100 years ago.

di Reyvateil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rember. ***
Capitolo 2: *** Once you met him... ***
Capitolo 3: *** Fresh air. ***
Capitolo 4: *** Sunset. ***
Capitolo 5: *** Monsters of the Past. ***
Capitolo 6: *** Last very good times. ***
Capitolo 7: *** Soul's Eyes. ***



Capitolo 1
*** Rember. ***


Mi scendono le lacrime.
 
Ricordare sembra così difficile ed allo stesso tempo naturale; le immagini sono offuscate, le luci affievolite, eppure un sentimento di nostalgia mi pervade al punto di scoppiare.
Vorrei essere morta. Vorrei essere stata con tutti loro, dall’altra parte. Vorrei aver passato la vita con coloro che sono diventati la mia famiglia, a Resembool, lontana da ogni problema… Ma se avessi scelto quella via, avrei aspettato per sempre qualcuno che non sarebbe mai arrivato.
Mi chiedo perché sono sola al mondo, i ricordi di una vita passata mi stringono le carni, gli organi sembrano contorcersi e non riesco a respirare, perché la mia aria non è qui. Questo mondo mi ha mai amata?
E’ assurdo, mi sembra di aver vissuto più di cent’anni e allo stesso tempo sono ingenua come una ragazzina. Ricordando ciò che sono stata, la mia anima si carica di un peso che a malapena riesco a sopportare, ma voglio scrivere. Come se fosse il primo giorno, il momento in cui un soldato mi puntò la pistola contro, in una notte piovosa e senza Dio. Il giorno in cui venni catturata, e paradossalmente la mia allora miserabile vita cambiò.
 
 

Chapter One – Remember
 

 
Notti turbolente quelle che recentemente vedevano protagonista Central City, una capitale tuttavia mai stata famosa per la sua quiete. Ai cittadini del cuore pulsante di Amestris era stato consigliato di fare attenzione durante il giorno e di restare chiusi nelle loro abitazioni al calar del sole, per la loro sicurezza ma anche per non ostacolare le operazioni di ricerca, ciò che le autorità chiamavano “La grande caccia”.
Sembrava una corsa alle chimere, con tanto di taglie, ma ad una disgraziata come me poco importava; tutto quello che per me c’era da sapere, era che dovevo scappare veloce come una scheggia.
Diluviava, il che mi rendeva incredibilmente difficile saltare da un tetto all’altro senza scivolare. I soldati lungo la strada lo sapevano, e continuavano a tenermi d’occhio percorrendo i marciapiedi senza mai salire. Erano silenziosi, ma inutile dire che li avevo fiutati.
Fu un attimo, e delle tegole cedevoli mi fecero catapultare di sotto; ci fu un gran trambusto, finii della spazzatura… E quando tirai la faccia fuori dai sacchi sporchi, un soldato mi stava puntando il fucile a pochi centimetri di distanza. Non aveva idea che sarei sbucata fuori tanto vicina a lui e i suoi occhi facevano intendere la sua paura, era immobile.
 
“Che cazzo aspetti, spara!!”
 
Un rumore assordante, e le scene successive vennero accompagnate da un fischio continuo e disturbante nella mia testa. Fui abbastanza veloce da spostarmi, uscire dal vicolo in cui mi trovavo e correre per strada. A quattro zampe ero ridicolmente più veloce di loro e per una volta ringraziai dio per questa maledizione, ma proprio quando ero certa di averli seminati, un piccolo, pungente dolore mi prese la schiena. Sentii il dolore di uno spesso ago nella carne, poi tutto divenne buio.
 
“Ecco, le luci la stanno svegliando.”
“Come fai a sapere che si tratta di una femmina?”
“Non lo so infatti, ma bestia, creatura e chimera sono tutti nomi femminili no?”
“Avete visto le orecchie? Ha anche la coda… Buon Dio, è un mostro.”
“SILENZIO!! State pronti, apro la gabbia, non sappiamo che intenzioni abbia.”
 
Mi svegliai. La luce dalle feritoie divenne sempre più intensa e sebbene il mio corpo fosse parzialmente paralizzato riuscii a strisciare verso l’uscita di quella gigantesca gabbia in cui non sapevo quanto avessi dormito.
Dinanzi a me si stanziava un ragazzo biondo, vestito di nero. Non avevo ancora sentito la sua voce, ma sembrava intenzionato ad avvicinarsi pericolosamente a me. Tirai fuori i denti e di colpo congiunse le mani, creando delle scintille azzurrine. Sapevo bene di cosa di trattava, della mia rovina che era tornata a trovarmi.
L’alchimia.
Il ragazzo però non fece null’altro, aspettava una mia mossa e ci ritrovammo a fissarci per brevi secondi, dopodiché riuscii a sedermi, incrociando le gambe per riacquistare un minimo di movimento agli arti e soprattutto di dignità.
“Volete sopprimermi?” chiesi secca. Morivo di paura, ma per loro avevo la faccia di una che non aveva più nulla da perdere. Si stupirono tutti in quella sala, che ad una seconda occhiata era spoglia e grezza, dovevamo essere in uno scantinato.
“Sa parlare!” si ripetevano dei soldati impauriti dietro il ragazzo.
“Indietro per favore” il biondo infine si rivolse agli uomini “Fatemi fare il mio lavoro, prima finirò e prima me ne andrò da questo postaccio umido.”
Si rivolse a me, chinandosi per guardarmi in viso. Era passato troppo tempo dall’ultima volta in cui qualcuno si era avvicinato tanto a me senza timore. “Chi sei?”
“Non lo so.”
Bugie mal nascoste. Non volevo problemi, non volevo legami, volevo soltanto essere lasciata in pace. Avevo dimenticato cosa significasse essere aiutata da qualcuno, cosa ci si sentisse a sperare, o ad essere amati.
“Non ti farò del male, devo solo catalogarti. Siete in tanti e il mio inutile compito è quello di ricavare il maggior numero di informazioni da ciascuno di voi.” Il ragazzo non sembrava affatto entusiasta del suo lavoro.
“E poi mi sopprimerete?”
“No, piantala di chiederlo! Voglio dire… Non è questo il tuo problema principale. Parliamoci chiaro” si sedette davanti a me, notai che era davvero basso, considerando l’età che mostrava il suo viso.
“Vuoi essere sezionata? Perché se non risponderai alle mie domande o farai la finta tonta è così che finirai. Qui dentro sei solo carne da macello, poco importa se sai parlare… Anzi, forse così saranno incuriositi ancora di più da te. Salvati la vita, avanti, e dimmi qualcosa che non so.”
Il mio sguardo cadde sulle mie ferite mentre il ragazzo parlava. Ero ridotta male… La mia pelle era di un bianco impressionante, ero diventata magrissima dall’ultima volta che mi ero vista allo specchio ed ero piena di contusioni violacee, qua e là qualche cicatrice. Ma il fianco non era ancora guarito, e l’infezione produceva un pus poco invitante.
La porta della stanza grigia di spalancò facendoci tutti sobbalzare e un baldanzoso uomo in divisa fece irruzione.
“Acciaio!! Come sta procedendo, ti diverti?”
Il giovane distolse lo sguardo, seriamente infastidito, per poi borbottare “Colonnello, mi sta disturbando, se ne vada al diavolo.”
“Quanto siamo acidi, ti ricordo che sono un tuo superiore. Sei tu che hai perso la scommessa, e a te tocca questo lavoro. Sorridi o sarò costretto a ordinarti anche di pulire le feci di tutte le gabbie, ahahah!”
Era un uomo sulla trentina, moro, occhi neri come la pece, sottili. Di bell’aspetto, anche se non avrei saputo giudicare bene; avevo quattordici anni all’epoca, e gli ultimi tre li avevo passati tra fango e rovine.
“Colonnello Mustang” li interruppe un soldato semplice “Faccia attenzione, l’abbiamo appena liberata.”
Sentii i suoi occhi su di me, lo sfidai con lo sguardo.
“Ma cosa abbiamo qui… Pare una donzella! Quegli occhi senza pupilla possono aver fatto un po’ impressione, ma io li trovo piuttosto teneri. Quindi smetti di fissarmi come se potessi prender paura. Capisci quello che dico, vero? Ne sono certo, lo capisco dalle tue espressioni ragazzina.”
“Sa parlare, Mustang.” Aggiunse il ragazzo basso.
Gli occhi del moro si illuminarono “Allora di umano in te c’è davvero molto, bel visino. E queste orecchie sembrano quelle di un grande cane. Sai a me piacciono i cani, sono i servi perfetti per un uomo perfetto!”
Scattai in avanti ancora prima che potesse prendere fiato dalla sua ultima pomposa frase e con un salto gli fui davanti a denti scoperti.
Non potevo sapere che quella mossa avventata avrebbe rischiato di ustionarmi il viso. Mustang schioccò le dita e una linea di fuoco ci distanziò in pochi attimi di secondo. Mi scottai senza rovinare troppo la pelle, ma faceva ugualmente un male cane. Indietreggiai uggiolando.
“Colonnello, che fa!” si agitò Acciaio.
“Che ragazzina audace. Ti chiedo scusa, non avevo visto la coda di lupo. Per essere una chimera sembri piuttosto orgogliosa del tuo sangue, eh?”
 
“Non lo sono” risposi fievolmente.
 
“Per ora basta, Colonnello la prego se ne vada. E’ ferita e infastidita, non ci dirà nulla oggi.”
Il ragazzo si rivolse a me, cortesemente “So che è paradossale chiedertelo ma… Per favore, torna nella gabbia. Non vogliamo ricorrere alla violenza.”
Senza ribattere, gattonai fino alle sbarre, per poi farmi rinchiudere. Non avevo troppa scelta e ora che ero arrivata fin lì, tanto valeva vedere cosa mi avrebbe riservato il futuro.
“Te lo chiedo un ultima volta… Mi sopprimerete?” chiesi sconsolata.
I soldati che gremivano la stanza uscirono ordinatamente, seguiti dall’Alchimista di Fuoco, il quale socchiuse la porta, la mano sulla maniglia ad aspettare l’arrivo del giovane per lasciarmi definitivamente sola.
Acciaio gli fece un cenno, per poi avvicinarsi alle mie sbarre.
“Troverò qualcuno che si prenderà cura di te.”
Vidi Mustang sorridere. Uscirono e chiusero la porta a chiave, le luci si spensero.
Mi raggomitolai su me stessa trovando conforto nel mio stesso flebile calore e mi addormentai.

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Capitolo 2
*** Once you met him... ***


Nel buio i miei sensi si acuivano; esso era diventato mio amico da molto tempo e stava portando alle mie orecchie dei rumori provenienti dal corridoio di quello strano scantinato. Passi, incredibilmente pesanti, metallici, risuonavano nello spazio lontano come se fossero state delle scarpe di ferro. Man mano che si avvicinavano alla porta li sentii diventare più leggeri, meno marcati, come se la persona volesse non farsi sentire, in una maniera un po’ impacciata.
 
 
Chapter Two: Once you met him…
 
 
Ormai ero sveglia e all’erta, aspettavo solo il momento in cui la maniglia si sarebbe mossa nel buio. Il cigolio della porta mostrò uno spiraglio di luce, una sagoma molto alta si stanziava all’entrata.
“… Sto per accendere la luce…” disse una voce, aveva un riverbero innaturale.
Nonostante la lampada della stanza fosse in pessime condizioni e non illuminasse molto, dovetti stropicciare gli occhi prima di riuscire a vedere. Ciò che poi mi si presentò davanti era una armatura, alta e dalla stazza decisamente imponente. Come poteva una persona scegliere di vestirsi in quel modo?
Mi stava guardando, risposi alle sue attenzioni mentre si avvicinava alla mia gabbia molto lentamente.
“ Ciao… Per favore, non avere paura” si abbassò al mio livello.
“Non ho mai detto di averla” risposi. Come potevo essere calma? Non avvertivo nessun odore di sangue, sudore o pelle oltre all’aroma ferreo di quell’involucro gigante, e in tutta sincerità ero confusa.
“ Ah… Beh, se le cose stanno così.. eh eh…”
Sembrava piacevolmente stupito della mia risposta e decise di aprire la porta della gabbia. Rimasi all’interno, senza capire. Forse sarei rimasta più al sicuro fra le sbarre…
“Non pensi che potrei scappare?”
“ Cosa? No, non lo penso… Sembri una brava persona…”
… Una “brava persona”? Prima di tutto non ero una persona, e in secondo luogo non sapeva nulla di me. Non capivo se fosse stupido o ingenuo. Chi era questo tizio? Come poteva la sua voce essere così dolce e flebile nonostante tutta quella imponenza? Sembrava un uomo molto giovane considerandone il timbro. Ma come avrei mai potuto fidarmi dopotutto… Lentamente però mi mossi a gattoni ed uscii.
Dopo aver fatto appena pochi passi sul pavimento una scossa di dolore mi fece piegare in due, la ferita tornò a farsi sentire e strinsi i denti per non uggiolare.
Un grande guanto di maglia mi trattenne dalla caduta in avanti e le braccia rigide dell’armatura mi raccolsero, facendomi sentire leggera come una piuma. Si sedette e mi adagiò nella culla formatasi tra le sue gambe. Rimasi senza parole, gli occhi sgranati, ero improvvisamente una bambola tenuta con cura nelle mani di un abile marionettista. Non disse una parola, si limitò a sospirare con un fare apprensivo mente si assicurava di essere delicato e dolce nell’esaminare il mio fianco, nonostante quell’impedimento metallico che ero sicura non avrebbe voluto. E io lasciai fare, dio solo sa il perché, come se conoscessi i suoi movimenti da una vita.
 
Questo è il primo vero ricordo che ho di Alphonse.
 
“ Ho bisogno di chiudere questa brutta ferita” asserì “Ti hanno levato il proiettile in fretta e furia senza preoccuparsi delle tue condizioni. … Sarai anche una chimera, ma non sei certamente immortale. Ti prego quindi, non agitarti, farà un po’ male.”
Tutto ciò che feci fu un accenno con la testa. Lui aprì una valigetta piccola e bianca che aveva tenuto dietro la schiena, attaccata alla cintura, prese gli strumenti appositi e cominciò a disinfettarmi, poi a cucirmi. Il dolore era insopportabile, ma quando i miei muscoli si irrigidivano troppo dalla tensione lui si fermava, appoggiando la sua grande mano sulla mia testa, fra le nere orecchie da lupo.
Non avevo mai provato quella sensazione. Da quando ero diventata un… mostro, nessuno mi aveva mai toccata, chi avrebbe mai voluto farlo; non capivo quindi come tutto questo stesse accadendo, vedevo la situazione scivolarmi tra le dita ma silenziosamente ne accettavo ogni singolo istante, come un tacito accordo fra me e lui, quel ragazzo di cui non sapevo nemmeno il nome.
“Mio fratello mi ha mandato qui. E’ un ragazzo molto diretto e… Cinico, alle volte, ma ha un gran cuore. Forse ti avrà dato un’impressione negativa ma non farti ingannare, non riesce a vedere qualcuno in difficoltà. Sai una volta eravamo in un villaggio e…”
“Grazie.”
Il ragazzo si fermò, guardandomi in viso. Non vedevo occhi oltre la fessura dell’elmo, tantomeno un volto, eppure riuscivo a capire un abbozzo di espressione.
“… Io… A- A pensarci bene non ho chiesto nemmeno il tuo nome, ti chiedo scusa, in effetti avrei-“
Sembrò soffermarsi ancora sui miei occhi, del colore del ghiaccio più insidioso e senza l’accenno di una pupilla, così spaventosi perché innaturali, eppure era l’ultima cosa di cui qualcuno doveva davvero temere nel mio aspetto. Credo che in quel momento egli capì qualcosa di me che ancor oggi non afferro.
“Mi chiamo Alphonse Elric.” aggiunse timidamente “ E… Non serve che dici nulla, devi solo rilassarti. Ho… Sentito cosa dicevano i soldati di te, cose davvero crudeli; ma ero sicuro che in realtà non avresti fatto del male. La gente spesso non va oltre il nostro mero aspetto fisico. Ah, ma aspetta! Ti chiedo scusa, non mi hai dato nemmeno il permesso di toccarti e io già ti sto cucendo la ferita…”
L’idea che continuasse a chiedermi scusa era a dir poco paradossale per la mia situazione. Ero passata dalla disumanità di una città intera all’umanità di un’armatura gigante.
Un’armatura tuttavia troppo leggera, e troppo sospetta. Avevo ormai la sicurezza che qualcosa non andasse e di una cosa ero ancora più certa: l’alchimia è capace di creare le peggio cose.
“Non ti chiederò nulla, Alphonse, tranne che una cosa… Non sei umano vero?”
Rimase silenzioso per diverso tempo, le mani immobili sulla mia pelle bianca e uno sguardo perso nel vuoto.
 
“Io mi chiamo Laisa.” Aggiunsi finalmente “E credo che in passato abbiamo condiviso lo stesso destino.”
Cominciò a tremarmi leggermente la voce e non riuscivo a nasconderlo, probabilmente mi ero accorta troppo tardi della delicatezza dell’argomento, e di quanto potesse essere inopportuno. Ma dopo un lungo periodo di buio, aggrapparmi al flebile sollievo che poteva donarmi il trovare un “maledetto” come me mi sembrò istintivo. Immediato. Vitale. …Più avanti capii che anche Alphonse, dietro ai suoi dolci modi di fare, nascondeva una tristezza che neanche l’affetto dei suoi pochi cari poteva sanare. Si dice che la solitudine sia ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno; io sono dell’idea che si sentisse perdutamente solo nel non poter condividere quanto quella disgrazia gli fosse costata cara, forse nemmeno col suo stesso fratello, compagno delle più grandi sventure.
“Se i miei pensieri e sentimenti sono reali” riprese ad armeggiare sulla mia ferita, ma in modo più lento ed  incerto “Allora qualcosa di umano in me ancora esiste. Certe domande però rischiano di farci distogliere lo sguardo da ciò che realmente sta davanti a noi, dalla nostra missione e dalle cose vere di questa esistenza. Certe domande ci lasciano indietro, alle volte senza forze. Per questo mi sforzo di non pormele. E comunque.. Piacere di conoscerti, Laisa.”
Stava già indirettamente condividendo le sue esperienze, dandomi dei consigli che mi sarebbero stati cari in futuro. “Ecco, ho terminato” concluse.
Avevo totalmente smesso di pensare al dolore dei punti e in un attimo il lavoro fu finito; mi tornarono alla mente i rammendi di mia madre, dopo le rovinose cadute sulle ginocchia che una bambina indisciplinata come me soleva fare. La differenza stava però nel fatto che lei non cercasse in alcun modo di negarmi il dolore, come se sperasse che questo mi avrebbe dato un’importante lezione di vita.
Il ricordo mi strinse il cuore, cercai di farlo svanire così come era tornato a galla.
Alphonse rimise gli attrezzi al loro posto e chiuse la valigetta, poi si alzò “Ascolta, tra qualche giorno torneranno da te per “metterti alla prova”. E’ molto probabile che saranno bruschi con te, ma non perdere la pazienza: al primo segno di aggressività da parte tua perderanno la loro clemenza, che già è poca. Io… Non posso darti certezze, ma credo che il tuo caso sia risultato abbastanza interessante da non venire ignorato. Quindi sii fiduciosa, capito?”
“Tra qualche giorno” lo guardai con una triste speranza negli occhi “Anche tu ci sarai?”
“Io… Purtroppo non posso assicurartelo… Laisa” era strano il modo in cui pesava le parole.
“Farò del mio meglio”.
Si avvicinò alla porta e la aprì.
“Non… Non mi rimetti in cella?” dissi esitante, ero davvero confusa.
“Mi sembra di aver capito che i tuoi sensi sono ben allenati, immagino ti accorgerai in fretta se arriva qualcuno. Sarà un segreto fra noi due, ok?”
Sorrisi. Chi si ricordava cosa significasse? Mi sentii di nuovo una quattordicenne qualunque, per qualche istante, una di quelle ragazzine che si affacciano ancora piene di innocenza al mondo adulto, che magari sperano di coronare un sogno quasi sempre impossibile o sognano di tenere la mano al loro compagno di scuola. Io non avevo ancora capito molto degli adulti o dei miei coetanei, ma sapevo elencare mille motivi per cui avrei dovuto evitarli; la paura era tanta, e per una ragazzina resta sempre un trauma. Ma in quel momento mi sentii respirare a pieni polmoni, senza tremare, senza il cuore a mille o le orecchie ritte e all’erta.
“Grazie Alphonse.”
“No” disse col tono di divertita complicità, prima di richiudermi dentro al mio mondo dalle fredde e umide mura.
“…Grazie a te.”

 
 

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Capitolo 3
*** Fresh air. ***


Era passato diverso tempo da quando Alphonse mi aveva fatto visita, credo due settimane; degli addetti venivano solo a svuotare la mia latrina e a darmi da mangiare, anche se li avevo visti sì e no 4 volte in tutto.
Lo spiraglio di luce dalla porta tornò a farmi visita. Ero assopita e non l’avevo previsto, ma fortunatamente mi ero rintanata nella gabbia prima di coricarmi, la sera prima. Non vidi entrare nessuno, ma dalla porta socchiusa si sporse la canna di quello che doveva essere un fucile di precisione. Prima che me ne accorsi fui sedata.

Chapter Three: Fresh air.

“E’ mattina?” pensò la bambina, stropicciandosi gli occhi dal lettino della sua stanza. Si spostò dal viso i capelli, lunghi e arruffati, di color biondo scuro. La luce tiepida filtrava dalla finestra, decise dunque di alzarsi ed andare in quella che doveva essere la cucina. La sua era una casa povera, ma ricca di tradizione. Suo padre, figlio di Ishibar, l’aveva ornata con pochi umili arazzi e tappeti dai disegni antichi, qua e là diversi cuscini dalle calde tonalità orientali. Sua madre invece, originaria del Nord, esprimeva la sua cultura unicamente attraverso i vestiti che indossava (e alle volte cercava di influenzare i figli). La donna dai folti capelli chiari e la pelle ormai abbronzata dal sole del sud-est stava preparando la colazione.
La bambina le corse incontro stringendosi al suo grembiule, mentre i tre fratelli erano già seduti a tavola, affamati.
Un bell’uomo dalla pelle ambrata, gli occhi rubino come i suoi figli e uno sguardo sempre giovane entrò in casa. “Papà!!” esclamarono i ragazzi e la piccola, unica ad aver ereditato gli occhi chiari della madre “Sei tornato finalmente!”
“Com’è andata tesoro?” chiese ansiosa la donna. Il marito le rivolse uno sguardo triste, ma riservò un sorriso ai suoi figli che intanto erano già venuti ad abbracciarlo “Andrà meglio, vedrai. Ishvara veglia su di noi.”
A queste parole ella sospirò scoraggiata; era sempre stato così da quando aveva deciso di lasciare tutto per sposare quell’uomo dell’est. Per quanto si sforzasse di vedere la sua vita in modo positivo nonostante la povertà e la costante preoccupazione per il futuro dei suoi figli, ella non riusciva a sorridere come suo marito, e tantomeno poteva aggrapparsi alla fede di un Dio che non era mai stato suo.
“Kuriah, Laisa, Mourin, Levi” disse seccata “La colazione è pronta, venite a tavola.”
 
 
“E’ mattina?” avrei voluto dire, se solo non mi fossi trovata un bavaglio a serrarmi la bocca. Ero ancora stordita ma non avrei comunque potuto fare molto, considerando che mi avevano legata con dei lacci di pelle. Dei soldati mi stavano portando via come un sacco di patate. Mi avevano cambiato i vestiti, o meglio mia avevano levato i cenci che continuavo a indossare da settimane. Avevo un paio di pantaloni color grigio chiaro, molto comodi devo ammettere, ideali per l’esercizio fisico, e una canotta abbastanza impersonale, leggera ma che non accennava a mostrare le mie curve da adolescente. Non si sprecarono a mettermi dei calzari e fu un bene, perché i miei piedi erano abituati da ormai troppo tempo a correre nudi, forse tutta la mia vita.
Mi mollarono per terra senza il minimo tatto, svegliandomi del tutto. Potevo vedere diverse reclute accerchiarmi, mi trovavo in quello che pareva un cortile, o un’area all’aperto, avevo terra sotto di me. Mi schioccarono le dita davanti al muso per vedere se ero ricettiva, dopodiché rividi Mustang, davanti a me, con un fare freddo e una cartella in mano.
“Soggetto n° 147” lesse “Sarai protagonista di una serie di test a scopi militari. Non ribellarti, non fuggire, renditi disponibile per il bene della ricerca, e non ti sarà fatto alcun male.” Mi guardò negli occhi per cercare un segno di approvazione; ricordai le parole di Alphonse e feci cenno col capo. Non vedevo nessun viso familiare attorno a me… mi mancava quel ragazzo.
Il moro sfogliò la prima pagina “Iniziamo dal tuo nome”
“Laisa.” Già alla mia risposta gli uomini parvero sorpresi. Dovevo dimostrare loro che ero più umana di quel che pensavano.
“Laisa… e basta?”
“Senhanger.”
“Originaria di…?”
“Neara.”
“E’ un paese vicino a East City se non sbaglio, ci sono stato. Insolito, il tuo cognome è tipico del Nord” aggiunse l’uomo. Nonostante questa imprecisione annotò comunque tutto sul foglio. Pensai infatti che sarebbe stato meglio dare il cognome di mia madre, non volevo essere ulteriormente discriminata. In fondo, credo che lei avesse sempre voluto così, una piccola protezione in un mondo di odio insensato.
I soldati iniziarono a rasserenzarsi, ma i loro sguardi continuavano a comunicarmi chi comandava. “L’intervista” andò avanti, risposi come potevo alle loro domande, quasi tutte mentendo. Mustang non mi pareva certo l’ultimo degli stupidi e credo mostrasse una certa complicità, visto che non contestò nessuna delle informazioni che gli fornivo. Pensavo che “la prova” sarebbe stata più difficile, che avrebbero davvero testato la mia pazienza, cosa che mi preoccupava non poco.
“Bene” concluse “Credo sia arrivato il momento di un buon caffè.”
“Se permettete… Io dovrei usare il bagno.”
Stupii tutti con quella affermazione. Fino al giorno prima avevo una misera ciotola nella gabbia in cui fare i miei bisogni, ero stata lasciata a un metro dalle mie stesse feci, ma questo non significava che non sapessi usare un water. Il Colonnello incaricò tre dei suoi uomini per portarmi alla latrina del campo.
Io stessa mi trovai un po’ strana a comportarmi come una persona normale dopo tanto tempo; mentre sfruttavo la privacy che mi avevano concesso tra le quattro scarne mura del “bagno” sperai che le cose sarebbero migliorate da quel giorno in poi.
Mi dovetti ricredere non appena uscii. Le mie guardie del corpo non c’erano più, ma davanti a me trovai altri due uomini, sempre in divisa da soldato semplice, con dei sorrisi poco raccomandabili.
“Che ti dicevo” commentò il primo “E’ quasi carina per essere una mezza cagna, guarda che bel visetto”
“Hai ragione” rispose il secondo “Ma vedo che non c’è nessuno a prendersi cura di lei qui. Forse dovremmo rimediare” si avvicinò a me e fece per prendermi il mento fra le dita, ma indietreggiai bruscamente, guardandoli in modo minaccioso. Sapevo già come volevano che finisse la faccenda, era già successo. Non vedevo nessuno in quell’angolo del campo a parte noi; eravamo all’improvviso completamente soli.
“Non ti va, mocciosa? Guarda che siamo signori per bene noi…” iniziai a ringhiare in risposta.
“Guarda che questa cagna morde” un ragazzo mi spinse contro il muro e mi fermò saldamente la mascella con una mano, e prima che me ne resi conto mi bloccò le gambe con una delle sue. Era forte abbastanza per fermare una ragazzina, le mie mani non riuscivano ad arrivare al suo collo per fargli del male; sentii la tachicardia prendere piede in me e l’istinto lottava contro la ragione, cominciarono i soliti tremolii.
“Non ora, Blue, da brava” pensai “Lascia che qualcuno venga a salvarci. Forse stavolta sarà diverso…” ma una forza si ribellava, come se cercasse di uscirmi dal petto; sentivo le sue unghie, la sua fame, non avrei fermato la Lupa ancora a lungo… Ma a quel punto sarebbe stato un guaio, con due soldati grondanti di sangue il Colonnello non mi avrebbe mai più fatto vedere la luce del sole.
“Dici che è davvero così feroce?” chiese intanto l’altro uomo “Peccato, volevo darle qualcosa da mettere in bocca. Vorrà dire che la domeremo alla vecchia maniera” abbassò la zip dei pantaloni e cercò di fare lo stesso con i miei, bloccarmi le braccia.
“Non voglio… Non voglio” supplicavo silenziosamente. Stavo pregando per mantenere la calma mentre i miei canini cominciavano già ad allungarsi, come anche le mie unghie. Pensavo che ormai non sarebbe più arrivato nessuno e che avrei dovuto scegliere tra la possibilità di tornare a vivere libera o uno stupro; ma proprio in quel momento vidi la terra sotto i miei piedi prendere le mie difese, si formarono degli spuntoni giganti che respinsero violentemente i due, facendoli cadere a qualche metro di distanza. Finalmente libera, caddi sulle mie ginocchia, cercando di trattenere le lacrime. Edward, il biondino che mi pareva di ricordare, ci corse incontro urlante.
“Cosa diavolo cercavate di fare?!?” era furioso, intrappolò i soldati tra delle sbarre alzatesi dal terreno e altrettante lastre appuntite minacciavano di tagliare loro la gola.
“Se non fossi passato di qua…” continuò “…Siete dei mostri! Molestare una ragazzina alla luce del sole, come fosse niente! Vi comportate così con le persone sotto la vostra protezione? Eh?!?”
“V… Veramente non eravamo noi le guardie incaricate… Le… Le abbiamo viste allontanarsi per fare una pausa…” rispose uno dei due tremante.
Edward era sempre più incollerito, ma decise di concentrarsi su di me. Mi chiese se ero ferita e se fossi in grado di alzarmi, cosa che prontamente feci, tenendo sempre la testa bassa dalla vergogna: l’avevo scampata bella, soprattutto perché Blue, il Lupo dentro di me aveva smesso di agitarsi.
“Brava lupacchiona… calma… respira…” Inspirai ed espirai profondamente, anche se con qualche difficoltà.
“Laisa… Giusto?” Ed sorrise, mi prese per polso delicatamente e mi portò via da quella orribile scena.
 
Da qual giorno in poi, strano a dirsi, le cose migliorarono. Edward ed io iniziammo a conoscerci e lui contestò apertamente il modo in cui ero stata trattata fino a quel momento. Si lamentò con Mustang per giorni e devo ringraziare lui se mi diedero una stanza solo per me, lontana dai dormitori dei soldati, al quartier generale. Ricordo ancora la prima volta che vi entrai.
“E’ piccola da far schifo, ma è decente. Sono certo che starai meglio qui.” disse Ed “Ma ci sono dei patti: dovrai continuare a farti studiare dagli esperti, non hai possibilità di ribellarti. Inoltre non ti è concesso per nessun motivo lasciare il quartier generale. E per finire…” sospirò rassegnato “Per i primi tempi, dovrai essere accompagnata.”
Nel frattempo io mi ero già silenziosamente adagiata sul nuovo letto, e trattenevo a stento le lacrime dalla gioia, sembravo una bambina il giorno di Natale “E chi mi accompagnerà? Sarebbe la volta buona che stacco la mano a qualcuno” dissi vagamente cinica, con la faccia sulle lenzuola.
“Mio fratello.”
Edward accennò un sorriso complice mentre mi voltavo verso di lui con il volto illuminato.
“Io non ho tempo per starti dietro e Alphonse è senz’altro più disponibile di me… So che ti sei comportata bene con lui e immagino che andrete d’accordo. E poi in questo modo non rischi di metterti nei guai.”
Feci un cenno, sorridente: doveva davvero essere Natale. Non parlavo molto all’inizio, soprattutto perché non riuscivo bene ad inquadrare Edward. Mi aveva salvata, ma i suoi modi bruschi mi confondevano.
Non potevo sapere che un giorno saremmo diventati grandi amici e che entrambi gli Elric, ognuno a modo proprio, avrebbero stravolto totalmente la mia esistenza.
Finendo dove non mi sarei mai immaginata di arrivare.
 
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Salve a tutti, sono Reyvateil, l'autrice. Non ho avuto occasione di parlarvi direttamente di questa storia finora. Vorrei prima di tutto avvertire che, nonostante sia un What if, verrà preso come punto di riferimento la prima serie animata di FMA (con rispettivo film): spero che questo non vi faccia perdere la voglia di leggere. Sono ancora nuova qui su EFP quindi non so bene come funzionano le dinamiche per quanto riguarda le recensioni (per questo il secondo capitolo è arrivato in ritardo e il terzo quasi subito) Immagino di dover pubblicare in fretta per non far perdere la curiosità, giusto? Sappiate che ci tengo moltissimo ai vostri commenti, sono gli unici feedback che mi permettono di capire cosa sto davvero combinando! Non credo che continuerei se alla lunga non ricevessi le vostre impressioni. 
Credo di aver detto tutto. Buon proseguimento!

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Capitolo 4
*** Sunset. ***


nda: scusate l'assenza, non vi tedio con le mie scuse. Ho un consiglio, ascoltate "Obstacles" di Syd Matters e "Santa Monica dream" di Angus & Julia Stone per questo cap. Buona lettura e commentate please!


Il sole stava tramontando su Central City. Tutto era rosato, più dolce, più tranquillo, più caldo. A partire dagli spogli palazzi fino al brusio cittadino. Sedevo a gambe incrociate sul tetto, all’ultimo piano infatti c’era uno spazio aperto dove si trovavano per lo più degli stendibiancheria. Le lenzuola dei dormitori ondeggiavano cullate dalla brezza di un autunno che ormai era giunto. Cominciava a far freddo, ma non me ne preoccupavo mai; il gelo mi faceva sentire viva, inoltre avevo delle buone difese immunitarie grazie al mio incrocio animale.
Restavo ad occhi chiusi mentre il sole salutava il mio viso, pensando che forse alla fine di tutto anche io potevo trovare la pace.
“Un giorno saremo entrambi felici.” Disse Alphonse, seduto accanto a me, scrutando l’orizzonte. Avevo una certa difficoltà a capire i suoi pensieri alle volte, per lui invece ero un libro aperto. “Sei molto espressiva” mi disse una volta “Anche quando hai quello sguardo duro e i tuoi occhi di ghiaccio minacciano l’omicidio, riesco a vedere oltre.” Solitamente rideva dopo affermazioni del genere, una di quelle risate chiare e leggere che mostravano la sua parte ancora infantile.
“Cosa ti fa pensare che un giorno saremo felici?” chiesi con un sospiro.
Lui mi guardò. Lo sapevo nonostante mantenessi gli occhi chiusi “Davvero non riesci a trovare un lieto fine?”
“Perché dovrebbe esserci proprio in questa storia un lieto fine…”
“Deve pur esserci una speranza.”
Allora mi alzai in piedi “Il giorno in cui troverò speranza” conclusi “Sarà il giorno in cui sarò libera di scegliere il mio destino.”
Rise. “Va bene, piccola ribelle. Spero che sarò lì per vedertelo fare.”
 
 
CHAPTER FOUR - SUNSET
 

“Ma quanto pesi Alphonse?”
Le mie dita davano dei colpetti inquisitori all’acciaio della sua armatura. Lo facevo spesso, lui mi lasciava sempre giocherellare con l’involucro della sua anima, a patto che fossimo soli. Nessuno doveva sentire quel cassone risuonare a vuoto o avrebbe destato sospetti. Mi sentivo spesso un cucciolo che mordicchia le cose di colui che l’ha adottato e che rimane impunito perché in fondo vuole solo giocare e scoprire il mondo.
“Non molto in effetti, ma più di te sicuramente”
“Sono così pelle e ossa?” feci un giro su me stessa per guardarmi meglio e tastai le mie cosce “Avresti dovuto vedermi tre mesi fa!”
 
Questo era uno degli innumerevoli discorsi fra me e Alphonse. Era diventato come la mia ombra lungo i corridoi dell’edificio militare, nonostante tutti si accorgessero della sua presenza. Il rumore dell’ armatura compensava il silenzio della sua anima e la calma impassibile che mostrava in alcune situazioni, al punto da darmi fastidio. Credo che la vicinanza al fratello lo avesse in qualche modo costretto nella parte del paciere, politicamente corretto in ogni situazione, nonostante mi rendessi conto di quanto anche Edward si sforzasse di apparire grande e maturo per lui.
Ero diventata più loquace, senz’altro più sorridente. E’ stato un periodo relativamente felice della mia giovinezza; Mustang non mi faceva mancare nulla, ero trattata abbastanza bene persino quando ero accerchiata da dottori e alchimisti che volevano mettere alla prova le mie capacità. Tuttavia il Colonnello non era mai venuto a farmi visita fuori dalle sessioni di test, aveva senza dubbio altro da fare.
Pensavo che anche Alphonse avesse un’agenda piena, nonostante non mi raccontasse mai nulla di ciò che facesse; ma si era messo in testa che doveva venirmi a trovare ogni pomeriggio, fosse stato anche per pochi minuti. All’inizio fu imbarazzante anche solo aprire bocca, ma lui era convinto che avessi invece bisogno di parlare per evadere dalla solitudine della mia stanza. Lo trovavo assurdo ma più mi aprivo, più magicamente ero in grado di tollerare la presenza di sconosciuti al momento dei test. Parlavamo del mondo, dei gusti personali, e più lui mi raccontava aneddoti divertenti della sua infanzia, più mi rendevo conto di quanto poco avessi vissuto la mia. Cercava sempre di farmi sorridere, tenendomi all’oscuro di tutte le cose orribili che aveva passato assieme “al fratellone” , alle volte pensavo addirittura che si inventasse delle storie per evitare quelle poche cose che gli chiedevo.
Dopo qualche settimana ero io ad aspettare l’arrivo del ragazzo che invece cominciò a saltare i nostri piccoli appuntamenti. Per farsi perdonare mi regalò una piantina grassa.
“… Ma cosa me ne faccio di questa?” chiesi piegando la testa di lato, con il piccolo vegetale fra le mani. Spesso le mie domande parevano aspre, ma il fatto era che parlavo spesso senza filtri, nonostante non volessi offendere nessuno.
“Cosa vuol dire? Niente, è una semplice piantina, Laisa! Devi prenderti cura di lei. Fortunatamente non dovrai annaffiarla molto. E’ abituata a poca acqua, mi ha ricordato i luoghi della tua infanzia di cui mi hai raccontato qualche giorno fa: voglio premiarti per avermi raccontato di Neara, la tua città, dato che non mi racconti mai questo genere di cose.”
La guardai crescere lentamente, quella cosina verde, giorno dopo giorno. Parlavo a lei quando Al non era nei paraggi, ormai i giorni in cui mi sarei mangiata pure quella pur di mettere qualcosa sotto i denti erano passati. Eppure alle volte la mia anima era ancora inquieta.
Inizialmente uscire dalla mia stanza era un parto, mi rifiutavo categoricamente di varcarne la soglia. Fuori c’era il mondo, la crudeltà dei soldati, e mi ero talmente abituata al diritto di un mio spazio che avrei voluto invecchiare lì, nonostante il mio inconscio premesse per scappare dalla finestra. Ma la paura era più grande.
 
Dopo settimane di suppliche, incoraggiamenti ed esortazioni da parte della mia guardia del corpo in metallo, un giorno sbottai. “Senti sei molto gentile Al, ma non me ne frega niente di uscire. Vai a dire a Mustang che obbedisco alle sue regole, che non do problemi e che mi comporto in modo normale, tanto non gli importa altro. Non mi interessa se me lo dici ogni giorno, non mi farai cambiare idea.”
A quelle parole lui rimase fermo in mezzo alla piccola stanza per qualche istante. Dopodiché sospirò amareggiato.
Ero troppo intenta ad innaffiare la piantina, che intanto avevo chiamato Isobel come mia madre, per rendermi conto che il gigante si trovava proprio dietro di me; con un movimento fulmineo mi prese di peso. La porta frontale della sua armatura era aperta e mi ci ficcò dentro senza dire una parola; cercai di ribellarmi in tutti i modi, ma era incredibilmente più forte di me e mi aveva preso alla sprovvista. Sapevo che per qualche motivo non ci fosse il corpo sotto quello strato di metallo, ma mi fece ugualmente un effetto incredibile.
“C-Cosa vuol dire tutto questo?!? Fammi uscire subito! Sto malissimo nei posti stretti, Al ti prego!” urlavo cercando di farmi strada almeno dall’uscita superiore, ma lui teneva saldo l’elmo con le mani; inutile dire che andai subito in iperventilazione, il buio inoltre non mi aiutava.
“L’hai voluto tu! Ora stai tranquilla e respira lentamente. Inspira… Espira… Inspira…”
Dopo qualche sospiro pesante riuscii a calmarmi, ma vidi sbigottita le mie gambe muoversi assieme a quelle di Alphonse “Cosa cavolo stai facend-“
“VUOI STARE BUONA!” la sua voce divenne minacciosa: poche volte l’avevo sentito così. Arrossii e stetti al gioco, d’altronde non mi restava molto da fare.
“Ora non fiatare, usciremo da qui. Sei al sicuro finché stai calma, quindi continua a respirare lentamente.”
Dopodiché non seppi molto; mi affidavo a quel poco che riuscivo a intravedere tra le giunture dell’armatura, per il resto mi sembrava di camminare senza meta, probabilmente facendo le scale di tanto in tanto. Mi sentivo una bambina, incapace di avere il controllo della situazione, ma mi dovetti affidare a lui senza condizioni.
 
Quando ci fermammo definitivamente, Al aprì la porticina e una folata fredda mi colpì il viso.
Davanti a me una vista mozzafiato della città dall’alto, il sole che calava all’orizzonte, un’atmosfera magica.
“Siamo sul tetto. Qui non viene quasi nessuno se non di mattina. … Io… Vengo spesso in questo posto.” Disse piano.
Ancora quella sensazione. Sentirmi cullata dalla dolcezza di quel momento, felice nelle mani di qualcuno che non mi volesse altro che bene.
“… Che succede? Non esci ora?” chiese dopo un po’.
Avevo la testa appoggiata a lato della parete di metallo, sognante. Ero al sicuro ma allo stesso tempo il mondo sembrava a portata di mano, pronto per mostrarmi il suo lato migliore. Potevo sentire gli uccellini, le foglie secche crepitare sotto i passi dei frettolosi, gli odori provenire dalle case in cui le famiglie si apprestavano a cenare, qualche campanello di bicicletta, e pensavo a quella parte dell’umanità che voleva del bene al prossimo, che viveva la sua vita in pace e semplicità, proprio come la mia famiglia di un tempo.
Quella parte che mi stavo perdendo restando chiusa nel mio mondo.
“Portami qui ogni giorno, te ne prego.”
“Non ti ci riporterò fino a quando non camminerai con le tue sole gambe.”
Accettai quel patto silenziosamente ma, indispettita, balzai fuori come un animale selvatico e con un salto gli rubai l’elmo, tenendo il suo lungo ciuffo fra i denti.
“Ma cosa..!!” inutile dire che non se l’aspettava. Gli lanciai un’occhiata di sfida scodinzolando, poi cominciai a correre in giro a quattro zampe. Era un ragazzo forte, ma non veloce quanto me e l’inseguimento durò un’ora almeno, tra risate, lotte e ruzzoloni; quando finalmente si riprese la sua testa mi accasciai a terra stremata con il più grande sorriso che potessi fare.
“Sei tenace Alphonse Elric” cercavo di riprendere fiato “dovrò ricordarmelo la prossima volta.”
“Stavo per dire lo stesso di te. Non sei un lupo, sei una gazzella!”
 
Da quel giorno, il tramonto sul tetto fu la prassi e quando Al non c’era, nonostante le incredibili difficoltà, cercavo di andarci da sola; ma non era mai la stessa cosa, mi mancava correre e giocare.
Una sera mi trovò distesa per terra mentre ululavo al cielo, sola e sfiorata dal vento. Sapevo che era arrivato ma feci finta di nulla poiché ero troppo presa dal momento di libertà, d’altra parte lui rimase in piedi alla fine delle scale, senza dire una parola, per molto tempo. Anni dopo mi disse che era rimasto come rapito da quella scena, non poteva credere che da quella ragazzina piccola ed esile potesse uscire una voce del genere, al limite tra l’umano e l’animale, pareva una triste canzone senza tempo; non aveva paura nonostante fosse la Lupa a parlare.
Ma ancora, nonostante i fiumi di parole, lui non sapeva niente di me né io di lui. Eravamo degli sconosciuti sfortunati, messi uno accanto all’altra come pedine a quel giocatore incallito che era il destino. Esitavamo entrambi ad andare oltre le solite domande; io volevo capire perché quando entravo nella sua armatura non potessi toccare quel simbolo alchemico fatto col sangue, e lui tentava timidamente di comprendere come una ragazzina si fosse cacciata in una situazione talmente paradossale. Sentivo un macigno pesarmi sullo stomaco, ed era diventato ogni giorno più grande da quando io ed Al eravamo diventati amici. Ogni giorno che passava eravamo più vicini, eppure le cose non dette lo allontanavano da me. Non avrei retto a lungo.
 
Le foglie autunnali erano ormai cadute da tempo, lasciando una malinconia che spesso ravviva i ricordi più reconditi. Ero immersa proprio in quel tipo di pensieri un pomeriggio di tanti anni fa, quando mi addormentai fra le lacrime appoggiata alla finestra della mia stanza. Sognai la lontana Neara, mia madre Isobel, la mia casetta, le giornate passate al mercato, quello sconosciuto che mi offrì un biglietto di sola andata per l’inferno… E poi… Blue…
Fui svegliata dal tocco delle sue grandi dita che cercavano di asciugarmi il viso come meglio potevano; presi quella mano nella mia e la strinsi forte.
 
“E’ arrivato il momento?” disse piano.
“Sì, è ora che tu sappia.”
 
 
 

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Capitolo 5
*** Monsters of the Past. ***


La pioggia picchiettava incessantemente sul vetro della finestra e il suo suono cominciava a trapanarmi la testa; più attendevo nel silenzio, più sarebbe peggiorato, sentivo che dovevo cominciare a parlare a ruota libera o sarei affogata nei miei stessi segreti.


CHAPTER FIVE -  MONSTERS OF THE PAST



“Come ti accennai tempo fa, casa mia era a Neara. E’… una piccola cittadina ferma nel tempo, piena di tradizione ma che riserva sempre un sorriso per i nuovi arrivati. Si trova a sud est di East City, in un’area relativamente lontana da altri centri abitati ma comunque non isolata. … Ricordo ancora le sue strade polverose e i muri in pietra che proteggevano dal torrido caldo estivo. In quelle zone il clima comincia ad assomigliare più a quello dei confini dell’est; secco, caldo, non era una novità se l’acqua scarseggiava, ma ce la cavavamo sempre. La mia famiglia… Era molto classica, se possiamo definirla così, il tradizionale nucleo famigliare di una popolazione ishibeliana: nostro padre era molto devoto a Ishvara e voleva crescerci “nella luce della sua fede”, come spesso lui stesso diceva. Ma mia madre… Lei era diversa, un fiocco di neve nel deserto, che faticava ogni giorno per mantenere la sua integrità. Lei veniva dalle lande del Nord, era bella ed elegante per natura, e vivere a Neara l’ha sempre fatta soffrire. Conobbe mio padre a East City durante un viaggio di lavoro, molti anni fa; inutile dire che la sua fu una fuga d’amore, andò contro il volere della sua famiglia per sposarlo, mollò tutto e non fece più ritorno a casa. Credo che col tempo si fosse pentita della sua scelta, nonostante continuasse ad amare mio padre.”
 
Alphonse mi stava ad ascoltare con trasporto. Era seduto composto sul mio letto e non smetteva di guardarmi, come un bambino a al quale viene raccontata una favola; ma non avrebbe certamente trovato lieti fine in questa e per fortuna non sarei stata in grado di scorgere il disappunto nel suo sguardo.
 
“Che dire, non siamo mai stati particolarmente agiati, i miei genitori hanno sempre lavorato sodo per mantenere me e i miei fratelli, Mourin, Levi e Kuriah. Io ero la più piccola dei quattro, l’unica femmina e la “speranza” di mia madre; voleva a tutti i costi che io portassi avanti le sue tradizioni nordiche, era diventata fissata, e non riusciva a capire che tutto quello che mi interessava, a 6 anni, era correre per le strade con i miei fratelli a piedi scalzi e ginocchia sbucciate. Loro… Erano molto simili a mio padre. Avevano una pelle mulatta e gli occhi rubino, ma i capelli erano chiari grazie alla mamma. Inutile precisare che ero l’unica “bionda occhi azzurri”. All’inizio, da quel poco che ricordo, la nostra vita era tutto sommato serena. Papà faceva il commerciante, ricordo ancora tutte quelle volte in cui mi faceva salire sul suo carro. Vendeva un po’ di tutto, era un asso nell’arrangiarsi come meglio poteva e la spuntava sempre, non importava in che guaio si mettesse o quante ansie procurasse alla mamma. Ma dopo pochi anni dall’inizio della rivolta a Ishibar del 1901, razzismo e povertà raggiunsero anche la nostra tranquilla cittadina; avevo 7 anni quando mio padre partì con Levi (di ormai 17) in cerca di fortuna, non facendo più ritorno. Mia madre tentò di avere loro notizie per anni ma era sempre troppo impegnata a mandare avanti quello che papà aveva lasciato: una casa e una famiglia da sfamare. All’età di 10 anni già vendevo al mercato la verdura del nostro orto per conto di mia madre, diventando scaltra in poco tempo, e alla sera davo una mano in casa assieme ai miei fratelli. Ma restavo pur sempre una bambina.
Era una sera primaverile quando uno sconosciuto si presentò al mio bancone ortofrutticolo, ormai stavo già cominciando a chiudere la baracca.
Lo vidi avvicinarsi piano, con un caldo sorriso che, non so perché, metteva ugualmente i brividi. Portava un cappello nonostante non facesse freddo e non ci fosse più molto sole. Prese uno dei miei pomodori e, dopo aver dato un’attenta occhiata, come per mostrare che se ne intendeva, mi disse:
“Dei bei pomodori, belli davvero, hanno un aspetto splendido”
“Non devono essere belli, ma buoni” risposi, con la mia solita schiettezza e un pizzicò di ingenuità infantile. Avevo solo 12 anni.
“E dimmi, quanto guadagni ogni giorno con questi ortaggi?”
Dopo avergli timidamente detto la somma mi guardò, fissandomi per quella che mi era sembrata un’eternità. Non era solo uno scambio di sguardi, i suoi occhi verdi mi scrutavano con attenzione, mi leggevano, mi trapassavano da parte a parte. Mi sembrò una violenza.
“Come te la cavi con gli animali?” mi chiese
“… Non ne ho mai avuti, a parte quando è stagione di lucertole e io e i miei fratelli andiamo a stanarle… Ma… Ma mi piacciono molto! Soprattutto i cani.”
Gli si illuminò il volto, come se la sua aura minacciosa si fosse dissolta in un soffio. “Avrei un lavoro per te allora. Part time, s’intende. Ti pagherò il triplo di quanto prendi con questa baracca. Vediamoci domattina presto dietro il tempio e ti dirò di cosa si tratta”.
Detto questo, si dileguò.
Non dissi nulla alla mamma, nonostante ne avessi una gran voglia. Sembrava preoccupata già così, avrei voluto dimostrarle che anche io sapevo fare la persona grande una volta tanto. E’ tipico dei bambini, vero? A pensarci ora era un pensiero davvero stupido. Il giorno dopo, quel tizio mi stava già aspettando nonostante fossi in anticipo. Mi fece cenno di seguirlo e così feci, lo seguii fra le strade senza proferir parola, per poi raggiungere la periferia est della città, dove si trovavano le case benestanti. Infatti la sua era una di quelle con tanto di giardinetto dal prato ben curato. Ero stata raramente in quella zona, inutile dire che ero nervosissima mentre varcavo la porta di casa sua; ero piccola ma i miei occhi avevano già conosciuto il mondo abbastanza bene da averne un po’ paura, e non auguro a nessun bambino un’infanzia come la mia. Ma quando mi trovai un cagnolone nero che mi annusava incuriosito mi rasserenai subito.”


Senza aggiungere parola, Al sussultò. Lo vidi poi stringere un po’ i pugni, titubante, non sapeva se avrebbe dovuto farmi delle domande o se era meglio tacere. … Lo vedevo struggersi perché voleva mettermi a tutti i costi a mio agio e avrebbe fatto di tutto per permettermi di continuare a raccontare, e col senno di poi lo trovai un comportamento davvero tenero. Abbozzai un sorriso di comprensione, sfiorandomi le grandi orecchie da lupo, strofinando un po’ il pelo nero fra le dita.

“Sì… sono sue. Ti lascio immaginare quanto andai nel panico la prima volta che me le tastai sulla testa.
“Lei è un lupo nero, si chiama Blue. Ti sembrerà grande ma non ha neanche un anno, è buona sai? Lascia che faccia la tua conoscenza.” Mi disse l’uomo con un sorriso “Io lavoro molto, nonostante sia sempre a casa non riesco a prendermi cura di lei come vorrei; per questo ti offro un ruolo come sua badante, so che ti sembrerà ridicolo ma ne ho davvero bisogno.”
Inutile dire che accettai, e io e Blue facemmo presto amicizia. Non avevo mai visto un animale come lei, con un pelo nero come la notte e gli occhi incredibilmente chiari; più avanti mi fu detto che probabilmente non era al 100% lupo, che qualche suo antenato doveva essere stato un ibrido tra lupo e cane, poiché non vi sono esemplari così in natura. Forse per questo motivo era così amichevole con un’estranea come me, o forse ci fu una connessione tra noi fin dal principio. Lei era giovane, adorava giocare ma aveva sempre quei modi così eleganti nella corsa e nel modo di approcciare con gli altri, dei modi tipici del grande “lupo della della foresta”, e il suo sguardo era così penetrante, sapeva guardarti l’anima…”
 

“Come il tuo” aggiunse Alphonse, quasi senza pensarci. Arrossii immediatamente e vidi che anche lui cercava di ricomporsi in maniera impacciata. Distolsi lo sguardo imbarazzata, cercando di riordinare le idee per continuare.
 
“Scoprii in seguito che il nome del mio datore di lavoro era Richard Telamy, un alchimista. Lo scoprii frugando fra le sue carte mentre lui non c’era, poiché non mi volle mai dire come si chiamasse. Spesso, mentre io e Blue giocavamo in giardino lui stava seduto su un tavolino, fra fogli e blocchi di appunti, e giurai che stesse scrivendo qualcosa su di noi perché spesso alzava lo sguardo verso me solo per poi prendere la penna come se aggiungesse delle note.
Passarono 3 mesi e in tutto questo tempo avevo tirato fuori le peggio scuse da dire a mia madre per poter andare dal mio lupo preferito, giacché ormai eravamo inseparabili. Una mattina entrai in casa, come ogni giorno, usando le chiavi che mi erano state consegnate. Tutto era buio, le tapparelle erano abbassate, chiaramente fu strano; Telamy poteva essere uscito lasciando la casa chiusa, ma preoccupata di non veder Blue venire a farmi le feste mi addentrai subito.
“…Blue?”
Fu l’ultima cosa che dissi prima del disastro: ricevetti un forte colpo alla testa e tutto si fece buio.
 
Al mio risveglio il dolore era lancinante, non solo sul capo bensì in tutto il corpo, riuscivo appena a respirare nei primi minuti di coscienza. Mi trovavo in una gabbia e c’era solo la luce soffusa di qualche candela nella stanza, ma non fu la cosa che mi preoccupò maggiormente… Avevo delle zampe nere al posto delle mani. Volli urlare ma non uscì nulla dalla bocca, nel panico generale mi resi conto che anche gli arti posteriori erano quelli di un cane. Di mio avevo ben poco, i miei capelli erano lunghi e neri, parevano fondersi con la pelliccia del corpo; non potevo sapere se il mio viso fosse lo stesso o no.
“Ben svegliata.”
Telamy entrò nella stanza, il suo sorriso era quello di un deviato. Piansi silenziosamente, mentre cercavo di chiedere aiuto almeno a lui. L’alchimista avvicinò uno sgabello alla gabbia, si sedette calmo e sussurrò queste parole: “E’ meglio che tu ti abitui subito a questo corpo, lo avrai per tutta la vita.” disse “Forse muterà un po’, ancora non posso saperlo con certezza; è questo il bello degli esperimenti, giusto? Tu e Blue avete acquisito un’affinità sufficiente da potervi fondere senza rigetti, ma ancora non ho prove certe.”
Lo guardavo con gli occhi spalancati senza capire nulla di quello che dicesse. Chiaramente parlavamo la stessa lingua ma non riuscivo a ragionare sulle sue parole, nonostante tutt’oggi io non le possa dimenticare.
“Giusto, dobbiamo andare per gradi io e te, mia piccola creatura: sei mezzo lupo adesso, non so ancora se questo ha avuto ripercussioni sull’apprendimento e la comprensione. Sappi comunque, giusto perché il panico non ti uccida, che potresti sentire un “intruso” nella tua mente, bambina mia. Potrebbe essere Blue che interferisce con i tuoi pensieri: istinto, ormoni che entrano in contrasto, ma non è solo questo… Io ho avuto successo dove tutti hanno fallito… Non sei una comune chimera. Entrambe le vostre anime si trovano in questo corpicino deforme, entrambe siete in vita, ora sta solo a noi vedere chi prevarrà. Ahhh, sono così emozionato, sono un bambino a Natale! Sarò l’invidia di tutti i miei colleghi, si sta facendo la storia dell’alchimia!”
Vaneggiava, questo pensavo. Credevo fosse totalmente pazzo, che fossi nelle mani di un maniaco. Ma forse era solo abbastanza crudele da non essersi fatto scrupoli a sfruttare una povera bambina, affamata dalla povertà e illusa dalla dolcezza di un cagnolino. Al solo pensiero non so se piangere o urlare dalla rabbia…
 
Non so quanto tempo passò prima che riuscissi a scappare. Non davo mai segni di poter camminare, ero sempre accasciata a terra, e forse questo lo persuase ad aprire la gabbia con noncuranza mentre mi riempiva la ciotola d’acqua. Feci finta di essermi addormentata e appena fu fuori dalla stanza, raccolsi tutte le mie forse per correre verso la porta; mi resi conto di essere diventata incredibilmente veloce. Con un salto arrivai alla maniglia e fui fuori prima che se ne accorse, corsi come un razzo verso casa mia e non mi voltai mai indietro; era notte fonda e le strade erano fortunatamente deserte, ma mi resi conto di quanto fossi agile e silenziosa nei movimenti, le mie zampe avevano la stessa elegante andatura di Blue… Ma cercai di non pensarci troppo.
Inutile dire che una volta sull’uscio di casa, dopo aver tentato di chiamare qualcuno con quello che sembrava un misto tra un ululato e la voce roca di una vecchia, mia madre aprì, ma non mi riconobbe e spaventata riuscì ad affondare il coltello da cucina all’altezza della mia spalla prima di darmela a gambe. Quella notte corsi fino a quando le zampe non iniziarono a sanguinare, fino a quando non caddi a terra e non ebbi più la forza di rialzarmi e dovetti trascinarmi fino a un riparo sicuro, tra gli alberi, ormai lontana dalla città.
Da quel giorno per molto tempo non feci altro che vagare tra una zona boschiva e l’altra, viaggiando di notte, subendo dolorose trasformazioni che cambiavano anche totalmente l’assetto del mio corpo; era una tortura, ma nonostante tutto volevo ancora vivere, questo grazie allo spirito di sopravvivenza insito in Blue. Capii come cacciare e tantissimi accorgimenti che, anche se malnutrita, mi consentirono ad arrivare fino ad oggi. Dopo qualche mese il mio corpo cambiò per l’ultima volta, restando come lo vedi ora. Di Blue ho le orecchie, la coda, gli occhi e un po’ della dentatura… Mi considero immensamente fortunata anche solo per questo, e pare che anche a lei non dispiaccia, come se sapesse quanto stessi male con il corpo iniziale e mi avesse voluto assecondare. La vedo ancora nei miei sogni, nonostante la senta comunque spesso nella mia testa e il suo sangue scorra nelle mie vene. Andiamo spesso d’accordo come Telamy aveva previsto, ma in passato ho avuto diversi “black out” in cui non controllavo il mio corpo e non vedevo ciò che accadeva, spesso quando non sapevo più gestire una situazione di panico; alle volte mi sono svegliata lontano da ogni pericolo, mentre stavo scavando buche o dissotterrando carogne… Ma ci sono stati momenti in cui mi risvegliavo coperta di sangue. E non era il mio.”


Alphonse vedeva quanto mi sforzassi per tirare fuori quelle parole. Ormai parlavo con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, ma mi sentivo ugualmente la pressione della verità sulle spalle e il riflesso della sua armatura sul vetro mi ricordava che stavolta non avrei parlato invano. Era incredibile quanto avessi parlato, mi sentivo in un mare di sudore e mi girava la testa; come avevo fatto a tenermi tutto questo dentro? Presi un bel respiro, pregando che Al non scappasse da un momento all’altro con la mia confessione fra le mani. Dovevo fidarmi di lui, ne avevo eternamente bisogno.
 
“Ci vollero due anni prima di arrivare a quella che era Central City… Ormai ero abbastanza abile da potermi muovere anche in città senza destare sospetti, facevo la ladra, rovistavo nella spazzatura… Non lo stile di vita migliore del mondo, ma era più facile trovare del cibo. … Dopo poche settimane, beh, mi avete trovata.
Ed ecco tutto.”

 
Mi voltai verso di lui, in attesa di una risposta, di qualsiasi genere. Avevo vomitato le mie emozioni e il mio passato, la verità mi aveva dissanguata eppure mi sentivo ancora tesa come una corda di violino, c’era qualcosa che mancava. Avrei voluto pensare che fosse finita, ma in realtà avevo ancora molte sfide e sofferenze che mi aspettavano e lo sapevo bene. Avrei voluto sorridere e ringraziarlo di avermi ascoltata, ma sarebbe stato riduttivo, la mia gratitudine non poteva essere quantificata e ogni tentativo l’avrebbe soltanto sminuita.
“Laisa, io…” accennò con voce tremante, tendendo una mano verso il mio viso.
Fu a quel punto scoppiai in lacrime di fronte a lui, senza ritegno. Era tutto ciò che potessi fare e in quell’esatto istante mi resi conto che era anche la cosa giusta da fare. Senza esitare un istante, Alphonse scacciò tutta la sua emozione e il suo imbarazzo e mi prese con sé, fra le sue braccia, non disse nulla ma la sua stretta forte e dolce allo stesso tempo non lasciava spazio a nessuna parola esistente; io mi accovacciai sulle sue gambe continuando a piangere a dirotto. Il cuore andava a mille e la testa mi girava, ma sapevo che prima o poi avrei pagato quel prezzo per stare meglio. Presa dalla stanchezza, pian piano la mia vista già offuscata si fece ancora più imprecisa e confusa, poi caddi in un sonno profondo.
La pioggia smise di cadere e quel silenzio, tanto atteso dopo mille sofferenze e lacrime, portò pace anche a Blue, persa nel buio della mia mente.

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Capitolo 6
*** Last very good times. ***


(A-hem. Per quei quattro gatti che mi seguono e che ancora non sono scappati, scusate per il ritardo. Io non vado molto d'accordo con le date di scadenza che mi auto-impongo, sono un piccolo caso perso. Spero che vi godiate questo capitolo, perché il prossimo non ci metterà molto per uscire. Non scherzo. Non guardatemi così. Buona lettura!)


Chapter Six : Last very good times.



“Gatto”
Cambio di diapositiva.
“Treno”
Cambio di diapositiva.
“Cascata”
Cambio.
“Bicicletta”
Cambio.
“Un cavallo che balla sul ghiaccio”
 
“…E’ una pattinatrice, Laisa, piantala di scherzare e di’ semplicemente ciò che vedi.” Sbuffò Stern, il tizio occhialuto che stava alla cinepresa e prendeva appunti.
Le sedute con gli studiosi per “il mio caso” stavano diventando sempre più noiose; diapositive, test di sforzo fisico e altre cose di cui non capivo nemmeno lo scopo. Perlomeno non mi spaventavano più di tanto e avevo preso confidenza con loro. Il fatto era che loro non prendevano molta confidenza con me.
“Ho la testa di una quattordicenne, queste parole le so, non possiamo andare avanti?” dissi sbuffando, seduta a gambe incrociate per terra, proprio a lato della sedia che mi avevano dato.
Fermarono la proiezione e accesero le luci; “Basta così per oggi” asserì Roy Mustang, rimasto all’angolo come un’ombra silenziosa per tutta la seduta “Ci rivediamo domani”.
Presi i miei effetti dal bancone vicino alla porta come ogni volta; durante quelle ore stavo in canotta e pantaloncini corti, ma ormai mi premettevano di vestirmi come mi pareva una volta fuori da quella stanza. Mi abbottonai dunque la camicia e la infilai dentro i pantaloni femminili da soldato, tutti indumenti che l’assistente di Roy, Riza Hawkeye, mi aveva procurato. Cominciavo a sentirmi bene in quel posto.
“Laisa” il Colonnello si avvicinò a me mentre gli altri uscivano “Ti va di prendere un caffè con me?”
Sorrise. Poche erano le volte in cui avevo una conversazione con lui, e la sua richiesta mi inquietò per un attimo; era sempre distante, pareva sopra ogni cosa come se i suoi problemi fossero altri, immagino non sapesse nemmeno cosa pensare di me: amica o minaccia? Ma forse non gli interessavo e basta, magari ero una semplice cavia, questo era ciò che mi dicevo. Più avanti capii che sono poche le cose che lasciano indifferente Roy quando si parla di vite innocenti, nonostante le apparenze.
Una volta nel suo ufficio ci sedemmo e mi fissò negli occhi, mescolando il suo caffè con un’espressione penetrante che non poteva lasciarmi indifferente. Riusciva quasi a distrarmi dalle occhiaie di stanchezza sul viso ancora giovane e dal taglio tipicamente militare dei suoi capelli corvini (lasciati comunque troppo incolti perché venisse notato al primo sguardo). Doveva aver lavorato molto negli ultimi tempi o chissà, probabilmente era una vita che lavorava così.
“Sei sicura di non volere niente?”
“Sicura Colonnello, grazie.”
Il mio sguardo cominciò a spostarsi altrove, verso la finestra, le braccia conserte e le spalle chiuse da quei momenti di silenzio prolungato che metterebbero a disagio chiunque. Ero certa mi stesse studiando per qualche strano motivo, in realtà faceva così molto spesso, come un identikit di chi avesse davanti, forse tutte quelle informazioni gli sarebbero servite un giorno.
Con un sospiro e un sorso di bevanda calda, mi rese le cose più semplici “Ascolta, so bene che è una situazione che non ti piace, non devi preoccuparti, questa chiacchierata sarà breve. E’ solo che ho davvero bisogno di parlare con te a quattr’occhi ed era preferibile che fossimo soli.”
Ottenne subito la mia attenzione “Le sedute di ricerca sono agli sgoccioli e immagino ti chiederai che ne sarà di te dopo. Ebbene devo dirti che la situazione è più complicata del previsto; come ben sai non possiamo rilasciarti dall’oggi al domani, sei una risorsa importante per noi, ma soprattutto al di fuori di queste mura la tua vita è in pericolo.”
“… Con tutto il rispetto, lo è sempre stata.” Asserii secca. Cos’erano tutte quelle apprensioni e a cosa mi sarebbero servite dopotutto, considerando che mesi prima mi trattavano come un cane da laboratorio?
“Telamy è tornato, Laisa.”
Un brivido mi percorse tutto il corpo e dentro di me andai subito nel pallone. LUI mi sta cercando? Era chiaro che non mi avrebbe mai lasciata andare una volta scappata, ma dovevo ammettere che era incredibilmente tenace. Pensandoci due volte, la cosa non mi sorprendeva più di tanto.
“E’ sulle tue tracce da mesi, sa che sei qui dentro e se metti un solo piede fuori sarai sua. Sei il suo esperimento più riuscito e il suo grande successo, almeno è quello che ci dicono le fonti, ma non possiamo permettere che tu corra altri rischi.”
“…”
“Ora capisci?”
Deglutii. Poche cose al mondo ormai mi facevano più paura di quel mostro, forse neanche la morte era fra quelle; Telamy mi aveva provocato un trauma infantile tale da essere diventato il mio incubo numero uno. Sì, ero forte, ero cresciuta anche se di poco e per molti aspetti le sue parole non avrebbero più potuto illudermi; ma se davvero mi avesse ripresa? Avrei aspettato che qualcuno mi salvasse? Sapevo già a chi pensare, ma mettere le vite degli altri in pericolo per la mia sfrontatezza non sarebbe stata solo una cosa stupida, ma anche una vera e propria cattiveria.
“Mi dica che lo prenderete, Colonnello…” avevo soltanto un filo di voce.
Al tempo non conoscevo Mustang così bene da potergli leggere negli occhi, e quella che mostrò fu un’espressione che non esprimeva la calda e rassicurante aura di un paladino delle donne indifese, ma piuttosto mi diede un’idea di amarezza, con un’impercettibile sprazzo di speranza. Nonostante tutto credetti che stesse pensando a me come una bambina che andava protetta. Quale novità.
“Faremo tutto il possibile signorina.”
Gli sorrisi, ma non c’entravano l’educazione o il senso di sollievo, piuttosto la riconoscenza verso un ufficiale che per la prima volta mi veniva davvero incontro, anche se la voglia dell’esercito di avere fra le mani l’alchimista pazzo Richard Telamy era la stessa che aveva lui di ritrovare me.
 
Passare la serata da sola nella mia stanza mi fece riflettere. Cosa avrei fatto d’ora in poi? Davvero l’esercito aveva finito con me? Forse non rappresentavo una minaccia di alcun genere? Ammetto che il pensiero per un attimo mi indispettì, ma accettai in fretta “quella dura realtà”. A parte l’ironia, l’idea che non avessi un futuro per me stessa mi aprì una voragine nel cuore. Cercai di allontanarla col pensiero che non avrei comunque potuto fare nulla con Telamy ancora in circolazione. Ma una volta che tutto fosse finito?
La presi nel migliore dei modi, e cercai di immaginarmi in un altro contesto. Laisa fioraia, Laisa panettiere, Laisa insegnante… No, non ero una ragazza particolarmente colta e forse non avrei avuto nemmeno un motivo per iniziare ad applicarmi seriamente. E cosa ancora più importante… La gente mi avrebbe accettata? Avrei potuto nascondere le mie parti del corpo dalle sembianze ferine, forse con l’aiuto di un chirurgo sarei riuscita persino a rimuoverle. A quel pensiero Blue si agitò talmente tanto che mi alzai di soprassalto dal dolore che provocava; forse era davvero ancora troppo presto per decidere.
La mia mente galoppava, distesa sul letto fra quelle mura spoglie, mentre guardavo assente una delle prime nevicate della stagione sulla capitale.
 
Da quel giorno tutto passò davvero in fretta, avevo ritrovato pian piano la mia voglia di divertirmi, anche se poco cambiava nelle mie giornate, e sognavo in silenzio ma con intensità; avevo paura che mi dicessero che ero un’ illusa e che rovinassero le mie aspettative sul mondo. Il quartier generale era diventato un micro-mondo e ne potevo vedere molte sfaccettature, ero arrivata a credere che non mi bastasse altro, che fosse come una famiglia, anche se non avevo allacciato molte amicizie; la maggior parte delle persone ancora mi guardava male, passavo diverso tempo da sola, ma i miei sogni ritrovati mi facevano compagnia.
Col passare del tempo feci dei piani: dove sarei andata, che lavoro avrei fatto, mi sarei mai sposata, sarei tornata a trovare la mia famiglia? Sembravo aver dimenticato i problemi essenziali della mia condizione da chimera randagia, poiché nella mia mente tutto mi era concesso, e chi mi voleva bene lasciava che mi svagassi come potevo; d’un tratto ero in una campana di vetro, non in una vero e propria prigione, al punto che mi bastava poco per essere felice. Telamy pareva un problema lontano e raramente chiedevo qualcosa al riguardo… Non sapevo nulla sul caso, sulle guerre in corso nel Paese, o cosa combinassero Ed e Al quando non li vedevo per mesi. Che genere di lavoro facevano? Edward era un Alchimista di Stato, ma come si guadagnava esattamente da vivere? E Alphonse che ruolo aveva? Sembrava che l’unica cosa che mi indispettisse sul fatto che entrambi si tenessero sul vago era perché volevo avvicinarmi di più a loro, mi piacevano un sacco e la loro amicizia era essenziale per me.
Forse, in tutto questo, custodivo con così tanta cura la mia spensieratezza proprio perché dentro di me sapevo quanto fosse estremamente fragile, come la mia stessa speranza.
Compii 15 anni nel frattempo e quella piccola festicciola concessaci dopo il coprifuoco da caserma fu anche più di quello che potessi mai immaginarmi. C’erano i sorrisi di quelle poche anime che avevo conosciuto dopo quasi un anno: i Fratelli, la cara anche se silenziosa Riza e poche sue colleghe (che mi avevano presa sotto le loro ali protettrici in quell’ambiente impregnato di maniere fredde, regole ferree e maschilismo), più qualche membro della squadra di studiosi che mi avevano seguita mesi addietro… Persino Mustang fece un veloce sopralluogo, il tempo di rubare da mangiare e rinchiudersi nel suo studio per lavorare tutta la notte.
Fu in quel frangente che conobbi la famosa Winry di cui Alphonse tanto parlava, una delle più grandi amiche che abbia mai avuto; mi accolse con entusiasmo dal primissimo momento e mi insegnò la virtù della pazienza ma anche il saper combattere per ciò che si vuole. Vederla davanti alla porta della mia stanza in quei brevissimi periodi in cui si faceva la tratta Rezembool-Central City solo per venire a trovarmi mi ricaricava tutte le batterie. Ero un’adolescente in fondo, anche io avevo bisogno di un punto di riferimento femminile, o meglio una coetanea con cui rapportarmi. Lei mi insegnava ad intrecciarmi i capelli che ormai erano cresciuti incontrollati (e non si spaventava per le mie orecchie), mi regalava i suoi vestiti smessi e talvolta lei stessa mi cuciva qualche indumento tattico che lasciasse spazio ma allo stesso tempo nascondesse la mia coda… Insomma, mi fece capire quanto potessi valere non solo come persona, ma come ragazza.
“Winry?” le chiesi un giorno.
“Dimmi”
“Ma a te… Edward, piace?”
Quel momento fu memorabile perché rovesciò quasi tutte le pedine degli scacchi proprio mentre stavamo facendo una accesa partita, sul solito terrazzo dell’edificio, circondate da riviste di Automail, blocchi da disegno, libri di narrativa e candele per qualche sana storia di fantasmi che ci saremmo raccontate una volta calato quel sole di fine aprile.
“… L’hai detto solo per distrarmi! Sapevi che mi mancava una mossa per vincere!!!”
Risi di gusto e la guardai complice. Non mi rispose, ma sorrise socchiudendo gli occhi e guardando il tramonto; era sempre stata una ragazza molto matura per la sua età, ma non lo dimostrava mai così tanto come quando di parlava di sentimenti per Ed. Il suo amore era silente, rispettoso e paziente, nascosto tra tante parole di negazione ed escandescenze tra i due ragazzi che rasentavano il comico. Alle volte la vedevo soffrire e in quei momenti cominciavano dei discorsi profondi che, nonostante il loro spessore, finivano sempre in una battuta e tante risate.
“Ricordati soltanto una cosa Laisa” mi disse più di una volta “Per quanto ami una persona, per quanto lei significhi per te, anche se daresti il mondo per vederla felice, non dimenticare mai che tu vieni prima di ogni cosa. Non dimenticare che devi combattere soprattutto per trovarti il TUO posto nel mondo, o il mondo un giorno ti busserà alla porta per chiederti perché hai perso tutto quel tempo inseguendo gli altri. E ancora più importante, non dimenticare che chiunque ti ami non desidera altro che questo per te.”
A quelle parole ero solita sospirare pesantemente, poiché qualcosa in me era cambiato ed entrambe lo sapevamo. Lei mi accarezzava le orecchie in modo rassicurante, come a farmi capire che sì, anche chi stava lontano per tempi interminabili pensava a me. “Fidati, so quello che dico. E’ vero, sono solo una ragazzina di un piccolo paese, ma non guardo fuori dalla finestra tutto il tempo sperando che un giorno le cose cambino da sole… Io lavoro, apprendo ogni giorno di più, ho un grande sogno… E non mi arrenderò fino a quando non mi sentirò pienamente realizzata!”
“Forse non ti arrenderai nemmeno quella volta Winry!”
“Ahahahah, forse hai ragione!”
 
E infatti ottenne un lavoro come apprendista a Rush Valley, una cittadina non troppo lontano da Central City. Cominciò ad avere sempre meno tempo per me, i suoi impegni ci allontanarono senza volerlo e fu proprio in quel periodo che i miei soliti pensieri si risvegliarono più forti che mai.
Tutto d’un tratto mi ritrovai una mattina di inizio estate e chiedermi, seduta sul letto “… Ma io cosa ci faccio ancora qui?”
Diventai più agitata, scalpitante, iniziai a fare domande: a cosa servivano le ricerche su di me, perché tutti avevano perso interesse nel mio caso, ma soprattutto a che punto era arrivata la caccia a Telamy? Nessuno mi dava risposte ovviamente, neanche Riza, quella fredda e allo stesso tempo protettiva donna che mi lasciava giocare col suo cane pensando anche a relazionarsi con Blue. Diventai così curiosa e impertinente che d’un tratto capii concretamente che Roy mi stava del tutto evitando. Passavo le sere sul terrazzo, bramando di volare o diventare invisibile per poter passare anche solo un minuto fra le strade caotiche della città. Per un attimo mi tornò la voglia di tornare una randagia senza Dio.
Blue mi appoggiava ed era felice che finalmente fossi caduta dalle nuvole. La sentivo ululare in maniera sempre più assordante.
Così una sera, dopo il coprifuoco, sgattaiolai fuori dall’edificio. Ovviamente dovetti superare i soldati di guardia, ma fui felice di apprendere che le mie abilità furtive non erano del tutto perse; avevo il passo silenzioso e costante del lupo sulla neve, una discreta capacità visiva nonostante la luce crepuscolare e le orecchie attente e ricettive a qualsiasi rumore.
“E IO non sarei più un pericolo per l’esercito? Ma per favore!” pensai un po’ troppo fiera di me quando finalmente fui all’esterno, nascosta tra la folla della città. Mi giunsero ai sensi il fracasso dei locali, il profumo del tabacco e di chi evidentemente preparava quella che pareva carne arrosto per cena. Avevo nascosto le mie parti del corpo “incriminanti” con indumenti coprenti e comodi e un cappello: parevo un garzone di strada, ma mi sentivo benissimo nell’anonimato.
Inutile dire che l’eccitazione era talmente tanta che mi persi per le strade della città vecchia; era moltissimo che non mi godevo il mondo esterno come una persona normale e avevo portato con me pochi spiccioli (li avevo messi progressivamente da parte nel caso un giorno mi fossero serviti, e avevo fatto bene) per soddisfare il mio languorino con la prima cosa che mi avesse stuzzicata. Stavo per cambiare quartiere intenta a cercare altrove quando una voce famigliare mi soprese così tanto da farmi prendere un infarto.
“Ma insomma, hai vitto e alloggio gratis dal Colonnello, perché mai dovresti spendere i tuoi soldi per dei noodles?”
“Chi è quello dei due che mangia? Io! Quindi se me lo permetti almeno stasera voglio evitare quella sbobba preriscaldata della mensa. Ora fammi il favore di stare buono e siediti con me al tavolo di quel chiosco ambulante. Ha quell’aria decadente che mi aumenta l’appetito.”
“Ma stai bene?!?”
Edward doveva aver avuto una giornata pesante e sembrava sensibilmente affamato, lo si vedeva benissimo dal suo modo nervoso di comportarsi con suo fratello: almeno il 70% delle volte l’unica soluzione era il cibo.
Abbassai la visiera del cappello e silenziosamente mi sedetti accanto a loro al chiosco, uno di quei tipici carretti dallo stile orientale con bancone, sedie e luci, feci cenno al proprietario di volere giusto un bicchiere d’acqua e quando finalmente arrivarono i tanti attesi noodles con manzo per il biondino glieli fregai da sotto gli occhi con un gesto fulmineo.
“Hey tu, che diamine credi di fare, sono miei!!” vedevo pulsargli i vasi sanguigni sulle tempie da quanto era su di giri, stavo per scoppiare dal ridere.
“Oh Ed, ma è stata Winry a insegnarmi che fare i sadici con te è cosa buona e giusta!” esclamai mostrando bene loro il mio viso. I due rimasero in silenzio per qualche secondo.
“Oh Laisa sono così felic-“
“SE CHI SAPPIAMO NOI ( erre –o – ipsilon) SCOPRE CHE SEI IN GIRO E PER DI PIU’ IN NOSTRA COMPAGNIA PASSEREMO DEI GUAI­­ INCREDIBILMENTE SERI!!!”
Se al piccoletto non scoppiarono le coronarie quella sera, non ne avrebbe mai avuto l’occasione in tutta la sua vita.
“Calmati, nessuno sa che sono qui.”
“Laisa non c’è niente su cui scherzare, non dovresti essere qui, è pericoloso!!” continuò.
“Pericoloso per chi esattamente, per me o per gli altri? Andiamo Edward, non vedo la libertà da quasi un anno, sai quanto importante sia un diritto del genere… Mi prenderò io tutte le responsabilità se accade qualcosa.”
“Non servirà a nulla, io sono il tuo “tutore” e se sono con te la colpa ricade interamente sui sottoscritti. Abbiamo dei doveri, delle cose da fare, non possiamo rischiare di finire davanti alla corte marziale per una cavolata simile!”
“Su, fratellone…” si intromise Alphonse “Non accadrà nulla per qualche ora, non faremo niente per attirare l’attenzione e ci godremo una piacevole serata. Da quando sei così rigido e intransigente? Anche lei ha bisogno di respirare, mettiti nei suoi panni. Laisa, noi non diremo niente a patto che non farai più una cosa del genere.”
“Ma Al… So badare a me stessa, cosa vuoi che sia uscire di tanto in tanto, io non-“
“Promettilo. Fallo per noi, te ne prego.”
Sospirai, cercando di vedere il lato positivo. Avevo una notte davanti a me, non era il momento di tenere il broncio.
“Bene. Promesso. Ma per favore qualcuno mi offra una scodella di noodles, gli spicci che ho non bastano.”
“Eccola, le dai una mano e si prende tutto il braccio. Tsè. Hey tu, una scodella di noodles anche per la ragazzina per piacere.” Ed si mise comodo, prese un lungo respiro “ Beh, in fondo che vuoi che sia una serata soltanto. Mangiamo, parliamo, ci rilassiamo tutti assieme. Cosa potrebbe mai succedere?
Buon appetito!”

 
(…Continua …)
 

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Capitolo 7
*** Soul's Eyes. ***


“Hey.”
Vidi Edward fuori dall’ufficio di Mustang. Avevo appena svoltato nel corridoio e vidi bene quando uscì sbattendo la porta dietro di sé, con gli occhi bassi e un respiro irregolare. Era come se cercasse di controllare qualcosa che nella sua mente stava galoppando a tutta velocità, probabilmente un pensiero davvero angosciante a giudicare dalla sua espressione. La mia voce lo fece rinvenire, ma non riusciva a guardarmi negli occhi.
“Stai bene?”
“Sì, sono solo un po’ pensieroso. Sai com’è col Colonnello…” disse colo tono più spento che avessi mai sentito nella sua voce fino a quel momento; in altre circostanze l’ira avrebbe illuminato i suoi occhi e una volta partito a lamentarsi non si sarebbe più fermato, ma quel giorno vidi uno spettacolo ben più allarmante.
“Cosa ti ha detto? Che succede Ed, devo preoccuparmi?”
Fu a quel punto che mi guardò, confuso, corrucciato, cercò di dirmi qualcosa ma non ne aveva il coraggio o forse pensava non ne valesse la pena.
“Edward non mi dite mai niente, io ci tengo a te e Alphonse” sbottai subito “ Vi vedo sempre più di rado, vi incrocio per caso perché siete entrambi troppo indaffarati per venirmi a salutare. Ogni volta che mi avvicino c’è sempre qualcosa che mi mantiene a distanza da voi. Io…”
Avevo la sua attenzione, ma non la sua comprensione. Nonostante avessi iniziato quel discorso dal nulla era qualcosa che mi pesava da tempo… Ma forse stavo solo abbaiando alla porta sbagliata. “Io… Alle volte vorrei soltanto sapere cosa accade davvero là fuori, se state bene, Winry dice che con te è fiato sprecato ma mi rifiuto di credere che tutto vada per il meglio quando ogni giorno che passa vi ritrovo più acciaccati, silenziosi e fugaci.”
A quelle parole Ed distolse definitivamente lo sguardo, stizzito. Più parlavo e meno riuscivo a farmi capire da lui. E Alphonse? Sarebbe stato inutile persino chiedere dove fosse in quel momento.
Asserendo soltanto “Winry ha ragione”, mi passò davanti silenziosamente e proseguì per il corridoio, esalando un pesante sospiro a metà strada. Io non dissi nulla. Improvvisamente, con lo sguardo perso sulla sua schiena ricurva che si allontanava, una consapevolezza nacque in me e così come la sentii arrivare essa si aggrappò al mio cuore, rendendosi pesante come il piombo: la mia vita era incompatibile con la loro. Avrei potuto struggermi ogni giorno, avrei potuto chiedere, ma chiusa fra quelle mura non ero che una comparsa nella loro esistenza. La cosa divenne insostenibile quando pensai ad Alphonse; era sempre stato talmente disponibile con me ma c’erano sempre dei limiti di tempo e spazio che diceva di non poter evitare. Ogni racconto veniva rimandato, ogni preoccupazione era “una cosa da niente” ed ogni mio sospiro per i problemi che negava di avere si risolveva con una carezza tra le mie orecchie canine. “Sempre”. Questa parola scatenò infine l’abisso dal quale ogni pensiero mi fece credere di non valere nulla. …Col tempo imparai a non dar loro corda, ma continuarono a strisciare nella mia mente, rifugiandosi nell’ombra, pronti a di scattare. Proprio come Blue.
 
Chapter seven: Soul's Eyes.
 
“Fidati, c’è qualcosa fra di loro.”
“Ma come puoi dire queste cose se non ti accorgi di nulla di ciò che hai davanti al naso?”
“Io no, ma Winry sì! E’ stata lei a dirmelo, mentre stava facendo manutenzione sull’ automail qualche settimana fa. E in quei momenti di certo è meglio non contraddirla. Pian piano questo pensiero si è insinuato in me ed ora vedo Hawkeye con occhi diversi.”
Quando Edward aveva lo stomaco pieno diventava il ragazzo più soddisfatto del mondo. Non era uno che si abboffava troppo, ma nonostante il suo carattere collerico erano le piccole cose a renderlo felice. Ingozzarsi di noodles, a quanto pare, lo rendeva sorprendentemente felice. Quanto ad Alphonse, non lo vedevo così sereno da diverso tempo; erano due ragazzi talmente abituati all’orrore della vita da saper trovare in fretta il buono nelle cose, soprattutto il fratello minore. A lui il gravoso compito di farlo quando Ed non vedeva che fulmini all’orizzonte; ma questo non lo rendeva certo più stupido e, col passare del tempo, anche la sua ingenuità stava svanendo.
“E’ bello rivedervi dopo tanto tempo ragazzi” sorrisi loro e buttai nello stomaco quel poco che ancora restava del mio piatto, per poi sospirare. Ma il sospiro divenne rutto ancor prima che potessi ribattere e scatenò l’inferno, perché si voltarono almeno una decina di persone.
Silenzio.
“Hai fatto pappa grossa, brava lei!” intonò Al mentre accarezzandomi fra le orecchie. Resistere alla tentazione di scodinzolare per non essere scoperta fu difficile.
“Mi hai forato un timpano con quell’esibizione, ne sono sicuro.” La faccia di Edward era mezza sconvolta, ma prese definitivamente un infarto quando si sentì chiamare alle sue spalle.
“Hey tu!” era un soldato e sul momento non sapemmo esattamente a chi di noi tre si riferisse. Immediatamente mi nascosi all’ombra del mio cappello e voltai la faccia dall’altra parte, ma la cosa che mi sorprese di più fu la reazione di Alphonse, il quale si inanimò, braccia molli e testa di lato.
“Ma cos-“ pensai.
“Sta a vedere” mi sussurrò.
“Hey tu, sei Edward Elric giusto?” insistette nel frattempo il militare, posando una mano sulla spalla del giovane biondo. Ora eravamo certi. “Il Colonnello Mustang chiede di te urgentemente.”
“… Ma come diamine ha fatto a sapere che ero qui?!?” ribatté Ed, la sua serenità era sfumata in pochi attimi.
“Non lo sa. Chiedo scusa per il disturbo ma insisteva sul fatto che io e un paio di soldati dovessimo trovarti. Non ti ha visto al Quartier Generale e immaginava tu fossi in città. Non vi eravate accordati di vedervi?”
“Sì, ma domani” il ragazzo chiuse gli occhi cercando di trovare qualcosa che lo aiutasse calmarsi, poi sospirò “Dai Al, chiudiamo questa storia e andiamo prima che il Colonnello ci venga a cercare anche al cesso.”
 
Non ottenne risposta, il fratello era impassibile nella sua posizione da morto.
 
“Al?”
“Cosa significa?” chiese il soldato “Non risponde? E’ svenuto forse!” si avvicinò preoccupato all’armatura e fece per alzare l’elmo.
“NO!!!” esclamò Ed. Io intanto stavo sudando freddo; ora Alphonse avrebbe per forza dovuto restare immobile.
“Perché non posso? Tuo fratello non è dentro?”
La prontezza del biondo fu disarmante, ma potevo sentire benissimo il panico che le sue parole mascheravano: “Mi hai beccato!” alzò le mani in alto, ridendo nervosamente “L’armatura è vuota perché mio fratello è uscito, quindi ne approfittavo per fare la marionetta con l’alchimia cercando di attirare l’attenzione della signorina lì in fondo…”
Gli lanciai uno sguardo gelido che lo gettò ancora di più nel pallone. Era la storia peggiore che avesse potuto inventarsi, e cosa ancora peggiore, l’uomo l’aveva bevuta.
“M-Ma è chiaro che non ho avuto successo.” Continuò “In realtà Alphonse stasera voleva starsene per conto suo. …Sa, ogni tanto ci vuole… Fare quattro passi in tranquillità, e poi a un isolato da qui c’è il quartiere a luci rosse… Lei può capire immagino.”
Il soldato di ricompose e, schiarendosi la voce imbarazzato, asserì “V-Veramente no. Ma non importa, non abbiamo tempo da perdere, il Colonnello ti vuole al rapporto immediatamente con o senza tuo fratello.”
“Ma certo, andiamo subito!” Edward prese cappotto e valigia e si incamminò col soldato, cercando di mascherare il suo sollievo. “Se mio fratello torna per la sua armatura, signorina” mi disse ad alta voce senza voltarsi “Gli dica che lo ammazzo.”
Una volta lontani io e Al ci guardammo, annuimmo e ce ne andammo in religioso silenzio lasciando i soldi sul tavolo. Camminammo piano tra la folla per dirigerci verso un luogo molto meno trafficato, lo sguardo nel vuoto, impassibile, mentre tutta la paura si stava sciogliendo.
Quando finalmente ci fermammo, le risate tuonarono così forte che probabilmente anche Ed dall’altra parte della città le avrebbe amaramente sentite.
“Mio fratello mi ammazzerà sicuramente! Quartiere a luci rosse! Ma che idee partorisce?!?” Al urlava euforico ed io mi stavo asciugando le lacrime con la schiena curva e un avambraccio stretto sulla pancia per evitare che scoppiasse.
“Quella è stata una perla! Ahahahah!” guardai verso l’alto, sospirando sorridente, e mi resi conto di trovarmi sotto un fitto fogliame. “Ma… Dove siamo finiti?”
“Dev’essere il parco centrale” indovinò l’armatura guardandosi attorno. Le vie ciottolate attraversavano una boscaglia ordinata e diverse aiuole ben tenute, il tutto illuminato dalla fioca luce dei lampioni, sotto ai quali si potevano intravedere i moscerini tipici delle serate estive e qualche panchina. Il silenzio portò alle orecchie il gorgoglio di un ruscello portato in superficie dal canale principale sotto la città, mentre dei fruscii irregolari fra le fronde degli alberi indicavano che le ore degli animali crepuscolari erano giunte.
“E’ bello udire la natura dopo così tanto tempo…” potevo sentire tutto quanto ad occhi chiusi e la mia parte selvatica gioiva di nuovo, ricordandomi a quanta cattività ero stata costretta per tutto quel tempo. Poi mi soffermai su Alphonse che non aveva detto una parola e nel buio vidi il bagliore cremisi dei suoi occhi che mi guardavano.
 
“Io devo dirti una cosa.”
 
“Anche io!” dissi scherzosa, e con un balzo sopra di lui presi il suo elmo fra le mani e me lo misi in testa “Hai degli occhietti rossi e inquietanti di notte, come quelli di un procione selvatico.”
“Laisa, non scherzare.” Continuò impassibile.
“Ti prego, facciamoci una corsa liberatoria invece. Ho bisogno di sgranchirmi le gambe e liberare la mente. Se facciamo una gara mi lasci correre a quattro zampe? Per me è valido!”
“Laisa” prese l’elmo e se lo rimise in testa “Smettila, ti prego, sono serio.”
“Alphonse, sei tu a non dover scherzare con me” mi posi davanti a lui con decisione “Per stasera sono libera, voglio passare delle ore in pace e tranquillità. Come facevamo all’inizio, sul terrazzo, senza dover pensare al momento in cui mi dirai che probabilmente non ci vedremo più.”
Il ragazzo non disse nulla, lasciò cadere le braccia ai fianchi, interdetto da quella arrendevole quanto secca affermazione.
“Pensavi che non lo sapessi?” ripresi “Non ti fai mai vivo, tu e tuo fratello siete sempre più in affanno e le poche volte che ci vediamo mi guardi come se fosse l’ultima. Cosa devi dirmi, che non ti dovrò cercare se non ti vedrò di nuovo, ora che so come uscire dai miei appartamenti? Beh stai pur certo che non sarai la mia prima preoccupazione, dato che non ti sei mai degnato di parlarmi di cosa combinate. Dove dovrei andare per trovarti, a Rezembool? Neanche Winry ha voluto mettersi a contare i giorni davanti alla finestra di casa sua per vedere il vostro ritorno!”
La voce calma di Alphonse non mi avrebbe aiutato stavolta, sentivo un fiume in piena e volevo sfogarmi finché potevo e ce l’avevo davanti.
“Io lo faccio solo per proteggerti… Questa è la vita che io e mio fratello ci siamo scelti volente o nolente e ti prometto che un giorno tutto ti sarà spiegato, ma la nostra missione viene prima di ogni cosa e preferirei morire piuttosto che abbandonare Edward.”
Era la conferma, le nostre strade non erano nemmeno lontanamente le stesse e non lo sarebbero mai state. “Ho le mani legate e vorrei soltanto che tu lo capissi. Laisa, io ti amo… E se ti capitasse qualcosa-“
“Io volevo soltanto un amico!!!”
Scoppiai in lacrime, ma tutto ciò andava detto.
“Credevo di aver trovato qualcuno che avesse provato ciò che ho provato io e volevo trovare un modo per tornare a vivere, ma nonostante questo anno altalenante sono ancora là dentro, ad aspettare solo il cielo sa cosa, mentre l’amico che credevo di aver trovato si allontana sempre di più da me!! Tu mi hai curata, mi hai protetta e vorresti lasciarmi ora che mi sono innamorata di te?!? Alphonse Elric, con quale cuore mi fai questo!!”
Al, tremante dall’emozione, fece per accarezzarmi la testa ma scansai con rabbia la sua mano “Non mi accontenterai così, non stavolta. Probabilmente… Probabilmente mi sto solo sbagliando e ti ho davvero chiesto troppo. Pensavo che stare in quel posto mi avrebbe protetta da Telamy ma ora qualsiasi cosa mi sembra meno mostruosa della vita relegata in una stanza. Tu sembravi essere la mia via di fuga ma è chiaro che le cose non cambieranno fino a quando non sarò io a stravolgerle.”
L’armatura iniziò a farfugliare impacciata, tentando di mettere assieme frasi di senso compiuto “I-Il… Il destino di questo Paese è in pericolo” Ora che era con le spalle al muro il terrore che me ne sarei andata davvero dalla sua vita aveva preso il sopravvento; tutti i discorsi che aveva probabilmente cercato di prepararsi mesi addietro, in attesa del fatidico momento, stavano andando in malora “L… L’incidente alchemico che mi ha ridotto così è stata una trasmutazione umana… E gli Homunculus… E nostra madre… Io…”
Lo vedevo tremare così forte che pensavo fossero convulsioni, stava andando nel panico per qualche motivo che sul momento non riuscivo a comprendere ma che mi spaventava molto. Lo feci subito abbassare in ginocchio e presi la sua testa fra le mani, guardandolo fisso nelle fessure rosse e brillanti.
“Va tutto bene.”
“… Non posso perderti…”
“Va. Tutto. Bene.”
Lo abbracciai forte, lasciandolo interdetto. Sapevo che non avrebbe sentito nulla, ma le nostre anime umane ci dicevano che ne valeva la pena, che si sarebbero sfiorate lo stesso, e così fu. Alphonse tese debolmente le braccia per ricambiare quella stretta e, nel silenzio di quel parco deserto, sentii i suoi singhiozzi. Da prima sommessi, frenati con tutta la sua forza, poi sempre più invadenti e infine liberatori; non l’avevo mai visto fare una cosa del genere, non pensavo nemmeno che ne fosse capace.
“E’ quasi una vita che in cambio del mio impegno la vita mi restituisce sofferenza, e proprio quando penso di aver trovato qualcuno a cui aprire il mio cuore, il destino mi impedisce di starle vicino. A me e a Edward manca una dimora da tempo ma sapevamo che era giusto così. Ed ora… Ora il pensiero di “casa” ha fatto posto al tuo viso. Quanto… Quanto tempo abbiamo davvero passato assieme io e te? Due settimane, quattro, due mesi forse… Ma la verità è che dalla prima volta che ti ho accarezzato la testa, la notte in cui ti ho conosciuta in quella stanza buia, ho capito che ti avrei protetta nonostante tutto, indifferentemente da cosa o chi tu fossi, perché eri esattamente come me.”
Gli accarezzavo il viso, il metallo si era scaldato con il mio calore e allo stesso tempo la mia pelle aveva preso quell’odore ferroso che non mi sarei mai levata. …Le mie labbra premettero gentilmente contro la superficie liscia rendendo “reale” anche quell’armatura che il mondo credeva senza vita. Con gli occhi dell’anima potevo vederlo arrossire e sorridermi debolmente, lasciando cadere le ultime lacrime.
“Il preoccuparci l’uno per l’altra è un lusso che non possiamo permetterci.” Sospirai , alzandomi in piedi.
“Ora devo andare.”
“…N… No aspetta!”
Con un balzo fui sui primi rami degli alberi, prima che Alphonse potesse aggiungere altro, e da lì mi spostai veloce verso il limitare del parco; avere forza, velocità e resistenza di un lupo assieme ai pollici opponibili di un umano faceva di me anche una discreta arrampicatrice, ma non erano certo questi pensieri che mi occupavano la testa in quel momento. Una volta sull’asfalto cittadino mi diressi silenziosa verso i miei alloggi, sperando di trovare del tempo da sola nella mia stanza lontano dal mondo, come era sempre stato.
 
“Dove vai a quest’ora bambina?”
Una sagoma nera mi si piazzò davanti e trasalii di colpo, ma lo evitai rapidamente e continuai a passo spedito per la mia strada. “Il solito ubriaco o maniaco” pensai; le strade erano ormai deserte e dovevo stare molto più attenta, più facile a dirsi che a farsi nelle condizioni in cui riversavo.
Ma dopo pochi passi mi balzo davanti di nuovo; nell’oscurità potei vedere un sorriso ampio e terrificante che mi raggelò il sangue. “Non ho tempo da perdere” gli intimai passando oltre, ma ecco che un dolore sordo alla schiena mi scaraventò a terra. Vidi una luce tagliente, delle acute scintille dietro di me e voltatami mi ritrovai il suo lurido viso davanti: Richard Telamy.
“E’ stata una serata noiosa, stupida ragazzina, quindi ti concedo il privilegio di guadagnarti la libertà con una bella corsetta.” La sua voce esalava sibilanti parole che nella confusione e nel panico sentivo risuonare a vuoto nella mia mente.
“I… Io…” balbettai prima di ricevere un altro calcio che mi risvegliò completamente.
 
“Ho detto corri.”

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