ora basta davvero. E’ l’antivigilia di Natale, ora tu ti cambi, ti vesti bene e vieni a cena con me…”

Lei fece per replicare ma Jason continuò imperterrito mentre le puliva ancora il viso e gli occhi.

“E voglio vederti sorridere perché oggi cominci una nuova vita: con me se vorrai. Se non mi vuoi, pazienza, mi getterò da una rupe per il dispiacere e tu avrai rimorso per tutta la vita…”

“Susanna accennò un sorriso: “Non lo faresti mai!”

“Vuoi vedere?”

“Ti tratterrebbe qualcuna delle tue amichette!”

“Non ho amichette, congedate tutte, non mi interessano più!”

Susanna scosse la testa.

“Non ci credi, eh?”

“No”, sorrise di nuovo, “Il lupo perde il pelo ma non il vizio!”

Lui le prese il viso tra le mani: “Voglio solo te, non so cosa mi hai fatto, maledizione, ma voglio solo te e se mi dici di no mi butto da un grattacielo!”

Susanna lo osservò, seria: non stava scherzando e questo le fece piacere…era bello sentirsi desiderata…

“Ne saresti capace!?”

“Già!”

“Ti butti anche se ti dico di no per la cena?”

“Inizio con quella…”

“Ti butteresti per così poco?

“In realtà no ma devo fartelo credere così mi dici di sì e posso continuare a farti una corte spietata fino a domani…”

“Perché fino a domani?”

“Perché domani ti chiederò di nuovo di uscire con me altrimenti mi butto dal ponte di Brooklin!”
Susanna rise mentre lui sorrideva: “E’ così che voglio vederti!”

“Pensi di continuare a lungo con i ricatti?”, gli chiese divertita.

“No, tanto prima o poi mi supplicherai di invitarti a cena…”

“Ah! Sei convinto di questo?!”

“Sì”, e le sfiorò le labbra con un bacio.

Lei lo guardò perplessa: “Senti un po’, io…”

“Vedi? Siamo già a buon punto!”

“Perché?”

“Non mi hai ancora preso a schiaffi , non hai iniziato a piangere e non sei scappata via inorridita!”

“Senti tu, presuntuoso che non sei altro!”, gli disse assumendo una posa esageratamente minacciosa.

“Mi dica, mia signora!”

“Fai poco lo spiritoso!”

“Potrei riprovare…”

“A fare cosa?!”

“Mai fare di queste domande!”

Susanna si trovò di nuovo tra le braccia di Jason, stavolta il bacio era dolce e sensuale e si lasciò andare molto più di quanto avrebbe voluto.

“E’ questo che ti ci vuole, una cura di baci e coccole!”

Susanna lo spinse via: “Nessuno ti ha dato il permesso!”, ma la testa le girava e si sentiva strana.

“Non ne ho bisogno!”

“Come non ti serve?”

Lui la baciò di nuovo…

“Jason!”

“Va bene, la smetto, aspetterò paziente che tu cada ai miei piedi implorandomi, però ora andiamo a cena, vuoi?”

“Va bene”, si sentiva confusa, “Dove hai detto che andiamo?”

Prese i cappotti e la condusse fuori, spegnendo le luci del camerino.

Due voci si sentivano nel teatro ormai vuoto

 “Non l’ho detto…”

“Hai detto ristorantino carino, quale sarebbe?”

“Due isolati verso sud”

“Quello italiano?”

“Sì”

“Non ho mai mangiato niente di italiano…”

“Ti piacerò!”

“Mi piacerà, vuoi dire..”

“No, intendevo dire proprio che ti piacerò e alla fine mi amerai alla follia…”

“Sei troppo sicuro di te”

“L’unica cosa di cui sono sicuro è che ti amo…”

“Jason…”

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