Quasi un lieto fine

di _Trixie_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Per proteggere un figlio ***
Capitolo 2: *** Per tenere un segreto ***
Capitolo 3: *** Per recapitare un messaggio ***
Capitolo 4: *** Per scovare un ricordo ***
Capitolo 5: *** Per decifrare un codice ***
Capitolo 6: *** Per consultare un libro, parte I ***
Capitolo 7: *** Per consultare un libro, parte II ***
Capitolo 8: *** Per iniziare un conflitto ***
Capitolo 9: *** Per chiarire una questione ***
Capitolo 10: *** Per proteggere una donna ***
Capitolo 11: *** Per fuggire da una stanza ***
Capitolo 12: *** Per dichiarare un amore ***
Capitolo 13: *** Per evitare un addio ***
Capitolo 14: *** Per innescare un incendio ***
Capitolo 15: *** Per bruciare un amore ***
Capitolo 16: *** Epilogo - Per ricominciare una vita ***



Capitolo 1
*** Per proteggere un figlio ***


Seguito di Quattro volte in cui Emma e Regina furono felici e la quinta in cui non lo furono e Quando un cuore si spezza, (potete tranquillamente saltare le prossime quindici righe circa se avete una memoria migliore della mia e vi ricordate come era finita la scorsa storia ;D) che si era conclusa con Emma e Regina che, finalmente, scampano dall’isola di Euridice e tornano a Storybrooke.
Qui, grazie a Tremotino e Belle, scoprono che in realtà sono passati molti anni dal giorno in cui Emma bevve la pozione del sonno per raggiungere Regina, tanti che tutti, ormai, credevano che nessuna delle due donne si sarebbe mai più risvegliata.
Tremotino e Belle raccontano loro di come Mary Margaret e David abbiano avuto una secondogenita, Ethel e di come, poi, siano partiti con Henry per tornare a vivere nella Foresta Incantata.
Emma e Regina decidono di raggiungerli immediatamente, ma, prima che possano partire, fanno la conoscenza del piccolo Aiden, figlio di Belle e Tremotino, il quale confessa alla madre che “manca un cuore”.
Nella Foresta Incantata le cose per Regina e Emma non vanno come avevano immaginato e Henry, ormai cresciuto, si rifiuta di vedere o parlare con le sue mamme, accusandole silenziosamente di averlo abbandonato.
 


E con un ringraziamento speciale alla mia nostra evelyn_cla per il paziente betaggio, ecco l’ultima parte della storia,
buona lettura! ;D
 

 

 

Capitolo I
Per proteggere un figlio

 
 

Henry sentiva l’aria accarezzargli i capelli corti.
Il suo stallone correva, un guizzo di muscoli sotto di lui, e si slanciava, leggero sulle sue esili e forti zampe, attraverso il bosco.
Il mantello svolazzava sulle spalle di Henry, gli zoccoli che battevano ritmicamente sul terreno.
Henry lo ascoltò, il suo cuore divenne un tutt’uno con esso, un tumulto assordante nel quale perse la sua coscienza, lasciando che andasse alla deriva, trascinata dal sangue rombante nelle sue vene.
Abbandonò le redini, ma lo stallone sembrò non accorgersene. Erano uniti, cavallo e cavaliere, e Henry nemmeno sapeva come fosse possibile.
Il ragazzo impugnò il suo arco, estrasse una freccia dalla faretra appesa alla sella e la incoccò.
Tese la corda.
La sua preda correva di fronte a lui, instancabile e veloce, agile sul terreno accidentato. Ma Henry non aveva intenzione di demordere.
Cacciare. Cacciare era meraviglioso e inebriante. E il cervo che stava inseguendo quel giorno rendeva l’impresa ancora più piacevole. Era uno degli esemplari più belli che Henry avesse mai visto. Il ragazzo strinse gli occhi, riducendoli a due fessure. Osservò il cervo ancora per qualche secondo; i suoi movimenti affannosi e disperati, i muscoli tesi verso la salvezza.
Lo stallone di Henry, come a un muto comando del suo cavaliere, aumentò l’andatura, guadagnando terreno e affiancandosi al cervo all’aprirsi di un’ampia radura.
Il ragazzo scoccò la freccia. Un sibilo sinistro e un tonfo sordo fu tutto ciò che riecheggiò tra gli alberi nello scalpiccio di zoccoli.
Lo stallone rallentò l’andatura ancor prima che Henry afferrasse le redini e cambiasse direzione con un ampio semicerchio, portandosi accanto al cervo abbattuto tra i passi tumultuosi, e sovrastandolo con la propria ombra.
«Dritto al cuore» osservò Henry, cercando di eliminare dalla propria anima quel dolore lontano. 
E se chiese se il destino toccato in sorte al povero cervo non fosse in realtà il destino che attendeva tutti loro. 
 
«Non mi piace» commentò Regina, lo sguardo puntato verso il basso e le braccia a circondarsi il corpo. Emma le si avvicinò, appoggiando una mano alla balaustra del balcone della loro camera e una sulla schiena di Regina.
«Cosa non ti piace?» domandò, seguendo poi la direzione dello sguardo dell’altra donna. «Oh».
«I tuoi genitori dovrebbero darmi retta».
«Lo so. Non piace molto nemmeno a me, anche se…» Emma esitò, mordendosi il labbro inferiore e ripensando alla conversazione avuta con Biancaneve. «Forse… Forse stiamo solo amplificando le cose. Siamo nella Foresta Incantata, ogni cosa qui è diversa, Regina».
La donna dai capelli scuri si voltò, incrociando lo sguardo di Emma.
«So bene che qui ogni cosa è diversa. Questo non è bel mondo, Emma. Le sue leggi sono brutali e non hanno fatto altro che portarmi dolore e sofferenza. E hanno cambiato quella che ero» disse Regina. «Lo so che qui la vita è diversa, Emma, ed è per questo che non mi piace».
Emma sospirò, ma non rispose.
Entrambe tornarono a guardare verso il basso, dove Henry stava tornando da una battuta di caccia in compagnia di qualche altro ragazzo della sua età con i quali aveva stretto amicizia. Sul retro di un calesse di legno, un cervo abbattuto faceva bella mostra di sé.
Nei pressi del portone di ingresso, Henry scese da cavallo e David, in attesa, gli diede una pacca sulle spalle. Regina e Emma erano troppo in alto per poter sentire le loro parole, ma dai cenni non fu difficile intuire che il Principe stesse chiedendo della preda e di chi l’avesse abbattuta.
Henry annuì entusiasta e David lo abbracciò, prima che i due si avvicinassero al cervo per ammirarlo più da vicino.
Regina storse il naso.
«Dritto al cuore» commentò. «È stato colpito dritto al cuore».
 
Emma sospirò, osservandosi nello specchio a figura intera.
Indossava un paio di pantaloni attillati, di un grigio così scuro da poter essere confuso con il nero e un paio di stivali che arrivavano fin sopra il ginocchio dello stesso colore. Sopra, una semplice blusa bianca le aderiva al corpo a causa dello stretto gilet di cuoio che aveva appena finito di abbottonare.
Sospirò. Mancava solo un cappello da pirata e avrebbe potuto unirsi alla ciurma della Jolly Roger.
No, decisamente quei vestiti non facevano per lei.
Fece per spogliarsi e cambiarsi di nuovo, quando la mano di Regina fermò la sua.
«Stai benissimo, Emma».
La ragazza dai capelli biondi incrociò gli occhi di Regina attraverso il riflesso dello specchio.
«Questi vestiti… non mi sento a mio agio» si lamentò la ragazza. «Sono troppo… fiabeschi?»
Regina scosse la testa.
«Sei una principessa. Dovresti indossare tulle e seta, cinture di diamanti e scarpe di cristallo».
Emma fece una smorfia, ma non rispose.
«Quelli sono vestiti fiabeschi. Tu indossi pantaloni da uomo, una semplice camicia, e spero che sia almeno di chiffon, e troppo cuoio per una ragazza con i tuoi natali, Emma. E porti una spada in vita» commentò Regina, con un sorriso divertito.
«Chiffon?»
«Sei un’esponente della famiglia reale, cara, non puoi andartene in giro vestita con tessuti scadenti» rispose Regina, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
La donna lanciò un’ultima occhiata allo specchio, prima di sedersi sul letto con eleganza e far scivolare i piedi in un paio di scarpe d’argento.
Osservò Emma rovistare tra le cose  sparse sulla toeletta e Regina pensò che mai, in vita sua, avrebbe immaginato di dividere la sua stanza con la figlia di Biancaneve.
«Ah, giusto, le cose regali e tutto il resto» sospirò Emma, arrotolando i capelli e fermandoli con uno spillone sulla nuca. Sicuramente era di Regina, a giudicare dall’elegante R incisa su una delle due estremità, quella con una pietra incastonata.
A quanto pare gli elastici non andavano particolarmente di moda da quelle parti.
«Cosa ti aspettavi? Sei la figlia di Biancaneve e del Principe, sei l’erede al trono e la madre di un altro principe. Senza contare che stai con la legittima regina di questo regno» le fece notare Regina.
«Legittima? Non credo che mia madre sarebbe d’accordo».
«Ero la moglie di suo padre. Che le piaccia o meno, il trono è mio. Il fatto che non lo rivendichi, non significa assolutamente nulla» rispose Regina.
Emma si avvicinò alla donna e si sedette accanto a lei.
«Ti manca? Il potere, intendo».
Regina la guardò per un lungo istante. Forse era solo una suggestione, ma da quando erano arrivate nella Foresta Incantata, gli occhi di Emma sembravano di un verde ancora più intenso del normale.
E lei trovava sempre più difficile non perdersi in quelle schegge di colore.
«No» rispose infine Regina, con un sospiro. «Il potere non mi manca e non potrebbe aiutarmi. Non è del potere che ho bisogno».
Emma annuì, raggiungendo la mano di Regina abbandonata sul letto e stringendola.
«Ora va meglio, non credi?» domandò la ragazza, con un filo di voce.
Regina accennò un sorriso.
«Almeno riesce a guardarci negli occhi».
Henry.
Era di Henry che finivano sempre a parlare.
Non era facile vivere in quel castello, incrociarlo nei corridoi e vedere come lui non avesse alcun bisogno di Emma o Regina. Le sue spalle si erano allargate, la sua voce si era fatta più profonda e lo sguardo fiero. Del suo viso infantile non rimaneva nulla.
All’inizio si era rifiutato categoricamente di vedere Emma o Regina, ignorandole e fingendo che loro non fossero mai tornate, e per quanto Biancaneve insistesse perché, almeno, desse loro la possibilità di parlare, lui sembrava non voler sentire ragioni.
Ma poi, una sera, si era semplicemente presentato a cena allo stesso orario di Emma e di Regina, aveva accennato loro un saluto e poi si era seduto. Entrambe le donne avrebbero voluto alzarsi e abbracciarlo e dirgli quanto lui fosse importante, chiedere scusa, ma nessuno aveva osato muovere un muscolo.
Biancaneve aveva riempito l’aria con la sua voce leggera, mentre si occupava di Ethel, chiedendo al ragazzo della sua giornata. Henry aveva risposto pazientemente, ma tutti, in quella stanza, sapevano che Biancaneve lo stava facendo solo per permettere a Emma e Regina di avere uno scorcio della vita del figlio. Entrambe le furono enormemente grate.
Emma, a volte, prima di addormentarsi, lasciava che la sua mente dipingesse una sala da pranzo con un tavolo ovale e le tende bianche alla finestra, da cui si intravedevano i fiori coltivati con pazienza da Regina. E immaginava il profumo che si spandeva dalla cucina, dove le lasagne cuocevano con pazienza nel forno, sotto l’occhio vigile della sua donna; e l’aria si riempiva dei lamenti di Henry perché, davvero, lui non aveva intenzione di apparecchiare. E così Emma lo avrebbe aiutato e, come al solito, Regina e Henry si sarebbero lamentati perché la ragazza non era nemmeno in grado di sistemare forchetta e coltello nel modo corretto.
Il ragazzino avrebbe raccontato loro della sua giornata durante la cena e avrebbe storto il naso, imbarazzato, alla vista di Emma che afferrava e stringeva la mano di Regina, un piccolo cerchio d’argento a impreziosirne l’anulare.
E Regina avrebbe detto che la sua giornata non era stata poi male, ma che sarebbe decisamente andata meglio senza la nausea mattutina. Perché Emma avrebbe voluto un altro figlio, da Regina.
Se solo le cose fossero andate diversamente…
Emma chiuse gli occhi.
«Dovremmo tornare a Storybrooke».
La voce di Regina tagliò l’aria, andando a conficcarsi nel cuore di Emma e lasciandola senza fiato.
Gli occhi verdi della ragazza cercarono, confusi e spaventati, quelli di Regina.
«Come?» disse in un soffio.
«Ci ho pensato molto. Henry… » Regina scosse la testa, i suoi occhi si riempirono di lacrime e la donna si alzò, allontanandosi di qualche passo dal letto. «Henry qui è felice. Anche senza di noi. Soprattutto senza di noi. Credo che dovremmo semplicemente tornare a Storybrooke e visitare la Foresta Incantata nei fine settimana e durante le festività».
«Regina, vuoi abbandonare di nuovo nostro figlio?» domandò Emma, incredula.
L’altra donna sospirò.
«No» disse. «Voglio essere sua madre. Potrei dargli nuovi ricordi, lo sai? Potrei guardarlo negli occhi, stringergli la mano, e semplicemente modificare la sua memoria. Fargli credere di essere stato sempre con noi, anche sull’Isola di Euridice, di avermi raggiunto insieme a te, di aver bevuto la pozione del sonno insieme a te» disse Regina lentamente e voltandosi per guardare Emma negli occhi. Voleva che la ragazza capisse fino in fondo.
«Potrei fare tutto questo e avere di nuovo nostro figlio, tutto per noi, portarlo via da questo posto e rifarci una vita a Storybrooke. E nonostante ci sia una parte di me che vorrebbe farlo, non ho intenzione di ingannare nostro figlio. Perché non sarebbe reale, Emma, sarebbe una finzione» spiegò Regina, inginocchiandosi di fronte all’altra e afferrandole una mano.
«Lo capisci, Emma?»
La donna dai capelli scuri singhiozzò.
«Capisci? Ma questo… tutto questo è reale. È reale quello che provo per te e quello che provi per me. Ed è reale quello che prova Henry, è reale il suo risentimento. Per questo credo che dovremmo andarcene. Non dovremmo imporgli la nostra presenza. E se ci chiederà di tornare, allora torneremo. Sarà dura ed è stata dura, per me, pensare anche solo alla possibilità di vivere a Storybrooke senza Henry. Ma forse è la cosa migliore, lasciare che… lasciare che si prenda i suoi tempi. Stargli accanto in punta di piedi, senza piombare nella sua vita come abbiamo fatto, costringendolo a rompere quell’equilibrio che aveva trovato perché il dolore della nostra mancanza non lo divorasse vivo».
Lacrime calde scivolavano lungo le guance di Regina, ma la donna non le asciugò.
«Non vorrei andarmene, ma è il mio egoismo a parlare. Tornare a Storybrooke… credo che sarebbe la cosa migliore per Henry».
Emma chiuse gli occhi e piegò la testa, sospirando, le spalle improvvisamente pesanti.
Sentì la mano di Regina afferrarle il mento e sollevarle il volto.
«Emma».
«Hai ragione» disse all’improvviso la ragazza, scivolando sul pavimento di fronte a Regina, cercandone l’abbraccio. «Hai ragione, dovremmo lasciare a Henry il suo spazio, senza  costringerlo a perdonarci… Hai ragione, Regina. È solo che non voglio andarmene, non voglio andarmene senza Henry» disse Emma, la voce parzialmente soffocata dai capelli dell’altra nei quali aveva immerso il volto. «Fa male, pensare di andarsene e vivere in un mondo diverso da quello di nostro figlio, Regina».
«Lo so».
«La sua memoria… Perché non-».
«No, Emma. Non sarebbe reale».
La ragazza annuì e si scostò, tirando su con il naso per cercare di frenare le lacrime.
«Chiediamo a lui» disse con voce tremante.
«Cosa?»
«Chiediamo a Henry quello che preferisce. È la sua vita, chiediamo a lui» spiegò Emma.
Regina esitò, chiedendosi se quella possibilità non si sarebbe rilevata più devastante di quanto Emma potesse immaginare.
Sentire la voce di Henry, del loro bambino, dire loro che avrebbe preferito saperle in un mondo diverso dal suo, Regina lo sapeva, poteva fare davvero male.
 
Quella sera a cena Biancaneve e David avevano ospiti. Seduti di fronte a Regina e Emma, c’erano la principessa Abigail e il neo principe Frederick.
Mary Margaret stava raccontando di come l’allora Kathryn Nolan l’avesse schiaffeggiata nel bel mezzo del corridoio della scuola elementare di Storybrooke, suscitando l’ilarità generale con le sue esagerazioni.
Emma credeva si trattasse semplicemente di una cena di piacere, ma Regina le aveva spiegato di come i forzieri del regno dei suoi genitori fossero pericolosamente vuoti e  di come Re Mida, padre di Abigail, avesse deciso di donare loro abbastanza oro per evitare la bancarotta.
In cambio, l’anziano re non aveva richiesto nulla se non un’alleanza commerciale e militare, con una specifica clausola di non aggressione da parte di entrambi i regni e di reciproca difesa dei confini.
Emma aveva commentato dicendo quanto fosse vantaggioso un accordo del genere e Regina aveva annuito, spiegandole che la generosità di Re Mida era dovuta esclusivamente a David e di come, anni e anni prima, avesse salvato Frederick, permettendo ad Abigail di avere il suo lieto fine.
I rapporti personali si rivelavano, in un posto come la Foresta Incantata dove il politicamente corretto non era altro che una barzelletta, molto importanti. E i genitori di Emma avevano e continuavano ad elargire talmente tanti favori da poter contare su ogni genere di sostegno e aiuto inaspettato.
Abigail e Frederick si erano recati in visita proprio per siglare l’accordo, portando con loro più dell’oro pattuito. La salute di Re Mida, aveva spiegato Abigail, era così cagionevole che aveva preferito costringere il padre a rimanere al castello.
«Pensavamo» disse Abigail quando l’ondata di risate si fu quietata, «di accettare la vostra offerta di fermarci a corte per qualche tempo».
«Davvero? Ma è meraviglioso, David, non credi?» rispose Biancaneve, con un sorriso.
David annuì, ma Emma colse un’ombra di dubbio negli occhi di Regina. Lei era estremamente brava a leggere tra le righe e individuare intrighi.
Le parole non dette, diceva spesso, sono sempre le più importanti.
«Credo sia un ambiente migliore» aggiunse Frederick, con voce bassa e calda, «per mia moglie e il nostro primogenito».
Biancaneve spalancò gli occhi.
«Aspetti un bambino? E quando pensavi di dircelo?» domandò, fingendosi oltraggiata.
«Sono solo al primo mese» disse Abigail, arrossendo e scambiando un’occhiata con Frederick.
«Alla fine della cena» sussurrò Regina nell’orecchio di Emma, mentre Biancaneve si alzava e aggirava il tavolo per congratularsi con Abigail, «vorrei scambiare un paio di parole con i tuoi genitori. Credo che questo non sia il momento migliore per parlare delle nostre intenzioni, Emma».
La ragazza guardò Regina per un lungo istante, leggendo nei suoi occhi scuri una richiesta di fiducia.
Sapeva qualcosa, Regina sapeva qualcosa di importante, Emma poteva vederlo chiaramente.
Lanciò una breve occhiata a Henry, che si era aggiunto ai nonni per le congratulazioni, prima di guardare di nuovo Regina e annuire.
«Forse è meglio unirci a loro» aggiunse infine Regina, alzandosi con eleganza e tendendo la mano verso Emma.
Insieme, si avvicinarono a Abigail e Frederick.
 
«Regina, ne sei sicura?»
«Non ho prove, se è questo che vuoi sapere. Ma sì, sono ancora capace di annusare il pericolo e le mezze verità, quando li ho sotto il naso. Ho vissuto per anni a corte: ho imparato il gioco della politica, David».
Erano in biblioteca, David camminava avanti e indietro mentre Emma e Biancaneve erano sedute su un vecchio divano di pelle. La figura di Regina era delineata dal camino acceso davanti al quale si trovava la donna.
Erano i primi giorni di primavera, ma per quanto le giornate fossero calde, le notti erano ancora fredde.
«Spiegami di nuovo tutto dall’inizio».
Regina scosse la testa, spazientita, bevendo un lungo sorso di vino prima di appoggiare la coppa argentata sopra il marmo del camino.
«Prima di lanciare la Maledizione, c’era un gruppo di nobili che frequentava la corte di Re Mida e ordiva una congiura contro di lui. Erano per lo più congiunti del re, alcuni di loro comparivano persino nella linea di successione al trono, e nessuno tollerava che Abigail sposasse Frederick. Non era di sangue reale, non aveva possedimenti di alcun genere e soprattutto era così devoto a Mida che sarebbe stato impossibile controllarlo per influenzare Abigail e, attraverso lei, il padre.
Non mi importavano i loro intenti, almeno non abbastanza perché me ne interessassi fino in fondo. Non so dirti se volessero uccidere Frederick, così che uno di loro potesse aspirare alla mano di Abigail, o se puntassero persino a uccidere Mida e sua figlia. Se fossi stata una di loro, avrei fatto in modo di eliminare Frederick, facendolo sembrare un incidente, e costretto Abigail a sposare il più spietato tra i cospiratori. Attraverso la minaccia della vita della figlia, avrei costretto Mida ad acconsentire a ogni richiesta dei congiurati. Più oro, più terre, più privilegi.
Ad ogni modo, non credo che i congiurati abbiano dimenticato i loro propositi. E ora che Abigail ha effettivamente sposato Frederick e con un erede in arrivo, le loro possibilità di accedere al trono sono più effimere ogni giorno che passa.
Hanno rimesso in piedi la congiura e Mida lo sa. Anche Abigail e Frederick ne sono a conoscenza, per questo Abigail vuole rimanere, almeno per dare alla luce il bambino e tenerlo al sicuro. Se non fosse per la vita del piccolo, sono sicura che nessuno dei due avrebbe mai lasciato il fianco di Mida. E sono altrettanto sicura che Frederick ripartirà presto per il loro regno» disse Regina.
«Ma questi congiurati, David, sono spietati. La prosperità del regno di Mida ha indebolito il loro potere al punto che le differenze di reddito tra il più povero dei contadini e il più ricco dei nobili sono davvero esigue. Tutto quello che conta in quel regno è la posizione sociale, i tuoi natali. Vogliono il trono e non si fermeranno davanti a nulla.
Probabilmente ci sono sicari che cavalcano verso il nostro regno in questo preciso istante.
Se volete dare loro ospitalità, dovete parlare loro chiaramente. E aumentare immediatamente il numero delle sentinelle nel castello, controllare i confini.
Re Mida non è uno sciocco. Con quel contratto ha assicurato ad Abigail un posto sicuro dove rifugiarsi. Il patto di non aggressione potrebbe fermare chiunque conquisti il suo regno con la spada dall’attaccarci, è vero, ma Mida ha comunque inviato abbastanza oro da poter far fronte a una guerra di anni».
Regina sospirò e rimase in silenzio.
Biancaneve e David si scambiarono uno sguardo, mentre Emma si disse che Regina, se non fosse stata accecata dal dolore e dal desiderio di vendetta, sarebbe stata una delle migliori regnanti che quel posto avesse mai visto e il suo nome sarebbe stato intessuto nelle ballate di tutto il reame con dolcezza e riverenza, fino alla fine dei tempi.
«Perché non confessare la verità?» domandò infine Biancaneve.
Regina scosse la testa.
«Perché Mida non è l’unico con una famiglia da difendere. Forse temeva che con Ethel, l’arrivo di me ed Emma e la presenza di Henry, non avreste accettato di fornire ospitalità a una principessa incinta con una condanna a morte sulla testa».
«Che sciocchezza, certamente l’avremmo accolta!» esclamò Biancaneve.
Regina guardò Emma, che sorrise con amarezza.
La giovane ragazza avrebbe lasciato andare alla deriva il regno e i suoi abitanti, rifiutando l’oro di Mida e di accogliere Abigail, pur di non mettere Regina e Henry in pericolo. Erano la sua famiglia, e doveva difenderli.
«Biancaneve, quei congiurati… sono spietati. Conosco storie orribili, su di loro. Se tu e David volete permettere ad Abigail di rimanere, le nostre difese dovranno essere incrementate. Incanterò degli amuleti, per tutti noi, che ci proteggeranno da molti dei metodi preferiti dai congiurati per
assassinare appartenenti della casa reale»
«Metterò i nani a difesa degli appartamenti reali» disse l’uomo, guardando la moglie per cercare un sostegno che non tardò ad arrivare. «Ordinerò a due guardie di piantonare l’ingresso degli alloggi di Frederick e Abigail. Il vantaggio di una congiura esterna al nostro regno è che, almeno all’inizio, non c’è motivo di dubitare dei nostri uomini».
«Domani mattina parleremo con Frederick e Abigail» aggiunse Biancaneve. «Regina, vorrei almeno la tua presenza. Potresti isolare la conversazione di domani come stai facendo ora?»
Regina annuì.
«Certamente, ma credo che dovreste allontanare almeno Ethel e Henry dal castello. Sono i primi in linea di successione e sono giovani, troppo giovani, per vivere in un clima di costante pericolo» disse Regina.
«Emma è la prima in linea di successione» rispose David.
Gli sguardi di tutti i presenti vennero puntati sulla ragazza, che tossì nervosamente.
«Io… Ecco, io, rifiuterei… abdicherei…. lascerei… Sì, ecco, insomma, non voglio governare questo regno» rispose Emma.
«Ma sei nostra figlia. Questo regno è tuo di diritto».
Emma scosse la testa.
«No, e non credo nemmeno che dovrei essere qui» rispose la ragazza.
«Non credo sia questo il momento di discuterne» intervenne Regina.
David aprì la bocca, ma la moglie lo precedette.
«Di cosa stai parlando, tesoro?»
«Io e Regina abbiamo un figlio da proteggere. Pensavamo sarebbe stato meglio andarcene, tornare a Storybrooke, se questo fosse stato ciò che Henry desiderava. Dopo quello che abbiamo saputo non lo lasceremo in un mondo pericoloso come questo, senza di noi. Ma quando non ci sarà più motivo di temere della sua vita, sarà lui a decidere se ci vorrà accanto o meno» rispose Emma.
Regina sospirò e chiuse gli occhi. Emma aveva ragione, ma non c’era motivo di parlarne in quel momento.
«Ma questo è il tuo mondo, tesoro, è la tua casa» rispose Biancaneve con un filo di voce.
Emma scosse la testa.
In quel momento, il grido di una donna squarciò l’aria. 





 

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Capitolo 2
*** Per tenere un segreto ***


Capitolo II
Per tenere un segreto
 

 
David spalancò la porta con un calcio, seguito a ruota da Emma. Entrambi avevano sfoderato la spada.
Regina era dietro di loro, lingue di fuoco danzavano sui palmi delle sue mani. 
Dopo aver udito quel grido dalla biblioteca, si erano precipitati tutti nella direzione da cui era giunto: gli appartamenti di Frederick e Abigail.
La figlia di Mida stava singhiozzando a terra, tra le braccia di Frederick, ma nella stanza non sembrava ci fosse null’altro fuori posto.
Frederick, che brandiva la spada con una mano e stringeva Abigail dietro di lui con l’altra, lasciò cadere l’arma a terra.
«Ci hanno seguiti. Ci hanno seguiti» ripeteva tra i singhiozzi sua moglie e a tutti fu chiaro di chi stesse parlando.
David e Emma si disposero a destra e a sinistra dei due ospiti a terra, guardandosi intorno circospetti, mentre Regina soffiava piccole sfere di fuoco intorno alla stanza, illuminandone gli angoli più bui, quelle nicchie che potevano diventare un ottimo nascondiglio per qualsiasi malintenzionato.
«Cosa è successo?» domandò Biancaneve, inginocchiandosi accanto a Frederick e aiutandolo a sostenere Abigail. L’uomo scosse la testa, ma la principessa alzò lo sguardo verso Biancaneve.
«Aiutaci» disse solo, con un filo di voce, prima di perdere i sensi.
 
Fino a quel momento, Frederick non aveva saputo rispondere a nessuna delle domande che Biancaneve gli aveva rivolto.
Quando aveva sentito la moglie gridare si trovava appena fuori dalla stanza, a dare disposizioni a una delle guardie che lo avevano accompagnato dal suo regno perché controllasse gli appartamenti durante la notte.
Si era precipitato immediatamente in direzione della porta, che non sembrava essere in grado di aprire. Aiutato dalla guardia, aveva provato a sfondarla, più e più volte, ma solo dopo momenti interminabili questa aveva finalmente ceduto, rivelando Abigail accasciata a terra, tremante, con le mani strette al ventre.
«Frederick, tutto questo ha a che fare con la congiura a palazzo, non è vero?» domandò Biancaneve, seduta accanto a Abigail.
La principessa era stata adagiata nel suo letto, dopo un’accurata visita da parte del medico di corte, il quale aveva assicurato che la donna non aveva perso il bambino.
Frederick alzò gli occhi e un’espressione di confusione e colpa si dipinse sul suo volto. Era seduto dall’altro lato della moglie e le stringeva la mano. Il respiro di Abigail era leggero e debole, ma per qualche minuto fu tutto ciò che si udì nella stanza.
«Credo di sì» rispose infine l’uomo, tornando a guardare il volto pallido della moglie. «Come lo sapete?»
«Regina non ha perso il suo intuito per gli intrighi di corte» rispose semplicemente Biancaneve. «Avreste dovuto dircelo, vi avremmo accolti in ogni caso».
«Mida aveva troppa paura di un rifiuto per rivelare la verità. Abigail è la sua unica figlia, per lei farebbe di tutto» rispose piano Frederick. «E io ero d’accordo con lui. Abigail era l’unica che non avrebbe voluto tenere nascosta la verità. Non a David».
Biancaneve annuì, ma non aggiunse altro, interrotta dall’arrivo del marito in quel momento.
«Ho rafforzato le difese militari del castello. Regina ha formulato l’incantesimo di difesa e lo sta spiegando a Emma. Ha detto che non sarà un semplice scudo, ma che terrà all’esterno solo coloro che hanno cattive intenzioni».
 
 
Regina aveva uno sguardo confuso e disorientato. Si trovava nel cortile centrale del palazzo - quello che una volta aveva ospitato il suo albero di mele - con Emma e avevano appena iniziato a lanciare l’incantesimo di protezione.
Aveva usato la magia varie volte da quando erano arrivate nella Foresta Incantata e per quanto avesse percepito una nota differente nel suo potere, non vi aveva mai dato molta importanza. Dopotutto, il suo cuore non era più avvolto dalle tenebre e forse questo aveva avuto ripercussioni anche nella sua magia.
Ma quando aveva afferrato le mani di Emma l’aveva percepito chiaramente. Si era imposta di non pensarci mentre la sua voce e quella della ragazza pronunciavano l’incantesimo all’unisono, con una sincronia talmente perfetta che sembrava impossibile si trattasse di due voci diverse.
Dai loro piedi un tenue bagliore si era diffuso, come rampicanti di una verde edera, lungo ogni centimetro del castello, dalle sue fondamenta all’apice della torre più alta, impregnando ogni pietra con il suo potere.
Era servito qualche minuto per coprire l’intera superficie del castello, ma alla fine Regina era sicura che lei ed Emma avessero fatto un ottimo lavoro.
Quando il tenue bagliore era scomparso, entrambe avevano vacillato e Regina aveva registrato la sensazione che usare la magia in maniera così massiccia le aveva lasciato.
Quella che aveva usato era stata la sua magia, eppure non lo era. 
E quella che aveva sentito provenire da Emma era la magia della ragazza, eppure non lo era.
Emma non aveva la sensibilità di Regina, ma aveva comunque intuito che c’era qualcosa fuori posto in quel loro incantesimo combinato.
«Regina» sussurrò Emma, dopo alcuni secondi di silenzio. «Perché la mia magia era-».
«Non lo so» si affrettò a interromperla Regina. «E non parlarne con nessuno, non ora. Può essere pericoloso».
Emma annuì, dando una stretta alla mano dell’altra e avvicinandosi per darle un bacio leggero sulle labbra.
«Sai, credo che mi sarebbe piaciuto conoscerti quando governavi questo regno. Mi piace quest’aura di potere e regalità» disse, a pochi centimetri dal volto di Regina. Questa le lanciò uno sguardo confuso e scosse la testa.
«Ero un po’ diversa nei miei giorni da Regina Cattiva, Emma».
«E saresti stata ancora diversa, dalla donna che eri o che sei, se ci fossi stata io» rispose Emma, sicura di sé.
Regina le sorrise, baciandole la fronte. Non lo disse ad alta voce, ma sapeva che Emma aveva ragione. Chiuse gli occhi, per impedire a una lacrima di sfuggire ai suoi occhi. 
In quei giorni, i giorni da Regina Cattiva, quando non provava altro che rabbia e dolore, in cui si svegliava la mattina rendendosi conto che la sua vita era un incubo ben peggiore di quello che aveva vissuto nei suoi sogni più bui, in cui si guardava allo specchio e nei suoi occhi non vedeva altro che magia oscura, volute viola di potere che le invadevano il cuore, Regina sapeva che aveva solo bisogno di essere salvata.
Ed Emma era nata per essere la Salvatrice.
«Regina».
«Torniamo dentro, Emma» disse solo la donna, circondando con un braccio il fianco di Emma e lasciando che l’altra ragazza facesse lo stesso con lei.
Nessuna delle due si accorse di Henry che le osservava da  una finestra, quell’immagine che si sovrapponeva a un ricordo sepolto da tempo, di un ragazzino che spiava attraverso le tende della finestra le sue mamme in auto che si scambiavano un bacio e sorrideva nel vederle perché, finalmente, sentiva che ogni pezzo era andato al posto giusto e lui aveva trovato la sua famiglia.
 
Abigail si era svegliata solo la mattina seguente.
Aveva sbattuto le palpebre un paio di volte, prima di individuare Frederick, seduto a qualche metro di distanza a un tavolo circolare. La sedia di fronte a lui era occupata da David, mentre Emma era appoggiata al tavolo con entrambe le mani, in piedi in mezzo a loro, ascoltando il padre con attenzione.
Stavano discutendo di strategia militari e del modo migliore per stanare i congiurati nel palazzo di Mida: le sue conoscenze da cacciatrice di taglie potevano tornare utili.
Guardandosi intorno, Abigail individuò anche Biancaneve e Regina, sedute su un divano, in compagnia di Henry e Ethel.
Il ragazzo era addormentato e aveva la testa appoggiata sulla spalla di Biancaneve, la quale a sua volta aveva abbandonato la propria su quella del ragazzo, una braccio a circondare le spalle forti del nipote. Il piccolo corpo di Ethel invece era steso sopra quello degli altri tre, con i piedi su una delle gambe di Henry e il corpo, quasi completamente reclinato, sostenuto e stretto a sé da Regina, l’unica vigile e attenta, gli occhi puntati sui tre che discutevano attorno al tavolo circolare.
Durante la cena, aveva sentito la bambina chiamare la donna zia Regina e le era sembrata affezionata alla donna, allo stesso modo in cui si era affezionata alla sorella appena ritrovata, Emma.
Abigail respirò a fondo, chiedendosi perché si trovassero tutti nella sua stanza.
E poi ricordò.
Ricordo la finestra spalancarsi con un colpo secco, le tende scosse con tanta forza da sibilare nell’aria, le candele spegnersi all’improvviso e una figura, nera e furtiva, che si aggirava intorno a lei, chiamandola.
«Abigail, Abigail, Abigail»
«Chi sei?» aveva chiesto la donna, la voce acuta e colma di terrore, stringendosi il ventre.  
«Non sarai mai al sicuro, Abigail, non puoi scappare da noi».
L’ombra continuava a spostarsi intorno a lei.
«Nessuno di chi ami sarà al sicuro, Abigail. Cadranno uno ad uno per te, Abigail. E rimarrai sola. Abigail, Abigail, Abigail».
E poi l’ombra, l’essere, qualsiasi cosa fosse, era passato attraverso il suo corpo.
E Abigail aveva urlato.
Aveva sentito un freddo intenso, un dolore dilaniante, e aveva solo pensato al suo bambino. Doveva proteggerlo, in ogni modo, ma non aveva idea di come fare.
Aveva continuato a urlare, si era accasciata a terra, singhiozzando e ricordandosi di respirare solo quando aveva sentito le braccia di Frederick attorno al suo corpo minuto. E l’ombra era scomparsa.
«Frederick» chiamò Abigail, tornando al presente. Voleva averlo accanto, aveva bisogno di averlo accanto e sentirsi dire che era tutto quanto un incubo e che lei stava bene, che il bambino stava bene.
Perché altrimenti, Abigail lo sapeva, sarebbe impazzita.
La sua voce era roca e bassa e per un secondo temette di non essere stata udita e non sapeva se avrebbe avuto le forze di ripetere il nome del marito, ma poi il viso di Frederick si voltò verso di lei, un’espressione di sollievo si dipinse nel suo sguardo. L’uomo si alzò con una furia tale da far cadere la sedia su cui era seduto.
Il tonfo fece sussultare e svegliare Henry e Biancaneve, mentre la piccola Ethel si limitò ad agitarsi tra le braccia di Regina e mugugnare qualcosa nel sonno. Aveva cinque anni e il sonno profondo almeno tanto quello di Emma.
«Abigail, tesoro, Abigail» sussurrò Frederick, fiondandosi al fianco della moglie. Le baciò la fronte, poi le labbra.  
«Il… Il bambino… Frederick».
«Sta bene, tesoro, il medico ha detto che sta bene. Come ti senti? Hai sete? Fame?»
«Acqua» rispose la donna, chiudendo gli occhi.
«Faccio io» disse Biancaneve, prontamente, alzando le gambe della figlia e appoggiandole di nuovo sul divano.
Henry lanciò uno sguardo a Regina, che scostò un ciuffo di capelli dal volto di Ethel.  
Un punta di dolore gli trafisse il cuore e un’ombra passò nei suoi occhi. Emma la colse chiaramente e si trattenne a stento dall’attraversare la stanza e abbracciare il figlio.
Abigail bevve a piccoli sorsi l’acqua che Biancaneve le porse.
Quando ebbe finito, le sue guance sembrarono acquistare un po’ di colore e Biancaneve si scusò, uscendo dalla stanza per ordinare a un valletto di portare qualcosa da mangiare.
Quando tornò, Frederick e David si scambiarono un’occhiata.
«Tesoro, ti ricordi cosa è successo?» domandò il principe.
Abigail rimase a lungo in silenzio, prima di annuire.
Poi iniziò a raccontare.
 
«Henry non avrebbe mai dovuto sentire nulla di tutta quella storia» sbottò Regina, sbattendo la porta della loro camera dietro alle spalle.
«Che cosa hanno nella testa i tuoi genitori? Potranno anche averlo cresciuto come un principe, mandandolo a caccia e regalandogli spade per i compleanni, ma è troppo giovane per essere coinvolto».
Emma si lasciò cadere sul letto a pancia in giù, rimbalzando debolmente.
Aveva passato l’intera notte sveglia a parlare con David e cercare il modo migliore per risolvere la situazione alla corte di Mida, mentre domande riguardo la sua, lo loro, magia, le affollavano la testa.
Dopo l’episodio di Abigail, avevano deciso di rimanere uniti e avevano improvvisato un quartiere generale nella stanza della donna. Ethel si era addormentata in fretta, cullata dalle parole di Regina e Biancaneve che le raccontavano antiche favole della Foresta Incantata, aggiungendo dettagli che l’altra aveva dimenticato e così David, conoscendo il sonno pesante della figlia, aveva iniziato a discutere del modo migliore per agire.
Regina aveva storto visibilmente il naso.
E Emma aveva capito che si trattava di Henry, del fatto che gli fosse concesso di presenziare a quella che aveva tutta l’aria di essere una riunione militare, ma nessuna delle due aveva osato dire nulla.
Biancaneve aveva stretto la mano di Regina per un attimo.
Fortunatamente, nel giro di poche ore, anche Henry e sua nonna si erano addormentati.
«Gli manchi» disse Emma, ignorando le parole dell’altra.
«Cosa?»
Regina si stava togliendo l’abito appena sgualcito, evidentemente intenzionata a seguire il consiglio di David di riposare almeno per qualche ora, ma si bloccò a metà schiena, i lacci in parte liberi.
«A Henry» rispose Emma, rotolando sulla schiena con fatica per poterla osservare e sorriderle. «L’ho osservato. E gli manchi, Regina, gli manca la sua mamma».
La donna rimase qualche secondo in silenzio.
«Sono sicura che gli manchi anche tu» disse infine, accennando un sorriso timido e avvicinandosi al letto.
Emma scosse la testa, mentre Regina si sedeva accanto a lei, e adagiò la testa sul grembo dell’altra.
«Emma».
La ragazza scosse la testa con più forza, calde lacrime che scivolavano lungo le sue guance.
«Sono solo stanca» disse infine, singhiozzando, con le mani di Regina che le accarezzavano i capelli biondi.
«Emma…».
La ragazza si mise a sedere guardando Regina con un sorriso triste e asciugandosi le lacrime con un mano. Si spostò alle spalle dell’altra e prese a slacciarle il vestito.
«Dormiamo e basta» disse con un filo di voce. «Ti va? Ti va di stringermi e dormire con me, Regina? Per favore».
Le mani di Emma accarezzarono la schiena dell’altra per tutta la sua lunghezza. Regina chiuse gli occhi, prima di torcere il busto e guardarla.
«Sì, Emma».
 
Emma si svegliò sbadigliando.
Una mano leggera e fresca le scostò il capelli dal volto e il sorriso di Regina entrò nel suo campo visivo.
«Ehi» disse la donna, continuando ad accarezzare le guance di Emma. «Stavo per svegliarti».
«È successo qualcosa?» domandò immediatamente Emma, cercando di uscire completamente dal torpore del sonno. Sfortunatamente, le carezze di Regina sortivano l’effetto opposto.
«No, non preoccuparti. Biancaneve è passata a chiederci di fare colazione in giardino» rispose Regina, storcendo il naso. «Più che altro ha richiesto espressamente la nostra presenza».
«Cosa? Dopo quello che è successo mia madre ha il tempo di pensare alla colazione?»
«Credo che lo faccia per Abigail. Il medico ha raccomandato di mantenere un’atmosfera il più possibile tranquilla e quotidiana».
«E perché noi dobbiamo andarci?» domandò Emma, mettendosi a sedere e lasciando che Regina le circondasse le spalle con un braccio. «Sarebbe più utile cercare di nuovo tracce nella sua camera, interrogare i servitori, perlustrare il perimetro del castello, chiedere di avvenimenti strani o cose del genere. Insomma, qualcuno ha aggredito Abigail nelle sue stanze, presidiate da guardie più o meno fidate, e ancora non ne sappiamo nulla. Non credi sia pericoloso condurla all’esterno?»
«Non sappiamo contro chi o cosa abbiamo a che fare Emma. Per quanto ne sappiamo potrebbe risiedere nei muri del castello o spostarsi per mezzo del fuoco o chissà che altro. Con la magia in gioco, ci sono infinite possibilità. In ogni caso, il giardino di cui parla tua madre è una grande terrazza sul lato est del castello. Venne fatta costruire in onore di tua nonna Eva. Non mi era espressamente vietato di andarci, ma…» Regina lasciò la frase in sospesa, ammiccando tristemente. «In ogni caso, la nostra presenza è richiesta per quello che hai detto l’altra sera, Emma».
«Riguardo a cosa?»
«Riguardo al voler lasciare la Foresta Incantata» rispose Regina.
 
Quando Emma e Regina raggiunsero mano nella mano la terrazza per la colazione, furono sorprese dal trovarci solo Biancaneve e il Principe, che stava sfruttando la posizione sopraelevata della terrazza per spiegare a Henry la collocazione di alcuni possedimenti del regno. Ethel, poco distante, osservava incuriosita una farfalla, mentre sua madre dava indicazioni alle cameriere.
L’irrealtà della situazione, accentuata dalla vegetazione rigogliosa e dai rampicanti sul gazebo sotto il quale era stata allestita la colazione fecero dubitare a Emma di essere effettivamente sveglia, tanto da spingerla a pizzicarsi violentemente il braccio quando Regina fece gentilmente notare a sua madre che aveva dato disposizioni errate riguardo le posate.
Biancaneve le rivolse uno sguardo riconoscente, venato dall’esasperazione di doversi occupare dell’allestimento della tavola.
«È l’unica regola del galateo che non è mai riuscita a imparare» commentò Regina, facendo un cenno al Principe per salutarlo. «All’inizio, tutti noi provammo a correggere l’errore, ma con gli anni Biancaneve sembrava non voler imparare, così pian piano le persone smisero di farglielo notare».
«Tranne Regina» aggiunse Biancaneve, che si era avvinata. «Regina mi faceva apparecchiare appositamente la tavola perché imparassi. Era molto più paziente degli altri, con me. Poi…»
Regina abbassò lo sguardo verso terra.
«Poi la magia prese il soppravvento» concluse la donna, con un sorriso triste.
Emma le mise una mano alla base della schiena con fare protettivo, ma in quel momento un piccolo uragano di tulle e nastrini investì Emma e Regina, che si ritrovarono Ethel abbracciata a una gamba di ciascuna delle due.
«Ehi, principessa» la salutò subito Regina, accarezzandole capelli e abbassandosi alla sua altezza. «Hai dormito bene?»
Ethel annuì, i boccoli castano chiaro accompagnarono il movimento e Regina si chiese se anche Emma, da bambina, fosse altrettanto adorabile.
«Forse ha alcune foto dell’altro mondo» disse la bambina, stringendosi nelle spalle.
«Cosa?» domandò Regina, sistemando una piccola piega dell’abito di Ethel.
Anche lei, da bambina, aveva indossato abiti simili. A Biancaneve non importava che questi si rovinassero nei giochi sfrenati di Ethel. Cora, invece, aveva sempre preteso che la piccola Regina fosse impeccabile.
Emma nel frattempo si era allontanata e stava studiando incuriosita il tavolo della colazione, chiedendo a sua madre perché ad ogni pasto fosse necessario tanta argenteria. Biancaneve ignorò la domanda, ma spiegò di nuovo ad Emma il corretto uso di ogni piatto, forchetta, cucchiaio, coltello, contenitore e bicchiere.
Regina era convinta si trattasse una battaglia persa e che l’unica soluzione fosse suggerire alla ragazza come comportarsi a tavola in modo appropriato a seconda delle situazioni che si presentavano.
«Emma. Puoi chiederle se ha alcune foto di quando era come me» spiegò Ethel.
«Come fai a sapere cosa ho pensato?» domandò Regina, attenta e incuriosita dalla bambina.
Ethel le mise le braccia intorno al collo, chiaro segno che voleva essere presa in braccio. Quando Regina la accontentò, la bambina mise le mani a coppa attorno all’orecchio della donna e bisbigliò poche parole, che fecero preoccupare non poco Regina.
 
Biancaneve si era lentamente allontanata dal tavolo della colazione mentre spiegava a Emma per quale motivo era consigliabile non usare la stessa posata per portate diverse e aveva costretto la ragazza a seguirla. Quando furono abbastanza lontane da non poter essere ascoltate, Biancaneve prese la mani di Emma.
«Ti piace il castello, tesoro?» le chiese con un sorriso speranzoso. «E questa terrazza? Sembra un vero giardino, non credi?»
«Sì, è tutto molto… fiabesco» rispose Emma, guardandosi intorno con fare circospetto.
«Ed è tuo, Emma, è casa tua» disse Biancaneve, indicando con un ampio gesto del braccio le torri e le mura del palazzo.
«Regina mi aveva avvertita. Era proprio brava in tutta questa faccenda della diplomazia e delle relazione politiche, non è vero?» domandò Emma, con un sospiro e un sorriso appena accennato.
«Regina era molte cose. Comunque, Emma, non puoi tornare a Storybrooke. Tu sei nata in questo castello, queste terre ti appartengono di diritto, sei l’erede al trono» provò ad insistere Biancaneve, stringendo più forte le mani di Emma. «Sei tornata a casa… Perché vuoi andartene di nuovo?».
«È casa mia e continuerà ad esserlo fino a quando ci saranno Regina e Henry. Ma se Henry non ci vuole tra i piedi… »
«Emma, per favore».
«Non è il momento di parlarne. Abbiamo un’emergenza e non sappiamo esattamente quanto sia pericolosa questa congiura che ha preso di mira Abigail, Frederick e la loro famiglia. Affrontiamo un problema alla volta, d’accordo? Quando tutto questo sarà finito, ne parleremo tutti insieme e a Henry toccherà la decisione finale» le disse Emma, risoluta.
Biancaneve annuì, aggrappandosi alla possibilità che sua figlia rimanesse, per Henry.
Anche se faceva male sapere che Emma si sentiva più a casa accanto a Regina, che non a lei.
 
 


NdA
Buon sabato a tutti!
Non so voi, ma io sono particolarmente agitata per la puntata di domani notte ** Spoiler (e Twitter mi stanno letteralmente uccidendo). Il colpo di grazia poi lo da quella beta di evelyn_cla con i suoi commenti, ma soprattutto con i suoi capitoli.
Ho bisogno di una Emma che mi salvi.
Comunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto e.... a presto,
Trixie :D
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Capitolo 3
*** Per recapitare un messaggio ***


Capitolo III
Per recapitare un messaggio


 
 
 
Emma suppose che una colazione tra teste coronate, normalmente, non si svolgesse in questo modo.
Biancaneve faceva di tutto per sorridere e portare avanti una conversazione leggera tre lei e Abigail, ma con scarsi risultati. A parlare era per lo più Biancaneve, ricorrendo agli aneddoti delle sue due gravidanze.
Regina, seduta accanto a Emma, si dimostrava particolarmente taciturna, rigida e stretta dal bustino del vestito. Quella era un’altra delle ragioni per cui Emma non indossava e mai avrebbe indossato abiti simili a quelli di sua madre e di Regina, che non le permettevano nemmeno di sedersi comodamente. Emma considerò che gli schienali di ogni tipo di sedia del castello fossero stati oltremodo ignorati nel corso dei secoli e lo riteneva un gran crimine, dal momento che si mostravano per la maggior parte molto comodi. Regina l’aveva sorpresa un paio di volte addormentata su una vecchia poltrona in biblioteca.
«Emma, quella poltrona è appartenuta al nonno di tuo nonno» le aveva detto Regina. «Non è stata messa lì perché qualcuno la usasse per sedersi».
Emma continuava a chiedersi quale altra funzione potesse avere una poltrona, ma aveva evitato di fare domande.
La ragazza scosse la testa e guardò Ethel seduta di fronte a lei, che le rispose con un sorriso, lo stesso che dedicò a Regina qualche secondo dopo, infilzando qualsiasi cosa avesse nel piatto con fare energico e portandoselo alla bocca.
Abigail si stringeva possessivamente il ventre con una mano, mentre mangiava piccoli bocconi della sua colazione, cercando ogni tanto uno sguardo di conforto da parte di Frederick. Lui, nonostante fosse teso e nervoso, era impegnato in un’accesa discussione con David e Henry. A Emma sembrò stessero discutendo di lame.
Emma si strinse nelle spalle, decidendo di imitare la sorellina e infilzare con energia la propria colazione e portarsi alla bocca un boccone sproporzionato.
La traiettoria della sua forchetta venne fermata da Regina, che le afferrò gentilmente il polso.
«Emma, bocconi più piccoli, non è elegante» sibilò la donna, facendo una leggera pressione perché la ragazza allontanasse la forchetta dalla bocca.
«Ma Ethel-»
«Ethel è una bambina, Emma» la interruppe Regina, senza alzare il tono di voce.
La risata divertita di Ethel raggiunse Regina, che le fece l’occhiolino, mentre Emma le rivolse quella che Regina aveva catalogato come la numero quattro nel suo personale catalogo delle facce da Swan e che significava all’incirca Regina non mi lascia fare una cosa che ritiene disgustosa, infantile, non elegante o tutte e tre le cose insieme, ma che io ritengo perfettamente normale.
I comportamenti che richiedevano la cosiddetta faccia da Swan numero quattro comprendevano, tra le altre cose, tirare i popcorn al cinema, appoggiare i piedi sul tavolino del salotto, superare un’automobile da cui era stata appena superata solo per ripicca e l’ultimo, idiota passatempo di Emma: sistemare le armature del castello in pose ridicole.
«Dove diavolo trovi il tempo per queste sciocchezze, Emma?» le domandava Regina ogni volta che si imbatteva in una delle armature passate tra le mani della ragazza.
«Non è che ci sia molto da fare, sai, Regina».
Regina alzava gli occhi al cielo, senza rispondere.
«Non è giusto» concluse Emma, riponendo la forchetta sul piatto e dividendo con poca grazia il suo boccone.
Regina la tenne d’occhio fino a quando la ragazza non portò la bocca una forchetta che, secondo il giudizio della donna, era comunque troppo carica.
«Contenta, ora?» sbottò Emma, con la bocca piena.
Regina chiuse gli occhi voltandosi dalla parte opposta rispetto alla ragazza, arricciando il naso dal ribrezzo.
«Sei disgustosa» commentò.
Emma sogghignò, prima di mostrare i pollici puntati verso l’alto in direzione di Ethel.
La bambina fece cenno con la manina a Emma per invitarla a sporgersi sopra il tavolo, cosa che Emma fece prontamente, con disappunto di Regina.
Ethel abbassò la voce.
«Zia Regina ti trova comunque adorabile, sorellona» bisbigliò, facendo spuntare sul viso di Emma un sorriso che andava da un orecchio all’altro, mentre tornava a sedersi quasi perdendo l’equilibrio, colta di sorpresa nell’udire la voce di Brontolo a qualche passo da lei.
Regina le afferrò il braccio con uno sguardo di rimprovero, per poi aiutarla a sedersi.  
«Scusate l’interruzione, signori» esordì il nano, dopo essersi schiarito la voce. Emma approfittò della distrazione di Regina per farle una linguaccia.
«Un messaggero è appena giunto al castello e chiede di essere ascoltato dalla principessa Abigail. Dice di portare una pergamena da parte di Re Mida».
Biancaneve guardò con sguardo interrogativo Abigail, che invece volse il viso verso il marito.
«Potreste descrivermelo?» domandò la principessa, mordendosi il labbro inferiore e torcendosi le mani in grembo.
«Piccolino, biondo, viso aguzzo e voce stridula. Molto educato, dagli occhi azzurri. È arrivato da solo, dice di aver camminato per giorni. Le sue scarpe sono lacere e i vestiti sporchi, ma tutto di ottima fattura».
«Portava un semplice braccialetto di argento al polso?» chiese Abigail, un sorriso che sembrava voler spuntare sul suo volto.
Il nano annuì e Frederick si alzò immediatamente in piedi, mentre sua moglie annuiva.
«Lasciatelo passare, lasciatelo passare» disse Abigail, stringendo la mano di Frederick.
«Ma chi..?» iniziò Biancaneve, ma la sua domanda trovò risposta prima che venisse conclusa.
«È mio cugino, figlio adottivo di mia zia, sorella di mio padre. È un ragazzino talmente adorabile. Credo che mio padre voglia tenerlo al sicuro» disse la donna.
Il ragazzino in questione fece il suo ingresso proprio in quel momento, sporco e asciutto proprio come lo aveva descritto il nano, e corse immediatamente tra le braccia di Abigail, affondando il viso tra i suoi capelli.
«Ho avuto paura, ho avuto tanta paura» singhiozzava il messaggero.
Ethel scese dalla propria sedia con difficoltà, andando a sedersi sulle gambe di Emma. La ragazza si accorse solo in quel momento che Regina si era allontanata e la individuò a qualche metro di distanza, mentre confabulava con Brontolo.
Biancaneve, invece, stava facendo portare del cibo caldo per il nuovo arrivato, mentre David e Henry osservavano Abigail e Frederick stringere a loro il ragazzino.
«Henry, tesoro, potresti per favore portare una sedia? Sono dietro quel muro» gli chiese Biancaneve e Henry eseguì prontamente, scattando in piedi.
«Certamente, nonna».
«Non mi piace quello che dice» commentò Ethel, iniziando a giocare con una ciocca dei capelli di Emma, mentre entrambe osservavano la scena, rapite dalla confusione.
Regina tornò da Emma e Ethel dopo qualche minuto, quando ormai il messaggero aveva preso a posto, circondato da Abigail e Frederick che tentavano di far cessare i singhiozzi e calmarlo.
«Credo» intervenne David, schiarendosi la voce, «che sia meglio lasciarli soli».
«Cosa? E se hanno bisogno di qualcosa, io-»
«Biancaneve, sono sicuro che Abigail ti farà chiamare se avranno bisogno di qualcosa» la interruppe il marito, alzandosi e appoggiandole le mani sulle spalle.
«Lascerò delle guardie perché non corriate pericolo» aggiunse il principe.
«Grazie» rispose Frederick, con sguardo riconoscente.
«Ma io-» tentò nuovamente Biancaneve, mentre David la trascinava via con gentilezza.
Anche Regina e Emma seguirono i due, con Ethel tra di loro, stringendo una mano a ciascuna delle due donne.
Quando furono rientrati, la bambina si guardò dietro e incrociò lo sguardo di Henry.
Lasciò gentilmente le mani delle due donne e corse verso il ragazzo, saltandogli in braccio all’improvviso, tanto che Henry riuscì a prenderla per un pelo.
«Ethel, cosa-» stava per dire Emma, quando si accorse di dove sua sorella fosse andata a finire. Sia lei che Regina rimasero in silenzio, incrociando lo sguardo di Henry con Ethel stretta tra le braccia.
«Oh» concluse Emma.
Henry si schiarì la voce.
«Ciao» disse solo, prima di rimettersi a camminare affrettando il passo per superare le sue mamme.
Era la prima volta che rivolgeva loro la parola da quando erano tornate.
Emma e Regina rimasero in silenzio per qualche minuto, poi Regina scoppiò a piangere e Emma dovette appoggiarsi al muro, per poter sostenere entrambe.
 
Henry raggiunse le stanze di Ethel e mise a terra la piccola, riprendendo fiato.
Fece un paio di respiri profondi.
Non voleva ammetterlo, ma il modo in cui Emma e Regina gli mancavano faceva ogni giorno più male. E vederle bisticciare tra di loro, scherzare con Ethel o scambiarsi uno sguardo di intesa, non aiutava certo Henry a isolare il suo cuore dal dolore che Emma e Regina con il loro egoismo gli avevano procurato.
E ciò che faceva ancora più male era coglierle mentre lo osservavano di sottecchi, credendo di non essere viste da lui. Era quel loro atteggiamento riservato, di chi ha mandato tutto al diavolo troppe volte nella vita e, per una volta, vorrebbe che le cose andassero davvero nel verso giusto.
«Manchi anche a loro» disse Ethel, tirandogli una manica.
«Cosa?» disse Henry, inginocchiandosi di fronte a lei e cercando di sorridere. I suoi occhi, invece, non ne volevano sapere di sorrisi, volevano solo piangere.
Ethel gli lanciò uno sguardo rassicurante prima di mettersi a giocare con la sua bambola preferita, ma non aggiunse altro.
Il ragazzo sospirò e le scompigliò i capelli, chiedendosi come facesse una bambina tanto piccola ad avere un tale intuito. Talvolta, sembrava che Ethel fosse in grado di leggere i pensieri delle persone che la circondavano e Henry l’avrebbe persino ritenuto possibile, se solo non avesse saputo che erano necessari anni di pratica e addestramento.
«Ti va di giocare con me?»
La voce squillante di Ethel fece sussultare il ragazzo, ma prima che questo potesse rispondere, qualcuno bussò alla porta.
«Henry, tesoro, sei qui?»
«Sì, nonna!»
Biancaneve aprì la porta e entrò nella stanza a passi leggeri.
«Il cugino di Abigail è poco più giovane di te, Henry, si chiama Oliver. Credo che dovresti andare a presentarti e offrirgli la tua amicizia» disse la donna, indicando la porta al ragazzo.
«Ma io non-»
«Henry, quel ragazzino si è trovato tutto solo nella foresta di notte. Parlare con qualcuno della sua età gli farà bene, ne sono sicura».
«Non credo che-»
«Rimarrò io a giocare con Ethel».
«Davvero, mamma?» si intromise la bambina, sorridendo.
«Certo, tesoro» rispose Biancaneve. «Oliver occupa la stanza accanto a quella di Abigail e Frederick, Henry».
Il ragazzino alzò esasperato lo sguardo al cielo.
«D’accordo, ci vado» disse infine, dirigendosi verso la porta e trattenendosi all’ultimo momento dal chiuderla con violenza.
Henry non aveva la minima intenzione di parlare a questo Oliver. Voleva solo rimanere solo e cercare di non pensare a niente.
Quella congiura era un pessimo affare, non solo perché metteva a rischio tutti loro, ma soprattutto perché gli impediva di uscire dal castello e ora Henry si trovava intrappolato tra quelle quattro mura di pietra, con il rischio di incontrare Emma e Regina ogni volta che svoltava l’angolo.
Avrebbe voluto uscire a caccia, ma sua nonna si era quasi sentita male quando aveva chiesto di potersi recare nei boschi vicino al castello con la promessa di non allontanarsi troppo.
David gli era sembrato più comprensivo, ma gli aveva comunque vietato di uscire dal perimetro delle mura.
E Henry si sentiva sempre più soffocare ogni giorno che passava.
 
 
«Non ha alcun senso!» esclamò David, abbandonando la lettera sul tavolo.
Si erano riuniti tutti in biblioteca, dove Regina aveva formulato qualche incantesimo di protezione, non solo per garantire la loro sicurezza, ma anche la massima discrezione.
«Sembra una filastrocca» notò Biancaneve. «Possibile che sia legato a un ricordo della tua infanzia, Abigail? Non ti viene in mente nulla?»
La donna scosse la testa, affranta.
La lettera che suo padre aveva inviato non era molto lunga, ma nessuno sembrava in grado di capire il perché di quei miseri e strambi versi.
Regina sfiorò il foglio di pergamena che conteneva la filastrocca con il dorso della mano, sussurrando un paio di parole, e una voce impersonale, forse maschile o forse femminile, forse acuta o forse grave, declamò il contenuto della lettera di Mida:
 
 
Qui a sinistra cinque salti
a destra due ed ora avanti
sottosopra è meglio andare
ché alle rane piace giocare
strette rette due a due
tali alle corna del bue.
 
 
708242407523107216110715171008260204120995
 
 
Dopo aver recitato ogni singolo numero, la voce si dissolse nell’aria e il silenzio invase di nuovo la biblioteca.
Regina scosse la testa.
«Si tratta chiaramente di un codice. E questa filastrocca è la chiave» disse la donna, facendo levitare la pergamena con un movimento elegante del polso.
Mosse la mano verso destra come se volesse catturare i numeri disposti senza alcuna logica nell’ultima riga della lettera, e poi verso di sinistra. Al passaggio delle sue dita, i numeri si materializzarono nell’aria, fedelmente riprodotti secondo la calligrafia con cui erano state scritti. 
«La filastrocca dice “a sinistra cinque salti a destra due e ora avanti”» lesse Regina dalla pergamena, «e prosegue con “sottosopra è meglio andare”».
Emma, seduta a terra a gambe incrociate, con la schiena appoggiata alla parete, ripeté tra sé e sé l’intera filastrocca. Mandare le informazioni a memoria in breve tempo era essenziale per una buona cacciatrice di taglie e ancora più importante era distinguere le informazioni rilevanti da quelle che non lo era affatto.
Per questo motivo Emma aveva imparato a memoria la filastrocca e la sequenza di numeri avendoli ascoltati una manciata di volte, ma non aveva speso un solo neurone per imparare le regole basilari del galateo.
«Suppongo che sia necessario contare partendo al contrario, “sottosopra”; quindi da destra» continuò Regina, «e fare “cinque salti” a sinistra».
Sfiorando i numeri con la punta delle dita, la donna ne contò cinque, partendo da destra. Un due si illuminò.
«Due a destra» sussurrò poi Regina, controllando il testo della filastrocca. Sempre sfiorando i numeri, le dita della donna illuminarono il secondo nove della sequenza.
Regina, l’espressione concentrata, continuò a illuminare un numero dopo l’altro, fino ad ottenere una sequenza più breve:
 
91220171215427
 
«Questi numeri ti suggeriscono qualcosa Kathr-» Regina si interruppe, ricordandosi che, nella Foresta Incantata la donna che aveva considerato sua amica a Storybrooke portava un altro nome. «Abigail. Questi numeri ti sono familiari?»
La principessa scosse la testa.
«Alle rane piace giocare!» urlò Emma, facendo sobbalzare tutti quanti.
La ragazza si mise prontamente in piedi, affiancandosi a Regina e con la mano spense ogni numero della sequenza.
«Emma, come hai fatto a-» provò a chiedere Biancaneve, incuriosita dalla naturalezza con cui la figlia aveva interagito con la magia e, soprattutto, con cui aveva padroneggiato un incantesimo formulato da Regina.
La voce della ragazza sovrastò la domanda di sua madre, ma Regina si ripromise di indagare sull’accaduto. Nel loro potere c’era qualcosa che, decisamente, non andava.
«I numeri» disse Emma, «vanno considerati come coppie “strette rette due a due”».
Le dita della ragazza divisero la sequenza ogni due cifre, fino ad ottenerne una identica, ma intervallata da numerosi spazi:
 
70 82 42 40 75 23 10 72 16 11 07 15 17 10 08 26 02 04 12 09 95
 
«Perciò ora dobbiamo contare cinque coppie a sinistra e poi due a destra?» domandò Regina, dopo aver riflettuto qualche secondo sull’interpretazione della filastrocca fornita da Emma.
In effetti, aveva senso.
La ragazza scosse la testa.
«I versi parlano di salti».
«Devo mettermi a… saltare?» domandò Regina, indecisa se rivalutare la logica di Emma o se chiedere ulteriori informazione.
«Sì, devi saltare i numeri, non contarli!»
Regina alzò un sopracciglio osservando la fidanzata e piegò la testa di lato.
Se qualsiasi altra persona le avesse risposto in quel modo, Regina gli avrebbe intimato di stare zitto.
Ma si trattava di Emma.
«Che cosa intendi?» domandò quindi la donna.
Emma posò il dito sul novantacinque e tracciò un arco verso sinistra toccando la coppia zero-nove e da questa proseguì con un nuovo arco, un altro, un altro e un altro ancora, fino al ventisei.
Dal ventisei, Emma tracciò due archi verso destra, un po’ più alti per distinguerli dai precedenti:
 
-
 

«Zero-quattro è la prima coppia!» esclamò Emma trionfante, mentre le due cifre si illuminavano.
Regina nascose un sorriso orgoglioso.
Il fatto era che, per quante idiozie potesse compiere Emma, ciascuna di esse nascondeva sempre un’innata intelligenza che si mostrava in tutta la sua bellezza ogni volta in cui la ragazza ne aveva bisogno.
E Regina era sicura che se solo qualcuno l’avesse incoraggiata e le avesse dato la possibilità di esprimere il suo intelletto, se solo qualcuno avesse creduto in lei, Emma sarebbe stata in grado di realizzare grandi cose.
Ad esempio, Emma adorava gli scacchi e Regina aveva notato quanto fosse facile per la ragazza intuire e comprendere fino in fondo gli schemi del gioco senza che nessuno glieli spiegasse.
«Quarantadue!» urlò Emma, alzando le braccia al cielo in segno di vittoria. «L’ultimo numero è quarantadue!».
Regina guardò la sequenza numerica, ora con cinque coppie di numeri illuminati:
 
04 08 15 16 23 42
 
 
 
«Ciao, io sono Henry».
Oliver, il cugino di Abigail, non rispose.
Guardava fuori dalla finestra del castello, seduto compostamente, e sembrava non voler prestare attenzione a Henry.
Il ragazzo più grande afferrò una sedia e si accomodò accanto a lui.
«La nonna dice che ti sei ritrovato da solo nella foresta, di notte. Immagino che ora queste mura ti facciano sentire al sicuro» commentò Henry. «Io, invece, vorrei uscire. E cacciare».
Oliver non si mosse e l’altro ragazzo lo osservò per qualche minuto.
Era gracile e la pelle pallida sembrava indice di scarsa salute, ma i suoi lineamenti erano eleganti e delicati. A Henry piacevano.
«Io mi sento in gabbia» proseguì poi il giovane, sospirando. «Gli ultimi avvenimenti hanno… stravolto la mia vita, di nuovo. E non parlo solo della congiura. Sono ritornate delle persone, dal mio passato, che credevo morte. E non so cosa fare, sai, Oliver? Ti chiami Oliver, giusto?»
Di nuovo, il cugino di Abigail rimase in silenzio, senza distogliere gli occhi dal panorama.
«Non sei un gran chiacchierone, eh?»
Henry si guardò intorno, cercando un argomento di discussione che potesse risvegliare Oliver dal suo torpore.
Non sapeva praticamente nulla di quel biondino spaventato dal mondo, ma a Henry piaceva.
Forse, perché si sentiva un’anima persa, proprio come lui.
«Sai giocare a backgammon?» tentò il ragazzo più grande, individuando una scacchiera e delle pedine bianche e nere su un basso tavolino a pochi metri da loro.
Oliver non rispose.
Henry decise di lasciar perdere.
Lui ci aveva provato, ma certo non poteva costringere quel ragazzino a parlare.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta.
«Henry?»
La vocina infantile di Ethel giunse attutita da dietro la porta, facendo sorridere il ragazzo che si affrettò ad alzarsi per farla entrare.
Oliver non mostrò alcuna curiosità nei confronti della nuova arrivata.
«Ethel, cosa ci fai qui?» domandò Henry, prendendo la piccola per mano e accompagnandola nei pressi della finestra.
Forse, Oliver avrebbe reagito in qualche modo. 
«La mamma ha giocato poco me. C’è un… coniglio, credo. Ci sono andati tutti» rispose Ethel.
Henry la guardò confuso per qualche secondo, prima di comprendere quello che la piccola aveva cercato di dirgli.
«Un consiglio, Ethel, c’è un consiglio, non un coniglio! Hai dimenticato una lettera!» esclamò Henry, sorridendo e facendo il solletico alla bambina.
Ethel si divincolò in fretta da lui e tentò di sfuggirgli correndo, ma quando il suo sguardo incrociò casualmente quello di Oliver, il sorriso scomparve presto dalle sue piccole labbra.
«Ethel?» la chiamò Henry, confuso dal repentino cambiamento di umore della piccola.
«Lui non le ha dimenticate».
«Cosa, Ethel?»
«Le lettere. Lui se le ricorda tutte».
«Di cosa stai parlando?»
Ethel non rispose, limitandosi a fissare Oliver negli occhi. Il giovane finalmente reagì e si alzò in piedi, di scatto. Un’espressione terrorizzata in volto.
«Settanta, L. Ottantadue, R. Quarantadue, S. Quaranta, J. Settantacinque, M» iniziò a recitare la piccola, come se stesse leggendo delle coordinate.
«Come-» tentò di domandare Oliver, parlando per la prima volta.
Ethel scosse la testa, come se le fosse stato strappato il foglio su cui stava leggendo.
«Ethel, cosa stai dicendo?» le domandò Henry, inginocchiandosi di fronte a lei e appoggiando le mani sulle sue spalle, sinceramente preoccupato.
«Lui è l’altra metà del codice» rispose Ethel.
Quando Henry si voltò per chiedere spiegazioni a Oliver, il ragazzino era sparito.
 
 



NdA
Umh, ok, scusate l’attesa, davvero (anche per le recensioni della Morrilla, prometto di rispondere il prima possibile!).
Diciamo che sono stati giorni movimentati.
Ah, prima che mi dimentichi: 4, 8, 15, 16, 23, 42, è una sequenza che non mi sono inventata di sana pianta, ma ho preso da Lost. ;D (Mi mancano gli ultimi nove episodi della sesta stagione, non spoilerate <3)
Grazie mille per la pazienza e aver letto,
a presto,
Trixie
Facebook | Dopey&Tucky

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Capitolo 4
*** Per scovare un ricordo ***


Capitolo IV
Per scovare un ricordo
 
 
 
Regina fu la prima a sentirlo.
Si precipitò fuori dalla biblioteca interrompendo la frase che stava pronunciando e spalancò le porte con forza, facendole sbattere contro il muro. Emma la raggiunse immediatamente. L’aveva sentito anche lei.
«Henry!» esclamò Regina, non appena vide il figlio discutere animatamente con le guardie appostate a pochi metri da lei nel corridoio. Un’espressione di sollievo apparve sul suo volto quando si accorse che il ragazzo era illeso e che il grido che aveva sentito provenire da Henry era, con ogni probabilità, un urlo di frustrazione dettato dal fatto che le guardie non volessero lasciarlo passare.
«Mamma!» rispose immediatamente il ragazzino, guardando nella direzione delle due donne. Dietro di loro accorse anche il resto del gruppo presente in biblioteca.
Per un istante, nessuno osò parlare.
Era la prima volta che Henry si rivolgeva a Regina chiamandola di nuovo mamma da quando lei e Emma erano tornate dalla maledetta Isola di Euridice.
Doveva essere molto, molto spaventato per dimenticare tanto improvvisamente il proprio rancore.
«Lasciatelo passare, razza di imbecilli, quello è il vostro Principe!» intimò infine Regina alle guardie, che si scostarono immediatamente per lasciar passare Henry. Il ragazzo stringeva la mano di Ethel, che trotterellava dietro di lui cercando di mantenere il suo passo.
Regina e Emma mossero un paio di passi verso di loro, fino a raggiungerli.
«Henry, stai bene? Cosa è successo, tesoro?» domandò accorata Regina. Avrebbe voluto afferrargli la spalla e stringerlo a sé. Abbracciarlo e accarezzargli i capelli, come faceva nel bel mezzo della notte quando, bambino, si svegliava a causa degli incubi.
Tuttavia, Regina si rese conto di come Henry si fosse visibilmente irrigidito a causa della vicinanza delle sue madri - ed era una reazione così simile a quella che avrebbe avuto Emma che Regina ne avrebbe sorriso, se solo le circostanza fossero state diverse - e fece un passo indietro.
Ethel lasciò la mano di Henry e si aggrappò alle gambe della sorella maggiore, lasciando che questa le accarezzasse i capelli.
Biancaneve si inginocchiò immediatamente accanto alla figlia più piccola per controllare che stesse bene e si permise di respirare solo quando fu certa che Ethel non avesse riportato alcun danno.
Il respiro della donna venne tuttavia mozzato dalle parole del nipote.
«Oliver» disse il ragazzo, con gli occhi spalancati.
Abigail ora gli rivolse tutta la propria attenzione, così come Frederick.
«Oliver? Sta bene?»
«Oliver è scomparso!» esclamò Henry. «Ethel ha detto… ha detto qualcosa, ha parlato di lettere e numeri e lui… lui è scomparso. Un secondo prima se ne stava fermo e immobile senza nemmeno parlare e un secondo dopo… lui… non c’era più!»
Henry, parlando, gesticolava freneticamente e scuoteva la testa incredulo. Le sue parole erano confuse, ma tutti i presenti colsero il nocciolo della questione.
E si misero a parlare nello stesso istante, con l’eccezione di Regina e della piccola Ethel.
Oliver, un messaggero inviato appositamente da Re Mida, era scomparso poco dopo il suo arrivo e, con una congiura serpeggiante alle porte del castello, era indispensabile trovarlo immediatamente.
Emma tentava di zittire gli altri quattro, i quali rivolgevano domande concitate a Henry, pronunciate tanto velocemente da risultare per lo più incomprensibili.
Regina, invece, guardò Ethel. La bambina era divorata dalla curiosità di osservare la scena, ma ogni volta che alzava lo sguardo verso i presenti, lo abbassava repentinamente al pavimento dopo pochi istanti.
La calma tornò solo quando Emma estrasse la propria spada dal fodero che aveva in vita.
Avrebbe preferito avere una pistola per sparare in aria, ma a quanto pareva il sibilo dell’acciaio e il debole bagliore della sua lama alla luce delle torce bastarono per attirare l’attenzione degli altri.
«Grazie» esordì la ragazza con una smorfia, rinfoderando con qualche difficoltà l’arma. Su quello avrebbe dovuto lavorare ancora un po’.
«D’accordo, ragazzino» disse poi Emma rivolgendosi a Henry e cercando di controllare il tono di voce.
Dio, quanto tempo era che non lo chiamava ragazzino? Quanto tempo era che non lo chiamava affatto? Che non gli parlava?
Eppure quell’appellativo, ragazzino, era semplicemente uscito dalle sue labbra, come la cosa più naturale del mondo.
Emma prese un sospiro profondo e deglutì, prima di parlare nuovamente.
«Ho bisogno di sapere quando è successo tutto questo, ok? Quanto tempo fa? Dieci minuti, venti, un’ora fa?»
Henry scosse la testa, puntando gli occhi a terra.
«Sono corso qui trascinando Ethel con me non appena è scomparso» rispose il ragazzo, passandosi una mano nei capelli. «Poi le guardie mi hanno bloccato. Credo… cinque minuti, forse dieci».
Emma annuì.
«Hai notato qualcosa di strano? Impronte sul pavimento? La finestra era aperta?»
Henry scosse freneticamente la testa, quasi con rabbia e David  gli posò le mani sulle spalle.
Emma capì che, in quel momento, Henry non poteva essere d’ulteriore aiuto: era troppo confuso per rispondere lucidamente alle domande che gli stava rivolgendo, così si limitò ad annuire e ad abbozzare un sorriso.
«Grazie mille, ragazzino» disse solo, schiarendosi la voce.
Abigail si lasciò sfuggire un’esclamazione affranta cercando conforto tra le braccia di Frederick.
«Dobbiamo trovarlo. Subito» sbraitò David.
Sua moglie annuì.
«Henry, sei stato di grande aiuto. Ora ti faremo scortare dalle guardie nelle tue stanze, d’accordo?»
«Cosa? No! Voglio aiutare!» rispose Henry con rabbia.
Emma chinò la testa verso il basso.
Si trattava pur sempre del ragazzino che aveva preso un autobus per Boston con uno zainetto in spalla e un libro di fiabe tra le mani per cercare sua madre, la Salvatrice.
C’era da aspettarselo, dopotutto.
Regina sospirò.
«Henry, sei molto scosso dall’accaduto, non credo che-» tentò di nuovo Biancaneve.
«Non sono scosso!»
«Henry, tua nonna ha ragione. Riposati per qualche ora. Ti faremo chiamare non appena troviamo Oliver» si intromise David.
Regina e Emma si guardarono l’un l’altra.
Sarebbe dovuto toccare a loro.
Sarebbero dovuto essere loro a occuparsi del comportamento tipicamente adolescenziale di Henry, a confortarlo, a educarlo.
Si erano perse la sua prima cotta.
Biancaneve aveva raccontato loro che si era trattato di una giovane ragazza giunta a corte con la sua compagnia teatrale, di pochi anni più grande di Henry, con enormi occhi azzurri, la pelle olivastra e voluminosi ricci neri. Un tipo esotico, l’aveva definita Biancaneve, e Emma aveva sorriso orgogliosa, come se approvasse la scelta del figlio.
Regina quella sera le aveva chiesto se lei era abbastanza esotica con una punta di gelosia nella voce. Emma l’aveva presa in giro per tutta la notte e per buona parte del giorno successivo.
Si erano perse anche il suo primo accenno di barba.
David gli aveva insegnato a rasarsi. I primi giorni, aveva detto loro il Principe, Henry si era spesso ferito il viso, ma ora era decisamente migliorato e la sua rasatura era pressoché perfetta.
Regina aveva domandato arricciando il naso per quale motivo non disponessero di un barbiere di corte e David si era limitato a stringersi nelle spalle e rispondere che preferiva rasarsi da solo.
E si erano perse così tante altre cose… La sua prima caduta da cavallo, il suo primo ballo, la sua prima lezione di spada.
«Bene!» esclamò furioso Henry dopo qualche istante di silenzio, ma dal tono era chiaro come nulla andasse bene. «Me ne vado da solo, nelle mie stupide stanze!»
«Ehi» lo rimbrottò duramente David. «Non ti stiamo punendo, ti stiamo tenendo al sicuro. Nelle tue stanze ci vai scortato dalle guardie, Henry».
«Come vuoi» lo liquidò Henry, voltandosi.
Regina alzò un sopracciglio ed Emma era sicura che stesse cercando disperatamente di trattenersi dal rimprovera suo figlio per il linguaggio e David per non averlo sgridato a riguardo.
Il marito di Biancaneve indicò due guardie e fece loro cenno di seguire suo nipote.
«Controllate che dentro sia sicuro prima di farlo entrare e rimanete a guardia dell’entrata» aggiunse poi, risoluto.
«Io e Frederick parleremo con Brontolo e organizzeremo delle squadre di ricerca» continuò David. «Regina?»
La donna si voltò verso di lui come se fosse stata appena strappata ai proprio pensieri.
«La magia può aiutarci in qualche modo?»
Regina esitò a rispondere, prima di annuire.
«Suppongo di sì. Un qualche genere di incantesimo di localizzazione, forse… Dovrei consultare i miei libri di magia. Alcuni sono rimasti nella mia stanza qui al castello, anche dopo la Maledizione».
Emma piegò la testa di lato.
David annuì.
«Emma?»
«Cosa?»
«Ti unisci alle squadre di ricerca o credi che la tua magia possa essere di maggior aiuto a Regina?»
«Credo che avrò bisogno di te» rispose Regina rivolgendosi alla fidanzata prima che questa potesse aprire bocca.
Emma, confusa, annuì.
«Magia» rispose semplicemente, stringendosi nelle spalle.
«Mi unisco alle squadre di ricerca» intervenne Biancaneve.
Emma vide chiaramente nascere negli occhi di suo padre un moto di protesta, ma David si limitò a sospirare. Poteva anche averla vinta contro suo nipote, ma sua moglie era tutta un’altra storia e con lei la battaglia era persa in partenza.
«Guardia!» chiamò David, rivolgendosi all’ultimo soldato rimasto. «Accompagna la principessa Abigail e Ethel negli appartamenti di mia figlia».
«Io rimango con zia Regina» disse la bambina con voce acuta, guardando il padre con lo stesso identico sguardo di sfida di sua moglie.
«Non c’è problema, sarà al sicuro» intervenne Regina, con un sorriso. Anche Emma annuì, la mano posata sull’impugnatura della spada.
«Anche io vorrei unirmi alle squadre di ricerca, Oliver-» tentò Abigail, prima di essere interrotta da Frederick.
«Sei incinta, non pensarci nemmeno. È meglio per te che tu vada a riposare, Abigail».
«Non dirmi cosa posso pensare o fare, Frederick» rispose la donna con una punta di acidità nella voce.
Regina le si avvicinò e bisbigliò poche parole, che furono per lo più inudibili dagli altri presenti.
David alzò gli occhi al cielo. Se solo qualcuno in quello stramaledetto castello gli avesse deto retta senza discutere avrebbero risparmiato certamente minuti preziosi.
Abigail sorrise, riconoscente.
«Io rimango con Regina e Emma».
«E me!» esclamò Ethel, alzando la mano per attirare l’attenzione.
«E Ethel» aggiunse Abigail.
«Bene, d’accordo, ora possiamo darci una mossa?»
I presenti annuirono, dividendosi e scattando in due direzioni opposte.
La guardia chiamata poco prima da David rimase nel bel mezzo del corridoio, sull’attenti, indecisa sul da farsi.
Guardò a destra e a sinistra, confuso. Non aveva ricevuto alcun ordine e non aveva idea di cosa avrebbe dovuto fare.
Si strinse nelle spalle e si lasciò cadere accanto a un muro, deciso a schiacciare un pisolino.
Pensò, prima di scivolare nel sonno, che non c’era alcun dubbio sul fatto che a comandare in quel castello fossero le donne.
E già dormiva, l’ignara guardia, quando un’ombra senza forma saettò davanti a lui.
 
 
«Regina, le nostre stanze sono queste» disse Emma, ferma con la mano sulla maniglia di una porta.
La donna, con Ethel tra le braccia, l’aveva superata di qualche metro e si voltò.
«Lo so» disse, «ma abbiamo bisogno di Henry».
Abigail guardò Emma, confusa.
La ragazza scattò in direzione di Regina, che aveva già ripreso a camminare, e la fermò afferrandola per le braccia.
«Ehi, mi vuoi spiegare cosa ti frulla per la testa?» domandò Emma, guardando l’altra donna negli occhi. «Prima hai mentito spudoratamente su quei libri di magia, te l’ho letto in faccia».
Regina accennò un sorriso.
«Henry forse si ricorda il codice» rispose Ethel.
Emma guardò sua sorella come se le fosse spuntata una seconda testa.
«Lunga storia» disse Regina. «Per farla breve, Emma, Oliver è la chiave per decifrare la sequenza numerica che abbiamo trovato grazie alla lettera di Mida. Tu e Abigail dovete trovarlo e farvi dire il codice, mentre io provo a ricostruire la prima parte del codice con Henry e Ethel».
«Come maledizione è possibile che loro conoscano il codice? Come fai a sapere che-» Emma chiuse gli occhi e scosse la testa. «Sai una cosa? Non importa. Me lo spiegherai più tardi. Dimmi solo cosa fare».
«Ti fidi di me al punto da-».
«Regina. In breve. Se devo trovare quel bambino, non posso sprecare ulteriore tempo, perché più minuti passano, più difficile diventa trovarlo. Devi dirmi altro?»
Regina scosse la testa, raccogliendo e ordinando i pensieri.
«Oliver è spaventato, è terrorizzato dal mondo. Ho bisogno che siate tu e Abigail, una persona che si fida, a trovarlo, perché altrimenti non ci dirà mai cosa sa. E non vorrei che Ethel…. Comunque,  arrivate prima che i soldati lo trovino e peggiorino la situazione».
Emma annuì, posò un veloce bacio sulla guancia di Ethel e uno leggero sulle labbra di Regina, prima di raggiungere Abigail, a pochi passi da loro.
«Sembra che la signora ci abbia appena affidato una missione, te la senti?» le domandò Emma, cercando di sorridere.
Abigail annuì.
«Voglio solo trovare Oliver» disse, risoluta.
Emma non mancò di notare come Abigail tenesse la mano possessivamente appoggiata sul ventre e, invece di mettersi a correre come avrebbe voluto, cercò di mantenere un’andatura il più possibile moderata.
Regina guardò le due donne allontanarsi per una manciata di secondi, poi coprì i metri che la separavano dalla stanza di suo figlio e bussò alla sua porta, senza che le guardie appostate ai lati facessero qualcosa per fermarla.
A quanto pareva la sua fama da Regina Cattiva era ancora viva nella Foresta Incantata.
 
 
 
«Hai idea di dove possa essere andato Oliver?» domandò Emma, nel bel mezzo della stanza dove Henry e Ethel avevano visto Oliver per l’ultima volta.
Abigail scosse la testa.
«Se fossi nella sua situazione, io mi nasconderei in un posto alto, come la cima di una torre» considerò Emma.
«Non credo che troveremo Oliver lì. Non ama l’altezza» disse Abigail.
«D’accordo. Prova a pensare a quando veniva coinvolto in un litigio, al castello di tuo padre, cosa faceva Oliver?»
«Cercava il conforto di qualcuno di fidato. Il mio, quello di Frederick… » rispose Abigail, dopo aver riflettuto per qualche minuto.
«Forse ti sta cercando» tentò Emma. «Proviamo nelle tue stanze, d’accordo?»
L’altra donna annuì, abbozzando un sorriso speranzoso, prima di seguire Emma attraverso la porta e lungo il corridoi del castello.
 
 
Henry aprì la porta con un’espressione furiosa in volto.
«Henry!» urlò Ethel, lanciandosi tra le sue braccia con gran sorpresa di Regina.
La donna si sporse verso il figlio, il cuore che le batteva nel petto come se fosse impazzito, lasciando che prendesse Ethel.
«Cosa..?» chiese Henry, confuso, guardando brevemente sua madre prima di spostare lo sguardo sulla bambina tra le braccia.
«Ci serve il tuo aiuto, tesoro» disse Regina.
La sua voce tremava e i suoi occhi si erano riempiti di lacrime.
Henry le rivolse uno sguardo prima sorpreso e poi diffidente, quasi temendo che sua madre potesse ingannarlo.
Il cuore di Regina si strinse in una morsa di ghiaccio, ma lei fece di tutto per apparire serena.
«Dobbiamo decifrare il codice di Oliver» esclamò Ethel, sorridendo a Henry come se tutta quella storia non fosse altro che un gioco.
Regina e Henry continuarono a guardarsi negli occhi, come se il ragazzo stesse tentando di leggerle l’anima, come se stesse provando a individuare la menzogna nascosta dalle parole di sua madre, come se avesse paura di soffrire di nuovo.
Dopo minuti che a Regina parvero intollerabili, Henry fece un passo indietro.
«D’accordo, entra».
La donna fece un passo avanti, mettendo per la prima volta piede nella stanza di suo figlio.
 
 
 
«Oliver!» chiamò Abigail entrando nella propria stanza a passi leggeri. «Ehi, Oliver, sono io».
Nessuno rispose e la donna pensò di alzare un po’ di più la voce.
Emma era dietro di lei e si guardava attorno con aria circospetta.
«Oliver, tesoro. Sei al sicuro con noi».
Nessuno rispose.
Emma superò Abigail, tenendo gli occhi ben aperti. Sbirciò all’interno degli armadi, sotto il letto, dietro le pesanti tende delle finestre, ma di Oliver non trovò alcuna traccia.
Controllarono anche nel bagno adiacente, ma anche quello si rivelò vuoto.
«Qui non c’è» disse Emma, guardandosi attorno per l’ultima volta, come volendosi assicurare di non aver tralasciato nulla.
Abigail si lasciò cadere su una sedia, massaggiandosi le tempie tra le mani.
«E se gli fosse successo qualcosa di brutto? Quello che ha attaccato me, qualsiasi cosa fosse, potrebbe essere ritornato. Se… Non so cosa mi abbia fatto, ma se Oliver…»
«Sono sicura che sta bene» tentò di rassicurarla Emma, inginocchiandosi di fronte a lei e stringendole una mano. «Io e Regina abbiamo protetto magicamente il castello, mentre David e tuo marito si sono occupati delle guardie. Qui siamo al sicuro».
Abigail la guardò per un momento negli occhi, decisa a credere nelle parole della ragazza con tutto il suo cuore.
«La maggior parte delle volte le persone si riferiscono a te definendoti la figlia di Biancaneve, lo sai? Ma non credo che sia giusto, Emma. Tu sei molto più simile a tuo padre di quanto sembri».
Emma sorrise.
«Già, immagino che mi sentirei più a mio agio vestendo l’armatura di David che gli abiti di mia madre».
Abigail annuì brevemente, prima di alzarsi in piedi e aiutare Emma a fare altrettanto. Entrambe sospirarono.
«Altre idee su dove possa essere Oliver? C’erano posti al castello dove amava giocare? I cortili, forse. Questo castello è pieno di stramaledetti quadrati di erba» suggerì Emma.
Abigail scosse la testa.
«No, è sempre stato molto introverso e taciturno. Non ama i luoghi aperti, però ama osservare le persone e i luoghi affollati e pieni di vita. Al castello era sempre tra i piedi della servitù…»
«Le cucine? Non credi che possa essersi rifugiato nelle cucine?»
Abigail annuì, stringendosi nelle spalle.
«Non saprei dove altro cercare».
«Andiamo».
 
 
«Quindi i numeri e le lettere che Ethel ha ripetuto servono per decifrare la lettera, giusto?» domandò Henry, seduto di fronte a sua madre a un piccolo tavolo circolare di legno.
Regina annuì.
Aveva spiegato a suo figlio quello che era successo nel consiglio a grandi linee, così che potesse capire per quale motivo avesse bisogno del suo aiuto. In fondo, era stato lui a sentire l’inizio del codice.
«Ma Ethel come faceva a conoscerlo?»
«Ethel può leggere nel pensiero delle persone» spiegò Regina, senza tanti giri di parole.
Le tremavano le mani e il suo cuore stava esplodendo di gioia, ma cercava di sembrare il più posata e tranquilla possibile, per non allarmare Henry e per non illudersi troppo riguardo il miglioramento dei loro rapporto.
Stavano parlando, è vero, ma molto probabilmente Henry lo stava facendo solo per aiutare Oliver, non perché avesse perdonato Regina.
«Credevo servissero anni di pratica per poterlo fare oltre a un potere non comune e a una conoscenza approfondita della magia» disse Henry, sbalordito dalle abilità della bambina. «E come funziona? Le basta guardare qualcuno per sapere ogni cosa?»
Regina si chiese per un momento come facesse Henry a sapere tanti dettagli sulla magia, ma immaginò che dovesse aver letto molti libri a riguardo.
«Non esattamente. Ha bisogno di un legame con la persona di cui vuole leggere la mente. Questo legame può avere diversa natura: fisica, emotiva… Ad esempio, potrebbe guardarti negli occhi o stringerti la mano, oppure condividere con te dolore o gioia suscitati dal medesimo motivo. Tuttavia, credo che le cose siano molto più semplici quando si tratta delle persone della sua famiglia. Un legame di sangue, anche se non diretto, è abbastanza perché lei possa esercitare il suo potere.
Inoltre, non può sapere ogni cosa. È in grado solo di scorgere quello che tu stai pensando nel preciso istante in cui lei tenta di leggerti il pensiero. Suppongo che con un po’ di allenamento e pratica riuscirebbe ad affinare la sua abilità tanto da avere accesso alla mente degli altri con la stessa facilità con cui leggerebbe il libro, ma sarebbe pericoloso. Non solo ha un potere pari a quello di Emma, essendo sorelle ed entrambe nate dal Vero Amore, ma ha anche un talento naturale per questa pratica» concluse Regina, guardando Ethel che giocava sul letto di Henry con dei vecchi soldati di legno.
Anche il ragazzo guardò la piccola, seguendo la direzione dello sguardo di sua madre.
Sembrò sul punto di chiederle ancora qualcosa, ma poi sembrò ripensarci.
«Bene, quindi è necessario che io e Ethel proviamo a ricordare qualcosa del codice, giusto?»
«Sì» disse Regina, risoluta. «La sequenza numerica che abbiamo trovato è 04, 08, 15, 16, 23, 42. Ricordi Ethel nominare uno di questi numeri?»
Henry scosse la testa e si concentrò, chiudendo gli occhi.
Provò a visualizzare la stanza di Oliver nella sua testa, a ricordare l’espressione del ragazzo e la voce di Ethel.
Regina si morse le labbra: glielo aveva insegnato lei, quel piccolo trucchetto di isolarsi, e ricreare la situazione di cui voleva ritrovare i dettagli.
Rimase in silenzio e anche Ethel smise di far cozzare l’un l’altro i soldati di legno per osservare Henry. Scese dal letto a fatica, ingombrata dal vestitino che portava e ostacolata dalla bassa statura, per raggiungere Regina e arrampicarsi sulle sue gambe.
La donna la strinse a sé, aspettando che Henry dicesse qualcosa.
«Io…» disse dopo molti minuti il ragazzo, aprendo gli occhi e scuotendo la testa. «Non sono sicuro».
«Cosa ti ricordi, tesoro?»
«Il numero quarantadue… corrispondeva a una S, o forse a una J… io non…».
Henry emise un basso brontolio di rabbia.
«Ethel, ti ricordi qualcosa?» domandò poi il ragazzo alla bambina, che scosse la testa in segno di diniego, stringendosi nelle spalle.
«Maledizione!»
«Henry, il linguaggio».
Regina spalancò la bocca.
Non avrebbe dovuto dirlo.
Era stato più forte di lei, non era riuscita a trattenersi.
Nella stanza calò il silenzio e Henry la guardò con un’espressione indecifrabile in volto.
Era come se qualcuno gli avesse appena tirato un pugno nello stomaco.
Henry, il linguaggio.
Erano anni che non sentiva Regina rimproverarlo in quel modo e sentirlo di nuovo dopo tanto tempo gli aveva fatto nascere un nodo in gola.
Regina chiuse la bocca e si inumidì le labbra, schiarendosi la voce.
«Henry, scusa, io non-»
«Quarantadue, S» disse Henry, alzandosi in piedi e dirigendosi alla finestra. Diede le spalle a Regina e incrociò le braccia. «Sono sicuro. Quarantadue, S».
Ethel scese dalle gambe di Regina e si arrampicò di nuovo sul letto di Henry, riprendendo a giocare con i soldatini di legno. La donna la guardò a lungo, prima di rispondere a Henry.
«Mi dispiace».
Henry si voltò di scatto.
«Per cosa? Per avermi rimproverato? Per avermi abbandonato? Per aver preferito Emma a me? Per esserti uccisa? Per cosa ti dispiace, esattamente, mamma
Regina strinse le mani a pugno e guardò verso l’alto, sbattendo più volte le palpebre per ricacciare indietro le lacrime.
«Per tutto» disse solo, con la voce spezzata. «Mi dispiace per tutto quanto».
 
 
 
«Avete visto un ragazzino biondo, magro, probabilmente sconvolto, alto circa così?» domandò Emma, indicando l’altezza approssimativa di Oliver con la mano.
Le cameriere che aveva fermato mentre uscivano dalla cucina scossero la testa.
«Ci dispiace non poterle essere d’aiuto, principessa» disse la più anziana delle tue, abbassando il capo in segno di rispetto.
Emma guardò Abigail, che le lanciò uno sguardo eloquente.
Ah, giusto, la principessa sono io.
«Potete chiamarmi-»
«Se vedete quel ragazzino?» intervenne Abigail.
Emma assunse un’espressione confusa, ma le due cameriere annuirono, sempre a testa bassa.
«Potete andare, ora» disse gentilmente Abigail. «Grazie».
Entrambe di inchinarono e si allontanarono velocemente.
«Cosa è appena successo?» domandò Emma, aprendo le braccia con un’espressione interrogativa in volto.
«Non puoi dire alle cameriere di rivolgerti a te chiamandoti solo Emma, Emma!»
«È il mio nome!»
Abigail si portò una mano alla fronte, massaggiandola.
«Credevo che Regina ti avesse insegnato qualcosa».
Emma si strinse nelle spalle.
«Ci ha provato» rispose la giovane, guardandosi gli stivali di pelle come per capire se in loro ci fosse qualcosa che non andava.
Abigail scosse la testa e la guardò incuriosita per qualche secondo.
«Perché ti guardi gli stivali con tanto interesse?» domandò poi.
«Le cameriere continuavano a guardare a terra, c’è qualcosa che non va nei miei piedi? Ho messo gli stivali al contrario o li ho allacciati male?»
Abigail rise appena e scosse la testa.
«Tenevano lo sguardo basso in segno di rispetto nei confronti della loro principessa, Emma. Credevo avessi trovato qualche indizio che potesse aiutarci con Oliver» sospirò poi, tornando seria.
Emma scosse la testa.
«No, proviamo a cercare nelle cucine» disse Emma, aprendo la porta per far passare Abigail.
La donna le sorrise e la ringraziò prima di entrare nelle cucine, dove ogni cameriere o cuoco presente smise di fare il proprio lavoro per inchinarsi di fronte alle due nuove arrivate.
«Merda, non volevo attirare l’attenzione» sibilò Emma, sorridendo imbarazzata e alzando una mano in segno di saluto.
«Stiamo cercando un bambino di nome Oliver» disse Abigail con voce chiara, senza scomporsi minimamente. «Biondo, magro, dagli occhi chiari, qualcuno l’ha visto?»
Nella stanza, nessuno si mosse.
Emma si guardò intorno con occhio attento, cercando di capire se qualcosa, qualsiasi cosa, fosse fuori posto. Ma il guaio era che non si era mai trovata nelle cucine di un castello, oltre al fatto che, tali cucine, erano enormi.
Nel silenzio, si udì il rumore di cardini arrugginiti che si aprivano lentamente e Emma guardò immediatamente nella direzione da cui proveniva li suo.
«Abigail?» chiese una voce acuta e spaventata.
«Oliver!» 
La donna accanto a Emma si lanciò in avanti, sollevando appena le gonne per poter correre più velocemente. 
Oliver sbucò da dentro un armadio vuoto poco distante e Abigail lo raggiunse, abbracciandolo e stringendolo a sé.
«Oliver! Cosa ti è saltato in mente?! Per fortuna stai bene, mi sono spaventata così tanto».
Emma sorrise guardando la scena e la sua mente dipinse i contorni sfumati di un’altra donna che abbracciava un altro ragazzino dopo averlo perso.
Il suo sorrise si spense appena.
Quella notte di molti anni prima - forse tre, forse sette, Emma non ne aveva idea perché il tempo, aveva imparato, era un concetto relativo -in cui aveva riportato Henry da Regina.
Allora non avrebbe mai immaginato che le cose non erano esattamente come apparivano.
In realtà quella notte Henry l’aveva solo riportata a casa ed era lei a dover la propria vita a suo figlio, non viceversa.
Emma scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli.
Con noncuranza, afferrò una pallina marrone e rinsecchita, vagamente simile a una prugna, da una cesta lì accanto.
La lanciò in aria e la riafferrò al volo, aspettando che Abigail si affrettasse nella sua direzione, con Oliver sottobraccio.
«Beh, grazie a tutti, signori, ora potete tornare a…» Emma si schiarì la gola e si pizzicò la punta del naso con le dita. «A fare qualsiasi cosa stavate facendo».
L’intera cucina si inchinò di fronte a lei e Emma batté un paio di volte le palpebre, prima di addentare con energia la pallina simile a una prugna che aveva tra le mani.
«Torniamo da Regina» tagliò corto la ragazza, aprendo la porta e facendosi da parte per lasciar passare Abigail e Oliver.
Diede un nuovo morso a quella specie di prugna e li seguì all’esterno.
Il gusto non era affatto male, anche se non assomigliava a nulla che avesse mai mangiato prima.
«Emma» la chiamò Abigail, adocchiando la pallina che Emma aveva tra le mani. «Sai cosa stai mangiando?»
«Un frutto?» tentò la ragazza, stringendosi nelle spalle.
Abigail aprì la bocca, poi la richiuse.
Tappò le orecchie ad Oliver con le proprie mani e questa volta disse a Emma cosa stava mangiando, prima di restituire al ragazzo, scosso e confuso, il suo udito.
Emma impallidì.
«Stai scherzando?!» esclamò allarmata. «Quelle che i tori hanno in mezzo alle zampe?! Le loro-»
Abigail chiuse di nuovo e prontamente le orecchie di Oliver con le mani, poi annuì.
Emma lanciò lontano da sé quello che stava mangiando, poi sputò a terra, pulendosi la lingua con le mani.
Abigail attese che la ragazza finisse di imprecare e maledire quella dannatissima foresta, prima di togliere le mani dalle orecchie di Oliver e lanciargli uno sguardo rassicurante.
«Regina non dovrà mai saperlo» sentenziò infine Emma, prima di incamminarsi lungo il corridoio.
 




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Capitolo 5
*** Per decifrare un codice ***


Capitolo V
Per decifrare un codice
 
 
 
«Oh, Regina. Cosa ci fai qui?» domandò Biancaneve, facendo saettare lo sguardo dalla donna al nipote Henry, ritto di fronte alla finestra. Era passata a controllare che il ragazzo stesse bene e non avrebbe mai immaginato di trovare la donna nelle sue stanze.
Regina lanciò uno sguardo a Ethel.
«Mamma!» esclamò subito la bambina, attirando l’attenzione di tutti i presenti su di sé.
«Ehi, piccolina!» le rispose Bincaneve con un sorriso luminoso, avvicinandosi al letto e prendendo tra le braccia la figlia. Le diede un bacio, poi tornò a guardare Regina con sguardo serio.
«Non cercare di salvare zia Regina, Ethel, sono sicura che adesso ci dirà per quale motivo è nella stanza di Henry invece che alla ricerca di un incantesimo per trovare Oliver».
«Oh, andiamo, quella era chiaramente una scusa» disse Regina, scuotendo la testa.
«Regina!» esclamò Biancaneve indignata, con voce acuta.
«Ho solo pensato che Henry avrebbe potuto aiutarci a decifrare il codice, tutto qui».
«Non avresti dovuto coinvolgere Henry! O mia figlia!»
«Quale figlia?» domandò Regina, come se stesse chiedendo un semplice chiarimento riguardo una pratica amministrativa.
In quel momento, Emma spalancò la stanza con un enorme sorriso stampato in faccia.
«Abbiamo trovato-» iniziò, quasi urlando le prime parole, prima di riconoscere sua madre. La voce le morì in gola. «Oliver» concluse, facendo un passo a destra per mostrare Abigail e il ragazzo.
Biancaneve, il cui sguardo si era spostato su Emma durante la sua quasi trionfale entrata, tornò a guardare Regina.
«Entrambe le mie figlie, a quanto pare».
Regina si strinse nelle spalle.
«Ora la cosa più importante è pensare a Oliver» disse, alzandosi in piedi e avvicinandosi al giovane.
Henry fu subito al suo fianco.
«Sta bene?» domandò Regina ad Abigail, che annuì.
Henry diede una leggera pacca di conforto sulle spalle di Oliver e lo guardò rassicurante.
Il ragazzo biondo lo osservò per pochi istanti senza mutare d’espressione, prima di accennare un timido sorriso.
Biancaneve sospirò di sollievo, ma il suo sguardo era ancora furioso.
«Io non ho idea di cosa abbiate in mente» iniziò a dire, scandendo ogni parola.
«Prova a chiedere aiuto a Ethel» suggerì Regina a mezza voce.
Henry trattenne un sorriso e Biancaneve decise di ignorare l’interruzione, che comunque le era giunta solo come un debole borbottio.
«Ma ora che abbiamo ritrovato Oliver, faremo una nuova seduta del Consiglio e voi ci direte tutto quello che sapete e che avete fatto a nostra insaputa, sono stata chiara?» concluse Biancaneve.
Emma alzò le mani in segno di resa.
«Io non ne so nulla, chiedi a Regina».
«Molto maturo!»
«Zitte. Entrambe» si intromise subito Biancaneve. «Andiamo di nuovo in biblioteca e non voglio sentire una sola parola provenire da voi due».
Emma e Regina si scambiarono uno sguardo, ma nessuna delle due parlò.
Biancaneve fece loro cenno di uscire dalla stanza e mise a terra la piccola Ethel.
Dando la mano a sua figlia, la donna seguì il piccolo corteo con Oliver in testa, affiancato da Henry e Abigail, subito seguiti da Emma e Regina che, a parere di Biancaneve, erano troppo tranquille per non destare sospetti.    
 
 
Regina mise una mano attorno ai fianchi di Emma, attirandola a sé.
«Sapevo che lo avresti trovato prima di loro».
Emma rise sommessamente, solleticata dal respiro di Regina così vicino alla sua pelle, prima di rispondere.
«Credo che mia madre non apprezzi molto questa vicinanza, Regina. Ci ha detto di non parlare» disse la ragazza, alzando lo sguardo al cielo.
 «Non preoccuparti, non ci vede e non ci sente».
«Cosa? Siamo invisibili?!» domandò Emma, spalancando gli occhi.
Regina sorrise.
«Sì, tutto quello che vede sono le nostre sagome che camminano una accanto all’altra senza nemmeno sfiorarsi» spiegò la donna e Emma fece una smorfia.
«È poco realistico, lo sai?»
«Dobbiamo parlare» disse Regina, ignorando il commento di Emma.
La ragazza la guardò con espressione attenta e le fece cenno di continuare.
«Ethel è una bambina straordinaria» iniziò Regina, con una scintilla di orgoglio negli occhi.
Si era davvero affezionata a quella bambina, a sua… cognata.
«Emma, tua sorella può leggere il pensiero delle persone».
«Oh» disse la ragazza, dopo un momento di silenzio. «Fantastico!»
Regina fissò per qualche secondo la ragazza che sorrideva fiduciosa di fronte a lei.
«Emma, non è normale nemmeno nella Foresta Incantata».
«Oh. E come funziona? È come in Harry Potter?»
«Come in cosa?»
«Regina, hai passato ventotto anni nel nost-, nell’altro mondo e non hai mai sentito parlare di Harry Potter? Hai cresciuto Henry senza parlargli di Harry Potter? Il Ragazzo Che È Sopravvissuto?»
«Emma, concentrati su tua sorella, per favore» la rimproverò Regina.
La ragazza sospirò, decidendo di rimandare la discussione a un altro momento. Mancava poco alla biblioteca e voleva saperne di più su Ethel.
«D’accordo, spiegami come funziona».
Regina ripeté velocemente quello che aveva rivelato poco prima a Henry. 
Emma annuì.
«L’hai detto a Mary Marg-, a Bianc-, a mia madre?»
Regina scosse la testa.
«Non ne ho avuto l’occasione. Nemmeno David lo sa. E dovrà rimanere in famiglia, Emma. Nessuno al di fuori di noi dovrà mai sapere quello che Ethel è in grado di fare, almeno non fino a quando non avremo parlato meglio della questione».
«Credi che qualche malintenzionato potrebbe servirsi delle abilità di Ethel?»
«Già, e non vorrei mai che le capitasse qualcosa di brutto, Emma. Quel potere ha un valore inestimabile, ma per lei è pericoloso».
Emma annuì e continuò a camminare, rimuginando su quello che aveva appena appreso.
A pochi passi dalla biblioteca, Emma si sciolse dalla stratta di Regina e intrecciò una delle sue mani con quella della donna accanto, prima di sporgersi e posarle un bacio sulla guancia.
«Allora ti consideri di famiglia» le sussurrò, con un sorriso.
Regina dissolse l’incantesimo che le mascherava al mondo sperando che Emma non notasse il lieve rossore delle sue guance.
 
 
«Avete agito alle nostre spalle?!» sbraitò David in direzione di Emma e Regina. «Cosa diavolo vi è venuto in mente? Cosa volevate tenere nascosto?»
L’uomo era in piedi di fronte al camino della biblioteca e osservava con sguardo accusatorio Emma e Regina, sedute dietro un tavolo di legno che le separava da David.
«Nulla» rispose Emma, stringendosi nelle spalle.
Regina sospirò spazientita.
«Senti, Principe, io e Emma siamo un’ottima squadra e lavoriamo davvero bene, insieme. Ma non siamo abituate a fare affidamento su nessun altro e i vostri metodi di ricerca ci erano solo di intralcio. Tutto ciò che conta, ora, è aver ritrovato Oliver».
Il ragazzo, stretto tra Abigail e Henry non si mosse nemmeno nel sentir pronunciare il proprio nome. Frederick, in piedi dietro a lui, gli strinse una mano sulla spalla.
«E perché siete corse da Henry?» domandò David, esasperato.
«Perché avete messo in pericolo mia moglie?» domandò Frederick. Nella sua voce fu facile distinguere una bassa nota d’ira.
«Non sono mai stata in pericolo, Frederick. Volevo che a trovare Oliver fosse una persona di cui lui si fidava» gli rispose la moglie, alzando appena la voce.
«E io potevo aiutarle!» esclamò Henry, strappando sia un sorriso a Emma che a Regina. Entrambe sentirono un’ondata di calore nel loro cuore e guardarono il ragazzino speranzose che ricambiasse lo sguardo, ma lui tenne gli occhi fermamente puntati su suo nonno.
Beh, aveva ancora bisogno di tempo.
«Per cosa? Ci avevi già detto tutto quello che sapevi» gli rispose David, addolcendo la voce.
«Non tutto».
Gli sguardi di tutti i presenti vennero calamitati dalla persona che aveva parlato e il silenzio scese sulla stanza. Per lunghi istanti, tutto ciò che si udì nella fu lo scoppiettio del fuoco nel camino.
Nessuno osava muoversi o dire qualcosa.
Era la prima volta che Oliver parlava davanti a tutti.
Henry gli strinse il braccio in segno di incoraggiamento e Oliver si morse il labbro.
«Al castello, ho imparato a memoria una sequenza alfanumerica prima di partire. Ho giurato di rivelarla solo ad Abigail o alle persone di sui lei si fida».
Il ragazzino biondo alzò gli occhi sulla donna accanto a lei.
Abigail fece vagare lo sguardo sui presenti.
David sembrava aver messo da parte la rabbia e ascoltava pazientemente accanto al camino. Biancaneve, con Ethel tra le braccia che giocava con i suoi capelli, era seduta su una poltrona dietro di lui mentre Emma e Regina, stringendosi una mano, sembravano attendere che Oliver continuasse a parlare.
Henry stringeva gentilmente il braccio di Oliver, che non sembrava affatto infastidito dal gesto nonostante fosse compiuto da uno sconosciuto.
Alzando lo sguardo, incontrò il volto preoccupato, ma fiducioso, di Frederick.
Tutto quello che Abigail vedeva in quella stanza era una famiglia. Forse un po’ disastrata, con qualche problema da sistemare e un paio di cose da chiarire, ma certamente una famiglia che meritava la sua fiducia.
Abigail guardò di nuovo Oliver e annuì.
«Mi fido di tutti loro, tesoro».
Oliver annuì.
«Settanta, L. Ottantadue, R. Quarantadue, S. Quaranta, J. Settantacinque, M. Ventitre, O. Dieci, Z. Settantadue, Y. Sedici, V. Undici, C. Zero-sette, M. Quindici, R. Diciassette, C. Dieci, R. Zero-otto, A. Ventisei, M. Zero-due, C. Zero-quattro, M. Dodici, B. Zero-nove, Q. Novantacinque, A».
Oliver recitò la sequenza lentamente, scandendo ogni numero e ogni lettera.
Regina, con un incantesimo, fece in modo che gli abbinamenti comparissero nell’aria di fronte a tutti i presenti, come già aveva fatto con la lettera di Mida.
Emma si alzò in piedi e, con sguardo attento, iniziò a sfiorare le lettere che corrispondevano ai numeri che avevano individuato in precedenza, recitandoli ad alta voce.
«Zero-quattro» disse, sfiorando la lettera M, che subito brillò più intensamente. «Zero-otto. Quindici».
Anche la A e la R si illuminarono.
«Sedici».
La lettera V si aggiunse alle altre.
«No…» disse Frederick, a bassa voce e incredulo.
«Ventitre. Quarantadue».
Infine, si illuminarono una O e una S.
«No» ripeté Frederick, passandosi nervosamente una mano sul collo.
Abigail aveva chiuso gli occhi e aveva chinato il capo verso il basso.
«Marvos» disse Regina, mettendo insieme le lettere che Emma aveva toccato. «Lo conoscete, vero?»
Abigail annuì.
«Il conte Marvos. Il più fidato consigliere e amico di mio padre».
«Devo tornare a casa» disse immediatamente Frederick. «Devo tornare nel nostro regno e scovare quel verme».
«No!» urlò Abigail. «Non abbiamo idea di quanto sia effettivamente potente quell’uomo».
«Scusate, ma» iniziò Biancaneve, mentre accarezzava pazientemente la schiena di Ethel, che si era profondamente addormenta. «Perché date per scontato che questo Marvos abbia cattive intenzione. Non è possibile che Mida abbia indicato il nome di una persona di cui fidarsi?»
Regina scosse la testa.
«Mida ha dovuto nascondere li nome di quell’uomo dietro un codice e ha affidato la chiave ad Oliver, in modo che la sua vita non fosse in pericolo. Nessuno lo avrebbe ucciso sapendolo in possesso di informazioni tanto importanti. Credo che Marvos sia a capo della congiura».
«Devo tornare da tuo padre, Abigail» disse di nuovo Frederick.
«No, non puoi andartene! Non puoi andartene e lasciarmi qui! Se tu torni a casa… Se tu torni a casa, Frederick, ci torno anche io».
«Porti nostro figlio in grembo, tesoro, non-»
«E tu sei suo padre! Dannazione, nostro figlio ha bisogno di entrambi! Non credere di potermi fregare con questa scusa, Frederick. Non andrai da nessuna parte».
Frederick alzò la voce e ripeté la sua volontà di partire, perché era il suo dovere e perché a Mida doveva questo e molto altro.
Abigail si alzò in piedi, furiosa.
Continuarono ad urlarsi l’un l’altra le proprie ragioni, fino a quando Regina non minacciò di incenerirli entrambi se non avessero dato un taglio a quella lite, che non stava aiutando nessuno.
Ovviamente, quella calma durò ben poco e fu spezzata dalla proposta di David di intervenire con un manipolo di soldati scelti, sfruttando l’elemento sorpresa.
La discussione ricominciò in fretta e questa volta si unirono anche Regina, Biancaneve e David.
Gli unici che si erano astenuti dal dire la loro opinione erano stati Ethel, ancora profondamente addormentata nonostante la voce di Frederick rimbombasse in tutta la biblioteca, Oliver e Henry, seduti l’uno accanto all’altro sul divano, e Emma.
La ragazza si trovava completamente d’accordo con Regina. Era necessario considerare con attenzione ogni elemento e ogni possibilità prima di agire e, soprattutto, riposare qualche ora prima di prendere una decisione che avrebbe potuto mettere in pericolo la vita di molte persone; ma Emma aveva deciso di starsene zitta, dal momento che la sua fidanzata sembrava cavarsela egregiamente nel tener testa agli altri quattro.
La ragazza sospirò e si alzò dalla sedia, dirigendosi stancamente sul divano occupato dai due ragazzi e lasciandosi cadere accanto a Oliver con un sospiro.
«Se la mamma ti avesse vista sederti così, Emma, ti avrebbe uccisa».
Emma deglutì, cercando di sciogliere il groppo che le si era formato in gola, ma nulla sembrava aiutarla.
Ricacciò indietro lo lacrime e si sporse oltre Oliver, appoggiando i gomiti sulle gambe appena divaricate.
«Hai ragione, ragazzino» disse solo, cercando di convincere i suoi polmoni a espandersi di nuovo.
Henry annuì con un mezzo sorriso, distogliendo lo sguardo da Emma.
La ragazza tornò a guardare gli altri discutere e litigare tra loro.
In realtà, ormai non le importava più nulla di quella situazione, non in quel momento. Suo figlio le aveva parlato, le aveva rivolto per primo la parola.
E nello sguardo di Henry non aveva visto odio, né disprezzo nei suoi confronti.
Emma sentiva il suo cuore appena più leggero, perché si era appena resa conto che per lei, Henry e Regina c’era ancora la speranza di ricostruire un rapporto.
E non riusciva a smettere di sorridere, nonostante la situazione non fosse per nulla adatta.
«Qualcuno li faccia smettere, per favore» disse dopo qualche minuto Henry, a mezza voce e senza riferirsi a nessuno in particolare.
Quella, a quanto pareva, doveva essere la serata fortunata del ragazzo perché in quel momento qualcuno entrò in biblioteca e attirò l’attenzione di tutti i presenti sbattendo la propria lancia sullo scudo fissato al  braccio.
Quando ebbe attirato l’attenzione di tutti i presenti nella stanza, Brontolo si schiarì la voce e si rivolse a Biancaneve.
«Ci sono delle novità» disse, cercando di nascondere il sorriso che spuntava dalla sua barba ispida.
«Novità?» ripeté la donna. «Che genere di novità?»
«Sono appena giunti al castello dei visitatori» spiegò Brontolo, tirando su con il naso.
«Visitatori?» disse Biancaneve.
Regina fece schioccare la lingua spazientita.
«Non credevo che in questa stanza ci fosse l’eco».
Biancaneve le guardò in tralice, risentita.  
«Non stiamo aspettando nessuno, chi-»
«Spero di essere comunque la benvenuta» disse una voce squillante, che Emma non tardò a riconoscere.
Ruby entrò in biblioteca con un gran sorriso in volto e le braccia aperte in direzione di Biancaneve.
Dietro di lei fecero il loro ingresso Belle e Tremotino, con il figlio Aiden tra le braccia.
Emma, allibita, guardò Regina, ma l’attenzione della donna sembrava essersi concentrata completamente su Tremotino, che fece un cenno affermativo con la testa.
Gli abbracci frenetici tra i nuovi arrivati e gli abitanti del castello impedirono a Emma di studiare meglio lo scambio di cenni tra i due e quando la ragazza decise di alzarsi in piedi, venne subito soffocata dalle braccia di Ruby.
«Emma! Ragazza, quanto sei dimagrita. Scommetto che i miei hamburger ti mancano da impazzire, non è vero?!»
«Non hai idea di quanto mi manchino, Ruby, non ne hai idea» rispose Emma, ripensando alla sua piccola disavventura in cucina.
Ruby rise, scoprendo i denti appena più affilati del normale e Emma la strinse ancora brevemente, prima di divincolarsi per raggiungere Regina, che ora confabulava con Tremotino.
Sorpassò Belle che stava accarezzando il viso di Ethel, ancora addormentata, e affiancò la fidanzata con un sorriso.
«Signor Gold!» esclamò, circondando Regina con un braccio.
«Oh, ecco la tua metà, cara» esclamò l’uomo. «Letteralmente».
«Tremotino» lo ammonì Regina.
«Ancora non le hai detto nulla?»
«Non ne ero sicura».
«Dirmi cosa?» volle sapere Emma.
«Che un cuore manca» disse una voce infantile, dietro le gambe di Tremotino.
L’uomo si inginocchiò e prese in braccio suo figlio.
«Ehi, ometto, lo sai che non dovresti origliare le conversazioni altrui?» gli disse, solleticandogli la pancia. Aiden rise, cercando di difendersi e Gold sorrise dei suoi maldestri tentativi di allontanare le mani del padre.
«Di cosa sta parlando?» domandò Emma, guardando Regina e appoggiandole una mano sul braccio.
«Buona fortuna, cara» sorrise il signor Gold, allontanandosi con il bambino in braccio.
«Appena saremo sole saprai tutto, Emma» tagliò corto Regina, con sguardo grave.
La ragazza incrociò le braccia davanti al petto e si morse il labbro.
«D’accordo» disse infine, con la fastidiosa sensazione che, qualsiasi cosa avesse da dirle Regina, non le sarebbe affatto piaciuta.
 
 
 
 

 

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Capitolo 6
*** Per consultare un libro, parte I ***


Capitolo VI
Per consultare un libro, parte I

- Qualche mese prima -
 
 
Ruby stava ormai girovagando nel castello da qualche ora, sorridendo alle cameriere di passaggio e paggi che se ne stavano ritti con la loro aria di importanza.
Di tanto in tanto, si fermava ad osservare questo o quell’arazzo, incuriosita dalle storie che raccontavano. Uno, in particolare, aveva attirato la sua attenzione; raffigurava una donna coperta da uno svolazzante lenzuolo, accovacciata sul davanzale di una finestra e affiancata da un gatto nero che si leccava indifferente una zampa. Le scena seguente raffigurava la medesima ragazza immersa in una vasca colma di liquido rosso e che Ruby sperò fosse vino e non sangue.
Di nuovo, la ragazza seduta su uno scranno in una posa regale, affiancata da curiosi consiglierei, e un’interminabile fila di volti arcigni, uomini e donne dall’aria mefistofelica, si snodava ai suoi piedi, perdendosi nei ricami dell’arazzo.
Sulla scena tornava poi il gatto nero, appollaiato sul davanzale quasi fosse un corvo e apparentemente impegnato in una complicata partita di scacchi con un uomo vestito con un gran pastrano nero. Un’aurea di potenza, ingiustificata dal suo aspetto, ne ammantava tuttavia il volto.
Ricompariva infine la donna, vestita di scuro, la mano intrecciata a quella di un uomo dall’aria stanca, ma tranquillo e pacificato.
Tra queste, c’erano altre, numerose scene che si intervallavano e si confondevano l’una nelle altre - donne che danzavano, un uomo dai tratti simili a un maiale, una vecchia china a raccogliere un prezioso gioiello. L’intero arazzo era poi ricamato con piccole margherite gialle che circondavano i contorni di ogni scena in modo indefinito, insinuandosi tra i vari personaggi.
Da quando Belle aveva riaperto regolarmente la biblioteca, Ruby aveva iniziato a frequentarla sempre più spesso, scoprendo con piacere che i libri scritti in quel mondo senza magia - seppur spesso incredibilmente inverosimili - erano molto interessanti.
E avrebbe potuto giurare che quell’arazzo illustrasse proprio una di quelle storie che aveva scovato tra gli scaffali polverosi della biblioteca, se solo non avesse saputo che era impossibile.
Appuntandosi mentalmente di chiedere a Biancaneve qualche informazione sull’origine di quell’arazzo alla prima occasione utile, Ruby proseguì nella sua passeggiate attraverso i corridoi del castello, intrecciando le dita dietro la testa e chiedendosi cosa avrebbe potuto fare.
Aveva bisogno che Biancaneve o David le dessero un fagiolo per aprire il portale e tornare a Storybrooke, oltre a un terzo fagiolo da conservare per i casi di emergenza. Ma entrambi erano impegnati a tenere sotto controllo l’emergenza famigliare che l’arrivo di Emma e Regina aveva scatenato.
Una brutta storia, a parere di Ruby.
A quanto si diceva nel castello, e già si diceva molto, dal momento che i pettegolezzi viaggiavano assai velocemente da quelle parti, come in ogni altra parte di questo e altri mondi, Henry non l’avesse presa affatto bene. Tutt’altro.
Ripensandoci, Ruby non poteva certo dargli tutti i torti. Durante la sua breve vita Henry si era sempre sentito solo e abbandonato, fuori posto e diverso da tutte le persone che lo circondavano.
E quando finalmente le cose erano sembrate volgere per il verso giusto, a Regina era venuta la fantastica idea di fare un gran casino con il suo cuore, di cui ancora Ruby non aveva capito niente, e Emma, ovviamente, si era gettata nel baratro dell’Inferno per lei.
Henry aveva accarezzato per settimane l’idea di poter rivedere le sue mamme, entrambe le sue mamme, di nuovo a casa, ma quando era poi diventato chiaro che non sarebbe successo, aveva iniziato a diventare sempre più triste e cupo.
Ed era successa quella cosa con Neal.
Suo padre aveva provato a stargli accanto, aveva provato a distrarlo, a portarlo al cinema, a cena, al parco… ovunque ci fosse per Henry una possibilità di divertirsi.
All’inizio, sembrava che Henry non avesse problemi con queste nuove attenzioni, sembrava accarezzare l’idea di un padre nella sua vita.
Ma poi Neal aveva suggerito che Henry venisse a vivere con lui, aveva discusso con Mary Margaret  e David e le cose non erano andate nel migliore dei modi.
Ovviamente, Henry non ne aveva voluto sapere di abbandonare la casa di Regina. Di Emma e Regina, a dire il vero.
E Neal era andato su tutte le furie quando Mary Margaret e David gli avevano comunicato la decisione di Henry di rimanere a vivere con loro nella grande casa al numero 108.
Ruby non conosceva con esattezza i dettagli, ma sapeva che Neal aveva detto delle cose su Regina - e anche su Emma, da quello che aveva intuito - che non avrebbe mai dovuto dire.
Henry lo aveva sentito.
E, nonostante Neal si fosse scusato più e più volte, Henry lo aveva tagliato fuori dalla sua vita e il ragazzo si era fatto da parte, così come si era fatto da parte per Emma, molti anni prima.
Ruby lo aveva trovato patetico.
Ruby trovava ancora Neal patetico, a dire il vero, ma Belle non aveva che belle parole per lui e, così, involontariamente, la ragazza aveva iniziato a vedere anche qualcosa di positivo in Neal.
Non al punto da poterlo sopportare per più di cinque minuti, ma almeno riusciva a non guardarlo con evidente disprezzo.
In ogni caso, anche Neal era partito, dopo la breve visita di Henry con i nonni e la piccola Ethel, ritornati a Storybrooke con tutta la loro regalità.
Belle aveva detto che si era trasferito a Tallahassee e che aveva trovato una bella villetta in periferia.
Ruby svoltò un angolo, ancora immersa nei suoi pensieri, e andò a sbattere contro qualcosa, finendo a terra.
«Ma che-» iniziò Ruby, prima di riconoscere la persona contro cui era andata a sbattere e rivolgendole un sorriso timido.
«Ehi!» esclamò, tentando di sorridere mentre si rimetteva in piedi.
«Ehi» rispose con la voce spezzata Henry, guardandola imbarazzato. Era riuscito a non perdere l’equilibrio e a rimanere in piedi, anche se il punto del petto dove Ruby lo aveva colpito con maggior forza faceva abbastanza male.
«Credevo stessi…» iniziò Ruby, non sapendo cosa dire. Il voltò del ragazzo non sembrava brillare dalla  gioia di aver ritrovato Emma e Regina, perciò quei pettegolezzi che aveva sentito dovevano essere veri.
«Non dire a nessuno che mi hai incontrato» disse immediatamente Henry, senza guardarla negli occhi. Ruby storse il naso. «Sono il tuo Principe, è un ordine».
Ruby alzò gli occhi al cielo.
«Dove stai andando?» indagò la ragazza.
Henry la guardò torvo e non rispose.
«Allora?»
Il ragazzo fece un veloce scarto a destra, come se volesse sorpassare Ruby , ma la giovane fu più veloce di lui e gli bloccò la strada.
Sospirando, Ruby incrociò poi le braccia davanti al petto.
«Senti, non mi importa nemmeno dove stai andando, ma non voglio che corri pericoli, sono stata chiara? Non stai bene e le cameriere amano spettegolare, perciò immagino che l’incontro con Emma e Regina non sia andato bene. Sei chiaramente sconvolto. Non posso lasciarti andare così, Henry. E non provare a sfuggirmi di nuovo».
Ruby scoprì brevemente i denti sollevando il labbro come se volesse ringhiare.
«Ricordi? Licantropo. Posso acciuffarti in un attimo» disse, indicandosi i canini, prima di aggiungere un ironico «principe».
Henry fece una smorfia.
«Sto andando alle stalle».
«Perché?»
Henry non rispose.
Ruby pensò che se Henry aveva ereditato qualcosa da suo padre, quel qualcosa era la faccia da sberle che aveva in quel momento.
La ragazza emise un suono scocciato, poi gli fece cenno con la mano di andarsene.
Da lui non avrebbe ottenuto nulla e l’unica alternativa che aveva era trovare al più presto Biancaneve e il Principe per avvisarli dello stato del loro unico nipote.
Henry corse via all’istante.
A quanto pareva, le cose si erano messe peggio di quanto Ruby aveva immaginato.
 
Non appena il portale si richiuse dietro di lei, Ruby si lasciò cadere su uno sgabello del bancone del Granny’s.
Sua nonna accorse immediatamente dal retro, con la fidata balestra tra le mani.
«Voglio dormire» si lamentò Ruby all’istante, accasciandosi sul bancone e allungando verso sua nonna un sacchettino di pelle scura, con dentro il fagiolo per i casi di emergenza. «Ti dispiace pensarci tu?»
L’anziana donna pensò che i giovani d’oggi mancavano della tempra che aveva lei, ai suoi tempi, ma prese il sacchettino dalle dita della nipote e si affrettò a metterlo al sicuro, uscendo dalla stanza.
Vi ritornò dopo pochi minuti, trovandovi Ruby in precario equilibrio su quello stesso sgabello su cui si era seduta non appena era tornata dalla Foresta Incantata, la testa appoggiata alle braccia e l’inconfondibile suono del suo russare - vagamente animalesco - che riverberava nella aria del locale vuoto.
Granny sospirò e si mise la balestra a tracolla, prima di circondare con un braccio la vita di sua nipote.
«Ruby? Svegliati».
Sollevò appena la ragazza, che mugolò e agì per inerzia sollevando le braccia per circondare il collo di sua nonna e, in qualche modo, riuscì a mettersi in piedi.
«Forza, Ruby, ti porto a letto».
Ruby mise un piede avanti, barcollando come se avesse bevuto troppo.
Granny la guidò attraverso il locale, bofonchiando a mezza voce quanto sua nipote fosse ingestibile e che la sua schiena prima o poi si sarebbe spezzata perché, dannazione, non c’era riposo nemmeno dopo tanti anni di duro lavoro.
«E dire che dovresti essere abituata alle notti insonni» sibilò l’anziana donna. «Quando c’è d’andarsene a spasso di notte nella foresta non c’è problema, eh, Ruby? E nemmeno quando c’è da passare tutta la notte in un bar karaoke. Ma una viaggio nella Foresta Incantata… e eccoci qui».
Granny sostenne la nipote con un solo braccio, lasciando che la ragazza si appoggiasse allo stipite della porta mentre girava la maniglia della sua stanza.
«Siamo quasi arrivate, su».
«No-no-nonna» tentò Ruby, cercando di combattere contro il sonno.
Granny riuscì a trascinarla accanto al letto e lasciò che la ragazza vi cadesse letteralmente sopra, con la testa sprofondata nel cuscino. La mattina dopo si sarebbe risvegliata nella stessa, identica posizione, di questo l’anziana donna era sicura.
«Sì, Ruby?»
La ragazza sbiascicò qualcosa nel cuscino - che la mattina dopo sarebbe stato sicuramente ricoperto di bava, mentre Granny sfilava le scarpe della nipote. Prese una vecchia coperta e la gettò sul corpo di Ruby con cura, poi le accarezzò i capelli.
Uscì dalla stanza in silenzio e sorridendo.
Nonostante il suono fosse stato soffocato dal cuscino, Granny aveva capito bene che cosa Ruby le aveva detto.
Ti voglio bene, nonna.
 
 
«Ecco qui. Gelato al cioccolato con panna per il mio ometto preferito» annunciò Ruby, mettendosi a sedere accanto a Aiden, i cui occhi si illuminarono alla vista dell’enorme coppa di vetro che la cameriera gli aveva appena portato.
Il viso del bambino sbucava a malapena al di sopra del tavolino del Granny’s, perciò la coppa superava di poco la sua piccola testa e la manina di Aiden arrivò a malapena ad afferrare il cucchiaino immerso nel gelato e ad estrarlo con entusiasmo, con il risultato di seminare gocce di cioccolato su tutto il tavolo.
«Oh, Aiden!» lo rimproverò immediatamente Belle, affrettandosi a prendere un tovagliolo e pulire il disastro che aveva combinato suo figlio.
Ruby rise e afferrò il bambino sotto le braccia, facendolo sedere sulle sue gambe.
«Ora va meglio, non è vero?»
Aiden non si sprecò nemmeno a rispondere e affondò di nuovo il cucchiaino nel gelato.
«Zia Ruby ti vizia troppo» commentò Belle, con un leggero tono di rimprovero nelle voce e Ruby le sorrise.
«Ha detto di volermi sposare appena avrà raggiunto la mia età, devo trattare bene il mio futuro marito» si giustificò la ragazza, stringendo le braccia attorno a Aiden.
Da  quando Biancaneve e il Principe erano partiti, Ruby e Belle avevano costruito un forte rapporto di amicizia.
All’inizio, Ruby aveva avuto qualche problema a d abituarsi alla nuova situazione, dal momento che aveva nutrito una segreta cotta per Belle dal momento in cui l’aveva vista entrare per la prima volta nel suo locale, con l’aria abbattuta e spaesata.
Ma poi le cose erano diventate più semplici.
Ruby si era convinta di non provare altro se non amicizia per Belle e, anche se spesso i commenti del signor Gold riguardo i loro rapporto non erano esattamente privi di gelosia, avevano imparato a trattare l’un l’altra come se fossero sorelle.
«Allora, come è andata nella Foresta Incantata?» chiese Belle con un sospiro.
Ruby notò le leggere borse sotto gli occhi dell’altra e immaginò che non fosse stata una bella nottata nemmeno per lei.
«Bene» rispose Ruby, stringendosi nelle spalle. «Voglio dire, è stato un gran putt-»
Ruby si bloccò a metà parola, intimidita dallo sguardo di allarme che le lanciò Belle.
Ah, già, Aiden.
Quel bambino era troppo perspicace, a parere di Ruby. Senza contare che aveva iniziato a ripetere e imparare ogni parola che sentiva.
Si schiarì la voce.
«Putiferio. È stato un gran putiferio» disse poi, ripensando alla notte precedente. Non ricordava nemmeno come avesse fatto a raggiungere il suo letto.
«Henry non ha preso bene il ritorno di Emma e Regina. David e Biancaneve erano naturalmente al settimo cielo, ma… avranno molti grattacapi, ora. Voglio dire, Regina è la moglie del padre di Biancaneve. È la… nonnigna di Emma».
«Non credo che nonnigna sia un grado di parentela esistente, Rubs» commentò Belle, ridendo.
«Beh, quello che è. Ma Regina e Emma stanno insieme. E questo rende Regina… la nuora di Biancaneve, giusto?»
Belle esitò.
«Ancora non sono sposate...»
«Ma Regina è anche la madre adottiva di Henry. Ed è anche sua bis-nonnigna. Insomma, vedi bene che del vostro albero genealogico non si capisce un ca-».
Belle guardò di nuovo Ruby in tralice.
«Carciofo».
«Carciofo?»
«Che c’è? Cavolo lo nominano tutti, gli altri vegetali si sentono messi da parte».
«Sai, a volte capisco perché tu e Aiden vi capiate alla perfezione, Rubs».  
La cameriera fece una smorfia, accarezzando i capelli del bambino.
«Almeno Aiden è riuscito a dormire questa notte?».
«Non molto, credo abbia fatto un brutto sogno. Ha ripetuto per tutta la notte la stessa frase…» rispose Belle, il cui voltò si adombrò appena.
«Davvero?» si stupì Ruby, abbassando il volto per poter guardare direttamente quello di Aiden. «Ti ricordi che cosa dicevi, piccolo?»
Aiden, bocca e naso sporchi di cioccolato e un’espressione perfettamente tranquilla, alzò gli occhi su Ruby.
«Dicevo che un cuore non c’era».
 
 
«Ehi».
Il signor Gold alzò gli occhi dal pesante tomo che stava leggendo, sospirando per il leggero tocco di Belle sulle sue spalle. Rimanere curvo per ore su vecchi libri polverosi non lo avrebbe affatto aiutato a dormire pacificamente quella notte.
«Aiden chiede che il suo papà gli racconti la storia della buonanotte» gli disse Belle quasi sussurrando, come se temesse di disturbare il filo di pensieri che si snodava nella testa del marito.
Il signor Gold raggiunse una mano di Belle e se la portò alle labbra, baciandola.
«Hai ragione, vado subito» disse, alzandosi e pesandosi sul bastone più di quanto avrebbe normalmente fatto.
Belle gli sorrise e lo guardò allontanarsi con un sospiro.
Da quando Emma e Regina erano tornate e Aiden aveva detto che c’era qualcosa che non andava, con loro, Tremotino aveva speso notti e giornate intere chino su testi antichi dai disegni spesso raccapriccianti.
A quanto pare cercava una spiegazione alle parole di suo figlio e il fatto che Tremotino le avesse prese seriamente in considerazione aveva fatto nascere in Belle un’inquietudine che raramente aveva provato nella sua vita.
Un cuore non c’era.
Belle accarezzò con le dita affusolate la pergamena rilegata, con l’inchiostro scuro che ne aveva segnato le pagine e sospirò.
Sapeva che Tremotino stava cercando una spiegazione alle parole di Aiden, ma non solo.
Suo figlio spesso riusciva a cogliere particolari e sottigliezza che i suoi genitori non riuscivano a spiegarsi. O, almeno, Belle non riusciva a spiegarsele.
Gold sembrava avere un’idea, o forse più di una, sul perché suo figlio mostrasse spesso caratteristiche fuori dal comune.
Ma con Belle non ne aveva mai parlato.
«A cosa pensi?»
La voce di suo marito la fece sussultare.
Sentì una delle mani dell’uomo circondarle i fianchi e i muscoli di Belle si rilassarono. La ragazza inspirò a fondo il profumo di dopobarba che l’aveva investita, appena soffocato dall’odore di polvere che ammantava il signor Gold alla fine di ogni giornata di lavoro.
Forse, era solo il profumo del passato di cui erano impregnati gli oggetti del suo negozio.
«Hai…» Belle esitò, incerta su come porre la domanda. «Hai scoperto qualcosa? Su Aiden o su… quello che ha detto?»
L’uomo le baciò una spalla con affetto e sospirò.
«Non ancora».
«Ma sospetti qualcosa, non è vero?»
«Non abbastanza da-»
Le parole dell’uomo vennero interrotte dal movimento repentino di Belle, che scivolò fuori dal suo abbracciò e si voltò a guardarlo.
«Conosco i libri, Tremotino. Hanno tutte le risposte che cerchi, ma solo se sai dove cercarle. E tu non stai cercando alla cieca. Ti ho osservato, la sera, mentre sfogli pagine e pagine di pergamena. Hai un metodo e segui un filo logico, anche se ancora non ho colto quale è. Perciò se sai abbastanza da poterlo cercare su dei libri, allora sai abbastanza anche per dirlo a me».
Il signor Gold guardò sua moglie negli occhi per qualche secondo, ma sapeva benissimo che Belle aveva ragione.
«Su Emma e Regina ancora non so niente. Ho solo il loro racconto dell’accaduto. E anche quello è confuso e abbastanza frammentario. Erano visibilmente scosse ed esauste, non c’è da stupirsi che nemmeno le parole di Regina possano fornirmi più di qualche vago indizio».
«E su Aiden?»
Prima di rispondere, Gold si prese una nuova pausa, in cui riempì i polmoni di ossigeno.
Aiden. Il loro bambino.
Beh, lui era tutt’altra storia.
«Ho paura che… che Aiden non sia diverso da Emma Swan».
«Emma? Cosa c’entra Emma?»
Belle era confusa, credeva che Tremotino avesse detto di non sapere nulla su Emma e Regina…
«Emma Swan è il prodotto del Vero Amore e come tale ha delle abilità uniche. Non ha avuto modo di svilupparle, nel mondo senza magia in cui è cresciuta, perciò sono rimaste grezze e incontrollate. Un semplice flusso di energia, molto potente, ma che non è stato plasmato in alcun modo, senza alcuna innata tendenza. Se fosse cresciuta nella Foresta Incantata, le cose sarebbe andate di sicuro in modo diverso»
Gold prese di nuovo un profondo respiro e afferrò Belle per le spalle, stringendogliele gentilmente.
«Ma, per Aiden, è diverso. Storybrooke è impregnata di magia, è stata creata dalla magia, ma, soprattutto, io vi ho riportato la magia.
Quello che sto dicendo, Belle, è che la magia di Aiden ha preso una forma propria e ha mostrato il suo talento. Ma, ancora, non ho capito con esattezza di che genere sia e, la cosa peggiore, è che non idea di come… di come la mia magia, il mio essere il Signore Oscuro, possa averlo condizionato».
Belle ora non era più solo confusa, era stordita.
Aveva capito bene?
Aveva letto bene, tra le righe, quello che Tremotino non aveva avuto il coraggio di dire ad alta voce?
«Aiden è come Emma» disse, con voce tremante. «Aiden è… il prodotto del Vero Amore».
Gold annuì, un nodo in gola sembrava impedirgli di parlare.
Lui era il Signore Oscuro, maledizione, quello non era il suo destino, non era previsto.
Innamorarsi, essere amato, avere una famiglia…
Non era sicuro che l’introduzione di queste nuove variabile nell’equazione del destino avrebbe portato a un risultato positivo per le persone che gli stavano attorno.
Ne era terrorizzato.
Poi Belle lo abbracciò con slancio, cogliendolo di sorpresa e quasi facendoli ruzzolare sul pavimento.
E il terrore, in quel momento, si attenuò. Divenne, improvvisamente, sopportabile.
«Lo sapevo» bisbigliò Belle, nel suo orecchio. «Lo sapevo».
Una lacrima cadde lungo la guancia di Gold, ma l’uomo non rispose, limitandosi a stringere la moglie a sé, fino a quando lei non si scostò.
Lo guardò con occhi lucidi, sorridendo.
«Ci penseremo domani, d’accordo? Domani mi dirai… tutto il resto e ci penseremo insieme».
Gold le prese il volto tra le mani e la baciò per un lungo istante, prima di fare un passo indietro e porgerle la mano perché lei la afferrasse.
Forse, quella notte sarebbe riuscito a dormire meglio del previsto.
 
 
«Ancora non ho capito cosa ci faccia qui la signorina Lucas».
«Tremotino» lo ammonì Belle, per l’ennesima volta. «Ruby vuole bene ad Aiden come se fosse suo figlio e noi abbiamo bisogno di una mano con tutti questi libri».
«Posso andarmene se la mia presenza non è gradita, signor Gold» disse Ruby, cercando di nascondere l’acidità del suo commento.
Gold fece un gesto vago con la mano, come a dire che, a lui, non poteva importare di meno di dove si trovasse la signorina Lucas.
«Quindi, riassumendo, i figli del Vero Amore sono così unici e rari che non nessuno ha mai capito fino in fondo come funzioni la loro magia, giusto? E che, a complicare il potere di Aiden, c’è anche il fatto che il signor Gold è il Signore Oscuro» disse Ruby, come se volesse riordinare le proprie idee e stesse parlando più a sé stessa che agli altri due.
«Esatto» confermò Belle. «E noi stiamo cercando un indizio qualsiasi sul talento che Aiden potrebbe aver sviluppato. Alcuni bambini imparano a comunicare con gli animali, altri a volare o a cambiare i propri connotati. Aiden non sa fare nulla di queste cose».
«In compenso, sembra che abbia sviluppato un nuovo senso. È come se riuscisse a percepire… qualcosa, qualsiasi cosa sia, che ai nostri sensi è occulto» intervenne Gold.
«Perciò, tutto quello che dobbiamo fare è… sfogliare vecchi libri sperando di imbatterci in qualcosa?» domandò Ruby, storcendo il naso.
Belle annuì.
«Se non vuoi aiutar-»
«No, no, voglio aiutarvi. Insomma, stiamo parlando di Aiden» disse Ruby, ignorando il mal di testa pulsante che minacciava di farla impazzire.
Era tarda sera e quel giorno il locale era stato un inferno. Sembrava che ogni singolo abitante di Storybrooke avesse deciso di fermarsi a mangiare un boccone al Granny’s.
Fantastico, per gli affari, senza dubbio.
Ma lei aveva girato come una trottola servendo clienti e prendendo ordine per le precedenti otto ore e questo non la aiutava a rimanere sveglia e concentrata.
Tuttavia, Belle aveva bisogna di un aiuto e la faccenda riguardava anche il piccolo Aiden, si sarebbe fatta forza e avrebbe stretto i denti, pur di aiutarli.
«D’accordo, allora, cara» disse il signor Gold, mellifluo. «Puoi iniziare con questo».
Davanti a Ruby, venne lasciato cadere un tomo che, ad occhio e croce, doveva avere almeno duemila pagine.
 
 
Ormai, per Ruby, era diventata una routine.
Dopo il turno al locale, mangiava un boccone al volo e poi andava a casa di Gold e Belle per aiutarli nella loro ricerca.
A volte, si era imbattuta in un sonnolento Aiden che chiedeva al padre la storia della buona notte, ma la maggior parte delle volte arrivava troppo tardi per godersi l’espressione infastidita di Gold mentre realizzava che Ruby aveva origliato, con il suo udito da lupo, la tenerezza che riservava al figlio.
Ruby sfogliò l’ennesima pagina, quasi annoiata, con il volto appoggiato a una mano e le gambe incrociate sulla sedia.
Era sicura che Gold lo trovasse terribilmente fastidiosa.
Lesse poche parole, quando si imbatté in una frase concisa e stringata:
 
Alcuni bambini sembrano sviluppare l’innata capacità di leggere nel pensiero, nello stesso modo in cui sviluppano l’uso della parola.
 
La mascella di Ruby si spalancò.
«Ragazzi. Credo che Aiden non sia l’unico bambino di cui dobbiamo preoccuparci».




NdA
Sono in ritardo? Sì, indubbiamente, ma non è colpa mia.
*faccia da angioletto*
*indica Dops*
*sussurra*
È tutta colpa sua.
Comunque, con questo capitolo siamo tornati un po’ indietro, a quando Ruby ha accompagnato Emma e Regina nella Foresta Incantata.
Per farmi perdonare, il prossimo capitolo verrà pubblicato nel weekend e chiuderà questa breve parte su Ruby, Gold e Belle, allacciandosi a dove abbiamo lasciato il quinto.
Grazie mille per la pazienza, lo so che sono un disastro vivente ^///^
A presto - davvero, questa volta!
 
T.
 
P.s. UH! Quasi dimenticavo. Le recensioni cui devo rispondere. Ho tutta la buona intenzione di rispondere a breve ;D
 
 

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Capitolo 7
*** Per consultare un libro, parte II ***


Capitolo VII
Per consultare un libro, parte II

- Qualche mese prima -


 
 
«Ethel, lei è zia Ruby» disse Mary Margaret, tenendo tra la braccia la sua secondogenita.
«Lu-by» aveva tentato di ripetere la piccola e Ruby aveva sorriso, pensando, all’improvviso, se anche Emma, da bambina, avrebbe avuto difficoltà a pronunciare il suo nome.
Era la sua madrina… e avrebbe tanto voluto avere la possibilità di esserlo sul serio.
«Em-ma» sillabò Ethel, cogliendo tutti i presenti di sorpresa.
David si schiarì la voce e appoggiò una mano sulla schiena di Biancaneve.
Henry finse di non sentire.
Ruby rimase sbalordita.
Poi Ethel spostò  gli occhi su suo padre.
«So-e-lla».
«Come…» tentò domandare Biancaneve, la voce incrinata dall’emozione di sentire Ethel parlare di sua sorella.
Le avevano raccontato di lei, di Emma, ma non capiva per quale motivo la nominasse proprio in quel momento, visto che ne nessuno vi aveva accennato.
«Ethel, vieni a giocare con me, ti va?» intervenne in quel momento Henry, prendendo la piccola dalle braccia di Biancaneve.
«Flip-pé» disse Ethel e Henry annuì.
«Sì, ti mostro il flipper con cui giocavo da bambino».
 
«Credi che Ethel possa leggere nel pensiero?» domandò Belle.
«Ne sono sicura» confermò Ruby.
Era figlia di Biancaneve e del Principe e, proprio come Emma, frutto del Vero Amore.
Era nata a Storybrooke e, avendo vissuto nella Foresta Incantata la maggior parte della sua breve vita, poco ma sicuro, non aveva avuto problemi nello sviluppare il proprio talento.
E aveva nominato Emma nel momento esatto in cui le vi aveva pensato.
«Tremotino, credi sia possibile?» chiese Belle, esitante, guardando il marito.
«Sì, credo sia proprio così» confermò il signor Gold, come se stesse parlando del tempo atmosferico.
Ruby ebbe la spiacevole sensazione che l’uomo avesse intuito quel particolare già da tempo, ma non ebbe tempo di chiedere spiegazioni.
«Credo che… qualcuno dovrebbe dirlo a Biancaneve e al Principe. Se qualcuno sapesse qualcosa riguardo ad Aiden, vorrei che me lo dicessero» disse Belle, stringendosi nelle spalle.
Il signor Gold si voltò verso Ruby.
«Non ha voglia di fare un balzo nella Foresta Incantata, signorina Lucas? Quei boschi, di notte, sono ineguagliabili».
Ruby rimase in silenzio, studiando l’uomo.
Non era sicura, ma sembrava che volesse liberarsi di lei per un po’ di tempo, come se… come se avesse qualcosa da nasconderle, come se…
D’un tratto Ruby capì e storse il naso, lanciando una breve occhiata a Belle, che le sorrise incerta.
Non solo Gold la voleva fuori dai piedi perché aveva un segreto, ma temeva anche che lei riuscisse a scoprire di cosa si trattasse.
«Io…» iniziò titubante la ragazza, stringendo gli occhi a due fessure.
Un lampo passò nello sguardo di Gold.
«Perché non vai a dare un’occhiata ad Aiden, Belle?»
«Cosa?» domandò la giovane, confuse.
«Aiden, mi è sembrato di sentire la sua voce che ti chiamava» spiegò il signor Gold, distogliendo finalmente gli occhi da quelli di Ruby.
Belle tese l’orecchio e, nonostante non avesse udito nulla, si alzò con uno sguardo confuso dipinto in viso.
Ruby attese che la donna uscisse dalla stanza, prima di parlare in un sussurro.
«Lei sa quale è il potere di Aiden, non è vero?»
«Sì».
«Perché non lo dice a Belle? Perché costri-».
«Signorina Lucas, sarò molto breve e lo dirò una sola volta. Il potere di Aiden è… danneggiato. Senza dubbio, ciò che mio figlio è in grado di fare nasce dall’essere Frutto del Vero Amore, ma io, signorina Lucas, sono suo padre. Il Signore Oscuro, roba da non crederci. Le assicuro che questa faccenda entrerà negli annali della storia. Ad ogni modo, il mio potere ha corrotto mio figlio. Lui… lui ha una variante di quello che viene chiamato sydän mel yönti. Il sydän mel yönti permette di riconoscere la natura del cuore di una persona. Vede, noi non siamo buoni o cattivi, mia cara, siamo solo umani. Beh, più o meno».
Ruby fece una smorfia, scoprendo appena i denti affilati.
«Appunto. A volte il nostro cuore è colmo di Oscurità, a volte trabocca di Luce e talvolta è entrambi. Aiden è in grado di… percepire ogni mutazione del cuore delle persone, come se fosse un libro aperto. Il che è curioso come paragone, considerando la passione di sua madre… ad ogni modo, signorina Lucas, l’essere figlio del Signore Oscuro ha portato mio figlio a sviluppare la sua naturale inclinazione in modo, oserei dire, estremo. Non solo è in grado di leggere le persone, ma sente il loro cuore, come se fosse il suo. Prova la loro gioia, la loro allegria, la loro spensieratezza… prova ogni cosa, come se la vivesse lui in prima persona».
Ruby lo guardò confusa per qualche secondo, chiedendosi per quale motivo non potesse dire a Belle quello che aveva appena rivelato a lei, prima che l’espressione che assunse il volto di Gold le mandò l’intestino sottosopra.
Non aveva mai visto, in tutta la sua vita, un’espressione tanto sofferente e distrutta sul volto del Signore Oscuro.
Aiden non solo poteva vivere la gioia dei cuori delle persone che lo circondavano, ma ne viveva anche… i dolori, l’odio, l’amarezza e tutto ciò che un bambino non dovrebbe mai conoscere, durante la sua infanzia.
Ruby aprì la bocca per parlare, ma in quel momento tornò Belle.
«Sembra tu ti sia sbagliato, Tremotino, Aiden dormiva ancora» disse la ragazza, prima di percepire la tensione nella stanza. «Cosa succede?»
«Niente, la signorina Lucas se ne sta andando».
Belle spostò lo sguardo sull’amica.
«S-sì» disse Ruby, sbattendo le palpebre, balbettando appena. «Io stavo andando, scusatemi, sono molto… stanca».
«Oh, non preoccuparti, Rubs, hai fatto già molto» sorrise Belle alla ragazza, lanciando una breve occhiata di sospetto al marito.
Ruby si alzò in piedi e raccolse la sua giacca.
«A presto» disse, alzando debolmente la mano in segno di saluto.
«Ti accomp-»
«Non c’è bisogno, Belle, conosco la strada» la interruppe la cameriera, trovando la forza per farle un occhiolino amichevole e dirigersi verso la porta con passo deciso.
Uscì dalla casa dei coniugi Gold e l’aria fresca fu un balsamo, sulla sua pelle.
Dire a una madre che suo figlio era condannato a vivere non solo il proprio, ma anche il dolore altrui per il resto della sua vita, a causa delle natura dell’uomo che amava… no, Ruby non sarebbe riuscita a farlo.
 
«Veniamo con te».
La tazza cadde dalle mani di Ruby, infrangendosi in mille pezzi ai suoi piedi, ma la cameriera non vi badò minimamente.
Tenne lo sguardo fisso su Belle, che si era appena seduta al bancone del locale, con Aiden in braccio.
Gold li raggiunse un istante dopo lo schianto della tazza e si mise alle loro spalle.
«Cosa?» domandò Ruby, guardando la ragazza incredula.
«Rubs, la taz-»
«Cosa hai detto?» ripeté Ruby, un ringhio sommesso nella voce.
Aiden nascose il viso nel seno della madre, un breve singhiozzo gli sfuggì dalle labbra.
Gold guardò Ruby, una muta richiesta in volto.
La cameriera prese un respiro profondo e provò a calmarsi, a mettere un freno al suo cuore.
Pensò alla ninna nanna che la cantava sua nonna da bambina, alla sensazione del vento che la investiva nelle notti di luna piena, al profumo di caffè alla mattina, tentando di scacciare il terrore e la rabbia dal suo cuore. Aiden non doveva sentirli.
«Ok, ok, scusatemi» disse Ruby, esalando un respiro profondo. «Che ne dite di sedervi a un tavolo mentre sistemo questo disastro e poi ne parliamo con calma?»
Belle, incerta e stringendo Aiden, annuì e scivolò giù dallo sgabello, lasciando che Gold la guidasse gentilmente con una mano sulla schiena a un tavolo in disparte rispetto agli altri.
Ruby si prese più tempo del necessario per sistemare il disastro che aveva combinato, sperando che il suo animo si quietasse abbastanza per non fare del male a Aiden.
Perché Belle voleva seguirla nella Foresta Incantata? Portando suo figlio, per giunta.
Non che corressero un reale pericolo, ma Ruby conosceva, almeno un po’, la corte reale. E un castello era un calderone ribollente di malanimo, invidia, gelosia e rivalità, soprattutto tra i servi.
Senza considerare che Biancaneve e il Principe, in quanto regnanti, avevano sempre nell’animo la costante preoccupazione di amministrare un regno e i suoi abitanti.
La ciliegina sulla torta, poi, sarebbe stata il dramma di Henry e di Emma e Regina.
No, la Foresta Incantata non era un posto adatto a Aiden. 
Quando infine raggiunse Belle, con suo figlio tra le braccia e Gold accanto, non poté fare altro che sedersi di fronte a loro.
«Belle, non mi sembra un’idea consigliabile, affatto» esordì Ruby, prima che qualcun altro potesse parlare.
Belle la guardò imbronciata e si prese un secondo di pausa, prima di risponderle, come se stesse raccogliendo e ordinando sistematicamente i punti del suo futuro discorso.
«Si tratta solo di ritornare per qualche giorno nella Foresta Incantata, come una vacanza. Non corriamo alcun pericolo. Aiden e Ethel potranno giocare insieme. E sono sicura che Biancaneve e il Principe saranno entusiasti di riabbracciarci».
«La Foresta Incantata non è un posto adatto a un bambino dell’età di Aiden» rispose Ruby.
Il piccolo piagnucolò tra le braccia della madre e Gold allungò la mani verso di lui.
L’uomo se lo strinse al petto, pensando al giorno in cui era nato, al viso di sua moglie il giorno del loro matrimonio. Le manine di Aiden, strette a pugno, si rilassarono lentamente.
«Cosa?» ripeté Belle, sconcertata.
«Belle, tesoro, forse l’anno prossimo potrem-» tentò il signor Gold, zittito da un’occhiata sospettosa della moglie.
«Tremotino, abbiamo già avuto questa discussione. Perché non approfittare del viaggio di Rubs? E magari potremmo scavare nella biblioteca del castello e scoprire qualcosa su nostro figlio».
«Nella foresta Incantata non avrai tutte le comodità che abbiamo qui, Belle. Pannolini usa e getta, forno a micro onde, luce elettrica… Forse è meglio aspettare che Aiden cresca un po’».
«Siamo cresciuti tutti nella Foresta Incantata. Aiden starà benissimo. E ci fermeremo solo per qualche giorno, massimo una settimana, no? Non è che ci stiamo trasferendo nell’altro mondo. E saremo solo a un salto di Fagiolo Magico dai pannolini, dal forno a micro onde e da tutto il resto».
«Belle…» tentò Ruby di nuovo, incapace di trovare un nuovo argomento con cui ribattere.
Doveva dirle la verità?
Doveva dirle che sapevano già che cosa non andasse in Aiden?
Un debolissimo no raggiunse le sue orecchie e Ruby capì che il signor Gold aveva sussurrato quelle due lettere perché solo la ragazza lupo e il suo udito potessero percepirle.
No.
Non doveva dirle nulla.
Il signor Gold sospirò.
«Va bene, tesoro. Partiremo domani sera con la signorina Lucas e torneremo a Storybrooke la sera del giorno seguente, cosa ne dici?»
«Dico che farò visita ai nostri amici nella Foresta Incantata, Tremotino, e se vorrò fermarmi qualche giorno in più per mostrare a nostro figlio dove sono nati i suoi genitori e il loro passato, allora lo farò».
Belle sorrise a Aiden e gli posò un breve bacio sulla fronte prima di alzarsi con impeto e scuotere la testa.
«Devo aprire la biblioteca, ti sarei grata se portassi Aiden all’asilo».
«Certo, tesoro» rispose l’uomo.
Ruby alzò la mano per salutare l’amica, ma Belle la superò in fretta e uscì dal locale senza guardarsi indietro.
Ruby e il signor Gold si guardarono per un lungo istante. Aiden aveva gli occhi umidi e le guance arrossate.
«Prima o poi uno di noi dovrà dirglielo» disse Ruby con voce grave.
 «Non ficchi il naso in faccende che non la riguardano, signorina Lucas».
«Ovviamente mi riguardano, Aiden è-».
Il bambino singhiozzò e Ruby prese un respiro profondo, cercando di calmarsi.
«Aiden è mio figlio, signorina Lucas, e devo portarlo all’asilo. È stato un piacere parlare con lei».
L’uomo si alzò con eleganza cullando appena Aiden tra le braccia.
«Non può proteggerlo con un incantesimo o qualcosa? Almeno per il tempo che trascorrerà nella Foresta Incantata».
«Saremo qui intorno alle otto di questa sera, signorina Lucas».
«Gold».
«Come ho detto: non sono affari che la riguardano».
«Cia’, zia Rubs» urlò la voce da bambino di Aiden.
Ruby lo salutò con la mano e riuscì a trattenere le lacrime che le serravano il cuore fino a quando il bambino e suo padre furono usciti dal locale.
 
 
 
NdA
Grazie Cla per il betaggio lampo <3
E nulla, con questo chiudiamo la breve parentesi sul Ruby, Belle e Gold (e sì, ha vagamente i tratti di un triangolo amoroso, ne sono consapevole! ;D)
Ho solo una piccola precisazione da fare. Sydän mel yönti è un’espressione che non mi sono inventata di sana pianta, ma che ho ricavato dal finlandese sydämenlyönti e che significa battito del cuore.
A presto,
Trixie.
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Capitolo 8
*** Per iniziare un conflitto ***


Capitolo VIII
Per iniziare un conflitto
 
 


Emma chiuse la porta alle sue spalle, senza staccare gli occhi dalla schiena di Regina.
Rimasero entrambe in silenzio per qualche secondo, una accanto alla porta e l’altra con le braccia strette attorno al corpo, la figura debolmente delineata dalla luce lunare che entrava dalla finestra.
«Di cosa stava parlando Gold, Regina?» domandò infine Emma con un sospiro. Si mosse verso l’altra donna e le afferrò gentilmente un braccio, perché si voltasse a guardarla. «Un cuore… manca
Regina aveva gli occhi umidi, si schiarì la gola prima di parlare, e quando finalmente lo fece la sua voce uscì chiara e distinta dalla sua bocca, quasi tagliente nell’aria della notte.
«Non manca nessun cuore, Emma».
«Cosa? Ma quel bambino ha det-»
«Quel bambino ha semplicemente detto quello che riesce a sentire e percepire» la interruppe Regina, quasi infastidita.
«E cosa riesce a sentire e percepire?» domando Emma, la voce appena più alta di un’ottava.
«D’accordo, ascoltami con attenzione, Emma».
La ragazza annuì, allontanando la mano del corpo dell’altra e incrociando le braccia.
«Sull’Isola di Euridice io ho scelto te, Emma, nello stesso istante in cui tu hai deciso di spezzare volontariamente il tuo cuore per poterci riportare a Storybrooke».
«Sì, certo che me lo ricordo. Ma non è successo, no? Voglio dire, il mio cuore è qui. Lo sento battere» disse Emma, portandosi una mano al petto.
«Quello che senti battere non è esattamente il tuo cuore, Emma. E non è nemmeno il mio. È nostro. Così come il mio non è… mio».
Scorgendo lo sguardo confuso sul volto di Emma, Regina sospirò. Lei stessa aveva faticato a capire esattamente cosa fosse successo, perché la magia è sempre imprevedibile e porta a risvolti quanto mai inaspettati nella maggior parte dei casi. Sarebbe stato difficile spiegare a Emma, una ragazza poco abituata alla magia, tutta quella faccenda.
«La mia scelta e il tuo incantesimo hanno cozzato l’una contro l’altro» riprese Regina. «Ed erano molto potenti, tanto che entrambi i nostri cuori sono andati in frantumi. E questi frantumi si sono saldati nuovamente insieme in modo caotico e confusionario, mischiandosi, unendosi senza badare a che cuore appartenessero originariamente. Tu hai… parte del mio cuore e io ho parte del tuo. Letteralmente, Emma».
La ragazza fece un passo indietro.
Aveva gli occhi sbarrati e il respiro affannoso. E il suo cuore… il loro cuore, il cuore di entrambe, batteva all’impazzata nei loro petti.
Emma era terrorizzata.
Aveva… metà del cuore di Regina nel suo petto?
Aveva capito bene?
«Aiden crede che un cuore manchi perché i nostri battiti sono perfettamente sincronizzati, il mio cuore batte forte o piano a seconda del tuo e il tuo del mio».
Emma guardò Regina dritta negli occhi e riempì i polmoni di ossigeno. Barcollò sul posto, la testa leggera turbinava di pensieri e domande e paure.
«E se… se…»
Emma si morse il labbro cercando di controllare il proprio balbettare.
«E se il mio cuore smettesse di battere, il tuo…»
«Non lo so. Non è mai successa una cosa del genere a nessuno, ma credo… credo che anche il mio smetterebbe di battere».
«E cosa dannazione aspettavi per dirmelo?!» sbottò Emma, furiosa. «Sono una maledetta bomba a orologeria, Regina! Potrei ucciderti».
«Emma…»
«No, niente Emma, Regina!»
La donna distolse lo sguardo da Emma, mordendosi il labbro inferiore e ricacciando indietro le lacrime.
«Cazzo! Vaffanculo!» urlò la ragazza mettendosi una mano tra i capelli. «Vaffanculo!».
«Emma, per fav-»
«No! No, è come se avessi un coltello puntato alla tua gola, Regina, senza poterlo spostare pur dovendo starnutire. Potrei ucciderti da un momento all’altro».
«Non stai per morire, Emma».
«Non puoi saperlo».
«Ma-»
«E hai pensato a Henry?»
«Ci perderà, entrambe. Come pensi che io-» Emma si interruppe all’improvviso, scuotendo la testa. «Ogni volta in cui ho rischiato la mia vita, l’ho fatto sapendo che tu e Henry sareste stati al sicuro. Non faccio un solo passo, non faccio un solo respiro, senza essere certa che voi siate al sicuro. Ora… ora sarò terrorizzata ogni secondo della mia vita. Come pensi che io possa proteggerti, in questo modo? Se non posso nemmeno… farti scudo con il mio corpo, se non posso… Come hai potuto tenermelo nascosto, Regina?»
Regina le aveva di nuovo voltato le spalle e se ne stava lì, con le braccia strette attorno al corpo a prendere respiri profondi e a ricacciare indietro le lacrime, perché l’ultima cosa che voleva mostrare a Emma, in quel momento, era debolezza.
«Non te l’ho nascosto. Non è stato difficile capirlo per me, Emma, non sapevo come spiegartelo, non sapevo come fare in modo che tu lo compren-»
«Oh, Dio» la interruppe la ragazza.  «Non conosci la magia, Emma; lascia fare a me, Emma; fa’ come ti dico, Emma!; faccio da sola, Emma. Già. Giusto. Perché la povera Emma è una cogliona senza cervello, incapace di comprendere i rudimenti della magia o di fare un incantesimo senza la potente e perfetta Regina. Ovviamente. Mentre Regina può fare quel cazzo che vuole quando lo vuole. Può persino strapparsi il cuore dal petto per hobby, non è vero?»
«Emma, ora sei ingiusta, lo sai benissimo che non ho mai detto di nulla questo».
«Sono un’arma costantemente puntata contro il tuo dannatissimo cuore, Regina-dannazione-Mills» disse Emma, con voce bassa e greve.
«E io lo sono per te!» urlò Regina, finalmente voltandosi e puntandole un dito contro, con le guance arrossate dalla foga e gli occhi lucidi. «Non credere che non lo sappia, non credere che non abbia pensato a Henry. Lo so benissimo, Emma, lo so quanto male potrei fare a te e quanto ne potrei fare a nostro figlio. Ma ora che sai che cosa non va in noi, Emma, dimmi che cosa è cambiato. Nulla, ecco cosa è cambiato. Siamo ancora l’una la morte dell’altra e l’unica cosa che abbiamo ottenuto è stata terrorizzarti. Tu vuoi… proteggermi, come se io non sapessi difendermi da sola, come se io non volessi proteggere te e Henry. Non vomitarmi addosso la tua rabbia, Emma Swan, come se tutta questa faccenda fosse solo ed esclusivamente un mio capriccio».
«Nulla di tutto questo sarebbe mai successo se tu non avessi-»
«Se io non avessi cosa? Se io non avessi desiderato essere una persona degna del tuo amore e di quello di Henry, tutto questo non sarebbe mai successo? Beh, prova a sentire questa, Emma-io-faccio-sempre-la-cosa-giusta-a-differenza-di-Regina-Swan: se tu non mi avessi raggiunta sull’Isola di Euridice abbandonando nostro figlio, nulla di tutto questo sarebbe mai successo!»
«Anche tu l’hai abbandonato!» urlò Emma. «E non puoi inserire tante parole tra il nome e il cognome, perde di efficacia!» continuò la ragazza, sempre sullo stesso tono.
«Invece posso!».
«Giusto, perché tu sei Regina e puoi fare qualsiasi cosa. Puoi farmi innamorare di te e farmi sentire viva e amata per la prima volta nella mia vita e poi morire tra le mie braccia, non è vero, Regina? Tu puoi e al diavolo Emma Swan. Lei è un’eroina, lei farà la cosa giusta, lei sopravvivrà. Beh, vaffanculo, Regina, perché quella notte mi hai uccisa con te e non te ne è fregato un cazzo!»
Il pavimento sotto i loro piedi tremò, come se una scossa di terremoto si fosse appena sprigionata dai loro piedi. Stavano perdendo il controllo della loro magia.
Nessuna era sicura su chi delle due fosse stata la causa di quel dissesto, forse Emma, forse Regina o forse entrambe, ma non aveva importanza.
Dovevano riguadagnare il controllo.
«Vaffanculo» disse di nuovo Emma, senza urlare, con rabbia.
Si voltò, lanciando un’ultima occhiata a Regina.
«Me ne vado, Regina».
Emma raggiunse la porta in pochi secondi, con falcate ampie e veloci, la magia che le scorreva nelle vene le illuminava le mani di un bianco venato di striature nere.
«Emma!» sentì urlare la ragazza, un urlo pieno di disperazione e di frustrazione, un urlo che lasciò Regina senza fiato, nello stesso modo in cui la lasciava il suo amore per Emma.
La ragazza lo sentì riecheggiare nelle sue orecchie per secondi interi, rimbalzando su ogni muro del palazzo.
O forse, semplicemente, riecheggiava nel loro cuore.
 
 
«Ehi».
Emma entrò in biblioteca senza bussare, sperando che la flebile luce delle candele non mettesse in evidenza i suoi occhi rossi.
Aveva pianto e avrebbe pianto ancora se fosse rimasta da sola, con le mani in mano, a pensare a quanta responsabilità le fosse caduta sulle spalle.
La vita di Regina, aveva la responsabilità della vita di Regina.
Era un fardello tanto grande e pesante che Emma non riusciva nemmeno a respirare al pensiero.
Non era come amarla, amarla con la consapevolezza di potersi mettere in pericolo per lei, di poter morire, per lei, se necessario.
Quello… quello in confronto era una passeggiata.
Si trattava di vivere per Regina. E questa era tutta un’altra storia.
Come avrebbe fatto a tenerla al sicuro, se lei stessa era la sua condanna a morte?
E Henry… Dio, non poteva nemmeno pensare a suo figlio senza sentire le gambe piegarsi e la testa vorticare. Erano appena tornate da lui, dopo averlo lasciato solo, e ora quel ragazzino avrebbe potuto perderle di nuovo, entrambe, in un battito di ciglia.
E sarebbe stato davvero semplice, morire.
Regina non se ne rendeva conto.
Regina… quanto amava Regina.
Ma ora doveva respirare, respirare e basta, e tenere la mente per quanto possibile occupata.
«Qualcosa di nuovo?» domandò Emma, dopo essersi schiarita la voce.
«Sicura di non aver già avuto abbastanza novità per oggi, signorina Swan?» domandò la voce melliflua del signor Gold, facendo irritare Emma. «Nonostante le apparenze, lei non è certo una donna tutta d’un pezzo».
«Emma, di cosa-»
«Nulla» tagliò corto la ragazza, impedendo a sua madre di concludere la domanda. «Solo… una questione tra me e Regina, nulla di rilevante».
«Sì direbbe che questa faccenda l’abbia fatta a pezzi, Emma» intervenne di nuovo Gold. «E abbia scosso tutti quanti. Ha perso il controllo della sua magia e il pavimento ha tremato, non è vero? Più che sua in realtà-»
La ragazza, che si era avvicinata al tavolo attorno al quale si stava discutendo la prossima mossa, sbatté con violenza la mano sul tavolo.
«Ho chiesto: ci sono novità?» ripeté, tenendo lo sguardo furioso puntato su Gold.
Biancaneve e il Principe si scambiarono uno sguardo allarmato. Quella reazione così… violenta e autoritaria li aveva colti di sorpresa.
Tremotino doveva aver toccato un tasto particolarmente dolente, per aver spinto la ragazza a reagire con tanto fervore.
Frederick si schiarì la voce.
«Nessuna novità».
Emma spostò lo sguardo sull’uomo.
«Grazie» disse, freddamente.
«Abbiamo messo Gold al corrente della situazione e lui ci ha garantito il suo aiuto nella faccenda» intervenne David, accarezzando il braccio della figlia con la mano.
I muscoli di Emma non rilasciarono la tensione, ma si irrigidirono maggiormente.
«In cambio di cosa?» domandò lei, sospettosa.
«Oh, nulla di importante» rispose l’uomo.
«In cambio… sarà lui ad eseguire la sentenza di morte del conte Marvos» spiegò David.
«Sentenza di morte?» domandò Emma, confusa. «Aspettate, di cosa state parlando?»
«Il conte Marvos è un Traditore della Corona, un Usurpatore, e pertanto andrà punito con la morte» rispose Frederick senza battere ciglio, come se stesse spiegando un’operazione elementare a un bambino.
Emma lo guardò incredula.
«Volete… uccidere un uomo».
«Giustiziarlo» la corresse Frederick.
Emma rise, ironicamente.
«Certo» disse Emma, alzando le mani in segno di resa. «L’omicidio da queste parti prende il nome di giustizia».
«Marvos ha-»
«E lei, Gold, vuole solo servire la giustizia, non è vero?»
«Certo che no, signorina Swan. Ho un conto in sospeso con quell’uomo» rispose Tremotino, come se stesse correggendo Emma dall’aver detto una grande e colossale sciocchezza.
«E voi… siete tutti d’accordo, immagino».
«Cosa suggerisci di fare?»
«Tenerlo in prigione, per il resto della sua vita» rispose Emma, semplicemente.
Frederick rise.
«Se facessimo così per ogni criminale, la Corona andrebbe in bancarotta dall’oggi al domani!»
«Tuo suocero caca oro».
«Emma!» esclamò scandalizzata Biancaneve.
«Probabilmente non è nemmeno una battuta» commentò Ruby, sussurrando.  
«Beh, sembra che la cara signorina Swan abbia assimilato il caratterino della sua dolce metà» commentò Gold, ridendo sardonico. «Aggiungendoci un tocco personale, naturalmente».
«Principessa Emma, io non credo che voi-» iniziò diplomaticamente Frederick.
«Oh, quello che vuoi, al diavolo, ho avuto una gran giornata di merda e non ho intenzione di stare qui a sentire le vostre stronzate» lo interruppe Emma. «Mi interessa solo di mia sorella e mio figlio. C’è una congiura, di cui non sappiamo praticamente nulla, che li mette in pericolo, quindi tutto quello che voglio è che loro siano al sicuro. Credo che dovrebbero andare a Storybrooke, per un po’».
Fu Ruby a risponderle, l’unica che non era rimasta eccessivamente sorpresa dallo sbotto violento di Emma.
«Ethel e Aiden partiranno per Storybrooke il prima possibile, con Abigail e Belle. Per quanto riguarda Henry… naturalmente vorremmo tutti che lui non rimanesse qui, ma la scelta è, naturalmente, sua».
«Bene» annuì Emma, senza chiedersi per quale motivo Belle avesse acconsentito a tornare a Storybrooke con Aiden. Evidentemente era una madre migliore di lei e non avrebbe mai abbandonato suo figlio, per nulla al mondo, soprattutto non con il rischio di lasciarlo orfano di entrambi i genitori.
Lei e Regina erano chiaramente incapaci di fare le madri.
Emma fece vagare lo sguardo sui presenti: i suoi genitori, con un’espressione preoccupata in volto; Ruby, che sembrava volerle porre cento e una domande; Gold, con il suo irritante sorrisetto e Frederick, sinceramente incuriosito da quella strana ragazza.
«Aggiornatemi, se arriva qualche novità» disse Emma, prima di voltarsi per uscire dalla biblioteca.
 
 
Regina sentì un leggero bussare alla porta e, per un folle istante, pensò si trattasse di Emma.
Naturalmente non poteva trattarsi della sua ragazza, perché non avrebbe bussato in quel modo, no. Emma sarebbe semplicemente entrata nella stanza come un ciclone, come era entrata nella sua vita, con tutta la sua impertinenza, con tutta la sua dolcezza.
Già, non si trattava di Emma.
Regina andò ad aprire la porta, gettandosi una vestaglia sopra la camicia da notte e, per un istante, credé di essersi immaginata quel tocco, perché non scorse nessuno sulla soglia.
Ma poi abbassò lo sguardo e incontrò quello di Ethel, che le gettò le braccia attorno alle gambe, stringendola.
«Ethel, tesoro» disse Regina, appoggiandole una mano sulla nuca. «Cosa ci fai qui?»
«Posso dormire con te?»
Regina la guardò per qualche istante, confusa e disorientata, chiedendosi se fosse successo qualcosa, se Ethel avesse paura di rimanere sola di notte.
«C’è qualcosa nel castello» rispose la bambina.
Regina si accigliò, ricordandosi di quando Henry bussava alla sua porta, terrorizzato dagli incubi. Poi la donna si sciolse delicatamente dell’abbraccio di Ethel e si chinò, per poterla prendere in braccio.
Poggiò la maggior parte del peso della bambina sul proprio fianco, prima di rientrare nella propria stanza e chiudere la porta.
«Non vuoi dormire con la mamma e il papà?» le domandò Regina, dopo averle dato un bacio sulla guancia.
Ethel scosse la testa, prima di nasconderla tra i capelli della donna e stringerle le braccia intorno al collo.
«Non stanno dormendo. Dov’è Emma?»
Regina ci pensò, per un solo istante, ma subito si costrinse a visualizzare ogni minimo dettaglio del letto che aveva davanti a sé, dagli intagli nella testata alle pieghe delle lenzuola.
Non doveva pensarci minimamente, o avrebbe finito per intristire Ethel.
«Non è qui, tesoro, aveva da fare» rispose semplicemente Regina, chinandosi per adagiare la bambina sul materasso. Si tolse la vestaglia, prima di coricarsi accanto a lei e coprire entrambe, con attenzione, in modo che il freddo notturno della Foresta Incantata non gelasse loro le ossa.
«Forse è con la mamma e il papà».
«Sì, credo proprio di sì, Ethel» annuì Regina, dandole un buffetto sul naso. «Ora cosa ne dici di dormire? Non devi avere paura di nulla, lo sai?»
«Perché ci sei tu a proteggermi» rispose la bambina.
La donna sorrise e le accarezzò i capelli, stringendola a sé con l’altra mano.
Regina ascoltò il respiro di Ethel che rallentava di secondo di secondo, diventando sempre più profondo. Nel giro di pochi minuti, la bambina si era addormentata tra le sue braccia e calde lacrime avevano iniziato a scorrere, silenziose, lungo le guance della donna.
Emma.
Le mancava Emma.
Sentiva il suo cuore, il loro cuore, battere contro le sue costole. Non velocemente, non all’impazzata, ma violentemente, come se ogni battito contenesse tutta la forza di cui era capace e la indirizzasse contro il suo petto per poterne uscire.
A Regina faceva male il cuore.
E a Regina mancava Emma.
E le mancava Henry.
Le mancava la sua famiglia.
La donna strinse con più forza Ethel al proprio corpo e si chiese per quale motivo finiva sempre per rovinare tutto ciò che di buono riusciva ad ottenere nella vita.
Forse doveva smettere di lottare, forse doveva smettere di provarci.
Forse lei era incapace di essere felice.
Regina chiuse gli occhi.
C’erano così tante cose che avrebbe voluto dire a Emma, in quel momento. Eppure nessuna le sembrava abbastanza per… per farla tornare da lei.
Non era stato facile nascondere quello che aveva intuito su di loro, sulla loro magia, sui loro cuori. Non era stato facile nemmeno capirlo.  
E quando alla fine era stata sicura dell’esattezza della sua supposizione, non aveva trovato il coraggio di dirlo a Emma.
E cosa avrebbe potuto dirle?
Ehi, il nostro amore ci ha portata a una condanna di morte reciproca, divertente, vero?
Già.
Regina sapeva che quella notte non sarebbe riuscita a dormire, non senza Emma, non da sola dopo quello che era successo.
Nonostante il corpicino caldo di Ethel fosse una presenza rassicurante accanto a lei, la bambina non bastava a scacciare i demoni dall’animo di Regina.
La donna prese un respiro profondo, poi si passò una mano sul viso, una pallida luce bianca ne illuminò i tratti, prima che Regina si addormentasse.
Era un incantesimo semplice, tra i primi che aveva imparato ad eseguire.
Non sarebbe stato come dormire sul serio, non avrebbe sognato nulla e la mattina seguente si sarebbe svegliata frastornata e stanca, ma almeno non avrebbe corso il rischio di pensare, pensare ossessivamente a Emma, a quanto le mancasse, a quanto stesse soffrendo.
L’incoscienza era l’unica cosa che l’avrebbe aiutata in quel momento, così Regina dormì.
 
 
Henry accompagnò Oliver davanti alla sua camera da letto.
Nessuno dei due parlò, lungo il tragitto dalla biblioteca, scortati, per sicurezza, da un paio di guardie.
Davanti alla porta, Henry si fermò imbarazzato e porse la mano a Oliver, maledicendosi immediatamente per quel gesto.
Insomma, non si stava presentando, no? E non voleva sembrare freddo e poco cordiale agli occhi di Oliver, ma ritirarla sarebbe apparso come un gesto di gran maleducazione.
Così Henry rimase lì, con il braccio rigidamente teso e le orecchie rosse dall’imbarazzo, fino a quando Oliver non gli strinse la mano.
Con orrore, il ragazzo più grande si rese conto di quanto le sue dita fossero sudate.
«Sc-scusami…» tentò, balbettando.
Oliver scosse la testa, ma non rispose.
«Bu-Buonanotte, allora» continuò Henry, «Se… se ti va, qualche volta potremmo parlare, sai? Non capita molto spesso che ragazzi della mia età alloggino al castello e io, insomma, pensavo che, ecco, sai, con tutto quello che sta succedendo, magari ti va… insomma, di scambiare due parole, ecco».
«Oh» disse Oliver, sorpreso. «Ora?»
«No!» esclamò Henry, quasi urlando, prima di rendersi conto di aver probabilmente spaventato il ragazzo. «Voglio dire, anche, no, intendo, se vuoi».
«Certo» rispose Oliver, sorridendo incerto.
Henry annuì con la testa e lanciò un breve sguardo alle guardie, facendo loro segno di congedarsi. Queste accennarono un inchino, poi si misero all’inizio del corridoio, così da presidiarlo per la notte.
Biancaneve era diventata ossessionata dalla sicurezza all’interno del castello.
I ragazzi li osservarono mettersi ai posti di guardia, prima che Oliver aprisse la porta e facesse segno a Henry di precederlo.
 

«Non voglio tornare a Storybrooke».
«Belle, ne abbiamo già parlato, dobbiamo fare la cosa migliore per Aiden».
Il bambino, che stava giocando seduta a terra accanto al fuoco, iniziò a piangere.
Belle si affrettò verso di lui e si chinò a prenderlo in braccio. Lo cullò e gli baciò la testa, chiedendogli dolcemente che cosa non andasse.
Aiden sembrò calmarsi un po’ e Belle gli sorrise.
Tremotino prese un sospiro profondo.
«Belle, ti ho raccontato quanto sia pericolosa la situazione qui, non possiamo tenere Aiden in questo castello» tentò con gentilezza l’uomo.
Bello lo guardò accigliata.
«Sono sicura che Abigail si prenderà cura di Aiden come si deve» rispose la donna. «E appena tutto sarà finito, tornerò a Storybrooke».
«Belle, non-»
«Smettila di dirmi cosa devo fare» lo interruppe Belle e Aiden si mise nuovamente a piangere, attirando l’attenzione di entrambi i genitori.
Belle riprese a parlargli dolcemente e accarezzargli la testa.
Tremotino, senza una parola, si diresse alla porta.
Prima di raggiungere la Foresta Incantata, aveva fatto bere a suo figlio una pozione in grado di attenuare la forza di sentimenti ed emozioni, il cui effetto era tuttavia temporaneo e, soprattutto, non bastava a fargli da scudo da quelle troppo violente.
Doveva andarsene da quella stanza per non infliggere altro dolore al piccolo e doveva andarsene subito.
Tremotino chiuse la porta dietro di sé.
E Belle scosse la testa, incredula.
Aiden continuò a piangere ancora a lungo.
 

«Emma!»
La ragazza si voltò non appena sentì chiamare il proprio nome.
Si trovava sui bastioni del castello e stava camminando alla luce della luna e delle fiaccole incastrate tra le pietre lungo tutte le mura, con la sola intenzione di far passare il tempo,
Non aveva altro posto in cui andare e certo non si aspettava che qualcuno riuscisse a stanarle da quelle parti, ma certo non aveva fatto i conti con l’olfatto da lupo di Ruby.
«Emma» ripeté l’altra, non appena l’ebbe raggiunta.
«Rubs, ehi»
«Ehi» rispose la ragazza, spostando il peso da un piede all’altro e guardando a terra per qualche secondo, prima di sollevare lo gli occhi verso quelli arrossati di Emma.
«Oh, tesoro» sospirò Ruby, gettandole le braccia al collo e stringendola a sé. Le accarezzò i capelli e dondolò sul posto, sentendo come Emma cercasse di combattere contro i singhiozzi che le ostruivano la gola.
«Sto-sto bene, Rubs» singhiozzò Emma, che stava ricacciando indietro le lacrime con l’aiuto di tutta la forza di volontà di cui era capace. «Sto bene».
«Vuoi parlarne?» le sussurrò gentilmente Ruby, senza lasciarla andare.
Emma scosse la testa.
«È solo che… non me l’ha detto» disse, con la voce spezzata. «E l’ultima volta che-che mi ha nascosto qualcosa… lei… lei…».
A Emma mancò l’aria.
Si allontanò dal petto di Ruby e si mise una mano sulla gola, cercando di prendere respiri profondi e calmarsi.
Lentamente, con sforzo, riuscì di nuovo a riempire i polmoni di aria.
Ruby le stava accarezzando la schiena con la mano.
«Lo so, Emma, lo so».
La ragazza, con gli occhi gonfi e il viso macchiato di lacrime si morse il labbro e si strinse nelle spalle.
«Doveva solo dirmelo, Rubs, doveva solo dirmelo» disse Emma, quasi con rabbia. Poi prese le mani di Ruby tra le proprie e le strinse, accennando un sorriso con gli angoli della bocca.
«Devo… devo andare».
«Sai dove trovarmi, se hai bisogno di me» rispose semplicemente Ruby, stringendosi nelle spalle.
Emma annuì, poi si allontanò dall’amica.
Voleva rimanere sola, ancora per un po’.
Perché l’ultima volta che Regina le aveva tenuto nascosto qualcosa, poi le era morta tra le braccia.
 

Belle sentì bussare alla propria porta.
Aiden si era appena addormentato, anche se il suo sonno sembrava agitato, così come lo era l’animo di Belle.
Si alzò dalla sedia accanto al piccolo letto di suo figlio, dove stava leggendo un libro alla luce del fuoco, e andò ad aprire, ritrovandosi davanti Ruby.
«Oh, Rubs, ciao» la salutò Belle, con un sorriso.
«Ciao» rispose la ragazza, guardando nervosamente all’interno della stanza e cercando di mascherare il fatto che stesse fiutando l’aria. «Tremotino è…?»
«Non è qui, non so dove sia andato».
Ruby annuì.
«Ma entra, che maleducata, siediti pure» la invitò Belle.
Ruby fece come le era stato detto e notò subito Aiden addormentato.
Il breve incontro che aveva avuto con Emma l’aveva convinta che nascondere quello che sapeva su Aiden non avrebbe aiutato Belle in alcun modo. Lei era sua madre e aveva tutto il diritto di conoscere il possibile su suo figlio.
Ruby prese un respiro profondo.
«Va tutto bene?» le chiese Belle, avvicinandosi incerta e mettendole una mano sul braccio.
«So che cosa ha il cuore di Aiden».
Belle spalancò gli occhi e la bocca.
«Oh».
Tornò a sedersi sulla poltrona accanto al camino, senza aggiungere altro, e Ruby si inginocchiò di fronte a lei, prendendole una mano.
«Come lo hai scoperto?» domandò Belle.
«Non ha importanza».
«Tremotino lo sa, non è vero?»
Ruby prese un respiro profondo e annuì.
«Ora però ascoltami, d’accordo?»
Belle deglutì.
Dopo un attimo di pausa, Ruby le raccontò tutto quello che sapeva sul potere di Aiden, cercando di spiegarsi nel modo più chiaro possibile, parlando lentamente, tentando di non perdersi nelle lacrime di Belle che iniziarono a riempirle gli occhi con la stessa lentezza con cui la ragazza prendeva consapevolezza della situazione.
Quando Ruby smise di parlare, Belle stava scuotendo la testa, incredula, cercando di parlare.
«No» fu tutto ciò che disse. «No!»
Belle diede una spinta alle spalle di Ruby, cercando di allontanarla, ma la prontezza di riflessi della ragazza e la sua forza da lupo le impedirono di ruzzolare a terra.
«Belle, ascolta».
«No, no!»
«Ehi…»
Belle piangeva e urlava e cercava con tutte le sue forze di allontanare Ruby, spingendola, afferrandole la spalle e graffiandole le mani.
«Sveglierai Aiden, ti prego».
Belle era furiosa.
Furiosa con suo marito, furiosa con Ruby, furiosa con sé stessa perché in quel preciso momento stava facendo del male a suo figlio.
Perciò, udendo il nome di Aiden, la donna cercò di calmarsi e dominare la sua rabbia. Provò a riguadagnare il controllo su sé stessa, ma le lacrime sembravano non voler smettere di scendere.
«Belle…»
La voce di Ruby era dolce e la ragazza smise di stringere la ciocca di capelli dell’altra che stava tirando, rannicchiandosi e portando le ginocchia al petto.
Ruby si issò sul bracciolo della poltrona e la strinse al petto.
«Va tutto bene, Belle, sistemeremo anche questo, d’accordo?»
Nuovi singhiozzi sfuggirono alle labbra di Belle, ma dopo qualche minuto le carezze e la presenza di Ruby la riportarono alla realtà e la ragazza si asciugò il viso con il dorso della mano.
«Sc-scusa» disse, con le labbra tremanti, dopo esserci accertata con uno sguardo che Aiden fosse ancora addormentato.
Il bambino dormiva, ma stava chiaramente avendo degli incubi, a giudicare dal modo in cui si dimenava tra le coperte.
Ruby ne seguì prontamente lo sguardo e si affrettò ad alzarsi e prenderlo tra le braccia, con delicatezza.
Tornò a sedersi sul bracciolo della poltrona dopo aver passato Aiden a sua madre, che ora lo stava cullando.
«Vedrai che sistemeremo anche questa, Belle» le sussurrò Ruby di nuovo, accarezzandole i capelli e osservando come Aiden, lentamente si stesse calmando tra le braccia della donna.
 

«Henry non vorrà andare a Storybrooke» disse David, infilandosi a letto accanto a sua moglie.
«Già. E immagino che Regina farà esplodere qualche specchio, a riguardo».
«Credi che il lieve tremore del pavimento di oggi sia stato…?» iniziò l’uomo, lasciando la domanda in sospeso.
Biancaneve prese un respiro profondo.
«Sia stato provocato da Regina?»
David annuì, appoggiando un braccio sopra lo stomaco della donna e il viso sulla sua spalla.
«Credo siano state Regina e Emma» disse Biancaneve.
«Cosa credi che sia successo?»
Biancaneve scosse la testa, voltandosi per poter baciare il marito.
«Non ne ho idea, ma credo che dovremmo riposarci un po’. Tra poche ore sarà già l’alba» considerò la donna, con un sospiro rassegnato.
«In effetti potremmo dormire» sussurrò David, «oppure potremmo-»
«Sta arrivando!»
«Brontolo!» urlò Biancaneve, mettendosi a sedere di scatto.
Il nano era appena entrato nella loro camera, a perdifiato, senza bussare o annunciarsi in alcun modo.
Respirava affannosamente e il suo volto era arrossato, come se avesse corso per l’intero castello. Cosa che, probabilmente, era davvero successa.
«Chi sta arrivando?» domandò Biancaneve, gettandosi uno scialle sulle spalle lasciate nude dalla camicia da notte.
David gemette sconsolato.
«Un esercito!» rispose il nano, per nulla imbarazzato dalla situazione.
«Un esercito?» esclamarono all’unisono Biancaneve e il Principe, increduli e terrorizzati allo stesso tempo.
«In realtà non è che sta davvero arrivando, ma…» considerò Leroy, come se stesse dando un giudizio sull’ultimo libro che aveva letto, «si sta ammassando al confine nord-occidentale».
«Il regno di Mida» disse immediatamente David.
«Proprio quello» annuì Brontolo. «E ci è appena giunta questa, attraverso un corvo. Immagino fosse un corvo. Volava. Ed era nero. Sono abbastanza sicuro fosse un corvo».
Il nano porse a Biancaneve una pergamena arrotolata, che la donna si affrettò ad appianare.
David appoggiò il mento sulla spalla della moglie per poter leggere e Brontolo scrutò ansiosamente i loro occhi che viaggiavano sulle righe scritte su quella  missiva.
«Re Marvos» disse David, leggendo la firma in calce con disgusto. «Vuole Abigail e Frederick».
«E Oliver» aggiunse Biancaneve. «Qui dice: “i membri della decaduta famiglia reale”».
David scosse la testa.
«Naturalmente non cederemo al ricatto».
«No, naturalmente no» disse Biancaneve. «Forza, dobbiamo mettere tutti al corrente della situazione, immediatamente. E far partire Abigail e i bambini per Storybrooke al più presto».
David si lasciò cadere sul cuscino e si strofinò il volto con le mani, prima di alzarsi dal letto.
«Mi state prendendo in giro?» si intromise Brontolo, cogliendo entrambi di sorpresa. «Quella pergamena dice che rifiutare di consegnare la decaduta famiglia reale sarà considerato un atto di guerra, perciò fatemi capire, stiamo per iniziare una guerra contro questo Marvos?»
«Sì» rispose Biancaneve senza esitazione.
«Ovviamente» convenne Brontolo, rassegnato.  
 
 
 
NdA
Quindi… abbiamo scoperto che problema abbiano Emma e Regina e la ragazza non l’ha presa decisamente bene.
(Dops, non lanciarmi frecciatine nelle note. Il ritardo non è dipeso da me, anzi. Tecnicamente è colpa tua, quindi shhh, ma sì, grazie per i betaggi. Mwah <3).
Grazie a tutti ;D
Trixie
Dopey&Tucky

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Capitolo 9
*** Per chiarire una questione ***


Capitolo IX
Per chiarire una questione
 
 


Il cuore di Abigail minacciava di esploderle nel petto.        
Camminava velocemente, i tacchi che battevano sul pavimento di marmo del castello, le gonne malamente sollevate con una mano per permetterle di muoversi più agevolmente, mentre con l’altra si teneva l’addome.
Quando suo padre l’aveva convinta a passare del tempo nel regno di David e Biancaneve, così che lui potesse occuparsi della congiura senza temere per la sua vita, aveva creduto che nel giro di qualche settimana, un mese al massimo, Mida avrebbe sistemato ogni cosa, come promesso.
Ora non ci credeva più. Ora, correndo verso le stanze di suo cugino, scortata da ben cinque guardie, Abigail non ci sperava più.
«Oliver!» urlò la principessa, bussando alla porta del ragazzo non appena la raggiunse, appoggiandovisi contro per riprendere fiato.
«Lasciate entrare prima noi, principessa» intervenne il capitano del piccolo drappello di uomini che erano lì per proteggerla.
Abigail lo guardò confusa, prima di intuire che lo stava dicendo solo per potersi accertare, in questo modo, che non ci fosse nessuno all’interno delle stanze di Oliver.
La principessa annuì e fece un passo indietro, mentre uno dei soldati si parava di fronte a lei, con l’alabarda spianata.
Il capitano spalancò la porta, non con violenza, ma con decisione e fece un passo all’interno, seguito da un paio di soldati.
«Principe» lo sentirono udire con tono di rispetto, dall’esterno, dopo qualche secondo. «E… Mio principe. Tutto bene?»
Qualcuno dovette rispondere dalla camera, ma Abigail non riuscì ad udire nulla.
Principe e mio principe? Che diavolo sta-
Dalla porta della stanza di Oliver uscì Henry.
Abigail lo guardò confusa, chiedendosi per un secondo se avessero bussato alla porta sbagliata, ma poi anche Oliver si affacciò dallo stipite.
«Mi sono addormentato qui, ieri sera. Stavamo parlando» disse Henry, arrossendo appena.
Qualcosa, nella mente della principessa, scattò, come un’idea, una vaga supposizione, ma la donna la ignorò. L’arrivo della lettera di Marvos l’aveva sconvolta e non aveva tempo da perdere, proprio per nulla.
Così Abigail annuì e fece loro cenno di seguirla. I soldati si disposero intorno a lei e ai due ragazzi, in modo che fossero completamente circondati e protetti da ogni minaccia esterna.
«Cosa sta succedendo?» domandò Henry.
Abigail si strinse al fianco Oliver, il respiro appena più lento sapendo che il giovane stava bene ed era al sicuro.
«Dopo, Henry. Ti spiegheremo tutto in biblioteca» rispose la principessa.
«Stanno tutti bene?».
«Per ora sì».
«Per ora?» domandò Henry, fermandosi a metà di un passo e costringendo perciò anche i soldati ad arrestarsi.
«Henry, ti prego! Non abbiamo tempo!» gli disse Abigail, una nota di isterismo nella voce e gli occhi rossi per aver pianto già troppe lacrime.
Il ragazzo si chiese vagamente da quanto non dormisse.
«Henry, dovremmo andare».
Questa volta era stato Oliver, a parlare.
Henry spostò lo sguardo su di lui.
 
Oliver non parlava molto, ma amava ascoltare.
E Henry nemmeno la ricordava più, l’ultima volta in cui qualcuno gli aveva dato veramente ascolto.
Da quando Emma e Regina lo avevano abbandonato a sé stesso, nessuno aveva prestato ascolto alle parole di un ragazzino così ingenuo da credere che le sue mamme sarebbero tornate per lui dal mondo della morte. O quello che era, dovunque fossero finite.
Ma con Oliver era diverso.
Oliver se ne stava lì, non con sguardo disinteressato e vacuo, ma con attenzione, con il cuore aperto e tutta l’empatia di cui era capace.
Non lo ascoltava  con condiscendenza o pietà, ma con una sorta di rispetto reverenziale negli occhi.  
Non diceva cose come “Henry, lo so che è difficile, ma devi crescere” o “Henry, vedrai che con il tempo sarà più semplice”. No, Oliver annuiva e lo ascoltava parlare della sua infanzia con Regina, dell’arrivo di Emma, di come si fossero innamorate, del gran casino che era stata la sua vita fin da quel momento.
A Henry, Oliver piaceva.
E a Oliver piaceva Henry, perché per la prima volta qualcuno non lo trattava come un bambino, troppo piccolo per capire il mondo, ma come un ragazzo della sua età. La sua bassa statura e l’ossatura gracile certo non lo aiutavano, ma Oliver era più grande di quanto in realtà sembrasse.
Nemmeno la sua introversione era vista di buon occhio. Le persone, dagli sconosciuti alla sua famiglia adottiva, gli chiedevano in continuazione di parlare. Ma a lui non piaceva parlare. Non è che avesse cose interessanti da dire e quelle che, al contrario, lo erano, non potevano essere dette, per nessuna ragione al mondo, nemmeno a un ragazzo adorabile come lo era Henry. Soprattutto non a Henry.
Perciò Oliver teneva la bocca chiusa e Henry parlava, lasciando che il ragazzo più giovane, ogni tanto, gli stringesse la mano in segno di conforto.
E poi, a Oliver, piaceva la voce di Henry.
Per questo, dopo una pausa più lunga del solito da parte del ragazzo più grande, Oliver si era reso conto che Henry si era addormentato.
Aveva deciso di non svegliarlo e si era limitato a togliere una coperta dal letto e a mettergliela addosso, guardandolo rannicchiato sulla poltrona dove era stato per tutta la sera.
Poi, anche Oliver si era tirato una coperta addosso e si era addormentato sulla poltrona accanto, ascoltando il respiro regolare di Henry inframmezzato dallo scoppiettio del fuoco.
 
Sorpreso di sentire la voce di Oliver, Henry non poté fare altro che annuire e riprendere a camminare, affiancandosi di nuovo ad Abigail e lasciando che il drappello di soldati li scortasse in direzione della biblioteca.
 
 
Emma si trovava fuori dalla porta della loro stanza. Sicuramente Regina era già a letto, addormentata, ma la ragazza sapeva che se fosse entrata, la donna si sarebbe svegliata subito.
Succedeva sempre così, a Storybrooke, quando Emma ritornava dai suoi turni da Sceriffo.
Perciò la ragazza esitava, con una mano sulla maniglia della porta e il cuore a mille.
Sicuramente, anche il cuore nel petto della donna che amava batteva allo stesso modo, in quel preciso istante. Forse, batteva tanto da svegliarla.
Emma prese un respiro profondo.
Prima o poi sarebbe dovuta entrare, no?
E aspettare che Regina uscisse dalla stanza solo per sgusciarvi all’interno sarebbe stato da codardi.
Magari Regina avrebbe finto di continuare a dormire, pur di non confrontarsi di nuovo con lei.
D’accordo, si disse Emma, entro. Mi svesto, mi metto a letto e dormo. Ignorare Regina, a ogni costo.
La ragazza abbassò la maniglia della porta con delicatezza.
«Emma!» urlò in quel momento sua madre, a una cinquantina di metri da lei, con David alle calcagna. L’uomo aveva la spada sguainata.
«Cosa succede?» domandò immediatamente la giovane, allarmata dall’atteggiamento dei suoi genitori.
«Ethel è con te?» chiese Biancaneve, quasi correndo verso di lei, con la voce spezzata dall’ansia e dall’inusuale andatura.
«No» disse Emma, confusa. Sua sorella era scomparsa?
«E Regina? È con Regina? Ti prego, dimmi che è con Regina!» disse Biancaneve, afferrandole una mano non appena l’ebbe raggiunta.
«Regina… Lei… Credo…» balbettò Emma, gesticolando con l’altra mano in direzione della porta. «Credo stia dormendo».
«Non riusciamo a trovare Ethel» disse David, circondando le spalle di sua moglie con un braccio. «Ed è arrivata una lettera poco allegra» aggiunse, guardandosi attorno.
Emma spostò lo sguardo dal volto di suo padre a quello di sua madre e viceversa.
«Deve essere con Regina» affermò, incapace di credere che la sua sorellina fosse sparita. Non poteva reggere tutto quanto, non in quel momento.
Senza esitare un secondo, Emma, spalancò la porta della loro camera.
«Ethel? Regina?» chiamò, nell’oscurità.
«Ethel?» chiamò di nuovo Biancaneve, appena più forte della primogenita.
Qualcosa, alla loro destra, si mosse.
Nel debole chiarore lunare, i tre videro una testolina emergere dalle coperte e una manina stropicciarsi gli occhi con forza.
Biancaneve urlò di sollievo e si affrettò verso Ethel, lanciandosi sul letto per abbracciarla.
David sospirò e il suo volto si rilassò visibilmente, ma non del tutto come Emma si era aspettata.
Giusto, c’era ancora quella certa lettera poco allegra.
La ragazza guardò accanto a sua sorella, dove un ammasso di coperte rivelava la presenza di Regina.
Possibile che non si volesse muovere nemmeno per insultare l’entrata poco educata di Biancaneve nella sua camera?
Mentre Ethel raccontava di essere andata a cercare zia Regina perché non aveva trovato i suoi genitori, Emma si avvicinò al letto.
«Regina?» chiamò. 
La donna non si mosse.
Emma si avvicinò ancor di più, appoggiando un ginocchio sul materasso e allungando un braccio per poter scuotere dolcemente Regina.
Per quanto fosse furiosa con lei, in quel momento, per quel suo dannato comportamento infantile, non voleva ritrovarsi con il naso spezzato a causa di una reazione troppo violenta da parte di Regina.
«Regina?» tentò di nuovo.
Nessuna risposta.
Biancaneve si alzò dal letto, tenendo Ethel in braccio.
David fece un passo avanti.
Emma afferrò una spalla di Regina e fece girare la donna che era coricata sul fianco, in modo da vederne il volto.
Aveva gli occhi chiusi.
La ragazza si allarmò. Con tutto il trambusto che c’era appena stato, non era possibile che la donna dormisse ancora tanto profondamente.
«Regina» la chiamò Emma, mettendole d’istinto due dita sulla carotide per controllare il battito cardiaco.
Che idiota.
Ovviamente il cuore di Regina batteva allo stesso, accelerato ritmo del suo. O Emma non sarebbe stata viva per potersene accertare.
«Regina, svegliati» le intimò la ragazza, scuotendola appena. «Cazzo, non combinarne un’altra delle tue perché giuro che questa volta…» sussurrò la ragazza tra i denti.
«Sta dormendo» disse Ethel. Biancaneve la strinse a sé ancora più forte.
«Sì, lo so, bambina mia. Regina sta solo dormendo» confermò sua madre, con una nota di terrore nella voce.
«No, ha usato la magia per dormire» spiegò Ethel.
«Ha usato la magia? Su di sé?» domandò Emma, senza spostare gli occhi dal volto di Regina.
«Sì» confermò sua sorella. «O almeno, ha pensato di farlo».
E Emma sospirò.
Dio, così tipico di Regina.
Meglio procurarsi qualche ora di incoscienza che avere direttamente a che fare con le proprie emozioni e gestire una notte insonne.
La testa di Emma ronzava. Doveva mettere da parte la frustrazione e l’irritazione nei confronti di Regina e concentrarsi su come svegliarla.
Baciarla? No, non era una Maledizione.
E scuoterla fino allo sfinimento non avrebbe certo funzionato.
Forse, aspettare sarebbe stata l’alternativa migliore, ma sembrava che ci fosse qualche nuovo pericolo alle porte e Emma non poteva certo lasciare che Regina rimanesse nella sua comoda incoscienza.
Rimaneva solo un’alternativa. Svegliare Regina con la magia.
Non l’aveva mai fatto prima, ma se la sua magia e quella di Regina si erano amalgamate, probabilmente le sarebbe bastato chiudere gli occhi e concentrarsi con la speranza che una traccia dell’incantesimo aleggiasse ancora lì, da qualche parte.
Emma chiuse gli occhi.
«Emma, cosa-» tentò di chiedere David, che venne però zittito da un shh inviperito da parte di Emma.
«Vuole usare la magia» disse loro Ethel, in un sussurro.
Emma chiuse tutti quanti e tutto il mondo fuori dalla propria testa.
Rimase lì, accanto a Regina. Loro due sole, null’altro nell’universo.
Individuò il proprio cuore e poi il cuore della donna, il loro cuore. Ne ascoltò i battiti, sempre più lenti e regolari, immaginò il sangue che veniva spinto nelle loro vene e, con esso, il loro potere, quella magia che scorreva sotto la loro pelle, silente, e pronta a risvegliarsi a un minimo cenno.
Emma rimaneva colpita dalla forza che emanava il suo potere ogni volta che si concentrava su di esso e, come ogni volta, si prese qualche secondo per abituarsi alla sensazione di vertigine che le dava.
Poi lo sentì.
Era come un leggerissimo velo che copriva il volto di Regina, una patina di magia che la teneva nell’incoscienza, facendola dormire.
Emma, sempre a occhi chiusi, mosse la mano e le dita, come se stesse afferrando un fazzoletto adagiato sul volto di Regina e lo sollevò con attenzione. La ragazza sentì la magia dissiparsi dal viso della donna.
Aprì gli occhi.
«Regina?» tentò, senza urlare.
Le palpebre della donna si mossero, come se i suoi occhi volessero aprirsi e dal petto di Emma si sollevò un peso che non si era accorta di star portando.
«Em-ma?»
La voce di Regina era roca, ma non c’erano dubbi sul fatto che ormai si stesse svegliando. Dopo qualche istante aprì gli occhi e incrociò quelli verdi della sua Emma. Tentò di sorridere. Sorrideva sempre, ogni volta che vedeva Emma, era qualcosa che non poteva in alcun modo controllare.
«Emma».
«Non avresti dovuto usare la magia» disse la ragazza.
Regina scosse la testa, come per eliminare le ultime tracce dell’incantesimo, e solo in quel momento si rese conto che c’erano altre persone, nella stanza.
«Cosa…?».
«È arrivata una lettera, da Marvos. Dobbiamo ritrovarci immediatamente in biblioteca e discuterne» rispose David. «Io e Biancaneve vi aspetteremo là. Siete in grado di difendervi con la magia in caso di necessità, non è vero?»
Entrambe le donne sul letto annuirono, frastornate e confuse dalla mancanza di informazioni complete che erano state loro fornite.
«Bene. Fate il più in fretta possibile» raccomandò loro David, prima guidare la moglie, con Ethel in braccio, fuori dalla stanza.
 
 
Emma si allontanò dal letto nel preciso istante in cui David chiuse la porta della loro camera.
Regina si morse il labbro e si schiarì la gola, ma non disse nulla. Sgusciò fuori dalle coperte e rabbrividì per il freddo della stanza. Studiò con l’angolo dell’occhio la figura di Emma, che le dava le spalle.
«Era solo un incantesimo per dormire» disse infine Regina, con un filo di voce.
Emma non rispose.
La donna iniziò a vestirsi, senza perdere altro tempo in chiacchiere. Se Emma non voleva parlare con lei, d’accordo, avrebbe aspettato che le passasse la rabbia o la frustrazione o qualsiasi cosa la ragazza provasse in quel momento e poi avrebbero discusso di tutto quello che si erano tenute dentro per tanti mesi, senza nemmeno rendersene conto.
Nella stanza non si udì altro se non il fruscio delle vesti di Regina per lunghi minuti e l’aria sembrava farsi più pesante a ogni respiro
«Ti aspetto in biblioteca» disse infine Emma, incapace di sopportare oltre quella sensazione di occlusione. L’aria sembrava essersi fatta improvvisamente densa, come lava che le accarezzava la pelle bruciandola e circondandola, pressandola, solidificandosi attorno al suo corpo fino a toglierle persino il respiro.
Regina avrebbe voluto fermarla, ma venne colta alla sprovvista dalle parole di Emma e, nel tempo che impiegò a reagire, la ragazza era già uscita dalla porta.
«Sono quasi pronta» sussurrò allora Regina tra i denti, infilando il piede nella scarpa, senza rendersi conto che le sue parole non erano rimaste inascoltate e che, confusa tra altre mille ombre ve n’era una in particolare, nascosta in un angolo della loro stanza, che aveva udito ogni cosa.
 
 
«Se deciderete di non offrirci più ospit-».
«Oh, insomma, Frederik, non andiamo d’amore e d’accordo, ma qui nessuno ha intenzione di consegnare te e la tua famiglia a Marvos» lo interruppe Emma bruscamente.
Quasi tutti i presenti annuirono, guardando con sguardi rassicuranti Abigail e suo marito, con Oliver lì accanto.
Tremotino fece vagare gli occhi a terra - certo non avrebbe esitato a tradire tutti quanti nel caso in cui la sua famiglia fosse stata minacciata seriamente -, così come Regina dovette puntare il suo in quello di Abigail, per ricordarsi quello che Kathryn era stata per lei, a Storybrooke, prima di annuire a sua volta.
David aveva messo tutti a parte dei dettagli contenuti nella lettera giunta al castello.
Non che si perdesse in fronzoli e giri di parole, la richiesta era tanto semplice quanto diretta: Marvos voleva a tutti i costi la famiglia reale e rifiutarsi sarebbe stata una dichiarazione di guerra.
«Ora che abbiamo appurato questo con i modi eccessivamente bruschi di mia figlia, credo che dovremmo occuparci di mettere al sicuro i più giovani» disse Biancaneve, lanciando uno sguardo in tralice a Emma.
La ragazza la ignorò. Sul serio, stavano per andare in guerra e sua madre si preoccupava della sua educazione?!
«La signorina Swan sembra più acida del normale, non trovi?» bisbigliò Tremotino inclinando la testa verso Regina, seduta accanto a lui. «Cosa è che dicono? Che in una coppia, a lungo andare, si finisce per somigliarsi? Certo, si direbbe che voi due vi siate amalgamate alla perfezione, pezzo per pezzo».
Regina si girò lentamente nella direzione dell’uomo e lo fulminò con lo sguardo, emettendo in risposta quello che aveva tutta l’aria di essere un ringhio.
Tremotino sogghignò e tornò a prestare la sua attenzione a Biancaneve.
«Apriremo un portale per Storybrooke e faremo in modo che donne e bambini possano trovare rifugio in città».
«Anche coloro che non sono in grado di combattere andranno a Storybrooke» si intromise David.
Biancaneve annuì.
«Distruggeremo la coltivazione di Fagioli Magici, conservandone una manciata a Storybrooke e un paio qui. In caso di sconfitta…»
La frase rimase sospesa nell’aria per qualche secondo, poi Biancaneve si schiarì la voce.
«Regina e Emma?»
Le due donne scattarono, sentendo i propri nomi accostati l’uno all’altro, e prestarono la propria completa attenzione a Biancaneve. 
Di nuovo, l’aria divenne pesante.
Non guardare lei, non guardare lei, non guardare lei.
«Potreste rinforzare lo scudo magico del castello o… qualcosa?»
«Riguardo a questo, vorrei dare una mano anche io» si intromise Tremotino. «Non vorrei rimanere ucciso per colpa di uno stupido problema di cuore».
L’uomo rise alla propria battuta, prima di tornare serio in volto.
«Non solo figurativamente».
«Cos-».
«Certamente, aiuteremo a difendere il castello» annuì Regina, prima che David potesse concludere la propria domanda riguardo al commento di Tremotino.
Emma annuì, reprimendo dentro di sé l’irritazione che il signor Gold le suscitava e Biancaneve spostò la propria attenzione su un altro aspetto organizzativo.
«Dovresti dire a Biancaneve e al Principe di Ethel, Regina. Mantenere i segreti non porta mai nulla di buono» bisbigliò Tremotino.
«E quale segreto stai tenendo nascosto a Belle? Non riesce nemmeno a guardarti» rispose la donna, acidamente.
«Come vedi è un consiglio dettato dall’esperienza, che viene dal mio cuore».
Regina alzò gli occhi al cielo.
«Geloso?»
«Della signorina Swan?»
«No, del modo in cui la signorina Lucas accarezza il braccio di tua moglie».
Tremotino fece dardeggiare lo sguardo in direzione di Belle, seduta su una sedia con Ruby alle spalle. La ragazza-lupo stava effettivamente accarezzando il braccio dell’altra, in modo quasi possessivo, lasciando che Belle tenesse la testa appoggiata al suo addome.
Regina sorrise, osservando l’espressione dell’uomo adombrarsi.
La voce acuta di Abigail impedì a Tremotino di ribattere.
«No!»
«Abigail, prova a ragionare» disse Frederick, appoggiandole una mano sulla schiena.
Sua moglie scosse la testa, con gli occhi pieni di lacrime.
«Ho acconsentito a nascondermi a Storybrooke e prendermi cura di Aiden e Ethel, per poter tenere al sicuro nostro figlio, Frederick. Ma tu non ti recherai da Marvos come messaggero. Ti ucciderebbe senza pensarci una seconda volta».
«D’accordo, d’accordo» intervenne David. «Non-»
«Dobbiamo liberare tuo padre, Abigail!» urlò Frederick, sovrastando la voce di David.
«Vi perderò entrambi!»
«No!»
«Basta!» urlò Oliver. Tutti si voltarono a guardarlo. Henry sorrise.
«Ho già fatto il messaggero, posso farlo di nuovo» disse il ragazzo più giovane.
Ora che l’attenzione era catalizzata su di lui, gli tremava la voce.
«No» disse Abigail. «Tu verrai a Storybrooke, tesoro».
«No!» esclamò Oliver. «Io rimango. Sono abbastanza grande per poter impugnare una spada».
«Oliver, ragazzo mio…» disse Frederick, in tono accondiscendente. «Sarai più al sicuro a Storybrooke».
«Io rimango».
Frederick sospirò.
«C’è qualcuno in questo dannato castello in grado di darmi retta?» sbottò poi, tra i denti.
David gli lanciò uno sguardo comprensivo.
«Questa guerra sarà un massacro» commentò Ruby dopo un momento di silenzio.
 
 
Dovettero essere sedate innumerevoli discussioni e calmati diversi pianti isterici prima che si giungesse a un qualche tipo di accordo per fare fronte comune alla battaglia contro Marvos.
Oliver e Henry sarebbero rimasti nella Foresta Incantata, con gran disappunto di tutti i presenti, ma nessuno si era sentito di vietare loro di prendere parte ai combattimenti. O non si erano trovati nella posizione adatta per farlo.
Solo Tremotino aveva tentato di convincere Henry a recarsi a Storybrooke, insistendo sul fatto di dover mettere al sicuro l’erede al trono, ma nulla aveva funzionato.
Abigail si sarebbe unita alle decine di donne e bambini presenti nel castello e nelle vicinanze e che avrebbero trovato rifugio a Storybrooke. Ruby venne incaricata di organizzare i passaggi attraverso il portale e Belle si offrì di darle una mano, con poco entusiasmo da parte di Tremotino.
Non era molto chiaro cosa stesse accadendo tra i due coniugi, ma Emma avrebbe mentito dicendo che, con Ruby di mezzo, tutta quella storia non avesse le sfumature di un triangolo amoroso.
Il consiglio durò ore, con una sola, breve pausa quando Frederick andò in escandescenza a causa di Emma. La ragazza, probabilmente distratta e catturata dalla discussione sulle difese militari, commise l’errore di bere dal bicchiere di Frederick, vuotandolo completamente con un solo sorso.
L’uomo non se ne sarebbe nemmeno reso conto se Oliver non avesse urlato, scandalizzato, che quel bicchiere non apparteneva a Emma.
Evidentemente, in famiglia dovevano avere più problemi con i germi di quanti la ragazza sarebbe riuscita a capire. 
Tuttavia, se in quel caso Biancaneve riuscì a tenere la situazione sotto controllo, così non fu quando giunse il momento di salutare la piccola Ethel e la donna sfiorò un attacco isterico che solo Regina riuscì a prevenire con un po’ di polso e autorità.
Non che il cuore di Regina - e di Emma - non fosse colmo di paura e timore mentre Ethel la salutava con le manine delicate strette attorno al collo e un bacio dolce sulla guancia.
Nel trambusto, spesso gli occhi di Emma finivano con l’incontrare quelli di Regina, ma nessuna delle due donne aveva il coraggio di sostenere lo sguardo dell’altra per più di qualche secondo.
Tra loro, c’erano ancora troppe cose non dette.
 
 
«L’hai addormentato?» domandò Belle, quando vide suo marito tenere Aiden tra le braccia con estrema delicatezza.
«Sì, so che vorresti salutarlo, ma-»
«Ruby me l’ha detto».
Tremotino spalancò la bocca, colto di sorpresa dalla rivelazione, poi il suo sguardo dardeggiò verso la ragazza-lupo.
«Non ne aveva alcun diritto, non è suo figlio» disse, la rabbia che montava nel suo petto ad ogni secondo.
Cosa credeva di fare, quella ragazzina?
Che Regina avesse ragione? Stava davvero provando a portargli via la sua Belle?
«No, ma è mio figlio, Tremotino. Avresti dovuto dirmelo immediatamente e di persona, non chiedere a Ruby di mantenere il segreto».
«Non era mai-»
«Tanto non ha più importanza» lo interruppe la donna, accarezzando con una mano la schiena di Aiden.
Il bambino mugugnò qualcosa, nel sonno.
Belle guardò Tremotino, paura e impotenza negli occhi.
«Il sonno attutisce le emozioni, ma non riesci a chiuderle fuori» disse l’uomo, con un sospiro.
Belle annuì.
«Ci deve pur essere qualcosa che può aiutarlo» gemette poi, scuotendo la testa.
«Mi dispiace tanto, Belle, vorrei… chiederti scusa».
«Per cosa?»
«È colpa mia se Aiden deve portare questo fardello» rispose l’uomo, guardando in basso.
Belle prese Aiden tra le braccia, per stringerlo a sé prima di consegnarlo a Abigail.
«Ti stai scusando per amare ed essere amato, Tremotino?» domandò, una punta di incredulità nella voce. «No, non è per questo che dovresti farlo».
 
 
Regina credeva che nessuno sarebbe rimasto in biblioteca dopo quel consiglio che già di per sé era stato un massacro e, soprattutto, era convinta che nessuno avrebbe sprecato le poche ore di sonno che venivano loro concesse prima dell’alba.
Nonostante la strenua resistenza opposta da Abigail, Frederick non aveva abbandonato l’idea di fare da messaggero e, a questo punto, ambasciatore di guerra.
Era partito l’istante dopo in cui la moglie aveva attraversato il portale per Storybrooke.
Nemmeno Emma pensava che qualcuno sarebbe rimasto in biblioteca dopo gli addii e i saluti, e sperava che stendersi sul divano di pelle della stanza le avrebbe concesso un po’ di tempo per pensare e, magari dormire.
Non se la sentiva di tornare nella sua stanza.
Quello che né Emma né Regina avevano considerato era che anche l’altra stava cercando un po’ di solitudine e così si ritrovarono l’una di fronte all’altra, con solo qualche metro di distanza tra loro.
Beh, qualche metro di distanza e innumerevoli cose non dette.
«Non credevo…» iniziò Emma, lasciando cadere la frase nel vuoto.
Regina la guardò, a bocca aperta, la gola secca.
«Ciao» disse infine Regina, esalando il fiato che aveva trattenuto.
«Ciao» rispose Emma.
Silenzio.
Il fuoco nel camino stava morendo e scoppiettava debolmente.
Da qualche parte, uno spiffero di vento aveva trovato il modo di infiltrarsi tra le pietre del castello e far tremolare le candele della stanza.
Il respiro di Regina era leggero, impercettibile, inudibile e la donna sembrava temesse di ferire Emma con la sua sola esistenza.
La ragazza si sedette sul vecchio divano della biblioteca.
«Puoi… Io… Io rimango qui. Puoi dormire in camera» disse Emma, deglutendo sonoramente.
«Non riesci nemmeno a rimanere nella stessa stanza con me?» domandò Regina, scuotendo la testa.
«Volevo solo essere gentile».
«E allora prova a darmi ascolto» disse Regina, facendo un paio di rapidi passi verso la ragazza.
Emma alzò gli occhi al cielo e fece un verso ironico.
«Dio, Regina, non puoi essere seria».
La donna la guardò, sentendo l’irritazione crescere dentro di sé.
«Ascoltarti?» riprese Emma. «Quindi ora hai qualcosa da dire? Non avevi nulla da dirmi quando pensavi di ucciderti, però, non è vero, Regina?!»
«Non ho pensato di uccidermi!» urlò la donna.
Sul serio, Emma ancora non era riuscita a capire quello che l’aveva portata a una scelta tanto drastica? Allora non si trattava solo della questione del cuore. Emma si stava portando nell’animo mesi e mesi di risentimento e rabbia.
«Beh, è quello che hai fatto!»
«No!»
Emma si alzò dal divano, alzando le mani come a dichiarare la sua innocenza, ma con un’espressione furiosa sul volto.
Si diresse verso la porta.
«Al diavolo, fai quel cazzo che vuoi!» gridò, afferrando la maniglia.
La porta, che Emma aveva aperto solo in parte, si richiuse all’improvviso, senza che la ragazza potesse fare nulla.
«Che co-».
I neuroni di Emma furono veloci a realizzare che Regina aveva usato la magia per impedirle di lasciare la stanza e si voltò, il viso trasfigurato dalla rabbia e dall’indignazione, verso la donna.
«Non volevo uccidermi» ripeté Regina, in tono basso e grave.
Il respiro di Emma era pesante, il sangue rombava nelle sue orecchie e lei aveva solo tanta voglia di prendere la donna che amava a pugni perché, dannazione, non aveva voglia di ascoltare le sue stronzate.
 «Quante fottute volte ti ho chiesto di parlarmene? Quante volte di ho detto che avrei potuto aiutarti? Quante, Regina? Non mi hai mai dato retta, hai sempre fatto di testa tua, sempre. E ora mi chiedi di ascoltarti? No, sono stata disposta ad ascoltarti per tanto tempo e tu hai preferito tenerti tutto per te. Bene, continua a farlo» urlò Emma, avvicinandosi all’altra donna velocemente, puntandole un dito al petto.
«L’ho fatto per te e per Henry!» gridò Regina, sentendo la vena sulla fronte che pulsava con forza, tanto da farle temere che sarebbe scoppiata da un momento all’altro.
«No! L’hai fatto perché non riuscivi a convivere con il tuo passato! E invece di chiedere aiuto a me, hai deciso di-»
«Non dirlo di nuovo, non osare! Volevo solo essere una persona migliore, perché tu potessi amarmi senza vergogna!»
«Vergogna?! Non ho mai avuto vergogna di te, Regina!»
«Sono un’assassina!»
«No, sei una donna troppo complicata per essere etichettata!» disse Emma, prima di riprendere fiato. «Ma di sicuro sei una testa di cazzo!»
Emma ansimò pesantemente.
Regina scoprì i denti sentendo quell’insulto.
«No-»
«Hai abbandonato tuo figlio!»
«Lo hai fatto anche tu!» l’accusò di rimando Regina.
«A causa tua! Perché io non posso sapere cosa c’è nella tua dannata testa, ma devo comunque venire a salvare il tuo regale culo, non è vero?»
«Non volevo che tu mi salvassi, non avevo bisogno che tu mi salvassi! Mi stavo salvando da sola!»
«Abbandonando la tua famiglia?!» disse Emma incredula, scuotendo la testa.
«No, rendendo il mio cuore meritevole di essere preso da te!»
«Sicuramente su questa parte sei stata letterale, Regina».
«Quello è stato un incidente. Se tu non avessi usato quello scellerato incantesimo, nulla di tutto questo sarebbe accaduto».
«Io?! Io ho usato un incantesimo da pazzi? Buon Dio, Regina, stai scherzando, non è vero?»
Emma sentì la gola chiudersi, come se qualcuno la stesse strozzando.
«E non usare la magia su di me!» aggiunse la ragazza, portandosi una mano alla gola.
Regina guardò gli occhi di Emma - verdi, di un verde terribilmente cupo, dilatati e iniettati di sangue - e fece un passo indietro, confusa.
«Se stessi usando la magia te ne accorgeresti, Emma» disse, senza urlare. Qualcosa non andava.
Certo, Emma era arrabbiata, ma possibile che fosse così furiosa da avere gli occhi rossi e la gola tanto contratta da non farla nemmeno respirare?
Possibile che Regina fosse in grado di spingere Emma al limite di sé stessa in modo così distruttivo?
Emma ora aveva entrambe le mani alla gola e sul suo volto non c’era più traccia di rabbia, ma solo paura e confusione.
Quello di Regina ne imitava perfettamente l’espressione.
«Fallo smettere!» riuscì a soffiare Emma, tra i denti.
Regina scosse la testa, trovando la forza e il coraggio di avvicinarsi alla ragazza per metterle le braccia attorno alle spalle.
Le gambe di Emma cedettero e lei si ritrovò in ginocchio.
Regina, colta alla sprovvista dal dover sostenere anche il peso di Emma, ruzzolò a terra con lei.
«Emma! Emma, calmati, respira con calma, Emma!»
La ragazza scosse la testa e guardò Regina, che le restituì lo stesso, impotente sguardo.
«Emma!» urlò la donna, terrorizzata. «Emma! Ti prego, Emma! Emma!».
Regina le accarezzava il volto, con gli occhi pieni di lacrime.
Emma tossì e per un istante Regina sperò che, qualsiasi cosa stesse cercando di soffocare la sua ragazza, fosse finito.
Ma le mani della donna si macchiarono di sangue, così come le labbra di Emma.
La ragazza chiuse gli occhi e si accasciò tra le braccia di Regina, che si strinse al petto la sua Emma.
Se…
Regina chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime le bagnassero il volto, scivolando poi su quello di Emma.
Attese.
Perché, se il cuore di Emma aveva smesso di battere, allora anche il suo si sarebbe fermato.
Perciò Regina attese.
Ma il suo cuore continuò a battere e i secondi divennero minuti e la paura e il senso di colpa di Regina divennero incredulità, poi sollievo.
Battevano. I loro cuori battevano. Ed era un battito flebile, un battito faticoso, perché sembrava che il cuore che risiedeva nel petto di Regina stesse battendo per entrambe, ma andava bene.
Emma era viva.
 
 
NdA
Ciao :3
Spero che il vostro 2015 sia iniziato con il piede giusto! ;D
Forse l’inizio per Emma non è stato esattamente dei migliori, ma… lol, ok, potete tranquillamente insultarmi per quello che ho combinato in questa storia.
Tutti, tranne Cla. Tu no, tu non puoi u.u

Piccola precisazione. Durante il battibecco tra Regina e Gold c'è un riferimento alla terza stagione: 
"
Regina alzò gli occhi al cielo.
«Geloso?»
«Della signorina Swan?»
"
Mentre in OUAT è Gold a chiedere "Jealous?" e Regina risponde "Of Belle?"
Non mi ricordo di che episodio si tratti, me si trovano ancora a Neverland. 

Grazie di aver letto, a presto,
Trixie. <3


 
 

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Capitolo 10
*** Per proteggere una donna ***


Capitolo X
Per proteggere una donna




 
 
«Sarebbe stato un buon Re, è un peccato debba morire così presto» sospirò Brontolo, passando il cannocchiale a David.
L’uomo se lo portò all’occhio, individuando la figura nera di Frederick a cavallo mentre si allontanava dal castello e si dirigeva al confine.
«Non sta per morire» disse il principe.
Brontolo lo guardò di traverso.
«Si sta dirigendo verso Marvos senza alcun tipo di protezione militare» gli ricordò il nano. «Morirà».
«Marvos ora occupa il castello di Mida, è vero, ma il popolo ama e adora Frederick e Abigail. Forse la gente comune non coglie le sottigliezze dei giochi di corte e crede ancora che sia il loro legittimo re, a governarli, ma sicuramente comprenderebbero un assassinio. Se Frederick dovesse morire… Sono sicuro che persino nelle file dell’esercito sotto il comando di Marvos molti si ribellerebbero. E una rivolta, con una guerra alle porte, è l’ultima cosa di cui quell’usurpatore ha bisogno».
Il nano lo guardò con scetticismo, domandandosi come David, che una volta era un semplice pastore, fosse diventato tanto bravo in politica. Sicuramente doveva aver trascorso diverse ore con Biancaneve e Regina a discutere della situazione.
Dopo qualche secondo, Brontolo sbuffò e scosse la testa.
«Quel pover’uomo morirà, in un modo o nell’altro».
Attraverso la piccola lente circolare, David vide la figura di Frederick, che si era fatta via via più piccola, scomparire.
 

«Mamma! Cosa è successo?»
Henry entrò nella loro camera come un ciclone, gli occhi sbarrati e i vestiti in disordine.
Regina, seduta sul letto accanto a Emma, si alzò di scatto nell’udire la voce di suo figlio.
Spalancò le braccia e Henry, senza nemmeno pensarci, andò da lei.
Regina non se l’aspettava.
Non l’abbraccio di Henry, perché, con Emma stesa incosciente sul letto, Regina non pensava nemmeno al fatto che tra lei e suo figlio le cose non stessero andando esattamente nel modo giusto, no.
Quello che Regina non si aspettava era che, invece di stringere il suo bambino al petto e dargli conforto, fu Henry a circondare Regina con le proprie braccia e tenerla stretta, accarezzandole la schiena a baciandole la fronte.
Fu un atteggiamento tanto inaspettato e tanto dolce, da far scoppiare Regina di nuovo in lacrime.
Nemmeno Henry si era aspettato di ritrovarsi sua madre tra le braccia in quel modo. Era così… delicata.
Trasalì, colpito dal modo in cui sua madre si affidava al suo abbraccio, da come le spalle di Regina venivano scosse dai singhiozzi.
Henry fece sedere Regina e le strinse le mani.
«Cosa è successo?» domandò di nuovo, in un sussurro.
Regina si asciugò gli occhi con un fazzoletto - un fazzoletto con il suo nome ricamato sopra - prima di rispondere.
«Tremotino dice che è stata avvelenata».
«Avvelenata?»
Regina annuì, asciugandosi di nuovo gli occhi con un fazzoletto.
«Un veleno molto comune, a dire il vero, e l’antidoto è molto semplice da preparare. Ho mandato dei soldati nei boschi qua attorno, per recuperare gli ingredienti» continuò la donna, cercando di riguadagnare la propria compostezza.
«Oh» rispose Henry. «Fantastico. Non… Non c’è da preoccuparsi, allora, giusto? Abbiamo tutto il tempo che ci serve, vero?»
Regina annuì.
«E allora perché sei così preoccupata?»
La donna esitò. Quello che aveva di fronte poteva anche avere l’aspetto di un uomo fatto e finito, con tanto di barba poco curata e voce profonda, ma era pur sempre il suo bambino e lei…
«Mamma, per favore» disse Henry, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Regina sospirò.
«Beh, per prima cosa non abbiamo idea di chi possa aver avvelenato Emma. O se Emma fosse effettivamente il bersaglio. Tremotino è convinto che il veleno si trovasse nel bicchiere di Frederick».
Henry scosse la testa.
«Emma dovrebbe stare sul serio attenta a cosa si porta alla bocca in questo castello».
«Cosa?»
«Oh, Oliver mi ha raccontato che-» Henry si interruppe e scosse di nuovo la testa. «Non ha importanza ora, una lunga storia».
Regina lo guardò dubbiosa, ma non chiese altro.
«Hanno usato un veleno talmente comune… voglio dire, c’è un motivo se è chiamato il veleno dei poveri. Tutti possono procurarselo per poche monete» disse la donna, accarezzando la mano di Emma.
«Forse Frederick ha infastidito un servitore» suggerì Henry.
Regina scosse la testa e prese un respiro profondo.
«Può darsi, Henry, ma… Insomma, tua madre non aveva preso Frederick in simpatia, è vero. Tuttavia è un brav’uomo, non credo abbia fatto torto a qualcuno in questo castello».
Henry annuì.
«Tremotino ha detto che avrebbe provato a scoprire qualcosa usando le poche gocce di liquido rimaste nel boccale di vino. Un semplice incantesimo di localizzazione dovrebbe portarlo al contenitore e, se siamo fortunati, a chi ha provato ad avvelenare Frederick» spiegò Regina.
«Perché hai fatto visitare Emma da Tremotino? Il medico non ha riconosciuto il veleno?»
«Oh, non ho nemmeno chiamato il medico, credevo… Credevo che fosse un problema legato alla magia».
Regina deglutì.
In realtà non aveva pensato alla natura dello svenimento di Emma, ma solo al fatto che Tremotino fosse l’unico, oltre a loro, a sapere del cuore e se davvero quello fosse stato il problema, un semplice medico di corte non sarebbe stato in grado di individuarlo.
«Non hai pensato che, forse, sia stato proprio Tremotino ad avvelenare Frederick? Magari ha stretto un patto con Marvos, lo sai come è il nonno».
Regina ignorò il fatto che lo avesse chiamato nonno, per quanto strana la cosa potesse sembrarle, e rifletté sulle parole di Henry.
Probabilmente, nella sua testa sarebbero sorti più dubbi di quelli che suo figlio riuscì a far nascere in quel momento, se Regina non fosse stata allieva di Tremotino per tanti anni.
Conosceva quell’uomo e per quanto i patti fossero dannatamente importanti per lui, praticamente vitali, era sicura che con Marvos, al momento, non ne aveva nessuno. Il modo con cui aveva parlato di lui, con quell’odio celato dall’arroganza e dall’aria di superiorità, erano bastati a convincere Regina che no, in quel momento Tremotino non aveva la minima intenzione di collaborare con il conte.
E poi, se anche fosse stato tanto subdolo, meschino e voltagabbana da tradirli in quel modo, Regina sapeva che avrebbe usato metodi più efficaci per il suo scopo.
«No, non credo che lui c’entri qualcosa questa volta, tesoro».
Henry annuì, poco convinto. Ma d’altronde non avrebbe potuto fare altro. Se Tremotino aveva una parte, in tutta quella faccenda, certo non sarebbe stato semplice scoprirlo, tutt’altro; l’uomo era perfettamente in grado di coprire le proprie tracce e, forse, era proprio perché il veleno dei poveri rappresentava un’arma tanto inusuale per lui che Tremotino avrebbe potuto sceglierla.
«Henry… Mi dispiace tanto» disse Regina, dopo qualche istante di silenzio.
«Lo so. Dispiace anche a me» rispose il ragazzo, evitando lo sguardo di sua madre. «I-io vado. Fammi chiamare se ci sono novità».
Henry si alzò, interrompendo qualsiasi contatto fisico con Regina. Non era pronto.
Quello che era successo a Emma aveva colpito entrambi e li aveva avvicinati, almeno un po’.
Ma la ragazza era praticamente fuori pericolo e Henry non aveva la minima intenzione di ricostruire un rapporto con Regina in quel momento.
Forse sarebbe riuscito a perdonarla, un giorno, o forse no. In ogni caso, ancora non riusciva a comprendere le ragioni del comportamento di sua madre.
Per questo Henry preferì uscire dalla stanza e andare a parlare con Oliver.
 

La porta si aprì di nuovo, e il cuore di Regina ebbe un sobbalzo.
Quando la donna incrociò lo sguardo di Tremotino, sospirò. Aveva sperato che Henry fosse ritornato per…
Per cosa non lo sapeva nemmeno, desiderava solo che Henry fosse lì con loro e che stringesse l’altra mano di Emma, parlandole del più e del meno.
Ma non si trattava di suo figlio e nemmeno dei soldati con gli ingredienti per l’antidoto e l’unica consolazione di Regina era che, per lo meno, non si trattava di Biancaneve e della sua insopportabile ansia.
Le poche ore che aveva condiviso con lei al capezzale di Emma le erano bastate per il resto della sua vita.
«Mi dispiace deludere le tue aspettative, cara» disse Tremotino, avvicinandosi a Regina con passo rigido.
Una volta accanto al letto, l’uomo fece scorrere la mano sopra il corpo di Emma, a qualche centimetro di distanza dalla sua pelle.
«La signorina Swan sta bene, considerando che è stata avvelenata da poco».
Regina annuì.
«Cosa ci fai qui?»
«Ho pensato di aggiornarti sul progredire delle mie indagini».
«Dunque, cosa hai scoperto?»
Tremotino fece schioccare la lingua.
«Innanzitutto che hai perso le buone maniere».
Regina alzò gli occhi al cielo.
«E grazie a te mia madre non è qui a rimproverarmi» rispose acidamente.
Tremotino sembrò considerare la risposta della donna, poi si strinse nelle spalle. 
«Hai ragione, non c’è tempo da perdere in sottigliezze» disse l’uomo. «Dunque, ho scoperto molte cose, durante la mia indagine. Lo sapevi che Greg, il valletto con i capelli brizzolati, e quella cameriera bruna, tanto carina, credo si chiami Lisa, vanno a letto insieme?»
Regina non rispose, continuando a guardarlo, innervosita dall’atteggiamento dell’uomo e sul punto di tirargli contro una palla di fuoco.
«Insomma, l’ultima volta che sono stato qui Greg stava per sposare Allison, ti ricordi? Quella ragazza che somiglia vagamente a Emma» continuò Tremotino, come se non avesse altra preoccupazione al mondo se non le relazioni sentimentali della servitù del castello. «Ma Allison l’ha lasciato per Remy, la figlia di Jack».
«Tremotino».
«Lo so, cara. Insomma, è scandaloso!»
«Cosa hai scoperto riguardo al veleno?» domandò Regina, scandendo ogni singola parola. «Per favore».
«Ora sì che riconosco la mia Regina» sospirò Tremotino, con un sorriso smagliante. «Dunque, per farla breve e senza suspense… è stato Oliver».
«Oliver?!»
«Sei forse sorda?»
«Non ha senso. È solo un bambino. Perché avrebbe dovuto tentare di avvelenare Frederick?»
Tremotino si strinse nelle spalle.
«Certo non sarebbero la prima famiglia con qualche problema di comunicazione».
«Devo andare» esclamò Regina, alzandosi in piedi.
In quel momento bussarono alla porta.
«Avanti» disse distrattamente la donna.
«Vostra Altezza, abbiamo trovato tutti gli ingredienti richiesti» disse un soldato con la divisa sporca di fango.
«Appoggiali su quella cassettiera. Puoi andare».
«Grazie» disse Tremotino. «Regina voleva aggiungere grazie».
Il soldato annuì, il volto in fiamme, poi posò i sacchetti di pelle che aveva tra le mani sulla cassettiera, come gli aveva ordinato la donna.
Si inchinò, congedandosi, ed uscì dalla stanza più velocemente di quanto ci fosse entrato.
«Quale è il tuo problema con le buone maniere, Tremotino?» sbottò Regina, con una smorfia di disgusto. «Ma non importa, devo andare da Henry».
«E l’antidoto per Emma?»
«Henry stava andando da Oliver. Non posso lasciare mio figlio in compagnia di un assassino!»
«Oh, Regina, ti assicuro che Henry è l’ultima persona cui Oliver farebbe del male».
«Ma-»
«Prepara l’antidoto per la tua dolce metà, cara. Mi occupo io di Oliver» disse Tremotino, con noncuranza.
«No».
Regina si avvicinò a lui, studiandolo con attenzione.
Tremotino, per tutta risposta, lasciò che la donna lo scrutasse senza scomporsi minimamente.
«Non c’entro affatto, in tutta questa storia» disse dopo qualche minuto, spazientito, come se fosse stanco di proclamare la propria innocenza.
Regina non rispose.
Doveva scegliere tra il salvare la vita della sua fidanzata o assicurarsi che quella di suo figlio non fosse in pericolo.
Avrebbe potuto allontanare Henry da Oliver e poi tornare velocemente da Emma e preparare l’antidoto che le serviva, ma se fossero sorte complicazioni e avesse perso troppo tempo…
D’altronde, non poteva lasciare suo figlio in compagnia di Oliver e sperare che non gli succedesse nulla di male.
E poi, l’idea che Tremotino avesse una parte in tutta quella faccenda iniziava a farsi strada nella sua mente, più concretamente di un semplice dubbio.
L’uomo sospirò di nuovo.                                                                                                  
«Stiamo perdendo tempo prezioso, cara» le ricordò Tremotino, in tono cantilenante.
«D’accordo» si riscosse Regina. «Occupati di Oliver».
«Saggia scelta» annuì l’uomo, dirigendosi fuori dalla stanza senza ulteriori parole.
Regina sapeva a cosa si riferiva. 
Se anche Tremotino stava facendo il doppio gioco - come ogni dannata volta che quell’uomo era coinvolto in qualcosa di sinistro e poco chiaro - affidargli la vita di Henry era l’unica scelta sensata in quel momento. Il ragazzo era suo nipote e per quanto senza cuore potesse essere Tremotino, a lui non avrebbe mai fatto del male.
Regina tornò a sedersi sul letto e baciò le labbra di Emma con delicatezza, le accarezzò i capelli, dolcemente, perdendosi per qualche secondo nella bellezza della ragazza.
Poi si riscosse e afferrò con decisione i sacchetti che i soldati le avevano portato, sospirando di sollievo dopo essersi assicurata di avere tutto il necessario.
Chiuse gli occhi.
Si concentrò sul proprio respiro fino a quando non tornò regolare.
Quando li riaprì, iniziò a preparare l’antidoto per Emma.
 

«No! Vattene!».
Henry sussultò.
Si trovava di fronte alla porta di Oliver e, tra tutte le cose che avrebbe potuto aspettarsi, certo non immaginava che lo avrebbe sentito urlare con tanta rabbia.
E poi, chi c’era in camera con il ragazzo?
«Lasciami stare, ti prego!»
Di sicuro non si trattava di qualcuno di cui Oliver gradiva la compagnia.
Henry fece per entrare, ma un tocco sulla spalla lo fece sussultare.
Si voltò di scatto, portando la mano all’elsa della spada, estraendone in parte la lama.
«Ciao, Henry» disse Tremotino, sorridendo.
«C-ciao».
La spada di Henry tornò nel proprio fodero.
«Ho sentito Oliver urlare, credo che-»
«Oh, non preoccuparti di Oliver, caro. Piuttosto, tua madre mi ha mandato a cercarti» disse Tremotino, guardando il pavimento con fare noncurante.
«Regina?»
«Beh, sì. L’altra è mezza morta» rispose l’uomo. «Anzi, credo che la cosa riguardi proprio Emma».
«Emma?»
«Ragazzo, sei mio nipote, ti facevo un po’ più sveglio!» esclamò Tremotino. «Corri, su, forza!»
«Ma, Oliver-» tentò di protestare, Henry.
«Me ne occupo io, sarà solo un incubo».
Henry decise di ignorare l’uomo e si voltò per entrare nella stanza di Oliver.
Solo pochi minuti e poi sarebbe volato da Regina e Emma.
«Va’ ora, Henry. Regina sembrava sul serio sull’orlo della disperazione» lo fermò Tremotino, guardandolo con sguardo penetrante.
«Io-»
«Va’!»
Henry si mise a correre in direzione della stanza di Emma e Regina.
Che fosse successo qualcosa di grave?
La situazione era più tragica di quello che sembrava?
E perché Regina aveva mandato Tremotino?
L’uomo era senza dubbio sinistro e sua madre… Non stava tornando ai giorni da Regina Cattiva, vero?
Henry imprecò, correndo.
Non avrebbe dovuto lasciare Tremotino solo con Oliver.
Dio, lo stava ingannando.
Henry cambiò direzione, scivolando sul pavimento di pietra e riuscendo a rimanere in piedi per un caso fortuito.
Corse ancora più velocemente, tornando verso le stanze di Oliver.
Quando vi arrivò, la porta era spalancata, ma non c’era alcuna traccia del ragazzo.
O di Tremotino.
 

Foresta Incantata, qualche decennio prima.
«Tremotino».
L’uomo, che era appena comparso nella stanza da letto del conte Marvos in una nuvola di fumo viola, fece un inchino artificioso e ironico.
«Conte Marvos».
«A cosa devo la vostra… apparizione, esattamente?» domandò il conte, sedendosi accanto al camino spento in quella calda giornata primaverile.
Tremotino iniziò a camminare qua e là, osservando con disgusto come ogni centimetro di quella stanza trasudasse ricchezza e completa mancanza di buon gusto in ogni sua forma.
«Esattamente? Oh, beh, a questo e a quello. Lunga storia, io direi di farla breve» rispose Tremotino, accarezzando le tende di broccato con fili d’oro con fare dubbioso.
Il conte Marvos annuì e fece un gesto con la mano, invitandolo a proseguire.
«Voglio la Lancia di Achille» rispose Tremotino, con un sorriso.
«Appartiene alla mia famiglia da molte generazioni. Quella lancia non ha mai abbandonato questo castello se non per essere brandita in guerra da giovani rappresentanti della nostra stirpe. Mi-»
«Sì, sì, sì» cantilenò il Signore Oscuro. «Non mi importa. La voglio».
«Non-».
«Lasciate che vi spieghi una cosa, conte Marvos» lo interruppe nuovamente Tremotino, spostandosi dietro lo schienale della poltrona su cui l’altro uomo era seduto.
Un brivido corse lungo la schiena del conte. E sicuramente non era dovuto al freddo.
«Oggi mi sono svegliato di buon umore, sapete? La mia» riprese Tremotino, esitando per una frazione di secondo sulla parola che avrebbe seguito “mia”, «governante questa mattina mi ha fatto trovare un’ottima colazione, davvero preparata a puntino. Così mi sono rilassato un po’. Cosa assai rara, per un Signore Oscuro, ma fortunatamente a volte capita. Ad ogni modo, stavo riflettendo sul modo migliore per risolvere un paio di questioni. Ordinaria amministrazione, per una persona nella mia posizione, certo non pretendo che voi possiate capire. Pertanto, credo sia opportuno saltare tutte le spiegazioni del caso e passare al succo del discorso, caro. Mi serve la vostra lancia e, invece di presentarmi a voi e strapparvi il cuore dal petto per farmela consegnare senza tante cerimonie, ho pensato di chiedervela con gentilezza».
Tremotino si mosse, mettendosi nuovamente davanti al conte Marvos, gli occhi puntati sul petto dell’uomo.
«A voi la scelta, signore» proseguì poi, con una risatina isterica. «Io voglio la Lancia di Achille».
Marvos deglutì visibilmente.
«Tic-toc, tic-toc, il tempo scorre veloce, mio caro conte».
«Perché non stringere un… accordo?» tentò Marvos.
Una piccola goccia di sudore scivolò lungo la sua fronte. Era terrorizzato dall’idea di vedersi il suo cuore strappato dal petto, certo, ma quella lancia… Non serviva solo a trafiggere soldati avversari in guerra ed entrambi lo sapevano bene.
Tremotino rise di nuovo, elettrizzato.
«Un accordo?»
«Vi presterò la lancia, per… un anno, diciamo» iniziò Marvos, «e come garanzia della vostra buona fede, mi consegnerete il Vello d’Oro».
Tremotino sospirò, alzando gli occhi al cielo.
«Uno ci prova anche, a non usare le maniere forti» disse, come se stesse parlando tra sé e sé. «Ma poi…»
Il Signore Oscuro scosse il capo, come se davvero non vedesse altra soluzione al suo problema se non la violenza.
«Aspettate!» urlò a quel punto Marvos, con voce acuta, tanto da poter essere scambiata per quella di una donna. «Ripensandoci…»
Tremotino sorrise e indicò la porta con la mano.
«Fate strada, prego».
Marvos si alzò dalla poltrona su cui era seduto e precedette Tremotino fuori dalla camera con sguardo rassegnato.
«Quella lancia ha molti… poteri» disse Marvos, cautamente.
«E io ne ho notato uno proprio in questo momento» commentò Tremotino, entusiasta, osservando una massa scura che si muoveva lungo i muri, scivolando sul pavimento e risalendo fino al soffitto, che accompagnava Marvos in ogni momento.
Non aveva forma precisa. Sembrava piuttosto una massa bidimensionale, nera come la pece e ripugnante come tutto ciò che non dovrebbe appartenere al mondo degli esseri viventi.
Tremotino sapeva che non si trattava di altro se non della coscienza di Marvos.
Le antiche tradizioni della famiglia del conte, infatti, imponevano che il primogenito maschio venisse separato da essa durante la prima luna piena della sua vita, proprio attraverso la Lancia di Achille.
Si riteneva che in questo modo il giovane, privo di coscienza, sarebbe stato indomabile in battaglia.
«Già» confermò Marvos. «Ma non è mai stata usata su un adulto, vi devo avvisare. La coscienza di un neonato, ancora immacolata, è cosa ben diversa dalla coscienza di un-».
«Oh, mio caro conte. Certo non voglio usarla su me stesso!» esclamò Tremotino, scandalizzato. «Ma per onor di cronaca, vi garantisco che la mia coscienza è pulitissima. Non l’ho mai nemmeno usata!»
Tremotino rise di nuovo, istericamente.
Il conte Marvos deglutì e aprì una porta d’oro massiccio, presidiata da quattro guardie.
«Qui dentro».
Tremotino lo superò e afferrò la Lancia di Achille dalla teca in cui era custodita.
Marvos distolse gli occhi, incapace di sopportare una tale profanazione dei beni della sua stirpe.
«La avrò mai indietro?» domandò, con un filo di voce.
Il Signore Oscuro spostò lo sguardo su di lui.
«Oh, sperate solo di non rivedere mai più il mio volto, caro. La vostra arroganza mi ha oltremodo nauseato e vi assicuro che non dimenticherò quanto siate stato indisponente di fronte alla mia gentilezza, se mai ci incontreremo nuovamente».
E in una nuvola di fumo viola, Tremotino era scomparso e la Lancia di Achille con lui.
 

«Lasciatemi, vi prego, io non-»
«Sì, sì, tu non volevi, lo so. L’ho sentita molte volte questa solfa» tagliò corto Tremotino, chiudendo la grata della cella in cui aveva posato malamente Oliver. «Stavi parlando con la coscienza del conte Marvos, non è vero?»
Oliver lo guardò, con gli occhi spalancati e il terrore nel cuore, ma non rispose.
Tremotino scosse la testa.  
 

 
Foresta Incantata, qualche decennio prima.
Voleva usare la lancia su Belle.
Non voleva farle del male, questo no, non le avrebbe mai fatto del male.
Voleva solo… tenerla con sé per sempre.
Lui era il Signore Oscuro e la vita eterna è uno dei molteplici benefit che si ottengono assumendo tale titolo.
Ma la sua Belle… Beh, la sua Belle, prima o poi, sarebbe invecchiata e avrebbe chiuso gli occhi. Per sempre.
E questo a Tremotino non piaceva, per nulla.
Perciò gli serviva la Lancia di Achille, con una punta tanto acuminata da poter trafiggere persino quelle parti di un essere umano che mai dovrebbero essere sfiorate mentre è in vita.
La coscienza, come Tremotino ben sapeva, era solo uno dei tanti livelli di un essere umano che potevano essere separati da un corpo mortale e certo non era quello che a lui interessava.
Guardò Belle, con il viso di porcellana e le labbra rose. Dormiva tranquillamente.
Fu tentato di accarezzarle una guancia ma, così facendo, temeva di svegliarla.
Invece, si sedette su una vecchia sedia di legno in un angolo della stanza, con la Lancia di Achille tra la mani e la tazzina di tè, quella che lei aveva scheggiato, in bilico sul ginocchio.
La giovane non avrebbe sentito nulla, solo uno strappo, come quando si rimuove un cerotto dalla pelle, e la giovinezza di Belle sarebbe rimasta intrappolata in quella piccola, semplice tazza per l’eternità.
Tremotino sospirò.
Naturalmente, non ne aveva parlato a Belle.
Perché lei... Lei sicuramente non aveva intenzione di passare l’eternità con una bestia quale era lui.
Ma lui…
Quella notte, non usò la Lancia di Achille.
E nemmeno la notte seguente o quella dopo ancora.
Fino a quando Tremotino non si ritrovò in quella stessa stanza fredda e vuota, solo.
E Belle se n’era andata per sempre.
 

«Ti chiami Oliver, giusto?»
Il ragazzino annuì.
«Bene, stammi a sentire Oliver. Potrai anche aver preso in giro mio nipote con quei tuoi occhi chiari e l’aria innocente, ma ora hai davanti un uomo che ha perso il conto dei propri anni e trova insopportabile il conte Marvos. Quindi, vuoi spiegarmi per quale motivo hai deciso di lavorare per lui?»
«Non lavoro per lui» disse il giovane, con un filo di voce.
«Ti sta ricattando».
Non era una domanda, quella di Tremotino, ma un’affermazione.
Oliver abbassò lo sguardo.
«Come vuoi. Tieni pure la bocca chiusa, ragazzo, ma fino a quando non ci dirai tutto quanto, te ne starai in questa cella» annunciò Tremotino, non riuscendo a trattenere un accenno di risatina isterica.
Il giovane si rannicchiò in un angolo, portandosi le ginocchia al petto.
E l’uomo se ne andò.
 

Foresta Incantata, qualche giorno prima.
Aveva cercato la Lancia di Achille per tutto il suo vecchio maniero, ma non l’aveva trovata.
In realtà, la maggior parte dei manufatti che aveva collezionato con tanta pazienza nel corso di anni e anni di affannosa ricerca erano scomparsi, ma in quel momento, a Tremotino non importava.
Lui voleva solo la Lancia di Achille.
Sarebbe stato difficile convincere Belle a usarla su Aiden per separare da lui quella parte di anima che aveva ereditato dal padre, ma era indispensabile per contrastare l’innaturale capacità del bambino, e alla fine Tremotino sapeva che la donna avrebbe preso la decisione migliore per suo figlio.
E certo non si aspettava che Marvos avesse l’audacia di trafugare quella lancia. Eppure Tremotino aveva avvisato quel conte da strapazzo.
La rabbia di Tremotino fece crollare una delle ormai traballanti colonne del castello.
A quanto pareva, era ora di dare una lezione a quel dannato conte.
 

La porta della stanza si spalancò con forza, facendo sussultare Regina.
Grazie al cielo, la donna ebbe sufficiente sangue freddo per non rovesciare l’ampolla di antidoto che aveva appena terminato di preparare.
«Henry, che cosa-»
«Oliver è scomparso!»
Il ragazzo chiuse la porta, avvicinandosi alla madre.
«Cosa?» domandò Regina, confusa.
«Oliver è scomparso» ripeté il ragazzo, il petto ansante e i capelli scompigliati. «Tremotino mi ha ingannato e quando me ne sono reso conto, era già troppo tardi».
Regina spalancò la bocca.
Naturalmente.
Tremotino certo non aveva perso tempo per spiegare al nipote che quel ragazzino, per chissà quale contorta ragione, aveva tentato di avvelenare Frederick e aveva finito con il fare del male a Emma.
Aveva preferito lasciare il compito a lei.
«Oliver non è scomparso, Henry» rispose infine Regina, posando l’ampolla di antidoto per maggior sicurezza.
Il ragazzo la guardò confuso.
 «Vedi, tesoro, crediamo che sia stato Oliver a versare il veleno nel bicchiere di Frederick».
«No!» esclamò all’improvviso Henry. «No! Non capisci? C’è Tremotino dietro tutto questo! Prima Frederick, poi Oliver e sicuramente sta escogitando un modo per fare del male ad Abigail. Lavora per Marvos!»
Il ragazzo aveva iniziato ad urlare, un’espressione incredula sul volto.
«Henry, calmati, per favore».
«Oliver non farebbe mai una cosa del genere, mai!»
«Forse ha avuto le sue buone ragioni per farlo. Tremotino ha seguito le tracce lasciate dal veleno e queste lo hanno portato a Oliver. Sono sicura che il tuo amico potrà spiegarci ogni cosa» disse Regina, cercando di sopprimere la rabbia che provava nel petto nei confronti del cugino di Abigail.
Non sapeva cosa avesse spinto Oliver a voler avvelenare Frederick, né se ci fosse un motivo valido che giustificasse almeno in parte il suo comportamento, ma il fatto era che le azioni del ragazzo avevano finito con il far del male alla sua Emma e questo non riusciva a tollerarlo.
Henry scosse la testa, disgustato.
«Non sei mai cambiata, non è vero? Mai. Non per me, non per Emma, per nessuno. Al diavolo».
Il ragazzo corse fuori dalla stanza prima che Regina potesse fermarlo, urtando Tremotino sulla soglia.
Henry era talmente sconvolto da non realizzare nemmeno la presenza dell’uomo.
«Non l’ha presa bene, eh?» commentò il Signore Oscuro, guardando Regina.
La donna decise di ignorarlo.
«Dove è Oliver?»
«Oh, nelle segrete» rispose Tremotino, con noncuranza. «Non hai ancora svegliato la signorina Swan?»
«Sono stata interrotto da mio figlio che è tornato ad odiarmi più che mai grazie a te».
«È solo un adolescente con gli ormoni in subbuglio e una cotta per la persona che ha fatto del male a sua madre. Curioso come la storia si ripeta in continuazione» commentò Tremotino in tono leggero, alludendo al fatto che Emma si fosse innamorata delle donna con cui Biancaneve condivideva un turbolento passato.
«Come, prego?»
«Oh, lascia stare» disse Tremotino, liquidando la questione. «Piuttosto, cosa ne dici di risvegliare Riccioli d’Oro, qui?»
«Riccioli d’Oro era una gran smorfiosa» disse Regina con disgusto, recuperando l’antidoto e avvicinandosi a Emma.
«Io vado a recuperare mio nipote» sospirò Tremotino. «Scommetto che è andato a lamentarsi da David e Bincaneve. I giovani d’oggi non hanno più spina dorsale».
L’uomo fece per uscire dalla stanza, ma all’ultimo secondo sembrò ripensarci e si voltò verso Regina.
«E se vedi qualche strana ombra svolazzare qua e là, fammi chiamare».
La donna annuì, troppo preoccupata per Emma e desiderosa di svegliarla, per fermarsi a riflettere su quello che Tremotino le aveva detto.
 

Emma tossì.
Regina, seduta accanto a lei, la stava sostenendo per le spalle e accarezzando i capelli biondi.
«Ehi» le disse dolcemente, quando infine la ragazza aprì gli occhi.
Emma le sorrise.
«Che diamine è successo?» domandò poi, con voce roca, pulendosi la bocca con il dorso della mano.
«Sei stata avvelenata, tesoro» rispose Regina, pulendole con l’indice l’angolo della bocca, dove c’era ancora una goccia di antidoto.
«Scherzi?»
Regina scosse la testa.
«Credevo che ci sarebbero state molte più persone al mio capezzale, sai. I miei genitori, almeno. Forse mio figlio. Qui gli avvelenamenti sono all’ordine del giorno?».
«Non esattamente. Ad ogni modo, dovrai farti bastare me, mi dispiace. C’è qualche piccola questione che li sta tenendo occupati» rispose Regina, sospirando e pensando a Oliver.  
Emma la guardò e rimase in silenzio per qualche secondo.
«Stavamo… litigando» disse infine, accigliandosi.
Regina deglutì, prima di annuire.
«Ma non pensarci, ora, Emma. Riposa».
«No, Regina…»
Emma le afferrò una mano, delicatamente, e se la portò alla bocca per baciarne il palmo.
«Lo so che abbiamo qualche problema e che ho detto… molte cose. Cose poche carine. E anche tu le hai dette» proseguì Emma, la voce ancora gracchiante. «Ma io ti amo e… sistemeremo tutto quanto, lo sai?»
Gli occhi di Regina si riempirono di lacrime e la donna sorrise, sporgendosi a baciare la fronte della ragazza.
«Ti amo anche io, Emma».
I muscoli della ragazza si rilassarono e le sue labbra cercarono quelle di Regina, trovandole, appena tremanti, appena salate, perché qualche lacrima aveva iniziato a rigare il volto delle donna.
La baciò, dolcemente e a lungo e Regina rispose al bacio, chiedendosi come Emma potesse farle mancare il fiato in quel modo, ogni volta.
«Regina?» sussurrò poi Emma, interrompendo il bacio.
«Sì?».
La ragazza appoggiò la propria fronte contro quella della donna, e le punte dei loro nasi si sfiorarono.
«Sei sempre stata più che abbastanza, per me». 



NdA 
Come sempre un grazie a Dops per il betaggio ;D 
Un breve appunto. La Lancia di Achille non è un manufatto mitologico che mi sono inventata, quello che però ho creato è il suo bagaglio di proprietà. Secondo il mito - e secondo Dante - la Lancia sarebbe semplicemente in grado di sanare una ferita inferta da essa stessa. 
Inoltre, quando Tremotino parla delle relazioni all'interno del castello (Greg, Lisa, Allison e Remy) sto facendo riferimento a un altro telefilm. Vediamo se indovinate quale ;D 
Grazie a tutti voi per le recensioni e per aver letto, 
a presto, 
Trixie. 


 
 

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Capitolo 11
*** Per fuggire da una stanza ***


Capitolo XI
Per fuggire da una stanza
 
 

La stanza era buia e l’unica fonte di luce era rappresentata dalle braci morenti in un camino di pietra.
Faceva molto freddo e i tentativi di Frederick di arrestare il fremere del suo corpo causato dai brividi davano scarsi risultati.
Tossì e qualcosa gli sfuggì dalle labbra.  
Con orrore, si rese conto che quello che ora giaceva a terra era uno sei suoi denti.
Sputò il sangue, che gli aveva riempito la bocca in pochi secondi sospettando che non tutto provenisse dalla gengiva che aveva appena perso uno dei suoi componenti.
«Sei Frederick, non è vero? Epicari, si tratta di Frederick?»
Quella voce maschile, proveniente dalla sinistra dell’uomo, era stanca e roca, ma Frederick la riconobbe subito.
«Sì, Sire, sono io, sono Frederick!» esclamò il giovane immediatamente, cercando di scrutare nell’oscurità la figura del suocero. Strisciò in avanti, con attenzione.
Non aveva idea di quanto quella stanza fosse grande e preferiva non fidarsi del proprio udito per calcolare una distanza approssimativa tra lui e Mida. Non sapeva nemmeno se ci fossero ostacoli, sul suo cammino.
Gli uomini di Marvos non si erano certo risparmiati nell’accarezzargli le spalle, come aveva detto il conte. Frederick, in vita sua, non ricordava d’aver mai provato un dolore tanto intenso.
Gli uomini di Marvos erano stati brutali, certo, ma non feroci. Non lo avevano colpito per uccidere né lo avevano fatto alla cieca, tutt’altro. Avevano sferrato ogni calcio e assestato ogni pugno con precisione millimetrica, attenti a procurargli quanto più dolore possibile, senza mai rischiare di strappargli la vita.
Era stata un’agonia, un’agonia che era finita solo quando il suo corpo aveva reagito per proteggersi dal dolore e gli aveva fatto perdere coscienza.
Si era risvegliato quando lo avevano gettato sul pavimento freddo di quella stanza. O forse avrebbe dovuto chiamarla cella?
«Avvicinati, figliolo, avvicinati. Epicari, sii cara, aiutalo».
Una figura si mosse nell’oscurità e, qualche istante dopo, Frederick sentì un fruscio di abiti che gli sfioravano il volto per poi allontanarsi.
Epicari si chinò di fronte al camino, oscurandolo, poi afferrò quella che aveva l’aria di essere una rudimentale torcia a fuoco e tentò di accenderla con ostinazione.
Frederick pensò fosse tempo perso, ma non disse nulla durante i lunghi minuti che seguirono.
Alla fine, la torcia prese fuoco, quasi timidamente e, anche se il chiarore che emanava aveva di per sé un che di agonizzante, fu abbastanza per illuminare il volto di Epicari.
Era una ragazza dal volto ossuto, aguzzo, con gli zigomi che sembravano sul punto di bucare la pelle e gli occhi talmente infossati che per un momento Frederick temette le fossero stati cavati.
Aveva la pelle scura e i capelli erano stati raccolti all’indietro, probabilmente legati dal pezzo di stoffa che era stato strappato dal suo semplice vestito da cameriera, il quale sicuramente aveva visto giorni migliori.
In un lampo, Frederick la vide. La vide come l’aveva vista quando aveva lasciato il castello con Abigail, un’immagine che sembrava provenire da un altro universo.
Allora, Epicari era una giovane con la risata pronta, il seno prosperoso e lunghi ricci neri lasciati cadere sulle spalle e tenuti lontano dal viso con una semplice fascia che scompariva dietro le orecchie, in quel groviglio indomabile di capelli.
Lui, Frederick, non le aveva mai prestato particolare attenzione, ma Abigail la trovava particolarmente simpatica e spesso le aveva fatto piccoli regali, di quelli che si fanno alle cameriere, come vecchi bustini che ormai erano stati sostituiti da altri, in accordo con la moda del momento o sandali con la punta appena rovinata, che certo una principessa non avrebbe potuto indossare.
Epicari si avvicinò a Frederick e gli porse la mano, tentando di sorridere, ma tutto quello che vide l’uomo fu un teschio con uno strano ghigno, reso ancora più spettrale dalla luce fioca.
Ciò nonostante, Frederick accettò la mano della ragazza e si mise in piedi, con difficoltà, ricacciando la bile nello stomaco e aspettando che il violento capogiro che lo prese passasse.
Epicari lo sostenne, con più forza di quanta l’uomo si sarebbe mai aspettato da una ragazza nelle sue condizioni, poi lo guidò cautamente attraverso quello strano luogo.
«Sedetevi qui, principe Frederick» lo invitò lei, illuminando a beneficio dell’uomo una piccola porzione di pavimento ricoperta da pagliericcio.
La ragazza si sistemò di fronte a lui, reggendo la torcia tra le mani con attenzione.
«Mi dispiace non poterti offrire nulla di meglio, ragazzo mio» commentò Mida, accanto al quale Frederick capì di essersi accomodato. «Come stai? Cosa ti hanno fatto? La mia Abigail è al sicuro, vero? Il bambino è già nato? Sta bene?»
«Abigail sta bene» lo rassicurò immediatamente Frederick, sentendo la mano del suocero cercare la sua. L’uomo più giovane la strinse istintivamente. «Si trova in un posto sicuro. Il bambino non è ancora nato».
«Bene, bene. Sapevo che li avresti protetti, ragazzo mio. Perché non sei con loro?»
«Serviva qualcuno che portasse un messaggio a Marvos».
«Per questo esistono i messaggeri».
«Volevo anche… vedervi, signore».
«Non avresti dovuto. Sei il padre di mio nipote e il marito di mia figlia. Avresti dovuto metterti al sicuro con loro. Non possono perderti. Perderanno già un padre e un nonno, non permettere che a loro non rimanga nessuno al mondo che li ami».
Frederick sospirò.
«Dobbiamo sal-».
«No, non dobbiamo fare nulla. Scommetto che gli uomini di Marvos hanno fatto un bel lavoro anche con te, non è vero?»
«Sì, ma-».
«Epicari, sii cortese, illumina il viso di mio genero e dimmi cosa vedi».
«Subito, Sire» annuì la ragazza, avvicinando la torcia al volto di Frederick, permettendo in questo modo al ragazzo di scorgere Mida e i suoi lineamenti trasfigurati dalla fame e dai maltrattamenti.
Per un secondo, l’uomo più giovane pensò che anche gli occhi del genero fossero talmente infossati che quasi sparivano nel cranio, ma un guizzo della torcia illuminò Mida con più chiarezza e Frederick capì.
«Sire, voi non… Non mi vedete».
«Mi hanno cavato gli occhi, ragazzo mio e poi mi hanno cucito le palpebre. Ho detto a Marvos che lui non avrebbe mai più visto mia figlia, che non avrebbe mai messo le sue luride grinfie su di lei e lui ha ordinato questo, per assicurarsi che nemmeno io l’avrei rivista. Mai più».
 
«Hai chiuso quel ragazzino in una cella?!» sbraitò Belle furiosa, in direzione di Tremotino.
Era la prima volta dopo giorni che la donna gli rivolgeva direttamente la parola e il gelo calò sulla stanza, lasciando che a riempire l’aria fossero lo scoppiettio del fuoco e lo sgranocchiare appassionato di Emma Swan.
La ragazza era ancora a letto, dal momento che Regina non aveva voluto sentire ragioni sul fatto che lei abbandonasse quella stanza per partecipare ad un estenuante consiglio. Così Ruby aveva avuto la bella idea di portare il consiglio in camera di Emma. Il che aveva svelato che anche Regina poteva avere un aspetto pericolosamente lupesco, soprattutto quando si trattava di proteggere le persone che amava.
Ruby, non solo l’aveva ignorata, ma aveva anche portato a Emma un sacchetto di quelli che erano a tutti gli effetti dei pop-corn, mais fatto scoppiare sul fuoco con un particolare retrogusto di fumo e fuliggine che a Emma non dispiaceva poi molto.
Così, quando la tensione tra i presenti divenne talmente densa da poter essere tagliata con un coltello, Emma si ritrovò a sgranocchiare rumorosamente i propri pop-corn fino a quando Regina non le assestò una leggera gomitata tra le costole che tuttavia la fece deglutire con violenza.
Emma si girò verso di lei con gli occhi spalancati e increduli - cosa ho fatto ora di male?! -, ma prima che la ragazza potesse chiedere spiegazioni, Tremotino parlò.
«Oliver ha tentato di uccidere un membro di una Casa Reale e ha quasi fatto fuori l’esponente di un’altra. Normalmente, questo avrebbe significato l’impiccagione. Io mi sono solo assicurato che non potesse fare del male a nessun’altro» rispose con tono piatto l’uomo, guardando dritto davanti a sé con distacco, per non dover posare lo sguardo su Belle.
«È solo un ragazzino!» protestò, con voce acuta, sua moglie.
«Fallo uscire da lì» intervenne una terza voce, bassa e minacciosa, colma di rabbia.
A parlare era stato Henry.
Emma mise da parte i pop-corn e strinse la mano a Regina.
«Ha quasi ucciso tua madre, Henry, non possiamo sempl-»
«Non voleva ucciderla! E non è stato lui! Sei stato tu, sei sempre tu!» lo accusò Henry, mettendosi a urlare e alzandosi dallo sgabello di legno con una mossa così repentina da far sussultare violentemente Regina.
Il ragazzo coprì i pochi metri che lo separavano da Tremotino con poche, ampie falcate, tentando di sfoderare la spada mentre si avvicinava all’uomo, ma all’improvviso Henry venne sollevato in aria, e entrambe le mani lasciarono perdere elsa e fodero e saettarono alla gola, nel disperato tentativo di  liberarsi da qualsiasi cosa stesse tentando di soffocarlo.
Tremotino aveva una mano alzata nella sua direzione.
Emma scattò e Regina si alzò a sua volta, una palla di fuoco che si era materializzata nelle sue mani con velocità fulminea e gli occhi che sembravano sul punto di incendiarsi a loro volta.
Non disse nulla, Regina. Rimase ferma, con il fuoco che le danzava tra le dita, lingue di rancore e odio che emergevano dal suo passato, dal ricordo di Cora che usava la magia su di lei, dall’orrore di vedere il suo stesso figlio alle prese con un incubo dal quale aveva giurato di proteggerlo.
Tremotino lasciò andare Henry con uno sbuffo annoiato e il ragazzo cadde a terra, ansante. Emma si affrettò nella sua direzione per aiutarlo a rimettersi in piedi, così come Ruby.
Le lingue di fuoco lambivano ancora la pelle di Regina. Tremotino sorrise leziosamente nella sua direzione, come se si stesse divertendo.
«Regina» la chiamò infine Emma, facendo un passo verso di lei. «Ehi, Regina».
Il fuoco nelle mani della donna si ridusse lentamente, fino a scomparire del tutto.
«Portate via quel ragazzino dalle segrete» disse infine Regina rivolta alle guardie appostate ai lati della porta, senza mai staccare gli occhi da Tremotino. «Mettetelo nella sua vecchia stanza, assicuratevi che sia trattato con ogni riguardo e che non gli manchi nulla. E fate in modo che ci siano sempre delle guardie, con lui. Una fuori dalla stanza e una dentro».
«Non sei nella posizione di poter dare ordini» le ricordò Tremotino, facendo schioccare la lingua. «I nostri cari Regnanti sono impegnati ad organizzare le difese militari e durante il tempo che servirà a cercarli e chiedere loro consulto, prop-»
Emma si schiarì la gola.
«Non ho ancora capito a chi appartenga il culo che dovrebbe sedersi sul trono di questo castello, Tremotino, ma in quanto madre del futuro Re, fidanzata di Regina e figlia di Biancaneve e del Principe» elencò Emma, sperando di non aver dimenticato nessuna delle qualifiche che tutti continuavano ad affibbiarle, «ritengo di avere il potere di prendere questo tipo di decisioni; perciò ordino che venga fatto tutto ciò che ha detto Regina. Belle, puoi occupartene immediatamente, non è vero?»
«Certamente» confermò la ragazza, dirigendosi verso la porta senza degnare di uno sguardo suo marito. «Nonostante tutto, ricordo ancora cosa significhi essere gettati nelle segrete da Tremotino».
L’uomo si accigliò appena, mordendosi le labbra probabilmente per trattenere una risposta velenosa o, forse, delle scuse inutili e fin troppo tardive.
«Vado con lei» disse invece Henry risoluto.
«Cosa?» domandò Emma, il cui figlio le era scivolato dalle braccia con una rapidità impressionante. «Henry, non-»
Il ragazzo aveva ormai raggiunto Belle ed era uscito dalla stanza con lei.
«Vado con loro» disse allora Regina, cercando la fidanzata con lo sguardo per essere rassicurata.
Emma annuì.
«Così» disse Tremotino, con voce carezzevole dopo che anche Regina ebbe abbandonato la stanza, «ti fidi di Oliver al punto da lasciarlo girovagare libero per il castello, ma non abbastanza perché possa godere della compagnia di tuo figlio?»
«Dovresti andartene prima che decida di imitare i miei genitori gettandoti in una cella nei sotterranei, Tremotino».
L’uomo rise.
«Ero in quella cella perché volevo esserci, Emma» sottolineò Tremotino, voltandosi e facendo un gesto di saluto con la mano mentre anche lui usciva dalla stanza.
Ruby fece un gesto disgustato nella sua direzione, prima di dare una pacca sulle spalle di Emma.
«Wow, Swan» commentò la ragazza lupo. «Non capirai nulla di diritto politico, ma quando si tratta di tirare fuori le palle fai quasi più paura di Regina-ti-ucciderò-dovesse-essere-l’ultima-cosa-che-faccio-Mills». 
«Ruby!» esclamò Emma scandalizzata.
«Beh, è vero».
«Questo non importa, il fatto è che non puoi mettere tante parole tra il nome e il cognome, l’ho detto anche a Regina! Se fai così, se dici il nome, poi ci metti un quarto del dizionario e poi chiudi con il cognome, la cosa perde di efficacia».
«Non è vero!» protestò Ruby.
«Sì, che è vero! Hai detto Mills e io avevo dimenticato cosa c’era dopo Regina
Ruby la guardò, scuotendo la testa.
«Per quanto la cosa non mi stupisca, Emma, dovremmo rimandare questa discussione a più tardi. Pensavo di tenere d’occhio Tremotino. Cosa ne dite, Vostra Meastà? Ve la sentite di affidarmi questo compito?» domandò Ruby, sogghignando.
«Oh, smettila con le stronzate, Rubs. Ad ogni modo, credo sia una buona idea tenere d’occhio Gold, verrò con te».
«Ah, no, cara, non voglio aggravare la mia posizione agli occhi di Regina, già mi accusa dell’eccessivo colesterolo che hai in circolo».
«Il mio colesterolo va benissimo così come è e io mi sento splendidamente. Andiamo, Rubs!»
«No!»
«Ruby, ti prego!»
«Ho detto di no».
«Devo sgranchirmi le gambe».
«Torna a letto, Emma Swan!»
«Regina non lo verrà mai a sapere».
Ruby la guardò in modo significativo per qualche secondo, con la testa inclinata.
«Ok, Regina lo verrà a sapere» concesse Emma, «ma abbiamo un vantaggio di almeno un paio d’ore, prima che lo scopra».
«Regina lo verrebbe a sapere nel giro di un paio di minuti, Emma. Torna a riposare».
«Ruby, credevo fossimo amiche!»
«Ciao, Emma!» la salutò la ragazza lupo, prima di lasciare Emma sola nella sua stanza a valutare i rischi e i vantaggi di lasciare la sua camera di nascosto da Regina.  
 
«Dovremmo spostare un paio delle truppe da qui» disse David, indicando su una mappa una zona pianeggiante poco lontano dal castello, «a qui» completò, scivolando verso destra con la mano fino a posarla su una verde collinetta.
«No» disse sua moglie. «Sappiamo che Marvos attaccher-»
«Non sappiamo da dove Marvos attaccherà» la interruppe immediatamente David. «E tenere i soldati su quell’altura è la scelta migliore. Maggiore visibilità, minor rischio di un attacco a sorpresa».
«Dobbiamo evitare  un assedio ad ogni costo, David, e tenere la battaglia in campo aperto. Dobbiamo sistemare un’efficace linea di attacco qui» insistette Biancaneve, prendendo la mano del marito e sistemandola nuovamente sulla zona pianeggiante, «senza risparmiarci nulla. Spostare uomini sulla collinetta è una strategia difensiva che non possiamo adottare. Permetterà all’esercito di Marvos di avanzare fino a un limite pericolosamente vicino al castello e sono sicura che una sezione delle sue truppe è stata addestrata a scalare mura e infiltrarsi nei bastioni, per cercare Abigail e Olliver».
«Il castello è protetto da una barriera magica, che a breve verrà rinforzata. Non c’è pericolo di-»
«Non possiamo sostenere un assedio, David. Non possiamo rischiare, nemmeno remotamente!»
«Non stiamo rischiando, saremo in grado di schiacciarli dall’alto della collinetta!»
«Sì, quando ormai avranno sfondato l’entrata principale con una testa d’ariete!»
«Ora basta, tutti e due!» gridò Brontolo, salendo su un poggiapiedi di legno per poter guardare Biancaneve negli occhi. David rimaneva comunque qualche centimetro troppo alto. «Possibile che quando c’è da pianificare una guerra, vuoi due non riusciate a trovare un punto d’incontro?»
«Se lui mi desse retta-»
«Se lei imparasse ad ascolt-»
«Zitti, ho detto!» urlò di nuovo Brontolo. «Con rispetto, Maestà» aggiunse poi, guardando Biancaneve.
«Fate chiamare Regina, Emma e Tremotino».
«Cosa?» domandò confusa Biancaneve.
«No! Non sarebbero di nessun aiuto. Regina boccerebbe ogni singola proposta che non sia una sua idea» disse David.
«E Tremotino se ne starebbe seduto in un angolo a sogghignare alle sue stesse battute» continuò sua moglie.
«Mentre Emma non ha alcuna esperienza militare».
Brontolo li guardò scuotendo la testa.
«Ma loro hanno la magia. Non abbiamo mai avuto un aiuto magico, in nessuna delle guerre che abbiamo combattuto. Loro potrebbero aiutarci. Voglio dire, quando abbiamo combattuto contro Regina, il suo esercito era un terzo del nostro. Eppure sembrava inarrestabile. Lei sa come sfruttare la magia in una guerra e sarebbe davvero da stupidi non approfittarne» fece loro notare Brontolo.
Biancaneve aprì la bocca per protestare, poi la richiuse.
«Chiamiamo Regina, allora».
 
«Signorina Lucas, la smetta di pedinarmi, la prego. Credevo che avesse distrutto il mio matrimonio perché ha una cotta per mia moglie, ma a giudicare dal modo in cui mi perseguita adesso, inizio a credere che-»
«Oh, dacci un taglio, Tremotino» ringhiò Ruby, uscendo dall’angolo dietro il quale era nascosta. «Hai girovagato per il castello per un’ora nel vano tentativo di seminarmi?»
«No» rispose l’uomo, stringendosi nelle spalle. «Non ho nulla da fare, così ho pensato di far perdere tempo anche a te. Ma non è stato tanto divertente quanto speravo».
«Nulla da fare?»
Tremotino si strinse nelle spalle.
«Che vuoi farci? Non sono più quello di una volta. Il Sindacato dei Cattivi delle Favole mi ha consigliato di andare in pensione e lasciare spazio ai giovani virtuosi del terrore».
«Da che parte stai, Tremotino?»
«Beh, mi reputo decisamente troppo giovane per la pensione, ma-»
In un istante, Tremotino si ritrovò steso a terra, con due enormi zampe corredate da affilati artigli premuti sul petto e il fiato caldo di un licantropo che gli accarezzava il viso.
L’uomo sogghignò.
«La mia stanza è proprio dietro l’angolo, cucciola, un letto sarebbe più comodo».
Ruby ringhiò e uno dei suoi artigli affondò nella carne dell’uomo, che scosse la testa.
«Marvos mi ha rubato ciò che mi serve per liberare Aiden dalla sua maledizione. Dovresti saperlo che non perdono chi ruba all’Oscuro Signore, men che meno stringo patti con loro».
Ruby esitò, esercitano maggiore pressione sul petto dell’uomo con il proprio peso, in modo da fargli mancare il fiato per qualche secondo, poi si scostò, ritornando nella sua forma umana.
«Mi hai fatto rovinare un’unghia» si lamentò acidamente la ragazza, prima di scuotere la testa e allontanarsi.
«Signorina Lucas?» la chiamò Tremotino dopo essersi rimesso in piedi. «Vada pure a riferire a mia moglie quello che le ho detto, ma tenga i suoi artigli lontani da lei. Sono stato chiaro?»
Ruby lo ignorò.
 
«Voglio che una guardia sia sempre con lui, sono stata chiara?» domandò Regina a un giovane con le ginocchia tremanti e lo sguardo terrorizzato, che annuì freneticamente.
«Perdonatemi, Maestà, mi chiedo se…» l’uomo lasciò la frase a metà, in cerca delle parole adatte, «se quando il ragazzino va… sì, insomma, quando il ragazzino ha bisogno di riservatezza per poter espletare le sue funzioni corp-»
«Non concludere la domanda perché non credo che potrei sopportare una cosa del genere senza strapparti il cuore» lo interruppe Regina, i cui occhi non si erano mai posati sul soldato, ma erano rimasti ossessivamente puntati sulla schiena di Henry.
Erano nella stanza di Oliver, il quale sembrava trovare conforto solo nella presenza del ragazzo più grande, in piedi di fronte a lui, che era sprofondato in una poltrona non appena lo avevano riaccompagnato nella sua vecchia stanza e da cui non si era mosso.
Belle era andata a prendergli qualcosa da mettere sotto i denti, ma nemmeno dopo aver mangiato Oliver sembrava propenso a parlare con loro. Secondo la ragazza, era rimasto traumatizzato dalle ore trascorse nelle segrete.
Secondo Regina, c’era altro sotto, e non solo per quello che era successo con Emma, ma anche per il modo in cui Oliver guardava Henry, come se fosse tutto ciò cui poteva rimanere aggrappato per non diventare pazzo e questo, a Regina, non piaceva.
Era il modo in cui lei guardava Emma, quando il suo passato tornava con il desiderio di divorarla, quando la sua rabbia minacciava di prendere nuovamente il sopravvento portandola di nuovo ad essere la Regina Cattiva di molti anni prima.
Se Oliver guardava Henry il quel modo, l’unica spiegazione era che avesse demoni interiori che Regina non voleva in alcun modo che sfiorassero Henry.
E nonostante le precauzioni prese da Regina e la sua stessa presenza, la donna sentiva ancora un terrore viscerale che le divorava il cuore e che la metteva in guardia da Oliver.
Forse, era semplicemente iperprotettiva, ma Regina era convinta che mai l’istinto materno l’aveva ingannata e che se in quel momento le diceva di tenere Henry lontano da Oliver, allora quello era ciò che doveva fare.
Ma non aveva idea di come farlo senza far insospettire Oliver o senza far infuriare Henry.
«M-mamma».
La voce di Henry era flebile, insicura. Mamma.
Gli occhi di Regina si riempirono di lacrime, ma lei le ricacciò in gola e sorrise a suo figlio.
«Puoi andare, ora. Qui è tutto ok. Rimango con Oliver ancora un paio d’ore».
Regina deglutì.
Fantastico, pensò sarcasticamente.
Guardò suo figlio, poi Oliver e poi il soldato silenziosamente retto accanto al camino.
Henry ne seguì lo sguardo.
«Lui è proprio necessario?» domandò indicandolo.
«Beh, il suo compito è quello di proteggere, perciò sì, è necessario» rispose Regina, senza specificare se il ruolo del soldato fosse di proteggere le persone da Oliver o proteggere Oliver da altre persone. «Bene, allora io… vado».
«Grazie, mamma» disse Henry e Regina scosse la testa, schiarendosi la gola e uscendo con passi pesanti dalla stanza.
Una volta chiusa la porta, prese un respiro profondo e puntò un dito sul petto della guardia appostata lì accanto.
«Se succede qualcosa a mio figlio, verrò a cercarti personalmente e aggiungerò un cuore alla mia collezione».
 
«Belle!»
La ragazza chiuse con attenzione la porta della stanza di Oliver alle sue spalle, prima di sorridere a Ruby che la stava chiamando.
«Ehi».
«Ehi» rispose la ragazza lupo, indicando il piatto vuoto che aveva tra le mani. «Come sta il ragazzino?»
«Meglio, immagino. Si sente al sicuro, con Henry accanto, che è persino riuscito a convincerlo a mangiare. Ma non ha ancora detto una parola, da quando l’abbiamo tirato fuori da quella cella. Povero piccolo».
Ruby annuì, schiarendosi la gola.
«Ho parlato con Tremotino».
«Perché?» domandò la ragazza, prendendo a camminare lungo il corridoio.
«Volevo tenerlo d’occhio, sai, per vedere se scoprivo qualcosa».
«Qualcosa?»
«Qualcosa tipo un patto segreto con Marvos o… roba da Tremotino, ecco».
Belle rise leggera, coprendosi la bocca con una mano.
Ruby la trovò incantevole.
«No, questa volta posso assicurarti che non sta facendo il doppio gioco» aggiunse poi, stringendosi nelle spalle.
«E come fai a esserne tanto sicura?»
«Mi piacerebbe dirti che è cambiato e che non farebbe mai del male a noi, alla sua famiglia, né ci metterebbe in pericolo, ma il fatto è che Tremotino e Marvos hanno… dei trascorsi. Non so di che genere, l’ho solo sentito inveire confusamente contro il conte, accusandolo di essere un ladro. E Tremotino è… molto possessivo».
«E se… Se Marvos gli avesse rubato qualcosa di molto importante?»
«Per Tremotino nulla ha importanza fino a che non ne ha bisogno. Sai che cosa gli ha rubato Marvos?»
«Non di preciso. Ma so a cosa serve».
Belle la guardò con espressione curiosa e interrogativa.
«Quello che Marvos ha rubato» iniziò Ruby, schiarendosi la gola e appoggiando una mano sulla spalla dell’altra, «è ciò di cui Tremotino ha bisogno per liberare Aiden dalla sua maledizione».
Belle spalancò la bocca, incredula, poi sorrise, lanciando le braccia attorno al collo di Ruby e lasciando cadere il piatto vuoto che reggeva.
«Possiamo aiutarlo, possiamo aiutare il mio bambino» disse, ridendo e piangendo allo stesso tempo.
Anche Ruby sorrise, stringendo a sé e cullando Belle.
«Sì, possiamo aiutare Aiden. Dovresti…».
Ruby si schiarì la gola.
Belle profumava di buono. Profumava di legno e di miele ed era un tale scricciolo tra le sue braccia, fremente di energia e sollievo, sapendo che c’era un modo par aiutare Aiden… adorava quella ragazza.
Ma lei apparteneva a Tremotino.
Non aveva importanza quanto quell’uomo fosse viscido o malvagio, quanto male avrebbe fatto alla sua Belle o quanta felicità le avrebbe sottratto.
Erano l’una il vero amore dell’altro e Aiden era la prova vivente del loro legame.
Era una cosa che Ruby non riusciva a capire perché l’amore che lei conosceva significava farfalle nello stomaco, baci rubati sul far del tramonto e un fastidioso sorriso da ebete.
Eppure doveva esserci altro, perché se si guardava attorno, Ruby vedeva una ragazza innamorata dell’uomo che l’aveva barattata e poi rinchiusa in una cella e vedeva questo uomo lottare contro la sua stessa natura per quella ragazza.
Vedeva Emma che non aveva esitato a mettere a rischio la propria vita per la donna che le aveva strappato il futuro per egoismo personale e Regina combattere contro i suoi demoni personali, solo per poter essere all’altezza della sua ragazza.
E quando Biancaneve si era macchiata le mani del sangue di Cora, David le aveva lavate e pulite, le aveva asciugate, continuando ad amare sua moglie.
Ma se si fermava un po’ a pensare, a riflettere, a indugiare su quella parte del suo passato che avrebbe tanto voluto cambiare, Ruby intuiva che cosa significasse amare fino in fondo. Perché a volte nei suo incubi affiorava il volto di Billy, l’ultima volta che lo aveva visto.
E quello che aveva visto negli occhi di Billy non era odio, ma solo lo struggente desiderio che quel destino non fosse toccato alla sua Ruby e che sarebbe stato disposto a morire mille e poi altre mille volte, se farlo avesse significato alleviare il fardello della ragazza.
Forse, a lei quell’amore era stato negato prima che potesse manifestarsi in ogni sua forma.
«Belle» disse infine, prendendo un profondo respiro. «Credo dovresti parlare con Tremotino e… perdonarlo».
 
«Mentre voi ve ne stavate rintanati in questo tugurio Tremotino ha rinchiuso Oliver nelle segrete e mio figlio ha dato di matto fino a quando non è riuscito a tirarlo fuori» disse Regina, entrando nella stanza in cui David e Biancaneve stavano discutendo la miglior strategia militare per affrontare Marvos.
Entrambi spalancarono la bocca, increduli e indignati che nessuno li avesse messi al corrente della situazione.
«Non preoccupatevi, Emma ha saputo gestire la situazione molto meglio di quanto avreste fatto voi» aggiunse poi la donna.
«Davvero?» domandò Biancaneve. «Come?»
«Mi ha dato retta senza discutere» rispose Regina.
L’altra donna alzò gli occhi al cielo e David sogghignò divertito.
Brontolo, che aveva accompagnato Regina, si sedette con le braccia incrociate e senza dire una parola. Detestava la matrigna di Biancaneve con ogni fibra del suo piccolo corpo e l’astio era reciproco, ma in quella situazione si era convinto a mettere da parte i rancori per il bene del castello.
«Per cosa sono stata convocata?» volle sapere Regina.
«A parte erigere barriere, che cosa puoi fare con la magia?» chiese David, appoggiando entrambe le mani sulla mappa aperta davanti a lui.
Regina lo guardò come se avesse chiesto se l’acqua fosse davvero bagnata.
«Praticamente tutto. Tranne riportare in vita i morti o creare il Vero Amore. Per la prima parte, dovreste rivolgervi a Emma, per la seconda a Tremotino».
 «No, intendevo, in campo militare» specificò Biancaneve.
Regina si strinse nelle spalle.
«Dipende, di cosa avete bisogno?»
David spiegò sia il proprio piano d’azione che quello della moglie, con Biancaneve che interveniva per sottolineare quanto un assedio sarebbe stato insostenibile e pericoloso.
Regina si strinse nelle spalle.
«Posizionate la maggior parte dell’esercito in pianura e lasciate solo una manciata di uomini sulla collinetta. Incanterò le catapulte in modo tale che bastino solo due uomini invece di sei, per azionarle. Posizionate anche arcieri e balestrieri sull’altura, ma sarò io a fornire loro le armi. Avranno una gittata maggiore e le frecce saranno avvelenate. In questo modo un numero esiguo di uomini potrà fornire la stessa difesa che sarebbe in grado di garantire la metà dell’esercito» spiegò Regina.
«Usavi questi trucchi anche quando combattevi contro di noi?» domandò David, visibilmente colpito.
Regina annuì.
«E un altro paio che ho imparato da Tremotino e che richiedono pratiche che voi non approvereste mai».
«Che genere di pratiche?» domandò Biancaneve. «No, anzi, preferisco non saperlo».
Regina si strinse nelle spalle.
«Per quanto riguarda il resto degli uomini, il massimo che posso fare è rinforzare spade e armature, in modo che siano più resistenti a colpi e urti, ma non saranno indistruttibili».
Sia David che Biancaneve annuirono.
«Avrò bisogno di Emma per fare una cosa del genere. Fate portare tutte le armi a disposizione dell’esercito nell’armeria e le incanteremo. Non ci vorrà molto in termini di tempo, ma l’energia necessaria sarà notevole» spiegò Regina, guardando Brontolo come se volesse ordinare a lui di occuparsene.
Il nano sbuffò.
«Per favore, Brontolo, potrest-»
«Sì, sì, sì, certo, faccio io. Devo sempre fare tutto io, in questo dannato castello» disse il nano, interrompendo Biancaneve prima che potesse concludere la frase.
«Nani» commentò Regina con disgusto.
Biancaneve la guardò con un’espressione di muto e implacabile rimprovero.
 
«Davverodavverodavvero posso uscire dalla mia camera?» domandò Emma, con gli occhi sgranati, non appena Regina le disse che sarebbero andate nell’armeria.
«E potrò camminare? E fare incantesimi? Posso avere una balestra? Ho sempre voluto una balestra!».
«Non sai nemmeno impugnarla, una balestra».
Emma si strinse nelle spalle, mentre Regina le apriva la porta della camera per farla passare e poi seguirla all’esterno.
«Beh, è come un arco, solo orizzontale. Non deve essere poi tanto difficile» disse Emma.
Regina fece per ribattere, ma poi decise che intavolare una discussione sulla differenza tra una balestra e un arco non le avrebbe portate da nessuna parte, così si limitò a scuotere la testa e intrecciò le proprie dita a quelle di Emma.
«Grazie» le sorrise la ragazza, sporgendosi per darle un bacio sulla guancia mentre camminavano verso l’armeria.
«Per cosa?»
«Per esserti presa cura di me. Sei stata una gran spina nel culo, ma è stato tenero».
«Linguaggio. E io non sono tenera» ci tenne a specificare Regina.
Emma nascose un sorriso e appoggiò la testa sulla spalla della fidanzata.
 
«Non mi hai chiesto se sono stato io» disse Oliver.
Henry scosse la testa e si strinse nelle spalle.
«Perché lo so benissimo che non sei stato tu. Ho fiducia in te, Oliver».
Il ragazzo più giovane distolse lo sguardo.
«Credo tu stia riponendo la tua fiducia nella persona sbagliata».
«Cosa?»
«Chiedimi se sono stato io, a mettere il veleno in quella coppa».
«No!» esclamò Henry, tra l’incredulità e l’indignazione.
Oliver non disse nulla per un po’, limitandosi a giocare con l’orlo della coperta, senza mai guardare Henry in faccia.
Piangeva, silenziosamente, senza singhiozzi, senza smorfie di dolore, solo lacrime che cadevano rapide lungo il suo volto, irrimediabilmente attratte dalla forza di gravità.
«Farò finta che tu me lo abbia chiesto, allora» disse infine Oliver, con la voce che tremava appena.
Era appena uscito da quella cella e ora ci sarebbe sicuramente ritornato. Probabilmente, era giusto così.
Alzò gli occhi chiari dal pavimento, per puntarli in quelli dell’altro ragazzo.
«Henry, io-»
La voce gli morì in gola.
«Oliver, cosa..?»
Il ragazzo più giovane indico un punto dietro le spalle di Henry, ma quando questo si voltò, non vide nulla.
Confuso, stava per chiedere cosa stesse succedendo, ma poi, più che vederlo, lo sentì.
Sentì freddo, un freddo che non veniva da fuori, ma direttamente dal suo petto e che da lì dilagava, serpeggiando lungo il suo sterno, avvinghiandosi alle sue costole fino ad agguantare il cuore e stringerlo, ingarbugliarlo in sottili fili di gelo che non avevano intenzione di arrestarsi e dilagavano in tutto il suo corpo, sotto la sua pelle, attraverso vene e arterie, fino a quando in Henry non rimase nemmeno una scintilla di calore.
La sua pelle divenne pallida, identica al proverbiale candore di quella di sua nonna, le sue labbra illividirono e il suo sguardo si annebbiò. Henry si sentiva leggero, senza peso.
Svenne.
E Oliver prese a urlare il suo nome.
 
«Frederick? Frederick?»
L’uomo aprì gli occhi, sentendo il suocero chiamarlo con insistenza.
«Frederick, devi andartene, ora».
«Cosa? Dove?».
«Lontano da qui, al sicuro. Forza, mettiti in piedi» insistette rudemente Mida, dandogli una pacca sul viso per aiutarlo a svegliarsi. «Epicari ti indicherà la strada».
«Epicari? A me? E non verrete con noi?»
«Sono vecchio e cieco, Frederick, con me non avete speranza. Ora però dovete andare. Sei il miglior marito che un padre potrebbe mai desiderare per la propria figlia. Porta i miei saluti ad Abigail e al mio nipotino. O nipotina. E non… non dire loro cosa mi hanno fatto, ti prego».
Frederick scosse la testa.
«Dovete venire anche voi! Non posso lasciarvi qui!»
«Puoi e devi».
«Ma-».
«Va’! Devi metterti in salvo per Abigail e per tuo figlio, Frederick, te lo sto ordinando! Epicari, trascinalo via, non c’è tempo da perdere».
Frederick si sentì afferrare per un braccio da mani piccole, ma con una presa ferrea che lo sorprese.
«Signore, vi prego» disse la giovane donna in un sussurro, cercando di convincere Frederick a muoversi verso la grata della cella, lontano da Mida.
«Epicari!» un sibilo maschile li raggiunse e pochi istanti dopo il viso di un ragazzo adolescente comparve fuori dalla loro prigione, con una torcia in una mano e la chiave nell’altra. «Dobbiamo fare presto o ci impiccheranno tutti quanti».
«Oh, fratellino, non sono mai stata tanta sollevata di vederti».
«Re Mida, vi prego» tentò un’ultima volta Frederick, allungando un braccio verso il suocero prima che anche il nuovo arrivato lo afferrasse per un braccio, aiutando Epicari a portarlo fuori dalla cella.
Prima di chiudere di nuovo la grata a chiave, il giovane che era venuto a salvarli tornò nella cella e versò un liquido chiaro tra le labbra di Re Mida.
«Grazie, ragazzo» sussurrò l’uomo, tentando di sorridere.
Il giovane chinò il capo.
«Vostro fedele suddito, mio re».
Qualche ora dopo, quando ormai il sole si affacciava al nuovo giorno, Re Mida morì e divenne vento per poter accarezzare le guance della sua Abigail e divenne sole per asciugarle le lacrime e divenne terra per agevolarle il passo.
In quel nuovo stato del suo essere, l’uomo divenne parte del tutto e del niente.
 
 


NdA
Scusatescusatescusate per il ritardo. Ho fatto una specie di involontario hiatus anche io, mi dispiace, ma sono sicura che Cla, che ringrazio per il betaggio - e, tra l'altro, Cla, non ho scoperto ora i commenti su Word, ho solo collegato ora che potrebbero essere molto utili nel non dimenticarmi quello che devo scrivere nelle note, lol - vi ha tenuto compagnia a dovere! :D
Riguardo al capitolo… ho un paio di cose da precisare. 
Epicari è citata da Tacito negli Annales nel contesto della congiura di Pisone - se non sbaglio - come un esempio di eroismo, dal momento che preferì torture e suicidio piuttosto che tentare di salvarsi la pelle rivelando i nomi degli altri congiurati.
Accarezzare le spalle è invece un’espressione manzoniana, tratta da I Promessi Sposi.
E… tutto qui.
Scusatemi di nuovo!
A presto,
Trixie :D
 
 

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Capitolo 12
*** Per dichiarare un amore ***


Capitolo XII
Per dichiarare un amore
 
 
«Emma?»
Delle ciocche bionde, spettinate, scarmigliate, annodate, entrarono nel campo visivo laterale di Regina e un paio di mani, calde e morbide, le circondarono i fianchi.
«Sì?» rispose la ragazza, baciando il collo della fidanzata.
«Cosa…» Regina sospirò, reclinando il collo. «Cosa stai facendo?»
«A te cosa sembra?» chiese Emma di rimando, baciando di nuovo la pelle profumata di Regina e mordendola delicatamente.
«Siamo nell’armeria» disse Regina, debolmente.
«Non c’è nessuno a parte noi».
«Si chiederanno… Dio» sussurrò Regina, con la mente annebbiata, «si chiederanno perché ci mettiamo tanto».
«Incantare ogni singola arma richiede tempo».
«Abbiamo già incantato le armi. E non abbiamo-oh!» fece Regina, quando Emma infilò una mano nella sua scollatura.
«Cosa stavi per dire? Che non abbiamo dovuto occuparci di ogni singola arma alla volta? Vero, ma questo loro non possono saperlo».
«Saremo affannate» rispose Regina, il cui corpo aderiva perfettamente a quello di Emma. «E…»
Emma, le dita che giocavano con il seno di Regina, si strinse ancora di più alla donna, premendo sul basso ventre dell’altra con la mano libera.
«Usare la magia è faticoso».
Emma tolse la mano da sotto il vestito di Regina, poi la prese con decisione per i fianchi, costringendola a voltarsi.
Per un secondo lo sguardo di Emma venne magnetizzato da quello della fidanzata.
Se non fosse stato per il loro colore, gli occhi dell’una non sarebbero stati distinguibili da quelli dell’altra. In entrambi c’era lo stesso desiderio, la stessa voglia di avere e possedere, la stessa ombra scura di passione e amore, la stessa profondità d’animo.
Regina non ricordava di aver mai visto gli occhi di Emma di un verde così intenso e totale, così assoluto da farle credere che il suo mondo iniziasse e finisse in quelle iridi.
Dio, Emma Swan era l’unica caduta, l’unico abisso, in cui Regina era sprofondata volontariamente, con il cuore tra le mani e la speranza di non riemergerne mai più. Affogare nell’amore per Emma aveva significato salvarsi e perciò in quell’amore voleva immergersi ancora un po’ ogni giorno, ogni secondo. Regina voleva solo amarla, solo un po’ di più, ogni istante.
Anche se, per Emma, avrebbe desiderato un destino diverso.
Regina immerse la mani nei capelli della fidanzata e lasciò che la lingua di Emma si insinuasse con prepotenza tra le sue labbra.
La lasciò giocare e esplorare, assecondandola, gemendo, mentre le mani di Emma le accarezzano il corpo, quasi con rabbia, infastidita dai veli di stoffa che la separavano dalla pelle calda dell’altra.
Poi Regina ricorse ai denti e morse il labbro inferiore della ragazza, non tanto forte da farle davvero male, ma abbastanza da mettere in chiaro che Emma Swan aveva già avuto abbastanza, per quel giorno.
Le dita di Regina si strinsero intorno al mento della fidanzata.
«Tutta questa foga… non si addice a una principessa» sussurrò Regina, facendo scivolare l’indice della mano libera lungo lo sterno di Emma, appena sopra l’orlo della camicia bianca che la ragazza indossava.
«E questi abiti» continuò, «non vanno affatto bene, no. Credo sia meglio toglierli».
Regina, una mano ancora a stringere il mento di Emma e una sul fianco della ragazza, fece passare la punta della lingua dove l’aveva morso, in un gesto lento che costrinse Emma a chiudere gli occhi.
«Credo che-».
«Emma! Regina!» urlò una voce femminile fuori dall’armeria, che entrambe riconobbero come quella di Ruby.
Sussultarono entrambe e si allontanarono l’una dall’altra, stringendosi tuttavia la mano. Doveva essere successo qualcosa, a giudicare dal tono chiaramente spaventato di Ruby.
Si affrettarono verso la porta dell’armeria, i loro nomi ripetuti in continuazione dalla ragazza lupo.
Regina, con un gesto rapido della mano, spalancò il pesante portone di legno e acciaio e Ruby comparve di fronte a loro, con gli occhi lucidi e le guance rosse. Si appoggiò allo stipite. Doveva aver corso in forma di lupo fino a loro.
«Ruby, che diavolo-».
«Henry, si tratta di Henry. È svenuto e non riusciamo a rianimarlo».
Emma e Regina si misero a correre in direzione del castello.
 
 
Regina era sdraiata accanto a Henry, nella stanza del ragazzo, mentre Emma camminava avanti e indietro di fronte al letto.
All’improvviso, Emma tirò un pugno al muro con forza e perdendo evidentemente il controllo del proprio potere perché qualche calcinaccio cadde a terra ai piedi della ragazza e Regina sentì uno strano sobbalzo nel proprio cuore.
Biancaneve sussultò e David si affrettò verso la figlia.
«Emma» la chiamò, afferrandola per le spalle.
«Deve pur esserci qualcosa da fare» ringhiò la ragazza, gli occhi rossi.
«Aspettare» rispose David. «Abigail si è svegliata dopo una notte di sonno, vedrai che tra qualche ora anche Henry aprirà gli occhi».
«Non puoi saperlo, non sappiamo cosa è successo».
«Oliver ha detto che-» tentò Biancaneve, subito interrotta dalla risata scettica di Regina. 
«Sul serio? Oliver? Il ragazzino che ha tentato di avvelenare vostra figlia. Idioti».
«Regina» l’ammonì David.
Emma si liberò dalla presa del padre.
«No» disse la ragazza, «Regina ha ragione, non possiamo fidarci della parola di Oliver».
«Anche la guardia ha confermato la versione del ragazzo. E dai loro racconti, sembra proprio che Henry sia stato attaccato dalla stessa cosa che ha fatto del male ad Abigail» disse Biancaneve.
«Un’ombra?» fece Emma, «e cosa ci assicura che non sia Oliver a controllare quell’ombra?»
«Quando Abigail è stata attaccata, Oliver non era presente».
«Beh, non lo sappiamo se quel ragazzino era presente o meno. Ormai non sappiamo più nulla. So solo che a mio figlio è stato fatto del male e che quel ragazzino c’entra qualcosa. E so che Regina è d’accordo con me. Questo mi basta per sbattere di nuovo Oliver nelle segrete!» esclamò Emma.
«Emma!» fece Biancaneve, indignata. «Non è da te, è solo un ragazzino!»
«Tesoro, tenta di calmarti. Lo so che sei sconvolta per Henry, ma non puoi punire Oliver senza nemmeno essere sicura che la colpa sia sua».
«Emma…» disse Regina, con un filo di voce. «Emma… Henry… Emma!»
La ragazza si voltò, giusto in tempo per vedere suo figlio, tra le braccia di Regina, aprire gli occhi con fatica e sbatterli più volte.
Un singhiozzo sfuggì dalle labbra di Emma, che si affrettò verso il letto e affiancò Henry dal lato opposto di Regina.
«Mamma» disse il ragazzo non appena incrociò lo sguardo di Regina, «mamma» aggiunse poi, quando si accorse che anche Emma era lì con lui.
«Ci hai fatto prendere un bello spavento, ragazzino» disse Emma, tirando su con il naso per trattenere le lacrime e scostando una ciocca dei capelli di Henry dalla sua fronte.
«Oliver?» domandò il giovane, con un filo di voce.
Emma deglutì sonoramente e il corpo di Regina si irrigidì all’improvviso.
«Sta bene, è nella sua stanza» s’intromise Biancaneve, dopo lunghi istanti di silenzio da parte delle due donne sedute sul letto.
«Posso vederlo?» chiese Henry, debolmente.
«No» rispose immediatamente Regina, secca e perentoria. «Sei stato vicino a lui troppo a lungo e guarda cosa è successo, avremmo potuto perderti».
«Non è stata colpa sua. Voglio vedere Oliver, stavamo parlando. Doveva dirmi qualcosa di importante, devo vederlo. Subito» insistette Henry, le parole che sfumavano nel nulla per l’evidente sforzo che gli costava parlare.
«Henry, ti prego» lo scongiurò Regina, con le lacrime agli occhi e stringendogli le mani. «Ti prego, Henry, smettila di chiedere di quel ragazzino. Vuole solo farti del male. Perché non lo capisci? Vogliamo proteggerti, tesoro, solo questo».
Henry abbassò gli occhi.
«Non posso, devo vedere Oliver».
Regina lanciò un basso suono gutturale di rabbia, la stessa rabbia che Emma sentì ribollire, estranea eppure familiare, nel proprio cuore.
«Vuoi sapere cosa stava per dirti? Possiamo fare da intermediari tra di voi, ma non possiamo lasciarti di nuovo nei paraggi di Oliver».
«Perché no?» insistette Henry. «Non è stato lui a farmi del male, ne sono sicuro».
«Non puoi esserne certo» tentò di nuovo Emma. «Gli abbiamo dato una possibilità, ma…»
Henry scosse la testa.
«Voglio vedere Oliver, lasciatemi andare da lui».
«Perché?» esclamò Regina esasperata, il cuore in bilico tra l’ira e l’apprensione.
Henry alzò gli occhi su di lei, poi li spostò su Emma.
«Perché torni sempre dalla mamma? Perché torni da lei anche quando ti respinge o fa di tutto per sfuggirti? Perché torni da lei?» domandò Henry, con voce bassa e grave.
Emma spalancò la bocca.
Perché l’amo.
La ragazza cercò lo sguardo di Regina, la quale fece in modo di evitarlo e si alzò in piedi, dirigendosi verso la porta.
«Vuoi vedere Oliver? D’accordo, vado a prendere Oliver. Così chiudiamo questa storia una volta per tutte» sbottò furiosa.
«Regina» la chiamò Emma, allarmata.
L’altra donna la ignorò.
«Torniamo subito, ragazzino» disse Emma, affrettandosi a inseguire Regina che aveva già abbandonato la stanza.
«Regina!» echeggiò nel corridoio deserto e semibuio fuori dalla stanza.
Emma affrettò il passo.
«Regina!»
Emma la vide e allungò le falcate, in modo da poter afferrare il braccio dell’altra e costringerla a voltarsi. «Regina, che diavolo hai intenzione di fare?»
«Quello che va fatto per tenere mio figlio lontano da quel dannato Oliver».
«Non fare cazzate e datti una calmata. Che intenzioni hai? Ucciderlo?»
«Sì, così Henry mi odierà per il resto della sua vita, più di quanto non faccia già. Non essere ridicola, Emma».
La ragazza scosse la testa, la presa ancora fermamente stretta attorno al gomito di Regina, che proseguì.
«Gli strapperò il cuore e gli ordinerò di dire a Henry la verità, tutta la verità. Come l’ha ingannato e quanto male gli ha fatto, così-»
«Regina, cazzo, fermati. Ma ti senti? Non stai nemmeno più ragionando» la interruppe Emma, scuotendola per il braccio.
«E allora cosa proponi? Lasciamo che quel ragazzino gironzoli attorno ad Henry e lo riempia con le sue stronzate?»
Emma aprì la bocca, poi la richiuse, scuotendo la testa.
Regina aveva sul serio detto stronzate?
«Henry è innamorato!» esclamò la ragazza.
Regina emise un verso incredulo.
«No, Henry è solo infatuato di un bel paio di occhi chiari e capelli biondo cenere. Ma non vedi quanto male gli sta facendo? Quanto male ti ha fatto? Ti ha avvelenata!»
Emma si morse il labbro e prese un respiro profondo.
«Tu hai… Tu hai tentato di uccidere i miei genitori per anni, Regina» disse, mestamente.
«Non è la stessa cosa» rispose subito l’altra donna, un velo di paura - paura per quel suo passato che ora sembrava minacciare il presente - le oscurò gli occhi.
«Non è la stessa cosa solo perché non conosci la storia di Oliver. Dobbiamo dargli la possibilità di spiegare, a noi, ma soprattutto a Henry, le sue ragioni. Ti prego» disse Emma, spostando una mano ad accarezzare il viso di Regina, che sospirò pesantemente e scosse la testa, prima di dare le spalle alla fidanzata e stringersi le braccia attorno al petto.
«Quando mi resi conto che mi stavo innamorando di te, Emma, pensai che fosse ridicolo. Tra tutte le persone del mondo, il mio cuore aveva scelto te, la Salvatrice. Ironico, davvero. Perché ero convinta che tu mai, per nessuna ragione, mi avresti ricambiata» raccontò Regina, con un sorriso amaro. «E quando poi tu... Quando ho capito che tu, Emma, ti eri innamorata di me… Ero furiosa. Ero furiosa perché la sorte aveva ben ragione di prendersi gioco di me, la Regina Cattiva, e che facesse pure, non aveva importanza. Io non avevo importanza. Ma tu… Tu meritavi di amare una persona migliore, una persona che non avesse compiuto tanto male da esserne perseguitata notte e giorno».
La voce di Regina era spezzata, irregolare, priva della sua abituale inflessibilità.
«A volte, credo che il nostro amore non sia che un’eccezione. Qualcosa di straordinario, una fortuita convergenza del fato. Insomma… Guardaci. Non siamo due opposti che si attraggono, Emma. Siamo un’immagine speculare. Siamo uguali, ma tutto è dove non dovrebbe essere. Eppure funzioniamo. Perciò, a volte, penso anche che siamo l’unica cosa che possiamo essere, ovvero l’amore dell’altra, e non avrebbe mai potuto essere altrimenti ed è la cosa più semplice e naturale del mondo.
Ma il fatto è che, se solo potessi fare in modo che tu smetta di amarmi, lo farei. Perché ho bisogno del tuo amore per vivere, ma posso sopravvivere senza. E perché tu meriti di amare qualcuno che sia degno di te. E non mi importa quante volte hai cercato di convincermi del contrario, Emma» disse Regina, precedendo l’obiezione della ragazza, «le cose stanno così e non potranno cambiare. Siamo quello che siamo.
Ma credevo che Henry non si sarebbe mai trovato nella tua posizione.
Una madre vuole solo il meglio, per il proprio figlio. E io non lo sono. E Oliver non lo è».
Emma, gli occhi lucidi e le mani tremanti, si strinse a Regina, petto contro schiena, e immerse il viso nei capelli della donna.
«Non dirlo più. Non dire che… Non dire che preferiresti che io non ti amassi, Regina. Siamo quel che siamo, hai ragione, e per questo io ti amo. E sono felice di amarti. Il cuore non si sceglie. Non possiamo obbligarci a desiderare ciò che è bene per noi o per gli altri. Se non ci capisci più un cazzo, cosa fai? Come fai a sapere cosa è giusto per te? Ogni fottuto psicologo, ogni fottuto consulente del lavoro, ogni fottuta principessa Disney conosce la risposta: “Sii te stesso”. “Segui il tuo cuore”.
Wow, fantastico, ma allora prova a spiegarmi questo. Cosa succede se ti ritrovi con un cuore inaffidabile? Se questo cuore, per chissà quali cazzose e strafottute ragioni, ti porta ostinatamente lontano da ogni virtù, da tutto ciò che è sano, per trascinarti invece verso uno stupendo falò di rovina, immolazione e disastro? Se il tuo cuore ti conduce cantando dritto verso il fuoco, devi voltargli le spalle? Tapparti le orecchie con la cera? O è meglio tuffarsi di testa e con una risata nel fuoco che grida il tuo nome?
Perché, Regina, è questo che sei sempre stata, per me. Il mio stupendo falò di rovina. Mi illumini, mi scaldi, mi conforti. Mi sono scottata a volte, sì. Ma non ha mai avuto importanza, mai. Se sei tu a bruciarmi, allora è un dolore che non fa male.
Seguo il mio cuore, seguo te. Amo te. E non voglio che questo cambi, perché sei la cosa migliore che mi sia mai capitata.
Non dire più che non vuoi il mio amore e, aspetta, lasciami finire» disse Emma, dal momento che Regina stava per parlare, interrompendo la fidanzata quasi senza fiato. «Non dire che non lo vuoi, perché non vado da nessuna fottutissima parte, senza di te. E forse Henry mi somiglia di più di quanto pensassi, non lo so, magari questa storia della Salvatrice ha una componente ereditaria. Ma il punto è che non possiamo decidere quale strada seguirà il suo cuore. Lascia a Oliver la possibilità di spiegare a Henry le sue ragioni» sussurrò Emma, stringendo appena le braccia attorno al corpo della donna, «e lascia a me quella di amarti».
Regina piangeva.
E, nella sua memoria, quello stesso corridoio diventava un ponte, tra passato e presente, tra la Regina che era stata, ferita e spaventata dal mondo, un mondo orribile, un mondo che non aveva pietà per le ragazze innamorate e che le dava in pasto a uomini con il doppio della loro età, solo per trasformarle in creature di vendetta e perfidia, e la Regina del presente, vecchia - perché vecchia lo era, nonostante il suo aspetto mentisse a riguardo - e amata, oh, amata con tanta tenerezza e adorazione che il suo cuore si sarebbe frantumato sotto il peso di quel sentimento assoluto, se solo non fosse già stato fatto a pezzi.
Oh, l’esistenza stessa era ingiusta, ingiusta per sua intrinseca natura.
Perché, dopo tutto ciò che Regina aveva fatto, quello che le rimaneva era Emma. Mentre Emma, la cui unica colpa era stata nascere con qualche minuto di anticipo, si ritrovava, con anima, corpo, cuore e fato, ad avere Regina.
E le ragazze continuavano ad essere date in sposa a uomini che non amavano, e i bambini continuavano ad essere abbandonati al loro destino e privati dell’amore materno, e il mondo continuava a girare, distruggendosi nel suo lento moto.
«Mi ero illusa» disse Regina, tra i singhiozzi, «che, conoscendo a fondo il male, sarei riuscita a proteggere il mio bambino, a fargli da scudo».
«Spesso non esiste una linea netta, tra bene e male, Regina. Queste due cose non sono mai separate. Una non può esistere senza l’altra» disse Emma, sciogliendo lentamente l’abbraccio in cui aveva stretto la fidanzata fino a quel momento e portandosi di fronte a lei, per poterla guardare negli occhi. «Perché… se è vero che il male può discendere dalle buone azioni… dove sta scritto che da quelle cattive può venire solo il male? Magari a volte - il modo sbagliato è quello giusto? Magari prendi la strada sbagliata e ti porta comunque dove volevi? O, a volte, puoi sbagliare tutto e alla fine viene fuori che andava bene?»
«Non-»
«Fa schifo, lo so. Abbiamo mandato tutto a puttane, fino dal momento in cui ci siamo incontrate, perché era lì, dove dovevamo e volevamo essere. E poi abbiamo di nuovo incasinato tutto quanto, perché non sapevamo di essere arrivate e abbiamo continuato a vagare e cercare. Ma ora siamo qui, Regina, l’una per l’altra. E per Henry».
«Sono la nostra cattiveria e i nostri errori a decidere il nostro destino e a condurci al bene? Non esiste altro modo per arrivarci?» domandò Regina, un groppo in gola e altre domande, non dette, che aleggiavano nell’aria tra loro. 
Anche per Henry è così? Non possiamo risparmiare a nostro figlio tutto questo dolore? Non è forse abbastanza, quello che è successo a noi? Non possiamo scontare quel male per lui?
Emma non rispose, accennò solo un sorriso prima di stringersi Regina al petto e cullarla, ondeggiando sul posto.
«Ma sul serio hai detto stronzate?» disse, dopo qualche secondo.
Regina sorrise e scosse la testa.
«Andiamo a dare a Oliver la possibilità di spiegarsi» disse poi, sussurrando.
 
 
Oliver piangeva.
Henry avrebbe voluto avvicinarsi, accarezzarlo, abbracciarlo. Baciarlo, forse?
Ma aveva promesso che si sarebbe tenuto a debita distanza dal ragazzino fino a quando quella faccenda non fosse stata chiara.
«Mi dispiace» diceva Oliver, tra i singhiozzi. «Ti prego, Henry, perdonami. Non volevo che ti facessi del male, è tutta colpa mia» ripeteva il ragazzino e poi lo ripeteva ancora, ancora e ancora, in continuazione.
Regina aveva i nervi a fior di pelle. Era seduta accanto a Henry, sul letto, e non perdeva d’occhio Oliver, sprofondato in una poltrona sistemata di fronte al letto, davanti alla quale ne era stata sistemata una identica, per permettere a Emma di prendervi posto e iniziare quello che aveva tutta l’aria di un interrogatorio.
Una situazione che, a dirla tutta, dava il voltastomaco a Henry.
Biancaneve e il Principe se ne stavano, tesi e guardinghi, accanto alla porta.
«Sei stato tu a mettere il veleno nel bicchiere di Frederick?» domandò Emma, in tono deciso.
Il ragazzino annuì.
E ancora mi dispiace, è tutta colpa mia, Henry, Henry, Henry.
«Perché l’hai fatto?» volle sapere Emma, cercando di ignorare con quale strazio il nome di suo figlio veniva pronunciato, invocato.
«Lei-lei me lo ha ordinato».
Regina e Emma si scambiarono uno sguardo confuso.
Lei? Lei chi?
«Chi te lo ha ordinato?» chiese quindi Emma.
Prima che Oliver potesse rispondere, qualcuno entrò nella stanza senza nemmeno bussare, con passo allegro e un battito di mani.
«Re e Regine, Principi e Principesse» esordì Tremotino con voce stridula, «l’Oscuro Signore vi offre un servizio completo, attivo ventiquattr’ore su ventiquattro e sette giorni su sette anche quando lo maltrattate senza alcun riguardo! Ho una splendida notizia che non vedo l’ora di condividere!».
Emma imprecò e si voltò verso l’uomo che era appena entrato.
«Sono sicura che la stronzata che stai per propinarci come oro colato possa aspettare, Tremotino» sputò, con sguardo feroce.
L’uomo finse di esserne spaventato.
«In realtà, il mio oro è più filato che colato, ma… D’accordo, se proprio insistete, Principessa, chi sono io per contraddirvi?» domandò retoricamente, con finto tono melodrammatico, mentre andava ad appoggiarsi allo stipite di una finestra.
Così facendo, la luce che filtrava nella stanza diminuì sensibilmente.
«Oliver» disse Emma, prendendo un sospiro profondo, «chi ti ha ordinato di mettere il veleno nel calice di Frederick?»
Il ragazzino deglutì e lanciò un’occhiata di sbieco a Tremotino, poi a Emma e, infine, il suo sguardo si posò su Henry per istanti interminabili.
Solo allora, Oliver rispose.
«Lei. La Coscienza di Marvos».
«Io vol-»
«Oh, per l’amor del cielo, sta’ zitto!» sbottò Regina in direzione di Tremotino che, di nuovo, aveva provato a parlare. L’uomo si strinse nelle spalle, dopo aver fatto una linguaccia in direzione della donna.
«La… Coscienza di Marvos?» ripeté Emma. Oliver annuì.
«Il Conte Marvos ha detto che se non avessi fatto tutto quello che quell’ombra mi avesse ordinato, avrebbe ucciso mia madre. Lei non è la mia vera madre» si affrettò a precisare Oliver, come se ora dovesse mettere in chiaro assolutamente ogni cosa, anche la più insignificante, «ma è l’unica mamma che conosco. È la mia mamma. È la sorella di Mida. E lui, il conte, ha detto che se non avessi fatto come diceva lui, avrebbe ucciso tutta la mia famiglia. Lei, il re, Abigail, Frederick, tutti. E io non volevo, davvero, ti prego, Henry, è tutta colpa mia, ma io non volevo, non volevo davvero, io, Henry, perdonami, Henry».
Oliver aveva ricominciato a piangere e il suo sguardo non si staccava da quello di Henry, che si alzò dal letto ignorando la presa di Regina che a fatica si allentò dal suo braccio, e andò ad abbracciare il ragazzino.
«E ora, lui li avrà uccisi tutti, per colpa mia, perché non sono stato forte. Non meritavo di far parte della loro famiglia, sono morti a causa mia e io non volevo, non volevo fare del male a nessuno, mi dispiace» ripeteva e ripeteva, con la testa appoggiata al petto di Henry.
Emma si abbandonò allo schienale della sedia con un sospiro profondo.
Come cazzo abbiamo fatto a non arrivarci prima?
Abigail aveva parlato di una zia, ma nessuno aveva pensato che potesse essere in pericolo e non avevano indagato oltre la risposta evasiva di Oliver.
Ha detto che è in un posto sicuro.
Evidentemente, il soggetto della frase non era sua madre, ma Marvos, e il significato era più sinistro di quanto aveva creduto. 
E il fatto che il ragazzino avesse attraversato le difese magiche del castello con il cuore colmo del desiderio di salvare la sua famiglia e null’altro, spiegava perché la barriera di Regina non lo avesse fermato.
E poi, Oliver che parlava da solo.
Oliver che spariva per dei minuti interminabili.
Oliver che temeva i luoghi dagli anfratti bui.
Ma che diavolo avevano, tutti, nella testa? Era poco più di un bambino. Avrebbero dovuto capirlo, avrebbero dovuto proteggerlo.
Emma si voltò a guardare Regina, la stessa espressione colpevole dipinta in volto.
Sospirò.
E poi sussultò, a causa di un colpo di tosse poco educato, molto rumoroso, di Tremotino.
«Già, è tutto molto romantico, ora possiamo passare oltre?» domandò, con tono esasperato.
Regina alzò gli occhi al cielo.
«Parla, Folletto!»
Tremotino fece una smorfia orripilante nella sua direzione.
«Mentre voi vi siete gingillati tra una dichiarazione d’amore e l’altra» disse l’uomo - e Emma si chiese se parlasse di quella quanto mai esplicita che c’era stata tra lei e Regina, a quella nascosta - Dio, ancora non ci credeva - tra suo figlio e Oliver, o entrambe, «io, il buon caro e vecchio Signore Oscuro che tutti quanti chiamano quando non sanno risolvere i propri problemi da soli, ho trovato una soluzione al vostro sottile problema metafisico».
Emma lo guardò, scettica, chiedendosi se, per caso, la rottura con Belle non gli avesse fatto perdere il senno.
«Hai intrappolato la Coscienza di Marvos?» domandò invece Regina, incredula.
Tremotino fece schioccare la lingua.
«Non esattamente, mia cara. Ma!» rispose l’uomo, accentuando quell’ultima sillaba, «ho trovato un modo per farlo. In realtà, ho ancora qualche dettaglio tecnico da definire, ma nulla che non possa essere risolto in pochi minuti con l’aiuto di qualcuno di voi».
«Allora parla, forza!» intervenne David, ansioso.
«Ci ho provato, ma voi avete continuato a zittirmi» rispose Tremotino, fingendosi isterico.
Lo divertiva molto portare allo spasimo, al grottesco, gli stati d’animo più svariati.
«Ad ogni modo ho recuperato dalle segrete questo vecchio diamante dimenticato da tutti e da tutto e-»
«Quel diamante era di mia madre!» protestò Regina. «Ed era nella nostra stanza!»
«Davvero? A giudicare dallo strato di polvere che c’è avrei giurato si trattasse delle segrete».
«A cosa ti serve?» domandò Emma. «Cora aveva trovato il modo di catturare le Coscienze altrui?»
Tremotino scosse la testa.
«Amava collezionare cuori, le coscienze la annoiavano» precisò.
«Vuoi venire al punto?» sbottò Regina.
«Vedi, mia cara» rispose l’uomo, guardandola, «non so se ti ricordi, ma la tua cara mammina è stata uccisa dalla dolce e candida Biancaneve qui presente».
«Per salvare te!» urlò David, sapendo quanto quella storia tormentasse ancora la moglie.
Tremotino si strinse nelle spalle.
«Sì, certo, ma io non provo alcun rimorso a riguardo. Biancaneve, al contrario, è ancora perseguitata dai rimorsi. Li ha nutriti per anni, li ha fatti crescere nella sua anima, e ora saranno una perfetta esca per una Coscienza libera come quella di Marvos, che ne sarà irrazionalmente attratta e incuriosita. Quel diamante, bagnato con qualche goccia del sangue di Biancaneve, sarà l’esca e la cella in cui rinchiuderò quell’ombra».
Il silenzio calò sulla stanza e Tremotino rise stridulamente.
«Divertente, vero?»
 
 
NdA
Ehi! :D Capitolo 12, quindi rimangono ancora tre, al massimo quattro capitoli. Credo ;D
Al solito, grazie mille a Dops per il betaggio <3
In particolare, il discorso di Emma e Regina nel corridoio, è ispirato ad alcuni brani de Il cardellino di Donna Tartt. È un libro davvero… stupendo. Wow. Almeno, io l’ho amato!
In ogni caso, vi lascio qui i passi del libro, che compaiono soprattutto nelle battute di Emma, ma fortemente riadattate (grazie all’insistenza di Dops. In effetti così scorre meglio, lol):
 
[…]Un grande dolore, che comincio a comprendere solo adesso: il cuore non si sceglie. Non possiamo obbligarci a desiderare ciò che è bene per noi o per gli altri. Non siamo noi a determinare il tipo di persone che siamo.
Perché - non ci martellano forse fin dall’infanzia con l’idea opposta, un luogo comune profondamente radicato nella nostra cultura, da William Blake a Lady Gaga, da Rousseau a Rumi alla Tosca a Mister Rogers, un messaggio curiosamente uniforme, trasversale: se sei in dubbio, cosa fai? Come fai a sapere cosa è giusto per te? Ogni psicologo, ogni consulente del lavoro, ogni principessa Disney conosce la risposta: “Sii te stesso”. “Segui il tuo cuore”.
Ma ecco ciò che vorrei che qualcuno mi spiegasse. Cosa succede se ti ritrovi con un cuore inaffidabile? Se questo cuore, per ragioni incomprensibili, ti porta ostinatamente, avvolto in una nube di indicibile fulgore, lontano da tutto ciò che è sano, dal conforto dei piaceri domestici, dal senso civico e dai legami sociali e da tutte quelle che vengono comunemente considerate virtù per trascinarti invece verso uno stupendo falò di rovina, immolazione e disastro? Ha forse ragione Kitsey? Se il tuo cuore ti conduce cantando dritto verso il fuoco, devi voltargli le spalle? Tapparti le orecchie con la cera? Ignorare il perverso splendore che il cuore ti grida contro? Metterti sulla strada che ti porterà alla normalità, orari ragionevoli e regolari controlli medici, relazioni stabili e promozioni sicure, il «New York Times» e  il brunch della domenica, il tutto con la promessa di diventare una persona migliore? O - come Boris - è meglio tuffarsi di testa e con una risata nel sacro fuoco che chiama il tuo nome? […]
 
[]«Be’ - devo dire che io personalmente non ho mai tirato una linea così netta tra “bene” e “male” come fai tu. Per me, spesso quella linea non esiste. Le due cose non sono mai separate. Una non può esistere senza l’altra. Finché agisco mosso dall’amore, sento che sto facendo del mio meglio. Invece tu - sei sempre preso a giudicarti, sempre lì a rimpiangere il passato, a maledirti, a prenderti la colpa, a chiederti “e se questo”, “e se quello”. “La vita è crudele.” “Avrei preferito morire io.” Be’ - pensaci, a questo. E se tutte le tue azioni e le tue scelte, buone o cattive, non facessero la differenza per Dio? E se il disegno fosse già deciso? No no - aspetta - ecco una domanda che vale la pena di farsi. E se fossero proprio la cattiveria e il nostri errori a decidere il nostro destino e a condurci al bene? Se per alcuni di noi non esistesse un altro modo per arrivarci?»[…]
 
[…]«[…]E se… se fosse più complicato di così? Se fosse vero anche il contrario? Perché se è vero che il male può discendere dalle buone azioni… dove sta scritto che da quelle cattive può venire solo il male? Magari a volte - il modo sbagliato è quello giusto? Magari prendi la strada sbagliata e ti porta comunque dove volevi? O vedila in un altro modo, certe volte puoi sbagliare tutto, e alla fine viene fuori che andava bene?»[…]
 
Grazie a tutti, a presto,
Trixie.

 
 

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Capitolo 13
*** Per evitare un addio ***


Capitolo XIII
Per evitare un addio
 
 
 
«Sei sicuro che funzionerà?» domandò David per l’ennesima volta, preoccupato per il piano che coinvolgeva la moglie.
«Oh, non si può mai esser certi di nulla a questo mondo, caro» rispose Tremotino, stringendosi nelle spalle.
David sospirò. Almeno questa volta aveva ottenuto una risposta diversa da una semplice risata.
«Non ci resta che scoprirlo» disse Regina indicando il diamante posato al centro del pavimento.
Sospirò. Non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui Cora glielo aveva regalato.
Per ricordarti che tu sei come questo diamante, mia cara, le aveva detto. Splendente, tagliente, indistruttibile. Fa’ in modo che i potenti uccidano per averti, Regina.
Non era esattamente quello che molte persone avrebbero giudicato un ricordo felice, ma era quanto di più vicino all’affetto ci si fosse potuto aspettare da Cora Mills.
Regina non era entusiasta all’idea di usare quel diamante per catturare la coscienza di Marvos e non solo per via di sua madre.
Ci aveva riflettuto a lungo, ma non aveva mai avuto il coraggio di farlo.
Aveva pensato di scalfirlo e ricavarne una scheggia piccola, ma abbastanza grande da poter essere levigata e montata su un anello.
Con quello, avrebbe voluto chiedere a Emma Swan di sposarla.
Aveva considerato di farlo diverse volte, ma ogni volta si era detta che era una pazzia, che era troppo presto e non voleva spaventare Emma, che non c’era motivo di affrettare le cose e che ci sarebbe stato tempo, per sposarsi. E poi, c’erano sempre problemi. Henry, il loro cuore, la guerra.
Regina non voleva che Emma pensasse che la volesse sposare solo per paura di perderla, come se volesse sistemare ogni cosa, prima di separarsi di nuovo a causa di questo o di quello.
Voleva sposare Emma perché la ragazza sapesse che lei non se ne sarebbe mai andata.
Farlo all’alba di una battaglia, forse, sarebbe stato romantico, ma irreale, artificioso e terribilmente melodrammatico.
Regina voleva solo chiedere alla sua Emma in jeans e canottiera di aggiungere cinque lettere, “Mills”, al suo cognome e avere il permesso di aggiungere “Swan” al proprio.
La donna scosse la testa, scacciando quei pensieri.
Tremotino fece apparire un ago da fuso dal nulla, porgendolo, con il diamante, verso Biancaneve, che lo guardò scandalizzata.
 «Sul serio?» fece David, mettendosi di fronte alla moglie con fare protettivo.
Tremotino si strinse nelle spalle.
«Ho pensato che un tocco di classe sarebbe stato carino» rispose l’uomo, ridacchiando e facendo sparire il fuso dalle proprie mani, così come era apparso. «A Cora piacevano questi piccoli dettagli drammatici».
Regina roteò gli occhi al cielo.
«Cosa mi sto chiaramente perdendo?» domandò Emma, spostando lo sguardo dai propri genitori a Regina e viceversa.
«La Bella Addormentata si punse con l’ago di un fuso. E poi dormì per i seguenti cento anni» rispose David.
Emma si strinse nelle spalle.
«Sarebbe stato carino usare un fuso, sembra adatto all’atmosfera» commentò la ragazza.
«Emma!» esclamarono all’unisono i suoi genitori.
Tremotino guardò Regina.
«Wow, credevo che solo gli uomini potessero avere il Complesso di Edipo».
«Ho dato la laurea in psicologia ad Archie, non a te, Tremotino. Chiudi quella boccaccia fetida» rispose immediatamente Regina. «Quanto altro tempo abbiamo intenzione di perdere?»
Biancaneve, alla domanda esasperata della matrigna - o nuora - sembrò riscuotersi e ritrovare un po’ del suo buonsenso. Dal corpetto estrasse uno stiletto - dopotutto, c’era una guerra alle porte - con il quale si provocò un leggero, ma profondo, taglio sull’indice sinistro.
Fece gocciolare il sangue sul diamante, sulla cui superficie apparvero immediatamente striature rossastre e irregolari.
«E ora?» domandò Biancaneve, quando la terza goccia del suo sangue cadde sul gioiello.
«E ora è meglio che tu ti metta a correre quanto più velocemente te lo permettono le tue regali gambe, mia cara» rispose Tremotino. «Non so quanta fame di rimorsi possa avere, questa Coscienza».
 

«Quel pezzo di m-»
Il resto della frase di David venne inghiottito dal rumore degli zoccoli dei cavalli, che si acuì all’improvviso quando gli animali passarono dal galoppare sull’erba alla terra battuta.
«Aveva detto che non avresti corso pericolo!» urlò l’uomo, rosso in viso per la rabbia. «Che gran figlio di-»
«Ma dove diavolo hai imparato a parlare così?!» domandò sua moglie, che galoppava accanto a lui sulla propria giumenta.
«Nostra figlia» rispose David. «Ma se Tremotino dovesse capitarmi tra le mani, ti giuro che gli infilo la spada su per il buco del culo!»
Biancaneve sperò di aver capito male le parole del marito. Del resto, sarebbe stato del tutto probabile prendere fischi per fiaschi, con il vento che soffiava contro di loro e i cavalli che si allontanavano dal castello quanto più velocemente era permesso alle loro zampe.
Si stavano dirigendo alle proprie sezioni dell’esercito, con quello che speravano essere un ampio anticipo rispetto all’arrivo dei soldati di Marvos, per permettere a Biancaneve di stare lontana dal castello e da quella Coscienza vagante che si sarebbe nutrita dei suoi rimorsi.
«Ferma!» gridò David, tirando le redini del proprio cavallo. Biancaneve lo imitò immediatamente, senza nemmeno dubitare che il marito stesse facendo la cosa giusta.
Non era la prima guerra che combattevano fianco a fianco e avevano imparato a fidarsi l’uno dell’altra sul campo di battaglia, senza esitazioni.
«Cosa c’è?»
David le si affiancò e, con il braccio, indicò alla propria destra. Biancaneve seguì la direzione del dito del marito, fino a individuare una sagoma scura, dai contorni poco definiti a causa della lontananza.
«Un uomo a cavallo?» ipotizzò la donna, più per la velocità con cui si muoveva che per ciò che riusciva a distinguere.
David annuì.
«Uno dei nostri soldati?» domandò Biancaneve. «Credi che Marvos abbia già attaccato?»
David scosse la testa.
«Non ne ho idea. Immagino che lo scopriremo prima, andandogli incontro».
Entrambi, spronarono i propri cavalli.
 

«Ti serve aiuto?»
Tremotino trasalì e si voltò.
«Belle…»
«Ruby mi ha detto che eri qui, solo, ad aspettare la Coscienza di Marvos» rispose la ragazza. «Mi chiedevo se avessi bisogno di qualcosa».
«Grazie, Belle. Sto bene» rispose l’uomo.  «Ma tu dovresti andartene. Potrebbe essere pericoloso rimanere qui».
«Non ho mai ucciso nessuno, non posso avere rimorsi di coscienza peggiori di quelli di Biancaneve» rispose la ragazza, facendo un passo avanti.
«Belle, mi-»
Lei alzò una mano per interromperlo e Tremotino tacque.
«Sono ancora furiosa. Mi vedi ancora come la ragazzina piena di voglia di avventura, che si lancia tra la braccia di uno sconosciuto per salvare le persone che ama, ma io sono cresciuta. Sono una donna. Una donna che ha scelto di sposarti e avere un figlio con te. Non puoi semplicemente decidere cosa è meglio per me, tenendomi nascosto ciò che sai con la scusa di proteggermi.
Sono tua moglie. Non importa quanto difficile o doloroso possa essere il futuro, lo affronteremo insieme. Ma smettila di trattarmi come se potessi rompermi da un momento all’altro in mille pezzi. O come se dovessi provarmi, continuamente, qualcosa. Ti ho conosciuto durante il periodo più buio della tua vita, Tremotino, e mi sono innamorata di te. Ho conosciuto anche la parte migliore di te, e mi hai mostrato ogni tua debolezza, ogni tua paura. Mi hai mostrato il tuo passato e le tue ferite. E, ogni volta che mi rivelavi un pezzetto della tua anima, mi sono innamorata ancora un po’ di te.
Ti amo e voglio che i tuoi turbamenti siano i miei turbamenti e i tuoi sorrisi siano i miei e… non può funzionare, se non la smetti di provare ad apparire come un eroe ai miei occhi. Lo sei già, per me. Ma quello di cui ho bisogno è un marito. Perciò… sono ancora furiosa» disse Belle, prendendo un respiro profondo, riempiendosi i polmoni. Da quando aveva iniziato a parlare, velocemente, inciampando sulle lettere, balbettando, aveva preso a gesticolare vistosamente a camminare avanti e indietro, freneticamente, guardando a terra e poi al soffitto, ma in quel momento Belle si fermò di fronte a Tremotino, accennando un sorriso.
«Però puoi tornare a dormire nella nostra camera. Mi hanno detto che il letto in cui dormi ora è uno dei peggiori dell’intero reame».
L’uomo sospirò e annuì.
«Ho dormito in posti peggiori».
Si strinse nelle spalle e questa volta fu il turno di Belle per annuire.
«Allora, io…» fece la ragazza, girando il busto verso la posta. «Io vado».
«Aspetta» la fermò Tremotino, facendo un passo avanti.
Avrebbe voluto baciarla. E dirle che l’amava. E che non sarebbe mai stato degno di lei, o di Aiden.
Ma Belle aveva sentito quelle parole tante volte, nel buio della loro stanza a Storybrooke, con la schiena del marito premuta contro il petto e le braccia bianche avvolte attorno a lui. Lo aveva ascoltato, baciandogli il collo, scostandogli i capelli del volto, asciugandogli le rare lacrime che non riusciva a trattenere con il dorso della mano.
Del suo animo, Belle sapeva ogni cosa.
Era la sua mente, che Tremotino continuava a tenerle celata. Forse era il momento di cambiare le cose.
«Voglio barattare la Coscienza di Marvos per la Lancia di Achille. Un antico manufatto magico che mi-» Tremotino fece una pausa, «che ci permetterà di aiutare Aiden. Immagino che la signorina Lucas ti avrà accennato qualcosa, a riguardo».
«Sì» annuì Belle, «ma restituire la Coscienza a Marvos…»
«Oh, non ho davvero intenzione di restituirgliela. Marvos è solo un conte da strapazzo con un anello da quattro soldi che a quanto pare ha ottenuto da Venere, da cui, si dice, discenda la sua famiglia. Questo anello lo protegge da ogni incantesimo nato dalla magia oscura, come ho avuto modo di appurare una decina di giorni fa, quando ho tentato di ottenere la lancia nella via più diretta» rispose Tremotino. «Ma se gli taglio la mano con una normalissima spada, non dovrebbero esserci prob-».
«Tremotino!» esclamò Belle, esasperata.
L’uomo esitò.
«Posso riattaccargliela, dopo».
Belle lo fulminò con lo sguardo.
«D’accordo, gli restituirò la sua dannata Coscienza, ammesso che questa cada nella trappola. In fondo, è solo un’ombra in grado di ascoltare i segreti altrui e mandare in tilt il tuo sistema nervoso, nulla di davvero pericoloso».
«Sul serio, Tremotino. Non fare del male a Marvos. Già non mi sento a mio agio all’idea di ricattarlo in modo così meschino».
«Dobbiamo pensare a Aiden» le ricordò l’uomo.
Belle annuì.
«Promettimi che non lo ucciderai».
«Te lo prometto» rispose Tremotino, dopo un momento di esitazione. «Ma ora credo sia meglio che tu te ne vada. L’aria sta cambiando».
Belle non aveva notato nulla, ma d’altra parte lei non aveva alcun senso della percezione della magia, perciò si limitò a muovere veloci passi verso la porta.
Non appena fu in corridoio, un piccola macchiolina viola apparve di fronte a lei e, dopo pochi secondi, venne sostituita da una pergamena che iniziò a planare dolcemente, a zig zag, verso terra.
La ragazza la raccolse e, dopo aver letto, se la strinse al petto.
Ti amo anche io, era scritto sulla superficie ruvida, nell’inconfondibile grafia di suo marito.
 

La figura in sella al cavallo ruzzolò a terra e solo in quel momento David e Biancaneve si resero conto che non si trattava di uno dei loro soldati, ma di due persone. Un uomo e una donna, a giudicare dalla loro costituzione.
Per un folle istante, Biancaneve pensò si trattasse di... No, non poteva essere.
«Frederick!» urlò David, qualche istante dopo.
A quanto pare, aveva notato la stessa somiglianza.
Il cavallo che aveva disarcionato le due figure fece un ampio cerchio attorno a loro, prima di mettersi a brucare stancamente l’erba.
Quella che, secondo Biancaneve era una ragazza, si mise faticosamente in piedi e avvolse il braccio di Frederick - ora facilmente riconoscibile - attorno alle proprie spalle.  La giovane mosse un passo, poi cadde di nuovo a terra.
David e Biancaneve strattonarono le redini e smontarono da cavallo. Ormai, solo un paio di metri li separavano dai due nuovi arrivati.
«Aiutatemi, vi prego, aiutatemi» ansimò la ragazza, che tentò nuovamente di mettersi in piedi. «Mi chiamo Epicari, ho bisogno di aiuto, devo raggiungere il castello di Biancaneve al più presto, aiutatemi».
«Sono io Biancaneve».
Epicari spalancò gli occhi.
«Perché Frederick è con te? Cosa è successo? Re Mida?» intervenne David, affrettandosi a stendere l’amico, supino, sull’erba.
Sganciò la borraccia dalla propria cintura, l’aprì e verso l’acqua in bocca a Frederick e poi una generosa spruzzata sulla sua faccia.
L’uomo iniziò a tossire e David passò l’acqua a Epicari, perché la ragazza potesse dissetarsi. Quando questa ebbe la borraccia tra le mani, guardò titubante Biancaneve.
«Puoi bere» la incoraggiò la donna, con un sorriso. Evidentemente era una serva e certo non era solita bere l’acqua di un membro della casa reale.
«Da-David» disse Frederick, cercando di sorridere. Tutto ciò che l’uomo ottenne dai suoi muscoli fu una dolorosa smorfia, che per poco non lo fece svenire di nuovo.
«Siamo salvi» aggiunse, chiudendo gli occhi con un sospiro. «Mar-».
«L’esercito di Marvos è vicino, molto vicino. Raggiungeranno il castello in un paio di ore, forse meno» intervenne Epicari, incapace di sopportare che Frederick soffrisse ulteriormente nel tentativo di parlare. «Re Mida è morto, subito dopo avermi ordinato di portare il Principe Frederick in salvo. Vostra Maestà» aggiunse dopo una breve pausa, come se avesse momentaneamente dimenticato con chi stavo parlando.
David imprecò.
«Epicari, riesci a cavalcare ancora per qualche miglio?» le domandò invece Biancaneve.
Dovevano agire in fretta, se volevano mantenere quel poco di vantaggio che avevano su Marvos. In fondo, il conte credeva ancora di trovarli impreparati, no?
La ragazza annuì.
«Prendi la mia giumenta e-»
«No», intervenne David. «Prendi il mio cavallo e porta Frederick con te. Io prenderò il cavallo con cui sei arrivata e lo scambierò con uno di quelli di riserva una volta giunto tra i nostri soldati. Tu hai bisogno di allontanarti il più possibile dal castello» continuò poi l’uomo, rivolto alla moglie, «e per risalire la collinetta avrai bisogno di un animale in forze».
Biancaneve annuì, non potendo obiettare altrimenti, e si sciolse dai capelli un nastro con il proprio nome ricamato sopra, poi lo porse ad Epicari.
«Da’ questo ai nani all’ingresso e di’ loro che l’esercito di Marvos sta per attaccare. Loro sapranno cosa fare» disse Biancaneve, porgendo il pezzo di stoffa alla ragazza.
Epicari annuì, poi si alzò e montò cavallo con l’aiuto dell’altra donna.
Si sistemò sul retro della sella, in modo che David potesse issare Frederick, solo parzialmente cosciente, davanti a lei.
Non sarebbe stato facile non farlo scivolare da cavallo, ma era l’unica scelta che avevano.
Quando Epicari partì, anche David e Biancaneve recuperarono le rispettive cavalcature e si scambiarono un bacio, dolce, delicato, le ginocchia di una premute contro quelle dell’altro, dopo aver montato in sella.
«A più tardi, tesoro» disse Biancaneve, in tono grave.
«A più tardi» rispose il marito.
Era quello che si dicevano sempre, prima di doversi separare per affrontare una battaglia. Non si dicevano mai addio, perché nessuno dei due voleva contemplare l’ipotesi che quello avrebbe potuto anche esserlo.
 

«Cazzocazzocazzocazzocazzocazzo» disse Emma Swan, cercando di infilarsi quella che Regina aveva chiamato armatura, ma che la faceva sentire come se fosse un tonno in scatola. Non avrebbe mai più mangiato del tonno in scatola. O piselli in scatola. O cetriolini in scatola. O qualsiasi altra cosa venisse confezionata in barattoli di latta. Non era una bella esperienza.
Emma fece cadere un gambale. O forse andava sull’avambraccio?
«Cazzo!» esclamò di nuovo. «Regina!»
L’altra donna, che stava indossando il suo vecchio completo di pelle di drago che usava in battaglia, si affacciò dalla camera adiacente.
«Guarda che ti ho sentito, Emma».
La ragazza la ignorò.
«Non voglio mettere questa roba, non sono un tonno» piagnucolò Emma, sedendosi sul letto.
Regina la guardò confusa.
«Lo vedo, che non sei un tonno» disse entrando nella stessa stanza di Emma e provocando il totale stupore della ragazza.
«Tu…»
Emma si schiarì la gola, completamente secca.
Regina era….
«Tu sei…» tentò di nuovo, sbattendo le palpebre un paio di volte. «Ti va una sveltina?»
«Oh, per l’amor del cielo, Emma, indossa quell’armatura!»
«Ma non ci riesco! Voglio un completo sexy anche io, Regina!»
«Questo non è-» iniziò la donna, alzando gli occhi al cielo, decidendo immediatamente che discutere di quello, al momento, avrebbe solo fatto perdere loro tempo. «Questo completo è fatto di pelle di drago ed è molto, molto resistente, ma non fornisce la protezione che un’armatura, per di più incantata, può darti. Ora, io starò sulla collinetta con tua madre. Un’esperienza che sarà oltremodo snervante e noiosa, ma necessaria se vogliamo che la mia magia sia di qualche aiuto. Indossare un’armatura sarebbe solo d’impaccio ai miei compiti. Tu, invece, hai deciso di scendere in prima linea con David. Non mi soffermo a sottolineare di nuovo quanto questa tua decisione sia stupida e pericolosa, e mi limito a dirti, Emma Swan, che se non indossi quella dannata armatura, il campo di battaglia non lo vedrai nemmeno con il binocolo».
Emma rimase in silenzio, nuovamente stupita da come Regina potesse usare così tante parole per esprimere un concetto.
«E con un telescopio posso vederla, la battaglia?» domandò poi.
Regina strinse i pugni ed emise un verso esasperato. Emma sogghignò, trovandola comica.
«Scusa, è che quando sono nervosa dico cose insensate» disse poi, prendendo una mano di Regina tra le proprie e poi avvicinandosi, per baciarle, dolcemente, le labbra. «Ma se ci fossero state due nuvolette di fumo che ti uscivano dalle narici, saresti sembrata un drago sul serio».
Regina, suo malgrado, rise e scosse la testa.
«D’accordo» disse infine, facendo un passo indietro e sollevando le mani verso l’alto, «vediamo cosa posso fare con la magia».
Emma si ritrovò avvolta in una familiare nube di fumo viola, il potere di Regina che agitava il suo e lo richiamava.
Quando la stanza ricomparve di fronte a lei, si voltò verso uno specchio e ammirò l’operato di Regina.
«Fico» commentò, mettendosi di tre quarti per osservarsi da un’altra angolazione. «Un po’ pesante, ma fico».
Regina aveva optato per un completo di cuoio, con solo qualche inserto in metallo sul petto e sulla schiena, dove c’era maggior bisogno di protezione.
In fondo, Emma non era crescita in quel mondo. Per lei, la mobilità in battaglia poteva essere una difesa molto più potente e vitale di quella che il metallo avrebbe potuto offrirle.
«Riguardo a quella svel-» iniziò di nuovo Emma, immediatamente interrotta da quelle che sembravano «…campane?»
Regina la guardò con gli occhi spalancati e le fece segno di tacere con un dito.
«Tre ritocchi lunghi. Pausa» disse poi, in un sussurro. «Marvos sta attaccando».
 

L’ombra si gettò sul diamante insanguinato a terra, senza nemmeno accorgersi della presenza di Tremotino, e l’uomo sorrise, osservando la Coscienza di Marvos venire risucchiata nel gioiello e scurirlo.
Raccolse il diamante nero con le striature rosse nel momento esatto in cui le campane iniziarono a suonare.
Tre rintocchi lunghi. Pausa.
A quanto pare, Marvos gli stava facilitando le cose, presentandosi a lui.
 

«Rimani con me, Henry, per favore» lo supplicò per l’ennesima volta Oliver, stringendogli la mano. «Non andare, sei giovane, sei inesperto e quella è una battaglia vera!».
«Lo so, per questo devo andare» rispose il ragazzo, l’elmo sottobraccio e il suono delle campane che si ripeteva in continuazione, riverberando in tutto il castello. Tre rintocchi lunghi. Pausa. Tre rintocchi lunghi. Pausa. E poi di nuovo.
«Henry!» urlò Oliver, ma l’altro ragazzo si era già divincolato dalla sua presa e stava scendendo dei gradini a due a due. Il più giovane lo inseguì e, non essendo ostacolato dall’armatura, riuscì a raggiungerlo alla base della scala.
Oliver, sul gradino più basso, si ritrovò improvvisamente ad essere il più alto dei due, seppur di pochi centimetri.
«Per favore, non andare» lo supplicò, di nuovo, con le lacrime agli occhi.
Henry scosse la testa, lo abbracciò.
«Sono un Principe» disse, come se quello potesse porre fine alla discussione, ma tutto ciò che ottenne furono nuovi singhiozzi da parte di Oliver.
«Ho un brutto presentimento» sussurrò il più giovane, tirando su con il naso, stringendosi al collo dell’altro ragazzo.
«Tornerò sano e salvo, te lo prometto».
«No» rispose Oliver, «ho il presentimento che se ci separiamo ora, non ci rivedremo mai più. Succederà qualcosa di brutto, Henry, a me».
«Qui sarai al sicuro, Oliver» disse Henry con fermezza perché, dannazione, ci credeva sul serio. Quel castello era il posto più sicuro che avesse mai conosciuto in vita sua. Afferrò Oliver per le spalle, dopo aver sciolto l’abbraccio, e lo guardò dritto negli occhi, per un lungo istante, prima di appoggiare la fronte alla sua. «Qui sei al sicuro, Oliver. Tornerò, mi rivedrai, te lo prometto».
«Se non vuoi rimanere, verrò io con te» disse Oliver.
E Henry considerò l’idea di baciarlo.
In realtà, Henry aveva considerato l’idea di baciare Oliver molte volte, ma non l’aveva mai fatto. Non gli sembrava giusto.
Oliver ne aveva passate tante e non voleva approfittare del suo stato di confusione e debolezza in quel modo. Una volta che tutto si fosse concluso avrebbero avuto tempo per trovare una loro quotidianità e, forse, considerò Henry, avrebbero fatto parte l’uno della vita dell’altro in modo più importante che come semplici amici.
E poi, i nonni gli avevano raccontato che non si erano mai detti addio, prima di una battaglia, perché sapevano che non si trattava di un saluto definitivo e che presto si sarebbero ritrovati.
«Non dire sciocchezze, Oliver» disse Henry, accarezzandogli una guancia e sorridendo. «Ci vediamo tra un po’».
«Rimani o io verrò con te» disse di nuovo il ragazzo più giovane.
Henry sospirò.
Fece cenno a una guardia, che non aveva mai abbandonato Oliver da quando era uscito dalla segrete, di avvicinarsi e, prima che il ragazzino se ne accorgesse, si sentì sollevare di peso.
«Mi dispiace, ma voglio che tu sia al sicuro» disse Henry, in risposta allo sguardo terrorizzato dell’altro.
«Henry, ti prego!» urlò il giovane, provando a divincolarsi. «Henry!».
Il suo nome gridato da Oliver fu l’ultima parola che il ragazzo in armatura sentì riecheggiare tra le mura del castello, prima di dirigersi verso la battaglia.
 

«Conte Marvos» disse Tremotino, apparendo di fronte al cavallo dell’uomo, che si impennò. «Ho da poco scoperto che ai vostri illustri titoli avete aggiunto quello di ladro oltre che di usurpatore».
L’uomo a cavallo tentò di governare l’animale, mentre la sua scorta si frapponeva tra lui e Tremotino.
Dopo qualche minuto, il conte ordinò ai suoi uomini di scostarsi e di lasciarlo parlare con l’Oscuro Signore.
«Non posso dire di essere felice di vederti, ma susciti senza alcun dubbio la mia curiosità. Vedi, ora indosso-»
«L’anello di Venere, sì, d’accordo, so tutto a riguardo» lo interruppe Tremotino, annoiato. «Ma sono venuto solo per proporti un accordo. Ora sono un uomo sposato e mia moglie non ama la violenza, perciò…»
Il conte Marvos rise teatralmente.
«Tu, sposato? Oh, andiamo!»
«E ho avuto persino un secondogenito. Ma ora basta parlare di me, piuttosto, vediamo di chiarire in fretta i termini del nostro patto».
«Non ho intenzione di stringere alcun patto con te».
«Vedo che la tua arroganza è rimasta intatta» disse Tremotino, «ma fortunatamente la mia generosità è aumentata a dismisura, perciò fingerò di non aver sentito il tuo sdegnoso rifiuto e ti propongo di restituirmi ciò che è mio. La Lancia di Achille».
Marvos rise di nuovo e la sua scorta con lui.
«Ho fatto l’errore di piegarmi ai tuoi giochetti una volta, Tremotino, ma ora non puoi più minacciarmi in alcun modo. La Lancia di Achille è e rimarrà mia».
«Vorrà dire che mi terrò la tua Coscienza» ridacchiò l’Oscuro Signore, estraendo il diamante nero.
Silenzio.
Marvos fissò il gioiello con un misto di orrore e impotenza. Nell’euforia di iniziare la sua offensiva, si era lasciato travolgere dall’adrenalina della battaglia e aveva completamente ignorato quella parte di sé stesso che gli trasmetteva in continuazione informazioni sullo stato della sua Coscienza. Nulla di elaborato, solo primitive sensazioni di caldo e di freddo, le emozioni più violente captate dall’ombra negli altri esseri umani che venivano imitate dalla sua Coscienza, ma ora, tutto quello che sentiva Marvos, era una continua sensazione di soffocamento.
All’improvviso, il conte divenne pallido.
Avrebbe potuto vivere con la propria Coscienza intrappolata? Avrebbe imparato a ignorare quella parte di sé come se non fosse mai esistita?
Era una tortura.
Imprigionata, su ogni lato.
Freddo, il freddo del diamante. Il lieve torpore nei punti in cui Tremotino reggeva il gioiello.
Il sapore metallico del sangue e quella sensazione che sembrava divorarlo. Cosa era? Sembrava che trapassasse la sua Coscienza, bucandola, trafiggendola con migliaia e migliaia di acuti e implacabili spilli.
E proprio perché non aveva mai provato nulla del genere in vita sua, Marvos capì che doveva trattarsi di rimorso, il rimorso di un’altra persona, certo, ma non meno reale per lui.
Era insopportabile.  
Il conte Marvos sganciò la Lancia di Achille dal supporto della sella cui era agganciata, poi scese da cavallo, camminando lentamente verso Tremotino.
Tese entrambe le mani all’uomo, una reggeva la lancia e l’altra era vuota, pronta a ricevere la sua Coscienza.
«Abbiamo un accordo» disse, sputando ogni sillaba con disprezzo.
Tremotino sogghignò, isterico.
Appoggiò il diamante sul palmo del conte nello stesso istante in cui chiuse le proprie dita, lunghe e affusolate, sul mezzo che gli avrebbe permesso di alleviare la tortura di suo figlio.
Un battito di ciglia e Tremotino era comparso e, con lui, anche la Lancia di Achille.
Ciò che rimase fu Marvos, con la propria Coscienza in un diamante e un’ira implacabile.
«Mangiafuoco» chiamò allora con rabbia.
Uno dei suoi uomini si avvicinò al conte, affiancandolo con il proprio cavallo. «Sì, Mio Signore?»
«Metti a frutto i tuoi poteri e incendia quel castello dalle fondamenta alla torre più alta. Non deve rimanerne nulla, ci siamo capiti?»
Mangiafuoco annuì.
«Portati un paio di uomini e se trovi la moglie di Tremotino o suo figlio, catturali e portali da me, mi assicurerò di ucciderli di fronte ai suoi occhi».

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Capitolo 14
*** Per innescare un incendio ***


Capitolo XIV
Per innescare un incendio
 
 

«Dove cazzo è il mio fottuto cavallo?!» sbottò Emma Swan, entrando nelle scuderie del castello.
Regina alzò gli occhi al cielo, prima di afferrare Emma per il polso e trascinarla di nuovo fuori, fino a una panchina poco distante.
La costrinse a sedersi, poi si parò davanti a lei, con le mani sui fianchi, come quando aveva intenzione di sgridare Henry, da bambino.
«Regina, ma che cosa-»
«Smettila» disse Regina, interrompendo immediatamente Emma. La ragazza la guardò confusa. «Smettila di usare quel linguaggio».
«Sul serio mi hai trascinato qui, ora, prima di una battaglia, per farmi una ramanzina sul linguaggio? Sei impazzita?» sbottò Emma.
«No!» esclamò l’altra. «Forse».
Regina sospirò, prima di sedersi elegantemente accanto alla fidanzata. Schiena rigida, gambe accavallate, mento in alto.
Emma la guardò con una smorfia.
«Regina, che succede?»
«Potremmo scappare».
«Cosa?»
«Emma, tutto questo… Marvos, Abigail, la battaglia… nulla di tutto questo ha a che fare con noi. Scappiamo. Qui e ora. Prendiamo Henry con noi e torniamo a Storybrooke».
Emma sbatté le palpebre, un paio di volte, poi accarezzò la schiena della fidanzata con delicatezza.
Avevano paura, entrambe, ma la differenza sostanziale tra Emma e Regina era che la prima non aveva mai preso parte ad una battaglia campale, non aveva mai affondato la spada nel cuore di un altro uomo, non aveva mai assaggiato il sapore di sangue e terra e sudore, che ti impregnava le labbra e la pelle per giorni, per settimane a seguire e che, a volte, Regina sentiva ancora la notte, nel bel mezzo dei suoi incubi.
Quella di Emma era la paura dei novellini, di chi ha sentito dire quanto una guerra possa essere atroce, ma che non ne ha mai fatto esperienza in prima persona. Era la paura, in sostanza, dell’ignoto e, in quanto tale, non era ben definita.
Non sapeva cosa aspettarsi, non poteva saperlo e perciò il suo terrore non era che un’ombra, come quelle che i bambini temono si nascondano sotto i loro letti la notte. Terribili, certo, ma irreali.
Regina, al contrario, sapeva esattamente cosa aspettarsi e questo la stava divorando.
Poteva vederlo, nella sua testa, il campo di battaglia, con gli eserciti schierati e trepidanti di iniziare il massacro.  
Le prime file che si fronteggiavano, le bandiere che sventolavano al vento e che, nell’attimo successivo, quando ancora gli ordini dei rispettivi comandanti echeggiavano nell’aria, venivano calpestate dai piedi dei soldati lanciati all’attacco.
Regina aveva perso il conto delle volte in cui la sua voce aveva ordinato a degli uomini di avanzare e farsi trucidare perché lei potesse vincere e ottenere la propria vendetta.
Ricordava l’adrenalina nelle vene, le urla e le grida di dolore che nel giro di pochi secondi riempivano l’aria, lo sferzare delle lame, il sibilare delle frecce, il fuoco delle torce e il clangore delle armature. Regina lo ricordava  bene e ricordava anche come tutti quei rumori non fossero altro che un sottofondo, per lei. Come una lieve ballata che accompagnava i suoi propositi di vendetta e sangue mentre, con l’ausilio della magia, si rendeva responsabile di buona parte delle morti nemiche.
Allora, non aveva importanza.
Perché sapeva che avrebbe vinto e che, se anche avesse perso, non sarebbe stata nemmeno una sconfitta, solo un gran peccato non essere riuscita a stringere le proprie mani attorno al giovane collo di Biancaneve e ucciderla.
Quando combatteva la sua crociata personale lo faceva sapendo che non aveva assolutamente nulla da perdere. Non una famiglia, non un amore, non un briciolo di felicità.
Ma affrontare una battaglia dopo aver conosciuto l’amore di Emma e di Henry, con la consapevolezza che erano, nel bene e nel male, una famiglia… Regina era sicura di non poterlo fare.
Non poteva farlo per sé stessa, ma, soprattutto, non poteva lasciare che Emma conoscesse quel mondo, che uccidesse, che le sue notti venissero inevitabilmente stravolte e condannate per l’eternità dal ricordo delle anime che aveva portato via da quella terra.
La paura di Regina non era un essere senza volto che si nascondeva nell’ombra e celava il proprio aspetto, no, la paura di Regina era un mostro che si presentava in pieno giorno, con lineamenti fin troppo noti e una spavalderia accresciuta dalla consapevolezza che ora, qualcosa da perdere, c’era.
Una famiglia, certo, ma soprattutto l’innocenza di Emma.
Da quell’orrore, Regina voleva proteggerla ad ogni costo e se questo avesse significato passare per codarde… beh, certo non era tra gli affronti più terribili.
«Non possiamo andarcene» rispose Emma infine, attirando Regina a sé per stringerla. «Lo sai che non possiamo andarcene. Scappare non è la cosa giusta da fare».
«Non mi importa della cosa giusta da fare» sputò Regina, con la testa appoggiata alla spalla di Emma e una mano sulla coscia della ragazza.
«Lo so che sei spaventata. Lo siamo tutti, ma combattere contro Marvos è la cosa giusta da fare. E ti importa, Regina. Non possiamo permettere che quell’uomo terrorizzi un regno intero per chissà quanti decenni. Abbiamo una possibilità per fermarlo, subito, prima che inizi il peggio, e dobbiamo sfruttarla. Non sarà facile, lo so, ho afferrato. Ma questo non cambia il fatto che noi…»
«Che noi dobbiamo fare gli eroi?» domandò Regina, con un grugnito. «Sai, Emma, non dobbiamo farlo. Il mondo non è diviso in eroi e cattivi. Il mondo non è diviso affatto, al mondo ci sono solo persone. E i soldati che combatteranno l’uno contro l’altro, tra poche ore… loro sono persone. Hanno una famiglia. Hanno una loro Emma e una loro Regina e un loro Henry da cui tornare. I nostri uomini e gli uomini di Marvos, sono prima di tutto, solo uomini».
Regina si era allontanata da Emma e sedeva sul bordo della panchina, con il busto parzialmente voltato verso la fidanzata, per poterla guardare.
«Andiamocene».
Emma aveva le lacrime agli occhi.  
«La prima volta in cui ti ho vista, ho capito in un battito di ciglia perché non saresti mai stata davvero felice. Tu vedi il mondo come è e vedi il mondo come dovrebbe essere. Ma non vedi la profonda ingiustizia che sta nel mezzo. Tu vorresti che ognuno ottenga ciò che si merita. Ma il fatto è che le cose accadono, belle o brutte che siano, a chiunque. Non importa quanto buono o cattivo tu sia, le cose accadono. In questo, siamo persone, nell’essere soggetti al destino. Questa guerra non l’abbiamo provocata noi, ma dobbiamo comunque combatterla» rispose Emma. «Ci è accaduta, come può accaderci un giorno di pioggia o un di inciampare in un sasso».
«Non ci è accaduta, Emma!» esclamò Regina, «Se-»
«“Se”  non ha alcuna importanza. I “se” non sono accaduti. Questo» fece Emma, allargando un braccio verso l’esterno, come se volesse mostrare il paesaggio a Regina, «sta accadendo e sta accadendo ora. Dobbiamo affrontarlo nel migliore dei modi. Non mi farò del male, tu non ti farai del male. Staremo bene. Hai incantato la mia armatura, hai raccomandato a David di non perdermi mai di vista e, insomma, lui è mio padre. Non mi perderà di vista. Henry rimarrà al sicuro al castello e Belle si occuperà di lui. Staremo bene» ripeté Emma, con forza.
La ragazza si alzò in piedi e si portò di fronte a Regina, prima di inginocchiarsi e appoggiare la mani sulle gambe della fidanzata, in un gesto rassicurante.
«Staremo bene. Io, te e Henry, staremo bene. E, quando staremo bene, ti sposerò, se lo vorrai. Oppure, visiteremo il mondo o persino… cambierò macchina, se questo ti renderà più felice».
Una lacrima cadde dalla guancia di Regina e i suoi polmoni, all’improvviso, si svuotarono di tutto l’ossigeno che contenevano, facendola sentire leggera.
Emma le stava chiedendo davvero di…
Sposarla.
L’aveva detto solo per rassicurarla? O ci credeva davvero?
Certo che ci crede, si disse Regina.
Perché non aveva senso. Non aveva senso che Emma desiderasse sposarla e quella proposta di matrimonio non aveva il minimo senso.
Non era stato preparato alcun anello, non era stato preparato alcun discorso e Emma era inginocchiata nel fango, con un’armatura addosso.
Ti sposerò, se lo vorrai.
Non era nemmeno una  domanda.
Era più una dichiarazione di intenti, a parere di Regina, e non aveva alcun senso.
Era solo… da Emma.
E siccome c’era Emma di mezzo,  tutto acquistava improvvisamente senso e ogni pezzo combaciava con ogni altro.
Emma voleva sposare Regina.
E Regina voleva sposare Emma.
«Sposarci mi sembra una bella cosa, da far accadere» disse Regina annuendo.
Si chinò in avanti e afferrò il volto della sua ragazza tra le mani, dolcemente, accarezzandole il volto e perdendosi in quegli occhi verdi.
Almeno questo, almeno amarla, almeno starle accanto, le era stato concesso.
Sperava solo che le venisse concesso ancora per molti, lunghi anni.
 «Ma ti prego, Emma, torna da me, torna tutta intera. Non perdere la testa, in quell’inferno».
La ragazza annuì e appoggiò la fronte a quella di Regina.
Emma sfiorò le labbra dell’altra con le proprie, gentilmente, prima di baciarla con tutto l’amore che riuscì a scovare dentro di sé.
Fu un bacio molto lento e fu interrotto con estremo rammarico da entrambe.
«Nemmeno tu sei riuscita ad allontanarmi, Regina Mills, e questo significa che non c’è nulla che possa riuscire dove tu hai così miseramente fallito» rispose Emma, con la fronte appoggiata a quella della fidanzata e un sorriso divertito in volto. «E così vuoi sposarmi sul serio, uh?»
Regina arrossì e mi morse il labbro, prima di lasciare un altro leggero bacio sulla bocca di Emma.
«Vai a chiedere cortesemente il tuo cavallo, Emma. E non fare tardi a cena» si raccomandò Regina.
La ragazza si alzò e fece un passo indietro, accennando un inchino con la testa.
«Non deluderei mai la donna più bella del reame» ripose, prima di voltarsi e tornare alle scuderie.
Regina la osservò allontanarsi con il cuore che le martellava nel petto e una stretta alla gola.
Ora che non aveva più i begli occhi di Emma davanti, a frapporsi tra lei e il suo terrore, scappare tornava ad essere la migliore idea che avesse mai avuto.
Ma non poteva. Non poteva lasciare la sua ragazza.
Tanto, e quella era la cosa più importante, era inutile prendersi in giro. Comunque fosse andata quella battaglia, non c’era possibilità che vivessero l’una senza l’altra.
E, forse, era proprio la prospettiva che questa possibilità non esistesse, a dare abbastanza coraggio a Regina perché anche lei tornasse verso le scuderie per recuperare il proprio cavallo.
La donna si costrinse a muovere un passo avanti, ma si fermò dopo soli pochi metri, bloccata dalla voce della sua ragazza.
«Dove cazzo è il mio fottuto cavallo, di grazia?!» domandò Emma Swan.
Forse c’era ancora qualcosa da correggere nel suo concetto di cortesia.
 

«Biancaneve» disse Regina, affiancando il proprio cavallo a quello dell’altra donna.
«Reg-wow» rispose questa, con un sorriso. «Capisco perché i miei uomini esitassero nell’attaccarti direttamente».
Regina la guardò confusa, poi scosse la testa.
«È una prerogativa di famiglia fare commenti inopportuni quando si è tesi?»
Biancaneve si strinse nelle spalle.
«Sei nervosa?» domandò poi.
Regina sospirò e annuì.
«Emma è la in mezzo».
«Anche David» aggiunse Biancaneve.
Entrambe stavano guardando le sagome scure, appena distinguibili, che componevano la gran parte dell’esercito che si stava schierando ordinatamente nella pianura sottostante.
«Non verrà sfiorato da alcuna freccia» disse Regina, «e nemmeno Emma».
Biancaneve la guardò disorientata per un istante, prima di comprendere.
«Stai usando la magia per proteggerli?»
Regina si limitò ad annuire di nuovo.
 «Avresti mai pensato che… insomma, è curioso, come il destino abbia giocato con noi, non trovi?» domandò Biancaneve, studiando il profilo di Regina con attenzione, che sorrise, amaramente.
«Già, sotto molti punti di vista. Tu hai… Tu mi hai strappato Daniel e mi hai dato Emma. Io ho preso il posto di tua madre e tu ti sei presa Cora e… insomma, sì, decisamente curioso» ammise Regina, «mi dispiace solo non essere la persona che avresti voluto al fianco di Emma».
«Non sta a me decidere chi vuole amare».
«Non significa che devi accettarlo senza riserve» rispose Regina.
Biancaneve sospirò.
«È per via di Oliver, non è vero?»
Regina rimase in silenzio.
Attorno a loro, i soldati sistemavano le catapulte e gli arcieri controllavano per l’ennesima volta lo stato dei loro archi, sotto il cielo plumbeo, del genere che metteva Regina a disagio, perché lo trovava soffocante. Aveva la continua sensazione che le sarebbe crollato addosso da un momento all’altro. E avrebbe temuto che sarebbe accaduto sul serio, se solo non avesse saputo con certezza che era impossibile.
«Non avrebbe dovuto innamorarsi di me. Non avevo previsto che qualcuno potesse…. Amarmi, di nuovo. Ma poi è arrivata Emma» disse Regina dopo una pausa.
«E ti ha salvato».
«Tu mi conosci, Biancaneve. Come puoi sopportarlo?»
«Oh, credimi, all’inizio non è stato facile. Ho persino temuto che fosse un piano molto contorto per vendicarti di me. Ma mi è bastato vederti una sola volta attorno a Emma per capire che non era così. E se solo fossi stata più attenta… Se ci ripenso, credo di averlo sempre saputo» disse Biancaneve, scuotendo la testa divertita.
«Saputo cosa?» domandò Regina, storcendo il naso.
«Di voi. Tu ed Emma. Insomma, Tremotino ha intrecciato i vostri destini prima che Emma nascesse, Henry ti è finito tra le braccia e ha riportato la Salvatrice a Storybrooke. Sai, quando mia figlia ti ha salvata dal municipio in fiamme… Oh, quello, con il senno di poi, è stato davvero metaforico. E non solo perché, di nuovo, è stato Tremotino a causare quella situazione. Ci sono stati tanti piccoli segnali, nel corso degli anni, che avrei dovuto cogliere.
È sempre stato un sottile gioco di sguardi, il vostro. Un modo quasi compulsivo di cercarsi in continuazione, di irritarsi a vicenda solo per costringere l’altra ad avvicinarsi, ad invadere il proprio spazio vitale. Dio, se ci ripenso, mi viene quasi da ridere, per l’immaturità che avete dimostrato nell’affrontare la faccenda. Due adolescenti alle prime armi» disse Biancaneve, coprendosi la bocca con una mano per nascondere una sorriso.
«Ad ogni modo» disse poco dopo, ad un’imbronciata Regina, «Emma è felice, tu sei felice. Dove è il problema?».
«Non sono la persona adatta a lei, quello che ho fatto-»
«Non è quello che sei. Non più. Ora tu sei Regina. E Regina è la persona adatta a Emma. Smettila di rimuginarci sopra. E vedi di farti piacere Oliver. Non credo che quella di Henry sia una cotta passeggera».
Regina alzò gli occhi al cielo e sospirò.
«Henry è solo un bambino» rispose.
«Già, e invece di stuzzicare Oliver mettendogli le ganasce alla macchina e facendo commenti inappropriati su chi frequenta, ha preso la situazione di petto, si è guardato allo specchio e non è scappato da quello che prova» le ricordò Biancaneve. «E non si è mai presentato nel suo ufficio con una scollatura eccessiva» aggiunse dopo un momento di esitazione.
«Io non-»
«Davvero molto maturo, da parte tua, Regina» disse Biancaneve, sogghignando. «Per non parlare delle notti sull’Isola Che Non C’è. Ottima tattica, quella di stenderti, casualmente, accanto a Emma ogni sera. E le lezioni di magia? Quelle sono state un tocco da maestro, devo ammetterlo. L’hai corteggiata per anni, Regina, fingendo di non farlo, come una sedicenne».
«Oh, andiamo, non è assolutamente vero. Non mi sono comportata come una sedicenne».
«Hai ragione, più da quindicenne» si corresse Biancaneve.
«Sei insopportabile» sbottò Regina. «Capisco da chi Emma abbia preso la sua propensione a dire sciocchezze».
«Oh, ti assicuro che David è a un livello superiore».
Regina sospirò, rassegnata.
«Non oso immaginare di cosa stiano parlando ora, David e Emma».
«Già, nemmeno io. Importanti questioni filosofiche di natura metafisica, suppongo» ipotizzò Biancaneve sogghignando.
Regina, suo malgrado, accennò una risata, che morì nell’aria dopo pochi secondi.
«Grazie per aver pensato di proteggere anche lui, comunque» disse Biancaneve, mettendo una mano sopra quella di Regina.
Quest’ultima esitò, colta alla sprovvista, prima di stringere quella mano bianca e scuotere la testa, a significare che non aveva importanza.
«Le frecce non sfioreranno nemmeno te» aggiunse Regina, guardando le loro mani strette ancora per un secondo, prima di far allontanare il cavallo con passo leggero.
In fondo, non c’era davvero motivo per quei ringraziamenti, no?
Proteggersi a vicenda, è questo che si fa in una famiglia.
Ed era tutto ciò che Regina stava facendo.
 

«Ti dico di no, Emma».
«Senti, è così. Lo vedi da te, no?»
«Non è la stessa cosa!»
«Sì, invece!»
«No! Altrimenti non l’avrebbero chiamata in quel modo!»
«Cosa c’entra, ora, il nome?»
«I nomi sono importanti» disse David, «svelano molte cose su chi o cosa li porta».
«Sul serio? E cosa dovrebbe rivelare il nome balestra riguardo a una balestra?!» domandò Emma.
«Che è una balestra e non un arco orizzontale!»
Emma incrociò le braccia, in sella al suo cavallo, solo per affrettarsi a recuperare immediatamente le redini. A volte, aveva ancora qualche problema di equilibrio in groppa all’animale e faceva fatica soprattutto a gestire la faccenda delle gambe. Aveva paura che, stringendo troppo, avrebbe fatto del male al cavallo.
Ruby aveva commentato dicendo che in realtà il suo problema era l’abitudine a tenere le gambe aperte e che i suoi muscoli avevano dimenticato come chiuderle. Emma le aveva tirato addosso una manciata di chicchi d’avena.
«Il nome balestra dice che è una balestra?» sbottò poi Emma, «Molto convincente, papà!»
«Se non fosse una balestra, ma un arco orizzontale, lo avrebbero chiamato arco orizzontale» disse David, stringendosi nelle spalle.
«Arco orizzontale non è un nome adatto a un’arma» lo contraddisse Emma, «non è abbastanza feroce».
«Nemmeno balestra. Ma si chiama balestra, perché è una balestra e non un arco orizzontale!»
«Papà, non-»
«Ehi» disse una voce alle spalle di Emma, che sussultò violentemente e impallidì. La ragazza rimase in silenzio, per molti secondi, poi scosse la testa.
«Che strano. Mi è sembrato di sentire la voce di Henry» disse, ridendo nervosamente. «Ma non può essere, vero? Insomma, mio figlio rimarrà al sicuro al castello».
«Emma, tesoro…» iniziò David, esitante, facendo cenno alla figlia di voltarsi.
Emma, il cuore che batteva violentemente nel suo petto, fece come le era stato consigliato.
La mascella le cadde a terra.
«Torna al castello. Ora» disse poi, non appena ebbe recuperato abbastanza ossigeno da poterlo inviare al cervello perché potesse funzionare correttamente.
Henry, lì. No, non poteva essere.
«Non posso» disse il ragazzo. «E non lo farò».
«Henry-»
«Sono un principe. Il mio posto è qui» aggiunse il giovane, spostandosi per poter affiancare suo nonno sul lato sinistro con il cavallo.
«Ragazzino, il tuo posto è dove non finirai trafitto da una fottuta spada» lo contraddisse Emma, sporgendosi in avanti sul proprio cavallo per vedere il figlio oltre la figura di David.
«Non finirò trafitto da una spada».
«O disarcionato da cavallo con la testa spaccata dagli zoccoli» disse Emma.
«Non verrò disarcionato da cavallo e la mia testa non verrà spaccata da nessuno zoccolo. Di sicuro, so rimanere in sella meglio di te».
«O trafitto al cuore da una freccia».
«Non verrò trafitto al cuore da nessuna freccia».
«O trafitto al fegato da una lancia».
«Non verrò trafitto al fegato da una lancia. Vuoi elencare tutti gli organi del corpo umano?»
«O colpito in faccia da un giavellotto».
«Non verrò colpito al viso da un giavellotto. Puoi smetterla? O stai provando a spaventarmi?»
«Sto scrivendo un libro: I mille e uno modi in cui tuo figlio potrebbe morire in guerra» rispose Emma, acidamente. «Henry, torna in quel castello».
«Nonno, falla smettere».
David guardò il ragazzo, poi spostò lo sguardo sulla figlia.
Non voleva che Henry si facesse del male e capiva perfettamente le preoccupazioni di Emma. Stava per combattere a fianco della sua stessa figlia.
Capiva Emma, con ogni fibra del proprio corpo.
Ma Henry aveva ragione. Era un Principe. Sentiva che il suo dovere era combattere, così come lo sentiva lui, così come lo sentiva Emma.  
Sua figlia avrebbe dato di matto da lì a pochi secondi e l’uomo sperò solo che non decidesse di ricorrere a Regina per avere sostegno. Poteva gestire Emma o Regina con un po’ di impegno, se prese singolarmente, ma certo non insieme.
«Io credo che…» iniziò David, interrompendosi immediatamente e guardando alle spalle della figlia. C’era qualcosa di strano, al castello. Sembrava quasi che… ma certo non poteva…
David guardò con più attenzione.
Emma seguì la direzione del suo sguardo.
«Merda» disse immediatamente. «Sono io o il castello sta andando a fuoco?»
«Il castello sta andando a fuoco?» ripeté Henry allarmato.
Spronò il cavallo perché superasse Emma e David e si fermò dopo pochi metri.
Non poteva sbagliarsi.
Il castello stava andando a fuoco.
Oliver.
Henry diede un energico colpo di redini e il suo cavallo partì al galoppo verso il castello, verso Oliver, verso il fuoco.
In quel momento, l’esercito di Marvos comparve all’orizzonte, accompagnato dalle grida bellicose degli uomini che lo componevano.
«Va’!» disse David a Emma, «va’ con lui!», poi alzò la spada e gridò, con quanto fiato aveva nei polmoni, il segnale di attacco.
Come un sol uomo, l’esercito che aveva alla spalle di mosse all’istante.
 

«Qualcosa non va» disse Regina.
Lei e Biancaneve avevano avvistato l’esercito di Marvos, ma ancora non avevano dato alcun ordine. I nemici erano troppo lontani perché le loro armi, nonostante la gittata notevolmente amplificata della magia, potessero colpirli.
Biancaneve scosse la testa.
«Non devi preoccuparti per Em-»
«No, non parlo di…» Regina esitò, poi indicò a Biancaneve le direzione del castello. Quest’ultima impallidì.
«Sta… bruciando? È fatto di pietra, come può bruciare?» domandò, scandalizzata e stupita.
«Magia» rispose Regina, chiedendosi se Marvos non avesse dalla sua più di un esercito di uomini comuni. «Devo andare».
«Cosa?»
«Henry» rispose Regina. «Henry è in quel castello».
In quel momento, risuonò una tromba dalla pianura. Il segnale che Marvos stava attaccando.
«Devo andare» ripeté Regina.
Biancaneve annuì.
«Ce la caveremo benissimo».
Senza ulteriori esitazioni, anche Regina si diresse verso il castello.
 
 
 

NdA
Ehi, ho due piccole piccole precisazioni da fare.
Prima cosa, Emma dice: “Tu vedi il mondo come è e vedi il mondo come dovrebbe essere. Ma non vedi la profonda ingiustizia che sta nel mezzo”, è una citazione presa da House e ri-arrangiata qua e là. Non ricordo l’episodio, sinceramente, ma ricordo che è House stesso a dirlo alla Cuddy.
Seconda cosa, la disputa della balestra/arco orizzontale. Io sono assolutamente e senza ombra di dubbio Team Emma. La balestra non è altro che un arco orizzontale u.u
A parte questo, come al solito, devo ringraziare Dops per il betaggio (le venti pagine di “ahahahahahah” riferito alle battute di Ruby le hai fatte con il copia-incolla, vero? Lol).
A presto,
Trixie. 


 
 

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Capitolo 15
*** Per bruciare un amore ***


Capitolo XIV
Per bruciare un amore
 


Una reazione di combustione è una reazione irreversibile.
Questo significa che, una volta che è avvenuta, non è più possibile tornare indietro.
Si può ottenere una reazione di combustione in molti modi, ma il fuoco è sicuramente uno dei più spettacolari.
Il fuoco distrugge ogni cosa che incontra, trasformandola in cenere che copre la terra e in fumo che oscura il cielo.
Il fuoco brucia.
E anche il sangue che scorreva nelle vene di Henry, in quel momento, sembrava bruciare.
I suoi muscoli erano preda di fiamme crudeli tanto quanto quelle che divoravano il castello - un castello di pietra, un castello nel quale aveva creduto che Oliver sarebbe stato al sicuro.
Ma ora quella fortezza stava bruciando, il fuoco lo stava consumando.
Anche l’amore consumava.
Anche l’amore è una reazione di combustione. E quando termina, quando si esaurisce e ha finito di bruciare, non lascia nulla, dietro di sé.
 

«Henry!»
Emma, le redini strette in mano e il busto inclinato in avanti, urlò per l’ennesima volta il nome del figlio, sperando che la disperazione nella sua voce lo portasse a fermarsi.
Non era nemmeno sicura che il ragazzino lo sentisse, ma Emma continuava a chiamarlo comunque.
«Henry!»
Gli zoccoli del cavallo battevano tanto rumorosamente sul terreno e tanto in fretta, che il loro rumore non era più ritmico, ma continuo, come quello di un treno.
A volte, il vento portava a Emma delle urla.
Da dove provenissero, la ragazza non ne aveva idea.
Forse dagli eserciti alle sue spalle, forse dal castello, dove qualcuno era rimasto incastrato dalle fiamme e iniziava a sentire il calore insinuarsi sotto la pelle, risalire lungo il corpo, bruciare…
Emma scosse la testa.
Henry.
Doveva fermare Henry.
 

Henry si lanciò in mezzo alle fiamme che avevano già eroso il portone di ingresso nel momento in cui Regina, a diversi metri di distanza lo riconobbe.
La donna ebbe un moto di nausea che trattene a stento, non appena capì che cosa suo figlio aveva fatto.
Si era gettato in un castello che stava ardendo da cima a fondo.
Spostò lo sguardo, confusa, spaesata, sperando che qualcosa potesse farle capire perché Henry avesse appena fatto una cosa del genere, quando riconobbe la chioma bionda che stava inseguendo suo figlio.
«Emma!» gridò - un grido che sapeva di pianto e isteria - prima che potesse trattenersi, prima che capisse che aveva commesso un errore.
La ragazza voltò la testa nella sua direzione e perse l’equilibrio, ruzzolando a terra.
Il cavallo proseguì la sua corsa, ma non appena si ritrovò di fronte il muro di fuoco, si impennò per poi allontanarsi nella direzione opposta, sfiorando con gli zoccoli la testa di Emma.
O, almeno, Regina sperò fosse così.
Spronò il proprio cavallo ed emise un verso di sollievo quando, dopo pochi istanti, Emma si rialzò, barcollando.
Una volta che l’ebbe raggiunta, Regina notò che aveva un brutto taglio sulla fronte, ma non appena fece per scendere da cavallo, Emma scosse la testa, risoluta.
«Henry» disse solo, ansimante, mentre tendeva la mano perché Regina la aiutasse a issarsi sull’animale.
La donna annuì e afferrò con una stretta decisa l’avambraccio di Emma, liberando il piede dalla staffa perché la ragazza potesse mettersi in sella.
Con un grugnito, Emma atterrò sulla groppa dell’animale, dietro a Regina, e le strinse in fianchi giusto in tempo per non scivolare quando l’animale partì al galoppo.
«Vuole salvare Oliver» sussurrò Emma nell’orecchio della fidanzata, gli occhi fissi sulle fiamme che si avvicinavano sempre di più.
«Dannazione» commentò Regina a denti stretti. «Reggiti, forte» aggiunse poi, abbassandosi in avanti, subito imitata da Emma, che chiuse gli occhi.
La ragazza sentì caldo e dita di fuoco che le accarezzavano la pelle, tentatrici, invitandola a rimanere con loro, poi un urto, gli zoccoli del cavallo che battevano sul selciato d’ingresso del castello e Regina che imprecava, di nuovo, un braccio teso all’indietro per sostenere Emma.
«Stai bene?» le domandò Regina, facendo arrestare il cavallo e guardando in alto.
Tutto ciò che vide fu fuoco, fuoco che liquefaceva mattoni come se fossero marshmallow giganti e vetri che si scioglievano come ghiaccio sotto al sole.
Emma scese da cavallo e afferrò Regina per i fianchi, aiutandola a fare lo stesso, ma non appena quest’ultima si affidò alla presa della ragazza, la sentì gemere.
«Cosa-»
«Va tutto bene. Henry. La stanza di Oliver».
Regina annuì e, insieme, si infilarono in quell’inferno che era diventato il castello.
 

Non appena Frederick era stato portato al sicuro all’interno delle mura e adagiato su un letto, Belle aveva mandato a chiamare Tremotino.
La ragazza non aveva idea di dove fosse l’uomo, ma Tremotino, con la sua magia, era l’unica speranza che Frederick avesse per rimanere in vita.
Belle stava bagnando la fronte dell’uomo, ormai privo di sensi da diversi minuti, mentre la ragazza malnutrita che lo aveva accompagnato fin lì gli stringeva la mano, lacrime calde scivolavano lungo il suo viso.
Poi, all’improvviso, la porta si spalancò e entrambe sussultarono.
«Il castello va a fuoco» disse Ruby sulla soglia, ansimando. Era coperta di polvere da capo a  piedi, i vestiti laceri, le mani e il viso sporchi di sangue.
La battaglia era iniziata.
«Cosa?» fece Belle, confusa.
«Stavo combattendo e quando ho alzato gli occhi ho visto il castello bruciare. Ho cercato David, mi ha detto di avvisarvi, di farvi uscire al più presto».
Belle non era sicura di quello che stava succedendo, ma sapeva riconoscere il terrore e l’allarme negli occhi di qualcuno quando lo vedeva.
«D’accordo. Epicari, aiutami a sollevare Frederick».
«No».
«Epic-»
«È morto» disse la ragazza, lo sguardo perso nel vuoto.
Belle cercò gli occhi di Ruby, che si assottigliarono.
«Dobbiamo lasciarlo qui».
«No!» scattò Epicari all’istante.
«Ruby, non possiamo…» tentò Belle, debolmente.
«Dobbiamo» tagliò corto Ruby, poi indicò Epicari con un cenno del mento. «Lei è ancora viva, possiamo portarla fuori, ma con lui…».
I suoi sensi da lupo non l’avevano mai tradita e in quel momento le dicevano che l’incendio non era tanto lontano. Poteva già sentirne il calore sulla pelle e il suo basso borbottio nelle orecchie.
Portare anche Frederick sarebbe stato troppo rischioso.
Ruby fece un balzo in avanti, un movimento che secondo Belle non aveva nulla di umano, e afferrò Epicari strappandola a forza dal capezzale di Frederick.
«No!» urlava la ragazza, cercando di divincolarsi. «No! NO!»
Ruby fece cenno a Belle di seguirla e, aiutandosi con l’olfatto per evitare le zone del castello già divorate dalle fiamme, riuscì a condurre entrambe in un cortile circondato da mura alte e ricoperte di vegetazione.
Un piccola porta di legno, solitamente usata dalla servitù, le avrebbe condotte all’esterno.
Epicari, che aveva urlato per tutto il tempo, era ormai stremata e Ruby sospettava che la ragazza faticasse a rimanere cosciente a sé stessa dal momento che non reagiva, né si muoveva più.
La affidò a Belle.
«Portala fuori, allontanatevi più che potete dal castello. Io devo tornare alla battaglia» disse solo, concitatamente. Stava già per trasformarsi in lupo, quando un pensiero le attraversò la testa.
Guardò Belle e sospirò.
Ruby si pulì il viso dal sangue come meglio poteva, strofinandolo sulla manica della camicia lacera che indossava.
La ragazza lupo sorrise, prima di posare un leggero bacio sulla fronte di Belle.
 

Mangiafuoco l’aveva riconosciuta subito. Stava aiutando una ragazza dall’aspetto provato a uscire dal castello, sostenendone quasi tutto il peso.
Si chiamava Belle e mai nome sarebbe stato più adatto.
Aveva i capelli rossi, di quel rosso cupo che a lui piaceva tanto.
Ma era cambiata molto, dall’ultima volta che l’aveva vista.
E non si trattava del suo aspetto, no, si trattava dei suoi occhi.
Li ricordava ancora, quei bei occhi tra la folla assiepata attorno al suo teatrino di marionette, che guardavano innocenti e meravigliati quello spettacolo di bambole.
Quando rideva, Belle si copriva la bocca con una mano, ma Mangiafuoco avrebbe desiderato che non lo facesse.
Fu quella, l’unica volta in cui la vide, ma il suo volto gli si impresse a fuoco nel cuore.
Non ebbe nemmeno il coraggio di parlarle.
Lei era così bella.
E poi, era la figlia del re, gli avevano detto.
E lui, chi era? Un burattinaio da quattro soldi che a stento riusciva a mangiare un tozzo di pane la sera.
La lasciò andare senza una parola quando lo spettacolo finì, sperando che il giorno dopo sarebbe ritornata.
Belle gli lasciò una moneta d’oro e con quella Mangiafuoco poté riempirsi la pancia per molti giorni, ma la ragazza non tornò più.
E lui dovette scappare dopo pochi giorni.
Gli orchi avevano invaso il regno e lui non ebbe altra scelta se non allontanarsi da Belle e mettersi in salvo.
Passarono i giorni, passarono le settimane e passarono i mesi.
Passò anche la guerra, infine.
E quando Mangiafuoco tornò nel regno di Belle, per cercare i suoi occhi tra la folla, scoprì che l’Oscuro Signore l’aveva portata con sé.
Fu in quel momento che, per la prima volta, le sue mani presero fuoco.
Autocombustione, l’avevano chiamata.
Lui non sapeva nemmeno pronunciarla, una parola tanto lunga, ma una cosa la sapeva, sapeva che l’amore faceva male e che bruciava.
Ma lui avrebbe imparato a controllare quel potere.
Ci mise molti anni, Mangiafuoco, anni in cui visse da reietto, ai margini della società, in cui imparò che essere temuti era meno doloroso che essere amati, ma alla fine riuscì a padroneggiare le fiamme, nello stesso modo in cui controllava il proprio respiro.
Aveva perfezionato la sua abilità, aveva scoperto che ogni cosa può prendere fuoco, se si scopre la falla nella sua struttura.
E non solo Belle, ma anche lui era cambiato.
Mangiafuoco rise e fece cenno ai suoi uomini di prendere la ragazza, che cercava di difendersi divincolandosi e scalciando, urlando, chiamando il nome di Tremotino.
Oh, la sua Belle era proprio cambiata.
 

«La scala è crollata!» esclamò Regina, con rabbia.
Si erano aperte la strada a fatica, tra il fuoco e le macerie, cercando di tenere a bada le fiamme che si avvicinavano eccessivamente con barriere e getti d’acqua evocati con la magia.
Chiaramente, l’effetto era solo temporaneo e transitorio, quell’incendio non aveva nulla di naturale e Regina non aveva idea di come fermarlo.
«Posso crearla» disse Emma, chiudendo gli occhi per concentrarsi. «Posso farlo».
Regina guardò con apprensione una delle mani della ragazza, orientate verso il vuoto dove solo qualche ora prima si ergeva una scala secolare, di pietra e marmo. Era violacea e gonfia. Sicuramente, era finita sotto lo zoccolo del cavallo.
Si era offerta di sanarla con la magia, ma Emma si era rifiutata; sia perché l’ultima volta che la sua mano era stata guarita grazie alle abilità di Regina era stato sull’Isola di Euridice e nessuna delle due conservava bei ricordi dell’esperienza, ma soprattutto perché la ragazza non voleva in alcun modo che la fidanzata sprecasse più energie del necessario.
Poteva sopportare una mano rotta.
E dovevano uscire di lì, entrambe, con Henry.
Le macerie ai piedi di Regina tremarono.
Scricchiolando, si accatastarono l’una sull’altra, guidate dal potere di Emma, formando un grossolano collegamento tra quel pianerottolo e i successivi, fino al piano su cui si trovava la stanza di Oliver.  
«Non ha l’aspetto di una scala, ma è il meglio che sono riuscita a fare» commentò Emma, quando aprì gli occhi per osservare il proprio operato.
Regina le sorrise, debolmente, prima di inerpicarsi su quell’innaturalmente ordinato cumulo di macerie.
Tese una mano ad Emma e la fece sistemare davanti a sé, per poterla aiutare a salire quando lei non sarebbe più riuscita a farlo con le sue sole forze.
Perché Regina sarebbe stata lì per Emma, ci sarebbe sempre stata.
 

Tremotino avrebbe dovuto immaginarlo, che Marvos gli avrebbe tirato qualche tiro mancino.
Tuttavia, toccare Belle era una cosa che il conte non avrebbe mai dovuto fare.
Il fatto era che Tremotino non era malvagio, di natura. Certo, da quando era diventato il Signore Oscuro la sua anima si era nutrita di cattiveria e tenebre, ma poi, con Belle, aveva realizzato che aveva una scelta, che nessuno era predestinato ad essere buono o cattivo, nessuno ti poteva sottrarre il tuo libero arbitrio.
Perciò quando Tremotino, che si stava dirigendo verso il campo di battaglia, aveva saputo che Belle era stata fatta prigioniera da Marvos, avvisato da una cameriera che blaterava di un uomo in fin di vita, l’uomo seppe all’istante che cosa avrebbe scelto.
Cedere il proprio cuore all’odio e alla crudeltà, lasciare che questi affilino il proprio ingegno e guidino le proprie azioni, oh, Tremotino lo fece con gioia, sapendo che per Marvors non avrebbe avuto alcuna pietà.
 

Emma sudava e tremava.
Aveva freddo, molto freddo.
È una cosa curiosa, come i recettori del calore del corpo umano smettano di funzionare oltre una certa temperatura e entrino in gioco quelli del freddo.
Accade come quando, in una fredda giornata invernale, ci si getta d’un tratto in una vasca colma di acqua bollente e lo sbalzo termico, invece di dare immediato sollievo, fa battere i denti ancora per qualche secondo.
È un paradosso, l’aver freddo nel bel mezzo di un incendio, ma Emma si sentiva gelare.
Guardò Regina accanto a sé, che le restituì un’occhiata di disapprovazione.
La donna aveva insistito a lungo perché Emma si inerpicasse davanti a lei e non accanto, così da poterla aiutare e sostenere, ma la ragazza non aveva voluto sentire ragioni.
Forse si era rotta la mano - di nuovo - ma di certo non aveva passato la vita seduta dietro a una scrivania. Il fatto poi che il piede di Regina era scivolato già un paio di volte mentre Emma non aveva mai perso la presa, la diceva lunga.
«Manca un solo piano» sussurrò Regina.
Emma annuì e proseguì la salita.
 

«Sei tornato» bisbigliò Oliver, accennando un sorriso, «ma ora sono io, a dover andare».
«Oliver? Oliver, no, rimani qui con me, Oliver!»
Oliver non rispose.
Henry lo chiamò più e più volte, ma nulla cambiò.
Henry sapeva cosa voleva dire, ma Henry non capiva.
Perché Oliver era lì, dannazione, era lì, tra le sue braccia.
 

«Credo di avere qualcosa che ti appartenga» disse Marvos, guardando, tronfio, l’Oscuro Signore. «E credo anche che tu abbia qualcosa che mi appartenga».
Belle aveva le mani legate e la bocca imbavagliata.
Un uomo, che Tremotino riconobbe come Mangiafuoco, la teneva per i capelli con tanta forza che la ragazza toccava a terra a malapena con le punte dei piedi e, dal dolore, aveva le lacrime agli occhi.
«Lasciala e ti darò la Lancia di Achille» disse Tremotino, con voce bassa. A stento controllava la propria furia.
Marvos rise, gettando indietro la testa.
Tremotino notò che la spada che aveva in pugno era insanguinata. Evidentemente, l’uomo aveva pensato bene di dare il proprio contributo alla battaglia che si stava ancora svolgendo.
«Ti restituirò la tua preziosa mogliettina. In cambio tu mi darai la Lancia di Achille e mi aiuterai a vincere questa guerra».
Belle cercò di parlare, ma le parole vennero soffocate dalla stoffa, e Mangiafuoco la strattonò.
«D’accordo» concesse Tremotino, facendo apparire la Lancia sulla sua mano in una nuvola di fumo viola.
Fece un passo avanti, porgendo l’arma a Marvos, ma il conte indietreggiò.
«Non sarebbe carino se tu mi pugnalassi con la mia stessa lancia» fece notare, prima di fare un cenno a Mangiafuoco. «Sarà la ragazza a fare lo scambio e rimarrà con noi fino a quando non avrò ucciso Biancaneve, suo marito e l’intera famiglia reale con il tuo aiuto, Tremotino».
«Ti aiuterò solo quando la lascerai andare» chiarì l’Oscuro Signore.
Il conte scosse la testa.
«Tratterò tua moglie con ogni riguardo, mentre ti occuperai della battaglia, non preoccuparti».
Tremotino strinse le labbra.
«Non pensarci nemmeno, a usare la magia per liberarla. Mangiafuoco è pronto ad arderla viva o i miei soldati a trafiggerla. Nessuna delle due alternative mi sembra auspicabile».
«D’accordo. Ma se le succede qualcosa in mia assenza non ci sarà più nulla che mi trattenga dallo staccarti la testa dal collo a mani nude» sputò Tremotino con furia, a denti stretti.
Marvos fece un gesto a Mangiafuoco, che liberò la ragazza e sciolse la benda che le impediva di parlare.
Belle mosse qualche passo, incerta, verso Tremotino.
Le parole di Marvos le avevano dato un’idea, un’idea spregevole. Ma Belle non vedeva altra via di uscita.
«Mi dispiace tanto» sussurrò all’uomo che amava mentre stringeva le dita tremanti attorno all’asta della Lancia di Achille.
Poi, Belle si voltò verso il conte Marvos.
 

«Henry!» urlò Regina, prima di tossire nuovamente. L’aria piena di fumo e fuliggine la stava soffocando e respirare diventava sempre più difficile, a ogni secondo.
«Lo vedo, Regina, lo vedo!» disse Emma all’improvviso, tirando la mano di Regina verso la propria direzione.
 

Belle fece un passo.
Poi un altro.
Ne mancava uno solo, poi avrebbe dovuto scegliere.
Belle avanzò e scoprì che, quella scelta che tanto la terrorizzava, non era poi così difficile.
Aveva una famiglia e questa sarebbe sempre stata la sua prima scelta.
Perciò sollevò la Lancia di Achille sopra la testa con entrambe le mani e, con tutta la forza che aveva, la piantò nel collo del conte Marvos, lasciato scoperto dall’armatura che indossava.
Sentì la punta affondare, un orrendo gorgoglio e un verso soffocato echeggiare nell’aria e lo sguardo sorpreso del conte Marvos cercare i suoi occhi.
Belle perse l’equilibrio e cadde in avanti.
Per un lungo istante, tutti i presenti trattennero il fiato.
Nessuno osava muovere un muscolo, solo Marvos, a terra, si dibatteva ancora, come in cerca d’aria.
Fu solo quando il corpo del conte giacque immobile, che Tremotino spostò lo sguardo in quello di Mangiafuoco.
«Metti fine all’incendio al castello e ordina ai soldati di Marvos di deporre le armi».
Mangiafuoco esitò.
Belle aveva smesso di piangere.
E Tremotino voleva solo prenderla tra le braccia e proteggerla, proteggerla da tutto quanto.
«Il vostro comandate è morto e nulla mi impedisce di ucciderti ora» gli ricordò l’Oscuro Signore.
Mangiafuoco fece schioccare la lingua e si voltò verso la combriccola di soldati, ora visibilmente spaventati, poi fece scivolare lo sguardo a terra, fino a incontrare il corpo senza vita di Marvos.
Vi si avvicinò, evitando Belle ancora stesa a terra, immobile, le dita macchiate dal sangue del conte che si spargeva senza sosta sulla terra.
Mangiafuoco si chinò accanto al cadavere e gli sfilò con difficoltà l’anello di Venere dal dito, che proteggeva il comandante dalla magia mentre era in vita.
Si rialzò in piedi.
«Quell’anello è stato forgiato per Marvos in persona, non ti proteg-» fece Tremotino, prima di essere interrotto da Mangiafuoco.
«Lo so» disse l’uomo, «Nestore» chiamò poi, con voce profonda.
Uno dei soldati si fece avanti.
Era pallido in volto, ma cercava di mostrarsi spavaldo e sicuro di sé.
«Prendi l’anello del conte Marvos e raggiungi più in fretta che puoi il generale Aiace. Riferisci l’ordine di arrendersi all’istante e di ritirare le nostre truppe» disse Mangiafuoco.
«Sarà fatto» disse Nestore, montando sul proprio cavallo e fermandosi accanto all’uomo che gli porgeva l’anello solo per un secondo, prima di partire in tutta fretta verso il luogo in cui si stava svolgendo la battaglia.
«L’incendio» ricordò Tremotino a Mangiafuoco, che gli restituì un’occhiata irritata, prima di inspirare a fondo con la bocca.
Dell’aria calda accarezzò Tremotino per lunghi istanti, prima che Mangiafuoco deglutisse.
Aveva richiamato il fuoco dentro di sé.
«Bene. Ora credo che tu possa andartene con i tuoi soldati. Non fatevi più rivedere da queste parti, perché è su di voi che ricadrà la morte del conte Marvos, ci siamo capiti?»
«Vuoi il nostro silenzio per proteggere tua moglie, ma noi cosa ci guadagniamo, eh?» urlò uno dei soldati, con rabbia, all’improvviso.
Si era sposato solo da poche settimane e sua moglie era incinta. Non voleva costringere la sua famiglia a vivere da esiliati, né abbandonarla.
E tutto per una guerra cui non avrebbe nemmeno voluto partecipare.
Tremotino alzò la mano e lo ruotò.
Lo schiocco del collo del soldato fu improvviso e fece sussultare tutti  presenti.
«La vita».
Mangiafuoco annuì, senza dire una parola, e si voltò per andarsene. Il drappello di soldati lo imitò senza esitare, senza nemmeno osare guardare il loro compagno o il loro generale, entrambi a terra senza vita.
Tremotino si affrettò a raggiungere Belle e la prese tra le braccia, stringendola forte al petto.
Mangiafuoco lanciò loro un’ultima occhiata.
Oh, la sua Belle era proprio cambiata.
 

Le fiamme si spensero all’improvviso e il brusco cambio di calore e luminosità colse tanto Emma quanto Regina di sorpresa.
«Cosa è successo?» domandò la ragazza, confusa. Regina scosse la testa.
«Non lo so, ma non mi importa» rispose.
Entrambe guardarono Henry, inginocchiato a terra, con il capo di Oliver in grembo.
Gli accarezzava delicatamente il viso pallido, dove le lacrime di Henry cadevano senza sosta.
Poi Regina lo vide.
Vide quell’ammasso di travi e pietre sotto cui parte del corpo di Oliver era sepolto, dalla vita in giù, e alcuni schizzi di sangue sul pavimento coperto di polvere.
Lei e Emma si avvicinarono cautamente a Oliver e al loro bambino, si inginocchiarono alle sue spalle e lo abbracciarono, senza dire una parola.
 

Henry non capiva cosa stesse succedendo.
Oliver era tra le sue braccia.
Ma Oliver non respirava.
Il cuore di Oliver non batteva.
Henry sapeva cosa voleva dire.
Voleva dire che Oliver era morto.
Ma Henry non capiva.
Perché Oliver era lì con lui ed era ancora caldo, ma le sue labbra erano del colore sbagliato, come sbagliata era la temperatura della sua pelle e poi Oliver non respirava e i suo occhi erano chiusi.
Perché Oliver non respirava?
Henry lo sapeva, ma non capiva.
Oliver era morto.
Ma la morte non aveva alcun senso.
Sua madre era morta, ma poi era tornata, perciò anche Oliver sarebbe tornato, giusto?
Oliver stava tornando.
Si era assentato, solo per un po’.
Ma poi avrebbe aperto nuovamente gli occhi e le sue labbra sarebbero tornate rosse e piene di vita e il suo petto avrebbe ripreso a battere ritmicamente.
Henry doveva solo aspettare e avere pazienza.
Forse Oliver stava tardando un po’, nel tornare da lui, ma era solo perché aveva perso la strada.
A tutti capita di perdersi, prima o poi.
E se Oliver avesse tardato ancora un po’, significava semplicemente che si era perso un po’ di più e allora Henry sarebbe andato a cercarlo.
Emma l’aveva fatto.
Emma aveva cercato Regina e l’aveva trovata.
Poi, Emma e Regina erano tornate.
Ci avevano messo molto tempo, ma avevano ritrovato quella strada piastrellata di sacrifici, lacrime e dolore che aveva permesso loro di tornare.
Poteva riuscirci anche Henry.
Potevano riuscirci anche lui e Oliver.
Perché Oliver sarebbe tornato.
Oliver era lì.
Henry sentiva il peso del corpo di Oliver, la consistenza della sua carne, lo spazio che occupava.
Henry non capiva.
Oliver si era solo perso.
Oliver non respirava.
Ma stava tornando.
Oliver era morto.
No, avrebbe trovato la strada.
I suoi occhi erano chiusi.
Ma tra poco li avrebbe aperti.
Le sue labbra erano viola.
A Henry quel colore non piaceva.
Ma non aveva importanza, perché mancava poco, poi Oliver gli avrebbe sorriso e le sue labbra sarebbero tornate rosse.
Oliver era solo in ritardo.
Anche a Henry capitava spesso di essere in ritardo.
Doveva solo aspettare.
Anche se Oliver era morto.
E questo Henry lo sapeva, ma, davvero, Henry non lo capiva.
Poi, qualcuno, lo abbracciò.
E Henry capì.
 


NdA
 Prima di tutto, un paio di precisazioni.
 [Mangiafuoco] imparò che essere temuti era meno doloroso che essere amati è un riferimento a un concetto che Machiavelli presenta in uno dei suoi trattati (Il Principe, se non sbaglio).
Inoltre Nestore e Aiace sono personaggi presi in prestito da Omero.
Per quanto riguarda il resto… Umh, beh, almeno il prossimo - e ultimo - capitolo non è tanto triste, giuro.
Grazie a Dops per il betaggio. Come sempre ha salvato la mia reputazione e la mia dignità <3 (lok).
A presto,
Trixie. 
 

 

 

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Capitolo 16
*** Epilogo - Per ricominciare una vita ***


Epilogo
Sette mesi dopo
 
Per ricominciare una vita
 


 
Regina si era offerta di far sparire quella cicatrice con la magia, ma Henry aveva preferito tenerla.
Segnava il lato destro del suo volto, dall’attaccatura dei capelli fino alla mandibola, e gli ricordava ogni giorno cosa volesse dire essere bruciati dall’amore.
Se l’era procurata nell’incendio del castello, tenendo tra le braccia il corpo di Oliver.
Henry vi passò le dita, guardando il proprio riflesso nello specchio.
Sospirò, poi sorrise, scacciando i brutti ricordi e il passato.
Quello sarebbe stato un grande giorno.
 

«Mi sto cacando addosso».
«Emma!» esclamò sua madre, scandalizzata.
Ruby si limitò a ridere, mentre Ethel guardò confusamente la sorella.
«Se non sai tenerla fino a quando non sei sul vasino, Emma, devi portare il pannolino».
Ruby, dopo un istante di esitazione, prese a ridere più forte, quasi latrando. La sua ragazza, Epicari, tentò almeno di contenersi.
Emma guardò entrambe in cagnesco.
«Ethel, tesoro, Emma non deve davvero andare in bagno. È solo un brutto modo di dire che non devi assolutamente imparare» spiegò Biancaneve, sistemando una delle ciocche bionde della figlia più grande e fissandola con un pettine insieme alle altre.
«Perché non posso mai imparare nulla, di quello che dice Emma?» domandò di nuovo la bambina.
Biancaneve esitò.
Dopo la battaglia, Regina e Emma le avevano confidato cosa sospettavano riguardo a Ethel. Durante le prime settimane, Biancaneve non aveva fatto altro che pensare a conigli dal pelo morbido e unicorni, in presenza della figlia minore, ma infine Regina era riuscita a spiegare  a Ethel come controllare e contenere la propria abilità e ai suoi genitori, a come erigere una barriera tra i loro pensieri e quelli di Ethel.
Ora la bambina, che era abituata ad avere libero accesso a ogni pensiero altrui, aveva preso a fare domande insistenti su qualsiasi cosa, e l’unica che sembrava avere abbastanza pazienza da rispondere a ogni perché, quando, come e dove, sembrava Regina, che persino dopo ore passate a parlare con Ethel, riusciva a conservare la propria sanità mentale.
Biancaneve, invece, era in grado di resistere solo fino all’ora di pranzo.
«Ethel, tesoro, perché non vai a vedere cosa fa zia Regina?» suggerì sua madre. «Ti accompagneranno Ruby e Epicari, ti va?»
«Zia Ruby, fai il lupo?» domandò Ethel speranzosa, correndo verso la ragazza e prendendole la mano.
Ruby rise, poi annuì.
Fece per trasformarsi, ma Biancaneve la fermò.
«In corridoio, Ruby, per favore. Non vorrei che schizzi di bava o pelo rovinino il vestito di Emma».
«D’accordo, ma quando Emma vedrà Regina, quel vestito non rimarrà asciutto tanto a lungo».
«RUBY LUCAS!» urlò Biancaneve, con gli occhi sgranati.
«Perché non rimarrà asciutto? Perché Emma si farà la pipì addosso? A Emma serve proprio, un pannolino».
«Non ho bisogno di un pannolino!» si intromise Emma, a metà tra l’isterico e l’esasperato.
«Bene, d’accordo, forse è meglio andare» intervenne Epicari, prendendo Ethel in braccio e trascinando Ruby fuori dalla stanza. «A dopo».
Ethel e Ruby salutarono con la mano, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Biancaneve e sua figlia rimasero in attesa per qualche istante, fino a quando non sentirono il passo pesante di un lupo allontanarsi e le risate di Ethel che si aggrappava al pelo di Ruby mentre era sulla sua groppa, per non cadere.
Alla sorellina di Emma piaceva farsi scorrazzare in giro così da Ruby e amava terrorizzare gli altri bambini del castello.
E dal momento che la fortezza era ancora in ricostruzione al castello c’erano più bambini del normale, visto che ai figli di cuochi, maggiordomi, camerieri e stallieri si erano aggiunti quelli di costruttori, fabbri e vetrai.
Ad ogni modo, solo una metà del castello era stata terminata, dopo che era stata distrutta dall’incendio appiccato da Mangiafuoco e, per questo motivo, Biancaneve avrebbe voluto rimandare quel giorno.
Ma né Emma né Regina aveva voluto sentire obiezioni, a riguardo.
Avevano scelto una data e, in quella data, si sarebbero sposate.
Alla fine, Biancaneve aveva acconsentito e ora si ritrovava a sistemare i capelli della figlia in un elegante chignon. Semplice, ma adatto a una sposa.
Con cura, la donna sistemò anche l’ultimo fiore bianco - i fiori della loro casata - tra le ciocche della figlia, poi sospirò.
«Ho finito» disse.
Aveva la voce spezzata.
«La mia bambina sta per sposarsi» singhiozzò Biancaneve.
 «Mamma, ti prego, non metterti a piangere adesso. La cerimonia deve ancora iniziare!» sbottò Emma. «E io sono terrorizzata. Regina potrebbe averci ripensato. Forse avevi ragione. Non c’è motivo di affrettare le cose, no? Perché sposarsi ora? Possiamo aspettare che la costruzione del castello sia terminata».
Biancaneve scosse la testa e si schiarì la gola, prima di afferrare le mani di Emma tra le proprie.
«Avreste potuto aspettare, è vero, ma il fatto è che nessuna delle due voleva più rimandare questo momento» disse la donna, con un sospiro. «Tuo padre dice che sei troppo giovane, per sposarti, ma lui aveva vent’anni in meno di te, quando mi sposò, quindi… Tutto ciò che conta è l’amore. Tu ami Regina?»
«Cazzo, sì».
Biancaneve sospirò.
«Allora va tutto bene. È giusto essere spaventati. State iniziando una nuova vita insieme e il futuro spaventa sempre, ma va tutto bene».
«Lo so che è dura accettare che io abbia scelto Regina, mi-»
«No, Emma, non è dura. All’inizio è stato uno shock, certo, ma ho visto di cosa siete capaci insieme e di cosa siete capaci l’una per l’altra. Sono felice di affidarti a lei».
Emma sorrise e deglutì, ricacciando indietro il groppo che le si era formato in gola.
«Grazie, mamma» disse infine, alzandosi in piedi e abbracciando l’altra donna.
«State dimostrando al mondo che l’amore può ogni cosa, Emma. Non devi ringraziarmi».
La ragazza sorrise.
«Sei sempre la solita».
«Anche tu, Emma. E, a proposito, potresti evitare parole poco eleganti, durante la cerimonia?»
 

La tenda accanto a Tremotino prese fuoco e l’uomo fece roteare gli occhi, spegnendo il piccolo incendio con uno schiocco delle dita.
«Tua madre non era tanto agitata, quando si è sposata».
«Mia madre non aveva nemmeno un cuore» gli ricordò Regina, «io invece ne ho due».
«Giusta osservazione, cara» concesse Tremotino.
«Non posso sposare Emma».
«Perché no?» chiese pazientemente l’uomo, con un sospiro. Preferiva quando Regina scaricava la tensione incendiando qualunque cosa le capitasse sotto tiro, piuttosto che parlarne, ma in quel momento Tremotino non vedeva alcuna via d’uscita.
«Perché…» Regina esitò. «Perché lei è Emma».
Tremotino la guardò perplesso, poi sospirò.
Donne.
«Non è la ragione per cui la sposi? Perché lei è Emma».
«Non cambiare le carte in tavola, Tremotino!» sbottò Regina, con rabbia.
L’uomo alzò un sopracciglio.
Sul serio, non ci stava capendo nulla.
Si mise le mani nei capelli e sospirò.
Regina prese a camminare avanti e indietro, l’ampia gonna di tulle che frusciava ad ogni passo.
Tremotino la seguì con gli occhi per un paio di secondi, irritato dal suo andirivieni, prima di raggiungerla e afferrarla per le spalle.
«Regina, lei è Emma».
«Lo so come si chiama la donna che sto per sposare, non c’è-»
«Regina, per l’amor del cielo stai zitta un attimo» la interruppe Tremotino con fermezza.
La donna sbuffò e alzò gli occhi al cielo, prima di incrociare le braccia davanti al petto e guardarlo imbronciata.
Quella donna aveva terrorizzato il regno per anni, aveva combattuto guerre, aveva lanciato una Maledizione terribile, era morta e poi era ritornata nel mondo dei vivi, aveva salvato il proprio figlio da un incendio e ora era lì, a mettere il broncio all’Oscuro Signore, terrorizzata nel giorno del suo matrimonio.
Tremotino si chiese come avrebbe fatto ad arrivare alla fine di quella giornata.
«Regina, quella ragazza si è fatta letteralmente andata e ritorno dall’Inferno, solo per te. E tu ti sei… beh, ti sei uccisa per lei. Dacci un taglio con queste lagne».
«Non parlarmi come se-»
«Come se fossi una figlia adolescente e ingestibile? Allora smettila di comportarti come tale».
Regina lo guardò ancora per qualche secondo, prima di sbuffare e voltarsi, per darsi un’ultima occhiata allo specchio.
«D’accordo» disse infine, passando davanti all’uomo e pestandogli di proposito un piede. «Ora dobbiamo andar-»
«Zia Regina!» esclamò Ethel in quel momento, entrando nella stanza senza nemmeno bussare. «Emma si è cacata addosso!»
La bambina corse tra le braccia della donna in abito bianco, seguita a ruota da un piccolo dai capelli rossi che si aggrappò alla gamba di Tremotino, sorridendo.
L’uomo prese in braccio Aiden.
Regina spalancò la bocca, poi spostò lo sguardo su Ruby e Epicari, che si erano affacciate alla porta. Ruby sogghignò, prima di spiegare.
«Non letteralmente. È solo terrorizzata» disse.
«Ci ha… ripensato?» domandò Regina, con un filo di voce.
«Oh, no, no» si affrettò a precisare Ruby. «Ha paura che tu abbia cambiato idea».
«Che assurdità, una cosa del genere non potrebbe mai passarmi per la testa!» esclamò Regina.
Tremotino le lanciò un’occhiata di sbieco, chiedendosi cosa succedesse alle donne il giorno del loro matrimonio, ma fortunatamente venne distratto da Aiden.
«La mamma mi ha chiesto se va tutto bene».
«Certo, tesoro, il papà ha tutto sotto controllo, qui» rispose l’Oscuro Signore, scompigliando i capelli di suo figlio.
Dopo la battaglia, Belle non era riuscita a guardare negli occhi suo marito per molte settimane.
Avevano trascorso notti intere a parlare, al buio, di quello che era successo con Marvos.
«Come puoi amarmi dopo quello che ho fatto?» domandava la ragazza in continuazione, singhiozzando.
«Come ti ho amata in tutto questo tempo, Belle, non è cambiato nulla» rispondeva pazientemente Tremotino, accarezzandola e asciugando le lacrime dal suo volto.
Per quanto lui la amasse e le stesse vicino, però, l’uomo sapeva che Belle aveva bisogno di parlarne con qualcuno per cui l’omicidio non fosse un modo come un altro per risolvere una discussione.
Trascorrere del tempo con Biancaneve aveva aiutato sua moglie molto più di quanto Tremotino avesse mai immaginato, e pian piano Belle aveva iniziato a piangere di meno e, persino, a guardarsi allo specchio.
A volte, la notte, aveva degli incubi terribili, che scuotevano il suo intero corpo, ma la vicinanza del marito bastava a tranquillizzarla.
La questione di Aiden era stata ancora più difficile da risolvere di quella di Belle ed era stata Regina a convincere Tremotino a non usare la Lancia di Achille.
«Potrebbe non provare più alcun sentimento per il resto della sua vita, Tremotino. Non puoi condannare tuo figlio a questo destino» gli aveva detto, «deve esserci un altro modo. Lascia che controlli tra i vecchi libri di Cora».
Avevano trovato un incantesimo che faceva al caso loro nello stesso volume che conteneva l’incantesimo che aveva consentito a Regina di redimere il proprio cuore e finire poi sull’Isola di Euridice.  
Permetteva di proteggere il cuore di una persona dalle sensazioni più violente, così da attenuarle. Per uno come Aiden, per il quale i sentimenti di tutti finivano con il riflettersi nella sua anima, sarebbe stato l’ideale.
A volte, tuttavia, accadeva ancora che il bambino si mettesse a piangere o a ridere inspiegabilmente a causa dei limiti dell’incantesimo che, per quanto potente fosse, non era in grado di arrestare le emozioni più eccessive, ma per la maggior parte del tempo, era un bambino come tutti gli altri.
E di questo Tremotino sarebbe sempre stato grato a Regina.
Aiden circondò il collo del padre con le sue piccole braccia.
«E allora perché il tuo cuore fa tum-tum così forte?» gli bisbigliò.
Tremotino sorrise.
«Perché sono felice per zia Regina. Ma non dirglielo, ok? E nemmeno alla mamma. Sarà il nostro segreto» rispose in un sussurro l’uomo.
Aiden annuì, convinto, agitando i riccioli rossi.
«Credo che sia ora di andare, tesoro» disse proprio in quel momento Epicari, guardando Ruby, che annuì vigorosamente.
Tremotino mise a terra il figlio e gli diede una pacca sulla spalla, prima che questo prendesse Ethel per mano per tornare con lei verso la porta.
Regina trattenne a stento un sorriso, guardando come Ruby si perdesse completamente nello sguardo di Epicari.  
Le due ragazze si erano conosciute il giorno stesso della battaglia e, da quel che Regina ricordava, non si erano più separate.
Dopo aver aiutato a riorganizzare il castello e a costruire ripari di accoglienza per la sua gente, molte persone erano tornate a Storybrooke e gli abitanti, donne e bambini, che si erano rifugiati nella piccola cittadina del Maine durante la guerra, erano tornati nella Foresta Incantata.
Emma e Regina erano rientrate a Storybrooke non appena era stato possibile.
E anche Henry era andato con loro.
Dopo la battaglia, il ragazzo non aveva parlato per giorni, con nessuno. Si era isolato, aveva smesso di mangiare, di bere e di dormire.
Non era stato facile, per nessuno di loro.
Per Emma era stato come guardare sé stessa in uno specchio, per Regina era stato come vedere i frutti di quello che aveva fatto.
Ma alla fine, Henry era andato da loro.
Piangeva, ma la sua voce era risuonata forte e sicura.
«Torniamo a casa» aveva detto.
Anche Emma e Regina si erano messe a piangere.
Erano ritornate nella Foresta Incantata solo perché Biancaneve aveva insistito sul fatto che due persone con il loro lignaggio si dovessero sposare in un castello e, su quell’unico punto, Regina si era trovata d’accordo con lei.
«Regina» la chiamò Tremotino, per la terza volta.
La donna scosse la testa.
Ruby, Epicari, Ethel e Aiden se ne erano andati.
«Regina, dobbiamo andare» disse Tremotino, porgendole il braccio.
La donna deglutì, prese un sospiro profondo e il mazzo di fiori che era posato su un cuscino lì accanto. Annuì.
«Andiamo» disse poi, afferrando il braccio dell’uomo perché la accompagnasse all’altare, da Emma Swan.
 

«La nostra bambina si sposa» piagnucolò David, facendosi abbracciare dalla moglie.
«Lo so, tesoro, lo so» lo consolò Biancaneve, dandogli gentili pacche sulla spalla.
Emma si schiarì la voce.
«Papà» disse, con la voce tremante. «Credo sia ora di andare. Non voglio far aspettare Regina».
«Non sono pronto per questo giorno» rispose David, tirando su con il naso.
«Papà».
«Scusa, hai ragione. Sono un uomo fatto e finito, gli uomini non piangono» rispose David, sciogliendosi dall’abbraccio della moglie e porgendo il braccio a Emma. «Sei pronta, tesoro?»
«Sì» rispose Emma, «sono pronta da una vita».
 

Avevano deciso che Henry sarebbe stato il loro testimone di nozze e avrebbe portato loro le fedi all’altare.
Il ragazzo se ne stava ritto, orgoglioso e sorridente, a poca distanza dal Cappellano di Corte, che avrebbe officiato la cerimonia.
Emma, sul fondo della navata, deglutì non appena si rese conto di quante persone fossero effettivamente presenti in quella sala enorme, completamente rivestita di marmo e con vetri colorati alle finestre.
C’era anche Abigail, nelle prime file, con il neonato erede al trono tra le braccia.
Era vestita d’oro e nero. Emma dubitava che avrebbe mai smesso il lutto per la morte del padre, del marito e del piccolo Oliver.
Persino Henry portava ancora un nastro di stoffa nera in ricordo di Oliver e sul fatto che mai l’avrebbe tolto, Regina e Emma erano più che concordi.
Al di fuori della sua famiglia, di Abigail, dei nani e dei pochi abitanti che aveva conosciuto a Storybrooke, Emma, comunque, non riconobbe nessuno degli invitati che la guardavano sorridendo.
Vogliamo un matrimonio intimo, Biancaneve, aveva detto a sua madre. Già, evidentemente non l’aveva avuta vinta.
Nemmeno sul diadema.
Emma non avrebbe voluto indossare alcun diadema, ma, nonostante questo, ora ne aveva uno che brillava sulla sua testa e la ragazza aveva il terrore di muovere il capo e farlo cadere.
David fece una lieve pressione sulla sua mano e Emma capì che dovevano muoversi e raggiungere l’altare. La ragazza mosse un passo, poi un altro.
Aveva insistito per recarsi all’altare prima di Regina, che aveva acconsentito, ma non aveva detto a nessuno il motivo della sua decisione.
Il fatto era che Emma aveva paura di inciampare.
Insomma, cadere lunga distesa il giorno del proprio matrimonio era una di quelle cose che la signorina Swan sarebbe stata più che capace di fare.
Così aveva chiesto a Regina di recarsi all’altare per seconda, per due motivi. In questo modo, Emma non sarebbe stata distratta dalla bellezza della donna che stava per sposare, diminuendo le probabilità di inciampare e, seconda ragione, se anche fosse inciampata, Regina non sarebbe stata lì per vederla.
Emma lo considerava un ottimo piano.  
«Attenta al gradino» bisbigliò David e, Emma, con stupore, si rese conto di essere già di fronte all’altare.
Afferrò il vestito con la mano libera, alzandone appena l’orlo e salì il primo gradino, poi il secondo e il terzo.
Non era inciampata, era ancora in piedi.
Sempre sottobraccio a David, Emma si voltò.
Regina era sulla porta, in fondo alla navata.
Fu in quel momento che Emma comprese la falla nel suo piano.
Regina era così bella, quel giorno, come ogni giorno, che la ragazza all’altare temette di svenire di fronte a tutti quanti.
 

Emma aveva un vestito stretto, che seguiva dolcemente la linea del suo corpo, per poi allargarsi verso il fondo.
Era bianco, con perle e cristalli ricamati in complicati arabeschi sulla gonna e sulla parte superiore, ma quello che attirava immediatamente l’attenzione era la schiena di Emma, lasciata nuda dal vestito e messa in risalto dal pizzo bianco e finemente lavorato che la incorniciava.
La ragazza non portava il velo, ma solo il piccolo diadema di argento e diamanti. Tra i capelli, aveva i fiori simbolo della casata della sua famiglia.
Quando Regina la vide, credé di essere sul punto di svenire.
«Se ti azzardi a farlo, ti lascio cadere a terra» le bisbigliò Tremotino, mentre muovevano il primo passo verso l’altare. «Ancora non capisco perché tu mi abbia costretto a farlo».
«Perché tu lo volevi» rispose Regina, sorridendo. Aveva imparato a parlare muovendo le labbra in modo impercettibile quando era ancora una bambina. Cora le aveva detto che quell’abilità le sarebbe stata molto utile in futuro e, anche se Regina ai tempi l’aveva considerato solo un gioco, in effetti era una tattica cui era ricorsa innumerevoli volte.
«Non essere ridicola, cara».
«Hai detto a Henry che mi avresti voluta come tua figlia».
«Sì, ed eri morta. Si dicono molte cose, quando le persone muoiono».
«Ora non essere tu ridicolo. Lo sappiamo entrambi che non hai mentito».
«Meglio che tu taccia, cara, prima che decida di farti inciampare».
La donna sorrise e strinse la mano di Tremotino che, suo malgrado, sorrise a sua volta.
 

L’orlo del vestito di Regina era coperto di cristalli neri, che si inerpicavano lungo la gonna e sul corpetto, in linee sottili e discontinue.
Brillavano, così come la pesante corona d’argento e gli orecchini con pietre nere incastonate, ma quello da cui Emma rimase abbagliata, fu lo sguardo della donna.
Emma le sorrise.
Era felice, così felice che temette di perdere il controllo della propria magia - della loro magia - tanto era la forza con cui questa turbinava e scorreva nelle loro vene.
E il fatto era che, non solo Emma era felice, ma vedeva la propria felicità riflessa nel volto della donna che amava.
Lo sentivano nei loro cuori.
Non si erano nemmeno preoccupate di cercare una soluzione a quel loro problema perché, in fin dei conti, non era affatto un problema.
Si amavano, volevano trascorrere insieme il resto della loro vita ed erano abbastanza codarde e egoiste da non voler vivere un solo giorno senza l’altra.
Avere un solo cuore non era poi tanto male.
Regina raggiunse i gradini e li salì ad uno ad uno, sostenuta da Tremotino.
Emma riteneva che la donna non avrebbe potuto scegliere una persona migliore, per accompagnarla all’altare. Era stato Tremotino che, forse senza nemmeno rendersi conto di quello che stava facendo, aveva intrecciato i loro nomi e il loro destino.
Regina aveva lanciato la Maledizione, Emma l’aveva spezzata.
E ora Emma e Regina stavano per sposarsi.
Era giusto che a fare le veci del padre di Regina fosse Tremotino.
Il Cappellano si schiarì la gola e guardò David.
«Chi concede questa donna in sposa a questa donna?» chiese, con voce chiara e possente, che riecheggiò in tutta la sala.
«I-Io, il padre» rispose l’uomo, emozionato, guardando la figlia negli occhi a lungo, per poi fare un cenno a Regina.
David fece un passo indietro e lasciò il braccio di Emma.
«E chi concede questa donna in sposa a questa donna?» domandò nuovamente il Cappellano, questa volta rivolto a Tremotino.
«Io, onorato di avere questo privilegio, come se fossi il padre» rispose l’Oscuro Signore, lasciando il bracco di Regina e facendo a sua volta un passo indietro.
Ciascuna delle due donne intrecciò le proprie dita a quelle dell'altra. 
 

Henry era ritto accanto a loro. Su un cuscino erano posati due anelli identici, gli stessi cerchietti che Tremotino aveva incantato e che avevano permesso a Emma e Regina di trovarsi sull’Isola di Euridice.
Era stata di Henry l’idea di usare quei ciondoli come fede nuziale.
«Dovevano essere un ricordo di quello che avevate perso per sempre» aveva detto il ragazzino, «ora saranno il simbolo di cosa significa amare, amare per davvero».
Emma fu la prima, a pronunciare la promessa di matrimonio.
Sciolse l’anello di Regina dai nastri che lo tenevano legato al cuscino, poi afferrò la mano sinistra della donna di fronte a lei e infilò l’anello esattamente all’altezza dell’unghia dell’anulare di Regina.
La voce di Emma tremava appena, ma non si trattava di incertezza, no. Semplicemente credeva così profondamente e in modo così assoluto in quelle parole, che il peso del loro significato era come un nodo nella sua gola. 
«Regina, vorrei poterti dire che ho capito che saresti stata la donna della mia vita non appena ti ho vista, ma sappiamo entrambe che mentirei. Non capisco mai nulla, quando si tratta di te, se non che ti amo.
Il fatto è, Regina, che mi sono innamorata di te giorno dopo giorno, scoperta dopo scoperta. Ti ho conosciuta, un pezzo di anima alla volta, e mai il mio amore ha smesso di crescere.
Non chiedermi come sia possibile, ma i secondi passano, il tempo scorre, e io ti amo sempre un istante in più.
E non importa cosa accadrà domani, io sarò sempre al tuo fianco.
Per questo io, Emma Swan, accolgo te, Regina Mills, come mia sposa.
Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, in salute e malattia, in ricchezza e povertà; di amarti e di onorarti, tutti i giorni della mia vita.
Accetta questo anello come simbolo del mio amore».
Emma infilò con delicatezza l’anello al dito di Regina, che sorrise, con gli occhi umidi, prima di sciogliere anche l’altro cerchietto di metallo dai nastri del cuscino e afferrare la mano sinistra della ragazza.
Nonostante lacrime di gioia minacciassero di scivolare lungo le sue guance, la voce di Regina era chiara, forte e distinta. Poche volte, in vita sua, si era sentita tanto sicura della scelta che stava per compiere e, ognuna di queste, aveva coinvolto Henry, Emma o entrambi.
«Ho visto molti luoghi, ho visitato molti reami e sono stata in molti mondi, Emma, ma in nessuno di questi ho trovato una persona che fosse incredibile e straordinaria quanto te.
Ti ho cercata per tutta la mia vita, ti ho aspettata, ti ho allontanata solo per rincorrerti poco dopo, perché con te ogni cosa trova il proprio posto e so che il mio è al tuo fianco.
Ti chiamo Amore, ti chiamo Felicità, ti chiamo Emma e per me non fa alcuna differenza, perché non potrei mai avere una sola di queste cose, senza le altre.
Per questo io, Regina Mills, accolgo te, Emma Swan, come mia sposa.
Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà; di amarti e di onorarti, tutti i giorni della mia vita.
Accetta questo anello come simbolo del mio amore».
Regina infilò l’anello al dito di Emma, con mani tremanti.
«Per i poteri conferitimi da questo Regno, io vi dichiaro moglie e moglie» disse il Cappellano, «può baciare la sposa».
Emma e Regina si guardarono, tanto intensamente da sentirsi nude, anima e corpo, di fronte all’altra e con tanto ardore da non accorgersi nemmeno del fragoroso applauso in cui esplose la sala non appena le loro labbra si sfiorarono per suggellare il loro amore in quel bacio.
E in quel momento entrambe capirono, con assoluta certezza, di essere esattamente dove volevano essere, con la persona giusta, nel momento giusto.
Forse, non era il Lieto Fine che si erano aspettate, ma era il loro Lieto Fine e lo avevano ottenuto combattendo per il loro amore, con sacrifici e rinunce.
Qualche menestrello, un giorno, cantando nelle taverne La ballata della Principessa che amò una Regina, dirà forse che a causa di tutto il dolore che causarono e dovettero sopportare, il loro fu quasi un Lieto Fine, ma certo non potrà negare che vissero per sempre felici e contente.
 




NdA
Quindi… È finita.
E, come ha detto la mia beta Cla: “Non hai fatto morire né una né l’altra, il che è a fucking record”, e credo che questa sua frase riassuma alla perfezione tutto quanto.
Beta che, comunque, ringrazio tanto tanto tanto per la pazienza e i betaggi e i commenti e whatever. <3 (Lo sai che non sono brava in queste cose).
Ringrazio le buone anime di coloro che hanno letto e sopportato i ritardi di pubblicazione. Scusate, ma sono un disastro in termini di tempismo >.<
E chiunque abbia deciso/deciderà di lasciare una recensione.
E nulla. Ho finito anche qui :3
A presto, con un’altra storia!
Trixie. 



 
 

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