Just the two of us against the rest of the world

di Tigre Rossa
(/viewuser.php?uid=260581)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1- Il pirata e il cavaliere ***
Capitolo 2: *** Non lui ***



Capitolo 1
*** 1- Il pirata e il cavaliere ***


Just the two of us against the rest of the world



 

E saremo ancora io e te, contro il resto del mondo . . .
 (Sherlock, BBC)
 



 
 
“Cosa farai da grande, Sherlock?”.
Il giorno in cui John gli fece quella domanda, erano solo due bambini.
Avevano rispettivamente sette e nove anni e, come facevano quasi tutti i pomeriggi, si erano rifugiati nella loro piccola roccaforte segreta, che avevano costruito in un angolo nascosto nel giardino degli Holmes. Era il loro covo, il loro nascondiglio. Passavano lì quasi tutte le loro giornate, quando non andavano in giro alla ricerca delle più incredibili avventure e dei guai più pericolosi.
Sherlock era seduto per terra ad accarezzare Barbarossa, il cane che l’amico gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno, e John era steso a pensare sull’amaca che i due erano riusciti a fare entrare a stento.
Sherlock lo guardò, sorpreso per un attimo da quella domanda improvvisa, per poi rispondere senza alcuna esitazione “Il pirata.”.
Il biondo si voltò verso il più piccolo, corrugando le sopracciglia. “Il pirata? Sul serio?” fece stupito.
“Certo.” annuì con sicurezza l’altro, gli occhi azzurri persi nel vuoto “Voglio andare continuamente in cerca di avventure, anche quando sarò grande. Navigherò per tutti i mari con il mio veliero e sconfiggerò tutti i più grandi corsari del mondo. Sarò Sherlock, il terrore dei sette mari.”.
John lo scrutò, un po’ confuso da quella affermazione così decisa. Sapeva che l’amico aveva una vera e propria ossessione per i pirati, ma non pensava fino a quel punto.
“Io non ti vedo come un pirata, una persona capace di torturare, rubare, ingannare ed uccidere.” obbiettò “Non veramente. Sei troppo buono.”.
Sherlock si girò a sua volta verso l’amico, fissandolo come se avesse appena detto la più grande delle idiozie “Io buono? John, mi stai confondendo con qualcun altro.”.
Il più grande scosse la testa, sicuro di ciò che aveva appena detto “No. Tu sei buono, Sherlock. Un po’ arrogante a volte, ed indelicato, e maleducato, ma buono, in fondo.”
Per un attimo, rimase a fissarlo con i suoi grandi occhi color del mare, come se volesse leggergli dentro l’anima e tirare fuori quella bontà che a lui sembrava così evidente, e poi  continuò con un filo di voce “Tu sei più simile ad un cavaliere, un eroe. Un ammazzadraghi, anzi.”.
Il sopraciglio di Sherlock si sollevò così tanto da finire nascosto dai suoi riccioli scuri “Non esistono più, John.” ribatté freddamente.
“Nemmeno i pirati.”
“Si, invece.”
John scosse la testa, divertito dalla testardaggine dell’amico.
“Ok, lasciamo stare. Comunque, se tu fossi un cavaliere, io sarei il tuo scudiero, il tuo compagno. Ti accompagnerei ovunque e sfiderei con te i peggiori pericoli. Ti aiuterei ad uccidere qualsiasi drago. Sarei al tuo fianco, sempre e comunque.” disse con aria sognante, tenendo gli occhi fissi nei suoi.
Sherlock, a quelle parole, sentì come un fuoco caldo avvolgergli il cuore e una strana sensazione stringergli l’anima, una sensazione mai provata prima.
John abbassò gli occhi sul pavimento, un po’ imbarazzato per quello che aveva detto, e i due rimase in silenzio per un po’, ognuno perso nei propri pensieri, fino a quando il più piccolo non chiamò l’altro per nome.
“John?”
Il biondo sollevò di nuovo lo sguardo per incontrare i suoi occhi, e fu sorpreso di vederli così luminosi, ma anche stranamente titubanti.
“Dimmi.”
Sherlock esitò per un attimo, mordendosi l’interno della guancia, e poi chiese “Se io fossi un cavaliere, tu combatteresti davvero al mio fianco?”.
John spalancò gli occhi, ma fu solo per un attimo. Subito dopo sorrise, uno di quei sorrisi che riservava solo all’amico, scese dall’amaca e si sedette accanto a lui, senza staccargli mai lo sguardo da dosso.
“Non devi neanche chiederlo, Sherlock. Io sarei al tuo fianco ovunque, in qualsiasi situazione.” Il sorriso di John, se è possibile, si fece ancora più grande. “Saremo solo io e te, contro il resto del mondo.” sussurrò dolcemente, prendendo al mano dell’amico e stringendogliela appena, in un gesto insolito per entrambi ma stranamente piacevole.
“Bau!” abbaiò  Barbarossa, fissando quasi con aria offesa i due bambini.
I ragazzini scoppiarono a ridere e, mentre il moro accarezzava il pelo rossiccio del cucciolo con la mano libera, John si affrettò ad aggiungere “Io, te e Barbarossa, ovviamente.”.
Sherlock sorrise e accarezzò l’amico con lo sguardo.
Avrebbe volentieri rinunciato al mare e agli arrembaggi, se questo significava avere una vita avventurosa al fianco di John. Ed anche a molto di più.
 
 
Prima di vedere arrivare il pugno, Sherlock lo sentì.
Dritto, violento, doloroso, tirato con ferocia proprio al centro dello stomaco.
Il tredicenne non poté fare a meno di piegarsi su sé stesso come un ramoscello spezzato, mentre dalle labbra pallide gli sfuggiva un impercettibile gemito.
I ragazzi minacciosi che stavano attorno a lui sorrisero, con quello spregevole piacere che solo gli esseri più malvagi provano nel ferire gli altri, ed iniziarono a tempestarlo con altri mille pungi e calci, ed alcuni a colpirlo con dei corti ma robusti bastoni.
Sherlock non restò inerme, anzi. Strinse i denti con aria feroce e cercò di difendersi, tirando più colpi che poteva e tentando allo stesso tempo di sottrarsi alla loro violenza.
Ma era solo, circondato da ragazzi grossi il doppio di lui, e il taglio appena sopra l’occhio che gli avevano inferto sbattendolo contro il muro poco prima e che continuava a bruciare e a sanguinare come il suo orgoglio non era certo d’aiuto.
I colpi si fecero sempre più violenti, fino a quando il moro non finì a terra, steso sul marciapiede di quel vicolo buio.
Gli aggressori scoppiarono a ridere di gusto e si strinsero attorno a quel corpo coperto di lividi che si ostinava a non cedere. Sherlock chiuse d’istinto gli occhi, come un cane randagio ferito a morte e spinto all’estremo.
Il capo del gruppo alzò di nuovo il bastone, pronto a terminare quella lezione di crudeltà, ma una voce rabbiosa lo bloccò a mezz’aria.
“Lasciatelo stare!”
I ragazzi si voltarono verso il proprietario della voce, irritati da quella interruzione improvvisa, mentre Sherlock spalancò di scatto di occhi e si sollevò malamente sui gomiti, stupito ed allarmato.
“John!” sussurrò senza fiato.
Un ragazzino biondo, minuto, dai profondi occhi blu colmi di rabbia, stringeva i pugni con forza e fissava con aria feroce gli aggressori.
“Lasciatelo stare!” ordinò di nuovo il biondo, trapassandoli con lo sguardo uno per uno. Negli occhi gli brillava una luce crudele, feroce, coraggiosa, una luce che per un attimo fece indietreggiare il gruppetto. Ma fu solo un attimo.
Subito dopo, infatti, il capo dei bulli sorrise malignamente.
“Ne vuoi anche tu, Watson?” sibilò divertito, lanciando dietro di sé il bastone ed avvicinandosi di un paio di passi a lui come uno sciacallo pronto a mietere una nuova vittima.
Con un movimento fulmineo, estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un coltellino a serramanico dall’aria terribilmente affilata e se lo rigirò tra le dita, senza che il sorriso divertito gli abbandonasse il volto. “Accomodati pure. Dubito però che il tuo viso avrà lo stesso aspetto, dopo.”
Il volto di Sherlock perse il poco colore che aveva, e il ragazzo tentò di alzarsi per intervenire, ma il resto del gruppo subito lo afferrò, lo immobilizzò e per buona misura uno di loro gli tirò un altro pungo in volto.
“Fermo, Holmes, dopo ce ne sarà anche per te.” gli sussurrò all’orecchio, senza trattenere una risatina di scherno “Adesso tocca al tuo amichetto.”.
John lanciò all’amico un occhiata fulminea, così veloce che solo lui poté coglierla, ma bastò ed avanzò per comprendere ciò che voleva dire.
Tieniti pronto.
Il moro annuì appena.
Watson riportò la sua attenzione al bullo che aveva davanti e lo guardò con aria da sfida, facendo scrocchiare rumorosamente le nocche delle dita.
“Dubito che il tuo viso avrà lo stesso aspetto, Alex [1].”
Alex, così si chiamava il ragazzo, ringhiò sommessamente e si lanciò contro il biondo, pronto a fargli pagare cara quell’insinuazione.
Quello aspettò fino all’ultimo momento e poi si spostò con una velocità impressionante di lato.
Prima che l’altro potesse reagire, gli afferrò il braccio armato dal polso con una sola mano e glielo piegò dietro la schiena, costringendolo a lasciare il coltello dal dolore, che afferrò con la mano libera per poi puntarglielo al collo.
Contemporaneamente Sherlock, sfruttando la distrazione dei suoi aggressori, che stavano fissando la scena inorriditi, si liberò di quello che lo immobilizzava pestandogli il piede e poi tirandogli una serie di pugni e gomitate in pieno viso, e subito dopo riservò un trattamento simile ai altri.
I ragazzi, presi alla sprovvista dall’improvvisa reazione del moro e vedendo la pessima situazione in cui si trovava in loro capo, decisero di tagliare la corda e scapparono di corsa fuori dal vicolo.
John sorrise ironicamente e premette il coltello più vicino alla pelle di Alex, che stava iniziando a sudare freddo.
“Hai degli amici molto fedeli, vedo. Ti hanno lasciato totalmente solo, alla nostra mercè. Amicizie così non si trovano certo tutti i giorni.” gli sibilò all’orecchio, la voce ridotta ad un sussurro rauco “E adesso cosa ne facciamo di te, eh, Alex? Dovrei farti tutto ciò che hai fatto poco fa al mio amico, anzi, molto di peggio, direi. E potrei farlo. Dopotutto, ho io il coltello dalla parte del manico, nel vero senso del termine.”
Non c’era allegria, né voglio di scherzare, nella voce del biondo. Era furioso, veramente furioso. Fece scorrere il coltello lungo il collo del ragazzo, che deglutì. Stava decisamente iniziando a sudare freddo.
Con un movimento quasi impercettibile, John gli fece un taglio abbastanza profondo sullo zigomo e lasciò la presa del braccio, indietreggiando e continuando a puntargli il coltello contro.
Alex emise un piccolo gemito e si portò la mano alla ferita, voltandosi verso il biondo che lo scrutava con aria seria.
“Peccato che io non sia come te.” ringhiò John, mentre i suoi occhi blu bruciavano come fiamme “Vattene, prima che cambi idea. E non azzardarti mai più a toccare Sherlock. Ci siamo capiti?”.
Il ragazzo indietreggiò di un paio di passi, mentre lo sguardo andava ripetutamente dal coltello al viso mortalmente freddo di John, annuì una volta, scosso dai tremiti, si voltò e seguì di corsa i suoi compagni, con la mano ancora premuta sul taglio.
Il biondo tenne lo sguardo fisso su di lui fino a quando non scomparve alla sua vista, poi abbassò l’arma e si voltò, con il viso che finalmente poteva manifestare tutta la sua ansia, verso Sherlock, che si era accasciato a terra e cercava di riprendere fiato.
“Sherlock, stai bene? Stai bene?” domandò preoccupato John, inginocchiandosi di fronte a lui e scrutando le sue ferite con aria allarmata.
Il moro annuì, mentre cercava di prendere abbastanza fiato per rispondere “Si, sto bene. Sto bene John, davvero.” rispose, poiché vedeva che l’altro non ne era del tutto convinto “Piuttosto, tu stai bene?”.
“Io? Certo, sto bene.” tagliò corto Watson, mentre il suo viso si faceva scuro alla visto del taglio e del sangue sul volto dell’amico. Gli sollevò il volto con fare autoritario ed osservò attentamente la ferita sanguinante, imprecando tra sé e sé.
Sherlock alzò gli occhi al cielo “John, te l’ho già detto, sto bene. Non è niente, davvero. Piuttosto, come sapevi che . . .?”
“Eri in ritardo, così mi sono allarmato e sono venuto a cercarti.” il biondo strinse le labbra, senza distogliere lo sguardo dal suo volto malconcio  “Per cos’era, stavolta?” domandò, trattenendo a stento altre imprecazioni tra i denti.
Non era la prima volta che i ragazzi della loro scuola prendevano di mira Sherlock, né era la prima che lo picchiavano. Ormai i due ci avevano quasi fatto l’abitudine.
Quasi, però.
Il moro si strinse nelle spalle simulando noncuranza, per quanto l’ingiustizia appena subita gli bruciasse ancora dentro come un incendio senza fine.
 “Il solito, lo sai. Avrò fatto qualche deduzione di troppo stamattina a scuola, o semplicemente si annoiavano e hanno deciso di divertirsi un po’ con me.” sollevò gli occhi al cielo “I soliti cretini. Mi picchiano perché sono più intelligente di loro.”
“Ti picchiano perché sei diverso [2], Sherlock.” ribatté l’altro, sollevandosi da terra senza staccare gli occhi dalla ferita dell’amico “Ma, dopotutto, è questo che ti rende straordinario. Dai, andiamo a casa, quel taglio va medicato.”.
Il giovane Holmes si alzò a sua volta, sbruffando.
“Ti ho già detto che non è niente, John.”
“E io ti ho già detto di alzare il culo e muoverti, Sherlock.”
 
Poco dopo, i due erano nel minuscolo salotto dell’ancora più minuscolo appartamento di John. Sherlock continuava a lamentarsi ed a muoversi, mentre l’altro tentava con scarsi risultati di medicarlo.
“Vuoi stare fermo?” sbruffò John, dopo aver tentato per la nona volta di fila di iniziare a suturare la ferita “Altrimenti ti ricucio il taglio senza usare alcun antidolorifico, e farò in modo di inserire l’ago il più dolorosamente possibile.”
Holmes alzò gli occhi al cielo, ma finalmente si decise a stare fermo il minimo indispensabile per permettere al biondo di inserire l’ago e cominciare a suturare.
I due rimase così in silenzio per un po’, John tutto concentrato sul suo lavoro, mentre ricuciva la pelle velocemente ma con mano delicata, come suo padre gli aveva insegnato da bambino, e Sherlock che lo fissava con i suoi spettacolari occhi di quel colore indefinito ma incredibilmente mozzafiato.
Scene simili non erano insolite, per i due adolescenti.
Lui si infilava nei guai più incredibili o veniva attaccato e picchiato nei momenti più insospettabili, e John, puntualmente, interveniva in suo aiuto, pronto sempre a difenderlo con i denti e con gli artigli, quasi si trattasse della sua stessa vita.
Era una cosa che ancora stupiva il giovane Holmes.
Quella sua continua fedeltà. Quel suo coraggio incrollabile. Quel suo intervenire sempre, senza la minima esitazione. Quell’amicizia così gratuita, così genuina, così . . . così pura. Non gli era mia capitato di vivere una cosa simile. Non a lui.
Lui era sempre stato isolato, fin da quando era piccolo. Era stato ed era ancora quello ‘strano’, quello diverso, quello da cui tutti si tenevano alla larga. Non aveva mai avuto amici, ed in un certo senso nemmeno li aveva cercati. A che pro cercare un legame destinato a non durare, un legame a cui, a quanto pareva, non era destinato?
Eppure, con John era diverso.
Con John era sempre stato diverso, fin dal giorno in cui si erano incontrati per la prima volta.
Lui non credeva che fosse strano, pazzo o da tenere alla larga. Lui si fidava di lui, correva rischi incredibili per lui, si batteva per lui, lo proteggeva, gli voleva . . . gli voleva bene.
Era una cosa nuova, per Sherlock, completamente nuova. Per quanto ormai si conoscessero da anni, non riusciva ancora a farci l’abitudine. Né poteva credere che una persona come John Watson avesse scelto come amico uno . . . beh, uno come lui.
“John?”
“Mmh.”
“Credi davvero che io sia straordinario?” domandò Sherlock, non senza un po’ di esitazione nella voce.
John alzò di colpo lo sguardo e guardò stupito il moro, certo di aver sentito male “Come, scusa?”.
L’altro sbruffò, infastidito “Mi hai sentito.”
Il biondo rimase in silenzio per qualche secondo, scrutandolo con i suoi occhi blu, e poi sorrise “Io non lo credo, Sherlock. Tu sei straordinario. Anzi, sei la persona più straordinaria, saggia e migliore che io abbia mai conosciuto.”
Holmes si trovò costretto a distogliere lo sguardo ed a chiedersi cosa fosse quella specie di dolore piacevole che provava all’altezza del petto.
John gli lanciò un ultimo sguardo e poi tornò a lavorare, ma fu di nuovo interrotto dall’amico, che disse con voce seria “Oggi, quando ha affrontato Alex . . . non sembravi te stesso. Per un attimo, ho creduto di trovarmi davanti una persona completamente diversa. Sembravi me. E questo non è mai una cosa positiva.”
Il giovane Watson si bloccò e guardò di nuovo il compagno, che stavolta resse il suo sguardo.
“Gli avrei volentieri spaccato la faccia, in quel momento, lo ammetto. E se lo sarebbe meritato. In fondo, non è una buona persona.” rispose freddo.
“Ho visto i tuoi occhi, John.” ribatté l’altro “Erano occhi di una persona disposta ad uccidere.”.
John non sembrò scomporsi per quella affermazione.
“Probabilmente ne sarei capace. Si, per salvarti la vita dall’ennesimo coglione di turno, potrei uccidere. Per te lo farei.” il ragazzo riprese a suturare come se avesse appena detto una cosa di poco conto. Sherlock rimase a fissarlo, senza dire niente.
Lo sapeva. Lo sapeva fin troppo bene. Conosceva il suo John Watson, dopotutto.
“Anche io.” disse semplicemente, scostandosi qualche ricciolo ribelle dagli occhi e lanciando all’amico un’occhiata fugace.
John sorrise ed annuì a sua volta.
Lo sapeva anche lui, fin troppo bene.
 
 
John strinse i pugni, mentre mentalmente contava fino a dieci per non esplodere.
Arrivò a tre.
“Cosa diavolo ti è saltato in mente?” gridò furioso, fulminando con lo sguardo il ragazzo seduto di fronte a lui ed avvolto in una coperta arancione fornitogli da un paramedico.
Sherlock sospirò. Si aspettava una reazione simile, anche se sperava che l’amico avrebbe conservato la sfuriata per quando sarebbero stati soli. Ma chiaramente rimproverarlo di fronte a mezza Scotland Yard doveva essere una sua concezione di ‘punizione’.
“Il serial killer stava scappando John, se avessi aspettato Gavin non sarei mai riuscito a prenderlo, e il lavoro di due settimane sarebbe andato perso.” spiegò con tono annoiato, come se fosse ovvio.
Una vena prese a pulsare sulla tempia del biondo “Primo, l’ispettore si chiama Greg, non Gavin. Secondo, hai quasi finito per farti ammazzare. Terzo, che cosa ci facevi tu in un’indagine della polizia?! Non sei un agente e hai solo sedici anni, per la miseria!”.
Il giovane Holmes alzò gli occhi al cielo, come se considerasse le obbiezioni dell’amico incredibilmente stupide.
“Sinceramente, John, il suo nome non mi sembra importante, al momento. E comunque sei il solito esagerato. Era solo una pallottola e mi ha appena sfiorato.” ribatté con leggerezza, e poi continuò prima che l’altro potesse ribattere “Per quanto riguarda l’indagine, lo sai che stavo seguendo il caso da quando è avvenuto il primo omicidio, te ne ho anche parlato. Credevo di aver individuato alcune tracce da seguire, così sono andato a Scotland Yard per mettere a corrente gli investigatori dei miei sospetti, proprio come ho fatto due mesi fa con il caso del piccolo Carl [3]. Ma questa volta, invece del solito vecchio tricheco ottuso e ripieno di ciambelle, ho trovato un giovane ispettore, Lestrade Come-si-chiama, un po’ meno ottuso degli altri, ma con la stessa passione per la ciambelle, purtroppo.”
Fulminò con lo sguardo l’agente Lestrade, che, a pochi passi da lui, lo fissava offeso ed indignato, la bocca già aperta per rispondergli a tono. “Mi ha dato ascolto e mi ha proposto di collaborare. Alla fine siamo riusciti ad individuare il suo nascondiglio, ma l’assassino doveva avere un informatore, perché quando siamo arrivati stava già scappando. L’ho inseguito, chiaramente, e alla fine sono riuscito ad acchiapparlo a costo di qualche insignificante graffietto. Lestrade però si è preoccupato, ha chiamato un’ambulanza ed ha insistito affinché gli dessi il numero di qualcuno dei miei parenti. Ovviamente non avrei mai potuto dargli il numero dei miei, visto che sono in vacanza in Danimarca, e non ci pensavo nemmeno a far chiamare Mycroft, avrei smesso di vivere. Così gli ho dato il tuo, dicendo che eri mio fratello. Il che non è nemmeno una bugia, in fondo.”
Squadrò l’amico, con un guizzo d’affetto nello sguardo e un sorrisetto divertito negli occhi chiari, stringendosi appena nella coperta arancione per lo shock che aveva addosso. “Ripensandoci, avrei dovuto chiamare lui. Di certo non avrebbe tentato di uccidermi qui di fronte a tutti come tu sembri avere intenzione di fare.”
John lo fissò, gli occhi stretti in una fessura. Si, probabilmente l’avrebbe ucciso. O gli avrebbe sequestrato microscopio e provette fino ai trent’anni, pena che sarebbe stata mooolto superiore alla morte, dal suo punto di vista.
Il moro sospirò, avendo intuito i pensieri dell’amico. “D’accordo, d’accordo, ho capito. Non mi infilerò mai più in casini di questo genere. D’ora in poi, solo casi di cagnolini scomparsi o simili, ok?”.
Watson strinse i denti e poi sollevò gli occhi al cielo “Sei un idiota, Sherlock Holmes. Un dannato idiota.”.
Sherlock fece per ribattere, ma l’ansia che lesse negli occhi del biondo lo bloccò.
Si era davvero spaventato a morte, quando Lestrade l’aveva chiamato dicendo che ‘suo fratello’ Sherlock era stato colpito di striscio da una pallottola durante l’inseguimento di quel serial killer. Era arrivato di corsa, infilandosi il capotto sopra il pigiama, per poi vederlo lì, tutto soddisfatto, seduto ad aspettarlo su un muretto, circondato da due dozzine di agenti che lo guardavano stupiti e impressionati e pronto a raccontargli la sua avventura senza nemmeno preoccuparsi di quanto ciò potesse averlo preoccupato.
Era davvero un idiota, certe volte.
“Scusami, John.”
John sobbalzò, colpito da quelle parole.
“ ‘Scusami’?” ripeté lentamente, stupito “ Tu che ti scusi? Chi sei, e che ne hai fatto del vero Sherlock Holmes?”.
Il moro sorrise appena, vedendo che la preoccupazione dell’amico stava finalmente scomparendo.
“Dai, mi hai capito. Andiamo ora. Domani abbiamo scuola.” disse, alzandosi e lanciando la coperta a Lestrade, che li fissava con un sopraciglio alzato, per poi incamminarsi tranquillamente verso la strada.
John lo seguì, scuotendo appena la testa “Non pensare di cavartela così. Riferirò tutto a tuo fratello, stanne certo.”
Il ragazzo si strinse nelle spalle “Fa come credi.”.
“Sherlock.”.
Sherlock si voltò verso di lui, colpito dall’improvviso cambio di voce del biondo.
John lo guardò fisso negli occhi, seriamente “La prossima volta che vuoi cacciarti in altri guai, inseguire criminali o smascherare serial killer, prima chiamami. Se fai di nuovo una cosa del genere da solo, ti prometto che ti ammazzo sul serio, e non me ne frega niente se c’è l’intera Inghilterra a guardarci, ok?”.
Detto questo, riprese a camminare, lasciando l’amico dietro di sé, che lo seguì con lo sguardo, stupito ma con una piacevole sensazione di calore nel petto.
 
 
Quando Sherlock aprì gli occhi, per un attimo gli mancò il fiato.
John era lì, inginocchiato di fronte a lui con aria severa, e i suoi occhi blu gridavano ‘Sei morto’ in tutte le lingue conosciute e non.
Il moro fece per tirarsi su, ma lo stordimento e la nausea erano così forti che cadde di nuovo all’indietro e sbatté contro la dura parete che gli aveva fatto da giacinto per tutta la notte.
“Jawn ...” riuscì appena a mormorare, con voce lenta e roca “ Cosa . . .?”.
Il ragazzo lo fulminò con lo sguardo e lo afferrò malamente da un braccio, per poi tirarlo su.
“Non ti azzardare a parlare, Sherlock.” sibilò, facendogli mettere un braccio attorno alle sue spalle per farlo restare in piedi “Non una parola.”. La sua voce sapeva di rabbia, di dolore, e di delusione.
Il diciottenne avrebbe voluto ribattere, ma la testa gli faceva troppo male e il cervello era troppo sconnesso per riuscire a ragionare come avrebbe voluto, così ci rinunciò e si fece guidare da John verso l’uscita di quel vecchio manicomio abbandonato che era stato il suo rifugio per gli ultimi cinque giorni.
Il biondo strinse i denti e fece scorrere lo sguardo lungo i suoi capelli disordinati e sporchi, il viso pallido e senza espressione, gli occhi rossi e vuoti e la braccia scoperte, ricoperti da così tanti segni di aghi che non era possibile contarli.
“Perchè, Sherlock?” gli chiese con rabbia “Sul serio, perché? Stavi andando bene, erano mesi che non ti avvicinavi più a nessuna droga, e poi sei sparito all’improvviso. Per cinque giorni. Cinque maledetti giorni. I tuoi erano disperati, Mycroft e Lestrade hanno setacciato tutta Londra per trovarti, e io, Mike e Molly eravamo preoccupatissimi, non abbiamo fatto altro che cercarti giorno e notte ovunque. Ovunque. Credevamo che ti fosse accaduto qualcosa. Ed invece, per tutto questo tempo, tu eri qui, in questo scarto di mondo, a farti di solo Dio sa che cosa, senza nemmeno pensare a noi, a quello che ci stavi facendo passare, che mi stavi facendo passare.”.
I due uscirono all’aperto, e Sherlock dovette chiudere gli occhi per proteggersi dall’intensità della luce del sole,e forse anche per non vedere il volto deluso ed arrabbiato dell’amico.
“John . . .” sussurrò con voce flebile, senza osare aprire gli occhi.
“No, Sherlock.” lo zittì il più grande “Non azzardarti a dire che ti dispiace, che non è niente o che stai bene. Non azzardarti a dire che siamo degli enormi idioti a preoccuparci per te. Non ti azzardare, Sherlock. Ci hai fatto morire, davvero. E questa non è una cosa da prendere alla leggera. Tu non ti rendi conto che quello che stai facendo ti sta distruggendo. Non ti rendi conto che non stai facendo del male non solo a tutti coloro che ti vogliono bene e tengono a te con questo comportamento, ma anche e soprattutto a te stesso. Ti stai uccidendo con le tue stesse mani, e non possiamo permetterlo. Io non posso permetterlo.”.
Aprì lo sportello della piccola auto di famiglia e fece adagiare l’amico sul sedile del passeggero, per poi legargli la cintura e mettersi seduto al volante.
Sherlock aveva finalmente aperto gli occhi e si fissava con aria stanca le scarpe, e John rimase un po’ a guardarlo, per poi scuotere la testa e mandare un messaggio al maggiore degli Holmes per avvisarlo che l’aveva trovato.
Accese il motore, e prima di avviarsi verso la casa dell’amico si voltò verso di lui e gli disse con voce ferma “Sherlock, guardami.”.
Il moro, dopo un attimo di indecisione, sollevo lo sguardo verso di lui, e gli occhi dei due giovani si incontrarono. Il mare si fuse con il cristallo, in un’unione di sguardi e di anime, e John si trovò a sospirare.
Allungò la mano per prendere quella lunga e scheletrica dell’amico e la strinse delicatamente, come raramente faceva.
“William Sherlock Scott Holmes” mormorò, senza mai staccargli gli occhi di dosso “ tu sei la persona più intelligente e straordinaria che io abbia mai avuto la fortuna di conoscere, ma quando ti comporti così ho davvero la tentazione di prendere questa tua dannata testolina e di sbatterla contro il muro fino a quando non ci entrerà dentro un po’ di buonsenso. Non capisci davvero quanto ti stai facendo del male in questo modo? Se continui così, rischi davvero di perdere quello che fa di te te stesso, e tutti coloro che ti vogliono bene. E non dire che non ce ne sono, perché non è vero. Ci sono i tuoi genitori, che non ti hanno ancora buttato fuori di casa nonostante tute le volte che hai tentato di distruggerla, c’è tuo fratello, che pagherebbe l’intera Londra per saperti al sicuro, c’è Lestrade, che sopporta da anni le tue intromissioni nei suoi casi e ti permette di divertirti quando e quanto ti pare, c’è Molly, che farebbe davvero di tutto per te, c’è Mike, che ti sopporta dalla mattina alla sera, e poi ci sono io, che sono tuo amico da anni.” I suoi occhi brillavano, e il moro per un attimo credette di vedere le labbra dell’altro tremare “Se davvero non vuoi smettere per te, almeno smetti per le persone che a te ci tengono, per queste persone. Smettila per noi, Sherlock. Smettila per me. Ti prego.”.
Sherlock sentì un fremito all’altezza del petto, ed improvvisamente sostenere lo sguardo dell’amico era diventato veramente impossibile.
Abbassò gli occhi e rimase in silenzio per qualche minuto, mentre nella sua anima si scatenava una lotta senza precedenti.
Alla fine, strinse con forza la mano del biondo e sussurrò piano, quasi lottando contro sé stesso “Portami a casa, John.”.
John lo guardò ed annuì, mentre una sensazione di calma lo avvolgeva.
Forse, quella sarebbe stata davvero la volta buona.
 
 
“Allora hai deciso?”
Sherlock guardò John, ancora incredulo per ciò che l’amico aveva appena detto.
Il giovane uomo distolse lo sguardo, non riuscendo a sostenere quello illeggibile dell’altro, per poi annuire.
“Si. Ci ho pensato a lungo, ma ... si. Mi arruolo. Diventerò un medico militare, come mio padre. Partirò tra due settimane per l’addestramento, e alla fine dei tre anni verrò assegnato. Probabilmente ad un reggimento in Afghanistan o Iraq.”
Qualcosa, dentro Holmes, fece un lieve ma distinto crac.
Ecco, sapeva che sarebbe successo. Erano anni che l’idea tormentava John, e negli ultimi tempi era diventata così insistente che non c’era da stupirsi se alla fine aveva ceduto.
Dopotutto, avrebbe dovuto aspettarselo.
John, il suo John, sempre pronto ad intervenire in aiuto dei più deboli, a tuffarsi nelle risse più pericolose per aiutare chi era in difficoltà, a corrergli dietro durante i casi più pericolosi, a curare le sue innumerevoli ferite ogni qualvolta si faceva del male, cos’altro poteva fare nella vita, se non il medico militare?
Lui era fatto per la guerra. Bastava vederlo quando finivano in qualche rissa. Nonostante la sua figura minuta e il suo viso gentile, aveva un forza insospettabile, un sangue freddo invidiabile e una capacità di ragionare in fretta nelle situazioni di pericolo che metteva i brividi.
Ma non era solo questo.
Lui era quello che si fermava a curare le ferite degli altri, fregandosene delle sue, anche nel bel mezzo di una fuga. Era quello che rischiava la sua vita per proteggere gli altri. Era quello che poteva ucciderti e salvarti allo stesso tempo. Non l’aveva sperimentato già tante volte, in quei lunghi anni di amicizia, avventure e complicità? Quante volte era successo a lui?
John era già un soldato che salvava vite, oltre che a distruggerle. Era allo stesso tempo un demone che ricuciva ferite sanguinanti ed un angelo pronto a puntarti contro una pistola.
Era ovvio che sarebbe successo, prima o poi. Avrebbe dovuto saperlo. O per lo meno avrebbe dovuto dedurlo.
Ma allora perchè ne era così sorpreso? E, soprattutto, perché stava così male solo al pensiero?
“Tua madre e tua sorella sono d’accordo?” domandò, cercando di nascondere il fatto che lui non era affatto d’accordo.
John si passò una mano tra i capelli biondi, un gesto di imbarazzo che non ripeteva da quando era un ragazzino “Conosci Harry, basta che non le sto tra i piedi e non le faccio sparire le sue amate bottiglie e tutto quello che faccio le va bene. Mia madre all’inizio era contraria, sai, per quello che è successo a papà, ma alla fine l’ha accettato.”.
Quest’ultima affermazione suonava strana al moro. Conosceva la signora Watson, e dubitava fortemente che avesse accettato così presto di mandare suo figlio sul campo di battaglia, non dopo che suo marito era morto appena sei mesi prima proprio combattendo. Probabilmente avrebbe cercato di distogliere John dal suo intento per settimane, mesi forse.
“Quando glielo hai detto?” domandò serio, corrugando la fronte.
Il biondo si morse le labbra, preso alla sprovvista, e non rispose.
“Quando glielo hai detto, John?”.
John alzò lo sguardo verso di lui e, dopo un attimo di esitazione, rispose in un sussurro “Due mesi fa.”
“Due . . .?”
Sherlock si sentì tradito. Aveva preso quella decisione ben due mesi fa e glielo aveva tenuta nascosto, raccontandogli bugie su bugie, ingannandolo per tutto quel tempo?
“Due mesi e tu me lo dici solo ora?” la voce del moro era diventata improvvisamente roca, come succedeva ogni volta che si arrabbiava “Ora che stai per partire?”.
Il giovane Watson sollevò la testa e i suoi occhi blu incontrarono quelli feriti e insondabili dell’amico “Volevo dirtelo prima, ma . . . ma non ne ho avuto il coraggio. Non ce l’ho fatta, Sherlock. Perché sapevo che dirlo a te sarebbe stato peggio, mille volte peggio, di dirlo a Harry, a Molly, a Mike, a Lestrade o anche a mia madre. Dirti che ho deciso di arruolarmi, di partire per prepararmi a combattere su un campo dal quale forse non tornerò mai più, era l’ultima cosa che volevo fare. Perchè sapevo che non saresti stato d’accordo. E no, non c’è bisogno che tu lo dica, perchè so che è così. Te lo leggo negli occhi. E sai, neanche io impazzisco dalla gioia all’idea di lasciare tutti voi qui e forse di non vedervi mai più, ma è una cosa che devo fare. Devo farlo. Si tratta di una cosa che sento dentro, nel sangue. E non posso tirarmi indietro. Non posso né voglio.”
Sherlock deglutì, mentre la parole dell’altro gli perforavano l’anima come pallottole avvelenate.
“John, non puoi sul serio pretendere che io sia d’accordo con te.” ribatté freddamente, allargando le braccia “Te ne andrai da Londra per anni, ti allenerai in qualche scuola militare lontana ed inaccessibile che poi ti spedirà chissà dove a ricucire cadaveri e a farti sparare addosso, col rischio di morire ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo. Credi davvero che io sia felice di sapere che il mio migliore amico ha deciso di vivere una vita simile?”.
Gli occhi di John si spalancarono dallo stupore.
“Che c’è?” fece Holmes, non comprendendo il perché di quell’espressione sconcertata.
“Non mi avevi mai detto che sono il tuo .. . ” la sua voce tremò appena “ . . . migliore amico.”.
Sherlock lo fissò, non riuscendo a cogliere il significato del suo stupore “Non pensavo che ci fosse bisogno di dirlo, John. Lo sei. Lo sei sempre stato.”.
John rimase in silenzio per qualche momento, poi distolse lo sguardo e un sorriso timido si formò sulle sue labbra  “Non è uno stratagemma per farmi cambiare idea, vero?”.
Il moro arricciò le labbra, divertito “Dubito che una cosa del genere ti impedirebbe di fare quello che ti pare. Quando ti ci metti sei più testardo di me.” si rabbuì di nuovo “Ma questo non vuol dire che mi piaccia.”.
Watson alzò di nuovo lo sguardo ed incontrò il suo “Lo so, Sherlock. E mi dispiace. Non posso fare altrimenti, e lo sai. Ma ti giuro che farò in modo di tornare indietro, da te.”.
Sherlock sospirò e rimase in silenzio per una manciata di minuti.
“D’accordo.” disse infine, mentre il suo cuore si arrendeva “Ma ti giuro, John, che se ti azzardi a morire vengo a riprenderti all’Inferno e ti riporto a Londra a suon di calci.”.
John scoppiò a ridere, e Sherlock si chiese quanto sarebbe sopravvissuto, senza di lui.
 

 
 
 
La tana dell’autrice
 
E rieccomi qua!
Due parole veloci veloci, perché devo proprio scappare . . . questa inizialmente doveva essere una long, tant’è che la seconda parte di questo capitolo era già stata pubblicata come prologo di una storia con los tesso titolo, ma poi ho deciso di svilupparla come una one short, divisa però in due-tre parti per non renderla troppo lunga.
Spero davvero che vi piaccia e, come al solito, qualsiasi consiglio sarà ben accetto!
Un abbraccio
 
T.r.
 
 
[1] Piccolo ‘tributo’ al bullo che mi ha tormentato per anni insieme alla sua banda. Credo che possa essere considerata una sorta di rivincita poetica.
[2] Citazione di ‘The Imitation Game’, film che mi ha fatto male al cuore.
[3] Carl Powers, ovviamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Non lui ***


Non lui
 
 
 
 
 
Io non dovrei amare e ammirare questo uomo?
Non dovrei ritenere mio dovere difenderlo in ogni modo?
(Cicerone)
 
 
 
John guardava fuori dal finestrino del taxi, massaggiandosi piano la spalla, sotto lo sguardo attento di Sherlock.
Gli sembrava ancora un miracolo averlo lì, accanto a lui.
E Holmes non aveva mai creduto nei miracoli, prima di quel momento.
 
‘Il signor Sherlock Holmes? Sono il comandante Sholto. Si tratta del capitano John Watson.’
 
Ricordava bene quando, alcuni mesi prima, il comandante di John l’aveva chiamato nel bel mezzo della notte, dicendogli che il suo amico, il suo migliore amico, stava per morire.
Era un ricordo che teneva rinchiuso al sicuro, nelle stanze più nascoste e meglio sigillate del suo palazzo mentale, ma era così forte da essere capace di uscire da lì e di travolgerlo con tutta la sua disperazione anche dopo così tanto tempo, anche adesso che il suo John era lì, accanto a lui, col cuore che batteva ancora nel petto.
Ricordava che si era sentito come se tutto il mondo fosse scomparso e il suo battito, per quanto anatomicamente impossibile, si era fermato, mentre il suo peggiore incubo diventava realtà.
 
Non può essere, aveva pensato.
No, non può essere.
Non John.
Non il mio John.
 
Aveva subito telefonato Mycroft e lo aveva praticamente costretto a farlo arrivare in Afghanistan, dove Watson stava combattendo quando era stato colpito da un cecchino nemico.
Era arrivato lì, in quella terra di morte, di sangue e di disperazione, ed rimasto al capezzale dell’amico, mentre questi lottava e si aggrappava alla vita con tutte le sue ultime forze e con la sua tenacia di soldato che era sua da sempre.
 
Non azzardarti a morire, John Hamish Watson.
Non abbandonarmi.
 
Era rimasto al suo fianco, a fissare quegli occhi che non volevano saperne di aprirsi, quel viso pallido come la morte, quelle labbra esangui che, forse, non gli avrebbero mai più sorriso.
A nulla erano valse le obbiezioni dei medici, stupiti dalla resistenza del capitano ma certi che a nulla sarebbe servito, o le parole dei soldati, angosciati quasi quanto lui. Non si era allontanato un attimo da John. Era rimasto lì, accanto a lui, la mano stretta attorno alla sua, senza mangiare, bere o riposare, con un unico pensiero in testa.
 
Ti prego Dio, lascialo vivere.
 
Sherlock non credeva in Dio, non ci aveva mai creduto. Come può una persona che venera solo la fredda ed infallibile ragione credere in qualcosa che va completamente contro di essa?
Eppure, in quei momenti, non gli era importato.
 
Dopo quelli che erano sembrati secoli, incredibilmente, il miracolo era avvenuto.
John si era risvegliato, davanti gli occhi increduli di Sherlock.
Era sopravissuto.
Aveva una bruttissima ferita che gli attraversava la spalla, i nervi tesi, l’anima a pezzi, la gamba e la mano sinistra che non volevano saperne di funzionare come si deve, ma era vivo.
E questo era tutto quello che Holmes desiderava.
 
Dopo alcuni interminabili mesi, indispensabili per permettere al medico di viaggiare, era stato mandato via, ormai ‘inabile al servizio militare’, e così Sherlock lo aveva riaccompagnato in Inghilterra, a casa.
 
Adesso erano appena usciti dall’aeroporto, ed erano saliti su un taxi che avrebbe accompagnato John in un piccolo motel, visto che sua madre era morta qualche anno prima e sua sorella viveva dall’altra parte dell’Inghilterra.
Sherlock non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, come non era riuscito a farlo nei mesi che precedenti.
Con quei grandi occhi di cristallo, il consulente detective osservava l’amico, si soffermava sulle sue mani continuamente strette a pugno, il suo volto senza espressione, le sue labbra strette, i suoi occhi vuoti.
E quello che vedeva gli faceva male al cuore.
Conosceva John meglio di chiunque altro. Anzi, lo conosceva meglio di quanto conoscesse se stesso. Erano amici fin da quando erano solo due bambini e mai, mai, l’aveva visto ridotto in quello stato. Né quando litigava con una Harry ubriaca e crudele, né quando i ragazzi più grandi li aggredivano e li massacravano di botte, né quando suo padre era morto in guerra, né quando sua madre l’aveva seguito. Nonostante tutto quello che la vita gli aveva lanciato addosso, lui era sempre riuscito ad alzarsi ed ad andare avanti, come un vero soldato. Aveva sempre affrontato tutto, e i suoi occhi, seppur oscurati da una nube, non avevano mai smesso di brillare. Eppure, adesso, non era così.
Il vecchio John Watson, il suo John Watson, sembrava scomparso. Al suo posto, c’era quella persona vuota, spezzata, senza più la forza di andare avanti. La luce che prima brillava nei suoi occhi era sparita, o forse era rimasta lì, nel campo di battaglia, e con essa il suo cuore.
E Sherlock non riusciva ad accettarlo.
Non poteva né voleva accettarlo.
Davanti ai suoi occhi vedeva un uomo spezzato, distrutto, morto nel profondo, che stava andando alla deriva. Un uomo che non era il suo John, quello che gli era sempre stato accanto, che aveva visto tutto ciò che c’è di malsano e sbagliato nel mondo eppure era rimasto comunque un sognatore, che non si era mai arreso, che aveva una parola gentile, uno sguardo affettuoso e una premura per tutti.
Quel John c’era, però. Non era scomparso del tutto, non se n’era andato, non ancora almeno. Era lì, nella parte più nascosta di quell’anima martoriata, rannicchiato su sé stesso a leccarsi le ferite, abbandonato da tutto e da tutti. Lo sapeva. Lo sentiva.
E non gli avrebbe permesso di andarsene.
 
Con quel pensiero, Holmes si sporse verso il tassista e gli disse, con voce calma ma decisa “Abbiamo cambiato idea. Ci porti a Baker Street. 221b di Baker Street.”.
Il tassista gli lanciò un’occhiata sorpresa, ma poi scosse la testa e fece come gli era stato detto.
John si voltò confuso verso l’amico, scrutandolo con i grandi occhi scuri e smettendo per un attimo di massaggiarsi la spalla.
“ ‘Abbiamo cambiato idea’?” ripeté, sollevando appena un sopraciglio “Eravamo d’accordo che mi avresti accompagnato fino al motel e che poi saresti tornato al tuo appartamento. Quand’è che avremmo cambiato idea?”.
Sherlock si sistemò la sciarpa con un gesto elegante, senza nemmeno guardarlo “All’incirca venti secondi fa, se non erro. E comunque, non ti serve più il motel.”.
Il sopraciglio di John si sollevò ancora di più “E dove dovrei dormire, scusa? Per strada?” domandò, accigliato.
“A dire il vero, pensavo nel mio appartamento.” rispose tranquillamente il moro, per poi continuare velocemente prima che l’altro potesse ribattere. “Ricordi la signora Hudson, l’ultimo caso di cui ci siamo occupati prima che partissi? Beh, adesso abita qui a Londra, e ha deciso di affittare un appartamento proprio al centro della città. Visto quello che ho fatto per lei anni fa, mi fa un prezzo di favore, che è comunque troppo alto per le mie finanze. Pensavo di cercare un coinquilino, e visto che anche tu hai bisogno di un posto dove stare, e considerando che un motel sarebbe una soluzione troppo costosa a lungo andare, soprattutto per la tua pensione, mi è sembrata una soluzione più che logica e conveniente per tutti e due quella di condividere l’appartamento e le relative spese tra di noi. Inoltre, al momento sei disoccupato e io ho bisogno di un assistente per i miei casi, soprattutto adesso che il mio giro di clientela sta lentamente aumentando, e quindi potremmo anche occuparci insieme dei casi, come facevamo ai tempi della scuola e dell’università.”.
L’ex soldato spalancò gli occhi “Credo di aver capito male.” mormorò, fissando attentamente il volto del più giovane “Mi stai chiedendo di condividere un appartamento con te?”.
Sherlock dovette trattenersi dal sollevare lo sguardo al cielo, sconfortato dalla scarsa arguzia dell’amico “Si, John, in parole semplici, si. Sarebbe un’ottima soluzione per entrambi, soprattuto dal punto di vista economico. E poi non mi sembra che tu abbia opzioni migliori.”.
“Ma tu sei ricco, non hai problemi di soldi.” obbiettò il biondo.
“Errore.” precisò l’altro “La mia famiglia è ricca. Io vivo con ciò che mi pagano i miei clienti, non con i soldi dei miei genitori. E al momento quello che guadagno non basta a pagare un appartamento qui in città.”
“E vorresti . . .” la lingua di John saettò ad inumidire le labbra, come faceva ogni volta che il soldato si trovava in una situazione d’imbarazzo o di eccitazione “. . . vorresti riprendere a risolvere casi con me?”.
Solo a quel punto, Sherlock si voltò a guardarlo. Gli sguardi dei due amici si incontrarono e si fusero insieme, come non accadeva da tanto, troppo tempo.
“Tu lo vorresti?” domandò lentamente il detective, senza interrompere quel contatto.
Il respiro di John sembrò bloccarsi all’interno della gabbia toracica.
“Oddio, si.” si lasciò sfuggire in un sussurro, mentre all’interno di quei oceani che aveva al posto degli occhi un’antica scintilla tornava a brillare, anche se solo per qualche momento.
Un sorriso, un vero sorriso, si formò sulle labbra del moro.
“Allora siamo d’accordo.” affermò deciso, tornando a fissare la nuca del tassista.
“Direi di si.” concordò Watson, mentre si passava una mano tra i capelli corti “Ma niente pezzi di cadaveri nel frigo, o mi trasferisco da Mike.” lo ammonì, con le labbra atteggiate a mo’ di sorriso.
Sherlock dovette trattenere una risatina.
“Vedremo.” commentò solamente, mentre lanciava uno sguardo fugace al compagno.
John l’aveva salvato tantissime volte e in tantissimi modi, in tutti quegli anni.
Adesso toccava a lui.
 
ooo0o0o0ooo
 
 
John si svegliò di colpo, gli occhi spalancati e il cuore che batteva a mille, mentre i rumori della battaglia ancora gli rimbombavano nelle orecchie.
Ansimò alla ricerca d’aria, mentre si portava una mano alla spalla che bruciava e pulsava come un cuore ferito a morte, e chiuse gli occhi in un gesto stanco e quasi disperato.
La guerra.
Di nuovo.
Quella maledetta, dannata guerra continuava a tormentarlo anche adesso che era tornato nella sua cara Inghilterra. I segni che gli aveva lasciato addosso e dentro lo tenevano legato a lei come mille sottili catene anche quando tentava di dimenticarla, e le sue notti si riempivano di frammenti di quei giorni trascorsi sul fronte, da quei eterni combattimenti, di quegli spari, di quel sangue, di quel colpo quasi mortale.
Lui tentava di non darci peso, di lasciarsi scorrere addosso tutto quello che aveva vissuto, di riadattarsi a quella nuova vita, lontana dal campo di battaglia.
E c’erano giorni in cui quasi ci riusciva. Giorni in cui gli sembrava quasi di sentirsi finalmente di nuovo a casa, giorni in cui non rimpiangeva ciò che aveva perduto.
Ma poi, arrivava la notte.
E la guerra tornava a bruciargli il cuore.
 
Ti ci vorrà del tempo per riadattarti alla vita civile. gli dicevano tutti.
Fatti forza. Andrai avanti. Dimenticherai.
Devi solo avere pazienza.
 
Lui, di pazienza, ne aveva sempre avuta tanta.
Ma non sapeva quanto sarebbe durata, quella volta.
Lui, che era nato per la guerra, per l’adrenalina, per il rischio, per la lotta, adesso era stato strappato dal suo mondo, e si ritrovava lì, a tentar di rimettere insieme i pezzi di una vita che non sarebbe più tornata quella di prima.
E non sapeva quanto avrebbe resistito.
 
“John?”
 
Una voce bassa, ma dolce, lo strappò all’improvviso dai suoi pensieri.
Watson aprì gli occhi e si voltò verso la porta, dove un uomo alto, in vestaglia e dall’aria seria, lo osservava con i suoi grandi occhi color del cristallo.
Sherlock.
Il suo migliore amico praticamente da sempre e il suo coinquilino da nemmeno una settimana. La prima persona che aveva visto quando, mesi prima, aveva finalmente aperto gli occhi, e l’unica che aveva voluto al suo fianco da quando era tornato. E, al momento, l’unica per la quale ancora andava avanti. L’unica che riusciva, almeno per un po’, a fargli dimenticare il campo da battaglia.
L’ ex-soldato si costrinse a fingere un sorriso e si passò una mano tra i capelli corti “Come mai ancora sveglio?” domandò, sperando che la sua voce non suonasse troppo patetica.
L’uomo sollevò leggermente un sopracciglio “Io posso resistere senza dormire anche per una settimana, lo sai bene.”.
John scosse lievemente la testa “Dimenticavo che vivo con un vampiro.”.
Il moro arricciò appena l’angolo delle labbra, ma poi la sua espressione divenne nuovamente seria quando domandò “Incubi?”.
L’altro sobbalzò, stupito ancora una volta da come Sherlock riuscisse a leggergli dentro come nessun altro era capace di fare.
Si strinse inconsciamente la spalla ferita e annuì titubante, improvvisamente senza più parole.
Il detective lo scrutò per un altro mezzo secondo e gli fece segno di seguirlo, per poi sparire al piano di sotto, dove stava la sua camera e la zona giorno del loro nuovo appartamento.
John osservò confuso la porta spalancata, incerto se seguirlo o meno, ma poi scivolò pian piano fuori dalle coperte e, zoppicando, scese nel soggiorno.
Sherlock era lì, in piedi di fronte alla finestra, ed appena il capitano entrò nella stanza gli sorrise lievemente e gli indicò con un cenno del capo la poltrona di fronte alla sua.
Il biondo aggrottò le sopraciglia, ma abituato com’era alle stranezze dell’amico si avvicinò alla poltrona per sedersi, senza mai staccare gli occhi dall’amico.
 
Prima dell’ incidente, come chiamava tra sé e sé quello che era successo, le volte in cui aveva visto Sherlock Holmes dopo il suo arruolamento erano state veramente poche. Aveva vissuto per anni lontano, a combattere ogni giorno e a rischiare la sua vita continuamente, e gli unici contatti che aveva avuto con lui erano stati rare licenze che avevano trascorso insieme e una fitta corrispondenza, per quanto l’ Afghanistan lo permettesse.
Era cambiato molto, il suo Sherlock, e ancora dopo tutti quei mesi in cui erano stati praticamente solo loro due John aveva difficoltà a staccargli gli occhi di dosso. Se fosse stato per lui, sarebbe rimasto per ore ad osservare tutte quelle piccole grandi differenze che c’erano tra lo Sherlock dei suoi ricordi e lo Sherlock con cui conviveva. Però si trattava solo di cambiamenti esteriori, come la lunghezza dei capelli, gli zigomi ancora più affilati, l’aria seria, il fisico più adulto, gli occhi lievemente più chiari.
Dentro, il suo Sherlock era sempre lo stesso.
Era lo Sherlock a cui aveva regalato Barbarossa, quello che sognava di diventare un temutissimo pirata, quello che aveva difeso da un’infinità di bulli, quello a cui aveva parato il fondoschiena infinite volte, quello che aveva seguito in mille avventure e nei suoi primi casi.
Era lo Sherlock che fin da quando erano piccolissimi lo aveva sempre difeso da chiunque avesse tentato di fargli del male, quello che gli aveva proposto di venire ad abitare da lui quando suo padre era morto in missione, quello che l’aveva accompagnato a prendere il treno, il giorno della sua partenza, quello che conosceva meglio di quanto conoscesse sé stesso.
Era lo Sherlock a cui aveva pensato un’ultima volta, prima di perdere conoscenza e di rischiare di non svegliarsi mai più.
Oh si, ricordava fin troppo bene cosa aveva mormorato in quel momento, quando aveva creduto di essere ormai a un passo dalla morte.
 
Ti prego Dio, lasciamelo vedere un’ultima volta.
 
“Puoi sederti, sai. Quella poltrona non ti mangerà, se è questo che ti stai chiedendo.” lo riportò alla realtà Sherlock, che lo fissava con un mezzo ghigno divertito.
John si rese conto di essere ancora in piedi a fissarlo e, imbarazzato, si sedette, mentre le orecchie gli si tingevano di una lieve sfumatura rosata.
Il detective, allora, gli si avvicinò e gli porse una tazza di latte che sembrava come apparsa dal nulla, con grande stupore e confusione del suo coinquilino, che sollevò un sopraciglio.
Holmes si strinse nelle spalle “Sai che il mio thè non è esattamente commestibile, e al momento questa è la bevanda migliore che abbiamo in casa. Bevilo piano, perché è l’ultimo bicchiere. Domani dovrai andare a comprarne dell’altro.”.
Il medico avrebbe voluto ricordargli che era il suo turno di compare il latte, che sembrava stranamente prosciugarsi nel corso della notte, ma era troppo confuso da quel gesto di insolita gentilezza per aprire bocca e così si limitò a prendere la tazza e a fissarla come se fosse una bomba sul punto di esplodere.
“Puoi berlo, non ci ho messo dentro niente.” borbottò il moro, voltandosi con uno svolazzo di vestaglia per poi tornare alla finestra ad osservare Baker Street.
John lanciò un ultimo sguardo all’amico e poi, giungendo alla conclusione che la tazza di latte fosse un modo per farsi perdonare dei maglioni a cui aveva accidentalmente dato fuoco quella mattina, si limitò a sorseggiarlo e poi a poggiarlo per terra, accanto alla poltrona.
“Una o due settimane.” esclamò all’improvviso Sherlock, tenendo ancor lo sguardo puntato sulla strada.
“Come?” chiese Watson, confuso.
“I tuoi incubi, che tra parentesi sono una reazione del tutto normale a ciò che hai passato, non dureranno ancora a lungo. Una, forse due settimane al massimo. Dopo, tranne nei momenti di forte stress o di dolore, non dovrebbero più tornare.” spiegò l’uomo, voltando lentamente la testa verso di lui ed osservandolo con i suoi grandi occhi color cristallo.
“Come lo sai?” il tono del dottore era un miscuglio di nervosismo, sollievo e confusione. E un tocco di imbarazzo.
Le labbra di Sherlock si incurvarono in un lieve sorriso “Perché farò in modo che sia così.”.
Prima che l’altro potesse aggiungere altro, si voltò verso il tavolo, prese il violino e continuò, mentre cercava l’archetto “Comunque, visto che dubito fortemente che riusciremo a riaddormentarci prima delle sette, potremmo spendere in modo utile il nostro tempo.”.
John si inumidì lievemente le labbra, quando comprese cosa l’amico aveva intenzione di fare “Sherlock, non credo che tu possa metterti a suonare il violino alle tre di notte. La signora Hudson . . .”.
“ . . . prende dei sonniferi molto forti per combattere la sua insonnia, non sentirà nulla.” terminò la sua frase il moro, prendendo l’archetto “E poi, pensavo che ti piacesse sentirmi suonare, Jawn.” aggiunse a bassa voce, lanciandogli uno sguardo profondo che per un attimo fece tremare quello dell’ex soldato.
Sentire Sherlock suonare era una delle cose che gli era mancata di più di lui, in guerra. I piccoli concerti privati che teneva per lui e solo per lui, fin da quando aveva imparato a suonare quel superbo strumento, da bambino. I suoi occhi chiusi mentre suonava. Le sue mani delicate ed attente che generavano melodie incantate capaci di prenderlo e di trascinarlo lontano, in un mondo creato da Holmes per lui, solo per lui.
Dio, se gli piaceva sentirlo suonare. E il bastardo, lì, lo sapeva fin troppo bene.
Gli occhi di Sherlock sorrisero ai suoi e, senza dire nemmeno una parola, l’uomo iniziò a suonare.
 
Suonò a lungo, Sherlock Holmes. Suonò tutte le musiche più dolci e serene che conosceva, e quando queste finirono continuò a suonare e a trasformare in note e suoni quello che il suo cuore, vile traditore, gli sussurrava da tempo ormai immemore. Suonò e suonò fino a quando le dita iniziarono a fargli male e il violino a pesargli, ma non si fermò. Suonò per il suo John per ore e ore, solo per lui.
Si fermò solo quando il biondo, che l’aveva ascoltato incantato per tutto il tempo, finalmente si addormentò sulle sue note.
Delicatamente, il detective posò il suo strumento sulla scrivania, per poi voltarsi a guardare, con una scintilla di dolcezza nello sguardo, il suo migliore amico.
Prese una vecchia coperta a quadri, preparata sulla sua poltrona nera apposta per lui, e coprì il biondo, attento a non svegliarlo e a non lasciare scoperta nessuna parte del suo corpo.
Prima di rimettersi dritto, però, rimase chino su di lui, ad osservare John, il suo viso gentile, i suoi occhi chiusi, le sue labbra sottili e screpolate, i suoi capelli scompigliati.
Sorrise lievemente.
Eccolo lì, il suo personale miracolo.
 
“Grazie di aver mantenuto il tuo giuramento, John.” gli sussurrò piano, a voce così bassa che nessuno avrebbe potuto udirlo “Grazie di essere tornato da me. Grazie di non essere morto.”.
Le labbra del biondo si incurvarono nel sonno in un dolce sorriso.
 
 
ooo0o0o0ooo
 
 
Quando Lestrade gli si avvicinò, col volto stanco ma sollevato, Sherlock non poté fare a meno di lanciargli uno sguardo scocciato.
“Perchè ho questa coperta? Continuano a mettermela addosso!” sbottò subito infastidito, prima che l’agente potesse anche solo aprire bocca.
Il povero Lestrade sollevò gli occhi al cielo, seccato per l’atteggiamento infantile del detective. Lo conosceva da quando era un ragazzino, ma il suo atteggiamento non era minimamente mutato nel corso degli anni “è per lo shock.” si limitò a spiegare.
Il moro lo fissò come se fosse impazzito “Non sono sotto shock!” esclamò, come se solo l’idea fosse assurda.
”Sì, ma alcuni dei ragazzi vogliono fare delle foto.” liquidò la faccenda l’uomo, per poi passare a parlare del caso e a discutere con il giovane Holmes riguardo all’avventura che aveva appena vissuto e sull’identità sconosciuta del suo salvatore, alias l’uccisore del serial killer, su cui, almeno a suo giudizio, non avevano praticamente niente.
“Oh, io non direi.” obbiettò sicuro di sé Sherlock, iniziando a snocciolare una serie di deduzioni sul possibile profilo di quel uomo sconosciuto mentre osservava le persone che si trovavano lì attorno, quasi aspettandosi di vederlo girovagare con aria colpevole.
Quando però scorse John, in piedi dietro al nastro giallo della polizia ad aspettarlo, con quell’aria stranamente serena e quasi curiosa, si bloccò, mentre il suo cervello univa tutti i puntini.
“Senti, dimentica quello che ho detto.” esclamò velocemente, rivolto all’ispettore “è per .. lo shock, che straparlo. Ora scusa, ma devo andare. John sicuramente vorrà farmi una lavata di capo per essermi infilato nei guai appena dopo il suo ritorno a Londra.”.
Fece per avvicinarsi al suo coinquilino, ma Lestrade tentò di bloccarlo “Ma ho ancora delle domande da farti!”.
Sherlock sbruffò “Cosa? Adesso? Sono sotto shock! Guarda, ho anche la coperta!” si lamentò, sollevando anche un lembo della suddetta coperta arancione per far arrivare quel concetto, probabilmente troppo difficile per un semplice ispettore di Scotland Yard, al suo piccolo cervello.
L’uomo cercò di obbiettare, ma il moro non lo stava più ascoltando, e si diresse veloce verso l’amico, che lo osservava con i suoi grandi occhi blu.
“Stai bene, Sherlock?” domandò subito John, anche se con una preoccupazione infinitamente inferiore a quella che avrebbe avuto in situazioni analoghe, e Holmes lo sapeva benissimo.
“Si, certo. Quello sparo è arrivato proprio al momento giusto.” commentò con leggerezza, mentre lo scrutava in volto per studiare la sua reazione.
“Si, me lo ha detto Lestrade. Due pillole, il gioco, la vita appesa ad un filo . . . i classici guai che ti attirano tanto, insomma. Non so se essere più arrabbiato del fatto che ti piace tanto mettere a rischio la tua vita in questo modo o perché non hai chiesto il nostro aiuto.” lo rimproverò l’amico, passandosi una mano tra i capelli.
Sherlock non abboccò. “Bel colpo.” si limitò a dire.
Un lampo di stupore attraversò lo sguardo di Watson, ma fu solo un attimo “Si, è partito da quella finestra, ma non cambiare argomento.”.
“Mi hai capito, John.” mormorò con un sorrisetto ironico il detective, mentre osservava la maschera cadere “E grazie, comunque.”.
John sobbalzò, stupito “Come . . .?”.
“Oh, andiamo. Era chiaro e semplice. Solo Scotland Yard può essere così stupido da non capirlo.” abbassò appena la voce, come per non farsi sentire “Tu stai bene?”.
L’ex soldato si leccò appena le labbra ed annuì “Si, sto bene.”.
“Sicuro? Hai appena ucciso un uomo.” obbiettò il moro.
“Abbassa la voce! E comunque, se non l’avessi fatto, saresti morto.” rispose John scrutandolo con intensità ed affetto negli occhi chiari.
Per un attimo, a Sherlock tornarono in mente le parole che John gli aveva detto, tanti anni prima.
 
Per salvarti la vita dall’ennesimo coglione di turno, potrei uccidere.
Per te lo farei.
 
“In fondo, non era una buona persona.” concluse Watson, stringendosi nelle spalle.
Il moro, riportato all’improvviso al presente, sollevò l’angolo delle labbra in uno dei suoi soliti sorriseti appena accennati. “No, è vero. Ed era anche un pessimo tassista. Vedessi che giro ha fatto per portarmi qui!”.
John scoppiò a ridere, divertito, e anche l’altro inizio a ridacchiare silenziosamente, contagiato dalla sua allegria e dalla luce che illuminava il volto dell’amico.
“Non possiamo ridere! Dai, siamo su una scena del crimine, non possiamo ridere!” cercò di calmarsi il dottore, senza però riuscirci.
“Sei tu che gli hai sparato.” commentò candidamente Sherlock, facendo sobbalzare il biondo.
“Shh, sta zitto!” sibilò, portandosi una mano al volto per nascondere il suo sorriso, come se fosse possibile “Che dici, andiamo a casa?”.
Casa. Quella parola sembrava stranamente piacevole, se a pronunciarla era John Watson.
Sherlock annuì e, dopo aver lanciato ad Anderson la coperta color arancio, seguì l’amico, che ormai zoppicava appena.
“Sai” gli disse serenamente l’ex soldato “Credo che mi riabituerò facilmente alla vita civile.”.
Il detective sorrise appena e osservò la luce che, finalmente, brillava all’interno di quei occhi che tanto amava. Non pensava che ci sarebbero voluti appena quattro omicidi-suicidi, una corsa dietro un taxi per mezza Londra, un telefono rosa e un tassista serial killer per farla tornare a brillare.
“John.” lo chiamò piano, con una punta di dolcezza nella voce.
Il biondo si voltò verso di lui, stupito da quel tono che mai gli aveva udito usare.
Sherlock gli riservò il più grande dei suoi sorrisi “Bentornato.”
 
 
ooo0o0o0ooo
 
 
“Sei stato sveglio di nuovo tutta la notte?” domandò con aria stanca John, porgendo una tazza di the  a Sherlock, tutto intento a studiare una mano umana.
“Certo. Dormire è noioso.” rispose il detective, senza nemmeno sollevare lo sguardo dal suo lavoro.
Il biondo scosse la testa, sconfortato, per poi sedersi accanto a lui per sorseggiare la sua bevanda “D’accordo, ma è anche necessario. Non so quanto potrai resistere con questo ritmo.”.
“Poco, se non trovo subito un altro caso. La noia si sta facendo incredibilmente forte, e senza almeno un caso da otto dubito che resisterò ancora a lungo alla mia scorta di sigarette.” si lamentò Holmes, alzando finalmente lo sguardo e notano solo in quel momento la tazza accanto a sé, bella fumante e calda al punto giusto.
“è per me?” domandò confuso, osservando l’amico.
“Vedi qualcun altro per cui potrebbe essere?” chiese in modo retorico quello, sorridendo appena “Si, è per te. A meno che tu non voglia darlo a Willy [1] . . . a proposito, che fine ha fatto? Non lo vedo dalla sera della signora in rosa.”.
“Ah, il teschio? Anderson se l’è portato via quando sono venuti a fare quella loro perquisizione per droga, ma Lestrade ha detto che me lo farà rimandare indietro, in un modo o nell’altro.” rispose con aria noncurante, mentre assaggiava il the. “è buono.” mormorò poi, scrutando la tazza con aria curiosa.
“Certo che è buono, l’ho preparato io.” ribatté Watson, scuotendo appena la testa “Comunque, stavo pensando . . .”
“Oh, davvero? Questa si che è una novità.” scherzò Sherlock, lanciandogli un’occhiata divertita.
“Ah ah, molto divertente.” sbruffò l’ex soldato, alzando gli occhi al cielo “Comunque, stavo pensando di riprendere a lavorare. Sai, come dottore.”.
Holmes lo fissò come se gli fosse cresciuta una seconda testa “Come, scusa?”.
“Beh, lo hai detto anche tu, il lavoro al momento è poco. Non abbiamo un caso dal tassista serial killer, in qualche modo dobbiamo essere sicuri di riuscire a pagare tutte le nostre spese. E per quelle la pensione dell’esercito non basta.” John si passò una mano tra i capelli umidi per la doccia di poco prima “L’ultima volta che l’ho sentita, Sarah dirigeva un ambulatorio. Magari posso chiedere a lei.”.
“Si, magari.” rispose cupo il moro, poggiando la tazza sul tavolo ed alzandosi con la faccia scura “E magari, adesso che ci sei, le chiedi pure di uscire insieme per un rimpatriata e vedi se per te c’è ancora possibilità, anche se ne dubito vivamente, visto il modo in cui la vostra relazione andava avanti, al college.”.
John arrossì violentemente per quell’ultimo commento, anche se non comprese bene se per l’imbarazzo o la rabbia.
“Sherlock!” gridò, indignato, senza però riuscire a trovare qualcosa per controbattere, soprattutto quando l’altro gli lanciò uno sguardo come per dirgli ‘Perché, ho forse torto?’. Come era possibile che quel maledetto riuscisse ogni singola volta a . . .? Dannazione!
“Cambiando argomento.” fece il biondo, scuotendo la testa e mettendo per un attimo da parte la faccenda “Ti ricordi che da ragazzo avevo pensato di seguire le orme di mio nonno e di cominciare a scrivere come aveva fatto lui?”.
Il moro si sedette sulla sua poltrona, unì le dita nel suo abituale atteggiamento d’ascolto e sollevò un sopraciglio “Vagamente. Era quello che aveva scritto dei romanzi su uno che si chiamava come me?[2]”
“Si, quello. Beh, stavo pensando di provarci. Cioè, non di scrivere un romanzo, ma un blog. Sui tuoi casi e le nostre indagini. Chissà, magari riuscirei a farti un po’ di pubblicità e trovarti qualche caso interessante.” spiegò Watson, alzandosi e mettendo nel lavello la sua tazza.
“Non credo che ce ne sia bisogno. Dopotutto, ho un mio sito.” liquidò la proposta il detective, con un gesto sbrigativo della mano.
Watson non poté fare a meno di trattenere un ghigno divertito “Si, dove classifichi i diversi tipi di cenere. Nessuno legge il tuo sito, Sherlock. Ed è per questo che non hai lavoro.”.
Il volto di Sherlock si scurì ancora di più, e l’uomo si alzò di scatto dalla poltrona con fare irritato, afferrò sciarpa e capotto e poi disse con voce offesa “Vado da Molly. Non disturbarti a seguirmi.”.
“Sher ...” prima che John potesse provare a fermarlo, il detective uscì dall’appartamento senza nemmeno voltarsi indietro.
 
 
“Cosa è successo?”
 
Molly conosceva Sherlock e John da quando, al primo anno di superiori, erano finiti nello stesso gruppo di lavoro durante l’ora di chimica e il moro aveva quasi fatto saltare in aria il laboratorio. Era forse una delle poche persone capace di comprendere la fin troppo unica personalità di Sherlock, e dopo tanti anni era ormai capace di leggere il giovane Holmes con pochi timidi sguardi.
Così le era bastato davvero poco, quando l’aveva visto entrare nel laboratorio con lo sguardo cupo e si era messo ad armeggiare con gli strumenti senza uno scopo preciso, a capire che qualcosa non andava. E, a giudicare dall’assenza di John, il medico militare doveva esserne la causa.
 
Sherlock non si degnò nemmeno di alzare lo sguardo, ma anzi continuò ad osservare un composto attraverso il microscopio con così tanta intensità che sembrava volesse fargli prendere fuoco semplicemente con lo sguardo.
La ragazza gli si avvicinò timidamente, scrutandolo con i suoi grandi occhioni e temendo uno scoppio d’ira, che puntualmente arrivò pochi secondi dopo.
“Oh, non è successo niente. Niente di niente. Semplicemente, ho scoperto di avere un idiota in casa!” sbottò il moro, senza staccare gli occhi dal microscopio.
Molly lo fissò, confusa. L’ultima volta che aveva sentito Sherlock dare dell’idiota a John risaliva agli anni dell’università.
“Co-cosa ha fatto?” domandò, titubante.
“Nulla, dal suo punto di vista. Assolutamente nulla.” ringhiò il moro, allargando le narici. Sembrava un drago sul punto di sputare fuoco. “Vuole tornare a lavorare. Come medico. Nell’ambulatorio di quella Sarah della scuola. E vuole scrivere un blog sui casi. Perché, almeno secondo lui, il mio sito non è utile ad attirare clienti.”.
La brunetta sollevò un sopraciglio “E sei arrabbiato per questo?” chiese.
Holmes la fulminò con lo sguardo “Io non sono mai arrabbiato, Molly. La rabbia è un sentimento, e i sentimenti sono il cancro della società, e per questo li evito in tutto e per tutto. Pensavo che avessi imparato qualcosa su di me, dopo tanti anni.”.
Le guance della giovane si tinsero di una forte tonalità di rosso “L’ho fatto. H-ho imparato molte cose su di te, Sherlock. E penso che tu non sia arrabbiato semplicemente perché John vuole praticare di nuovo la sua professione o pubblicare i resoconti sui tuoi casi. Tu sei arrabbiato perchè ti sembra che John si stia pian piano allontanando da te e dalle vostre avventure per avvicinarsi a una vita normale o ad altre persone, come Sarah. Vuoi tenerlo tutto per te. E io questo lo capisco, davvero. Dopo tutto quello che avete passato, è normale. Ma dovresti essere felice per queste sue iniziative.”
Il detective continuava ad armeggiare con il microscopio, apparentemente senza prestare attenzione alla ragazza “E perché dovrei, sentiamo?”
Molly si fece un po’ più vicina e rispose piano, dopo aver preso un bel respiro “Perché vogliono significare che finalmente John sta dimenticando l’Afghanistan. Che sta pian piano riprendendo in mano la sua vita. Non era questo che volevi a tutti i costi? Che John tornasse quello di prima? Lo sta facendo. Pian piano, ma lo sta facendo. E queste sue piccole iniziative sono un modo per farlo. Quindi, non dovresti essere arrabbiato per questo, ma felice. O almeno un po’ sollevato. Perché John sta tornando ad essere quello di una volta, per quanto ciò possa essere possibile. E lo sta facendo grazie a te.”.
Sherlock alzò la testa e rimase a fissare con uno sguardo indecifrabile la giovane donna, la quale arrossì ancora di più ed indietreggiò, imbarazzata. Erano passati tanti anni, eppure si comportava ancora come una ragazzina alla prima cotta. E forse lo era.
“I-io . . . vado a prendere qualcosa da bere. A d-dopo.” borbottò, prima di sparire fuori dalla porta del laboratorio.
Il moro rimase a fissare la porta chiusa per un po’, mentre ripensava alle parole di Molly, fino a quando una vibrazione del suo cellulare lo riscosse dai suoi pensieri.
Prese il cellulare dalla tasca e lo aprì per leggere il messaggio appena arrivato.
 
Non posso non tornare a lavorare. Abbiamo bisogno di soldi per le spese fisse, e la mia pensione davvero non basta. Ma questo non vuol dire che smetterò di seguirti nei casi. Sono i nostri casi, Sherlock, e li abbiamo sempre risolti insieme, fin da ragazzini. Una cosetta come qualche turno in ambulatorio non può impedirci di continuare a farlo.
Se è invece la faccenda del blog a darti fastidio, beh, non pubblicherò nulla, promesso. Solo, non voglio che ci siano attriti tra di noi, non per cose così futili. Non dopo che in Afghanistan ho rischiato di morire e il mio ultimo pensiero è stato per te. Quindi, scusa se ciò che ho detto ti ha dato fastidio, e smettila di fare il bambino. Non credo che tu capisca quanto ciò mi faccia male, a volte. –JW
 
L’uomo sospirò, ma prima che potesse digitare una risposta arrivò un altro messaggio.
 
E, comunque, ti ho trovato un nuovo caso. Quindi metti via il muso e torna a casa. –JW
 
Sherlock arricciò l’angolo destro delle labbra e rispose velocemente.
 
Il caso può aspettare. Vediamoci da Angelo tra dieci minuti. So rendermi conto anche io quando esagero. Qualche volta. –SH
 
ooo0o0o0ooo
 
 
John si lasciò cadere stancamente sulla sua poltrona, sospirando e reprimendo a stento un brivido, mentre Sherlock entrava nella stanza subito dopo di lui e lo scrutava con aria preoccupata.
Erano entrambi terribilmente tesi e con i nervi a fior di pelle. Ma, dopotutto, chiunque lo sarebbe dopo essere stato preso in ostaggio da uno psicopatico, costretto ad indossare una quantità di esplosivo capace di demolire un intero quartiere ed essere stati quasi sul punto di saltare in aria.
Il giovane detective si avvicinò alla finestra, senza nemmeno togliersi il cappotto, e continuò a fissare il biondo, che aveva chiuso gli occhi e cercava di tranquillizzarsi. Anche per lui, abituato alla violenza e al pericolo, era stata una prova non indifferente. E lo stesso Sherlock poteva ancora sentire il proprio cuore battere all’impazzata, quasi terrorizzato al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere.
 
Aveva incontrato Moriarty per la prima volta. Erano stati lì, uno di fronte all’altro, finalmente faccia a faccia. Aveva visto i suoi occhi, gli occhi di un ragno, di un genio, di un pazzo, di un demone.
E aveva visto John, il suo John, quel John che era sopravvissuto a stragi, sparatorie, guerre, in bilico sull’orlo, in equilibrio tra il sottile confine che divide vita e morte.
Vestito di un abito di esplosivo, gli occhi tesi e la mascella serrata. Il suo sguardo consapevole, pronto a tutto. La decisione e il coraggio che nemmeno in quel momento non erano venuti meno.
 
E il mondo di Sherlock aveva smesso di girare.
 
No.
Ti prego, lui no.
 
Aveva ragionato velocemente, alla ricerca disperata di una via d’uscita, non più eccitato da quel diabolico ed astuto gioco com’era all’inizio, ma preoccupato.
Preoccupato per John Watson.
Erano in trappola, e lo sapevano entrambi.
Eppure, John non si era arreso.
Era stato sul punto di sacrificarsi per eliminare Moriarty e per salvare lui. Si era offerto di morire per proteggere Sherlock.
E lui non aveva potuto fare a meno di pensare al fatto che, poche ore prima, avevano litigato.
Si, avevano litigato. John era furioso con lui per il suo comportamento durante quel caso “Ci sono delle vite in gioco, Sherlock!” gli aveva gridato “Davvero non te ne importa?”.
Holmes era stato adirato con lui, con la sua rabbia, con i suoi occhi delusi. Ma in quel singolo momento era stato adirato con sé stesso per essere stato, ancora una volta, ciò che John detestava. Per non aver visto il rischio nascosto dietro a quel gioco e per aver così trascinato anche John nel baratro.
Per aver messo in gioco la vita della persona a cui teneva di più al mondo.
 
“Ho avuto paura, prima.” gli sfuggì dalle labbra, prima che potesse rendersene conto.
John aprì gli occhi e lo fissò, la stanchezza e la paura ormai visibili dentro quelle pupille color del mare.
“Il grande Sherlock Holmes che ha paura? Questa devo segnarmela.” mormorò con amarezza, passandosi una mano tra i capelli.
“Dico sul serio.” ribatté piano Sherlock, incontrando il suo sguardo “Ho avuto paura per te. Quando ti ho visto lì, imbottito di esplosivo, sotto tiro . . . a causa mia ... mi sono sentito cadere il mondo addosso. Come quando abbiamo trovato il corpo di Barbarossa distrutto dal fuoco per mano di Alex e degli altri. Non sapevo cosa fare. Ho avuto . . . ho davvero avuto paura di perderti.”.
Abbassò gli occhi, rimpiangendo di aver parlato, mentre nel suo petto il cuore si stringeva dolorosamente.
Il medico rimase in silenzio per qualche secondo, prima di alzarsi e raggiungerlo senza una parola vicino alla finestra.
“Sherlock, guardami.” lo chiamò piano, e quando quest’ultimo spostò nuovamente lo sguardo su di lui continuò dolcemente “Io sono qui, ora, ok? Siamo ancora qui, tutti e due, e stiamo bene. Siamo ancora vivi. E quando Moriarty tornerà per continuare quello che ha iniziato gliela faremo pagare, insieme come abbiamo sempre fatto. Lo batteremo al suo stesso gioco, io e te, da soli contro il resto del mondo. D’accordo?”.
I suoi occhi brillavano, e Sherlock non poté fare a meno d’annuire.
“D’accordo.”
John sorrise appena e poi si allontanò da lui “Vado a dormire un paio d’ore, sono distrutto. Almeno per stanotte, cerca di evitare il violino.” sbadigliò, salutandolo con un cenno del capo.
Holmes non rispose, perso com’era nei suoi pensieri, e il biondo scosse appena la testa.
“Cerca di riposare anche tu, hai bisogno di riposo anche se non lo ammetterai mai.” gli disse a m’o di buonanotte, prima di sparire su per le scale.
Il detective rimase di sotto, con lo sguardo perso nel vuoto, a pensare a quello che era successo. e, soprattutto, a quello che Moriarty aveva detto.
 
Ti brucerò il cuore.
 
In quel momento era stato così dannatamente vicino. Sarebbe bastato un suo cenno e avrebbe perso John per sempre. E con lui, il suo cuore.
Perchè Moriarty sapeva, eccome se sapeva, quanto John fosse indispensabile ed importante per lui. Non riusciva a capire come potesse saperlo, ma dopo gli avvenimenti di quella sera ne era ormai certo.
Moriarty sapeva, sapeva ed aspettava solo il momento giusto per colpirlo, per annientarlo peggio di quanto avrebbe potuto fare una pallottola nel petto o un pugnale nelle spalle.
Gli avrebbe tolto ciò a cui teneva di più in tutto il mondo. E non erano vane minacce, le sue. L’aveva dimostrato. L’avrebbe fatto, quando sarebbe arrivato il momento opportuno.
Ma lui non l’avrebbe permesso. Non l’avrebbe mai permesso.
Mai.
 
 Sherlock alzò lo sguardo verso le scale, dopo il suo migliore amico era appena scomparso, e strinse la labbra, gli occhi che bruciavano di determinazione.
 
“Non permetterò mai più che tu sia in pericolo, John. Te lo giuro. Mai più.”
 
 
 
 
[1] Velato, ma nemmeno tanto, tributo a uno dei massimi poeti della letteratura inglese, il mitico William Shakespeare. A proposito, lo sapevate che suo padre si chiamava John e sua madre Mary? Io dico solo una cosa . . . “William Sherlock Scott Holmes. Il mio nome completo. Nel caso cercaste nomi per il bambino.” Johnlock, Johnlock ovunque!!
[2] Chiaramente, mi riferisco a zio Arthur. Come potevo non citarlo, andiamo?

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3118180