L'isola

di TheEldestCosmonaut
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1.1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1.2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1.3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2.1 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2.2 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 2.3 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 2.4 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 2.5 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 7.1 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 7.2 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 7.3 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 7.4 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 8.1 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 8.2 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 8.3 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 8.4 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 9.1 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 9.2 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 9.3 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 9.4 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 10.1 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 10.2 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 13.1 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 13.2 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 13.3 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 14.1 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 14.2 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 16.1 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 16.2 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 17.1 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 17.2 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 17.3 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 19.1 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 19.2 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 20 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1.1 ***


La Foresta Silente, incantevole amalgama di tronchi robusti, intricate ed intriganti ramificazioni, tenere e rigogliose fronde, era un miracolo della natura, una delle meraviglie più affascinanti del mondo. Nata nel tempo prima del tempo, prima della venuta dei Semidéi o degli Osservatori, secondo la religione, quando il mondo era giovane e indisturbato dal ronzare indaffarato di animali in cerca del cibo per sopravvivere a un’altra giornata, tentanti di sedurre i propri compagni e proliferare, arricchire le acque e la terra con numerosa prole nella speranza di resistere fino alla caduta del tempo, la Foresta Silente era davvero degna di questo elusivo titolo, come non lo sarebbe mai più stata nei tempi che furono e che saranno. Solitaria, senza nemici né competizione, la ricchezza della terra era tutta sua da poter sfruttare, e mai diminuiva o era fonte di problemi a causa della voracità con cui le radici impoverivano le fertili e morbide rocce, perché sempre ogni singolo albero e cespuglio ricreava se stesso e si rigenerava, abbandonando al suolo le vesti vecchie e raggrinzite di cui si era appena spogliato. La terra era tanto affamata che, se qualcuno dotato del dono della ragione avesse potuto osservare il panorama in quel remoto periodo della storia, avrebbe potuto vedere le rocce stesse aprirsi in due e divorare rami e foglie secchi, frutti e fiori che non avevano avuto successo e avevano perso colore e profumo, a mo’ di fauci.
La terra, tuttavia, non covava rancore nei confronti dei famelici giganti di legno ed erba: aveva anch’essa, prima di chiunque altro, subito il fascino che quella selva, tra tutte le altre figlie della terra, anche più grandi ed estese, comparse per le superfici emerse ed asciutte, emanava da ogni gemma, petalo e bacca, ed era ben felice di riciclare i suoi scarti per fare in modo che la Foresta Silente non morisse mai né alcun’ombra offuscasse il suo splendore.
La fortuna della Foresta Silente fu quella di poter sorgere e lussureggiare in un ambiente paradisiaco, perennemente caldo e mite; un’oasi di fertilità nel mezzo dell’oceano, inaccessibile, sperduta al limitare di quello che fu poi denominato il Mare dei Serpenti, che già allora, anche senza bestie marine a infestare le sue acque, era un inferno liquido devastato da gorghi infiniti e cavalloni impervi e dediti a un’eterna lotta per il dominio del mare disabitato.
Gli arbusti della Foresta Silente non videro mai le distese sterminate dell’oceano, salvo gli alberi maggiormente forti che si erano tanto innalzati verso il cielo da divenire i sovrani del manto verde; l’acqua della pioggia invece la vedevano bene, ed era loro amica. Periodicamente dolci acquazzoni di gocce tiepide e corpose, floride di vita, intorpidivano ininterrottamente per molti giorni gli alberi e la terra, arricchendo gli uni e l’altra con le esalazioni e i sali trasportati dal vento da luoghi che le piante della Foresta Silente non avrebbero mai potuto vedere, ma le cui esperienze assorbivano e condividevano attraverso i resti sospinti dall’aria e dalle nuvole.
Quando gli insetti emersero dalla terra secca e cominciarono a solcare i cieli protetti dai maestosi rami con le loro minuscole ali membranose, la Foresta Silente fu più rigogliosa che mai.
Piccoli operosi animaletti, figli mobili della terra, che svolgevano non solo il lavoro di mantenere intatta la grazia della Foresta meglio e più velocemente che il suolo da solo, ma la estesero oltre i confini originali, portando i suoi forti semi in luoghi che lo spirito della Foresta non aveva osato incamminarsi per paura di una perdita, e dando all’intero bosco l’esatta cognizione della grandezza e della maestosità della meraviglia che essa era.
Via via animali sempre più complessi furono partoriti dalla terra e dall’acqua, e popolarono la divina foresta con gioia, gustando i suoi frutti e anche essi facendo la loro parte nel mantenere sempre viva e mai intaccata la sua bellezza. La Foresta non fu mai tronfia o avversiva nei confronti della nuova vita mobile, e condivise felicemente ciò che aveva da offrire, che per eoni aveva sempre tenuto per sé.
Fu poi il turno della vita intelligente. Grandi e magnanimi Semidéi, portavoce degli elementi necessari al proliferare della vita, figli dei supremi Vegnet, Vorcan, Semal, Ertur e Infan, manifestazioni delle Somme Forze padrone e creatrici del cosmo, che giunsero sui mondi per donare l’intelletto e la ragione, il dono e forse l’obbligo di studiare le forze regolatrici dell’universo e di comprenderle. Su quel mondo, e in quell’isola che al tempo non era ancora stata separata dal sopraggiungere delle acque, essi crearono i Aythis, ‘gli abitanti’, che diedero Gorm come nome della loro casa, e giunsero poi a chiamare se stessi Gormaythis e in seguito gormiti, gli abitanti di Gorm. Essi erano la razza prediletta, su quel mondo – per quel che è dato sapere – dei Semidéi, e diedero ad essi in dono il portentoso Occhio della Vita, da proteggere e venerare. Questo è ciò che dice la leggenda, e non tutti le credono alla lettera. Fu così per secoli, ad ogni modo, finché la comprensione e la scienza dei gormiti crebbe così tanto da mettere in discussioni gli antichi miti e scatenare una guerra fratricida. Quei tempi però sono passati: ora si vive in pace, su Gorm, e la solidarietà riacquisita dopo quasi un millennio di storia conosciuta ha portato gli abitanti dell’Isola ad estendere i suoi orizzonti e a conoscere e a mettere anche piede su sponde altre a quelle della loro isola madre.
La Foresta Silente subì dei cambiamenti da quando la vita intelligente iniziò a calpestarne il suo suolo e a sfruttare i propri poteri per migliorarsi la vita. Il popolo prescelto per abitare l’esteso bosco non aveva problemi di sorta nell’adattarsi alla selva. Esso era sempre cresciuto lì, sapeva alla perfezione ciò che ogni tipo di pianta esigeva per crescere e per fruttare, e sapeva riconoscere con ben poche tracce il pericolo di un animale selvatico e trovare una via di fuga funzionante.
Il proliferare talmente intenso della Foresta Silente l’aveva però nelle ultime epoche resa selvaggia e impervia, e la vita senziente, più debole e sensibile delle altre forme allo scopo di poter sostenere la propria intelligenza, specialmente coloro che venivano da fuori e non conoscevano i segreti della Foresta, trovava difficoltoso abituarsi ad essa.
Il Popolo della Foresta aveva innata in sé la capacità di convivere con la Foresta Silente, di adattarsi e vivere in simbiosi con essa senza preoccupazioni eccessive, come parte integrante e non abusante, in particolar modo coloro che nel corpo più assomigliavano agli alberi nati e cresciuti in quella porzione di isola. Il sopraggiungere delle comodità anche superflue e le richieste incalzanti dei Popoli esterni portarono alfine i gormiti della Foresta a mutare la loro casa con i propri poteri. Inizialmente la cosa fu indolore: il Popolo verde era capace di volgere a proprio piacimento la direzione e la conformazione dei rami e dei tronchi con facilità e naturalezza, in modo ben diverso da ciò che era permesso dalla magia. A loro necessitava semplicemente volerlo e dare un verso al proprio desiderio con i movimenti delle mani. Case sugli alberi, rifugi nei tronchi a migliaia furono ottenute e scavati a questo modo in brevissimo tempo. Le loro abilità non si fermavano qui, anche se ora è così. Ci fu un tempo in cui tutti i gormiti possedevano non solo il potere di piegare gli elementi, ma anche di crearli, violando molte delle leggi naturali enunciate dai sapienti delle altre genti del mondo, nonché le proprie, ma poiché gormiti e poteri furono nati insieme, gli abitanti dell’Isola ci fecero ben presto l’abitudine, e per loro il controllo degli elementi fu sempre una normalità, non avendo mai avuto per molti secoli, del resto, possibilità di definire la stranezza della cosa con altre genti. Tali poteri non erano la sola stranezza dei gormiti, comunque.
Accadde insomma che case in legno per i dissimili dalle piante e per i gormiti da fuori furono erette con queste abilità al solo prezzo della stanchezza – non in termini commerciali, ovviamente – e persino nuovi alberi furono eretti in tal modo, sebbene ci si accorse subitamente che non era nel potere di alcun gormita creare la vita, solo controllarla – per quelli della Foresta. Arrivarono in seguito anche dei disboscamenti per spianare dei sentieri nella Foresta Silente, ma in modo misurato e mai senza pentimenti. Il Popolo della Foresta aveva molto a cuore il benessere della sua casa e madre in tutta la sua interezza, ed era quasi un crimine abbattere anche un singolo tronco quando per ere la Foresta era rimasta intatta e in perenne evoluzione.
Quando i poteri vennero meno, anche se c’era sempre la possibilità di piegare la materia, il Popolo della Foresta, ma non solo, iniziò a cantare gli alberi e i rami. Sì, cantando nella Prima lingua, con incantesimi. Si levavano sia di giorno che di notti i cori tremendamente musicali delle magie che i gormiti evocavano per riparare i fusti danneggiati dalle lotte che in tempi molto recenti avevano vessato la Foresta Silente e l’Isola intera.
Nonostante tutto quello che ha passato, e i mutamenti nello stile di vita degli abitanti dell’Isola di Gorm, la Foresta Silente rimane ancora una meraviglia e un prodigio, un’opera di inimitabile sontuosità della natura che nemmeno lo sforzo congiunto di tutti i gormiti dell’Isola potrebbe radere al suolo, solo il tempo.
Il Cronista lo sapeva bene, lui amava la sua casa ed era bene al corrente di come, in barba a ciò che i gormiti le avevano fatto, la Foresta Silente fosse ancora un luogo selvaggio e irto di pericoli in varie forme, nelle zone lontano dai sentieri di terriccio dove i rovi e i cespugli si fanno più fitti, e la luce stessa di Nejema fatica ad entrare.
Lui sapeva con precisione, tutta la precisione possibile, gli eventi, le atrocità, i miracoli che sotto quelle foglie fameliche di luce si erano assecondati nel corso dell’ultimo secolo. Era il suo lavoro, e sapeva con esattezza, per suo studio e solo in piccolissima parte per partecipazione o per aver assistito, anche gli eventi accaduti al di fuori delle mura invisibili e imprecisate della Foresta Silente, che avevano comunque provveduto a cambiare il corso della storia anche per il Popolo verde.
Spalancò gli occhi dorati, quasi di scatto come una tenaglia serrata, nonostante l’età gli permettesse ben pochi altri movimenti così fulminei, ritrovandosi il bruno soffitto di rami saldamente e fittamente intrecciati che sovrastava il suo letto. Il barlume del primo sole illuminava fiocamente gli interni di casa sua, alta su per l’albero di noce, attraverso rade piccole finestre, dove i viticci erano stati piegati lateralmente, coperte da tendine rosate. La luce mattiniera rischiarava debolmente la sua sedia e la scrivania del suo studio, nella stanza attigua e non separata da porte, ma da una tenda, anch’essa scostata. Si era dimenticato di chiudere, la sera prima.
Oltre ad essa, c’era la cucina e sala da pranzo, che funzionava anche da soggiorno, e null’altro. Era un gormita vegetale, il Cronista, e come ogni gormita simile alle piante necessitava di ben poco per vivere bene, contrariamente alla maggioranza della gente di Gorm. Non mancavano ovviamente alcuni suoi lussi, né quelli della moglie, ma nulla su cui egli pose lo sguardo appena svegliato.
Si perse a osservare il soffitto, senza pensieri precisi, solo vaghi, nella testa. Ogni intreccio e ogni ramo brulicava di vita, di linfa. Aria e liquidi della terra che scorrevano senza sosta dall’alto in basso e dal basso in alto, recando nutrimento dalle foglie e dalle radici a tutto il tronco e ad ogni ramo, in una crescita continua e senza fine, lenta e inesorabile. Solo un disastro avrebbe potuto fermare quella corrente flemme di energia, che fluiva anche in lui. E con disastro su Gorm, nella Foresta Silente, ci si poteva riferire unicamente alla follia di un individuo, o un gruppo di individui. I fenomeni atmosferici non provocavano mai danni enormi, in quella zona, e di terremoti, maremoti o tempeste di roccia dallo spazio vuoto oltre il cielo non se ne parlava. Le profezie l’avrebbero annunciato previamente, anche se erano molto spesso inesatte e continuamente riadattate alla vera successione degli eventi.
Mentre l’illuminazione dell’alba si faceva sempre crescente e il Cronista esitava ancora, sveglio ma immobile, sul suo letto e la riflessione improvvisata sullo scorrere dell’energia, paragonabile a quello del tempo, con la sola eccezione che era il tempo stesso a decretare la sua fine, e con essa quella di ogni cosa, il forestale si soffermò a riflettere su un particolare molto più concreto e problematico del soffitto ramificato. Tra un viticcio e l’altro, a tratti, si intravedevano alcuni spiragli luminosi, bianchi, e nei più grandi c’era addirittura una nota verdognola.
Per Krut! – esclamò tra sé, stringendosi le labbra – Questo è grave. I rami si sono sfibrati, mi toccherà andare a sistemarli, o mi entra tutta l’acqua in casa. E non solo quella.
Adocchiò innervosito un paio di formiche che gironzolavano appiccicate per il legno su di un ramo. Concentrò il suo sguardo su di esse. Anzi, una sola alla volta. Con un bersaglio così piccolo e lontano, per di più da seduti, non sapeva né poteva dare il meglio di sé. La formica in questione si bloccò. Aiutandosi con la mano, la quale nello sfilarsi dalle lenzuola urtò la moglie distesa dormiente al fianco, che replicò con un gemito, rimosse la formica dal legno, la fece fluttuare e la spinse oltre l’apertura più ampia, facendola schizzare via. La stessa sorte subì l’altro insettino, soffermatosi a fissare esterrefatto la sua compagna prendere il volo senza ali e sparire, invece che mettersi immediatamente in fuga, zampettando ovunque. Se l’avesse fatto, sarebbe forse sopravvissuta all’esecuzione del Cronista, muovendosi troppo frettolosamente perché la potesse afferrare.
Il gormita sorrise compiaciuto, ma il problema rimaneva. Altri insetti sarebbero potuti entrare dalle minuscole soglie, e magari anche qualche ricordino gettato da uccelli in viaggio che planavano sopra gli alberi. Molto meglio prevenire che curare, e rimediare subito a quei buchi.
Non ora. – si disse non molto contento, levandosi per mettersi seduto sul letto e stiracchiandosi piano, non volendo che la sua ossatura vegetale vecchia facesse rumori troppo grotteschi – Devo andare a lavorare, e mi sa che è già tardi.
Il suo orologio, adagiato sul mobile dello studio, lontano, segnava le ore…non sapeva che ore segnasse. Il motivo non era che esso fosse troppo lontano per vederci bene – a dire il vero anche quello – bensì che il Cronista non aveva mai imparato bene a leggere l’orologio. Un’invenzione elfica, o forse vicia, non rammentava, importata solo di recente nella comunità gormitica. Sapeva ad ogni modo che quando le lancette di quel meccanismo erano in una certa posizione, quella era l’ora in cui lui doveva recarsi al lavoro, o ritornare da esso. E le lancette erano poste leggermente più avanti rispetto all’ora prestabilita. Era in ritardo.
Si alzò quindi completamente dal letto – gambe e assi sempre di rami intrecciati, su cui era poggiato un materasso ripieno di piume, e un lenzuolo cucito insieme – si stiracchiò ancora un poco, emise un gridolino nel sentire male al collo per una torsione troppo spericolata, e prese la mantellina grigia riposta sul fondo del letto, il suo unico indumento. Nel senso che indossava solo quello insieme al nulla: ne aveva altri, seppur pochi, riposti nel piccolo armadio.
“Di già, caro?” mormorò con voce stanca la moglie, guardandolo sofferente da sotto le lenzuola bianche, da cui pareva molto restia a separarsi.
“Di già, Inamia.” rispose il Cronista, indaffarato nel riempire la sua borsa a tracolla con tutto il necessario: l’orologio portatile, una borraccia, sacchetti con polveri alimentari e medicinali, il suo libro. Il tutto senza degnare di uno sguardo la moglie, mentre riordinava la sua roba sulla scrivania. Quando infine imbracciò la borsetta ben stipata, guardò amorevole la cara sposa e le si avvicinò, baciandola sulla fronte.
“Come ogni giorno a quest’ora, tranne gli asildie e i patmedie. Lo sai. – le disse – Anzi, è pure tardi. Farò meglio sbrigarmi. Ah, se ti va, ho notato che il soffitto ha dei buchi.”
“D’accordo. Sì, vedrò di fare qualcosa. A dopo.” Acconsentì Inamia, sbuffando un poco.
“A dopo.”
Il Cronista si diresse in cucina. Lì, andò immediatamente in direzione della bacinella d’acqua e vi terse le mani. Ne prese un po’ tra le quattordici sottili dita e si bagnò anche il viso. Poteva sentire la sua pelle assorbire l’acqua come dopo una traversata nel Deserto di Roscamar; poi le dispose a conca, riempì e bevve avidamente. Bere l’acqua nella modalità animale era di gran lunga più rinfrescante che lasciarsi scorrere il liquido sulle membra.
Alcune gocce gli caddero dal viso e dal mento rotondo, e il Cronista si sporse in avanti, non volendo far cadere l’acqua sul pavimento. Sebbene gli parve poco igienico che l’acqua passata da sé ricadesse nella bacinella comune per poi venire riutilizzata.
Andiamo, non è niente. Chissà quante persone hanno abitato qui e si sono lavate con l’acqua di questa vasca.
Goccia dopo goccia, onde circolari si spandevano sulla piatta superficie del liquido e si infrangevano tra di loro e contro i bordi legnosi del catino, facendo vibrare e contorcere l’immagine riflessa del Cronista.
Volto spigoloso, triangolare, solidago, segnato da rughe che non erano semplicemente lì per natura corporea, ma per vecchiaia. ‘Capelli’ semirigidi rivolti verso l’alto, dipartendosi dalla fronte e dalla nuca, che sfumavano alle estremità in un giallino povero. Non molto lunghi, contorti e serpenticolari, ma non mischiati tra di loro in modo sconnesso o disordinato.
Poteva vedere, lì nella pozza, le spalle spioventi di un verde chiaro ancora vivido nonostante l’età, e sporgendosi un po’ avrebbe anche potuto constatare la lunghezza delle braccia, che ancora conservavano il vigore dei muscoli di un tempo.
No, non era il momento di rimanere lì a fissare la propria immagine. Doveva sbrigarsi o non avrebbe trovato nessuno ad attendere lui e le sue storie.
Impastò le dita per alcuni istanti nel piatto su cui aveva cenato il giorno precedente, ancora pieno del pastone. Se ne impregnò ben bene le dita, e rimase in attesa finché non riuscì a sentire il cibo scorrergli dentro; ne prese un po’ e se lo mise in bocca, constatando che aveva ancora un buon sapore. Si lavò nuovamente le mani, e uscì.
La casa del Cronista si trovava su un albero più grande degli altri negli immediati dintorni, disposta sulla sommità del tronco. I primi che l’avevano edificata avevano spianato la zona lì sopra dirigendo i rami in modo da formare mura, pavimento, soffitto, e col tempo e con nuovi rami – e nuovi inquilini –  la casa aveva subito diverse modifiche estetiche o di riparazione, come quelle che o lui o la compagna Inamia avrebbero dovuto svolgere, ma nella struttura interna non era mai cambiata. Tre stanze, due laterali – cucina/soggiorno e studio – una all’estremità – camera con bagno – e un corridoio centrale. Si raggiungeva la cima dell’albero attraverso una scala impressa nel tronco, e che ogni tanto aveva bisogno di una risistemata, perché il crescere perpetuo del legno ne aveva fatti sprofondare alcuni gradini, oppure si staccavano per l’usura.
Fra un po’ traslocheremo. Spero di trovare una casa confortevole come questa, o dovremmo farne una improvvisata.
Discese lentamente, appoggiando cautamente i piedi al suolo una volta arrivato alla fine. Non aveva più il fisico per scorrere la scala con velocità e scartare gli ultimi gradini con un salto, che in quel momento gli sarebbe costato un piede rotto.
Non si dispiaceva di non avere più le membra energiche di un tempo, anche se conservava ancora un po’ di spirito combattivo. Il suo matrimonio con Inamia era stato un successo. Dopo tutti quegli anni nulla era cambiato in loro, e l’amore ancora bruciava forte nonostante l’età. Ovviamente non passavano più le giornate insieme come facevano anni prima, ma non aveva di cui lamentarsi. E sperava che anche per lei fosse così.
Lui aveva il suo lavoro, una professione che apprezzava e che esercitava con passione e originalità, ed era retribuito bene sia in termini economici che ‘spirituali’. Inamia aveva smesso di lavorare pubblicamente, continuando a coltivare saltuariamente alcune erbe, ma la famiglia non aveva ristrettezze finanziare.
Raggiunse con passo felpato la radura predefinita, non molto distante dalla sua casa, e ben identificabile con la sedia di radici intrecciate che il Cronista stesso aveva dominato e piegato in quattro e quattr’otto quando si fermò in quella zona di Dalarlànd.
Un giovincello dalla corporatura mingherlina e una sorta di clava al braccio destro era già lì pronto in attesa, seduto con un ginocchio steso e l’altra gamba dritta, come in procinto di andarsene a breve. Lo riverì con un inchino del capo quando arrivò.
Oh, Patmut. – si disse disperato il Cronista, mentre all’esterno mascherava la sua incertezza sotto uno sguardo sorridente e sistemava placidamente la vaschetta di vimini per il sale nero, e sprofondava nella sua sedia, la borsa adagiata ai suoi piedi – E questo come si chiama? Non voglio fare figuracce…ah, sì, si chiama Erdeviu, ne sono sicuro.
“Buongiorno, Erdeviu. – lo salutò col suo tono da mentore saggio e affabile – Mattiniero, oggi. Di solito vieni sempre in ritardo.”
“Buongiorno a voi, maestro. Però siete voi in ritardo, oggi.” Gli reiterò, in modo non molto rispettoso, il ragazzino.
“È vero, non lo nascondo. – soggiunse – E dunque, dove sono gli altri miei studenti? Forteceppo, Loctiu e gli altri ragazzi… Sono anche loro in ritardo?”
“No. Erano venuti qui prima di me, ma avevano visto che non arrivavate e sono andati in giro un attimo. – disse prontamente, ma senza alcuna esitazione nei riguardi del tono con cui stava dialogando col suo maestro – Se volete vado a chiamarli…ah, eccoli che tornano.”
Il Cronista si volse nella direzione indicata da Erdeviu, oltre le fronde e i tronchi scuri tutt’intorno a loro. Non era un’unica direzione: gli studenti si raggruppavano attorno al loro insegnante provenendo da ogni parte della radura erbosa baciata dal sole.
Accorrevano con passo lento e ritmico, parevano quasi sincronizzati. Alcuni. Altri si ammucchiavano più scalmanatamente, gridando un poco e spingendosi per prendere posizione più vicino al Cronista. Tutti, comunque, mostravano il loro rispetto al maestro con cenni del capo. Era una cosa che il Cronista esigeva: chi abbassava il capo, tra quei cuccioli, in segno di saluto aveva sempre la sua simpatia e si mostrava sempre disponibile e non esitava a fare scherzi. Agli altri riservava, quasi per infantile ripicca, più diffidenza e richiamava poco spesso la loro attenzione.
Si contavano in tutto circa una dozzine di giovani studenti della Foresta, insieme a un gruppo di dieci gormiti degli altri Popoli, comunque dei cuccioli.
Dopo la fondazione del Consiglio dei Signori e le conseguenze politiche, era normale vedere gruppi di gormiti così misti, quando meno di dieci anni prima erano ancora ben separati.
“Ci siete tutti quanti, vedo. Ottimo. – enunciò il Cronista, compiacendosi dell’affluenza e dell’interesse che i giovani mostravano ai suoi racconti – E vedo anche dei nuovi arrivati! Tu, laggiù, come ti chiami? E da dove vieni?”
“Sono Osmaniu. O-Osmaniu Delessi. – rispose un gormita del Vulcano, dall’aria timida nonostante le braccia tozze – Vengo dalla Città Occidentale. Da Ilabukh. Mi sono spostato qui l’anno scorso.”
“Bene, bene. Mi fa piacere avervi qui! – esclamò solare il Cronista, dopo essersi fatto dare le confidenziali dai quattro nuovi alunni – Spero che i vostri amici vi abbiano riassunto ciò che ho raccontato finora, perché, capirete, non posso mica tornare indietro ad ogni novellino! Eh, eh! Ma sono convinto che capirete benissimo anche senza sapere tutti i dettagli del passato. Ora… - indicò una forestale, bella sorridente, e anche lei gaia e soddisfatta del maestro che la richiamava – Loctiu, mi ricordi dove eravamo arrivati l’altra volta?”
“Certamente, maestro. – farfugliò velocemente, scattando in piedi, petto gonfio; poi si schiarì la voce e scandì bene le successive ricercate parole – Avete spiegato come si era andata evolvendo la situazione di discriminazione del Popolo del Vulcano negli anni intorno gli 830, e delle campagne di pace ideate tra gli altri da Kokkon Ubens, Raganels Galmari e Elimis Elimi.”
Il Cronista annuì appagato. Loctiu, una delle studentesse migliori per interesse e partecipazione. Ne andava molto fiero, e mostrava una straordinaria sensibilità verso gli eventi che il maestro andava narrando. Sarebbe diventata una persona importante, in futuro.
“Proprio così, Loctiu. Proprio così. Ora, prestate bene attenzione.”
Il Cronista si fece serio in viso, facendo saettare un dito con cui fece calare il silenzio assoluto e l’interesse più vivo e misterioso. Fissò negli occhi ciascuno dei suoi studenti di quel giorno, cercando di captarne i sentimenti, l’effettivo desiderio di conoscere, l’attenzione che mostravano davvero.
“Ciò che vado a raccontarvi è l’inizio del periodo più cupo e forse più violento della storia di Gorm, ed è anche molto più vicino ai nostri giorni di quanto pensiate. Ma è anche l’inizio di quel secolo di storia che cambiò per sempre la faccia dell’Isola, che determinò la fine di un’epoca di chiusura e di ignoranza, si può dire.”
“Il Vecchio Saggio! – sbraitò accaldato uno studente, battendo le mani – Finalmente! È lui, il Vecchio Saggio, vero?”
“Sì, Shogurai, è il Vecchio Saggio. – annuì, abbassando il dito, rilassandosi dopo che ebbe la certezza del coinvolgimento di tutti – Questo pezzo di storia può definirsi la storia del Vecchio Saggio, l’elfo venuto dall’est, di come lui e le sue scelte hanno cambiato Gorm e i gormiti. Il Vecchio Saggio non aveva questo nome, un tempo. Lo ha scelto lui per nascondersi, e la sua storia, naturalmente, non inizia qui su Gorm, ma a oriente, nelle coste del Grande Golfo dove gli elfi hanno insediato le loro città - stato mai in guerra ma nemmeno veramente in pace. È qui che inizia la storia di quest’elfo, la storia di Razael Akkars.”

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Capitolo 2
*** Capitolo 1.2 ***


<< Il bianco uomo camminava avanti e indietro per la piccola aula, dietro al palco. Ancora pochi minuti e sarebbe dovuto entrare in scena e parlare. Parlare non certo di sciocchezzuole, ma di qualcosa di ben più importante e grande di lui, qualcosa che non riguardava solo la sua persona ma tutti, e se avesse detto qualcosa di sbagliato o di poco chiaro avrebbe avuto l’intero pubblico cittadino a ribattere contro di lui e a correggerlo, provocandogli una certa vergogna e causando derisione da parte di quelli che provenivano da fuori.
Forse stava esagerando: anche lui, nonostante tutto, poteva sbagliare.
Non era un divinità: era solo un grande stregone, amato e rispettato dal popolo, per giunta!
Si convinse che la città gli avrebbe perdonato un piccolo errore, dopotutto.
E dopotutto si era, giustamente e inevitabilmente, costruito e redatto il suo discorso, rivisitato e corretto numerose volte non solo da lui ma anche da altre figure più abili in quell’ambito.
Era vero che non era solo uno stregone ma anche esperto in molte discipline come pochi altri, ma ciò non toglie che la sua disciplina per eccellenza fosse la magia e che per le altre ricorreva più spesso ad aiuti, anche se tali aiuti generalmente gli dicevano che non c’era motivo di scomodarli, che lui aveva fatto giusto e che non c’era nulla di sbagliato, nonostante non sempre fosse vero.
Estrasse la sua pila di fogli da sotto la tunica bianco panna, riconoscendo di aver fatto un errore nel ripetere il discorso e scegliendo di andare a leggere che cosa avesse sbagliato di preciso.
“Ma tu guarda! Che razza di errori vado a fare!” esclamò, battendosi la mano sulla fronte.
Riprese a ripetere tutto sottovoce, daccapo.
V’è da aggiungere che l’uomo non necessitava di impararsi il discorso a memoria: poteva, come molti altri, sistemare il suo foglio di discorsi ben nascosto sul leggio e cercare di parlare rivolgendo gli occhi più al pubblico che alla carta. Ma aveva scelto di memorizzarsi il discorso per dimostrare che non aveva bisogno di tali sotterfugi – anche se sotterfugi veri e propri non lo fossero: tutti facevano così, chi più chi meno - per parlare della sua città a un pubblico, vasto o ristretto che fosse.
Ma presto si accorse che non era così facile ricordare un discorso così lungo. Le uniche cose che era in grado di memorizzare più che bene, eccelsamente, erano le brevi e concise formule e le ricette degli incantesimi, e sebbene a scuola fosse stato uno dei migliori studenti in tutte le materie – era addirittura entrato all’università diversi anni prima dell’età regolare - era sempre stato sintetico nelle interrogazioni e nei compiti. E oggi non poteva permettersi di sintetizzare il discorso: doveva presentare la sua città, premiata come Città dell’Anno, a un vasto pubblico non solo elfo, e non poteva trascurare nessun particolare, doveva descrivere bene e accuratamente ogni elemento d’interesse culturale e artistico e quant’altro, in modo che la gente fosse andata a visitare tali elementi e la città ne guadagnasse denaro oltre che prestigio e merito per il premio ricevuto.
Dall’altra parte della piccola aula si sentivano gli applausi e le domande del pubblico rivolte al sindaco che era il primo a discorrere con la gente. Dalle parole confuse e attutite che percepiva, lo stregone sentiva che il momento di entrare in scena stava arrivando.
“State bene, maestro?” domandò all’improvviso un uomo entrato dalla piccola porta dell’auletta. Era mediamente alto e vestito allora di blu scuro. La pelle era abbronzata e i lineamenti del viso sodi e compatti. Riccioli neri rilucenti di bruno ricadevano lunghi fino alle spalle. Occhi bruno - grigi luccicavano opachi nel viso giovane.
Scure e bluastre erano le braghe di jeans, legate a vita bassa da una nera cintura dalle fibbie dorate. Di pece erano i bassi stivali dalla punta rivolta in alto. Una camicia a righe blu e grigia, ampiamente sbottonata da mostrare parte del tonico petto, ricopriva il torso insieme a un gilet nero slacciato e legato da una catenella dorata. In mano reggeva il suo bastone da mago, il suo bordone: costoso e raffinato, era una lunga asta di legno rivestita di un sottilissimo velo metallico dipinto di nero e decorato a tratti di onde platinate; all'estremità si trovava un rubino perfettamente sferico attorniato da quattro lame argentate.
“Ah! Magor!” esclamò lo stregone vestito di bianco, non prevedendo l’arrivo dell’apprendista. Mise nella tasca interna della tunica i suoi fogli, deciso a iniziare una bella conversazione rilassante, prima di entrare e parlare. Lo scrutò curioso, poi rise.
“Magor! Che bei vestiti! Non te li avevo mai visti addosso” disse, poggiandogli una mano sulla spalla. Erano effettivamente degli abiti inusuali per Magor, che amava vestirsi poco e con indumenti leggeri della cui eleganza non importava. La camicia sbottonata era un chiaro segno, per chi lo conoscesse, di questa sua abitudine vestiaria.
“Non me lo ricordate. - sbuffò Magor, bofonchiando - E’ stato il sindaco a costringermi a mettere, per una volta, ha detto, dei vestiti così. Ma mi chiedo cosa c’entri io: siete voi a dover parlare.”
“Be’, tu sei il mio apprendista - spiegò lo stregone - Sei famoso più o meno quanto me, specie tra i vici. E per te non è una gran cosa essere così noto per i vici: alcuni ti osannano, altri ti odiano.”
“Lo so benissimo, maestro - lo interruppe con un gesto delle mani - E sapete che non voglio ritornare su quell’argomento. Quello che ho fatto è stato fatto, e non ho rimpianti.”
“Sì, va bene. - acconsentì lo stregone - Ma piuttosto, perché sei venuto qui? Non assisterai alla mia vergognosa parlata di là?”
“Non siate così pessimista. - replicò Magor - Comunque assisterò certamente: ho pagato per il mio posto, e non me lo prenderanno. Volevo vedere come ve la stavate cavando.”
“Come puoi vedere sto bene - rispose, allargando le braccia - Solo un po’ timoroso. Non mi è mai piaciuto parlare a un pubblico così vasto. Ma grazie a te mi sono un po’ rilassato. E tra poco dovrò andare, e dovrai andare anche tu se mi vorrai vedere.”
“Sì, maestro. Una cosa: per quel…”
“Sì, Magor! Stai calmo, non mi assillare - lo interruppe bruscamente - Ti prometto che dopo il discorso, prima di partire domani, vedrò i tuoi progressi, come ti ho già promesso più volte. E spero che tu ci sia riuscito, perché poi per un po’ non ci sarò ad aiutarti.”
Ora dall’altra parte dell’aula, sul palco, provenivano quasi magicamente forti e nitide le parole del sindaco che lo stregone bianco tanto aspettava e temeva.
“E adesso, miei cari ospiti, lasciamo entrare colui che vi parlerà esaustivamente della mia città, colui che più di me rappresenta questa città e, lasciatemelo dire, l’intera popolazione elfa. Ecco, sta per entrare il più grande stregone elfo e non solo dei nostri tempi: Razael Akkars!”
Razael mise via i fogli tempestivamente, diretto verso la porticina coperta dal velo del palco.
“Maestro, maestro! - sussurrò Magor - Il vostro bordone!” e glielo porse. Un bastone meno raffinato di quello di Razael, marrone chiaro, poco liscio e con le venature legnose ben visibili. All’estremità superiore si ingrossava parecchio, e qui vi era incastonato uno smeraldo dalle numerose sfaccettature.
“Grazie!” mormorò Razael, prendendolo, mentre Magor spariva, utilizzando l’incantesimo del trasporto rapido.
Razael comparve infine dall’apertura del telone, salutando tutto il pubblico con il braccio destro con cui reggeva il bordone.
“Un applauso, prego!” il sindaco incitò il pubblico, che già aveva cominciato a farlo.
Razael era un alto e magro uomo pelato sulla quarantina. La pelata era lucida e levigata: nessun’imperfezione, non un neo, un brufolo, cicatrice o qualche selvaggio capello. Le rughe della fronte erano appena visibili. Indossava dei sandali senza calzini, dei lunghi e spessi pantaloni in tessuto di jeans bianco, rigati, tenuti al bacino con una cintura argentata.
Sul petto portava una modesta camicetta bianca di lino a cerniera; il tutto ricoperto da una lunga tunica bianca con cappuccio, che ricadeva fino alle caviglie.
Razael salì infine sul leggio, sopraelevato su una serie di gradini, si schiarì un poco la voce e parlò, ma non prima di dare una rapida occhiata al suo pubblico.
C’erano davvero tutti: elfi di altre città, i bassi felini vici nei posti più vicini, gli alti e grossi zoari nelle sedie più lontane e persino qualche paio di quei misteriosi esseri, gialli pelosi con le ali da insetto e quelli blu cornuti con le ali da pipistrello, che si vedevano girovagare ogni tanto per le zone di quella terra, anche se nessuno sapeva chi fossero veramente e da dove provenissero.
Magor era seduto sul suo posto, in seconda fila, in mezzo a dei vici. Più lontano c’era la sorella di Razael e suo marito, che lo guardavano sorridenti. Razael infine parlò.
“Buon pomeriggio a tutti, elfi, vici, e zoari. E’ per me un grande piacere vedere che in così tanti sono interessati alla mia città natale. Ed è per me un grande onore rappresentarla e parlarvi di essa, io invece che tanti altri con più competenza di me. Ma sono cosciente della mia fama presso di voi, e non ho potuto rifiutare la richiesta del mio sindaco, il caro vecchio Asdurges. Lacedimora. Questo è il nome della mia città, un nome che ha radici lontane, quando la Zoah, l’Impero dei Giganti, era ancora forte e temibile, quando Inverrith, il Regno dei Ghiacci di Klaus, era ancora disabitato e sconosciuto. Questa oggi fiorente città è stata fondata 238 anni or sono dal mago guerriero Lacen, nei tempi in cui la comunità elfa aveva da poco allargato i suoi orizzonti e si era spostata a nord e a est. Sin da allora, come le altre città elfe, Lacedimora era stata un grande centro di persone esperte in magia e in medicina e in alchimia.”
“Ma ciò che la rese diversa anni fa dalle altre città fu un importante evento durante la Grande Estate, che portò le acque del mare molto più vicine alla città e allargò i laghi e fece straripare i fiumi. La gente di Lacedimora non fu sopraffatta da questo cambiamento, ma vi si adattò con eccelsa bravura. Da quest’acqua i lacedimoranti impararono l’arte della navigazione, della pesca, del nuoto, della costruzione di navi ed è oggi grazie a queste navi che molte altre città elfe, vicie e zoare hanno allargato ulteriormente i propri orizzonti, solcando i mari verso nord, est e sud.
Oggi Lacedimora è una città prevalentemente marittima e mercantile: i negozi pullulano sin dal porto mai privo di navi esploratrici, pescherecci e trafficanti di merci di vario genere, provenienti dai traffici marittimi con Inverrith e la Setturnia dei vici. Ciò non toglie che Lacedimora non abbia coltivato l’abilità elfa dell’alchimia e della medicina, e che non disponga di campi fruttuosi e di ricchi allevamenti.”
“Lacedimora è sempre stata scarsa di catastrofi naturali serie, e ciò ha favorito la crescita di imponenti edificazioni durature e intaccate da ogni intemperie se non quelle del tempo, incontrollabile ma siamo sempre stati in grado di riparare ai danni del tempo e di restaurare gli edifici non più stabili come un tempo. I nostri edifici, e sono sincero, sono tutti ben decorati e ornati, nessuno è semplicemente un parallelepipedo di pietra.”
“Scuole aperte a tutti coloro che volevano apprendere più del necessario, biblioteche, musei di storia e di arte, edifici pubblici semplici e umili come osterie, ristoranti, addirittura banche, farmacie e altro ancora, tutti questi edifici sono realizzati con maestria e raffinatezza. Ma nessuna di queste tipologie di edifici può essere grandiosa come il Municipio del Governo, altissimo, realizzato con l’aiuto degli abili architetti zoari e decorato e dipinto da elfi e vici. Anche quest'ultimo, tuttavia, nulla può contro il gigantesco Istituto di Magia, forse la meta più ambita da ogni turista nel Venturgio. Il primo della storia, dove si incontrano maghi di ogni provenienza e razza, impareggiabile.”
Bisogna sapere che sin da giovani, qualsiasi sia la famiglia di appartenenza, il ceto o quant'altro, tutti venivano insegnati a un uso elementare della magia, uso che si poteva approfondire opzionalmente, nel corso del tempo, per diventare maghi e stregoni.
“Come spero sappiate, l’Istituto è diretto da una consulta a cui tutti i maghi considerati ‘grandi stregoni’ oltre i 45 anni è concesso farne parte e insegnare insieme agli altri stregoni, predicare, diffondere e difendere l’arte della magia in ogni dove e proteggere e limitare il suo uso.
Purtroppo io non ne faccio ancora parte, ma mi mancano pochi anni e poi mi vedrete ancora più spesso in giro. Ma non sono qui per parlare di me! Qui ho finito il mio discorso, temo. Siate liberi di farmi qualche domanda, se l’avete. Se non l’avete, lascerò il posto al mio caro sindaco che poi vi dirà cosa potrete fare in città.”
Uno zoaro alzò la sua mano a tre dita. “Parlate pure.” disse Razael, annuendo
“Chi ha costruito l’Istituto di Magia? Elfi, o zoari, o altri?” chiese, con la voce roca tipica della specie.
“Non ve lo so dire con certezza. Capisco dove vogliate arrivare, ma i dirigenti ve lo sapranno dire, se andrete a visitarlo.”
Una donna elfa alzò la sua mano, a cui Razael diede la parola: “Come vi sentite con la vostra città ad aver ricevuto l’ambito premio Città dell’Anno, e come vi sentite a rappresentarla? E come nell’essere ritenuto il più potente stregone di questa era?”
Razael rise. “Piano, piano. Una domanda per volta. Come dire, credo che Lacedimora se lo sia meritato. E’ grazie alle navi della città che molti isolotti a nord, a sud e ad est sono stati scoperti e abitati. Come ho già detto, è un grandissimo onore per me essere stato scelto, e, modestamente, non biasimo il sindaco per aver scelto me. Per quanto riguarda l’ultima domanda, preferisco non rispondere qui, se non rispondere affatto. Non siamo qui a parlare di me, ripeto.”
Ancora un elfo, questa volta un vecchio uomo, chiese di poter parlare.
“Cosa n’è stato dell’Antro del Tempo, a cui voi avete partecipato? E’ accessibile, si può visitare?”
“Ancora vedo che il vostro interesse si riversa su di me - rise lo stregone - Be’, quell’esperimento è stato un esperimento. Anche se funziona non è accessibile al pubblico, non lo è mai stato. Oltretutto non si trova in territorio lacedimorese.”
Infine fu un vicio a porre il suo quesito, con un tono abbastanza nervoso e da vittima: “Che cosa avete da dire riguardo al suo apprendista Magor e al suo coinvolgimento con la fondazione della Repubblica Indipendente? E la città non ha alcun dissidio con gli zoari che anni fa la attaccarono e che voi respingeste tutto da solo?”
Questa domanda era davvero impertinente. Razael aggrottò la fronte ed esitò a rispondere.
La questione lo stava innervosendo: loro erano qui per la città o per immischiarsi nei suoi affari?
Magor, tirato in ballo dal vicio che era presumibilmente uno di quelli che lo odiava, era ugualmente nervoso. Sebbene fosse orgoglioso di essere l’unico apprendista del più grande mago, non gli piaceva che la gente lo mettesse sempre insieme al maestro Razael, come se fossero inseparabili, e che si soffermassero sempre su quell’evento di qualche anno fa.
Si alzò di scatto, a capo chino, e uscì a passo svelto dalla stanza, tenendo stretto il bordone con entrambe le mani.
Fortunatamente si intromise il sindaco Asdurges: “Per favore, miei ospiti. Non siamo qui per parlare di politica o di antiche dispute. E non voglio che discorsi di questo genere vengano posti ancora. Signor vicio, se insiste con certe domande sarò costretto a invitarla ad uscire.”
Il vicio in questione ringhiò felinamente, e poi si mise a sedere al suo posto.
Razael seguì presto l’esempio dell’apprendista: scese dal leggio sopraelevato, ancora aggrottato.
“Signor sindaco, posso andare?” domandò piano, con la schiena rivolta al pubblico.
“Va bene, signor Akkars - mormorò in risposta - Ma vi prego di porre un ultimo saluto.”


Razael abitava in un imponente grattacielo – grande palazzo che si sviluppa in verticale, dove lavorano e abitano centinaia di persone - vicino all’Istituto di Magia, ed era lì che si stava dirigendo, subito dopo essere uscito dal teatro in cui aveva dato il suo discorso. Non aveva nemmeno aspettato di tenere l’intervista con la donna che gli aveva chiesto del fatto di essere il mago più potente.
Né aveva aspettato sua sorella e il marito o Magor. Voleva solo tornare a casa sua.
Per fortuna domani lui sarebbe partito. Per molto tempo aveva progettato di partire per un lungo viaggio, nelle terre ignote del mare sud - occidentale. E infine vi era riuscito: con un suo amico, capitano di una nave, si era accordato per un viaggio alla scoperta di nuove terre.
Avrebbe lasciato molte cose indietro: sua sorella Nadia, Magor e il suo insegnamento, il suo lavoro, diversi suoi esperimenti. Tutto questo per la fame di conoscenza, per la brama di avere nozione di nuove civiltà, nuove isole, nuovi ambienti. Era sempre stato affamato di sapere, e sempre era interessato ai viaggi, perché non si può conoscere un posto semplicemente studiandolo su un libro e osservandone immagini. Visitando un posto si entra a contatto con l’essenza vera e propria di quel luogo, e quel luogo trattiene con sé una parte dell’individuo che vi è soggiornato.
A questo pensava mentre saliva le scale, diretto alle sue stanze al quarto piano. Il suo lavoro di stregone era abbastanza remunerativo da permettergli l’affitto di quelle camere solitamente adibite al solo scopo lavorativo. Infatti non possedeva soltanto la camera da letto, il soggiorno, il bagno e la cucina, ma un’intera altra stanza di fianco dove era solito compiere i suoi esperimenti magici, alchimistici e tecnologici. Ma i suoi possedimenti non finivano certo qui, e quella stanza degli esperimenti era minuscola in confronto a quella larga fetta di terra di cui si era appropriato a sud del Venturgio, dove effettuava esperimenti su larga scala, spesso non da solo.
Estrasse la chiave dalla tasca dei pantaloni e aprì la porta della sua camera. Con un sospiro appese la tunica bianca all’attaccapanni di fianco alla porta, lasciò il bordone in un angolo e poi si abbandonò, sprofondando nella poltrona bruna.
Miao!
Il simpatico Edvinx, il suo gatto, gli saltò tutto fusa sulla gambe e cominciò a impastare contento sulla sua pancia. Era un bel gatto soriano, dal pelo grigio, bianco sulla pancia, e dalle macchie nere sulla fronte, sulla schiena e sui fianchi. La punta della coda, ritta, era bianca. Razael sussultò non appena gli si pose sul ventre, ma poi, vedendo che si comportava normalmente, lo accarezzò dolcemente, al che le sue fusa aumentarono.
“Ciao, Edvinx. Stai bene, oggi?” gli parlò, sorridente.
Diede in seguito un’occhiata al suo orologio: era ora di pranzo inoltrata, e si accorse di non aver toccato cibo da quella mattina. Anche Edvinx doveva esser rimasto senza mangiare, dal momento che sia lui che Magor, gli unici che si curavano di lui, erano stati entrambi fuori casa.
Si alzò scostando Edvinx e andando in cucina: effettivamente la ciotola del gatto era vuota, e solo quella dell’acqua conteneva ancora qualcosa.
Tirò fuori dalla mensola il cibo riservato al suo micio, versandone una generosa quantità nel piattino. Edvinx mangiò beatamente il pasto. Ora Razael doveva pensare al suo, di pasto.
In quel momento suonò l’eco di pugni alla porta. Razael si demoralizzò: sentiva sempre più la fame e proprio ora c’era qualcuno che lo cercava. Chi poteva essere?
Arrancò verso la porta, pronto a mandare a casa se chiunque fosse dall’altra parte gli avesse procurato noia.
“Avanti.” bofonchiò.
La figura alta e scura di Magor comparve. Accennò un sorriso e l’apprendista lo salutò “Ciao, maestro.”
Non teneva gli stessi vestiti di quando aveva preso parte al discorso di Razael. Non aveva più la camicia e i suoi stivali non erano più quelli eleganti dalla punta rivolta in alto, ma dei comuni anfibi scuri. Portava solo una canottiera nera e sopra un corto mantellino grigio.
“Oh, Magor! - lo salutò Razael, battendosi la fronte per essersi dimenticato - Diamine, me l’ero scordato!”
“Non fa nulla, ora sono qui e ve l’ho ricordato, no? - rise Magor – Piuttosto, - disse, diventando serio - Quel vicio alla riunione ha fatto un bel casino. Scommetto che - ”
“Non parliamone, su!” lo zittì amichevolmente Razael mettendogli una mano sulla bocca.
“Non so tu, ma io non tocco cibo da stamattina - disse poi - Prima di cominciare vorrei pranzare, ti va bene?”
“Mi va benissimo - acconsentì Magor - Se posso favorire…anch’io non mangio da un po’. ”

Il cristallo cadde a terra, frantumandosi in miriadi di pezzi. Tali pezzi sembravano poi divenire di una sostanza sempre meno densa e più liquida, da cui si sprigionò uno strano fumo. Alla fine sul pavimento non c’era altro che una polvere nera: polvere di carbone purissimo.
“No, no, Magor! - il maestro scosse la testa, deluso - Magor, Non ci siamo.” ripeté, innervosito.
“Te lo ripeto ancora: il diamante si crea con molta energia, facendola fluire lentamente, non il contrario!” lo rimproverò, a braccia conserte sulla sedia.
Magor sospirò, scostando deluso il carbone del diamante col suo bordone. Strinse i pugni e guardò rabbioso il suo maestro.
“Non hai bisogno di chiedere: provaci ancora.”
Magor puntò la punta del suo bordone verso la polvere nera e recitò a mente la formula adeguata. Mentre il carbone si alzava e rimaneva sospeso in aria, l’apprendista cominciò a muovere sia il bordone che la mano libera, per manipolare la polvere e l’energia necessaria alla trasformazione.
La polvere prese una vaga forma quadrangolare e, con un sottofondo quasi di fuoco, il carbonio sembrò schiarirsi e compattarsi, assumere trasparenza e durezza.
Ora di fronte a Magor e a Razael c’era un cristallo purissimo: doveva essere diamante. Magor sorrise entusiasta, certo di esserci finalmente riuscito. Ma il cristallo sospeso vacillò, sembrò liquefarsi e poi cadde a terra infrangendosi, ripetendo ciò che era successo più volte poco prima.
Magor ringhiò come una bestia, si alzò e diede un calcio alla sedia su cui stava lavorando, mandandola contro la porta e facendo scappare indemoniato Edvinx.
“Magor, calmati, per l’amor del cielo - lo ammonì Razael, turbato da quella reazione ma mantenente una voce pacata e un’aria tranquilla - La sedia non ti aiuterà in alcun modo.”
Razael stesso infine si alzò, sospirando e mettendo le braccia dietro la schiena.
“Magor, Magor…sei sempre stato così frettoloso…” mormorò, guardando fuori dalla finestra del soggiorno, ma vedendo ben poco in quanto era ormai sera.
“Una volta facevi bene ad aver fretta - continuò, chiudendo gli occhi e facendo riaffiorare i ricordi - Non ti era stato insegnato nulla della magia, avevi imparato da solo, ma ti mancava molto. E anche se di fretta, imparavi ugualmente bene, meglio di molti altri. E’ per questo che ho scelto te come apprendista, il mio unico apprendista. Ma la tua fretta ti ha aiutato sempre meno: col tempo sono giunto a insegnarti tecniche e magie che la fretta aiuta solo a sbagliare. Devi cambiare atteggiamento, Magor.” disse infine, voltandosi verso l’apprendista.
Magor ignorò il suo discorso, ancora voltato verso la porta. Poi parlò, ma non era inerente a ciò che aveva finora detto il maestro: “Ditemi ancora perché devo imparare a creare il diamante.”
“Che domanda sciocca! - esclamò Razael - Creando il diamante…tu…tu ti sostituisci alla natura, ai suoi meccanismi e crei da questo materiale così…inutile e debole, il minerale più resistente che esista, in tempi brevissimi rispetto alla natura! Puoi creare la cosa più dura di questo mondo! E’ una cosa molto importante, Magor. E’ l’unica cosa che ancora separa me da te. Impara a creare il diamante, e sarai pari a me. Salvo qualche altra piccola tecnica.”
“Non credo proprio - obiettò Magor - Io non ho ancora manipolato il tempo né resistito e sconfitto decine di zoari da solo e solo con la magia. La tua…vostra energia magica è superiore, e la mia inferiore.”
“Hai solo 26 anni, Magor - puntualizzò Razael - Hai fatto progressi impareggiabili: avrai tutto il tempo per fare cose ben più grandi di quelle che ho fatto io.”
“Spero sia così - Magor sospirò: andò a raccattare la sedia e la rimise al suo posto nel tavolo.
“Mi dispiace, Magor - Razael si avvicinò a lui, e gli tese una mano sulla spalla - ma ora non c’è più tempo: domani devo partire, e non mi sono ancora preparato. Il mio insegnamento si interrompe qui, ma non finisce. Esercitati quando sarò via.”
“Sì, maestro, lo farò.” acconsentì Magor, sollevando il carbonio per terra e infilandolo nella sua ampolla, che poi consegnò in mano a Razael.
“Prima che tu vada, però, Magor…” parlò il mago insegnante. Seguì un silenzio in cui Razael rimuginò, come dubbioso, al che Magor non potè non parlare: “Sì, che c'è, Razael?” chiese, interessato.
“Vieni con me.” gli ordinò infine Razael, muovendo il dito e indicandogli di seguirlo e uscire dalla sua stanza, diretti nel suo laboratorio a fianco. Raramente qualcuno che non fosse il proprietario entrava in quella stanza adiacente, lo stesso Magor entrava pochissime volte, ed ogni volta rimaneva colpito da ciò che trovava all’interno e da ciò che succedeva. Oggi non sarebbe stato diverso.
Il laboratorio era una stanza complicata. La luce all’interno era blu, proveniente da strane pietre e da una vernice fosforescenti poste qua e là e pennellata sulla parete.
La stanza, sebbene grande quanto le camere private del maestro, era molto più stretta: lo spazio era occupata da una varietà di strani alambicchi, bizzarri e complessi apparecchi metallici, elettronici, magici. Numerosissimi scaffali, su cui vi erano numerosi libri e anche teche e barattoli di cristallo, in cui erano posti liquidi misteriosi, pietre senza apparente utilità, fogli e foglie e radici. In alcuni c’erano addirittura piccoli animali imbalsamati.
Razael indicò una scatola di pietra aperta, sul tavolo centrale, con dentro curiosi ma per niente anomali granelli neri.
Magor ne prese un pizzico tra le dita e lo analizzò vagamente.
“Altro carbone?” chiese, dubbioso
“Affatto. Ti ricordi quella strana polvere nera che è stata trovata sulla riva della sesta spiaggia?” chiese all'allievo.
“Certo che lo ricordo. Vi ho avvisato io di quella strana…cosa. Non pensavo fosse qualcosa di interessante.” rispose Magor, guardandolo di sottecchi, rilevando un segreto scottante.
“Ebbene, li ho analizzati come potevo, e non corrispondono a niente che esiste sulle sponde orientali. Anche se uno di quei tizi gialli sembrava riconoscerlo, quando lo ha visto, ma non mi ha saputo dare un nome o una definizione. Che il cielo mi cada sulla testa, ho osato farne mangiare un po’ a Edvinx.” ammise, vergognandosi di se stesso e notando che Magor non era affatto contento. Magor amava i gatti e Edvinx era teoricamente suo.
“E, come dire, è diventato estremamente forte e selvatico. Gli ho mostrato un topo finto e ci si avventato contro. Lo ha disintegrato. Mi sono avvicinato e... - si avvicinò a Magor, indicando una cicatrice sulla narice, di una ferita recente e curata magicamente per non influire sul suo aspetto estetico - a momenti mi tranciava il naso”.
“Quindi qualsiasi cosa sia è pericoloso, deduco.” riflettè Magor.
“Forse ho preso una quantità non adatta, forse le sue qualità si sono alterate, forse ancora questa polvere non è adatta ai gatti.”
Stettero li a rimuginare per un po’, poi Razael ruppe il silenzio.
“Ma ora basta, Magor. Io devo prepararmi, e tu devi esercitarti.”
“Sì, avete ragione.” concordò il giovane mago.
Uscirono dal laboratorio, che poi chiuse a chiave con tre scatti. Magor rientrò un attimo in casa del maestro per recuperare il bordone, poi si posizionò alla soglia della porta.
“Allora, maestro, ci vediamo domani, alla vostra partenza.” disse infine.
“Sì… - aggiunse il maestro - Domattina potremo salutarci meglio. Ora scusami ma nemmeno io sono immune alla fretta.”
 
L'alba di un nuovo giorno illuminava la città di Lacedimora. Da oltre le montagne ad est la luce si propagava verso i campi della periferia, sul lago, infine sul centro e sul porto e le acque del mare.
L’alba illuminò della fioca prima luce tutta la cittadina. I raggi di luce entrarono nelle finestre dell’appartamento di Razael.
Questi, percependo la nascita del nuovo giorno, aprì gli occhi, si svegliò. Si mise seduto nel suo letto, del tutto riposato e per niente assonnato. Edvinx ronfava comodamente acciambellato su un lato del letto.
Razael scese dal letto cercando di fare il minor rumore possibile e di non disturbare il gatto, cosa in cui non vi riuscì. Edvinx aprì gli occhi e stiracchiò le zampe sulle lenzuola. Balzò poi giù dal letto, strusciandosi sulle gambe del padrone che zoppicava nel tentativo di andare in bagno senza pestarlo. Qui si lavò viso e corpo, e gli schizzi d’acqua fecero rinunciare a Edvinx di stare attaccato al padrone.
Ancora vestito da notte, si diresse in cucina per una rapida ma sostanziosa colazione. Sarebbe stata l’ultima colazione di quel genere che avrebbe avuto: i pasti sulla nave sarebbero stati tutti molto diversi e avrebbe dovuto abituarsi, ma sapeva bene i rischi – per così dire - che correva.
Ritenendo fosse ancora presto per mettersi in cammino verso il porto, decise di sciacquare i piatti usati nella colazione al modo classico, per poi dirigersi nuovamente in bagno per pulirsi i denti e rinfrescare l’alito. Questa volta il gatto non lo seguì, impegnato a ingurgitare il suo pasto.
Dopodiché Razael tornò in camera sua, tolse la veste da notte e si mise gli abiti che aveva scelto ieri per partire: jeans azzurri, camicia grigia e una delle tante tuniche bianche omologate che possedeva nel suo inventario.
Avendo già posto nelle valigie un’altra veste da notte, ripiegò quella tolta poc’anzi e la mise sotto i cuscini, poi rifece il letto.
Era ufficialmente pronto per lasciare Lacedimora, pronto ad attuare il viaggio che aveva aspettato tanto per compiere. Ovviamente aveva ancora dei compiti da sbrigare, quali salutare Magor e la sorella, e naturalmente raggiungere l’amico ammiraglio che con i suoi marinai si era sicuramente svegliato prima di lui e stava ultimando i preparativi della nave. Si chiese di che fattura fosse la nave: l’avrebbe scoperto presto.
Caricato in spalla uno zaino, borsone in una mano, bordone nell’altra, chiavi e documenti nelle tasche, era ormai alla soglia del suo appartamento. Voltandosi, notò Edvinx, acciambellato su un bracciolo della poltrona ma sveglio, che lo guardava. Non era uno sguardo indifferente, sembrava supplichevole, e supplichevole fu il fioco miagolio che uscì dalla sua bocca.
“Ci vediamo, Edvinx - sospirò Razael - Magor si prenderà cura di te.” e detto ciò, aprì la porta, uscì e la richiuse dietro di sé.
Scese rapido – per quanto rapido il peso che aveva addosso gli permettesse - le scale del grattacielo.
Molto tempo sarebbe passato prima che avesse visto nuovamente le mura grigio azzurre del palazzo e salito i larghi gradini. Quanto tempo non lo sapeva di preciso, ma poco importava: per anni aveva bramato di uscire da Lacedimora, uscire dai mondi conosciuti e aprirsi verso il mare ignoto dell’occidente, e non avrebbe certo avuto ripensamenti proprio quel giorno in cui finalmente partiva.
Uscì definitivamente dal territorio del grattacielo, salutando il portinaio che si era da poco svegliato e aveva da poco aperto l’entrata.
Già a pochi passi, il peso dello zaino e della borsa cominciarono ad essergli scomodi. Si fece forza, pensando al soggiorno sulla nave, morbidamente cullato dalle onde. Era stato in barca poche volte, e quelle poche volte lo avevano profondamente segnato: vivere in mare lo ricordava come una sensazione inappagabile.
La strada, di mattina, era libera e silenziosa, disturbata solo da una fresca brezza marina. Ma già vari personaggi mattinieri erano fuori dalle loro case, per avviarsi a lavoro o per allestire tende e bancarelle da mercato.
C’era chi, tra quelle persone, si volse e riconobbe Razael, salutandolo. Tanta era la sua fama nella città - e oltre - che era impossibile non riconoscerlo, e molti lo salutavano tanto per rispetto o per piacere che per vera e propria amicizia o conoscenza con lui.
Certo, c'erano persone troppo indaffarate nei loro compiti per permettersi di distrarsi a salutare uno stregone, anche se quello stregone era Razael; questi, però, non pretendeva di essere al centro dell'attenzione: era un uomo umile, lui. E dopotutto, se tutti l’avessero salutato e, perché no, interrotto e cominciato a parlare, avrebbe di certo ritardato il suo arrivo al porto, gravato il peso delle valigie, e, non lo nascondeva, avrebbe persino potuto provocargli ripensamenti.
E lui non voleva nessuna di queste cose.
Tra quei mattinieri, comunque, c’erano anche persone che lo riconobbero, ma che non lo degnarono di uno sguardo, di un sorriso o di un saluto. Sebbene nessuno odiasse la sua persona, molti dei suoi colleghi stregoni erano gelosi e invidiosi delle sue capacità, e di conseguenza si comportavano in modo antipatico.
Ecco infine sopraggiungere, correndo, una figura familiare a Razael. Familiare in tutti i sensi.
Era una giovane attraente donna dal fisico prestante. Indossava un particolare abito, tipico delle donne elfe del posto. Una sorta di tunica aderente, viola e ornata d’oro, stretta intorno al busto e al bacino da dei bottoni. Essa si rigonfiava attorno al bacino, creando una sorta di minigonna. Ai lati delle gambe e dietro la minigonna si prolungava in un’effettiva gonna che teneva scoperte le gambe, cinte da stivali da donna neri e pantaloni blu notte.
I suoi capelli erano rossicci e lisci e, in sintonia con la tradizione, lunghi. Una frangia copriva diagonalmente la fronte. Dei vistosi orecchini, piccole sfere violetto pendenti da delle catene dorate, le decoravano il viso.
Dietro di lei, meno frettoloso, c’era un uomo dalla folta e densa capigliatura bruna.
“Razael! Razael!” lo salutò, incrociando lo sguardo del fratello che si era fermato e aveva posato il suo bagaglio.
“Nadia, sorella mia.” la accolse, non appena arrivò, strofinando entrambe le guance sulle sue, come era costume elfo del luogo.
Il marito Rober sopraggiunse, e Razael salutò anch’egli, strofinando però solo una guancia.
“Ebbene, oggi finalmente parti - disse Nadia, entusiasta per il fratello - Sono felice che tu ci sia infine riuscito.”
“Non puoi immaginare quanto lo sia io - replicò - Finalmente lascio questa città per un lungo viaggio in mare.”
Ella strinse la mano libera di Razael con entrambe le sue mani, una delle quali portava a un dito l’anello d’argento del matrimonio.
“Promettimi che tornerai. E che tornerai presto - lo supplicò - Sappi che qui c’è qualcuno che ti aspetta, e voglio che tu sia qui quando arriverà.”
Razael era confuso. “Quando…quando arriverà? Non capisco…”
“Razael, io aspetto un bambino” rispose, sorridendo, Nadia.
Razael fu colto da stupore, meraviglia e gioia. “Un bambino!” esclamò, tastando il ventre della sorella.
“Quanto è che…?”
“Appena due mesi” rispose Nadia, cogliendo ciò che voleva chiedere Razael.
“Questa si che è una bella notizia! - si voltò verso Rober - Che dire, caro: ottimo lavoro!”
“Questo me lo dirai quando nascerà - replicò, avvicinandosi e abbracciando Nadia - Sarà un bambino bellissimo…”
“Senza dubbio, con dei genitori così.” commentò Razael.
“Razael, promettimi che tu ci sarai quando nascerà.” lo supplicò, ma sembrava più un ordine dal tono con cui lo diceva, Nadia.
“Farò del mio meglio. Il mondo è grande, ma cercherò di esserci comunque.”
“Ecco, prendi questo.” disse poi Nadia, estraendo un foglio arrotolato dalla tasca della veste.
“E’ una fotografia della mia collezione. Siamo noi due e i nostri genitori…ho pensato ti avrebbe fatto piacere, ma immagino tu abbia già delle fotografie.”
Razael non srotolò la fotografia, ma la strinse in mano. Di rado parlava dei suoi genitori, morti quel fatidico giorno in cui Razael si dimostrò un abilissimo stregone. Non erano morti in modo brutale o troppo prematuramente, d’altronde avevano avuto i due figli ad un’età abbastanza inoltrata e avevano vissuta una vita piuttosto lunga. Razael e Nadia seppero superare la loro mancanza con facilità, tuttavia veder morire i propri genitori, anche se felicemente e senza rimpianti da parte loro non è una bella cosa.
“Grazie, Nadia. La custodirò con cura.” disse infine.
Si accomiatò dalla sorella e dal cognato con i migliori auguri e solenni promesse, per continuare il suo tragitto verso il porto.
Ecco che, con la spiaggia ormai a contatto visivo, si fece vedere Magor, che Razael temeva di non riuscire a contattare. Non poteva cercarlo con metodi convenzionali, dato che l’apprendista non aveva una dimora fissa ma abitava in una caravan che non era mai allo stesso posto in città, un rimasuglio del suo passato da artista circense.
Magor era vestito ugualmente al giorno prima, e si dirigeva a passi larghi verso il maestro, sebbene fosse inutile, visto che Razael si dirigeva nel luogo da cui Magor proveniva.
“Magor, mio apprendista.” Razael fu il primo a parlare, nonostante Magor fosse quello con più fretta
“Oggi ci salutiamo per bene, caro mio.”
“Sembra proprio di sì. - replicò Magor - Non mi sono mai mostrato contrario alla vostra idea, e non lo farò oggi.”
“Io non ci sarò per diversi mesi, Magor. Ora il mio posto verrà preso da te: sarai tu il più potente stregone qui, prima del mio ritorno. No, non ribattere, sai che è così. Temo che con la mia assenza la gente si rivolgerà a te per i problemi che erano soliti far risolvere a me. Tieniti pronto.”
“Lo sarò. Forse ve ne siete dimenticato, ma diverse volte è stato chiesto aiuto a me.” rispose Magor
“Mi fa piacere. Ora passando a cose più personali…ecco, ti lascio le chiavi del mio appartamento. Potrai vivere lì finchè non ritorno, e ti prego di dar da mangiare a Edvinx e di farlo uscire ogni tanto.”
“Mi lascerai anche le chiavi del laboratorio?”
“Certo che no, Magor! - rise Razael - Voglio che quello che è lì dentro rimanga segreto, a meno che io non voglia il contrario. Non dubito che con un po’ di impegno tu riesca a rompere gli incantesimi che proteggono la serratura, ma ho fede che tu non mi disobbedirai. In fondo ti sto prestando la mia casa, e credimi non l’ho pagata poco.”
Magor abbassò la testa. “Perdonatemi.”
“Su, su, non farne un dramma.” lo risollevò il maestro.
“Ti prometto che quando tornerò avrò padroneggiato la creazione del diamante.” Asserì l’apprendista, con un vivo fuoco negli occhi. Il ‘tu’ invece del ‘voi’ non è stato un errore.
“Hai tutto il tempo per riuscire a farlo, Magor. Non metterti troppa fretta, io sarò sempre orgoglioso di te.”
Razael strofinò entrambe le guance su quelle di Magor, prima di congedarsi da lui. “Ora devo andare.” e oltrepassò l’apprendista.

Finalmente arrivò al porto, dinanzi a una pressoché semplice ma splendida e grandiosa nave in legno. Non era dipinta, era interamente di corteccia marrone con parti dorate. E le parti dorate erano di oro vero, non semplice pittura. Razael ne rimase stupefatto. Nonostante non fosse decorata e dipinta con la raffinatezza e la precisione dei vascelli degli abbienti signori, l’enorme quantità di elementi in oro la rendevano ricca oltremisura. Possedeva due alberi dotati di due vele dai riflessi dorati ciascuno, più un terzo albero minore sulla prua vestito di una vela triangolare.
Da fessure intarsiate in oro laddove l’acqua toccava la nave emergevano diverse file di remi.
A poppa, sopraelevato al ponte, si ergeva un largo castello navale. Mozzi e marinai salivano e scendevano dalla nave per terminare carichi e preparativi.
Sul ponte, intravide il capitano che lo salutava e lo incitava a salire, chiamandolo a gran voce.
Un ultimo dettaglio che lo colpì, fu il nome della nave stampato in argento nei caratteri della lingua vicia che vici, zoari e elfi attualmente parlavano ma nella lingua originale elfa: Mudras, saggezza. Un chiaro simbolo riguardo la missione della nave.
Salì sul ponte di legno che collegava e permetteva il passaggio tra ponte della nave e terraferma, in mezzo a molti marinai indaffarati, tra i quali diversi gli rivolsero saluti.
Il capitano, trionfale, con le mani sui fianchi, nella sua giubba blu, decorata e rinforzata, con spalline dorate così come i bottoni, lo aspettava sorridente. Un vecchio amico d’infanzia.
Era un uomo pelato come lui, ma che più di Razael mostrava i segni del tempo sebbene avessero la stessa età. Viso solido e bonario, un po’ pieno sotto il mento, ma allungato ed equilibrato, dal naso sottile fino alla fronte ampia dalle regolari rughe. Gemme di una indefinibile miscela di blu e di verde erano i suoi occhi. Era un uomo pelato. Si erano conosciuti molto tempo fa, ai tempi della scuola primaria, e sin da allora avevano percorso insieme la carriera scolastica, sebbene Razael abbandonò presto la scuola di secondo grado per accedere direttamente all’università di magia, viste le sue capacità, ma non si erano mai persi di vista. Nemmeno la distanza tra Inverrith e Lacedimora impedì che la loro amicizia fruttasse e maturasse, si mantennero in contatto con una dispendiosa, impegnativa quanto commovente corrispondenza. Era un uomo pelato, dico, perché la lunga permanenza ad Inverrith, il contatto con costumi nuovi e totalmente slegati da una tradizione mantenuta viva da una comunità omogenea e radicata, lo influenzò e non si sentì più in dovere di mantenere il cranio calvo e liscio o coronato da fluenti capelli. Ostentava una zazzera molto corta, nera, vagamente riccioluta.
Si avvicinarono e si strofinarono amichevolmente le guance, ben tre volte.
“Allora, grande mago! - esclamò il capitano Ricardo Tarrant, dandogli una possente pacca sulla spalla - Pronto per questo viaggio?”
“Ora come lo sono sempre stato, caro mio.” rispose entusiasta Razael.
“Ah, vecchia volpe! - diede un’altra pacca - E’ da un bel po’ che non ci vediamo. Ho fatto fatica a riconoscerti: l’ultima volta avevi i capelli biondi lunghi! Come mai questo cambiamento?”
“La mia bella pelata fa più effetto dei capelli lunghi. Insomma, in quanti hanno una crapa così liscia? E’ stato doveroso radermi.”
Lasciò cadere lo zaino e il bagaglio, sentendosi leggero e volendosi sentire ancor di più ora che i suoi piedi non erano più sulla dura e immobile terra ma sul legno galleggiante.
“Dai, ammettilo che eri geloso della mia! Quando l’avevo, ovviamente. – vociò il solare capitano; si interruppe e notò i bagagli dell’amico - Vuoi che te li faccia portare dentro?” chiese.
“No, grazie, faccio da solo.”
 
Il ponte di collegamento fu rimosso. Le corde che relegavano la nave al suo posto nel porto sciolte e portate a bordo. Le vele furono spiegate.
“Levate l’ancora!” risuonò forte la voce del capitano dal ponte, dove si trovava il timone.
La catena che teneva l’ancora legata al fondale fu riportata tutta all’interno del galeone.
“Si parte!” Con una rapida manovra, il capitano ruotò il timone e con esso l’intera nave virò verso il mare occidentale, col vento che magicamente aveva preso a soffiare forte nelle quattro vele.
“Facciamo vedere come andiamo veloci, uomini!” sfidò il capitano.
I remi ai lati della nave presero a battere le onde con voga e la nave aumentò vertiginosamente velocità. Razael, in piedi sull’estremità della prua, si godeva la brezza marina e la velocità della nave sull’acqua, e gli spruzzi della spuma. Si rese conto che, se munita di arpioni e/o cannoni, la Mudras sarebbe stata migliore di molte navi dell’esercito.
Razael provò una sensazione di vita e di passione finora solo assaggiata e vagamente indovinata.
Sorrise ampiamente mentre il la spinta dei robusti vogatori innalzava la nave verso l’orizzonte blu sconosciuto, soffiando un vento profumato degli aromi dell’ignoto e degli abissi nel viso rilassato dello stregone.
Un vento che riempì di desiderio di conoscere, di vedere panorami la cui luce mai incontrò gli occhi impauriti e superstiziosi dalla gente del Grande Golfo, di sfondare i limiti imposti al mondo dalla società troppo pigra per abbandonare le proprie radici, di segnare nuovi contorni di isole e continenti nel grande mare inesplorato, da cui mai nave inoltratasi troppo aveva fatto ritorno sicuro.
Avrebbe dimostrato che i progressi congiunti delle città-stato degli elfi, della Repubblica Indipendente di Inverrith e della tribù zoara dei Raminghi, che aveva partecipato ampiamente nella costruzione dell’imbarcazione, avrebbero portato il successo tanto insperato per la misera gentaglia comune e aperto alla comunità di quella ristretta striscia di terra i cancelli dorati di un mondo meraviglioso e di un’era di ricchezza e di sviluppo. In più, a garantire il successo dell’osteggiata missione esplorativa, vi era lui, il più grande stregone del suo tempo. Non era un uomo pieno di sé, e raramente soleva definirsi con queste parole, ma in fin dei conti era vero. E con lui nessun pericolo avrebbe potuto fermare il corso della Mudras.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1.3 ***


Avevano oltrepassato, dopo giorni di viaggio, il confine del mare conosciuto, e si erano inoltrati nell’oceano aperto, prendendo una traiettoria rettilinea in direzione sud - ovest.
Il viaggio dopo di ciò fu lungo, tranquillo, e privo di qualsivoglia imprevisti. Quasi noioso. Ma non per Razael, che per il solo fatto di poter stare sulla nave era gioioso e frenetico, e quando non sostava nella sua stanza nella cambusa a tracciare i contorni e i nomi delle terre e delle acque che trovavano era sempre sul ponte a dare una mano.
Si era inoltre ripromesso che non avrebbe usato la magia, se non in casi estremi. Una piccola sfida con se stesso che ogni buon stregone di professione doveva fare almeno una volta nella vita.
Le isole trovate furono pressoché piccoli atolli e isolotti, e quando erano abitati si trattava più che altro di indigeni, non sempre accoglienti nei confronti dei forestieri.
Ad ogni modo l’equipaggio sostò diversi giorni sugli atolli su cui era stato permesso viaggiare, non solo per motivi di esplorazione ma anche per rifornimento. In fondo il viaggio poteva essere molto lungo, le cibarie non sarebbero durate in eterno e la sola pesca non garantiva sufficiente sostentamento.
Le comunità indigene ospitali trovate lungo il tragitto percorso – non solo elfe - non erano incoscienti della magia, molti individui erano altresì molto abili nella stregoneria, e pareva fossero coscienti della presenza di altre genti a est.
A diversi fu chiesto di aggiungersi alla ciurma, se lo desideravano: metà rispose con risate, metà con insulti e toccate di ferro. Una reazione inaspettata che richiedeva spiegazioni.
Si scoprì infine che loro non erano i primi delle terre orientali ad aver percorso quel sentiero e ad aver incontrato quelle genti: diversi prima di loro si erano inoltrati verso ovest, ma quando le loro navi salparono dalle loro isole, non furono mai viste tornare indietro.
Notizie sconfortanti, ma di cui il capitano non si preoccupò: “Noi non siamo i marinai di allora, le nostre tecniche e le nostre esperienze non sono le stesse di allora. E’ sempre possibile che siano rimasti nei luoghi che hanno scoperto o che siano tornati per un altro tragitto.” aveva detto.
Molti dell’equipaggio non condividevano tali pensieri ottimisti e, quando fu il turno degli indigeni a chieder loro se volessero unirsi alle loro tribù, furono diversi ad acconsentire.
Razael era indifferente alle dicerie, sia a quelle delle genti tribali sia a quelle degli stessi membri dell’equipaggio, che affermavano che quello era un viaggio suicida, senza fine, che loro volevano tornare a casa e che il mondo in cui si trovavano fosse racchiuso da lembi di terra e il loro mare fosse solo un grande lago. Baggianate senza prova né evidenza. Lo stregone, seppur deluso dal non aver ancora incontrato nessuna di quelle misteriose creature gialline o azzurre, che apparivano e sparivano casualmente nelle terre orientali e di cui poco si sapeva, era interessato alle isole, alla terra e alla sua conformazione, ai fiumi, ai monti e ai loro nomi, alle usanze e tradizioni delle popolazioni locali e alla loro storia.
Non era l’unico ad essere interessato a questi temi, ma sicuramente l’unico che mostrava interesse per tutti e con tanto impegno e passione, impareggiabili.

Razael, all’interno della cambusa, aveva la testa poggiata su un rotolo di carta, su cui stava disegnando il profilo delle ultime isole. Stava dormendo: era rimasto tutta la notte a scribacchiare sulle sue carte, con più fatica delle volte precedenti, dal momento che si erano imbattuti in un vasto arcipelago che includeva un’isola ben più grande di quelle trovate in precedenza, abitata da grossi zoari dalle corna piccole e dalla pelle chiara.
Il suo sonno fu bruscamente interrotto dal grido acuto della vedetta, una donna dalla voce squillante e insopportabile quando alta. Invece che abituarsi, Razael – e non solo - si irritava sempre di più ogni volta che la udiva urlare, ma forse era meglio così.
“Uomo in mare! Uomo in mare!” continuava a gridare sulla cima dell'albero maestro, con l’occhio incollato al cannocchiale, tanto che sembrava essere un prolungamento dell’occhio.
Razael sussultò, con la mente ancora tempestata dalle immagini dei sogni, che non erano molto diverse dalla realtà: sognava di dover disegnare un numero spropositato di cartine che non riusciva mai a finire.
Si diede qualche schiaffetto per svegliarsi, e scosse freneticamente la testa. Si alzò, inciampò e nel farlo fece cadere qualche scartoffia, precedentemente ordinata, dal tavolo. Le raccolse frettolosamente e le rimise alla rinfusa sul ripiano, dove poi avrebbe dovuto fare nuovamente ordine. Fuori dalla sua stanza la vedetta non smetteva di urlare, e l’urlo faceva dannare orecchie e animo di Razael e di chiunque ancora non fosse uscito per dare un’occhiata a ciò che era stato trovato.
Non perse neanche il tempo a sbadigliare o a raccogliere il suo bordone appoggiato all’angolo della stanza. Corse spedito verso la porta, incespicando, salì le scale e si piombò ai bordi della nave.
Lì Razael assistette al ripescamento di un uomo che non aveva mai visto prima. Nell’acqua dalla quale veniva preso si trovavano i resti di una zattera. Era un elfo segnato dal tempo, magro e fiaccato, e da una mancata cura del proprio aspetto – aveva una ridicola barba incolta e grigia; ridicola perché, come spero si sia capito ma temo non sia successo, gli elfi di Lacedimora e di quelle terre ponevano una particolare preoccupazione all’aspetto estetico: si depilavano e si radevano costantemente, in modo da lasciare il proprio corpo liscio e impube, con la sola differenza della testa. I capelli erano tenuti o lunghi o non erano tenuti affatto: lunghi per chi poteva dedicare quotidianamente una cura adeguata alla propria chioma che doveva risultare impeccabile, testa pelata per chi possedeva un cranio perfettamente liscio, privo di una qualsivoglia imperfezione e che era doveroso mostrare ed esserne orgogliosi.
Non era un uomo dell’equipaggio, questo era pacifico, e ora lo stregone si chiese perché si fosse piombato lì. Non era nel suo diretto interesse sapere che c’era un naufrago che veniva ripescato.
Bagnato e infreddolito, all’uomo fu portata una coperta e una tazza con una bevanda calda.
Egli accettò entrambe senza troppi complimenti, mentre maggior parte della ciurma lo circondava e lo guardava, piena di quesiti da proporgli.
Al contrario, fu l’uomo il primo a fare le domande.
“Chi siete, e dove state andando?” parlò nella lingua corrente vicia e bevve un lungo sorso.
“Siamo lacedimoresi, e siamo in un viaggio di esplorazione.” rispose il capitano.
La pelle dell’uomo, già pallida dalla fatica e dal prolungato contatto con l’acqua marina, sbiancò ulteriormente.
“Viaggio? No, no! - gridò, alzandosi tremante - Non dovete andare oltre! Tornate indietro! Tornate indietro!” La paura che al primo grido si era presa possesso di lui si era ora tramutata in rabbia. Il suo ultimo avvertimento sembrava più un ordine che un’esclamazione.
“Calmati, marinaio. - replicò un membro della ciurma - Che cosa c’è di tanto brutto avanti?” e rise.
“No! No! - gridò il naufrago, stizzito dalla risata, e gesticolava - Voi non capite! Non sapete cosa c’è avanti!”
“Ebbene, cosa c’è avanti? Siamo venuti qui per scoprirlo.” ribattè il capitano, a braccia incrociate, che cercava di mantenere un atteggiamento imperturbabile anche se il comportamento del naufrago lo preoccupava.
“No! Il…il diavolo! Il diavolo! Mostri terribili!” urlò, facendo rovesciare sonoramente  la tazza e il suo liquido, portando le mani alla testa.
“Il diavolo! Oooh…” e queste furono le sue ultime parole. Cadde per terra, svenuto.
 
Il viaggio era già durato diversi mesi del calendario elfo, i primi dei quali veramente poveri di novità e solo le ultime scoperte erano state alquanto sconcertanti e deprimenti, al contrario di ciò che tutti a bordo si aspettavano, ad esempio ricchezze immense al di là del mare.
Notizie di navi che si erano già addentrate nelle acque occidentali senza farvi ritorno, un naufrago di chissà quali origini e provenienza che sembra essere stato in tali acque e aver visto chissà quali orrori.
L’uomo, dopo che cadde privo di sensi, fu portato nelle camere a riposare e curare. Un’alta febbre cominciò a infiammargli la fronte. Chissà da quanto tempo era stato trascinato nelle fredde acque, chissà che cosa gli era stato fatto nel posto in cui era approdato.
Domande che dovettero rimanere senza risposta, in quanto il naufrago rimase a letto malato e non parlò mai, se non versi incomprensibili nel sonno.
Certo era che, comunque, la scena dell’uomo ripescato e le sue parole avevano colpito i marinai, molti dei quali cominciarono a credere seriamente che era ora di tornare a casa prima di non esserne più capaci. In fondo qualcosa avevano scoperto, ed era meglio fare subito marcia indietro prima di essere dati per morti e perduti dai loro concittadini e far sì che, in un futuro, nessuno compiesse ancora il loro viaggio per brama di scoperte e subisse la sorte dei suoi predecessori.
“Tutte balle!” gridava la vedetta, bevendo un boccale di birra sul ponte, di notte, insieme ad altri marinai, tra cui Razael, che si era preso una pausa dal suo scribacchiare.
“Quell’uomo, l’avete visto, è malato. - disse sorseggiando - Potrebbe essere impazzito e delirato. Non c’è da credere a una sola parole di quello che dice. Scommetto che non sa nemmeno come si chiama.”
“E poi l’avete sentito il capitano, no? - interloquì un altro marinaio - Noi non siamo gli stessi marinai dei vecchi viaggi. Qualunque cosa ci sia avanti, perché non dovremmo essere in grado di affrontarla? Chissà quanto tempo è passato dall’ultima volta che quegli indigeni hanno visto una nostra nave, o una nave vicia o che altro, passare di qua. Sempre che non abbiano mentito.”
“Ad ogni modo - continuò la vedetta, addentando un pezzo di pane e pesce - c’è con noi Razael Akkars, il più grande stregone di questo tempo! Non dobbiamo aver da temere con lui, giusto?” e gli diede una pacca sulla spalla, e gli porse del pesce.
Razael accettò e sorrise, masticando il cibo e pensando che era sbagliato da parte loro porre così tanta fiducia in lui, ma che forse era meglio così: finchè c’era lui, almeno, i marinai si sarebbero sentiti al sicuro e non sarebbero fuggiti.
“Ma chi è quell’uomo comunque? - domandò, meno ottimista della vedetta e del suo compagno, un altro marinaio - Come è giunto qui? Da dove viene? Parlava la nostra lingua, e l’avete vista tutti la zattera. Stava scappando da qualcosa.”
“Forse voleva solo ritornare a casa.” ribattè la vedetta, tralasciando completamente i quesiti irrisolvibili e molto importanti riguardo l’identità e la missione di quell’uomo.
Quando parlava normalmente, la voce della vedetta era amabile per Razael e i suoi discorsi sembravano risollevare il morale e l’ottimismo di tutto l’equipaggio, quando non si trattava di strilla riguardanti terre o uomini in mare.
 
La mattina dopo Razael era bello addormentato nel suo letto, tranquillo e senza preoccupazioni. Già da qualche giorno aveva terminato le sue cartine, e per un po’ non se ne era dovuto preoccupare, vista la carenza di isole da esplorare e disegnare.
Il risveglio fu meno brusco quel giorno quando la vedetta, già sveglia e al pieno della sua potenza sonora – com’era possibile? La sera prima si era ritirata nella sua camera alla stessa ora di Razael e aveva mangiato molto più pesce di quanto ne mangiò lo stregone, cosa che non doveva giovare al sonno - gridò nella voce che nulla ricordava l’amabilità e l’orecchiabilità della sera passata, ma che manteneva comunque un potere di sollevamento: l’avvistamento di una terra era sempre una buona notizia.
Razael si alzò comunque alle grida con una certa pacatezza, e nonostante gli squilli della vedetta – che notò divenire più deboli, cosa mai successa prima, semmai accadeva il contrario e a un certo punto si interruppero pure - che erano sempre un dolore per i timpani, gli riuscì di alzarsi tranquillo, di darsi una modesta lavata al viso e di togliersi il pigiama senza fretta e di mettersi la sua tuta e la sua tunica, ormai abbastanza sporche, ma su una nave in viaggio non potevano cambiarsi sempre i vestiti. Fu anche in grado di prendere il suo bordone e il suo cannocchiale personale, ma non gli riuscì di mangiare. Non c’era un biscotto o del pane o una bottiglia di liquore nella camera, il che gli parve molto strano: se ne portava sempre un po’ in cambusa per tenersi sveglio e da adibirli come modesta prima colazione, e si ricordava che il giorno prima, dopo pranzo, non aveva cambiato le sue abitudini. Scrollò le spalle, dopotutto non era un problema enorme, e si avviò fuori sul ponte a dare un’occhiata a ciò che avevano avvistato.
I marinai che guardavano mormoravano silenziosi e quasi intimoriti, e cercavano di distogliere lo sguardo. La vedetta non urlava più, e il capitano aveva un’espressione torva sul volto.
Qual era il motivo di ciò? Non se lo seppe spiegare, e non collegò il loro cambiamento d’umore con la vista della terra scoperta, siccome la vista di un’isola non era solita provocare reazioni simili.
Razael estrasse il cannocchiale dalla cintura, ma scoprì che non ce n’era bisogno, almeno non subito.
La visione di quella ‘terra’ sorprese lo stregone. Di più. Lo atterrì, era una visione di spaventose proporzioni, capace di instillare follia e disperazione nei più deboli di cuore; cosa che sperava i marinai della Mudras non fossero, ma dopotutto quel viaggio stesso non era per coloro di animo gracile. La paura per quel nero obliante che si stagliava come una fiamma di tenebra sull’orizzonte non fu troppo grande perché il vivo interesse di Razael per tutto ciò che era misterioso e inspiegabile a una prima analisi dei fallibili occhi di elfo.
A sinistra della nave, in lontananza ma abbastanza nitida, si trovava un’isola, o almeno così sembrava. Una nube nera emergeva dalle acque, immobile e cupa come nebbia. Un’oscurità fitta e densa che pareva urlare la sua fame attraverso nere fauci, modellate sulla sua irreale superficie dai raggi del sole, e inghiottire perennemente ogni cosa che lambisse la sua essenza.
Non si era mai visto nulla di simile, o almeno di tali dimensioni. Razael deglutì lo spaventi ed esaminò il panorama col suo classico fare scientifico: un paesaggio del genere doveva essere frutto di qualche arcana magia o di una reazione chimica sconosciuta, cosa che attizzò ancora di più lo stregone. Sicuramente non era naturale, c’era qualcuno di intelligente che lo aveva plasmato. Oltretutto sembrava molto grande, più grande di tutto ciò che era stato trovato finora.
Razael capì il timore e il silenzio dei marinai, ma non capì perché stavano procedendo diritti invece che virare verso quella landa scura. Era evidente, c’erano intelligenze dall’altra parte, e non era forse loro preciso obiettivo trovare nuove genti in quel mare inesplorato? Non potevano scoraggiarsi solo per quella scoraggiante dimostrazione di magia, che lui avrebbe saputo svelare in poco tempo, se l’avesse avuta fra le mani. Sapevano difendersi, avevano le armi e l’esperienza, non c’era di cui temere.
Si avviò verso il capitano, ancora torvo, rivolto dalla parte opposta della strana nebbia lontana.
“Capitano, che cosa sta succedendo?” domandò.
“Si procede con il tragitto scelto, come sempre.” rispose prontamente, voltandosi verso di lui con uno sguardo severo che poche volte Razael gli aveva visto addosso.
“Non capisco.” disse confuso Razael, e rabbiosamente stordito da quella decisione inconsulta. Abbassò il capo, e poi gli venne in mente una buona frase da dire per farsi svelare la verità dal suo amico: “Ti sei forse fatto abbindolare dalle pazzie di quel naufrago? Mi chiedo come sia diventato capitano…”
“Vacci piano, per favore! - ribattè il capitano, con tono di supplica - Non è certo per paura mia che non vado verso…lì. Devi capire che come capitano devo contare di tutti i miei marinai. Molti sono spaventati.” spiegò. Diede le spalle a Razael e le mani dietro la schiena. Sospirò.
“La vista di quella nebbia nera ha provocato timore nei miei uomini, in molti di loro. E non lo nascondo, un po’ anche in me.”
“A me non ha fatto niente.” lo interruppe Razael, mentendo.
“Tu sei uno stregone e hai una mente più forte. Noi no. C’è qualcosa in quelle tenebre che ci fa paura. Non timore, paura. Molti dei miei uomini, molti rematori, si sono rifiutati di proseguire in quella direzione. E non posso rischiare un ammutinamento, non adesso. Io mi sarei diretto lì senza problemi, non ho paura delle magie con te a bordo. Ma non tutti sono stati d’accordo.”
Prese il cannocchiale di Razael, che sapeva essere potenziato da incantesimi. Puntò qualcosa in lontananza. “Guarda laggiù. Con questo dovresti vedere molto meglio. Ci stiamo dirigendo lì, un’isola proprio nel mezzo della nostra traiettoria, o quasi. La esploreremo, e poi torneremo a casa. E’ meglio così.”
La parola ‘casa’ non suonò del tutto amabile a Razael, che con un ringhio si riprese il suo cannocchiale e guardò lì dove indicava il capitano.
Mise a fuoco e vide, offuscata dalla prospettiva aerea, un’isola apparentemente di grandi dimensioni, anche se era abbastanza lontana e poteva essere diversa da come appariva.
Vedeva comunque chiaramente la sagoma di una montagna, o forse due.
“Va bene - mentì lo stregone - Tieniti il cannocchiale, sarà più utile a te che a me.”
Si diresse spedito nelle sue stanze. Tirò fuori le sue carte e i suoi strumenti. E adesso? Non sapeva come fosse fatta quella terra – se ci fosse davvero una terra - nascosta dalla magica nebbia, ne a che lontananza fosse effettivamente.
Tracciò quindi una sagoma ellittica tratteggiata all’estremità della mappa su cui lavorava adesso. Al suo interno scrisse ‘Oscuro Orizzonte’.
Un nome azzeccato – pensò - Lo descrive bene e, perché no? fa paura. Nulla di meglio. Ma un giorno ci andrò, dovessi abbandonare Magor e Nadia.
Si pentì di ciò che aveva appena detto e si picchiò la testa. Abbandonare il suo apprendista e sua sorella, le persone a cui teneva più in assoluto. Non le avrebbe abbandonate per bighellonare su una terra che nemmeno esisteva, forse.
Si sdraiò sul suo letto, ed estrasse la fotografia che gli consegnò Nadia. Aveva ancora i capelli lunghi in quella fotografia. Si chiese poi cosa avrebbero pensato i suoi genitori di quel viaggio.
 
Non fu nemmeno sera che l’isola era ora ben visibile e nitida. Tutti coloro che non erano impegnati nei lavori di manutenzione erano sul ponte o affacciati alle finestre a guardare la terra che si stagliava di fronte a loro, sempre più vicina e grande.
Molto più grande di ogni isola vista nel viaggio finora, forse della stessa ampiezza di Inverrith.
Mesi ci erano voluti per giungere fin lì, e altrettanti mesi ce ne sarebbero voluti per tornare indietro.
Una fortuita circostanza: proprio quando si è scelto di terminare il viaggio e procedere verso casa, ecco apparire una landa ben più vasta di quanto si potesse sperare, una landa che poteva contenere chissà quali ricchezze, quali misteri e popoli, che forse avrebbe avuto il potere di incitare il capitano e i marinai a proseguire nel viaggio in direzione sud - ovest.
Queste erano le speranze di Razael, appoggiato all’estremità della prua della nave, insieme agli altri. Teneva la testa lucida appoggiata sulla mano, e guardava pensieroso innanzi a se.
Le sue speranze non finivano qui: pregava con tutto il cuore che su quell’isola avrebbe finalmente trovato almeno un membro di una delle due misteriose razze, e la speranza era accresciuta dalla grandezza dell’isola, ma si sentiva comunque depresso dall’imminente partenza. Si auspicava di poter sostare sulla vasta terra almeno per un mese, anche se dubitava enormemente che sarebbe successo.
Già da prima era possibile dedurlo, ma ora era chiaro e dimostrabile alla vista e che la nuova terra non era una sola isola, bensì due isole molto vicine separate da uno stretto marino. Anche nella loro identità come isole separate invece che unica isola, erano vaste e spaziose.
Su una, la più vicina sulla sinistra della Mudras, stava un basso monte apparentemente privo di vegetazione e quello che sembrava una distesa desertica sormontata qua e là da pinnacoli rocciosi e radure, sull'altra, ancora non ben visibile e descrivibile, pareva esserci una montagna più alta dalla cima innevata e dietro una distesa verdeggiante.
Si erano ora avvicinati ulteriormente e a pochissimo dalla spiaggia, e l’isola verde era ora impossibile da scorgere se non per una punta bianca che spuntava oltre il gigante bruno dell’isola sabbiosa su cui stavano per approdare. Sulla battigia ormai vicinissima si potevano scorgere numerose rocce, ma nessun movimento di creature vive.
Ciononostante, la fibrillazione per quella landa lussureggiante e variegata, dopo quasi metà anno di scrupolose, noiose circumnavigazioni di arcipelaghi molto spesso disabitati e grandi quanto la nave, era palpabile con mano, la sua fragranza era nell’aria. Tutti la intendevano, a bordo, non solo Razael.
Il capitano, nella sua bella giacca blu linda e splendente al sole – che era diventato improvvisamente più caldo - si avvicinò allo stregone.
“Pensi sia abitata?” gli chiese, posandogli una mano sulla spalla.
“Lo spero con tutto il cuore, caro amico.” rispose Razael, cercando di far trapelare il più possibile la delusione per il fiasco precedente e meno l’entusiasmo per la nuova terra, per ripicca.
“Manca solo qualche migliaio di passi alla riva, e qui siamo ansiosi…ai remi!” comandò il capitano, e le sue parole furono presto obbedite.
Fu aumentata la velocità, aggiungendo al vento nelle vele la forza dei rematori, per raggiungere l'isola, cioè, le isole più velocemente.
Le parole del capitano erano veritiere: in tutti i marinai e i mozzi si leggeva ansia e fretta di arrivare a riva ed esplorare quell’ultima meta della loro rotta. Nessuno si ricordava più dell’episodio e delle maledizioni del naufrago, sebbene fossero solo di pochi giorni fa, ed egli stesse ancora cocente e moribondo nelle sue stanze.
“Fra poco getteremo l’ancora, e proseguiremo con le scialuppe.” mormorò il capitano a Razael.
Quando giunse infine il momento per mettere in atto ciò che aveva appena detto, la nave si bloccò di colpo, facendo inciampare e cadere diversi uomini in piedi.
Il capitano, uno di quelli che cadde, era alquanto stizzito da quanto successo e si alzò innervosito.
“Chi è che ha gettato l’ancora?!” domandò, sicuro che l’improvviso arresto fosse causato da ciò.
“Nessuno, capitano!” risposero diverse voci.
L’equipaggio libero, Razael compreso, si gettò ai lati della nave ad osservare quale poteva quindi essere la possibile causa.
La nave era incagliata in quel posto e l'acqua intorno alla nave era mossa e spumeggiante..
“Dev'essere una secca. - continuarono i mozzi - Non c'è nulla di cui preoccuparsi. Adesso andiamo giù e risolviamo il problema.”
Un gorgoglio profondo e lontano, ma sempre più vicino e potente.
Oscure tenebre come artigli avvilupparono in una morsa fatale, impercettibili e rapidissime, i lati della nave.
Travi che si spezzano, metallo che stride e si piega, urla di terrore e sgomento e dolore, la tela delle vele che si lacera.
Pezzi di legno che saltano e volano, gli alberi che crollano, spezzando il ponte già squarciato e schiacciando i malcapitati spaventati.
In pochi secondi la bellissima e dorata Mudras era ridotta in macerie, dilaniata a metà da una poderosa forza sottomarina invisibile e inarrestabile. Le vele sbrindellate coprivano come lenzuola lembi d’acqua; accessori vari, provviste, cibo, carte, armi galleggiavano e affondavano senz’ordine tutt’attorno ai due grossi pezzi più o meno integri della nave, ormai irreparabili.
Suo malgrado, Razael e gli altri mozzi si ritrovarono a lottare per la propria sopravvivenza in un ambiente sconosciuto contro una forza nemica invisibile, scivolando giù in acqua dal pavimento inclinato di ciò che rimaneva della prua, che sprofondava inesorabilmente nell’oceano.
La poppa con il castello della nave era già sprofondata, intrappolando senza via di scampo chiunque fosse all’interno al momento dell’attacco. Non che chi fosse all’esterno non andasse comunque incontro alla morte, sebbene magari con un ritardo. Non avevano più una base solida su cui ergersi, erano immersi nell’acqua, patria del veloce e terribile mostro che in meno di un minuto aveva fatto trucioli e legna da ardere della stupenda Mudras. Non potevano prevedere nulla, né contrattaccare.
Razael e diversi marinai caduti riafforarono in superficie, appoggiandosi a travi spezzate e ad altri oggetti.
Il panico dilagava tra tutti quanti. Nessuno sapeva dove andare o cosa fare di preciso, se non una cosa: mettersi in salvo.
Razael fu più fortunato: trovò appiglio sulla torretta della vedetta dove potè addirittura stare in piedi, ma di essa nemmeno l’ombra.
Tutt’attorno a lui caos e terrore e nessuna traccia del capitano. Fu scoraggiato enormemente dal non vederlo, quando poco fa era di fianco a lui.
Osservò: maggior parte degli uomini sopravvissuti si sbracciava, con l’ausilio delle travi, verso la spiaggia vicinissima, unico luogo sicuro a portata d’occhio.
Ma finchè erano a contatto con l’acqua, la sicurezza e la speranza di sopravvivenza era pressoché nulla. Quella forza che aveva trascinato giù barca e ciurma poteva ritornare da un momento all’altro e chiunque era in acqua era una sua preda.
Razael decise di lottare non solo per la sua vita. Si librò in aria con un incantesimo – aveva salvato il suo bordone di legno - fluttuando a mezz’aria, e cominciò a far levitare i compagni superstiti, sollevandoli dall’acqua pericolosa e spingendoli verso la riva.
Ma era già troppo tardi: vide, nelle acque cupe, la sagoma del Mostro avvicinarsi alla superficie e farsi sempre più grande e prossima.
Ne aveva sollevati appena due o tre e insieme ad essi si stava spingendo il più veloce possibile verso la riva, non potendo compiere altri salvataggi in quella posizione o non avrebbe salvato nessuno: avrebbe pensato agli altri una volta sicuro sulla battigia.
Ma ogni tentativo fu vano: tutti quelli che galleggiavano e nuotavano furono strappati con grida dai loro appigli di legno, attirati nelle profondità marine, uno dopo l’altro.
Razael sentì qualcosa emergere dalle acque dietro di lui, e le grida e le indicazioni dei mozzi che stava facendo letteralmente volare. Ma Razael non ne diede conto: aveva occhi solo per la spiaggia, unica meta, unico rifugio.
Qualcosa di enorme, potente e viscido lo colpì alla schiena, facendogli perdere il controllo delle azioni e la concentrazione sugli incantesimi con cui teneva salvi a mezz’aria i suoi compari e se stesso. Si sentì cadere e sentì i suoi sensi vacillare. Si aggrappò d’istinto al suo bordone, compagno di avventure e sventure, preparandosi alla caduta e all’imminente fine.
L’ultima cosa che sentì fu una sostanza calda e granulosa strusciargli sulla faccia e provocargli bruciore, e poi il vuoto. >>

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Capitolo 4
*** Capitolo 2.1 ***


“Ma è fantastico!” proruppe Osmaniu, battendo le larghe mani con vigore e fragore. I suoi occhi brillavano infuocati e appassionati. Il suo intero corpo di rosso vivo, macchiato di scaglie brunastre, che già rifletteva la tipica muscolatura possente di un vulcanico adulto, fremeva per l’eccitazione.
Il giovane gormita originario di Ilabukh era stato rapito dall’avventura e dal senso di remoto, arcano, incantato, eroico delle parole del Cronista. Infervorato dalla storia appena agli inizi dell’emblematica e leggendaria figura del Vecchio Saggio, il suo viso ribolliva del desiderio di sapere di più, di conoscere ogni dettaglio delle imprese dell’elfo di Lacedimora. Un desiderio in lotta con l’esigenza di chiedere spiegazioni, di ottenere chiarezza su elementi oscuri e di condividere le proprie impressioni con gli altri scolari del gruppo.
Un bel cambiamento, pensò il Cronista, ridendo tra sé. Il nuovo arrivato dei suoi seguaci aveva inizialmente mostrato un’atipica timidezza e attitudine al silenzio, inusuale per un gormita del Popolo del Vulcano. Poi, mentre le labbra del maestro perpetuavano i verbi del tragico viaggio con semplicità e musicalità, il Cronista potè constatare della crescente esaltazione di Osmaniu. Spalancava la bocca estasiato, osservava con il lume negli occhi le dita numerose del forestale gesticolare gli eventi mormorati dalla sua lingua.
Ho proprio l’impressione che presto cambierà opinione. Si disse il Cronista serio, dando un’occhiata mentale alle narrazioni future sulle peripezie dello ‘stregone più grande’ di quel tempo.
Non espresse a voce le sue idee. Aveva arrestato il suo racconto e, mettendosi bello comodo sul suo scranno di radici, le gambe accavallate e le braccia conserte, non l’avrebbe proseguito per quella giornata.
Era il momento consueto per i suoi studenti di scambiarsi pensieri e riflettere saggiamente sugli episodi del passato, e di domandargli particolari non prettamente storici.
“Razael è…è un mito! Ancor prima che venisse qui su Gorm! Parlava in pubblico dei suoi lavori, voleva sapere e conoscere tutto, disposto a tutto…” esclamava Osmaniu, perdendosi nella confusione di concetti che non riusciva a esprimere a parole, agitando le mani avanti a sé con enfasi.
“Io avevo pensato che il Vecchio Saggio fosse sempre vissuto qui…” mormorò un cucciolo un po’ ingenuo, basso e tracagnotto, lo sguardo perso e le labbra spalancate e tremanti. Gli colava anche un po’ di saliva, da perso che era nei suoi ragionamenti ingenui.
“Ma cosa dici, non ha senso. – gli fece notare Forteceppo con sufficienza, l’altro studioso del gruppo che assisteva alle lezioni del Cronista, anche se più vivace e irrequieto di Loctiu – Il Vecchio Saggio non è un gormita, come sarebbe potuto essere sempre stato qui su Gorm?”
Il gormita piccolo e sempliciotto tacque, boccheggiò, guardò verso il cielo con i suoi occhioni disattenti, non interessato al tono leggermente offensivo con cui aveva parlato Forteceppo.
“Il Vecchio Saggio era un genio, il più grande stregone del suo tempo! – riprese col suo fervore Osmaniu – Aveva studiato tutta la sua vita la magia e non solo, ed era disposto a tutto pur di conoscere ancora di più! Ha lasciato la sua città per andare in viaggio in mare, un viaggio che gli elfi non volevano che si faceva…”
“Un viaggio da cui non è tornato. – mormorò greve Loctiu, stringendosi tra le braccia sottili e guardando in basso – Ha perso tutti i suoi amici, per colpa della Grande Piovra, e non può nemmeno tornare indietro. Non può tornare da Magor o da Nadia… - gettò gli occhi a destra e a sinistra, cercando tra gli sguardi perlopiù pensierosi e in attesa più o meno paziente che continuasse il suo discorso dei suoi compagni di lezione altre parole per comunicare il suo stato d’animo, la malinconia per la sorte toccata al Vecchio Saggio – È triste, non credi?”
Scrutò con espressione da vittima il focoso Osmaniu che, non potendo negare l’evidenza né ritirare le proprie impulsive parole di poco prima, s’ammutolì e il suo sorriso per la grandezza di Razael Akkars si fece più debole.
In suo soccorso, fortunatamente, giunse, nuovamente, Forteceppo, non dotato della sensibilità della sua sorella della Foresta ma di più spiccata indole realista.
“Però è un viaggio che Razael sapeva…cioè, sapeva dei pericoli. – considerò – Insomma, è vero, gli elfi non amavano i viaggi per mare, e per un motivo! E si è visto, e Razael sapeva, o forse indovinava soltanto, che c’erano dei rischi al di là del mare. Poi, il naufrago, anche lui ha fatto la sua parte, ma Razael non si è tirato indietro, né il resto della ciurma.”
“Quindi, cosa vuoi dire? – ribatté Loctiu, fissando in un mezzo cagnesco Forteceppo; intanto Osmaniu annuiva sorridente, incrociando i visi del Cronista e degli altri compagni, a intermittenza, contento che qualcun altro fosse della sua stessa opinione – Che Razael se l’è meritato?”
“No! No, non questo. – si alterò offeso l’altro forestale in erba, incompreso, rizzandosi – Solo che-che Razael sapeva dei rischi, quasi se l’aspettava, e che è stato fortunato a sopravvivere… – i suoi tre piccoli occhi cercarono quelli comprensivi e sapienti e al momento muti del Cronista – perché è sopravvissuto, vero?”
“Oh, ma che domande. Certo che è sopravvissuto! – sghignazzò bonario l’insegnante per quello sciocco interrogativo – Altrimenti la storia sarebbe finita qui, e oggi forse non sarei qua a parlarvi di questi sconosciuti del passato, non credi?”
“Sì, avete ragione…” chinò il capo imbarazzato, cosciente della stupidità del quesito, Forteceppo.
“Maestro, cos’è un gatto? – domandò un’altra scolaretta, con ben altre cose per la testa che soffermarsi sulle personalità della storia – Ho capito che è un animale, ma non ho capito com’è fatto.”
“Hm, ottima domanda!” sostenne il Cronista, trovandosi in difficoltà, con una domanda tanto fuorviante e insignificante, per certi versi. Mantenendo comunque un aspetto serio e al contempo bonario, di rispettosa e simpatica superiorità, benché la risposta non la conoscesse.
Poteva solamente vagare coi ricordi e le esperienze annaspare tra di essi e afferrare tra i più vaghi e confusi quello che maggiormente poteva alleviare il dubbio in modo saturo, il più possibile, della sua alunna. Doveva pur conservare la sua reputazione, e che figura avrebbe fatto se avesse nominato nei suoi racconti un personaggio, per quanto misero nella sua importanza, una mera comparsa, di cui non conosceva la natura? Non si trattava nemmeno di una figura appositamente o naturalmente oscura, qualcosa la cui essenza era risaputo non si poteva agguantare. Era solamente un animale, la cui presenza nel racconto era stata tramandata senza una vera e propria funzione.
“Be’, – iniziò, male, la sua improvvisata enunciazione, strofinandosi il mento; gli studenti di un decennio di vita in media lo esaminarono unanimemente in silenzio, attendendo quel così insensato chiarimento come fosse la rivelazione dei creatori dell’Occhio della Vita – immagino che se vi dica che i vici assomigliano ai gatti, non cambierebbe nulla. Sono dei piccoli animali, che non superano i due piedi, dal muso appuntito, un naso piccolo e umido, orecchie mobili e anche quelle appuntite, abbastanza grandi, e occhi da cacciatore. Ah, dimenticavo, anche una lunga coda, a volte più di metà del corpo, e un pelo variopinto, a macchie o a strisce, raramente a tinta unita. E anche dei baffi chiamati vibrisse sopra la bocca, che li aiutano nella caccia. Vi siete fatti un’idea?”
“Sì…credo di sì. – annuì la scolara – E avete ragione, assomigliano ai vici.”
“Ah, hai visto un vicio, tu?”
“Sì, sì.”
Hm. – borbottò nella sua mente il Cronista, sospettoso di quella rivelazione incompleta – Siamo tutti uniti, ormai, ma ancora devo fare l’abitudine a sapere che i vici e gli elfi vanno e vengono da qui. E poi, perché lei ha visto un vicio, a casa sua, penso? Bah, mi sto solo facendo problemi che non esistono.
“I gatti non si trovano su Gorm, e nemmeno i felini, di alcun tipo. – continuò per il bene della cronaca, sorprendendosi delle proprie ricerche che gli tornavano alla memoria – E non sono ancora stati portati qui dalle genti del Grande Golfo, anche se farebbero comodo, a scacciare topacci e altri animali che è meglio non avere intorno.”
“Potete dirci qualcos’altro sugli elfi?” fu la timida richiesta dell’ennesimo forestale, svolto il dilemma del gatto.
“Qualcos’altro? – ripeté perplesso il Cronista – Che cosa intendi, figliolo?”
“Be’, la loro storia, la cultura…cose così.” chiarì.
Il maestro ci rifletté un po’ sopra, mento stretto nel pugno; accavallò e scavallò una gamba sull’altra, prima la destra e poi la sinistra, e infine le pose ‘giuste’, piegate e separate, come se stesse per alzarsi.
“Non è di mia competenza, potrei dirvi cose sbagliate, ma…d’accordo. Vi dirò quello che so.”
Si massaggiò le tempie legnose, gli occhi chiusi, tentando di rammentare e di formulare un discorso organico e compiuto con le informazioni che potesse presentare come più esatte. I ragazzi si avvicinarono alla figura del mentore a gattoni e spintoni, piegando in avanti la schiena e il capo per udire meglio le sue parole.
“Gli elfi provengono da nord. Le leggende degli elfi stessi li pongono come gli antichi abitatori di Norquelais, il Polo Nord, dove regnano nevi più perfide e fredde di quelle di Inverrith, ma che ere or sono era una distesa verde e fertile. Giunsero verso sud come un popolo unito e di solide tradizioni tribali e di magia in cerca di un rifugio e una nuova casa dopo che i ghiacci sovrastarono le terre; ma lentamente, per la grandezza della regione della Setturnia, si divisero e innalzarono le loro città indipendenti lungo la costa e lungo i fiumi, e affinarono la loro innata predisposizione per la magia separatamente, giungendo a progressi mai visti prima, e ogni volta che le città-stato si incontravano imparavano qualcosa di nuovo che li portava a un gradino sempre più in alto nella comprensione della Prima lingua. Erian, Albersa e Lacedimora sono le città degli elfi più potenti e importanti. Erian è situata su un’isola vulcanica, costruita lungo le pareti e persino all’interno del vulcano spento, che la magia ha ormai domato per sempre. Albersa è una città nell’entroterra, affiancata da colline boscose, sovrastata da un imponente torre alta decine di piedoni, la dimora del re-stregone, il sovrano della città.
Per quanto riguarda la cultura, be’, la magia è sempre stata alla base della società degli elfi. Non c’è un solo elfo, come ho anche già detto nel mio racconto, che non sappia farsi luce di notte con la magia o saltare da un posto all’altro con Hic et ibi. So anche che gli elfi credono in Elnarois, Colui e Colei che Presiede allo Scambio delle Anime. È una divinità né uomo né donna, con il corpo di elfo e il viso di elfa, con quattro braccia, ed è rappresentato sempre seduto a gambe incrociate. Non è un dio nel nostro senso, nel senso dei Semidéi. Loro non lo adorano né lo pregano, sanno che esiste e che reimmette le anime in nuovi corpi dopo la morte.”
“Come per le nostre Somme Forze!” osservò svelto un alunno.
“Sì, più o meno come le Somme Forze.” acconsentì sospirando il Cronista, pur sapendo che in realtà la situazione era più complicata per poter permettere simili accostamenti. Ma i suoi studenti erano cuccioli, non avrebbero capito troppe sottigliezze.
“A me questo ‘sindaco’ Asdurg non piace. – commentò d’un tratto Osmaniu – Sembra una persona odiosa. E che cos’è un sindaco?”
“Maddai, non l’hai capito?” chiese con scherno una, la cui ilarità si eclissò dopo un silenzioso ringhio del vulcanico.
“Sindaco è il titolo del regnante di Lacedimora, eletto dal popolo. – rispose prontamente il Cronista, rimproverando con lo sguardo la reazione aggressiva di Osmaniu – Anche nella Repubblica Indipendente di Inverrith ci sono dei sindaci che governano le diverse città, e che seguono le leggi del Cancelliere, il sovrano dell’intera repubblica. In ambo i casi, e anche per il cancelliere, sono titoli che durano pochi anni, come per i Signori dei Popoli.”
“A proposito di questo Inverrith, – se ne uscì Forteceppo, grattandosi il capo nodoso – che cos’è questa storia che Magor ha fatto qualche casino con Inverrith e i vici?”
“È una faccenda…un po’ particolare. Forse ne discuteremo più avanti. – liquidò frettolosamente l’argomento – Altre domande?”
Speriamo di no. – deglutì mentalmente il Cronista, che amava sì che i suoi pupilli si interessassero e gli chiedessero gentilmente chiarimenti, che intendevano ancora più gentilmente, ma era stanco, ormai – Mi sento secco e ho una fame che…nemmeno Travor saprebbe placare. Mi sarei dovuto alzare prima!
“Io sì. Chi sono questi ‘esseri giallini e neri’ che vengono citati continuamente? – domandò esigente e scolastica Loctiu – E che dire di questa polvere nera che Razael recuperò sulla spiaggia?”
“E invece quell’isola tutta coperta dal buio, che isola è? Non ci sono isole così, di là.” Borbottò un altro, frettolosamente.
“Piano, piano! – rise il Cronista, mimando con le mani l’intimazione alla calma – Uno per volta. Vediamo: esseri giallini e neri, polvere nera e isola buia. Tutte cose che è meglio spiegare a loro tempo. Dovrete rimanere col dubbio per un po’, eh, eh!”
“Uff.” “Nooo.” “Che barba.” Furono le eloquenti, prolungate, ripetute, infantili e simpatiche – per lo storico – lamentele dei giovincelli, avendo compreso che la lezione era conclusa. Gli faceva oltremodo piacere quanto loro gradissero la sua presenza e non volessero separarsene.
Forse sono un po’ sadico. Notò.
“Dai, dai. Non voglio che i vostri genitori si lamentino di nuovo che vi ho trattenuti troppo. – li spronò, mentre certuni si facevano più vicini e gettavano nella cesta posta ai piedi del Cronista alcuni piccoli sacchetti di sale nero – Si è fatta ora di pranzo, quasi, e io ho una gran fame.”
Osmaniu, il nuovo arrivato del Vulcano, rimase a fissare il Cronista ancora per diversi minuti, restando immobile e dall’espressione gaia al suo posto, mentre gli altri si dileguavano. Fu l’ultimo ad andarsene, bloccando repentinamente il suo sorriso quando si accorse che l’insegnante lo stava scrutando indagatore.
Quando le ombre e l’eco delle chiacchiere dei piccoli studiosi scomparvero tra i cespugli del sottobosco, il Cronista si sciolse dallo scranno di radici; raccolse la sua cesta, infilò il pan guadagnato nella sua tracolla e se ne andò.
 
L’anziano insegnante di storia sedeva su di un mezzo tronco appoggiato al bancone di una stravagante osteria, mangiucchiando sia con le mani che con i denti da una ciotola ben riempita; nell’altra mano tratteneva saldo un boccale di vetro colmo di agromanto scuro. Rideva genuinamente tra un boccone o una sorsata e l’altro (o altra), chiacchierando fitto con il gestore di quella che era a tutti gli effetti una tavola calda mobile.
La locanda in sé era un box pressoché cubico di circa quattordici piedi di lato. Interamente in legno pregiato e levigato, sebbene alcuni tratti delle pareti fossero visibilmente scheggiati, anche in maniera violenta, come se un arpione vi fosse stato scagliato con l’intento di distruggere l’intera struttura apparentemente traballante, ma in verità solidissima, sulle sue quattro piccole ruote a raggi, al momento fissate al suolo.
Di sei delle facce della locanda portatile, togliendo la faccia inferiore che non si poteva esaminare, solo due erano lasciate al naturale, fredde e anonime nel loro legno. La parete che fungeva da soffitto era addobbata come un vero e proprio soffitto di casa sontuosa dell’Aria, agghindata festosamente di finta ma estremamente realistica ceramica, pure dipinta di un acceso arancio – colore che non s’addiceva allo stile aereo – modellata a imitazione delle incorruttibile tegole di marmo che sovrastavano molte delle abitazioni degli sfarzosi gormiti dell’Aria.
Sulla faccia sull’estremità opposta a quella dove erano poste le corde per il traino della salamandra, si trovava una porta; infine, nella faccia in cui l’oste preparava e serviva le sue pietanze per gormiti vegetali, si trovava un’apertura che dava sull’angusto e ben stipato di scatolame, coltelli appesi a pioli e barattoli di salse, cibo sotto sale, casse d’acqua, interno cavo in cui si ergeva, sempre molto sereno e mai privo dell’urgenza di attaccar bottone, sugli argomenti più disparati, l’oste Ederus, buon amico del Cronista. Dietro la gretta osteria monoposto, si intravedevano, tra il fogliame, una sorta di piccola corriera colma di bagagli e due salamandre libere, l’una che dormiva e l’altra intenta a ripulirsi la sporcizia da sotto i piedi con il muso aggraziato.
Una persona indiscutibilmente eccentrica, quell’Ederus, molto arguta sotto il suo viso bonario a sagoma di foglia di olmo di un brillante color limone e sotto la sua indole chiacchierona apparentemente ingenua e sempliciotta. Il modo in cui se ne andava in giro era il primo, ottimo indizio per constatare la stranezza del suo carattere.
Un gormita della Foresta animale. Uno degli ultimi di quella gente, se non proprio l’ultimo in assoluto, e forse questa incerta consapevolezza è la spiegazione per le sue bizzarrie e la sua scelta di vita, di imitare i costumi dei gormiti vegetali. A modo suo ovviamente. Laddove i fratelli del Cronista vagavano nella Foresta Silente soggiornando tra le case ricavate con il potere degli elementi sulla sommità o nel tronco degli alberi, Ederus errava per Dalarlànd portandosi la casa appresso.
Ederus si guadagnava la fortuna cucinando i pastoni granulosi di cui si cibano i gormiti vegetali, e non era niente male, per non essere uno di coloro a cui erano rivolte le paste. Metteva sempre del suo nelle sue ricette, portando nella tradizione forestale ingredienti quali svariate varietà di pesce, che sminuzzava sapientemente con i suoi miriadi di coltelli.
Al Cronista piaceva molto come, con le sue quattro braccia verdi, polverizzasse con enfasi spettacolarizzante, arrivando persino a lanciare in arie gli attrezzi da cucina e riafferrarli al volo, gli ingredienti prima di servirli nel piatto rettangolare.
Era anche responsabile di aver introdotto il Cronista all’agromanto – non che fosse una stranezza per gormiti come lui bere alcolici, ma prima che lo incontrasse non aveva mai preso gusto a sorseggiare bevande particolari.
“E allora, di’, un po’. Le lezioncine rendono?” domandò masticando liquirizia, appoggiando rumorosamente i gomiti sul bancone. Sopra di lui e ai suoi lati i coltelli ondeggiarono con lucidi paurosi riflessi, in risposta alle vibrazioni dell’urto.
“Me lo chiedi ogni volta, e io ti dico sempre che sono a offerta libera. – spiegò il Cronista a occhi chiusi, infilando un po’ di polvere tra le labbra. – Io parlo per il bene di diffondere la storia.”
“Eh, sempre qua andiamo a parare, ‘Cronista’! – sghignazzò quello – Chi ti dice che io stia pensando al sale nero? Quando dico che rendono intendo nel modo…spirituale!”
Il Cronista lo adocchiò sospettoso, aguzzando gli occhi, un’ombra di sorriso in volto, mentre quello ritornava lo sguardo mantenendo la migliore espressione di finta serietà che gli riuscisse.
“Certo, come no. Sappiamo bene tutti e due che tu intendi solo il sale nero.” Lo accusò scherzosamente.
“Non ti si può nascondere niente. Be’, dimmi, allora…qualcosa d’interessante, nella lezione di oggi?”
“Ho iniziato a raccontare del Vecchio Saggio. – illustrò, ripulendo il piatto – C’era anche un vulcanico ad ascoltarmi…sarà dura parlare dei prossimi fatti.”
“Già. – concordò Ederus, strofinandosi il naso; poi si fece serio, realmente serio – Senti. Tu sei un po’ un ponte, no? Forse te l’ho già chiesto, ma, insomma, si sta davvero meglio adesso, o prima?”
“Quando le cose erano davvero diverse io ero un cucciolo, e non vivevo su Gorm. – disse il Cronista, guardando torvo l’alcolico brunastro nella caraffa, non avendo a cuore l’argomento – E quando potevo capirle e viverle erano sull’orlo del cambiamento. Da quel che ho vissuto, non rimpiango nulla. Ora Gorm è unita, in pace, e ci sono persino le genti del Grande Golfo.”
“Ma insomma. Quello che hanno fatto…è strano stare spalla contro spalla con gente che ha dei discendenti…così.” mugugnò Ederus, non convinto.
“Bisogna superare, Ederus. Anche certe cose. – gli fece la predica – Sbagliare è comune. Punire gli errori è facile, perdonare è difficile. E solo col perdono si può vivere in pace.”
Perdonare se stessi è ancora più difficile. Continuò nella sua testa il veterano Cronista.
“Molto strano sentire certe cose proprio da te!” fece Ederus, tornando al solito temperamento espansivo.
“Voglio solo pensare e agire positivo.” Giurò il Cronista, senza nascondere il suo divertimento.
“Certo, ora fai il pacifista…ma ai tuoi tempi ne hai fatte rotolare, di teste! E ti sei divertito.”
“Già. – ammiccò il Cronista, scolandosi le ultima dita di agromanto – Mi sono divertito.”
Tornando a casa dopo pranzo, trovò che la moglie Inamia non aveva riparato i rami storti. Non glielo fece pesare come un rimprovero, osservandolo di fronte a lei, ma Inamia comprese male e si innervosì, ponendo a giustificazione del fatto dei ragazzacci che avevano assediato l’albero e rubato alcuni ortaggi, e poi la visita di una sua amica.
Il Cronista la fece calmare senza troppi problemi, e ripararono insieme al danno dell’intreccio rovinato, riappacificandosi come succedeva ogni volta.
Quella notte il Cronista, prima di addormentarsi al fianco della compagna, ripensò ai suoi insegnamenti di quella mattina. I primissimi passi di Razael Akkars verso un futuro tragico e tormentato, incontro al destino di Gorm da lui modellato, ma il cui risultato finale non poté mai vedere.
Si redarguì per la pochezza di particolari, l’esagerata sveltezza e la semplicità del lessico, la mancanza di profondità nella narrazione di quegli eventi tanto remoti. Il fatto che si trattasse, per l’appunto, di eventi così lontani nel tempo, e che per di più non si erano svolti nemmeno sul suolo di Gorm e per i quali era stata impiegata molta fatica, non era una giustificazione tollerabile.
Oppure sì. Se si fosse lasciato andare, avrebbe concluso con l’improvvisare troppo e sproloquiare in ricostruzioni troppo fantasiose che non corrispondevano col reale. Si sarebbe senz’altro ripreso con le future narrazioni.
Il giorno seguente giunse sul suo sudato seggio di radici puntualissimo, fin troppo. Era appena l’alba quando si sedette e appoggiò a terra cesta e borsa. Se non fosse stato per un paio di farfalle variopinte che svolazzavano alle prime luci della radura, si sarebbe senz’altro riaddormentato.
Seguì estasiato con gli occhi il corso del loro volo leggero, godendo di quella vista banale, forse, ma incantevole. La leggiadria di due tanto semplici animali che si rincorrevano in amore alla luce rosseggiante dell’alba. Gli si posarono persino sulle punte delle dita, quando gliele porse. Scattarono impaurite senza più tornare quando si palesarono i primi alunni, levatisi in perfetto orario e, invero, molto stupiti di trovare il loro Cronista già lì a quell’ora.
C’era, piuttosto strano, meno affluenza del giorno precedente, e il saggio se ne dispiacque. Se non altro, accorsero, chi presto chi tardi, i tre studenti a cui teneva di più. Loctiu, studiosa e precisa, Vradicus Forteceppo, vivace e attento, e Osmaniu, fervente come pochi.
Aspetta…cosa? Sono contento per Osmaniu, ma è qui solo da ieri. – saggiò sorpreso di se stesso il Cronista, dando avvio al suo discorso. – Hmm, non so. Se non altro…sì, sento che c’è qualcosa di, di diverso, di speciale in questo giovanotto.
“Se siamo tutti qui, diamo inizio al racconto! Non siamo tutti qui? Be’, chi tardi arriva, male alloggia, diceva mio padre. E anche mio zio. Voi siete venuti qui di buona lena, puntuali, e non vedete l’ora di sapere come continua la storia, e dovreste subire il ritardo di altri? Proprio per niente: io non vi lascerò certo sulle spine.”

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Capitolo 5
*** Capitolo 2.2 ***


<< L’uomo vestito di bianco, ancora bagnato, sentì i suoi sensi ritornare vividi e attivi e il calore riprendere possesso del suo corpo, gelato dalla paura e dall’incombenza della morte di pochi attimi prima.
Era davvero pochi attimi prima? Non lo sapeva.
Non sapeva nemmeno se era effettivamente vivo e sveglio o se non stesse sognando. Si domandò se non fosse invece schiattato per davvero e si trovasse in paradiso, anche se lui non ci aveva mai creduto. Quella soluzione gli parve di gran lunga migliore: essere sopravvissuto mentre l’intera squadra compreso il suo amico di lunga data era morto, senza mezzi per poter tornare a casa era un’opzione sgradevole.
Sarebbe rimasto a marcire su quell’isola, lontano dalla civiltà e da ogni contatto elfo.
Sempre che fosse davvero su quell’isola. Non aveva aperto gli occhi e non aveva intenzione di aprirli.
Voleva solo piangere e pretendere di essere morto, se non era morto.
E rimase lì, a soffocare i singhiozzi su un terreno polveroso che non sapeva cosa fosse in realtà, né voleva saperlo.
I minuti passarono, le ore…nel buio in cui viveva aveva perso la cognizione del tempo, e la sua sofferenza sembrava essersi placata. Perché soffrire, poi? Ben presto anche lui sarebbe morto, di stenti e in agonia, quindi tanto valeva cercare un rimedio più rapido e andare a trovare i compagni caduti in cielo.
Più il tempo passava più gli sembrava di diventare religioso. Desiderava che alle sue sofferenze ci fosse un qualche rimedio, una cura, un conforto. Non era forse per questi problemi che era stata inventata la religione? Così credeva l’uomo in bianco, e così aveva sempre creduto prima.
Ma coraggio! Aveva già visto i suoi genitori morire, anche se in circostanze meno tragiche, e se davvero era morto, tanto meglio!
Affrettarsi ad aprire gli occhi per vivere beatamente in paradiso, era questa la cosa giusta da fare. Magari avrebbe pure incontrato i cari defunti.
Decise allora di porre fine a tutto quanto, di alzarsi e guardare dove diavolo si trovava. Missione impossibile: sentiva dolore alla schiena e alle braccia.
Non era quindi morto, poiché mai si sarebbe aspettato di sentire dolore in cielo, e quella notizia lo scoraggiò.
Con fatica aprì gli occhi, e la luce lo ferì, per quanto poca ne potesse vedere con lo sguardo incollato al suolo e gli occhi aperti meno di metà. Con gli occhi socchiusi, si accorse di essere steso a pancia in giù su una superficie sabbiosa. Le orecchie lo informarono del mare e delle onde dietro di lui, oltre che a dei misteriosi mormorii, e un dolore al petto lo raggelò al pensiero di ciò che avrebbe trovato se si fosse voltato, e dichiarò quindi che non l’avrebbe fatto.
Si trovava quindi sull’isola misteriosa, alfine. Ma il pensiero non lo rincuorava affatto. Tutti i buoni propositi e i progetti riguardanti l’isola erano svaniti come fumo nell’aria.
In un modo o nell’altro era riuscito a sedersi con le gambe incrociate sulla sabbia, lo sguardo semichiuso e rivolto in basso. I curiosi mormorii che aveva percepito prima sembravano essersi fatti più forti, ma erano pur sempre sussurri incomprensibili, dovuti al vento tra le rocce, si disse.
La sua voglia di vivere riavvampò nuovamente in lui: si doveva fare forza, aveva già visto morire le due persone che più tenevano a lui oltre che a numerose altre nell’episodio di alcuni anni fa, e aveva ancora qualcuno che teneva a lui, e qualcuno a cui lui teneva. Nadia e Rober lo aspettavano a casa con il loro figlio, che sarebbe nato fra pochi mesi, e il suo unico allievo e migliore amico si stava esercitando per renderlo orgoglioso e attendeva che egli terminasse i suoi insegnamenti.
Si aggrappò a queste forze e alzò infine il capo, con lo sguardo completamente aperto.
E ciò che vide rimosse completamente la forza vitale che con fatica lo aveva appena infuocato.
Ma il dolore, il terrore più grande veniva ora quando, alzando il proprio sguardo, i suoi occhi incrociarono qualcosa di una mostruosità senza paragoni.
Erano creature immonde e innaturali, esseri mai visti e descritti prima da elfo, vicio, zoaro, bestia che camminasse sulla terra.
Una paura indescrivibile lo colse e indietreggiò strisciando, mettendo mano al suo bordone di legno di cui non aveva pensato fino ad allora e credeva fosse perduto.
Pensò di scagliare qualche incantesimo contro le creature e scappare – non necessariamente col bordone, che serviva solo per maggiore forza e precisione - ma non aveva senso: quella era l’isola delle strane creature, e lui era l’intruso. Era come un topo intrappolato nella gabbietta di un gatto.
Considerando infine ancora una volta di essere spacciato e di non poter evitare la morte, cercò di reprimere la paura e di rilassarsi, pensando che avrebbe sentito un ultimo tagliente dolore e poi mai più avrebbe provato tale sensazione.
Studiò le creature.
Erano quattro omoni, alti sui cinque piedi, con una carne di varie tonalità con la dominanza di sfumature rosse, e questa era l’unica cosa che li accomunava. Per il resto erano del tutto diversi, ma mai si sarebbe detto che erano di specie diverse. Di sicuro non erano elfi.
Uno aveva la coda, uno delle corna, uno degli aculei su tutto il corpo, l’altro quattro braccia – un paio di grandezza normale con grossi avambracci e l’altro paio costituito solamente da delle esili appendici sotto le ascelle.
Ma anche così non si rende bene la loro diversità morfologica e sembra che a parte questi dettagli fossero pressoché uguali: non era così.
Tenevano uno dei bracci protesi in avanti, e nel palmo della mano – anch’essa diversa, nella conformazione o nel numero di dita, e uno di quei quattro aveva addirittura una sola mano, nell’altro uno strano uncino - crepitavano, senza alimentazione né provocando visibile dolore o fastidio, rosse fiamme. Normalmente il fuoco evocato magicamente fluttuava e non risiedeva sui palmi.
I quattro puntavano il loro fuoco verso Razael, come per invitarlo a non muoversi.
I loro mormorii, quelli che lo stregone aveva scambiato per scherzi del vento, erano ora accesi ammonimenti e brusche parole, che tuttavia rimanevano incomprensibili alle orecchie di Razael.
Razael fu sfiorato dal pensiero di formulare l’incantesimo della traduzione per capire che cosa stessero dicendo, ma si fermò temendo la loro reazione.
Il che era stupido: la falce della morte pendeva su di lui appesa a un filo, lui voleva che cadesse presto e ora si preoccupava della reazione dei suoi assassini. La sua passione per la conoscenza si era presa possesso di lui, più fortemente del suo amore per la vita o per Nadia o per Magor.
Giunse infine una quinta voce, una voce nuova, che aveva un tono più dolce di quello dei versi dei quattro focosi esseri, che cessarono di parlare e rivolsero i loro capi verso il nuovo elemento.
Un curioso e alquanto goffo, tutt’altro che temibile essere fece la sua comparsa sulla spiaggia.
A passi larghi, una sorta di rospo antropomorfo, dalla viscida pelle verdemare a tratti blu, avanzò verso il sempre più eccitato e sempre meno spaventato Razael. Rivolse alcune parole ai quattro, con risate e sorrisi. Questi, alcuni sbuffando, spensero le fiamme nelle loro mani.
Infine il rospo si avvicinò a Razael e, con un dolce invito, gli porse la mano palmata a tre dita.
 
“Ditemi che non sto sognando.” fu infine capace di dire Razael, guidato oltre la spiaggia verso sentieri tra grandi canyon rossicci.
Il fatto di essere, o almeno sembrare di essere ancora in piedi e l’incontro con le misteriose creature che ora, una tenendola per mano e le altre quattro davanti quasi come guardie, lo guidavano per la terra sconosciuta gli fecero pensare ancora una volta di non essere effettivamente vivo ma d’essere deceduto e approdato in paradiso, e che le cinque creature lo stessero conducendo dal dio dal quale avrebbe appreso il suo posto nell’aldilà
Oltretutto non aveva avuto il coraggio di voltarsi verso il mare, quando era sulla spiaggia, e non sapeva se i resti della nave fossero ancora lì, confermando che egli vivesse ancora.
Si accorse troppo tardi però che nessun incantesimo di traduzione era attivo e che le sue parole arrivarono come versi di una lingua incomprensibile e – presumibilmente - mai sentita prima alle orecchie di quei misteriosi e variopinti individui.
Uno dei quattro rossi volse il capo e lo sguardo indietro e bofonchiò qualcosa, dando inizio a un parlottio confuso tra gli individui vermigli, ma la banda non interruppe il suo cammino.
A un certo punto il discorso cessò. Uno dei quattro rivolse uno sguardo e un’affermazione concisa all’anfibio bipede che accompagnava Razael tenendolo per mano.
Questi annuì, e il gruppetto si fermò.
Mentre i quattro si sparsero, sedendosi, stiracchiandosi, stendendosi e cominciarono a chiacchierare tra di loro, Razael osservò meglio il suo ‘tutore’.
Era in tutto e per tutto un rospo antropomorfo, superiore allo stregone di circa un piede in altezza e con un largo addome; persino la sua pelle, potè constatare, era viscida e umida come quella di una rana.
Ritirò la mano e, aprendola tra sé e Razael, mormorò delle parole.
Razael riconobbe in quei versi un incantesimo, ma erano pronunciati troppo flebilmente per poterlo identificare.
Poi dalla bocca dell’individuo fuoriuscirono parole, che giunsero alle orecchio di Razael comprensibili, nella sua lingua vicia.
“I miei saluti più calorosi, straniero. Perdonami se ti appaio frettoloso. Non so quali siano state le circostanze del tuo arrivo qui, ma i miei compari qui affermano che la Grande Piovra ieri ha fatto dell’azione.”
Un fiume di parole in una voce bonaria che giunse allo stregone piuttosto velocemente nonostante fosse attivo un incantesimo di traduzione, che era solito essere abbastanza lento. Nessun’informazione importante, se non l’allusione a una certa Grande Piovra il cui nome portò paura e sconforto nel cuore di Razael.
“Io sono Raganels, Raganels Galmari - continuò l’essere, portando la sua mano sinistra al petto - del Popolo del Mare. Sono curioso, e voglio chiederti chi sei e come sei arrivato fin qui, prima di portarti dal Signore della Terra che governa qui.”
Popolo del Mare? Signore della Terra? Razael era tanto confuso e turbato quanto incuriosito, al punto che disobbedì al suo interlocutore e chiese: “Che cosa sei?”
Raganels afferrò la domanda, e rispose prontamente: “Sono un gormita, abitante dell’Isola di Gorm. Che cosa sei tu, invece, e chi sei?”
Gormita. Isola di Gorm. Sapere il nome di dove si trovasse e chi ci abitasse non gli era di grande aiuto in quel momento, oppure sì? Effettivamente non sapeva cosa fosse utile e cosa no, quando non si sa di fatto che cosa fare.
Non volendo sembrare scortese, procedette a rispondere alle sue domande.
“Io sono…sono Razael Akkars, di professione stregone. Sono un elfo e…”
“Elfo! - fu interrotto da Raganels - Un nome, finalmente. Ti dirò, non sei stato il primo della tua specie a venire qui, ma non abbiamo mai saputo il nome della vostra razza. Ma scusami, continua per favore.”
Razael non fu confortato da tale notizia. Se non avevano saputo il nome voleva dire che i suoi precursori erano stati meno fortunati di lui, in un modo o nell’altro. Comunque continuò nel suo racconto.
“Sono uno stregone e…e sono partito per un viaggio di esplorazione, dalla mia città Lacedimora.”
Al nome della città si fermò, ma non notò nessun cambiamento nel gormita, che continuava ad annuire interessato. Sospirò.
“Il viaggio ci ha condotti fin qui e…e poi la nave si è spezzata.” il ricordo lo riempì di tristezza. Un amico e numerose persone speranzose avevano perso la loro vita poche ore prima.
“Siamo caduti giù tutti, io ho cercato di salvare me ed altri ma…ma qualcosa ci tirava giù, e io sono stato schiantato sulla spiaggia e…e basta.”
“Oh! - mormorò Raganels, con il volto corrucciato - Mi dispiace molto…Razzel.”
Abbracciò Razael molto amichevolmente, il quale se apprezzò enormemente il gesto di conforto e tralasciò il fatto che sbagliò il suo nome mal sopportò di essere stretto e bagnato dalla pelle viscida di un uomo - rana appena conosciuto.
“E’ stata la Grande Piovra, quindi - disse poi Raganels, sciogliendo l’abbraccio - Mi sento in colpa, in parte. Ma purtroppo noi non abbiamo controllo su quell’essere, e credimi causa problemi anche a noi. L’unica cosa che siamo stati capaci di fare è scoprire in che traiettoria viaggia e con che tempi, ma ora che usiamo i varchi non ci è quasi più d’utilità.”
Razael abbassò lo sguardo silenzioso. Questa volta l’interesse per la Grande Piovra e i varchi e tutto il resto sbiadirono al ricordo della scomparsa della nave e del suo equipaggio.
Ma non biasimò Raganels o nessun altro per la disgrazia avvenuta: la accettò e basta, e alzò lo sguardo.
Uno tra i quattro gormiti rossi seduti bofonchiò, con tono infastidito.
“Stai calmo, per favore.” ribattè Raganels, prima di rivolgere la parola allo stregone.
“Se hai qualche domanda, porgila pure, Razzal. Ma il Signore della Terra sarà più abile e più esauriente di me. Fra poco ci rimetteremo in cammino.”
Razael, togliendosi ancora una volta dalla testa il ricordo dell’incidente e il fatto di essere, in un modo o nell’altro, bloccato su quell’isola, si accorse di avere un’infinità di domande. Il suo benessere e un eventuale ritorno a Lacedimora passarono in secondo piano.
“Che cos’è il Popolo del Mare?” fu la sua prima domanda, ricavata dalla prima informazione che Raganels gli aveva fornito.
“E’ il mio Popolo di appartenenza - rispose Raganels sbrigativamente. Ma ciò non dava nulla di nuovo a Razael, e Raganels se ne accorse, e continuò - Il Popolo fatto di gormiti simili a me, che vivono nella costa meridionale di Dalarlànd e nel Mare di Gorm”
Una risposta più esauriente, ma che forniva dati per innumerevoli altre domande. Che cos’era Dalarlànd? Una terra, questo era sicuro. Ma ciò che più colpì Razael fu l’affermazione ‘nel Mare di Gorm’. C’erano creature senzienti che abitavano dentro l’acqua? Quell’isola era davvero piena di cose stupefacenti.
Razael rimuginò e rifletté, considerando quale fosse la migliore domanda da porre adesso. Raganels aveva parlato del suo popolo di appartenenza, il Popolo del Mare…questo significava che ce n’erano altri.
“Quali sono gli altri Popoli?” domandò quindi.
“Ci sono il Popolo della Foresta, dell’Aria, della Terra e del Vulcano. I quattro ragazzotti qui sono del Vulcano.”
Volle chiedere dove vivessero gli altri Popoli e come apparivano i gormiti appartenenti ad ognuno di essi, ma si ricordò che non aveva tutto il tempo che voleva e il Signore della Terra lo aspettava. Signore della Terra? Chi era? E che cosa voleva da lui, perché Raganels voleva portarlo presso di lui?
“Chi è il Signore della Terra?” fu dunque l’ennesima domanda
“E’ il leader del Popolo della Terra, che ha in questa parte di Darth Kuun la sua patria.”
Darth Kuun. Forse, riflettè Razael, si riferiva alla parte dell’Isola. E quindi Dalarlànd era, presumibilmente, l’altra sezione dell’Isola.
“E che cosa vuole da me questo Signore?” chiese poi, con il tono di chi si sente obbligato ad eseguire un ordine contro il proprio volere. In fondo non era colpa sua se era capitato in quell’isola e non sentiva nessun obbligo nei confronti del Signore o di chiunque altro.
“Dal momento che è lui che governa queste terre, è opportuno che egli sappia che tu sei qui e della tua situazione, e sarà lui a occuparsi di te durante il tuo soggiorno qui.”
Durante il suo soggiorno qui? C’era quindi una remota possibilità di poter tornare a casa? Ovvio che c’era: se, a quanto detto da Raganels, i gormiti usavano i varchi spaziali per viaggiare a est, ciò significava che sull’Isola vi erano i materiali necessari per costruirli, e Razael doveva solo inserire le coordinate per tornare a Lacedimora.
Ma il suo ritorno a casa aspetterà: era troppo interessato a quell’Isola e non l’avrebbe lasciata finchè non ne avrebbe scoperto tutti i segreti.
Scelse accuratamente un’ultima domanda, senza tuttavia dare per scontato che Raganels capisse a cosa alludesse.
“Come controllate il fuoco?”
Raganels inarcò il suo sopracciglio viscido, sui suoi occhi neri senza visibili pupille.
“Cioè - tentò di chiarire Razael - quelle fiamme erano sulle loro mani…e normalmente non - ”
“Ah! - lo interruppe il gormita del Mare - Ho capito. Be’, quella non era magia.”
Non era magia? Mai prima d’ora qualcosa lasciò lo stregone più spiazzato. Che cosa diavolo voleva significare ‘non era magia’? Solo i dragoni erano capaci di produrre fuoco senza ausili magici, e il modo in cui quei quattro gormiti del Vulcano tenevano accese e avevano spento le fiamme sulle loro mani era del tutto diverso dalle modalità dei dragoni.
“Noi gormiti abbiamo la capacità naturale di controllare gli elementi. Noi del Mare l’acqua, quelli della Terra sabbia e pietra, i forestali legno e ossa, gli aerei l’aria e i vulcanici fuoco e pietra lavica.” spiegò, molto naturalmente, Raganels.
Ma quest’ultima notizia non era per niente naturale per la mente di Razael. Esagererei nel dire che svenne ma poco ci mancò.
Controllare gli elementi senza magia, senza lo sforzo e i limiti degli incantesimi, senza vincoli e nella più completa libertà. Tutto ciò era da sempre rimasto nelle menti degli elfi e delle altre razze come una meta invalicabile, un elemento mitologico e del tutto surreale, una fantasia impossibile.
Ed ecco, davanti a Razael, la prova vivente che quelle fantasie non erano affatto tali. Quegli esseri dovevano essere estremamente potenti e avanzati. Eppure, chissà da quanto tempo esistevano ed erano rimasti all’oscuro di ogni altra specie.
Le sue decisioni erano prese: non avrebbe lasciato quell’Isola per nulla al mondo, prima di averla sondata da cima a fondo. Tutto il resto diventava secondario.
“Se hai finito con le domande, proseguirei con il cammino. I ragazzotti qui sono abbastanza frettolosi.” affermò Raganels.
Razael annuì senza pensarci. Se, come diceva il suo nuovo compagno, questo Signore della Terra avrebbe potuto rispondere alle sue domande molto più esaustivamente, allora non vedeva l’ora di incontrarlo.
Si misero nuovamente in marcia. I quattro vulcanici si alzarono malavoglia e con grugniti dal terreno. Eppure erano loro i primi a voler rimettersi in cammino! Si vede che la pausa li aveva rammolliti e, se fossero partiti prima e se suddetta pausa fosse durata meno – o non ci fosse stata affatto - sarebbero stati più svegli e meno lamentosi.
Oppure si sarebbero lamentati lo stesso di qualche altra inezia.
Razael aveva notato qualcosa di curioso nei gormiti del Vulcano, in solo quei quattro membri. Sembravano asociali e poco portati al contatto, e decisamente frettolosi. Raganels al contrario era buono, indulgente, simpatico. Chissà se tutti i gormiti erano così.
Proseguirono dunque tra i grandi canyon rossi della sezione meridionale di Darth Kuun.
Massicce e imponenti erano quelle sculture naturali, alte, altissime. Molto più alte dei gran canyon che c’erano nella Zoah, ad est. Ma senza dubbio nella Zoah c’erano montagne maestose e valli sterminate, che difficilmente sarebbero state superate in bellezza da qualsiasi cosa su quell’isola.
Pareti di roccia rossa si alzavano dal suolo lisce e luminose come immani colonne plasmate da un esperto artefice gigante.
La superficie delle pareti era levigata e porosa, ma esse proseguivano nel loro corso frastagliate e aguzze e smisurate, tracciando tra una parete e l’altra un intreccio di sentieri zigzagati, curvi, larghi e stretti.
Un elemento insolito era tuttavia il colore della terra ai piedi: non era propriamente sabbia ma era polverosa e del suo stesso colore, non rossiccia come le muraglie che ivi crescevano.
Ciò mutò dopo alcuni minuti di cammino: il terreno manteneva il suo aspetto polveroso ma diveniva sempre più arancione e rosso, fino a divenire indiscernibile dalle pareti.
Essendo una valle di canyon, non vi erano solo impenetrabili fortezze scarlatte ma anche profondi e ampi crepacci, che si dilungavano fino a far divenire nero e indistinguibile il suolo nel loro fondo.
In alcuni punti i sentieri serpeggianti erano delimitati da entrambi i lati da talune di queste oscure fosse, e i percorsi non erano sempre spaziosi, tanto che Razael temette di cadere ad ogni passo.
 
Ma la paura dello stregone non era condivisa dalle sue cinque guide, che procedevano sicure e serene, chiacchierando tra di loro.
Chissà quante volte avevano percorso quei sentieri, loro e gli altri abitanti di Gorm. Chissà quali storie e quale saggezza racchiudevano i rossi sentieri, calpestati nel corso dei secoli da migliaia di gormiti.
Gli individui sanguigni parlottavano più che altro tra di loro e procedevano imperterriti nel loro cammino; talvolta Raganels si intrometteva, ed egli era l’unico che sembrava preoccuparsi di Razael, voltandosi continuamente per controllare che stesse al passo.
E il più delle volte non stava: i gormiti camminavano abbastanza veloce per i piedi e le gambe dello stregone elfo, che tuttavia non osava chiedere pause, né tantomeno cibo o acqua.
Ciò era strano: in primo luogo di solito sono quelle le prime cose che si offrono a un naufrago, e qui si vede la dimestichezza che i gormiti di allora avevano con i dispersi, e in secondo luogo stavano camminando ormai da una buona ora e i gormiti non davano segni di stanchezza o di sete.
E oltretutto fino ad ora nessun segno di anima viva, se non una lunga mandria di grosse bestie, mai viste prima d’ora da Razael, sebbene ricordasse di averle viste in qualche libro.
Erano bisonti muscolosi e dalle grosse corna frontali, cilindriche e di ampio raggio. La testa e la prima parte del busto erano coperte da una sorta di criniera. Le quattro zampe parevano un tantino esili in confronto al resto del corpo e ai massicci zoccoli. Nonostante questo, correvano a una discreta velocità, e se uno da solo non fosse stato in grado di travolgere un gormita, il loro numero sarebbe stato più che sufficiente a travolgerne una decina.
Razael ne era rimasto affascinato, così com’era rimasto affascinato da circa tutto ciò che aveva visto e sentito fino a quel momento.
Attraversato un lungo e stretto sentiero sospeso tra un crepaccio ripieno di stalagmiti, arrivarono infine a un luogo abitato.
Raganels parlò, rievocando l’incantesimo di traduzione che col tempo si era disattivato:
“Qui ci prenderemo una pausa per bere e mangiare e riposare un po’ le gambe.” affermò
“So che hai sofferto molto e sei stato molto forte ad arrivare fin qui senza chiedere cibo o pausa, e perdonami se non mi sono mai fermato, ma questi qui diventano piuttosto…caldi quando hanno fretta, e io ho cercato di aiutarli, credimi. Alcuni con successo.”
Razael non sapeva che dire. Ciò che gli aveva appena riferito era vero: dopo poco meno di due ore di marcia, il suo stomaco borbottava, la sua gola era secca e i suoi piedi gonfi.
“Che cosa mangerò?” fu la sua domanda. Si trovava, dopotutto, in un mondo sconosciuto e non sapeva quali fossero le abitudini alimentari dei gormiti.
“Ah, ottima domanda. Beh, boh. - rispose franco Raganels, facendo spallucce - Non so cosa tu mangi di solito. Mangi radici, frutta, pesce?”
“Sì, tutte quelle.” rispose rapido Razael. Con lo stomaco sempre più in subbuglio, avrebbe mangiato volentieri pesce crudo, carote rancide e mele mordicchiate.
“Va bene, allora. Prenderò qualcosa per tutti.” ribattè il gormita rana, e si diresse all’interno di un locale…scavato nella roccia.
Mentre questi camminava, Razael diede un’occhiata al posto. Pullulava di gormiti, tutti di colori tendenti al giallo, al grigio, al marrone. E ancora una volta fu stupito dalla loro diversità, oltre che cromatica, anche morfologica.
Lo guardavano tutti con cipiglio curioso e investigatore. Alcuni gli rivolsero anche delle domande, a quanto sembrava dal tono, ma Razael non seppe rispondere, nemmeno a gesti.
Turbato e imbarazzato da tutti quegli sguardi, mosse il suo sguardo altrove, non più agli occupanti del posto ma al posto stesso.
Era uno spiazzo pieno di gente, e di bancarelle e di grotte/locali, tutte fatte di pietra o scavate nelle pareti.
Alla sua sinistra c’era quella che doveva essere una taverna, a giudicare dai tavoli, dalle sedie e dalle tende al suo esterno, dove gormiti seduti sorseggiavano da boccali di vetro e di legno e sgranocchiavano qualcosa.
Alla sua destra c’era un locale che sembrava una sorta di mercato. Un gormita rivestito più che altro di grigio, dall’aspetto rettilesco, riordinava e spolverava senza sosta vasi, anfore, falci, attrezzi di ogni genere e fattura, esposti appesi al soffitto roccioso o appoggiati sui ripiani di legno.
Spostando nuovamente gli occhi alla taverna, vide, dentro, Raganels estrarre qualcosa di grosso da una sacca che teneva legata dietro la schiena – com’è che non l’aveva notata prima? - e l’oste accettarla volentieri, uscire un attimo dalla visuale e ritornare con dei piatti. Che lì usassero il baratto?
Mentre Raganels usciva, Razael fu attirato da una strana scena. I quattro gormiti del Vulcano, appoggiati a una parete di fianco all’entrata della taverna, erano stati avvicinati da tre gormiti della Terra. Questi si stavano comportando in maniera non del tutto…buona.
Rivolgevano parole dal suono aspro ai quattro, uno li indicava, gli altri ridevano e rivolgevano loro gesti strani ma che dovevano certamente avere connotazione negativa. A un certo punto uno addirittura sputò in faccia a uno dei quattro, che si staccò violentemente dal suo sostegno mostrando i denti e con fiamme tra le mani.
I tre terricoli indietreggiarono, intimoriti. Rivolsero, sfrontati, delle ultime parole di sfida e insulti, prima di levarsi di mezzo se non correndo, a passo spedito.
Si chiese il significato di quella scena. Presto l’avrebbe scoperto.
Intanto Raganels aveva preso posto a un tavolo e appoggiato i piatti con le pietanze, e chiamava Razael e gli altri quattro.
Razael lo raggiunse e si sedette, affondando i denti nella tutt’altro che secca frutta che aveva portato. C’erano cibi che conosceva e altri a lui ignoti, ma che gradì comunque. Raganels non mangiò, bevve soltanto.
Ai quattro furono lasciate delle strisce di carne secca, che divorarono come animali.
C’era ancora un piatto pieno, e Razael, sentendo ancora la fame, protese una mano verso di esso, ma prontamente Raganels lo fermò.
“Scusa, Razael - parlò, pronunciando bene il nome dell’elfo - ma questi ci servono per pagare le salamandre.”
Senza chiedere cosa fossero le salamandre, ne approfittò per chiedere invece: “Quindi qui si usa il baratto?”
“Ba..ratto? - ripeté perplesso Raganels - Be’, sì…come è sempre stato, d’altronde.”
Aspettarono ancora qualche minuto, poi deciso di alzarsi e continuare il loro viaggio, mettendo le pietanze del secondo piatto in un sacchetto di carta bruna, allontanandosi dalla taverna e dalla bancarella per dirigersi a una piccola caverna, con nulla se non un’insegna e un gormita con una spiga in bocca e le braccia incrociate all’esterno, appoggiato al muro con un ginocchio alzato. Questo, diversamente dagli altri visti finora, aveva la pelle decisamente più scura, quasi nera, ma era ancora riconoscibile come gormita della Terra.
“Vorremmo tre salamandre medie per Roscamar.” esclamò Raganels una volta arrivato, agitando il sacchetto.
Il terricolo prese il sacchetto e diede un’occhiata all’interno. “Sì, può bastare.”
Legò quindi il sacchetto alla sua cintura ed estrasse un foglio ed una rudimentale matita “Nome?” domandò, mentre un gormita vulcanico gli si avvicinava e si girava di spalle per dare sostegno al foglio.
“Raganels Galmari.” rispose. Il gormita scrisse. Una comune burocrazia di precauzione.
Entrò poi nella caverna, uscendone con tre eleganti e alte bestie squamate, dalla fiera camminatura, legate al lungo collo da corde tenute nella sua mano.
Queste erano le salamandre, le tipiche cavalcature gormitiche. Rettili che hanno abbandonato la caccia, i riflessi elevati e la postura acquattata per un portamento più elegante, eretto, una maggiore velocità e prestanza e un’alimentazione vegetale.
Erano in tutto e per tutto dei cavalli rettili, forse migliori per forza e resistenza, alte poco meno di tre piedi.
Non avevano certo possenti zoccoli per poderosi calci, ma i loro artigli e i loro becchi muniti di denti erano certo pericolosi. Code dritte e di media lunghezza terminavano il loro corpo, pressoché rigide.
Le loro squame erano lisce e dure, dei più svariati colori. Le tre presenti avevano squame rosse, verdi e azzurro - grigie. La salamandra rossa presentava sul collo e sul capo una cresta arancione, la salamandra verde una cresta giallo limone, e quella grigia una cresta cristallina.
Infine i sei individui saltarono in groppa, due per salamandra, alle maestose cavalcature.
Razael non senza qualche difficoltà: a Lacedimora non era abile coi cavalli, e mai lo sarebbe stato con quelle creature che parevano molto più complicate dei cavalli.
La loro complicatezza risultò nulla: insieme davanti a Raganels, e i vulcanici a gruppi di due, erano saliti sulle salamandre senza selle, briglie, speroni o posto per i piedi, e le salamandre si facevano guidare facilmente da solamente delle corde attaccate al collo. La mancanza di sella risultò comunque un po’ scomoda per lo stregone.
Procedevano a passo spedito lungo una sterminata distesa di sabbia, sabbia desertica. Lì il sole era cocente e si faceva sentire in tutto il suo caldo bagliore.
Prima questo calore non era stato nemmeno accennato, e l’improvviso cambio di temperatura diede alla testa a Razael, che cominciò a grondare sudore come mai prima.
“Questo è il deserto di Roscamar.” sentì dire da Raganels.
Ma poi Razael non sentì più nulla, e si addormentò.
Quando si svegliò, sentendo qualcosa di viscido e acquoso toccargli la fronte, si trovava all’interno di una capanna, supino su un grande letto.
Sopra di lui travi di legno e il visibile tetto di paglia, e di paglia o fieno sembrava fatto anche il giaciglio su cui era stato posato, che crepitava a ogni minuscolo movimento.
Di fianco a lui si trovava il solito Raganels, che lo guardava amorevolmente con quelle grosse labbra azzurre.
“Stai bene?” chiese, preoccupato.
Razael si alzò subito, mettendosi a gambe incrociate. “Sì, tutto a posto. Solo…un colpo di sole, immagino.”
“Già… - si voltò e prese una grossa caraffa di legno scuro - Hai sete?”
“Sì, grazie…” accettò l’invito, pur notando che la caraffa era vuota…
Raganels mise la sua mano sull’apertura della brocca e fece fluire dell’acqua, uscente dal suo palmo, fino a riempire il contenitore.
“Di solito i gormiti non accettano l’acqua che creiamo…se la cosa ti disgusta, vado a prenderne dell’altra.”
“Non c’è problema, grazie.” si affrettò a dire Razael, prendendo rapido e curioso la brocca piena. Guardò studioso e stupito l’acqua all’interno: non aveva nulla di diverso da comunissima acqua, o così sembrava.
Ne trangugiò meta brocca, e poi la pose su un comò di fianco al suo giaciglio.
Si tastò poi il torace, notando che non aveva indosso la sua tunica. La ritrovò appesa alla parete di legno ai piedi del letto.
Ma c’era ancora qualcosa che mancava.
“Dov’è il mio bordone?” domandò, con tono grave.
“E’ qui.”  rispose Raganels, prendendo il bastone poc’anzi appoggiato alla parete dietro di lui.
Razael lo afferrò subito.
“Vale molto per te?” chiese curioso il gormita marino.
“Sì…è stato un regalo di mio padre.” replicò, curioso a sua volta della curiosità di Raganels.
“Capisco…ma a cosa serve?” domandò poi, mostrando un interesse finora represso.
“Dove abito io, si dice che servano per maggiore potenza e precisione negli incantesimi. Ma ultimamente è divenuta solo una moda, per i più ricchi.” rispose esaustivamente Razael, compiaciuto dell’interesse del gormita.
Ora era il turno di Razael di fare le domande. Scese dal letto, riprese addosso a sé la sua tunica, guardandosi nello specchio prima coperto dall’abito appeso.
A parte delle non belle occhiaie, non c’era nessun cambiamento nel suo volto.
“Dove siamo?”
“Siamo a Roscamar, capitale del Popolo della Terra.”
Uscirono dalla capanna. Erano ancora in pieno deserto, ma il clima era stranamente meno caldo di quanto Razael aveva poco prima sperimentato sulla sua pelle.
Era qui pieno di gormiti terricoli, molto più che nello spiazzo mercantile, indaffarati in numerose e svariate attività, non solo lavorative ma anche semplicemente sociali. Alcuni gormiti parlottavano fitti presso le porte delle loro case.
E le case non erano locali scavati nella roccia, ma edifici di pietra color nocciola emisferici e anche capanne di legno e paglia e argilla come quella da cui era appena uscito.
Non mancavano anche edifici più grandi e diversificati, quali magnifici palazzi, pur se scarsamente decorati se non da sculture incolori a tutto tondo o a rilievo rappresentanti bestie del luogo o figure gormitiche.
Alcuni elementi di quella città, di cui non si vedeva la fine, attirarono più di altri lo sguardo e l’attenzione di Razael.
In fondo alla strada su cui si trovava, c’era una modesta collina rocciosa e grigia, molto diversa dal marrone, il nocciola e la sabbia del resto del paesaggio. In questa collina era presente una larga apertura, un’entrata di una grotta. Gormiti entravano e uscivano a fiotti da essa, anche se la collina in sé non pareva abbastanza grande da contenere tutti quegli individui; forse si protraeva sottoterra.
E un altro elemento in particolare toccò la sua mente con ardore e forza inaudita.
Poco lontano da lì, una sorta di piccolo tempio circolare gradinato, al cui primo gradino si ergeva un peristilio di cinque corte colonne di poco più di due piedi, tutte con colori diversi, che terminavano in cima con delle magiche torce colorate. Il tempietto in sé era dello stesso colore della sabbia, mentre le colonne, e le fiamme in cima, erano una marrone/arancio, una rossa, una blu notte, una azzurrina, una verde.
Al centro c’era un tronco cavo, tendente al grigio, basso. Nella sua cavità fluttuava una sfera di modesto diametro, circa una mano elfa, cristallina e luminosa. Effluiva da essa come un magico fumo.
Razael ne rimase affascinato e incuriosito. Quasi ossessionato: quei vapori sembravano averlo pervaso completamente, impregnato il suo corpo e la sua mente.
Pareva che quasi la sfera stessa lo chiamasse a sé con potenza e autorità, e Razael si sentì incapace di disobbedire a quel richiamo. Quella visione e quella sensazione avrebbero per sempre segnato la sua vita e quella dei gormiti, e quella di molto altro.
Razael arrancò. L'energia che emanava quel cristallo lo attirava, voleva avvicinarsi, toccarlo, ispezionarlo...
Ma non gli fu concesso.
Appena levò la mano per posargliela sopra, Raganels gli si parò davanti, bloccandogli il braccio con un gesto fulmineo e con uno sguardo minaccioso. Le sue grosse labbra erano dritte e rigide.
Razeal non lo riconobbe come lo stesso gormita bonario e simpaticone di prima.
Questi tornò normale, e la sua bocca tornò ad essere increspata nel solito sorriso, e lasciò il braccio.
“Mi dispiace - disse sorridendo - Comprendo la tua curiosità ma non ti è concesso toccarlo. E’ sacro. E’ il nostro Occhio della Vita.” continuò facendo spallucce.
Razael obbedì e indietreggiò, a capo chino. Ma nel profondo sentiva di dover guardare da vicino e toccare quell’Occhio della Vita, e un giorno ci sarebbe riuscito.

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Capitolo 6
*** Capitolo 2.3 ***


Una figura singolare emerse dalla cavità della Caverna di Roscamar, al cui passaggio tutti quelli che la videro si inchinarono, un inchino profondo, che toccava il suolo. Era singolare non solo per la reazione che scatenava nella gente, ma, agli occhi dello stregone, anche per la corazza metallica che indossava. Nessun altro gormita visto prima indossava corazze metalliche, o corazze in sé, solo indumenti leggeri quali mantelli e gonne e accessori come guanti e spalliere e cose simili, tutte di materiale organico, almeno all’apparenza.
Costui invece portava una corazza dipinta d’oro, costituita da vari pezzi, forse non tutti appartenenti a uno stesso componimento: sul petto, alle mani e avambracci, un cinturone, sugli stinchi e sul petto. La lamina del petto portava un simbolo inciso al centro, il simbolo dell’elemento della Terra.
Quando si fece più vicino e si inchinò, lo stesso Raganels fece altrettanto. Razael notò che l’inchino era, come gli altri, molto profondo e un po’ complicato.
Il gormita era piegato sul ginocchio sinistro, mentre la gamba destra era prolungata all’indietro. Le mani avevano i palmi aperti rivolti in alto, una sull’altra.
Razael si affrettò ad imitarlo.
Il gormita di fronte a loro aveva la testa di un leone. Se non era proprio quella di un leone, gli era estremamente simile. Muso dipinto del colore della sabbia e folta criniera marrone scuro.
Il resto del corpo, antropomorfo, era ricoperto dello stesso sottile pelo giallo, e qua e là anche da tracce di pelo più folto e scuro come quello della criniera. In alcune parti vi erano tratti privi di pelo, grigi, che sembravano più duri: sugli avambracci –o così sembrava, in quanto erano coperti quasi del tutto da guanti dorati - , sui fianchi, sulle cosce.
La coda che agitava alla base del bacino non era la tipica coda di un leone: era bensì lunga quanto quella di una tigre.
La muscolatura era ben visibile attraverso il pelo ma non imponente come la corazza sembrava presagire. Da vicino la corazza sembrava meno preziosa, visibilmente scalfita e graffiata. Sembrava poi, dalla fattura e dalla sfumatura dell’oro, che le varie parti che la componevano non fossero appartenenti a un’unica unità, che fossero state composte in tempi diversi da persone diverse e che solo in seguito sono state colte e riunite da quel gormita per usarle come simbolo del suo titolo.
Il gormita invitò dunque Raganels e lo stregone ad alzarsi. Il marino parlò per primo.
“Signore della Terra. - esordì - I miei omaggi. Questi è Razael Akkars, naufrago elfo. Essendo approdato sulle vostre terre, ho ritenuto opportuno portarlo da voi.”
“Sì, Raganels, - replicò con voce roca il Signore della Terra - le notizie di un naufrago sono giunte presto qui. Hai fatto bene a condurlo qui”
“Se non avete bisogno di me, io mi congederei.” continuò Raganels.
“Fai con comodo.”
“Se vorrai contattarmi - si rivolse in un sussurro a Razael - sappi che la mia mente sarà sempre aperta per te. Non che di solito la tenga chiusa…” e uscì di scena, camminando a passi larghi tra la folla di terricoli.
Ora il Signore della Terra lo squadrava, lo guardava dall’alto in basso, nonostante fosse un po’ più basso di Raganels e quasi all’altezza dello stregone. Mormorò infine l’incantesimo di traduzione –essendo quello evocato poc’anzi da Raganels disattivato con il suo allontanamento - e sorrise.
Nonostante l’aspetto leonino e la massiccia corporatura, non sembrava minaccioso come era parso da lontano.
“Ah, quel Raganels - disse - una grande personalità. Sempre disponibile, affabile…ce ne fossero di più come lui.”
“Bene, incamminiamoci.” continuò, avvolgendo un braccio sulle spalle di Razael, molto amichevolmente. Il braccio era un po’ pesante per l’elfo, ma non obiettò per non mancare di rispetto. Anche se, se tutti i Signori erano così, aveva ben poco da temere da loro.
Si incamminarono dunque, lontano dalla Caverna di Roscamar, per le vie della città color della sabbia.
“Dunque, Razael - parlò - Io sono Arriut, attuale Signore della Terra. Sei stato condotto da me perché sono io che governo qui, e naufragando nelle mie terre è mio compito preoccuparmi di te. Ma voglio sapere come sei venuto qui di preciso, sempre che il parlarne non ti turbi.”
“Non mi turba. - si affrettò a rispondere - E’ storia, ormai. Devo accettarlo. Comunque, ero partito di mia iniziativa per un viaggio di esplorazione. Giunti nei pressi di Gorm, la Grande Piovra ha attaccato la nostra nave, la Mudras, che nella antica lingua elfa significa ‘saggezza’. ”
Si chiese perché si era soffermato su quel particolare, e si bloccò un momento. Poi, sebbene non avesse trovato risposta, riprese a parlare.
“Nonostante i miei sforzi, credo di essere stato l’unico a salvarmi, per circostanze che ignoro.”
“Oh. - mormorò Arriut - Sei triste?”
Razael non si era aspettato una domanda simile. Raganels non gliel’aveva posta, e gli eventi più recenti gli avevano fatto dimenticare quasi del tutto le lacrime versate sulla spiaggia e il desiderio di morire. Nel profondo, era triste, eccome. Ma tutto ciò che prometteva l’Isola di Gorm e i suoi abitanti ben compensava questa tristezza.
“Sì. - guardò in basso - Ma, anche se è una cosa recente, devo dimenticare. Non posso fare altro. I loro corpi sono sepolti negli abissi, quelli più fortunati almeno…” in fondo era stata una bestia marina ad attaccarli, e poteva benissimo esserseli mangiati.
“Sei una persona forte, Razael. Ti ammiro. - ammise Arriut - Non preoccuparti per la sepoltura dei tuoi compagni. Sappiamo che la Grande Piovra non si ciba di carne.” disse, guardando davanti a se.
“E allora perché attacca ogni navigante?” esclamò Razael, stizzito. Se era vero che quel mostro era erbivoro, poteva risparmiarsi di distruggere la nave e massacrare l’equipaggio. C’era qualcosa di estremamente sospetto e ingiusto.
“Non incolpare noi - si difese Arriut, alzando le mani - Noi non sappiamo nulla della Grande Piovra, se non che è qui sin dalle origini, a guardia della costa est e nord. Raganels deve avertelo detto, se gli hai parlato.”
Razael abbassò nuovamente il capo. “Sì, gli ho parlato.”
Seguirono attimi di silenzio, durante i quali il loro cammino non procedette.
Poi Arriut riprese il discorso, battendo i pugni.
“Basta crucciarsi, dunque. Se sei deciso a dimenticare le sofferenze, allora dimmi che cosa vuoi fare adesso. Sono sicuro che troverai qualcosa da fare sull’Isola, prima di poter tornare a casa. Hai intenzione di tornare, un giorno, vero? Però non so se qui ci sono i materiali sufficienti per una nave…non abbiamo mai fatto grandi viaggi, o grandi navi…”
Effettivamente, Razael aveva intenzione di tornare: Magor e Nadia lo aspettavano, così come tutta la comunità stregonesca, che lo vedeva come il più grande mago del tempo.
Un giorno sarebbe ritornato, ma ora, oltre che desideroso di rimanervi il tempo necessario, era, a quanto detto da Arriut, costretto a rimanere qui, e ad abituarsi.
“Un giorno tornerò. Ma prima devo prepararmi, fisicamente e mentalmente, e poi non credo che tornerò così presto. Quest’isola è interessante.”
“Che cosa dirai di noi quando te ne andrai?” domandò, serio, Arriut.
Altra domanda a cui non aveva minimamente pensato di dover rispondere.
“Non ne ho idea - affermò sincero - Non so nemmeno se riuscirò a tornare.”
Arriut battè nuovamente i pugni.
“Allora, che cosa farai qui? Posso prenderti una casa nella Città Sotterranea, a Roscamar o anche nella Valle, se vuoi, ma preferirei averti vicino. Qual è la tua professione?”
“Sono uno stregone…e vi ringrazio per la disponibilità - rispose - Ma aspetta…aspettate. Prima ho delle domande da fare.”
“Da quel che ho capito, hai una montagna di tempo per fare domande.”
“Vero. Ma meglio iniziare subito. Le domande si accumuleranno.”
“Vero anche questo. - Arriut fece spallucce - Allora, parla pure.”
“Perché quell’inchino così profondo?” fu la prima che porse. Quella riguardo l’Occhio della Vita voleva tenerla per ultima, o almeno non per prima, sarebbe stato sospetto.
“Quello? Ah, quello è l’inchino d’onore del Popolo della Terra. Lo si rivolge in occasioni importanti o con figure di riguardo. Se uno non dovesse ritornare un inchino d’onore, significherebbe che tiene quell’individuo in bassa considerazione.”
“Capisco.” mormorò Razael. Avrebbe certamente appreso molte tradizioni gormitiche, erano interessanti.
“Che cos’è l’Occhio della Vita? E perché si trova nei t…vostri territori?” la fatidica domanda. Avrebbe voluto porne un’altra prima, ma non gli veniva alla mente altro.
“E’ il nostro oggetto sacro. E’ da esso che traiamo i nostri poteri. Secondo il mito, è stato portato su Gorm dagli déi Asili e Praconrem, per donare ai gormiti il dono della parola, del pensiero e dei poteri elementali.”
Religione gormitica, un altro aspetto su cui avrebbe dovuto studiare molto.
“Ma la sua vera natura è ignota. Durante l’anno, si sposta nelle diverse sedi dei Popoli.”
“Anche nella sede del Vulcano?” chiese Razael, alludendo all’episodio a cui aveva assistito nella Valle dei Canyon.
“Cogli bene le cose, Razael. - sospirò Arriut - Sì, anche nel Vulcano.”
“Che cos’hanno i gormiti contro il Popolo del Vulcano?” domandò Razael.
“Paura, più che altro. Paura della natura del loro potere, e del loro comportamento. Tempo fa sono stati allontanati, e ancora adesso vengono disprezzati ed evitati e anche abusati, sebbene ci siano alcuni, come Raganels, che mirano a una loro emancipazione.”
“Razzismo?!” domandò turbato Razael.
“Più o meno.”
Volle chiedergli da che parte stesse lui, se fosse un conservatore o uno che voleva l’emancipazione vulcanica, ma lui stesso glielo impedì, battendo ancora una volta i pugni.
“Allora, cos’hai deciso di fare?”
Razael voleva studiare tutta Gorm, viaggiando per essa. Ma soprattutto era interessato dall’Occhio della Vita. Sapeva che questo viaggiava per Gorm, per essere venerato. Aveva quindi una pista da seguire. Sperava solo che il tempo che l’Occhio rimaneva in un territorio fosse sufficiente per apprendere qualcosa, ma dopotutto ci sarebbe potuto tornare in qualsiasi momento, quindi il problema non si poneva. Ma scelse ad ogni modo di fare il suo primo viaggio per Gorm seguendo l’Occhio della Vita.
“Accolgo la vostra proposta, e vi ringrazio. Soggiornerò volentieri a Roscamar.”
 
La casa che Arriut aveva scelto per lui era un piccolo parallelepipedo di pietra, molto vicino all’entrata della Caverna. Non era piccola come la capanna in cui era stato portato da Raganels prima, un po’ più spaziosa. Era un po’ meno spaziosa del suo vecchio appartamento a Lacedimora, ma era comunque abitabile e ben fornita. Il bagno, la cucina, lo stesso letto erano diversi da quelli a cui era abituato un elfo normale.
Si sedette su tale letto, molto gommoso e morbido, a riflettere. Aveva preso le sue decisioni.
Mise le mani nelle sue tasche, sperando di trovarvi ciò che stava cercando. Fortunatamente, non era andata perduta. Tirò fuori dalla tasca la fotografia con lui, Nadia e i loro genitori. Era passato quasi mezzo anno da quando partì. Non sarebbe tornato in tempo a Lacedimora per vedere suo nipote.
Di Magor non aveva nessuna immagine, ma sapeva che, quando sarebbe tornato e avrebbe spiegato, lui avrebbe capito più di tutti perché si era fermato lì. Non aveva però idea di come tornare, né di come avrebbe parlato dei gormiti alla civiltà orientale.
Non potendo trovare risposte al momento, si spogliò. Quei vestiti non erano affatto adatti al clima del luogo. Decise di scomporli tutti in fili di lana o di qualsiasi altra cosa fossero fatti per cucirli in vestiti più consoni. Tutti i vestiti tranne mutande e canottiera: riteneva, e riteneva giustamente, che i gormiti non sapessero cosa fossero quei tipi d’indumenti ed era un’ignoranza accettabile, dal momento che nessuno sull’Isola ne aveva bisogno. Avrebbe dovuto comprarsi della lana o del lino per fabbricarsi altra biancheria, ma prima avrebbe dovuto ottenere qualcosa con cui scambiarla, poiché il denaro corrente orientale non sarebbe stato di grande interesse per i gormiti, e se lo fosse stato, non ne aveva con sé. Le uniche cose di valore erano la sua giacca/tunica bianca, che però sarebbe stata stretta a qualsiasi gormita, sempre che i gormiti utilizzassero un simile abbigliamento, e il suo bordone, o anche solo lo smeraldo incastonato. Ignorava se le pietre preziose fossero effettivamente preziose su Gorm, ma non si sarebbe comunque separato dal suo fido compagno di legno.
Alfine, con degli aghi trovati in un cassetto, si mise a cucire i fili dei suoi pantaloni, della sua giacca e della sua maglia in un'unica tunica, il tutto senza l’ausilio della magia.
Essere un abile stregone era anche questo: saper fare a meno della magia di tanto in tanto e allenarsi con olio di gomito.
Il risultato finale fu una larga tunica, con mantello e cappuccio, multicolore, che se fosse stato a Lacedimora o in qualsiasi altra città elfa sarebbe stata bruciata a vista. Ma, almeno finchè non avesse ottenuto materiale migliore e in quantità maggiore, avrebbe indossato quella, e su Gorm era sicuro nessuno l’avrebbe malvisto per portare un indumento così poco bello.
Per quanto riguarda le gambe, si tenette i sandali e si legò un gonnellino grigio alla vita con una cintura, trovate in un armadio.
 
Il giorno seguente si alzò abbastanza presto. La sera prima non aveva mangiato niente e l’aveva passata tutta a cucire, prima di andare a dormire.
Aveva tuttavia bisogno di un pasto sostanzioso, e quella mattina aveva rovistato ovunque in cerca di qualcosa di valore in quella casa.
Trovò infine, nel sottofondo di una cassa piena di tessuti, diversi barattoli di vetro pieni di svariati materiali. Alcuni contenevano una polvere nera che gli parve molto familiare. Sembrava proprio quella trovata sulla spiaggia mesi fa, a Lacedimora.
Dal momento che quella roba era nascosta, doveva pur valere qualcosa. Se ne portò dietro un intero barattolo.
Uscendo di casa, trovò già diversi terricoli al lavoro e in movimento, molti dei quali si voltarono ad osservarlo curiosi, altri con sguardi sospetti.
Sostenne gli sguardi con forza, procedendo a passo spedito e affrettato, battendo rumorosamente il bordone a terra a ogni passo. Poi però si bloccò: era diretto a un posto dove mangiare e poi a un luogo che gli aveva consigliato Arriut, ma per il primo non aveva indicazioni di alcun genere.
Si diresse quindi verso uno dei gormiti che lo fissavano, con lo stesso passo svelto, cosa che spaventò fece strabuzzare gli occhi del gormita in questione.
Espresse a mente l’incantesimo di traduzione e, giunto a distanza ravvicinata, parlò.
“Salve. Sto…cercando un’osteria o un ristorante, vicino possibilmente. Sapete indicarmelo?”
Il gormita scattò con il braccio, indicando un locale dal tetto a tegole rosso sulla sua destra, poco lontano.
“Grazie.” disse, e si allontanò.
Arrivò dunque al locale. Si sedette a un tavolo e, appena giunse un cameriere o forse lo stesso padrone del locale, estrasse il barattolo di polvere nera e lo mise sonoramente sul tavolo.
“Vorrei un pasto sostanzioso in cambio di questo.” affermò risoluto, fingendo di sapere benissimo di cosa si trattasse.
Il gormita spalancò i quattro occhi come era successo a quello che gli aveva dato indicazione.
“Questo sale nero vale una montagna, straniero. - disse - Sei sicuro di volerlo dare tutto? Qui ci sta colazione, pranzo e cena per tre giorni.”
Razael si mise a tossire rumorosamente. Si era aspettato che quella cosa, quel sale nero, fosse di valore, ma non così tanto.
“Ehm, allora prendine il sufficiente per una colazione sostanziosa.”
“Come vuoi, straniero. Che cosa prendi?” domandò.
Razael prese dunque lo spesso foglio giallo sui cui erano scritti i pasti che vendevano l’osteria.
Ma, scorrendo tra i caratteri arzigogolati del menù, si accorse con imbarazzo di non comprendere nulla.
“Ehm, allora…” balbettò, posando il foglio, cercando di ricordare cosa avesse preso per lui Raganels due giorni fa. Il gormita attendeva incuriosito.
“Sì, un tortino di sfumele…un ananas, e… - dal momento che sembrava essere così ricco, perché non osare prendere qualcosa degno di uno stregone del suo rango? - e un aragosta.”
“Agli ordini, straniero.” annuì il gormita, estraendo un sacchetto di carta e buttandoci dentro una dose di sale nero dal barattolo di Razael.
“Ah, ti consiglio di prendere anche una pinta di agromanto. - disse - Sei nuovo, straniero, e sono sicuro che il nostro liquore tipico ti piacerà.”
“Vada per un po’ di agromanto, allora.”
Il gormita si allontanò quindi, urlando qualcosa in gormitico a qualcuno che non si vedeva, forse gormiti - cuochi oltre il muro.
Razael attese, sfogliando il menù. Cercò di tradurre ciò che c’era scritto, o di trovare somiglianze con il carattere vicio, tanto per passare il tempo prima che il pasto fosse pronto – non esistono incantesimi di traduzione scritta, spero lo sappiano tutti. La ricerca non fu fruttuosa e il massimo che Razael fece fu fantasticare sul sapore e sulla composizione delle pietanze che sul menù erano accompagnate da un disegno.
Infine il pasto arrivò, un po’ per volta. Il tortino di bacche di sfumele era buono quanto quello mangiato con Raganels, l’ananas aveva poco sapore e molto liquido, e l’aragosta era la migliore che avesse mai mangiato: doveva essere stata cucinata con qualche spezia sconosciuta.
L’agromanto che accompagnò il pasto era decisamente buono: odorava di abete, e il sapore forte sembrava quello dei pinoli, misto un po’ al succo di mela.
Abbandonò sazio il locale, annunciando che sarebbe tornato altre volte.
Arriut, il giorno prima, l’aveva indirizzato a una scuola gormitica di secondo grado. Lì forse la sua arte di stregone avrebbe trovato qualcuno interessato, e avrebbe potuto trovare lavoro più o meno stabile.
Avendone ottenuto indicazioni il giorno precedente, procedette senza indugio verso la scuola, ma non senza timore di perdersi.
Arrivò senza problemi all’edificio scolastico. Non era emisferico come la maggior parte delle altre case, bensì parallelepipedale e piuttosto basso, a un solo piano. Non era granché decorato, comunque, così come il resto degli edifici visti fino ad ora: ai quattro spigoli erano presenti teste di gormita in pietra, tutte diverse tra loro. Dovevano raffigurare gormiti passati di qualche importanza.
Possedeva numerosissime finestre ed era sopraelevato su una scalinata di tre larghi gradini. Una sola entrata era presente, rappresentata da un grande cancello di metallo che, da chiuso, esibiva nel luogo dove v’erano maniglia e buco della serratura il simbolo del Popolo e dell’elemento della Terra.
Aprì con timore il cancello, che dava direttamente all’interno dell’edificio scolastico, e lo richiuse dietro di sé.
La pianta della scuola era piuttosto semplice, da quello che vedeva da lì. Croce greca, con stanze di ugual misura ad ogni lato.
Un gormita intento a riordinare fogli gialli su di un bancone lo vide e abbandonò subito il suo lavoro, salutando il nuovo arrivato e invitandolo ad avvicinarsi.
Arrivato davanti al gormita, che attivò un incantesimo di traduzione, questi cominciò a parlare.
“Benvenuto, straniero. - lo accolse nell’accademia Terruman IV - Arriut ci ha avvisato del tuo arrivo. Prego, puoi entrare in qualsiasi classe e assistere alla lezione. Sappiamo che sei esperto nella magia, e all’ora di pausa potrai discutere di un tuo eventuale insegnamento qui. La magia non è mai stato il nostro forte, quello dei terricoli, ma troverai sicuramente qualcuno interessato.”
“G - grazie.” disse, e si allontanò, indeciso su cosa fare e su come scegliere una classe in cui entrare.
I terricoli si erano dimostrati piuttosto sociali e ospitali. A Lacedimora difficilmente a uno straniero sarebbe stato offerto un lavoro così facilmente e velocemente.
Bussò infine alla prima aula a cui andò incontro e, udendo versi che dovevano corrispondere all’ ‘avanti’, entrò, rivolgendo subito un inchino.
La classe era, per quanto riguardava i suoi inquilini, variopinta. Per quanto riguarda pareti e banchi, era piuttosto spoglia e monocromatica, se non per una cartina che ritraeva l’Isola di Gorm.
Vide per la prima volta bambini gormiti. Non erano molto diversi da gormiti adulti, se non che erano meno…spigolosi, più levigati e più paffuti, nonché più bassi, almeno alcuni, ed erano di poco sotto l’altezza di Razael. Quegli elementi appuntiti e massicci che caratterizzavano gli adulti erano nei bambini meno spinti o quasi assenti.
L’insegnante di turno fece una rapida esclamazione, poi enunciò subito l’incantesimo di traduzione.
“Ben arrivato…elfo! - disse - Eravamo stati avvisati del tuo arrivo. Prego, siediti pure in questa sedia.”
“Ragazzi, - disse poi rivolto ai suoi studenti - un po’ di attenzione, per favore! Questi è…Razael Akkars, un elfo che viene dall’est. Salutatelo, su!”
“Buongiorno.” dissero in coro gli studenti, non troppo entusiasti.
“Adesso lui assisterà alla lezione. E’ uno stregone, mi dicono, e credo che potrà insegnare un po’ di magia a chiunque sia interessato, quando avremo trattato per bene le cose, dico bene?”
Grandioso. I terricoli avevano deciso tutto per lui. Aveva quasi un lavoro tra le mani. Se i terricoli erano poco abili nella magia come gli avevano detto, avrebbe guadagnato molto, anche senza denaro.
La lezione procedette. Si susseguirono lezioni di scienze e di matematica. Si accorse che i gormiti avevano una scarsa conoscenza della biologia, e in entrambe le materie intervenne molto, e sia studenti che insegnanti furono molto interessati dalle sue aggiunte, e gli insegnanti non si sentirono affatto offesi dal fatto che Razael volesse insegnare al posto loro.
Razael tuttavia scelse di non intromettersi troppo. Se anche i gormiti di altri Popoli avevano davvero così poca conoscenza scientifica, sarebbe stato meglio aspettare di visitarli tutti e poi di educarli tutti insieme.
Un elemento di quella lezione lo colpì molto. A un certo punto il maestro di matematica interruppe le operazioni e invitò uno degli studenti al suo posto, mentre suddetto maestro si sedette alla sedia dello scolaro. Lo studente parlò di vita sociale, e di una recente battuta di caccia avuta col padre e di ciò che aveva imparato da lui. Cosa sorprendente, alcuni scolari prendevano appunti e lo stesso insegnante era molto interessato.
“Che cosa vuol dire tutto questo?” domandò Razael, curioso.
“E’ tradizione che, qualche volta, i maestri ci mandino qui a parlare di ciò che abbiamo imparato fuori dalla scuola.” disse lo studente - insegnante.
“Esattamente. - annuì l’insegnante seduto - E’ uno scambio. Le giovani generazioni hanno sempre da insegnare qualcosa a quelle vecchie così come alle proprie, cose di cui non si parlerebbe mai a scuola. E’ una tradizione antica.”
Una tradizione interessante. Quando sarebbe tornato a Lacedimora, l’avrebbe proposta al sindaco.
Fu annunciata la pausa di metà giornata, e gli scolari uscirono dalla classe di fretta, per divertirsi e ricreare un po’ dopo le ore passate ad ascoltare.
Razael rimase in classe a discutere con due maestri.
“Sai davvero molte cose, straniero. - disse uno, dalla faccia di topo - Sono sicuro che possiamo imparare ancora molte cose da te.”
“E io da voi, ne sono certo. Ci sarà tutto il tempo per scambiare le nostre informazioni.” replicò Razael.
“Stregoni e insegnanti di magia sono stati sempre rari nel Popolo della Terra. - proferì l’altro, che aveva delle corna da muflone - E sono sempre stati…minori rispetto a quelli di altri Popoli. Di solito assumevano stregoni della Foresta e dell’Aria, ma non tutti li vedevano di buon occhio. Andava contro la tradizione, ma per te abbiamo fatto un’eccezione: non sei un gormita, e soprattutto non un gormita del Vulcano!” Qui si mise a ridere, ma il suo compagno topo gli rivolse un’occhiataccia, quindi smise di ridere. Quel maestro doveva vedere di mal’occhio i vulcanici, l’altro era più aperto.
“Un corso extra - scolastico di magia sarebbe una buona cosa; - sopraggiunse il maestro topo - avresti non solo giovani studente ma anche adulti, me compreso. Sempre che tu non voglia insegnare qualcos’altro, vedo che hai ampie conoscenze in molti campi.”
“Sarò felice di insegnare la mia magia a tutti, e vi ringrazio per la disponibilità.” ribattè, piegandosi senza vergogna nell’inchino d’onore. Il gormita topo rispose allo stesso modo, ma dall’altro ricevette un normale inchino. Non era una cosa del tutto buona.
“Però non insegnerò qui per sempre: devo conoscere tutta l’Isola, e un giorno me ne andrò.”
Le prossime ore Razael assistette alla lezione di ginnastica.
“Forza, forza, schiappe!” urlava autoritariamente la maestra, mentre i quindici gormiti correvano intorno all’aula. La voce della maestra era femminile, e questo fece pensare a Razael a un altro aspetto dei gormiti che doveva approfondire: la riproduzione. Lo avrebbe fatto con l’insegnante di scienze.
“Come ti avranno detto, straniero, - cominciò l’insegnante, senza togliere lo sguardo dagli alunni - noi della Terra preferiamo le cose pratiche, l’esercizio fisico e la forza. Ma ci sarà qualcuno interessato alla magia, sicuramente. Ma non io, non fa per me. Ehi, tu! Peste, niente terra!”
Gridò poi, rivolto a uno scolaro che aveva scagliato una zolla a un compagno.
“C’è qualche cosa che devo sapere riguardo gormiti bambini e adulti?” chiese Razael, completamente immerso nei suoi pensieri.
“I bambini non hanno il completo controllo degli elementi. - rispose, incuriosita da tale domanda, la maestra - A una certa età cominciano a saper manipolare gli elementi preesistenti, e all’età matura sanno creare.”
Notò che gli esercizi che imponeva la maestra erano piuttosto bizzarri, e si chiedeva come riuscivano ad allenare i propri muscoli in quel modo.
Chiedendo il permesso, Razael si sostituì temporaneamente alla maestra, e fece fare agli alunni esercizi addominali e flessioni.
Lo fece un po’ anche per tenere in esercizio se stesso. Nonostante quegli esercizi fossero nuovi agli scolari, riuscirono ad effettuarne in grande quantità con estrema facilità. Per tenersi in allenamento in modo giusto, Razael avrebbe dovuto anche simulare un combattimento, come era solito fare con Magor, ma vedendo i giovani terricoli di un terzo dei suoi anni fare cinquanta flessioni di fila con poca fatica, si rese conto che non sarebbe stata una buona idea combattere contro un gormita.
Avrebbe ad ogni modo insegnato ai gormiti le tecniche di combattimento a lui insegnate da Magor, che era cresciuto come lottatore di un circo prima di prendere la via dello stregone.
 
Alla fine della giornata scolastica, Razael si trovava in un’aula tutta sua, con gormiti di diverse età pronti ad ascoltare i suoi insegnamenti di magia.
I gormiti erano estremamente abili nella magia, sebbene non certo al livello del più grande stregone del tempo, conoscevano anche degli incantesimi sconosciuti a oriente, ma la loro abilità magica era compensata da un’ignoranza di molte formule, semplici e complesse, che ad est erano elementari.
Era un successo strepitoso, il suo. In una sola giornata si era acquistato il rispetto di numerosi gormiti terricoli, e sperava si poter avere un simile successo con i gormiti degli altri Popoli, ma non sapeva perché. Non certo per avere l’Isola nelle sue mani, no, l’idea del dominio non gli passava minimamente per la testa. Si sentiva soddisfatto di sé. Sapere che i gormiti erano interessati alle sue conoscenze lo riempiva di realizzazione, e in compenso i gormiti parlavano di sé e della loro cultura.
Un momento in cui però Razael si sentiva tutt’altro che soddisfatto, ma umiliato e piccolissimo, era quando si doveva far leggere ciò che c’era scritto nei libri di scuola gormitici. Lui, esperto in molti campi del sapere, lui che padroneggiava l’antica lingua elfa e zoara, sia scritta che orale, che si doveva letteralmente far dettare ciò che era stampato sul libro. Parte del suo compenso da insegnante divenne quindi un corso di lingua gormitica, mentre ottenne cibo, tessuti, spezie e una discreta quantità di sale nero per il resto. Nonostante i tessuti, non erano abbastanza per fabbricarsi una tunica migliore dell’obbrobrio che indossava allora.
Circa un mese era trascorso da quando iniziò ad insegnare alla Terruman IV. Era giunto il momento di passare oltre, e di esplorare altre zone del Popolo della Terra. Aveva altri quattro Popoli da esplorare, e l’Occhio della Vita sarebbe passato a Dalarlànd, nella Foresta Silente, a breve.
Il suo addio alla scuola fu sofferto. I terricoli, per quanto insistevano nel considerarsi gente pratica e legata alla fisicità, volevano sapere altro, soprattutto riguardo la storia del loro insegnante, del loro saggio, sulla quale Razael aveva trascurato molto e aveva parlato solo del viaggio.
Ora Razael era dunque nel sentiero principale di Roscamar, diretto all’omonima Caverna, in compagnia di nientepopodimenoche del Signore Arriut. Era notte profonda, e nessun gormita si vedeva in giro. Egli un giorno si era addirittura instaurato senza avviso nella casa che lui stesso aveva tenuto per Razael, sostenendo che fosse tradizione che il Signore fosse ospitato da un suo suddito di tanto in tanto. Qui Arriut aveva chiesto a Razael come si trovasse nel suo territorio, se c’era altro che potesse fare per lui e aveva insistito sul passato dello stregone, sul quale Razael indugiò.
Razael era rimasto per tutto questo tempo sulla superficie, insegnando alla scuola e viaggiando per Roscamar, anche andando a caccia e a banchetti con i terricoli. Era quindi ora di esplorare la famosa Città Sotterranea. Gli era stato detto che profonde gallerie si diramavano dalla Caverna di Roscamar, e molte erano inesplorate e altre ostruite. Aveva saputo che una squadra di scavatori si stava preparando per esplorare una di queste gallerie: sembrava l’occasione buona per viaggiare un po’ e conoscere altre cose.
“Ebbene, vecchio Razael.” parlò, come sempre molto confidenzialmente, Arriut, che adesso indossava un’altra corazza, non più dorata ma di bronzo.
“Nella Foresta e nel Mare si parla di te, mi hanno riferito. - continuò - Nel Mare puoi ben capire grazie a chi.” Infatti in quel tempo si era sempre tenuto in contatto con Raganels, aprendo la sua mente in cerca di quella del gormita marino. La cosa che lo colpì fu il fatto di trovarla sempre disponibile. Possibile che su Gorm non c’erano rischi o pericoli, e che i gormiti si sentissero del tutto sicuri nel tenere le difese mentali basse?
“Per la Foresta, invece, devi ringraziare i mercanti. Per il Vulcano non so niente, e sembra che su Picco Aquila non siano ancora arrivate tue notizie.” Picco Aquila era la montagna innevata di Dalarlànd dove abitava il Popolo dell’Aria.
“Non posso che essere contento che la gente parli di me. - rispose Razael, sorridendo e camminando lento, con il bastone che non toccava mai terra - Ma io non miro alla fama, voglio solo ampliare le mie conoscenze, e quelle degli altri, se lo vogliono.” affermò umilmente.
I due entrarono nella Caverna di Roscamar, e scesero nella buia galleria che conduceva alla Città Sotterranea. Non tanto buia, a dire il vero, poiché il tunnel era segnato qua e là da torce appese alle pareti.
Giunti infine al termine della galleria, ecco aprirsi davanti a Razael un ampio varco, dal quale usciva una luce abbastanza forte per la notte e per una grotta sotterranea.
La città era tutt’altro che buia, ma non erano torce ad illuminarla, bensì agglomerati di strane pietre luminose, gialle e limone, addossate ai muri, sul soffitto, sopra pali di legno, pietra, metallo.
La città non era molto diversa da quella in superficie. Le case erano emisferiche e circolari come a Roscamar, era il colore a cambiare, e non era la strana luce a darlo: il suolo roccioso e ruvido era grigio scuro, e di conseguenza anche le case erano della stessa fattura e della stessa sfumatura, eccezion fatta per la capanne di legno che anche lì erano. Era in tutto e per tutto una copia sotterranea di Roscamar. Varchi di tunnel si aprivano ovunque, attorno alla città. Il clima era più freddo che nella città di Roscamar all’aperto. Per fortuna si era potuto cucire una maglia e delle braghe.
Arriut indicò una piccola folla silenziosa, che sembrava l’unica componente gormitica sveglia nella Città Sotterranea.
“Quello è il tuo gruppo. - annunciò - Io ho…degli affari da sbrigare. Pare che ci sia una banda di ladri che si nasconde qua vicino…” e detto questo, Arriut abbandonò Razael, entrambi salutandosi con un inchino d’onore.
Razael si diresse corricchiando verso la folla, rischiando di incespicare nel mantello.
La piccola folla era costituita da circa una dozzina di gormiti, tutti muniti di qualche attrezzo e più o meno tutti con degli elmi in testa. In fondo stavano andando per un’operazione mineraria, e un po’ di sicurezza ci voleva, anche per i gormiti.
Avevano carriole, picchi, vanghe, pale, martelli…
“Ecco, il nostro stregone!” esclamò uno dalla folla, forse il capo della spedizione, uno dal naso e dalle orecchio lunghi lunghe e occhi sottili, e coda corposa, tutto marrone e peloso.
“Stavamo pensando che non saresti più venuto.”
“Sono in ritardo? - domandò turbato Razael - Mi scuso se è così.”
“No, è solo che abbiamo piuttosto fretta. Se ci aspetta una delusione, meglio scoprirlo subito.”
Si incamminarono in un’orchestra di attrezzi e carriole che scatenò diversi gridi e insulti da parte dei gormiti che dormivano nelle case rotonde.
Durante il tragitto verso la galleria prescelta, Razael si fece ripetere come funzionava l’operazione e com’era fatta la Caverna di Roscamar, da un gormita piuttosto giovane, dalla testa pelata e la pelle rugosa che sembrava pietra crepata e le dita grosse e completamente diverse dal resto della carne, che faceva di nome Rock.
“La Caverna di Roscamar ha origine antichissime. - diceva - Lei e le sue gallerie sono qui sin dalle origini. Si dice che ci siano gallerie che collegano tutta Gorm, e i tunnel che abbiamo scavato noi sono davvero pochi. Purtroppo molte delle gallerie sono ostruite da concentrazioni di metallo o si inoltrano troppo in profondità, e non tutti hanno abbastanza coraggio da andare così a fondo.”
“E tu, ce l’hai il coraggio?” chiese provocatorio Razael
Rock assunse un espressione seria e valorosa: “Non ho paura del metallo o delle profondità.”
Procedettero finchè non arrivarono alla galleria che dovevano continuare a scavare.
Qui si misero tutti alle armi, imbracciarono pale, picchetti, mazze e si misero a scavare la dura roccia, alcuni anche senza alcun ausilio, ma con le proprie mani.
Razael si chiese perché non usassero i poteri elementali per scavare tra la terra.
La risposta giunse rapida da Rock, intervallata dal rimbombo del martello sulla pietra e da versi di sforzo “E’ tradizione non usare i propri poteri per scavare se non è proprio l’unica via, e usare la propria forza fisica. E poi, ngh, non è difficile sollevare blocchi interi di pietra, e staccarli gli un dagli altri è abbastanza faticoso.”
Razael decise di smettere con le domande per il momento, e di aiutare nello scavo.
Dalla roccia estrassero alcuni elementi preziosi, come pietre di luce e argento.
Le pietre di luce erano quei cristalli luminosi che i gormiti usavano per fare luce in vece delle torce. Razael ne aveva sentito parlare da alcuni zoari, ma mai ne aveva vista una dal vivo, e anche adesso non era in grado di comprenderne il funzionamento, e nemmeno i gormiti lo sapevano sebbene avessero da sempre vissuto a contatto con quei cristalli.
Arrivarono a un punto in cui le vanghe e gli attrezzi colpirono la roccia con un suono metallico.
“Dannazione! - esclamò il capo dello scavo, dimenando la coda violentemente e sbattendo con forza il proprio martello sulla superficie metallica - Qui c’è metallo. Troppo metallo. Alta concentrazione metallica, dobbiamo fermarci. Non abbiamo i mezzi.”
“Perché ogni volta che partiamo per uno scavo non ci portiamo gli attrezzi per scavare il metallo? - domandò innervosito un operaio - Tanto lo sappiamo che c’è quasi sempre del metallo ad aspettarci. E’ la tradizione? Al diavolo la tradizione.” e, aprendo la mano dinanzi a se, colpì la superficie di metallo con una cascata di massi incuranti di quelli vicino, senza però ottenere grandi risultati.
Il capo lo guardò con occhi ancora più sottili, arrabbiato, e gli puntò un dito accusatore: “Non dire mai più una cosa del genere, capito?”
Ma Razael aveva previsto qualche intoppo, e si era ritirato un attimo dallo scavo, pronto a stupire ancora una volta i terricoli. Stava, un po’ con gli attrezzi degli operai un po’ con la magia, creando un piccolo oggetto poliedrico. Quando questo fu pronto, urlò: “Allontanatevi un attimo! Tutti!”
Il capo e tutti gli altri, curiosi e fiduciosi nel saggio Razael, indietreggiarono.
Lo stregone incastrò l’oggetto in una scavatura della parete metallica, e poi lui stesso indietreggiò e, pari con gli altri gormiti, evocò una fiammella che indirizzò verso l’oggetto. Questi cominciò ad emettere ronzii e a sprizzare scintille e poi, con un sonoro botto e una nube di fumo, esplose.
“Ma che diamine?!” esclamò il capo operai, accecato dal fumo.
“State a vedere.” lo rassicurò Razael, sicuro di ciò che il fumo avrebbe rivelato.
E infatti, nella parete di metallo, che era in verità molto sottile, si trovava un grosso buco causato dall’esplosivo, abbastanza grande per permettere a un gormita di passare.
“Ehi, hai distrutto il muro metallico!” esclamò gioioso Rock.
“Con uno strumento magico. - riflettè il capo operaio - Non è molto…tradizionale.”
“Be’, lo si può creare anche senza magia. Quando torneremo su, vi insegnerò a costruirlo, e vi consiglio di portarvene un po’ in futuro.”
“E va bene, grazie, straniero. - acconsentì il capo - Andiamo a vedere cosa c’è di là.”
Parole inutili: Rock si era già inoltrato per l’apertura, e stava urlando di contentezza.
“Saremo ricchi! Ricchissimi!” gridava.
Infatti oltre la parete si trovava una grotta ricca di numerose pietre di luce e anche di agglomerati di pietre verdi: smeraldi.
“Questo sì che è fruttuoso. - esclamò il capo, entrando nella grotta e staccando uno smeraldo dal muro - Se oltre ogni parete metallica che ci siamo lasciati appresso c’è questo, vivremmo da Signori per il resto della vita.”
Razael prese in mano uno smeraldo, curioso “Che valore hanno le pietre preziose per voi?”
“Un valore grande. - esclamò Rock - Le pietre cristalline possono immagazzinare energia per un uso futuro, e poi sono ottime per fabbricare corazze da guerra, con un duplice vantaggio.”
Immagazzinare energia? Questo era qualcosa che non sapeva. E dire che, falsamente, nelle sue terre si credeva che le pietre preziose avessero virtù magiche di varia natura, e più o meno tutti sapevano ormai che non era vero. Avrebbe dovuto approfondire quell’aspetto, così come quello di fabbricare corazze da pietre preziose, cosa che non doveva essere del tutto semplice.
 
Il Popolo della Terra, aveva potuto appurare Razael, era una gente legata alla tradizione.
A scuola, al lavoro, in ogni ambito della vita pubblica e privata.
Già quando lo stregone era appena arrivato al cospetto di Arriut Signore della Terra aveva potuto constatare, con la visione del particolare inchino d’onore non condiviso dal marino Raganels né tantomeno dai vulcanici, che il popolo di Roscamar era una tribù fedele alle proprie antiche usanze e ai propri usi e costumi che si tramandavano da generazioni e che pochi si sarebbero permessi di rinnegare e non perseguire, conoscendo la reazione dei propri compopolani.
Dopo gli scavi, a Razael si era dato un’ingente parte dei minerali trovati, e la sua ricchezza crebbe ulteriormente.
Ma la ricchezza materiale si andava accumulando senza un vero e proprio lucro: la usava solo per scambiare pasti e noleggiare salamandre – che, da quanto aveva capito, si ammaestravano affinché fossero in grado di tornare autonomamente al loro proprietario.
La vera ricchezza dello stregone era quella immateriale, quella mentale e le conoscenze che aveva ottenuto dai gormiti, quelle che aveva condiviso.
E oltre a questo il rispetto con cui diversi terricoli si rivolgevano a lui e la solidarietà e la spigliatezza con cui si comportavano con lui, e la soddisfazione e il senso di realizzazione che sentiva nel sapere che quei gormiti, quei membri di quella razza assurda, si fidavano di lui e gli erano amici.
Nonostante l’onore e la fiducia dei terricoli che si era guadagnato in circa due mesi, Razael non era ancora tuttavia riuscito a metter mano al suo obiettivo primario, e come lui anche i gormiti sembravano non toccarlo affatto, e se qualcheduno lo toccava, succedeva quando Razael non era presente.
L’unica cosa che vedeva erano piccoli gruppi di gormiti, o talvolta anche uno solo, che si radunavano attorno al tempietto color nocciola in svariate ore del giorno che si mettevano a pregare con una mano nell’altra ad occhi chiusi.
Ma la forza con cui l’Occhio della Vita sembrava aver attirato a sé lo stregone non si ripresentò mai più con la stessa forza, e Razael non poté definirla un’ossessione come aveva fatto la prima volta.
Secondo il criterio dei suoi progetti, Razael avrebbe dovuto esplorare tutti i territori e scoprire più cose possibile su ognuno di essi prima che l’Occhio non fosse stato trasportato altrove.
Razael era rimasto nella parte più meridionale dei territori del Popolo della Terra, aveva percorso le spiagge del sud, i campi verdi e le colline della zona rigogliosa, esplorato profonde gallerie dalla Caverna di Roscamar. Non si era però inoltrato nel vasto Deserto di Roscamar e nella Valle dei Canyon a nord, per altro poco popolati, e non aveva intenzione di viaggiarvi, non al momento almeno.
Tra una galleria e l’altra, Razael aveva trovato altro lavoro come insegnante a un istituto superiore della Città Sotterranea. La cosa che più lo sorprese sottoterra fu l’illuminazione: non era mai forte come quella che governava sulla superficie ma abbastanza forte da non provocare accecamento quando si ritorna alla luce vera, anche dopo un lungo tempo di soggiorno sotterraneo.
Quando poi venne a sapere che l’Occhio della Vita stava venendo spostato, diretto a Dalarlànd a ovest, una forte frenesia avvampò in lui, che si affrettò come non mai ad abbandonare la casa che divideva con un generoso terricolo e a salutare e ad avvisare perentoriamente e frettolosamente chiunque da cui era strettamente necessario accomiatarsi, come il gormita che lo ospitava, il direttore della scuola e il Signore Arriut.
Uscire nuovamente allo scoperto dopo diverse settimane di soggiorno nel sottosuolo fu di minimo fastidio per lo stregone elfo, che si era portato con sé ben poco.
Si affrettò a chiedere informazioni riguardo dove fosse l’Occhio della Vita – che notò subito essere assente dal suo tempietto, sulla destra.
Fino ad allora si era sempre mostrato del tutto disinteressato all’Occhio della Vita, ma non poteva farsi sfuggire l’Occhio della Vita: se l’avesse perso a Dalarlànd avrebbe dovuto perlustrare tutta l’area alla ricerca del tempietto, anche con l’aiuto di indicazioni e avrebbe potuto non sapere quando l’Occhio sarebbe stato poi spostato nuovamente.
Il gormita a cui chiese le informazioni rispose senza esitare, affermando che i Priori –nome che più volte Razael aveva sentito, che indicava gli alti ecclesiastici gormitici dediti alla cura dell’Occhio della Vita - si erano messi in marcia in una carrozza diretti al porto.
Aveva delle indicazioni, ma non dei mezzi. Una carrozza trainata da salamandre, per giunta già in movimento, sarebbe per lui stata irraggiungibile a piedi, senza contare che non sapeva con esattezza dove fosse il porto.
Corse quindi verso il più vicino noleggio di salamandre, ordinando con una generosa manciata di sale nero “La più veloce salamandra, subito! Devo andare al porto!”
Il gormita dalla pelle nera fu ben felice di obbedire alla richiesta di fronte a un pagamento così sostanzioso.
Razael montò in sella alla salamandra grigia con ben poca maestria. Alla salamandra era stata dal gormita l’indicazione da raggiungere, ed essa sapeva come arrivarci.
La salamandra galoppò rapida non per le strade cittadine, ma per sentieri campani poco percorsi da terricoli.
Lo stregone non dubitava certo che la salamandra sapesse dove andare, ma temeva comunque di non arrivare in tempo al porto.
 
“Bene, adesso va proprio bene.” esclamò Razael nervoso, sbattendo piedi e bordone sul terreno erboso.
I suoi timori precedenti erano fondati: la salamandra, per quanto estremamente veloce, non era riuscita a raggiungere in tempo il porto prima che i Priori partissero su una grande barca –una barca molto grezza e rudimentale, e lenta.
Nonostante la lentezza, Razael ebbe dei problemi a noleggiare una barca per se, dato che il barcaiolo sosteneva che non si poteva prendere una barca così di tutto punto senza avvisi. Sebbene riuscì a procurarsi una bagnarola, non raggiunse in tempo l’altra barca che, quando questi arrivò alla sponda occidentale, attraversando lo Stretto di Gorm che separava le due sezioni dell’Isola, l’altra era partita per un’altra direzione, non prima però di essersi fermata sulla spiaggia e aver fatto scendere alcuni passeggeri. Razael non era comunque riuscito ad ottenere indicazioni, era riuscito solamente a vedere dove fosse approdata la barca prima di ripartire: così aveva almeno un punto da cui partire.
Ma a parte una partenza, null’altro. Si trovava su una spiaggia che si trasformava presto in un suolo verdeggiante e pieno di cespugli. Davanti a lui torreggiava una foresta enorme e intricata di cui non si vedeva la fine. La stessa a cosa ai suoi lati: stessa spiaggia erbosa, stessi alberi imponenti.
“Calmati, vecchio mio.” si disse Razael, lasciando cadere il bordone e massaggiandosi le tempie ad occhi chiusi
“Calmati, e concentrati. Hai ancora la barca. - e qui aprì gli occhi, ma non si voltò indietro per controllare - Puoi tornare da Arriut. Ma l’Occhio della Vita si trova qua davanti. E’ davvero così importante?.” Chiuse nuovamente gli occhi.
Poi li aprì con sguardo severo “Sì, lo è. - affermò - Se non lo fosse sarei già ritornato a casa. Fatti coraggio…ed entra.”
Raccolse il bordone e avanzò titubante verso il groviglio di rami e foglie, con nessun sentiero visibile.
Foreste come quella le aveva viste solo in alcune zone settentrionali della Setturnia. Era un ammasso ordinato ma esagerato di alberi e arbusti, da code di cavallo alte meno di un piede a tiranneggianti tronchi di cui non conosceva il nome. Il suolo almeno era piuttosto liscio, a tratti erboso a tratti marrone.
Si guardava costantemente indietro, rimirando lo spiraglio di luce che fuoriusciva dallo sbocco da cui era entrato. Non che la foresta fosse così fitta da impedire alla luce del sole di penetrarvi, ma quell’entrata significava per Razael un punto d’orientamento.
La foresta formicolava di suoni di animali, svariati animali. Ronzii, guaiti, passi…ma delle fonti dei rumori nessun’ombra.
Nonostante questo, se Razael spezzava qualche ramo o qualche foglia caduta per terra, esso creava un suono che non veniva represso dai vari versi, ma che invece sembrava venir udito da tutti gli animali e che, per un momento, fermava ogni suono.
Lo stregone si era perso nei versi degli animali: voltandosi, non trovò più il varco da cui entrò.
“Perfetto. - disse ad alta voce, per sdrammatizzare - E ora…ora…”
Si portò le mani alla testa. “Potrei contattare Raganels…ma se non fosse vicino? E che aiuto potrebbe darmi? Potrei…potrei allargare la mente e contattare qualcuno qua vicino…”
Ma non attuò nessuna di quelle due opzioni. Bensì, sentì un suono, ma un suono diverso da quello di versi animaleschi o di crepitio di legno. Era un fischio acuto e rapido, che non sembrava provocato da uccelli, bensì a voce, da qualcuno, o dall’omonimo strumento.
Incespicando in una direzione e in un’altra, con il fischio che si ripeteva, riuscì in qualche modo, o così credeva, a capire da dove provenisse l’origine del fischio.
Se era davvero un gormita, qualsiasi gormita, gli sarebbe stato d’aiuto.
Continuò a camminare lento e attento per diversi minuti, quando, con qualcosa che gli si strinse alla caviglia e lo strattonò, si ritrovò sottosopra coi piedi per aria, e il bordone gli scivolò dalle mani.
Si ritrovava sospeso a un ramo di un albero per una corda. Era caduto in una trappola. Una trappola per animali, per giunta! Un episodio disdicevole ed estremamente imbarazzante per uno stregone come lui. Si sbrigò a tagliare la corda con una formula e, con rapidi riflessi, a impedire di sbattere testa e schiena a terra con un’altra: vada cadere per sbaglio in una simile trappola, ma non avrebbe peggiorato la situazione liberandosi dalla trappola e cadendo dolorosamente a terra.
Da un cespuglio lì vicino spuntò poi un gormita…ma era un gormita terricolo, dalla pelle grigia con diversi spunzoni giallini sul capo, tutto addobbato di una vestaglia mimetica di foglie che copriva gli altri particolari.
Razael si alzò immediatamente e recitò la formula dell’incantesimo di traduzione.
“Tu non sei una lepre.” disse con tono deluso.
“Mi sembra ovvio.” ribattè con stizza Razael, togliendosi della polvere dal vestito e raccogliendo il bordone.
“Hm… - rimuginò il terricolo, in piedi e piuttosto basso davanti a Razael, con una mano al mento - Tu devi essere quel naufrago…elfo, dico bene?”
“Dici bene. - rispose Razael - Ma che cosa ci fa un terricolo qui nella…Foresta Silente?”
“Ci abito. - replicò schietto con un sorriso - Forse credevi che i gormiti della Terra abitassero solo nei territori della Terra e così via…sbagliato.”
“Eri tu a fischiare prima?” domandò curioso Razael.
“Non io…lui. - il gormita alzò la mano e mostrò una pietra circolare azzurra con una sfera più piccola viola al centro - Ma ad ogni modo, ero io, sì. Un richiamo per animali.”
Razael pose la mano libera, interessato, sulla pietra, ma il gormita la ritrasse.
“Che cos’è, e cosa fa?” domandò, non potendolo analizzare.
“E’ un oggetto magico, uno come tanti qua su Gorm.” rispose, accarezzando avidamente la pietra.
Razael si ricordò che qualcuno gliene aveva parlato: su Gorm erano presenti numerosi accessori, da armi a utensili a oggetti più svariati, costruiti dai progenitori o lasciati, come molti credevano, dalle divinità, che possedevano abilità magiche che erano state inserite nell’oggetto al momento della sua fabbricazione. Razael avrebbe dovuto mettere le mani anche su alcuni di quelli, non che nella Setturnia non fossero presenti manufatti simili.
“Con questo posso creare tutti i suoni che desidero, con un po’ di volontà.” spiegò compiaciuto il gormita.
“Bene. - disse poi Razael - Ehm…credi di potermi portare al centro dei gormiti della Foresta più vicino?” lo implorò.
“Centro dei gormiti della Foresta? Ahaha!” ripeté e rise di gusto il suo interlocutore, cosa che a Razael non piacque molto.
“Si vede che sei nuovo di qui. I gormiti della Foresta non hanno centri, non hanno città. Se non la Biblioteca Silente o il Rifugio della Rugiada, ma non sono delle città, quelle…”
“E il Tempio dell’Occhio della Vita? Quello non è un centro, ma è importante…” balbettò Razael, cercando di non far trapelare l’interesse per l’Occhio.
Il gormita ci mise un po’ a rispondere, guardando di sottecchi lo stregone.
“Sì… - rispose infine - E’ qui vicino. Ti ci posso portare. Se sei fortunato, potrai incontrare il Signore della Foresta, visto che i Priori hanno appena portato l’Occhio della Vita, perché immagino tu voglia parlargli.”
Razael annuì.
 
Razael fu lasciato dallo strano gormita nei pressi del tempietto della Foresta, non nocciola ma verde limone. Era situato in uno spiazzo spoglio di alberi, ma erboso e verde; non c’erano costruzioni o case visibile attorno.
Nessuna traccia dei Priori che vi avevano portato l’Occhio della Vita, ma in compenso c’era un discreto numero di gormiti della Foresta.
Razael fu immediatamente colpito dalla loro parvenza. Sebbene diversi di loro avessero sembianze animali come i gormiti che aveva finora incontrato, la maggior parte del gruppo accalcato al tempietto aveva un aspetto diverso…legnoso, erboso, vegetale.
Vegetale! Forme di vita senzienti vegetali! Un altro aspetto che per secoli era rimasto relegato nella fantasia della mente elfa, vicia e zoara. Se erano davvero come sembravano, l’intera comunità sarebbe scoppiata d’interesse, Razael doveva studiarli, analizzarli, così come tutti gli altri gormiti…
Forse mi sto allargando troppo - si calmò - Sono qui da poco più di un mese, non mi faranno analizzare uno di loro così facilmente…e io non andrò contro di loro.
Tra i diversi gormiti raggruppati non scorse nessuno che presentava tratti per i quali poteva essere riconosciuto come il loro Signore – come l’armatura dorata di Arriut - e il terricolo che lo aveva accompagnato era misteriosamente scomparso così come era apparso.
Il Signore della Foresta sarebbe sicuramente stata un’ottima guida per il suo territorio, dal momento che, così come per Roscamar, sarebbe dovuto rimanere nella Foresta Silente per un buon mese.
Il gruppo di gormiti era intento a pregare con gli occhi chiusi, bisbigliando preghiere. Poi, uno dopo l’altro, abbandonarono il tempietto verde, salutando uno nel gruppo con un inchino –non quello d’onore. Segno che il Signore o qualcuno di importante, magari un Saggio, era presente.
Forse ho dimenticato di dire chi sono i Saggi. Voi siete giovani e forse ancora non sapete molto di politica e questa prima parte, mio malgrado, dev’essere molto rapida o si perderebbe in sciocchezze, senza contare che si parla di cose molto lontane dal mio tempo e di cui si sa poco, e non vorrei sbizzarrirmi troppo con ricostruzioni. Di conseguenza, potrei dimenticare qualche dettaglio più o meno importante.
Ad ogni modo, credo che debba dire per chiarezza chi siano i Saggi. I Saggi sono un gruppo di dodici gormiti esperti e anziani che insieme formano il Consiglio, il gruppo che consiglia e appoggia il Signore di un Popolo e che, nei periodi di elezione ogni cinque anni di un nuovo Signore, lo scelgono tra i candidati in base in parte al desiderio del Popolo.
Tra i Saggi è tradizione che anche due precedenti Signore ne facciano parte, incuranti dell’età, anche se solitamente questi non fanno molto.
Non è nelle mie conoscenze l’origine del Consiglio dei Saggi. Si sa solo che è stato presente sin da quando la nostra concezione politica si formò completamente.
Razael, intanto, rimase a guardare in silenzio finchè solo un gormita si trattenne a pregare, mentre l’ultimo che se ne andò gli rivolse un inchino. Quell’ultimo era quindi il personaggio di importanza che Razael doveva consultare, fosse esso Signore, Saggio o chiunque altro.
Razael attese in silenzio, appoggiato a un tronco, che smettesse di pregare. Non voleva certo disturbarlo, sarebbe stato segno di poco rispetto e di non necessaria fretta.
Lo studiò. Era alto quanto lo stregone, e indubbiamente vegetale. La sua ‘pelle’ di corteccia morbida era di un bruno chiaro, tutta rigata di venature piuttosto lineari invece che ramificate. Sembrava fatto di corde. E fatto di corde sembrava anche quella specie di gilet castano scuro che copriva torace e spalle. Mani, piedi e collo non erano bruni come il resto, ma spiccavano nel resto della pelle marrone di un verde acceso, che alla luce pareva più levigato e anche meno robusto delle parti marroni.
La testa era ricoperta di una corona di petali gialli come le foglie autunnali, foglie che su Gorm sembravano non esistere. Erano larghi e lunghi, ma erano non rigidi e spettinati come capelli elfi. Non era in grado di vedere completamente la faccia. Simili petali gialli gli coprivano anche i polsi, ma non poteva dire se fossero parte del suo corpo o fossero dei bracciali.
Le mani a quattro dita, per quello che intravedeva da quella angolazione, sembravano essere piene di anelli, e poteva vedere che una collana gli pendeva dal collo.
Poi il gormita sciolse le mani e, dopo essere rimasto ancora qualche secondo a guardare la sfera luminosa nel tronco grigio, si voltò e si incamminò.
Razael potè quindi sapere com’era fatto il suo volto: era molto elfo, naso e orecchie erano uguali a quelle dello stregone, e nella sinistra era inserito un largo orecchino. Inelfi erano gli occhi, o meglio, il singolo occhio castano che emergeva dal centro della fronte. La collana argentata, constatò, presentava un ciondolo triangolare verde con un simbolo inciso, ma non riuscì a vederlo bene.
Razael si avviò verso di lui corricchiando. Il gormita si accorse dello stregone che gli si era avvicinato e, con tono incuriosito, mormorò qualcosa in gormitico. Razael ne colse qualche parole ma, ancora inesperto nella lingua, formulò subito a mente l’incantesimo di traduzione e poi parlò.
“Vogliate scusarmi ma non sono ancora pratico della vostra lingua.” disse sorridendo.
“Ciò rischiara le mie incertezze.” disse con tono serio il gormita. Poi rise. Razael non capì. “Perdonami. Prima avevo pensato a voce alta ‘tu non pari un gormita’…e ora mi sono accertato del fatto che tu sia quel naufrago di cui si è sentito parlare.”
“Esattamente.” Razael era colpito dal suo parlare così forbito e ricercato. Da vicino, potè anche vedere che cos’era quel disegno sul ciondolo del gormita. Sembrava un albero stilizzato…simbolo del Popolo della Foresta, forse?
“Ebbene, io sono Florus Fegri, Signore della Foresta. Onorato.” disse poi.
“Razael Akkars, onore mio di conoscervi.” replicò Razael con un inchino.
“Quale vento ti ha spinto qui? Ritenevo fosti sotto il protettorato di Arriut della Terra.” domandò poi Florus, incamminandosi.
Era vero. Razael si era accomiatato dal Signore della Terra piuttosto frettolosamente. Ma gli aveva riferito che era libero di andare dove voleva, purché si ricordasse di onorare colui che lo aveva accolto sull’Isola di Gorm e che gli aveva offerto protezione.
“Arriut è d’accordo sul farmi viaggiare liberamente per Gorm. Basta che non infranga le regole e che non lo dimentichi.” rispose poi, con un tono di orgoglio.
“Sta bene.” ribattè annuendo Florus.
Camminarono diversi minuti in silenzio. Razael esitava a porre le sue domande: voleva formularle bene e con un linguaggio elevato, non voleva dimostrarsi inferiore a Florus. Fortunatamente, fu il Signore a riprendere le parole.
“Percepisco che è la conoscenza ad averti condotto qui. - affermò - Ma non solo la conoscenza da apprendere…anche la conoscenza da condividere. Farai tosto scoperta di quanto noi forestali amiamo la cultura. Entusiasti saremo di elargire le nostre esperienze a te così come siamo felici di apprendere da te qualsiasi cosa non è nelle nostre attuali conoscenze. Prego, porgimi pure le tue domande.”
Razael avrebbe voluto in un primo momento chiedergli da dove cominciare l’esplorazione della Foresta Silente, ma si rese subito conto che il punto di partenza era davanti a lui.
“Siete davvero, intendo voi come gormiti, dei…non voglio sembrare grezzo ma…siete dei vegetali?” domandò Razael tremando, temendo di aver usato parole sbagliate.
Florus lo guardò inarcando un sopracciglio: la domanda era del tutto inaspettata per lui. Ma si raccapezzò che Razael era arrivato da poco e non conosceva l’Isola come qualsiasi altro gormita.
“Effettivamente, sì. Siamo forme di vita vegetali. Individui simili a me si scorgono qui così come in altre regioni dell’Isola di Gorm.”
Razael fu stupito. A Roscamar non aveva visto nessuno con parvenze vegetali. Dovevano essere rari i gormiti vegetali esterni al Popolo della Foresta.
“E…come fate, sempre voi come gormiti… - continuò nel chiedere, questa volta cercando parole più colte - Cioè, mangiate come gli altri, vi accoppiate…” balbettò.
“Possiamo cibarci come i gormiti animali, tuttavia i nostri corpi non sono adibiti al meglio a tale tipo di digestione, e ne usufruiamo solitamente per provare il senso del gusto. Periodicamente, poniamo le piante dei nostri piedi in zone di fanghiglia che noi stessi arricchiamo di elementi nutritivi. Per il resto, ci comportiamo e ci riproduciamo come i nostri simili.”
Informazioni scottanti e interessanti, ma ancora incomplete. Aveva, molto probabilmente, volontariamente evitato di inoltrarsi sul fatto della riproduzione. Razael si chiese perché, e si domandò com’era possibile che una forma organica vegetale si potesse riprodurre allo stesso modo di una animale.
Florus sembrò saturo delle domande di Razael e, indovinando le intenzioni del mago, lo invitò a incamminarsi e gli promise che lo avrebbe guidato per le maggiori ‘attrazioni’ del suo dominio.
Il Signore della Foresta, nel cammino per la Biblioteca Silente che voleva mostrare per prima a Razael, appagò tutte le richieste e le curiosità che lo stregone serbava nel suo cuore, commentando ad ogni episodio e ad ogni visione a cui Razael sembrò non familiare. Come quel terricolo che lo aveva guidato al Tempietto, Florus sembrava conoscere il fitto bosco come i palmi delle sue mani, percorrendo sentieri completamente mimetizzati nell’erba e tra una fila di alberi e un’altra che nemmeno la migliore e più allenata guardia forestale elfa sarebbe stata in grado di riconoscere e seguire.
Razael scoprì dalle parole di Florus che il Popolo della Foresta era uno di gormiti cacciatori e pescatori e seminomadi: le loro case, quando ne possedevano una, erano tane scavate nei tronchi di grossi alberi o capanne erette tra i rami di enormi chiome frondose. Questo non significava che non avessero cognizione edificatrice, anzi! Ben presto Razael avrebbe contemplato un vero e proprio capolavoro architettonico.
Anche quelli che possedevano abitazioni proprie rimanevano fermi in un posto raramente, solitamente per dormire, e il resto del giorno erano in continuo cammino lungo tutta Dalarlànd, dalle pendici del Picco Aquila fino alle coste meridionali, a caccia grossa o semplicemente per incontrare qualcuno con cui chiacchierare. Oltre che esperti del sapere, i forestali erano molto eloquenti e amanti del parlare.
Persino i mercati erano mobili: i commercianti viaggiavano costantemente lungo tutta l’estensione della Foresta Silente – e non solo, dato che vendevano ai forestali anche oggetti di altri Popoli - con i loro carichi e persino il legno delle bancarelle addosso.
Florus non sapeva spiegare perché i forestali fossero così poco stabili: doveva essere nella loro natura. Razael trovò questo aspetto ironico: erano le forme di vita vegetali tipicamente immobili, mentre i gormiti della Foresta erano frenetici viaggiatori.
Fortunatamente, esistevano scuole, nonostante le parole di Florus riguardo il nomadismo e il movimento sembrarono indicare a una loro non esistenza. Erano tuttavia in numero esiguo e non tutti, per un motivo o per un altro, potevano frequentarle regolarmente. Molti studenti dovevano percorrere ogni giorno innumerevoli passi per raggiungere le radure dove uomini dotti tenevano le lezioni.
Un problema che Florus porse a Razael, in aggiunta e in relazione a quello dell’educazione, fu quello dell’impossibilità di cavalcare salamandre nella Foresta e a quello di tragitti veloci e più comodi: la fitta foresta e i sentieri non sempre lineari non erano adatti all’uso di salamandre e tanto meno a quello di carrozze trainate da salamandre, e i forestali erano restii ad abbattere tratti di foresta solo per una loro maggiore comodità.
Razael si ripromise di poter risolvere, almeno in parte, questo problema, con un mezzo in uso nella Setturnia e non solo, ma scelse di non rivelarlo subito a Florus.
Prima di arrivare alla Biblioteca Silente, Florus fermò Razael e, con un dito davanti alla bocca, lo invitò a fare silenzio. Si accucciarono presso un cespuglio, e Florus indicò qualcosa poco davanti a loro.
Razael guardò il punto indicato, ma non scorse nulla. Poi lo vide, mimetizzato con l’erba e con il legno.
Era un animale di grandi dimensioni, forse come il bisonte roccioso che aveva visto in mandrie nella Valle dei Canyon. A Razael ricordò un cervo, solo di proporzioni un po’ più grandi. La sua peluria era bruna come il brullo suolo, la pelle resistente e i muscoli robusti come quelli di un cavallo, e in varie parti del corpo ma in particolar modo sulla schiena sembrava crescergli dell’erba o del muschio, e anche un oggetto in prossimità del collo che rassomigliava un alveare.
Le corna, tuttavia, non erano affatto quelle di un cervo, molto più simili a quelle di un toro.
“Una bestia davvero affascinante. - sussurrò Florus, guardandola con compiacimento - E davvero rara a vedersi: sa mimetizzarsi molto bene.”
“E’ un cervo muschiato, un animale come pochi su tutta Gorm. E’ in simbiosi con la natura stessa più di qualsiasi gormita della Foresta. Sul suo corpo germoglia del pelo muschioso il quale lo aiuta a nascondersi, e comunica con gli altri piccoli animali, e può chieder loro di aiutarlo. Vedi quell’arnese sabbia vicino al collo?”
Florus alludeva a quello che a Razael era sembrato un alveare.
“E’ un nido d’api. - Rivelazione sconcertante per lo stregone. - Le api gli forniscono miele e aiuto contro i predatori, e in cambio il cervo offre loro protezione e accesso ai fiori di tutta Dalarlànd. Può comunicare anche con altri insetti, di cui si serve per difendersi e per confondere i predatori, mentre lui scappa. Già è difficile riuscire a scorgerlo, e ancora più difficile è acchiapparlo quando incomincia a correre e a saltare. Si muove con agilità e velocità su qualsiasi terreno.”
Dopo la visione del magnifico animale, questo sembrò accorgersi di essere stato avvistato, e si alzò e se ne scappò con grande sveltezza e velocità.
Razael arrivò poi, accompagnato da Florus, alla Biblioteca Silente.
Era situata in uno spazio aperto, e la luce vera e forte del sole batteva sul suolo non più erboso non incupita dalle foglie della intricata selva.
Era un’alta costruzione a base ottagonale, adiacente a un largo fiume. Era di legno scuro, ma di un legno finemente lavorato da sembrare pietra lucida. Decorazioni precise e dorate di fiori e di foglie percorrevano tutte le sue pareti. Si ergeva molto alta dal suolo e l’ampia entrata era sormontata da un cancello metallico a forma di parabola, con due guardie armate di lancia ai lati.
Le dimensioni e le cesellature della struttura e la sua guardia immagino facciano ben capire il valore che i Forestali davano ai libri e alla cultura.
Florus lasciò Razael con il permesso di entrare per dirigersi ai suoi impegni. Razael chiese come avrebbe fatto poi a tornare – a tornare dove poi? - ma Florus lo rassicurò che qualcuno lo avrebbe aiutato lì vicino.
All’interno della struttura Razael potè osservare alti e infiniti scaffali di libri, e numerosi lettori e inservienti che operavano in silenzio. Razael si accorse presto di essere un po’ disperato lì dentro: i libri erano tutti in gormitico e Razael non era ancora abbastanza bravo nella lingua, sia scritta che parlata, da poterli tradurre seduta stante, o da capirne tutte le parole.
Dovette chiedere ai gormiti lì presenti di leggerli per lui, una cosa davvero umiliante per Razael e fastidiosa per i gormiti, che all’interno della Biblioteca esigevano il massimo silenzio.
Da quella e da numerose altre visite nella Biblioteca Razael scoprì diversi aspetti minori della vita gormitica non solo forestale, diversi miti – da cui apprese la probabile posizione di vecchi artefatti magici che Razael, per quanto leggendari fossero, si ripromise di andare a cercare - e anche letteratura gormitica vera e propria.
Lo stregone riuscì ad allargare le sue conoscenze in campo gormitico e ad ottenere il rispetto o quanto meno l’amicizia di molti forestali solo quando, con materiali di scarto, riuscì a fabbricare una bicicletta – un mezzo di locomozione in uso nella Setturnia, a due ruote e a pedali - con cui riuscì infine ad agevolare i trasporti e i viaggi nella Foresta Silente, dotandola però di ruote più dure per facilitare i tragitti su percorsi tortuosi e rendendola più grande per la maggiore dimensione dei gormiti.
I forestali accolsero bene questo nuovo mezzo e impararono presto a produrlo da soli. L’introduzione della bicicletta fu la chiave per entrare nella zona di rispetto dei gormiti della Foresta. Ma anche dopo aver condiviso con loro il veicolo, i forestali si mostravano, come prima, non troppo frettolosi ad accettare tutto ciò che Razael diceva loro come vero, e mettevano tutto in dubbio. Un comportamento più che legittimo, e sicuramente obbligatorio da parte di veri e propri ‘cultori di cultura’ come i gormiti della Foresta.
Nella Foresta Silente la magia era ben nota e di medio - alto livello. La conoscenza della scienza biologica e microscopica era invece piuttosto bassa come era stato per i gormiti della Terra, e Razael avrebbe dovuto aspettare di trovare i materiali giusti per creare gli accessori utili a verificare la veridicità delle sue affermazioni agli occhi dei gormiti.
Razael tentò anche di allargare le conoscenze in campo di agricoltura e allevamento, ma dove quelle di agricoltura furono poco accolte, anche per la presenza di pochi terreni adatti –e per il fatto che i fertilizzanti fossero necessari alla sopravvivenza dei gormiti stessi e non potevano essere ‘sprecati’ per altre piante - i metodi di allevamento furono più accettati. Non che i forestali non lo conoscessero, ma per quanto fossero esperti degli animali non erano molo bravi a trattarli con la cura e la decenza giuste.
La preparazione fisica dei forestali era invece minore di quella dei terricoli, e Razael, pur non conoscendo le particolarità della muscolatura vegetale, colse l’occasione per insegnare loro le tecniche di combattimento di Magor e le sue forme di allenamento, che, soprattutto i giovani e in particolar modo un bambino piuttosto irrequieto di nome Paludis, furono soddisfatti di seguire e impararono velocemente.
La più frequente domanda di Razael era la seguente: “Ma come vi riproducete?” detta ovviamente non in maniera così terra terra e non a persone incontrate per caso lungo il cammino.
Tutti quelli a cui la rivolgeva erano riluttanti a rispondere. Il massimo che ottenne fu:
“Non è una cosa bella a vedersi nemmeno per noi, te l’assicuro, raramente lo facciamo più di una volta nella vita e noi gormiti non amiamo parlarne. Sappi però che deponiamo uova. Non dirò altro”
Almeno ora sapeva la metodologia, anche se tutta quella riluttanza lo stimolava a una maggiore curiosità. E ora, a sproposito, si era anche cucito un saio grigio, decisamente più apprezzabile, sebbene abbastanza sobrio, del suo precedente vestito, e un mantello bianco.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 2.4 ***


Un giorno, mentre Razael scendeva con attenzione dai pioli della sua casa sull’albero, fu avvicinato da niente meno che Florus. Non portava più il gilet bruno scuro ne la collana col simbolo della Foresta, e gli spiegò subito perché.
“Salve, Signore della Foresta.” lo salutò subito appena sceso.
“No, è scorretto chiamarmi a quel modo. Saggio, è il titolo regolare.” replicò rapido Florus.
“Perché? Cos’è successo?.” domandò sorpreso Razael.
“Oggi hanno avuto luogo le elezioni. Come, non hai mai veduto tutti i candidati in questi giorni? Erano numerosi e ovunque.”
“Temo di essermi perso qualcosa…” commentò Razael.
“Com’è possibile? - domandò in risposta Florus - Dove ti sei trovato tutti questi giorni per mai scorgere i candidati?”
“Nella Biblioteca Silente, a leggere, suppongo.” In quel tempo aveva perfezionato la conoscenza del gormitico, e si allenava leggendo. Alcuni gormiti, in tutta libertà, gli avevano anche chiesto che venisse loro insegnata la lingua vicia…Razael non rifiutò.
“Devi esserti ingobbito per non aver proprio potuto sapere delle elezioni.” considerò Florus, preoccupato ma divertito allo stesso tempo.
“Ad ogni modo, oggi c’è il Torneo di Astreg. Ho pensato di portarti.”
“Il Torneo di…Astreg?” domandò Razael. ‘Astreg’ e l’insieme di parole gli risultarono del tutto sono sconosciute.
“Ma che cose hai studiato? - rise sotto i baffi Florus, divertito dall’ignoranza di Razael - E’ il grande torneo di combattimenti che si tiene nell’arena della Piana di Astreg, ogni anno dopo le elezioni. Vuoi venire? O no?”
“A-aspetta. - lo fermò lo stregone - Se ci sono state le elezioni…chi è il nuovo Signore della Foresta? E quello della Terra, lo sai?”
“Qui governa ora Madrequercia, e il sovrano del Popolo della Terra è un tale Exalion.”
“Va bene…allora, portami a questo torneo.”
“Puoi anche trattarmi da amico…’vecchio mio’, però è meglio che in pubblico tu mi dia del voi. Taluni potrebbero criticare l’uso del tu a un Saggio.” lo avvertì Florus.
Si incamminarono dunque per l’Arena di Astreg nell’omonima piana. Era situata nella punta più orientale di Dalarlànd, in un amplissimo spazio privo di alberi, molto vicino alla costa.
Razael non prese la bicicletta, né Florus. Primo non ne aveva una, secondo riteneva di sembrare stupido guidando la bicicletta con quei vestiti.
Il cammino fu lungo e i due si fermarono a mangiare circa a metà strada – Florus si era versato della polvere multicolore sui pied i - era ancora presto.
Prima ancora di arrivare videro numerosi altri gormiti in cammino, diretti alla loro stessa meta. Molti di quelli erano partecipanti oltre che spettatori, gli aveva detto Florus.
Arrivarono dunque ad un enorme spiazzo senza alberi alcuni, ma in compenso pieno di gormiti che si davano gomitate e si spingevano, gormiti di tutti i Popoli. Alcuni si alzavano in volo tramite ali –sì, diversi gormiti possedevano addirittura ali - o per magia cercando di arrivare primi, ma anche in aria c’era traffico, se così si può dire.
La causa di quella fretta era senza dubbio la bassa collina dalla cima spianata che si ergeva al centro della pianura erbosa.
“Non preoccuparti, sono un Saggio e ho un posto prenotato. - Florus rassicurò Razael - Ci faranno passare.”
Fu così, anche se con qualche intoppo causato da gormiti troppo ostili a farsi superare da qualsiasi gormita, sia esso popolano, Signore o Saggio, molti dei quali erano vulcanici innervositi.
I due arrivarono sani e salvi alla vasta scalinata che conduceva in cima alla piana. Lì gli addetti riconobbero Florus e lasciarono passare entrambi.
I gradini erano alti oltre che larghi e di una grande distanza l’uno dall’altro, e Razael faticò non poco a salirli tutti.
Arrivato in cima, vide l’Arena: un grande anfiteatro circolare interamente di pietra color avorio, munito di spalti per il pubblico, una stanza per il cronista, e varie grate che conducevano a camere sotterranee. In otto punti le gradinate erano spezzate da grandi archi di pietra.
Florus prese il suo posto e Razael vicino a lui. Razael era piuttosto eccitato: da subito aveva immaginato le capacità combattive dei gormiti, Semidéi che controllavano gli elementi, ma mai aveva avuto occasione di vedere un gormita usare i propri poteri per lottare.
Presto il torneo iniziò, con queste solenni parole dal cronista, amplificate da magici strumenti:
“Gormiti qui riuniti! Gormiti di tutti i Popoli! Popolo della Terra, della Foresta, dell’Aria, del Mare, del Vulcano! Si tiene oggi come ogni anno il Grande Torneo dei Combattimenti dell’Arena di Astreg! Il 653esimo dalla prima inaugurazione! Ai gormiti che lotteranno: siate coraggiosi e forti ma siate rispettosi del vostro avversario e delle regole! Combattete per la vostra gloria e quella del vostro Popolo! Ai gormiti che osservano: auguro un buon spettacolo e, mi raccomando, non tifate per quello del vostro Popolo, ma per il più forte e il più abile! Che il Torneo abbia inizio!”
Queste parole furono seguite dall’eco quasi interminabile di un gong. Al termine di questo, scroscianti applausi e grida.
Entrarono i primi due sfidanti; prima che cominciassero a menarsi, Razael si informò su come si combatteva nel torneo: vi erano 40 partecipanti totali, e i gormiti avanzavano ad eliminazione diretta. Non c’era un limite per i rappresentanti di un Popolo né per le iscrizioni, ma le selezioni erano dure e cercavano sempre di porre un ugual numero di membri per ciascun Popolo. Al Vulcano, che pur presentava molti più gormiti degli altri Popoli, non era concessa la grazia di avere più partecipanti al torneo degli altri – e qui Razael notò quella vena razzista nei loro confronti - , sebbene i vulcanici si presentassero sempre in grandi numeri e gormiti di Popoli come quelli di Foresta e Mare sempre in troppo pochi per permettere ogni volta un numero pari di combattenti per Popolo. Lo scontro era solamente fisico, per cui magie e attacchi mentali non erano concessi e per chi disobbedisse alle regole era riservata la squalifica immediata, e, a seconda della gravità dell’infrazione, la squalifica anche a tornei futuri.
Razael osservò con stupore e coinvolgimento maggiori di chiunque altro presenti il susseguirsi delle lotte e dei colpi subiti e sferrati. Potè osservare i più complicati e più eleganti colpi elementali mai visti, che con la magia erano impossibili o esageratamente difficili da compiere anche per gli stregoni più esperti. Mulinelli d’acqua che si libravano in aria dalle dita dei marini, uragani in miniatura che prendevano forma dai pennuti e alati aerei, cerchi di fuoco che apparivano e scomparivano sul suolo con semplici movimenti della mano.
I colpi elementali inferti in quell’arena, per quanto moderati – alcuni, almeno - sarebbero stati estremamente dolorosi per qualsiasi elfo. Forse uno zoaro li avrebbe sopportati più o meno facilmente. Anche i colpi prettamente fisici erano tremendamente potenti e intollerabili per un elfo.
Razael vide appagato alcuni gormiti della Foresta e della Terra mettere in atto le tecniche che lo stregone elfo aveva insegnato loro.
Una maggiore forza e resistenza fu notata da Razael nei gormiti del Vulcano. Dove per un qualsiasi altro gormita bastava un certo numero di colpi per metterlo fuori gioco, per i vulcanici ne occorrevano diversi in più. I loro colpi, elementali o corpo a corpo che fossero, avevano inoltre una maggiore ferocia di quelli degli altri gormiti e le perdite di sangue causate dai vulcanici erano molto più grandi di quelle causate da altri.
Razael potè ben comprendere quindi la paura e l’avversione dei gormiti nei confronti del Popolo del Vulcano, e più volte diversi vulcanici vennero squalificati per esagerata crudeltà o addirittura per tentata uccisione. Alcune volte le squalifiche erano più che giustificate e Razael le appoggiava, altre volte invece le squalifiche erano basate su argomentazioni del tutto insensate, e ancora una volta il razzismo si faceva vedere.
Razael si oppose quando le espulsioni non erano giustificate, così come pochi altri gormiti tra cui Raganels, o almeno così gli sembrò. Alcune volte le obiezioni furono ascoltate, altre volte no.
Alla fine il 653esimo Torneo di Astreg terminò con la vittoria di un terricolo, Thalos, la cui testa sembrava un elmo e aveva degli avambracci incredibilmente larghi, non grossi, ma larghi.
I terricoli erano quelli che vincevano di più, insieme ai vulcanici.
 
Un altro mese e mezzo era infine quasi terminato, e Razael si preparava ad un eventuale arrivo di Priori che avrebbero portato l’Occhio della Vita altrove. Nonostante fosse esso la ragione del suo soggiorno lì, aveva ben poche volte tentato di studiarlo come credeva di volere, se non mai.
In quei tempi inoltre si stava preoccupando del suo aspetto fisico. Il vestiario era a posto, ma non era in grado di curare il proprio corpo come era solito fare a Lacedimora, al punto che una ridicola barbetta gli stava spuntando in viso e la fronte aveva diverse rughe. Non poteva spiegarsi perché: poteva benissimo crearsi dei rasoi o usare i diversificati accessori di cura personale dei gormiti, ma forse dedicava troppo tempo ai suoi studi da tralasciare se stesso. Pur rendendosene conto, non faceva niente a riguardo. Quell’Isola lo interessava troppo.
Un pomeriggio, sembrò ripetersi l’episodio di circa una settimana e qualche ora prima.
Razael scendeva la sua scala della casa sull’albero, dopo aver letto qualche pagina di un libro gormitico.
Ad aspettarlo al suolo c’era Florus.
“Salve…Saggio.” lo salutò Razael con un sorriso.
“Salve…saggio Razael. Dovrebbero darti il titolo di Saggio solo per la tua conoscenza.” lo salutò Florus, con una nuova collana d’oro.
“Mah, non voglio nessun titolo, - rifiutò gentilmente Razael - però se mi chiamerete Saggio non mi cambia nulla, davvero.”
“Voglio portarti a vedere gli oracoli.” passò subito al sodo Florus.
“Gli oracoli?” Ogni volta che Florus veniva sotto casa sua sembrava portargli nuove conoscenze. Razael non ne era certo deluso, però si sentiva come deriso dal comportamento di Florus che ogni volta gli parlava di cose che non conosceva e il Saggio sembrava riderne.
“Te lo dirò quando ne vedrai uno. Vieni con me.” senza troppi giri di parole, prese Razael per mano e lo condusse verso sud - ovest.
Florus rimase zitto per tutto il breve itinerario e Razael, sebbene stupito di tutto ciò, non aprì bocca e si tenne dietro Florus. Fu sfiorato dall’idea di accedere alla sua mente per avere un’idea su quali fossero le sue intenzioni, ma poi gli parve irrispettoso e una mancanza di fiducia.
Camminarono per ben poco tempo: Florus si fermò, condotto Razael nei pressi di un arbusto di circa sette piedi.
“Ebbene?” domandò lo stregone, inarcando un sopracciglio e infastidito dall’essere stato portato lì solo per vedere quel tronco bruno. Aveva fretta e altri progetti che perdere tempo. E tutto ciò sembrava una perdita di tempo. “E’ un bell’albero, ma non vedo altro.”
“Guarda meglio.” lo invitò Florus, sicuro.
Razael fece spallucce e, non vedendo altro da fare, si avvicinò e scrutò meglio l’albero.
Aveva una forma vagamente umanoide, si accorse subito. Era di un bruno molto simile a quello della pelle di Florus, ricoperto di muschio e di foglie cresciute molto misteriosamente non sui rami ma sulle corteccia stessa. La forma delle foglie gli era del tutto ignota.
L’albero era biforcuto alla base e dava l’idea di essere formato da due tronchi che si erano uniti, o che erano stati uniti. Misteriose radicine di un verde acceso sembravano essere fuoriuscite dal terreno e penetrato attraverso il legno duro dell’arbusto in diverse parti. O forse l’esatto contrario.
Andò dall’altra parte dell’arbusto. Potè constatare che lo strano albero aveva due soli grossi rami, e uno strano bulbo nella loro concavità. Seccato, e con Florus che non dava alcun segno di cambiamento, pose le mani sul legno e percorse con le dita le venature che dal centro del tronco arrivavano all’estremità del ramo. A suddetta estremità, Razael sentì come se stesse toccando delle dita, legnose e dure, ma dita.
Due globi vitrei si aprirono di scatto nell’ammasso legnoso alla sommità del tronco. Un lieve e affannoso soffio d’aria, accompagnato da un mormorio, provennero, sempre dal bulbo.
Razael cadde per terra sbigottito, mollando la presa sul suo bordone.
“Qualcuno…visita Arboricus?” disse una voce proveniente dall’albero.
“C - che cos’è questo?” balbettò Razael raccogliendo il bordone, tremante.
“Questo è un oracolo. - rispose sorridente Florus - Fu un gormita vegetale, diresti tu, un tempo, di nome Arboricus, che scelse di abbandonare la vita mobile e si fuse con la natura, tornando ad essere vegetale. Col tempo ha perso ogni memoria di sé, ma la sua conoscenza rimane nei tempi, e può essere arricchita ogni volta che gli si parla.”
“Bene dice il compagno tuo. - rispose con quel respiro da vecchio morente l’albero - Arboricus è il mio nome, ma null’altro so della mia vita passata. E’ a portata di tutti la mia conoscenza, ma mi annebbia il tempo di riconoscere il bene e il male la capacità. Tutti mi domandano, a tutti io rispondo. In molti siamo, collettiva è la nostra conoscenza, imperturbabile dal tempo.”
Razael era completamente stravolto. Quella rivelazione lo aveva riempito di un mucchio di domande e di curiosità…e di tristezza. Quel gormita o meglio, quei gormiti avevano scelto volontariamente di abbandonare la propria vita normale e di abbracciare una vita eterna ma vacua senza poter riconoscere il bene dal male? Le motivazioni che potevano spingere un gormita vegetale a fare ciò dovevano essere tragiche.
“Porgimi le domande che desideri.” gli disse poi, con tono vuoto.
Per quanto rattristito da tutto ciò, l’interesse c’era e, visto che si trovava lì, di fronte a una vera e propria enciclopedia vivente, tanto valeva approfittarne.
“Che cos’è l’Occhio della Vita?” domandò, silenzioso e titubante, lo stregone. Ci ripensò due volte anche più prima di porre quella domanda, ma poiché al momento non era in grado di saperlo da per sé, era legittimo chiederlo a lui.
“La nostra origine è l’Occhio della Vita. - rispose tosto - La nostra forza è l’Occhio della Vita. Una vita umile e priva di scopo seguivamo prima, poi gli Osservatori ci hanno sollevato, sull’Isola di Gorm ci hanno portato. L’Occhio della Vita ci hanno donato, l’Occhio della Vita ci ha reso ciò che siamo ora, grazie agli Osservatori.”
 
La scoperta e le parole dell’oracolo Arboricus avevano profondamente scosso Razael. Nonostante ciò, ne approfittò per chiedere altre domande, poi se ne tornò a casa. Voleva riposare.
Il giorno seguente ne parlò con Raganels.
Scese giù dalla sua abitazione, e questa volta non c’era Florus ad aspettarlo, ampliò la sua mente alla ricerca di Raganels. Fortunatamente, fu molto vicina. Raganels era sempre in movimento, e Razael trovava la sua mente sempre molto vicina alla sua attuale posizione.
Raganels, sei tu? chiese per sicurezza
Ciao, Razael. rispose la voce bonaria del primo gormita
E’ un piacere sentirti.
E a me fa piacere che tu voglia parlarmi così spesso, ma sai com’è, ho dei vulcanici da far rispettare e non ho mai tutto il tempo che vorrei.
Non preoccuparti - lo perdonò Razael - sono buone intenzioni, e sarebbe sbagliato che io voglia allontanarti da quelle. A proposito, eri tu l’altra volta al Torneo di Astreg?
Sì, proprio io. Non è la prima volta che squalificano vulcanici solo per paura - rispose - Ti è piaciuto, comunque?
Molto. Le vostre capacità sono eccezionali…
Che altro vuoi raccontarmi?
Ieri ho incontrato un oracolo…
Oh! - disse con voce stupita Raganels - E che te ne è parso?
Mi sono sentito strano. Devi essere spinto da una grande tristezza e allo stesso tempo da un grande attaccamento alla vita per fare una simile scelta. Comunque, tu sai chi sono gli Osservatori?
Gli Osservatori? - riflettè Raganels - Mi sembra…credo siano un mito religioso. Non molto seguito, però. Oh. Scusami, il dovere mi chiama, e anche di fretta! Avvisami quando passerai per i territori del Mare.
E la mente di Raganels si allontanò, e Razael non lo sentì più nelle immediate vicinanze. Una strana casualità: in quei giorni i priori sarebbero dovuti arrivare, e avrebbero portato l’Occhio della Vita nel Mare. Razael era andato a chiedere informazioni, e aveva saputo infine il percorso interpopolare del mistico oggetto: Foresta, Mare, Aria, Vulcano, Terra. Un mese e mezzo ciascuno. Trovò curioso che lo mandassero anche dai vulcanici e che rimanesse lì lo stesso periodo di tempo.
Ad ogni modo, questa volta non se li sarebbe lasciati scappare. E non se li lasciò scappare.
Era nei pressi del Tempietto quando i Priori arrivarono.
Quattro alte e snelle figure bluastre, coperte da mantelli neri legati attorno al gozzo da un collare sottile argentato. Insieme a loro una figura rossa, una bruna e una color avorio, anche loro con lo stesso indumento. Tutti e sette portavano dei sottili bastoni lucidi e levigati marrone chiaro dalla punta argentata. Gli occhi di tutti i priori erano azzurri e luminosi. Ma non luminosi nel senso di molto chiari o per enfasi, erano proprio dotati di luce propria. Una qualche pratica caratteristica dei priori, pensò Razael.
Si appostarono vicino al Tempietto, e lì attesero. Non fecero nulla finchè, dalle fronde, non apparvero due priori della Foresta, anche loro con mantello, bastone e occhi luminescenti.
Razael credette di capire: i priori del Popolo che doveva ‘ospitare’ l’Occhio della Vita venivano per prelevarlo; i priori del Popolo ospitante davano loro il permesso, e i priori degli altri Popoli assistevano allo scambio per assicurarsi che lo scambio avvenisse in maniera regolare.
Così sembrò: i priori di Foresta e di Mare parlarono per qualche attimo, poi quelli del Mare voltarono loro le spalle e, alzando i propri bastoni, sollevarono con la magia l’Occhio della Vita fluttuante. Le iniziali congetture di Razael erano infine vere: tale era la sacralità dell’Occhio della Vita che non veniva toccato da nessuno, nemmeno dagli ecclesiastici.
Alla fine i priori forestali scomparvero nel bosco così come erano apparsi, i tre priori di Vulcano, Terra e Aria procedettero per strade diverse mentre i quattro priori marini, sorreggendo magicamente l’Occhio, percorsero lo stesso sentiero che Razael aveva percorso per primo in territorio di Dalarlànd.
Lo stregone decise di seguirli, ma senza farsi notare. A questo fine attivò su di sé un incantesimo dell’invisibilità e li pedinò cercando di fare meno rumore possibile.
Lì seguì con attenzione per evitare di perdersi, e giunse quindi alla stessa spiaggia che più o meno un mese prima aveva fatto approdare Razael e la barca dei priori forestali. Una bagnarola simile a quelle vista tempo prima era ora lì in acqua.
Due a due, i silenziosi e misterici priori salirono sulla ridicola barchetta, e poi entrarono nell’unica stanza presente sul trabiccolo. Un gormita marino conduceva la barca all’estremità della poppa.
Razael saltò sulla barca il più velatamente possibile. La guida del marino fu pessima, davvero orribile se paragonata a quella del capitano della Mudras, o forse era colpa della fattura della nave. Ad ogni modo, a Razael non sembrò affatto di navigare piuttosto di dondolare su un terreno tortuoso, e fu contento quando, dopo aver fiancheggiato diversi chilometri di costa e fattasi ora di pranzo, la barca si fermò nei pressi di un porticciolo che presentava altre navi di scarsa qualità e di piccole dimensioni.
I priori scesero, a due a due sorreggendo nuovamente l’Occhio della Vita, e Razael con loro, per evitare che essi o il pilota sentissero che c’era un intruso che abbandonava la nave.
Poi un episodio tragico, ma che Razael avrebbe dovuto aspettarsi. Sempre in coppia, i priori camminarono verso l’acqua e infine vi si tuffarono.
Che cosa doveva fare Razael ora? Innanzitutto rimosse l’incantesimo di invisibilità, una mossa che avrebbe dovuto guardarsi bene dal farlo, dal momento che sulla spiaggia e nei dintorni c’erano diversi gormiti del Mare.
Razael titubava. Raganels viveva lì, e se l’avesse trovata avrebbe potuto chiedere l’ubicazione del Tempietto del Mare a lui o a qualsiasi altro gormita. Però il problema rimaneva. Andare sott’acqua? Quanto sarebbe potuto rimanere? Come si sarebbe orientato?
Forse prima avrebbe dovuto mangiare, ma poi si disse Mangio e poi mi tuffo? Mi farà male. Però i marini dovrebbero farlo sempre…
Alla fine si decise. Si tolse i vestiti, rimanendo solo in mutande. Li appese a un bastone che infisse nel suolo sabbioso, e pose poi un pezzo di corteccia con sopra scritto, in gormitico ‘Proprietà di Razael Akkars, protetta da magia’. Anche se ne sarebbe stato perfettamente in grado, non erano effettivamente protetti magicamente.
Avanzò quindi nell’acqua, piacevolmente calda, con l’immancabile bordone di legno con smeraldo che mai si sarebbe sognato di lasciare in giro, e poi si tuffò, evocando un incantesimo di sostentamento acqueo, che gli garantiva respiro sott’acqua e visibilità non offuscata.
Pochi minuti di nuoto e poi il dominio del Popolo del Mare si aprì davanti agli occhi di Razael: numerose case piramidali, disseminate qua e là sulla superficie del primo fondale, ma fondali ben più bassi si aprivano più avanti, anch’essi popolati da case e da gormiti.
Si piombò quindi verso il più vicino agglomerato di case, dove gli sembrò scorgere i priori posizionare l’Occhio della Vita su un tempietto blu.
Razael era capace a nuotare a immergersi, e anche bene ma purtroppo non molto velocemente.
Di conseguenza quando arrivò infine al tempietto blu, i priori erano andati.
E adesso che fare? Dove andare? Se ogni che seguiva l’Occhio della Vita doveva ritrovarsi in quello stato tanto valeva non seguirlo affatto, perché alla fine non risolveva niente.
Ehi, Razael! lo salutò una voce familiare, nella mente.
Si voltò e vide venirgli incontro niente meno che Raganels che si faceva avanti a larghe bracciate.
Razael capì perché lui, così come probabilmente gli altri gormiti del Mare, tenevano la mente sempre aperta: era l’unico modo per comunicare e farsi capire sott’acqua.
Ehi Raganels - lo salutò in risposta Razael, avvicinandoglisi - Non avrei mai pensato di trovarti a casa tua.
E io non avrei mai pensato di trovare te a casa mia - ribattè il marino - Che cosa fai qui?
Esploro tutta Gorm, come ti avevo detto rispose E il vento mi ha portato qui -
Avresti dovuto visitare il Museo della Ricerca Storica per primo gli consigliò Raganels.
Razael non sapeva cosa fosse, ma non ci badò al momento Ehi calmo! Sarai anche il Signore ma decido io dove andare, eh!
Cosa? -  parlò perplesso Raganels - Io Signore? Ah ah, nemmeno per idea!
Non sei Signore del Mare? domandò ancora più perplesso Razael
Affatto! E non voglio esserlo: non avrei il tempo per la mia campagna pro - Vulcano
Capisco… - commentò lo stregone colto nel torto - Qual è la tua casa? chiese poi.
Raganels la indicò col dito. Quella piccola lì, dipinta di rosso. Vivo da solo, come avrai immaginato, e non passo molto tempo a casa.
Come fate a dipingere sott’acqua? domandò Razael disinteressato allo stile di vita di Raganels
Con la magia, ovviamente. C’era une vecchia tecnica e una vernice speciale, ma non se le ricorda più nessuno.
Facciamo un giro - propose Razael - Se non hai da fare.
Insieme nuotarono in una piccola parte del dominio del Popolo del Mare, contemplando paesaggi sottomarini che colpirono molto Razael, composti da banchi di pesci, pianure di alghe e di frutti di mare, schiere di coralli di tutti i colori immaginabili. Nel mentre, parlavano del più e del meno, ma l’interesse di Razael era più rivolto ai gormiti del Mare e alle loro abitudini di vita.
Noi possiamo respirare sia fuori che dentro l’acqua, senza magia. - diceva Raganels  - Sono pochi quelli che non ne sono capaci. Fuori dall’acqua dobbiamo stare attenti a non seccarci la pelle, ma potendo creare l’acqua non è un grande problema se l’energia elementale non è esaurita.
Dove abitate voi? - lo interrogò Razael, vedendo solo case sparse e nessun grosso agglomerato - E di cosa vivete quaggiù?
Non ci sono grandi città del Mare,, come nella Foresta. -  replicò Raganels - Se non il Bazaar, in superficie. Qui peschiamo e  alleviamo pesci e raccogliamo diverse piante subacquee. I salmoni sono il nostro cavallo di battaglia, specie le loro uova molto apprezzate anche fuori. Il Bazaar pullula di mercanti, che hanno viaggiato fuori e sono venuti qui a scambiare le merci degli altri Popoli.
Conoscete le nasse? domandò Razael.
Nasse? -  ripetè il marino, nuovo a questa parola - Uhm, temo di no.
Bene, avrò qualcosa con cui stupirvi -  ribattè compiaciuto Razael - ma non ora.
Cielo, e quello che cos’è? esclamò esterrefatto Razael, indicando un punto a una discreta lontananza, con il braccio tremante che reggeva il bordone. La sua preoccupazione e la sua meraviglia erano provocate da quella che sembrava una grande testa di serpente marino, poggiata delicatamente sul fondale marino, alta almeno venti piedi e larga uguale. Il resto del corpo, se non si trovava sotto la sabbia, era nascosto da canyon sottomarini.
Quella è la Grande Murena. - rispose del tutto tranquillo Raganels - Non te ne hanno parlato? Io ti ho sicuramente detto della Grande Piovra, che è di guardia ad est e a nord dell’Isola, che è quella che ha attaccato -
So bene cosa ha fatto - lo interruppe lo stregone severo - Va’ avanti. Non voleva tornare sull’argomento e rievocare i ricordi.
Ebbene, questa ‘difende’ l’Isola, secondo i credenti, a sud e a ovest. Ma sono anni ormai che non è più attiva. Si è messa a dormire meno di un secolo fa, e da allora i gormiti, per non cadere nella sua ira e far sì che continui a proteggerci, le offrono cibo. E’ viva sin da allora, e molti la reputano una vera e propria divinità. I miti non ne parlano.
Razael continuò ad osservare il grosso capo della bestia marina. Quella, e l’altra dall’altra parte, gli avrebbero dato altri motivi di studio e di affanno. Che cos’erano? Perché si trovavano lì? Davvero ‘proteggevano’ l’Isola di Gorm?
Se tutto questa era vero, a Razael sembrò che qualsiasi cosa avesse dato origine alla genie dei gormiti, all’Occhio della Vita che garantiva i loro poteri e/o il loro benessere, alle due grande bestie che tutelavano l’Isola ai due fronti avesse una chiara idea in mente…un progetto divino. E lui era un intruso in quel piano. Lui era un estraneo e un errore. Non doveva trovarsi lì. Questo sempre pensando che l’Isola e i suoi abitanti fossero una creazione divina, e questo sempre pensando che le divinità venerate dai gormiti esistessero seriamente. Cosa che Razael non arrivava a credere con facilità, nonostante diversi elementi, se messi insieme e collegati, sembravano presagirlo.
Quanto tempo resterai qui? chiese poi lo stregone, portando il discorso a nuovi argomenti
Dovrei restare qui per un mesetto circa, la situazione si è un po’ acquietata - rispose emulando un sospiro nella mente - Ma non del tutto risolta. Ci vorrà del tempo prima che sia risolta, e io potrei non vivere abbastanza per vederla.
Ciò fece saltare in mente a Razael un’altra curiosità repressa:Qual è la vita media di un gormita?
Sessant’anni, circa. Io ne ho 44. Ma non so se corrispondano alla tua concezione di anni.
Credi di potermi accompagnare al Vulcano quando ci andrò? propose Razael cambiando nuovamente indirizzo.
Vuoi davvero visitare il Vulcano? domandò in risposta Raganels perplesso. Razael annuì.
Davvero curioso. Sono pochi i gormiti esterni che vogliono andare là, e tu che sei il più esterno di tutti e nemmeno un gormita vuoi andarci. Ad ogni modo, sarò felice di accompagnarti, e offrirti protezione se necessario, ma spero non ce ne sarà bisogno. Però dovrò assicurarmi di non essere impegnato.
Grazie ancora. Ora, come mi hai detto, andrò a questo Museo della Ricerca Storica: stare così tanto tempo in acqua e usando così tanta magia non mi farà bene. Verrai con me?
Temo di no. Vorrei riposare, se non ti dispiace. replicò Raganels, già voltato verso la sua casa scarlatta.
Affatto. Saprò trovarla da solo. Be’, allora…a presto.
Ci vediamo, Razael disse Raganels, e i due si congedarono.
Razael affiorò in superficie e una volta capace di respirare di nuovo l’aria del cielo annullò tutti gli incantesimi che aveva evocato per l’immersione. Poi nuotò verso la riva. I suoi indumenti erano ancora lì, ma notò diversi gormiti del Mare a pochi piedi di distanza guardarli con curiosità.
Razael aveva la pelle e in particolar modo tutti i polpastrelli raggrinziti dal ‘soggiorno’ prolungato in acqua. Non sentiva freddo nonostante fosse bagnato, ma sentiva comunque il bisogno di asciugarsi. Fece il possibile per asciugare tutto il corpo, ma asciugarsi le mutande e il pube sarebbe stato complicato. E Razael conservava ancora un po’ di pudore elfo nonostante vivesse da quasi tre mesi pelle a pelle con gormiti: non si sarebbe denudato in pubblico solo per detergersi.
Decise quindi di indossare solo il mantello con cappuccio, portando il saio e la cintura in braccio.
Si incamminò di qualche passo per la spiaggia senza meta, evitando gli sguardi oltremodo curiosi dei gormiti lì vicino. Poi si rese conto che era necessario chieder loro indicazioni, e così fece.
 
Lo stregone procedeva bendato per la spiaggia – lo sentiva dalla sabbia sotto i piedi, calzando i sandali, ma dopo un po’ il terreno si fece più solido.
Aveva dovuto interrogare diversi gormiti, ricevendo occhiatacce sbalordite, prima di trovarne uno che sapesse portarlo a Patmut Iun, il Museo della Ricerca Storica.
Aveva scoperto che il Museo era normalmente frequentato da pochi addetti e che raramente ospitava gormiti che non fossero gli addetti o gormiti di un certo livello. La fiducia in Razael non era abbastanza grande da potergli permettere di entrare e uscire da Patmut Iun a proprio piacimento, ma abbastanza da permettergli di fargli fare una visita, a patto che Razael non avesse idea della sua ubicazione. Un patto stretto con il giuramento, giuramento magico. Inviolabile, pena la morte. Pur non conoscendo le Tre Maledizione, già allora noi gormiti eravamo abili a uccidere in mille modi diversi con la sola magia.
Razael accettò, pur desiderando di scoprire un giorno dove si trovasse di preciso, magari ottenendo la fiducia e il rango necessario per farlo e senza ricorrere a sotterfugi.
Così, quando a Razael furono tolte le bende dagli occhi e rimossi gli incantesimi di occultamento, si ritrovò in una grotta. Non buia, ma nemmeno luminosa come gli antri più ampi della Caverna di Roscamar, e inoltre era di un materiale marrone meno robusto di quello grigio - nero che si trovava a Roscamar. Era illuminato da torce e da nessuna pietra di luce. Diversi ampi ma bassi cunicoli si aprivano davanti a lui. Dietro di lui due guardie armate di tridenti ai lati di un’apertura invisibile tra le rocce brune.
“Il capo ti stava aspettando, ed è stato lui a volerti qui.” diceva la gormita marina dalla testa ovale e appiattita piena di escrescenze simili a pinne e da simpatici occhi verdi che lo aveva portato a Patmut Iun.
Ben presto tale ‘capo’ arrivò, emergendo elegantemente da uno dei cunicoli centrali. Era effettivamente molto elegante come gormita, e un elfo o un vicio sarebbero stati facilmente attratti da lui.
Era azzurro - grigio alto e snello, ma non smilzo. I muscoli del petto e dell’addome, sebbene leggeri, erano messi in risalto da sottili strisce azzurro luminoso, presenti sul torso così come in altre parti del corpo. Il viso era perfettamente sagomato e dolcemente modellato, se paragonato a uno elfo. Il naso era piatto e le orecchie delle pinne curiosamente modellate a triangolo; nel centro della fronte, ma su un piano leggermente inferiore rispetto agli altri due, si ergeva un terzo occhio su una sottile e corta protuberanza, ma ciò non influiva sulla sua bellezza e avvenenza. Lo sguardo verde - grigio era cupo e severo, ma non rabbioso o in qualche modo alieno alla serenità. Ambo le spalle erano plasmate a rassomiglianza delle tipiche conchiglie dei paguri, sebbene con un’altezza proporzionale decisamente più bassa. Mani e piedi erano palmati e a cinque dita del tutto uguali a quelli elfi, o per meglio dire mano e piedi, in quanto il braccio sinistro terminava in una chela blu scuro.
“Razael Akkars, i miei omaggi.” lo salutò una volta vicino con voce affabile, inchinandosi leggermente. Razael si inchinò a sua volta, ma non disse parola.
“Io sono Delos Danul, rettore di Patmut Iun.” si presentò
“Piacere di conoscervi, Delos.”
“Il piacere è unicamente mio, Razael. Via, seguitemi.” e si avviò invitando con un gesto della mano lo stregone non per il cunicolo da cui era arrivato bensì per il primo a partire da sinistra. Razael fu colpito dal fatto che gli desse del voi. Nonostante il suo dizionario fosse meno ricercato, era molto più professionale e cordiale di Florus.
“Avete fatto molto parlare di voi, Razael. - parlava, procedendo lentamente ma deciso per il cunicolo al momento deserto - Non solo per ciò che avete portato di nuovo alla nostra conoscenza e alla nostra magia e con le vostre invenzioni…la bicicletta! - e qui alzò le mani al cielo con sguardo entusiasta - Quella è stata davvero un’ottima trovata, dovrebbero tutti venire a ringraziarvi a casa vostra, o una delle vostre, per averci consegnato questa ricchezza.”
“Apprezzo oltremodo questa vostra idea, ma non saprei accettarlo.” commentò Razael.
“Hm. - mormorò con tono appagato Delos - Non mi era giunta voce della vostra umiltà, ma credo che farete fama anche con essa. Ma non è per quella che vi ho condotto qui, né, come vi ho già detto, per le vostre innovazioni e nemmeno per la vostra simpatia per il Popolo del Vulcano.”
“Che cosa, dunque, vi ha portato a invitarmi in questo luogo segreto?” domandò interessato Razael
“Il vostro interesse per la conoscenza, Razael.” Delos si fermò e si voltò verso lo stregone.
“Forse non ve ne accorgete, ma esso trapela da voi in ogni vostra domanda e in diverse vostre considerazioni. Non prendetelo come un difetto: io approvo, apprezzo le persone che vogliono conoscere. Voi volete sapere sempre di più, dico bene?” non aspettò che Razael rispondesse.
“Anche noi gormiti vogliamo sapere sempre di più, almeno alcuni di noi. Ho pensato bene di condividere con voi le conoscenze conservate qui: nemmeno nella Biblioteca Silente potrete apprendere più sulla storia gormitica che a Patmut Iun. Inoltre, ho pensato di farvi sapere delle profezie. Proseguiamo.”
Ben presto il cunicolo si riempì di diversi gormiti, non solo marini, intenti a ‘leggere’ e ad analizzare o spolverare parole sulle pareti, non più grezze ma completamente livellate e levigate.
“Queste che vedete incise sui muri sono le profezie, lasciateci dai primissimi gormiti marini che hanno dato l’avvio a questa pratica. Da allora i gormiti hanno continuato a studiare le profezie e a scriverne di nuove.”
Il nome ‘profezie’ non piaceva granchè a Razael: astrologia e divinazione erano pratiche note per essere prive di fondamenta e anche malviste, ma era comunque interessato.
“Come funzionano le profezie?” domandò mentre continuavano a camminare tra i gormiti chini a leggere.
“Osserviamo le stelle, gli astri e i fenomeni atmosferici e geologici. Vedete, utilizziamo quel grande telescopio per esaminare il cielo” e indicò un largo cono scalato in un ampio spiazzo alla fine del cunicolo, sopraelevato di diversi piedi e dante su un’apertura del soffitto.”
“Ogni volta che la posizione degli astri è mescolata a un particolare fenomeno atmosferico o terrestre, avviene qualcosa di particolare. Annotiamo tali avvenimenti sulle pareti. E’ complicata da spiegare così su due piedi, ma basti sapere che ogni volta che la posizione delle stelle e i fenomeni corrispondono a una mescolanza già avvenuta in passato, gli eventi si ripetono in maniera più o meno simile.”
Razael non era molto convinto. Interessato, senza dubbio, ma il dubbio lo aveva sicuramente riguardo la veridicità di tali profezie.
“Sono davvero attendibili queste profezie?” domandò.
“Non del tutto, non sempre. - rispose con un sospiro Delos. Forse lui credeva nelle profezie, e aveva sospirato percependo la non credenza dello stregone - A volte sbagliano, ma a volte no: ti interesserà sapere che la tua venuta è stata profetizzata.”
Razael sussultò. Non riponeva tutta questa fiducia in tali profezie, ma già prima aveva constatato che c’era la possibilità di una forza superiore che aveva ordinato un progetto su quell’Isola. Se il suo arrivo era stato previsto, ciò sarebbe potuto significare che lui non era un’inesattezza nel progetto, bensì parte integrante di esso. Era il suo destino…?
Non saltare a conclusioni si disse Non hai mai creduto nell’oroscopo, perché crederci ora?
Ma ad ogni modo, voleva sapere che cosa diceva la profezia su di lui.
“Che cosa dice di preciso la profezia sul mio arrivo?” domandò quindi.
“Sarà meglio chiederlo al gormita che l’ha studiata.” Delos ribattè, e lo invitò a seguirlo presso un gormita piumato e grigio, a pochi passi di distanza.
Era il primo gormita aereo che poteva vedere da vicino e sentire parlare: nell’Arena di Astreg li poteva vedere solo combattere, con movenze eleganti e attacchi raffinati, da lontano e non ce n’era nessuno seduto vicino a lui.
Era chino, con le gambe piegate, e impegnato a spolverare frettolosamente la sua porzione di parete scritturata. Non sembrava a proprio agio in quel cunicolo buio e umido.
“Lo stregone Razael desidera sapere che cosa dice la sua profezia, Vega.” le si rivolse poggiandole una mano sulla spalla, alla quale questa si voltò un attimo, rivelando un volto femminile munito di becco azzurro. Poi rivolse nuovamente lo sguardo alla parete e parlò: “Ho comparato le stelle del giorno con quelle di sessanta anni fa e quelle di almeno tre secoli fa, che avevano visto la comparsa di un estraneo; la profezia è questa.”
Vega trasse un lungo respiro, le dita che seguivano, incollate, le parole scritte sulla roccia.
“Dalle coste dello sconosciuto est giungerà un araldo portatore di novità. Le sue rivelazioni e i suoi ammonimenti cambieranno per sempre la vita come la conosciamo, e il mondo intero non sarà più lo stesso.”
Epico alla massima potenza.
Il cuore di Razael pompava sangue a mille, accelerato il suo respiro, tale era la potenza, l’enfasi magica, esoterica, delle parole incise sulla pietra, quasi cantate dalla lirica, aulica voce della nobile gormita dell’ancora sconosciuta Aria.
Epico, ma pur sempre di una sciocchezza astrologica si trattava. Per quanto per alcuni di quei verbi, sì, si potesse dire essere verosimili, altri erano del tutto fuorvianti e assurdi – di che ammonimenti parlava? E cambiare il mondo intero!
No, non si sarebbe fatto abbindolare proprio ora da quella insulsa pseudoscienza che faceva fortuna sulle coincidenze e la dabbenaggine degli ingenui.
“E’ tutto ciò che avete in questo museo?” disse poi Razael, deciso a non far sì che la sua mente si facesse influenzare da stupide idee sul destino e sulle divinità, con un inconsapevole tono di scherno.
“Niente affatto!” saltò su, leggermente innervosito, e profondamente rattristito per la reazione dell’ospite, Delos.
“Queste profezie sono l’unica cosa che abbiamo del futuro: ipotesi sfocate e vaghe, che ci danno solo un’idea delle innumerevoli possibilità che il futuro ci tende e che ci offrono una preparazione per ciò che avverrà. Il futuro non è una cosa scritta, il passato invece sì. Dal passato possiamo apprendere molte più cose che dal futuro incerto. Seguitemi.”
Delos gli fece strada verso uno dei cunicoli che si dipartivano di fronte all’ampio spiazzo con il telescopio. Percorrendolo dal verso opposto, il cunicolo era già pieno di gormiti. Le pareti brune non erano però levigate e incise da scritte in gormitico, bensì scavate per dare forma a rudimentali scaffali, su cui erano posate tavole di pietra così come fogli di carta raccolti.
All’inizio del cunicolo non potè non notare dei dipinti, molto precisi e realistici quasi come fotografie, sebbene un po’ consumati e mancanti di alcuni pezzi. Erano raffigurazioni – o fotografie - di gormiti, di ogni Popolo. La prima alla sua destra era di un alto e aitante terricolo dalla pelle marrone che in alcuni punti si faceva più chiara: aveva una corporatura piuttosto elfa, finchè non notò la testa cornuta e priva di setto nasale. Alla sinistra, opposta al prestante terricolo, vi era immortalato un gormita della Foresta piuttosto…grasso, che presentava florescenze in punti piuttosto imbarazzanti…
I secondi gormiti immortalati erano, rispettivamente alla destra e alla sinistra del tunnel, un gormita aereo grigio e dalla testa e dalle ali di pipistrello, un gormita del Mare con sei corti e non troppo grossi tentacoli che si dipartivano dagli avambracci, tre per uno; reggeva una spada dalla lama obliqua.
L’ultimo gormita raffigurato, sulla sinistra era un vulcanico con due grossi bozzi forati sopra le spalle.
“Vi ho già detto che qui avreste potuto scoprire sulla storia di Gorm molto di più che consultando tutta la Biblioteca Silente. - parlò Delos - In quest’area di Patmut Iun troverete gli Annali di Gorm, le liste in tavole di pietra di tutti i Signori e i consiglieri che si sono susseguiti nel corso degli anni sin dall’istituzione della signoria, e le cronache, la lista di tutti gli avvenimenti politici e non più importanti della storia di Gorm. Purtroppo non dalle origini, poiché sono state istituite dopo.”
Ma vedendo che Razael era più interessato ai dipinti dei cinque gormiti, decise di parlargli di essi e di chi raffigurassero.
“Quelli sono gli immortalati dei primi Signori di Gorm. Terruman il guerriero, l’emblema e il modello per tutti i terricoli, Seilent l’oratore, che compensava la sua modesta bravura nel combattimento con la sua parola e la sua mente, Oceanix, che vedete lì brandire la Spada di Ghiaccio, ormai perduta da tempo. Yagu dell’Aria, un gormita piuttosto ambiguo e decisamente non il tipico gormita aereo. Bobordor, Signore del Vulcano: uno dei pochi che tentò di trattare pacificamente con gli altri Popoli.”
“Signore del Vulcano? - domandò Razael sorpreso - Credevo il Vulcano fosse governato da due Signori.” Raganels gliene aveva parlato, e ciò era così per la grande maggioranza numerica del Popolo del Vulcano nei confronti di un altro qualsiasi.
“E’ così adesso, ma non fu sempre così. - replicò Delos - Dal secondo Signore del Vulcano, morto ucciso secondo ciò che abbiamo trovato, si sono susseguiti Signori del Vulcano unici e in coppia. Ma oramai la formula del duo signorile sembra essersi stabilizzata: sono secoli che non sale al potere un gormita solo.”
 
Dopo essere uscito dal Museo della Ricerca Storica – rigorosamente e nuovamente bendato - Razael cominciò il suo insegnamento e i suoi apprendimenti per il Popolo del Mare.
Non potendo stare troppo a lungo dentro l’acqua, si costruì una modesta capanna sulla spiaggia, e da lì ogni giorno si dirigeva alla scuola media Mitiles per elargire più o meno le stesse conoscenze che aveva finora condiviso con i Popoli di Terra e Foresta. Gli sembrava ancora troppo presto per un insegnamento approfondito su biologia, chimica e magia; inoltre, voleva prolungare il più possibile la sua permanenza sull’Isola.
Si ritrovò, però, a insegnare meno di quanto fu in grado a Roscamar e nella Foresta Silente, poiché alcune delle sue conoscenze erano arrivate lì senza che lui ve le portasse personalmente.
Continuò il suo apprendimento della lingua gormitica. Non ci furono marini intenzionati a conoscere la lingua elfa ma ci furono molti desiderosi di apprendere la sua arte marziale personale, quella appresa da Magor.
Diverse volte si incontrò e passeggiò – o nuotò - con Raganels, e fu da lui che apprese la maggior parte di notizie sul Popolo del Mare.
Scoprì in primo luogo, ponendogli una domanda che ormai da tempo lo assillava, come i marini, vivendo in ambienti salmastri a contatto con alghe, pesci e molluschi di ogni tipo non…puzzassero mi sembra un po’ troppo grezzo ma il concetto è quello.
Raganels gli rispose parlando di un’alga subacquea, la trefoliea, i cui frutti producevano un sapone naturale e profumato, molto usato anche al di fuori del Mare. Tuttavia era difficile da coltivare e i marini erano costretti a ricavare il sapone da piante sporadiche cresciute da sole.
Razael aguzzò l’ingegno e, ritornando nella Foresta Silente, ottenne una delle polveri nutritive che i forestali usavano per nutrirsi, che aveva un potere rassodante. In questo modo Razael, con l’aiuto di Raganels e di altri marini interessati, riuscirono a tappezzare un piccolo campo in cui sarebbe stato possibile coltivare e crescere le trefoliee, anche se i risultati non sarebbero stati immediati.
Migliorò le tecniche di pesca dei marini – che, col tempo, non mancarono di condividere con gli altri gormiti - introducendo le nasse, già anticipate a Raganels, con cui i marini furono in grado di ottenere pesci più facilmente e senza troppa fatica e noia, immancabili nell’atto di sedersi su uno scoglio con una canna da pesca, attendere il passaggio di un animale e tirarlo su dall’acqua – anche se c’erano gormiti abbastanza esperti in grado di pescare i pesci con le mani, o addirittura con i poteri elementali.
 
Un giorno, uno dei due festivi nella decimana, dove i lavoratori normalmente si riposano, Razael, fresco di un bagno pulito con il sapone di trefoliea – amava il profumo che gli ricordava erbe di montagna - fu avvicinato da nientemeno che Raganels, emergendo di corsa fuori dall’acqua.
Per quanto fu contento di vedere il suo amico, fu anche contrariato dal modo in cui gli era comparso davanti e dal viso non sereno che aveva, cose che significavano che Razael aveva qualcosa da fare, era cercato o che in qualche modo doveva entrare sott’acqua.
E lui aveva appena fatto il bagno, non era nemmeno asciutto, e voleva passare buona parte della mattina festiva a friggersi al sole come una lucertola.
“Razael.” lo salutò, leggermente affannato.
“Raganels.” lo salutò, stendendosi sulla sua sedia e mettendosi il braccio sul viso per coprire gli occhi, dando segno di non voler affatto smuoversi da lì, soprattutto per andare a sporcarsi sott’acqua per poi doversi lavare di nuovo.
“Devi venire con me.” disse Raganels schietto. Nonostante il ‘devi’, non c’era nessun tono di ordine in quel che diceva, e Razael ne sorrise.
“Non credo.” disse asciutto.
“Devi, è importante.” ripetè Raganels, con tono più che di supplica piuttosto che di comando.
Razael non aveva per nulla intenzione di muoversi da lì. Si sentiva stanco e voleva rilassarsi un po’, come non aveva ancora fatto lì sull’Isola.
“Andiamo, Razael, è importante.”
“Senti, credo di aver fatto molto per quest’Isola. - ribattè con tono serio e del tutto sicuro di sé lo stregone - Molte delle mie conoscenze magiche, scientifiche, la bicicletta, la nassa…molto di questo gratuito. Ho bisogno anch’io di un po’ di riposo.”
“Non sei richiesto per dare, Razael. - affermò ora severo Raganels - Per avere, semmai. Il Signore del Mare vuole vederti, e fossi in te non disobbedirei il Signore che possiede la spiaggia in cui vivi e in cui ti stai comodamente crogiolando.”
Razael sbuffò, e si alzò di malavoglia dalla sua sedia.
“Se la metti così.”
Ancora bagnato e con un solo panno addosso, evocò tutte le formule per il suo viaggio subacqueo, con Raganels che guardava piuttosto appagato.
Insieme a Raganels si tuffò, diretto alla reggia signorile del Mare.
Era piuttosto lontana, e Razael dovette riformulare gli incantesimi e fermarsi varie volte. Fortunatamente la sua energia magica poteva sopportare ancora molto e non sarebbe certo collassato in mare, dove molti altri sarebbero, sottoposti a un simile sforzo e senza cibo.
Incontrò pure Delos, accompagnato dalla sua compagna Murena –una gormita con le braccia quasi uguali al collo e alla testa, con mani come fauci - , cosa che rallentò ulteriormente il suo viaggio.
Arrivarono infine alla reggia, ai confini del territorio del Mare. Nessun edificio era visibile dietro di essa, ma innumerevoli crescevano come funghi davanti a essa.
Era una torre, o un palazzo circolare. Non era altissimo ma era circolare e piuttosto stretto.
Bianco avorio, era decorato da bassorilievi a tema marino e ittico. La grande entrata di porta a due ante era sormontata da un grosso loculo circolare di vetro colorato, con un simbolo costruito di zaffiro che sembrava una caricatura di un’onda marina.
Entrò, preceduto da Raganels che sapeva evidentemente come aprire l’entrata della reggia, dove non c’erano maniglie, manopole o buchi per chiavi.
L’interno del piano terra era pieno di mezzi busti gormitici poggiati su colonne e dipinti appesi alle pareti che costeggiavano una scala a chiocciola.
Razael trovò l’esistenza di una scala sott’acqua piuttosto inutile, ma probabilmente aveva solo una funzione estetico - decorativa.
Nonostante ciò, salirono per i gradini, invece che semplicemente nuotare verso l’alto.
Al termine della scalinata, l’acqua lasciava spazio a una zona arieggiata e asciutta, e Razael potè finalmente annullare gli incantesimi che gli erano costati tanta energia e stavano per terminare.
Nel c’entro di quella zona si trovava un trono di pietra ricoperto di argento, con decorazioni ancora marine ma anche sculture metalliche raffiguranti tridenti, ai lati del trono.
Il Signore del Mare era un grosso gormita, reso ancora più imponente da una corazza grigio metallico che ricopriva torso, avambracci e tutte le gambe. Teste di tridente erano scolpite su tutte le componenti della corazza.
La testa era piccola e piuttosto anonima, con nessun elemento particolare, se non forse le labbra gialle, così come gli occhi.
Gialle erano anche le dita che uscivano dai guanti metallici, mentre tutto il resto era di squame blu elettrico sfumate verso un verde mare. Sulla schiena del Signore prorompevano quattro grossi tentacoli. Razael si domandò come realizzassero armature di quel tipo e di quanto potessero essere costose, dal momento che ogni gormita aveva una caratteristica particolare e unica e una corazza costruita per un gormita sarebbe stata probabilmente inadatta per un qualsiasi altro gormita.
Si ricordò in tempo, osservando Raganels, di fare il suo inchino alla figura del Signore.
“Alzatevi, alzatevi, tutti e due.” disse, facendo gesti con le mani e alzandosi egli stesso dal suo trono.
“Raganels, ti ringrazio per averlo portato qui.” disse rivolgendo un leggero sorriso al suo suddito.
“Non vi disobbedirei mai, mio Signore.” replicò.
“Non potrebbe essere altrimenti.” Questa frase non piacque a Razael.
“Razael, Razael Akkars.” disse poi, con le braccia conserte, guardando lo stregone severo mentre i tentacoli sulla sua schiena si dimenavano lentamente.
“Signore del Mare.” mormorò Razael chinando la testa.
“Raganels ti ha detto perché ti ho voluto qui?”
“No, mio Signore. Solo che voi volevate vedermi. Non mi ha nemmeno detto il vostro nome.”
Il Signore fu piuttosto sorpreso di tale rivelazione, e forse irritato.
“Questo è male. Dovresti già sapere il mio nome, vivendo nei miei territori senza nessun permesso formale.” lo sgridò. Quello, si convinse Razael, era uno di quei sovrani che amava governare e vedere i sudditi obbedire ai suoi ordini senza discussioni, e castigare chiunque discutesse.
Il Signore prese a camminare avanti e indietro con le braccia dietro la schiena.
“Il mio nome è Kraken, ad ogni modo, e ti ho condotto qui per un ringraziamento ufficiale.” disse poi
“Un ringraziamento per - ”
“Non mi interrompere! - lo troncò Kraken alzando la voce e temporaneamente bloccando il suo camminare  - Non ho finito!”
Riprese a camminare. “Dicevo, un ringraziamento formale…per ciò che hai portato ai gormiti del Popolo del Mare, oltre che a quelli di Terra e Foresta. Anche se non hai avuto alcuna autorizzazione per entrare nella mia terra e insegnare, le tue introduzioni sono state utili e voglio comunque offrirti qualcosa in cambio. So che Arriut, il precedente Signore della Terra, ha offerto la sua protezione nei tuoi confronti, e facendo ciò anche la responsabilità delle tue azioni. Posso offrirti anch’io questa tutela, se lo vorrai, o se desideri qualcosa di più materiale, fammelo sapere.”
Razael era onorato. Poco prima aveva parlato a Razael della gratuità dei suoi insegnamenti e quant’altro, ed ecco non un gormita qualsiasi bensì un Signore offrirgli una ricompensa!
Ma Razael non voleva ricompensa: otteneva già la sua paga come insegnante, e per quello che se ne faceva era ottima e forse più ricco di molti altri gormiti, e sarebbe stato disdicevole chiedere ulteriori pagamenti.
“Mio Signore, grazie ma non - ”
“Poche discussioni, stregone! - lo fermò Kraken, mettendosi a sedere sul trono - La tua umiltà è onorevole ma potrebbe rilevarsi malevola: qualcuno potrebbe approfittare di te, tienilo bene in mente. Forse all’offerta dei materiali per un varco spaziale non dirai di no.”
Razael ora era veramente sbalordito. Quel Signore era una figura abbastanza ambigua, e gli offriva niente meno che il biglietto di ritorno per Lacedimora.
“Non prenderlo come un mio desiderio di vederti abbandonare l’Isola. Però voglio offrirti qualcosa, e potrai opporti quanto vorrai, ma tu avrai una ricompensa, questo è sicuro.”
Razael era insicuro. Non era certo di voler veramente tornare a Lacedimora, di abbandonare forse per sempre l’Isola di Gorm e tutto ciò che nascondeva e che ancora attendeva lo stregone elfo, di riprendere tutte le attività che svolgeva nella città e di risolvere i problemi che dovevano essere sorti durante la sua assenza. Ma alla fine decise: quei materiali, che li avesse usati per tornare a casa o no, gli sarebbero stati utili.
“Accetto la vostra generosa offerta, Signore del Mare.”
 
Razael passeggiava tranquillamente per i sentieri della Foresta Silente. Vi era ritornato quando aveva saputo che erano giunti i Priori del Popolo dell’Aria a prendere l’Occhio della Vita secondo il ciclo. Non li aveva visti portarlo via, e si chiedeva come i gormiti pennuti dell’Aria avessero potuto entrare in acqua e prelevarlo: degli uccelli evoluti che entravano in mare senza complicazioni era l’ultima cosa che si aspettava. Ovviamente non tutti i gormiti dell’Aria erano pennuti, ma non si sarebbero immersi in acqua comunque con eccessiva facilità, e così nemmeno gli altri Priori non marini.
Ovviamente? Ne era davvero così sicuro? Tutti i gormiti visti fino a quel momento erano completamente diversi gli uni dagli altri, se non vagamente somiglianti, ma nessuno identico o divergente solo per pochi miseri particolari. Quella ricchezza e varietà estetica dei gormiti era strabiliante, e un argomento su cui Razael rimuginò parecchio, e su cui si sarebbe impegnato ancora molto. Come funzionava poi la riproduzione e la distribuzione dei caratteri, cosa permetteva a un gormita di avere un determinato aspetto piuttosto che un altro…ancora molto tempo doveva passare prima che Razael fu in grado di avere le sue risposte.
Razael aveva ricevuto quasi immediatamente i preziosi e rari – o almeno a Lacedimora - componenti per costruire un varco spaziale…e li aveva affidati a Raganels, nella sua piramide.
A differenza di quanto era accaduto nella Foresta Silente e a Roscamar, Razael non aveva affittato o comprato, né gli era stata data alcuna abitazione, ma ciò non era un problema: come aveva pensato quando Kraken glielo propose, voleva ritardare il più possibile il suo ritorno a Lacedimora, così lontana e così…caotica e in confronto a quell’Isola in quel momento così paradisiaca, così ricca e così misteriosa.
Lacedimora non era più una casa per Razael: la sua casa era ora lì, era l’Isola di Gorm. Queste parole si ripeteva veementemente in mente Razael mentre camminava verso le lontane pendici di Picco Aquila, come se non fossero vere o se fossero difficili da accettare. Sull’Isola di Gorm Razael aveva ottenuto in poco tempo ciò che a Lacedimora, nella Setturnia, gli era costato anni di sforzi, aveva stretto in pochi mesi amicizie e rapporti confidenziali con una facilità che nella sua città natale nessuno avrebbe mai sognato essere possibile e fattibile.
Su Gorm viveva spensieratamente, privo di obblighi o di chiodi fissi…eccezion fatta per l’Occhio della Vita, anche se non era veramente sicuro di desiderare ancora di prenderlo, toccarlo, analizzarlo; il suo viaggio per Gorm seguendo a ruota l’Occhio e i Priori si era tramutato, da metodo per tenere sotto controllo il sacro artefatto in una semplice routine, una sorta di unica osservanza nel suo interminabile viaggio turistico attraverso l’Isola misteriosa.
Se su Lacedimora c’era davvero qualcuno che teneva a lui e con cui aveva instaurato legami amichevoli, allora perché lui, lui che aveva sempre bramato di fare quel viaggio e scoprire nuovi orizzonti e che era lì di sua volontà, doveva tornare a casa per rassicurare i propri amici del suo benessere? Perché non potevano venire loro ad assicurarsi che stesse bene?
Razael era tuttavia molto insicuro, e nel formulare simili pensieri tralasciava particolari importanti, quali il pericolo che avrebbe corso chiunque avesse osato sbarcare su Gorm e le promesse che lui stesso aveva fatto a Lacedimora, nei confronti di Nadia e di Magor.
Chissà, forse un giorno sarebbe potuto tornare temporaneamente, conoscere il figlio di sua sorella e terminare l’insegnamento di Magor, per poi tornare a Gorm e vivere lì il resto dei suoi giorni, spezzando ogni vincolo che lo relegava ancora alla città elfa.
Lo stregone era ancora lontano dal giungere a una conclusione, e percorse buona parte del lungo tragitto dubbioso e incerto sul da farsi.
Il suo passo, invece, era tutt’altro che incerto: sapeva bene dove andare e come arrivarci. Per raggiungere Picco Aquila non era strettamente necessario incespicare nella folta foresta ancora poco familiare, gli era sufficiente camminare vicino alla costa priva di alberi e in un modo o nell’altro sarebbe arrivato al monte di Dalarlànd.
Scelse, come sempre, di non utilizzare la bicicletta, per quanto lungo potesse essere il viaggio. Gli unici vestiti che aveva erano decisamente inadatti ad essere usati per pedalare, e sarebbe parso ridicolo con il saio sulla bicicletta, come aveva già considerato in precedenza.
Mentre procedeva sul vasto sentiero in prossimità della spiaggia, a tratti sabbioso a tratti più solido, il cielo si rannuvolò, e cupi tuoni lontani cominciavano a rimbombare nell’aria che diventava umida. Il tempo sull’Isola era molto strano e, da un certo punto di vista, instabile. Tuttavia era uniformemente e sempre caldo, in maniera non eccessiva ma giusta, perfetta. Forse non proprio uniformemente, poiché nel deserto di Roscamar la temperatura era molto elevata. In quel poco tempo di suo soggiorno su Gorm, non sembravano essersi susseguite alcun tipo di stagioni o periodi climatici: sapeva tuttavia dell’esistenza di una stagione secca e di una stagione piovosa, quest’ultima agli inizi.
Quel giorno, comunque, non piovve. Almeno non in testa a Razael: continuando ad avanzare, ed incontrando ben pochi gormiti sul suo cammino, lo stregone era uscito dallo spazio nuvoloso e tetro ed era tornato in un cielo più limpido, sebbene non sgombro di nuvole e ventoso.
Proseguendo, l’alta e snella figura di Picco Aquila si faceva sempre più vicina e più grande, meno azzurra e più discernibile dal cielo che la offuscava. La sua cima, parzialmente coperta dalle candide nuvole, era un dente bianco e freddo, rivestito di neve dall’alba dei tempi. Neve.
Razael l’aveva vista e toccata poche volte nel suo tempo a Lacedimora e nella Setturnia in generale. Una volta era andato in viaggio con suo padre a Inverrith, e lì ce n’era a bizzeffe, sulle illimitate montagne che costituivano il paesaggio. Ma a Lacedimora di solito non nevicava, e nei dintorni della casa natale non l’aveva mai intravista, non era mai abbastanza freddo perché dalle nuvole zampillassero i cristallini fiocchi.
A quanto pare, sulla cima di Picco Aquila era freddo, e doveva essere freddo non solo in cima, anche in altre parti della montagna. Avrebbe dovuto procurarsi dei vestiti più pesanti.
Nel lungo viaggio si era portato un po’ di provviste e la sua scorta di sale nero, che non andava mai scemando, semmai diveniva sempre più sostanziosa. Aveva inoltre scoperto diversi suoi usi e le cause dell’estrema preziosità del cupo pulviscolo: era, in primo luogo, un insaporitore e un conservante naturale, e in secondo luogo una fonte di energia, sia per i gormiti che come combustibile per magie e macchinari.
Con varie pause, rari incontri e una camminata lunga e faticosa ma incessante, Razael era dunque giunto ai piedi della torreggiante montagna. Non era brulla come sembrava da lontano, con ingenti quantità di alberi che più si scalava il monte più erano conifere, tuttavia era anche piuttosto rocciosa e il terriccio tendente al grigio.
Il sentiero lineare che fiancheggiava la spiaggia lo aveva portato al capo di un altro sentiero, uno dei tanti, che si inerpicava su per Picco Aquila. Nessuna casa o edificio o capanna nelle vicinanze, né di forestali né di aerei.
Un gormita, invece, era presente, seduto comodamente su un masso grigio posto dinanzi il sentiero che dava alla vera dimora del Popolo dell’Aria.
Che era presente un gormita nelle vicinanze Razael l’aveva capito subito: da un po’ di minuti gli stavano giungendo alle orecchie melodie di uno strumento musicale, che sicuramente non sgorgavano dall’anello magico posseduto dal gormita incontrato al primo arrivo nella Foresta Silente.
Tali melodie provenivano infatti dall’armonica che il gormita azzurro cielo era intento a suonare delicatamente, muovendo dolcemente le mani e portando con certa flemma lo strumento alla bocca.
Stette ad ascoltarlo davanti a lui per qualche secondo: il gormita non sembrava essersi accorto di lui, poiché continuava a suonare con gli occhi chiusi.

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Capitolo 8
*** Capitolo 2.5 ***


Aveva, come già detto, una pelle azzurra ricoperta di leggero pelo, mani di tre dita che dall’azzurro della pelle tenera diventavano blu scuro più duro e una testa come quella di una formica, - con l’eccezione della bocca che era ‘elfa, seppur più larga - con degli strani capelli bianchi che la circondavano, ma solo in basso e sulle basette.
Altri particolari del suo aspetto non potevano essere colti, poiché gran parte del suo corpo era ricoperto da una lucida corazza nera, sebbene con alcuni ritagli scalfiti e macchiati.
Il guscio posteriore, simile a quello di una coccinella, che conteneva le ali, sebbene non del tutto visibile, poteva affermare essere grigio e non ricoperto di armatura.
Alla fine aprì gli occhi verdi luminosi, e si accorse della presenza di Razael. Smise di suonare la sua melodia, ma non tolse di bocca l’armonica.
Fissò Razael in silenzio con le mani fisse sull’armonica, l’armonica fissa sulle labbra. Razael lo fissava in ricambio, incapace di rompere quella strana situazione.
Il gormita riprese a suonare, continuando a fissare lo stregone elfo con un’attenzione difficile da spiegare. Razael spalancò la bocca stupito, non aspettandosi affatto un simile comportamento.
Alla fine Razael scosse la testa e si decise a parlargli.
“Scusa, sai dirmi come posso arrivare alla sede del Signore dell’Aria?” chiese tutto d’un fiato.
Il gormita non rispose subito: “Lo stregone Razael, immagino.” Questi non fu in grado di annuire o fare altro che quello continuò: “Sì, ti posso portare. Seguimi.”
Il gormita azzurro si alzò dalla bianca rocciosa sedia, si voltò verso il sentiero, tenendo stretta l’armonica in mano e prese a camminare.
Razael lo seguitò rapido.
Il cammino fu piuttosto lungo e, per un certo periodo, privo di incontri. Attorno solo alberi, rocce e, di tanto in tanto, qualche animale, diversi dai quali mai visti da occhio elfo. Il sentiero era irregolare, a volte lineare a volte ripido, ma completamente in salita e, i piedi di Razael ringraziano, non tortuoso bensì…come dire, livellato: come se qualcuno si fosse dato da fare –e si desse ancora da fare - a tenere il sentiero pulito e facile da percorrere per chiunque lo calpestasse.
Ad un certo punto cominciarono a spuntare, ai lati del sentiero, tra gli alberi, svariate case, piuttosto isolate ma certamente più grandi delle capanne di pietra delle Terra e delle piramidi marine. Erano decisamente molto simili alle case coi tetti spioventi ripieni di tegole che i ricchi elfi della Setturnia potevano permettersi, e finemente decorate e rifinite, alcune dipinte anche di diversi colori, per lo più freddi e opachi.
Ma gli aerei si facevano vedere poco e Razael non potè vedere molto di loro lungo il sentiero.
Si facevano sentire poco, anche, e la guida di Razael non era da meno: sin da quando accettò di accompagnarlo non aveva proferito parola, sospiro, suono né aveva accennato a canticchiare o a riprendere a suonare l’armonica come si era aspettato. E Razael temeva di disturbarlo rompendo il silenzio: in fondo quel gormita era già stato disturbato, e se non fosse per lo stregone se ne starebbe comodo e tranquillo a suonare.
Infine Razael si ritrovò in una zona più ampia del sentiero dove c’erano molte più abitazioni, e circolavano, per quanto pochi e silenziosi, diversi gormiti dell’Aria dalle più svariate forme: uccelli rapaci, uccelli pescatori, diversi dalle sembianze di insetti, altri che nulla avevano a che fare con esseri viventi conosciuti a Razael.
Intravide primo tra tutto il tempietto dell’Aria, bianco come la neve, con l’Occhio della Vita fluttuante sul tronco nel centro.
“Sei arrivato, stregone. - disse le sue prime parole da diverso tempo il gormita guida - Ora ti lascio.”
Prima che Razael potesse dire qualsiasi cosa, il gormita spalancò le sue ali, proprio come quelle di una coccinella, si voltò e volò via spedito.
Almeno era arrivato. Oppure no. C’era il Tempietto della Vita, era vero, però nessun segno di sede del Signore, e dato il silenzio che condividevano tutti i gormiti presenti, che non lo degnavano di uno sguardo, Razael si sentiva ancora meno capace di proferire parole a qualcuno.
Ma per fortuna era abbastanza grande e in vista perché Razael lo vedesse: nell’ampia piazza, oltre alle diverse case più o meno larghe, al centro si ergeva un maestoso palazzo dipinto di azzurro lucido. Era più che altro una normale casa aerea ridimensionata e molto più ricca, magari con qualche piano in più, a giudicare dalle diverse paia di balconi. Presentava diverse sgargianti vetrate e un colonnato che la circondava tutta, compreso un corto corridoio esterno che portava all’interno del maestoso edificio. Timoroso ma con null’altro da poter fare, procedette tenendo ben stretto il suo bordone verso il corridoio. Ai lati della sua entrata vi erano due sculture astratte di bronzo, raffiguranti una qualche specie di simbolo.
 
Entrò, e percorse con attenzione il colonnato, mettendosi il cappuccio sopra la testa dal timore.
Salì una scalinata e si trovò davanti due guardie armate di picche che gli diedero una ben rapida occhiata e lo lasciarono varcare la soglia.
Fu subito pervaso da una soave musica e da un dolce profumo che insieme inondavano la spaziosa stanza pressoché vuota di gormiti ma piena di statue, mezzi busti e dipinti paesaggistici appesi alle pareti. Solo tre gormiti erano presenti, all’estremità opposta della stanza, al centro di due scalinate che salivano su ai loro lati. Uno era seduto su un trono, chiaramente il Signore dell’Aria, gli altri erano ai suoi lati, uno imbracciava ciò che sembrava una lira e l’altro un tamburello. Entrambi cantavano. Finora, quella dei gormiti dell’Aria sembrava una cultura raffinata e silenziosa, che amava l’arte e la musica. Razael coglieva qualche parole di ciò che suonavano ma, essendo stato il gormita guida ad aver attivato l’incantesimo di traduzione, non fu in grado di coglierne appieno il significato e anche se fosse stato attivato da lui e ancora in funzione non sarebbe stato di grande utilità: le canzoni tradotte magicamente non erano del tutto piacevoli.
Ad ogni modo, si avvicinò spedito al trono del Signore e si inchinò. Questi appena lo vide fece segno ai suoi musici di interrompere.
Era un gormita abbastanza…schietto. Non indossava armature o vestiti eleganti e non portava niente addosso, e dalla faccia bianca con piume gialli simile al volto di un upupa si vedeva che non era uno che amava il lusso della Signoria, o almeno non quanto Kraken. Tutto il suo corpo era composto e colorato allo stesso modo, con penne bianche tendenti al giallino e mani e piedi cornei gialli tutti da tre dita uncinate. Le ali piumate, staccate dalle braccia e sporgenti dalle spalle, erano invece violette e poco ampie.
“Ah, siete dunque venuto anche a visitare noi silenziosi, Vecchio Saggio!” gli diede un rapido benvenuto con un singolo applauso, affibbiandogli un titolo nuovo che a Razael non piaceva troppo.
“Vecchio…saggio?” ripetè Razael, toccandosi mento e fronte, come per verificare qualcosa “Sembrò così vecchio?”
“Non so se per la tua gente voi siate giovane, ma a chiunque vi abbia conferito questo nome non lo sembrate. - spiegò il Signore - Se non è di vostro gusto, posso fare qualcosa…” si offrì generoso
“Vecchio Saggio…” ripetè ancora una volta Razael. Considerò quel nome e l’abbandono della sua identità come Razael Akkars: se non fosse stato più Razael Akkars ma semplicemente il Vecchio Saggio sarebbe divenuto irrintracciabile e avrebbe completamente reciso i legami con la società elfa, una volta conclusi tutti i suoi doveri.
“Non è un malvagio soprannome. - considerò - Sì, credo che mi descriva piuttosto bene anche…forse è meglio che Razael o naufrago, come alcuni ancora mi chiamano.”
“Come desiderate, Raza…Vecchio Saggio.” approvò le idee di Razael il Signore, con un inchino di accettazione.
“Ad ogni modo. - continuò alzandosi - Io so il vostro nome e soprannome, ma voi non sapete il mio: sono Acinces Puerisi, Signore dell’Aria.”
“E’ un onore conoscervi, mio Signore.” si inchinò nuovamente Razael.
“Ed è per me un onore avervi qui: le voci sulla vostra conoscenza, sui vostri insegnamenti e le vostre innovazioni sono giunte da noi non molto tempo fa, e non solo le voci sono arrivate ai nostri occhi e alle nostre mani. Troverete che tutto ciò che avete insegnato di nuovo ai nostri fratelli è stato integrato ed insegnato nelle nostre scuole, e non solo. Sempre che non abbiate insegnato qualcos’altro lungo il cammino qui, eh eh.”
“Dite davvero? - domandò sorpreso il Vecchio Saggio - Tutto insegnato? E che cosa farò io qui?”
“C’è molto di bello da fare su Picco Aquila, molto da vedere e scoprire. - rispose Acinces, senza modestia - E’ una grande montagna ricca di attrazioni. E dubito che voi abbiate esaurito le vostre conoscenze, e noi abbiamo pur sempre qualcosa da condividere con voi, ci scommetto.”
 
Si congedò dal Signore Acinces, non prima di essersi fatto dare le indicazioni della più vicina scuola, primaria o secondaria che fosse.
Camminò, questa volta non più con velato timore ma abbastanza disinvolto, per il corridoio colonnato, più affollato – credo sia esagerato - che in precedenza.
Doveva essere circa ora di pranzo, e Razael, il Vecchio Saggio, avrebbe dovuto cercare anche qualche osteria in cui rifocillarsi, e avrebbe, molto probabilmente, dovuto aspettare il giorno seguente per poter assistere a una lezione scolastica di qualsiasi scuola.
E, se era sua intenzione sostare lì nello stesso modo in cui era sostato nei territori di Terra, Foresta e Mare, era d’uopo affittare una piccola e discreta casetta, sempre che qualcosa di simile a una ‘piccola e discreta casetta’ esistesse lì, dove le case erano tutte piuttosto ampie e riccamente – e costosamente - decorate.
Prima di potersi dirigere a uno qualunque dei due edifici o a cercare qualcuno da cui affittare un’abitazione, fu avvicinato da un gormita.
Lo vide, ritto e risoluto come se lo aspettasse, appena fuori dal corridoio, immobile mentre i pochi altri gormiti aerei camminavano per le loro vie.
Si accorse che era lì per lui quando notò che lo stava fissando con i suoi grandi occhi blu notte e, quando i loro sguardi si incrociarono, il gormita lo invitò ad avvicinarsi con un movimento del dito.
Era un gormita di una certa stazza, sebbene alto quanto Razael, ricoperto quasi interamente di piume bianco panna, sebbene avambracci e le gambe, dal ginocchio in giù, fossero spoglie di penne, di un blu opaco. Il becco e gli artigli di mani e piedi erano rosso magenta e le ali di dimensioni piuttosto modeste, bianche come tutto il resto del corpo coperto di piume.
Non portava corazze o abiti di alcun genere, aveva però legata alla vita una cintura nera con diversi accessori attaccati, e aveva due bracciali argentati ai polsi.
Razael si avvicinò incerto ma interessato allo strano gormita.
“Salve, io sono Grifon. - si presentò - Tu devi essere Razael.”
“Vecchio Saggio. - lo corresse lo stregone, al che tale Grifon inarcò un sopracciglio - Preferirei essere chiamato in questo modo, d’ora in avanti.”
“Come vuoi, Vecchio Saggio. - ripetè Grifon, gesticolando per passare a un altro argomento - Mi hanno detto che tu sei un esperto stregone, uno dei migliori, addirittura il meglio della tua specie, è così?”
Razael volle rispondere immediatamente ‘sì’, ma poi si fermo a riflettere. Della sua bravura nell’arte magica si era parlato, ma lui non si ricordava di aver mai detto di essere il migliore stregone elfo, lui era troppo umile per ammettere una cosa del genere così liberamente, e non ne aveva motivo. Pensò che fosse solo una congettura del gormita, una congettura o un elogio forse con qualche fine che il Vecchio Saggio ancora non coglieva.
“Sì, dici bene.” ammise infine.
“Immagino tu sappia che noi gormiti del Popolo dell’Aria siamo molto esperti nella magia.” continuò con tono e occhiata di sfida.
Il Vecchio Saggio lo guardò di sottecchi severamente, cercando di capire dove volesse arrivare e di non mostrare debolezza.
“L’avevo immaginato…ne ho sentito parlare.”
“Quindi, se sei davvero bravo come dicono… - cominciò a proporre Grifon, con una voce che esprimeva una profonda sicurezza - Non dovresti avere alcuna paura ad accettare una sfida di magia contro di me.” e qui alzò la voce, attirando l’attenzione dei gormiti in prossimità.
Sfida di magia! Il Vecchio Saggio certo non temeva una sfida in ciò in cui eccelleva…almeno fino adesso: gli standard di abilità magica elfi, lo aveva già confermato, non erano proprio uguali a quelli dei gormiti, e avrebbe potuto perdere anche clamorosamente contro Grifon, cosa che lo avrebbe segnato di umiliazione per molto tempo. Ma declinare la sfida sarebbe stato ancora più disonorevole e umiliante.
“E sia, Grifon. Non temo sconfitte in ciò in cui sono più bravo.” accettò con entusiasmo lo stregone.
Il becco di Grifon si contorse in un beffardo sorriso: “Eccellente.” Estrasse una bacchetta dalla sua cintura e la fece roteare per un po’ tra le dita. “Vuoi combattere qui?”
“Come? - chiese con tono di scherno lo stregone, ormai preso dall’imminente sfida - Hai forse paura che ti vedano perdere?”
Grifon rimase zitto per qualche secondo, chiaramente sconfitto sul piano verbale, poi ribattè e la sua forza delle parole si rialzò un po’: “Niente affatto, ho solo paura che le mie arti magiche possano ferire qualcuno dei miei compagni.”
Puntò con decisione la sua bacchetta, fingendo di scagliare un incantesimo, al che Razael sobbalzò leggermente.
“Hai davvero intenzione di sfidarmi con quello stelo? - lo derise - Da me le bacchette si usano per imparare la magia a scuola. Questo, invece, - e strofinò il suo bordone - si usa per la magia potente.”
“Sii forte quanto vuoi, Vecchio Saggio. - replicò Grifon - Ma il mio ‘stelo’ sarà molto più preciso del tuo legno da camino. Più preciso, e più letale.”
E lo scontro vero e proprio cominciò, con una minuta folla di aerei che osservavano silenziosi, silenziosi come i due sfidanti, che pronunciavano gli incantesimi a mente.
Grifon attaccò per primo: un getto azzurrino proruppe dalla sua bacchetta, diretto al bordone.
Razael sentì il bastone vibrare e sfuggirgli dalla mano, ma strinse forte e impedì che il bordone gli volasse via.
Un incantesimo di disarmo? -  commentò il Vecchio Saggio - per fortuna non era un problema la potenza del bordone, eh, Grifon?
Grifon si muoveva agilmente, avvicinandosi adagio a Razael per sferrargli un colpo di potenza in prossimità.
Il Vecchio Saggio contrattaccò, incurante dei movimenti dell’avversario e sicuro che il fuoco d’azione del prossimo incantesimo non l’avrebbe mancato.
Una specie di getto di vapore molto ampio fuoriuscì dallo smeraldo del bordone, che investì in pieno Grifon colto incapace di evitarlo. Grifon si immobilizzò e tremò, con della brina comparsa improvvisamente sulle sue penne.
Con estrema agilità, precisione e indifferenza all’incantesimo congelante in pochi secondi Grifon aveva la bacchetta rigida al suo bersaglio e un colpo d’impatto, una sfera di aria compressa, raggiunse a velocità elevate il Vecchio Saggio, sbilanciandolo e scagliandolo a terra.
Grifon si lanciò in volò sul corpo abbattuto dello stregone, pronto a scagliare un incantesimo definitivo, ma non riuscì nemmeno a percorrere metà della distanza che li separava che si ritrovò bloccato in un campo di forza sferico.
Non sorpreso, prese con calma il tempo di rompere la barriera con un suono di vetro infranto mentre Razael tornava in azione con un balzo. Non appena l’avversario elfo parve contrattaccare, Grifon ripetè il colpo d’impatto: non aspettandosi lo stesso incantesimo, Razael ne fu travolto e atterrato nuovamente.
Nei pochi attimi che il Vecchio Saggio impiegò per rialzarsi ancora, leggermente dolente, Grifon eseguiva rapidi gesti circolari con la mano, gesti e movimenti che normalmente precedevano gli incantesimi più potenti e impegnativi.
Proprio quando Razael fu di nuovo in piedi, Grifon dimenò rigido il braccio dinanzi a sé con il palmo aperto, e dal cerchio che aveva disegnato in aria esplose un fascio circolare di fuoco, con Razael come bersaglio.
Una magia così…distruttiva? - si disse il Vecchio Saggio - Vuole davvero fare le cose in modo così serio?
Il Vecchio Saggio si librò in volo con la magia, evitando la nube di fiamme che continuava a seguirlo con balzi svelti in aria. Non aspettò nemmeno di arrivare troppo vicino a Grifon per attaccarlo con un incantesimo che avrebbe tolto la sua concentrazione dal fascio infuocato, molto pericoloso.
Non appena ne fu pervaso, piegò le ginocchia e digrignò il becco, in preda a un grande dolore fisico, e in un primo momento mantenne il suo circolo di fuoco, ma alla fine cadde preda dell’incantesimo e si accasciò a terra con le mani sul ventre, mentre il fuoco bruciava e svaniva in aria. Si riprese poco dopo, ma ancora visibilmente scosso.
Ancora in volo, Razael, per quanta bontà potesse avere, approfittò del dolore inflitto per prendere possesso del suo corpo e sbatterlo al suolo più volte. D’altra parte Grifon aveva proposto la sfida, e sapeva a cosa andava, o a cosa poteva andare incontro.
Al primo tentativo, Grifon tentò di evadere dall’incantesimo dello stregone, ma la presa del Vecchio Saggio era troppo forte e Grifon non fu in grado di tenere il suo corpo ancorato al suolo.
Ciò nonostante, Grifon colse l’occasione a suo vantaggio: mentre Razael lo alzava e lo abbassava, il gormita dell’Aria sferrò degli incantesimi, sicuro di colpire lo sfidante che non si sarebbe aspettato che un nemico sbatacchiato al suolo potesse avere abbastanza concentrazione per ulteriori attacchi, e attacchi potenti.
Con grande stupore da parte di Grifon, il Vecchio Saggio se ne accorse e, ancora volando e con il controllo del corpo di Grifon, evitò i colpi, colpi di un incantesimo che Razael non riuscì a riconoscere e che, fortunatamente, non seppe mai fino alla fine dell’incontro.
Dovevano comunque essere colpi di un incantesimo impegnativo, a giudicare dal viso colmo di sforzo del gormita aereo. O forse era affaticato per il fatto di essere stato sbattuto al suolo per tre volte, o forse ancora era scosso da come Razael riuscisse a mantenere il controllo magico su Grifon, continuare a volare magicamente e allo stesso tempo evitare i colpi. Una forza di concentrazione eccezionale, che certo derivava dalla copiosa forza magica che aveva reso Razael uno dei migliori stregoni di tutta la storia elfa.
Infatti, mentre Grifon sembrava affaticato, il Vecchio Saggio era ancora fresco, un po’ sudato, certo, ma ancora attivo e attento.
La sua attenzione ebbe tuttavia un improvviso calo: Grifon, infatti, evase dal controllo dell’elfo e si preparò con un grido gracchiante a un poderoso incantesimo…un incantesimo che però non vide la luce del sole. Il Vecchio Saggio compensò presto per la sua precedente diminuzione di concentrazione e si avvicinò a Grifon in una frazione di secondi, toccandolo con la punta del bordone, immobilizzandolo: mettendolo in stasi.
E’ allo stremo delle forze, o giù di lì - si disse il Vecchio Saggio - meglio terminare questa sfida prima che si faccia troppo male.
Prese le giuste precauzioni e, prima che la stasi terminasse, Razael lo accecò con una magia che invase di luce la zona attorno Grifon e poi, indirizzando il bordone prima al suolo, poi al cielo e poi di nuovo sul suolo, lo colpì con due scariche elettriche. Questi due ultimi colpi alzarono della polvere. I gormiti tutt’attorno, pur nel loro silenzio, trasecolavano dalle loro mute espressioni il loro stupore e, forse, sportiva ammirazione nei confronti di Razael.
Quando la polvere svanì, Grifon era lì a terra, ansante e dolorante.
Il Vecchio Saggio, sicuro ormai di avere la vittoria in pugno, battè con decisione il suo bordone al suolo, l’altra mano sul fianco, lo sguardo serio che cercava gli applausi, i cenni, le occhiate o qualche nota da parte del pubblico che dichiarasse che la sfida era conclusa con lui vincitore.
Grifon alzò la testa, ancora al suolo. Non voleva perdere, non avrebbe mai ammesso una sconfitta: non aveva proposto quella sfida per perdere. In un modo o nell’altro, avrebbe vinto. Razael lo vedeva chiaramente, pur discretamente lontano.
Un ultimo, falso e disdicevole tentativo da parte di Grifon: di forza magica era ormai agli sgoccioli, ma ne aveva altra per altri tipi di attacchi.
Il Vecchio Saggio sentì la sua mente avvicinata con prepotenza dalla mente di qualcun altro, un’essenza dalla superficie fredda come la morte, che nascondeva al suo interno un calore immenso.
Sentì, non concentrato, nella sua testa, non preparata a un simile assalto dopo lo scontro, un chiodo gelido come il ghiaccio penetrare nel legno marcio.
La forza della psiche di Grifon, nonostante i colpi subiti e lo stato attuale, era estremamente potente. Quella di Razael, invece, era, come già detto, non apprestata a un attacco mentale.
Perché doveva esserlo, in primo luogo? Quella era una sfida magica, dopotutto, Grifon lo aveva dichiarato bene, perché aspettarsi un assalto alla mente?
Qualunque fosse l’intenzione di Grifon, Razael lo ignorava. Chiunque con un briciolo di esperienza nella magia, più tardi, qualsiasi le eventualità di quell’insana azione, avrebbe potuto affermare che Grifon lo aveva attaccato mentalmente, disobbedendo quindi alle regole che lui stesso aveva emanato, giocando sporco e sporcandosi senza dubbio la reputazione.
Ma scoprire le sue intenzioni era secondario, se non superfluo. Razael doveva espellerlo dalla sua mente: la forza di Grifon era grande, e il Vecchio Saggio dovette faticare prima di acquisire la forza e la determinazione necessaria per contrattaccare.
Grifon, sconfitto anche su quel fronte, lasciò cadere la testa all’indietro, sulla dura terra.
“Questa sfida è conclusa. - esclamò Razael, con gli occhi sbarrati - E’ andata ben oltre ciò che doveva essere.”
 
Il Vecchio Saggio si ritrovava in una buia caverna. Bordone a terra, insieme ad altri oggetti e in particolare una pentola di rame.
Subito dopo lo scontro con Grifon, se ne era andato lasciando tutto e tutti dietro di sé, diretto ai mercati più vicini…per comprare dei particolari elementi.
La sfida magica, nel complesso, era andato più che meglio: Razael si dimostrava un abile stregone anche nei confronti dei gormiti, e sarebbe potuto sopravvivere sull’Isola grazie a quell’abilità.
Ma ciò che seguì la sfida, il vano e apparentemente immotivato tentativo di Grifon di entrare nella sua mente e farlo soccombere lo avevano profondamente scosso.
Quando sentì la fredda lama della mente di Grifon entrare nella sua, impreparata, aveva avuto paura. Paura di morire. Una seria paura, di cui non riusciva a capire le ragioni.
Grifon, in quell’atto di disonestà, aveva forse avuto possibilità di carpire i veri sentimenti di Razael nei confronti dell’Occhio della Vita, e ciò sarebbe stato pericoloso, ma tutto qui: Grifon, per quanto scorretto, non l’avrebbe ucciso, sarebbe stato da pazzi.
Eppure, la paura della morte lo aveva colto, e ancora scorreva dentro di lui. Quello era accaduto durante una sfida, davanti a un pubblico di amici, o comunque non di nemici.
Ma se la mente di Razael fosse stata impreparata nel mezzo di una battaglia, contro un avversario, avrebbe corso rischi seri.
Aveva dunque scelto di preparare un elisir di lunga vita.
Una decisione stupida e insensata, è vero. Gli avrebbe allungato la vita, ma non l’avrebbe protetta dalla morte. Eppure, bere il magico succo che rallentava l’invecchiamento gli dava un senso di sicurezza, la sensazione di essere ancora padrone della propria vita e che nessuna persona gliel’avrebbe portata via prima del tempo.
Non era la prima volta che lo preparava e lo beveva. Già due volte era successo in passato.
Quando, a sedici anni, aveva fermato con le sue mani e solamente con la propria forza magica uno squadrone di zoari che voleva attaccare Lacedimora. Quello era stato forse lo sbaglio più grande della sua vita: prendere un elisir prima dell’età matura!
Ma era stato spinto, come adesso, dalla paura della morte, e, al contrario di altri, poteva permettersi i costosi ingredienti.
La seconda volta fu a seguito del suo esperimento con la Camera del Tempo. Le motivazioni erano meno serie, se così si può dire, ma sicuramente più giustificate: vivere a lungo per poter eseguire ancora innumerevoli esperimenti di quel genere, per aiutare tutto e tutti.
E ora, era giunto a una terza volta. Aveva cercato per tutto il giorno gli ingredienti, senza venire sospettato di nulla: l’elisir non era noto su Gorm.
“Se voglio davvero scoprire tutto su quest’Isola, meglio vivere a lungo.” si disse, convincendosi che fosse quella la vera ragione per la sua scelta.
Mescolò il tutto, pronunciando le varie formule tra una pozione e un’altra, e infine trangugiò.
 
Il giorno seguente si recò alla scuola le cui indicazioni gliele aveva date Acinces.
Non parlò con nessuno di ciò che era successo con Grifon, né tantomeno di dove era stato la notte e di cosa aveva fatto con tutte quelle erbe e quelle polveri. Fortunatamente gli ingredienti dell’elisir di lunga vita erano abbastanza comuni, per gli elfi così come per i gormiti, visti i loro vari usi, magici e non.
Sorprendentemente ci fu, tuttavia, qualcuno che gli fece qualche svelta domanda, ma il Vecchio Saggio Razael rispondeva in maniera enigmatica o non rispondeva affatto.
La scuola secondaria in cui si recò era veramente raffinata, in tutti i sensi.
Gli insegnanti erano educati, parlavano forbitamente, così come gli alunni, composti, gentili e silenziosi.
Nelle scuole in cui era stato a Roscamar e nella Foresta Silente gli alunni erano…variegati, con picche di perfetti studenti modello e bulli agitati e nullafacenti, con insegnanti al più bravi sia nell’insegnamento che nel comportamento ma anche alcuni non proprio competenti o sociali.
In questa scuola, invece, tutti erano perfetti, gentili, raffinati, educati.
Ciò che lo sorprese di più furono le materie insegnate: si prediligeva l’arte in tutte le sue forme, pratiche e non, la musica, la letteratura, la storia, la magia. Le scienze e la matematica erano messe in secondo luogo, ma comunque anch’esse approfondite. L’attività fisica era limitata all’atletica leggera, ma c’erano corsi di ballo pomeridiani.
Spettacoli orchestrali, mostre di opere studentesche, gare di poesia, concorsi musicali erano all’ordine del giorno in quella scuola, e nelle altre, come si era fatto dire dal dirigente.
Purtroppo, ciò che aveva detto Acinces riguardo gli insegnamenti di Razael giunti fin lì era vero: sapevano tutto ciò che egli aveva insegnato durante i suoi precedenti soggiorni nei territori di Terra, Foresta e Mare. La magia, l’asso di Razael, era ben nota agli aerei come il palmo delle loro mani. Erano i maestri indiscussi di incantesimi e forza magica, e ciò grazie a qualcosa di cui andavano ben fieri, attribuendone l’origine alla volontà divina di Praconrem: le tavole della magia rinvenute nelle caverne di Picco Aquila, la cui scoperta segnò una vera esplosione di invenzioni magiche su Gorm, e in seguito anche una guerra a livello insulare. Razael conosceva bene questo tipo di tavole, di archivi magici, sparsi, essi o i loro resti, su tutto il mondo conosciuto, su cui ogni razza era dipesa per lo sviluppo della propria conoscenza magica, sulla cui origine circolavano un mare infinito di racconti mitologici. Un mistero insondabile anche oggi.
Aveva sì altri particolari e argomenti da insegnare, ma erano più che altro di materia scientifica, e dal momento che quella materia non era molto riguardata o interessata, non gli sembrò opportuno condividere quelle conoscenze – che ancora nessun gormita aveva ricevuto - proprio lì.
Alla fine, per quanto musica, scultura, pittura e poesia potessero piacergli, il Vecchio Saggio non era certo giunto a Picco Aquila per sedersi e ascoltare ballate o criticare dipinti.
Decise di fare una sorta di piccola ‘meditazione spirituale’ nella Chiesa di Colle Vento, dove era custodito un oggetto ritenuto magico e sacro, il Cristallo Volvorot, ospitato presso i Priori dell’Aria, per scoprire di più su ciò che ancora non conosceva molto bene: la religione dei gormiti.
La vita monastica dei Priori era piuttosto…povera, come da regola per chi opera in nome di una fede religiosa.
Nel tempo libero, cioè quando non coltivavano i campi e non si curavano degli animali che li sostentavano, i Priori leggevano e copiavano libri e manoscritti, oppure cantavano le gesta delle divinità.
Anche durante le processioni, che si tenevano sia all’interno della chiesa che fuori, a cui partecipavano i fedeli non Priori si cantava. Durante tali processioni prendevano parola sei Priori che avevano tutti la stessa importanza: sia che parlassero o che cantassero, non ce n’era uno che desse aria alla bocca più di altri, ma tutti terminavano la frase dell’altro, tenendo ben dritti nella mano sinistra i loro bastoni bianchi.
Il Vecchio Saggio rivolse diverse domande ai Priori, prima riguardo la vita e i modi dei Priori poi sulle divinità gormitiche e le loro concezioni di aldilà, di vita e quant’altro.
“Noi Priori siamo credenti nelle Somme Forze e nei loro figli che dedichiamo tutta la nostra vita in nome della fede in loro e della guida di tutti i credenti.”
“Perché gli occhi azzurri luminosi, i mantelli e i bastoni?”
“Gli occhi sono il nostro simbolo. La loro luce è l’emblema della nostra condizione, è ciò che ci contraddistingue dal comune credente. Gli accessori sono la nostra unica proprietà: usiamo i mantelli per nascondere i nostri corpi che in precedenza abbiamo usato per scopi mondani, e per renderci tutti uguali agli occhi delle Somme Forze. I bastoni sono bordoni consacrati ai riti sacri: non possono essere usati per magie che non facciano parte di rituali.”
“Potete avere figli, o famiglia?”
“Sì. Se vogliamo continuare a vivere, dobbiamo copulare, Priori compresi. Non possiamo permetterci di calare di numero.”
“Cosa sono queste Somme Forze?”
“Sono coloro che governano l’universo. Le due entità primordiali, sono tutto e niente: esse non hanno forma, non hanno colore o odore, non hanno personalità. Sono sia bene che male, sia maschio che femmina, sia luce che ombra. Nel principio, quando nulla e tutto esistevano ma non c’era alcuna forma di controllo, di organizzazione, esse erano forze divise. Si incontrarono, e impararono a completarsi a vicenda. Dalla loro continua unione il tutto e il nulla che regnavano nell’universo trovarono il loro equilibrio, e la materia e la vita poterono svilupparsi. Ma l’universo era troppo vasto e troppo vario perché loro potessero controllarlo. Allora dalla loro unione generarono le Cinque Forme Divine, che controllano diversi elementi della materia: Vorcan, Semal, Vegnet, Ertur e Infan. Erano proiezioni delle due Somme Forze, dotati in misura molto più piccola di tutte le loro virtù, ma con controllo specifico di una e una sola componente della materia. Tramite esse, l’ordine stabilito dall’unione delle due Somme Forze poté essere mantenuto. Con la comparsa della vita nell’universo, e di esseri senzienti con la capacità di scoprire l’esistenza di un’entità superiore che ha creato tutto, le Cinque Forme Divine scelsero di creare delle figure semi-divine immortali, con una loro personalità e i loro vizi, che potessero interagire con le creature viventi e guidarle. Due per ogni Forma, maschio e femmina: Asili e Fendril per Vegnet, Patmut e Davon per Semal, Celeles e Krut per Ertur, Melis e Praconrem per Infan, Menumia e Travor per Vorcan.”
“E l’Occhio della Vita dove si inserisce in tutto questo?”
“L’Occhio della Vita è un dono che ci hanno dato Praconrem e Asili, per innalzarci. Ci hanno donato i poteri che abbiamo ora, che nessun’altra forma vivente ha. Sempre che i Semidéi non abbiano scelto altre razze, da qualche parte nell’universo.”
“Come riguardate la morte, e la vita dopo la morte?”
“Noi crediamo che le anime vengano generate dalle due Somme Forze. Ogni volta che una persona nasce o muore, le anime passano per le Somme Forze, dove si arricchiscono di conoscenza e sostano finchè le Somme Forze non scelgono di inserire quell’anima in un nuovo corpo. E’ grazie a questo contatto con le Somme Forze che le specie senzienti si differenziano dai comuni animali e vegetali.”
Il Vecchio Saggio arrivò dunque a ciò che più voleva sapere, in una domanda che non piacque al suo Priori interlocutore.
“Alcuni gormiti credono negli Osservatori. Io non ho capito bene cosa sono.”
L’espressione del Priore si fece grave, quasi disgustata.
“E’ solo una menzogna. Una falsità.” si interruppe e guardò in basso con un sospiro.
“Perdonami. Non devo essere intollerante, forse c’è della verità anche in quella fede. Questi gormiti credono che ci sia una razza di divinità che ha trasformato gli animali e le piante che eravamo un tempo in ciò che siamo ora, con la nostra intelligenza e i nostri poteri, grazie all’Occhio della Vita. Ed è tramite l’Occhio della Vita che questa razza ci osserva, e sceglie accuratamente i gormiti da innalzare ancora di più, per portarli con loro verso il massimo bene e la massima conoscenza. Ma puoi ben immaginare quanti siano stati portati via dall’Occhio.”
 
Il soggiorno a Picco Aquila non fu dei migliori che Razael ebbe sull’Isola.
Fu, a dirla tutta, abbastanza noioso: i gormiti dell’Aria avevano appreso dagli insegnamenti che si erano dispersi del Vecchio Saggio più di quanto egli avrebbe immaginato, e ogni volta che entrava in una scuola aerea non sapeva che innovazione portare loro, era come se sapessero più di lui.
Dall’altra parte, allo stesso modo la vita monastica con i Priori non era il massimo del divertimento e dell’entusiasmo. Passare il giorno a copiare e stilare manoscritti, coltivare gli orti, cantare le divinità – che il canto fosse una cosa comune a tutti i Priori o propria di quelli dell’Aria Razael lo ignorava - con un sottofondo di organo non era invitante. Una novità per lui, ottenuta non in modo preciso e compiuto, ma mettendo insieme informazioni prese da più parti, fu la comprensione del calendario gormitico. L’anno dei gormiti dura 329 giorni. E’ tripartito, in tre mesi: Greemeralse, Redrubise e Tealse. Ognuno è definito dal nome dei tre dischi lunari di questo mondo, e non casualmente. Infatti, il periodo di massima luminosità in un anno di una luna equivale, pressappoco, alla durata del mese corrispondente. Antichi calcoli di scienziati e matematici del passato hanno portato a questa suddivisione e denominazione.
Ogni mese è composto da un numero differente di giorni - 108 per Greemeralse, 119 per Redrubise e 102 per Tealse - raggruppati di dieci in dieci. I giorni di questo gruppo di dieci hanno nomi differenti, che lo hanno derivato dagli stessi Semidéi del culto classico.
Kruddie, pracondie, travordie, davondie, asildie – primo festivo della decimana - , menumdie, celeldie, fendrie, melidie, patmedie – secondo e ultimo festivo.
Venne anche a conoscenza, furtivamente e senza dare nell’occhio, anzi, quasi per caso, che l’Occhio della Vita non era un oggetto sacro del tutto particolare in sé, era uno dei tanti. Uno dei due, però, che seguiva quell’itinerario presso tutti i Popoli, nei vari tempietti, spostato dai Priori. L’altro oggetto di culto era una sorta di antitesi dell’Occhio della Vita: proprio come questo, donato ai gormiti come simbolo della loro scelta da parte dei Semidéi e premio per la loro condotta, era fonte di vita e potenza, l’altro era fonte di decadimento e morte, come memento che se avessero dimostrato di non meritare l’Occhio della Vita e di abusare di questo dono, ne avrebbero pagato le conseguenze. Faceva il nome di Maschera della Morte. Razael si promise di documentarsi al merito, anche se il suo massimo interesse fu sempre l’Occhio.
Per fortuna qualche giorno più tardi fu contattato dal Signore dell’Aria Acinces con una proposta: allenare corpo e spirito con una scalata fino alla vera cima di Picco Aquila, come si era soliti fare quando si celebrava la festa di Valladoin, che si teneva il 78 Redrubise.
Questa celebrazione non era familiare al Vecchio Saggio, che chiese immediatamente spiegazioni.
Seppe quindi che Valladoin si diceva essere un gormita vulcanico che scoprì l’Occhio della Vita e lo condivise con gli altri Popoli di Gorm: in quel giorno dell’anno, si celebrava questa scoperta.
“Non è una festa prettamente religiosa. - aveva detto Acinces - Anche se l’Occhio della Vita è un oggetto chiave della nostra religione, tutti, anche i non credenti, sanno che c’è qualcosa di…insolito e magico nell’Occhio della Vita. Qualcosa che ci riguarda molto da vicino, noi e l’Isola.”
La festa, che si teneva non era vista ugualmente da tutti i gormiti: si celebrava sì con feste, banchetti sontuosi, balli, concerti, giochi per tutto il giorno in ogni angolo di Gorm – cosa che fece capire a Razael che l’Occhio della Vita viaggiava attraverso l’Isola in ordine di tempo non vincolato alla durata dell’anno - ed ognuno godeva di una grande libertà, ma ciò che c’era dietro alla celebrazione cambiava. C’era infatti, tra i più estremisti, chi riteneva che Valladoin non avesse affatto voluto condividere l’Occhio della Vita e i suoi poteri con gli altri, ma che anzi l’avesse voluto tenere per sé e che fu costretto con estrema riluttanza e opposizione a mostrarlo al resto della comunità.
C’era inoltre, sia tra quelli che non vedevano di buon’occhio i vulcanici che tra coloro che non avevano preso posizione riguardo il Popolo del Vulcano, chi se ne infischiava della figura di Valladoin, puramente fittizia per loro, e che quel giorno non si celebrava un gormita ma l’Occhio della Vita.
Altri ancora festeggiavano più Valladoin che l’Occhio della Vita: vedevano nel gormita del Vulcano che aveva scoperto e condiviso il magico oggetto una figura emblematica e un simbolo, una speranza che il Popolo del Vulcano avesse in sé tracce di gentilezza e cortesia, che un giorno sarebbe stato possibile renderli più civili.
Acinces propose al Vecchio Saggio un’altra visione della festa: “La festa di Valladoin è una vera e propria festa solo per il Popolo del Vulcano. E’ vero, tutti sono felici e giocano, ma è l’unico giorno dell’anno in cui il Popolo del Vulcano è veramente libero di fare quello che gli pare senza venire per forza visto male o insultato o fermato. Non so come loro vedano la figura di Valladoin, ma questo giorno è un giorno speciale per loro.”
Ad ogni modo, il Vecchio Saggio accettò la proposta, per quanto decisamente meno avvincente che scendere giù dal monte e darsi alla pazza gioia insieme agli altri gormiti, sempre che i cortesi gormiti dell’Aria fossero capaci di una simile….libertà.
L’obiettivo era semplice: mettere a prova anima e corpo scalando il Picco Aquila fino alla cima, dove regnava la neve candida e il freddo come da nessun’altra parte sull’Isola, che in quel periodo dell’anno era completamente sgombra dalle nuvole. Raggiunta la cima, era possibile infine rallegrare il cuore con la maestosa vista delle tre lune di Gorm, che solo quel giorno si potevano vedere tutte e tre insieme nel loro massimo splendore. Di rado, le loro luci combinate creavano una stupenda aurora, ma non tutti i gormiti l’avevano mai vista.
Razael non si era mai impegnato in quei pochi mesi ad osservare il cielo e le stelle e dare un’occhiata alle tre lune. Sapeva che il suo mondo ne aveva tre, anche se nessuno a oriente le aveva mai osservate insieme. Colse l’occasione per poter osservare gli astri nel loro insieme, scoprire come li chiamavano i gormiti e, perché no? ammirare l’aurora.
Si dovette procurare in fretta dei vestiti pesanti e diversi accessori quali sciarpe, guanti, cappucci e se ne dovette cucire molti che i gormiti non utilizzavano, per affrontare il freddo senza congelarsi o buscarsi tremendi raffreddori.
La scalata fu faticosa e fredda, non c’è che dire, ma il cuore di Razael, di Acinces e degli altri pochi compagni fu riscaldato dalla magica visione di quel turbinio di luci, sulla cima bianca di Picco Aquila. L’aurora c’era, ed era magnifica, col suo colore che andava dal verde al blu al viola, e le tre lune splendenti quasi come il sole: la luna verde Greemerald a est, la luna rossa Redrubin in mezzo e la luna azzurra Tealoo.
Per quanto pervaso dalla visione, Razael non riuscì a non porgere la sua attenzione sulla neve ai suoi piedi, tutt’intorno a lui. Poche volte l’aveva vista e ancora di meno toccata in vita sua, e fece, con l’interesse di un bambino, ciò che lungo la faticosa scalata non aveva potuto fare: prese della neve tra i suoi guanti, soffice e compatta, ne fece una palla e la tirò a uno dei compagni gormiti con una risata.
Il gormita sembrò preso totalmente alla sprovvista da quell’azione, e Razael se ne sarebbe enormemente vergognato, se non che uno degli altri compagni imitò il Vecchio Saggio e lanciò una palla di neve allo stesso gormita. Evidentemente giocare con la neve era un gesto che i gormiti eseguivano poco, e più che altro da parte dei bambini. Ma a farlo da adulti, lì, Razael e gli altri gormiti si divertirono come fanciulli sregolati, seppur per poco tempo.
Fu indiscutibilmente la parte più coinvolgente del primo soggiorno in territorio dell’Aria del Vecchio Saggio. E infatti, una volta tornato giù da Picco Aquila e passato ancora qualche giorno presso la corte di Acinces, abbandonò la montagna prima che l’Occhio della Vita venisse preso dai Priori vulcanici, diretto nuovamente a Darth Kuun in barca.
Il suo arrivo sulla costa dei territori del Vulcano fu piuttosto anonimo. Forse arrivò a Darth Kuun attraverso lo Stretto di Gorm in un tratto di spiaggia rocciosa e frastagliata poco trafficate da barche e pescherecci; sta di fatto che quando scese con il suo fagotto di bagagli appeso a tracolla, c’erano già diversi vulcanici in sua prossimità, che tuttavia non lo degnavano di uno sguardo, intenti nei loro affari.
Forse è scorretto dire che non lo degnavano di uno sguardo, giacché si potrebbe presumere che evitassero di guardarlo intenzionalmente: invece qualche volta voltavano i loro occhi e osservavano la figura bassa ed esile del Vecchio Saggio, ma lo studiavano per pochi secondi senza mostrare particolare interesse. Lo lasciavano passare senza fermarlo od osservarlo o rivolgergli qualche parola o commentare su di lui.
Il primo approccio di Picco Aquila fu più entusiasmante di questo: almeno il gormita - insetto che lo aveva guidato si era accorto di lui e si era messo a fissarlo, qui invece niente di questo genere, un disinteressamento, almeno apparente, totale.
Gli saltò alla mente di contattare Raganels, ma ci ripensò subito: non poteva essere nelle vicinanze, dato che Razael, in primo luogo, era giunto presso il Vulcano prima della data prestabilita di cui aveva informato il gormita marino, e in secondo luogo, proprio per questo, Raganels era probabilmente ancora a casa sua.
Decise quindi di mettersi in cammino per la corte dei Signori del Vulcano, di cui ignorava la collocazione ma presumeva fosse presso o all’interno del Monte Vulcano.
La lontananza del monte dalla sua attuale posizione lo scoraggiava in maniera minima: in qualche modo avrebbe dovuto esplorare anche i territori del Popolo del Vulcano, esattamente come aveva fatto finora con gli altri Popoli di Gorm.
Si incamminò dunque per il suolo rossiccio, calpestato dai pesanti e robusti gormiti del Vulcano che impregnavano l’aria calda di parole aspre e grezzi versi dai significati oscuri ma sicuramente non gentili, che dominavano sui discorsi più civili, pacati e silenziosi, anche se, Razael ci avrebbe scommesso, non erano meno coloriti delle conversazioni meno civili. Aveva riconosciuto diverse imprecazioni e parolacce della lingua gormitica.
Le enormi case che ospitavano i vulcanici erano rare ma, come ho appena detto, enormi, ben più grandi delle case raffinate degli aerei, quasi dei palazzi. Ma per quanto riguardava la loro estetica, erano forse le più vili sul suolo di Gorm: tronchi di piramide larghi e alti privi di qualsivoglia decorazione o pittura –erano tutte grigie, marroni o di un colorito rosso, diverso però da quello del suolo; questo per quelle case che erano in pietra - e con scarse e piccole finestre, di grezza pietra o di legno.
Ogni casa aveva, o almeno sembrava avere, degli orti tutt’attorno essa, e qualche volta piccole capanne annesse che fungevano da stalle o comunque erano adibite probabilmente ad ospitare animali o a conservare i frutti della terra. Cosa che al Vecchio Saggio parve esagerata: quelle case erano così larghe da poter contenere un intero gregge di pecore o una sessantina di barili di grano e più.
Abitazioni e capanne di dimensioni minori erano rare.
L’immane grandezza delle case era comunque compensata dalle distanze che separavano le une dalle altre.
L’alta montagna di Monte Vulcano lo scrutava da lontano mentre Razael avanzava, come un gigante, un guardiano inflessibile e cieco, che però riusciva comunque a vedere e a sentire ciò che accadeva intorno a lui.
Perché venisse chiamato Monte Vulcano Razael non riuscì a capirlo: non intravedeva nessun cratere, e inoltre le pareti e i pendii, da quello che poteva vedere, erano brulli, rocciosi, impraticabili: se fosse mai colata della lava, dovrebbe essere un terreno fertile abbastanza ricco di vegetazione.
Proprio quando meno si aspettava una simile vista, ecco uscire dalla porta di una casa un gormita blu decisamente familiare. Questi avvistò Razael prima che lui lo facesse, e fu molto sorpreso di vederlo. Si avvicinò subito.
“Razael, sei arrivato presto.” gli disse
Non gli corresse il nome. Lui poteva chiamarlo Razael. “Anche tu. Non mi aspettavo di trovarti qui. Non volevi restare a casa per un po’ ?” replicò.
“Sì, è vero. - ammise - Un mio amico mi ha chiesto aiuto, e io ho accettato.”
“Sei impegnato, quindi?” chiese.
“Oh, no, non ti preoccupare, ho già fatto. Gli ho dato qualche dritta, e l’ho mandato a risolvere la situazione con le proprie mani. Quel ragazzo non crescerebbe se gli facessi tutto io.”
“Allora, possiamo anticipare un po’ il nostro…pellegrinaggio, se non hai altro da fare.”
Raganels ci pensò su un po’.
“Sì, non ho nulla in contrario. Vuoi andare dai Signori?”
Razael annuì.
“Sei sulla strada giusta, allora. Si trovano nella fortezza dentro il Monte Vulcano.”
Si misero in marcia, alternando la camminata a spostamenti veloci con l’incantesimo di trasporto rapido, perché se avessero continuato a piedi sarebbero giunti a destinazione in non meno di un giorno. Razael avrebbe preferito però noleggiare della salamandre: il paesaggio era piuttosto monotono, con i gormiti ancora mostranti disinteresse verso Razael, ma ci furono alcuni che salutarono Raganels, e non voleva tardare molto.
In un momento in cui camminavano, ed erano giunti a un agglomerato cittadino dove le case erano più ravvicinate tra di loro, Razael e Raganels videro un gormita scalciarne un altro con vigore dalla sua porta.
Il gormita caduto si rialzò con volto rabbioso e si avvicinò con dito accusatore e aspre parole.
Dall’altra mano creò una sfera di fuoco che scagliò rapidamente sul gormita opposto, che però prontamente la indirizzò alla sua destra colpendola violentemente con la mano.
Razael, dando un’occhiata a Raganels, si avvicinò per capire cosa stesse succedendo e per cercare di dare una mano.
Il gormita che per primo aveva attaccato si abbatté sull’avversario, che però fu pronto e se lo tolse di dosso spingendolo con le mani. Quando uno dei due si apprestò a contrattaccare, il Vecchio Saggio si parò in mezzo a loro.
“Fermi, fermi! - urlò – Calmatevi.”
I due lo guardarono con sguardo cagnesco, al che Razael ne fu intimorito, ma poi videro Raganels dietro di lui, e si rabbonirono con un ringhio.
“Non so cosa stia succedendo, ma sono sicuro che qualsiasi sia la situazione può essere risolta civilmente.”
“Hmrf.” ringhiò il gormita presso la porta, mettendosi a braccia conserte.
L’altro rispose: “Ho beccato questo brutto maiale a prendere le mie carote dal mio campo.”
“Quelle carote sono mie, le ho piantate io!”
“E allora spiegami perché sono nel mio campo, testa di cazzo!”
Il gormita presso la porta creò del fuoco nella sua mano, pronto a lanciarlo sul nemico.
“Fermatevi, vi dico!” esclamò prontamente Razael, che temeva di venire colpito ogni volta che si metteva a parlare, ma la presenza di Raganels gli dava in qualche modo conforto, così come sembrava ‘addolcire’ i due avversari.
“Sono sicuro che c’è una spiegazione logica a questo problema, e una soluzione ugualmente logica. Voglio essere sicuro: se qualcuno di voi due sta mentendo, lo dica subito. Un gormita morto non fa bene a nessuno.” propose Razael, tenendoli a distanza con le mani.
I due si guardarono rognosi, ma nessuno aprì bocca.
“Lo vedi?! - gridò il gormita sulla strada - Non ha le palle per dire la verità! Vuole solo le mie carote!”
Prima che uno dei due potesse tentare di colpire, Razael li fermò ancora una volta.
“Qui non si risolve niente. - concluse pacato Razael - Perché non mi portate a questo campo? Forse lì troveremo la soluzione.”
“Spera per la tua vita che questo tizio ti aiuti.” minacciò il gormita sulla porta.
I due condussero il Vecchio Saggio e Raganels dietro la casa del primo gormita, con l’abitazione dell’altro poco distante. I loro campi erano piuttosto vasti, ma visibilmente separati gli uni dagli altri da dei piccoli fossi. La causa del problema fu lampante al Vecchio Saggio: il campo dell’abitazione vicina non era lineare come l’altro e si propagava in maniera storta, andando a confluire nel campo del vicino, coprendo un tratto di fosso.
“Ecco, ho già capito.” affermò Razael, camminando verso il punto d’interesse e indicando ai due di seguirlo.
“Vedete: qui la tua semina è andata storta, ed è entrata nel campo del vicino.”
Il gormita in errore strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca, incredulo.
“Ma non è possibile! Le altre volte non era successo!” esclamò grattandosi il capo.
“Questa volta invece hai sbagliato, non vedi?” lo canzonò vittorioso l’altro.
“Stai zitto, stronzo! - lo zittì puntandogli l’indice - Io non sbaglio mai!”
“Non solo hai sbagliato ma non vuoi nemmeno ammetterlo! Questa è la volta buona che ti ammazzo.”
“No no no, niente ammazzo! - li fermò ancora una volta il Vecchio Saggio - Il problema è risolto, no? In parte almeno. Quelle carote sono nel suo campo, tu hai sbagliato, e devi ripagare all’errore in qualche modo.”
Il gormita in questione lo guardò sbuffando.
“Secondo me dovresti lasciargli le carote, a meno che lui non te le voglia restituire.” propose dubbioso Razael.
“Che cosa?!” urlò il gormita, che non voleva credere a quelle parole.
“Bah, tieniti le tue carote! - offrì con sprezzo l’altro - Chissà con che diavolo le hai tirate su, io non voglio avvelenarmi. Ma la prossima volta che succede una cosa simile, giuro che ti mangio un occhio.”
Razael e Raganels se ne andarono dal campo non senza aver ricevuto dei grazie biascicati, mormorati proprio solo con il fiato.
Una a volta a debita distanza e ripreso il cammino ancora lungo, il Vecchio Saggio commentò sconvolto: “Ma sono davvero tutti così?!”
“Per fortuna no. - rispose Raganels - Hai beccato casualmente due vulcanici della peggior specie.”
“Perché si comportano così?” domandò
Raganels fece spallucce. “E’ fuori dalla mia comprensione. Nemmeno loro lo sanno. Credo sia semplicemente nella loro natura. Un tempo erano decisamente più violenti, però la loro violenza è stata prima mitigata con la dottrina militare che hanno cominciato a seguire, poi con le azioni di gormiti come me. Ma se la loro violenza non è più come quella di una volta, ora sono più…sospettosi e non accettano bene i problemi, gli errori e le regole non rispettate.”
I due ritornarono in strada e proseguirono il loro cammino, ancora lungo: Monte Vulcano erano ancora lontano e offuscato. Camminarono alternando come in precedenza spostamenti con l’incantesimo di trasporto rapido ma, per quanto Razael lo desiderasse, non riuscirono a noleggiare alcuna salamandra.
In un modo o nell’altro arrivarono all’entrata della fortezza di Monte Vulcano in pieno pomeriggio.
C’era poco da dire riguardo a tale entrata: era semplicemente una grande, grandissima porta che dava all’interno edificato dell’alta rocciosa montagna.
La porta era tenuta perennemente aperta durante il giorno, per venire chiusa di notte facendo scorrere con delle corde due enormi lastre di pietra decorate e incise davanti all’entrata, poste al momento sui lati.
In cima alla porta, incisa sulla pietra, vi era il simbolo del Popolo del Vulcano.
 
L’interno del Vulcano direttamente dopo la porta era piuttosto…povero, seppur trafficato e affollato. Era semplicemente uno spazio che dava ad altre entrate per le altre zone del Monte Vulcano, poste al suolo o a piani superiori accessibili da rampe di scale pietrose prive di ringhiere.
Ognuna delle numerose entrate era guardata da almeno un gormita armato, talvolta due, che perquisiva prima di far passare qualsiasi altro gormita, cosa che successe anche per Razael e Raganels, sulla porta centrale del primo piano – che non fu facile raggiungere, tra la folla rabbiosa e gli spintoni.
Razael fu trattenuto molto più a lungo degli altri gormiti vulcanici e un po’ più di Raganels, cosa che lo infastidì parecchio, anche perché quella guardia era piuttosto brusca con le mani.
Ma alla fine fu a entrambi concesso di passare senza troppi problemi.
Attraversarono il cupo cunicolo, pieno di afa e di fumo, illuminato solamente da torce e da nessuna pietra di luce o finestra, stretto e largo a intermittenza, che, nel suo complesso, conduceva anche a una grande ‘piazza’ e a un agglomerato di appartamenti, illuminati questa volta anche da finestre alle pareti, commentando e chiacchierando di ciò di cui Razael avrebbe parlato con i Signori del Vulcano.
Giunsero infine al termine della prima escursione del Vecchio Saggio all’interno di Monte Vulcano.
Lì, in una sorta di piccola piazza, la galleria terminava definitivamente, per non proseguire da nessuna parte se non in una larga e alta porta di legno e metallo, posta su una serie di gradini costeggiati da ringhiere rocciose, su una parete rossiccia e completamente livellata e liscia.
Non c’era nessun gormita nelle vicinanze, non una guardia armata o un qualsiasi passante, solo loro.
Salirono sui gradini e, con incitazione di Raganels, Razael batté il battiporta di bronzo, modellato a mo di testa di un gormita cornuto con un anello che gli passava per il naso, come un toro.
Una voce proruppe dall’interno, con parole che nonostante la distanza Razael riusciva a comprendere: i suoi studi di gormitico avevano fruttato.
La stanza che si presentava ai loro occhi era sufficientemente spaziosa e ricca di decorazioni: armi quali sciabole e mazze ferrate e asce, mezzi busti, trofei di caccia. Due troni color ferro si ergevano su un ripiano di gradini, uno dei quali occupato, alle loro spalle una raffigurazione del Monte Vulcano. All’estrema sinistra si apriva un balcone e in fondo ad esso un passaggio di scale. A destra due porte che davano ad altre stanze.
La figura che sedeva sul trono a destra si alzò e spalancò le braccia, raggiungendo velocemente i due arrivati e salutandoli.
In coppia, Razael e Raganels si inchinarono, e il Signore del Vulcano rispose, sebbene con un piegamento del torso assai leggero.
Era un gormita rettilesco…un lucertolone, solo senza coda. La sua pelle come scorza era rosso cremisi, scura, con importanti chiazze di un bruno cupo sulla schiena, sugli avambracci, ai lati delle gambe.
Quattro creste marroni, basse ma spesse, gli crescevano sulle spalle e sui possenti trapezi, tanto grandi che la sua testa ne sembrava incassata, e si prolungavano per buona parte della schiena. Un ugual numero di creste simili si trovavano ai lati delle braccia e gli sormontavano la testa, molto elfa se non fosse per la mancanza di naso e di orecchie vere e proprie. I suoi occhi erano azzurri.
Le mani possedevano tre dita ciascuna, così come i piedi, che lo sorreggevano in una postura piegata come quella che si trova nelle zampe posteriori di molti animali quali cani e gatti.
“Raganels Galmari, è una bellezza riaverti qui! - disse, con un tono piuttosto informale ma lieto.
 - Il famoso Vecchio Saggio! Mi chiedevo quando diavolo saresti passato di qua!”
Razael fu stupito e, in un certo senso, scoraggiato dal fatto che l’avesse chiamato Vecchio Saggio: voleva essere lui a rinfacciare a tutti che d’ora in poi avrebbero dovuto chiamarlo Vecchio Saggio.
“Be’, benvenuti. O meglio, benvenuto. - continuò - Raganels non è la prima volta che viene qui.”
Volse loro le spalle, per tornare a sedersi sul trono, poggiare il gomito sul bracciolo e la testa sul polso.
“Non so quanto hai visitato del mio reame, Vecchio, ma se vuoi parlarmi, preferisco farlo a quattr’occhi.”
Razael guardò il suo compagno blu, e toccò la sua conoscenza con la propria.
C’è da fidarsi? gli disse
Non c’è da temere, stai tranquillo - lo rassicurò - In ogni caso, se qualcosa va storto, rimarrò nelle vicinanze e ti sentirò.
“Come volete, Signore Sogres.” acconsentì infine Raganels con un ulteriore inchino, e uscì dalla porta.
“Ero venuto qui proprio per parlare, dopotutto.” affermò facendo spallucce Razael.
“Mi sta bene.” replicò il Signore. Cambiò il braccio su cui poggiava la testa. “Vuoi parlare forse della nostra condizione di confinati?” propose con un tono malinconico.
“Anche; - rispose schietto il Vecchio Saggio - ma ho molto altro da chiedere.”
I due furono interrotti dal passaggio, dietro a Razael, di un altro gormita, uscito di corsa da una delle porte sulla destra.
Si mosse rapidamente, e Razael non fu in grado di osservarlo bene, anche se in futuro lo avrebbe visto meglio e in più occasioni. Aveva una pelle rosso roseo, e due grosse creste grigie sulle spalle, tre creste più piccole sul capo, decisamente più da lucertola. Una grossa coda grigia e tozza, e una sorta di tarchiato uncino al posto della mano destra. Nonostante tutto, era stranamente simile al Signore del Vulcano. Sembrò scambiare un cenno con Sogres, prima di scendere di corsa per il passaggio di scale a lato del balcone.
“Chi era?” chiese Razael.
“Mio figlio. E’ andato ad allenarsi con gli altri.” Rivelazioni sorprendenti: era la prima volta che vedeva due gormiti così simili tra loro, ed erano pure padre e figlio.
“Ma non parliamo di Magmion; che cosa vuoi chiedermi?”
“Dov’è l’altro Signore?”
“Fercanio? A caccia, presumo, o a fare qualche cosa da Signore.” rispose sbrigativamente Sogres, quasi non ne volesse parlare.
“Vorrei davvero chiederti di più sul tuo ‘reame’, sui posti da visitare, - sospirò Razael - ma ho come l’impressione che ti prema più parlarmi della vostra condizione.”
“Hai buone impressioni, Vecchio Saggio. - ribatté Sogres, alzandosi dal trono a braccia conserte.
Sospirò. - La nostra è una situazione difficile, non c’è che dire. Forse un po’ ce la siamo tirati addosso, ma anche gli altri fanno la loro parte!”
“E’ tutto cominciato…da quando è cominciato tutto. Sin da quando i gormiti si riunirono noi siamo stati messi come ultimi…eravamo violenti, aggressivi, scontrosi. E il fuoco spaventava gli altri gormiti, la sua natura primamente distruttiva terrorizzava tutti. Oggi la situazione non è molto cambiata, anche se con un po’ di aiuti qua e là ce la caviamo meglio coi rapporti con gli altri, anche grazie al nostro allenamento militare.”
Sogres si spostò verso il balcone, e vi si appoggiò. Il Vecchio Saggio lo seguì, e scrutò ciò che si trovava e accadeva al di sotto. Un grande ripiano completamente all’aperto, affollato di dozzine di gormiti vulcanici che lottavano tra di loro, sparavano sfere di fuoco e di pietra, si esercitavano su rudimentali attrezzi.
“E’ forse merito di questo nostro addestramento che siamo più…socievoli.” commentò.
“Perché vi allenate? Volete attaccare guerra?” domandò, senza nascondere timore, lo stregone.
Sogres scoppiò in una sonora risata, e giunse perfino a dare un’altrettanto sonora pacca sulla spalle al Vecchio Saggio, che ne rimase dolorante.
“Guerra? No, certo che no. - rispose infine - Anche se molti vorrebbero, nessuno ha il coraggio e la determinazione di andare contro gli altri, e bisogna ammetterlo che senza gli altri Popoli non potremo sopravvivere. No, quest’addestramento è per…tenerci buoni. Sfoghiamo la nostra rabbia e la nostra voglia di combattere in questo modo, anche se non si esaurisce tutta. Ma è stata un’arma a doppio taglio. Ha influenzato il nostro stile di vita, ci ha resi più rigidi, pessimisti, sospettosi e severi. Non so cosa sia meglio, ma sicuramente l’hanno voluto gli altri gormiti, non noi.” terminò con un ringhio.
“Perché credi sia così?” domandò Razael, interessato.
“Non abbiamo sempre seguito questa vita. Solo quando, qualche secolo fa, i terricoli hanno scacciato i dragoni dell’est nei nostri territori. E’ stata davvero una mossa da bastardi. Abbiamo dovuto combatterli, e domarli, con anni di fatiche e perdite. Sarebbe stato molto peggio se li avessimo cacciati nei territori di un altro Popolo, ma ciò non toglie che la Terra non avrebbe dovuto togliersi un peso su di noi. Da allora abbiamo cominciato ad allenarci militarmente per futuri attacchi, e tutt’oggi usiamo l’allenamento per tenerci in riga.”
Si spostò dal balcone, e iniziò a camminare avanti e indietro per il salone, spolverando i mezzi busti e accarezzando le lame delle armi. Il Vecchio Saggio lo osservò, ma rimase fermo.
“Certo gli altri hanno fatto ben poco per aiutarci, specie quelli dell’Aria. - continuò poi - Tra tutti sono quelli più…indifferenti. Solo negli ultimi anni ci sono queste…come le chiamano…campagne di sensibilizzazione. Che parole difficili. Ma abbiamo ottenuto di più aiutandoci da soli. Per il commercio, per un po’ siamo stati a posto grazie alle pietrefuoco che nascono solo qui, ma gli altri hanno cominciato a comprare la nostra roba con altra roba di quantità o qualità bassa. Ma poi, arrivò il mio bis - bis - bis - bisnonno. Fu uno dei primi a viaggiare senza magia a est, a Tato Yami, e a incontrare la gente che abita lì, e ottenere le loro merci.”
“Tato Yami? - ripeté, nuovo a tale vocabolo, lo stregone - Che cos’è? Dove si trova?”
“Non mi stupisce che non lo conosci. - commentò Sogres - E’ una…isola, a est di qua. Non so come è fatta o dov’è di preciso, ma alcuni mi hanno detto che la sua gente la copre sempre con una magia che la copre di una nebbia nera, per protezione, dicono. A me non interessa, non sono un mercante.”
Sembrava combaciare perfettamente con la visione della landa nera e tetra, sprofondata in un fumo nero, che sulla cartina a bordo della Mudras aveva descritto come Oscuro Orizzonte. Una scoperta sensazionale. Avrebbe dovuto documentarsi di più, e, un giorno, recarvisi.
“E la gente che ci abita, com’è? Sono dei gormiti?”
Sogres si grattò il capo. “Io non ci sono mai stato, ma…alcuni miei conoscenti che ci vanno spesso dicono che sono dei…dei grossi gatti blu, senza pelo e senza coda, con corna al posto delle orecchie e piccole ali sulle spalle.” e qui Razael ebbe un altro tuffo al cuore: coincideva con l’aspetto delle misteriose figure scure che si vedevano solitamente nella Setturnia e nel Venturgio.
“A differenza di noi, sono tutti più o meno uguali. - batté le mani, con un sorriso soddisfatto - Ah! Ho sempre saputo che la nostra diversità era qualcosa di strano, di…anormale, forse. Comunque, mi hanno detto anche come si chiamano tra di loro, ma non me lo ricordo, ma qua usiamo chiamarli Popolo delle Tenebre, anche se non sono gormiti.”
“Ad ogni modo, il mio avo raggiunse indenne, senza incontrare la Grande Piovra, le coste della terra nera con le sue mercanzie. La gente di lì fu molto interessata alle merci, e anche a noi stessi, e i nostri alle merci loro. In poco tempo avevamo stabilito una rotta commerciale fissa tra Vulcano e TatoYami, con un varco spaziale, di cui solo noi tutt’ora sappiamo le coordinate! Ah! A quel tempo fu una bella batosta per gli altri gormiti sapere che noi ci stavamo arricchendo alle loro spalle con mercanzie che solo noi potevamo avere, e che se volevano avere anche loro dovevano sganciare assai. Una parola tira l’altra, e vennero a sapere della terra a est. Molti tentarono la navigazione, con esiti negativi. Ma alcuni, invece, viaggiarono a ovest, e scoprirono un’altra terra, Karmil. Insomma, scoprirono…i loro abitanti erano già stati qua.”
Si fermò, avvertendo di aver catturato l’attenzione dello stregone elfo, cosa ovvia. Razael aveva gli occhi fuori dalle orbite.
“Mi dispiace, eh eh, ma non so molto su Karmil, o sui loro abitanti. Il commercio non fu ugualmente fruttuoso. Mi dicono che gli abitanti di Karmil, certi ka’nhili o Popolo della Luce, sono molto silenziosi e freddi. Noi non ci siamo mai andati e non abbiamo interesse a farlo, e non sappiamo se gli altri lo fanno.”
“Ma - ma hai…avete detto che erano già stati su Gorm.” balbettò il Vecchio Saggio, trepidante dall’emozione di tutte quelle rivelazioni.
“E’ vero, Vecchio, l’ho detto. - confermò Sogres, ritornando a sedere sul suo trono, questa volta però senza la stanchezza precedente, perfettamente dritto - Sappi che i ka’nhili e il Popolo delle Tenebre si sono scontrati sul suolo di Gorm almeno due volte, e che si dice che furono due loro esponenti a portarci il governo della signoria, anche se noi lo rielaborammo secondo i nostri gusti. Non so se questa è una semplice leggenda o una lontana verità: si parla di almeno mille anni fa, agli albori della civiltà dei gormiti, e abbiamo poco di scritto. Però sappiamo che le genti di Karmil e Tato Yami si conoscono.”
“Eri venuto qui per parlare della nostra condizione e del mio reame, se non ricordo male, eh?” esclamò subito dopo Sogres, con una nota sarcastica.
“E invece sentiti! A parlare di certa gente! Ah!”
“Credo di poter dire che sia stata colpa vostra, Signore. - replicò con ulteriore sarcasmo Razael, sorridendo sotto i baffi - Vi siete dilungato parecchio nei vostri discorsi.”
Sogres non rispose immediatamente. Quel commento sembrò non piacergli molto, e squadrò il Vecchio Saggio per qualche secondo. L’uomo fu tentato dal contrattaccare allo sguardo, ma temette di adirarlo o di non riuscire a resistergli, e si limitò a guardare in basso, evitandolo.
“Ad ogni modo. - riprese continuando a guardarlo di sottecchi - Grazie al mio antenato la mia famiglia, la famiglia Magmadoni, è sin da allora una delle più ricche di tutto il Popolo del Vulcano, e quella con più membri che sono stati Signori e o Saggi. E devo ammettere che i membri della mia famiglia raccomandati come Signori o politici… - abbassò sguardo e voce, quasi temendo di essere sentito - non mi piace molto. Lo dico sempre, ma nessuno mi crede. Uno una volta mi ha pure riso in faccia. Io gli ho dato un pugno in faccia, e guarda un po’, ha smesso di ridere.”
La conversazione fu bruscamente interrotta da tre nuovi gormiti, che entrarono spalancando con forza la porta di legno e con un certo chiasso: erano due, un maschio e uno visibilmente femmina, che trasportavano a traino un gormita che urlava e strillava. Aveva polsi e caviglie legate da strani cerchi dorati, e uno di quegli stessi cerchi gli teneva il capo chinato all’indietro. Si chiese il perché di ciò: non lo giustificò come uno dei metodi brutali del Popolo del Vulcano, e infatti non era così.
“Mio Signore!” gridò il gormita, senza porgere un inchino, accorgendosi solo ora della presenza del Vecchio Saggio ma senza dargli troppo peso, mentre la gormita strattonava il prigioniero con una catena legata alle manette.
Il volto dell’‘agente’ si incurvò in un cupo sorriso: “Lo abbiamo preso!”
“Ah! - esclamò lieto Sogres, alzandosi dal seggio - Finalmente! Ora vedremo…”
Volse tempestivamente lo sguardo verso Razael, con un’occhiata poco promettente.
“Vecchio Saggio, ti chiedo di uscire. Torna più tardi, o un’altra volta. Devo risolvere questioni personali…questioni da Signore.”
“Nessun problema.” acconsentì preoccupato Razael, abbozzando un inchino e uscendo di corsa dal salone, prima che il portone si richiudesse.
Fuori, cercò immediatamente Raganels per parlargli, ma non lo trovò nelle immediate vicinanze.
Invece, udiva urla e rumori raccapriccianti dall’interno, e parole pesanti, che lo invitavano ad andarsene da lì al più presto. Vide poi Raganels sbucare fuori dalla galleria, correndo nella maniera goffa che le sue gambe gli permettevano. La preoccupazione era il suo volto, ed ansimava.
“Che cosa succede?” domandò turbato Razael, ponendogli le mani sulle spalle.
“Guai, guai grossi. - rispose rapido - Questioni delicate, che devono essere risolte subito prima che degenerino.”
“Riguardano il gormita che è stato appena portato da Sogres?”
“Temo di sì. E’ lo stesso per cui sono giunto qui in primo luogo. A quanto pare, non è riuscito a risolvere quel suo problemino, e ha commesso errori ben più gravi.”
Scosse la testa tra le mani, disperato. “Senti, devo andare lì ad aiutarlo. Senza di te, però, ho paura che peggioreresti le cose…senza offesa.”
“Capisco. - comprese Razael  - Ti lascio…buona fortuna.”
 
Il Vecchio Saggio si lasciò Raganels e gli altri gormiti alle spalle, e percorse a ritroso tutto il tragitto fino all’entrata della fortezza interna del Monte Vulcano, dove fu nuovamente perquisito ma, con una certa delusione da parte delle guardie, fu lasciato andare senza essere confiscato di nulla, nemmeno del barattolo di sale nero che già alla perquisizione al suo arrivo aveva catturato l’attenzione delle guardie.
Razael non voleva andare da nessun’altra parte per quel giorno, se non in un luogo che sarebbe stato la sua casa per qualche tempo.
Voleva riflettere su tutto ciò che aveva appreso da Sogres, principalmente su ciò che riguardava i ka’nhili e i gargoyle, il nome del Popolo delle Tenebre. Per quanto non si fosse fatto dire nulla riguardo alla gente di Karmil, sapeva bene che si trattava delle figure gialle simili a insetti che, come il Popolo delle Tenebre, erano solite essere intraviste di tanto in tanto nelle terre a oriente.
Chi erano queste persone veramente? Da dove venivano, qual era la loro storia? Erano tutti originari di Karmil e Tato Yami, o provenivano da qualche terra ignota?
Tutte domande a cui, presto o tardi, il Vecchio Saggio avrebbe trovato risposta, viaggiando verso entrambe le isole e ritardando così sempre più il suo ritorno a Lacedimora.
Appena fuori dall’entrata all’interno del Vulcano, fu avvicinato da un bambino gormita.
Diceva che aveva aiutato suo padre e che l’aveva invitato in casa sua. Diceva questo con un linguaggio, per quanto infantile, abbastanza variopinto e gli strattonava la manica per invitarlo ad accettare la proposta.
Razael non collegò le parole coi fatti, e sulle prime fu colto alla sprovvista e senza una chiara idea di cosa fare. Non era molto sicuro fosse una buona idea accogliere seduta stante di essere ospitato da un vulcanico che non sapeva di conoscere.
Ma lui era uno stregone coi fiocchi: se qualcosa fosse andato storto, avrebbe saputo difendersi.
Seguì quindi il cucciolo di gormita, che saltellava e macinava passi come una lepre nonostante le dimensioni ridotte.
Alla fine Razael collegò gli eventi, e si rese conto che nulla sarebbe andato storto: la casa a cui arrivarono era quella del gormita che aveva accusato il suo vicino di furto di carote, il cui diverbio Razael lo aveva aiutato a risolvere pacificamente.
Capì immediatamente, una volta entrato e ringraziato formalmente l’oste per l’offerta –“Troppe smancerie. Entra, e riempiti un po’ la pancia!” aveva detto di fronte agli inchini e alle parole dolci - il vero motivo della grandezza delle case vulcaniche: all’interno vivevano infatti non meno di una dozzina di gormiti, bambini esclusi. Famiglie allargate, con almeno tre coppie sposate, i loro figli, alcuni nonni e diversi fratelli scapoli, tutti che vivevano sotto uno stesso, grande tetto.
A tavola, quella sera, scoprì quanto tanto i gormiti potessero mangiare: tutti i gormiti che finora aveva visto, in effetti, mangiavano davvero enormi quantità di cibo, decine tra piatti e padelle per ogni singolo gormita, forse spropositate in confronto alla loro dimensione: gli alti zoari mangiavano di meno. Ma i vulcanici mangiavano davvero più di tutti.
Anche nei pasti la cultura e lo stile di vita del Popolo del Vulcano si facevano vedere: ognuno seduto e silenzioso mentre mangiava, ma faceva ciò in maniera davvero animalesca, e ringhiavano come tigri se qualcuno faceva lo spiritoso e pizzicava dal piatto dell’altro – e ciò accadeva spesso.
Dopo il pasto, poi, il chiasso più totale, tra gare a braccio di ferro, i bambini che giocavano per terra, barzellette di cattivo gusto e resoconti con un lessico piuttosto scarso e volgare dei recenti avvenimenti – che manco a dirlo includevano quasi sempre scazzottate tra gormiti -  e quelli che cantavano ad alta voce mentre lavavano le scodelle.
Poi, ligi all’orario, i bambini venivano mandati prima a pulirsi e poi a letto, seguiti poco più di un’ora dopo dagli adulti, che rispettavano le regole temporali in maniera più o meno rigida, ma guai se i bimbi sgarravano: a una certa ora dopo la cena, subito a pulirsi e dritti a letto, e se venivano beccati fuori dal letto fuori dall’orario, giuste punizioni. Conoscendo i genitori dei bambini, Razael intuì che i ragazzi infrangevano tale regola abbastanza spesso, ma non si azzardò a mettere in dubbio le modalità con cui i genitori crescevano i figli.
Quella sera, sostò in casa del vulcanico. Dopotutto, la loro società era solo diversa, più ‘calda’ delle altre, ma del tutto accettabile. Non riuscì a capire come ancora gli altri gormiti potessero essere razzisti nei loro confronti, ma dopotutto lui non aveva assistito ad episodi passati di violenza, ed era stato nel territorio vulcanico di Darth Kuun solo per un giorno: c’era sicuramente ancora molto da vedere.
E a proposito di vedere, ciò che rifletteva lo specchio non piaceva per niente allo stregone. Capelli e barba avevano cominciato a crescergli sul volto in maniera anomala. Ruvide e anti estetiche setole grigio - bianche avevano cominciato a svilupparsi sul cranio e sulle guance pochi giorni dopo che ebbe assunto il fatidico elisir di lunga vita, e, aprendo la vestaglia, anche sul resto del corpo, che prima non aveva controllato.
Già da tempo gli stava crescendo la barba, ma dava la colpa a una cura del proprio corpo non più intensiva come quella che dava mentre abitava a Lacedimora. Ma poi, più la radeva e più velocemente cresceva, capì che la colpa era da ricercarsi altrove.
E comprese.
Nonostante il lasso di tempo tra uno e l’altro, la sua assunzione di tre elisir aveva già provocato degli effetti collaterali, che non potevano essere contrastati.
E il Vecchio Saggio sapeva che ne avrebbe assunti ancora, in futuro, lo sentiva, e allora sì che Vecchio Saggio sarebbe stato un nome azzeccato: un uomo anziano, dotto e barbuto come erano soliti essere gli stregoni di molti anni fa.>>

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Capitolo 9
*** Capitolo 3 ***


“Il Vecchio Saggio era un egoista e un…un insensibile!” borbottò davvero scossa la tenera e piccola Loctiu, stringendosi le ginocchia al petto con le sue lunghe braccia.
Il Cronista ebbe un impeto di compassione nel trovarsela davanti così colpita e, chissà perché, delusa e di volontà di scusarsi e confortarla. Poteva essere colpa sua, qualche parola di troppo, qualche parola ignota, misteriosa e non adatta al cuore di una bambina…
Ma andiamo. – si rimproverò per quella sciocchezza – Non è mica colpa mia se è così sensibile, e solo per un racconto, poi. Ho solo detto le cose come stanno. Be’, come credo che stanno…stavano.
Mentre la sua apprensione per l’umore di Loctiu svaniva e lasciava spazio a un esame critico della sua reazione, il Cronista si soffermò un poco a guardare le sue forme. Provò un pizzico di vergogna nel farlo. Se avessero potuto leggergli la mente e vedere l’interesse con cui guardava la ragazzina, avrebbero senz’altro avuto pessime impressioni di lui, che in realtà voleva solo memorizzare meglio la sua figura, non avendo mai indugiato su di essa prima d’ora.
Dall’aspetto morbido e tutto l’opposto del ruvido e dello spigoloso che quasi ogni gormita assume in età adulta, non poteva avere più di quattordici anni. Ciononostante, e benché in quel momento fosse seduta e raggomitolata a se stessa, era incredibilmente alta. Merito senz’altro di una dieta abbondante e ricca d’acqua, elemento dalla sua parte merito forse di una larga agiatezza genitoriale. Il foulard in tessuto azzurro che le ricopriva il collo e parte del petto, e alcuni bracciali ramati ai polsi erano altri elementi che andavano a favore dell’ipotesi di una famiglia benestante.
In sé non aveva – ancora – caratteri distintivi particolari: pelle olivastra priva di bozzi o rughe, rivestita a tratti di decorazioni naturali a mo’ di liane ocra ben aderenti, seguenti un percorso ondulato lungo le braccia, gambe e schiena. Una sorta di cresta di aculei giallastri iniziava a crescere sul capo rotondo, illuminato da vispi ed emotivi occhioni viola.
Le parole dure che aveva indirizzato alla grande, mitica, rispettabile e quasi intoccabile figura di Razael Vecchio Saggio in un primo momento, dopo aver scelto di ignorare l’emotività della cucciola, il Cronista pensò di rimproverare severamente. Chi era lei per giudicare l’uomo che aveva portano Gorm in una nuova era?
Dopotutto, però, era giusto che ognuno di loro avesse un’opinione e che imparasse a condividerla, con la giusta scelta di parole e di tono, ma soprattutto che apprendesse, sin dalla tenera età, ad articolare un argomento in base al quale affermare le proprie convinzioni.
Scelse quindi un approccio diverso, arrivando persino a concordare con la sua tesi. O meglio, a capire che non era un gran male accusare le personalità del passato di qualche difetto, anche se si trattava di Razael Akkars – che i suoi errori li aveva commessi.
Anche e soprattutto se si va a commentare questo mio racconto, che non è vero parola per parola.
“Via, via, Loctiu. (non ci ho mai fatto caso, ma Loctiu non è un nome da maschio? Con quella desinenza in –iu…) modera un po’ i termini, non c’è bisogno di essere così aggressivi, anche se non ti può sentire. – la rabbonì, accompagnando alle parole dolci movimenti delle mani – Perché dici che è stato un egoista?”
“Perché sì!”
“Suvvia, sappiamo bene che hai i tuoi motivi e sai quali sono. Non aver paura del confronto, svelati.”
“Perché…è rimasto qui su Gorm come se niente fosse. – argomentò piano, guardando basso, in attesa che le parole le arrivassero alla mente e di lì alle labbra – Ha pianto pochissimo per le persone che ha perso, e non ha pensato a Nadia e agli altri che lo aspettavano a casa, e che aspettavano anche l’altra gente della Mudras, e che speravano nel loro ritorno…”
“Secondo me invece è stato molto forte, proprio per questo – rimboccò Forteceppo, di opinione quasi opposta – Anche senza i suoi amici, senza poter tornare, ha continuato la sua missione! Quella di esplorare e conoscere.”
Osmaniu, tra gli altri, fu quello più in accordo con i verbi del vigoroso giovane forestale. In effetti, al Cronista quelle parole parevano più idonee alla lingua del vulcanico che a quelle del familiare forestale.
“Voi siete troppo…troppo chiusi. Pensate solo alle imprese, e all’eroismo. – li accusò Loctiu, puntando loro contro l’indice affusolato – E poi, non pensate nemmeno a quello che dite! La missione di Razael era di esplorare, sì, e poi di tornare indietro! E anche quando ne ha avuto l’occasione, non l’ha fatto, è rimasto qui, ossessionato dall’Occhio della Vita. Avrebbe potuto usare il varco, dire quello che era successo, dare una notizia a quelle anime in pena, e poi rimanere su Gorm. E invece non si è fidato nemmeno a fare questo, ed è stato un egoista…”
“E nessuno ha saputo più niente, perché Razael non è mai tornato.” Concluse un altro, dando corda, annuendo e malinconico, all’opinione della ragazzina.
“Be’…detto così è davvero triste…” dovette ammettere Forteceppo, grattandosi il capo. Ancora una volta sconfitto dalla sorella della Foresta.
“Certo che lo è.”
“Su, su, non serve che vi alteriate, e che gettiate cattiva luce sul Vecchio Saggio così. – si intromise ancora una volta il Cronista, capendo che la situazione stava degenerando – A qualcuno potrebbe non piacere. E ricordatevi che, sì, certamente il Vecchio Saggio non è stato sempre onesto, ma che non dovete credere che abbia detto veramente tutto quello che gli ho fatto dire, che ha incontrato quelle precise persone con quel preciso nome e abbia pensato quelle precise cose. E infine che, dopotutto, non possiamo biasimarlo per le sue scelte. – prese fiato, chiudendo gli occhi, scegliendo parole capaci di rimanere bene impresse senza scuotere i loro deboli animi più del dovuto – Se non avesse fatto quel che ha fatto, io forse non sarei qui a raccontare, né voi qui ad ascoltare.”
La combriccola di ragazzini tacque per un buon minuto, riflettendo su quell’ultima affermazione.
Forse ho esagerato un po’. Non vorrei che arrivino a venerare il Vecchio Saggio…hm, troppo complesso. Potrebbero sempre mettersi a piangere immaginandosi come sarebbe se non esistessero, e allora sì che sono guai.
“Su, coraggio. Chiedetemi qualcosa. – li spronò dunque – Vi ho raccontato tanto, e c’è tanto ancora di cui parlare.”
“Maestro. – si offrì uno, timoroso e timido; si alzò col dito dritto e si risedette subito dopo, conscio che quell’azione non era necessaria – Volevo sapere…il Vecchio Saggio ha parlato spesso di comunicare con la mente a distanza…molta distanza. Di aprire la mente e di raggiungere quella di Raganels…ecco, io non ho capito di cosa si tratta, questa. Come si fa a parlare con la mente con qualcuno che era così lontano?”
“Il Vecchio Saggio era un grande mago, figliolo. – rispose – Non so i dettagli, la storia mi è stata tramandata così, però ti posso dire che il Vecchio Saggio era capace di una simile comunicazione.”
“E Raganels come lo sapeva? – insistette quello, non meno confuso di prima – Ha detto…cioè, avete detto…no. Insomma, gli avete fatto dire che ‘la mia mente è sempre aperta’.”
“L’ho detto? – se ne stupì l’insegnante, sfregandosi il mento rumorosamente con le dita lunghe – Boh. Oh, che brutta figura…se serve a rimediare, potrei azzardare a dire che Raganels parlava a metafore, e non intendeva dire che il Vecchio poteva raggiungerlo con la mente da luoghi lontani.”
La comitiva scoppiò in risate di diversa intensità, o semplicemente sorrisi divertiti. Il Cronista finse offesa per alcuni istanti, furioso e cupo in viso per quella palese e vergognosa mancanza di rispetto; strinse i braccioli dello scranno e minacciò di alzarsi da esso con fare punitivo. I cuccioli si ritrassero un poco, turbati. Poi però si rilassò e rise pure lui del suo stesso errore.
“Maestro Cronista, a me non è piaciuta una cosa.” farfugliò un altro, sforzandosi di mettersi in mostra, saltellando sul posto col braccio teso, quando il divertimento cessò di increspare le loro labbra.
“Che dire, giovanotto, la storia è piena di eventi infelici da raccontare e ricordare, ma non ci posso fare niente.”
E non sono nemmeno arrivato al peggiore di tutti.
“No, non della storia. Lo so che non ha senso dire che la storia non piace. – iniziò a spiegare, mostrando una debole o comunque ben nascosta offesa per l’insinuazione rivoltagli dal maestro – Non mi è piaciuto come avete raccontato una cosa.”
“Oh.” fece il Cronista, amareggiato. E sotto sotto, offeso pure lui, pur in maniera esigua.
“Avete raccontato dell’edizione del Torneo molto, molto vagamente. Eppure il Vecchio Saggio doveva essere emozionatissimo, quasi terrorizzato per i gormiti, così potenti! E poi mancava, non so, mancava di qualcosa. Insomma, a quel tempo potevamo ancora creare gli elementi…”
“E non avete detto che il Torneo si tiene il 64 Greemeralse!” aggiunse un altro, parecchio esaltato.
“Piano, uno per volta! – li ammonì genuinamente severo – Il tuo commento non mi piace molto, se devo essere sincero. Ho cercato di trasmettere le emozioni meglio che potevo, e non ho altro da aggiungere. Poi, che motivo c’era di dirlo? Lo sappiamo tutti quando si tiene il Torneo. Per Valladoin è diverso: è una festa abolita da parecchio tempo, per questo l’ho ricordato.”
Il tono duro delle sue ultime repliche spense le iniziative degli altri scolari, che non se la sentirono di porre ulteriori domande per timore di una rigida predica. Il Cronista se ne dispiacque, e al contempo si rese conto che, per quell’oggi, non ci sarebbe stato rimedio, poiché era ormai concluso il periodo della lezione. Senza altro su cui discutere, gli studenti si rizzarono, pagarono il rispetto al loro mentore – e alcuni pagarono anche materialmente, tra cui Loctiu, sempre generosa, con un sacchetto più ampio – furono saluti e infine la radura si svuotò.
Osmaniu non indugiò più di altri sul luogo, sfidando per un motivo o per un altro lo sguardo del Cronista. Il suo silenzio odierno rispetto all’eccitazione del giorno prima stonarono al maestro. Non aveva affatto commentato, con le parole o con il corpo né con l’umore, la passata era di discriminazione nei confronti del suo Popolo d’appartenenza. Non si era indignato per l’episodio forse un po’ degradante dei due bellicosi vulcanici che minacciavano morte per un semplice disguido nei campi, né per la forse voluta mancanza di descrizione della grandezza del Popolo del Vulcano, con le sue fabbriche operose di lavoratori ligi e obbedienti, le sue scuole maestose dove ognuno, dagli insegnanti agli alunni agli operatori, agiva con la più profonda fermezza, e che solo nel privato o nelle ore di pausa si permetteva di dare libero sfogo alla sua violenza, come quei due contadini.
 
Nel giorno del mercato la sponda sud-orientale di Dalarlànd pullulava di gormiti operosi e affaccendati come non mai, intenti a gridare ai quattro venti la qualità e il basso costo delle merci che vendevano nelle loro baracche e bancarelle allestite sul momento o corrieri tuttofare ballonzolati qua e là da salamandre precipitose tra una sede del mercato e l’altra, con la fretta di arrivare per primi nel luogo e scegliersi la collocazione migliore.
Lontano dalla radura spianata e brulla in cui si ergeva, polveroso e antico come Gorm stessa, il sommo colle di Astreg, il Cronista passeggiava tranquillamente insieme alla moglie Inamia, rivolgendo occhiate interessate, per poi ignorare senza dire un singolo commento, trascinato dalla moglie, alle innumerevoli strutture di legno e tavole di pietra in cui erano riposti e continuamente rigirati tra le mani per mostrarne le eccellenti qualità quantità spropositate di ogni genere alimentare e di varietà di prodotti artigianali quali stoffe, tappeti, preziosi indumenti cuciti dalle sapienti mani di Picco Aquila, vasellame, piatti, scodelle, venduti da facce native di ogni angolo dell’Isola.
Cronista e consorte vi erano giunti in orario impeccabile, quando ancora il numero di clienti si poteva contare sulle dita delle mani – poco conta che il Cronista ne avesse quattordici, sono comunque pochi – e quando persino i rivenditori non erano al massimo del loro numero e chiasso, attendendo che la zona si gremisse prima di riempirsi d’aria il petto e attirare l’attenzione, né avevano concluso le loro sistemazioni.
I due non avevano ancora pranzato, pur di raggiungere il mercato in quell’orario tanto perfetto e ancora silenzioso: il Cronista si era diretto immediatamente a casa, senza passare come di consuetudine da Ederus, si era dato una spazzolata, aveva bevuto abbondantemente e aveva percorso la strada fino al mercato aperto insieme a Inamia.
Dallo Stretto di Gorm limpido e placido, riflettente la calma e la luce di puro zaffiro del cielo, sulle cui sabbiose rive occidentali erano ormeggiate parecchie bagnarole provenienti da Roscamar, Garsomor, la Città Sotterranea, Monte Vulcano, Rabukh, Ilabukh ed Esabukh, tutte le grandi città di Darth Kuun, si potevano scorgere mercanti del Mare, da Poivronopoli, tanto era presto, emergere dalle acque trascinando dietro di sé pesanti carichi di pesce, erbe mediche e profumate e frutti di mare, zuppi d’acqua, che i commercianti s’adoperavano presto ad asciugare per renderli idonei alla vendita e togliere l’eventuale puzzo di salsedine.
I marini tendevano le mani sopra il loro bagaglio, le ondeggiavano e le smuovevano in moto circolare perpetuo, interrotto di tanto in tanto da un balzo delle braccia in alto o in avanti; e in quell’esatto momento l’acqua aspirata dai carichi e tendente ai palmi come frammenti di piombo a un magnete veniva congiunta in un unico getto e sospinta altrove.
“Ehi, attento a quello che fai!” sbottò un passante dedito a un’osservazione di una locanda vicina, investito dallo spruzzo d’acqua.
“Vogliate scusarmi.” Bofonchiò quasi inudibile il mercante.
Preferibilmente veniva ributtata nel mare, e certo il mercante non aveva occhi ovunque né poteva avere l’accortezza di dove dirigeva il suo getto, se non aveva una giusta preparazione; tuttavia non mancavano i parsimoniosi e i paranoici, che preferivano conservare l’acqua di cui erano precedentemente impregnate le loro merci e i loro pacchi in vasi o altri contenitori di terracotta o ceramica.
Il mercato era un luogo pieno di sale nero, di lavoro, di opportunità per chiunque. Per trovare un oggetto d’arredo adatto a un angolo della casa, un abito o un trancio di carne o pesce pregiato fabbricato o tagliato in lontani confini il cui viaggio per ottenerli non ne sarebbe valso la pena. Non solo: giovani irrequieti di ogni etnia e in cerca di denaro si affaccendavano tra le bancarelle senza comprare né vendere, bensì aiutando con tutto se stessi o il mercante o il cliente. Solitamente adoperando il dominio degli elementi.
“Buongiorno! Avete bisogno di un tavolo per la vostra roba?” s’offriva un terricolo di piccola taglia guardando speranzoso il marino appena emerso, che ancora borbottava per l’incidente di poco prima, mentre apriva la sua rete.
“Giusto, ragazzo, ne ho proprio bisogno. – lo accontentò quello – Fammi un tavolo bello grande, quaggiù. No, no, più a sinistra. La mia sinistra, ecco, proprio lì. Facciamo, hm, lungo dieci piedi e largo tre, anzi, quattro.”
Il gormita della terra si affrettò ad obbedire senza parlare, indirizzando le mani a terra e sollevandole lentamente, e facendole tremare. Piano piano due barriere di pietra dura e giallina si formarono, aggregati ben compatti di terriccio, e un terzo rettangolo fu ricavato da altrove e riposto sopra i due di prima; avrebbe poi pensato a toglierlo quando il mercato si fosse concluso. O così il Cronista sperava, poiché non erano rari coloro che sporcavano il terreno con le loro creazioni e le lasciavano lì, e i soldati spesso non potevano risalire al colpevole.
“Ecco a te.” E il marino gli lanciò un sacchetto – “Attento, è bagnato.” – riempito di qualche pizzico di sale nero da un barattolo.
“Che ne dici, caro, lo prendiamo questo?” domandò all’improvviso Inamia, provocando il braccio del Cronista.
Fu come scosso e risvegliato da un sonno di per sé non bello, ma da cui era rimasto incantato e non riusciva a distogliere l’attenzione: il bancone del pesce. Il suo amico medico gli aveva detto che il pesce sminuzzato, insieme alle solite erbe del pastone, avrebbe fatto bene alle sue ossa. In più il pesce gli piaceva, sia crudo che cotto che intero o in polvere.
Quando Inamia gli oscillò in faccia un vaso di provenienza terricola ridacchiò quasi di scherno.
“A che ci serve quel vaso?” domandò, invero un poco seccato, non potendo immaginarsi un’utilità in casa per quell’affare.
“Per i fiori, ovviamente.”
“Quali fiori?”
“Quelli che ho comprato prima. Per profumare le stanze, te l’avevo detto.”
“E va bene.” Sbuffò il Cronista, mettendo mano al suo sacchetto di sale.
 
Il Cronista discese dal suo albero con discreta velocità e facilità, quasi sfidando se stesso nell’arrivare a terra facendosi meno male possibile. Quel pesce gli aveva davvero fatto bene, ieri e quella stessa mattina. Lo aveva riempito di energie fresche e di vigore, e la sua memoria e creatività erano già spinte verso i racconti del Vecchio Saggio di quel giorno e di molti giorni a venire.
Il tono, lo stile e il lessico di quei primi passi dell’uomo sull’Isola erano ancora un poco semplici e approssimativi, ma presto si sarebbe ripreso e la storia avrebbe assunto un carattere più appassionante e trascinante.
Arrivato agli ultimi ‘pioli’ scavati nel tronco, gli balenò l’idea di evitarli con un salto atletico. Ci ripensò subitamente, rimproverandosi caldamente per un proposito tanto folle.
Il pesce mi deve aver dato un po’ alla testa. – pensò, atterrando infine e mettendosi sul sentiero che separava il bosco di casa sua dall’altro tratto di foresta – O forse è stato l’agromanto. No, fermo: non ho bevuto ieri…oh, be’, l’importante è non fare brutte figure coi ragazzi.
Si ritrovò improvvisamente acquattato, terrorizzato, urlante e furibondo, incollato al suo tronco, il timore di perdere un piede, se non una gamba, o la stessa vita.
Un gormita alla guida di una salamandra era sbucato senza dare segno di sé, fulmine a ciel sereno, e come un dardo era schizzato spericolatamente per il sentiero senza rallentare o tantomeno dare dimostrazione di essersi ragguagliato sulla presenza del Cronista in strada, o di essersi ravveduto per l’errore e il rischio.
“Menumia…guarda dove vai, pirata!” gridò imbestialito il Cronista, tuonando con la mano in direzione del gormita che si dileguava.
Il maestro proseguì per il suo cammino, borbottando confuse imprecazioni rivolte a quel furfantello e a tutti quelli della sua razza vagabonda e sregolata. Una razza che ormai – e del resto da sempre, inutile negarlo – non poteva essere unicamente del Popolo del Vulcano, ma che includeva gormiti di ogni sorta. Mai generalizzare o fare di tutta l’erba un fascio.
Non aveva nemmeno attraversato metà sentiero che, con enorme sospiro di seccatura, sentì, e infine vide, il gormita con la sua salamandra fare marcia indietro, senza correre come un pazzo, stavolta, per chissà quale ragione.
Dallo sguardo sul suo viso rosso di fuoco non era certo per un complimento o per un’informazione.
Per tutti i Semidéi, questo cerca rogne, mi sa. Se insiste troppo, sono certo che le troverà.
“Tu, là. – lo chiamò quel bifolco ringhioso – Come hai detto? Ti ho sentito, sai.”
“Se hai sentito allora non dovresti chiedere. – gli rinfacciò il Cronista, procedendo dritto per la sua strada, senza guardarlo in volto; il vulcanico però aveva propositi differenti, e gli intralciava il passo smuovendo la sua salamandra, e infine scese da essa, bloccando il Cronista con la sua mole – Ho detto che sei un pirata.”
“Nessuno mi dice che sono un pirata.”
“Male, dovrebbero farlo in molti, se vai sempre in giro così, senza freni e senza guardare alla gente che attraversa.” Replicò il forestale per nulla intimorito.
“Non mi faccio dire cosa devo fare da un vecchierello.” Lo insultò, dandogli uno spintone su una spalla. Il Cronista non vacillò come il delinquente aveva sperato facesse. Alzò il suo sguardo per fissare quello del gormita avversario.
“Oh, caro, per favore, non fare pazzie! – sopraggiunse la voce di Inamia, preoccupatissima, sporgendosi da una finestra della casa sull’albero – Lo perdoniate, sir, a volte è un po’ testardo.”
“Da’ retta a tua moglie, vecchietto.” Concluse con malata soddisfazione il vulcanico, ritenendosi vittorioso, dandogli odiose pacche sul trapezio. Ritornò in groppa alla sua bestia.
“E tu da’ retta al tuo buon senso, se ne hai almeno un po’!” inveì il Cronista, prima di ritornare nella sua radura, sul suo scranno, e riprendere la narrazione.
 
<< Ciò che apprese in casa del vulcanico fu anche l’articolata concezione familiare dei gormiti.
Mentre gli elfi, che avevano avuto un passato di dominio femminile nella famiglia ed era il cognome della madre a passare il figlio, avevano una famiglia incentrata sull’uomo così come gli zoari, mentre i vici mantenevano una famiglia retta dalla femmina – anche se tale ‘dominanza’ non era più così radicale e importante come un tempo, e il cognome poteva essere cambiato a scelta tra i due genitori, se lo si voleva - i gormiti possedevano una concezione tutta loro, che non inquadrava una dominanza femminile né una maschile.
Alla nascita, un gormita possedeva entrambi i cognomi dei genitori. Una volta raggiunta la maggiore età, doveva fare la scelta: appartenere nominalmente alla famiglia materna o a quella paterna, mantenendo solo un cognome e scartare l’altro. E ciò non era solo un rituale popolare senza un vero e proprio fine: appartenere a una famiglia piuttosto che a un’altra significava seguire certe regole e precisi costumi, cose di poco conto ma comunque tradizioni diverse da famiglia a famiglia e, cosa più importante, poter pretendere parte dell’eredità di un ricco parente di cui, senza condividere il cognome, non si potrebbe avere nulla se non per specifica volontà dell’individuo.
Per questo motivo in passato diverse famiglie sono completamente scomparse perché i loro figli sceglievano quasi sempre di appartenere alla famiglia più ricca, andando a indebolire il numero e quindi la possibilità di mandare avanti la famiglia più povera.
Anche a Vulcano Razael trovò occupazione temporanea come insegnante.
Tuttavia, la sua intromissione nell’insegnamento dei giovani – e non solo - non fu molto ben visto dagli altri professori e talvolta nemmeno dagli studenti, molti dei quali lo insultavano e lo prendevano in giro. Ma Razael non si diede per vinto, e riuscì ad ottenere il suo lavoro e anche una certa stima da parte del Popolo del Vulcano, quando introdusse loro, primi tra tutti i gormiti, il vomere e l’aratro, di cui il Vecchio Saggio aveva appreso - o meglio, presunto - l’ignoranza da parte dei gormiti durante lo scontro tra i due gormiti nel suo primo e per ora unico viaggio a Monte Vulcano, quando analizzò i campi di carote.
Aveva saputo che per arare i campi i gormiti usufruivano di una semplice magia e dei giusti attrezzi giunti dall’incantesimo. Una tecnica elementare e non complicata, ma che richiedeva diverso tempo di manutenzione e di precisione, cosa per cui l’aratro, pur richiedendo una dose di fatica leggermente maggiore, fu molto più apprezzato.
La conoscenza vulcanica non era enormemente inferiore rispetto a quella degli altri Popoli: la cosa in cui erano decisamente meno sapienti era la magia, e furono in molti a venire dal Vecchio Saggio ad apprendere quanti più incantesimi e segreti riguardo essa.
Razael ne fu contento sin da subito, ma ebbe fin dal primo momento dubbi riguardo gli usi che i vulcanici ne avrebbero fatto, e pertanto limitò molto i suoi insegnamenti.
Per quanto riguarda la ginnastica, c’era poco che Razael poteva fare per aiutarli.
Erano gli unici su tutta Gorm ad avere un addestramento militare e un esercito vero e proprio. L’esercizio fisico era aggiornato, pesante ma adeguato al fisico dei gormiti del Vulcano.
Le tecniche di combattimento di Magor sarebbero state un’aggiunta interessante all’esercito vulcanico, ma con esse il Popolo del Vulcano sarebbe stato ancora più forte, temibile e potenzialmente pericoloso. Apprendendo tali arti marziali, forse tutti quei gormiti imponentemente bellicosi si sarebbero sentiti pronti a muovere guerra agli altri Popoli, e Razael non voleva affatto provocare una battaglia.
Nel suo primo soggiorno a Vulcano visitò la Valle del Vulcano, la zona semi - desertica a sud - est dei territori del Popolo di Sogres e Fercanio, nei pressi dei confini con le proprietà del Popolo della Terra, e l’area di accesso, a nord - est, delle recentemente scoperte e ricche Miniere di Sangor.
Volle anche dare un’occhiata alla zona di contenimento dei dragoni, dove ciò che rimaneva della numerosa flotta di dragoni che aveva colpito Gorm anni e anni fa veniva custodita e controllata.
Non gli fu concesso, tuttavia, perché considerato troppo pericoloso per un essere fragile come lui - cosa vera solo fisicamente.
Nonostante Razael insistette per entrare e a convincere i guardiani che era uno che sapeva badare a se stesso più che bene, le guardie insistevano più di lui a lasciarlo fuori, e giunsero quasi alle maniere forti.
Durante tutto questo, Raganels non si era più fatto vedere dopo che entrò nella sala di Sogres. Si era fatto però sentire il giorno seguente, affermando che tutto ‘Si è concluso nel miglior modo possibile’. Poi Razael non lo aveva più sentito né incontrato.
Terminato il suo soggiorno a Vulcano, seguì l’Occhio della Vita nuovamente nei territori di Roscamar. Non era, ancora una volta, riuscito ad acchiapparlo durante il suo spostamento. Troppo rischioso, d’altronde: non avrebbe fatto in tempo ad analizzarlo con il dovuto impegno e mezzi e a riportarlo al suo posto sulla carrozza dei Priori senza che questi se ne accorgessero o senza che lo cogliessero in flagrante.
Il suo ritorno nella terra in cui era approdato subito dopo il suo naufragio doveva essere un momento emozionante, ricco di ricordi, di sensazioni. Non fu così: dopo aver terminato il suo tour nell’Isola di Gorm senza essere mai riuscito a mettere le mani o ad avvicinarsi sensibilmente all’Occhio della Vita, il suo desiderio di prenderlo con entrambi i palmi, stringerlo e scrutarlo era cresciuto sensibilmente e improvvisamente, durante il suo cammino attraverso il Deserto di Roscamar.
Ora era deciso a prenderlo, in barba a tutto ciò che aveva appreso su di esso e di come i gormiti lo rispettassero e gli stessi Priori, addetti al suo spostamento, non si azzardassero mai a toccarlo.
Forse sarebbe stata una bella cosa andare a trovare Arriut, il Signore ora Saggio che aveva dato il suo protettorato al Vecchio Saggio e che, in poche parole, era responsabile di Razael e rispondeva di tutte le sue azioni. Se qualcosa fosse andato storto, Arriut ne sarebbe stato coinvolto.
Razael se ne preoccupò infinite volte, ma non era capace di risolvere niente: la calamita dell’Occhio della Vita lo attirava come non mai. Il tempo dei viaggi e dei giochi era finito: ora avrebbe scoperto la verità.
Certo, rubare – anche se aveva tutte le intenzioni di rimetterlo al suo posto - l’Occhio della Vita dal tempietto della Terra posto proprio davanti all’entrata della Caverna di Roscamar, dove giorno e notte trafficavano gormiti a piedi, in bicicletta o a bordo di salamandre, in bella vista a tutte le abitazioni vicine, non era affatto facile.
A notte fonda, oscurato dall’incantesimo dell’invisibilità, si avvicinò furtivo al tempietto color nocciola.
Lì, il celeste Occhio della Vita fluttuava vacuo e con una certa luminosità. Razael sentiva sussurri e fruscii provenire da esso, chiamarlo con forza. Ma si trattenne. Non era il luogo per prenderlo tra le mani, toccarlo e studiarlo. Ora doveva solo toglierlo dal suo tronco, per poi accarezzarlo quanto voleva in un posto più appartato, più sicuro.
Si era plasmato un’altra sfera di cristallo, da usarla per sostituire l’Occhio mentre lo analizzava lontano da lì, e insieme ad esso un piedistallo su cui posarlo, per simulare la sua sospensione in’aria.
Avrebbe potuto utilizzare egli stesso un incantesimo per far fluttuare la pietra di cristallo, ma senza qualcuno ad alimentare la magia sarebbe durato per un tempo molto limitato, e Razael non sapeva quanto tempo gli era necessario a capire cosa fosse davvero l’Occhio della Vita.
Estrasse quindi la sfera di vetro, poco più piccola dell’Occhio e decisamente più opaca, dalla sacca legata alla cintura, insieme al piedistallo cilindrico, sui cui aveva già esercitato un incantesimo di invisibilità.
Tutto sudato e fremente, deglutì mentre col bordone rimuoveva il vero Occhio dal tronco e lo poneva, tenendo bene in mente di non avere alcun contatto diretto con esso, nella sacca da cui aveva estratto l’Occhio falso e il piedistallo. Non aveva la minima idea di cosa sarebbe potuto accadere quando l’avrebbe toccato, ma qualunque cosa potesse avvenire, non sarebbe in alcun modo successa davanti alla Caverna di Roscamar, dove qualcuno avrebbe potuto assistere.
Con precisione e flemma massime, attento a non fare il minimo rumore nello sfiorare il legno del tronco o nel far lambire il cristallo di Occhio e sostegno, pose il piedistallo e il falso Occhio della Vita su di esso.
Quando fu certo che fosse stabile, diede un sospiro di sollievo. Ma poi si preoccupò nuovamente, e deglutì.
Si domandò, proprio all’ultimo, se stava facendo davvero la cosa più corretta, più genuina per lui e per i gormiti. Forse non avrebbe mai dovuto desiderare l’Occhio della Vita, e sarebbe dovuto partire immediatamente da Gorm per tornare a Lacedimora, dove Nadia, Rober, loro figlio e Magor lo aspettavano, dove tutti lo ritenevano il più grande stregone della storia e avevano una grande considerazione di lui.
Non fare l’idiota proprio adesso. - si disse severo, dandosi degli schiaffi sonori sulla fronte che si pentì subito di aver fatto - Questo è il motivo per cui sei rimasto qui. Non puoi tirarti indietro ora. Non mi tirerò indietro. Lo toccherò, e ne subirò le conseguenze.
Dei trasporti rapidi uno di seguito all’altro, raggiunse il luogo prescelto per lo studio dell’Occhio della Vita. Una piccola radura piena di arbusti di media altezza e di cespugli, raramente frequentata, soprattutto di notte, a sud - ovest del centro di Roscamar.
La corsa magica lo aveva ravvivato e rinfrescato, ma non appena aprì la sacca con dentro l’Occhio della Vita cominciò nuovamente a grondare sudore.
Ancora senza toccarlo con le dita, con i suoi palmi, tolse la sfera luminosa dalla bisaccia facendola levitare, leggera e innocua, non più grande della testa di Razael, davanti a sé.
Lì, ad altezza d’uomo, rimase, fluttuante, anche dopo che lo stregone terminò l’incantesimo.
Razael, spinto dalle voci incomprensibili e sottili che fuoriuscivano dal globo vitreo, pose una mano verso l’Occhio della Vita, sopra di esso…lo toccò, accarezzandolo come si fa col capo di un gatto o di un cane, al che l’Occhio smise di fluttuare, poggiandosi sulla mano dell’uomo, e smise di produrre quegli strani fischi.
Non successe nulla.
La sua curiosità non si affievolì, e pose anche l’altra mano sull’Occhio della Vita, strofinandolo con entrambe.
A quel punto le mani del Vecchio Saggio si fissarono potentemente e saldamente ai lati del globo, spinte da una forza esterna a cui lo stregone non poté opporsi, e avvicinarono l’Occhio della Vita allo sguardo di Razael.
I sussurri e i fischi che avevano accompagnato l’Occhio della Vita ricomparvero e si fecero improvvisamente più forti, più intensi, insostenibili.
Gli occhi di Razael erano fissi sulla faccia della sfera. Ben presto non videro più l’Occhio della Vita né le mani che lo trattenevano ben saldo, ma immagini che non appartenevano a quella situazione, a quel tempo.
Le immagini fluivano dall’Occhio della Vita nella mente del Vecchio Saggio come un fiume in piena. Visioni confuse, rapide, sbiadite. Visioni di orrore, di potenza spregiudicata, di un passato e di un futuro indecifrabili, enigmatici. Eventi contorti da un’ombra onnipotente e scene di mondi sconosciuti corrotti da fruscii raccapriccianti in un freddo e obliante sottofondo.
Vide l’Occhio della Vita, in mezzo a un deserto, un’isola desolata e arida, piena di roccia e sabbia, poche piante e pochi animali. All’improvviso un’esplosione accecante e fragorosa, che scosse il suolo e annebbiò la luce del sole, invase la terra di nessuno, inglobando l’Occhio da cui aveva avuto origine, espandendosi in ogni direzione, andando a lambire ogni angolo di quella landa che la visione gli aveva mostrato.
Tale ondata d’energia fermò poi la sua espansione, ma non svanì subito, bensì si mantenne per un periodo di tempo indescrivibile, mutando la materia che aveva incontrato sul suo cammino, ma non tutta: alcune piante crescevano sempre più, mutavano, così come alcuni animali, e il paesaggio non era più arido ma rigoglioso. Dove prima c’era un fiore o un pesce, Razael lo vide crescere e svilupparsi a velocità indefinibili davanti ai suoi occhi, diventare una nuova forma di vita.
Una visione paradisiaca da cui il Vecchio Saggio fu rapito, estasiato, ammaliato. Avrebbe voluto, per un inconsulto recondito amore, rimanere bloccato all’interno di quell’allucinazione, vederla e rivederla in eterno, incantato da quella prodigiosa magia divina.
La bellezza della visione fu di breve vita.
Sciabole incandescenti gli lacerarono il cervello, gli deturparono il cranio, urla sibilanti ruppero la meraviglia di quegli istanti, portando la mente confusa e drogata del Vecchio Saggio ad assistere a un cambiamento apocalittico nell’idillio dell’isola.
I nuovi nati, i primogeniti di quel dono dalle stelle, portarono fiamme nelle loro stesse case, nei boschi che avevano dato loro vita. Bruciarono i loro figli, pregarono empie divinità di sangue, sacrificando se stessi per il potere supremo. Una marcia di impietosi fedeli senza volto né identità, che si prostravano all’unisono, tendendo le loro mani verso l’alto, verso l’infinito del cosmo insondabile. Sopra di tutti, illuminava di un fuoco crudele il sempiterno Occhio della Vita.
HAI CONDANNATO TUTTI!
La visione terminò di botto con quella voce stridula e potentissima. Razael crollò all’indietro stravolto, col respiro pesante. L’Occhio della Vita fu sparato in direzione opposta, ma prese a fluttuare prima di toccare il suolo.
Razael, nonostante colto da una inspiegabile fatica, era entusiasta ed elettrizzato. E profondamente spaventato, come toccato dall’incarnazione stessa della paura. Paura che doveva superare ad ogni costo, per il bene della verità.
Quella visione gli aveva dato ottimi spunti su cui lavorare.
“I…i gormiti. - sussurrò alzandosi - I gormiti…l’Occhio della Vita…possibile? E’ tutto collegato, la visione diceva così!”
Si incamminò incespicando e lento verso l’Occhio.
“Ma…quella frase… - riflettè. - Hai condannato tutti.” tremò, ricordando con che forza aveva rimbombato nella sua testa. Qualsiasi significato potesse avere, non era nulla di buono. La morte e la distruzione che l’avevano preceduta…
Prese in mano di nuovo l’Occhio della Vita, stringendolo tra le mani, questa volta di propria volontà.
“Mostrami altro!” esclamò, senza ottenere risposte di alcun tipo. L’Occhio aveva smesso di produrre quei sussurri e quelle parole, ed era improvvisamente più pesante.
Razael fece un’espressione delusa.
“C’è ancora molto da scoprire… - si disse, scuotendolo - Ancora molte verità, e tu non me le puoi dare. Chi ti ha creato? Perché, e come?”
Fu sul punto di abbandonare la presa sull’Occhio per passare alla fase due, quando giunse la risposta del globo alla sua richiesta.
Sibili tremendi che fecero urlare Razael, immagini ancora più confuse ma terrificanti che si spandevano nel suo cervello.
Vedeva individui alieni, sotto un sole alieno, muniti di armi spaventose e estranee, frutto di una tecnologia spregiudicata, in un paesaggio ancora più indescrivibile: corrotto dal metallo, dal fumo e dal sangue di infiniti soprusi. Infuriava una guerra. Dardi infuocati di dimensioni spropositate solcavano terribili nel cielo, deturpando il firmamento di stelle tossiche con indegne scie di veleno rovente. Esplodevano, questi dardi, e sotto la luce malevola e catastrofica dei loro scoppi gli uomini piangevano al colmo di una disperazione totale. Tutto bruciava, la pelle stessa di questi individui soccombeva al rancore di quei lunghi dardi metallici, screpolandosi, distruggendosi, rivelando muscoli e organi che seguivano la stessa sorte, finché lo stesso scheletro diveniva nero e infine polvere. La terra perdeva vita, gli alberi  straziavano chi ancora potesse sentire con urla di inimmaginabile potenza, scuotendo disperati i loro rami spogli delle foglie, prima che cadessero liquefatti. Il mare si faceva rosso…
Sopra tutta quest’indescrivibile catastrofe, l’Occhio della Vita illuminava ogni cosa. Non c’era solo esso: uno strano macchinario, con l’Occhio della Vita incastonato nel mezzo. Da tale macchinario fuoriuscivano tempestosi fulmini incontrollabili, che s’avvolgevano intorno a viticci di rame e d’oro, innumerevoli, dipartendosi dal cuore della macchina. Fili ignobili che s’infiltravano ovunque, nel mondo stesso, schiavo del suo potere. Persino le creature viventi, non erano altro che sorrette dall’energia tutta racchiusa all’interno di quella immonda sfera degli déi. Una risata malevola riecheggiava in ogni angolo di quel mondo morto.
Razael era in preda alle convulsioni; gli occhi roteavano incontrollati all’indietro, la sua bocca trasudava bava da ogni poro. L’Occhio della Vita era diventata la sua mente e il suo sguardo, per quel periodo di tempo. Non aveva ancora finito di tormentarlo con le sue visioni…i suoi ricordi?
Le allucinazioni si fecero confusissime, ma di un atroce vividezza al contempo, e si alternavano rapide come la luce.
Prima osservava barbarie inumane attraverso gli occhi di un tale soldato, che uccideva senza pietà i suoi nemici dai lineamenti indefiniti, che morivano con urla strazianti. La risata continuava a rimbombare nel mentre di tutto ciò. In seguito osservava una creatura mostruosa, folle amalgama di tentacoli, visione proibita, che s’innalzava dalle acque e instillava follia suicida in tutti coloro che guardavano, mentre dal mare inquinato mostri marini di fattezze umanoidi emergevano, i suoi schiavi e adoratori, che con il sangue e la magia più empia riportavano il dominio della bestia sul mondo, e sull’intero universo.
L’innominabile aberrazione partorita dagli abissi in seguito esplose: uno scoppio frastornante e sanguinario dal suo interno strappò in due il corpo mostruoso e titanico, lacerato da una…una cosa, una sorta di costruzione, un albero gigantesco di metallo, generato dalle sue viscere. Tutto si fece rosso, verdastro e nauseabondo degli interni della bestia soprannaturale…e infine ogni cosa, il mare, il mostro e i suoi servi, il cielo stesso scomparvero. Al loro posto un firmamento diverso, un sole troppo rovente, un deserto arido e rossastro riempirono gli occhi del Vecchio Saggio. Davanti a lui si stendevano bizzarre, arcaiche, curiosamente semplici nella fattura ma intriganti e aliene nella forma sculture di pura roccia, cristallo, che parevano rilucere di fuoco proprio. Un pilastro, un monolito senza curve, una fortezza sovrastata da una creatura alata di pietra…Dalle loro aperture, come templi, emergevano a fiotti creature orrende, spaventose, che dal fuoco rosso rubino di mille vulcani dei loro occhi immobili si capiva benissimo potevano portare solo morte. Assassini di quasi dieci piedi, interamente di metallo ma terribilmente organici nell’aspetto, ricolmi di lame, uncini, aculei, e con quattro braccia.
Vide poi i morti risollevarsi dalle tombe e dai sepolcri, smuovere la terra con nuovi artigli, mutazione delirante, e marciare contro i vivi che li avevano amati e sepolti, aggredendoli senza distinzioni e portando nel loro sangue un morbo crudele che faceva loro patire tremende sofferenze, vomito, necrosi, prurito indicibile, prima di morire e risvegliarsi loro stessi da morti che avevano rubato la vita. Lui stesso era divenuto uno di loro…
Gli occhi della sua mente furono spostati violentemente in un luogo fuori dallo spazio e fuori dal tempo, nel vuoto cosmico. Non era come se l’era immaginato, tante sfere di nero separate le une dalle altre, accessibili solo con l’arcana arte dei varchi spaziali, ma un universo aperto, in continua espansione, collegato, sì, ma da distanze incalcolabili. I mondi altro non erano che sfere di acqua e terra, non dischi, e tutti i soli e le stelle erano palle di fuoco infernale.
L’Occhio della Vita si trovava sopra tutte queste cose. Lui poteva renderle reali, controllarle, dominarle, cancellarle. Lui poteva tutto.
La visione terminò, e questa volta l’Occhio della Vita non avrebbe dato più alcuna risposta.
Razael non fu scagliato indietro, né l’Occhio avanti. Ma quella orribile visione l’aveva scosso mentalmente.
“Quest’Occhio - mormorò, con la bocca e gli occhi spalancati, tremante di paura - è una…una fonte di energia.”
Abbandonò l’Occhio della Vita, per portarsi le mani alla testa e cominciare a camminare avanti e indietro, disperato, furente…pazzo! Come poteva essere ancora sano di mente, dopo quelle orribili visioni?
“Quante…quante possibilità offre questo affare?!” esclamò incredulo. Se li avesse più lunghi, si starebbe strappando i capelli.
“Questo affare…è pericoloso.” affermò, fermandosi dal suo cammino frenetico e guardando con ribrezzo l’Occhio che giaceva a meno di un piede da terra.
“Quello che ho visto…è ciò che accadrà. Ciò che può accadere…se dovesse finire nelle mani sbagliate…un potere troppo grande da poter condividere, con nessuno…da poter usare…nessuno…nessun mondo. Non porterà nulla di buono.”
Si coprì gli occhi con le mani. Pianse. Pianse come un bambino privato dei giocattoli, sebbene la ragione della sua sofferenza non potesse essere compresa, né la sofferenza stessa placata. Nessuno avrebbe capito i suoi crucci, non doveva succedere.
“Maledetto! - gridò veementemente - Maledetto il giorno in cui sono sopravvissuto! Perché, perché ho dovuto conoscere tutto questo? Non posso ignorarlo, devo fare qualcosa.”
Prese in mano, una sola mano, l’Occhio della Vita, tenendolo ben distante da sé. Strinse gli occhi, insicuro e incerto.
“E se questa cosa mi manipolasse? – ponderò, agghiacciato - Se mi facesse vedere solo ciò che vuole farmi vedere, e non la verità?”
Strinse i pugni, sentendosi impotente di fronte a tutto ciò. Una potenza più grande di tutte le forze della natura conosciute era all’opera, e tutti loro erano piccoli, insignificanti ai suoi occhi, al suo Occhio. Doveva dimostrare che non sarebbero stati al suo gioco.
“E va bene, Occhio della Vita. Mi hai fatto vedere queste cose? Hai rovinato la mia vita. Non posso distruggerti…potrei distruggere me stesso, prima di capire come…ma stai pur certo che tu non andrai mai via da quest’Isola, non prima di scoprire come diavolo funzioni e come renderti innocuo. I gormiti non sanno cosa quest’Isola ha da sempre nascosto…cosa è stato tenuto nascosto a loro stessi, forse su se stessi! E non dovranno saperlo mai. No…”
Lo prese con forza e lo rimise nella sacca. Le sue considerazioni riguardo l’Isola, i gormiti e l’Occhio della Vita erano completamente stravolte.
Che diavolo era quel posto? Un grande centro esperimenti di qualche pazzo? Se ciò che era stato mostrato dall’Occhio della Vita era completamente vero, allora significava che il culto degli Osservatori era in parte reale.
Forse capiva anche che ruolo avevano la Grande Murena e la Grande Piovra, le bestie mostruose: tenere lontano chiunque da quel posto. Ma avevano fallito la loro missione divina: Razael era riuscito a passare, e a scoprire la verità. Sempre che si trattasse veramente della verità. Tutto una finzione…era possibile?
Ritornò al tempietto della Terra alle prime luci dell’alba.
Aveva deciso di rimandare la fase due dell’analisi dell’Occhio della Vita a un altro momento, perché era certo che sarebbe seguita anche una fase tre, una fase quattro…forse non sarebbero mai finite. Era troppo rischioso studiarlo adesso, soprattutto ora che si faceva giorno.
Riposizionò l’Occhio della Vita al suo posto, rapidamente e senza uso della magia. Era giunto a disprezzarlo.
Buttò via senza riguardi il globo di vetro e il piedistallo, mandandoli a frantumarsi su qualche muro.
Decise tutto a un tratto di andare a visitare Arriut. Sentiva il bisogno di una compagnia amica, di ritornare al mondo reale e alle preoccupazioni mondane, tanto care e amabili, dopo quel viaggio di proporzioni cosmiche tutto all’interno della sua mente, e non aveva mai trattato l’ex-Signore con il dovuto riguardo dopo ciò che egli aveva fatto per lui.
Purtroppo, dovette rimandare tale incontro ancora una volta.
“Vecchio Saggio? Vecchio Saggio!” urlava un gormita, che correva a tutta velocità.
Si fermò dinanzi allo stregone, piegandosi sulle ginocchia e ansimando.
“Come fai a sapere che sono qui?” fu la prima domanda che fece. Temette di essere stato visto nella radura o vicino al tempietto, e poi era stato piuttosto silenzioso e invisibile nel ritornare a Roscamar.
“E’…giunta voce…del tuo arrivo. Abbiamo…bisogno del tuo aiuto!” replicò ed esclamò, stringendo le gambe di Razael e scuotendole.
“Calmo, calmo…è tutto a posto, posso aiutarti. Cioè, vedrò cosa posso fare.”
 
Il Vecchio Saggio fu portato da un gormita terricolo malato. Nessuno sapeva che cosa avesse di preciso, solo che era caduto da una certa altezza. Diceva di avere un male terribile, ma nessuna ferita superficiale.
“Dove ti fa male?” aveva chiesto il Vecchio Saggio.
Il gormita aveva indicato il sito presso l’anca dove gli elfi avevano la milza. Non poteva essere sicuro che i gormiti avessero la milza: come già ripetuto, i gormiti avevano una scarsa conoscenza della propria anatomia così come di quella di praticamente ogni animale, e non sembravano aver mai praticato chirurgia o cose simili.
Il Vecchio Saggio aveva discrete conoscenze in questo campo ma, vista la disperazione del gormita che voleva solo che fosse posto fine al suo dolore, decise di tentare.
“Se è come credo, posso provare a curarti. Ma dovrò tagliarti.”
I gormiti tutt’attorno erano piuttosto contrariati e inorriditi di fronte a una simile richiesta. Nessuno aveva mai tentato una simile tecnica e nessuno avrebbe mai pensato che fosse umanamente possibile farlo.
Ma il gormita dolorante era deciso a volersi togliere quello strazio dal corpo e avrebbe accettato qualsiasi tipo di cura.
Razael allora, non del tutto sicuro di ciò che faceva, fece mandare qualcuno a portare gli strumenti che riteneva necessari, mentre alleviava temporaneamente il dolore con delle magie, e anestetizzava il paziente.
Nonostante i suoi timori, grazie all’aiuto degli altri gormiti, disgustati ma ugualmente interessati, alla sua magia e alla fermezza del paziente – in tutti i sensi, poiché la cura impiegò non meno di un’ora - il Vecchio Saggio fu capace di ripulire il gormita della milza spappolata, disinfettarlo e ricucirlo. La maestosa capacità ricreativa dei gormiti fece sì che il gormita fu in grado di riprendere a camminare e a lavorare dopo pochi minuti dall’intervento di fortuna.
“Vecchio Saggio, ci hai aiutato ancora una volta, infinite grazie.” gli avevano ripetuto tutti i presenti.
“Quello che hai fatto per tutti noi gormiti è grandioso, non saremo mai capaci di ricompensarti, davvero!”
Il Vecchio Saggio fu un po’ imbarazzato ma ugualmente e giustamente fiero di tutte quelle lusinghe.
“E non è ancora finita, temo! - aveva detto uno - Ci hai aperto una porta della scienza a noi completamente nuova! Dici che potrai raccontarci un po’ di più?”
Era l’occasione giusta per innalzare i gormiti anche nel campo della scienza e della biologia. E inoltre, anche per scoprire come erano fatti anatomicamente i gormiti.
“Ne sarei davvero entusiasta!”
 
Razael raccolse un gruppo di gormiti dottori ma non solo provenienti da tutta Gorm, e li riunì per una serie di lezioni itineranti sulla biologia, cosa che gli fu molto facile specialmente grazie al microscopio magico che era riuscito a creare, che gli sarebbe servito per la famosa fase due dell’Occhio della Vita.
Con l’approvazione dei gormiti e di alcune famiglie, il Vecchio Saggio riuscì anche a dissezionare alcuni cadaveri gormitici, cosa che da tempo bramava fare.
Il risultato della sezione fu impressionante: tutti i gormiti, di ogni Popolo e di anatomia esterna, presentavano una stessa composizione e anatomia interna, stessi organi, con alcune piccole differenze qua e là riguardanti la struttura scheletrica, componenti esterne aggiuntive come ali, coda, più arti, becchi, corna, ma anche interne come gli organi di sostentamento acqueo dei gormiti del Popolo del Mare: un muscolo nella cavità orale che ‘apriva’ le branchie sul collo e teneva contratta l’epiglottide, per impedire l’afflusso di acqua nei polmoni. C’era un qualche insolito collegamento tra branchie e polmoni che il Vecchio Saggio non riusciva a spiegare.
Sembravano in tutto per tutto dei rettili, o dei mammiferi, ed elementi e caratteristiche esterne tipiche di animali quali uccelli, artropodi o molluschi non modificavano la loro struttura interna.
Scoprì che gli organi genitali per entrambi i sessi erano interni.
Non fu in grado però di constatare come agisse l’ereditarietà dei caratteri, né il funzionamento del controllo elementale, due elementi di indubbia straordinarietà.
Sezionò anche alcuni gormiti vegetali, con risultati però da lui indistinti, poiché nulla sapeva di organi vegetali, né della loro esistenza né tantomeno di come funzionassero.
I corpi di tali gormiti presentavano una cellulosa morbida nei tessuti che dovevano funzionare da pelle e da muscoli, dei pedici più o meno su tutto il corpo, in particolare nelle dita, che dovevano avere una funzione simile a quella di radici. Alcune parti, quelle dedite alla fotosintesi, erano solitamente di un forte verde. Avevano, all’interno del loro corpo, due ‘bulbi’: uno bianco nel cranio, che agiva come cervello, e uno arancione nel petto, in funzione di cuore. Da entrambi si diramavano sottilissime e ramificatissime radicine simili a vene che correvano lungo tutto il corpo.
A parte gli organi riproduttivi, e delle curiose formazioni nella cavità orale, e organi aggiuntivi, non c’era altro. La fitta rete delle radicine bianche doveva avere il compito di far provare dolore e traumi corporei a questi gormiti, che vista l’assenza di organi importanti era logico pensare che, anche con grossi tagli, potessero continuare normalmente.
Riuscì con promesse, suppliche e lusinghe a farsi descrivere le modalità riproduttive dei gormiti vegetali. Per rendere la spiegazione il più sintetica e comprensibile possibile, la imposterò sottoforma di…traccia tipica di un libro scolastico?
I maschi presentano lo stame all’interno del pube, coperto da due membrane. Nel periodo fertile lo stame produce polline.
Le femmine presentano il pistillo in un rigonfiamento del sedere, coperto da una membrana interna e una membrana esterna, in corrispondenza dell’osso sacro animale. Durante il periodo fertile il polline viene immesso entro le membrane aperta, dove feconda il fiore. Per un periodo di sette mesi dall’impollinazione il fiore si sviluppa - in una direzione e in una posizione che non risultino scomode e che mettano al sicuro il fiore - per poi diventare seme. Quando il seme è pronto le membrane si aprono, recidendo la giuntura seme-corpo materno, e il seme fuoriesce. Dopodiché viene ‘piantato’, lasciato con una parte scoperta dove possa svilupparsi un elemento capace di catturare la luce del sole per la salute del nascituro, ‘coltivato’ con pastoni nutritivi finché, dopo circa due mesi, il rivestimento del seme non è abbastanza morbido perché il gormita formatosi all’interno non lo possa rompere.
La risposta all’indisposizione dei gormiti nel parlare del sesso ricadeva semplicemente un tabù di antiche origini: era una legge non scritta che in nessun luogo e in nessun occasione un gormita discutesse su di esso e sul suo funzionamento, e che ogni gormita scoprisse da solo i meccanismi base. Solo in rare circostanze private, incontri genitori-figli, era permessa dalla loro condivisa morale parlare apertamente, ma non troppo, del sesso. Una concezione legata a un’antica leggenda che aveva da sempre avuto parecchia presa sui gormiti di ogni generazione, che parlava di morte e di sfortuna. Il Vecchio Saggio non volle neanche sentirne la premessa: era stupida ed era stata controproducente, ai suoi occhi.
Tutto ciò era davvero sorprendente per il Vecchio Saggio, e la sua mente si riempì di domande, o meglio, domande che sin dal principio si era chiesto ripresero a tormentarlo con forza: come aveva avuto origine tutto questo? Non era legato solamente ai gormiti, anche se le loro incredibili differenze erano il dubbio primario in lui: come e perché esisteva la vita? Erano tutti nati così come apparivano, o c’era qualcos’altro sotto? >>

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Capitolo 10
*** Capitolo 4 ***


Gli studenti si ritrassero dal loro saggio ed magniloquente maestro che alle volte lasciava correre un po’ troppo la lingua, facendola inciampare in burroni troppo profondi e scoscesi per il suo pubblico, e che potevano anche recargli del male, fisico o meno.
Il Cronista teneva ancora gli occhi chiusi, la mano tesa in avanti in pittoresche gestualità, bocca spalancata nella fervida creazione delle allucinazioni esoteriche partorite dall’Occhio della Vita e in sproloqui di anatomia per i quali avrebbe dovuto riflettere più a lungo prima di esporre alla sua classe di ragazzini così apertamente; aveva ancora bocca aperta, mano tesa e occhi chiusi quando dischiuse questi ultimi e s’avvide della reazione di preoccupazione dei suoi giovani pupilli.
Bloccò la sua orazione. Del resto era già conclusa: era orario di fine lezione, a giudicare da Nejema quasi allo zenit sulla radura.
Non si erano effettivamente ritratti, con i piedi portati all’indietro come in procinto di scappare. Solo con il capo si erano allontanati dal viso del Cronista, un’espressione di lieve ma tangibile disgusto e confusione sui loro volti innocenti, reazione conseguente, trasposizione comportamentale, dimostrazione dell’effetto che le parole del maestro avevano avuto sulla loro psiche.
Per Praconrem! Che ho detto di tanto malvagio? Sembra che abbiano visto lo Stregone di Fuoco…
Il Cronista fu un ingenuo, e lì per lì non si capacitò dell’errore da lui commesso. Diede per scontato che la loro preoccupazione derivasse dalla descrizione fin troppo vivida, nonché fantasiosa, resa troppo ‘col cuore’, data delle visioni scaturite dal dono degli Osservatori nella mente famelica fino alla pazzia e al masochismo di conoscenza e verità dello stregone elfo venuto dall’oriente.
Aveva fatto del suo meglio, sin da quando iniziò, anni e anni addietro, ancor prima di conoscere e sposare Inamia, per rendere quella parte oscura e misteriosa della storia del Vecchio Saggio con la maggiore verosimiglianza che le sue ricostruzioni e le fonti lasciate sull’Isola e nelle menti di chi ha vissuto e tramandato la storia potessero addurre.
Certo non era facile…solo il Vecchio Saggio sapeva per certo cosa aveva visto in quella notte, che cosa aveva fatto. Tutto ciò che si sa attualmente e che il Cronista insegna è stato solamente dedotto, migliorato e modificato nel corso degli anni con la testimonianza di Oracoli secolari, di anziani che sapevano il fatto loro e di gormiti che portavano con sé i ricordi di antenati che avevano visto o udito Razael nella loro vita.
Cercò di redimersi per quella divagazione con la crudezza delle parole e delle scene, di farsi perdonare per le visioni spiacevoli che lui stesso aveva instillato nella mente ancora fragile dei cuccioli con quella sua profonda rielaborazione degli incubi di Razael Akkars.
“Su, su…non abbiate paura. – disse, invitandoli a riavvicinarsi con dolci e un poco affrettati gesti della mano, insicuro in volto – Non c’è più nessuno che vi può fare del male, suvvia. Ho esagerato un po’…vogliate scusarmi.”
Gli studenti obbedirono con debolezza e insicurezza all’invito del Cronista, risistemandosi sui loro posti per terra, riavvicinandosi metaforicamente al loro insegnante. Non eccessivamente, e non tornarono vicini al Cronista come all’inizio della lezione, né tanto meno toccarono l’apice verificatosi quando egli descrisse loro il piano del Vecchio Saggio per trafugare l’Occhio della Vita.
Mantennero tuttavia – e giustamente: qualsiasi cosa li avesse spaventati tanto non poteva svanire con quattro parole – un’aura di preoccupazione e di visibile – ma non esorbitante – insicurezza, fissando gli occhi del Cronista in cerca di risposte, di conferme, e guardandosi l’un l’altro circospetti. Si spostarono leggermente, discostandosi come se il compagno di lezione, ognuno lì presente, potesse rappresentare qualche forma di pericolo per la propria incolumità. Al Cronista parve di riconoscere una sorta di suddivisione infantile maschio-femmina, precedentemente non vista, nella composizione del gruppo di ascolto del bardo.
Ciò diede da riflettere al Cronista. Non abbastanza però perché, nella sua ingenuità, potesse comprendere da subito l’errore commesso e provarne infinita vergogna. Se l’avesse fatto si sarebbe preoccupato lui stesso per le voci che sarebbero facilmente circolate sulla sua persona e la nomea che ne sarebbe scaturita di conseguenza.
Curioso, addirittura comico come fosse sufficiente una sola, minuscola svista che non sarebbe mai stata dimenticata per vedere, o quanto meno immaginare, la propria reputazione venire macchiata e distorta in perpetuo, distruggendo quella che si era costruita e rafforzata nel corso di anni e fatiche. Il Cronista aveva già cancellato una parte di sé, una vecchia, se non addirittura antica reputazione da cui si era volontariamente discostato facendo perdere tracce di sé e ritornando sotto un nomignolo più consono alla sua volontà. Tuttavia ora aveva una certa età, e costruirsi una terza reputazione, sia che volesse riparare la corrente sia che se ne volesse creare secondariamente una nuova – praticamente da zero – era un’impresa fuori dalle sue capacità. L’unica possibilità era emigrare nel Grande Golfo, dove non avrebbe compiuto alcune fatica. Ma non aveva simili intenzione.
E, del resto, è prematuro trattare di questi temi. Il Cronista non si era reso conto ancora del problema, e continuò la discussione come da manuale, arrivando al punto di ignorare i timori insondabili dei giovanotti e, facendo spallucce, lasciar fare al tempo, che avrebbe cancellato qualsiasi brutta immagine circolasse nelle loro acerbe menti, presto o tardi. Non era certo nulla di così traumatico per cui non sarebbero più venuti alle sue lezioni!
Questo quello che pensava il Cronista. Si vedrà se aveva ragione o meno. Era giunto il tempo del dibattito e delle domande.
“Su, coraggio! – li esortò dunque nel loro silenzio, distorcendo il sorriso benevolo stampato sul volto in un’involontaria fuoriuscita di impazienza – C’è molto di cui parlare, qui! È un episodio chiave della nostra storia! Se il Vecchio Saggio non l’avesse fatto, o non avesse deciso di fare quello che ha fatto pur rubando l’Occhio della Vita, Gorm avrebbe preso una svolta diversa…forse non sarebbe mai cambiata.”
Anche dopo l’invito dell’insegnante, nessuno aprì subitamente bocca. Nemmeno Loctiu, sempre la prima – qualora un alunno più esuberante come Osmaniu non la precedesse – a dire la sua e ad argomentare mirabilmente le sue asserzioni, seppur bisognava solitamente insistere.
Uno di essi, infine, dopo che il Cronista li squadrò indagatore uno per uno, dipingendosi d’un espressione che, apparentemente, turbò ulteriormente i cuccioli, alzò la sua mano e timidamente così disse: “S-scusate, maestro…ma è tutto vero?”
“Spiegati meglio, ragazzo. – ribatté lesto il Cronista, appoggiando comodamente i gomiti sui braccioli di radici e intrecciando le mani, soddisfatto che qualcuno si fosse fatto avanti – Se intendi come posso sapere ciò che ha visto il Vecchio Saggio quel giorno, be’…non è tutto vero. Sono ipotesi, formulate sulla base di racconti di chi gli ha parlato ed è stato abbastanza arguto da vedere oltre le frasi criptiche dello stregone.”
Il Cronista si fece pensieroso, tamburellandosi il dito indice sul mento mentre osservava, a capo alzato, una nuvola grigiastra, un’anticipazione della stagione piovosa, danzare certo non molto allegra poco distante, nell’orizzonte visivo della radura.
“A dir la verità, – riprese, senza però guardare i giovani gormiti – c’è stato un altro modo per capire, o immaginare, che cosa ha visto Razael quel giorno…ma ne parleremo più avanti. Nella prossima lezione, per essere precisi.”
“Hm. Capisco. – borbottò il cucciolo richiedente, guardando basso; non sembrava soddisfatto della risposta. – Grazie, maestro.”
Il mentore corrugò la fronte. No, decisamente c’era qualcosa nel tono del gormitucolo per la quale si faceva evidente che la risposta avuta non era quella che si era aspettato. Forse il Cronista aveva capito male la domanda?
Direi che ho fatto del mio meglio. – si consolò sbuffando – ‘Ma è tutto vero?’ non è una domanda molto chiara, eh.
“Maestro, – sopraggiunse, con sollievo da parte del Cronista, la dolce Loctiu, non toccata dalla preoccupazione che aveva avvolto cupamente tutti gli altri (almeno, non con la stessa intensità) – Non c’è nessuno in vita ancora oggi che ha incontrato il Vecchio Saggio?”
“Ottima domanda. – commentò il Cronista, sorridendo e sospirando insieme – So dove vuoi andare a parare, figliola. Ovviamente non te lo posso dire con certezza, ma qualcuno c’è ancora. Oracoli a parte, s’intende. Io da parte mia so di un gormita che lo ha conosciuto…e non è una persona molto…amichevole. Non chiedetemi altro su di lui. Però altri ci sono sicuramente. Tutti quelli che possono ricordare qualcosa di chiaro su di lui sono circa sui cent’anni.”
Il Cronista ci tenne a fare una precisazione. “Ovviamente queste persone sanno molto poco sul Vecchio Saggio, solo le sue ultime imprese, e non sanno nulla di questo inizio.”
“E voi come fate a sapere tutto questo? Come fate ad esserne così sicuro?” chiese ancora Loctiu, con esigenza e insistenza.
Ah, ci risiamo. Non c’è più rispetto e fedeltà, di questi tempi. Una volta, e la gente era meno puntigliosa di adesso! il vecchio bardo lo ascoltavano e gli credevano tutti…e ora tutti a cercare il pelo nell’uovo. Mantieni la calma…’Cronista’.
“Ho fatto delle ricerche. Molte ricerche. Qui e persino fuori da Gorm. – spiegò, volutamente approssimativo – Ho interrogato parecchi gormiti. Chiunque avesse tra lontani parenti qualcuno che avesse conosciuto il Vecchio Saggio in vita. Non ha lasciato ricordi scritti, come sapete…e non ha mai chiaramente parlato delle sue ‘avventure’ a qualcuno.”
Su quest’ultima affermazione avrebbe forse fatto meglio a tacere. Ne andava della veridicità dei suoi racconti; chiacchieroni e pettegoli com’erano i forestali, era facile che di punto in bianco qualcuno lo accusasse di riempire la testa dei giovani di menzogne, per utilizzare un eufemismo inoffensivo.
“E ai fantasmi? – domandò uno tutto d’un tratto, visibilmente infervorato da quella possibilità – Non aveva un amico fantasma?”
“Temo di no. – rispose presto il Cronista – E non credere che i fantasmi siano affidabili, o che non siano disposti a mentire. – fece scattare il dito della mano destra, serio in viso, attirando l’attenzione – Forse esiste, o è esistito, un amico fantasma…potrebbe aggirarsi tutt’oggi tra di noi, in questi alberi…un fantasma con cui Razael si confidava e che ha giurato di mantenere il segreto…o che è riuscito a dire addio alla vita, senza far parola di ciò che il Vecchio gli ha confessato. Si parla di parecchi anni fa, ricordatevelo.”
Il Cronista non aveva molta abilità nello spaventare i bambini, ancor meno degli adolescenti. L’intenzione di far loro rizzare i peli con quella storia del fantasma non era andata a buon fine. Se avessero potuto vederlo qualche decennio fa…
Dimentichi di quando esagero con le descrizioni. Si vede che son capace di spaventare solo senza volerlo…ah, ci vuole pazienza.
La preoccupazione iniziale dei giovanotti non era scomparsa. Solo attenuata dall’incalzante discorso.
“Ma che cos’è, l’Occhio della Vita?” domandò sonoramente Osmaniu, il cucciolo vulcanico. Il silenzio e il clima di tensione che regnavano mentre mosse le labbra diede alla sua voce e alle sue parole un sapore solenne di epico terrore. Una domanda indomandabile, un segreto arcano che non doveva né poteva essere svelato, un taboo. Il succo del mistero dell’Isola di Gorm e degli Osservatori, delle due bestie divine poste a guardia della regione sperduta nell’oceano, dove nessun piede d’elfo, di zoaro o di vicio avrebbe mai e poi mai dovuto calpestare quel suolo solitario, della natura misteriosa e potente dei gormiti, era racchiuso nella risposta a quella domanda.
“Boh.” Disse sornione il Cronista.
A tutti i pupilli del Cronista crollarono all’unisono le squallidamente deluse mandibole, e l’aria della radura si riempì di variegati lamenti inconsulti di incredulità. Seguiti dalla sonora risata del maestro forestale.
“Come sarebbe a dire ‘boh’?!” gridò innervosito Forteceppo, scattando in piedi.
“Stai seduto, figliolo. – gli ordinò gesticolando, tornando grave - Sarebbe a dire che è una domanda…tosta. Importante. Tutto ciò che ruota intorno a questo dubbio è da non prendere sotto gamba. La conoscenza della verità potrebbe cambiare la nostra concezione di ogni cosa, persino di noi stessi. Purtroppo o per fortuna, la verità ci è sempre stata nascosta e temo rimarrà così per sempre. Solo un secolo fa circa abbiamo avuto una pallida ombra di ciò che si nascondeva dietro questo oggetto mistico, questo dono dalle stelle, sia che le intendiate come le case dei Semidéi o degli Osservatori, o qualsiasi altra cosa. È ancora un po’ troppo presto per voi per provare a supporre questo o quest’altro…prima bisogna conoscere tutta la storia del Vecchio Saggio, e ci vorrà del tempo. Potete comunque essere sicuri che questa capacità dell’Occhio della Vita di fornire visioni è accertata. Documentata, come potrete vedere, un giorno, forse, anche domani o oggi stesso, se vi informate un poco alla Biblioteca Silente o a Patmut Iun.”
Il Cronista batté sonoramente le mani, alzandosi in piedi. Si strofinò le suddette mani, compiaciuto della piega presa dalla lezione odierna – un po’ meno per lo strano ‘terrore’ che aveva attanagliato gli scolari.
“Per oggi abbiamo finito qui, miei cari. – annunciò, invitando anche questi ultimi ad alzarsi e a tornare a casa – Domani resteremo a casa, è asildie, se non sbaglio. Ci rivedremo qui tra due giorni, e la storia prenderà davvero una svolta…pazzesca. Aspettatevi il peggio!”
Terminò scherzando – ma non completamente, in fondo – salutandoli mentre si dileguavano, e alcuni lo retribuivano per il tempo consumato insieme a loro.
Quel giorno, Osmaniu nuovamente fu l’ultimo ad andarsene, dopo aver dato pacche e battuto pugni agli ovvi amici che si era fatto in quei tre giorni di lezioni. Sfidò, ancora una volta, lo sguardo insostenibile, quando voleva, del Cronista.
Questi era interessato al gormita, interessato al suo obiettivo, al suo trasporto tanto acceso per la storia del Vecchio Saggio. Tuttavia quel suo trattenersi quasi con scopo provocatorio un poco lo irritava. Finché non si fossero allontanati tutti, il Cronista rimaneva. Questa era la sua polizza, una mera precauzione per non avere responsabilità su quel che poteva accadere ai giovani nella sua radura quando lui era assente.
Osmaniu si grattò rozzamente l’inguine scoperto, prima di andarsene con un leggero inchino del capo e con aria agitata.
Allora il Cronista capì li suo sbaglio, capì cosa li aveva disturbati: aveva parlato loro…della riproduzione! A dei bambini! Dei ragazzi, adolescenti, in verità. Ma ancora giovani e inesperti. Si era sostituito inconsciamente al ruolo esclusivo dei loro genitori, in un’età fin troppo prematura. Le cose potevano mettersi male…che cosa sarebbe successo, a lui e alla sua reputazione, al suo lavoro e passione?
 
Un’imponente distesa di scanni di legno cupo e inciso di allegorie divine, disseminati generosamente dal generoso contadino di devozioni nell’ornato pavimento di piastrelle esagonali rosso mattone, dava ancora quel giorno i suoi incredibili frutti, nonostante il tempo che avanzava e il vento di una nuova spiritualità che spazzava via le foglie secche dell’antico culto delle origini.
La stagione era ancora incredibilmente ricca, il Cronista se ne stupì: come minimo due dozzine di gormiti adoranti con le braccia – due, quattro – aperte e le mani protese verso il cielo, intonando i canti in lingua gormitica intrapresi dal Priore dagli occhi luminosi, dall’alto dell’altare ornato baroccamente dal bassorilievo della discesa su Mitera dei Semidéi, in fondo al santuario consacrato al duo Asili e Fendril, madre e padre della Foresta, mentre – il Priore – con il bastone puntato d’argento eseguiva il taglio, esclusivamente magico, della carne di salmone pronta ad essere imbevuta di limoncello: il sacrificio alle divinità del Mare Patmut e Davon, la coppia onorata quel giorno.
La chiesa era davvero straordinariamente gremita. Il culto dei Semidéi era in disuso, in decadenza da molti anni; già quando ancora il conflitto tra il Vecchio Saggio e lo Stregone di Fuoco portava i Popoli di Gorm alla collisione la fede delle origini non era più largamente seguita come poteva esserlo due secoli prima. Il cambiamento di pensiero nei riguardi dell’Occhio della Vita e l’annullamento del suo ruolo centrale nei rituali e nel culto in generale era forse stata, anzi, quasi certamente, la causa primaria della rovina della fede nelle Somme Forze e nei Semidéi.
Non poteva più essere la medesima delle tradizioni senza l’Occhio della Vita a ricoprire la carica principale che gli era stata affidata sin dall’inizio della civiltà, da quando Valladoin lo portò alla luce da una caverna di Darth Kuun.
Un ruolo centrale un poco stupido, a pensarci bene. Rifletté il Cronista.
Come si giustificava allora che, nonostante tutto, le chiese dei Semidéi fossero ancora così frequentate, e da così tanti individui? Il razionalismo e il materialismo si erano fatti strada da lungo tempo nella cultura gormitica, portando la maggior parte del popolo di Gorm a ideologie atee e agnostiche, in parte per l’influenza di Karmil, o a crearsi le proprie religioni personali. Anche il culto degli Osservatori vantava un numero sorprendente di fedeli, nonostante i tempi, sebbene non fosse una fede unitaria e non tutti coloro che si dichiaravano appartenenti seguissero le medesime regole di vita ed eseguissero gli stessi riti. In tempi più recenti, diversi gormiti si erano aperti alla fede degli elfi di Elnarois e allo scambio delle anime, ripudiando il pantheon originale e definendolo barbaro e incivile nella sua struttura, non compatibile con i costumi e le conoscenze moderni.
Che la tradizione fosse tuttavia più forte di tutte le dicerie e i messaggi anti-Semidéi, di tutti i cosiddetti progressi a livello morale, sociale, scientifico? Le idee di essere i prediletti – il confronto con le altre razze aveva dato maggior sostegno a questa tesi – della suprema razza di déi creatori che viaggiavano oltre i limiti dello spazio, della credenza di poter vivere per sempre, di vita in vita, mantenendo la propria essenziale identità, passando per il motore vorticoso in costante annichilazione e rinascita delle Somme Forze, avevano ancora tanta presa sui gormiti?
Il Cronista credeva davvero a tutto ciò? Confidava realmente in qualcosa che non poteva essere provato né spiegato nel vero senso dei termini, che poteva altro non essere che un’allucinazione provocata nei primordi dall’Occhio della Vita in più gormiti e che si erano lasciati guidare dalle sue voci? Inamia, al suo fianco, che cosa credeva?
La religione passava di genitori in figli, sempre. Lo stile di vita, i canoni comportamentali e morali di un padre passavano normalmente al suo figlio, che cresceva condizionato e in certi casi plasmato da questi insegnamenti involontari, talvolta…seguire quel culto era probabilmente una tradizione come poteva esserla quella del nomadismo dei forestali, un’azione eseguita per inerzia che il Cronista era troppo pigro per arrestare. Sì, era decisamente così, almeno per lui. Non temeva la reazione di familiari o amici in seguito a un’ipotetica uscita dalla fede: era semplicemente troppo faticoso prendere l’iniziativa di farsi avanti e dire ‘no, non credo più in Fendril, Celeles o le Somme Forze e le loro manifestazioni, e forse non ci ho mai creduto’.
Si chiese se lo credeva davvero…se fosse giusto persino pensare una cosa del genere.
Priori di servitù uscirono dalle sale secondarie attraverso porte dietro l’altare, facendo svolazzare i lembi lucidi dei loro mantelli di notte; presero i calici bronzei in cui il Priore della celebrazione aveva immesso bevanda e cibo sacro e, passando di panca in panca, imboccarono tramite forza magica – e usando esclusivamente il bastone nero e argento – ciascuno dei fedeli nella chiesa, portando alle loro bocche oranti gocce di limoncello contenenti cubetti di salmone.
Ciò non sarebbe successo in un’altra chiesa, una chiesa qualunque. I partecipanti alla celebrazione dovevano farsi avanti, mettersi in processione silenziosa e farsi imboccare uno per uno dal singolo Priore che cantava dall’altare.
Quella tuttavia non era una chiesa come le altre: era la chiesa di Erocol nel versante sud-sud-orientale di Dalarlànd, tra il Bazaar e Astreg, una delle più maestose e più capienti nell’intera estensione di Gorm. Era stata ampliata e arricchita col tempo, in seguito al ruolo chiave che un coraggioso Priore aveva svolto nello sventare un’invasione, allertando della minaccia a livello insulare i guerrieri nascosti tra gli alberi con un delirio di campane – le campane che svettavano su per l’alta torre centrale, dividendo la sala delle cerimonie dalle abitazioni dei priori e dai magazzini.
L’ampiezza della chiesa di Erocol, l’affluenza spropositata e invariata di fedeli nel corso degli anni era il motivo per cui sarebbe stato impossibile effettuare il sacrificio nel metodo tradizionale: avrebbe impiegato ore per concludersi. La fama che la precedeva era inoltre una probabile spiegazione di tale affluenza: gormiti da ogni parte dell’Isola vi provenivano per provare il fascino di mettere piede in un ambiente in cui era stata scritta la storia e in cui antiche tradizioni ancora bruciavano.
Il Cronista inghiottì la sua parte di sacrificio, seguito da Inamia subito dopo, storcendo un poco la bocca per il sapore aspro del limoncello, nonostante fosse parecchio allungato, e tossicchiando un poco per il pezzettino di pesce crudo che insisteva a rimanergli bloccato in gola.
Una pratica…impraticabile, per un gormita vegetale. – borbottò – E ancora rimango qui a seguire queste regole. Strana cosa…tutto quanto è strano.
La cerimonia si concluse; i Priori di servitù riportarono al loro posto nelle mensole dietro l’altare i calici – sarebbero stati lavati e puliti più tardi – e tornarono tosto nelle loro stanze. Alcuni; altri rimasero all’imboccatura delle porte laterali, e rimasero ad ascoltare le ultime parole del Priore oratore.
“Fratelli e sorelle, figli dei Semidéi. – parlò il sacerdote in lingua corrente vicia, disegnando un semicerchio con le mani in modo da abbracciare l’intera folla e scoprendole dall’obliante rivestimento del mantello lucido – Sono tempi al contempo sereni e bui questi che viviamo oggi, come vi ho annunciato al principio della cerimonia. Una pace e una ricchezza incomparabili con i secoli che ci hanno preceduto rallegrano le giornate di ogni cittadino di Gorm…motivi di rinnovato conflitto non si vedono all’orizzonte da anni, ormai. Il Grande Mare a est ci è aperto e gli incontri con le altre genti, gli elfi, i vici e gli zoari, del Grande Golfo, che abbiamo ignorato per quasi nove secoli, hanno arricchito entrambe le culture, sotto ogni punto di vista. In questo splendido periodo di pace, di scoperte, e di progresso, però, sembra che sia venuto meno il sentimento di unità che durante i tempi di guerra e discriminazione alle nostre spalle aveva retto una parte dell’Isola di Gorm. Mi sto riferendo al Popolo del Mare: di recente le differenze anatomiche, anche se siamo tutti parte della stessa cultura, e le difficoltà a convivere nei nostri stessi ambienti hanno portato il Popolo del Mare a una sempre più accentuata tendenza a isolarsi, a non uscire da Poivronopoli e dai villaggi subacquei; il Bazaar è sempre meno popolato dagli originali marini, discendenti dei fondatori. Una disgrazia che trae radici da quando i nostri poteri di creazione sono svaniti…ora, non possiamo biasimarli. Le differenze e le difficoltà sono reali e serie…tuttavia, perdere il Popolo del Mare è inaccettabile. Chiedo che chiunque possa, per quanto difficile, faccia qualcosa, qualsiasi cosa, per aiutare i nostri fratelli del Mare, per non lasciare che Gorm si divida proprio ora che è in pace.”
“Un’ultima cosa. – riprese, facendo scattare un dito, quando sembrò che avesse finalmente concluso – Un avvertimento. Non pensiate che lo stia facendo per avversione nei confronti di quest’altra fede, valida tanto quanto la nostra. La verità si nasconde abilmente in ogni dove, e forse noi abbiamo intrapreso la strada sbagliata nella sua ricerca. Chi può dirlo? Vi posso assicurare però che i mezzi con cui si scopre la verità possono essere sbagliati e lo si può affermare chiaramente. In poche parole, di recente, in questa zona, si riuniscono periodicamente dei cultori degli Osservatori. Praticano i loro rituali in queste fronde. Rituali di sangue. Sono giunte notizie di cuccioli scomparsi e ritrovati…non ci sono parole per descriverlo. Tenete sempre gli occhi aperti, su voi stessi e i vostri figli. È tutto. Fratelli e sorelle, andate in pace. Laete ci Uberi Neuni.”
“Hava.” Risposero in coro tutti i fedeli, e uscirono.
 
<< Dopo aver finalmente messo le proprie mani sul tanto agognato Occhio della Vita, il Vecchio Saggio si era ritirato dal viaggiare per Gorm secondo l’itinerario dell’Occhio. Non aveva abbandonato il suo desiderio di analizzarlo ancora più a fondo – e lo fece in diverse occasioni, con però pochi risultati - , ma lo aveva messo da parte per godersi un po’ la vita su Gorm e impegnarsi allo studio degli altri segreti che l’Isola celava, e se lo desiderava poteva prendersi l’Occhio per studiarlo quando voleva: aveva imparato ad essere ancora più furtivo e oculato e nessuno si era mai accorto di nulla.
Si era messo da qualche mese ormai allo studio e alla ricerca di antichi manufatti e armi magiche.
Non ne conosceva il motivo esatto, ma credeva che sapere l’allocazione di artefatti magici e potenzialmente utili a più scopi gli sarebbe potuto tornare utile.
Diverse volte, dopo essersi accuratamente documentato, era partito alla scoperta degli amuleti e delle armi in compagnia di altri gormiti, specie quando doveva entrare in zone private o in cui sarebbe stato meglio essere accompagnati da qualcuno che conosceva la conformazione del territorio e i possibile pericoli.
In tali occasioni, quando gli riusciva a trovare l’oggetto in questione, esso veniva sempre consegnato al Consiglio del Popolo del territorio in cui era trovato, perché fossero i Saggi e il Signore a decidere come studiarlo, cosa farne, dove conservarlo.
Il Vecchio Saggio non amava che ciò accadesse. Voleva essere lui ad analizzarli, studiarli dalle fondamenta, capire com’erano stati creati. Quando si avviava da solo e recuperava gli antichi strumenti, però, era solito lasciarli lì dove li aveva scoperti, così che potesse andare a ripescarli e studiarli quando voleva senza avere alcun sospettoso e poco permissivo Consiglio che lo ostacolasse.
Quel giorno, tuttavia, quando erano passati ormai due anni dal suo arrivo su Gorm e aveva folti, mossi capelli bianchi lunghi fino alle spalle e la barba come quella di un adolescente che l’ha lasciata crescere selvaggiamente, si trovava nella Biblioteca Silente –mentre l’Occhio della Vita era al tempietto del Mare - a indagare non su armi, anelli, pietre, parti d’armatura, bensì sulle piante carnivore note come daicai.
Tali creature vegetali erano, in sintesi, delle grosse dionee la cui altezza non superava quella di mezzo elfo – due piedi e mezzo - con un tronco poco rigido, di solito sul verde oliva, che terminava con due teste, che si aprivano e chiudevano notevolmente più velocemente delle piccole dionee.
I daicai erano da sempre considerati delle piante semi - senzienti che possedevano delle insolite capacità magiche, anche se non esistevano prove di queste presunte abilità straordinarie, ma erano comunque degli esseri viventi molto curiosi, anche per la loro mobilità.
I daicai erano rari nelle terre dell’est, ma su Gorm erano davvero comunissimi, e il Vecchio Saggio, pur non credendo totalmente ai miti che circolavano anche sull’isola dei gormiti riguardo alle mitiche piante, ritenette interessante informarsi su ciò che sapevano e presumevano dei daicai le genti di Gorm.
Era chino a leggere un’enciclopedia che alcuni gormiti, passando, gli avevano sconsigliato ma che il Vecchio continuò a decifrare, ignorandoli.
Parlava di una specie di daicao gigantesca, i grandi daicai, che avevano indubbie proprietà magiche ed elementali e possedevano capacità cognitive maggiormente evolute. Gli autori dell’opera sostenevano anche di averne visti, e li avevano, infatti, disegnati, evidenziando anche le potenzialità magiche di ciascun tipo di grande daicai e anche delle indicazioni molto vaghe riguardo al luogo in cui potessero abitare e altre supposizioni.
Nonostante scendesse molto in leggenda, aveva d’altra parte molte descrizioni particolarmente accurate che non potevano appartenere a un testo interamente di finzione.
Dopo aver preso nota in un suo libretto di ogni elemento di possibile utilità per le sue ricerche, richiuse il tomo e lo ripose al suo posto nello scaffale, per passare al successivo trattato di daicai.
Era sicuro di aver ottenuto dei dati precisi riguardo la probabile posizione di un grande daicai, e vi si sarebbe recato se avesse ottenuto in uno qualsiasi degli altri mattoni le informazioni che cercava.
Fu interrotto dallo scoprire altro di interessante da delle dita gormitiche che gli bussavano sulla schiena: nella biblioteca, dove era preferibile scorrere le pagine in silenzio, quello era l’unico modo per iniziare una conversazione senza intromettersi di prepotenza nella mente negli altri.
Si voltò, incuriosito e leggermente irritato dall’essere stato interrotto in un momento così cruciale, senza alzarsi dalla sua sedia.
Non studiò le fattezze del gormita forestale, e il gormita stesso sembrava andare di fretta e non apprezzare il fatto di dovergli parlare. Non appena il Vecchio Saggio sentì premere la coscienza, la aprì a quella del gormita.
Qualcuno ti sta cercando, fuori dalla Biblioteca Silente gli disse schietto. Il Vecchio Saggio sbuffò e abbandonò le spalle, inappagato dal dover separarsi dal suo studio.
E’ urgente? domandò, sperando di sfuggire da quell’impegno
Non ne ho idea. - rispose facendo spallucce il gormita - E’ stato un lungo passaparola per i diversi piani della Biblioteca. So solo che qualcuno ha bisogno del tuo aiuto.
Va bene.
Si alzò di malavoglia dalla sua sedia, non prima di chiedere al nuovo arrivato se poteva mettere i libri che aveva raccolto al loro posto; raccolse il suo bordone, sempre a portata di mano, e si avviò lentamente verso il pianterreno. Gli dispiaceva abbandonare il suo lavoro quando si sentiva così vicino a scoprire qualcosa di scottante, anche se aveva pienamente la possibilità di tornare e riprendere da dove si era interrotto.
Scese lentamente le diverse scalinate e uscì dalla Biblioteca Silente, immaginandosi chi poteva quel giorno richiedere il suo aiuto e in che cosa avrebbe dovuto assisterlo.
Ad attenderlo c’era una gormita della Foresta, non vegetale, visibilmente turbata, e smise di camminare avanti e indietro non appena vide il Vecchio Saggio varcare l’uscita della Biblioteca Silente, e gli corse incontro.
Era un’esile gormita, magra e non molto alta, apparentemente indifesa, con varie striature di pelo simile a muschio marrone, ocra e verde scuro sulla pelle grigia. Gli occhi erano azzurri e lucenti. Il viso rassomigliava quello di un gatto o, ancora meglio, di un vicio, eccezion fatta per la bocca, elfa.
Fu vicina al Vecchio Saggio, e, seppur trepidante di preoccupazione, abbozzò un inchino.
“Vecchio Saggio, ho urgente bisogno di voi!” gridò, con voce acuta e molto giovanile. Il Vecchio Saggio ipotizzò che, dalla statura, dall’esilità e da quella voce così chiara doveva essere una gormita piuttosto giovane, forse nemmeno maggiorenne.
“Calmati, figliola.” la rabbonì lo stregone, mettendole una mano sulla spalla. Ella sembrava sul punto di piangere.
“Non c’è tempo, dovete venire alla mia casa di adesso, adesso!” urlò, strattonando l’uomo per un braccio.
“Ehi, ma…aspetta.” la trattenne lui, esitante.
“Vi prego!”  lo supplicò la gormita, con gli occhi lucidi e una voce che avrebbe sciolto anche il più spietato signore della guerra vulcanico.
Il Vecchio Saggio si mise quindi a inseguire la giovane gormita, che correva tra gli alberi.
“Dimmi almeno chi sei, - le richiese in corsa lo stregone - e che cosa sta succedendo.”
“Sono Miwa. - rispose - Mia sorella Kunin è stata presa dal Divoratore, ma per fortuna, quando ha preso il controllo, ce ne siamo accorti e l’abbiamo bloccata in una barriera magica. Ma se non facciamo uscire il Divoratore, lui la ucciderà e scapperà, o ucciderà noi!”
“Che diamine è un divoratore?” domandò totalmente sbalordito.
“E’ il nome che abbiamo dato a uno Spirito malvagio.”
“Spirito…malvagio?” ripeté maggiormente disorientato.
“Nessuno ti ha mai parlato degli Spiriti?” domandò perplessa Miwa.
“Be’…sono, sono degli esseri…senza forma. Si trovano su Gorm sin da quando ne abbiamo memoria. Entrano nei corpi degli animali, delle cose, dei gormiti, perché senza non sopravvivono. Ci parlano, e ci aiutano, e ci danno alcuni poteri. Ma il Divoratore è uno Spirito che ha scelto un’altra strada, e vuole il dominio. Non sappiamo il suo nome. Ha ucciso diversi in gormiti in passato, nel tentativo di corromperli e usare i loro corpi per i suoi scopi. E oggi ha preso mia sorella! - si morse le labbra per trattenere il pianto - Il Divoratore non si farà prendere, e se ci provassimo ucciderà mia sorella! Devi aiutarmi, devi far uscire il Divoratore da lei!”
Il Vecchio Saggio non era sicuro di tutto ciò che aveva appena appreso.
Spiriti. Esseri immateriali di cui i gormiti sembravano sapere ben poco, ma di cui si fidavano e li lasciavano entrare nel loro corpo, vivere con loro, o così aveva capito.
Aveva anche capito che gli Spiriti avevano una sorta di coscienza, erano delle persone. Gli ricordavano un po’ i fantasmi, non rari ad est, proiezioni di individui che durante la vita avevano padroneggiato le arti della forza che è alla base della magia, in una via o nell’altra, e che nel momento della morte non si erano sentiti pronti e continuavano a camminare tra i vivi finché non avessero completato ciò per cui ancora ‘vivevano’ o non fossero stati dissipati da forti luci.
Ma questi Spiriti sembravano diversi: donavano dei poteri, o così aveva detto Miwa, e potevano impadronirsi dei corpi fisici.
Chi erano dunque questi Spiriti? Da dove venivano? A che pro aiutavano i gormiti e perché questo Divoratore si era ribellato alla convenzione? Domande che sperava poter porre allo stesso Divoratore, poiché erano arrivati all’attuale abitazione di Miwa, per quanto cominciasse a temerlo, e a temere che questo caso fosse fuori dalla sua portata e che avrebbe fallito. Ma avrebbe fallito tentando.
Entrando nella capanna, vide due gormiti della Foresta in piedi, intenti a tenere attiva una barriera magica invisibile. Uno di questi era Arsens, un gormita che durante il primo soggiorno forestale del Vecchio Saggio era diventato un suo allievo magico. Il suo torace era un uniforme e robusto tronco grigio pieno di fori ordinati. La sua testa era grigia anch’essa, con una insolita apertura con ‘denti’ lunghi e molto distaccati come bocca. Gli arti erano grosse liane verdi e corpulente. Era comunque un gormita piuttosto esile se confrontato con altri, e aveva una postura gobba. Un gormita che non amava parlare, comunque, silenzioso e operoso.
L’altro gormita stava masticando qualche pietanza, per ricaricare le proprie energie al fine di mantenere l’incantesimo. Entrambi tenevano le proprie braccia protese, creando il campo di forza che conteneva il terzo gormita.
“Vecchio Saggio, siete arrivato. Spero riusciate a fare qualcosa.” disse l’altro gormita.
“Lo spero anch’io.” mormorò il Vecchio Saggio, avvicinandosi a quella che doveva essere Kunin.
Aveva anche lei un aspetto felino, munita di grandi orecchie da gatto e di una coda, pelle marrone e pelo verde. Sebbene non gracile come la sorella, non aveva un aspetto temibile, pareva innocua.
Ma allo stesso tempo, seduta a gambe incrociate, provocava una strana sensazione di preoccupazione, di anomalia. Il capo era chino e lo sguardo oscurato, ma la bocca spalancata era ben visibile, e sembrava increspata come quella di qualcuno che ha appena riso.
“Vecchio Saggio, il naufrago elfo.” proruppe una voce sinistra, che parevano due timbri distinti sovrapposti.
Il Divoratore parlava attraverso il corpo di Kunin, con un tono quasi di risata.
“Il famoso naufrago elfo. Sei una figura interessante, non ho mai avuto il piacere di conoscere un elfo…né di toccare la sua mente.” questa frase fu conclusa con una risata mormorata e sibilante, che fece raggelare il Vecchio Saggio.
“Il famoso stregone elfo. Questi insulsi gormiti credono di potersi liberare di me con il tuo aiuto. E’ completamente inutile. Credono di potersi sbarazzare di me, di me! Ho ucciso gormiti in maniere che nemmeno ti immagini, che mi hanno scagliato contro gli incantesimi più disparati. Eppure, eccomi qui, a mietere ancora una volta delle vittime. Forse la prossima sarà questa giovane, innocente gormita, oppure tutti voi, uccisi dalle sue mani che così debolmente hanno posto resistenza al mio potere. Questo corpo è debole, ma riuscirò comunque a sfuggirvi.”
Mentre pronunciava queste fredde parole, era ancora seduto al suolo, insofferente, con lo sguardo rivolto a terra e la bocca sorridente.
“I gormiti non comprendono il loro posto nel mondo. Non lo comprenderanno mai. Sono solo un enorme sbaglio, una brutta caduta durante il nostro cammino verso il progresso, una caduta che ha oscurato la vista ad alcuni di noi. Siete solo esseri infimi e disgustosi, che non dovrebbero mai essere nati. Non mi farò fermare da delle creature inferiori. Voi non potete fermarmi. E per quanto riguarda te, elfo, sappi una cosa.”
Il Vecchio Saggio si sentì paralizzato. Chiunque fosse questo Divoratore, qualsiasi cosa fosse in realtà, aveva le sue fonti di conoscenza, una conoscenza enigmatica e cifrata. E ora il Divoratore gli si rivolgeva direttamente, e le labbra di Kunin si arricciavano in un vero e proprio sorriso: un sorriso raccapricciante.
“So bene che cosa ti trattiene qui, Vecchio Saggio. Non provare a nasconderlo.”
Il Vecchio Saggio era ora proprio paralizzato. Temeva che il Divoratore sapesse davvero sulle vere intenzioni di Razael su Gorm, e temeva ancora di più le reazioni che i gormiti presenti avrebbero potuto avere a riguardo.
“Tu…vuoi conoscere la verità. Tutta la verità. Io te la posso offrire. Completa, ogni dettaglio. Anche ciò che mi è successo, e capirai perché faccio ciò che faccio. Hai un grande talento, Vecchio Saggio. Se accetterai di aiutarmi, e comprenderai la verità e gli orrori, insieme tu e io potremo rendere il mondo un posto migliore.”
“Non ascoltatelo, Vecchio Saggio! - proruppe il gormita affiancato ad Arsens - Ciò che dice è solo veleno, ciò che è è veleno!”
Il corpo di Kunin si alzò di scatto, rivolto al gormita in questione, e i suoi pugni sbatterono sulla barriera resa visibile per un istante, con un espressione e un gesto così rabbiosi che sia il Vecchio Saggio che il gormita sobbalzarono, e Miwa, rimasta in disparte, gridò terrorizzata.
“Mangiati la lingua biforcuta che ti ritrovi, mostriciattolo! Non osare giudicarmi, quando non sai niente di me!” questa volta la voce del Divoratore era davvero infuriata, non arrogante o maliziosa come lo era fino a poco fa.
C’è solo uno Spirito che potrebbe parlare così. giunse poi una nuova voce femminile, una voce mentale, che parlò a tutti.
Dalla porta entrò un altro gormita, un gormita che il Vecchio Saggio aveva già visto: il terricolo nella foresta, quello in possesso dell’anello magico del suono.
“Arien.” disse con disgusto il Divoratore.
Non lascerò che le tue parole corrompano il Vecchio Saggio e i gormiti, e non ti lascerò uccidere Kunin. affermò con fermezza la voce di tale Arien, lo Spirito che risiedeva nel corpo del terricolo.
“Immagino che adesso le cose si mettano davvero male, dico bene?” domandò sprezzante il Divoratore.
Per te, per oggi o per sempre, sì. E’ inutile che opponi resistenza, tu sai di sbagliare.
A che cosa si stessero riferendo di preciso Razael non lo sapeva. Nessuno dei presenti lo sapeva.
Ma basta parlare. Vecchio Saggio. - lo chiamò Arien - Ho bisogno della tua magia. Insieme, possiamo debellare il Divoratore dal corpo di Kunin. Dovrai seguire le mie direttive però. E voi due, siete in grado di permetterci di lavorare all’interno della barriera senza romperla?
“Faremo del nostro meglio, Spirito. - promise il gormita innominato. Vero, Immobile Paziente?”
Arsens, soprannominato in tal modo, annuì lentamente ma deciso.
Mentre il Divoratore continuava a vomitare insulti e proporre accordi al Vecchio Saggio, lui e Arien collaboravano, applicando alla mente di Kunin diversi complessi incantesimi, molti dei quali sconosciuti allo stregone elfo. L’applicazione di tali incantesimi implicava entrare in contatto con la mente del Divoratore: fu un’operazione difficilissima, la mente dello Spirito rinnegato era estremamente potente e anche quando riuscì a entrarvi con l’aiuto di Arien, aveva un’influenza parziale e minima su di essa. Ad ogni modo, mentre agiva, il Vecchio Saggio cominciò a preoccuparsi per la salute fisica e mentale di Kunin, a chiedersi se sarebbe sopravvissuta, anche perché, procedendo con alcuni incantesimi, il corpo della gormita si contorceva con strane contrazioni. Miwa, seduta sulle ginocchia, singhiozzava e non osava guardare.
Lo stregone e lo Spirito arrivarono dunque a un punto critico.
Ora lo Spirito del Divoratore è innocuo, e lo sarà per un po’ di tempo - annunciò - Possiamo farlo uscire e per un po’ non farà danni.
“Aspettate, o Spirito. - intervenne il solito gormita - ‘Per un po’ non farà danni’, dite? Ma quando potrà farli di nuovo, non esiterà. Lo abbiamo in pugno! Non lasciamoci sfuggire questa occasione, eliminiamolo.”
E’ possibile, ma la salute mentale della gormita ne uscirebbe compromessa informò Arien
“Forse centinaia di vite sono state prese dal Divoratore. Prendendone una, impediremo che ne prenda altre centinaia!” propose lui.
“No! - urlò Miwa, inorridita da quelle parole - E’ di mia sorella che stai parlando! Non la lascerò morire! Se erano queste le tue intenzioni, potevi ucciderla subito!”
Non correremo questo rischio. - affermò Arien - Debelleremo il Divoratore. Forse…forse qualcosa può ancora essere fatto per lui.
Il Vecchio Saggio procedette con l’incantesimo prescritto dallo Spirito. Kunin urlò, l’urlo sia della voce di Kunin che quello dello Spirito maligno. Poi solo la voce della gormita gridò, e cadde a terra inerme.
La barriera fu sciolta. Il Divoratore era scomparso. La caricatura di una bocca dentata, il marchio dello Spirito del Divoratore – ogni Spirito ha un suo marchio - scomparve dal ventre di Kunin.
Miwa si gettò sul corpo della sorella, svenuta.
“Non ti preoccupare. - la rassicurò il Vecchio Saggio - Sta bene. Ha solo perso i sensi. Deve riposare, è stata sottoposta a grandi sforzi fisici e mentali.”
Con le lacrime agli occhi, lasciò per un attimo il corpo di Kunin e abbracciò il Vecchio Saggio.
“Grazie, grazie, Vecchio Saggio!”
“E grazie anche a te, Spirito Arien. - disse, gioiosa, una volta sciolto l’abbraccio - Abbraccerei anche te, se potessi.”
Non me lo ricordare. E’ nostro compito aiutarvi.
Il Vecchio Saggio salutò i quattro gormiti della Foresta, o meglio, i tre: il compagno di Arsens se ne era andato subito dopo aver sciolto la barriera. Il fatto di aver avuto la possibilità di schiacciare il Divoratore, flagello di decine di vite gormitiche, non riusciva ad accettarlo.
Lo stregone seguì il terricolo, ma colui – colei - con cui voleva discorrere era Arien lo Spirito.
“Hai fatto un ottimo lavoro, Vecchio Saggio. - disse lui - E io mi sento un tantino inutile, a dire il vero. Sono solo il portatore di Arien.”
“E di questo dovresti esserne orgoglioso, e anche di te stesso. Avresti potuto rifiutare le intenzioni di Arien, invece hai scelto giusto.” lo elogiò lo stregone.
Sono sagge e soprattutto vere parole, le sue. fu d’accordo Arien.
“Sì…certo. Be’, immagino tu voglia parlare con lei, dico bene?”
Razael annuì.
Capisco bene che noi ti interessiamo, Vecchio Saggio - fu la prima a parlare Arien - Noi siamo su Gorm sin dagli albori della civiltà, e i gormiti sono abituati alla nostra presenza. Però, siamo legati da…dei giuramenti. Non possiamo dirti tutto ciò che vorresti sapere. Se hai qualche domanda che credi sia lecita, fai pure.
Il Vecchio Saggio non mise in questione quali fossero questi giuramenti, e procedette rapidamente con le domande, giacché sia Arien che il terricolo sembravano andare di fretta.
“Perché…aiutate i gormiti?”
E’ parte del nostro compito. Aiutandoli, li capiamo meglio. Non posso dirti altro.
“Come…come funziona il…il possesso di un corpo?”
E’ difficile da spiegare scientificamente. Nemmeno noi lo sappiamo con precisione. Noi entriamo in un corpo, che deve essere abbastanza grande, sia animato che inanimato, e viviamo con esso. Se questo corpo viene danneggiato oltre le possibilità di riparazione, moriamo con esso. Possiamo uscire e rientrare in un corpo quando vogliamo. Per quanto riguarda i corpi animati, possiamo prendere il possesso della loro mente per controllarlo completamente.
“Potete sopravvivere senza un corpo?”
Non per molto.
“Dov’è il Divoratore adesso? E come ha fatto a sopravvivere quando l’abbiamo espulso da Kunin? Ah, e qual è il suo potere preciso?”
Chi può dirlo? Può essere ovunque. Quando l’abbiamo tirato fuori, può essere entrato in un piccolo sasso all’interno della barriera, o in una pietra o in un insetto sottoterra. Noi abbiamo limitato le sue capacità di controllo, per almeno un giorno. Per quanto riguarda il suo potere, ha il potere di assorbire: attacchi, magie, anche Spiriti. Assorbendo altri Spiriti, rende suoi i poteri di ciascuno di essi, ma non ne ha il controllo. Nemmeno il corpo ospite ne ha uno vero e proprio, solo un controllo passivo.
“Un’ultima cosa…è stata davvero una buona idea lasciarlo vivere? Che cosa volevi dire con quelle parole, poco fa?”
Ammetto che non è stata la cosa migliore da fare. Ma ne è valsa della reputazione degli Spiriti, e anche della tua. Noi abbiamo dei piani precisi per L…per il Divoratore, già messi in atto da tempo, dobbiamo solo aspettare ancora un po’. Quando sarà giunto il momento, ti avviseremo, o tu avviserai noi, chissà. Ci serve il tuo talento per portare a termine il nostro progetto.
“Va bene. Grazie del tuo tempo, e delle informazioni.”
“E’ stato un piacere lavorare con te, Vecchio Saggio. - disse sorridente il gormita della Terra - Non mi sarei mai aspettato che il turista goffo che si era perso nella Foresta sarebbe diventato così famoso e rispettato. Mi auguro di incontrarti ancora,” gli tese il pugno che, conoscendo le usanze, Razael colpì con il proprio.
“Una curiosità, prima di andare.” lo fermò.
“Dimmi.”
“L’anello…ti ha aiutato Arien a trovarlo, vero?”
“Sì… - assentì incuriosito il gormita, guardando a scatti l’anello e lo stregone - Come fai a saperlo? Non mi sembra che te l’abbia detto lei.”
Il Vecchio Saggio fece spallucce: “Ho tirato a indovinare. Allora, arrivederci.”
 
Scopriva qualcosa di nuovo su quell’Isola ogni volta che meno se lo aspettava. E ogni volta le sue ricerche diventavano più lunghe e impegnative. Ora i daicai non lo interessavano più, non come prima, almeno. Adesso si stava documentando sugli Spiriti, su tutto ciò che i gormiti sapevano su di loro.
Non poteva sapere chi fossero, ma sentiva, in fondo al suo animo, che erano strettamente collegati con ciò che si trovava e che accadeva su Gorm.
Gli ultimi studi lo avevano portato alla Tana Nera, una sorta di museo e di piccola biblioteca in territorio vulcanico, all’estremo nord, appartenente a un gormita di nome Maginiu. Lì sperava di poter trovare qualche antico manoscritto che potesse portarlo a una conclusione, qualsiasi essa fosse, riguardo gli Spiriti.
Era un edificio abbastanza piccolo, nemmeno lontanamente paragonabile alla Biblioteca Silente, almeno dall’esterno. Magari all’interno il contenuto poteva essere equiparabile a quello della grande biblioteca.
Aprì la porta, una normale porta, anonima, con parti in vetro, piccola, e un non troppo forte suono di campana accompagnò l’entrata dello stregone nel locale.
L’interno era piuttosto disordinato, polveroso e con un certo odore di muffa. C’erano grossi scaffali ammucchiati alle pareti, scarse teche contenenti armi, amuleti, pezzi d’armatura, molte delle quali mancavano di vetro, una sola piccola finestra alla sinistra, una modesta scrivania piazzata nel mezzo della stanza. E a destra, un pezzo di arredamento completamente anomalo per il posto, con diversi libri e fogli sparsi e due teche ai lati: un bancone da bar.
Da qualche luogo ignoto, presumibilmente una botola, sbucò da dietro al bancone una figura gormitica alta e snella. Era un maschio, dal corpo ricoperto di peluria, rosso vivo e con muscoli in risalto. Aveva dei bracciali argentei opachi che gli coprivano mani –lasciando scoperte le dita - e avevano tre aculei alle estremità laterali. Una piastra metallica, una sorta di elmo ricoperto di minuscoli spilli, gli copriva la testa, della sua stessa forma: un ellisse con un triangolo che spuntava. Ricordava vagamente il muso di un tapiro, solo un po’ più piatto. Gli occhi erano gialli e con pupille da rettile, nonostante l’aspetto generale da mammifero.
“Ah, salve e benvenuto, Vecchio Saggio!” lo accolse caldamente il gormita con un ampio sorriso e sfregandosi le mani maniacalmente.
“Salve. - replicò il Vecchio Saggio con un lieve inchino - Voi dovete essere Maginiu.”
“Prego, prego, consulta pure tutto ciò che vuoi, Vecchio Saggio, sì sì!” gli permise il gormita, senza rispondere alla sua domanda, allargando le braccia per evidenziare il ‘tutto’, per poi ripiegarle e continuare a sfregare le mani.
Il Vecchio Saggio accettò l’offerta e, giusto per dare un’occhiata, curiosò un po’ le varie teche prima di mettersi alla ricerca di informazioni sugli Spiriti.
Studiò l’elmo di rame lucido e polveroso, posto nella teca senza vetro a destra del bancone.
“No, no, no, non si tocca! - gli proibì immediatamente Maginiu - Serve un’autorizzazione…o un’autorità, sì, per prenderlo. Sei Signore? Sei libero di usarlo. Non lo sei? Allora non toccare, per favore!”
“Perché i Signori possono usarlo? - domandò curioso lo stregone - Che cos’ha di speciale?”
“E’ un oggetto magico, sì! - rispose, riprendendo lo sfregamento di mani che aveva interrotto nell’ammonire l’uomo - Tutti quelli nelle teche sono oggetti magici, eh. Li ho trovati io, raccolti io, per tutta Gorm, per tutto il Vulcano. E li tengo qui, così, così se servono a un Signore o a un guerriero, vengono a prenderli e li usano, sì. Ce ne sono molti altri, giù, nella cantina, molte armi, sì.”
“Capisco…ma che cos’è questo posto di preciso?”
“Questo…questo è un luogo di cultura, e di conservazione, di preservazione, oh sì. E anche di condivisione: questi libri, queste armi, non sono mie, e sono disponibili a chi servono. Ma le armi sono pericolose, eh, e non può prenderle chiunque.”
“Sono buone intenzioni…” si sorprese il Vecchio Saggio, increspando le labbra all’ingiù come a dire ‘non male’. “Allora, se non vi dispiace, vorrei consultare alcuni libri.”
“Sono tutti, - e aprì ancora le braccia - tutti a tua disposizione!”
Si mise quindi ad analizzare gli scaffali, che non avevano alcuna etichetta riconoscitiva, e i libri non erano ordinati per genere bensì alfabeticamente, e tuttavia diversi erano riposti nel luogo sbagliato, come libri che iniziavano con la F dopo la B e libri con la I dopo la O.
Mise mano a qualche libro magia, ritrovando le solite magie tipiche del Popolo del Vulcano: magie malvagie, che puntavano a dare sofferenza all’avversario e a tormentarlo fisicamente e mentalmente, come l’incantesimo che faceva crescere rapidamente le ossa o quello che dava l’impressione di essere trafitti.
Il Vecchio Saggio percepì una simile sensazione: qualcosa di tagliente che gli premeva la testa, la mente, in modo insistente. Sospetto.
Non appena si voltò la sensazione scomparve e Maginiu fu colto nell’atto di girare di scatto il capo, continuando a sfregare le mani.
Maginiu aveva tentato un attacco mentale a Razael. Si sentì in pericolo, ma poi si rese conto che probabilmente il vulcanico non sapeva con chi aveva a che fare. Aveva una mente forte, lo stregone. Lasciò andare la cosa, e se si fosse ripetuta, tanto peggio per Maginiu.
Per impedire che si ripetesse, chiuse subito i libri di magia e andò a cercare quelli sugli Spiriti.
Per una buona mezz’ora, niente di anomalo. Il Vecchio Saggio fu capace di prendere informazioni importanti da almeno tre scritti, ma prestava sempre attenzione per il gormita che si trovava alle sue spalle. Avvertiva che Maginiu lo stava osservando e che, grazie al silenzio della stanza e nonostante alcune urla provenienti dall’esterno, continuava a sfregarsi le mani pregustando chissà che cosa.
Il Vecchio Saggio sembrò aver trovato ciò che cercava, in un vecchio manoscritto parecchio ingiallito e non del tutto leggibile: se ciò che aveva tradotto era corretto, si trovava, da qualche parte nel Mare di Gorm, una certa Fossa degli Spiriti, dove gli Spiriti erano soliti risiedere in particolari momenti.
Poi sentì nuovamente la sensazione di essere violato. Questa volta respinse l’attacco con una forza che il nemico non si aspettava.
Chiuse sonoramente il libro che consultava al momento, dichiarando solennemente: “Qui ho finito.”
Ricollocò il manoscritto, e passò davanti al bancone, producendo forti toc sul pavimento con il bordone, con un finto largo sorriso stampato in faccia: “Alla prossima, Maginiu.”
“Sì, sì, ritorna presto, Vecchio Saggio! - ribatté Maginiu, ritornando lo stesso sorriso - Sì, presto…molto presto, sì, prima che tu te lo immagini!”
Con uno scatto fulmineo, Maginiu si sollevò sul bancone con la mano e saltò sullo stregone, bloccandolo con l’appoggio della scrivania su cui caddero, e con un coltello da chirurgo in mano.
“Andiamo, Vecchio Saggio!” gridò il vulcanico, mentre con una mano teneva fermo un braccio dell’uomo e con l’altra, trattenuta dallo stregone, cercava di accoltellarlo.
“Fammi vedere come sei fatto!” Non era il momento per pentirsi di aver insegnato anatomia ai gormiti: la sua forza era considerevole, e in quella posizione di svantaggio non poteva concentrarsi per respingerlo magicamente. Il coltello era sempre più vicino al viso e il braccio non avrebbe retto ancora a lungo.
“Su, su, non così! Da bravo! Non vorrai mica vedere perché mi chiamano Strappapensieri?” cercava di rabbonirlo.
Allora il Vecchio Saggio sferrò un colpo fisico istintivo: non sapeva se avrebbe avuto gli effetti sperati, ma non sarebbe rimasto immobile. Gli diede un calcio in mezzo alle gambe, al che Maginiu fece un urlo stridulo e abbandonò la presa, piegando le gambe.
Subito lo stregone si rizzò, strappò di mano il coltello al pazzo e lo stese con una scarica elettrica magica, leggera ma che sarebbe servita per dargli il tempo di fuggire.
Corse fuori dalla porta, mentre Maginiu ‘Strappapensieri’ cadeva sulle proprie ginocchia, e si preparò per una serie di trasporti rapidi per andare lontano.
Quell’episodio lo fece ricredere sul Popolo del Vulcano, che durante il suo primo soggiorno aveva giudicato una gente culturalmente ricca, solo diversa. D’ora in poi si sarebbe guardato meglio le spalle.
 
Lo stregone guardava verso il mare, speranzoso ma pronto ad essere nuovamente deluso.
Le prime luci della rosea alba illuminavano le acque cristalline e fredde, pronte a scaldarle con la luce del nuovo giorno. La linea dell’orizzonte era fiammeggiante, e diffondeva luce sulle sagome scure delle prime navi che tornavano dai loro viaggi.
Aveva visto molte cose andare e venire dal mare, molte cose venirgli tolte e molte altre essergli offerte.
Ma tutto ciò che poteva dargli ora il mare non aveva importanza. Tre anni fa gli era stata tolta una cosa preziosa dagli abissi famelici e privi di vincoli, e tutto ciò che desiderava era che questa cosa gli fosse restituita.
Invece il mare non sembrava d’accordo, in alcun modo: ogni mattina si recava sulla spiaggia, e non trovava mai ciò che tanto agognava. Non si era arreso, e si alzava presto ogni giorno per vedere se il mare, quel giorno, era stato clemente.
Tuttavia ogni giorno era come l’altro: nessun segno del suo ritorno, nessuna nave con la sagoma della Mudras che attraccava nel porto.
Magor abbassò lo sguardo, deluso e rattristito, conscio che ormai le probabilità che il suo amato maestro fosse ancora in vita erano diminuite ancora una volta.
“Avevate detto che sareste tornato, maestro. - mormorò a capo chino - Entro un anno, di mattina, vi avrei visto tornare. Dove siete, maestro?”
Magor diede le spalle al porto, tornando nel centro della città, dove ormai lo attendevano severe parole da parte del sindaco che lo incitava ad accettare la scomparsa di Razael Akkars e a prendere una decisione: prendere il posto del più grande stregone dell’epoca.
Razael, nella sua vita a Lacedimora, aveva rivestito diverse cariche e aveva un grande numero di impegni che, con la sua partenza, erano stati interrotti, ma che non potevano rimanerlo ancora a lungo. E oltretutto, Razael era un’icona: l’apoteosi dell’abilità e padronanza magica elfa di tutto il Grande Golfo, la regione che comprendeva il Venturgio, la Setturnia e la parte più occidentale della vasta Zoah. Quando qualcuno parlava di elfi, e di magia, era la figura del maestro Razael Akkars che veniva in mente.
Ora che la comunità elfa del Grande Golfo aveva ottenuto una figura identificativa, non poteva semplicemente rimuoverla e tornare ad essere anonima.
Magor era insicuro. Lui non poteva occupare il posto del suo mentore. Non era pronto a rappresentare l’intera popolazione elfa, a intraprendere la carriera dell’insegnamento e non era pronto come stregone: Razael era partito prima di completare la sua istruzione, quando mancavano davvero pochi passi. In quegli anni, nonostante innumerevoli esercizi, non era ancora stato in grado di creare il diamante dal carbone. E senza Razael, non l’avrebbe mai imparato: nessuno era dello stesso livello di Magor. Ma allo stesso tempo, Magor era ufficialmente ancora un apprendista: sarebbe stato scorretto e poco dignitoso sostituire Razael quando non aveva il titolo di maestro.
Mentre pensava a queste cose e a come avrebbe discorso con il sindaco Asdurges, che gli aveva fatto un ultimatum, decise di passare per la sfarzosa villa di campagna di Nadia e Rober e di loro figlio Fabian, per informarli che quella era l’ultima volta che si sarebbe illuso di Razael ancora vivo.
Rober era sempre stato un tipo piuttosto silenzioso e distaccato: non era stato molto legato a Razael e non era un vero e proprio amico di Magor, nonostante lo stregone fosse spesso ospite a casa loro.
Magor lo trovò nel giardino, intento a sistemare dei vasi di fiori, con Edvinx, che aveva ormai raggiunto una veneranda età per un gatto, che sedeva vicino a lui e lo osservava interessato con gli occhi socchiusi. Rober, girandosi un momento, notò Magor e lo salutò con un cenno del capo, non perché avesse in antipatia l’apprendista del genero ma perché aveva le mani occupate.
Nadia, vestita in un’elegante veste cremisi bordata di fili d’oro con gonna, uscì di casa e andò incontro a Magor portando il piccolo Fabian per mano. Nadia aveva meglio accettato la scomparsa del fratello e si era data una certa pace, rispetto a Magor, sebbene non le piacesse affatto di non poter almeno avere il corpo o sapere come fosse morto di preciso.
I due si scambiarono il solito saluto guancia a guancia.
“Ciao Magol!” lo salutò l’innocente Fabian, mentre giocherellava con un modellino di una nave.
“Ehilà, piccola peste!” ricambiò con un sorriso Magor, piegandosi sulle ginocchia e accarezzando i capelli castani del bimbo.
“Ti piace mia barca?” gli fece ondeggiare il modellino davanti alla faccia.
“Oh, sì, è molto carina. Chissà quanto è costata ai tuoi!”
“Magor. - gli si rivolse Nadia con un leggero sorriso - Cosa mi racconti?”
Magor si rizzò, e disse sottovoce: “Possiamo parlare da soli?”
Nadia sospirò e annuì. “Fabian, perché non vai a vedere cosa fa papà? Io e zio Magor dobbiamo parlare di cose da grandi.”
Fabian rimase fermo un attimo a far volteggiare la sua nave, poi guardò la madre, riluttante per qualche secondo, ma poi fece di sì con la testa, e si dileguò.
“Volevo dirti - disse subito Magor, a bassa voce - che mi arrendo. Tuo fratello…il mio maestro, è morto.”
Nadia abbassò il capo annuendo, e prese le mani del giovane stregone.
“Mi dispiace. Davvero! - esclamò alzando il capo - Fabian non ha mai conosciuto suo zio. Forse, forse sono stata egoista a non pensare più a lui sin da subito, ma… - ammise, evitando il contatto con lo sguardo di Magor, un po’ imbarazzata - pensa positivo, Magor. Sei un giovane mago, con un promettente futuro e sei anche un bell’uomo. Hai ancora anni di vita davanti. So che Razael significava molto per te, forse più che per me, ma non lasciare che il suo fantasma ti perseguiti per il resto dei tuoi giorni. Passa oltre, d’accordo? Non è difficile, ci si abitua. Io ho visto i miei genitori morire, tu i tuoi non li hai mai conosciuti…eppure eccoci qui, sani e felici. Vivi la tua vita, Magor. Ci vediamo alla celebrazione funebre di Razael, allora.”
Nadia si congedò da Magor, che, accettando i consigli della donna, abbandonò presto la villetta, diretto rapido alla sede d’amministrazione, con i lunghi ricci neri che svolazzavano al vento e il rubino del bordone che riluceva come fuoco.
 
“Era ora, signor Vasìr.” esclamò con un sospiro di sollievo il sindaco Asdurges, sprofondando nella sua sedia, dalla sua parte della scrivania. Magor era seduto dalla parte opposta.
“Per due anni, dico, due anni! avete portato avanti questa…questa, questa cosa! Molti, per la sua riluttanza, fuori, credono che il Signor Akkars sia ancora vivo! Finalmente, ha accettato che se ne sia andato.”
Magor strinse forte il suo bordone nero. Era abbastanza innervosito dal tono del sindaco. Parlava della morte del suo amico come un semplice imprevisto, un problema da risolvere il prima possibile per poi dimenticare completamente. Magor non poteva accettarlo.
“Moderate il vostro tono, sindaco.” lo ammonì, alzandosi dalla sedia e guardandolo dall’alto al basso con uno sguardo feroce, che rendeva il sindaco ancora più piccolo.
“Razael era mio amico, e anche vostro, se non sbaglio. Come potete essere così cinico, allora? Sapete meglio di altri di quanto fosse importante il mio maestro, dovreste capire perché ho atteso così a lungo.”
“C-capisco, signor Vasìr, - tremò il sindaco, pensando bene a cosa dire poi - ma, dovete anche capire che Akkars ha compiuto un gesto…avventato. Nessuno ha mai amato molto l’esplorazione, nessuno sa cosa ci aspetta oltre i confini, ma Akkars ha voluto tentare, e ne ha subito le conseguenze.”
Magor si ammutolì, e tornò a sedersi. Qualcosa di vero c’era nelle parole del sindaco. Forse la sete di conoscenza di Razael si era spinta un po’ oltre. Forse.
“Ora, dunque, - seguitò Asdurges, estraendo delle carte - potremo procedere alle celebrazioni funebri ufficiali di Razael Akkars, del capitano Ricardo Tarrant e di tutti gli altri membri dell’equipaggio della Mudras. Avete fatto aspettare diverse persone, facendole sperare che la Mudras non è andata distrutta, o affondata, o entrambe le cose. Ma ora, passiamo a cose che vi riguardano più da vicino.”
Scarabocchiò qualche firma sui fogli, poi li mise da parte e appoggiò entrambi i gomiti sulla scrivania, con le mani giunte.
“La vostra posizione, signor Vasìr. Con il Signor Akkars ufficialmente deceduto, siete voi il più grande stregone della regione, anche se per la nostra cittadina lo eravate da un pezzo. In quanto suo unico allievo, la sua eredità è tutta vostra. Avete tergiversato abbastanza, Magor. - e qui il suo tono si fece serio e severo - Ora dovete scegliere: sostituirete il vostro maestro, accettando tutto ciò che comporta, oppure lascerete…trono vacante?”
Magor si mise la testa in mano, massaggiandosi le tempie. Aveva avuto tre anni, anzi, molti di più a dire il vero, poiché era improbabile che morisse prima del suo maestro, per pensare a cosa rispondere alla fatidica domanda.
La sua reputazione, e molto altro, ne avrebbe giovato, specie nei riguardi dei vici, che non tutti lo avevano in simpatia, ma d’altra parte divenire a tutti gli effetti il rappresentante dell’elfità comportava una serie di doveri, impegni e decisioni ben più difficili di questa.
Magor alzò il capo, risoluto, e guardò Asdurges dritto nelle palle degli occhi.
“Trono vacante.”
 
Le celebrazioni funebri furono una cosa piuttosto sobria, e senza lacrime, almeno quella per Razael. Dopo tre anni dalla sua scomparsa, era ormai acqua passata, e di sicuro era così anche per le altre. Magor pianse solo, in silenzio, con scarse lacrime che si seccarono subito. Sulla lapide del maestro fu scritto:
Razael Akkars
1423 - 1471
Il più grande stregone del suo tempo, ora la sua conoscenza è infinita.

 
Abbastanza veritiera, almeno per un credente, cosa che Razael non era. Era sua intenzione farsi cremare, ma senza un corpo c’era poco da fare.
Magor lasciò per primo il luogo della ‘sepoltura’. Si diresse nuovamente al porto. Voleva vedere il mare.
Che cosa poteva avere incontrato al di là del mondo conosciuto? Ricardo Tarrant era un abile marinaio, un ottimo capitano, si diceva in giro, e la Mudras era una nave all’avanguardia, per quello che Magor aveva potuto vedere e sentire, nelle osterie del porto.
Estrasse la boccetta dalla tasca interna del suo giaccone elegante. La boccetta con dentro carbone in polvere: non se ne separava mai. Lo rovesciò a terra, e formulò l’incantesimo. La polvere si agitò, divenne cristallina, di un materiale denso. Sembrò solidificarsi per un attimo, ma tutto fu vano: cadde e si frantumò come vetro, per poi ritornare polvere.
Magor imprecò, prima di riporre minuziosamente il carbone nella boccetta.
Estrasse quindi la boccetta che teneva nella tasca destra: boccetta di idromele. Non era uno che era solito bere e ubriacarsi, ma l’idromele gli era particolarmente buono.
“Alla tua salute.” gli saltò in mente di dire, alzando la bottiglietta e mandando giù un buon sorso, senza sapere un motivo preciso.
Guardò il mare, mosso, in cui si specchiava il cielo buio e nuvoloso che minacciava pioggia. Si voltò, deciso una volta per tutte a lasciarsi ogni rimpianto alle spalle, per guardare avanti e rispondere alla grande domanda: cosa farai adesso?
Ma qualcosa che si avvicinava lentamente alla spiaggia lo trattenne sul luogo.
Non era una grande nave, anzi, non era proprio una nave: era troppo piccola. Forse qualche animale morente, o semplicemente un grosso pesce o cetaceo che si affacciava fuori dall’acqua.
Il graduale e scosso a causa delle onde avvicinamento dell’oggetto al porto spinse Magor a rimanere attento: se era un animale, meglio accertarsi che non fosse pericoloso. Si incamminò verso la riva.
Gli fu chiara adesso la sagoma inconfondibile – o quasi - di una zattera. La vela era quasi del tutto lacerata, e due esili figure, che in un primo momento Magor scambiò come vici, si facevano strada sbracciando.
Le due figure erano invece elfi, stremati e magrissimi. Chissà da quanto tempo erano sperduti in mare, da quanto non toccavano cibo! Magor si precipitò ad aiutarli.
Trascinò la zattera a riva, sotto gli occhi di nessuno, mentre cominciava a battere la pioggia, e portò entrambi i corpi, gracili e febbrili e poco vestiti, nel più vicino locale medico.
 
Furono riposti in lettini, mentre gli furono somministrati medicine e incantesimi di cura. Magor rimase al loro fianco: voleva sapere chi erano e da dove venivano. Il dottore lo avvisò che, viste le loro condizioni e lo stomaco vuoto da tempo, ci potrebbe esserci voluto diverso tempo, ma Magor fu paziente.
Non ci volle molto, comunque, prima che uno di essi, l’uomo –l’altro era una donna - si svegliò.
Aprì lentamente gli occhi, e appena vide cominciò a urlare. Non urla incomprensibili di dolore, ma grida concrete.
“La nave…la nave! Tutti i morti, uno ad uno…un mostro! Fuggire, fuggire! No, loro, no, sono andati avanti, dai mostri!” gridava forsennatamente.
Magor fu interessato.
“Per…perdonalo. - mormorò la voce della donna, svegliata dalle urla - Quell’episodio la ha scosso…tantissimo, non se l’è più dimenticato. Ma…grazie, per averci salvato. Sei…sei stato tu, vero?”
“Sì…ma, quale episodio?” replicò frettoloso Magor, incuriosito da tali parole
“L’episodio…che ha distrutto la nostra nave.”
“Quale nave?” domandò con un tono terrificante lo stregone vestito di nero.
“La Mudras.”
“La Mudras? La Mudras!” esultò Magor spalancando gli occhi e alzandosi in piedi di scatto, facendo cadere il bordone. “Finalmente! Notizie dalla nave! Ditemi, ditemi cos’è successo!”
“Non…non lo so. - riluttò la donna - Sono…sono stanca, non so se ce la faccio. Sono brutti ricordi.”
Magor si fece scuro in volto. Non avrebbe aspettato ancora. “Invece tu me lo dirai, e ora.”
Le sfiorò la fronte con l’estremità del suo bordone, pronunciando un incantesimo. L’altro uomo continuava a dimenarsi.
Il viso stanco e l’espressione tormentata della donna lasciavano il posto a un volto sereno e tranquillo. Si volse verso il suo interlocutore con un sorriso.
“Sì, ti racconterò ciò che è accaduto.” si accomodò sul letto, chiuse gli occhi e fece riaffiorare i ricordi.
“Avevamo avvistato terra. - cominciò - Io ero la vedetta. L’avevo avvistata io. Eravamo ansiosi, perché quella era un’isola bella grande, te l’assicuro! e fino ad allora solo piccoli atolli…”
Prese fiato e sospirò. Aprì gli occhi e rivolse lo sguardo allo stregone “Tu mi crederai, vero?”
“Non vedo perchè non dovrei.” rispose Magor inflessibile.
“Bene. - continuò la donna. - Eravamo vicinissimi alla costa dell’isola, quando la nave si incagliò. Guardammo l’acqua intorno alla nave, e vedemmo ciò che sembrava una tipica secca, e ci demmo una mossa per toglierci da lì…ma ci sbagliavamo…Ci sbagliavamo!”
A queste ultime parole la donna aprì gli occhi e prese nuovamente ad apparire stanca e contrariata ad obbedire allo stregone. Magor, noncurante, ripetè l’incantesimo precedente.
“Continua, vedetta. - sospirò Magor con voce supplichevole - Te ne prego.”
“Sì, sì… - mormorò calmandosi nuovamente - Ebbene fu allora che qualcosa da sotto spaccò la nave in due, trascinando la poppa nelle profondità…e poi la prua…fummo tutti scaraventati in mare…nessuno ebbe la fortuna di volare sulla riva…e poi, dei tentacoli arrivarono da sotto il mare, ci presero, uno a uno, veloci e inesorabili…nessuno si salvò.”
Magor non ne fu contento. Una piccola speranza era nata in lui di poter vedere ancora il suo maestro, ma si era spenta così rapidamente come si era originata.
“Noi però sì. - seguitò imperterrita la vedetta - Eravamo stati risparmiati, un miracolo! Ci siamo recati a nuoto verso le isole che avevamo scoperto prima, ospitati dagli indigeni. Siamo rimasti lì per molto tempo, scossi, e il viaggio di ritorno senza una grande nave fu molto lungo.”
La donna riaprì gli occhi, e si voltò verso Magor, che osservava, cupo e malinconico, il pavimento.
“Ma…tu…tu sei Magor, Magor Vasìr. - borbottò, quasi incredula, la vedetta - L’apprendista di Razael. Razael! Lui…lui forse si è salvato, forse insieme ad altri! L’ho visto!”
Magor fu ravvivato come un carbone ardente da un attizzatoio. Nuova vita scorreva in lui.
“Razael, parlami di Razael.” ordinò subito alla donna.
“Lui, lui si era alzato in volo. Voleva aiutare gli altri, insieme a se stesso. E lui…lui, è stato trascinato a riva, sì, lui sì.”
“Sei stata di estrema utilità, vedetta.” la ringraziò con enfasi sull’‘estrema’, prendendole entrambe le mani e stringendole.
Abbandonò di corsa il locale, dirigendosi di corsa verso la sua roulotte. Razael era ancora vivo! Lo sentiva, non poteva essere altrimenti. Quando strinse le mani della donna, entrò nella sua mente senza fatica, la esplorò cercando le informazioni che gli servivano: coordinate, direzioni e ricordi vividi, per vedere se ciò che raccontava fosse successo veramente.
Si cambiò in fretta dei vestiti eleganti che aveva addosso, mettendosi ciò che gli capitava a tiro, più il suo mantello di tessuto nero con spalline e un immortalato di lui e Razael, e qualche provvista.
Poi si precipitò al grattacielo dove abitava Razael, nel suo appartamento. Lì, da tempo stava lavorando a un macchinario che non vedeva l’ora di mettere in moto: un aliante, di legno, di metallo e di ingranaggi, un marchingegno, fior fiore d’alchimia, che gli permettesse di volare e planare utilizzando un combustibile.
Non mi fermerò a descrivere come funzionasse e apparisse tale oggetto: come si può notare la narrazione sta procedendo rapida e gli eventi sono ben più importanti dei dettagli tecnici.
Lo portò fuori non senza fatica dall’appartamento e poi dal grattacielo, dove lo fece funzionare senza problemi.
“Sì, va, VA! - urlò entusiasta Magor, saltellando - Razael, sto arrivando!”
Saltò sull’aliante, mettendo i piedi in posizione e aggrappandosi al manubrio di legno e metallo, che spuntava dalla parte centrale - superiore della macchina ed era rotabile, e partì più veloce di quanto egli stesso si aspettava, mentre dalle finestre la gente si affacciava a vederlo sfrecciare, incredula.
 
La potenza dell’aliante era davvero inimmaginabile: poteva portarlo ovunque senza troppi sforzi e con impressionante velocità. Tuttavia non era un mezzo di locomozione istantanea, né poteva avanzare senza frequenti pause, per lasciarlo riposare e riempirlo di energia per continuare il viaggio. Poteva andare in pezzi, e lasciare Magor sperduto in mezzo all’oceano, senza speranze di andare avanti né indietro.
Più di una volta, troppe per lui, si trovò costretto a fermarsi, sui minuscoli isolotti che incontrava lungo il tragitto. Aveva bisogno di energie fresche, di cibo, di riposo, o sarebbe morto dagli stenti ancor prima di raggiungere l’ignota meta. Accadde addirittura che l’aliante perse potenza durante il volo e Magor cadde nell’acqua del mare aperto, trovandosi costretto a riparazioni d’emergenza e a una pesca improvvisata e poco fruttuosa per rifocillare sé e il macchinario.
Ogni isola che trovava rappresentava per lui una nuova fonte di speranza: Razael poteva trovarsi lì.
Quando procedeva il viaggio verso sud - ovest dopo aver sondato in lungo e in largo gli atolli alla ricerca del maestro, vivo o morto – non voleva nemmeno pensarci, ma era una possibilità - la sua aspettativa non crollava mai, sostenuta da una tenace determinazione.
Avrebbe varcato lo stesso Grande Golfo pur di avere una certezza.
I rari incontri con popolazioni incolte e rozze intrappolate sulle isole, larghe e piccole, lasciava Magor molto sorpreso e carico di grande curiosità. Il suo maestro lo aveva contagiato con la sua spropositata sete di conoscenza, e desiderava apprendere più sulla loro cultura e sulla loro storia.
Non aveva però il tempo, e la brama di rivedere Razael Akkars, il più grande stregone del suo tempo, superava ogni altro bisogno, persino quello del cibo.
Mostrava l’immortalato di Razael, da cui non si separava mai, agli indigeni; e fu con estrema soddisfazione, quasi un’estasi, che alcuni lo riconobbero e seppero dirgli, piuttosto confusamente, che lui e la sua imponente imbarcazioni, tempo addietro, si erano diretti più avanti. Alcuni seppero anche dirgli dei due naufraghi che aiutarono a tornare a casa.
La velocità del progresso del giovane mago era considerevole, ma per Magor era di una lentezza inimmaginabile: ogni minuto che lo separava dal suo re - incontro col maestro era un tormento che lo logorava.
Il viaggio stava ormai per terminare, anche se Magor non lo poteva sapere: oltrepassò anche lui la misteriosa terra nera, oscurata dalla nebbia, che era Tato Yami, ma il suo interesse non era rivolto a ciò che si trovava ai lati, solo davanti a lui.
Entro circa dieci giorni arrivò a quella che sembrò la sua destinazione. Fu in prossimità di un’isola su cui si intravedevano due grandi monti, uno dalla cima innevata, quando, pur con il vento e la velocità che ovattavano la sua percezione dei suoni e i capelli che sferzavano sul viso gli impedivano di vedere chiaramente, udì uno strano gorgoglio provenire da sotto di sé, e poi dei mostruosi tentacoli violacei emergere affamati e contrarsi e muoversi con scatti e allo stesso tempo forza così impressionanti che non c’era dubbio fosse stata quella creatura a distruggere la splendida Mudras. Provò una profonda compassione per quanti avevano perso la vita a causa della furia di quello straordinario animale, e una ancora più abissale angoscia che Razael potesse non essersi affatto salvato.
Si tenne bene in alto, dove i tentacoli non potessero raggiungerlo, per poi planare sempre più in basso, e atterrare, lontano dalla spiaggia insicura, in una nuova terra. Un nuovo mondo. Un mondo sconosciuto. E estremamente ampio per dimensioni. Magor tremò: il suo viaggio avrebbe potuto dilungarsi a dismisura, nella ricerca del maestro in quella terra così decisamente vasta.
Vasta, sì, ma non sembrava affatto povera o pericolosa. Magor non aveva alcun ripensamento, e la sua speranza, quando vacillava, riaffiorava ancora più forte di prima: non si sarebbe mai rassegnato all’idea di aver compiuto quello strenuante viaggio senza aver ottenuto nulla.
Sapeva, lui sapeva che Razael era lì, vivo e vegeto, qualunque pericolo esistesse in quella landa che pochi elfi, e ancora meno vici e zoari avevano calpestato.
Nessuna preoccupazione per il ritorno, per ciò che avrebbe trovato, per ciò che avrebbero pensato i suoi concittadini di Lacedimora. Lui, Magor, troverà il suo maestro Razael, gli parlerà, lo ricondurrà a casa dove il suo insegnamento sarà finalmente portato a termine.
Si trovava in una zona terrosa, dove qua e là crescevano dei radi alberi. Nessun visibile segno di vita.
“Ebbene, eccomi qui, Razael, maestro!” urlò a squarciagola, allargando le braccia, sceso dall’aliante disattivato.
“Avanti, maestro! Fatevi avanti! Sono venuto a prendervi.”
Non giunse nessuna apparente risposta, ma i suoi gridi temerari furono uditi da qualcun altro…qualcuno che Magor mai si sarebbe aspettato di vedere.
Un mostruoso essere color nocciola fece capolino da dietro a un cespuglio.
Magor lo vide, e rabbrividì. Raggelò. Si fece bianco in faccia. Era qualcosa che non aveva mai visto prima. Gli pareva spaventoso. Provò ancora più paura quando questo scavalcò il cespuglio, ergendosi in tutta la sua maggiore grandezza e avanzò verso l’ignaro stregone confabulando qualcosa.
“Ehi, i - indietro!” balbettò Magor puntandogli contro il bordone, al che l’essere si immobilizzò, ma proseguì a parlare con tono di quesito.
Magor si ritrovò a dover puntare il proprio bastone magico su più esseri alla volta, tutti diversi: grigi, marroni, gialli, e non solo nella cromatura.
Gli esseri, ormai una dozzina, cominciarono a confabulare qualcosa tra di loro. Ad un certo punto una voce si levò tra le altre, con tono di proposta. Tutti gli altri sembravano acconsentire, e uno incominciò a correre. Magor sobbalzò tremante, temendo che il mostro gli caricasse addosso.
Cosa diavolo pensava di fare, adesso? Non se ne era reso conto, troppo preso dalla frenesia del viaggio, dalla speranza di rivedere in vita il suo vecchio amico e maestro.
Abbandonare la casa, l’unica vera casa che aveva mai avuto, dopo un’infanzia passata da orfano e senza dimora fissa, le sue ricchezze, le sue amicizie, i suoi diversi amori senza dir loro una singola parola di quello che aveva in mente di fare: gettarsi oltre i confini da dove nessuno aveva mai fatto ritorno, dirigersi dritto nel mostruoso Mare dei Serpenti su di un veicolo sperimentale e potenzialmente prono a esplodere da un momento all’altro, abbracciato alla vana e fugace speranza che il suo maestro fosse ancora vivo, lontano in qualche isola sperduta, solo per le parole confuse di una naufraga impazzita.
Era stato un pazzo! Un pazzo! Solo ora se ne rendeva conto! Si era lasciato trasportare dalle emozioni peggio di un bambino incosciente; nemmeno un seguace della via delle tenebre avrebbe agito a quel modo, guidato dai sentimenti.
Cominciò a piangere, rumorosamente e senza ritegno, come mai aveva fatto prima. Si raggomitolò attorno al suo mantello nero, con il volto celato dal bordone metallico e dai riccioli che gli ricadevano dalla fronte, accoccolato ai piedi del suo aliante.
Intanto quelle strane figure continuavano ad osservarlo, incuriosite, senza osare avvicinarsi. Non gli importava di loro, che lo vedessero ridotto in quello stato. Non sapevano chi fosse, e farsi strada tra di loro a colpi di magia per ritornare a casa gli sembrava un’intenzione inutile, e priva di senso.
Era perduto.
Tutta la sua paura, tutti i suoi timori e la sua mancata voglia di vivere scomparvero come un sasso affonda nell’acqua alla vista, dopo quelle che parvero ore, di una figura. Una figura elfa, che gli si fece incontro cercando un abbraccio, e urlando: “Magor! Magor!”
Ma era una persona che Magor non riconosceva, sebbene si sentì rassicurato dall’aver trovato un altro elfo in mezzo a tutti quei mostri e questa pareva conoscerlo, anche bene –lo chiamava per nome!
Aveva dei capelli grigio - bianchi tenuti corti, ma così corti che nessun elfo a Lacedimora, o nella città fortezza di Albersa o in qualsiasi luogo impregnato della cultura elfa si sarebbe mai sognato di tenere. Per non parlare della barba bianca e folta che lo faceva sembrare uno scimmione.
I vestiti erano quanto meno accettabili: mantello con cappuccio bianco sporco e saio grigio chiaro, unto anch’esso dal troppo uso.
Il bordone, che indicava possibilmente la sua attività di stregone, gli sembrava più familiare del resto: legno scuro, levigato, circolare al di sotto dell’impugnatura, lasciato al naturale sopra, con uno smeraldo arzigogolato all’estremità.
“Magor!” ripetè l’elfo, avvolgendo l’ omonimo in un abbraccio e strofinando entrambe le guancie sulle sue.
Magor, spaesato, trovò naturale accettare l’abbraccio e il saluto, ma non riusciva a capacitarsi di ciò che si trovava davanti.
“M - maestro? - domandò confuso lo stregone nero - Siete - siete davvero voi?”
“Sì, Magor! Il caro vecchio…Vecchio Saggio! - rispose il Vecchio Saggio, appunto, con un’espressione che emanava radiosità assoluta, letizia estrema - Che piacere, che piacere vederti! Pensavo tutti mi avessero dimenticato.”
“Ma…ma come ti sei messo?” fu la seconda domanda che Magor fu in grado di porre al suo maestro, criticandogli l’aspetto orribile che aveva assunto l’un tempo onorevole ed elegante Razael “E che cos’è questa storia del…del Vecchio Saggio?”
Il Vecchio Saggio rise sguaiatamente, battendo una pacca sulla schiena dell’allievo.
“Vieni qui di punto in bianco ed è tutto ciò che mi chiedi? E’ una lunga storia…una storia lunga tre anni e sette mesi…o erano sei? Vieni con me, ti racconterò tutto. Ma prima…”
Si voltò verso i gormiti che assistevano incuriositi e disorientati a quella strana scena.
“Gormiti, questo è un mio caro amico, elfo come me. Si chiama…Giovane Saggio, ed è un grande stregone, proprio come me. Spero lo accettiate nella comunità come avete accettato me.”
“Ma che blaterate?” borbottò contrariato Magor.
“Non ti preoccupare, Magor. Ora andiamo in un posto tranquillo e parliamo, che ne dici?”
 
I due discorsero per ore, quasi per un giorno intero, parlando dell’Isola di Gorm, dei gormiti, degli Spiriti, delle armi e amuleti magici, degli Oracoli, delle profezie.
Magor si rifocillò a dovere, gustando le prelibatezze di quell’isola e assaporando il profumato liquore locale, l’agromanto, mettendo su in poche ore una poco decorosa pancia; di dormire, però, non ne aveva la minima intenzione. Era finalmente riunito con il suo maestro, e non avrebbe sprecato un solo secondo per qualcosa di così futile come il sonno.
Il Vecchio Saggio lo seppe tenere occupato a parlare dei gormiti ed evitare i discorsi che, al contrario, Magor voleva avere.
Ad ogni modo, il giovane apprendista mostrò un grande interesse verso la cultura gormitica, interesse che se non ci fosse stato avrebbe reso il loro discorso di ritrovamento decisamente più breve.
“E questa storia del Vecchio Saggio? E del giovane Saggio?” domandò perplesso Magor
“I gormiti hanno preso a chiamarmi così, e io ho detto ‘va bene’. Non sono solito parlare più della mia vecchia vita, giù a Lacedimora. Molti qui si sono dimenticati il mio nome, e allo stesso modo è meglio che non conoscano il tuo.”
Magor non capì bene la logica. Razael gli sembrava estremamente cambiato, non solo fisicamente, anche mentalmente. Non riteneva fosse diventato pazzo, questo no, ma qualcosa era radicalmente cambiato in lui.
“Che mi racconti di Lacedimora, invece? Come vanno le cose a te, a Nadia?” domandò mostrando un interesse quasi infantile, causa la prolungata lontananza dalla civiltà elfa.
“E’ proprio per questo che sono venuto qui, maestro. - rispose serio Magor - La gente laggiù ti crede morto! Hanno perso un’icona, e volevano sostituirti con me! Me, che non ho nemmeno il titolo di maestro.”
“Non è importante, Magor, non più ormai. - mormorò pacato il Vecchio Saggio, facendo no con la testa e guardando in basso - Come sta…Nadia? Sta bene? Com’è il figlio?”
Fece queste domande con un tono…nostalgico e tentennante, quasi non fosse sicuro parlarne fosse una buona idea. Magor continuava a non capirlo, ma decise di rispondergli.
“Nadia è a posto. Quando non sei tornato entro sei mesi, e sei stato dato per morto per la prima volta, ha accettato quasi subito la tua scomparsa, non ci ha pensato su tanto.”
“Oh.” commentò il Vecchio Saggio. Sembrò turbato e ferito da quella notizia.
“Fabian è un bel bimbetto vispo. - proseguì Magor - In viso, ti somiglia un po’. Be’. assomiglia a tua sorella, che somiglia a te. Gli occhi sono bruni, che strano.”
“Fabian…che bel nome.” commentò il Vecchio Saggio, dando le spalle al suo allievo. Magor, disorientato ancora da tutto ciò a cui stava assistendo, giurò che stesse piangendo, o almeno singhiozzando.
Gli pose una mano amica sulla spalla.
“Maestro… - bisbigliò Magor - Quest’Isola è davvero magnifica, senza dubbio. Ma questa non è casa tua. Casa tua è a Lacedimora, con me, con la tua famiglia. Lì c’è gente che si fida di te, che ti rispetta. Andiamo.”
“No! - urlò inorridito al pensiero il Vecchio Saggio, voltandosi verso Magor con sguardo truce - Io non…non - si portò le mani alla testa, infilando le dita tra i capelli - Non posso. E nemmeno tu puoi. D’altra parte, anche qui c’è chi ha fiducia in me.”
“Che cos - cominciò a dire sconvolto Magor. Scosse la testa, e tentò ancora una volta di capire cosa fosse successo al suo maestro - Maestro, che cosa vi trattiene su quest’Isola? Che cosa avete visto, o fatto?”
Il Vecchio Saggio sospirò, e chiuse gli occhi, formulando idee.
“Magor. - disse infine, sorreggendosi sulle spalle dell’allievo - Sei il più caro amico che abbia mai avuto. Sarei uno sciocco a nasconderti la verità. Vieni con me.”
Magor fu guidato al tempietto dell’Occhio della Vita della Terra, dove era al momento collocato il sacro oggetto. L’Occhio della Vita: il Vecchio Saggio non gliene aveva ancora parlato, e saggiamente, anche, scelse di spiegargli l’argomento per ultimo.
“Ecco, guarda, Magor. L’Occhio della Vita. - enunciò con fermezza e teatralità - Osservalo bene. Che cosa senti?”
Magor, senza parlare, guardò con attenzione il globo vitreo fluttuante. C’era qualcosa, in quella sfera, che lo interessava. Lo attirava. Sentì un mormorio confuso e…invitante. Senza nemmeno accorgersene, si ritrova più vicino all’altare e all’Occhio di quanto si ricordava di essere, con le mani protese a prendere la pietra.
Si sentì tirare il mantello, e poi trascinato via a grandi velocità da un incantesimo di trasporto.
“Scusami, ma è meglio che tu non lo tocchi.” si giustificò il grande stregone, arrivato con l’apprendista nella stessa radura in cui l’Occhio della Vita gli aveva trasferito le sue visioni.
“Che…che cos’era quello?” lo interrogò Magor, sempre più confuso e meno conscio di ciò che accadeva in quel posto. Ma contemporaneamente, consapevole di aver sviluppato un interesse inspiegabile per l’Occhio della Vita.
“Quello era l’Occhio della Vita, Magor. L’oggetto sacro per eccellenza dei gormiti. - spiegò - Ma io solo so la verità: esso è l’origine dei gormiti. E’ stato lui a renderli ciò che sono ora, non so come, quando o perché, ma è così. E chissà cos’altro ha fatto.”
“Come fai a esserne sicuro?” chiese dubbioso Magor
“Perché tu non hai visto ciò che ho visto io. - sussurrò il Vecchio Saggio - Mi ha dato…delle visioni. Anche tu mi crederai, quando le vedrai.”
Lo stregone annuì ripetutamente. Poi chiuse gli occhi, e pronunciò: “Apri la mente.”
Magor obbedì. Percepì la coscienza, ampia e potente, del maestro toccare la sua, creare un collegamento, amalgamarsi. Il Vecchio Saggio scelse quale parte della sua mente, quali ricordo condividere con l’ignaro allievo.
Ed ecco confluire nel cervello di Magor le visioni confuse e luminose dell’origine dei gormiti, dell’energia continua che l’Occhio emanò nel suo primo attimo di ‘vita’, e di seguito, l’apocalittica visione di ciò che sarebbe successo se il potente manufatto fosse caduto nelle mani sbagliate.
Tuttavia, le visioni non ebbero per Magor lo stesso significato. Lui ci vide qualcos’altro.
“Hai visto, Magor? - gli chiese una volta terminato il contatto - L’Occhio della Vita è…è un’invenzione di qualche altra razza, forse esterna a questo mondo. E’ estremamente pericoloso, ed estremamente complesso. Ed è per questo che dobbiamo trovare un modo, un modo sicuro, per distruggerlo. Insieme, forse ci riusciremo.”
Magor inarcò un sopracciglio. Non sembrava sconvolto dalle visioni come lo era stato Razael.
“Sei sicuro di quello che dici, maestro?” gli chiese.
“Assolutamente sì.” assentì convinto il Vecchio Saggio, ergendosi dritto e composto. Ma poi la sua figura si fece di nuovo rilassata.
“Oh, devi scusarmi.” supplicò il Vecchio Saggio, scuotendo la testa, apparentemente pentito.
“Forse sono stato troppo…sbrigativo. E superficiale. E’ una mole enorme di informazioni, e di segreti, che nessun altro sa. Forse non sei ancora pronto, non comprendi tutto come devi.”
“Invece credo di comprendere.” affermò, convinto anch’egli, con sguardo corrucciato, il giovane “Se quest’Occhio ci stesse…manipolando?”
“Ah, sì! - annuì il Vecchio Saggio, agitando l’indice - Ci avevo giusto pensato anch’io. Sono giunto alla conclusione che questo affare possieda una sorta di…coscienza propria, e che, in qualche modo ‘giochi’ con le menti di alcune persone. Detta così, però, sembra una cosa grave.”
“L’Occhio della Vita è una fonte di energia.” affermò sicuro delle proprie parole Magor, con lo sguardo assente, rivolto al cielo buio.
“Sì, sembra sia così.” fu d’accordo il maestro.
“L’Occhio della Vita non è pericoloso, è utile.”
“No, è qui che sbagli! E’ troppo potente! Hai visto la visione, quello che potrebbe accadere…”
“Appunto! - esclamò Magor, puntandogli l’indice - Una visione di ciò che potrebbe accadere. Una delle tante possibilità. Ma chi lo dice che debba per forza accadere? Saremo in grado di gestirlo.”
“Non sono affatto d’accordo, Magor. - gli si parò davanti - Quest’Occhio deve rimanere qui, al sicuro, e deve essere distrutto. Nessuno deve conoscerlo, nessuno si farà male.”
Magor rimase in silenzio, allibito. Strinse gli occhi, incentrato sul suo maestro.
Era davvero cambiato. L’Occhio lo aveva davvero influenzato? O stava manipolando Magor?
“Canaglia che non sei altro! - uscì fuori infine - Altro che sicurezza e tutte quelle scemenze! Tu vuoi tenere l’Occhio della Vita per te! Vuoi usarlo per i tuoi scopi!”
“Che cosa?! Per me?! - strillò offeso il Vecchio Saggio - Non posso davvero credere a ciò che sto sentendo.”
“La cosa è reciproca. - commentò spazientito Magor - Adesso tu, io e l’Occhio della Vita ce ne andiamo da quest’isola di mostri e torniamo a Lacedimora. Oppure solo io e l’Occhio, resta pure qui se ti va. Ma quest’oggetto non rimarrà nascosto qui, che ti piaccia o no.”
Razael impugnò con forza il suo bordone, piegò la gamba destra in avanti, in una posizione offensiva.
“La nostra era una grande amicizia, Magor. - dichiarò - Eri il migliore che avessi incontrato, l’unico allievo che ho preso nella mia vita. Ma non posso permetterti di continuare.”
Calò per qualche attimo lo sguardo a terra, facendo asciugare al suolo alcune lacrime, lacrime sincere: “Non volevo che finisse così.”
Magor si mise d’istinto nella stessa posizione, non volendo credere a quello che stava succedendo. E tutto si era rivoltato nel giro di alcune ore. “Non deve per forza finire così, maestro! - contrattò  - Rinuncia, e tutto andrà per il meglio, vedrai.”
Gli tese una mano, sorridente, per porre fine a tutto quell’enorme sbaglio prima che diventasse irreparabile. Razael guardò la mano amica, il viso amico, il sorriso del suo allievo e amico. Lo addolcirono. Ma poi vide ciò che c’era dietro a quell’amicizia e a quella bellezza, e fu ancora più convinto.
“No, non può finire in un altro modo. - dissentì clamorosamente il Vecchio Saggio, ignorando la mano. - Tu insisti, e sai bene che la tua via è pericolosa. Non c’è altra via. Oggi vedremo se l’allievo ha superato il maestro.” dichiarò solennemente il Vecchio Saggio.
 
Saette magiche sprizzarono dallo smeraldo di Razael e dal rubino di Magor, le quali si scontravano con boati, spargendo scintille da ogni lato.
Magor, ancora intento nel far prevalere la sua saetta su quella avversaria, focalizzò la mente del maestro e la attaccò.
Costretto a difendersi, la folgore del Vecchio Saggio vacillò. Magor ne approfittò, abbandonando la presa sulla coscienza e sbaragliò il maestro.
Subito dopo si ritrasse indietro, caricò l’incantesimo più prepotentemente, e scagliò una scarica elettrica su Razael ancora intento ad alzarsi.
Questi, riflessi pronti, roteò il bordone ligneo ancora a terra. Catturò il colpo nemico all’estremità inferiore e lo mandò al suo proprietario alzandosi con uno scatto delle gambe.
Magor schivò facilmente il contraccolpo balzando di lato.
Questa volta il Vecchio Saggio agì diversamente e, con un movimento della mano, manifestò della forza magica sottoforma di luce che investì Magor dal basso e lo scaraventò diverse decine di piedi in aria.
Quest’ultimo sarebbe rovinato a terra se non che, mentre si agitava nel cielo notturno, non avesse pronunciato a mente l’incantesimo di levitazione, con il quale ritornò delicatamente sulla solida terra senza ferite..
Intanto il Vecchio Saggio, mentre l’allievo atterrava, avanzava a passo veloce e formulando nel pensiero la formula ‘Finimondi Arma’, il suo bordone si rivestì di uno strato di metallo, lame e aculei bronzei comparvero all’improvviso, e l’estremità superiore divenne una mazza ferrata.
Completata la trasformazione del bastone magico, avanzò di corsa incontro a Magor.
Questi, notando il suo bordone mutato, eseguì la medesima formula sul suo, e si preparò allo scontro corpo a corpo col suo maestro.
L’allievo fu però costretto a rimanere sulla difensiva. Razael, nonostante il peso dell’arma e le continue parate dell’avversario, continuava a colpire e a colpire, senza dare tregua a Magor o possibilità di contrattacco. Magor teneva duro, ma sapeva non sarebbe resistito ancora a lungo –e forse nemmeno Razael.
Il Vecchio Saggio approfittò del momento in cui Magor si ritrasse più del solito e si fermò un momento, ansimante. Avanzò minaccioso, pronto a dare quello che doveva essere il colpo di grazia. Alzò la sua mazza - bordone e si preparò a lasciarla andare giù. Magor alzò la sua per difendersi dal colpo e chiuse gli occhi, ma non sentì alcun clangore metallico delle armi che si scontrano. Riaprì gli occhi, si accorse che il suo maestro gli aveva giocato una finta. Colpendo la mazza di lato, Razael gliela tolse dalle mani, e si preparò per dare il vero colpo finale.
Con un movimento fulmineo, Magor si abbassò, e scivolò dietro a Razael. Questi si accasciò al suolo, ricevendo un poderoso calcio nella schiena.
Magor riprese il suo bordone, facendolo tornare normale.
“E’ ora di finirla, maestro. - sbraitò - Questa volta ti sei messo dalla parte sbagliata, e hai perso.”
“Ora me ne tornò a Lacedimora.” annunciò incamminandosi verso il suo aliante, lasciato non lontano dalla riva
“E farò conoscere agli elfi, a tutti,  il vero potere, il progresso che è in quest’Occhio della Vita.”
Dolorante, Razael alzò il capo verso di lui, puntandogli lo smeraldo del bordone contro.
“Non sei tu a decidere da che parte stai. - sussurrò - E non te ne andrai.”
Un raggio di energia partì dal suo bordone di legno, colpendo il suolo sotto i piedi di Magor, facendolo esplodere in una nube di polvere, che però lasciò l’apprendista abbastanza intatto.
Magor si voltò verso il maestro con sguardo scioccato. Mirando poco più in là, Magor avrebbe potuto perdere le gambe, o peggio. Era davvero così convinto da voler uccidere il suo unico allievo, uno dei suoi più grandi amici?
“Sei diventato pazzo, maestro. Pazzo! Sei un pazzo!” imprecava.
Era indignato. Pronunciò allora, forte e chiaro, protendendo la mano in direzione di Razael: “Crucio!” contro il Vecchio Saggio, che subito si dimenò dal dolore, piegandosi e rivoltandosi, con gemiti prolungati. Poi interruppe l’incantesimo. Guardò il maestro sprezzante, dall’alto al basso, ancora ansimante.
“Io non voglio ucciderti, non mi macchierò di omicidio per causa tua. - affermò sdegnato - Ma non cambio idea. Me ne andrò da qui, e l’Occhio della Vita verrà con me.”
Volse le spalle al maestro, indebolito e steso a terra, e si incamminò facendo svolazzare il nero mantello, sicuro che ormai fosse tutto finito.
Nemmeno io cambio idea si disse il Vecchio Saggio, ancora a terra, rivolgendo il suo bastone contro la figura fuggente di Magor. Urlò quindi a gran voce: “Flammae corpus!”
Magor lo udì, e comprese con il gelo nelle vene ciò che stava per accadergli. Il colpo magico lo urtò senza che potesse provare ad evitarlo: il colpo della maledizione del Flammae Corpus, una delle tre maledizioni, grandi, impegnative e orribile magie di punizione.
Magor guardò, bianco in volto, il volto soddisfatto del maestro, ancora bocconi.
Presto sentì il calore della sua pelle aumentare, aumentare a dismisura. Il cuore batteva sempre più forte, e le vene pulsavano imbizzarrite. Subito il calore fu indomabile, e Magor si portò le mani alla testa, urlando e piegandosi.
Le prime fiamme cominciarono ad apparire sui piedi, e prendere lentamente possesso del suo corpo.
Magor, maledetto ormai, guardò Razael con volto bieco, mentre i suoi vestiti, la sua pelle, diventavano fuoco puro.
Ancora gemendo e strillando, strappò con una fitta di rabbia la boccetta di carbone che aveva portato con sé. La strinse veementemente, e la ruppe in migliaia di schegge con la sola forza della mano.
Estrasse poi, quando a questo punto il fuoco aveva quasi completamente avvolto il suo corpo, l’immortalato di lui e di Razael: stretti, sorridenti, felici. La sua mano si fece rossa e fiammeggiante, e l’immortalato bruciò, in un atto simbolico di odio.
Imprecando ancora più forte, con un dolore massimo, la faccia e i capelli furono gli ultimi a divenire di fuoco.
Ora un essere maledetto, costretto a vivere nel dolore perpetuo del fuoco e del bruciore, Magor scomparve dalla vista del Vecchio Saggio.
 
Il Vecchio Saggio tornò ad essere l’unico elfo a percorrere i sentieri di Gorm.
L’arrivo di Magor gli aveva fatto capire che doveva affrettarsi a trovare un modo per eliminare l’Occhio della Vita, che l’Isola di Gorm, in un modo o nell’altro non era più sicura come un tempo.
“Che fine ha fatto il Giovane Saggio?” gli chiedevano spesso e più volte diversi gormiti.
Il Vecchio Saggio non sempre rispondeva, semplicemente ignorava la domanda e passava oltre, ma quando gli andava di dare una risposta, diceva solamente: “E’ andato via.” e implorava di non parlarne più.
Non aveva mai parlato tanto di ciò che faceva, del suo ruolo prima di naufragare su Gorm e non l’avrebbe fatto adesso che aveva compiuto un atto così doloroso.
La maledizione inflitta a Magor aveva reciso ogni legame che lo stregone ancora aveva con la sua vecchia città, la sua vecchia vita: la gente a Lacedimora lo decretava morto, e così, a parole del suo allievo, anche in tutte le regioni del Grande Golfo. Nadia era passata sopra la sua prematura scomparsa con facilità e l’aveva dimenticato. Tutto procedeva per il meglio: nessuno più si sarebbe recato a Gorm a creare problemi, e il Vecchio Saggio si sarebbe potuto dedicare con tutto il cuore e in tutta tranquillità allo studio dell’Occhio della Vita, all’aiuto dei gormiti, fino alla fine dei suoi giorni, che era ancora lontana all’orizzonte. Non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato, e avrebbe perciò continuato a somministrarsi elisir di lunga vita.
Certo, quando sarebbe giunto il momento critico, avrebbe dovuto spiegare ogni cosa ai gormiti, che ignoravano tutto ciò che riguardava il loro oggetto sacro e forse avrebbero potuto non essere d’accordo con le intenzioni.
Non volle considerare quella possibilità: lui contro i gormiti, uno scontro perso in partenza. Ma non pensò nemmeno all’idea di fuggire con l’Occhio della Vita e rimanere in eterna fuga. Un giorno, avrebbe rivelato tutta la verità.
Per quanto riguardava gli strumenti per il varco spaziale donatigli da Kraken, era ormai sicuro che non li avrebbe mai usati, non per tornare a Lacedimora.
Aveva ancora un vasto appezzamento di terra nella costa meridionale del dominio elfo che conteneva la Camera del Tempo ed era di sua proprietà: forse avrebbe potuto recarsi lì, di tanto in tanto. Era un luogo protetto da potenti incantesimi, e non ritenette possibile che qualcuno, chiunque, a Lacedimora fosse in grado di fare breccia.
Ma l’essere completamente dimenticato dalla civiltà non gli comportava solo benessere: anche tristezza. Fino a pochi anni fa era la figura più emblematica dell’elfo stregone, anzi, dell’elfo intero, un uomo amato dalla sua gente, rispettato, elogiato, il più grande stregone di tutto il Grande Golfo! Ora era creduto morto, e sarebbe stato presto dimenticato, la sua eredità non sarebbe stata presa da nessuno: Magor era scomparso.
Magor, scomparso, sì. Pensò diversi giorni, e diversi notti, a quell’episodio. E i rimorsi e i ripensamenti si impadronivano di lui, tormentandolo nel suo sonno.
Aveva davvero fatto la cosa giusta? Aveva condannato il suo unico apprendista, l’unico stregone del suo livello in tutta l’elfità e non solo, il suo migliore amico, a una vita di eterna sofferenza. Alla morte: giacché la maledizione del corpo di fuoco era senza dubbio la peggiore e la più difficile da sopportare che difficilmente sarebbe stata sostenuta per più di pochi minuti.
Ma forse, forse la mente di Magor sarebbe stata capace di sopportare, e Magor forse era ancora in vita. Non sapeva cosa fosse meglio: la morte o una vita maledetta.
Cercò di evitare di pensare al suo allievo, morto o vivo che fosse, e procedette a cancellare ogni sua traccia su Gorm.
Distrusse l’aliante: era un prodotto di alchimia e magia eccezionale, e se l’aveva costruito il suo apprendista chissà a cos’altro Magor stava lavorando e di cos’altro potesse essere capace.
Tuttavia, per quanto fosse un interessante pezzo di artigianato, non poteva permettere che continuasse ad esistere, pronto ad essere usato da chiunque. Lo distrusse con foga e con più forza di quanto fosse necessaria, frantumandolo in minuscoli pezzi. Non voleva nemmeno sapere come funzionasse.
Con sua sorpresa, non fu in grado di trovare il bordone metallico e appuntito di Magor. Doveva essere stato preso da qualche gormita.
Ma per quanto si sforzasse di lasciarsi tutto alle spalle, per quanto ogni ricordo di Magor fosse stato cancellato, il Vecchio Saggio continuava ad essere tormentato.
Aveva rovinato, forse ucciso, una vita che lui stesso aiutò a formarsi, a cui propinò di un sacco di promesse, che aveva educato come un figlio, che doveva essere il suo erede.
Invece, non fu nemmeno in grado di terminare il suo insegnamento, e si trovò costretto a combattere contro di lui.
Aveva davvero agito per il bene comune? Che diritti aveva lui sull’Occhio della Vita, sui gormiti, sulla viti di Magor?
Poteva forse abbandonare tutti i pericolosi segreti di cui era entrato a conoscenza e tornare a vivere una vita regolare? No, non ne sarebbe mai stato capace.
Una notte, mentre cercava di dormire, i rammarichi gli tormentarono il sonno più veementemente del solito.
All’improvviso, il Vecchio Saggio fu catapultato in un luogo buio.
Era tutto nero, completa oscurità. Ma il Vecchio Saggio poté vedersi bene, quasi il suo corpo fosse una fonte di luce, ma non c’era niente che esso potesse illuminare.
Era completamente nudo, pieno dei peli che gli elisir gli facevano crescere. Non c’era nemmeno il suo bordone, da cui mai si separava e difficilmente glielo si poteva sottrarre.
Dove si trovava? Come ci era finito?
Rimase fermo e muto a guardarsi intorno, a scrutare nel vuoto di quello spazio in cui si trovava seduto. Ad un certo punto delle figure completamente avvolte in grandi manti, con i volti oscurati da cappucci, emersero dal vuoto e dalle tenebre, rilucenti di un proprio fuoco, vividi e nitidi nel buio. Il Vecchio Saggio non aveva mai visto delle simili figure ma lì, senza capacitarsi del come, fu in grado di riconoscere ognuna di esse, come fossero amiche di vecchia data che in realtà non lo avevano mai abbandonato, erano sempre rimasti con lui.
Erano Paura, ammantata di blu, Colpa, in giallo, Passione, avvolta nel rosso, Ragione, coperta di verde e Orgoglio, di arancione.
Ragione parlò per prima, con una voce tonante e decisa, imponendosi sulle altre: “Concentrati. Non preoccuparti delle emozioni nella tua testa. Concentrati sul mondo reale che ti attende fuori.”
Paura prese il sopravvento, con una voce acida e fatta tutta di mormorii e sussurri: “Non ti lasceremo andare…resteremo con te, o ti porteremo via. Non puoi abbandonarci, noi siamo te.”
Colpa seguitò a Paura, con un timbro roco e accusatore: “Bruciato e tormentato, l’hai fatto scappare via da te. Ha vissuto una vita difficile, e ora anche tu l’hai lasciato, tu, il suo maestro”
Passione disse la sua, interrompendo Colpa con tono offeso: “Hai seguito Ragione, secondo i tuoi ideali, i tuoi interessi. Non sentirti responsabile, non ascoltare Colpa!”
Colpa parlò di nuovo, ancora più sprezzante: “Non lo senti? Sta soffrendo, sta morendo, solo a causa tua. Lui credeva in te e l’hai tradito. Ma perché dovresti preoccuparti? Tu stai bene,”
Passione si intromise una seconda volta, ripetendo grosso modo le stesse parole di prima, ma con più enfasi: “Non farti influenzare da Colpa e Paura, segui me, segui Ragione. Hai fatto tutto per un buon fine,”
Ragione, tirata in ballo, riuscì nuovamente a imporsi su tutti gli altri sentimenti, ammutolendoli: “Hai fatto il possibile per lui, ora non c’è più. Non hai motivo di biasimarti. Torna nel mondo reale, o il dolore non svanirà mai, farà solo più male,”
Paura spezzò con prepotenza la supremazia di Ragione, inondando il Vecchio Saggio di un freddo glaciale: “Credi di aver fatto la cosa sbagliata. Hai fatto la cosa giusta? Non lo saprai mai, lui è morto ormai, e tu non vivrai abbastanza, no, non vivrai.”
Colpa seguì la scia di Paura, e insieme al suo freddo giunse una sensazione di prurito: “Ascolta la sua voce dalla tomba! Tutte le promesse che gli hai fatto, tutto ciò che lui ha fatto per te…tutto inutile, tu hai distrutto tutto! Non cercare di redimerti, i tuoi modi non possono essere giustificati.”
Quando Paura e Colpa sembravano aver avuto la meglio su Razael, una nuova voce, potente, accompagnato da un grande calore, un calore benevolo e vitale.
Orgoglio parlò con una voce soave ma rintronante, riducendo tutti gli altri a omini insignificanti: “Hai ormai capito che devi essere inflessibile per sopravvivere. Abbandona i ricordi, seppellisci le tue emozioni e cresci! E’ la tua vita!”
Ragione si affiancò ad orgoglio, e insieme ripeterono: “E’ la tua vita, la tua vita!”
Il Vecchio Saggio si svegliò di soprassalto, con le parole ‘è la tua vita’ che gli rimbombavano nella testa come gliele avessero sparate nelle orecchie con un fischio o una tromba.
Si ritrovava nel suo letto imbottito di paglia e cotone, nella sua abitazione presso la spiaggia meridionale di Dalarlànd.
Era stato solo un sogno. Si massaggiò la fronte sudata. Quel sogno gli aveva dato la possibilità di continuare a vivere senza preoccupazioni. La vittoria finale dell’orgoglio e della ragione sulla colpa e la paura lo avevano ravvivato.
Era così che doveva agire. Accettare e andare avanti.
“Abbandona i ricordi, seppellisci le tue emozioni.” ripeté, tranquillizzato, mentre si riponeva sul letto.
“E’ la tua vita.” disse prima di chiudere gli occhi.
 
Quale modo migliore di dimenticare episodi sofferenti che con dei viaggi? Il Vecchio Saggio la ritenne una grandiosa idea, il giorno dopo, giacché si era ripromesso di visitare le tetre e misteriose lande di Tato Yami e Karmil.
Decise di cominciare da Oscuro Orizzonte.
Si recò a Darth Kuun, nei territori del Popolo del Vulcano.
Non fu facile ottenere il permesso per oltrepassare il varco. Il Vecchio Saggio si incontrò con un commerciante che aveva intenzione di fare uno scambio commerciale con Tato Yami, e la prima cosa che fece fu chiedergli di portarlo con sé.
Manco a dirlo, il commerciante gli rise in faccia e rifiutò qualsiasi richiesta.
Il Vecchio Saggio era pronto per una simile risposta: d’altra parte per diversi secoli dalla scoperta Tato Yami era rotta preclusa a qualsiasi Popolo non fosse quello del Vulcano, solo alcuni vulcanici erano a conoscenza delle coordinate. Razael, per quanto rispettato, più o meno, dai vulcanici così come dagli altri gormiti, non lo era ancora da potergli confidare qualcosa che da moltissimi anni era rimasto un segreto.
Ma non si diede per vinto. In tutto il suo tempo su Gorm aveva infranto diverse leggi e andato contro molteplici tradizioni e scoperto segreti che nemmeno gli stessi gormiti conoscevano.
Fu dunque in grado di seguire il gruppo mercantile del gormita precedente, rendersi invisibile, infiltrarsi, e giungere quindi all’oscura Tato Yami.
Decise di separarsi subito dalla compagnia di commercianti, per evitare di essere visto, riconosciuto e combinare qualche guaio.
Gli abitanti di Tato Yami, i gargoyle, erano effettivamente gli stessi grandi felini blu e cornuti che si vedevano bazzicare ogni tanto nelle regioni orientali, e, come loro, sospettosi, cupi ma vitali.
Furono molto colpiti di vedere un elfo sulla loro isola, nascosta e preclusa, specialmente perché non compresero come ci fosse arrivato. Erano abbastanza conoscitori di ciò che succedeva ed esisteva al di là del mare, e anche loro erano venuti a sapere della morte del più grande stregone elfo.
L’isola si sviluppava attorno a un vulcano dalle pareti color terra bruciata, che con le sue continue eruzioni in passato – e la fioritura di altri vulcani minori - aveva dato vita all’isola così come era in quel momento, con le spiagge e non solo ricoperte di sabbia grigia.
Il Popolo delle Tenebre, come lo chiamavano i gormiti, era effettivamente governato da una sorta di signoria molto simile a quella su Gorm, anche se più simile a una monarchia.
I gargoyle erano tutti membri di una razza che proveniva da molto lontano, oltre la Zoah e le terre selvagge dell’est, tutti eremiti che hanno scelto di isolarsi dal resto della comunità per intraprendere con tutta l’anima la via della passione per il controllo della forza magica, la misteriosa potenza alla base della magia.
Essi si facevano sprofondare nella passione, nell’odio, nell’amore, nei forti sentimenti per proiettare la propria forza al di fuori dei limiti del proprio corpo, con colpi di energia invisibile che l’addestramento avanzato in quella via – che tutti seguivano - faceva manifestare sottoforma di una materia scura che veniva chiamata oscurità, tenebra, ombra.
Erano inoltre abili alchimisti, esperti nell’arte della scienza e della magia e nella loro combinazione per dare vita a potenti strumenti con cui migliorare la propria vita.
Ciò che più colpì il Vecchio Saggio fu invece la loro creazione di alcuni esseri organici, viventi e obbedienti, che svolgessero per loro dei lavori. Ne erano stati creati diversi modelli, tutti con dei problemi più o meno gravi che hanno limitato il loro uso. Fu in grado di copiare alcuni progetti, ritenendo che gli sarebbero potuti tornare utili.
Il Popolo delle Tenebre non sapeva molto sui gormiti, e sapeva pochissimo sull’Occhio della Vita. Erano ad ogni modo incuriositi dall’anomala razza di esseri senzienti, ma da quando i gormiti li minacciarono in seguito a una guerra del Popolo delle Tenebre con il Popolo della Luce di Karmil, combattuta sul terreno di Gorm, avevano messo piede sul suo suolo rare volte.
Il Popolo delle Tenebre sembrava avere una concezione e una conoscenza del mondo molto più vasta di qualsiasi abitante del Grande Golfo, e commentava con disprezzo e sarcasmo quanti pochi passi gli elfi, i vici e gli zoari della regione avessero fatto.
 
La prossima tappa fu la lucente Karmil, terra luminosa, ricca di palmizi e stupende opere architettoniche.
Erano davvero pochi coloro che sapessero come raggiungerla e che periodicamente vi si recavano. Il Vecchio Saggio fu costretto a viaggiarci in volo insieme ad alcuni gormiti aerei.
I ka’nhili, proprio come il Popolo delle Tenebre, erano gli stessi alti, grossi insetti gialli, nocciola, marroncini, pelosi, con sette dita per mano e per piede e con ali da coleottero che si vedevano passeggiare silenziosi in mezzo a folle di vici, elfi, zoari.
Erano l’esatto opposto della gente di Tato Yami: loro perseguivano la via della concentrazione, della libertà mentale, della soppressione e del controllo dei sentimenti che permetteva loro la manifestazione della forza magica come ‘luce’.
Erano anche loro una piccola comunità di una ben più vasta civiltà che era nata nel lontano e incontaminato occidente, che, come il Popolo delle Tenebre, vedeva in modo strano e curioso –senza commenti offensivi - l’assenza di mobilità delle razze del Golfo, che per un lungo periodo erano rimaste bloccate in un’area del mondo davvero piccola, e che esitavano ad allargare i propri orizzonti.
Erano anch’essi retti da un governo semi - monarchico, in cui era presente un consiglio di anziani uomini politici, molto simile al Consiglio dei Saggi gormitico. Avevano un indubbio interesse per la specie dei gormiti, ma non perseguivano tale curiosità: l’annichilimento dei sentimenti del loro addestramento comprendeva anche questo, e anche una certa freddezza nei modi e nei comportamenti, che però non influiva sulla loro ospitalità.
Degli abili scienziati e tecnici erano, perseguitori di una tecnologia avanzata che non si era mai vista nella Setturnia e nel Venturgio. La fonte di tale conoscenza superiore era ignota al Vecchio Saggio, e i ka’nhili ben si guardavano dall’osteggiare alla luce del giorno tutti i segreti della loro tecnologia.
L’isola di Karmil non presentava vulcani, o montagne. Era una modesta regione collinare e pianeggiante, piena di verdi radure e ricca di palme di banane, datteri, cocco. Una regione quasi tropicale, nonostante il luogo in cui era situata.
Terminati i suoi viaggi alle due estremità di Gorm, prima di ricominciare i suoi studi sull’Occhio e sui segreti nascosti dell’Isola, decise di fare ciò che avrebbe dovuto fare tempo fa: ringraziare Arriut per la sua azione e per la sua amicizia.
Fece ciò in ricorrenza del suo trentottesimo compleanno, portandogli tramite un ragazzo un invito anonimo ad un’abitazione nella spiaggia sud - occidentale dei territori del Popolo della Terra.
E’ prima opportuno ricordare, perché ho i miei dubbi che tutti i lettori ne siano al corrente, che i gormiti, nella celebrazione del proprio genetliaco, erano soliti fare regali agli amici e ai parenti più stretti, piuttosto che il contrario come in diverse altre civiltà.
Così, Arriut fu tutto il giorno impegnato a festeggiare il compleanno ‘ufficiale’, a cui il Vecchio Saggio non partecipò, e a cercare i presenti più adatti per tutti gli invitati.
Sul far della sera, poco dopo aver ricevuto il biglietto, si recò, senza sospetti, alla casa indicata sull’invito.
Non vestiva la sua solita corazza dorata – in quanto simbolo della propria carica signorile, l’aveva deposta una volta sostituito - senza la quale i grossi pettorali erano ora bene in vista, ma portando una valigetta di discrete dimensioni. La sua criniera era suddivisa in diverse trecce.
L’abitazione era una grande capanna di argilla: la tipica casa terricola, solo di dimensioni più ampie e con un camino più alto da cui usciva del fumo.
Entrò senza bussare, e trovò il comune amico Raganels seduto a un lungo tavolo.
“Salve, Arriut!” lo salutò alzando una zampa palmata.
“Ciao, Raganels. - ricambiò sorpreso Arriut  - Che cosa ci fai qui? Sei tu che mi hai invitato?”
“Oh, no. - rispose subito il marino - Io sono un ospite come te.”
“Ospite di chi?” chiese sospettoso il leone, poggiando la sua borsa e dandosi una rapida occhiata attorno, prima di sedersi.
“Eh, è una sorpresa.” replicò Raganels facendo spallucce.
Arriut sorrise. “Una sorpresa, eh? Va bene. Ma senti, sai mica dirmi perché Razael non è venuto al mio compleanno?” domandò, sottolineando il nome di Razael e rivolgendo lo sguardo alla porta della cucina. Subito questa si aprì, rivelando lo stregone Razael con due grossi piatti in mano, vestito solo di saio.
“Non ti si può proprio nascondere niente, eh?” commentò ridendo, e portando in tavola le pietanze.
“Non mi sfugge niente, a me!” disse soddisfatto l’ex - Signore. Poi pose lo sguardo sul cibo che gli veniva riversato nel suo piatto da parte di Razael.
“Che cosa significa questo, Razael?” chiese perplesso, mentre l’interlocutore si stava mettendo a sedere e a mangiare.
“Mica è il tuo compleanno? - chiese retoricamente - Ho pensato di celebrarlo ringraziandoti per la protezione che mi desti quando arrivai per la prima volta, e stuzzicarti con un po’ di cucina elfa. Sono sicuro che ti piacerà.”
“E’ stata una bella idea, Razael. - esclamò sfregandosi le mani, annusando con gusto l’aroma del piatto - Sì, sono anch’io sicuro che mi piacerà.”
 
La serata passò veloce. I piatti elfi – cucinati però con ingredienti di Gorm - furono graditi sia da Raganels che da Arriut. Cominciarono quindi a conversare gustando il vino distillato da Razael secondo la ricetta elfa.
“Parlaci di te, Razael.” insistette Raganels, facendo ondeggiare il rosso liquore.
“Sì, non ci hai mai detto molto del tuo passato.”
Razael si sarebbe alzato impettito e avrebbe rifiutato di parlare se i suoi interlocutori fossero gormiti qualunque. Ma con i suoi due massimi amici gormiti, voleva essere il più sincero possibile.
“E va bene. - tirò giù un sorso - Ero un grande stregone. Sin da piccolo ho mostrato grandi abilità magica, e a scuola ero una stella. Persi i miei genitori quando ero ancora un ragazzo, lo stesso giorno in cui salvai la mia città da degli invasori da solo e solo con la magia. Non preoccupatevi, non mi fa male ricordarlo. Divenni il più grande stregone elfo, ho fatto numerosi e complicati esperimenti magici, che ebbero tutti successo, ma io avevo altri piani. Volevo viaggiare, e con il mio amico Ricardo, tre - quattro anni fa, mi imbarcai. Il resto lo sapete.”
“E quel…Giovane Saggio, chi era?” domandò Arriut.
Razael tossì, avendo mandato di traverso un po’ di vino alla domanda. Raganels, al suo fianco, si preoccupò, ma Razael lo fece stare a posto.
“Sto bene, sto bene.” rassicurò, con degli ultimi colpi di tosse.
“Be’, il Giovane Saggio. - rifletté Razael - Era…un mio allievo. Il mio allievo. L’unico. Ora però non c’è più. E’ passato…a un’altra vita.”
Arriut si diede una manata sulla fronte. “Quasi me ne dimenticavo!”
Si alzò di scatto, andando a prendere e ad aprire la sua borsa, estraendone un pacchetto.
“Ecco, questo è il tuo regalo. Non chiedermi perché me lo sono portato, pensavo di incontrarti durante il tragitto. A quanto pare ho pensato bene.”
Glielo lanciò in grembo, a momenti rompendo il bicchiere. Razael lo tastò per un momento, poi lo mise sul tavolo.
“Non dovevi. Davvero, non è necessario.”
“Andiamo. - si ostinò Arriut - Poche storie e aprilo.”
Razael obbedì, e scartò il pacchetto. Ne uscì un cerchietto dipinto d’oro, con gemme preziose, viola, incastonate.
“Forse è di cattivo gusto, lo so. - si difese Arriut - Ma non sapevo che prenderti. Magari non è nemmeno della tua misura.”
Razael se lo mise in capo subito, appurando che gli stesse bene. “E’ perfetto, grazie. Ma anch’io ho un regalo.”
Arriut fu lì lì per interromperlo, ma Razael lo fermò. “Sì, lo so che non accettate regali nei compleanni, ma credo che tu debba averlo comunque.”
Estrasse un anello argentato dalla tasca del suo manto, appeso alla sedia.
“L’ho trovato durante un mio viaggio. C’è il nome della tua famiglia inciso, ho pensato ti appartenesse.”
Arriut lo osservò, e se lo mise al dito. “Sì. Era di mio nonno, l’aveva perso diversi anni fa. Be’, grazie.”
 
Altri due anni erano passati dall’arrivo del Vecchio Saggio su Gorm, e tutto procedeva per il meglio.
Una soluzione al problema dell’Occhio della Vita non era ancora stata trovata, ma la vita su Gorm era pressoché pacifica, sebbene la discriminazione nei confronti del Popolo del Vulcano esistesse ancora, nonostante le azioni dello stesso Vecchio.>>

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Capitolo 11
*** Capitolo 5 ***


“Lo ripeto: Razael era davvero un insensibile! Non c’è…come si dice…giustificazione che tenga!”
Il Cronista aveva tirato un immane sospiro di sollievo. Anche più di uno. Quell’artigianale e certamente non perfetto scranno di radici intrecciate non gli era mai sembrato così comodo, dopo che si vide – svegliatosi di buon’ora per farlo – gli studenti del ‘circolo’ comparire dalle fronde racchiudenti la radura, senza ombra di preoccupazione per le indesiderate rivelazioni di carattere…anatomico di due giorni fa, né genitori indignati per l’azzardo da parte del Cronista di parlarne in vece loro, e troppo avanti coi tempi. Non poteva andare meglio di così, e, tanto per non rischiare, lui non avrebbe fatto alcuna parola al riguardo, né si sarebbe scusato, o alcunché. Doveva agire e pensare come se non avesse mai proferito quelle parole, imitando, del resto, i ragazzi, che sembravano proprio aver seppellito quelle turbanti informazioni.
Non tutti, però. Erano davvero pochi, quel giorno. Meno di venti, a una prima occhiata. C’erano tuttavia quelli a cui il Cronista aveva imparato a tenere di più: Loctiu, Forteceppo…e Osmaniu.
La prima tra questi era al limite tra una dolorosa sopportazione e lo sgorgare delle lacrime. Lo si vedeva nel modo in cui si manteneva imbronciata, e respirava forte come per trattenere qualcosa.
Che fosse il modo particolare con cui il Cronista riferiva i semplici fatti – ne era convinto e se ne dispiaceva tantissimo – i fatti stessi, nella loro suddetta semplicità, a farla reagire così per la loro stranezza alla sua mentalità, o che proprio avesse una particolare avversione nei confronti del Vecchio Saggio, maturata chissà come, quando e sotto quali influenze, a cui conseguisse la necessità innata di esprimerla ai propri compagni, dopo aver ottenuto da labbra sapienti ulteriori prove per motivarla.
Il possessore di tali labbra sapienti si massaggiò confuso e incerto la fronte, sospirando ulteriormente; la sua schiena si adagiava inquieta sul seggio, alla ricerca di una posizione più confortevole per poter formulare i migliori verbi di conforto, e allo stesso tempo che potessero difendere la posizione del Vecchio Saggio. Aveva un che di irritante che una cucciola ancora lontana dall’età adulta lo criticasse così apertamente!
“Ma non puoi dire così!” irruppe, facendo guadagnare tempo al Cronista, il focoso Osmaniu, parecchio offeso. Certo lui da solo non avrebbe salvato la situazione, pensava il maestro, anzi, avrebbe potuto peggiorarla.
“Il Vecchio Saggio ha scoperto che l’Occhio della Vita era pericoloso, e ha voluto che anche Magor lo sapesse, che capisse! – argomentò crucciato, rizzandosi in piedi – Si era fidato di lui! E Magor ha buttato via tutto questo, gli ha detto che era pazzo, che voleva tenerlo per sé…solo perché, in fondo, voleva che terminasse le lezioni, perché voleva più di quanto aveva, ed era già tanto!”
“Come puoi dire una cosa simile?!” ribadì inferocita e con gli occhi già lucidi, ponendo, a denti stretti, un’enfasi quasi comica su quelle due ‘s’. Tale fu la forza con cui espresse simili parole che Osmaniu, pur sempre un vulcanico anche se giovane, fu messo immediatamente a tacere, e si sedette come un cane ammansito. Lo stesso Cronista fu scosso dalla potenza della sua voce emotiva, e dovette ritirare il dialogo che si era preparato per calmarla e tutto il resto, optando per una soluzione più diretta e meno ponderata e, si sperava, più decisiva.
“Loctiu! – gridò, alzandosi, e soffocando un ululato di dolore per un’improvvisa fitta alla caviglia – Loctiu, mia cara…calmati, per l’amor dei Semidéi! Non c’è alcun bisogno di essere così aggressivi. È storia, e non la si può cambiare urlando più forte, né si può far mutare d’opinione un proprio amico, strillandogli in faccia.”
“Infatti, Loctiu. – soggiunse, davvero molto eloquente, e ripresosi dallo shock di un attimo prima, a braccia conserte, Osmaniu – Stai calma, oh.”
Con amorevole compassione, il Cronista si mosse tra le risicate fila di studenti in direzione della giovane; le si sedette davanti, e, porgendole le mani in viso, le asciugò delicatamente le lacrime – tremando un po’ con le dita.
“Che cosa ti turba così tanto, eh?” la spronò col miglior sorriso paterno che potesse sfoggiare, con il quale, anni prima, era riuscito a schiudere il cuore di sua figlia ogni volta che questa lo serrava agli altri sotto pianti e bronci.
“Non…non mi piace, ecco. – iniziò, con poca chiarezza – Il Vecchio Saggio…Magor era suo amico, era venuto per lui…lui era impazzito, non sapeva se era vero…non aveva fatto niente per loro, a casa. Insomma, è triste! Triste sapere che la storia di Gorm poggia su un uomo così…freddo, così drastico e testardo…gli è bastato un sogno strano per dimenticare cosa aveva fatto al suo migliore amico…”
Seguì il silenzio, mentre Loctiu spegneva le ultime gocce di pianto e ricacciava dentro la grande emotività. Il Cronista non seppe cosa rispondere, come ribattere.
Non c’era nulla da aggiungere, o da correggere, alla fine. Era vero: la storia più decisiva dell’Isola pendeva dai rami di un albero cresciuto dalla fatale convinzione di aver visto giusto, da una costante repressione delle ambizioni e dei sentimenti per proteggere il mondo dai misteri che sarebbero dovuti rimaner tali e da un futuro grigio e deplorevole. Il tutto solo perché il Vecchio Saggio aveva tradito le regole imposte dai gormiti, gli stessi gormiti che gli avevano dato il benvenuto e il benservito sulla loro casa, e tanto altro ancora, e aveva avuto delle allucinazioni che gli avevano avvelenato la mente. La presa sull’intera società insulare, destinata a crescere ancor di più in seguito a ciò che sarebbe successo dopo, allungò la sua vita e la sua instancabile e fredda dedizione alla distruzione dell’Occhio per anni e anni…una sofferenza indicibile.
Loctiu avrebbe appreso più tardi quanto davvero era costato al Vecchio Saggio abbandonare ogni cosa e tentare, scoprire l’impossibile sull’Isola.
Dovrebbe capirlo già ora. – pensò l’insegnante, scrutando la piccola forestale che lo fissava con occhioni curiosi e non più sofferenti – Mi pare di aver detto bene, di aver raccontato bene…Razael ha sofferto, contro Magor…ma posso davvero esserne sicuro? Io non c’ero, lì, non l’ho visto…non posso sapere cosa accadeva realmente nella mente di Razael. Per Travor!
“Loctiu, però dimentichi l’amicizia con, con quei due, Raganels e Arriut. – osservò un altro dopo poco, imbarazzandosi per la rottura del silenzio e l’intensità anomala della sua voce – Non puoi davvero dire che era insensibile!”
“In…invece posso. – ribatté lei – Lo ha fatto perché sentiva di doverlo fare. Loro gli avevano dato qualcosa, e lui ha ricambiato. Tutto qui.”
“Tutto qui, dici? – parlò il Cronista – E che cos’è, il tuo ‘tutto qui’, se non una dimostrazione di amicizia sincera, di fedeltà…di sensibilità, Loctiu? Razael ci teneva, a ‘quei due’, e non si preoccupava certo della sua reputazione, quando li invitò. Lo aveva fatto per loro, perché erano suoi amici, non perché voleva dimostrarsi al grande pubblico un uomo magnanimo, come credo tu pensi.”
“Forse…avete ragione, maestro. – Vorrei ben vedere, se non ho ragione! – Però…lo ha fatto, era un pretesto per dimenticare Magor…non voleva nemmeno parlarne, a loro due. Non è stato sincero…sincerissimo.”
“Chiunque avrebbe agito così. Struggersi in eterno per un proprio errore, o superare, perdonarsi quanto si può, e andare avanti? La vita è lunga, se i Semidéi ci assistono, e sarebbe uno spreco passarla a piangere.” Sentenziò il maestro, provando sorpresa e brivido per la profonda verità delle sue parole.
Un’aura di silenzio e riflessione scese nuovamente sulla radura, pressò ben bene sulle menti giovani e in fase di modellamento dei piccoli studenti di Dalarlànd.
Questa – pensò il Cronista – è una frase che sopravvivrà agli eoni, alle guerre, dovunque. Forse sono poco modesto…ma non è davvero mia, in fondo…quindi può andare. Posso affermarlo con sicurezza senza passare per vanitoso. Questa è la verità.
“Maestro, maestro! – gridò Forteceppo tutto d’un tratto – Potete dirci qualcos’altro sui gargoyle e sui ka’nhili? Come avete fatto per i vici, l’altro giorno.”
Il Cronista, ritornando sul suo trono scolastico, sorrise compiaciuto a quella domanda. Che domanda! La migliore che gli avrebbero potuto chiedere, per quella lezione, per la quale aveva sognato e anticipato fantasie bizzarre.
Si strofinò le labbra e il mento con una certa attitudine snob, pregustando l’aroma della risposta e gli effetti che essa avrebbe dato.
“No.”
“Ma che…” Forteceppo non volle crederci. Stropicciò gli occhi e batté le palpebre, mandibola a terra dallo sgomento, come se credesse di trovarsi in un sogno.
“Eddai, maestro! Perché no? – gli s’accodò, imbronciato, Osmaniu – Un po’ della loro storia, perché si trovano sia qui che nel Grande Golfo!”
“Ci saranno momenti migliori in cui parlare approfonditamente di queste due razze misteriose. – enunciò il Cronista – E non crediate di vedere svelati tutti i segreti. Certi misteri sono tali tutt’ora. Per ora vi posso dire che…i gargoyle e i ka’nhili solitari che vagano di tanto in tanto per il Grande Golfo non sono gli stessi che passeggiano per le spiagge di Karmil e Tato Yami, o Oscuro orizzonte, come lo chiamava il Vecchio Saggio, cantando della casa lontana. Le due genti che ci stanno vicine sono dei…gruppi particolari, di queste razze, e che non hanno vissuto di propria volontà nelle due isole. Non dirò altro.”
“E sugli Spiriti, cosa ci potete dire, maestro?” domandò un ennesimo curioso.
“Se vi dico che non è il momento migliore per parlarne mi saltereste addosso. – rise il Cronista – È meglio che ora come ora mi limiti a dirvi queste due cose, che non vi illumineranno molto sull’argomento: Razael non ne aveva mai sentito parlare, ma ci sono Spiriti anche nelle regioni degli elfi e dei vici, probabilmente non ci aveva creduto, e li aveva ignorati fino a dimenticarli. Secondo…”
Il Cronista attese un minuto, due minuti, tre, serrandosi la bocca in posa da meditazione, gli occhi fissi sul suolo erboso ai piedi ma la mente rivolta fuori dal mondo.
“Secondo, maestro?” lo spronò dunque, impaziente, Osmaniu.
“Credo…di essermelo dimenticato. – sogghignò della grossa, ma gli studenti non furono altrettanto contenti - Abbiate pazienza, ho una certa età!”
Sì, il Cronista certe volte si faceva proprio desiderare. Era probabilmente l’unico aspetto del suo carattere definito come unanimemente odioso.
 
Il Cronista non era un’amante della violenza, della velocità o dell’adrenalina. In passato aveva lottato, combattuto, partecipato a…eventi carichi di energia e violenza, ma né prima, né durante, né dopo era mai stato un esaltato che amasse spaccare le ossa ai nemici, che si esercitasse a prendere a pugni un sacco pieno di sabbia o altro. Era un gormita discreto, con la passione per la storia e per l’insegnamento, e, sì, un’inclinazione fisica naturale al combattimento, che aveva determinato una certa parte della sua vita. Tuttavia lui preferiva la pace e la tranquillità, i piaceri quotidiani della vita in compagnia della moglie, e della figlia, quando c’era.
In quel momento, sfrecciando con la mantellina grigia che gli svolazzava alle spalle e la borsa a tracolla che gli graffiava il petto, e che tra l’altro minacciava di aprirglisi e far esplodere per tutto il bosco il – poco – contenuto, non poteva tuttavia negare di apprezzare quel viaggio a rapidità per lui irraggiungibili, su gambe non sue che divoravano terreno con potenza ed eleganza.
L’ebbrezza della velocità gli riempiva il cuore e il cervello di una carica di energia irrorante come la più dolce delle acqua. Il mondo, con i suoi tronchi ricoperti d’edera e foglie e rami pendenti sul sentiero ricoperto di un morbido velo d’erba che gli s’aprivano di fronte rapidi come una lama apre una ferita – un paragone che gli parve amabile e adattissimo, in quell’istanza – assumeva tratti diversi, mai scoperti prima, assolutamente magnifici. Gli pareva di sfidare il tempo stesso, sulla sella di cuoio della scorza violacea di Gaaran.
La salamandra di Ederus, Gaaran, appunto, come ogni salamandra, non raggiungeva di certo chissà quale velocità, al massimo delle sue prestazioni, anche se a terra la sua corsa era superata soltanto da quella del bisonte roccioso, che peraltro poteva permettersela solo in cariche di breve durata; ma si trattava comunque di un’esperienza folle e divertente per il Cronista, alla sua età e con il suo passato.
“Strano, vero, che Inamia mi abbia invitato a casa vostra, eh? – osservò Ederus, alla guida di Gaaran – Non smetterò di ripetermelo e rimanere…basto.”
“Basito, si dice basito. – lo corresse ghignando l’insegnante – Non dirlo a me, caro Ederus. Per me è stato ancora più sorprendente.”
“Lo immagino, vecchio mio, lo immagino! Ma…com’è che tua moglie, poi, mi guardava così male? Prima di oggi…ieri, dico.”
“Mah, non te lo so dire. – borbottò lui, sollevando una mano per grattarsi la fronte e riportandola giù subito dopo, ricordandosi di essere a cavallo e che poteva cadere – Diceva che…avevi una cattiva influenza su di me, o qualcosa di simile. Anche che è colpa tua se bevo troppo.”
E poi non bevo troppo, io. brontolò tra sé.
“Credi che abbia qualche cosa contro i forestali animali, ah? – osò Ederus, a metà tra il preoccupato e l’ironico – No, dai, scherzavo…non mi permetterei di oltraggiare tua moglie.”
“Be’, potresti non essere lontano dalla verità, Ederus. Sarò anche suo marito, ma le donne non si capiscono mai del tutto!”
“E allora, hai idea di perché questo repentino cambiamento, hm? Che c’è sotto?”
“Proprio non saprei. Ci conosciamo da parecchio, noi due, e visto che non ho mai fatto stranezze con te, ha pensato di darti finalmente una chance.”
“Già, ha senso.”
Non ne sono molto convinto.
“Tu, piuttosto… – cambiò indirizzo il maestro, con cipiglio curioso (il quale però non poteva essere colto da Ederus alla guida) – mi spiegherai, un giorno, perché questa tua mania di assecondarti allo stile di vita dei vegetali? Hai persino mangiato il pastone…ho sentito parecchi dire che ha davvero un pessimo sapore, per coloro come te.”
Ederus esitò, trattenendo saldamente le redini della cavalcatura. Non giunse alcuna risposta nei minuti che seguirono.
“Di cosa stai parlando, ai tuoi bimbi?” gli domandò invece, ignorando completamente la questione posta poco prima dal Cronista.
“…oggi racconterò del Grande Sacrificio. – lasciò correre lui; ma nel profondo voleva ancora chiarimenti, e li avrebbe avuti – Sarà tosto. C’è un vulcanico, nel gruppo.”
“Oh. Brutta cosa, me lo posso immaginare.”
Gaaran fuggì dal sentiero battuto, immettendosi nell’impervia strada erbosa tra gli alberi selvaggi verso la radura, con un balzo da capogiro, che fece quasi rivoltare il modesto bagaglio del Cronista e lo accecò, mandandogli in viso il mantello.
Non gli fu concesso di rimettersi in sesto – non ci provò nemmeno, non vedendo dove andava, per timore serio di rovinare a terra – finché, con una brusca frenata che quasi lo fece sbalzare dalla salamandra, si ritrovò con gli occhi nuovamente liberi e di fronte al suo scranno.
Discese con cura e attenzione da Gaaran, mentre alcuni mattinieri studenti già presenti si ritrassero un poco spaventati dall’irruenta irruzione del gormita a salamandra.
“Grazie per il passaggio, vecchio amico.” Disse il Cronista.
“Di nulla, Cronista. Grazie a te e a tua moglie per l’ospitalità! – esclamò; si guardò intorno, adocchiò scherzosamente minaccioso alcuni dei ragazzi – Riguardo quella domanda…è una lunga storia, e non mi piace raccontarla. Ma forse…vedremo. Alla prossima!”
 
<< Magor era nato da genitori ignoti.
Fu trovato, ancora bebè, alla porta di un amministratore di un circo. Incapace di trovare a chi appartenesse il bambino, e sempre desideroso di aver un figlio ma non sposato e ormai anziano, decise di prenderlo come suo e crescerlo come membro della sua famiglia.
Per alcuni anni della sua infanzia fu trattato con ogni rispetto e bene che potevano conferire il lavoro circense dal suo padre adottivo.
Egli lo fece interessare alla stregoneria, leggendogli ogni sera racconti di grandi maghi e grandi incantesimi del passato. Era un padre benevolo.
Ma il signor Vasìr era anziano, e spirò quando Magor aveva solo sei anni.
La nuova amministratrice prese Magor sotto braccio, ma si mostrò molto più severa e molto meno amorevole, esigendo che Magor lavorasse per il circo e aiutasse tutti gli artisti.
Magor, se non voleva ritrovarsi nelle strade, dovette obbedire. Ma in segreto continuava ad interessarsi alla stregoneria e a molti altri campi della conoscenza, rubando libri e riviste e leggendole, ed esercitandosi con la magia, quando non era impegnato.
Magor continuò in questa routine per diversi anni, continuando a leggere, allenarsi e lavorare come operaio. Nella sua adolescenza, riuscì addirittura a creare tre magie, a riconoscere quali suoni avevano sulla natura l’effetto che desiderava.
Fu grazie ad uno in particolare di questi incantesimi, non riconoscibile perché nuovo da alcuno stregone e quindi utilizzabile senza che nessuno se ne accorgesse, e alla sua prestanza fisica, che fu in grado di battere il lottatore professionista della compagnia circense.
Una volta sconfittolo, da lui imparò l’arte marziale che in seguitò insegnò a Razael, e, raggiunta la maggiore età, sostituì il lottatore professionista.
Ma la sua carriera da lottatore durò poco: fu quando il suo circo arrivò nella città di Lacedimora e Razael, già rinomato, osservò Magor e percepì il suo uso illecito della magia nella lotta.
Andò a parlargli, scoprendo il suo grande potenziale come stregone e rinfacciandogli che ciò che stava facendo era scorretto.
Lo convinse a diventare suo apprendista, lottando senza l’uso dell’incantesimo e perdendo, cosa che non fu ben vista dall’amministratrice che lo cacciò seduta stante.
Da allora Magor divenne ben presto noto come il secondo stregone più potente, e raggiunse livelli di conoscenza che solo Razael aveva prima di lui toccato.
La sua più grande –e più criticata - azione fu quella di appoggiare, moralmente e materialmente, uno scisma della Triade Vicia, permettendo a un largo gruppo di vici di separarsi dal resto della comunità, abbandonare il Venturgio e stabilirsi nell’isola di Inverrith.
Magor era un uomo che puntava al successo personale, ma, in ricordo del padre adottivo e con l’influenza di Razael, cercò di apparire e agire in modo onesto e generoso.
Era un bell’uomo, molto più attraente di quanto Razael lo fosse mai stato, sia che avesse i capelli biondi e lunghi o che fosse pelato.
Amava la compagnia femminile, sebbene non entrò mai in una relazione stabile, e le donne amavano la sua compagnia.
Mai più una donna si sarebbe avvicinata a lui. Mai più avrebbe cercato di apparire benevolo nei confronti dei suoi simili. Mai più avrebbe dato ascolto al suo maestro.
Mai più avrebbe vissuto una vita regolare.
“Razael, Razael! Sei un mostro, un pazzo, sciocco mostro. Tu non sai cosa si prova, e non lo saprai mai, perché io sarò così gentile da ucciderti subito. Non posso più vedere la bellezza del mondo, solo paesaggi offuscati. Non posso più sentire e odorare le cose allo stesso modo di prima. Non posso più mangiare, sentire il gusto del vino, assaporare i frutti degli alberi e della terra. Non posso più sentire la brezza sulla pelle, accarezzare il delicato manto di un animale, la pelle profumata e liscia di una persona. Non ho più una pelle! Solo questo vacuo corpo di fuoco che brucia in eterno e che in eterno mi affligge. Devo ringraziarti, perché a causa dei tuoi insegnamenti posso sopportare e alleviare il dolore, ma esso non sparirà mai, finché tu non annullerai la maledizione. Non posso più dormire, non posso più sognare! Capisci? Capisci cosa significa?!
Ma forse devo ringraziarti ancora una volta. Con questo corpo, posso vivere in eterno! Devo solo evitare l’acqua e l’umidità, e non morirò mai. Mai! Questo è stato un grosso errore. Oppormi è stato un grosso errore. Mi vendicherò.
Tieni molto ai tuoi cari gormiti, Razael Vecchio Saggio. La mia vendetta sarà più grande di quanto tu possa aspettarti.”
***
All’interno del Monte di Fuoco Vulcano, patria dell’omonimo Popolo, un largo gruppo di gormiti si stava riunendo e compattando nella piazza centrale.
Sebbene chiamato Vulcano, come ho già descritto, poco di esso richiamava un vero vulcano: è vero, al suo interno la temperatura era molto alta, e spesso poteva capitare di scorgere delle pozze di lava, ma erano tutte cose di poco conto; all’interno della montagna, le abitazioni e la vita dei gormiti del Vulcano si sviluppavano attorno ad un cono lavico centrale, controllato ed osservato continuamente.
Come si ricorderà, dall’entrata della fortezza ai piedi del Monte Vulcano si biforcavano una serie di gallerie che conducevano agli agglomerati cittadini, alle piazze, ai mercati, alle sedi signorili.
Ma proprio alla base del Monte Vulcano, più avanti all’entrata, c’era la piazza centrale di Monte Vulcano.
Qui erano solite tenersi le elezioni, le cerimonie di candidatura di Signori e Saggi, trionfi vari, discorsi dei Signori e richieste del Popolo riunito.
Quella notte i Signori in carica Magmion Magmadoni e Fercanio avrebbero ascoltato le lamentele del Popolo riguardo diversi argomenti, principalmente sui rapporti con gli altri Popoli.
Magmion, figlio di Sogres, era un bestione dalla pelle rossa dalle fattezze dinosauresche: i piedi enormi erano dotati di tre artigli rocciosi, due davanti e uno dietro, dal bacino, coperto da una conchiglia argentea, emergeva una robusta coda grigia che toccava terra.
L’intensivo allenamento militare era ben visibile: il corpo era muscoloso e punteggiato da minuscole e sporgenti macchie gialle. Le braccia erano forzute anch’esse: come spero i lettori siano ancora memori, il braccio sinistro presentava una mano a tre dita dagli artigli ricurvi, l’altro non aveva mano, ma un blocco osseo come roccia dalla forma di stalattite. Dalle spalle, sui trapezi, emergevano due spalliere ossee semicircolari grigio scuro, e la testa, gonfia, da lucertola mostrava dei denti aguzzi e tre modeste creste gialle sul capo.
Fercanio, rieletto Signore, era un gormita piuttosto…‘normale’. Cioè, non presentava elementi fisici di particolare stranezza come possedevano invece molti altri gormiti, ad esempio la chela di Delos o i tentacoli sulla schiena di Kraken.
Era un grande lupo elfoide, prestante, con le zampe unghiate rette nella tipica posizione dei canidi. Spalle spioventi, grossi muscolosi avambracci. Grossa coda. Il volto era esattamente quello di un lupo, con grandi orecchie con ciuffi di pelo in più in cima.
Il suo corpo era tuttavia anomalo per un gormita del Vulcano: pelo molto folto e nero, pelle di un rosso molto scuro, quasi marrone, occhi gialli. Nessuna protuberanza, corna, creste ossee.
I due Signori si sedettero, con il consigliere di Fercanio in piedi a fianco a lui –quello di Magmion era assente - , al posto loro riservato sul ripiano scalinato nella piazza, opposto e separato dal podio, più basso, con tre seggi sui quali si ergevano e parlavano i diversi gormiti che venivano scelti come rappresentanti, oggi solamente due.
Un momento, forse non ho parlato dei consiglieri. Presto detto, non è difficile da capire: sono gormiti di fiducia dei Signori, scelti nella più totale libertà da essi solo e unicamente dopo essere stati eletti. Sono i loro compagni più stretti, e coloro a cui si rivolgono per primi. Non svolgono alcun ruolo politico, ma sono comunque figure di rispetto che succedono al proprio Signore se esso dovesse venire a mancare.
“Miei Signori, Magmion e Fercanio. - li salutò, con leggeri inchini, uno dei due oratori.
 - La situazione è diventata insostenibile.”
“Esagerato.” commentò con un risolino il consigliere, cosa che fece irritare l’oratore e scatenò un mormorio tra la folla.
Fercanio non lo zittì, e disse invece: “Condivido il suo commento. Questa tua frase è stata sentita moltissime volte.”
“Questa volta lo è seriamente. - controbatté con sguardo truce l’oratore. - Mi sembra che mai prima una bancarella sia stata completamente stravolta, le merci rubate e i suoi proprietari attaccati, uno ferito l’altro ucciso. Nei nostri territori!”
Si alzò un mormorio stupito dalla folla, così come imprecazioni e giuramenti di vendetta contro gli attaccanti.
Fercanio levò uno scappellotto al suo consigliere, domandando irritato: “Come mai non sono venuto a saperlo?!”
“S - scusate.” mormorò il consigliere massaggiandosi il braccio urtato.
“E tu, Magmion? Lo sapevi?” chiese poi Fercanio.
“Sì. - rispose secco e insofferente con la sua voce vibrante - Il mio consigliere è il gormita ucciso.”
Ci fu un momento di confusione, e gli oratori che cercavano di zittire la folla e continuare il loro discorso.
La folla fu dunque zittita, ma non dai due rappresentanti e la loro attenzione fu invece rivolta al fondo della sala, dove un gormita urlava e si sbracciava per farsi vedere.
“Ehi, ehi! - gridava, con un volto meravigliato e gioioso - Menumia, Menumia è qui!”
Menumia, citata pagine fa, era la divinità femminile del Popolo del Vulcano e dell’elemento Vorcan. Ma i semidei dei culti gormitici, oltre che ‘passati di moda’, erano figure che, secondo il mito, da millenni ormai agivano nell’ombra e non si mostravano più sul suolo di Gorm, erano passati ad altri mondi.
D’altra parte, la cultura gormitica era sempre più agnostica, e in pochi credevano che i semidei esistessero e fossero davvero comparsi su Gorm.
“Che stronzata!”, urlavano alcuni, innervositi dalle interruzioni, “Qui stiamo parlando di cose serie, torna a dormire!”
Altri, invece, sembravano interessati e credere alle parole del vulcanico.
“Menumia è tra noi, venite!” li invitava a seguirlo il gormita, che si mise a correre verso la galleria da cui era uscito, ma fece ben poca strada.
Una figura completamente di fuoco, evanescente e fluttuante, emerse dal fondo della sala. Camminava lentamente, con le fiamme che guizzavano.
Il gormita si paralizzò davanti ad essa, ma non provò paura. Si mise subito in ginocchio e cominciò a pregare stendendo entrambe le braccia e portandole su e giù.
La figura infuocata guardò interessato il gormita osannante, ma subito impietosito da quel comportamento.
Levò la mano e, con la forza magica, fece alzare il gormita in atto di preghiera, che oppose ben poca resistenza.
La figura di fuoco si fece largo tra la folla senza toccare il suolo coi piedi incandescenti, che aprì un varco per lasciarla passare, in un misto di curiosità, paura e meraviglia.
Magmion si alzò dal suo seggio, profondamente irritato dall’irruzione dell’essere infuocato.
Scese con grugniti rabbiosi dal ripiano, mentre Fercanio, molto più spaventato del compagno, tremava sul suo sedile, con il consigliere che si era addirittura nascosto dietro di esso.
“Lasciatemi passare!” esclamava Magmion mentre si faceva strada prepotentemente, con spintoni e gomitate, nella folla attorno al mostro infuocato.
Paratosi davanti alla figura infuocata, mentre tutti gli altri arretravano, tese la sua mano verso di essa. Nulla: il fuoco della sua esistenza non obbediva ai comandi di Magmion.
La figura, con espressione seria e assente, agitò l’indice in segno di no.
“E’ inutile. - disse le sue prime parole con voce greve - Questo fuoco va oltre la comprensione del tuo potere, persino del mio.”
Magmion grugnì e, con un enorme gesto di coraggio, almeno per i presenti, si mise proprio davanti alla figura di fuoco, a contatto col suo estremo calore.
Lo guardò dall’alto verso il basso, mentre questo modellava le sue fauci rosse in un sorriso.
“Chi diamine sei?” domandò severo il Signore del Vulcano.
La creatura di fuoco aprì la bocca per rispondere, ma fu interrotto bruscamente.
“La mia gente crede sei un dio, ma io no. - continuò stringendo gli occhi - Sarebbe…problematico.”
“Non ti preoccupare, non sono un dio. - lo rassicurò la creatura di fuoco - E non voglio atteggiarmi come tale.”
“Non sono niente di ciò che credi.” seguitò l’essere con voce ammaliante, allontanandosi da Magmion per rivolgersi all’intera folla
“Io sono qui per aiutarvi, credimi, per dare un senso al vostro innato potere, per farvi conoscere la verità, per farvi vendicare di tutto ciò che avete compiuto per gli altri Popoli senza avere nulla in cambio…”
Magmion, di fianco a lui, si mise a braccia conserte. “Una proposta interessante. Parla.” disse.
“Il mio nome è Magor. - replicò lo stregone infuocato - Su quest’Isola c’è molto di più di quanto voi crediate. Un mio nemico è qui, così come dei vostri nemici, eterni nemici.”
I gormiti vulcanici si avvicinarono per meglio ascoltare ciò che aveva da dire.
“I gormiti con cui da sempre convivete vivono con il terrore del vostro potere e il disgusto della vostra esistenza. E’ un dato di fatto indiscutibile. In questi ultimi anni hanno ben pensato di compensare il loro disprezzo per voi aiutandovi ad inserirvi nella società, a cambiare i vostri atteggiamenti e convivere pacificamente con gli altri. Ma!” si fermò, alzando la mano e l’indice, guardandosi attorno per verificare che tutta l’attenzione fosse su di lui.
“Ma! Che cosa hanno fatto davvero i gormiti per aiutarvi?” domandò, osservando la platea.
Magor si zittì, e il silenzio regnò nella piazza.
“Sì, lo chiedo proprio a voi! - ricominciò Magor - Siete voi i protagonisti! Tu! - e indicò un gormita a caso nel ‘pubblico’ - Che cos’hanno fatto i gormiti a te e alla tua famiglia per riparare ai loro errori?”
Il gormita farfugliò qualcosa, balbettò, cercò di esprimere qualcosa a gesti. Nulla di concreto.
“Non ha fatto niente, niente di niente. - scosse lentamente e dolcemente la testa Magor - I tuoi antenati, invece, hanno affrontato un esercito di dragoni, che i gormiti della Terra erano troppo pigri e troppo deboli per contrastare. Li hanno attirati nella tua terra, e i dragoni l’hanno devastata. I tuoi, i vostri avi sono stati in grado di sconfiggere l’armata. E che cos’ha fatto la comunità gormitica per ringraziarvi? Hm? Proprio nulla, ha continuato a trattarvi come ha sempre fatto.”
“Tu!, Sì, proprio tu, là in fondo.” si rivolse dunque a un altro gormita, che non si aspettava proprio di essere interrogato.
“I tuoi antenati, la tua famiglia è una famiglia di mercanti. Non è importante come sono venuto a saperlo. lo so è basta. Gli altri gormiti hanno sempre pagato le vostre merci pochissimo, e le vostre vite sono state per questo molto più faticose. I tuoi nonni e bisnonni hanno avuto l’intraprendenza di andare a vendere fuori dai territori del Popolo del Vulcano, e gli altri Popoli li hanno benvenuti come soldati all’assalto. E oggi, ti hanno forse chiesto scusa per ciò che successe anni fa?”
Il gormita interpellato cercò di rispondere, ma Magor continuava a fare di no con il capo.
“Tu, però, li hai perdonati lo stesso. Un bel gesto, ma che non ti ha reso la vita più ricco come saresti se i tuoi avi fossero riusciti a commerciare.”
“Tu, Signore del Vulcano. - si rivolse ora a Magmion, che ascoltava silenzioso - Sai bene, come il gormita precedente e come tutti, le difficoltà che hanno avuto i tuoi fratelli a vendere i propri beni a gormiti così egoisti e tirchi. Quando poi il tuo antenato giunse sulle coste di Tato Yami e ottenne da loro merci preziose, i gormiti le hanno pagate equamente? Nemmeno per idea! Per quanto fossero utili, hanno continuato come hanno sempre fatto e come ancora fanno.”
Il Popolo del Vulcano lì presente sembrò accattivato e motivato, ma Magor non aveva ancora argomentato a sufficienza. Prese a camminare –a fluttuare - avanti e indietro.
“Da diverso tempo è qui con voi un membro della razza elfa che va in giro facendosi chiamare Vecchio Saggio, dico bene?”
‘Sì’ e cenni del capo giunsero a fiotti dai gormiti.
“Voi credete che il Vecchio Saggio sia dalla vostra parte, che voglia la pace tra i gormiti, che voglia solo aiutare, voi e tutti gli altri. E’ questa la verità?”
I sì del pubblico furono ancora più forti e numerosi.
“E’ gentile con noi.” proruppero alcuni.
“Ci ha dato la bicicletta, e l’aratro!” esclamarono altri, annuendo convinti.
“Mi ha aiutato a risolvere un diverbio con un mio amico.” asserì uno.
“Siete dunque sicuri che questo Vecchio Saggio agisca per il vostro bene, e che vi abbia detto tutto quello che sa. Giusto?”
“Giusto!” giunsero forti le risposte.
Sbagliato!” fu aspra e prepotente la voce ora furiosa di Magor.
“Il Vecchio Saggio vi nasconde molte cose. Il Vecchio Saggio ha scoperto la verità sul vostro Occhio della Vita.” continuò Magor, con voce ora più decisa e arrabbiata.
“Sì, proprio il vostro oggetto sacro, l’Occhio della Vita che il vostro progenitore Valladoin si è sentito così generoso da condividere con il resto della popolazione. Indovinate che cosa ha fatto il Vecchio Saggio? Se l’è preso! Lo ha preso, lo ha toccato, lo ha sporcato, quando nemmeno i pii Priori si permettono di farlo. E toccandolo e studiandolo, rovinandolo in maniera tale da dover meritare una morte atroce, ha scoperto che cos’è: è una fonte di energia, che potrebbe aiutare…rendere la vita migliore a voi, a tutto il mondo di cui voi sapete così poco! Ma lui no, lui si è tenuto questo segreto per sé, lo ha tenuto nascosto agli stessi gormiti per anni.”
Magor si fermò per riflettere e studiare come stavano reagendo i gormiti di fronte a quelle verità.
Molti sembravano stupefatti e increduli che il Vecchio Saggio avesse osato fare ciò, e ancor di più per ciò che l’Occhio della Vita pareva veramente essere. Sembravano tutti credere Magor, ma molti ancora riluttanti.
“Avete tutti i diritti di non credere alle mie parole. - continuò poi, proteggendosi da eventuali accuse - Ma io posso provarvelo, anche se non sono sicuro che comprenderete. Ma sappiate che io agisco per il vostro bene, per il vostro futuro.”
“Gli stessi gormiti che vi temono… - riprese Magor - quegli stessi gormiti per cui voi avete fatto molto, ma che hanno paura di voi, e vi tengono lontani, eppure voi continuate a provarci, a farvi accettare, ma loro non lo fanno…loro sono stati accattivati dal Vecchio Saggio. Hanno più fiducia in lui di quanto credono nell’esistenza delle Somme Forze. Capiatelo bene.”
“Ampliate i vostri orizzonte, gormiti! - urlò poi, allargando le braccia - Avete le informazioni, avete i mezzi e le motivazioni. Non rimanete chiusi in questa modesta isola. Voi siete una forza della natura! Gli altri gormiti non possono competere con voi. Coraggio, vendicatevi di tutti i soprusi, ponete fine al dominio della paura e della discriminazione! Alzatevi dal vostro sonno, marciate! Conquistate l’Occhio della Vita e diventate con me i salvatori, i padroni del mondo!”
L’intero popolo era in fermento. Acclamava, gridava e applaudiva. Magor ci era riuscito un’altra volta. Così come aveva portato una fazione dei vici ad opporsi al governo della Triade, così ora aveva aizzato il Popolo del Vulcano contro gli altri: il Monte di Fuoco sarebbe eruttato per la prima volta, quella sera.
 
La terra tremò.
Un fremito possente scosse la regione nei pressi immediati del Monte Vulcano, ma spargendo la scossa di terremoto anche più a sud.
I gormiti della Terra avvertirono che c’era qualcosa che non andava. Uscirono spaventati dalle loro case, e si guardavano attorno. La scossa non aveva fatto alcun danno. Ma il peggio arrivò dopo.
Davanti agli sguardi atterriti di tutti i gormiti, la cima del Monte di Fuoco si crepò con un fragore assordante. Ma solo fumo ne fuoriuscì.
“I gormiti del Vulcano! - si preoccupavano alcuni - Che staranno facendo? Staranno bene?”
“Non preoccuparti per loro, non ne vale la pena.” commentavano altri, freddi.
La situazione sembrava essersi calmata. La vetta spaccata del Monte Vulcano sgorgava fumo in continuazione, ma non sembrava esserci altra preoccupazione: il vulcanici avrebbero risolto la cosa.
I gormiti della Terra, rappacificati, tornarono cautamente nelle loro abitazioni, considerando come agire se si fosse ripetuta la scossa.
Anche altrove nell’Isola il fumo del Vulcano poteva essere visto, e destava agitazioni di vario tipo.
Su nella fredda e innevata cima di Picco Aquila, gormiti viaggiatori osservavano inquieti il cielo farsi scuro.
“E’ la prima volta in tutta la storia di Gorm che succede.” commentava uno.
“Dovevamo aspettarcelo: in fondo, è un vulcano.”
A Dalarlànd, al livello del mare, il Popolo della Foresta temeva i danni ambientali.
“Tutto quel fumo non farà bene agli alberi della Foresta, nemmeno un po’, e nemmeno a noi.”
“Mi chiedo che casino abbiano combinato questa volta quei buoni a nulla.”
Nelle residenze del Mare, il fumo non era visibile. Tuttavia la scossa si era sentita, anche se non avevano idea di dove si fosse originata.
Quando tutto sembrò essersi definitivamente placato e il fumo fuoriuscire a quantità e velocità più accettabili, ecco accadere il peggio.
Una scossa più forte, molto più forte, che gettò i gormiti nella disperazione: poiché alla scossa si unì qualcos’altro.
Un boato enorme e frastornante, che fece raggelare di paura tutti i gormiti dell’Isola.
Dal nuovo cratere del Monte Vulcano cominciò a sgorgare lava, magma e lapilli.
Non compresero perché si stessero preoccupando così tanto: d’altronde, quel fuoco liquido sarebbe stato pericoloso solo per i gormiti del Vulcano. Forse, da qualche parte, nel loro animo, nel cuore di ogni singolo gormita, vi era preoccupazione ed apprensione per le sorti dei loro compagni focosi.
Ma era ormai troppo tardi per i ripensamenti: dalla fortezza di Monte Vulcano, dalla Valle del Vulcano, dalle Miniere di Sangor, da ogni luogo abitato dal Popolo del Vulcano emersero a fiotti gormiti rossi e grigi che muovevano in marcia, con le proprie mani o con armi di vario genere.
Marciavano in ogni direzione, diretti ad ogni dove, nella patria di ogni Popolo.
Raganels, dalla sua casa nella Valle dei Canyon, aveva visto e sentito ogni cosa: le due scosse, il fumo, l’eruzione, l’uscita compatta dei gormiti del Vulcano.
Fu uno dei primi ad avere un contatto con questi vulcanici.
Li vide, una schiera di soldati rossi, calpestare rumorosamente il rossiccio suolo della Valle dei Canyon.
Non badò alle loro espressioni, al loro numero, o al fatto che alcuni brandissero spade, martelli, mazze, falci. Lui aveva a cuore i gormiti del Vulcano, e voleva sapere che cosa stava succedendo.
“Ehi, amici. - li accolse, con tono preoccupato e stupito invero del loro aspetto - Che cosa è successo a Monte Vulcano? State tutti bene?”
La schiera di gormiti vulcanici lo osservò muta e immobile. Raganels li scrutò attentamente, e chiese: “Dove state andando?”
Prima che se ne potesse rendere conto, un gormita si era avventato contro di lui e gli aveva conficcato la sua spada in gola.
Raganels si ritrovò con la fredda lama rossa in mezzo al collo. Cercava di parlare, voleva capire, ma solo gorgoglii e sangue uscivano dalla sua bocca, e lacrime dai suoi occhi.
Il vulcanico ritrasse la spada, decapitando il gormita marino. La sua testa cadde a terra, calpestata dalla legione in avanzata militare.
Era una guerra aperta e senza il minimo preavviso.
I gormiti non sapevano come reagire, e cercavano di difendersi in ogni modo possibile a loro noto.
Ma per quanto superiori fossero i loro numeri, i gormiti del Vulcano avevano una netta superiorità militare.
Il Popolo della Terra fu il primo a subire la collera del Popolo del Vulcano.
Esso si era procurato le armi e difendeva rabbiosamente la propria casa, memore dell’antica lotta contro i dragoni. Ma quella battaglia lontana nel tempo era stata vittoriosa solo in parte. Quella odierna non lo sarebbe stata affatto.
“Sapevamo che sarebbe successo, lo sapevamo! Aah!” urlava un terricolo privato delle gambe, mentre veniva appiccato da un vulcanico.
“Difendete, difendete, fratelli!” incitava Arriut, brandendo la sua mazza e abbattendo vulcanici sia con essa che con i propri pugni e poteri.
“Siate forti, per Celeles!” urlò, mentre fracassò il torace a un grosso gormita con la mazza.
Arriut era rimasto quasi solo. Le case, gli alberi intorno a lui erano rimasti integri, ma cadaveri e sangue coprivano il suolo, e ben pochi terricoli erano rimasti in piedi.
In sottofondo, si udiva una sorta di voce registrata che recitava: “Uccidete, date sfogo alla vostra rabbia. Ma lasciate a me il Vecchio Saggio.”
“Per lo Stregone di Fuoco Magor!” udì poi Arriut, avendo mietuto un'altra vittima.
Una freccia sibilò nell’aria, andandosi a conficcare profonda nel petto del Saggio della Terra.
La estrasse con un grido di dolore.
“Ce la posso ancora fare, ce la posso ancora fare!” si diceva, spezzando la freccia.
Tutto vano: un’altra freccia gli si piantò nel petto, ponendo fine ai giorni di Arriut.
Il tempo dei gormiti era finito. La potenza e la rabbia repressa del Popolo del Vulcano non potevano essere respinte dai deboli gormiti che non avevano allenato il proprio potenziale e mai aveva considerato questa possibilità.
Gli abitanti della Foresta furono i gormiti repressi più dolorosamente: ai loro corpi legnosi fu appiccato del fuoco e furono lasciati bruciare molto lentamente.
Nemmeno gli alati gormiti dell’Aria riuscirono a salvarsi: il popolo del Vulcano aveva prominenti forze aeree, inoltre erano abili nella mira, sia con archi e balestre che lanciando dardi infuocati dalle proprie mani.
Il Popolo del Mare pensava di poter rimanere al sicuro, nascosti nelle loro case sottomarine, ma non fu così.
La furia dei vulcanici non si sarebbe lasciata fermare da della semplice acqua.
I vulcanici più forzuti, con l’aiuto degli stregoni, cominciarono a lanciare massi distruttivi nelle acque con tutta la loro forza, schiacciando tutto ciò che ricadevo sotto il peso dei macigni, alcuni resi esplosivi dalle magie degli stregoni vulcanici. Questi ultimi, intelligenti ma non troppo valorosi, pronunciarono incantesimi che avrebbero permesso ad alcuni loro compagni di combattere e respirare in acqua per un tempo limitato. E non ci fu scampo nemmeno per il popolo del Mare.
 
Una catastrofe, un genocidio apocalittico indicibile, che nessuno potrebbe ricordare senza che il proprio cuore battesse all’impazzata, a sangue freddo…ma oggi nessuno può ricordarlo, le anime di chi ha visto e sofferto quei giorni – perché furono giorni, di agonia e di sangue a non finire – sono ora nella pace delle Somme Forze, o vivono destini più felici di quelli che il maleficio della persuasione e della follia di un essere di fuoco hanno abbattuto su di loro qui su Gorm. Non può valere lo stesso per chi si è lasciato sopraffare dalla malizia velenosa dello Stregone di Fuoco, dal peso, sulle spalle proprie e dei propri antenati, di infiniti soprusi, mancanze, paure, discriminazioni…
Non sembrava vero. Secoli interi di razzismo avevano portato a questo: una convivenza forzata a cui finalmente, grazie semplicemente alle parole ben ponderate di un essere maledetto piombato tra capo e collo in mezzo a Monte Vulcano, i soppressi reagivano con una dimostrazione di violenza e di irrazionalità fuori dal normale, fuori dall’etica, imperdonabile. Forse non ci sarebbe stato nessuno in grado di perdonare.
Non poteva essere vero che delle menti di questo mondo avessero concepito una simile tragedia, fredda e spietata come una lama di ghiaccio. I vulcanici apparivano dal nulla in ogni angolo di Gorm, attraverso varchi spaziali immensi che riversavano in ambienti da lungo tempo preclusi, solo sognati e immaginati dal Popolo del Vulcano i soldati, ma anche i civili, i modesti contadini ambiziosi di prendere parte a quella svolta storica e drammatica, assetati del sangue di coloro che li avevano condannati a una condizione di inferiorità. Anche pensando che fosse stato il misterioso Stregone di Fuoco ad avvelenare gli animi dei vulcanici, non era forse lui stesso una mente di questo mondo? Non era un dio, un demone d’altri spazi e d’altri tempo. Come poteva permettere una tragedia simile, come sopportarla? Fin dove sarebbe giunta la pazzia?
Mai più soprusi, mai più leggi ingiuste a cui avrebbero dovuto sottostare per poter vivere decentemente. Sarebbe stato il Vulcano a dettare legge, ad avere tutte le risorse dell’Isola a portata di mano, senza la deviata mediazione di razzisti gormiti d’altri Popoli: chi rimaneva in vita era destinato a sopperire a secoli di disparità con la schiavitù perenne. L’Isola di Gorm era stata marchiata del simbolo di un nuovo glorioso Popolo del Vulcano, reso con il sangue e la linfa degli oppressori che credevano di avere il controllo.
Il genocidio non era ancora terminato, forse non avrebbe mai avuto una vera fine: già alcuni vulcanici avevano ricevuto l’illuminazione, d’offrire come ringraziamento per la venuta del possente Stregone di Fuoco, che gli aveva resi consapevoli del loro potere, un immenso sacrificio…un sacrificio, il Grande Sacrificio, di gormiti.
La loro carne avrebbe composto il piatto forte del banchetto degli immortali e onnipotenti Osservatori. La verità sull’Occhio della Vita aveva adombrato i deboli e tanto lontani Semidéi della tradizione.
Avevano considerato anche l’idea di cibarsi di loro, ma sarebbe stato estremamente disgustoso e immorale. Immorale! Non avevano perso del tutto il senno, ma avevano già oltrepassato il limite tra umanità e mostro.
Così, con dialoghi e rituali di grande teatralità, i corpi dei gormiti, già morti o ancora vivi e costretti a patire l’innominabile, venivano impiccati, crocifissi a testa in giù, arsi in falò ciclopici, e infine gettati in mare, e consacrati a coloro che tutto vedono e tutto possono dal loro cielo oltre i cieli.>>

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Capitolo 12
*** Capitolo 6 ***


Lamenti. Gemiti di insofferenza, di incredulità, di agonia, del dolore più forte che un essere animato può provare, più pungenti di qualsiasi ferita e malanno non letale, per quanto grave possa essere, di qualunque privazione il corpo potesse sopportare, perché provenivano dal cuore, dall’anima. La cura per ferite di questo genere può non essere mai trovata, e anche quando la cicatrice sembra aver fermato la perdita, in realtà attende solo di esplodere più forte di prima.
Versi sommessi, singhiozzi di questo dolore, di una sofferenza ancora più toccante e di difficile guarigione perché provenienti dallo spirito debole di un bambino, colmavano la radura, sovrapponendosi ai suoni naturali degli insetti e degli uccelli tra le foglie degli alberi attorno. I rami di questi fusti parevano protendersi tutti in direzione del volto crucciato e nascosto tra le mani nel tentativo di negare, ignorare la verità, mentre il corpicino si accucciava addolorato al suolo, quasi volessero, i rami, confortarlo e condividere il suo male…o deriderlo.
Il Cronista sapeva che sarebbe successo. Non era la prima volta che accadeva: nella sua, relativamente, lunga carriera da bardo, cantastorie o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare, anche maestro e storico, era già passato per quella fase dell’evoluzione di Gorm che accendeva gli animi dei suoi studenti in una miriade di tristi e sbigottite, come minimo, fiamme. Falò, per meglio dire. Incendi. Già aveva avuto, anni addietro, uno scolaretto vulcanico che aveva reagito in un’esplosione all’idea che la sua razza, i suoi padri e i padri dei suoi padri, avesse, a una distanza di tempo davvero non così ampia, compiuto l’eccidio più spaventoso della storia conosciuta del mondo conosciuto. E ne era andata fiera quasi all’unanimità per circa un secolo.
La ciclicità, per modo di dire, degli eventi, la ripetizione sotto gli occhi del Cronista di una dimostrazione di…di senso di colpa di atavica ragione, di disgusto per le proprie origini?, non potevano annebbiare l’empatia del maestro, fargli guardare al cucciolo che si stringeva a sé e gridava ‘No!’ senza provare pietà e compassione, come un semplice problema da risolvere di cui, per esperienza, conosceva già la soluzione e per cui doveva solo attendere l’occasione giusta e continuare imperterrito in una fredda cronaca.
La sofferenza e il conflitto mentali della giovane mente erano reali e forti, così come lo sbalordimento e i vani tentativi di intraprendere un qualcosa per confortare Osmaniu – grandioso, semplicemente commovente come quei giovani riuscissero a provare perdono per un vulcanico, uno qualsiasi, dopo quella rivelazione! –  degli altri scolari. Non si trattava dello stesso cucciolo di Monte Vulcano con cui aveva avuto a che fare anni prima: attuare il medesimo procedimento, che era stato improvvisato, non poteva funzionare, anzi, avrebbe potuto avere conseguenze dannose. Doveva improvvisare di nuovo. Tenendo in mente alcune argomentazioni chiave, sì, ma agendo e parlando spontaneamente. A cuore aperto.
La forte empatia del Cronista portò egli stesso sull’orlo di un silenzioso e dignitoso pianto, che gli lucidò i senili occhi. Comprendeva con tutto il proprio spirito lo stato d’animo di Osmaniu, come era accaduto con l’altro figlio del Popolo del Vulcano, e lì non era riuscito del tutto a trattenere il pianto. Aveva sperimentato, un giorno, l’immedesimazione in un gormita del Vulcano dei tempi moderni, con quel genocidio sulle spalle, la guerriglia fratricida protratta per anni, l’inspiegabile e per alcuni ancora immeritato perdono definitivo. Come era terribile convivere, dopo cento anni, spalle contro spalle con i gormiti degli altri Popoli! Mettersi nei panni di un bambino innocente che non aveva fino ad ora alcuna nozione sul passato recente di Gorm era ancora più straziante.
Il Cronista rimase a elucubrare e a ricordare, mentre Osmaniu ancora piangeva. Qualcuno tra gli studenti lo adocchiò male, vedendo in quella sua attesa ad agire una malata soddisfazione nel veder soffrire il bambino. Quando infine si decise a venir incontro al vulcanico che gli era sembrato tanto interessante, in quei giorni, fu davvero troppo tardi.
“Lasciami stare!” urlò piangente, respingendo violentemente con le tozze mani Loctiu che, anticipando il Cronista, si era avvicinata per consolarlo, abbracciarlo.
Alzare le mani. Una cosa che il Cronista non si era minimamente aspettato, ripensando all’altro vulcanico. Se non altro Osmaniu si era limitato a respingere Loctiu, e non era andato oltre.
Successe di peggio, mentre il Cronista si alzò per raggiungerlo.
“Osmaniu…Ehi, no, Osmaniu! Torna qui!” esclamò, ora preoccupato, l’insegnante, osservando incapace di fermarlo il gormita che si alzava e sgattaiolava via, spintonando gli altri scolari seduti immediatamente dietro di lui.
“Oh, per tutti i Semidéi! – urlò, agitando i pugni serrati nell’aria – Osmaniu! OSMANIU! Torna qui!”
Si strofinò la fronte, stressato, indeciso, turbato. Non poteva permettersi di perdere Osmaniu. Forse l’interesse per il suo particolare e ancora misterioso carattere, e non solo il timore di ciò che sarebbe potuto accadergli fuori dalla radura, dalla responsabilità che sarebbero ricadute su di lui, che avrebbe dovuto trattenerlo nella radura fino alla fine, dettarono la decisione di inoltrarsi nel bosco alla sua ricerca. Avanzò d’un passo, mentre gli scolari ammutoliti dalla rivelazione e dagli accadimento gli aprivano la strada.
“Vado a prenderlo, maestro!” si offrì – chi l’aveva chiesto? – Forteceppo, scattando in piedi e gettandosi all’inseguimento di Osmaniu con una velocità davvero inarrivabile per il Cronista.
“No, no, fermati! No, oh, no…Krut, dannazione!” imprecò esasperato il Cronista. Due studenti dispersi, adesso! Peggio di così non poteva andare…anzi, poteva eccome, e ciò disturbava il Cronista come un verme che gli rodeva gli organi dall’interno.
Era già in corsa. In corsa su quelle gambe esili che non erano mai state davvero preparate a prolungate marce, lente o rapide, che non erano resistenti quanto le longilinee e spesse braccia. Che non erano giovani e forti come un tempo. Qui poteva addirittura rischiare la vita!
“Voi non muovetevi da qui!” ordinò al resto della combriccola seduta e inquieta prima di scomparire tra gli alberi.

Di corsa, dissennatamente attraverso gli alberi fitti e duri di quella porzione di Foresta Silente. 
Buffo…davvero buffo. Ironico. Di nuovo inseguo un vulcanico in un bosco.
L’inseguimento di Osmaniu era tremendamente, in modo quasi inquietante, simile a un passato inseguimento attraverso una selva. Una selva che non aveva nulla a che fare con la Foresta Silente. Dopotutto, però, tutti gli ambienti verdi si somigliano, nella loro essenzialità. Quando il Cronista era una persona diversa, ed era allora pieno di rabbia e di frustrazione, strappava i rami dal furore, avanzando minaccioso verso il suo bersaglio. Il gormita del Vulcano di quel tempo aveva subito la sua vendetta, e il compimento di una nuova giustizia di cui tuttora egli non era convinto. Ora era diverso: non c’era avversione o vendetta. La rincorsa trafelata era per…perdono? Non lo sapeva con chiarezza.
Non si poteva dire che gli mancasse il fiato, non respirando con polmoni o branchie; si può invece affermare con sicurezza che aveva le membra indolenzite per la faticosa spinta e la respirazione accelerata di ogni particella del suo corpo. Non aveva percorso tantissimo, e già si sentiva stanco come se avesse attraversato Dalarlànd per il lungo, o scalato Picco Aquila fino ai gelidi rifugi Parlanac, ormai evitati persino dagli abitanti d’un tempo e percorsi solo dai più coraggiosi eremiti.
Nessuna traccia di Osmaniu o Forteceppo. Sapeva della loro direzione dalla tracce, che il Cronista sapeva riconoscere, sul suolo impervio e non uniforme della Foresta Silente ancora selvaggia come ai primordi, ma non vedeva di essi nemmeno l’ombra. E l’ombra era la parte di un qualsiasi gormita, o di un animale, che più difficilmente si poteva scorgere, lì sotto: le chiome fitte assorbivano voracemente la luce di Nejema e non ne lasciavano filtrare nemmeno un poco.
Non era un problema per gli occhi del Cronista, abitante della Foresta Silente, la casa che non avrebbe abbandonato per niente al mondo. Gli occhi giovani, forse. Con gli anni l’acume visivo era andato indebolendosi.
Gli parve ogni tanto di scorgere un movimento in un cespuglio o sopra uno degli alberi più grandi e spaziosi; poteva trattarsi di un animale qualsiasi, era tuttavia d’uopo che il Cronista controllasse ogni cosa. Correndo come faceva allora, in quel tipo di terreno, vertere lo sguardo in un punto che non fosse davanti a sé equivaleva ad inciampare, e più volte rischiò persino di cadere.
Ma chi me l’ha fatto fare… si maledisse nella mente, stringendo i denti e masticandosi la lingua secca dalla fatica.
Dopotutto, che pericoli potevano trovare, i due cuccioli, nella Foresta Silente? Delinquenti? Ma dove! Bestie pericolose? Gli aracnorossi, i più temibili mostri della Foresta Silente, non facevano tana in quella zona, e inoltre erano da sempre molto rari. Il pericolo maggiore era incappare in un nugolo di vespe o api, magari simbionti di un cervo muschiato, o inciampare in qualche daicao. Roba di poco conto. In più, molti dei suoi studenti, per fare prima alle lezioni, percorrevano il bosco ‘naturale’ invece che prendere i sentieri.
Eppure si era preoccupato enormemente non appena Osmaniu prese e fuggì dalla radura. Si era affezionato? Non sapeva dirlo. Sapeva però che non voleva che il cucciolo se ne andasse con quell’ultima rivelazione sul Grande Sacrificio senza prima avere l’opinione e il conforto del Cronista in merito.
Un dubbio gli si insinuò nella mente: era giusto da parte sua descrivere quell’evento così sanguinoso a dei ragazzi? Se l’era già chiesto in precedenza, ed era giunto alla conclusione che, se voleva narrare la storia di Gorm come si era prefissato da decenni, non poteva saltare quella parte.
Però, l’effetto che aveva sui ragazzi, vulcanici o no, innocenti e dalla mente limitata, poteva avere effetti pericolosi. Renderli insofferenti nel riguardo del Popolo del Vulcano, evitare qualsiasi contatto con loro e, alla peggio, raggiunta la maturità con una concezione razzista, far partire movimenti di rivolta. E ciò era inammissibile. Cos’era meglio? Che lo scoprissero, magari per caso, in età adulta o adolescenziale e ragionarvisi sopra da soli? Che non lo scoprissero mai, o in senilità, facendo pessime ed umilianti figure? Forse avrebbe dovuto lasciare che fossero i genitori a pensarci…ma lui, il Cronista, era genitore. Non il suo, ma era padre comunque, aveva cresciuto una figlia. Sapeva come rapportarsi con un cucciolo.
Lo trovò. Seduto all’ombra di un largo tronco cavo e morto, senza rami, ricoperto di rampicanti in fiore. Stretto alle ginocchia, le mani in volto, non aveva smesso di struggersi. Forteceppo, con grande sollievo da parte del Cronista, era lì vicino. Si teneva una mano; forse Osmaniu gliel’aveva bruciata.
Il Cronista sospirò. Attese, attese a lungo, squadrando i due giovani, dei quali nessuno ricambiò lo sguardo, riprendendo fiato ed energia.
“Osmaniu…” mormorò infine.
“Perché l’hai detto?!” gridò Osmaniu, cacciando fuori dalle mani il viso piangente, addolorato.
“…dovevi saperlo. Tutti devono saperlo.”
“P-Perché?! – singhiozzò, guizzando fuoco dagli occhi, ma avendo troppa poca esperienza per fare danno – La mia g-gente…è orribile…”
“È vero, hai ragione. Ciò che i tuoi antenati hanno fatto è disdicevole. Per alcuni imperdonabile; non li biasimo.”
Osmaniu lo guardò atterrito, sconvolto dalla durezza di quelle parole.
“Ti rivelerò una cosa. Vorrei poterla dire solo a te, ma Forteceppo è qui, quindi pazienza. Io ho ucciso dei gormiti del Vulcano, in passato. Li ho uccisi in battaglia. Non erano più meritevoli di rispetto di quanto lo sono chi ha accettato che il Grande Sacrificio si facesse. Ma tu, Osmaniu, tu e tutto il tuo Popolo…siete cambiati. Il tempo va avanti, la storia continua. Gli errori si comprendono, ce ne si pente, si perdonando. Non importa quanto grandi: il tempo non si fa di questi problemi.”
“Come si può perdonare…?”
“Sì deve perdonare. Dimenticare, no. Non si può dimenticare il passato. Fallo, e non capirai mai il tuo posto nel mondo. Perdonare è necessario. Si vivrebbe in odio senza perdono, la pace non esisterebbe.”
Il Cronista si avvicinò, cautamente. Di nuovo, fu colpito dalla verità delle sue parole, una verità che si era fatta largo verso di lui attraverso una vita piena di imprevisti e di conflitti interni.
“Non si può vivere nel passato. Tu non sei uno di coloro che ha voluto il Grande Sacrificio, giusto? E non lo vuoi adesso. So che non lo vuoi. Tu non hai niente a che fare con coloro che l’hanno voluto. Non devi sentirti in colpa, assolutamente. Gli errori dei tuoi avi non devono decidere ciò che sei tu, chi sei tu. E non credere che la mia gente sia tanto meglio: per secoli gli altri Popoli hanno abusato dei tuoi antenati, lo sai, e chi può dire che non abbiano fatto qualcosa pari o peggio del Grande Sacrificio? Il tuo Popolo però ci ha perdonato, e noi abbiamo perdonato lui. E spero tu possa perdonare me.”
Il Cronista avanzò a braccia aperte. Piangeva. Non si curava di trattenersi, di essere dignitoso.
A cuore aperto. Proprio così…
Osmaniu gli si piombò addosso, soffocando i suoi singhiozzi nella sua mantellina e nelle sue membra legnose. Il Cronista lo cullò amorevolmente, mormorando parole che non comprendeva nemmeno lui. Ben presto Forteceppo si aggiunse all’abbraccio.
Per l’amor di Celeles. Mi sento gettato indietro di…di quanti anni? Trenta, quaranta. Mi sembra di stringere Ceresa. Figlia mia, tu mi hai davvero cambiato la vita.

“Non è ancora finita la lezione, cari. Come vedete, il sole è ancora basso ad oriente.” Enunciò il Cronista, riunito nuovamente con i suoi piccoli spettatori. Nessuno di essi, il maestro aveva controllato bene, se n’era andato durante la sua breve e intensa assenza.
L’aria era dolce e tranquilla. Nonostante la discussione sul Grande Sacrificio, i cuccioli di gormiti erano calmi e non s’animavano troppo. Osmaniu – Loctiu l’aveva abbracciato quando era ritornato, gli altri si erano limitati a battere il pugno o a piccole frasi, o a niente, ritenendo, questo secondo il Cronista, esagerata la sua reazione – e Forteceppo sedevano vicini, senza rancore l’uno verso l’altro.
Nonostante tutto questo, al Cronista parve poco dignitoso, imbarazzante, umiliante, scorretto, disgustoso oltrepassare il Grande Sacrificio e continuare il racconto come fosse un evento qualsiasi. Dopo la ‘sfuriata’ di Osmaniu, era come se il terrore per quel immane peccato non ci fosse mai stato, tra quei ragazzi. Forse pretendeva troppo, il Cronista. E forse era meglio così. Non insistere.
“Ho dovuto interrompere per un motivo particolare. – continuò il mentore, ed evitò di confessare che l’interruzione non era dovuta al piagnisteo di Osmaniu – Per oggi, devo smettere di raccontare i fatti come se fosse una favola o un poema. Bisogna parlare di un argomento…spinoso, e poco chiaro a qualsiasi storico. Una parte oscura di storia, di cui si sa chiaramente ben poco per poterla raccontare troppo liberamente.”
Parlava in piedi, e gesticolava in modo quasi folle ad ogni verbo, camminando davanti alla prima fila di scolaretti. L’ottima riuscita della conversazione con Osmaniu, il buon umore ritrovato, lo avevano colmato di un’insolita euforia, di una inquietudine fisica che non gli permetteva di stare fermo. Alla sua età, accadeva assai di rado.
Più probabilmente, però, si trattava delle membra indolenzite dalla corsa precedente, con le quali era preferibile evitare di mettersi a sedere.
“Ma, maestro! – chiese uno alzando la mano – I gormiti…dopo…il Grande sacrificio…sono morti tutti? Come facciamo a essere qui?”
“Ecco, anche di questo devo parlare. – concordò il Cronista ad occhi chiusi, agitando comicamente il dito indice – Sì, sì. Cioè, no, non sono morti tutti. No, il Vulcano, e un qualsiasi Popolo di Gorm, non è, non è mai stato né sarà tanto potente da poter portare, con i propri uomini, senza armi magiche gigantesche di qualche genere, la morte su tutta l’Isola di Gorm. Non ne è in grado, e non gli gioverebbe, del resto. Il Vulcano non ha sterminato tutti. Alcuni sono fuggiti, vi dirò poi dove, e di questi di molti se ne sono perse le tracce. Molti, tantissimi, sono stati uccisi, ma prima più per malato gusto che per necessità il Vulcano dello Stregone di Fuoco ha mantenuto in vita qualche migliaio di gormiti.”
“E che cosa è stato di loro?”
Il Cronista s’accigliò turbato e seccato.
“Puoi ben immaginarlo. Resi schiavi, costretti a lavorare per le comodità del Vulcano, abusati fino all’ultimo respiro.”
“Maestro, noi da dove veniamo, allora? – domandò un altro, giustamente curioso; Osmaniu s’era fatto parecchio imbarazzato, non avendo coinvolgimento in quelle curiosità – Non dai pochi rimasti…da quelli che sono fuggiti, e quando sono ritornati?”
“Quanti erano, e come hanno fatto a scampare?” s’intromise un ennesimo.
“Piano, per favore. I gormiti che fuggirono da Gorm, in realtà hanno fatto ben poca cosa per riportare l’Isola alla ricchezza d’una volta. No, noi, almeno la maggior parte di noi tutti, e con tutti intendo proprio tutti, discendiamo da altri gormiti. Gormiti diversi.”
“Gormiti su un altro mondo? Nel Grande Golfo?”
“No, no, non su un altro mondo. – rise il Cronista – È impossibile. In un certo senso, però, sì, siamo i figli di gormiti del Grande Golfo. Non fraintendete, però. Ve l’ho detto che l’argomento è spinoso, forse persino troppo per dei ragazzi. Dunque…”
“Maestro! Un’ultima domanda. – osò Osmaniu stesso, ancora più imbarazzato per aver interrotto il discorso del Cronista – Che fine ha fatto il Vecchio Saggio? E l’Occhio della Vita?”
“Domanda più che accettabile. Lo stavo giusto dicendo, Osmaniu. Razael e l’Occhio hanno un’importanza fondamentale per la ricrescita del Popolo di Gorm. Ne sono la causa. Senza di loro, Gorm sarebbe probabilmente abitata solo dal Popolo del Vulcano, che si sarebbe spinto nel Grande Golfo molto prima di noi. Con le armi.”
Il Cronista tornò a sedere, provato più dalla stanchezza dello stare in piedi, ormai, che dai muscoli doloranti.
“Ditemi, figlioli, – riprese, assumendo tono ed espressione d’una serietà impressionante, fin troppa per un pubblico di ragazzi – per voi, cos’è un dio?”
L’inaspettata domanda colse di sorpresa tutti i presenti, sbalorditi. S’attendevano tutti una narrazione, diversa, sì, come aveva descritto il maestro, ma non una domanda rivolta a loro. Erano loro a rivolgere le domande. E che domanda! Anche nella loro inesperienza temporale, ognuno ci mise del suo per porre una risposta profonda e sensata.
“Secondo me – iniziò Loctiu – un dio è…qualcuno di buono, pieno d’amore e di misericordia.”
Ah, l’innocenza dei ragazzi. Chissà se pronuncerà ancora queste parole, da grande.
“Questo non lo metto in dubbio. – mentì il Cronista – Ma non è questo il punto che voglio toccare.”
“Un dio può fare grandi cose. – tentò l’impresa Forteceppo – Può...è potentissimo, domina tutto quanto.”
“Sì, ci siamo quasi. – annuì il maestro – E tra tutte le cose che un dio può, quale è la più importante, la più unica?”
“Può…ha creato noi, i gormiti. – rispose una forestale, illuminando di soddisfazione il viso del Cronista – E tutte le altre razze. E gli alberi, e tutti gli animali e gli insetti.”
“Esatto! Creare la vita. – esclamò il Cronista, pronunciando con enfasi epica le sillabe dell’ultima frase – Un dio è colui che può creare la vita.”
“Quindi i gargoyle di Tato Yami sono déi? – chiese confuso uno – Loro hanno creato quei…quelle cose, gli S…SS qualcosa.”
“Forse. In misura minore. Ma direi di no. Da quel che so io, le bestie che hanno creato i gargoyle non hanno vera vita. Sono macchine, che obbediscono a stimoli non naturali. E per di più, i loro creatori sono partiti da vita già creata: l’hanno modificata per i loro scopi, e l’hanno fatta crescere velocemente.”
“Quindi, chi è un dio?”
“Posso dire con fermezza che un dio in terra…è stato il Vecchio Saggio.”
Un coro di incredule, spaventate esclamazioni si levò dalla scolaresca. Il Vecchio Saggio! Lui, un dio! Un dio metaforico, forse, un semplice ‘titolo’ datogli ai limiti dell’etica per meglio descrivere la sua straordinaria e leggendaria prodezza nella magia, il suo eclettismo in più branche della scienza e dell’alchimia. Ma un dio! Un dio è ben altra cosa. Un dio crea la vita, e che vita ha creato il Vecchio Saggio? Come può…?
La risposta a questo divino dilemma giunse piuttosto rapidamente nelle giovani menti dei cuccioli, si insinuò dapprima come vana e degna d’essere scartata possibilità, frutto di un’analisi troppo vaga della situazione. Eppure, non sembrava esserci altra spiegazione. Tutto combaciava. Il Grande Sacrificio, la morte della quasi totalità dei gormiti, l’assenza del Vecchio Saggio in quel tempo maledetto, il suo coinvolgimento nella rinascita. Così aveva detto il maestro, e il maestro aveva ragione. Per di più, loro, loro i cuccioli, le loro famiglie e gli avi passati, erano ed erano stati su Gorm a testimoniare che un miracolo era stato fatto, la comunità dei gormiti era rifiorita apparentemente dal nulla e in tempi record.
“Ma è impossibile…impossibile!” urlò stravolto Forteceppo, ben presto imitato da altri, da tutti.
“Cari miei, vi dico che invece, in qualche modo, è stato possibile. – negò il Cronista, con tutta calma e una certa poco velata arroganza, dettata dalla conoscenza dove i suoi studenti avevano ignoranza – Tutte le mie ricerche, e non solo le mie, conducono alla stessa conclusione, sempre taciuta dal Vecchio Saggio. Vi sono, per di più, delle prove tangibile che è stato fatto. E no, non parlo di noi, noi gormiti. Troppo facile! Il Vecchio Saggio potrebbe averci abbindolati tutti con la sua magia divina, ma non fu così. Parlo di resti, di rovine di costruzioni in una zona selvaggia del Grande Golfo, detta Antasfra, una cui porzione era stata comprata dal grande stregone. E fu qui che lui agì, dopo il Grande Sacrificio.”
“Il Vecchio Saggio…ha creato nuovi gormiti?” Il cucciolo che parlò stentava a crederlo, gli occhi fuori dalle orbite, faticava persino a pronunciare simili parole e a raccapezzarsi del loro significato.
“Proprio così. Il Vecchio Saggio ha giocato a fare il dio, e ne è venuto fuori un popolo di un milione e più di gormiti, affollati sulle coste di questa Antasfra.”
“Ma come è successo?! Non ha senso…è impossibile!” continuavano a domandare e a imbestialirsi per quella che definivano una follia. Ancora peggio che sapere che il Popolo del Vulcano aveva decimato la popolazione dell’Isola di Gorm! Scoprire di essere il frutto dei lavori di un uomo ambiguo dotato di poteri che trascendevano la normale comprensione, un uomo oscuro e misterioso nonostante le verità scoperte, sulla cui definitiva sanità mentale non v’era certezza. Questa rivelazione sì che meritava d’essere accolta col pianto, con la disperazione, e persino di più!
Invece, il Cronista sapeva gestirla con più sicurezza e calma che il genocidio del Vulcano; e anche i suoi piccoli, a dispetto delle loro grida che ben presto avrebbero attirato l’attenzione di qualcuno che passava lì vicino. Non uno di loro era ancora scoppiato a piangere o era scappato per il bosco.
“Andiamo per gradi. – iniziò il Cronista, calmo come un uovo – Vi ricordate di Kraken, il Signore del Mare? Diede al Vecchio Saggio gli strumenti per realizzare un varco spaziale, come ringraziamento per ciò che aveva insegnato ai gormiti di tutta l’Isola. Non li utilizzò per tornare a Lacedimora, mai, non voleva farvi ritorno. E anche in futuro, vedrete, quando il materiale diveniva più richiesto e diffuso…be’, vedrete. Scosso dall’imprevisto, impotente di fronte all’inesperienza militare dei gormiti e, di contro, alla superiorità combattiva del Vulcano, e con le voci che parlavano di uno ‘Stregone di Fuoco Magor’, si sentiva abbattuto, perso, sconfitto, e con una ghigliottina carica dell’odio di migliaia e migliaia di anime. Era colpa sua, dopotutto, se stava accadendo. Di questo fu sempre consapevole e convinto. Poi si ricordò del varco spaziale. Che fosse l’influenza dell’Occhio della Vita ad innescare in lui la credibilità di una simile impresa, non lo si può sapere. Fatto sta che, con grande sofferenza, il Vecchio Saggio decise di lasciare Gorm. Non da solo, beninteso. Con l’Occhio, innanzitutto, e scegliendo casualmente gormiti da salvare e portare con sé! Il genocidio non sembrava fare grazie, e lui poteva solo salvarne pochi! Chi era lui per decidere chi sì e chi no? Immaginatevi come si era dovuto sentire. Così aprì il varco e si ritrovò in quelli che erano, di fatto, terreni di sua proprietà, ma non ne poteva avere la certezza, essendo dato per morto, a casa sua. Con lui, uno strumento divino e disgraziato e almeno due gormiti di ogni Popolo, salvo il Vulcano, un maschio e una femmina, necessari ai suoi scopi. Mi seguite?”
Le risposte dei cuccioli, attentissimi come non mai, furono variegate e scomposte, semplici versi che non erano nemmeno monosillabi. Non furono in verità completamente positive. Tutti, però, desideravano sapere come continuava la storia, e non osarono dire apertamente ‘no’.
“Ora, ehm, sapete, anche a causa mia, che un uomo e una donna sono…indispensabili per far nascere un nuovo gormita. – esitò dunque, rammentandosi con leggero ribrezzo della volta in cui rivelò per filo e per segno il meccanismo della riproduzione tra gormiti – il Vecchio Saggio ne aveva, di uomini e donne e…sfruttò…questo…questa cosa. Tuttavia, erano troppo pochi, i suoi gormiti, perché potessero ripopolare Gorm. Ma Razael sapeva già cosa doveva fare, e aveva le conoscenze necessarie dei funzionamenti delle particelle più piccole degli esseri viventi per fare ciò che aveva in mente. Necessitava, innanzitutto, di una grande, immensa, quasi infinita riserva di energia. E che riserva aveva con sé?”
Un’altra domanda. Gli studenti sarebbero stati seccati di fronte al secondo quesito rivolto loro, ma erano fin troppo confusi, spaesati, increduli e interessati per abbandonarsi alla secchezza.
“L’Occhio della Vita…” mormorò Forteceppo.
“No…l’Occhio della Vita…l’Occhio della Vita! L’Occhio! – sbraitò un forestale piuttosto focoso – Ma se aveva giurato di distruggerlo, di non usarlo! È pericoloso, molto! E lo usa…!”
“L’Occhio della Vita è malevolo, figliolo. – disse il Cronista – Ha influenzato il Vecchio Saggio, già provato dall’ossessione per l’oggetto, nel credere nella giustezza delle sue azioni. Per quel che ci è dato sapere. Non ha pensato minimamente all’ipocrisia di ciò che stava facendo. Doveva far rinascere i gormiti. E l’Occhio della Vita li aveva fatti nascere, secondo lui. Poteva farlo ancora.”
“E dopo? Cosa è successo dopo?” chiesero altri, smaniosi di sapere la verità.
“Ha costruito una macchina, che poi ha distrutto, per attingere energia dall’Occhio della Vita. Forse è stato l’Occhio stesso a dirgli come fare. La chiamava energia neozon. Con questa energia, poteva sfruttare le…particelle, degli uomini e delle donne, per creare tantissime uova, tutte diverse. Centinaia di migliaia di uova. In tempi diversi, e in ambienti diversi, di modo che i nuovi nati si adattassero sin da subito a condizioni che simulassero gli habitat della nostra Gorm. Fu un lavoro esasperante, che costò tanta fatica e tanti elisir di lunga vita sia a lui che ai gormiti che erano con sé, disposti a tutto pur di salvare il loro popolo.
Antasfra era al sicuro da occhi indiscreti, e il Vecchio fece in modo che lo fosse ancor di più, con le sue magie. C’era il mare, una montagna, la foresta. Lo spazio inizialmente non fu un problema, ma da subito lo fu il tempo. Tempo in tutti i modi possibili. Doveva far schiudere le uova in modo che la nuova Gorm non fosse abitata da individui della stessa età. E tempo materiale: doveva fare in modo che i gormiti fossero pronti numericamente e con l’età giusta per ritornare a casa. Non ne aveva all’infinito. Non era un dio immortale. Ora, vi ricordate…”
“Ah, sì, sì! Ricordo! – s’agitò Osmaniu, sollevando un sopracciglio al Cronista, che non se lo ricordava come uno di grande memoria – La…la camera, no, l’Antro del Tempo! Quell’esperimento di Razael, a Lacedimora! C’entra?”
“C’entra, c’entra. – annuì, sorpreso, il maestro – L’Antro del Tempo si trovava proprio lì, ad Antasfra. E lo usò per far crescere i gormiti. Non vi ho detto dell’Antro del Tempo, però, come funziona. Ed è sensazionale, anche per questo Razael Akkars dovrebbe essere ritenuto un dio. Come solo lui lo sa, Razael era riuscito a piegare il tempo. Fare in modo che fluisse in un determinato spazio più lentamente o più velocemente. È ampiamente per questo che Razael fu detto il più grande stregone del suo tempo. Ma dovrebbe essere definito il più grande stregone della storia, poiché nessuno è arrivato dov’è arrivato lui. Fu il primo e l’unico ad aprire la magia sul tempo, oltre che lo spazio.”
“Spazio. Ecco l’altro problema. Poteva costruire tanti altri Antri, grandi e piccoli, ma Antasfra era limitata. Non poteva spingersi troppo oltre, o avrebbe rischiato che qualcuno sapesse. Nessuno doveva sapere, nessuno, elfo, vicio o zoaro, avrebbe mai tollerato una simile, immorale impresa. In più, temeva per l’Occhio della Vita. Lo spazio, inoltre, non era limitato solo per estensione, ma per diversità. Non poteva permettersi di crescere gormiti che su Gorm avrebbero dovuto adattarsi ad ambienti totalmente diversi. Ora, qui la faccenda si fa abbastanza oscura. C’è chi dice che il Vecchio Saggio abbia viaggiato su altri mondi, abbia conosciuto altre razze, e abbia costruito lì immensi Antri del Tempo, contenenti un mucchio di ambienti diversi. Tutto questo è piuttosto fantastico, ma inverosimile persino per un dio come si è rivelato il Vecchio Saggio. Non sappiamo come si sono svolti veramente i fatti, questa è solo una supposizione. Non lo sono invece i resti, distrutti volontariamente alla tanto ambita fine, rimasti su Antasfra, troppo pochi per aver ospitato il milione di gormiti che tornò su Gorm.
Menzione a parte merita l’educazione dei nuovi gormiti, che fu inizialmente nelle mani di qualche dozzina di gormiti, gli unici a conoscenza della verità, che dovevano fare da genitori a centinaia. Il Vecchio Saggio e i superstiti con lui tenevano a mente due cose: il rispetto di alcune tradizioni fondamentali e al contempo una nuova, originale preparazione al combattimento, e, da parte del Vecchio, un’educazione all’odio e al timore verso Vulcano e Stregone di Fuoco. Vulcanici e la figura di Magor furono utilizzati come minacce e come storie di paura, ma serve notare che i gormiti, almeno la maggior parte, furono moderati nell’insegnare ai piccoli l’avversione per il Vulcano, consapevoli che presto o tardi bisognava vivere in pace e che, non dico che se l’erano meritato, ma la colpa del genocidio era anche di loro. Degli altri Popoli, intendo.
Ah, e ovviamente il Vecchio Saggio scelse di insegnare la lingua corrente vicia, invece del gormitico, che fu comunque imparato, anche se di meno.
Qui è interessante notare una strana ambivalenza del Vecchio, che da una parte si apre a una prospettiva di futuro connubio con le genti del Grande Golfo, e dall’altra è profondamente sospetto nei loro confronti, tanto da voler a tutti i costi non contattare alcuno della regione e riportare i gormiti nella loro patria, dove c’era ancora il Vulcano in agguato, piuttosto che aprir loro le aree disabitate della sua, di patria. Forse era davvero pazzo, schiavo dell’Occhio della Vita.”
Si interruppe, e si rimescolò un poco la lingua in bocca. Nuovamente secca. Questa volta, almeno, non per la stanchezza d’una corsa. Prese la borraccia, senza proferir sillaba, dalla sua bisaccia, e bevve a lungo.
Pensò, mentre l’acqua scorreva nella cavità nel suo torace, e gli bagnava il viso e le mani, all’impatto che una rivelazione del genere poteva realmente avere sui ragazzi, per ora unicamente rapiti dalla straordinarietà del loro passato. Lui, al suo tempo, l’aveva accolta piuttosto bene e senza grandi preoccupazioni. C’era chi criticava implicazioni sul libero arbitrio, tra le altre cose, oltre ovviamente alla denuncia di arroganza del Vecchio Saggio. Che se non ci fosse stata nessuno sarebbe in vita. Ci sarebbe tornato più avanti, magari di fronte a un pubblico non di ragazzi, che, certo, amava e lo soddisfaceva, ma era al contempo limitante.
“Hmm. – borbottò il Cronista, guardando a intermittenza i suoi piedi e il sole nel cielo; gli scolari fremevano violentemente, lo sentiva, l’aria pareva quasi più calda per la loro frenesia di verità – Credo che per oggi concludo qui. No, non lamentatevi. Credetemi, è meglio così. Troppo, vi ho raccontato. Il Grande Sacrificio, la rinascita. È opportuno prendere una pausa, pensarci su. E mi fa male la gola, per di più. Tornate a casa, dai vostri genitori. Riflettete tra voi e con loro su questi eventi del passato. Sono sicuro che vi giudicheranno molto maturi per la vostra serietà in merito. E per quel che riguarda me, – e allargò le labbra in un sorriso di una sincerità e di una soddisfazione commoventi – non rimpiango nulla, davvero. Sono davvero fiero di tutti voi, anche di chi non vedo tutti i giorni. Con la lezione di oggi avete dimostrato una serietà e una maturità davvero lodevoli. Sono fiero di voi.”

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Capitolo 13
*** Capitolo 7.1 ***


“Anche oggi voglio fare una lezione un po’ diversa, almeno all’inizio!” annunciò con euforia ed enfasi estremamente giovanili il Cronista.
Non era seduto; rimaneva in piedi, senza tuttavia muoversi, agitando unicamente le affusolate dita verde limone e le vigorose e lunghe braccia; si ergeva in tutta la sua altezza, privo della classica mantellina bruna, adagiata sullo scranno ora vuoto, lasciando allo scoperto particolari del torace prima d’ora invisibili agli occhi dei giovani appassionati di storia e di racconti.
Muscoli d’un verde marcio, sciupati dagli anni e un poco cadenti, tuttavia contemporaneamente ed incredibilmente sodi e corposi. Striature d’oro pallido gli percorrevano come fragili ragnatele la parte superiore del petto; un tempo d’un oro più vivo e acceso, e che, più energiche, riprendevano la ramificazione delle venature di una foglia. Ora, però, si poteva unicamente indovinare la sagoma che avevano assunto in tempi migliori, e tali striature vagavano per il petto senza una meta, senza creare curiosi disegni.
Dettaglio sorprendente e che destò stupore tra il giovane pubblico fu un’ampia cicatrice verdognola, molto antica. Alla vista grandemente profonda, si trattava di una linea curva quasi priva di irregolarità che univa l’estremità della spalla sinistra fin quasi a un punto ideale in corrispondenza del bulbo cardiaco.
“Ieri ci siamo lasciati piuttosto…bruscamente, lo ammetto. – disse – Perdonatemi, ma ero davvero stanco. Ringr…no, lasciate perdere.”
Scosse violentemente la testa, rimangiandosi il pensiero che era sul punto di tramutare in parole, tanto violentemente che i ‘capelli’ brunastri e fitti, irrigiditi da lungo tempo, parvero ondeggiare sinuosi come se fosse tornato indietro di parecchi decenni.
Meglio non fare battute, su Osmaniu. – si disse, debolmente turbato dalle reazioni di parole poco ponderate in merito – Non c’è da scherzarci, visto come aveva reagito.
“Torniamo a noi, comunque. – riprese, massaggiandosi il volto, disorientato un poco dallo scuotimento di capo –  Ieri avrei dovuto parlarvi di altre cose, successive e anche contemporanee al grande progetto portato a compimento da un uno straordinario Vecchio Saggio. Ma il fatto è che avevo iniziato, e ho dovuto farlo, ve l’ho detto, a raccontare quella parte di storia molto in sintesi, senza neanche raccontarla veramente. Ora, però, ci sono alcune cose che vi voglio narrare per bene, sempre in riassunto, ma col solito sistema. Poi tornerò a parlare più approfonditamente, e di cose completamente nuove…comunque, ho pensato a lungo a come mettere insieme ciò che sapevo, le parole giuste. Spero che apprezzerete!”
Era la prima volta che esprimeva pubblicamente ed esplicitamente l’augurio che il suo modo di fare storia piacesse e il dubbio che lui stesso aveva per eventuali errori, imprecisioni strutturali e periodi appesantiti. Se ne stupì, ma non troppo.
Sorrise ai suoi studenti, silenziosi e attenti. Il giorno precedente aveva realmente avuto dimostrazione di quanto quei cuccioli di certo non bambini, ma ancora lontani dall’età adulta, potessero dimostrarsi maturi. Tutta la situazione, sin dalla fuga di Osmaniu fino al loro ascolto in totali incredulità ed infervoramento della creazione e crescita dei nuovi gormiti da parte di Razael e delle sue meravigliose, e a tratti inquietanti, magia e ostinata iniziativa, nonché dei superstiti, colpì la psiche del Cronista, che non si aspettava che riuscissero a gestire quelle grandi e stupefacenti verità con simile autocontrollo e al contempo senza rifiutare la propria emotività. La sfuriata di Osmaniu fu…toccante. I tempi e i gormiti stessi erano davvero cambiati. No, non cambiati, non i gormiti. Forse. Semplicemente, ciò che un tempo i Popoli nascondevano l’un l’altro ora accadeva sotto la luce del Sole senza che essi ne provassero eccessiva vergogna. Era molto maturo.
Ebbe una visione, il Cronista: gli sembrò di evadere dalle maglie del tempo, e vedere i suoi piccoli studenti cresciuti, adulti e formati, che portavano nel cuore gli insegnamenti suoi.
Un pensiero meno commovente inquinò quell’anticipazione: la consapevolezza di non vivere abbastanza per vedere quel giorno.
Lo fece fluire via dalla sua mente.
“Cominciamo.” Disse.
 
<< In un periodo di circa ventiquattro anni il Vecchio Saggio e i superstiti avevano portato a termine con successo il più grandioso e temerario progetto della storia del Grande Golfo: riportare in vita quasi l’intera popolazione sterminata dell’Isola di Gorm.
Un’impresa degna del più grande stregone del mondo. Forse non solo del più grande stregone, semplicemente del più grande.
Ma il Vecchio Saggio non aveva fatto tutto questo da solo: i gormiti e l’Occhio della Vita avevano avuto un ruolo prominente in quel programma.
Ora circa due milioni di gormiti di Terra, Mare, Foresta e Aria si apprestava a lasciare la piccola striscia di terra che un tempo apparteneva al Razael Akkars, stretti su quello spazio così minuto per un così grande numero.
Vi erano gormiti di ogni età, da bambini nati dagli stessi gormiti – e non ‘creati’ – a individui di circa quaranta anni, e più. Il Vecchio Saggio aveva usato correttamente il ritardo temporale per fare dei nuovi gormiti una società più variegata, più realistica e credibile, con probabilità di sopravvivenza migliori.
L’unico difetto in quel maestoso progetto era la quasi completa mancanza di forestali animali e di gormiti vegetali degli altri Popoli. Una minuzia, l’unica imperfezione di quel prodigio.
Erano saliti su delle modeste barche volanti, di pietra, metallo, legno e ingranaggi, costruite da miniere di metallo e carbone appartenenti a un mondo che non era Mitera.
Tutto era stato predisposto per la partenza.
Per l’occasione, il Vecchio Saggio aveva arrestato ogni incantesimo attivo di quella vasta zona.
Ogni barriera difensiva, ogni ostruzione fisica e magica, qualsiasi cosa fosse sorretto dalla magia ormai da decenni che nascondeva alla vista e alla rivelazione quel luogo segreto.
Tutto fu tolto: il laboratorio fu saccheggiato di ogni risorsa utile, tutto il resto, progetti, carte, strumenti inutili, fu reso inutilizzabile.
In quel momento quindi tutti i gormiti erano saliti sulle barche/alianti e si apprestavano, con la barca più piccola del Vecchio Saggio davanti a mo’ di guida e quelle di alcuni dei superstiti e altri gormiti di fiducia dello stregone dietro e ai lati a controllare lo spostamento della grande flotta di barchette volanti.
L’isola, la terra, la patria che tutti i nuovi gormiti erano stati cresciuti con l’idea di ritornarvi era ora solo un problema di distanze, distanze facilmente percorribili da quei veicoli ad alta velocità.
L’immensa flottiglia, al segnale del Vecchio Saggio e sotto il controllo suo e dei gormiti prescelti, si mosse come un’unica, mastodontica nave da guerra.
Aveva immediatamente scartato l’idea di utilizzare un varco spaziale: troppo macchinoso e dispendioso crearne e reggerne uno di proporzioni e durata tali da permettere a tutti i gormiti di passare.
Per fortuna il Vecchio Saggio sapeva bene dove si trovava quella zona di sua proprietà, Antasfra, e dove, più o meno precisamente, Gorm.
Il viaggio fu tranquillo, e durò diversi giorni. Le provviste e l’energia per muovere gli alianti erano in quantità, e ad ogni modo i marini e gli altri gormiti nuotatori potevano, quando in sosta, scendere nell’acqua e rifornire le loro scorte.
Sugli stravaganti veicoli, tutti i gormiti guardavano immaginosi e ansiosi davanti a loro, davanti al loro futuro e al loro antico passato. La loro fretta aumentava ad ogni piede di mare che sorvolavano, e i piedi scorrevano veloci sotto di loro.
Nonostante la velocità attutisse un po’ l’udito, c’era un fitto chiacchiericcio tra i gormiti che non avevano mai visto Gorm.
Ma di lì a poco poterono vederla: una sagoma indistinta, con due rilievi montuosi su di essi. La tensione e la gioia salivano alle stelle.
Il viaggio da qual momento fu assai breve: giunsero sulla spiaggia meridionale del territorio di Roscamar al tramonto.
L’isola che tanto i gormiti ormai avevano agognato, che tormentava le loro menti e i loro sogni, poteva essere calpestata dai suoi abitanti di nuovo. Per sempre.
“Gormiti, bentornati, e benvenuti, a casa.” emanò solennemente il Vecchio Saggio, con il sorriso più sincero e ampio che mai avesse toccato il suo viso.
Le parole non possono descrivere la grandiosità del momento e, ormai, non vi è più nessun gormita in vita, o quasi che possa commemorare le emozioni provate quel giorno.
La terra natia tanto cantata e bramata ad Antasfra, divenuta un mito per tutti i nuovi gormiti. Un sogno lontano e impegnativo, che finalmente diveniva realtà sotto i loro occhi.
I gormiti costretti a vivere in luoghi sconosciuti e remoti, che non erano altro che riflessi artificiali della loro vera madrepatria, ispirati a grandezze oltre ogni limite, sull’Isola di Gorm potevano ora coronare i loro sogni e continuare la straordinaria civiltà dei gormiti, e perpetuare gli ideali di Razael Akkars.
Lui, il Vecchio Saggio, non si rendeva completamente conto di cosa significava quello che aveva fatto. Riportare in vita, sotto altre spoglie e altri nomi, milioni di individui caduti, ignari del destino che stava per toccarli. Donare un nuovo futuro a una gente che troppo a lungo aveva ignorato i segreti della sua casa, segreti che ora essa doveva lottare per difendere.
Tutto per merito dell’ingegno e la passione, forse la pazzia, di una sola persona, pochi superstiti, un enigmatico motore divino, e l’aiuto confuso di uomini che appartenevano a mondi e società troppo lontani perché si possano misurare.
Il Vecchio Saggio, e io sono colpevole di non aver reso appieno la grandezza della sua missione, non aveva colto cosa stava davvero facendo, e i rischi che stava correndo quando si gettò nella rottura nello spazio per cercare aiuto. Quanto poca era la conoscenza di ciò che si trova oltre il cielo, sia dei gormiti che di Razael stesso e anche la mia, per poter comprendere quanto memorabili ed eccezionali erano le loro azioni.
Le reazioni dei gormiti, appena scesero a terra, furono multiple. Grandi folle non esitarono un attimo di più: saltarono giù dalla barche e baciarono la terra, piangendo. Le lacrime scorrevano come cascate, le preghiere riempivano l’aria che da tanto non veniva respirata.
Grida di gioia, di entusiasmo, sguardi colmi di speranza e voglia di vivere riecheggiavano per le valli e si rispecchiavano nei fiumi e nel mare.
Il Vecchio Saggio abbandonò Roscamar meridionale, non prima di avervi lasciato un discreto gruppo di terricoli che gli originali superstiti avrebbe guidato verso le loro nuove case, il loro nuovo mondo.
Si diresse verso le altri regioni del territorio del Popolo della Terra per lasciarvi altri gormiti e poi in tutta l’Isola di Gorm, che non sembrava cambiata di molto. Tutto questo tenendosi ben lontano dall’ombra scarlatta che il Monte Vulcano mandava su tutto il Deserto di Roscamar.
Alfine tutti i gormiti si incamminarono per strade diverse, guidati verso i loro villaggi da i gormiti superstiti, mentre l’eco di un grido bestiale si udiva in lontananza.>>
 
“Ora, c’è una piccola particina che mi è sempre piaciuta. – continuò il Cronista, seduto e a gambe accavallate, dito indice intellettualmente ritto – L’ho immaginato molto tempo fa, e, be’, credo sia piacevole. Non dice niente di importante, e a ben guardare, potrei anche evitarla. Che ne dite, volete sentirla?”
Chiese dunque, invero per la prima, primissima volta. Mai si era consultato con il proprio pubblico riguardo ciò che andava a narrare, né aveva anticipato a quel modo di cose si trattasse. Era sempre stato lui a decidere, e gli eventi, le ricostruzioni e le verità che condivideva le conosceva nel dettaglio unicamente lui, non dava mai anteprime troppo precise.
Non pose la domanda con intento di supplica, già sapendo che avrebbe comunque detto ciò che voleva dire. Desiderava genuinamente il parere dei suoi ragazzi.
“Raccontateci, maestro. – rispose a nome di tutti Loctiu, sempre la prima – Niente di quello che dice è una perdita di tempo.”
Ci furono borbottii in seguito a quest’ultima affermazione, in larga parte di assenso; non ci fu nessuno, comunque, che disse espressamente di no. I mormorii erano dovuti ad altro.
Non posso nasconderlo, mi pare un po’ ruffiana. – ammise con imbarazzo il mentore – Ma no, Loctiu è sincera. Spero. Ma cosa vado a pensare, per Melis!
 
<< Nei paesaggi rocciosi intrisi di fumo della Valle del Vulcano, si trovava un gormita sanguigno dalla pelle levigata e magra, le mani che erano semplicemente tre paia di uncini grigi che uscivano dalla corazza spinosa avorio sugli avambracci. Una simile armatura gli ricopriva petto e stinchi, e in questi ultimi gli spini erano gialli e sporchi. Il volto era orribile a vedersi: rugoso, scarno, alieno, con due sottili narici e con due penetranti occhi azzurri. Tra questi, una protuberanza molliccia da cui spuntava un terzo occhio ancora più penetrante. Correva rapido verso il Monte di Fuoco nella distanza, borbottando qualcosa nella marcia.
Monte Vulcano era cambiato: la sua cima non era un mero cratere vulcanico. I suoi abitanti si erano dati da fare a scavare in essa tre ulteriori crateri, due vicini alla sommità e uno più grande sotto questi, dando alla vetta del Monte di Fuoco le sembianze di un volto malefico che riluceva di luce rossa.
Tornando al gormita, egli saltava agilmente gli ostacoli di roccia dura e scura che gli si paravano sul cammino. Ciò che aveva veduto con la vista d’aquila del suo terzo occhio era argomento da essere immediatamente riferito al suo signore e guida, lo Stregone di Fuoco.
Per anni, da quando lo Stregone fu interessato alle sue capacità e lo scelse come vedetta e informatore, aveva percorso in lungo e in largo il perimetro della desolata Valle del Vulcano ad osservare il mare e il deserto, senza aver nulla di rilevante da riferire. Ma oggi era diverso.
Raggiunse il centro cittadino, correndo come un matto e di rado usando la magia. I compagni vulcanici lo guardavano incuriositi, altri ridendo. Uno gli porse un boccale di liquore dal lato della strada principale che il gormita, con i suoi riflessi superiori, notò subito e prese senza troppe parole, e lo vuotò in un attimo.
Fu costretto infine a fermarsi, o sarebbe collassato. Mancava ancora molto, e decise di prendere una salamandra.
Giunse infine alla fortezza dell’entrata del Vulcano, e lì, senza dare troppa importanza alle guardie, salì in fretta le scale, tutte i gradini fino all’ultima stanza, la più alta stanza del Monte Vulcano.
Arrivato più in cima che poté, il gormita si fermò. Davanti a lui un enorme porta di magma freddata, oltre quella porta la sua destinazione.
“Mio Signore Magor…” si inchinò, con una voce stridula.
Il silenzio fu ciò che seguì le parole del gormita, immobile a torso piegato.
“Alzati, Ogorion, Guardiano Urlante. - echeggiò infine la cavernosa voce dello Stregone di Fuoco. - Entra pure.”
La porta si sollevò – era magica - lentamente, lasciando il vulcanico libero di entrare.
La figura imponente per quanto bassa e luminosa di Magor si stagliava, di spalle, davanti a lui. Senza voltarsi chiese il seguente, con un tono disinteressato, senza aspettarsi nulla di che:
“Per quale motivo sei qui? Sai bene che non voglio mostrarmi molto spesso” disse, terminando in un tono innervosito.
“Mio Signore Magor, non ci crederete… - rispose freneticamente il Guardiano, tutto agitato. - Il Vecchio Saggio…lui… - balbettò, quasi non ne fosse sicuro - Lui…è qui! Nuovi gormiti con lui!”
Magor si voltò, un ampio malefico sorriso sul volto infuocato. Rimase immobile ad osservarlo, con quel sorriso stampato sul viso di fiamme.
“Eccellente. - disse avvicinando la sua mano al viso del gormita, quasi volesse accarezzarlo. - Hai fatto un ottimo lavoro, Ogorion.”
“Li attaccheremo? Come? Quando? Ora?” parlò il Guardiano muovendosi tutto.
“Non preoccuparti. - rispose Magor, voltandosi nuovamente, alzando le mani al cielo - Ho già in mente come soggiogarli, arriverà il vostro momento…E questa volta ci impadroniremo dell’Occhio della Vita!”
La risata di Magor rimbombò per tutte le gallerie del Vulcano, e alla sua si aggiunse quella di Ogorion, quella dell’intero Popolo.>>
 
“Tutto qui.” concluse il Cronista.
“Tutto qui?” ripeté deluso Forteceppo.
“Come ho detto, sì…non ti è piaciuto?” chiese il Cronista, vagamente sconsolato da quella domanda e da quel tono.
 “No, no… - ci tenne a negare lui, simpaticamente preso a gomitate da un vicino Osmaniu – Cioè, sì. Cioè, mi è piaciuto. Solo, mi aspettavo qualcosa di più lungo, ecco tutto.”
“M…lo Stregone di Fuoco è…raccapricciante. Spaventoso.” Sostenne Loctiu, stringendosi le gambe con le lunghe, esili braccia come alcuni giorni fa. Tremava leggermente. Che empatia, quella giovane donna!
Heh. – sogghignò il Cronista – Questi pochi verbi sono riusciti nel loro intento, alla fine.
“Suvvia, Loctiu. – disse poi, ripetendo quelle due parole per l’ennesima volta – Non c’è da esserne così spaventati. Sì, in realtà. Ma non così, coraggio. E puoi pure chiamarlo Magor.”
“No. – rifiutò categoricamente lei, con sguardo gelido – Magor non è lo Stregone di Fuoco.”
“Che stai dicendo?”
“Magor era un elfo ambizioso, giovane, bello, spigliato ed educato, che teneva ai suoi amici. Lo Stregone di Fuoco è un folle accecato dal potere, dall’odio, che è stato capace di uccidere un intero popolo solo per vendetta, e senza nemmeno, lui, muovere un dito! Magor per me è morto quando ha incontrato il Vecchio Saggio qui su Gorm.”
“Capisco. – disse, frastornato da quell’argomentazione, pervasa come al solito da una profonda emotività – Non condivido, ma capisco. Obiettivamente, però, Magor e lo Stregone di Fuoco sono la stessa identica persona.”
“Dite come volete, e vogliate scusarmi, ma per me non è così.” si ostinò lei, e volse lo sguardo altrove, lontano dagli occhi del maestro.
 
<< La vita su Gorm non avrebbe avuto problemi a procedere. Il Monte Vulcano era silenzioso, e nessun fumo usciva da esso, i vulcanici non si erano ancora visti.
Le case di Roscamar sembravano non essere state toccate dalla furia assassina dei gormiti spinti dallo Stregone di Fuoco. Erano state lasciate intatte, e, il più delle volte anche i beni al loro interno non erano stati presi.
Molti dei campi non erano incolti o infestati, sembravano invece essere stati lavorati. Per risollevare gli allevamenti al contrario si sarebbe dovuto faticare.
Nessun corpo lasciato in giro. Dovevano essere stati tutti gettati nei sacrifici dei vulcanici. Oppure seppelliti da qualche anima buona? I cimiteri non sembravano però approvare quest’idea giacché, da quel che gli originali ricordavano, non presentavano nulla di nuovo.
Tutti e tre gli oracoli terricoli erano vivi, cosa che fece sospirare il Vecchio Saggio. Grazie a loro, la società gormitica della Terra avrebbe potuto rivivere più in fretta.
Per il Mare, il Vecchio Saggio pensò tutto fosse molto più difficile da risanare. Al contrario, ricostruire la società marina fu molto facile per i gormiti del Mare, che avevano subito meno danni di chiunque altro e conoscevano metodi di conservazione e restaurazione unici per il loro habitat, e con l’aiuto dei loro quattro oracoli, pozzi di antica saggezza, avrebbero potuto aiutare anche gli altri Popoli. Pensarono addirittura di iniziare un progetto pensato decenni prima: quello di costruire una città sottomarina.
La cosa più orribile e più disgustosa che i nuovi marini dovettero affrontare fu la rimozione di tutti i cadaveri gettati in pasto ai pesci dai brutali riti sacrificali perpetuati anni fa dai vulcanici che viaggiavano decomposti e smangiucchiati per i fondali marini.
Il poco territorio in superficie del Popolo del Mare presentava solo più erbaccia del solito.
Con grande meraviglia, Patmut Iun era del tutto integra e incontaminata. Con grande stupore, si accorsero che il Museo della Ricerca Storica era stato frequentato da qualcuno.
Nella Foresta Silente non vi erano grandi problemi, se non una selva più intricata e dei nuovi sentieri riconoscibili da tracciare.
La Biblioteca Silente era integra come molto, del resto, in tutta l’Isola, e anch’essa aveva visibili segni di frequentazione. Nel Rifugio della Rugiada, invece, non vi si era recato nessuno, giacché un gormita morente aveva bloccato l’accesso con un intricato incantesimo, di cui un sopravvissuto ancora in vita tuttavia conosceva la ‘soluzione’, senza ricorrere all’aiuto degli oracoli.
L’Arena di Astreg pareva essere stata usata parecchio. Evidentemente, anche senza gli altri gormiti, i vulcanici avevano continuato il torneo di combattimento. Cosa molto buffa: alla fine il vincitore sarebbe stato sempre uno del Vulcano.
Su Picco Aquila sembrava non esserci andato proprio nessuno. Data la mancanza di problemi da risolvere, i gormiti aerei tornarono quasi immediatamente alle vecchie abitudini di arte, musica, raffinatezza, commissionando ai gormiti della Terra un mastodontico lavoro scultoreo. In cambio, gli aerei avrebbero aiutato il loro Popolo.
Il Vecchio Saggio, per prima cosa, nascose in una profonda galleria della Caverna di Roscamar l’Occhio della Vita e la sua sfera onnivisiva, con la quale poteva vedere da lontano cosa succedeva nei luoghi registrati al suo interno. Fece di quella galleria la sua casa fissa, studiando quando poteva l’Occhio della Vita, erigendo numerose e potenti magie di difesa che impedissero a chiunque di pericoloso di accedere alla caverna e all’Occhio custodito.
Sapeva alla perfezione che doveva trovare il prima possibile una modalità di distruzione o di neutralizzazione del mistico oggetto, ma c’era ancora molto che non sapeva di esso, e ancora numerosi elisir avrebbe dovuto bere prima di trovare una soluzione.
Il Vecchio Saggio e i superstiti deciso di aspettare che la situazione si ristabilisse definitivamente prima di sancire delle nuove elezioni.
Furono comunque riuniti i diversi Consigli dei Saggi, di cui tutti i superstiti fecero parte, che avrebbero controllato e protetto i gormiti per qualche tempo.
I Priori e i riti religiosi, seppur modificati e già perpetuati, come simulazioni, prima dell’arrivo su Gorm, ripresero presto a vivere sull’Isola. Il circolo dell’Occhio della Vita non fu più messo in atto, ovviamente, e nemmeno quello della Maschera della Morte: in quei lunghi anni i suoi altari disseminati su Gorm non erano stati da esso toccati. Il Vulcano se ne era impadronito, per chissà quale ragione o scopo.
Le preparazioni militari e combattive furono organizzate subito e nella miglior maniera possibile.
A scuola, in tutti i gradi di scuola, e anche in famiglia, a tutti i gormiti veniva insegnata la lotta corpo a corpo, tecniche di combattimento, maneggiare le armi, saper sfruttare al meglio i propri poteri elementali per dare origine a mosse letali.
Un evento di importanza che scosse l’Isola e la società in questo momento di rinascita fu un’impressionante scoperta.
Dei gormiti cominciarono a ricevere messaggi nella propria mente, messaggi da molto lontano, mandati dalla magia.
Ben presto fu chiaro chi fossero i mittenti: altri superstiti gormiti!
Con le dovute precauzioni e i dovuti sospetti, cominciarono ad assicurarsi – e a rassicurarli - di ogni cosa.
Tali superstiti, intorno a mille individui, erano fuggiti dal Grande Sacrificio verso sud con piccole e grandi imbarcazioni, tra loro gormiti di ogni Popolo. Scelsero un punto sicuro dove fermarsi e poter eventualmente riapprovare su Gorm. Lì, con lavori da parte di gormiti di Terra, Foresta e di stregoni abili, unirono tutte le barche in una non immensa ma comunque ammirevole città di palafitte.
Avevano da lontano visto gli strani veicoli approdare su Gorm e spandersi su tutta l’isola, e decisero infine di rischiare e di mandare un messaggio magico per accertarsi dell’identità dei nuovi abitanti.
Una volta resisi conto di ciò che era successo, non ci pensarono due volte a pianificare il loro ritorno sull’Isola.
Qui, il Vecchio Saggio domandò loro se sapevano di altri superstiti che si erano rifugiati altrove. Alcuni di essi risposero che molti erano fuggiti a Karmil – la Grande Murena, voglio ricordare, da anni non era più un problema, al contrario della Grande Piovra.
Il Vecchio Saggio e i Saggi stabilirono di inviare dei messaggeri a Karmil, se non per invitarli a tornare, almeno per informarli che l’Isola di Gorm era nuovamente popolata.
Alcuni dei profughi scelsero di tornare, e insieme ai gormiti della città di palafitte furono aggiornati riguardo ai cambiamenti nella società e reinseritivi.
Le speranze del Vecchio Saggio di trovare in quei altri superstiti dei forestali animali e altri gormiti vegetali erano ben riposte, ma quei particolari gormiti erano troppo pochi per permettere a quel genere di individui di sopravvivere per molto. Scartò subito l’idea di ricrearli, poiché non voleva giocare troppo a fare il dio e d’altra parte i suoi strumenti sull’Isola erano molto meno efficienti.
Il resto dei gormiti superstiti fu, chi più chi meno, sospettoso e incuriosito da quello stravagante numero di gormiti apparso dal nulla che aveva reso Gorm popolosa se non più com’era prima della ribellione vulcanica. Alcuni andavano in giro dicendo: “Questi gormiti hanno uno strano odore.” e affermando che c’era qualcosa di anomalo in loro.
Nelle numerose occasioni in cui gli fu chiesto dove e come se li era procurati, il Vecchio Saggio rispondeva elusivamente: “Le vie della conoscenza sono infinite.”
I pochi gormiti superstiti salvati dal Vecchio non rispondevano affatto e li indirizzavano allo stregone che puntualmente evitava di dare risposte precise.
Nonostante ciò, i gormiti di ‘vecchia generazione’ non poterono fare altro che vivere con il dubbio e adattarsi alla nuova vita.
***
Razael sedeva tranquillo e soddisfatto nella sua privata e appartata stanza nelle profondità dell’intricatissima Caverna di Roscamar. Davanti a lui l’Occhio della Vita e la sfera magica.
Il suo progetto era alfine giunto al termine: la vita su Gorm era nuovamente prospera e Magor e il Popolo del Vulcano per quasi otto anni erano rimasti muti e immobili, forse morti? Chissà cosa era successo quando il Vecchio non c’era.
Tutto questo era per merito suo. Sicuramente i superstiti ebbero parti rilevanti nella messa in atto e nella realizzazione di quel programma, ma era stato Razael a mantenere calma, sangue freddo e a saper evitare i pericoli e gli sguardi assassini dei vulcanici quando il loro assalto omicida prese forma e ad usare al meglio le sue abilità per salvare almeno due esponenti di ogni Popolo gormitico.
Aveva agito meglio di qualsiasi eroe cantato nei poemi elfi, meglio di qualsiasi cacciatore vicio e guerriero zoaro. E quando avrebbe infine reso impotente l’Occhio della Vita, il mondo intero sarebbe dovuto essergli riconoscente.
Il Vecchio Saggio sarebbe stato ricordato per sempre. Sarebbe divenuto immortale.
Balle. - pensò il Vecchio Saggio, ridendo di se stesso e dandosi una pacca sulla faccia - Nessuno verrà mai a sapere di ciò che ho compiuto. Il memoriale di Raganels e la spoglia della gormita non saranno sufficienti a rendermi immortale. Solo questi gormiti, solo loro saranno veramente riconoscenti e memori delle mie azioni. Ciò basta e avanza. Chissà, magari un giorno incontreranno le altre specie, e le mie gesta saranno davvero note a tutti.
Il suo pensiero verté ora sull’Occhio della Vita. Mai poté smettere di considerare il tempo che avrebbe impiegato per poter scoprire che cos’era davvero quella sfera luminosa e misteriosa, che fluttuava allegra sulle fredde rocce.
Un dubbio lo scosse nel profondo.
Ho davvero ragione? - si domandò preoccupato - Dopotutto, senza l’energia dell’Occhio, molti più anni e fatica sarebbero stati necessari per ricreare i gormiti. E se…se la sua energia fosse davvero utile? No, non mi sbaglio. L’Occhio è pericoloso, e non cambierò idea proprio ora che sono così avanti.
Dette qualche ultimo sguardo alle due sfere. La sua sfera veggente era stata riempita quasi di ogni angolo di Gorm, comprese alcune regioni di Darth Kuun settentrionale. A cosa poteva essergli effettivamente utile, non riusciva a indovinarlo in quel momento. La regione più importante era oscurata. L’Occhio della Vita, non riusciva a distogliere occhi e attenzione da esso. Quanto era antico? Molto più potente doveva essere di quanto sembrava per essere sopravvissuto secoli e non mostrare i segni del tempo. Tempo. Davvero incredibile, incalcolabile non solo per lunghezza fu il tempo che Razael Akkars, il Vecchio Saggio, consumò per portare a compimento quel progetto. Non si era mai tirato indietro, così come non lo avevano fatto i suoi superstiti, aveva sempre continuato nel suo intento con tenacia e la stessa iniziale ostinazione che non scemava, ma pareva altresì essersi fortificata con lo scorrere del tempo, vanificato, ingannato dai laboriosi gormiti e umano grazie ai segreti della magia. Quanto tempo era davvero passato? Quando arrivò per la prima volta su Gorm aveva continuato a seguire il calendario e la datazione di Lacedimora, ma, nel lungo soggiorno ad Antasfra, l’aveva completamente abbandonato per il metodo di Gorm. Sapeva di essere in quel momento nell’anno 843 dall’inizio della civiltà, mese di Greemeralse.
Essere consapevole di ciò, a Razael bastava. D’ora in avanti non avrebbe seguito altri calendari; non avrebbe avuto senso. Uscì dalla recondita grotta con un sospiro.>>
 
“843?” domandò uno studente.
“Proprio così. 843, o giù di lì. Non lo so il mese esatto, ho tirato a indovinare, ma l’anno è quello, ne sono certo. – giurò il Cronista, con la mano sul cuore. – Gli annali di Patmut Iun parlano chiaro. Non molto, altrimenti saprei anche il mese giusto, persino il giorno. Però di sicuro è l’843, l’anno più antico delle iscrizioni dopo il Grande Sacrificio.”
“Quindi… - mormorò lo scolaro di cui prima, facendo un paio di conti con l’ausilio delle dita – Sono 85 anni fa, giusto?”
“86, se non sbaglio. – lo corresse – Oggi è il 78 Redrubise del 929, mi pare. Tra non molto arriva la stagione delle piogge, e sarà meglio trovarci un riparo, qui! Ora, però, statemi a sentire.”
 
<< Nel giro di otto anni, raggiunto l’851, il Vecchio Saggio reputò che la situazione su Gorm si fosse ristabilita.
Il territorio di Roscamar pullulava nuovamente di artigiani e mercanti, gli allevamenti erano rifioriti. La Valle dai Canyon era stranamente più abitata di quanto lo fosse in passato, mentre il Deserto rimaneva un mero terreno di passaggio.
La Foresta Silente era diventata più rigogliosa che mai, ma meno selvaggia: le erbacce di troppo erano state rimosse e i sentieri tracciati in maniera più visibile per gli altri gormiti, anche se rimaneva comunque facile perdersi.
Il Mare di Gorm era un'altra volta pulito e sicuro, tenuti bene alla larga gli animali pericolosi che in quegli anni avevano proliferato incontrollati, e ripristinati i campi di trefoliea che era completamente mancata ai gormiti su Antasfra, con grande vantaggio dell’olfatto degli altri Popoli.
Le fondamenta e le planimetrie della nuova città sottomarina erano fissati e la costruzione procedeva.
Picco Aquila ora presentava sulla sua vetta una mastodontica e dettagliata scultura di un volto di uccello rapace, rappresentante il viso che nella mitologia tradizionale il semidio Praconrem aveva.
Era un lavoro degno di essere introdotto nelle Meraviglie del Grande Golfo, e la velocità e la precisione con cui era stato costruito dai terricoli! Avevano lavorato sulla dura e variegata roccia nevosa della vetta dell’alto monte, dimostrando in primo luogo una grande resistenza alla fatica e al freddo, dovuta forse all’esercizio fisico intensificato, e la loro laboriosità e dedizione, degne dei loro antenati.
Nel frattempo, gli aerei erano divenuti ottimi stregoni, cacciatori e vedette, e avevano esplorato in lungo e in largo la loro montagna alla ricerca di testimonianze dell’antichità da cui trarre spunti artistici. Avevano inoltre cominciato il progetto di una città costruita nel cielo, ma era ancora agli albori.
Riunito con i superstiti, decise che era giunto il momento di reinserire i gormiti nel mondo politico vero e proprio, eleggendo i primi Signori della nuova generazione, nello stesso giorno in cui il Popolo del Vulcano probabilmente eleggeva i suoi, per mantenere la continuità.
I nuovi gormiti, in tutto in quel tempo, avevano avuto il tempo di conoscersi bene, e spiccavano subito figure di fiducia che si sapeva si comportavano bene, erano oneste e generose, e soprattutto abili nella lotta e nell’oratoria, chi più chi meno.
Non ci fu dubbio che alcune di quelle figure di fiducia sarebbero divenute Signori, ma dal momento che tali personaggi erano più di uno per Popolo, e perché era diritto di tutti i gormiti di una certa età candidarsi alla signoria, le elezioni furono eseguite nel modo tradizionale.
In luoghi topici del territorio di un Popolo, gli aspiranti Signori parlavano su appositi piedistalli ed esponevano le loro idee, i loro ideali, ciò che avrebbero fatto per aiutare i loro fratelli.
I Saggi andavano in giro per le regioni a raccogliere dati su chi fosse il più apprezzato da parte dei gormiti e, a meno che non si mettessero di mezzo problemi di alto livello, il Consiglio eleggeva a Signore il gormita che sembrava il più apprezzato.
Non era una precisa democrazia: non vi erano delle vere e proprie votazioni, solo delle rudimentali statistiche, semmai; era un metodo abbastanza complicato, ma ad ogni modo il popolo era la parte più importante di quel metodo di governo.
Questo per quanto riguarda le candidature. Le elezioni si svolgevano con i candidati tutti riuniti presso la piazza principale della capitale – cioè le città che ospitavano le dimore Signorili, Orsol (la città in cui soggiornò Razael) per l’Aria, Roscamar per la Terra, la Torre del Kraken (precedentemente senza nome) per il Mare e il Rifugio della Rugiada per la Foresta - davanti al Consiglio e a un pubblico di sudditi – quest’ultimo non era necessario.
Vi era un preciso rituale con cui il Signore precedente abbandonava il proprio incarico e i poteri da esso derivanti e, come segno dell’autorità del nuovo Signore, era il primo a inchinarsi al suo cospetto.
Ma in quel giorno non fu possibile perpetuare un simile rito, anche se fu comunque descritto nelle sue modalità perché potesse essere eseguito in futuro.
I quattro nuovi Signori furono infine scelti. Essi erano: Gheos Massas, Tasarau Fegri, Noctis Emarant e Poivrons Legheri.
Nei primi mesi successivi all’elezione, i neo Signori furono molto abili a mantenere l’ordine, la pace tra i diversi Popoli, e le promesse fatte durante la candidatura.
Poivrons in particolare reindirizzò molte delle risorse del Popolo del Mare alla costruzione della grande città sottomarina. Voleva che essa avesse il suo nome, e per fare ciò doveva impegnarsi enormemente e completarla entro lo scadere della sua carica.
Ora, per un vero ritorno alle tradizioni mancava ancora una cosa: il Torneo dei Combattimenti sull’Arena di Astreg, che avrebbe potuto dimostrare le effettive doti combattive dei nuovi gormiti. Senza uso di magia, armi o corazze.
Fu detto fatto: con il consenso dei vari Consigli fu preparato tutto il necessario. L’arena fu controllata e rimessa in sesto, anche se non ce ne fu grande bisogno: anche senza terricoli a riparare i danni al suolo e agli spalti, era in perfetto stato. Non era nemmeno imbrattata, cosa che i vulcanici erano soliti fare.
Il messaggio dell'imminente gara fu orecchiato da tutti: “La nuova edizione del Torneo dei Combattimenti! Se siete giovani, forti e atletici, ma anche vecchi e forti, o anche solo forti, non potete mancare! Dimostrate il vostro valore! Al termine un sontuoso banchetto, quindi non potete proprio mancare! E poi, lo scontro finale tutti contro tutti dei nostri Signori!”
Così gridava lo strillone dell'Aria che sorvolava l'Isola per far recepire a tutti il messaggio.
I partecipanti non mancarono, provenienti da tutti i Popoli.
Ben presto, incominciò il Torneo, durante il quale il Vecchio Saggio potè verificare che i gormiti erano effettivamente pronti a combattimenti su larga scala e a una nuova invasione del Popolo del Vulcano. I loro colpi non erano brutali e crudeli come quelli dei vulcanici nei passati tornei, erano semplicemente più potenti e più complicati. Le tecniche di combattimento erano state perfezionate e venivano mostrate con maestria sull’arena. I magnifici colpi elementali erano più frequenti e più efficaci che mai.
Il cronista degli scontri, figura immancabile, sudava per descrivere meglio ogni tecnica ed ogni massa.
Allo stesso tempo, i gormiti erano più robusti e più resistenti: le lotte duravano più del doppio di quanto quelle negli anni passati fossero mai durate.
Alle semifinali del giorno seguente si trovavano i seguenti gormiti, uno per Popolo, che si sarebbero giocati l’acclamazione della propria fazione e la gloria.
Erano: Alos, un piccolo ma molto, molto forzuto combattente volante dal piumaggio azzurro celeste che ricopriva i possenti muscoli di torace, gambe e degli enormi avambracci: gli addominali lattei erano invece scoperti, e incutevano un certo timore, mentre la faccia era anch’essa priva di piume e bianca, con due ampi occhi neri e un minuscolo becco giallino; Tenaglia, un colosso –solo in larghezza e robustezza, non in altezza - che aveva sviluppato una resistentissima corazza naturale simile a quella dei crostacei. Il capo aveva un solo occhio e una bocca da mollusco, su di esso un corno/elmo conico blu a forma di conchiglia a spirale. Le gambe presentavano una simile difesa naturale, mentre ancora alle braccia aveva una robusta mano con tre dita che agivano come una pinza e una chela azzurro acqueo.
Zetsel, denominato Picchiatore, un gormita dalla dura pelle di cellulosa marroncina e sul torace un legno più scuro, quasi come carbone, e duro. Il suo corpo era come costituito da un amalgama di corde di canapa. Il viso era una foglia gialla rigonfia in cui si intravedevano i piccoli occhi cupi e verdi, e le altre fessure di bocca, naso, orecchi;
Gravitus infine era un gormita tutto particolare dalla carnagione giallo - arancio, piedi abnormi con cinque piccole unghie. Cinque le dita delle mani, un numero raro. Sul torace, sulle spalle e nella schiena presentava diverse sottili creste ossee che seguivano la conformazione del suo scheletro interno. Segno particolare, il grande naso appuntito e rigido. Piccolo come Alos, aveva un grande sogno: diventare come il suo Signore Gheos, rinomato per la sua estrema forza!
Dopo l’ora di pranzo, ebbero immediatamente inizio le semifinali.
Il pubblico – che rammento essere una minima parte della popolazione totale, poiché l’arena non aveva spazio a sufficienza - rientrava ora dai ristori dell’Arena stessa o dai locali della Piana o dalla propria casa dove si era rifocillato, ed ora attendeva ansioso i prossimi due sfidanti che avrebbero combattuto la terzultima lotta. I quattro Signori, nello spazio loro riservato, parlottavano fissi.
Il cronista terricolo, dalla sua postazione rialzata da cui il suo commento veniva amplificato magicamente, era attento a ciò che succedeva nell’arena e all’apertura dei cancelli che avrebbero lasciato passare i due combattenti.
Egli ricevette infine il messaggio, e cominciò a parlare.
“Attenzione, popolo di Gorm! Attenzione! - richiamava l’interesse del pubblico con tono avvincente e simpatico - Ecco che entrano in scena i prossimi due sfidanti, due dei quattro semifinalisti! I primi a scontrarsi per la vittoria, qui e ora, sono: Gravitus!” esclamò, mentre il piccolo gormita entrava dal suo cancello a passo svelto, agitando i pugni in aria e accattivandosi il pubblico, che schiamazzava.
“Ed Alos!” l’altro piccolo gormita uscì rapido e volteggiando dalla sua porta, salutando il pubblico in delirio a braccia conserte e con cenni del capo, severo. Rimaneva in volo.
I due si guardarono per un lungo istante, Gravitus da terra e Alos in aria, spostandosi di qua e di là –non per distrarre il terricolo, ma perché la conformazione delle sue ali non gli permetteva di rimanere fermo in cielo con il solo uso delle ali.
“Che la prima semifinale cominci!” gridò il cronista, e un gong risuonò per l’arena, che fece tacere il pubblico e concentrare i due gormiti.
Gravitus guardava teso il suo avversario, fiero e sicuro di sé, librandosi in aria. Aveva vinto diversi dei suoi scontri senza mai toccare il suolo.
“Come agirà Gravitus contro Alos? - commentava il cronista - Questi sono due forti campioni pieni di sorprese. Certo questo scontro non sarà noioso!”
Poi Gravitus prese a correre, sempre più veloce, e infine alzò sotto di sé un turbine di sabbia e si aggrappò al piede destro di Alos, colto alla sprovvista dalla velocità dimostrata dal terricolo.
“Oh oh oh! Che tecnica! Usare la sabbia per alzarsi in aria! Una mossa che Alos non si aspettava, chissà come reagirà!”
Alos cominciò subito a calciare la faccia – il naso più che altro - di Gravitus, che però non demordeva. Bloccò anche l’altro piede dell’aereo e cominciò a risalire finché non fu faccia a faccia con Alos, che non riusciva a mantenere un volo stabile. Lì, tenendosi alla sua spalla, prese a pestarlo di pugni e calci nel ventre. Alos non fu in grado di contrattaccare, e perdeva quota, mentre Gravitus continuava a tempestarlo.
“Le cose si mettono male per Alos! E temo anche per Gravitus! Oh, per Krut, stanno per cadere! Ecco che cadono!”
Prima che i due, attorcigliati, potessero toccare il suolo sabbioso, Alos riuscì con un’acrobazia a sferrare un calcio in faccia all’avversario. Gravitus cadde, senza danni – era a pochi piedi da terra - e Alos fu di nuovo libero di librarsi in volo.
“Uh, wow! Un salvataggio in extremis! Alos non ha ancora toccato terra, ma Gravitus ha altro in serbo per il guerriero piumato, spero!”
Gravitus non attese che Alos formulasse il suo attacco e subito plasmò una zolla di terra che diresse al lato sinistro di Alos. Questi fu abbastanza rapido da impedire che lo colpisse emanando un grande soffio d’aria con entrambe le mani. Ma Gravitus continuava a spingere la zolla, nonostante si stesse sgretolando.
Ne forgiò un’altra, che indirizzò questa volta al lato opposto. Alos, tenendo ferma l’altra con la forza di una sola mano, creò del vento con la mano rimanente che respingesse la nuova zolla. Tuttavia anche per quella Gravitus esercitava una grande forza. Ora Alos si trovava stretto tra due zolle che non riusciva a respingere con l’aria.
“Se Alos non riesce a togliersi da lì, la cosa farà davvero male!”
Alos, incapace di ricacciare entrambi i colpi, fuggì in alto, lasciando che le due zolle si frangessero tra di loro.
Ora era il turno di Alos: con tutta la sua concentrazione creò un forte vento concentrato per far rovesciare Gravitus. Però la forza di Gravitus era sufficiente a reggere quella del vento. Con il braccio parato sul volto a difendersi dalla sabbia, avanzò a passi lenti verso Alos che continuava a generare vento.
“Che potenza il piccolo Gravitus! E’ un macigno che quel vento non porterà via!”
Contro ogni aspettativa da parte di Alos, il giallo gormita tese un braccio, con il palmo aperto, davanti a sé. E dalla mano cominciarono ad accumularsi sabbia, ciottoli, piccole pietre, che furono sparate in un unico fascio, che poi si suddivise in due fasci, poi in quattro, poi in otto. I getti di sabbia e sassi avanzavano indifferenti alla forza del vento.
“La tecnica della Danza dello Scorpione! Con che potenza si oppone al vento!”
A un certo punto tutti i multipli getti si riunirono in uno unico, enorme, che investì l’incredulo Alos impetuosamente e lo fece cadere al suolo.
Gravitus non esitò che potesse rialzarsi e tornare in aria: si mise a correre nel punto in cui Alos era caduto. Prese il suo corpo quasi inerme, lo bloccò ai polsi e ai piedi, e gli donò un’incantevole ginocchiata nella schiena, con conseguente urlo da parte di Alos.
“Ow, deve fare male! Ricordate di non fare queste cose a casa, amici!”
Prese dunque Alos per il collo – quasi assente - e prese a schiaffeggiarlo con una certa noncuranza. Quando ritenne potesse bastare, lo lanciò lontano con forza.
Alos tremava, ma non sembrava dare segni di rialzarsi.
“Sembra che abbiamo un vincitore, e uno dei finalisti!”
Passarono dieci secondi, e Alos rimaneva accasciato al suolo. Il gong risuonò, sancendo il termine dello scontro. Gravitus mise la mano aperta all’orecchio, attendendo gli applausi del pubblico, che non tardarono.
“Ed è proprio così! Gravitus si aggiudica la finale!”
Si accattivò ancora una volta la folla in esultazione, prima di recarsi da Alos, che nel frattempo si era rialzato, per complimentarsi dello scontro e battergli sportivamente il pugno.
“Gravitus ha avuto una vittoria strepitosa! E mentre lui e Alos si ritirano nelle loro camere per riposarsi e curarsi, attendiamo con ansia i prossimi due combattenti. Chi di loro si aggiudicherà la finale? Siate pazienti sui vostri seggi, e lo scoprirete!”
Il pubblico attese alle parole del cronista, che metteva davvero un enorme enfasi e impegno in quel lavoro. Rimasero seduti sugli spalti, alzandosi di tanto in tanto per andare a parlare con qualcuno seduto altrove e dare le proprie scommesse.
Non fu necessario attendere molto prima che i cancelli che davano alle zone riservate ai partecipanti e agli allenatori si aprissero di nuovo, rivelando i successivi contendenti.
“Ecco gli ultimi semifinalisti entrare nel campo! Da una parte Zetsel, ma forse meglio noto ormai come il Picchiatore, e dalla parte opposta la corazzata Tenaglia, che ha incontrato ben poca resistenza! Riuscirà il miglior allievo di Paludis a sconfiggere la possente Tenaglia o questa abbatterà un altro gormita senza difficoltà?”
Il Picchiatore era ora entrato, rivolgendo pacati saluti al pubblico con una sola mano, mentre Tenaglia agitava entrambe le braccia e tirava i bicipiti.
“Che l’ultima semifinale cominci!” e di nuovo il gong riecheggiò per l’arena.
Il Picchiatore agì per primo, mentre Tenaglia rimaneva ferma a guardarlo avvicinarsi in corsa, saltellando a destra e a sinistra per impedire di essere intercettato.
Vicino ormai, roteò su sé stesso in aria e caricò un calcio laterale su Tenaglia. Senza sforzo, Tenaglia fermò il calcio con le tre dita della mano e tenendo ben stretto il piede del Picchiatore lo lanciò a terra alla sua sinistra.
“Uuuh, questa proprio non se l’aspettava, devo dire!”
Il forestale si rialzò subito, e riprese a saltellare, tenendo ben pronti i pugni. Si avvicinò ancora una volta, forse un po’ troppo, giacché Tenaglia evitò nuovamente di essere colpita e gli bloccò il polso con la chela, facendo lamentare Picchiatore, che riuscì a salvarsi la mano con qualche graffio.
“Tenaglia è proprio inattaccabile! Ma solo pochi minuti sono passati, tutto può ancora accadere, amici!”
Il Picchiatore studiò il suo avversario, che non sembrava avere molto interesse ad avanzare in offensiva, ma solamente attendere che il nemico si avvicinasse per colpirlo e finirlo in poche mosse, sicura all’interno della sua armatura naturale.
Pochi punti deboli non coperti dalla corazza erano presenti. Zetsel avrebbe dovuto agire su quelli, poiché poco avrebbero fatto i suoi attacchi o i legni che poteva creare contro la corazza.
Il Picchiatore prese a ‘pizzicare’ Tenaglia, tentando di colpire i due punti più deboli –il viso con l’occhio e l’addome - al momento giusto, e la cosa impiegò molto tempo.
“Non so cosa il Picchiatore stia cercando di fare, ma forse farebbe bene ad usare i poteri degli elementi, gli sarebbero proprio d’aiuto!”
“Statti un po’ zitto!” strillò Zetsel, anche se fu udito solo da pochi.
Era vicino a Tenaglia, e aveva appena evitato una presa della sua chela. La marina in seguito sferzò l’aria con un colpo del suo braccio sinistro, che andò però a vuoto: Picchiatore si abbassò, e le ficcò due dita nel suo occhio.
Ella urlò di dolore, indietreggiando, e agitando alla cieca la chela mentre con l’altra mano si copriva la faccia.
“Attenzione! Il Picchiatore usa davvero qualsiasi arma in suo possesso!”
Picchiatore avanzò, parò i manrovesci rabbiosi di Tenaglia e diede una ginocchiata nell’addome della gormita.
Poi la alzò prendendola per le spalle, caricò una corsa e la lanciò, facendola schiantare contro la parete dell’arena.
Ancora ciecata, i suoi polsi le furono bloccati da dei robustissimi anelli di legno che la ancorarono alla parete.
Il Picchiatore caricò ancora in corsa, alzandosi in aria con una gamba piegata e l’altra tesa in avanti agli ultimi piedi di distanza, finendo con lo sprofondare il proprio piede nel ventre umido di Tenaglia.
“Ahia, ahia! Tenaglia le sta prendendo per la prima volta, se non ricordo male!”
E qui il Picchiatore prese colpirle addome e volto con quante mosse conoscesse, senza però ricorrere ai propri poteri, indebolendola prima che la vista le ritornasse e potesse liberarsi delle manette.
Con un grido furioso e tremendo, Tenaglia strappò gli anelli di legno. Tese le mani in avanti e un imponente getto d’acqua si generò all’istante.
“Tenaglia si è ripresa e le sorti della sfida si sono ribaltate ancora una volta! Ma, dov’è il Picchiatore?”
Tenaglia era troppo concentrata a mantenere la forza e la velocità del getto d’acqua per poter vedere che Picchiatore aveva evitato l’onda travolgente e si trovava ora dietro di lei. Le diede un forte calcio sulla testa, ma talmente forte che Tenaglia svenne, e la quantità d’acqua si rovesciò tutta sulla sabbia.
“Incredibile! Tenaglia è stata sconfitta, sfortunatamente per quelli che avevano scommesso sulla sua forza bruta e resistenza! Il Picchiatore Zetsel ha vinto ed è ora in finale con il campione della Terra Gravitus! Si prospetta una finale davvero imperdibile!”
 
Il momento della verità era infine giunto: la finale della 660esima edizione del Torneo di combattimenti di Astreg stava per essere disputata con i due contendenti, Gravitus e Zetsel ‘Picchiatore’, al titolo di campione annuale.
L’eco profondo e fragoroso del gong risuonò nelle orecchie del pubblico, dei due sfidanti, del cronista che era particolarmente silenzioso.
Gravitus diede l’avvio alla lotta, dopo pochi attimi di studio reciproco dell’avversario, cominciando per primo a correre verso l’opponente che a sua volta gli correva contro.
Il pugno di Gravitus trovò il palmo di Zetsel ad attenderlo, e viceversa il rovescio del Picchiatore fu parato dalla mano del terricolo.
I due rimasero così, stringendosi a vicenda i pugni, finché Gravitus non fu colpito sotto al mento da un calcio alto del Picchiatore, che gli fece mollare la presa.
Zetsel prese la rincorsa e saltò dando un ennesimo calcio, con l’altra gamba piegata in alto, alla faccia di Gravitus e, ancora sollevato da terra, un altro calcio e un altro e un altro ancora, alternando ogni volta il piede attaccante.
“La tecnica del katring sparke eseguita davvero benissimo!”
Gravitus, atterrato, portò le ginocchia al petto e con un balzo atletico si lanciò al collo del Picchiatore, facendo cadere il forestale questa volta. Con la sua testa stretta fra i piedi, prese a riempirla di pugni.
Ma il Picchiatore non si sarebbe lasciato torturare così. Con un movimento ugualmente atletico, alzò le gambe e strinse tra di esse la testa del terricolo, togliendoselo di dosso e scagliandolo poco più in là.
Zetsel ritornò in piedi e si avventò su Gravitus con il pugno pronto. Gravitus però era già preparato e in piedi quando arrivò, e si trovarono ben presto al punto di partenza, con i pugni stretti.
 
Il sole era ormai un barlume rossiccio all’orizzonte, e il buio cominciava a dominare sull’Isola di Gorm. Il pubblico e il cronista osservavano ansiosissimi i due sfidanti, stanchi, sudati e insanguinati – Gravitus, almeno; i forestali non avevano sangue, ma linfa - il cui scontro sembrava non terminare più.
Durante l’intera lotta non avevano fatto uso di tecniche elementali, e forse era quella la causa di cotanta lunghezza.
Ma Gravitus non sembrava essere più d’accordo con quell’idea. Con tutta la forza che gli rimaneva alzò le mani al cielo ed evocò un’enorme zolla di terra, che riversò senza pietà sul Picchiatore, che osservava la meteora cadere su di lui con sguardo impietrito.
“Forse finalmente lo scontro ora sarà finito! Non credo che il Picchiatore riuscirà a sfuggire a quell’attacco!”
La zolla atterrò sul Picchiatore, sommergendolo in chili e chili di terra umida.
Gravitus corse incontro al Picchiatore immerso in tutto quel marrone, per accertarsi che fosse finalmente fuori combattimento e che non fosse morto. Le morti sull’arena erano disdicevoli.
Si fece strada tra i pezzi di terra frantumati, raccattando il corpo di Zetsel ancora vivo e sano.
Gravitus lo alzò per il collo.
“Non è…necessario. Mi arrendo.” mormorò lo sfiancato e dolorante Picchiatore, in tutta tranquillità.
“Sei…sei sicuro? - chiese con tono stupito il terricolo - Sarebbe disonorevole.”
“So quali sono i miei limiti. Mi arrendo.”
Gravitus annuì, e abbandonò quindi il Picchiatore. Non con sprezzo, ma con gentilezza. Lo aiutò a rimettersi e a rimanere in piedi.
“Ottima lotta. Sei stato davvero bravo contro Tenaglia. - sorrise Gravitus mentre tutto il pubblico mormorava sorpreso - Non so se io sarei riuscito a batterla.”
“Io ne sono più che sicuro, invece.” ribattè Zetsel, porgendogli il pugno. Le due mani si scontrarono.
E allora tutti i gormiti si alzarono, schiamazzarono ed applaudirono. Il torneo ufficiale era dunque terminato, e il terricolo Gravitus ne era il vincitore.
“Colpo di scena! Colpo di scena! - urlava fuori di sé il cronista, alzandosi dalla sua postazione sopraelevata - Il Picchiatore si è arreso! Dopo una lotta strenuante, Zetsel lascia il titolo di campione al suo avversario Gravitus! Gravitus è il vincitore del torneo! Gravitus è il nuovo campione! Gravitus campione!”
 
Per un anno intero, Gravitus, portando la grande medaglia dorata del Torneo, sarebbe stato rispettato con la massima gloria, e stimato come il più forte combattente di tutta l’Isola. Ricevette grandi elogi e complimenti dal suo Signore Gheos, che fu più che entusiasta che ancora un altro gormita della Terra venisse annoverato tra i campioni del Torneo di Astreg.
Quando era ormai sera, i Signori, il Vecchio Saggio, il cronista e tutti i partecipanti al Torneo sedevano e mangiavano nel sontuoso banchetto promesso all’indizione del torneo, su quattro grandi tavoli di pietra e sedie e panche di legno. Anche i gormiti vegetali mangiarono: bisogna sapere che, sebbene il loro ‘stomaco’ non sia adatto a quel tipo di alimentazione, possono comunque ingerire pietanze ed assorbire da esse una modesta quantità di nutrienti, anche se il motivo per cui si cibano allo stesso modo degli animali è per provare il gusto.
Gli spettatori, quelli che potevano permetterselo, rimasero sui loro spalti a cenare o si accamparono fuori dall’arena per sgranchirsi le gambe e mangiare in vista dell’ultimo evento di quella nuova edizione del torneo.
Il cronista fu il primo ad abbandonare il campo sabbioso per dirigersi al suo posto.
“Forza, forza! Finite di mangiare, e lasciate spazio agli inservienti!” gridava. Quando tutti i gormiti lasciarono la sabbia dell’arena, eccetto i quattro Signori, tali inservienti vi entrarono, raccogliendo tutti i resti di cibo e frantumando i tavoli e le sedie in piccole frazioni che furono poi portate fuori.
“Gente del pubblico, accorrete, o i posti finiranno! Ecco dunque il momento che tutti aspettavate! I nostri beneamati Signori, a cui mi inchino, ora si scontreranno in un incontro tutti contro tutti, per il vostro divertimento!”
I Signori, quando fu tutto pronto, si avvicinarono quindi l’un l’altro, parlando e scherzando prima di darsi le botte come un vero guerriero fa.
Gheos, il Signore della Terra, aveva un corpo giallo e muscoloso, tonico, quasi perfettamente triangolare. Tutto era ricoperto di escrescenze ossee grigie simili a diamanti sulla parete di una grotta che emergevano dalla pelle. Il braccio sinistro presentava un massiccio sviluppo corneo dalla forma e la forza di un martello spinato. La testa, grande, si prolungava all’indietro con due protuberanze rigidi e rettilinee, cilindriche.
Tasarau era il Signore della Foresta. La sua testa era un elmo di corteccia da tre contorni aguzzi: un unico grande occhio giallo si stagliava al centro. Possedeva quattro braccia legnose dalle mani munite di quattro spini ciascuna. I suoi pettorali erano due tronchi tagliati, e tutto il suo corpo era cosparso di liane. Ricordato dai sei superstiti – e dai lettori - come il primo gormita ad essersi schiuso dai laboratori del Vecchio Saggio: era ora uno dei più anziani – sopravvissuti a parte - e più saggi.
Poivrons, il Signore del Mare, era un gormita tutto particolare. Il suo corpo non era molto complesso: era paragonabile quello di un elfo alto e muscoloso, la pelle di varie sfumature di azzurro, le mani e piedi palmati: questi ultimi possedevano poderosi artigli. Gambe e avambracci erano decorati da pinne chiare. Il capo era composto dal corpo blu - violaceo di una piovra, la bocca nascosta tra i tentacoli che potevano allungarsi e aggrapparsi, avvinghiarsi o stritolare.
Noctis, il Signore dell’Aria, era molto elegante e aggraziato. Nel suo corpo piumato azzurro i muscoli erano lievi e nettamente delineati, la testa, adornata di due corni dalle sembianze di piume gialle, si stagliavano due grandi occhi neri e un lungo e affilato becco dorato. Le ali bianche e decorate da strane venature erano attaccate alle braccia, e in prossimità delle mani terminavano in potenti e acuminati arpioni.
L’amichevole scontro tra i quattro Signori cominciò, segnato dal solito gong.
***
In quel momento, così come era stato per tutto il giorno, i guardiani appostati attorno all’Arena, all’entrata e lungo la scalinata della Piana di Astreg, erano oculati e svegli, pronti a qualsiasi tipo di avversità o problema che potesse recare danno al corretto andamento del Torneo, o alla sicurezza dei partecipanti e degli spettatori.
Uno di questi, situato vicino all’entrata dell’Arena, origliava con sospiri e invidia i suoni che provenivano dall’interno.
Era un gormita della Terra. La sua carnagione era ocra, priva di peli. Una piccola tozza coda terminava la sua schiena. I suoi occhi verdi erano minuscoli e scavati nella faccia, attorno ad essi delle macchie scure come occhiaie. Ma non bisogna credere che fossero dovute al mancato sonno, era semplicemente fatto così. Le labbra erano grandi, grigie e piene di solchi rettilinei, come se fossero disidratate. Sul capo e sul dorso delle dita presentava una sorta di vibrisse, più rigide e spesse, che miglioravano di molto le sue percezioni sensoriali. Dall’apice delle mani fuoriuscivano due uncini che limitavano in parte il movimento delle mani, ma cose da poco.
La sua armatura da guardiano era una corazza argentata opaca sul torace, sulle spalle e ai polpacci, ricoperta di bottoni romboidali bronzei lucidi.
Egli avrebbe tanto voluto partecipare al Torneo, ma essendo entrato nella milizia professionale delle forze di Gheos non poteva assolutamente entrare nell’arena e divertirsi. Era comunque riuscito a convincere il suo Signore a inserirlo come guardiano presso l’Arena di Astreg.
La giornata di guardia era piuttosto noiosa e monotona. Gli unici problemi erano gormiti che cercavano di entrare ad osservare i combattimenti di nascosto o senza lasciapassare.
I suoi sensori percepirono infine uno spostamento anomalo: un altro gormita che tentava di attendere allo scontro tra Signori senza pagare. La stessa solfa, ma almeno ci sarebbe stata un po’ di ‘azione’.
Il suo olfatto però sentì un odore strano, mai sentito prima. Non lo riconosceva come tipico di nessun gormita di alcun Popolo, né del Vecchio Saggio, e non era decisamente un animale.
I suoi sensi lo indirizzarono verso l’alto, alla cima dell’entrata dell’Arena.
Lì, dal nulla, si materializzò una figura scarlatta. Non era un gormita della Terra, della Foresta, dell’Aria o del Mare, e sicuramente non un abitante di Karmil o Tato Yami né un elfo.
Era un gormita tutto rosso, con delle braccia quasi del tutto coniche e apparentemente prive di articolazioni che terminavano in aperture, e ai lati delle tozze dita. Quegli arti dovevano essere dei cannoni a braccio. Questi cannoni erano delle armi naturali, delle parti del corpo –degli arti superiori in questo caso - costituite per la manipolazione di specifici colpi elementali di alta gittata e grande velocità.
Tornando al gormita, aveva un corpo che pareva grasso, cosparso di quattro corni e aculei davanti e dietro e dei piedi con tre artigli: la faccia era ovale con due occhi frontali lunghi, sottili e gialli, anch’essa con quattro piccoli corni ai lati.
Non aveva alcun dubbio: quello era un gormita del Vulcano! Dopo anni di latitanza erano finalmente apparsi, e lui era il primo gormita della nuova generazione a vederne uno.
Non provò paura come aveva sempre pensato di fare alla vista di uno, e non fu propenso ad attaccarlo: i suoi genitori gli avevano detto che con i vulcanici bisognava mantenere il sangue freddo, la calma, cercare il dialogo e passare solo in un secondo momento alle maniere forti. Da chi avessero appreso tali perle lui non lo sapeva, ma seguiva comunque quei consigli.
Cercò di rimanere il più silenzioso possibile, nonostante fremesse di curiosità: come era giunto lì senza essere visto? Cosa voleva? Lo osservò muto e immobile.
Questi, adiacente alla parete dell’entrata, la scalava lentamente con l’uso della forza magica. Sembrava preoccupato e un po' ansioso, come un cucciolo di gormita che non vede l'ora di uscire dal guscio.
Sospirava certe parole affrettate, ripassando forse ciò che doveva fare.
Portava qualcosa tra le mani: un oggetto rossiccio, roseo, luminoso e ovale.
Arrivato dunque in cima alla parete, l’oggetto ovale fu reso invisibile. Udì il gormita dirsi: “Adesso...” si guardò attorno, e con stupore il guardiano si accorse che parlava la sua stessa lingua: non il gormitico, ma la lingua del Vecchio Saggio
“Dovrei fare così...” Alzò le mani e gettò a terra qualsiasi cosa avesse tra di esse, che si ruppe col suono di un vetro che si spezza, lontano nel suolo dell’Arena.
Nello stesso momento il Vecchio Saggio, seduto al suo posto nell’arena, udì anch’egli il rumore di schegge, e percepì una specie di cambiamento. Sembrava qualcuno che avesse attivato un incantesimo, ma non riusciva a riconoscerlo. I gormiti nel pubblico e i Signori che si menavano non parevano aver udito il suono.
Quando si voltò e vide una figura grossa e rossa scomparire all’improvviso dalla cima della postazione rialzata del cronista, cominciò a preoccuparsi.
Non era Magor, troppo alto e non aveva parvenze infuocate. Ma era rosso, e ciò non era niente di buono. E a che cosa apparteneva quel suono di vetro infranto, e cosa aveva provocato?
La risposta all’ultima domanda sembrò giungere dalle azioni dei Signori nell’Arena.
I colpi inferti gli uni agli altri si erano fatti da moderati a brutali e crudeli, e le parole di scherno e i commenti sarcastici che i quattro gormiti si rivolgevano erano diventati insulti pesanti.
Il Vecchio Saggio osservò turbato Tasarau cercare di strangolare Noctis, strangolare per davvero, con tutte e quattro le mani. La testa di Noctis non si vedeva tra le dita del Signore della Foresta.
“Tasarau, cielo, fermatevi! Lo volete uccidere?” si intromise preoccupato.
“Esattamente. - proferì con voce profonda e tono seccato il gigante dalle quattro braccia - Ha ammesso di avermi derubato di alcuni oggetti, e che è convinto di derubarmi ancora!”
“Ah…ah! - soffocava Noctis, dimenando le ali - V - Vecchio Saggio, aiutami! Sudditi, qualcuno mi aiuti!”
Alle sue richieste di soccorso alcuni gormiti dell’Aria scesero dai loro seggi e corsero in aiuto del loro Signore, liberandolo dalla morsa di Tasarau.
“Maledizione, colpite questo tronco marcio! Ha cercato di uccidermi!” ordinò poi Noctis, con sguardo torvo. I suoi sudditi furono riluttanti ad obbedire. Era vero ciò che aveva detto, ma non erano sicuri di voler offendere ulteriormente Tasarau.
Dall’altra parte anche Gheos e Poivrons erano nel mezzo di un acceso diverbio.
Gheos stava minacciando il Signore del Mare con una pietra affilata. I due erano stretti, e Poivrons cercava di togliersi l’avversario di dosso.
“Voi due! - sbraitò lo stregone rivolto ai gormiti in lotta - Datevi una calmata! Che cosa è successo di così grave?” richiese di sapere, dividendoli l’uno dall’altro con una magia. Accorrevano dagli spalti gormiti sia di Terra che di Mare a tenere fermi i loro Signori.
“Ha minacciato di uccidere mia figlia! - replicò furioso Gheos - Merita la morte!”
“Non credete a quello che dice, Vecchio Saggio, e nemmeno voi! Ha perso il senno! - si difese Poivrons - Anzi, non l’ha mai avuto.”
Gheos era ora su tutte le furie.
“Dannato, bastardo e bugiardo! La tua Poivronopoli non vedrà la luce del giorno! La distruggerò prima!” lo provocò.
“Sudditi, l’avete sentito? E’ un attacco diretto a me e al Popolo! Uccidiamolo!”
I sudditi che lo tenevano fermo non erano molto sicuri di ciò che stava succedendo. Perché tutto d’un tratto i Signori si erano giurati morte a vicenda? Ma una cosa sicura era stata la minaccia per la futura città sottomarina. Prima di essere stato eletto Signore, Poivrons –così come gli altri tre - aveva fatto molto per il bene dei suoi fratelli ed era una figura di rispetto. E lo era ancora di più ora che era Signore. Lo lasciarono libero di scontrarsi con Gheos.
“Vecchio Saggio, fate qualcosa!” richiedeva dalla parte opposta Noctis, ancora una volta preda di Tasarau.
Lo stregone elfo non sapeva che cosa stava succedendo, non sapeva come agire
“Io…io…” fu solamente in grado di dire.
Un guardiano terricolo poi piombò di corsa dall’entrata nell’Arena, spalancandone le porte, portando una notizia terrificante.
“Mio Signore, Signore Gheos! - strepitava - I vulcanici stanno arrivando!”
Fu infatti così: in mezzo all’arena, volando grazie al fuoco e comparendo con incantesimi di trasporto rapido nell’arena sabbiosa, nello scontro che infuriava, dozzine di volti rossi e assetati di lotta.
Ma i gormiti presenti non provarono enorme timore davanti a loro, men che meno Gheos.
“Non preoccupatevi di loro! - urlò, togliendone facilmente di mezzo uno con un colpo del suo martello - Sono tutti nostri nemici!”

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Capitolo 14
*** Capitolo 7.2 ***


Gheos camminava avanti e indietro nella sua camera privata presso la sede signorile di Roscamar.
Gli eventi all’Arena di Astreg avevano sconvolto l’intero panorama politico di tutta l’Isola di Gorm: era una guerra aperta su tutti i fronti.
Gheos non comprese perché tutti i Signori si erano così improvvisamente minacciati e dati guerra, ma la domanda e la ricerca di una risposta non passarono minimamente per la sua testa. Ciò che vi circolava erano solo progetti bellici e pensieri rivolti a Tasarau, Poivrons e Noctis. Pensieri niente affatto positivi, utili solo a farlo innervosire e ad aumentare il suo rancore verso di loro. Voleva ad ogni costo vederli sconfitti per mano sua, e dominare su di loro.
E ora si erano inseriti anche i famigerati gormiti del Popolo del Vulcano. Che cosa volevano loro? Cosa c’entravano con la situazione? Li avrebbe spazzati via, se li avesse incontrati lungo il cammino verso il dominio.
L’inizio della guerra era già stato sancito da un attacco del Popolo del Mare a uno dei porti di Gheos, ma l’attacco fu respinto.
Gheos era stato attaccato per primo. Ora il resto dei nemici si aspettava che fosse stato lui a compiere la prossima mossa. E Gheos non li avrebbe delusi. Doveva solo decidere chi attaccare per primo, e seguendo quale motivazione.
Fu interrotto da questi pensieri dall’entrata nella stanza del suo consigliere Gravitus.
“Mio Signore.” lo salutò con l’inchino d’onore del Popolo della Terra.
“Gravitus.” gli si rivolse Gheos, guardandolo sorpreso. Gheos vestiva in quel momento una curioso corazza argentata che gli copriva tutto il torso, dalle spalle sino al bacino. Sull’addome la corazza presentava delle decorazioni a uncino nere. Sulle spalle, un corto mantellino nocciola scuro legato sotto il collo. Gravitus, al contrario, non presentava alcun armamento, solo un gonnellino bruno più spesso di quello vestito nel torneo.
“Non ti aspettavo. Che cosa succede?”
“Mio Signore, il Popolo vuole chiarimenti su ciò che sta accadendo, e si è ammassato nella piazza centrale. - emanò con tono preoccupato - Vuole sapere perché tutto questo sta succedendo, e che bene ne trarrà il Popolo.”
“Chiarimenti? - ripeté perplesso Gheos - Chiarimenti? Di che chiarimenti hanno bisogno? I Signori degli altri Popoli mi hanno minacciato personalmente!”
“Mio Signore, se permettete non sono d’accordo con le vostre idee.” si impuntò Gravitus.
Gheos lo osservò meravigliato e indignato. Un suo suddito gli disobbediva. No, non gli disobbediva, stava solo esponendo le sue opinioni. E un buon leader ascolta sempre le opinioni.
“Sicuro.” si calmò Gheos. Era sempre stato un Signore molto aperto e disponibile, le richieste e i dubbi del Popolo erano bene accetti da lui. Si domandò perché si era comportato in modo così sgarbato. Non era lui.
 “Dimmi cosa ti turba.” continuò, sedendosi sul suo seggio e accarezzandosi il martello
“Credo… - titubò Gravitus - Credo che il Popolo non sia d’accordo nel muovere guerra contro gli altri. Cioè… - cercò di spiegare - Noi non abbiamo nulla contro il Popolo della Foresta, o quello dell’Aria. Quello del Mare ci ha attaccato è vero, però…però, noi abbiamo amici negli altri Popoli. Non vogliamo combattere i nostri amici solo perché voi avete in odio gli altri Signori. Ecco.”
Gravitus fu sicuro di ciò aveva appena detto, e guardava il proprio Signore dritto negli occhi. Ma in quegli occhi scorse qualcosa che gli fece temere di aver esagerato, e di essersi spinto troppo oltre.
Volse lo sguardo verso il pavimento di mattonelle esagonali, incapace di sostenere quello del suo Signore.
Ma Gheos si accorse presto che aveva ragione. Non poteva coinvolgere così semplicemente il suo intero Popolo. Ma l’avversione nei confronti degli altri Signori non esitava a scomparire. Si passò la mano sul viso, riflettendo su cosa era meglio fare.
“Hai ragione, Gravitus.” disse infine, poggiando la mano sulla sua spalla. Gravitus rialzò lo sguardo, per incontrare il sorriso del suo Signore.
“Non posso farvi combattere la mia guerra. Non in questo modo. Avete bisogno di una motivazione.”
“Ma…” esordì il terricolo, con la mano tesa a fermare il suo Signore. Non era esattamente ciò che voleva dire Gravitus, ma Gheos si era incamminato fuori e lo invitava a seguirlo.
“Andiamo, Gravitus. Il mio Popolo ha bisogno di me.”
 
Gravitus seguì Gheos fuori dal suo ‘ufficio’ e dalla reggia del Signore, nello spazio aperto e semi - sabbioso della città di Roscamar.
Al passaggio del Signore Gheos tutti coloro che incontravano nel cammino si inchinarono profondamente alla sua figura.
Gheos avrebbe volentieri risposto allo stesso modo, ma andava di fretta. Diversi gormiti richiesero, più o meno innervositi e inquieti, di parlare con Gheos, ma Gravitus li teneva tutti lontani e declinava ogni loro pretesa, affermando: “Presto Gheos parlerà a tutto il Popolo nella piazza centrale, e risponderà ad ogni domanda.”
I sudditi accettarono, di buon grado e meno, questa delazione, e non solo i richiedenti ma anche qualsiasi interessato seguirono Signore e consigliere verso la piazza.
Qui il governante e il suo aiutante trovarono un’immensa folla di gormiti, gialli, neri, bruni, marroni, di ogni grigio, vestiti, armati o nudi. Tutti avevano un disperato bisogno di risposte.
Gli altri gormiti che li avevano seguiti li abbandonarono per unirsi alla calca, mentre Gheos e Gravitus proseguirono per il loro sentiero e arrivarono al palco adiacente a una formazione rocciosa su cui Gheos avrebbe ascoltato i reclami e le lamentele.
Il chiasso era piuttosto forte, ma non piovevano insulti o parole pesanti, solo continue domande gridate ad alta voce e tutte in una volta, che rendevano ogni richiesta incomprensibile, continuamente sovrastata da un’altra, e questa da un’altra ancora e così via.
“Popolo della Terra, silenzio.” urlò con tono placido Gheos, non volendo mostrarsi irascibile, ma furono ben pochi a udirlo.
Gheos attivò quindi un incantesimo, e ripeté la sua invocazione con più enfasi.
“Popolo, silenzio, per favore!” urlò una seconda volta, e i gormiti chiassosi lo sentirono e si ammutolirono, invitando quelli che continuavano a sbraitare a fare altrettanto.
“Non posso aiutarvi se non capisco cosa volete dirmi.” chiarì Gheos.
Si schiarì dunque la voce con un leggero colpo di tosse, preparandosi mentalmente un discorso e delle risposte alle probabili domande che il Popolo gli avrebbe posto.
Doveva essere cauto e oculato. Non poteva rischiare di perdere l’appoggio del suo Popolo, o sarebbe rimasto solo e non avrebbe avuto alcuna possibilità di sconfiggere Noctis e gli altri.
Al solo figurarsi le sagome dei suoi nemici e a immaginarsi di perdere contro di loro, il suo volto si fece rabbioso. Non riusciva a controllare quello stranissimo odio, e allo stesso tempo non poteva opporsi. Ma doveva contenerlo, per il bene suo e del Popolo della Terra.
“Il mio consigliere e campione del Torneo Gravitus mi ha informato che il mio Popolo ha qualche dubbio sulla battaglia che si sta muovendo sull’Isola, e sulla nostra posizione in questo scontro.” esordì, usando il miglior lessico e il tono più gentile che potesse.
“Un buon Signore ascolta i dubbi della propria gente, e io non sarò da meno. Esprimetemi le vostre incertezze.”
“Questa è solo una vostra guerra personale! - criticò immediatamente un terricolo - State approfittando del vostro potere e della vostra presa su di noi per usarci come arma contro Tasarau, Noctis e Poivrons. Perché, poi, lo sapete solo voi. Ma noi non ci guadagniamo nulla! Perderemo solo l’amicizia degli altri Popoli.”
Gheos rifletté con la mano sotto il mento, ragionando su come controbattere e su come uscirne nella miglior luce possibile. Cercò di non pensare ai nomi che il suo suddito aveva citato, che non lo avrebbero aiutato a concentrarsi e a farsi vedere come il bravo Signore qual’era.
“Hai ragione. - annunciò infine, innalzando la sorpresa di tutti i presenti - Hai completamente ragione. - ripeté, ancora con la mano sotto il mento - Questa è una mia guerra personale, sì. Ma!” alzò la voce, poggiando mano e martello sul bordo del palco.
“Voi vi siete fidati di me. Quello che ho fatto per voi e quello che vi ho promesso vi ha spinti a nominarmi Signore. Io non vi deluderò nella mia carica. Ho già fatto molto per voi. La sicurezza nella Valle dei Canyon è stata migliorata, e le imprese scavatrici della Caverna di Roscamar procedono a gonfie vele. Io vi chiedo, vi supplico, di aiutarmi in nome di ciò che ho fatto per il bene del mio Popolo, di stare dalla mia parte e di vincere insieme a me.”
Gheos si arrestò, immobile appoggiato al bordo, attendendo la risposta dei suoi sudditi.
Un folto chiacchiericcio crebbe nella folla incerta. Vi era tutta verità nelle parole di Gheos, ma la decisione di avere ancora una volta fiducia in lui spettava a loro. Avevano la capacità di restare buoni nei loro territori o muoversi contro gli altri Signori. C’erano tuttavia molte altre causali in gioco che ricercavano giustificazioni e precisazioni.
“Ci sono nostri amici negli altri Popoli! - venne in mente da dire a una terricola, con tono oltremodo preoccupato e quasi piangente - Perché dobbiamo andare in guerra in contro di loro? Loro non hanno colpa, non vi hanno fatto nulla di male!”
“E’ vero, loro non hanno colpa. - condivise il Signore della Terra - Gravitus mi ha già illuminato su questo aspetto. Ho riflettuto, e ho pensato a questo: non ci sarà bisogno di uccidere i gormiti degli altri Popoli, né di devastare le loro case. Tuttavia, i miei nemici li disporranno contro di noi, come è già successo al porto, anche se rimanessimo fermi a guardare la guerra che va avanti, e in ogni modo saremo costretti a combattere contro di loro. Non so quali motivazioni li spinga, ma noi non saremo mossi dal desiderio di sterminio.”
La risposta non era del tutto confortante, ma almeno la gormita sapeva ora che i suoi fratelli e amici terricoli non avrebbero ucciso nessuno, anche se ce ne fosse stata la possibilità.
“E il Popolo del Vulcano? - volle sapere un altro, con espressione oltremodo intimorita - E’ apparso dal nulla e alla Piana ci ha attaccato senza pietà. Mio cugino alla Valle mi ha detto che ha visto schiere di gormiti uscire e ingrossarsi fuori dal Monte Vulcano. Loro certo non saranno così clementi come saremo noi.” Rabbrividì.
“Il Vecchio Saggio ci ha insegnato come comportarci con loro. - affermò convinto, col pugno stretto, il Signore - Ci ha insegnato ad essere forti, a combattere. Sappiamo quello che hanno fatto alla nostra gente anni fa. Sta a noi decidere se colpire il Vulcano con la stessa lama o mostrarci più benevoli. Ad ogni modo, se ci staranno tra i piedi ce li toglieremo di mezzo”
“Però rimane ancora una cosa da risolvere. - espresse un gormita, mostrandosi piuttosto convinto delle argomentazioni di Gheos - Che guadagno otteniamo noi?”
“Pensala, pensatela a questo modo. - consigliò il Signore, cominciando a camminare in cerchio - Se voi mi aiuterete a vincere, il Popolo della Terra avrà dominio completo sull’Isola di Gorm. Tutte le risorse, tutte le ricchezze, tutte le informazioni, saranno controllate e gestite e condivise equamente, senza intermediari che pensano ai propri interessi, da un unico potere centrale che avrà sede proprio qui. Il Popolo della Terra sarà la gente più ricca di tutta l’Isola. E chiunque di voi potrà avere posizioni di potere in questo nuovo stato, chiunque potrà diventare Signore e dominare l’Isola che io ho aiutato a conquistare. Se questo non vi basta, allora non so che cosa dire.”
Una proposta allettante che infiammò gran parte della moltitudine di gormiti. Gheos, d’altronde, non era interessato a dominare Gorm. Voleva solo che i Signori di Aria, Mare e Foresta così come li conosceva non esistessero più. E magari anche quelli del Vulcano, che non conosceva, ma che erano comunque sangue della stessa gente che circa trenta anni fa aveva sterminato i suoi antenati. Meritavano anche loro parte dell’odio di Gheos. Il dominio dell’intera Isola era solo un pretesto per avere l’appoggio del Popolo, in fondo però avere tutta Gorm nelle sue mani certo non sarebbe stata una brutta cosa.
“Io non ho altro da aggiungere. - terminò Gheos, tornando ad appoggiarsi al bordo - Siate liberi di appoggiarmi od oppormi. Io non mi ribellerò al vostro giudizio.”
Notando che una risposta chiara tardava ad arrivare, Gheos decise di ravvivare i suoi sudditi.
“Andiamo, Popolo della Terra! - esultò, alzando il suo martello, lucidato e luminoso al sole mattutino - Forza, datemi questa risposta! Siete con me o no?”
 
Lasciato il consigliere Gravitus a comando delle forze trattenute in difesa di Roscamar, della Città Sotterranea e della Valle dei Canyon, Gheos era partito, a metà Redrubise di quello stesso 851, con una flotta di navi da guerra verso Picco Aquila. La motivazione: la straordinaria scultura di Praconrem sulla cima di Picco Aquila era costata molto ai terricoli, e ancora i pagamenti non erano stati tutti retribuiti.
Dal momento che i terricoli erano stati spinti a operare in un ambiente freddo a cui non erano adatti e pericoloso, con grande fatica e anche qualche rara morte sul lavoro, era un pretesto più che valido, aggiunto ai pagamenti arretrati. Noctis potrebbe addirittura aver preveduto l’attacco.
Certo gli altri Signori si sarebbero aspettati che Gheos avesse attaccato il Popolo del Mare in reazione all’assalto al suo porto, tuttavia un’operazione offensiva al centro del Mare di Gorm era impegnativa e difficile da coordinare. Avanzare con l’esercito sulla striscia di terra che comprendeva Patmut Iun sarebbe stato rischioso poiché avrebbe potuto attirare il Popolo della Foresta, e non poteva affrontare due Popoli nello stesso momento. Gheos avrebbe stupito tutti con il suo attacco a Orsol.
La traversata dello Stretto di Gorm fu pacifica e regolare. Il Vecchio Saggio aveva alfine miglioratola capacità nautica dei gormiti e aggiornatili nella costruzione di navi. Non era un dominio del Popolo del Mare né di qualsiasi altro Popolo, così come i diversi piccoli atolli nel mezzo di esso.
Il viaggio con le navi da guerra durò poche ore, nelle quali la maggior parte delle forze terricole guardavano con timore e sfida il volto terrificante stampato sulla cima di Monte Vulcano. Se avevano davvero intenzione di prendere il comando dell’Isola di Gorm, sarebbero dovuti marciare anche nella Valle del Vulcano.
Ciò non era di importanza adesso.
Sbarcarono nel tratto di Foresta Silente nord - orientale, vicino ai piedi di Picco Aquila.
Gheos scese dalla sua nave, respirando profondamente l’aria della terra ferma e i profumi selvaggi del bosco. Aveva indosso solo la sua armatura dorsale, niente vesti di alcun tipo.
Dietro di lui le altre navi approdavano alla spiaggia, venivano ancorate e i ponti venivano stesi, permettendo a tutti i gormiti carichi di armi e corazze e alla cavalleria di salamandre di passare per la lunga marcia verso Orsol, la città vicino alle nuvole.
I gormiti erano davvero motivati a fare quella lotta, o così sembrava agli occhi di Gheos.
Oltre trent’anni passati in pace, monotonia, lavoro e timore per il Popolo del Vulcano che attendeva minaccioso tra le oscure fiamme del loro infernale monte, guidati dalla misteriosa figura dello Stregone di Fuoco.
Sembrava quasi che quel cambiamento così inatteso, quella scossa sociale, li avesse risvegliati da un lungo letargo, che fossero ora nuovamente vivi.
Gheos non poteva che esserne contento: un esercito motivato era un esercito che lo avrebbe portato alla vittoria.
Osservava sorridente e già vittorioso il sentiero aperto davanti a lui che lo portava direttamente alle pendici vere e proprie di Picco Aquila. Solo qualche migliaio di piedi lo separava da Noctis, il Signore dell’Aria, che si credeva sicuro sul suo freddo monte. Alzò lo sguardo verso il capo di falco completamente ricoperto di neve sulla cima del monte, frutto dell’ingegno aereo e del sudore terricolo.
“Mio Signore.” sentì un gormita. Gheos si voltò per incontrare la figura avvolta in armatura del generale del suo esercito.
“Attendiamo vostri ordini, Signore.” lo informò, mettendosi sull’attenti.
“Caricate le vesti pesanti sui carri.” gli ordinò, voltandosi nuovamente verso il sentiero tra gli alberi, con mano e martello dietro la schiena
“Noctis potrebbe non essere a Orsol. E dite a Rozen che assume il comando della guardia delle navi, e a Franius che è capitano della retroguardia.”
“Agli ordini, Signore.”
Il generale ritornò in prossimità della spiaggia, dove fece eseguire gli ordini di Gheos.
Quattro grossi carri trainati da un paio di salamandre ciascuno scesero dalle navi e si adagiarono cautamente sulla sabbia e poi sul terreno erboso più solido. Al loro interno armamenti, medicamenti, equipaggiamento vario, rifornimenti e le vesti pesanti che Gheos aveva detto di riporvi.
“L’esercito è pronto, mio Signore.” lo informò nuovamente il generale.
“Bene. Muoviamoci allora!” esclamò, dando un’occhiata alla sua legione e alzando il suo vigoroso martello al cielo. Tutti i gormiti alzarono le proprie armi e i propri pugni con grida di battaglia.
“Dopo di voi, generale.”
Il generale corazzato e Gheos in prima fila, fanteria al centro con cavalleria ai lati, per ultimi i carri di provviste e Rozen. Questo l’esercito preparato da Gheos che entrava nel sentiero verso la salita per Picco Aquila, mentre Franius e altri soldati rimanevano di guardia alle navi.
Il cammino lungo la salita verso Orsol, già percorso anni fa dal Vecchio Saggio, fu tranquillo e silenzioso.
Troppo silenzioso. Nessun gormita dell’Aria in vista, proprio niente. I terricoli furono cauti e sospettosi, guardandosi sempre attorno e procedendo lentamente. I gormiti aerei erano noti per essere periti cacciatori e quindi per il loro silenzio, la loro velocità, i loro attacchi sorpresa, la loro letalità e soprattutto la loro magia, cosa in cui i terricoli erano terribilmente scarsi, mentre il Popolo dell’Aria era il più avanzato di Gorm in quel campo.
Videro mentre si avvicinavano al centro cittadino le maestose case piene di ornamenti ed elaborate, cosa che provocò invidia nei cuori dei terricoli, celebri ed esperti artigiani e scultori. Non a caso furono scelti loro per il lavoro sulla cima di Picco Aquila.
“Non badateci. - si dicevano per rassicurarsi - Gli aerei fanno tutto con la magia. Non saranno mai ai nostri livelli lavorando con le proprie mani!”
Perlustrarono le case, e notarono con stupore che erano completamente vuote.
Nessun gormita dell’Aria incontrato fino a quel momento. Il che era davvero molto sospetto. L’esercito di Gheos era ormai nel bel mezzo del territorio di Noctis, se voleva tendergli una trappola perché aspettare ancora?
Gheos e il generale videro per primi l’entrata di Orsol e oltre di essa le grandi e numerose case, la sede del Signore con il corridoio di statue.
“Dove diamine sono tutti, per Krut?” strepitò esausto un soldato.
Appena egli parlò, una sfera magica sparata dall’ignoto ad alte velocità colpì il suolo dove si trovava il soldato e alzò all’aria lui, un suo compagno, terra e una salamandra. Ma furono sollevati in aria a rallentatore, come colpiti da stasi.
“Ecco, i gormiti dell’Aria!” urlò il generale, puntando il dito contro i diversi gormiti alati che fuoriuscivano dal corridoio e saltavano fuori volando dalle abitazioni.
“Avanti, avanti, avanti! All’attacco!”
Nessuna traccia di Noctis. E inoltre quei guerrieri erano davvero pochissimi.
“Ricordate, Popolo della Terra! - li avvisò Gheos, mentre soldati a piedi e su salamandre sciamavano ai suoi lati - Non uccideteli! Loro non hanno colpa. Fermateli, sconfiggeteli soltanto! Sperate che anche loro si comportino così, ma non abbiate troppa fiducia!”
Non ci fu bisogno dell’avvertimento del loro Signore. I gormiti, per quanto agguerriti dalla prospettiva del dominio su Gorm, non avevano cambiato le loro intenzioni iniziali di non provocare danno all’ambiente e ai loro amici.
Essi si contennero, limitandosi a bloccare i propri nemici, a ferirli senza provocar loro la morte o a stordirli.
L’esiguo numero di gormiti aerei lasciati a difendere Orsol fu tale che lo scontro terminò in meno di un’ora, con solo due morti.
Noctis non poteva essere visto da nessuna parte, e Gheos si innervosì parecchio.
I gormiti dell’Aria furono raccolti e trattati con un certo rispetto, curati e rifocillati con i rifornimenti della schiera avversaria, che essi certo non disdegnarono. Furono però piuttosto contrari al fatto che Gheos avesse strappato l’insegna del Popolo dell’Aria all’entrata della reggia del Signore e sostituitala con il simbolo della Terra.
Giunse presto il momento delle interrogazioni. Gheos era giunto per il Signore dell’Aria in carica, e non se ne sarebbe andato finché non l’avrebbe trovato.
“Perché siete rimasti così in pochi qui a Orsol?” domandò per l’ennesima volta, esigente, il generale.
Il capitano delle guardie di Orsol, seduto a terra con i polsi legati a un palo – una giusta precauzione - aveva un sorriso beota stampato sul viso, e la voglia di fare tutto fuorché rispondere cose sensate.
“Ci siamo mangiati gli altri, erano davvero buoni.” rispose, leccandosi il becco.
Il generale lo guardò arrabbiato.
“Dov’è Noctis?” chiese, ignorando la risposta di prima, ponendosi davanti a lui con le braccia tese.
“A fare quattro passi, immagino.” replicò distaccato.
Il generale prese il volto del gormita nella sua mano, guardandolo minaccioso.
“Nessuno vuole farvi del male, ma se non abbiamo delle risposte saremo costretti a farlo per ottenerle.”
Il capitano non disse niente, e continuava a sorridere anche con il mento stretto tra il guanto metallico del generale.
“Lasciatelo stare, generale.” si intromise Gheos, entrando nella tenda in cui il capitano era relegato.
“Mio Signore.” saltò sull’attenti il generale.
“Non siamo qui per lui, e non ci darà mai le risposte che cerchiamo, se non torturandolo. E io, e il mio Popolo in particolare, non voglio dare quest’immagine di me. Conosco qualcuno che ci dirà la verità senza fargli del male. In ogni caso, capitano, sappi che Orsol è ora dominio del Popolo della Terra.”
Il viso del capitano si corrucciò in un momento, ma mascherò quella sua preoccupazione tornando immediatamente al solito sorriso.
Gheos guidò il generale dalla parte opposta della città, dove iniziava un sentiero che portava più in alto sulla montagna.
Non sembrava esserci nulla che potesse dare risposte, ma poi il Signore della Terra si avvicinò a un arbusto con un insolito legno bianco.
“Buferios, svegliati!” vociò, scuotendo l’albero.
Un respiro profondo e accompagnato da un raccapricciante gemito provennero da una fessura nel tronco della pianta. Improvvisamente, due occhi blu come il cielo notturno si aprirono dal nulla.
Era un oracolo! Uno dei rarissimi oracoli del Popolo dell’Aria: i gormiti di tipo vegetale non erano i più comuni nel Popolo di volatili.
“Ascoltami, oracolo. - passò subito al sodo Gheos, senza attendere che l’oracolo esordisse con un classico discorso enigmatico - Dimmi: dov’è andato Noctis con il Popolo dell’Aria.”
“Ah, il Popolo dell’Aria. - mormorò con la voce rotta da continui sospiri - Non l’unica città di Picco Aquila Orsol è. La più grande, sì, ma molti altri ripiani e caverne su tutto il monte esistono, dove il resto del Popolo vive.”
“Ecco dove erano andati tutti.” commentò un terricolo in ascolto.
“Non mi interessa sapere dove abita il Popolo dell’Aria. - obiettò Gheos - Voglio sapere dov’è Noctis.”
“Noctis, ah, sì. - disse dopo un po’ - Noctis Signore dell’Aria, di qua è passato, per la strada che porta più in alto. Nei freddi rifugi della neve con molti gormiti si è diretto.”
Gheos sorrise.
“Ottimo - lo ringraziò - Ora puoi tornare al tuo eterno riposo, oracolo Buferios.”
L’oracolo chiuse subito gli occhi alle parole ‘eterno riposo’, e i suoi respiri pesanti svanirono ben presto.
“Abbiamo le nostre risposte, generale. Preparate l’esercito, i rifornimenti e gli abiti pesanti. Andremo nel posto più freddo di Gorm.” ordinò subito al suo subordinato.
“Aspettate, Signore! Possiamo davvero fidarci di…di Buferios?” dubitò il generale.
“Gli oracoli non mentono, generale. Dovreste saperlo.”
“Ma…ma abbiamo…non abbiamo informazioni sufficienti! Ha solo parlato di rifugi, mio Signore.” contestò ancora, non sentendosi sicuro.
“Non temete, generale, so dove andare.”
 
L’esercito con Gheos in testa si trovava ormai nei punti più alti e più gelidi di Picco Aquila. Il volto di Praconrem era vicinissimo ed enorme ai loro occhi.
Procedevano a fatica, imbottiti in grandi e spessi manti grigi e bruni, in una forte bufera, come pochi su tutta l’Isola avevano mai visto, impedendo di vedere bene ciò che si trovava vicino.
I piedi, i volti, tutto ciò che non era del tutto coperto dai panni era a stretto contatto con il ghiaccio e la neve, il cui freddo penetrava nella pelle e gelava il cuore e lo spirito. Molti di quei gormiti vedevano e sentivano la neve per la prima volta nella loro vita.
Avevano dovuto abbandonare molte delle salamandre in un punto meno elevato, inadatte a procedere sprofondando nella neve e in un ambiente così freddo e inospitale. I viveri e l’equipaggiamento dovevano essere portati in tasca e sulle spalle, poiché ovviamente i carri non potevano essere portati lì dove lo strato di neve era alto metà di un gormita medio.
Quella bufera di neve era estremamente forte, molto più forte di quanto Gheos e gli altri si erano mai immaginati o si ricordassero.
“Signore!” spolmonò con tutta la forza delle sue corde vocali il generale. La neve picchiettava dal cielo così prepotentemente che oltre alla vista anche l’udito veniva meno.
“Credete che questa bufera sia alimentata dai nemici? E’ troppo potente!”
“Tutto è possibile, generale!” urlò in risposta Gheos, ammantato in una grande veste di un marrone vivido come il legno maturo.
“Facciamoci forza! - cercò di incoraggiare il suo esercito - Siamo quasi arrivati!”
***
Noctis era convinto di essere al sicuro, in quel rifugio altissimo nella montagna, protetto dalle intemperie, dal freddo, dalle tempeste.
Qualsiasi cosa fosse successa, giù all’Arena di Astreg, lo aveva colpito meno degli altri. Se gli veniva alla mente Gheos, o Poivrons o Tasarau, non cominciava a ribollire di rabbia. Invece, gli venivano in mente degli scherzi e degli insulti unici che non vedeva l’ora di riversare sugli altri Signori.
Per Poivrons ideava delle offese più pesanti e provocatorie, però. Erano sempre stati competitivi, lui e il Signore del Mare, ma erano grandi amici.
Era un giovane gormita, da pochi anni maggiorenne, che era stato graziato con la Signoria per la sua simpatia e la sua spiccata generosità, che lo portò a fare molte opere buone per la sua gente.
Tuttavia era, come già detto, giovane e un po’ inesperto. La sua simpatia a volte esagerava, e lo conduceva ad attuare scherzi e giochi un po’ a tutti, anche quando divenne Signore.
Noctis esaminò la moltitudine che aveva portato con sé in quel rifugio. Erano tutti gormiti della capitale Orsol, più che altro gente civile senza importanti capacità in combattimento – sebbene se confrontati con altre razze noi gormiti siamo comunque abili nella lotta, qualsiasi fosse la nostra preparazione.
Non sarebbero stati al sicuro per sempre in quella grotta tra le nevi, e i rifornimenti si sarebbero presto esauriti. Noctis tuttavia aveva un piano, che aveva puntualmente esposto ai cittadini di Orsol, e si erano trovati d’accordo.
Ora doveva semplicemente aspettare, aspettare…
Tum
Un rimbombo metallico di origini sconosciute, che riecheggiò per l’intero antro, facendo tremare i più giovani e le donne.
Tum. Tum.
Lo stesso rimbombo. Un oggetto, forse più, che ne colpisce un altro con forza.
Tum. Tum.
Sembrava ora chiaro quale fosse la fonte del rumore. L’enorme porta di metallo che chiudeva la grotta e che proteggeva i suoi inquilini dalla neve tremava e i grossi cardini stridevano e cigolavano.
Sferrati con forza inimmaginabile, colpi di diversa origine avevano lasciato dei segni nitidi sulla porta.
Tum. Tum. Tum.
Un’altra serie di attacchi, tutti che lasciavano un’impronta diversa e infossata. Un vigoroso colpo di forza magico sradicò entrambe le ante della porta dai cardini, gettandole in aria e sulla popolazione.
Gheos e il suo esercito erano arrivati, avevano trovato e fatto breccia nel rifugio di Noctis.
I suoi guerrieri agirono come ad Orsol: contenendosi e prendendo prigionieri, evitando le morti. Con grande sorpresa, i pochi combattenti di un certo livello di quella gente lottavano allo stesso modo.
Gheos aveva occhi solo per Noctis. Finalmente lo aveva trovato, ed ora nulla lo avrebbe fermato dal mostrare tutta la sua furia.
Cominciò a correre verso la figura alata, vestita di grigio e coperta da una corazza lucida e levigata color platino, col becco difeso da un ornamento dorato. Noctis si alzò in volo.
Gheos gli era ormai a pochi passi. Noctis non dava segni di voler combattere.
“Ehi, Gheos! - esordì - Indovina cosa - ”
Non finì la frase che Gheos sferrò un potente colpo del suo martello alle gambe penzolanti del Signore dell’Aria, facendolo cadere sulla dura roccia.
E dunque Gheos cominciò ad attirare sulla sua mano una serie di pietre di piccole dimensioni, che cominciò a lanciare con forza sul corpo atterrato di Noctis.
Noctis fu lapidato dalla maggior parte di essi, cercando di evitarne il più possibile con dei cuscinetti d’aria e provando ad alzarsi.
Gheos terminò poi di lanciare sassi, e avanzò lento e inesorabile verso il Signore piumato azzurro.
Questi si alzò a fatica, minacciando di cascare mentre si reggeva sulle gambe.
Vide la figura guerresca e portatrice di morte di Gheos avvicinarglisi, col martello pronto a picchiare.
“Ehi, senti, ehi! Possiamo parlarne!” tentò di calmarlo, con una mano in avanti.
Subito Gheos gli inferse un pugno nello stomaco, e poi un colpo di martello alla tempia.
Noctis rovinò a terra, con il sangue che gli colava dal becco.
Gheos aveva vinto sul Signore dell’Aria. Un passo in avanti verso la sua vittoria, e il ritrovamento finale della pace interiore della sua mente, che non faceva altro che farlo pensare a sbarazzarsi di tutti i Signori che nella Piana di Astreg lo avevano offeso e minacciato.
Alzò Noctis per un braccio, e se lo portò con sé su un rialzo, ben visibile da tutti.
“Noctis è morto!” annunciò trionfale, mostrando il corpo inerme, con la corazza e la veste crepata e sgualcita, del giovane Signore dell’Aria.
Il modesto fermento di paura e di tentativo di difesa e di espulsione dei nemici da parte del Popolo dell’Aria si spense, e tutte e due le fazioni presenti si arrestarono, per osservare il bottino di guerra di Gheos.
Noctis, col becco spalancato e rosso, giaceva penzoloni dalla mano di Gheos.
“Noctis…è morto! - ripeté, agitando il cadavere. - Con la sua morte, il Popolo dell’Aria è stato sconfitto, e io, Gheos Signore della Terra, ne assumo il comando!”
***
Il gormita con una lunga frusta verde al posto del braccio destro procedeva silenzioso per il bosco, nascosto tra le fronde e mimetizzato con l’aiuto della sua armatura in tema.
Il suo elmo, che gli lasciava il volto scoperto dalla fronte in giù mostrando bene i sottili e penetranti occhi verde limone, era dipinto del color dell’erba e delle foglie.
Il petto e le spalle erano coperte e protette da un armamento verde oliva sagomato come due larghe foglie dal contorno seghettato, che si prolungavano ben oltre le spalle.
Una simile armatura era presente sulle gambe e ai piedi, che sembravano avvolti in numerose foglie dentellate ben aderenti e perfettamente lisce, senza increspature.
La sua pelle era marroncino chiaro, abbastanza acceso. Sul ventre erano in risalto gli addominali giallo foglia.
L’altro braccio, che presentava una mano a cinque dita, era parzialmente protetto da un guanto bruno scuro.
Non era il solo ad avanzare cauto e producendo il minimo rumore per le frasche e la corteccia della Foresta Silente. Dietro di lui numerosi altri gormiti della Foresta che seguivano i suoi ordini e si muovevano agili e muti da un albero all’altro, mimetizzandosi perfettamente e guardandosi ad ogni lato per accertarsi della presenza o meno dei nemici.
Al segnale di via libera e al segno della loro guida, tutti i gormiti presenti procedettero fuori dai loro ripari di legno, all’interno di una minuta radura baciata dal cielo azzurro, dove gli alberi crescevano meno, ma era completamente attorniata dagli altri giganti di legno e foglie.
Vi era un grande masso presso il centro della radura, leggermente addentrato nel terreno più folto di alberi, ricoperto di erba, muschio e licheni giallognoli e ramati.
Quello non era un semplice grosso sasso. Era molto di più, e quel gruppo di infiltratori gormitici aveva ottenuto informazioni attendibili a riguardo, e ordini precisi.
Il gormita con l’elmo verde e la grossa lunga liana diede un cenno inclinando il capo all’esperto di magia del gruppo, che subito annuì e si appostò davanti al macigno, tastandolo con cura, alla ricerca di qualche fessura.
“Rimani guardingo finché non è aperto.” sussurrò la guida a uno dei suoi, che obbedì all’ordine senza discutere e prese a camminare con fare circospetto attorno al macigno, un arco pronto nella mano, attento a qualsiasi movimento tra gli alberi.
La guida e l’arciere e il resto del gruppo non dovettero aspettare troppo prima che il mago riuscì nel suo intento.
Dall’enorme masso ricoperto d’erba una lastra di pietra grossa poco più delle dimensioni di un gormita medio si separò dal resto della roccia, ‘uscendone’, rivelando un’apertura abbastanza grande per un gormita.
Il mago spostò quindi la lastra di lato, scoprendo completamente l’entrata di quello strano luogo.
“Statemi dietro. - sussurrò la guida con la frusta indirizzandosi verso la ‘porta’ - Arciere, tu rimani fuori e ci avvisi se ci sono pericoli.” gli ordinò passandogli a fianco.
Uno dopo l’altro, i gormiti infiltratori della Foresta furono tutti all’interno del macigno, anche se forse erano più sotto di esso che dentro.
Nella grossa pietra le pareti erano ricoperte di terra marrone e fresca, e un breve passaggio conduceva a un’ennesima apertura, coperta da un masso dall’altra parte, una zona sotterranea più vasta.
Camminarono per il corto sentiero in discesa e rimossero velocemente il masso che gli impediva di proseguire.
Non appena tolsero di mezzo il macigno, si videro davanti due gormiti marini con tridenti stretti alle mani, e uno sguardo sbigottito che subito si tramutò in teso e carico di nervosismo. Strinsero ancor di più i loro tridenti, pronti a puntarli contro gli aggressori, ma questi furono più rapidi ed avevano tutte le loro armi, archi, lance, spade già dirette alle due guardie del Mare.
“Gettate le armi. - comandò la guida con l’elmo verde - Non vogliamo far del male a nessuno.”
Con decine di lame puntate contro di loro, le due guardie abbandonarono i loro tridenti e misero le mani bene in vista.
“Mago, procedi.” disse poi con un cenno al compagno stregone. Questi avanzò tra il gruppo, prese le mani di entrambi i gormiti marini e gli furono legate dietro la schiena in due bracciali luminosi.
Furono lasciate, incapaci di usare magie o poteri con le mani bloccate, lì all’entrata, mentre il gruppo di forestali proseguiva.
Davanti a loro si stagliavano una serie di stretti e alti cunicoli, che tutti i presenti sapevano essere frequentati da diversi gormiti, che ancora non sembravano essersi accorti del loro arrivo.
La guida separò il gruppo in piccole squadre che indirizzò verso ciascun cunicolo.
Ella stessa, con tre del suo gruppo, si immise nel primo cunicolo sulla destra.
Alle pareti del cunicolo erano incise scritte antiche di millenni, che venivano spolverate, rivisitate e studiate ogni giorno.
Diversi gormiti erano lì presenti, gormiti di ogni Popolo tranne quello del Vulcano, che guardavano sorpresi e turbati l’intrusione di gormiti armati in quel luogo occulto e riservato.
Nonostante la guerra fosse ormai ufficiale da qualche giorno, gormiti da ogni dove di Gorm continuavano a frequentare quel tempio.
“Fermi dove siete, tutti! - vociò il capo, con la frusta minacciosa e rigida in avanti – Oggi 44 Tealse 851 Patmut Iun è occupata dal Popolo della Foresta. - emanò - Che tutti i gormiti non della Foresta abbandonino ogni desiderio di attacco e procedano dinanzi a me.”
“Questo è un oltraggio!” gridò un gormita terricolo, pronto all’attacco, innervosito e con i muscoli tutti tesi. Cominciò ad avanzare verso il capitano armato di frusta, desideroso di punirlo per quell’azione così ignobile, se non ché prima che quello potesse rendersene conto o immaginarselo, la guida era già dietro di lui e gli stringeva le mani in una morsa dolorosa della sua frusta.
“Non opponete resistenza, vi prego. - consigliò con tono sincero il capitano - Noi non vogliamo ferire nessuno, non attaccheremo nessuno se voi non ci attaccate.”
Tutti gli occupanti terricoli, marini e aerei di Patmut Iun furono guidati con le armi all’estremità del tempio sotterraneo, dove si alzava il ripiano con il grande telescopio, e legati con i bracciali magici. “Che cosa significa tutto questo, Dachiel? - domandò furibondo un gormita della Foresta - E’ un’azione davvero riprovevole, che non piacerà a nessuno. E mi stupisco sia piaciuta a te.” lo rimproverò con sguardo truce e contrariato.
“Ordini dall’alto. - rispose il capitano, togliendosi di dosso l’elmo verde, e muovendosi verso una parete delle profezie - Il Signore Tasarau ha ritenuto opportuno recludere Patmut Iun.”
“Chi è quel bastardo che ha rivelato la posizione di Patmut Iun?” ringhiò un aereo, che invano si dimenava cercando di togliersi i bracciali.
“La colpa non è di nessuno. - ribatté tranquillo Dachiel - Se avete davvero bisogno di incolpare qualcuno, incolpate Tasarau. Ma non credo sia una buona idea.”
“La pagherete per questo!” minacciò uno dei gormiti relegati.
“Ha ragione. - concordò lo stesso forestale - E’ una cosa che non andava fatta.”
“Io eseguo gli ordini.” replicò secco, e non parlò più, intento a leggere le profezie.
***
Era quasi sera nella Foresta Silente, e l’astro del giorno aveva quasi terminato il suo ciclo quotidiano su Gorm, e l’ombra cominciava a divorare lentamente il manto di alberi di Dalarlànd.
Sotto al cielo che cominciava a riempirsi di stelle e a mostrare le sue lune, il capitano Dachiel camminava verso un grande albero, davanti a sé, molto più alto di quelli vicini ma di certo non il più maestoso della Foresta.
Quell’albero era tuttavia diverso dagli altri.
Dachiel sopraggiunse ai suoi piedi e senza fretta si mise a salire la scala di pioli montata lungo il suo tronco.
Tra i rami più massicci del grande albero vi era costruita una modesta capanna di legno e frasche, la sede da cui il Signore della Foresta gestiva la sua guerra.
Dachiel bussò alla porta, annunciando a gran voce: “Capitano Dachiel a rapporto,”
La voce burbera di Tasarau proruppe dall’interno dell’edificio inducendolo ad entrare.
Il Signore della Foresta era seduto dietro a un grosso tavolo, pieno di fogli, che Tasarau scribacchiava e riordinava usando tutti i suoi quattro arti superiori. Il suo unico occhio giallo era in continuo movimento, scrutando un foglio e l’altro.
“Capitano Dachiel!” lo salutò infine, impilando un ultimo pacchetto di fogli e alzandosi in piedi. Dachiel abbozzò un inchino. Il volto di Tasarau era speranzoso e ansioso di notizie.
“E’ proceduta bene la missione a Patmut Iun?” domandò.
“E’ andata eccelsamente, mio Signore. - rispose, con le braccia dietro la schiena, dritto e rigido  - Abbiamo trovato il Museo della Ricerca Storica, neutralizzato gli occupanti e occupatolo a vostro nome, mio Signore.”
“Ottimo! E dei gormiti cosa avete fatto?” domandò nuovamente, con un volto sorridente
“Li abbiamo spediti a casa, come ci avevate ordinato.” rispose prontamente Dachiel, immobile.
“E’ stata l’azione migliore che potessi fare.” commentò Tasarau quasi per difendersi, portando entrambe le paia di braccia dietro la schiena e voltando le spalle al suo capitano, scrutando il muro di legno.
“Indubbiamente la cosa farà scalpore e quei gormiti informeranno tutta l’Isola dell’accaduto, ma è stata un’azione necessaria. Quel tempio è ricolmo di informazioni antiche e anche segrete che non possiamo permettere cadono in mano nemica. E oltretutto il culto delle profezie è…”
Si girò nuovamente verso Dachiel, immobile e attento ai comandi del suo supremo comandante.
“Hai anche analizzato le profezie, capitano?”
“Quello che ho potuto, mio Signore.”
“E che cosa hai scoperto riguardo ciò che sta succedendo?” chiese avido Tasarau.
“Cose di poca rilevanza. Mai prima si era scatenata una guerra come questa, una battaglia tra gormiti è successa solo secoli fa e in circostanze diverse. Però….” Dachiel si fermò e guardò in basso, incerto.
“Però? - ripeté Tasarau, ansioso - Però cosa? Cos’hai trovato?”
“Mio Signore, non so se questa informazione sia davvero utile. Però, quella battaglia era stata conclusa pacificamente, con una sfida nell’Arena, e in quel giorno, c’era scritto, c’era stata un’eclissi.”
Tasarau si ammutolì, pensoso. Era da sempre stato un grande appassionato e cultore delle profezie, e qualsiasi cosa fosse stato scritto e rivisitato riguardo il passato poteva ripetersi ancora, e lui l’avrebbe saputo.
“Indagherò personalmente su questa nota. - dispose infine Tasarau - Capitano, riposo. Vai a riposarti. Molto probabilmente domani avremo compagnia.”
“Mio Signore.” lo salutò con un inchino prima di uscire dalla porta.
Tasarau guardò fuori dalla finestra, pensieroso.
Quando aveva stabilito di ‘invadere’ Patmut Iun credeva di agire nel massimo del bene e del rispetto. D’altra parte il Museo si trovava più nel territorio della Foresta che in quello del Mare, a cui la tradizione soleva far appartenere il tempio delle profezie.
Ma quasi subito giunsero i ripensamenti sulla correttezza di quel gesto e delle ripercussioni che avrebbe generato. Patmut Iun apparteneva a tutti e nessuno sull’Isola di Gorm sarebbe stato soddisfatto se le informazioni trascritte dagli antenati, dai parenti o dagli amici di ogni Popolo venissero recluse a uno solo.
Forse aveva sostenuto quella missione per il solo piacere di avere il tempio di Patmut Iun tutto per sé, o semplicemente per attirare su di sé l’ira di Poivrons, effettivo proprietario del Museo della Ricerca Storica.
Già, Poivrons. Al solo pensiero del Signore nemico strinse tutti i propri pugni con foga, con un’inspiegabile rancore e rabbia verso di lui, e verso anche Gheos.
Si calmò subito, cercando di darsi una spiegazione a quella strana avversione nei loro confronti. Con Noctis, nell’Arena, Tasarau aveva agito in quel modo per il solo fatto che Noctis si era comportato in maniera arrogante. E lì era giustificato, anche se aveva reagito abbastanza impulsivamente, cosa che non faceva spesso. Ma non riusciva a spiegarsi il rancore verso gli altri due, e nello stesso tempo era incapace di reprimerlo.
***
Poivrons avanzava a passo di marcia nel suolo sempre più verde e sempre più pieno di alberi.
Dietro di lui un numeroso esercito, pronto a seguirlo e a obbedirgli. Avevano una motivazione in più: riprendersi Patmut Iun, loro di diritto.
Più che di diritto di tradizione, ed erano in pochi a voler riconquistare Patmut Iun come dono fatto al Popolo del Mare dalle divinità.
Poivrons era quasi del tutto ricoperto da un’aderente e spessa corazza blu notte, tutta ricoperta di incisioni recanti i simboli più significativi del Popolo del Mare e frasi di importanti condottieri e motti. Solo il capo molle da piovra era scoperto, e anche laddove l’armatura avrebbe lasciato vulnerabili parti di pelle vi era una cotta di maglia a compensare la mancanza. Non aveva armi.
“State attenti a dove mettete i piedi. - sussurrava Poivrons ai suoi soldati - La Foresta fuori dai sentieri è piena di trappole per animali in cui è facile cadere, e ora che siamo in guerra sarà ancora più piena.”
“La tua conoscenza dei miei territori mi sorprende, Poivrons.” proruppe dunque Tasarau fuoriuscendo dal verde insieme a due suoi sudditi, e molti altri si appropinquavano ad ogni lato.
Il Signore della Foresta era difeso da un’armatura meno completa. Solo gli avambracci e gli stinchi erano coperti da corazzature metalliche, scure, dipinte molto approssimativamente di pittura verde, quasi il fabbro o chiunque vi avesse lavorato avesse usato degli acquerelli. L’elmo appuntito era argentato e aveva la vaga forma di un fiore. I due tronchi sul suo petto erano stati dipinti con due spirali rosse.
“Tasarau, hai commesso un grosso errore prendendoti Patmut Iun. - lo accusò con l’indice Poivrons  - Esso appartiene a noi, appartiene a tutti i gormiti, ma è nostro.”
“Vostro? - rise Tasarau - E chi lo dice? Il dio Patmut? Il vostro cosiddetto diritto di proprietà su Patmut Iun è infondato. Oltretutto, tu e gli altri Popoli fareste sicuramente un cattivo uso delle profezie, senza contare delle innumerevoli informazioni contenute negli annali.”
“La tua mancanza di fede è disdicevole per un gormita anziano e rispettabile come te. - lo criticò il Signore del Mare - Su che base giudichi il nostro utilizzo delle profezie sbagliato? Siamo stati noi a insegnare a voi tutti lo studio del cielo e della terra, non dimenticatelo! E che diritto hai tu di impossessarti delle informazioni sul conto del mio Popolo?”
“Un diritto ben più fondato del vostro. Patmut Iun è davvero molto lontana dalla città del Bazaar, è in pieno territorio della Foresta, oserei dire. Un dominio marino così addentrato nel mio sarebbe pericoloso.”
“Te lo dico io cosa è pericoloso! - lo minacciò Poivrons guardandolo in cagnesco - La Zanna del Demone Marino!”
Poivrons raccolse le mani sul fianco destro, come se stesse trattenendo una palla. Nello spazio tra un palmo e un altro si generò una sfera d’acqua, acqua molto concentrata.
Indirizzando poi entrambe le mani in avanti, con le braccia tese, la sfera si ruppe e generò un getto potente e rapido di acqua, che si riversò su Tasarau, mandandolo gambe all’aria contro un albero.
“Gormiti! Alle armi! Alle armi! - gridava Tasarau, ancora sottosopra - E ricordate di non uccidere, se possibile, e lasciate a me Poivrons!”
Gli eserciti di Foresta e Mare uscirono entrambi allo scoperto e si scontrarono, combattendo per i loro Signori e il dominio su Gorm. Ciò che Gheos aveva promesso al suo Popolo sembrava essere stato raccomandato anche dagli altri Signori. Un fatto alquanto bizzarro.
“Senza uccidere, Tasarau? - commentò Poivrons, sarcastico - Stai forse cercando di imitare la mia nobiltà?”
“Puah! - sputò Tasarau, rialzatosi - Non ho niente da copiare da te. Ho tutto ciò che hai tu, e anche di più.”
“A parte la tua puzza.” disse poi con un sorriso malizioso.
Poivrons sembrò sconcertato da tale commento e si diede una rapida e abbastanza comica annusata, nel mezzo del campo di battaglia.
“Ma se so tutto di trefoliea!”
Il Signore del Mare fu poi investito da quattro getti di spine sparati dai palmi di Tasarau. Il colpo non fu comunque molto dannoso, e Poivrons si riparò la faccia con uno scudo d’acqua.
“La tecnica dello Stopselregn? - commentò ridendo Poivrons, annullando lo scudo d’acqua, che gli bagnò i piedi e il suolo sotto di essi - Credi davvero che delle spine possano farmi qualcosa?”
“Sì, se ti colpisco bene e nel punto giusto. - fu la replica sicura di Tasarau - Anche se dovessi battermi, Poivrons, ricordati che sei nel mezzo del mio dominio. - lo ammonì - Come potresti vincere?”
“Gheos c’è riuscito. - controbatté il Signore del Mare - Non vedo perché io non dovrei.”
Tasarau si fece furioso in volto. “Perché Noctis non era forte quanto me!”
Poivrons caricò nuovamente la sua Zanna del Demone Marino, ma al momento dello sparo questa andò a vuoto contro un tronco.
Poivrons si ritrovò il Signore della Foresta al suo lato, che presto cominciò a pestarlo di pugni e graffi e gomitate con tutte le sue quattro mani, che sembravano non procurargli male a contatto col metallo dell’armatura, che arrivò a piegarsi e a strapparsi addirittura in certi punti, nel dolore generale di cui era ora succube Poivrons.

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Capitolo 15
*** Capitolo 7.3 ***


Altrove, nella Foresta Silente, non molto lontano dal fulcro della lotta tra Foresta e Mare per Patmut Iun, qualcun altro metteva in atto i suoi piani, piani da lui stesso progettati e dai suoi superiori approvati.
In quella regione della Foresta, sovrastata dall’Albero Maestro, il grande fusto con la casa sull’albero dove risiedeva il Signore della Foresta in tempi di guerra, erano stati portati via nella lotta tutti i gormiti soldati e stregoni, e rimanevano ora solo quei gormiti né civili né militari che non partecipavano allo scontro: medici, fabbri, operai di vario genere, insieme a pochi guardiani.
Nessuno di loro poteva immaginare che, mentre gli eserciti di Poivrons e del loro capo Tasarau infiammavano il bosco verso sud, qualche altro nemico, privo di scrupoli, avrebbe potuto portare a compimento il suo malvagio piano.
L’ennesimo forestale cadde a terra, sfiancato e lacerato dalle taglienti unghie del nemico.
“Non opporre troppa resistenza, no, no no, o le conseguenze saranno peggiori, sì sì.” lo ammoniva con voce maligna e stridula l’avversario.
“La tua mente è debole, sììì, ora…sei…mio!”
Il forestale smise di dimenarsi e di guaire e, con una mano rivolta al cielo, roteò gli occhi e svenne.
Il nemico prese dunque in spalla il gormita, fece pochi passi e lo accatastò su altre decine di corpi, tutti forestali svenuti e qualche volta feriti, che aveva mietuto e fatto suoi con i poteri della mente.
“Ah, sì, il piano procede bene!” si diceva, autocompiacendosi e sfregandosi le mani maniacalmente “Lavion e Magmion saranno moooolto contenti! Tanti operai per le miniere, sì, e molti più soldati da schierare! Questo piano funzionerà, sì!”
***
Intanto un gormita forestale vegetale bruno, con il corpo che sembrava essere composto da una moltitudine di corde e una foglia gialla gonfia come testa correva per la Foresta Silente, diretto verso i confini della selva con la città del Bazaar.
Aveva saputo che, a seguito dell’occupazione di Patmut Iun da parte di Tasarau, il Popolo del Mare di Poivrons era giunto nel territorio forestale per riprenderselo.
Un’occasione da non perdere, dunque. Picchiatore si trovava quasi all’opposto del luogo, ed era da molto che non metteva un po’ in allenamento –vero allenamento - i muscoli e le sue tecniche di combattimento.
Non che l’idea di scontrarsi contro gormiti che dovrebbero essere suoi amici lo attirasse poi così tanto, ma a una lotta non si rinuncia mai.
Il suo mentore Paludis lo aveva allevato bene, in quel campo.
Aveva sin da piccolo dimostrato una certa attrazione verso lo scontro e una impressionante maestria dei poteri elementali e delle tecniche di combattimento, tali da indurre Paludis il Saggio e il superstite, che si rivedeva nel giovane forestale, a prenderlo con sé e addestrarlo come meglio poteva. Paludis lo aveva ovviamente imbottito di dati esagerati riguardo la malvagità e la cattiveria dei gormiti del Vulcano e di come queste qualità dovessero esser loro ritornate per le loro terribile azioni, ma Zetsel si era moderato. Oltretutto, cosa che Paludis gli criticò sempre, non voleva usare quasi mai i poteri dell’elemento Foresta.
“Per rispetto di quelle razze come gli elfi, - diceva - che non hanno alcun tipo di potere.”
Il suo maestro non era d’accordo. Quelle abilità erano un dono da perseguire ed allenare, non da nascondere.
Paludis fu inoltre abbastanza scontento del fatto che Zetsel avesse perso il Torneo dei Combattimenti arrendendosi.
“Non eri ancora al tuo limite. - aveva detto - Potevi ancora farcela. Ce l’avresti fatta molto più facilmente contro tutti se avessi usato i tuoi poteri.”
“Io sarei stato capace di sconfiggere tutti i partecipanti, e anche tu.” diceva anche.
Ma il Picchiatore era ugualmente contento del risultato ottenuto ad Astreg. Le guerra, invece, quella non l’aveva reso contento. Non riusciva a capirla. Certamente ‘Un’occasione in più per scontrarsi con il Popolo del Vulcano e per vedere come ti comporterai contro di loro’ aveva affermato Paludis.
Sebbene Zetsel desiderasse combattere contro un vulcanico, quella voglia non era spinta da sete di vendetta come per il mentore, ma semplicemente per sapere come agivano in combattimento.
Nella corsa, si ritrovò dunque presso l’accampamento dell’Albero Maestro, e si rinfrescò del lungo cammino presso la fontana del campo.
L’acqua gli scorse sulla faccia, lungo le braccia nodose, lungo la schiena, e gli diede sollievo dalla fatica, pronto a riprendere il suo rapido cammino per raggiungere il luogo dello scontro e dare il suo appoggio prima che terminasse, magari con la vittoria del nemico.
Anche se Zetsel aveva indubbiamente una resistenza alla fatica importante, gli sarebbe giovato trovarsi nel mezzo della battaglia al pieno delle sue potenzialità.
Decise quindi di chiedere in giro una borraccia per l’acqua, magari già piena, e qualche piccola scorta di cibo.
Ma l’accampamento gli sembrò vuoto. Non c’era anima viva in giro.
Non si aspettava di trovare l’accampamento pieno zeppo di gente quando poco più a sud la lotta infuriava, ma nemmeno di ritrovarsi in un campo fantasma.
Tutte le tende e le capanne improvvisate erano vuote. Alcune avevano addirittura dei fuochi ancora accesi, libri aperti, pasti non terminati. Come se tutti se ne fossero andati in fretta e furia o qualcuno se li fosse portati via.
Una situazione che avrebbe fatto accapponare la pelle a un qualsiasi gormita di cuore più debole, ma non il Picchiatore.
Forse non c’era davvero nulla di cui preoccuparsi: la battaglia era incominciata e tutti erano semplicemente accorsi a fare la loro parte. Ma procedendo per l’accampamento fantasma, vide un gormita morto per terra. Non era un suo amico o un suo conoscente, ma la vista del fratello deceduto lo rattristò comunque. Si abbassò a dargli un’occhiata più da vicino. La linfa giallo - verde, ormai rinsecchita, aveva bagnato tutta la terra e l’erba attorno a lui. Lo capovolse. Un grosso squarcio gli perforava il petto, dove i vegetali hanno il loro ‘cuore’. Notò altri graffi sulle braccia e suoi fianchi e, cosa che lo scosse, indiscutibili segni di bruciatura.
Un incidente con del fuoco? Impossibile. Doveva esserci qualcuno del Vulcano nei dintorni, che aveva fatto piazza pulita dei gormiti accampati e ucciso quello. Ma perché solo quel cadavere era in vista? Dov’erano tutti gli altri?
“Ha mostrato troppa resistenza, sì. - udì una voce provenire da poco distante - Una mente troppo forte, e il corpo non era da meno. Ma io ho numerose armi, sì. Ed eccolo lì.”
Era chiaramente un gormita vulcanico, fiero su una catasta di legna. Aveva un corpo smilzo, molto magro, in cui sia le ossa che i muscoli mediamente sviluppati erano ben visibili, tutto ricoperto di pelo rosso. La sua testa sembrava quella di un tapiro, schiacciata con un naso più aquilino, e i suoi occhi erano felini e gialli. Sopra il capo, una piastra ossea puntellata di minuscoli aculei con una punta lungo il naso. Una simile corazza era presente anche sulle spalle e sugli stinchi. Gli avambracci e le mani erano armati di un paio di guanti dorati terminanti in lame sulle punte delle dita.
“Chi sei tu?” domandò il Picchiatore, mettendosi in posizione combattiva.
“Alcuni mi chiamano Strappapensieri. - rispose - Ma non ti servirà a nulla saperlo. Le miniere di Sangor ti aspettano, e se non saranno loro, sarà la morte!”
Il vulcanico saltò giù dalla catasta con delle fiamme accese nelle proprie mani che sparò e unì in una sola, diretta a Zetsel. Egli evitò facilmente il colpo infuocato, mentre Strappapensieri atterrava e si avvicinava offensivo verso il forestale agitando le lame dei suoi guanti.
Zetsel schivò sapientemente i fendenti degli artigli, indietreggiando continuamente e aspettando il momento giusto per contrattaccare, ma poi Maginiu lo colpì con un lapillo infuocato sulla mano.
Il Picchiatore si disperò per un secondo, cercando di spegnere le fiamme sulla sua mano dimenandosi con colpi dell’altra mano.
Quando fu al sicuro al fuoco – e l’avversario non aveva sferrato altri attacchi - sentì Strappapensieri attaccare violentemente la sua mente, con una forza davvero imponente.
Ma ciò che Zetsel sentì nella sua mente era poco più che un formicolio, che gli recava ben poco fastidio e che sarebbe stato facilissimo respingere.
L’allenamento e l’addestramento di Paludis erano stati completi: non solo aveva un fisico davvero potente, ma anche una mente robusta. L’unica mancanza era l’abilità con la magia, ma forse è una fortuna: se fosse stato anche un sapiente stregone, sarebbe stato un gormita davvero pericoloso.
“Ah, una mente davvero…forte! - commentò con la sua solita vocina Maginiu, camuffando il suo turbamento - Allora sembra che non mi resti che eliminarti, sì!”
Caricò e lanciò il braccio destro teso, con tutte e tre le lame del guanto dritte e rigide, verso il Picchiatore.
Questi riuscì a schivare anche questo colpo, e il prossimo dall’altro braccio. Con il petto e l’addome di Maginiu liberi dalla difesa delle braccia, ne approfittò per dare un pugno nello stomaco al vulcanico, che indietreggiò, e poi un calcio rotante dritto in faccia.
Avvalendosi del suo temporaneo stordimento, gli corse alle spalle e gli bloccò le braccia con le proprie, stringendole forte.
“Gak!” gracchiò Maginiu, immobilizzato.
“Dimmi chi ti manda, e che cosa fai qui.” gli ordinò imperioso Picchiatore.
“Io…io non parlerò, no!” ostinò il vulcanico. Tentò quindi di togliersi dalla presa di Zetsel con testate – tutte a vuoto - e calci, che non infastidirono granché il forestale.
“Paludis mi ha detto di essere senza pietà con voi. - affermò - Ringrazia che sarò crudele la metà di lui.”
Sciolse la presa e prima che potesse reagire gli strinse forte il collo e lo lanciò lontano, vicino alla mucchia di legname da cui era partito.
Picchiatore esercitò il suo controllo sul legno per gettare ogni singolo ciocco e ramo della catasta su Maginiu, che ne fu investito e ben presto sommerso senza potersi difendere.
Affondato Maginiu nella legna, il Picchiatore la rimosse tutta d’un colpo con un possente gesto delle braccia, prese la rincorsa e si gettò con tutta la sua forza sul ventre del nemico.
Per prima cosa, gli sfilò i guanti, pericolosi, e poi gli diede pugni e schiaffi sul viso a non finire finché questo non fu rosso, rosso di sangue.
Lo fece alzare, a malapena capace di sorreggersi, e gli sferrò un pugno sotto il mento che lo fece capovolgere e cadere all’indietro.
Di nuovo lo tirò in piedi, e questa volta si appostò alle sue spalle. Gli prese entrambi i polsi e gli piegò le braccia dietro la schiena, in una stretta dolorosa.
“Allora, vuoi dirmi chi diavolo ti manda e perché, adesso?”
“Ah, sì, sì! Tutto, dirò tutto! Parlerò, parlerò! Canterò!” strillava e piangeva, ravvivato dal dolore alle braccia.
“E comincia, allora.”
“Ah, è…è stata una mia idea! Con…con l’esercito impegnato a sud, ho…ho pensato di stordire i gormiti qui, con - con le menti deboli per portarli a Vulcano e - e usarli come operai nelle miniere, così…così avremmo avuto più soldati da piazzare! I miei Signori hanno approvato! Questo è tutto! E’ tutto!”
“Un piano davvero stravagante, ma interessante. - commentò Picchiatore - Direi che può bastare.” disse poi, allentando la presa ma attento ad ogni movimento del nemico.
“Però non posso lasciarti andare, e non me la sento di ucciderti.”
***
La vittoria del Popolo della Terra di Gheos sul Popolo dell’Aria era stata decisiva, e l’episodio più importante di quei primi momenti della guerra.
Il Popolo di Gheos si prospettava come il più abile e il più potente: nessun altro Popolo sarebbe stato capace di attraversare i sentieri freddi e tormentati della neve di Picco Aquila e ora tutti i domini degli aerei erano ora suoi, così come gli stessi gormiti.
Il Popolo dell’Aria era ufficialmente fuori dalla competizione: aveva perso, era stato sconfitto, e i contendenti per la conquista di Gorm erano ora solo tre…senza contare i Signori del Popolo del Vulcano.
Con Gheos che ora –almeno formalmente - rivestiva le cariche sia di Signore della Terra che di Signore dell’Aria, era libero di comandare e di approfittare dei gormiti dell’Aria come più gli pareva opportuno, senza però dimenticare che se ne doveva curare come fossero suoi sudditi.
Cominciò quindi ad arruolare aerei nel suo esercito, ingrossandolo le sue armate che avrebbero avuto poca difficoltà nello sbaragliare gli eserciti avversari.
Molti dei gormiti di Noctis furono riluttanti a prendere le armi fianco a fianco con i terricoli, altri invece furono molto entusiasti di farlo e di combattere per Gheos e per il suo Popolo, di farsi valere e farsi riconoscere come soldati e strateghi degni di lode.
Diversi atteggiamenti sospetti, ma che Gheos accettò benevolmente.
Mentre il Signore della Terra e i Consigli di Roscamar e Orsol si occupavano dei problemi pubblici e della sicurezza dei civili, le legioni al comando di Gheos si organizzavano ai piedi di Picco Aquila e nella Città Sotterranea e nella capitale, preparandosi a un ulteriore assalto.
Rimasero tuttavia quieti e immobili per diverso tempo, minacciando di attaccare la Foresta – alcuni pensavano addirittura al Vulcano - ma senza dare segni effettivi di desiderio di guerra.
Gli altri Popoli non rimasero in attesa ad aspettare in silenzio che Gheos prendesse una decisione, e si organizzavano e si rinforzavano.
L’attacco al Popolo della Foresta da parte di Poivrons per la riconquista di Patmut Iun è risultato fallimentare per il Popolo del Mare, costretto a ritirarsi per l’ingente numero di rinforzi forestali e per le numerose trappole disseminate per la Foresta Silente.
Nel loro scontro, Tasarau ebbe l’occasione di finire una volta per tutte il Signore del Mare, ma nel momento in cui fu lì per ucciderlo, qualcosa lo fermò. Rimase con Poivrons stretto tra le mani per qualche secondo, poi lo lasciò, e gli ordinò di andare.
Un gesto davvero curioso e avventato: Poivrons sarà riconoscente di quest’azione benevola solo con futuri attacchi al Popolo della Foresta, e i forestali hanno molto criticato la magnanimità del loro Signore in quell’occasione. La guerra era causata ed andava avanti per l’odio verso Poivrons e Gheos: uccidendo Poivrons, la fine di essa sarebbe stata più vicina e i gormiti sarebbero potuti tornare a vivere in pace.
E i forestali lo criticarono anche per la sua occupazione di Patmut Iun, che trovarono oltremodo ingiusta.
Tasarau era sicuro di aver compiuto delle azioni nobili e in nome del benessere di Gorm, tuttavia le critiche dei suoi sudditi c’erano e non gli avrebbero giovato.
Il piano di Maginiu Strappapensieri fu presto rivelato all’esercito che Tasarau si era portato vicino al Bazaar da Zetsel, che ne rimasero molto colpiti, sia dalla perfidia dimostrata dal gormita che da come il Picchiatore fosse stato in grado di sconfiggerlo dove quasi tutti quelli rimasti nell’accampamento avevano fallito, alcuni pagando con la vita.
Il vulcanico fu imprigionato dal Picchiatore e poi interrogato da Tasarau, riguardo i piani del Popolo del Vulcano e i loro preparativi militari. Non ottenne granché, solo i nomi dei due fratelli che erano a capo del Popolo del Monte di Fuoco: Magmion e Lavion Magmadoni.
Il Popolo del Vulcano, da quanto estrapolato da Maginiu – che rimase relegato presso l’accampamento - non sembrava avere dei progetti bellici pronti né attacchi di grande portata.
Vi erano già state numerose razzie e azioni di guerriglia da parte dei vulcanici, in cui mostrarono la loro indole sanguinaria e la loro quasi totale mancanza di scrupoli, e nelle quali anche l’assenza di moderazione – mostrata nei confronti degli altri Popoli - dei gormiti del Vecchio Saggio nei confronti del Vulcano veniva fuori.
Ma erano tutte azioni di poco conto. Solo il piano di Maginiu era un attacco più grave, nonostante l’esito fallimentare, che dimostrava la particolare abilità strategica del Vulcano.
Se solo Maginiu fosse stato inviato accompagnato da gormiti, anche pochi, al suo livello, l’attacco sì che sarebbe stato di enorme portata.
***
S’era fatto l’852, verso la fine di Greemeralse; lontano dalla Foresta Silente, dove Tasarau macinava le sue tribolazioni, nello Stretto di Gorm, una barca viaggiava, mossa dal remo di un terricolo.
Remava con foga, diretto a una delle tante isole nel mezzo dello Stretto, che non appartenevano a nessuno e non si correva nessun tipo di pericolo nel camminare su di esse e incontrare gormiti di altri Popoli. Erano dei territori neutrali, anche se non ufficialmente.
Il terricolo aveva un’idea chiara di cosa fare su quell’atollo e di chi incontrare. Sperava solo che gli amici che aveva informato avessero ricevuto i suoi messaggi. Già era difficile tenersi in contatto normalmente, figurarsi in tempi di guerra.
Il gormita sulla canoa aveva la pelle gialla, priva di peli. Due specie di arpioni sui dorsi delle mani, delle sorte di vibrisse sulle punte delle dita e sul capo. Labbra rigate e grandi, come se fossero secche, piccoli occhi incavati in occhiaie nere. Non indossava la sua solita armatura.
Era teso e ansioso di discorrere con gli amici che aveva informato.
Quel giorno, all’arena, aveva visto un episodio piuttosto strano, aveva percepito qualcosa di mai sentito prima e subito dopo ecco i Signori lottare fino alla morte l’uno con l’altro.
Quel gormita che aveva visto gettare lo strano oggetto ovale roseo infrantosi come vetro doveva avere qualcosa a che fare con ciò che era successo, lo sentiva.
Aveva spedito delle lettere a tre suoi amici di ogni Popolo, con vaghi dati su ciò che aveva visto e che pensava potesse essere successo, e li invitava a incontrarsi su quell’atollo per spiegazioni migliori.
Era anche preoccupato perché lui dovrebbe essere a Roscamar a lavorare come guardiano, e non in giro a tirare a indovinare su ciò che era successo. Gravitus e Gheos non sarebbero stato affatto contenti e misericordiosi con lui.
Ad ogni modo, ormai si era messo in viaggio e sperava che anche i suoi amici avessero fatto altrettanto, quindi tirarsi indietro in quel momento non avrebbe migliorato le cose.
La sua barca toccò la fine sabbia gialla dell’isoletta prescelta. Scese, e si ritrovò nel dubbio: non vi erano moli o strutture a cui legare la canoa. Se gli fosse stata presa tornare a casa sarebbe stato un grosso problema, e non conosceva abbastanza la magia per proteggerla. Ma dopotutto non c’erano grandi probabilità che qualcuno giungesse su quell’atollo con l’intento di furto.
Nessuno sapeva dell’incontro che si sarebbe tenuto lì, e non c’era nulla di valore che potesse attirare ladri e predoni.
Vi era una rocca al centro, abbastanza grande, in rovina, con la pittura e l’intonaco scrostati, nessuna porta e nessun vetro, solo aperture a forma di parabola.
Il terricolo attese pazientemente, a braccia conserte, presso l’entrata della rocca, che i suoi compagni arrivassero, sempre sperando che avessero letto il suo messaggio e avessero accettato la sua proposta.
L’idea di aver fatto quel viaggio a vuoto lo rodeva, e porre poi delle spiegazioni al suo Signore e a Gravitus sarebbe stato ancora più problematico.
Sentì poi qualcuno arrivare dall’alto, un suono di ali che si agitano velocemente, poi sempre più adagio, preparandosi a tornare a terra. La luce del sole fu oscurata per un attimo dalla figura alata che scendeva verso il gormita della Terra.
Era Livaz, meglio noto come Aquila Solitaria per la sua attitudine a stare lontano dal resto del suo Popolo e a volare pensieroso e silenzioso attorno ai confini di Picco Aquila.
Il suo capo era ricoperto di piume bianche candide, con profondi occhi grigi e un becco aquilino giallo zafferano. Il suo corpo, magro e leggermente muscoloso, era avvolto in un manto di penne azzurrine. Le ali, grandi e opalescenti sulle sue spalle, erano bianche come il viso. Mani e piedi erano privi di penne o piume, ed erano meramente gialli e duri, come tipico degli uccelli.
Ai polsi teneva dei lunghi bracciali lucidi grigio scuro, e sempre della stessa tonalità di grigio era il gonnellino che gli ricopriva l’inguine.
“Livaz!” lo salutò confidente il terricolo, andandogli incontro tendendogli il pugno.
Il gormita aereo non sembrò entusiasta del gesto e lo guardò torvo.
“Non è stata un’ottima mossa chiamare me, Togern. - gli rimproverò Livaz - Il tuo Popolo ha ucciso mio padre Noctis.”
Livaz non fu minimamente toccato dalla riaffermazione della verità e dal ricordo, e continuò a fissare imperterrito e contrariato il terricolo.
“Scusami, Livaz. - accettò Togern abbassando lo sguardo - Mi dispiace, ma sei l’amico più vicino a me che io abbia a Picco Aquila.”
La discussione fu interrotta da un’altra figura, un altro amico di Togern, emerso in quell’istante dall’acqua e in cammino verso i due compagni.
Era una gormita snella, ma certamente non indifesa. La sua pelle liscia era blu reale, le sue braccia erano lunghe, mani e piedi palmati da membrane blu polvere e il volto che ricordava quello di una manta era contornato da due ampie orecchie che abbracciavano tutto lo spazio delle tempie.
Braccia, gambe e schiena e in parte anche la testa presentavano lunghe pinne color fiordaliso. Al pedice della schiena si sviluppava una lunga coda, anch’essa ricoperta dalla pinna.
“Olà, Scova.” salutò il suo amico terricolo la marina.
“Mantra, per favore, se mi devi chiamare per soprannome, chiamami Scovanascondigli. Scova non si può sentire.” la supplicò Togern.
“Va bene, Scova.” replicò Mantra, facendogli l’occhiolino.
“Ah, vedo che ci siete tutti.” giunse una quarta voce, proveniente da un gormita vegetale appena uscito dalla ‘porta’ della rocca.
Il suo corpo bruno seppia era piuttosto anonimo, legnoso, con braccia piuttosto lunghe da tre lunghe dita ciascuno, qua e là delle protuberanze flessibili verdi e gialle. Sul suo torace la cellulosa del gormita si faceva più resistente e più scura, tendendo a un marrone bistro. Il suo volto era invece particolare: un grande bulbo levigato e lucido color mirto, con una piccola bocca a un’estremità e vistosi occhi arancioni. All’apice del volto delle escrescenze verdi da una parte e mostarda dall’altra, rassomigliando un fiore.
“Mimeticus. - gli diede il benvenuto Togern - Sì, ci siamo tutti. Siamo tutti qui.”
Erano tutti lì: quattro gormiti, tutti di un Popolo diverso, riuniti in territorio neutrale nel bel mezzo della battaglia tra i Popoli, senza nessun’avversione nei confronti l’uno dell’altro.
“Mettiamo le cose bene in chiaro, Togern. - lo avvisò Livaz puntandogli l’indice - Sei stato piuttosto vago nella tua lettera, e se questa tua idea si rivela essere un’idiozia…”
Mise l’enfasi sull’ultima parola, lasciandogli immaginare come avrebbe reagito Aquila Solitaria se l’argomento di Scovanascondigli fosse stato troppo bizzarro.
“Tranquillo, Livaz. Non è un’idiozia. - lo rassicurò - Non sono ancora così vecchio da essere pazzo: so quel che ho visto. O meglio…non lo so, e vorrei i vostri pareri.”
“Be’, dicci che cos’è questa cosa che hai visto.” lo invitò Mimeticus.
“Be’, innanzitutto…come dire. - riflettè Togern - Cosa pensate e cosa sapete della guerra che sta andando avanti anche adesso?”
“Rispondere a questa domanda non era incluso nella lettera. - gli rinfacciò Livaz - Non voglio perdere tempo.”
“Ehi, Aquila Solitaria, stai calmo - gli disse Mantra - Non siamo qui per combattere, non oggi. Non c’è motivo di scaldarsi.”
“Intanto che voi discutete, io rispondo alla domanda. - annunciò Mimeticus - Ebbene, questa guerra è una guerra esclusivamente dei nostri Signori, sicuramente.”
“Non avevo dubbi su questo.” concordò Mantra annuendo.
“Per qualche ragione i nostri Signori si sono inferociti l’uno con l’altro, e si sono dichiarati guerra. Poi si sono aggiunti quelli del Vulcano, così, tanto per.” continuò
“Poivrons ci ha convinto a combattere per lui in nome delle cose che ha fatto per noi. - commentò Mantra - Pensate, anche mentre marciava verso Patmut Iun, Poivronopoli era in costruzione e lo è tuttora!”
“Mio padre…Noctis, ci ha detto la stessa cosa. - aggiunse Livaz, freddo ma incapace di nascondere una certa curiosità - Ci ha detto che combattendo per lui avremo potuto conquistare Gorm e dominarla.”
“Ehi, Tasarau ha detto quasi la stessa cosa!” trovò Mimeticus, intrigato.
“Pure Poivrons! E ci ha detto che gli altri gormiti non avevano colpa e che non dovevamo per forza ucciderli.” considerò ancora Mantra.
“Le stesse identiche parole di Tasarau…quasi.” disse Mimeticus allibito.
“Anche con Noctis è stato così.” ammise Livaz, ormai indiscutibilmente incuriosito.
“E lo stesso vale per Gheos. - finì Togern, col mento stretto nella mano - Questa cosa non l’avevo considerata. Ma non è per questo che vi ho invitato qui.”
“E per cosa, allora? - domandò Livaz, tornando scontroso - Sarebbe ora che ce lo dicessi.”
“Io credo…credo che - iniziò dubbioso Scovanascondigli - che ci sia il Popolo del Vulcano e forse lo Stregone di Fuoco Magor dietro a tutto questo.”
Tutti gli altri tre gormiti trasalirono al sentire il nome dello Stregone di Fuoco. Era una figura ammantata nel mistero, terribile. Innominabile: da lungo tempo il popolo gormitico era stato ammaestrato a riferirsi a lui, quando necessario, con la maschera dello Stregone di Fuoco, e il suo vero nome era sinonimo di sciagura e disgrazia. C’era chi sosteneva che Magor non fosse il nome effettivo.
Il Vecchio Saggio aveva insegnato ai gormiti di temerlo e di evitare qualsiasi contatto con lui. I gormiti non sapevano chi fosse veramente, o come fosse di corpo, se fosse un elfo come il Vecchio, un gormita o un mostro spaventoso. L’immagine che si facevano di lui era vicina all’idea di ‘mostro spaventoso’.
“P - puoi dimostrarlo?” balbettò Livaz.
“Forse. Ma posso dirvi di quello che ho visto, come vi ho detto nella lettera. Sentite qua.” e abbassò la voce, come temendo che qualcuno origliasse o che le sue parole perdessero il loro valore se urlate.
“Quando ero di guardia all’Arena di Astreg, nel momento in cui c’era la lotta tra Signori, ho visto un gormita del Vulcano apparire sopra l’entrata. L’avevo sentito avvicinarsi ma non sapevo cosa fosse. Aveva qualcosa in mano, era un oggetto, una specie di palla. Poi, l’ha resa invisibile e l’ha lanciata nell’Arena. Ho sentito un rumore di vetri, ma non sapevo come reagire, e poi il gormita sparì di nuovo. Allora do un’occhiata dentro all’Arena e vedo i Signori che tentano di uccidersi, pochi attimi dopo il rumore di vetro e il gormita che sparisce. Non è strano? Ragionate: i Signori erano amici tra di loro, prima della lotta, pensate a Poivrons e Noctis! E tutto d’un tratto si giurano morte a vicenda! Dev’esserci qualcosa sotto, e intendo scoprire cosa.”
I suoi tre compagni ascoltarono con attenzione il racconto di Togern, presi e interessati. Ma al termine del resoconto non sapevano cosa dire o come reagire, se fidarsi o meno, come comportarsi.
“Sei sicuro di aver visto queste cose?” domandò ancora una volta Livaz, esitante come non mai.
“Certo che sono sicuro! Non sono pazzo! - esclamò Togern, indignato dall’amico che insinuava la sua pazzia. - Potrei farvi vedere il ricordo, se solo ne fossi capace.”
“Io ne sono capace. - annunciò Mimeticus - Ma devi tenermi la mente aperta, e anche voi, e concentrarti su quel ricordo, o ci farai vedere cose diverse.”
“Farò del mio meglio.” promise Togern deglutendo.
Il gormita forestale spalancò gli occhi, fisso su Scovanascondigli che, al contrario, li chiuse per concentrarsi meglio. Mimeticus entrò quindi nella sua testa, dove un groviglio di dati e ricordi vorticava furiosamente, con una memoria in particolare che si sovrapponeva al resto.
Mimeticus si focalizzò su quella. La fece prevalere e diventare più nitida possibile, per poi condividerla con gli altri due.
Tutti e quattro osservarono, attraverso gli occhi e la mente di Togern, il misterioso vulcanico comparire sopra l’Arena con l’oggetto in mano, che presto diventò invisibile e fu lanciato via. Il suono flebile di vetro rotto e il gormita che sparisce dalla vista. Poi Togern che guarda dentro l’Arena e i Signori che se le danno di brutto. Il ricordo finì, e tutti aprirono i propri occhi.
“Avete visto? - domandò agitato Togern - Quelle cose sono successe, c’è qualcosa sotto a tutto questo, e dobbiamo scoprire come e perché!”
“Sono d’accordo. - affermò Mimeticus - Se i nostri Signori combattono spinti da qualcosa di estraneo a loro, bisogna riuscire a fermarli o non ne uscirà salvo nessuno.”
“E vada così, allora. - concordò Livaz, incrociando le braccia - Come pensi di iniziare questa…ricerca, Scovanascondigli?”
“Penso che prima dovremmo parlarne al Vecchio Saggio.”
“Il Vecchio Saggio non ha una dimora fissa. - fece notare Livaz - e ultimamente non si fa vedere molto.”
“Qualcuno di voi sa dove potrebbe trovarsi?” chiese quindi Togern.
“Io. - rispose timidamente Mimeticus alzando un dito - Non ne sono sicuro, ma credo adesso sia in qualche zona della Foresta.”
“Qualche zona della Foresta? - ripeté Livaz - Come se la Foresta Silente fosse piccola.”
“Ma per l’amor di Patmut, stai tranquillo, Aquila Solitaria! - gridò Mantra - Santo cielo, non riesco a sopportarti, sempre così…così.”
“Sei sicuro che sia nella Foresta, Mimeticus?” richiese Togern, indifferente al battibecco tra Mantra e Livaz.
“Ho sentito che si era recato lì, di questo sono certo. Se si è spostato non è un problema, qualcuno l’avrà visto.”
 
Così i quattro gormiti si avviarono verso ovest, verso Dalarlànd, seguendo la barca di Mimeticus. Togern lo seguì anch’egli sulla canoa, Mantra a nuoto e Livaz volando, ben in alto, per controllare la presenza di pericoli all’orizzonte.
Quando infine approdarono, seguendo attentamente Mimeticus per i sentieri, cominciarono ad esserci dei problemi.
Due guardie della Foresta videro Mimeticus insieme agli altri gormiti e subito lo bloccarono con delle aste di legno.
“Alt! - urlò imperiosa una - Questo è territorio di Tasarau, Signore della Foresta. In tempo di guerra solo i gormiti della Foresta sono ammessi.”
“Andiamo, non sono soldati! Sono qui in pace!” lo supplicò Mimeticus.
“Le regole sono regole. - spiegò l’altra - Non possiamo far passare nessuno senza il permesso del Signore o di un suo delegato. Prosegui e abbandona qui i tuoi amici o saremo costretti a rinchiuderli.”
“Ma sono amici miei! Non sono qui per la guerra, devono parlare col Vecchio Saggio.” seguitò Mimeticus, che trovava quel comportamento, per quanto giustificato, totalmente controproducente alla situazione in cui erano.
“Non ostinarti, giovane gormita! - lo sgridò la guardia - Siamo in guerra e i gli altri Popoli sono nostri nemici! Chi mi assicura che questi tuoi ‘amici’ non siano un pericolo?”
“Qui non otteniamo niente, Mimeticus. - commentò Livaz - E passare alle maniere forti non migliorerà le cose, purtroppo.”
“Sentite, questi sono miei amici. Garantisco io per loro, mi prendo tutte le responsabilità.” giurò Mimeticus, con una mano sul ‘cuore’.
Le due guardie rimasero in silenzio, pensose.
Poi la guardia più taciturna prese a scuotere la testa negativamente.
“Mi dispiace, ma è troppo rischioso. - concluse - Senza il permesso di Tasarau non passa nessuno, punto. Ora fai andare via i tuoi compagni, o li sequestriamo e sequestriamo anche te se continui a questo modo.”
“Forse dovresti andare da Tasarau e farti dare questo permesso.” propose Mantra.
Mimeticus non si diede per vinto. Voleva a tutti costi che i suoi compagni potessero entrare in territorio forestale a parlare con il Vecchio Saggio. Quello che dovevano dirgli era troppo importante per stare a quelle insulse regole.
“Sentite, abbiamo cose importanti da comunicare, tutti e quattro. Riguardano la guerra, potrebbero concluderla!”
Le due guardie non avevano più orecchio per le argomentazioni del loro compagno, ed erano ormai irritate da quella sua ostinazione.
“Questo è l’ultimo avviso che ti diamo prima che ti sbattiamo dentro, bello.” comunicò con tono furioso la guardia che aveva parlato di meno, spingendo il suo bastone al collo di Mimeticus.
“Tu e i tuoi amici. Adesso vattene, prima che cambi idea, se devi causarci guai. Abbiamo impegni più importanti che stare ad ascoltare te e le tue richieste folli.”
Mimeticus strinse i pugni, pronto a passare alle maniere forti che lo stesso Livaz aveva giudicato come inopportune, e lo guardò iroso. Il gormita dell’Aria stava già girando i tacchi e spiccando il volo. Sentiva quelle informazioni e quelle ipotesi che aveva ottenuto dall’amico Togern come vitali, e richiedevano il giudizio di qualcuno più esperto.
Prima che potesse tentare il peggio, una voce lo rassicurò e lo tranquillizzò, portando nuova speranza nel suo cuore.
“Ho sentito che c’è qualcuno che desidera parlarmi.” disse la voce anziana e amabile del Vecchio Saggio. Uscì dal nulla, tra i cespugli, appoggiandosi al suo inseparabile bordone di legno con lo smeraldo incastonato, curvo nel saio imbrattato e polveroso e nel mantello bianco reso ormai grigio dal tempo e dalle intemperie.
La sua barba, al contrario, era candida e fluente, così come i lunghi capelli. Essi non sembravano aver subito gli stessi danni che avevano sofferto i suoi panni, oppure l’arcano stregone aveva più tempo e interesse per il suo volto che per i suoi abiti, che d’altra parte erano sempre gli stessi da tanti, troppi anni.
“Vecchio Saggio. - lo salutò la guarda loquace con un cenno del capo - Avete sentito bene, il nostro compagno e i suoi amici extra - forestali dicono di volervi parlare. Ma voi sapete bene che non possiamo farli entrare.”
“Suvvia, Lotus, tre gormiti di un altro Popolo non possono farvi troppo male. - lo rassicurò con voce dolce - Sapete chi sono, e se fanno guai risalirete subito a loro, no?”
“Non ne sono sicuro, Vecchio Saggio.” esitò la guardia.
“Invece ne sei sicuro, Lotus. - proruppe autoritaria l’altra, non convinta e per niente toccata dal Vecchio Saggio - Non passa nessuno senza permesso. Questa è la regola e vale per tutti.”
“Cosa vi costa far passare tre miseri gormiti? - cercò di convincere anche l’altra - Saranno sotto la mia tutela: non faranno nulla che Tasarau non vorrebbe che facessero. So tenere a bada dei gormiti, lo sapete bene, e non esiterò a colpirli se disobbediscono. Coraggio, chiudete un occhio per questa volta.”
Le due guardie rifletterono, ma erano ancora tentennanti. Se fosse successo qualche danno anche di media portata a causa di quei gormiti ne sarebbero stati loro responsabili.
“Non vi fidate più del Vecchio Saggio? - lo stregone tirò fuori l’asso nella manica - Capisco che la legge del vostro Signore conta, e non mi metterei mai prima di Tasarau. Ma saprò governare questi gormiti, e pensate: hanno fatto molta strada per venire da me e parlarmi. Togern Scovanascondigli ha addirittura abbandonato il suo turno di guardia per recarsi qui! Lasciateli passare.”
“E va bene, Vecchio Saggio, va bene. - lo accontentò la prima delle guardie - Faremo come dite voi: chiuderemo un occhio.”
L’altra guardia non sembrava d’accordo, ma non espresse disappunto
“Speriamo che la nostra fiducia sia ben riposta. Andate.”
 
Togern, Mimeticus, Mantra e Livaz si riunirono insieme al Vecchio Saggio nella sua piccola capanno, poco lontano da lì.
Lo stregone elfo si era tolto il manto con cappuccio e aveva appoggiato il bordone alla parete.
Estrasse dunque una bacinella con dell’acqua, e si sciacquò la faccia, mentre i gormiti lo osservavano muti.
L’anziano stregone era una figura enigmatica, avvolta nella nube del mistero tanto quando lo Stregone di Fuoco, di cui almeno conoscevano il – presunto –  nome.
Del Vecchio Saggio invece avevano appreso ben poco. Era un esponente della razza elfa, specie che viveva nel lontano oriente, di cui nulla sapevano e di cui egli era l’unico esempio.
Si era recato su Gorm in tempi remoti, prima dell’avvento del Grande Sacrificio, per ragioni sconosciute, e sin da allora aveva aiutato la civiltà gormitica ad evolversi e a migliorarsi.
Poi venne lo Stregone di Fuoco che aizzò il Popolo del Vulcano discriminato a sterminare tutti gli altri Popoli. Egli riuscì a salvarsi, e di questa parte della sua vita ben poco si sa. Non si conosce come riuscì a salvare e a ricreare l’intera genie gormitica più forte di prima, né i suoi rapporti con lo Stregone di Fuoco o l’Occhio della Vita.
Tutti erano certi che conoscesse lo Stregone di Fuoco: parlava troppo accuratamente di lui. E tutti sapevano che aveva studiato l’Occhio della Vita e che sapeva su di esso molto più di quanto la specie gormitica nell’intero arco della sua esistenza. Dove però custodisse il sacro artefatto, la grande fonte di energia da distruggere, non si sapeva, né cosa ci facesse di preciso.
Si sedette su una poltrona fatta di frasche riempita di piume e fieno, e si mise a fumare una pipa, creando curiosi anelli di fumo con essa.
“Allora, ho sentito cose interessanti. - iniziò a parlare - Un gormita della Foresta, uno della Terra, uno del Mare e uno dell’Aria. Un quartetto così non si vede tutti i giorni di questi tempi. Che cosa dovete dirmi?”
“Riguarda la guerra, Vecchio Saggio.” riuscì a dire Togern.
Il Vecchio Saggio inspirò a lungo la pipa, prima di sospirare un grande getto di fumo.
“L’avevo immaginato.” sospirò.
Togern gli mostrò ciò che aveva visto all’Arena. Lo stregone non ne fu molto sorpreso. Sembrava quasi che ne fosse già a conoscenza, e che la visione di quel ricordo fosse solo una conferma.
“Cosa pensate che sia?” domandò Scovanascondigli, ansioso.
“Temo che sia opera di Magor.” replicò sospirando l’uomo. I gormiti trasalirono leggermente all’udire di nuovo il suo nome.
“In che senso?” cercò di capire Livaz.
“Nel senso che Magor ha costruito un apparecchio magico, una specie di maledizione, per insinuare quell’odio e quell’avversione che ha spinto i Signori a combattere l’uno contro l’altro. Con dei Signori che si odiano, Magor è riuscito ad avere l’intera Gorm in guerra! Ah, maledetto! A che scopo?”
Esclamò adirato rivolto al soffitto. “Qualsiasi sia la tua intenzione, io ti fermerò. Non avrai l’Occhio della Vita. Non lo avrai…”
“Che cosa possiamo fare, Vecchio Saggio?” domandò supplichevole Mimeticus.
“Ora che sappiamo che la causa di tutto questo è un maleficio, non possiamo dire la verità ai Signori così finiranno?” ipotizzò Mantra.
“Dubito che cambierà le cose. - distrusse le speranze della marina lo stregone - La conoscenza della verità non cancellerà l’odio che regna tra di loro.”
“Non si può semplicemente annullare questa maledizione?” chiese Livaz.
“Si potrebbe, se si conoscesse il metodo con cui è stata creata. - chiarì il Vecchio Saggio - E’ una magia molto complessa, forse nemmeno Magor ne conosce tutti gli effetti.”
“E allora che cosa facciamo? - ritornò alla domanda iniziale Togern - Ce ne stiamo qui ad aspettare che i Signori si uccidano e che un Popolo vinca su tutti gli altri?”
“Ci sarebbe qualcosa che si può fare. - rifletté lo stregone - Usare il Cuore dello Scudo per forzare Magor ad annullare la maledizione…sempre che ne sia capace e che sia stato lui ad usarla.”
“Il Cuore dello Scudo? Che cos’è?” domandò Mimeticus, nuovo a quel nome.
“E’ uno dei tanti manufatti magici di Gorm…questo è un alternatore mentale. Con un po’ di volontà puoi indurre tutti a fare quello che vuoi, secondo ciò che ho trovato. Sempre che esista e che faccia davvero queste cose.”
“Se esiste davvero questo Cuore - rifletté Livaz, guardando di sottecchi lo stregone - perché non siete andato voi a cercarlo e ad usarlo contro…lo Stregone di Fuoco?”
Il Vecchio Saggio si sentì offeso da quella congettura.
“Credi che se potessi non l’avrei già fatto?” urlò arrabbiato.
“Tu…tu non puoi capire come mi senta. Non puoi capirlo!” gridò ancora, puntandogli l’indice sul petto e, oserei dire, con una lacrima che gli rigava il volto.
“Tu non sai che cosa ho passato…le cose che ho visto…come io mi senta a vedere i gormiti ammazzarsi l’un l’altro quando dovrebbero vivere in pace…l’Occhio della Vita, tutta colpa sua…”
Si passò le mani in volto, poi nei capelli. Scosse il capo, cercando di tornare ad essere sereno.
“Scusami. - disse poi rivolto al gormita dell’Aria - Non avrei dovuto parlare…in quel modo.”
“No, scusatemi voi. - mormorò Livaz, con il capo chino - Vi ho mancato di rispetto”
“Non fa niente. - accettò volentieri le scuse - Sta di fatto, che non posso perdere tempo a cercare amuleti che potrebbero non esistere e tentare imprese di cui non posso prevedere gli esiti. Sarei avventato e un povero illuso, se credo di poter attraversare la Valle del Vulcano e recarmi da Magor per fargli togliere la maledizione…insomma, troppa confusione. Ci sono…altre priorità, e devo concentrarmi sulle cose di cui sono più sicuro.”
“E noi siamo sicuri che questa maledizione sia stata fatta, e da Magor. - affermò risoluto Togern - E che il Cuore dello Scudo esista, e che possa risolvere la situazione. Dobbiamo tentare, prima che le cose peggiorino.”
“Va bene, Togern. Vi aiuterò a cercarlo.”

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Capitolo 16
*** Capitolo 7.4 ***


“Non sono sicuro sia una buona idea, Togern.” criticò Mantra, seduta e agitata nella carrozza ondeggiante. Di fianco a lei Aquila Solitaria e davanti Togern.
“Quale parte della mia idea non ti piace?” chiese in risposta Scovanascondigli, guardando fisso negli occhi Mantra, sicuro delle sue intenzioni.
“Un po’ tutte, Togern. - spiegò senza imbarazzo Mantra, continuando ad essere agitata - Il Vecchio Saggio ha ragione. Non possiamo perdere tempo dietro qualcosa di così…vago.”
“Il Vecchio Saggio ha le sue ragioni per ignorare questa possibilità. - dichiarò Togern con fermezza.
 - Lui ha già fatto molto per noi, e deve occuparsi dell’Occhio della Vita, ora. E’ tempo che badiamo un po’ più a noi stessi e di cavarcela con le nostre mani.”
“Sono d’accordo. - si trovò a dire Mantra, non potendo confutare le parole di Togern “Però mi sembra ancora una missione pericolosa, e credo di non aver mai dato il mio consenso a parteciparvi, e nemmeno gli altri.”
“Io sono con te, Togern. - intervenne Livaz, con il braccio appoggiato allo sportello della vettura, e il capo sopra di esso, lo sguardo perso all’esterno, indifferente ai due compagni di viaggio dentro la carrozza - Sono troppo giovane per assoldarmi, e non onorerei bene mio padre entrando nell’esercito. Poi non mi è mai piaciuto stare sempre a Picco Aquila, lo sapete. E voglio dare il mio contributo all’Isola, almeno provarci.”
“Scusami, Mantra. - mormorò dunque Scovanascondigli - E dovrei scusarmi anche con Livaz e Mimeticus. Sono stato un po’ precipitoso in…in tutto quanto. Quindi, Mantra, vuoi venire con me e provare a salvare l’Isola?”
Togern le tese il pugno, con sguardo amichevole. Mantra fece spallucce, e glielo batté col proprio.
“La mia situazione non è molto diverso da quella di Livaz. Correrò il rischio, se è per il bene della comunità.”
I quattro gormiti incontratisi nel mezzo dello Stretto di Gorm e recatisi dal Vecchio Saggio in consiglio riguardo la verità che stava dietro alla guerra erano ora su una carrozza trainata da un paio di salamandre, diretti alla Biblioteca Silente dove lo stregone elfo avrebbe fatto loro consultare i libri da lui già letti che contenevano informazioni sul fantomatico Cuore dello Scudo.
I lavori operati dai gormiti della Foresta negli ultimi otto anni avevano disseminato la selva di Dalarlànd di un numero considerevole di sentieri grandi e piccoli, che avevano reso l’intera Foresta significativamente più praticabile, e ora viaggi in bicicletta o su salamandre erano attuabili.
A dirigere il cocchio e a governare le salamandre erano il Vecchio Saggio e Mimeticus, mentre gli altri tre rimanevano all’interno. Una scelta che avrebbe reso il loro viaggio meno problematico e più breve. Era degno di dubbio pensare che l’entrata di un gormita della Terra, uno dell’Aria e uno del Mare nella Foresta Silente fosse un’informazione già circolante e nota a diversi, e per questo era probabile incontrare lungo il percorso guardie o semplicemente popolani che non avrebbero reagito bene alla vista di gormiti estranei nei loro territori.
Pertanto, solo il Vecchio Saggio, una figura di cui nessuno aveva timore, e il forestale Mimeticus erano visibili sul veicolo di legno. Livaz rischiava però di essere visto, sporgendosi continuamente dall’apertura dello sportello.
“Siamo arrivati alla Biblioteca, scendete” li informò a gran voce il Vecchio Saggio alla guida.
Il veicolo si fermò, vicino a diverse altre carrozze, e prontamente tutti i suoi passeggeri scesero, presso la riva del fiume su cui la Biblioteca Silente era costruita.
Alla vista di Togern, Livaz e Mantra tutti i forestali nelle vicinanze sobbalzarono e arrestarono i loro compiti per osservare attoniti i tre gormiti stranieri camminare disinvolti nei loro territori.
Furono tranquillizzati dai cenni rassicuranti del Vecchio Saggio che camminava dinanzi a loro e da quelli di Mimeticus, ma rimasero comunque sorpresi e un po’ preoccupati dell’entrata degli stranieri nella Foresta, e si domandarono tra loro se Tasarau lo sapesse e se fosse tutto nella norma.
Il Vecchio incaricò il gormita di guardia alle carrozze di badare anche alla loro, che, ricevendo un pizzico di sale nero, rimase stupito ad osservare il gruppo di gormiti prima di deglutire e assentire, quando ormai il Vecchio era davanti alla Biblioteca Silente.
Le guardie all’entrata della Biblioteca –che non erano più due come diversi anni fa e come era stato fino a prima della guerra, ma quattro - non agirono in maniera diversa da quelle incontrate poco prima, all’entrata nella Foresta.
“Fermi dove siete, gormiti!” strepitò una armata di picca, tendendo una mano aperta contro di loro, spronandoli ad obbedirgli.
“Voi non potete entrare qui. Voi non dovreste essere qui! Vecchio Saggio, compagno della Foresta, che diamine vi è saltato in mente? Portare nemici nelle nostre terre! Spero che abbiate dei buoni motivi per qu - ”
“Stai sereno, guardiano della Biblioteca. - lo zittì il Vecchio Saggio, leggermente spazientito dal tono del gormita - Tasarau ne verrà presto a conoscenza, forse lo è già.”
“Non ho ricevuto nessun’informazione riguardante questi tre gormiti. - negò la guardia, indicando con sguardo cagnesco i tre stranieri - Se non ho un permesso firmato da Tasarau, sono costretto a rinchiuderli, poiché questo è un luogo troppo a cuore del benessere della Foresta, e questi sono personaggi potenzialmente pericolosi.”
“Rifletti, guardia. - ricominciò il Vecchio Saggio, mantenendo la calma - Sai bene che i nemici in questa guerra non sono i comuni popolani…ma i Signori. Inoltre sono un gormita dell’Aria, della Terra e del Mare: quante sono le probabilità che un simile gruppo di gormiti voglia attaccare unito il vostro?”
“Oltretutto, ci sono io, il Vecchio Saggio, ad assicurare la loro inoffensività. Non è la prima volta che un gormita non si fida di me, e lo accetto, ma accade un po’ troppo spesso in questi ultimi tempi. Dopo tutto ciò che ho fatto e che ancora faccio per voi, questa mancanza di fiducia mi fa davvero male e mi fa ricredere sulla stima che io ho di voi.”
“Va bene, va bene, Vecchio Saggio! - gridò la stessa guardia, facendo segno di sconfitta - Non mancherò di avere fiducia in voi. Vi lascerò entrare, voi e i gormiti. Spero che non sia fiducia mal riposta…”
“Non lo è, non lo è.” lo rassicurò lo stregone sorridente, mentre lui e gli altri quattro passavano tra le guardie che avevano aperto loro la strada e varcarono la soglia della Biblioteca Silente.
La Biblioteca, con i suoi piani specializzati e tutti gli scaffali erano intatti ed integri, così come il Vecchio Saggio li aveva lasciati dopo il Grande Sacrificio.
I gormiti in quel periodo esclusivamente forestali che lavoravano e studiavano dentro la Biblioteca, allo stesso modo, erano sbalorditi e storditi proprio come i gormiti che si erano appena lasciati alle spalle, fuori dalla casa di libri.
Il Vecchio Saggio, rassicurando tutti con gesti, cenni e poche parole, li guidò al primo piano, dove li lasciò nei pressi di un grande tavolo, mentre lui si recò ai diversi altri piani a recuperare i libri e gli scritti che parlavano del Cuore dello Scudo.
I quattro, incluso Mimeticus, si trovarono per niente a loro agio ad occupare la grande tavola al centro del piano, osservati e sondati con sospetto da tutti i forestali nelle prossimità.
Familiari alle regole che vigevano all’interno della struttura di cultura, e non volendo peggiorare la loro situazione, non fiatarono minimamente, e nemmeno comunicarono tra di loro nella mente.
Attesero in silenzio il ritorno dello stregone, che arrivò carico di una pila di libri degna di uno studente dei gradi scolastici più alti, che rovesciò non poco rumorosamente sulla tavola, attirando l’attenzione dei gormiti vicini.
Stese i manoscritti lungo metà della superficie del tavolo, aprendoli in certe pagine, inserendo segnalibri e stendendo fogli e cartine.
Qui c’è tutto quello che ho scoperto sul Cuore dello Scudo in questa biblioteca. annunciò quando terminò il suo lavoro.
Notizie, dati più o meno vaghi, disegni, supposizioni…è tutto qui. Non c’è altro da sapere che io non vi abbia ancora detto e che non troverete qui. Ho smesso di dare la caccia ad amuleti e armi tempo fa.
Grazie, Vecchio Saggio. si propose Livaz, prendendo una carta ingiallita con sopra disegnata a tratto piuttosto pesante e incisivo una rappresentazione grafica molto precisa di ciò che doveva essere il Cuore dello Scudo.
Non posso fare altro che augurarvi buona fortuna, gormiti. - disse preparandosi a congedarsi, col bordone stretto in entrambe le mani - Spero che la vostra ricerca sia fruttuosa, e che la vostra missione dia buoni esiti. Potrei aiutarvi, ora che ci penso.
Dite davvero? demandò Mimeticus entusiasta all’idea di fare dell’azione insieme all’anziano maestro di magia.
Sì, penso di sì. Non è una cattiva idea. Però dovete sapere che Magor mi tiene d’occhio costantemente, o almeno ci prova, e avervi con me potrebbe rendervi un obiettivo più facile. chiarì.
No, Vecchio Saggio. - dissentì Togern - Non possiamo accettare il vostro aiuto. Non solo per quello, ma anche perché noi gormiti non vogliamo dipendere sempre da qualcun altro. Se questa guerra è causata da noi o meno, faremo del nostro meglio per finirla con le nostre sole mani.
I compagni di Togern non furono molto soddisfatti delle parole di Scovanascondigli, che in poco tempo aveva preso la brutta abitudine di parlare a nome di tutti e agire come un capo, come se il suo verbo incarnasse i desideri di tutto il gruppo.
Apprezzo la tua idea, Togern. - ammise il Vecchio Saggio - I tuoi amici forse no, ma io la apprezzo, e secondo me è la via giusta.
Ciò detto, arrivederci, gormiti.
 
La grossa creatura piumata cadde a terra con un urlo gracchiante dall’adunco becco giallo molto tendente all’arancione, stremata dai colpi subiti, specialmente dall’ultimo.
Aveva fatto il possibile per difendere sé stessa, il suo nido e il suo uovo, il suo unico uovo in tanti anni, dagli aggressori.
Ma gli aggressori erano stati ostinati e indiscutibilmente più forti di lei, e ora giaceva esanime sul suolo erboso, alla sinistra del grosso groviglio di rami, corteccia, frasche, foglie, scavato in un vecchio tronco morto. All’interno, un grande uovo bianco latteo e un oggetto molto più piccolo, che riluceva d’argento.
La ricerca del Cuore dello Scudo –che avevano scoperto essere parte di un armamento magico più grande e potente, di cui il Cuore era solo una delle tante parti - aveva condotto i quattro nel folto della Foresta Silente, lontano da qualsiasi centro della civiltà, e più precisamente nel nido di un grifone.
I grifoni sono una particolare razza di volatili piumati, una razza straordinaria, per grandezza e per composizione. Essi erano infatti dotati di sei arti: due paia che poggiavano per terra che costituivano le loro quattro gambe, gialle dure e prive di piumaggio nella parte inferiore come in tutti gli uccelli, e un terzo paio che si sviluppava sul loro dorso, vicino alle spalle, che cresceva in maestose e lunghe ali. Il capo ricordava quello di un falco, e la coda quella biforcuta delle rondini. Il loro piumaggio era vario, ma tendenzialmente di sfumature dal rosso al viola al blu.
Non erano creature rare nonostante la loro straordinarietà e grandezza – più o meno quanto una salamandra - e non era raro che un gormita ne avesse alcuni addomesticati. Per modo di dire, forse è più preciso ‘simpatizzato’.
Ad ogni modo, il Cuore dello Scudo era stato trovato nel grosso nido di quel grifone, che non appena il gruppo si avvicinò alla dimora piombò come un fulmine e non esitò a passare immediatamente all’offensiva.
Mimeticus era inginocchiato a terra, di fianco al grifone defunto. Sembrava rattristito.
“Non meritava la morte.” diceva.
“Proprio no.” concordò Livaz, che molto stranamente e contrariamente al suo solito comportamento diede qualche pacca sulla spalla di Mimeticus per confortarlo…ma ne diede due o tre con poca intensità, e poi ritrasse subito la mano.
“Non volevamo ucciderla, ma abbiamo dovuto attaccarla o non avremo mai avuto accesso al suo nido.”
“Mi sento un po’ responsabile. - interloquì Mantra, col capo chino - Le ho dato io il colpo finale, che è stato troppo per lei.”
“Doveva essere una madre anziana. - commentò Mimeticus, ancora accarezzando il piumaggio lavanda della madre grifone - Questo spiegherebbe perché è caduta così presto, e perché ha deposto un solo uovo. Di solito ne depongono almeno tre.”
Il forestale le chiuse le palpebre, e con la mano sulla fronte dell’animale chiuse gli occhi e pregò.
“Possa il tuo spirito raggiungere presto le Somme Forze, ed essere riposto in una creatura dalla sorte più benevola.”
“Non ti ricordavo così religioso, Mimeticus.” commentò Togern, a braccia incrociate, osservando Mantra che entrava nel nido. Mimeticus si alzò dal grifone, ma non rispose.
Mantra uscì dall’ammasso di legno con in mano il grande uovo di grifone, che abbandonò a terra, e un minuscolo oggetto luccicante, poco più grande di un pugno chiuso.
Era piuttosto piatto e leggero. Da una parte spuntava una sorta di impugnatura, di scarse dimensioni, e sulla superficie piana sottostante vi erano dei rilievi, come se qualcosa potesse attaccarcisi.
Dall’altra parte, il Cuore era quasi emisferico, di argento brillante. Una stella a otto punte con pittura rossa sbiadita e rovinata e il rilievo di una croce erano rappresentati.
“Quindi è questo il Cuore dello Scudo…è davvero piccolo.” considerò, rigirandolo tra le mani.
Sul retro, notò, dove c’era l’impugnatura, vi era anche un sottilissimo, enigmatico bassorilievo…se così si poteva definire quell’insieme di cerchi. Vi sto raccontando questo perché chi raccontò a me delle peripezie di Togern e i suoi ricorda con chiarezza che Mantra e gli altri furono molto, come dire, ‘attratti’ da questo disegno. Si trattava di quattro cerchi. Uno grande in alto, due minori ai suoi alti, e un terzo piccolissimo al centro, allineato con il cerchio più grande.
“Cosa facciamo adesso di questo uovo? - proruppe quasi disinteressato dell’amuleto Mimeticus, raccogliendo l’uovo - Abbiamo già ucciso la madre, non possiamo far morire anche questo grifone…”
“Accudirò io l’uovo, Mimeticus. - si offrì Livaz, prendendolo dalle mani del forestale - Crescerò il grifone come meglio posso, prometto.”
“Sei sicuro, Aquila Solitaria?” chiese dubbioso e riluttante a lasciare l’uovo nelle mani dell’aereo
“Sì, però per ora è meglio che lo tieni tu. Sei a casa tua, qui, e io non so quando tornerò alla mia.” e prontamente Livaz gli riconsegnò l’uovo.
“Vogliamo concentrarci sul Cuore dello Scudo? - esclamò con tono di rimprovero Togern - Non siamo venuti qui per il grifone o per le uova.”
“Non possiamo davvero fare nulla che non ti vada a genio, Togern? - chiese Livaz irritato - Non sei il nostro capo, per quanto tu voglia atteggiarti come tale. E siamo ancora scontenti per la tua decisione di rifiutare l’aiuto del Vecchio Saggio. Avrebbe reso ogni cosa più facile.”
Togern aprì la bocca per replicare, ma ne uscì solo fiato. Abbassò il capo, deluso di sé stesso.
“Su, su, non litighiamo. - lo tirò su Mimeticus - Quello che è stato fatto è stato fatto, ma abbiamo ancora qualcosa da fare, insieme.” e, con il braccio teso tra le spalle di Togern, lo invitò ad osservare Mantra e l’oggetto metallico nella sua mano.
“Immagino dobbiamo scoprire se questo coso è davvero il Cuore dello Scudo, e se funziona davvero.” disse la marina, impugnandolo con la stella e la croce puntati verso Togern.
“Mi sembra che funzionasse come una magia… - rammentò Scovanascondigli - Concentrazione, voce e desiderio.”
“Va bene allora.” Mantra tese il Cuore verso Togern. Rimase immobile con lo sguardo fisso sul terricolo per pochi secondi, prima che Scovanascondigli potesse intravedere qualcosa di strano nella traiettoria del Cuore verso di lui, come se fosse investita da un elevato calore.
Togern sentì la sua mente colpita da una forza esterna a cui non poteva opporre nulla se non una piccolissima resistenza.
Una voce nella sua testa e un impulso gli imponevano di compiere un’azione che Togern non aveva alcun desiderio o motivo di fare.
Tremando nel tentativo di resistere, Scovanascondigli alla fine alzò entrambe le braccia al cielo. Quella forza esterna cessò di tormentarlo, e il terricolo fu libero di agire come più gli pareva.
“Ha…ha funzionato?” domandò a Mantra.
“Credo…di sì. Ho ordinato una cosa piuttosto semplice. - replicò, ricominciando a rigirarsi il minuscolo amuleto d’argento dipinto - E ho mantenuto la concentrazione finché non l’avessi compiuta…”
“Sembra piuttosto semplice. - trovò Mimeticus, curioso - Anche troppo. La ricerca è durata abbastanza poco, e non è stato difficile recuperarlo dal nido. Tutta questa facilità mi fa preoccupare…”
“Be’, questa facilità ci ha aiutato. - confutò Togern - Grazie a noi la guerra può finire quasi subito, dopo nemmeno un anno dall’inizio. Ci manca solo una cosa da fare.”
Potrebbe finire. - lo corresse Livaz - Dobbiamo ancora raggiungere Ma…lo Stregone di Fuoco, e scoprire se tutto questo è davvero causa sua.”
“Come raggiungiamo lo Stregone di Fuoco, quindi? - domandò Mantra - Abbiamo il Cuore dello Scudo, funziona…e ora?”
“Credo che dovremmo andare nei territori del Vulcano.” spiegò Mimeticus.
“Questa è la parte che ho sempre temuto di questa missione… - rabbrividì Mantra, porgendo il Cuore dello Scudo a Livaz - Noi quattro dovremmo infilarci nel Monte Vulcano, passare sotto gli occhi di migliaia di gormiti del Vulcano e andare a fare quattro chiacchiere con niente meno che…che Magor?!”
Mantra cercò di tranquillizzarsi massaggiandosi la testa con entrambe le mani, ma, tutta tremante, il risultato fu un’azione degna di un’espressione di disperazione.
“E’ da pazzi. Nessuno si è mai recato lì da tantissimi anni, nemmeno il Vecchio Saggio, e noi siamo solo in quattro! Come faremo a uscirne vivi…anzi, a entrare vivi? Quelli ci ammazzano appena ci vedono arrivare.”
Mantra era palesemente disperata ora. All’arrivo alla Biblioteca Silente aveva promesso di fare del suo meglio per portare a compimento quella missione, per far trionfare la verità, per farsi valere.
Ma il pensiero dei rossi assassini di fuoco, di entrare nella loro casa di fiamme e terrore, dove nessuno gormita aveva mai messo piede da lunghi anni, dove regnava la figura oscura e malevola di Magor, proprio non riusciva a sopportarlo.
“C’è la magia, Mantra… - propose Mimeticus - Incantesimi di occultamento, di mimetismo.”
“Se fosse davvero così facile, credi che non fosse già pieno di gormiti come noi? - gli rinfacciò - Il Monte Vulcano è un luogo che non conosciamo, pieno di nemici. Le magie non durano per sempre…no, è troppo difficile. Troppo difficile per me.”
Mimeticus tentò con le mani in avanti di proporre qualcosa in più per convincere Mantra che quella missione era fattibile, che non c’era nulla da temere, o meglio, che c’era meno di cui preoccuparsi di quanto Mantra credesse, ma Scovanascondigli lo fermò, prendendolo per la spalla, e facendogli segno di no.
“E’ libera di scegliere, Mimeticus. - gli disse - Prima ho commesso l’errore di credervi tutti pronti e convinti di compiere questa cosa con me, ma mi sbagliavo. Tutti siete liberi di mollare quando volete.”
“Quindi…quindi voi andrete?” singhiozzò Mantra.
“Io senza dubbio. - asserì Togern - Dovessi rimanere da solo, andrò fino alla fine e morirò da eroe, se il destino vuole questo.”
“Io sono con lui. - gli si affiancò Mimeticus - Credo che le sue ipotesi siano vere, e che la verità debba essere nota a tutti.”
“Io non ho nulla da perdere, e un viaggio a Vulcano non mi spaventa…non molto.” terminò Livaz.
“Va bene, allora. - sospirò Mantra - Sarò l’unica disertrice…ma…ma…niente.”
“Ehi, prima di andare aspetta. - la fermò Mimeticus, recuperando l’uovo di grifone - Sai tornare alla Biblioteca, no? Mio padre lavora lì. Portagli l’uovo, e digli ti averne cura, va bene?”
“D’accordo, Mimeticus. - e prese l’uovo - Allora, arrivederci, e buona fortuna.”
“Sì, speriamo proprio di rivederci.” mormorò Livaz.
 
I tre rimanenti componenti della compagnia del Cuore dello Scudo si trovavano appiccicati alle mura di una piccola capanna, resi invisibili dalla magia che a breve si sarebbe disattivata.
Il suolo ai loro piedi era rossiccio, e davanti a loro, nella lontananza, si ergeva il rilievo minaccioso del Monte Vulcano, con i suoi occhi e la sua bocca infuocati che vedevano tutto.
Non era un panorama confortante, affatto. La montagna era già spaventosa prima del lavoro operato dai vulcanici, ora era decisamente terrificante e mostruosa. Un gigante di fuoco e di rabbia che sovrastava l’Isola e inceneriva con il suo sguardo.
Per loro fortuna era l’unica capanna nelle immediate vicinanze. Ce n’era solo un’altra, poco più in là, ma il destino propizio aveva fatto chiudere la porta di legno poco prima del loro arrivo, anche se provenivano delle luci dal loro interno.
Erano giunti presso il territorio vulcanico con una modesta barchetta, dopo essersi riposati l’intero giorno precedente, di mattina presto. Il sole giallo - rosso stava sorgendo in quel momento, illuminando i fianchi del Monte di Fuoco, che da nero cupo diventava presto rossiccio.
Raggiunta la costa nord-occidentale di Darth Kuun, avevano immediatamente attivato un incantesimo di invisibilità, riattivandolo ogni volta che si rifugiavano in un luogo nascosto e buio. Finché la loro scorta di smeraldi rimaneva, e finché erano in vita, avevano abbastanza energia per ricaricare sé stessi e ripetere l’incantesimo di invisibilità. Sapevano tuttavia di non poter contare su quella magia per tutto il tragitto, ma avevano il loro piano.
Per il primo tratto di strada, diretti alla città occidentale del Vulcano, Rabukh, i vulcanici erano stati scarsi e le case quasi assenti. Non c’era stato bisogno né del Cuore dello Scudo ne di combattere –e speravano con tutta l’anima di non doverlo fare, o tutto sarebbe stato compromesso.
Per la maggior parte si trattava di modeste tende militari, ma si avvicinavano ormai alla periferia di Rabukh, e avrebbero dovuto abbandonare la loro fiducia nell’incantesimo di invisibilità.
Togern era il più attento, davanti agli altri due, immobile, trasparente e silenzioso, aderente alla capanna. Dentro vi era un gormita che parlava nella lingua del Vecchio Saggio, da solo, o almeno così sembrava, poiché non vi era nessun’altra voce, e Togern sentiva un solo odore.
Sembrava riflettere su qualcosa riguardante prigionieri e assalti al Vulcano…tutto poco chiaro, parlava flebilmente, ma Togern, coi suoi sensi sopraffini, percepiva chiaramente il suono della penna sulla carta. Doveva essere un militare di un certo grado, che compilava un diario di guerra.
Poi, e questa volta anche Mimeticus e Livaz lo udirono, il vulcanico all’interno della tenda si alzò rumorosamente dalla sedia su cui stava seduto a scrivere, e uscì dalla tenda, intonando una canzone.
 
Infinito amore per te, natura
La tua grandezza e maestà pura

Parla attraverso ogni creatura
 
Meriti tutto il rispetto
Dei tuoi figli al tuo cospetto
Per il dono della vita dal tuo petto
 
Con sua grande sorpresa, il sonetto che intonava era una canzone piuttosto nota, e soprattutto di tema molto profondo.
Non poteva canticchiarla così casualmente: doveva credere nelle parole della canzone, nel rispetto per la natura e per tutte le sue creazioni.
Ascoltando la voce del vulcanico, Togern comprese come il Popolo del Vulcano non fosse poi così diverso dal suo, da tutti gli altri. Erano gormiti come loro, che per la loro natura bellicosa e violenta erano stati allontanati dalla civiltà, e la continua discriminazione aveva fatto scatenare in loro la rabbia che li portò a compiere il Grande Sacrificio.
La colpa, la causa della situazione attuale era anche loro, di ogni gormita. Bene lo sapeva Scovanascondigli, così come ogni gormita sull’Isola, da sempre istruito dai padri a mostrare generosità nei confronti dei vulcanici e a non attaccarli mai per primi, perché la storia non confluisse in un sanguinoso ciclo di Grandi Sacrifici che avrebbero dannato per sempre la civiltà gormitica.
Tuttavia, in quel preciso momento, per quanto Togern fosse più che mai convinto degli insegnamenti dei padri, c’era una guerra in corso, e la figura estranea dello Stregone di Fuoco che aveva avvelenato le menti del Popolo del Vulcano così come, forse, anche quelle degli attuali Signori di Gorm. D’altra parte, non potevano completamente esimersi dall’uccidere.
Continuando a ripetere gli stessi versetti, il vulcanico, spoglio di qualsiasi armamento o abito, giunse infine dietro la tenda, ignaro delle tre presenze.
Invisibile, Mimeticus azionò il Cuore dello Scudo, pronunciando a voce imperioss le parole “Resta fermo.”
Il fascio dal Cuore colpì il gormita, che sembrò non aver nemmeno sentito la voce del forestale, e si immobilizzò contro la sua volontà, mentre Togern gli infilzava lo stomaco con delle lame di pietra. Cadde a terra, con il ventre bucherellato e insanguinato.
“N-non dovevamo ucciderlo.” balbettò Mimeticus, con voce terrorizzata
“E’ vero. - concordò Togern - Sarebbe stato meglio risparmiarlo, come ci è stato insegnato, ma non dimentichiamoci che siamo in guerra, e non possiamo permetterci tutto.”
“No, no, sono tutte balle! Scusatemi!” negò tutto ciò che aveva detto prima il forestale.
“Ma non è vero, non sono balle. - commentò Livaz, confuso - E di cosa dovresti scusarti?”
Mimeticus lasciò cadere il Cuore dello Scudo, che appena non fu più tra le sue dita divenne visibile.
“Quel…quel coso. - balbettò, questa volta con la sua voce abituale - Appena ho smesso di usarlo…mi ha…mi ha fatto avere paura. Paura della correttezza delle mie azioni. Tutte le mie azioni, mi ha fatto ripensare a tutte quelle decisioni che avevo sempre creduto fossero state giuste.”
“Be’, c’era da aspettarselo. - commentò freddo Livaz, raccogliendo l’amuleto che ritornò trasparente - Un oggetto con un tale potere non poteva non avere un effetto collaterale. Sembra quindi che provochi paura e insicurezza.”
“Credete che sia per questo che Mantra ci ha lasciato?” suppose Scovanascondigli, sicuro delle teorie di Livaz.
“E’ probabile.” replicò secco Aquila Solitaria.
“Sia quel che sia, non possiamo starcene qua fuori a parlare, con questo tizio morto per terra. - parlò Mimeticus, completamente ripreso - Entriamo, e passiamo all’altra fase del piano.”
Presero tutti e tre il corpo esanime del vulcanico, che era troppo grande e troppo poco a contatto con loro per divenire invisibile, e lo portarono dentro la tenda, dove si chiusero, una volta disattivata la magia di occultamento.
Mimeticus si abbassò, sondando il corpo morto, in cerca di qualcosa di particolare. Livaz si guardò intorno, osservando le diverse armi e gli svariati accessori militari contenuti all’interno della tenda. Si mise poi a sfogliare il diario sul tavolo al centro.
“Sei sicuro che funzionerà, Mimeticus?” domandò Togern al compagno della Foresta, osservandolo.
“Certo. - rispose sicuro - Me l’ha insegnata il Vecchio Saggio, e l’ho già provata.”
“E che cos’ha di diverso, me lo ricordi?”
“Dura di più. - rispose Mimeticus, strappando un ciuffo di peli giallognoli dalla spalla del gormita - E il dispendio energetico è minore.”
Alzandosi, fece una piccola palla di pelo gialla, che portò alla bocca di Scovanascondigli.
“Avanti, ingoia, Scova.” gli disse, cercando di fargli aprire la bocca.
“Ma no! - rifiutò disgustato Togern, allontanandosi - Perché io?”
“Andiamo, uno vale l’altro. - e Mimeticus gli ficcò la palla di pelo in bocca - Dai, mandalo giù bene.”
“Non è facile inghiottire dei peli.” commentò Scovanascondigli, con un’espressione nauseata.
Poi Mimeticus parlò, tenendo la mano aperta e alzandola e abbassandola lungo il corpo di Togern “Mutatio apparens.”
Subito attorno al terricolo apparve un alone di fumo chiaro, che lo avvolse rapidamente. Quando scomparve, il corpo di Togern…non era più quello di Togern, bensì esattamente quello del gormita ucciso poco fa.
Togern si guardò, meravigliato ma anche un po’ irritato dal vedersi in quel modo.
“Ha cambiato solo il modo in cui ti si vede, il tuo corpo non è cambiato. E’ un’illusione.” spiegò Mimeticus
“Esattamente come l’incantesimo tradizionale. - osservò Togern - Che cos’hai trovato, Livaz?” chiese poi, girandosi verso l’aereo intento a perlustrare ogni proprietà del vulcanico.
“A parte la cattiva calligrafia del tipo, - iniziò - queste, che possono tornarci utili.”
Mostrò nelle sue mani una catena e delle manette, insieme alle chiavi per aprirle e chiuderle.
“Sì, fanno proprio al caso nostro, proprio come avevamo pensato” commentò entusiasta Mimeticus.
“Aspetta. - li raffreddò Scovanascondigli, colto da un immane dubbio - La mia voce non è cambiata. Potrebbe essere un problema.”
“Speriamo di non dover parlare con nessuno, allora.” dichiarò conciso Livaz, mettendosi le manette.
“In caso contrario, ti inventerai qualcosa di credibile.” ideò Mimeticus.
“Sembrate molto sicuri di voi stessi…” osservò Scovanascondigli.
“Sappiamo cosa c’è in gioco. E ormai ci siamo dentro, e abbiamo ucciso quel tizio: tanto vale andare fino in fondo.” replicò sorridente Mimeticus.
“Immagino di dovervi ringraziare per essere venuti con me.” mormorò il terricolo.
“Ci ringrazierai quando avremo finito. - disse seccato Livaz - Abbiamo ancora strada da fare, prima di arrivare a Rabukh, e il Vulcano è ancora lontano.”
I tre uscirono, con Togern occultato dall’immagine del vulcanico, con una catena in mano, a cui erano legate prima le manette di Mimeticus, poi quelle di Livaz, entrambi chini.
Percorsero un buon tratto di strada in silenzio, disturbati da niente e nessuno. Era ancora mattina presto, e anche i soldati accampati nelle rare ma sempre più frequenti tende dormivano ancora.
Non ci mancò molto, una volta entrati a Rabukh –lo poterono constatare dalle grandi case familiari e gli enormi campi che cominciavano a spuntare - che qualche gormita cominciò a commentare il trio diretto a Vulcano, e che questo ricominciò ad avere paura.
“Ehi, Efernus!” chiamò una voce gracchiante, proveniente da un gormita appoggiato a una finestra, con un cosciotto sugoso in mano, intento a sgranocchiare rumorosamente. Dietro di lui si poteva vedere la sua famiglia a fare la colazione.
Togern gli si avvicinò, sicuro che stesse chiamando lui.
“Chi sono queste carogne?” chiese, puntando il cosciotto verso di loro e facendo schizzare gocce di sugo sul volto di Mimeticus.
“Prigionieri.” rispose secco, e fu lì per intavolare il bel discorso che si era organizzato quando, come temeva, quel vulcanico lo interruppe con una domanda.
“Ehi, che diamine hai fatto alla voce?” chiese con la bocca piena, e un tono sospettoso.
“Uno ‘scherzo di un mio amico. - si inventò Togern sul momento - ‘Amico’, tsk. La prossima volta che lo becco in giro gli stacco le orecchie.”
Il compagno fece una risata, e nella sua bocca si poteva vedere tutto il cibo che stava ancora masticando.
“Capisco, capisco… - disse poi - che ci devi fare con questi?”
“Spie. - rispose - Sanno molte cose…un po’ troppe. Li sto portando dallo Stregone di Fuoco, li spellerà a dovere prima di ammazzarli o mandarli nelle Miniere.”
“Bene, bene. - disse - Spero che li mandi a Sangor a spezzarsi la schiena!” e lanciò l’osso del piatto appena terminato sulla testa di Aquila Solitaria. “Vai, vai, lo Stregone di Fuoco non ama aspettare!”
Si incamminò dunque senza salutare – non che il compagno l’avesse fatto - diretto verso il centro di Rabukh. Il Monte di Fuoco era sempre più vicino, ma ancora molto lontano. Il suo sguardo non era più completamente visibile.
Lungo il cammino, ‘Efernus’ si trovò a ripetere la stessa storia più volte, e più volte Mimeticus e Livaz furono punzecchiati dai passanti. Aquila Solitaria ricevette addirittura uno schiaffo, e si trattenne a fatica dal rispondere.
E dire che non volevi essere tu la guida! urlò nella mente di Togern, con un tono così rabbioso che Scovanascondigli si sentì come in mezzo al fuoco.
Per rendere il viaggio meno lungo e faticoso, e per agevolare la situazione dei suoi due compagni, Scovanascondigli decise di salire su un cocchio, diretto a Monte Vulcano. A parte scarsi viveri, l’unica cosa di valore che possedevano erano gli smeraldi carichi di energia. Al termine del tragitto attraverso Rabukh, furono costretti a sganciarne tre al cocchiere, non prima di averli completamente prosciugati.
La carrozza scomparve, e i tre si trovarono quindi davanti a Monte Vulcano, proprio ai suoi piedi, di fronte alla grande entrata. C’era un viavai di vulcanici come mai nessuno, in quegli ultimi trent’anni, aveva visto.
E loro tre non avevano mai visto nulla del Vulcano, se non disegnato sulle pagine dei libri o immaginato dai racconti di paura degli anziani e del Vecchio Saggio, che dipingevano quei luoghi come mostruosi e inospitali, da cui tenersi alla larga.
I tre erano insicuri. Non sapevano dove si trovasse Magor di preciso, né come arrivarci. E non sembravano esserci mappe nei dintorni, e chiedere informazioni a qualcuno avrebbe alzato troppa polvere.
Erano persi in territorio nemico, il peggiore e più grande nemico che esistesse sull’Isola di Gorm.
In loro aiuto, non per la prima volta dall’inizio della missione, giunse quindi la fortuna.
“Io non passerei di lì per portare quei due da Magor.” esclamò un gormita lì vicino.
Era un vulcanico magro e anziano, appoggiato a una parete.
“Come dici?” richiese spiegazioni Togern, avvicinandosi allo sconosciuto aiutante.
“Se vuoi portare questi prigionieri da Magor vivi e vegeti, è meglio non passare per l’interno del Vulcano. Sai, è pieno di gente lì, e di gente che non esiterebbe a dar loro qualche botta gratuita, a meno che non mostri i denti, ed è meglio non farlo. Fidati, meglio passare per l’altra via.”
Osservò i due gormiti, chini e legati da catene e manette, con una finta espressione di dolore e pena.
“Prima di arrivare da lui, il tuo uccellino potrebbe essere tutto spennato, per non parlare del tronchetto qua…”
“Perché tu sembri contrario a queste azioni?” domandò curioso Togern
“Be’, sono azioni inutili. - spiegò il vulcanico - Non è maltrattando i nemici che li si conquista. Certo, bisogna combatterli, ucciderli, e devo ammettere che non mi dispiace la lotta. Però, meglio abituarci a vivere in pace, no? Tanto alla fine sarà così…almeno spero.”
“E’ una buona visione delle cose… - osservò Togern - Comunque, dov’è quest’altra via di cui parli?”
“Seguitemi.”
Il misterioso vulcanico li portò lontano dall’ammasso di gormiti rossi in movimenti e dall’aria afosa pervasa da schiamazzi e parolacce, in un luogo più appartato.
Non mi fido così tanto, Togern - gli riferì Mimeticus - E’ troppo gentile.
Nemmeno io. - fu d’accordo - Hai sentito come parla, credo che sappia qualcosa.
Vi capisco, neanch’io ho tutta questa fiducia. Ma vediamo cos’ha da dirci. cercò di tranquillizzarli.
Sulla fiancata del Monte Vulcano di fianco a loro si stagliava una lunga tortuosa scalinata, che non sembrava affatto essere stata scolpita da mani gormitiche, ma più scavata dal vento, dalla pioggia e dalla lava del vulcano. I gradini, di dimensioni irregolari, erano grossomodo di discreta grandezza e ci poteva camminare a malapena un singolo gormita.
“Questa scalinata porta direttamente alla camera di Magor, o quasi. - illustrò il vulcanico, con il braccio rivolto alla serie di gradini - C’è un altopiano prima, poi una grotta e un’anticamera, e siete arrivati. E’ un po’ scomoda, ma arriveranno in salute da Magor.”
“Quant’è in alto la camera di Magor?” si fece scappare Livaz, con lo sguardo perso verso i fumi che oscuravano il cielo e l’interminabile fila di gradini rocciosi.
“Non temere per i tuoi piedi, non è molto alto. - lo rassicurò - Però, io mi preoccuperei per ciò che verrà dopo, caro mio. Se Magor vi vuole, dev’essere qualcosa di davvero serio, e una tallonite è sicuramente meglio di quello che vi farà lui. Be’, ora vi lascio. Buona scalata.”
Li salutò, ma non li lasciò. Rimase lì, a guardarli e ad aspettare che incominciassero a salire. I tre furono sospettosi di questo comportamento e, non volendo darlo a vedere, incominciarono la loro salita.
Anche quando ebbero raggiunto una certa altitudine, poterono vedere in basso il vulcanico osservarli.
“Credo davvero che sappia qualcosa.” affermò Livaz, con la propria voce. Anche se poteva vederlo, sicuramente non poteva sentirlo, e non c’erano gormiti nei dintorni che potessero udirli.
“E se questi gradini ci conducono ad una trappola? - immaginò Mimeticus - Eravamo così vicini…”
Siamo così vicini. - li raddrizzò Togern, strattonando la catena - Diamine, non perdete proprio ora. Eravate così sicuri poco fa, non potete pensare al peggio proprio ora che Magor ci è così vicino.”
“Hai ragione. - si riassestò Livaz - La verità è vicina. Vorrei però poterla trovare volando. Camminare non mi è mai sembrato così faticoso.”
“Andarcene da qui sarà tutto un altro paio di stivali. - commentò nervoso Mimeticus, guardandosi attorno in maniera paranoica - Potremo usare Magor come scudo…”
“Ci penseremo quando saremo da lui. - lo zittì Scovanascondigli - Ehi! - esclamò poi, con tono curioso e tutt’altro che teso - Com’è che adesso diciamo il suo nome così facilmente? Solo ieri tremavamo a sentirlo.”
“E’ meglio dare un nome alla propria paura, non trovi? - gli rispose Livaz, rischiando di inciampare su un gradino crepato - Un titolo elusivo e misterioso come Stregone di Fuoco non fa che aumentarla.”
“Fermiamoci un attimo.” supplicò Mimeticus. Togern accettò, e si fermarono.
La scalinata continuava ancora per molto, e sembrava farsi più ripida. In compenso i gradini erano più larghi.
In quel sentiero roccioso, così in alto sulla fiancata della montagna, potevano osservare un panorama vastissimo.
La città meridionale e la città orientale di Rabukh si allargavano sotto i loro occhi, piene di ampie case brune e di centinaia e centinaia di ettari di campi coltivati. Ai piedi del Vulcano i numerosissimi gormiti erano minuscoli pallini rossi che si muovevano veloci, come migliaia di piccole fiamme. La Valle del Vulcano più a sud si perdeva all’orizzonte, increspandosi di blu. Il Deserto di Roscamar era una sottilissima striscia azzurrina ai limiti della vista.
Sopra di loro, lo sguardo minaccioso e famelico del Monte Vulcano era completamente celato. Si vedevano invece chiaramente, e si sentivano anche, i fumi che da qualche tempo il Monte di Fuoco emanava in continuazione, creando incessanti ed eterne nubi di tempesta sopra il cratere del vulcano.
“Ci pensate? - esclamò Mimeticus con un sospiro di stanchezza, ma entusiasta - Siamo tre gormiti, di Aria, Terra e Foresta in pieno territorio del Popolo del Vulcano. Stiamo scalando il Monte di Fuoco per parlare con niente di meno che il loro capo lo Stregone di Fuoco Magor. Chissà da quanti secoli non accadeva una cosa simile. Peccato Mantra non sia qui a condividere con noi quest’emozione.”
“Già, Mantra. - sospirò Togern - Davvero un peccato. Ma forse è stato meglio così.”
Si alzò dal suolo, dove aveva appena consumato uno scarso pasto: “Forza, rimettiamoci in marcia.”
I tre, ancora legati dalla catena, continuarono il loro cammino verso l’alto, questa volta più silenziosi, per non sprecare fiato ed energia preziosi.
Senza ulteriori interruzioni, i gradini terminarono e giunsero infine all’altopiano che aveva descritto il benevolo vulcanico.
Era un piccolo spiazzo di terreno grigio liscio tra grandi rocce appuntite. In fondo si apriva una piccola grotta.
“Forse ho fatto male a non fidarmi del tipo, laggiù.” commentò Livaz, col respiro pesante, ma comunque soddisfatto dell’obiettivo raggiunto. Ora Magor era lontano solo pochi passi.
“Be’, bisogna vedere cosa c’è al di là dell’apertura.” disse pessimista Mimeticus. Togern lo guardò truce, uno sguardo reso davvero minaccioso dal corpo vulcanico che aveva preso in prestito.
“Va bene, va bene. Sarò ottimista.” si scusò immediatamente.
“Ehi, credi che possiamo toglierci queste manette adesso?” demandò Livaz, che non ne poteva più di stare coi piedi per terra. Voleva dare un po’ di aria alle sua bianche ali.
“Sì, adesso sì.”
Scovanascondigli estrasse le chiavi dalla sua bisaccia, e stava per riaprire le catene da Aquila Solitaria quando il suo sguardo – e il suo olfatto lo sentì anche - intravide, dietro una roccia, che guardava all’orizzonte, una figura inconfondibile.
Un corpo quasi grasso, interamente rosso. Braccia pressoché coniche, ampie agli avambracci e ai polsi, dita tozze. Quattro aculei, due sul petto e due sulla schiena. Faccia ovale, con quattro corna.
Non aveva dubbi, non poteva averne quando sia gli occhi che il naso non gli mentivano.
“Tu!” gridò rabbioso, lasciando le chiavi a Livaz.
Il gormita si voltò, udendo sorpreso l’urlo di Togern, ma vedendo solo un vulcanico caricare contro di lui come un toro.
“Ehi, Efernus, ma cosa?!” riuscì a dire, prima di venire completamente investito dal gormita, con una testata nello stomaco.
Togern lo prese per il collo e lo sbatté a terra, dove lo trattenne, stringendo il pugno fino quasi a strozzarlo.
“Efernus, ma che diamine stai facendo?!” schiamazzò, dimenandosi
Togern abbandonò l’incantesimo di mutamento, accorgendosi solo dopo dell’inutilità di averlo fatto. Almeno il vulcanico fu sconcertato da quella visione e sapeva con cosa aveva a che fare.
“Forse non mi riconosci, ma io ho riconosciuto te.” sibilò, alzandolo un pelo e schiacciandolo ancora.
“Tu sei quello che la notte del Torneo hai lanciato il globo rosso nell’Arena!” lo accusò.
“Il globo…cosa? - borbottò il gormita rosso - Io…io non so chi sei, come sei arrivato qui né di cosa stai parlando! Quando Magor o Magmion verranno qui, ti pentirai di aver osato tanto! Anzi, te ne pentirai subito!”
Il gormita spalancò la mano con il suo cannone sotto il petto di Togern, che fu scaraventato in aria da una sfera di fuoco.
Ne approfittò per alzarsi e scappare, ma non si era ricordato dei due ‘prigionieri’ che Scovanascondigli si era portato con sé, che gli si pararono davanti, Livaz in volo e Mimeticus col Cuore dello Scudo pronto all’azione.
“Avanti, usatelo!” ordinava Togern dietro di lui, che cercava di spegnere il fuoco.
Mimeticus obbedì, e il fasciò che imponeva al vulcanico di stare fermo colpì il bersaglio, che contro la sua volontà smise di agitarsi nella sua ricerca di una via di fuga.
“Dimmi cos’è successo all’Arena, quella notte.” comandò il forestale, e il vulcanico non poté opporsi.
“Ho…ho fatto un-un lavoro per Magor.” rispose balbettando, provando invano a tenere ferma la lingua e la bocca, che si muovevano senza che lo volesse.
“Che tipo di lavoro?!” domandò imperioso ancora Mimeticus
“U-un incantesimo c-contro i Signori, creato da-da Magor.”
Mimeticus passò il Cuore dello Scudo a Livaz, incapace di reggere oltre la paura e l’insicurezza che gli stava infondendo il manufatto.
“Che incantesimo?” chiese Aquila Solitaria
“Non lo so.” fu la risposta del vulcanico inerme
“Dimmi l’incantesimo!” insisté Livaz
“N-non lo so!”
“Basta, Livaz. - lo fermò Togern, rimessosi a posto - Se anche col Cuore dice di non saperlo, davvero non lo sa.”
“Ma è strano. - espresse Livaz, dubbioso, grattandosi la nuca - Magor non ha detto ai suoi di questa…maledizione? Non sanno perché i gormiti combattono tra di loro?”
“Magari solo questo qui non lo sa.” teorizzò Togern, facendo spallucce.
“Davvero improbabile.”
Intanto Mimeticus si era piombato sul vulcanico, steso a terra con la testa fra le mani, devastata dal potente attacco mentale del Cuore e, con una falce di osso, gli aveva squarciato la gola.
“Ehi, ma che fai? - gli domandò esterrefatto Togern - Perché l’hai ucciso?”
“Volevi essere benevolo anche con lui?” chiese in risposta Mimeticus, convinto della correttezza di quell’omicidio.
“No, ma poteva esserci utile. - chiarì Scovanascondigli - Poteva condurci da Magor.”
“Posso condurvi io da Magor, vermi.” si offrì una quarta voce, una voce sibilante e gorgogliante, che accapponava la pelle.
Dalla grotta che si apriva all’estremità dell’altopiano entrò una figura nuova, una figura alquanto temibile.
Il suo corpo magro, compatto e muscoloso era rosso come il fuoco e levigato e massiccio come il marmo. La sua forma era pressoché elfa. I suoi pettorali e gli addominali erano prorompenti, questi ultimi ricoperti di una corazza di una sfumatura zafferano, così come il bacino. A parte questo, era pressoché nudo. Il suo volto era raccapricciante. Un elmo giallo con tre creste grigie che partivano da dove nasceva il naso, forse anch’esso parte dell’armatura. Occhi gialli come il sole. Niente labbra, solo denti aguzzi e sporchi.
E poi veniva il peggio. Il braccio destro era completamente grigio rosso chiaro, ma non era della stessa fattura del resto del corpo. Non faceva parte della stessa creatura…Attaccato alla spalla con dei tentacoli che si dimenavano freneticamente sulla schiena e sul pettorale, una creatura con minuscoli occhi neri e una pinza letale viveva di proprio conto in simbiosi col gormita, agendo oltre la mente del gormita.
“Chi sei tu?” chiese con tono autoritario Togern, il Cuore pronto.
“Lavion Magmadoni, cari vermi, figlio di Sogres Magmadoni e fratello di Magmion Magmadoni, Signore del Vulcano.” rispose, con un inchino sarcastico, piegando al suo volere il braccio-chela davanti a sé, la cui pinza però continuava ad agitarsi, affamata di carne da sminuzzare.
“Magor vi ha visto, vermi. Un’azione davvero eroica, oh, che eroismo. Ma voi non andrete da nessuna parte.”
“Che tu sia il Signore del Vulcano o no, non ti temiamo. - ribatté risoluto Togern - Perché abbiamo questo!” e fece bella mostra del Cuore dello Scudo, mistico amuleto magico, parte del grande scudo misterioso.
“Ah già, il vostro aggeggio magico. - commentò Lavion, portando chela e mano ai lati del viso, fingendo disperazione - Uh, Menumia e Travor, salvatemi!” li canzonava.
Togern ne aveva già abbastanza, e azionò subito il Cuore dello Scudo, col desiderio di avere Lavion sotto il suo controllo.
Il Signore del Vulcano scattò rapidamente di lato, evitando il fascio del Cuore. E poi, dalla sua mano, creò una stalattite di roccia lavica, circondata da fuoco, che sparò come un proiettile contro il Cuore dello Scudo.
La precisione e la forza furono tali che Togern non riuscì a schivare il colpo. Il lapillo trafisse l’amuleto di metallo come fosse acqua. Con meraviglia e terrore da parte di Togern Scovanascondigli, Livaz Aquila Solitaria e Mimeticus, il Cuore dello Scudo si ruppe con un sonoro crack, in quattro pezzi e solo in quattro, nessun piccolo frammento in più.
“Oh, no! - li beffeggiò ancora una volta, facendo una vocina infantile - Il prezioso Cuore dello Scudo si è rotto! Ah, ah, ah!” e qui la sua voce si fece normale e terribile.
“Che cosa farete ora senza il vostro aggeggio magico, eh? Siete in mio potere adesso!”
“A-aspetta, Lavion! - tentò di contrattare Togern - Questa cosa non deve per forza finire così! Noi siamo gormiti come te! Non dobbiamo lottare.”
Lavion sembrò calmarsi, e la sua chela prese ad agitarsi meno velocemente.
“Pensa…pensa, tu puoi aiutarci. Sappiamo benissimo che è colpa nostra se è successo il Grande Sacrificio! Non abbiamo accettato la vostra natura…aggressiva, e vi abbiamo emarginato. Ma non è necessario colmare i vuoti, riparare gli errori con il sangue. Non abbandonarti ai tuoi impulsi e ai tuoi istinti. Ragiona! Vieni con noi, e aiutaci a scoprire la verità. Se lo farai, verrai ricordato per sempre come il vulcanico che ha scelto!”
Lavion esitò. L’argomento di Togern sembrava valido…fino a un certo punto.
“Balle! - gridò - Non potrò mai fare una cosa simile! I nostri pensieri sono inconciliabili! E poi, viva l’ipocrisia! Yeee! Chi diamine sei tu, che sei venuto nel mio territorio senza permesso, a smanettare col tuo aggeggio i miei sudditi con l’intento di attaccare me e Magor? Ora muori, tu e i tuoi compari!”
Piegò ancora il braccio - chela al suo volere, e una sfera di fuoco sempre più grande cominciò a plasmarsi davanti a lui. I tre indietreggiarono, sconfitti, e corsero in direzioni diverse.
Lavion avrebbe scagliato la sua palla distruttiva, se un calcio sferrato dall’alto non l’avesse colpito alla testa, facendogli perdere i sensi e il controllo sulle fiamme, che si spensero al suolo.
La figura alata guardò Lavion con derisione, prima di atterrare.
“Non posso biasimarlo, proprio, eh, eh! Sicuramente non se l’aspettava!” gracchiò.
“Ora, Livaz, vieni qua, da bravo, e andiamo a fare il culo a Gheos.” chiamò a sé Aquila Solitaria, nascosto dietro una roccia, guardando senza credere ai suoi occhi al gormita appena apparso.
“Padre?”
 
Né Togern, né Mimeticus né lo stesso Livaz, chiamato dal nuovo arrivato, poterono credere ai loro occhi.
Un gormita dal piumaggio azzurro, un lungo becco croco, delle ali come membrane, attaccate alle braccia che terminavano in arpioni all’estremità, un gormita che tutti sapevano morto, Livaz più di tutti. Non sapevano cosa dire. Tutto ciò era inspiegabile.
“Andiamo, Livaz! - lo incitò ancora una volta il nuovo gormita dell’Aria - E’ tempo del contrattacco dell’Aria, e tu non mancherai di vederlo!”
“Ma p - padre…” balbettò Livaz, dopo interminabili minuti di silenzio in cui ancora non poteva capacitarsi di ciò che aveva davanti e di ciò che stava succedendo.
“Padre…” disse ancora, guardandolo con un misto di meraviglia, estrema incredulità e solo una piccola percentuale di felicità. Non riuscì a spiccicare altra parola e continuò ad osservarlo incantato.
“Ma Noctis…” interloquì Togern, tremando, con le mani rivolte alla figura del Signore dell’Aria tornato dalla tomba “Tu…tu sei…sei davvero Noctis?”
Noctis annuì, e poi rise.
“Eh, eh, per voi è sicuramente una vista strana. - affermò rivolto a Togern e Mimeticus - Ma non per Livaz. O almeno, non dovrebbe. Se invece di stare sempre a svolazzare nei boschi stessi un po’ più a casa non saresti affatto sorpreso di vedermi.”
“Io… - prese parola Aquila Solitaria - Io non capisco…”
“Ma tu dovresti essere morto! - proruppe Mimeticus, irrequieto - Tutti sanno che sei morto! Gheos ti ha ucciso! Non sei un fantasma, vero?”
“Tsk! Gheos che mi ha ucciso! - lo schernì Noctis - Visto che nessuno sa le cose, ecco cosa è veramente successo: io ho solo finto di venire ucciso da Gheos! Era tutto parte del piano: io e l’esercito avremmo finto la sconfitta, così da poter entrare in stretto contatto con il Popolo della Terra, o qualsiasi Popolo ci avesse attaccato, lavorare con esso ed entrare a conoscenza di qualsiasi informazione e strategia in suo possesso!”
Noctis si mise in una posa trionfale e vanitosa, col becco che riluceva alla luce del sole, che traspirava scarsi raggi attraverso il fumo del Monte di Fuoco.
“Eh, eh! E’ stato davvero ottimo! Ora sappiamo tutto ciò che sanno i terricoli, o quasi. Abbiamo respinto tutte le forze di Gheos da Picco Aquila, e possiamo prepararci ad attaccare quelli che lui voleva attaccare!”
I tre erano completamente esterrefatti. Simulare la morte non era un’azione così grandiosa e sorprendente, ma ciò che Noctis e i suoi avevano costruito su quella finta morte era davvero spettacolare: tutto il panorama bellico-politico era ora completamente stravolto, il Popolo che era caduto per primo e che si era mostrato come il più debole, era adesso in rimonta e poteva dimostrarsi ben più forte del Popolo della Terra, che fino ad allora lo si riteneva il Popolo con più probabilità di vittoria.
“Ma io…io non ne sapevo nulla! Ti ho creduto morto fino adesso!” gridò Livaz, con tono piangente ma un volto asciutto.
“Te l’ho detto! Dovevi rimanere più vicino a casa. - ripeté Noctis, avvicinandosi al figlio e prendendogli la mano - Così avresti saputo tutto, e non avresti pianto…anzi!”
Aquila Solitaria poggiò il suo capo sul petto del padre, chiudendo gli occhi, felice che il suo genitore non fosse mai morto e che il suo dolore era stato vano.
Togern, così come Mimeticus, non poteva che condividere la felicità del suo amico nell’aver ritrovato il padre. Tuttavia, tutto ciò metteva in pericolo il suo Popolo, probabilmente era già in pericolo, e Scovanascondigli non poteva rimanerne indifferente.
Oltretutto, la missione in cui aveva riposto tanta speranza e rischiato molto era da considerarsi fallita. Il Cuore dello Scudo giaceva in pezzi al suolo, inutilizzabile, e senza di esso Magor non avrebbe dato alcuna risposta né aiuto.
Mimeticus, anch’egli cosciente dell’insuccesso della missione, aveva però altre cose per la mente.
“Come hai fatto a trovarci…cioè, come avete fatto a trovarci?” chiese curioso il forestale, non dimenticandosi del rispetto dovuto a un Signore, anche ‘nemico’.
“Ho chiesto in giro. - rispose, scostandosi Livaz, ormai rassicurato e tranquillo, dal petto - Mi avevano detto che Livaz si era incontrato con dei suoi amici…una voce qui, una voce là, il Vecchio Saggio…e sono arrivato qui. In tempo, anche. Mi hai fatto preoccupare tantissimo, Livaz.”
Se Noctis era stato o era tormentato per la salute del figlio, non lo dava a vedere. Era tranquillo e pure vivace, come se ciò che gli accadesse intorno non lo toccasse.
“Ma non ho ben capito cosa ci fate qui, a Monte Vulcano. Monte Vulcano! - esclamò - Avete corso un rischio davvero grosso, eh! Verrete sicuramente ricordati per questo…anche se non capisco perché.”
I tre si scrutarono l’un l’altro, indecisi. Il Vecchio Saggio li aveva informati, o meglio, avvisati con una certa sicurezza delle proprie parole che dire la verità riguardo la ‘maledizione’ che aveva avvelenato le menti dei Signori non avrebbe provocato alcun effetto, non avrebbe cambiato nulla.
Tuttavia non avevano alcuna prova che le supposizione del Vecchio fossero effettivamente corrette, e quindi Mimeticus parlò.
“Ci siamo messi alla ricerca del Cuore dello Scudo, un amuleto magico con la capacità di controllare le menti altrui, che ora è rotto, per usarlo su Magor. Siamo giunti alla conclusione, verificata da quel gormita morto, che voi, voi Noctis, Gheos, Tasarau e Poivrons, vi odiate l’un l’altro e vi combattiate per questa magia che Magor ha creato per voi.”
Noctis sembrò stupito. “Dite sul serio? Questo è davvero…importante.”
“Vi sentite…cambiato?” azzardò Togern, con poca speranza
“In che senso?” domandò il Signore dell’Aria, non capendo.
“Provate ancora avversione verso Poivrons e gli altri?”
Noctis si ammutolì. La sua mente esplorò i ricordi, mostrandogli immagini ed episodi di Poivrons, Gheos e Tasarau. Strinse i pugni, e parve diventare nervoso.
“Sembra di sì. Poca, come sempre. Voglio vederli sconfitti, e basta.” dichiarò, piuttosto distaccatamente, come se quella verità non fosse poi così sorprendente ed importante come aveva detto poco fa.
“Quindi abbiamo fallito. - dichiarò Togern - La guerra andrà avanti, e i gormiti saranno sempre più convinti di avere il diritto di conquistare l’Isola a nome di un solo Popolo, quando è la pace tra tutti che bisogna ricercare.”
Noctis si sentì colpevole del baratro in cui Gorm stava cadendo, e nella sua mente dava la colpa anche agli altri Signori, che gli avevano dichiarato guerra. Erano loro ad aver dannato l’Isola, solo loro…no, non poteva pensare a simili cose, non ora che la verità gli era stata rivelata. Doveva provare a domarsi.
“Sentite, io non posso farci nulla. - si difese dunque - Soprattutto ora che so come stanno davvero le cose. Voi gormiti, piuttosto, siete voi che potreste aiutare a sanare le cose.”
“Ci abbiamo provato, Signore dell’Aria!” ribatté con tono di rimprovero Togern, convinto che Noctis lo abbia accusato di nullafacenza e disinteresse.
“Non intendo in questo modo. - si spiegò - Intendo: questa è la nostra guerra, tra me e gli altri Signori. Voi avete avuto la possibilità di non venirci incontro, eppure l’avete fatto. Nonostante questo, potete ancora dire la vostra e lasciare che siamo noi a sbrigare le nostre cose.”
“Ci state invitando a spodestare i nostri Signori?” domandò incredulo Mimeticus.
“Non esattamente, però…le cose potrebbero finire così.”
Il silenzio seguì. Il gruppo di Scovanascondigli aveva tentato. Aveva scoperto la verità sulla guerra, aveva attraversato senza danni centinaia e centinaia di piedi di assoluto territorio nemico, aveva scalato Monte Vulcano e giunto vicinissimo alla meta, allo Stregone di Fuoco Magor. Eppure, quando era ormai così vicino, aveva fallito. Non c’era nulla più da fare. Cos’altro inventarsi ora, a cos’altro aggrapparsi? Il Cuore dello Scudo non esisteva più, non come oggetto che potesse essergli utile nel loro intento. La Grande Guerra di Gorm sarebbe dovuta proseguire finché un solo Signore non fosse rimasto in piedi, o finché il Popolo del Vulcano non avrebbe conquistato ogni Popolo.
“Io non posso fare nulla per aiutare le cose. - ribadì Noctis, rompendo il triste silenzio di riflessione e pessimismo - Però posso portarvi a casa. Non è una buona idea scendere il Vulcano e passare di nuovo per Rabukh. Lavion o come si chiama non starà svenuto in eterno, e Magor potrebbe venire da un momento all’altro, magari ci sta osservando in questo stesso istante…”
“Accettiamo, Signore dell’Aria.” lo ringraziò Togern.
Mimeticus andò incontro a Scovanascondigli, che osservava deluso i quattro pezzi del Cuore.
“Cosa facciamo adesso di questo coso? - gli chiese, continuando ad osservare l’ormai inutile accessorio magico - E’ ferro vecchio.”
“Potrebbe ancora essere riparato, Scova. - lo confortò - Forse non tutto è perduto.”
Raccattò i frammenti e li pose in mano all’amico della Terra.
“Tienili tu. - gli disse - Non lo avremmo mai trovato senza di te, e non avremmo mai scoperto la verità.”
“Suppongo tu abbia ragione. - sospirò Scovanascondigli - Anche se dovrò tenerlo con me per molto. Il mio Popolo avrà bisogno di me ora che Noctis ha contrattaccato.”
“Allora, siete pronti?” li incitò ad affrettarsi Noctis, prendendo Togern tra i piedi, mentre Livaz raccoglieva Mimeticus.
“Ti porterò fino al confine, Scova. E’ meglio che non mi faccia vedere a Roscamar.”
***
Il comandante terricolo osservava attenta l’orizzonte, dove il Monte Vulcano regnava, mentre l’852 volgeva al termine, Tealoo la luna più grande nel cielo, col suo sguardo di fuoco e il suo perenne fumo nero che saliva verso l’alto.
Il ritorno in gioco del Popolo dell’Aria aveva scombussolato tutti i piani del Popolo della Terra, che si ritrovò a dover riunire tutte le forze inviate all’esterno e fortificare le difese di Roscamar, della Città Sotterranea, di Garsomor, il centro nella Valle dei Canyon e di tutti i villaggi.
Non biasimava il suo Signore per la ‘sconfitta’ subita da parte del Popolo dell’Aria, ora in possesso di molte informazioni riservate: nessuno poteva prevedere un gesto simile.
Maggior parte delle truppe fuori erano rientrate, ed erano impegnatissime a formulare nuove strategie –quelle precedentemente elaborate erano per la maggior parte inutilizzabili o da cambiare alla radice a causa delle azioni del Popolo dell’Aria - e ad aiutare i civili ed erigere nuovi accampamenti e ripari. La truppa più importante, però, quella che includeva Gheos, non era ancora tornata, e tutti i soldati attendevano impazienti il suo arrivo per direttive su come e dove agire ora.
Mentre le truppe venivano inviate o semplicemente erano impegnate in territori esterni, sotto comando di Gravitus erano state attuate grandi operazioni di scavi sotterranei, per creare una fitta di rete di tunnel che collegasse la Città Sotterranea e gli altri centri della Terra con diversi luoghi di tutta Gorm. Diverse schiere erano tornate per queste vie, e, dalla lettera inviata, anche quella capitanata da Gheos avrebbe fatto altrettanto, diretta a Roscamar.
Il comandante, carico di armamenti e di accessori degni di un militare del suo grado, guardava irrequieto davanti a sé, verso Monte Vulcano, da cui poteva giungere un attacco in qualsiasi momento, pronto col suo schieramento. Quello era solo un piccolo accampamento nella Valle dei Canyon, e per arrivare lì un esercito vulcanico avrebbe, nella maggior parte dei casi, dovuto radere al suolo le forze ammassate a Garsomor, più a nord.
Egli sperava che ciò non accadesse, ma doveva comunque aspettarsi di tutto, e tenersi pronto, ed essere guardingo verso nord, così come tutti gli altri soldati, verso il peggiore covo dei peggiori nemici.
L’attenzione rivolta a settentrione fu un grosso errore.
Arrivarono dove meno se li aspettavano, portando le loro fiamme e la loro furia dal mare.
Sbarcati sulla spiaggia orientale, nascosti e non rilevati, cominciarono a devastare l’accampamento senza scrupoli, distruggendo le tende, bruciando i viveri, ferendo e uccidendo i terricoli, sregolati, armati di spade, asce, archi e balestre.
Dove passavano, tutto cambiava. Dove c’era ordine, ogni cosa era mandata all’aria, dove c’era vita e benessere, venne morte e dolore.
Non sembravano interessati particolarmente a una cosa o a un’altra. Razziavano le tende, buttavano tutto a terra, ferivano e uccidevano anche. Non si preoccupavano di nulla. I gormiti rimasti solo feriti o storditi venivano lasciati dov’erano. Qual era il loro scopo?
Quanti fossero, non poteva venire detto. Erano sicuramente più di quanti ne fossero presenti nell’accampamento.
Due vulcanici sembravano essere alla guida del grande gruppo, combattevano in prima linea e procedevano ogni altro.
Uno era un alto e muscoloso gormita, dalla pelle color mattone, e alla vista ruvida e rugosa, composta da squame poligonali. I piedi erano due paia di zoccoli color mandarino. La testa era difesa da una insolita maschera grigia, forse naturale, che lasciava scoperta parte del viso. Proteggeva gli occhi blu, e dalle sopracciglia, passando per le tempie, arrivava a proteggere basette e mandibola, terminando in due aculei gialli.
La sua mano sinistra sbiadiva in giallo. L’avambraccio e la mano destra erano abnormi e inquietanti, che si chiedeva come potesse rimanere dritto con un tale peso su solo una parte del corpo. Esso non era rosso come il resto della pelle né sfumava in giallo come l’altra mano, ma mutava in grigio cenere, e la durezza e la diversità nei confronti del resto di quel braccio erano chiare.
Un colpo di quel braccio da solo poteva stendere un albero con facilità. Purtroppo, il braccio andava a fuoco. Letteralmente, era ricoperto di fiamme, che non sembravano procurare dolore al gormita, una letale aggiunta alla forza distruttrice di quell’arto. Nonostante la grandezza e la maniera con cui lo usava, non si sbilanciava mai, se non leggermente.
L’altro gormita era più smilzo, poco più basso. A primo impatto, a giudicare dalla lunga e sottile coda, rassomigliava una lucertola. Ma il suo corpo era peloso, e il suo capo triangolare con due occhi gialli ai lati sembrava quello di un insetto.
Pelo rosso ovunque, e qua e là una sorta di scaglie grigie. Le sue dita e le sue unghie erano gialle, e scariche elettriche ne fuoriuscivano. Come ci riusciva chi lo sa: probabilmente era un suo potere speciale, come altri gormiti potevano emanare tossine o sputare acidi.
Quando giunse notizia al generale di ciò che stava accadendo, l’esercito vulcanico era già avanzato, il suo numero quasi invariato, e l’accampamento era per metà distrutto.
Il gormita fu terrorizzato. Tutto il giorno, tutti i giorni aveva guardato a nord, pronto a un assalto vulcanico, il suo esercito preparato ad ogni evenienza…tranne a un attacco sorpresa da est.
Qualsiasi fossero le loro precise intenzioni, era chiaro che erano diretti a Garsomor. Di abbandonare l’accampamento e dirigersi a difendere la città era fuori discussione: dovevano impedire che ci arrivassero, o almeno rallentarli. Ma il loro numero era troppo grande, e non sarebbero stati capaci di tenerli fermi per molto. Serviva loro aiuto. Aiuto. Gheos e la sua legione erano in viaggio diretti alla Città Sotterranea. Gheos! Se fossero ancora abbastanza lontani, avrebbe potuto inviare un messaggero ad informarli di non andare verso la Caverna di Roscamar, ma nella Valle dei Canyon.
Era l’unica opzione rimasta, o Garsomor sarebbe caduta.
Con i vulcanici ormai alle calcagna che cominciavano a far piovere lapilli e frecce, il comandante uscì dalla sua tenda, dove aveva scritto la lettera con il messaggio da lui firmata, e corse tra le tende svuotate dei gormiti pronti a combattere chiamando a gran voce: “Stalattite! Stalattite!”
Al suo richiamo giunse un giovane e snello gormita della Terra. Dai suoi avambracci crescevano due sottili e appuntite protuberanze ossee simili a stalattiti. Stalagmiti sembravano le sue gambe da cui uscivano piccoli piedi –forse era l’armatura. Il suo volto era anch’esso fino, levigato e triangolare, adornato da una corona di aculei, occhi color sabbia.
“Comandante, ai vostri ordini.” gli disse mettendosi sull’attenti appena arrivato.
“Stalattite, la situazione è grave. - sostenne il comandante, guardandosi dietro e conducendo sé e il soldato in un luogo sicuro, dove nessuno potesse vederli - Tu sei il migliore a correre, e non solo. Ti devo affidare un incarico importante.” gli mise entrambe le mani sulle spalle.
“Ogni cosa, comandante.” disse deglutendo Stalattite.
Il comandante estrasse dalla sua cintura una carta arrotolata e la consegnò a Stalattite.
“Questa è la mappa dei tunnel sotterranei. - spiegò. Gli diede poi un altro foglio piegato - E questo è il mio messaggio per Gheos. Devi dirigerti nei tunnel, trovare Gheos e il suo gruppo e dirgli di recarsi a Garsomor, e no nella Città Sotterranea! Hai capito? Ora vai, vai, corri!”
Gli diede una poderosa pacca sulla schiena, mentre obbediva silenziosamente e voltandosi cominciò a correre. Lo osservava speranzoso e preoccupato infilarsi nell’entrata nascosta della rete di tunnel sotterranei.
Il tempismo e la fortuna del comandante e di Stalattite furono dalla loro parte, perché poco dopo i vulcanici erano già arrivati nel centro delle tende e il gormita con il pugno infuocato lo buttò a terra con il suo braccio sproporzionato, dopo che una freccia lo aveva fatto chinare, colpendolo nell’incavo del ginocchio.
Il comandante si voltò timoroso, con la gamba ferita piegata in modo che la freccia non gli trapassasse la gamba e strisciò lentamente fino ad appoggiarsi ad una tenda.
Il gormita dal grosso pugno e l’altro dalle scariche elettriche erano lì davanti a lui, guardandosi intorno soddisfatti della distruzione e attenti che non ci fosse nulla ancora in piedi. Il comandante, ferito e dolorante dal colpo infuocato subito, non riuscì a muoversi e li osservò tremante, temendo per la sua vita.
Ma con grande meraviglia, i due lo osservarono semplicemente, prima di oltrepassarlo disinteressati.
Senza sapere perché, diede aria alle sue tonsille:“Perché mi risparmiate?!” gridò, trovando difficoltoso parlare dopo il pugno nel petto.
Udì i due vulcanici fermarsi nel loro cammino e fare marcia indietro. Li rivide davanti a sé.
“Perché fate questo?” domandò, senza più paura.
Il gormita più grosso e muscoloso si abbassò sulle ginocchia e, con la mano infuocata ‘spenta’, prese la testa del comandante.
“Non siamo stati mandati qui per uccidere. - gli spiegò sorridente, con una voce matura e ammaliante - Siamo qui per scatenare caos e infondere paura nei vostri fragili cuori.” disse in un sibilo, toccando con un dito il petto del terricolo.
“Per farvi temere il nostro potere. Il potere dei vostri padroni.”
“Basta chiacchiere, esiliato. - proruppe l’altro gormita con tono di comando e di disprezzo.
- Sono io che comando qui, e in quanto capo sono anche il portavoce. Sono io che comando e sono io che parlo. Chiaro?”
L’altro si alzò, e infiammò il suo braccio, guardando torvo il vulcanico con la coda. Questi non fu spaventato dalla reazione.
“Ricordati che sei qui solo perché Magmion ti ha dato un’occasione. Fosse per me ti avrei lasciato dov’eri.”
“Non ti colpisco solo perché ciò peggiorerebbe la mia situazione. - lo avvisò - Ma quando il mio esilio sarà terminato, farai meglio a scappare.”
“Sì, certo.- rise il capo - Quando l’esilio sarà finito. Muoviamoci ora.”
I due gormiti abbandonarono il comandante terricolo, e allo stesso modo fecero tutti i vulcanici che sciamavano dietro di loro, anche se alcuni gli sputarono e gli diedero dei calci.
Quando si assicurò che non c’era più nessun vulcanico nelle vicinanze, decise di alzarsi. Estrasse non senza dolore la freccia dalla sua gamba.
I vulcanici avevano fatto un errore ad abbandonare i feriti nell’accampamento, che ora non aveva più motivo di esistere. Se mai i vulcanici avessero raggiunto Garsomor, e se Gheos fosse arrivato in tempo, sarebbero rimasti chiusi in una morsa.
Garsomor era una piccola cittadina nel mezzo della Valle dei Canyon, in un luogo dove le pareti rosse si aprivano e davano il panorama del deserto e della Valle del Vulcano con la sua sabbia e le sue rocce. La Valle dei Canyon non era mai stato molto abitata, e anche se Gheos e i Saggi avevano promosso la città dei canyon era ancora un centro di poche persone.
Che Garsomor fosse caduta o meno, quella città e la Valle sarebbe stata abitata ancor meno dopo gli episodi di quel giorno.
Quando il gruppo guidato dal gormita col pugno infuocato e il vulcanico delle scariche elettriche arrivò nella piana della città di Garsomor, una grande schiera di vulcanici rossi e armati fino ai denti proveniente dalla Valle del Vulcano si stava accalcando alle mura di Garsomor e le risaliva per devastare la città e conquistarla.
Con l’aggiunta del gruppo proveniente da sud, Garsomor era destinata a perire. Una città giovane, con ben pochi abitanti e scarsamente difesa per questa ragione.
I motivi di guerra del Popolo del Vulcano erano ben diversi da quelli degli altri Popoli e il suo atteggiamento meno benevolo: se riusciva a conquistare Garsomor, il Popolo della Terra poteva essere sicuro di averla persa per sempre, e di avere il suo controllo nella Valle dei Canyon compromesso.
Ma la città resisteva. Piccola e lontana dal centro del Popolo della Terra, aveva grandi mura, alte, fortificate e difficilmente penetrabili. Finché esse avessero retto, la città sarebbe sopravvissuta.
Respingere l’orda nemica era tuttavia impossibile, anche protetti dalle mura.
Fortunatamente giunsero in loro aiuto quei gormiti che i vulcanici si erano lasciati indietro, ripresi e curati, tutti quelli che erano in grado di alzarsi in piedi, reggere un’arma e lanciare pietre.
Si erano portati tutte le armi che avevano, e i carri con le lame attaccate alle ruote e i cannoni che non erano stati sfasciati dallo sciame vulcanico.
Erano ancora in svantaggio. Dov’era Gheos? Perché non arrivava? Stalattite non lo aveva trovato, era stato catturato? Qualsiasi cosa fosse successa, nulla sarebbe giovato a Gheos se si fosse lasciato scappare Garsomor. La sconfitta alle mani del Popolo dell’Aria, per quanto accettata, se mescolata alla caduta di Garsomor, avrebbe potuto segnare la fine di Gheos come Signore.
Le preghiere e le speranze di tutti i terricoli presenti erano dirette a Gheos e al suo esercito, o a qualsiasi aiuto, da parte di chiunque.
La città non avrebbe resistito ancora a lungo senza un ingente supplemento di forze.
Quand’ecco che l’urlo di battaglia del Signore della Terra si udì rimbombare tra le pareti di canyon: “Il Signore della Terra non abbandona il suo Popolo!”
Ad est della città ecco giungere il tanto pregato Gheos col suo esercito, arricchito da tutti i soldati e anche i civili che abitavano lontani nella Valle, intonando il canto patriottico del Popolo della Terra.
 
Il Sole sorge sulla città dei diamanti,
diamanti, luce e ricchezza della gente del deserto
Roccia, terra, sabbia, unitevi al nostro canto!
Sole che cresci i frutti del suolo,
Pioggia che nutri noi e i nostri fratelli
Unitevi al nostro canto!
Sole, Pioggia, Terra, Sabbia
Che avete aiutato il Grande Terruman
Terruman patrono di Roscamar,
Bisamonte il sommo stregone,
Il flagello dei draghi Armorius
E l’esploratore Verbent
Unitevi ancora al nostro canto
E aiutateci oggi e per sempre
Che il Popolo della Terra fiorisca in eterno
 
Su queste note l’esercito della Terra scacciava gli orribili infuocati invasori dalla sua città, non mostrando pietà proprio come i vulcanici non avevano mai mostrato.
Incapaci di respingere la forza dirompente dei nuovi arrivati, che avevano contagiato anche coloro che già da ore lottavano rendendoli più aggressivi e convinti, il Popolo del Vulcano si trovò costretto a fare marcia indietro e ad abbandonare il suo sogno di controllo di Garsomor.
Anche nella loro disonorevole fuga verso nord e verso ovest, i vulcanici non furono risparmiati dagli attacchi dei terricoli e dai colpi del martello di Gheos, che stordiva chiunque gli passasse vicino e non permetteva a nessuno di sfuggire.
Solo quando furono ormai fuori dalle pareti dei canyon che racchiudevano la città i terricoli smisero di attaccare – e già avevano inseguito i nemici per diversi piedi.
L’esercito di Magor era in fuga. Gheos era arrivato in tempo. Garsomor era salva, e il Signore della Terra aveva di nuovo un punto a suo favore. Tutti i comandanti ritirarono i propri soldati, per ricreare e offrire tutto l’aiuto possibile per riparare i danni alla mura e alla città.
Ma lo scontro non sembrava ancora terminato. Non per tutti.
Non molto lontano, laddove i canyon si aprivano e davano sul paesaggio desertico e la sabbia si faceva gialla, si ergeva una figura che non dava segno di volersene andare. Sembrava invece invitare chi la vedeva ad avanzare e farsi sotto.
Gheos non rifiutò questo richiamo. Gheos, sfavillante e vittorioso nella sua armatura del busto argentata, arrugginita e scalfita, il corpo ricoperto di graffi e sporco, ma integro e carico di ancora molta forza.
Prese due soldati lì vicino e ordinò di accompagnarlo, giusto per precauzione.
Ad aspettarlo all’apertura dei canyon vi era un gormita vulcanico –manco a dirlo - grosso, muscoloso, dal corpo rettilesco vermiglione, pieno di piccole gemme gialle. Vi era parte del suo esercito dietro di lui. Una lunga e robusta coda grigia dietro al bacino, armato da una placca di metallo color ruggine. Della stessa fattura era la corazza che gli ricopriva schiena e pettorali. Due placche ossee non coperte da armatura gli fuoriuscivano in prossimità delle spalle. La sua faccia era quella, piena, di una lucertola, con tre creste gialle sulla fronte e sulla nuca. Il suo braccio destro terminava in una grossa stalattite color fumo.
“Gheos, sapevo che saresti venuto.” gli diede il benvenuto il Signore del Vulcano Magmion, in quella voce grottesca
“Chi sei tu, e come sai il mio nome?” chiese scontroso Gheos.
“Che domanda sciocca! - rise Magmion - Sei Gheos il Signore della Terra. Solo un bambino non ti conoscerebbe. Quanto a me, sono Magmion, un Signore del Vulcano.”
“Bene, Magmion. - sorrise Gheos - Vedo che hai fallito il tuo piano. Garsomor è ancora mia. Perché hai voluto attaccarla?”
“Sì, ho fallito. Non me ne dispiaccio. Ad ogni modo, questa città è troppo vicina ai miei territori…era problematico.”
“Sì, capisco. - disse Gheos facendo sì con la testa - Credo di dovermi congratulare comunque. Nessuno si sarebbe mai aspettato un attacco da est.”
“Mi lusinghi, Gheos. - lo ringraziò abbozzando un inchino - Ma non sono qui per farmi leccare i piedi da te, né il contrario.”
“Lo immagino. Perché sei ancora qui, dunque, invece di rinchiuderti nel tuo buco fumoso?”
“Voglio sfidarti, Gheos. - ruggì, puntandogli contro l’arpione - Ho sentito parlare molto bene di te, per quanto riguarda la lotta.”
“Non vedo perché dovrei perdere tempo con te. Ti ho già sconfitto.” sostenne rigido Gheos, incrociando le braccia – a fatica a causa del martello.
“Coraggio, Gheos, una semplice lotta. - lo invitò più gentilmente Magmion, aprendo le braccia - Non hai nulla da perdere. Se mi sconfiggi, ritirerò seduta stante il mio esercito qua dietro e non proverò più ad attaccare questa città per…qualche anno.” giurò con una mano sul cuore.
“Onore vulcanico? - lo schernì Gheos - Non è una cosa per cui siete famosi.”
“Il Vecchio Saggio vi ha detto più bugie di quanto immaginassi. - grugnì il Signore del Vulcano, stizzito - Puoi credermi, Gheos. Ti dirò anche perché: stiamo lavorando a un’arma, e non possiamo permetterci troppa azione. Per questo abbiamo fatto solo razzie fino ad ora.”
Gheos titubò. Non era tipo da rifiutare una sfida, ma d’altra parte non sapeva come si sarebbe comportato Magmion. Avrebbe potuto giocare sporco e ordinare ai suoi soldati di ucciderlo mentre combattevano.
“Coraggio, Gheos. - lo esortò ancora una volta Magmion, con un sorriso malizioso sul volto - Non avrai mica paura?” >>

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Capitolo 17
*** Capitolo 8.1 ***


“Cielo! S’è fatto davvero tardi!” esclamò il Cronista battendo le mani. Il suo sguardo era fisso su Nejema, non estremamente ma nemmeno troppo poco lontano dallo zenit. Segno che si era prolungato troppo con la sua narrazione, vittima delle sue stesse enfasi e suspense che facevano in modo che chiunque desiderasse di sapere come l’evento proseguiva e terminava.
Si levò dallo scranno; ebbe un leggero, improvviso mancamento, occhi strabuzzati, che minacciò di farlo cadere indietro. S’appoggiò saldamente e rapidamente ai ‘braccioli’ della seggiola di radici e fu come se non fosse mai successo.
“Come, tardi?!” gridò Forteceppo per niente soddisfatto.
“Tardi, tardi. – ribadì il Cronista, estraendo l’orologio dal suo borsello – Non so se sai leggerlo, – e indicò lo strumento meccanico – ma se guardi in alto, al sole, capisci benissimo che è tardi. Abbiamo sforato, siamo oltre mezzogiorno. E io non voglio tardare ancora. I vostri genitori, poi, non saranno contenti di questo ritardo.”
Osmaniu tese la mano e spalancò le fauci con fare polemico, ma si ritrasse immediatamente, prima che il mentore potesse dargli la parola, e rimase seduto con il volto corrucciato.
“Maestro, lo fate apposta. – lo accusò scherzosamente (fino a che punto?) una studentessa molto posata – Ci avete raccontato…di tutto. Un’enormità di lotte, di campagne, di eventi emozionanti! Tantissimi personaggi…e adesso ci volete lasciare perché ‘è tardi’, quando noi abbiamo migliaia di domande!”
Il Cronista tacque. Tacque sorpreso più che dalla verità di quell’accusa – che in fondo non era affatto scherzosa, solo non aggressiva – dal modo in cui la gormita gliel’aveva posta.
Trasudava di desiderio di conoscenza, di curiosità, di convinzione nelle parole del Cronista e di simpatia nei suoi confronti. Quattro elementi per cui, insieme, il Cronista avrebbe narrato la sua intera vita senza farsi problemi di dettagli o di tempo, di essere logorroico o esageratamente umile. Forse.
Si era davvero largamente protratto nelle sue narrazioni senza interruzioni di sorta. Era proceduto spedito dal primo Torneo di Astreg, l’avvio della Grande Guerra di Gorm, all’antefatto per l’avvento dei guerrieri mystica. In termini temporali si trattava di due anni, ma che anni! Pur non essendo effettivamente così vicini al momento in cui il Cronista sedeva e narrava, si trattava solamente di circa un secolo fa, un’epoca in cui gli annali di Patmut Iun e gli archivi della Biblioteca Silente furono più dettagliati che mai.
Dettagli che il Cronista non si era preso la briga di eliminare arbitrariamente. La storia è fatta di componenti, tutte importanti, relativamente, e il maestro forestale non se la sentiva proprio di attuare una selezione e decidere quali ritenere le più giuste da tramandare.
La storia è fatta di persone. Le persone che fanno la storia meritano tutte di essere ricordate. Immortalità: chi era il Cronista per scegliere di nascondere alle nuove generazioni personalità rispettabili – e anche completamente detestabili – e di premiarne altre? Era in suo potere fare di quei gormiti, alcuni molto cari a lui come Paludis, Zetsel Picchiatore, Mimeticus, delle fiamme perenni nell’oceano di braci della storia.
Il Cronista non poteva evitare, era stata colpa sua, si può dire. D’altra parte non poteva neanche fermare la narrazione in medias res. Gli piaceva interrompersi in momenti culminanti, ma senza esagerare.
“E sia. – concesse loro, rimettendosi a sedere tra i sospiri – Fatemi le vostre domande. Domande veloci. Aspettatevi risposte veloci.”
Ora che il Cronista li aveva lasciato la libertà richiesta, si trovarono, gli studenti, morsi dai dubbi e dall’insicurezza. Quali domande porre? I limiti stabiliti imponevano loro di fare domande specifiche…domande ben elucubrate. C’era molto su cui volevano sapere di più, e alcuni avrebbero dovuto rimanere all’asciutto.
Il Cronista, nei secondi che anticiparono la prima domanda, comprese le loro problematiche, e comprese soprattutto come molti di loro – Loctiu in particolare, glielo leggeva in viso – non avessero intenzione di chiedere, solamente di condividere. Condividere il loro disgusto per la terribile maledizione di Magor, l’empatia per la sorte toccata a i primi Signori dopo il ritorno, per il dolore in cui si era trovato il Vecchio Saggio, approvazione e fomentazione per l’eroismo della banda di Togern Scovanascondigli e per l’acume strategico di Noctis.
I tempi però erano quelli, sempre per colpa del Cronista. Gli studenti, seppur indisposti, lo compresero e agirono di conseguenza.
“Magmion è stato Signore del Vulcano per tutto il tempo, dal Grande Sacrificio al ritorno del Vecchio Saggio?” fu la prima domanda, acclamata da un lieve coro di disapprovazione.
Il maestro capì perché: era una domanda abbastanza sciocca.
“No, ovviamente. Ma è stato nominato per tre volte. La prima nell’epoca del Sacrificio, la terza durante il ritorno. Per la seconda non so gli anni precisi. Sono tempi bui quelli di Gorm senza gli altri Popoli.”
“Maestro! – esclamò Forteceppo, ghignando con occhi splendenti di sicurezza – Paludis, lo ricordo bene, lo avete citato quando avete parlato del periodo nella Foresta del Vecchio Saggio! Ed è anche il maestro di Picchiatore! È sempre lui?”
Il Cronista inarcò le labbra verso il basso, senza nascondere il proprio stupore. Cosa che fomentò ulteriormente Forteceppo, agitandosi di fianco a Osmaniu.
“Ottima memoria, Forteceppo. – concesse dunque – Certo, è sempre lui. È stato uno dei gormiti salvati dal Vecchio Saggio, ed è stato anche un Saggio. Lo rivedremo ancora.”
“Ma…non si chiamava Paludis anche il babbo di Strapparami, l’eroe delle guerre di riconciliazione?” volle chiarire un altro, dando mostra di una conoscenza degna di lode.
“Padre adottivo.” Specificò il Cronista.
“E voi come lo sapete?” chiese lo stesso di prima, inarcando sospettoso un sopracciglio.
“Per Celeles, posso sapere che cosa indossava Gheos nell’852, e nessuno dice niente, e non che Paludis era il padre adottivo di Radiclon Strapparami? È anche storia recente.” Argomentò un poco alterato il Cronista. Tacque poi improvvisamente, come ferito e sorpreso dalle proprie stesse parole.
Ci volle niente perché l’umore generale tornò quello di poco prima.
“Perché il Cuore dello Scudo si chiama Cuore dello Scudo? E dov’è adesso?” domandò un altro.
“Semplicemente, è il componente di uno scudo magico. – rispose frettolosamente – Uno scudo, se non ricordo male, composto dal Cuore, l’Ala destra, l’Ala sinistra…e il cristallo Volvorot, la pietra sacra del Popolo dell’Aria. Le due Ali non sono mai state trovate...comunque, lo vedremo ancora una volta, il Cuore. E vi dico già adesso che è di proprietà della famiglia di Togern da allora. Non è mai stato usato, che io sappia.”
“Chi è questo ‘esiliato’ che ha guidato l’assalto a Roscamar insieme…a quel tipo, con la coda e i fulmini?”
“Ah, mi piace questa domanda! – esclamò il Cronista, battendo un pugno sulla mano – Una grande persona, lui. Visse a lungo, partecipò alle guerre di riconciliazione…dalla ‘nostra’ parte. Passò per il nome di Maglio Infuocato. Ora, la leggenda dice che ha avuto un diverbio con Magmion, durante la sua seconda nomina. Qualcosa che riguardava la famiglia Magmadoni e il loro truccare le elezioni. La cosa ovviamente non piacque a Magmion, ma sarebbe finita lì se non si fosse, naturalmente, passati alle maniere forti. Per questo fu esiliato.”
“È mai stato richiamato?”
“No, nonostante lo illudessero continuamente. Alla fine però mantenne la parola, Maglio Infuocato. Uccise Electricon, il capitano di quell’assalto…e molti altri che gli avevano fatto dei torti.”
 
Il Cronista aveva sempre amato le passeggiate notturne nei boschi. Da solo o in compagnia, ma preferibilmente da solo, come quella nuvolosa e grigia sera di melidie 71 Redrubise.
Amava, in genere, le passeggiate. Che fossero tra i boschi nei dintorni della sua attuale, dolce casa, condivisa con Inamia, lungo la spiaggia dalla sabbia fine della costa meridionale di Dalarlànd, ai piedi del sontuoso Picco Aquila, coronato dalla vetta scolpita da secolari e straordinari incantesimi, tra le via salmastre del Bazaar o, quando viaggiava, per le città fortificate e intrise del fumo di variegate braci di Rabukh o per i corridoi affollati della Città Sotterranea, durante il tempo libero il Cronista gradiva una solitaria e silenziosa passeggiata per i meandri dell’Isola di Gorm, alla scoperta e riscoperta della grandiosa opera della natura e della vita quotidiana e calorosa dei suoi fratelli in ogni angolo dell’Isola, più del più prelibato pastone preparato dall’asso della cucina vegetale Ederus.
Passeggiava in lungo e in largo, sia di giorno che di notte, ma specialmente di notte. La notte, buia e fredda, obliante. Sublime. La sicurezza, il calore e la vita che infuocavano le giornate sotto la luce del sole mancavano di qualcosa, che la notte, pur non specificando che cosa fosse, riversava sugli esseri viventi un senso di incertezza, di mistero, di paura, di curiosità. Molti, non solo tra la vita intelligente, evitavano l’oscurità delle ore notturne, mettevano a tacere succitata curiosità con un cosiddetto buonsenso, ponendo, a ragione, la propria incolumità sopra il dispiegamento dei misteri che la notte risvegliava, preferendo al suo buio il nero degli occhi chiusi, soppiantato ben presto dalla luminosità e dalla parvenza di calore dei sogni e dell’immaginazione, di modo che non si fosse mai davvero preda delle tenebre.
Tuttavia per diversi ciò non era soddisfacente. L’abbraccio delle illusioni era sì confortevole, rassicurante, ma ogni notte i misteriosi ululati, ronzii, brusii, luccichii eterei si ripetevano, e nuovamente quando Nejema sorgeva cessavano, il mistero ancora indecifrato. La vita, la vita delle creature e del creato inanimato, procedeva anche di notte, a quanto pareva, ed era nell’animo dei più curiosi il desiderio di scoprire chi e cosa si muovevano nei tempi bui, quando la maggior parte della natura taceva immobile, persino l’apice della vita.
Il Cronista non condivideva appieno queste elucubrazioni, frullategli nella mente mentre procedeva a passo di lumaca, gustandosi ogni cupa fronda e ogni ombroso cespuglio come tesori. Anzi, si poteva ben dire che non le condivideva affatto: il fiume incessante dei pensieri andava in piena nel silenzio della notte, e questa volta il suo corso fu deflusso casualmente intorno a quel tema.
Lui amava la notte unicamente perché era un momento unico per poter osservare il capolavoro della natura, o degli déi – lui stesso non era molto sicuro a quale dei due si riferisse – in quelle ore di calma e di assenza di rumori prodotti dai laboriosi e caduchi gormiti, indaffarati a rendere i giorni che rimanevano loro da vivere il più lunghi e sani possibile.
Tranquillità ma anche enigma, poiché il gormita, creatura diurna, vedeva per natura nel buio inconoscibile un pericolo, qualcosa di cui non fidarsi. La notte era ricca di sorprese, e per questo il Cronista l’amava, nonostante ne avesse vissute migliaia e migliaia e ritenesse ormai che non ci fosse più nulla che essa gli potesse nascondere.
I suoi occhi brillavano mentre li posava con attenzione ed emozione fanciulleschi su un nido d’uccelli, la cui madre cullava amorevolmente le piccole candide uova.
No, non si tratta di una metafora: gli brillavano realmente.
La notte era pur sempre notte, e lui, vecchio o meno, non vedeva con assoluta chiarezza. Le torce erano sconsigliate: troppo rumorose, fumanti e luminose, nonché a vita breve. Avrebbero privato la notte della propria maestosità e impaurito i piccoli abitanti ancora svegli della foresta. Le pietre di luce erano scomode da portare in mano, e anch’esse talvolta esageratamente luminose, benché di lunga vita e senza il bisogno che l’utente spendesse energie per mantenerle accese. Il Cronista dunque, tra i numerosi incantesimi per vedere o fare luce, optò per la magia che faceva delle proprie pupille una sorta di minuscole pietre di luce che gli permettevano di vedere al buio.
Non è stata la migliore delle idee. – commentò – Sarà anche una magia da niente, ma io ho una certa età e mi stanco. Già adesso farei meglio a tornare indietro…
Di giorno la Foresta Silente non era esageratamente luminosa, separata dal cielo da un verde, avido manto, e si può ben immaginare come potesse essere di notte. Specie in quella notte, con la stagione piovosa in avvicinamento: tra gli occasionali spiragli non traspariva alcuna luce. Ciascuna delle tre lune si nascondeva, il firmamento oscurato da una temporalesca coltre di nubi. Atmosfera decisamente sublime. Forse persino troppo.
Qualsiasi strada non segnata prendesse quando lasciava casa propria, non si inoltrava mai più di qualche centinaio di piedi, percorsi tutti molto, ma molto lentamente. Era in procinto di fare marcia indietro quando udì qualcosa, che attirò la sua attenzione, e accese la sua insicurezza. E anche la curiosità.
Sembrava un coro, un coro, lontano, di canti dal suono e dal significato oscuro.
Nelle sue ripetute passeggiate nell’ambiente notturno, il Cronista aveva esplorato i richiami di dozzine e dozzine di uccelli notturni, di insetti del buio e di altri animali che evitavano la luce e il caldo del giorno. Ne aveva sentiti innumerevoli, di richiami, e di questi vide gli innumerevoli proprietari innumerevoli volte. Era giunto persino, con pazienza e pur senza una vera aspirazione alla conoscenza di volatili e altri animaletti, a saper riconoscere a chi apparteneva un dato verso e a distinguerli gli uni dagli altri.
Non era, comunque, un esperto in quel campo e, non avendo una reale inclinazione o una conoscenza pregressa, riconoscere un uccello da un altro a partire dal suo canto significava ricordarne alcuni particolari, e definirlo ‘quello con le piume blu in testa’ e altri dettagli simili. Non nomi specifici.
Ciò che sentiva in quel momento non aveva nulla che gli riportasse alla mente il richiamo caratteristico di un uccello o di un insetto. Per di più, sembrava appunto un coro. Più individui che intonavano il medesimo richiamo con diversi intonazioni e timbri.
Fendril, non ho mai sentito degli uccelli cantare in coro…non così, almeno! Si disse, pensieroso, il Cronista, già diretto a passo felpato verso l’origine del misterioso suono. Camminava rapidamente e silenziosamente, come solo un forestale nella propria dimora sa fare, aiutato da un bastone da passeggio che pareva quasi volare per il modo in cui lo teneva sollevato da terra. Un bastone che preferiva utilizzare, per imbarazzo, solo nel privato, e talvolta nemmeno in quello.
Gli balenò per la testa che, così conciato, dava molto l’idea di un Priore: mantellina scura, annerita dall’ombra senza stelle, bastone allungato e nero per la medesima ragione, fiaccole negli occhi.
Non aveva una chiara idea del perché si stesse spingendo verso la direzione dell’ignoto coro. Forse, in fondo al suo animo, nonostante gli anni e una vita ormai cristallizzata, quelle argomentazioni sulla notte, sul mistero e sulla curiosità le condivideva davvero, e necessitava solamente delle giuste occasioni per accertarsene.
Il coro si faceva sempre più vicino, sempre di più…e sempre più pesantemente batteva il cuore del Cronista, per la corsa ma specialmente per la crescente preoccupazione e paura di star facendo una cosa sbagliata, dettate da una nuova convinzione: il coro non era di natura animale.
Si trattava di gormiti, gormiti che cantavano un inno lugubre. Forse si trattava di gormiti. Gargoyle superstiti? Ka’nhili rimasti su Gorm? No, c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in quelle parole incomprensibili. Qualcosa di estremamente familiare, pure. No, non gargoyle né ka’nhili, erano proprio gormiti. Parlavano in gormitico antico, l’idioma degli albori e della tradizione.
Cosa ci facevano dei gormiti, riuniti a cantare nella vecchia lingua, a quell’ora della notte, nella Foresta Silente più selvaggia? Follia collettiva? Chiarori di fiochi fuochi si palesarono tra le nere fronde, e il Cronista si rammentò in quel preciso istante di un dato…apparentemente senza ragione d’essere.
Quel giorno era il 78 Redrubise. 78 Redrubise…ma certo! Il giorno in cui cadeva la festa di Valladoin, festività ormai non più ufficiale da oltre un secolo. Ma certo. Certo cosa?
Valladoin…Valladoin…perché? Cosa c’entra, cosa…
Al Cronista cominciò a chiarirsi la situazione, e a fortificarsi il convincimento che stava commettendo un errore madornale a dirigersi in contro all’assemblea notturna.
Avvicinandosi ancor di più e sforzandosi di far riemergere le proprie conoscenze di gormitico, non ebbe più alcun dubbio, quando fu capace di comprendere il canto dei sonnambuli, che giungeva ormai alle sue orecchie con sonorità spaventose.
 
Gloria agli Osservatori
che tutto vedono
dal loro cielo
oltre i cieli
 
Ci mostrino la via
per ascendere
alle stelle
dove hanno dimora
 
Dell'Occhio della Vita
al richiamo accorriamo
il suo volere è il Loro,
il nostro destino
 
Gloria agli Osservatori
che tutto possono
dal loro cielo
oltre i cieli
 
Il Cronista si appostò dietro a un cespuglio, nascondendosi come meglio poteva di fronte al bagliore infuocato di torce incantate, che illuminavano lo spazio circolare ospite del grottesco rituale di innaturali luci blu, verdi, e solo in minor parte rossastre. Un possente aroma di selvatico, di selvaggio ma delicato pelo di animale e di fiori esotici investì le narici dell’incognito e intimorito spettatore, adagiato malamente dietro quel cespuglio che pareva fitto di spine.
E adesso? Perché si era invischiato in quella faccenda? Che gli riguardava? Erano semplicemente dei cultori degli Osservatori intenti in uno dei loro riti notturni, nel giorno di Valladoin, perfetto per richiamare l’attenzione delle divinità oltre i cieli che avevano costruito l’Occhio della Vita.
Eppure lo sentiva, il cuore e lo spirito erano concordi in ciò: c’era qualcosa di strano, di sbagliato in quel rito. Dove era stato avvisato di rituali pericolosi? Di norma quando i cultori si incontravano non torcevano un pelo a nessuno, da buoni fedeli tolleranti. La sua memoria però gli sussurrava prepotentemente che non era quel caso, che in quel rito si stava per compiere un atto increscioso. Che cosa, in particolare? La memoria, tanto brava a immagazzinare le storielle sul passato, non era altrettanto abile nel resto.
Non si azzardò ancora a volgere lo sguardo dall’altra parte; per un momento si limitò ad ascoltare, con quel profumo che pareva un distillato dei più pungenti e al contempo gradevoli aromi naturali che quasi gli annebbiava i sensi. La voce che udì, discorrendo in lingua corrente vicia, gli era familiare.
“Potenti Osservatori, che tutto potete dal vostro cielo oltre i cieli! – la voce cavernosa ripeté quasi alla lettera gli ultimi versi dell’ode, con emozione e trasporto palpabili – Ascoltate le nostre preghiere, o sommi, dateci un segno della vostra presenza, della vostra luce!”
Ci fu la percussione di molti tamburi. Le mani – o le bacchette, qualsiasi cosa utilizzassero per battere i dischi di pelle – passarono sugli strumenti lentamente, due, tre, quattro volte, creando un’atmosfera più degna di un funerale che altro.
“Noi siamo vostri fedeli seguaci, non vi abbiamo mai abbandonato e seguiremo la vostra voce fino alla fine, e oltre! – continuò poi quello che pareva l’effettivo sacerdote (la medesima voce familiare, che nella mente del Cronista fu dunque associata a una figura già incontrata, e tutt’altro che raccomandabile) – I nostri confratelli hanno ripudiato il vostro messaggio, rifiutato i vostri doni, ma noi no. Noi non vi tradiremo mai, non importa le privazioni a cui saremo costretti. Per voi, per una traccia della vostra gratitudine, faremo ogni cosa, ogni cosa!”
Il Cronista colse il momento opportuno – in base a cosa non lo sapeva nemmeno lui – per fare capolino oltre il cespuglio e avere una visione chiara del luogo e dei partecipanti del rituale.
L’area era pressoché circolare, relativamente ampia ma non tanto da essere considerata una radura – la copertura dei rami avviluppati non lasciava spiragli in cui vedere il cielo – delimitata da cinque alberi. Quattro bassi otri di ceramica dall’ampio ventre, ricolmi fino all’orlo di un’acqua colorata – i profumi selvatici – segnavano i confini del quadrato in cui si sarebbe tenuto la cerimonia. Le torce che irradiavano le fiamme innaturali erano appese a piedistalli allungati posti dietro ciascun vaso.
Su una catasta di rami ardenti, in fondo all’area, era stato posto un monolito grigio dalla misteriosa funzione.
Vi erano otto gormiti presenti, di ambo i sessi: cinque del Popolo della Foresta, di cui tre vegetali e due animali – tra cui la vecchia conoscenza del Cronista – due del Popolo del Mare e uno del Popolo del Vulcano.
Erano tutti nudi e oliati – sui due gormiti del Mare non aveva granché effetto. Il che non era di per sé un fatto straordinario, almeno per quanto riguarda la nudità. Ciò che colpiva e che disgustava erano i loro inguini. I membri – sia per forestali che animali – di ognuno dei maschi, quattro, erano allo scoperto e rigidissimi, quasi tremanti. I corpi di tutti i gormiti, donne come uomini, oltre che oliati, erano sudati, frementi all’inverosimile e accaldati sotto un’eccitazione di potenza primitiva e a stento controllabile, che imponeva loro di darsi al piacere dei sensi in modi estremi, finché la stanchezza non avesse preso il controllo. Orge cerimoniali: si sarebbe persino arrivati ad amplessi tra vegetali ed animali. Disgustoso. Tutto questo sotto l’influsso di potenti droghe; il Cronista lo percepiva nell’aria, lo vedeva nei corpi dei cultori, vittime di fremiti esagerati.
Ancora più disgustoso era vedere Grandalbero, il sacerdote e la arcana conoscenza del Cronista, al tempo Signore della Foresta negli anni antecedenti le guerre di riconciliazione, portatore di una fervente fede negli Osservatori sfociata oramai nella follia. Era disgustoso vederlo, vecchio quasi d’un secolo, spossato dagli anni nel corpo dalle membra rugose ed accalorato come un fanciullo nel passaggio all’età adulta.
A questo punto il Cronista, che non aveva fama di essere un voyeur e non avrebbe certo iniziato adesso, per di più di fronte a un rito orgiastico, avrebbe anche potuto andarsene – me ne sarei dovuto andare molto prima! – e fare come se non avesse mai visto quelle persone in quel luogo in quello stato. Per sua sfortuna, però, il rituale comprendeva molto peggio che una mera orgia.
“Come voi avete elargito a noi i doni dei poteri, della magia e dell’Occhio della Vita, – vociò Grandalbero – sommi Osservatori, vi imploriamo di accettare questo nostro dono per voi. Che la sua carne e il suo sangue siano per voi ristoro!”
Due dei quattro forestali oltre Grandalbero tesero le braccia in direzione del monolito disteso sulla legna in fiamme; facendo leva sulla forza magica, lo sollevarono e lo posero in posizione verticale, rivelando uno spettacolo mostruoso. Un gormita, un cucciolo, inerme, imbavagliato, era lì! Attanagliato al freddo corpo di pietra da stretti viticci verdastri, riscaldato a temperature estreme dalle fiamme sotto di lui. E non un cucciolo qualsiasi…il Cronista spalancò la bocca e strabuzzò gli occhi.
Grandalbero chiamò a sé un coltello di legno, avvicinandosi alla pietra. Osmaniu mugugnò e pianse più forte che poté, ma inutilmente.
“È giovane e puro, innocente e ignorante! La sua carne è dolce come il nettare e il suo sangue fresco e pulito come l’acqua di montagna…che possiate apprezzarlo, e noi ne saremo eternamente grati!”
La lama lignea non arrivò mai a lambire il corpo del cucciolo vulcanico. Grandalbero, incredulo, se la vide sfilare dalle mani come se niente fosse, e scomparve.
“Chi diamine è stato?!” ululò Grandalbero irato guardando gli accoliti uno per uno, anche quelli non della Foresta, mentre il povero Osmaniu smise di frignare, ma non sapeva come reagire di fronte a ciò. Nessuno dei cultori aprì bocca, e si guardarono l’un l’altro sbalorditi.
“Grandalbero, la tua pazzia non ha davvero limiti.” Si palesò dunque il Cronista, brandendo il bastone da passeggio come un’arma micidiale. E nelle sue mani lo poteva essere eccome. Nei suoi occhi si leggeva un odio e un animo agguerrito che Osmaniu non gli aveva mai visto.
“Cronista! È un vero piacere averti qui con noi, ad assistere alla chiamata degli Osservatori. – dissimulò abilmente la sorpresa, parlandogli con spontaneità e naturalezza mostruose, e senza un velo d’arroganza – Se sei stato tu a privarmi della lama sacra, ti prego di porgermela: il rituale non può essere interrotto.”
“Ma come ti permetti?! Come riesci? – sbraitò il Cronista stringendo ancora più energicamente il bastone – Stai sacrificando un bambino, folle che non sei altro, e mi chiedi di darti la lama come se…Asili, hai davvero vissuto troppo a lungo. Quegli elisir ti hanno dato alla testa.”
“Ho cercato di essere ragionevole, Cronista. – rimbeccò quello, con nonchalance straordinaria: era davvero pazzo – Mi hai strappato di mano la lama sacra, e te l’ho chiesta gentilmente anche se non avrei dovuto. Se non me la consegnerai, la riprenderò con la forza.”
Non ci fu bisogno di ordini o di provocazioni da parte del Cronista, ragionevolmente, umanamente deciso a salvare Osmaniu e porre fine a quell’assurdità.
Il vulcanico del gruppo, avanzò celere in sua direzione. Si trattava del più pericoloso di quella depravata compagine: lo avrebbe posto fuori combattimento per primo.
Quello cacciò la mano in avanti, spandendo una fiammata che arrivò a lambire il Cronista in meno di un secondo…lambendolo unicamente e senza ferirlo. Movendo abilmente, nonostante l’artrite, le sette dita, roteò velocemente il proprio bastone, abbastanza perché il fascio infuocato fosse rifratto lateralmente, annerendo giusto un poco un lato della verga e scottandogli le unghie.
Lo vibrò in aria, e dominandone le fibre legnose lo scagliò come un fulmine dritto in testa al deviato gormita del Vulcano. Una, due, tre volte; e con una quarta sciabolata dritta nella tempia lo stordì e lo mandò bocconi a terra.
Gli avrebbero dato filo da torcere da ogni lato.
La donna marina innalzò l’acqua profumata da un vaso, e poi da un altro, indirizzando le impetuose correnti sull’ora disarmato Cronista. Ne evitò una scartando di lato, ma l’altra lo investì in pieno, mandandolo faccia a terra. Si rialzò il prima possibile, ignorando il dolore.
Evocò immediatamente il proprio bastone mentre si rimetteva in piedi, ma non verso di sé, bensì in direzione dell’agguerrita marina. La quale non fu colta alla sprovvista, e catturò la verga sibilante in un altro guizzo d’acqua da un vaso.
Da quando i gormiti persero la piena padronanza dei poteri, resi incapaci di creare gli elementi dal nulla, i marini e i forestali ne erano risultati i più indeboliti. Tuttavia, finché quei due gormiti del Mare avessero acqua liquida a disposizione con cui combattere e mantenersi umidi, era unicamente il Cronista ad essere in svantaggio, ora, senza l’ausilio del proprio bastone. Non poteva semplicemente sollevare un intero albero, spezzarne un ramo senza dare nell’occhio o piegandone le radici in un tempo decente. I nemici si appropinquavano convinti di poter sacrificare anche lui, incapace ormai di contrattaccare. Il Cronista, però, possedeva una conoscenza straordinaria del potere della Foresta, e la disponibilità di materiale ‘tradizionale’ non era un problema.
Qualcuno ebbe la malsana idea di scaraventare a mo’ di giavellotto contro di lui un ramo ardente preso dal falò su cui giaceva il monolito sacrificale. Per un attimo sentì la vita scorrergli via dal corpo. Subito dopo, però, con la parvenza di un tempo rallentato, riuscì a frenare la lancia infuocata e a invertirne la direzione. Urtò la spalla di uno dei forestali, che ululò per la scottatura e fuggì tra le fronde senza smettere di urlare.
La marina stette per attaccarlo nuovamente con le masse d’acqua che teneva sospese attorno alle proprie braccia. Prima che allo scatto in avanti di un palmo potesse però corrispondere l’onda frastornante d’acqua, il Cronista tagliò l’aria con una mano. A ciò conseguì che un piede della marina scattò sopra l’altro, improvvisamente e senza controllo da parte della proprietaria. Il risultato fu uno sgambetto epocale. Dopodiché il Cronista spinse ambo le mani in avanti, energicamente, come se stesse effettivamente, in preda alla rabbia, spingendo un ostacolo o un nemico che gli era davanti. Le gambe della marina si levarono in aria e furono sospinte all’indietro, facendo compiere alla gormita una dolorosa capriola che la fece abbattere contro un altro gormita della Foresta, mandandoli entrambi al suolo.
L’altro marino decise di vendicare il brutto tiro all’amica. Stolto, lui, e stolti anche gli altri, che non avevano compreso che non si trattava di forza magica. Dominò l’acqua contenuta in un otre per sollevare l’otre stesso, che gettò senza prendere accuratamente la mira contro l’avversario. Il quale non dovette spostarsi di tanto per evitarlo.
Una degli ultimi tre forestali ancora in piedi giunse a dar man forte al gormita del Mare. Proprio come voleva il Cronista. Be’, non esattamente, ma il suo arrivo non fu un male.
Questi si bloccò quando il maestro cantastorie levò le braccia, tese e ritte, le mani dalle lunghe e numerose dita protese verso il basso. Ogni movimento di un singolo dito, constatarono con terrore i presenti…era seguito da un movimento della gormita! Era nelle sue mani, in ogni senso possibile.
La fece voltare in direzione del marino sotto lo sguardo attonito di tutti, persino Osmaniu ancora bloccato alla roccia, mentre lei gridava, terrorizzata nel vedere il proprio corpo non rispondere ai suoi comandi.
Arrivando persino a piangere, si vide dare sganassoni in volto e nell’addome al compagno cultore del Mare, incapace di reagire, finché, quando a quest’ultimo sanguinava il labbro, il Cronista mimò un calcio, che la marionetta-gormita eseguì in risposta. Un calcio dritto all’inguine, che mise fuori gioco l’ultimo marino, facendolo piegare sulle ginocchia e accasciarsi.
Umiliandola ulteriormente un’ultima volta, il Cronista la fece prendersi a schiaffi e pugni da sola, smettendo solo quando implorò di farlo smettere.
L’altro forestale non ci pensò due volte prima di fuggire. Grandalbero fu di opinione diversa.
Caricò furente, correndo, l’effetto delle droghe ancora non svanito, con lo stame gonfio, menando in alto la clava con cui terminava il suo braccio sinistro.
Quando l’impazzito ex-Signore della Foresta fu a meno di un palmo dal Cronista, e l’insegnante poteva sentirgli l’alito, ci fu un sonoro crack a seguito di un impercettibile scatto della mano del Cronista. Grandalbero gridò di dolore, un dolore indicibile. Scrutò a fondo gli occhi impassibili dell’anziano storico, mugghiando come un ossesso. E si piegò in due, a terra. Il braccio sinistro gli pendeva inerte dalla spalla.
“C-Che cosa…che hai fatto?!” pianse Grandalbero, tastandosi l’arto spezzato e ritraendo tormentosamente le dita dell’unica mano ogni volta che tangevano la clava.
“Sai bene che cosa ho fatto. – gli disse freddo il Cronista, dirigendosi verso Osmaniu, ormai non più in pericolo di vita – Sapevi che sarebbe successo. L’ultima volta che hai cercato di compiere queste follie ti avevo avvisato che se ti avessi visto ancora fare sacrifici te ne saresti pentito. E ringrazia che non ti ho rotto il braccio buono.”
 
“C-Come hai fatto a fare quello?!” gli domandò sbalordito Osmaniu, lasciandosi trascinare a metà tra il terrorizzato e l’eccitato dalla mano del Cronista.
“È tutto quello che hai da dire?” rimbeccò severo quest’ultimo.
Il giovane vulcanico tacque. Meglio così. Per ciò che aveva passato si stava mostrando troppo poco spaventato. Il Cronista si era esposto, si era ripromesso che non avrebbe mai più combattuto…ma Grandalbero doveva mettersi di mezzo. Circostanze davvero singolari, pensò, perché due sue conoscenze si incontrassero in una simile situazione costringendo l’arzillo guerriero a palesare di nuovo le sue capacità…che avrebbe tanto voluto mettere a tacere definitivamente.
Un colpo di fortuna grande come la sfera di Mitera. Se solo il Cronista avesse invertito la sua marcia prima o non si fosse curato dei suoni misteriosi. Curioso. Davvero curioso.
La stanchezza cominciava a farsi sentire – ed era ora – : le mani gli si appiccicavano al bastone e al palmo di Osmaniu, entrambi stretti con più forza del necessario.
“Ma…ma che cos’era?”
“Basta con queste domande. Dovresti ringraziarmi. Ora mi dici dov’è casa tua e i tuoi genitori, che devo proprio fare un discorsetto con loro. Cose da pazzi…”
Cose da pazzi! Come era possibile che avessero perso di vista il proprio figlio in quella zona sperduta della Foresta e non fosse stato dato alcun allarme? Che razza di genitori dovevano essere, per lasciarsi sfuggire la prole?
“I miei genitori non sono qui.” rispose Osmaniu, a voce bassa.
“Che significa non sono qui? Non saranno mica a Ilabukh! Hanno così tante polveri da farti viaggiare qua tutti i giorni…e anche le notti?” Una logica che reggeva poco, ma se ne accorse solo dopo.
“Sono morti.”
Il Cronista si immobilizzò.
Morti?
Sapeva che quel cucciolo di gormita nascondesse qualche segreto, ma non poteva immaginare che si trattasse della sua condizione di orfano. Lo fissò incredulo, senza sapere come reagire o cosa dire. Gli occhi dorati del vulcanico rilucevano di una tranquillità straordinaria vista la situazione, e il suo corpo rosseggiante percorso da macchie colo ruggine, solito essere scosso dal nervosismo, faceva trasparire in quel momento un autocontrollo invidiabile e una maturità lodevole, ottenuta dall’esperienza.
Rimasero immobili sul limitare di un sentiero, mano nella mano come padre e figlio. Non sembrava esserci nulla che potesse sbloccare la situazione.
La mente del Cronista era pervasa da un mucchio di dilemmi e di questioni, le quali adesso implicavano una sua azione, una sua partecipazione. Dove viveva Osmaniu? Come viveva? Di cosa viveva?
“Non hai nessuno? Proprio nessuno?”
“No.”
“Nemmeno a Ilabukh?”
“No…non credo. – esitò il giovine – Mio zio è morto l’anno scorso.”
Anche se si guadagnasse il pane con furtarelli, ora sapeva della sua condizione, non poteva lasciarlo andare, ritornare nella grotta, nella buca in cui viveva…o qualsiasi cosa fosse.
“Senti, Osmaniu. – il Cronista si abbassò, giungendo con il capo un poco più in basso del livello delle spalle del vulcanico – Non so dove tu viva, o come…ma dopo quello che è successo oggi, voglio che tu stanotte dorma a casa mia. D’accordo? Domani andremo insieme alla lezione…poi vedremo cosa fare. Non voglio lasciarti da solo.”
Osmaniu annuì, incerto.
Perfetto. Ora il Cronista doveva persino occuparsi di un bambino, ragazzino. Un orfano senza casa, senza…senza niente. Che avrebbe detto Inamia? A chi si sarebbe rivolto per lui?
Ripresero a camminare speditamente – al Cronista bruciavano i piedi – quando Osmaniu fece una proposta indecente.
“Maestro, potreste diventare mio padre.”
Si sentì pugnalato alla testa.
“Osmaniu! Questa è un’idiozia, lasciatelo dire. Sono troppo vecchio per potermi prendere cura di qualcuno all’infuori di me. Non ti vedrei raggiungere l’età adulta.”
Il vulcanico abbassò il capo, deluso e amareggiato. Al Cronista dispiaceva eccome, ma per Asili! Che cosa pretendeva? Si stava davvero facendo in quattro per lui, in quella lotta aveva faticato come non mai…non poteva chiedere una cosa simile…
“Quanti anni avete?” domandò poi.
“74. Troppi.”
Osmaniu, alzando il capo, sembrò concordare che si trattasse di un età ragguardevole.
“Sali su.” Disse il Cronista, indicandogli dei pioli scavati sulla superficie di un vasto tronco. Il suo tronco. Casa sua. Sollevò lo sguardo e vide una luce dalla finestra della sala da pranzo (e cucina).
Inamia era sveglia – oppure si era addormentata lasciando accesa la candela o senza mettere al coperto la pietra di luce. Meglio così. Non l’avrebbe dovuta svegliare dolorosamente per spiegarle la situazione. Un poco, tuttavia, gli dispiaceva: aveva fatto estremamente tardi, Inamia era sicuramente in pensiero. Se lui le avesse fatto un solo accenno a ciò che aveva passato si sarebbe davvero preoccupata da morire. Doveva scegliere con cura le parole da rivolgerle.
“Voi abitate qua, maestro?” chiese Osmaniu estasiato, osservando con meraviglia la casa sull’albero, prima che un ulteriore incitamento del maestro lo spingesse a salire su per la scala. Pareva non aver mai visto un’abitazione del genere.
“Questa stagione secca sì. – rispose abbastanza svogliatamente, presupponendo che Osmaniu non fosse al corrente della tradizione nomade e di condivisione dei vegetali della Foresta – A breve ci sposteremo.”
I quattro passi lungo il corridoio centrale della costruzione di assi e viticci scricchiolarono paurosamente; la luce instabile della candela in cucina mandava spaventosi riflessi sulle pareti lignee, accompagnati da misteriosi ticchettii di qualche sorta di oggetti metallici. Forse. Termiti? No, c’era qualcosa di inquietante in quella situazione.
Il Cronista tenne Osmaniu dietro di sé – senza lasciargli la mano – e fece capolino dal varco nella sala da pranzo.
“Eccomi di ritorno, Inamia. – disse, mangiandosi un poco le parole – Scusa il ritardo. Ho avuto un contrattempo.”
La donna pareva assente. Sveglia, sì, e attiva, ma assente. Sedeva su uno sgabello illuminato da un grosso cero posto sul tavolo e stava lavorando a maglia. Un panno di stoffa azzurra e apparentemente molto soffice e calda. Non aveva occhi che per i due ferri acuminati – delle vere e proprie armi nelle mani sbagliate, o in mani esperte – e non sembrava affatto turbata, tantomeno arrabbiata per il mostruoso ritardo.
Guardandola meglio, il Cronista notò che aveva il volto sciupato, come se avesse faticato tutto il giorno. Che significava?
“L’importante è che sei tornato, caro.” disse dunque, posando l’attrezzatura sul tavolo e alzandosi un po’ a fatica.
“No, perdonami davvero. Sono stato fuori troppo tardi, ti ho tenuta sveglia fino adesso.”
“Non importa, su. E poi, volevo finire la veste prima della fine.” E indicò il panno. Non aveva l’aspetto di una veste, sembrava anche incompleta. Tuttavia, bisognava capire che cosa intendesse per veste.
“Prima della fine, Inamia?” chiese perplesso.
“Proprio così. Ma, caro! Chi è il ragazzino?” esclamò confusa, e sporgendo lo sguardo in avanti per capire meglio cosa gli occhi le mostravano, già provati dagli anni e di certo non aiutati dalla semioscurità della stanza.
“Lui si chiama Osmaniu, è un mio alunno.” E lo fece avanzare, spingendolo con la mano e con il bastone.
“Onorato di fare la vostra conoscenza.” Disse quello, non senza una certa timidezza, con un inchino, contro ogni aspettativa del Cronista. Inamia fece un risolino.
“Lui…c’entra con il contrattempo. – spiegò poi il maestro – Per questa notte vorrei che dormisse in casa con noi. Domani ti spiegherò meglio.”
“Oh, non c’è problema. Ce l’hai ancora quel baldacchino, nello studio, no? Potrà dormire lì.”
“Ah, è un’ottima idea. – annuì il Cronista, inarcando velatamente un sopracciglio per l’insolita accondiscendenza di sua moglie – Lo porterò subito nello studio. Tu intanto va’ a dormire. Hai una brutta cera…”
“Quanto hai ragione, quanto hai ragione…” ripeté Inamia, dirigendosi nella camera da letto in fondo alla casa, portandosi seco la candela, mentre Osmaniu veniva condotto nello studio del Cronista.
Non ci furono parole mentre l’insegnante traeva il vecchio baldacchino polveroso dall’angolo su cui era posto, lo riassestava come meglio poteva e cercava un telo o un lenzuolo per renderlo più confortevole. Osmaniu, da parte sua, cercò di rendersi utile il più possibile. Illuminò col fuoco la stanza buia e in seguito, dopo un’indicazione del Cronista, accese una candela, liberandosi dallo sforzo di mantenere viva la fiamma nel palmo. Fatto ciò si perse a guardare meravigliato i mucchi di libri e di scartoffie che giacevano sugli scaffali e sulla scrivania. Quello era il luogo in cui prendevano vita le mirabolanti storie del Cronista, in cui erano rinchiusi in sudate carte i segreti e le conoscenze di un gormita la cui vera identità era un mistero.
Il baldacchino fu sistemato.
“Grazie.” disse poi Osmaniu, e si gettò al collo del maestro. Un caldo abbraccio. Di nuovo, da parte di quel cucciolo tanto sfaccettato, fonte di tanti problemi e tante sorprese.
“Su, su. Va’ a dormire, ora. – lo liquidò – Troverò qualcuno che si occuperà di te, ma ora dormi.”
“Una domanda, maestro. Per favore.”
“Vada. Una sola.” Già sapeva che cosa avrebbe chiesto.
“Come avete fatto…contro quella gente?”
“È una…tecnica…particolare. Molto impegnativa e che richiede un allenamento lungo una vita.”
“Ma…semplicemente, come? È magia?”
“Avevo detto una sola domanda. Ma d’accordo, te lo dirò in modo più chiaro. No, non è magia. È controllo degli elementi. Sai, vero, che noi della Foresta possiamo controllare la materia organica? Legno, ossa, e via dicendo, giusto?”
Osmaniu annuì, quasi impercettibile alla luce della flebile candela.
“Bene. Sappi che non c’è scritto da nessuna parte che questa materia dev’essere inanimata. Fine delle domande, ora. Buona notte, Osmaniu.”

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Capitolo 18
*** Capitolo 8.2 ***


<< Garsomor era definitivamente salvata e Magmion fu di parola: le notti seguenti l’assalto vulcanico non si ripeté e nessun esercito in marcia verso la città dei canyon nella Valle del Vulcano poteva essere visto, nessuna nave che faceva approdare gli scellerati guerrieri di fuoco nei luoghi più appartati e improbabili.
Lo scontro tra il Signore del Vulcano e il Signore della Terra fu feroce e teso. Ma nonostante i colpi inferti e subiti fossero di grande potenza e violenza, nessuno dei due sembrava aver intenzione di finire il proprio avversario.
Magmion si arrese nel mezzo del combattimento, senza un motivo ben preciso, quando sia lui che Gheos erano ancora freschi e avrebbero potuto prolungare la lotta per tutta la notte.
Gheos, malgrado il sospetto nei confronti del vulcanico, non obiettò e lo osservò ritirare onorevolmente il suo drappo di guerrieri e scomparire nella buia valle desertica.
In seguito alla scongiura del pericolo dei vulcanici, tutta la scarsa popolazione di Garsomor volle abbandonare seduta stante la lontana città e ritornare a Roscamar e nella Città Sotterranea, senza nemmeno preoccuparsi delle riparazioni e delle cure.
Il Signore e i Saggi presenti nella città trattennero gli abitanti dal precipitarsi a lasciare Garsomor e li convinsero a rimanere, con la promessa che avrebbero trattenuto più soldati in difesa –non che i civili non fossero in grado di difendersi, ma un soldato professionale era più affidabile - e che avrebbero tentato di promuoverla e renderla più popolosa.
I civili si convinsero a restare, ricordandosi del perché Garsomor, che non era un semplice avamposto, era stata fondata: per avere occhi e mani attenti e rapidi sulle nuove ricchezze che erano state scoperte nella Valle.
***
Dalla notte della prima edizione del Torneo di Astreg dopo il ritorno dei gormiti, dalla sera che sancì l’inizio della Grande Guerra di Gorm, erano ormai passati due anni, e il terzo era già cominciato. Era l’853. Il 13 Greemeralse 853: una data da ricordare.
Il torneo del secondo anno non fu bandito: la guerra e l’inimicizia che si era scatenata tra i Popoli non lo permetteva. Anche il torneo del terzo anno molto probabilmente non sarebbe stato fatto: la lotta, sebbene le campagne maggiori fossero intervallate da ampi periodi di stallo e da brevi e poco dannose incursioni vulcaniche, non sembrava giungere a termine, e tutti i Popoli erano come se la guerra non fosse mai iniziata. Tutti erano nella posizione originaria, tutti con la stessa forza, le stesse debolezze, lo stesso livello di pericolosità e – quasi - lo stesso numero.
Durante il periodo di guerra, anche la festa di Valladoin non era stata celebrata. Effettivamente non era più ritenuta una celebrazione ufficiale, e sin da quando i primi gormiti nacquero sulle spiagge di Antasfra il Vecchio Saggio e i Superstiti avevano stabilito, noto il pericolo presentato dall’Occhio della Vita e la coscienza di doverlo eliminare, di non festeggiare più il ritrovamento del mistico oggetto né il vulcanico che ne era scopritore.
Molto probabilmente, però, il Vulcano festeggiava ancora Valladoin: la figura gli era molto più vicina e i loro ideali avevano ora più che mai l’Occhio della Vita al centro di ogni cosa.
Quella notte del terzo anno di guerra, una notte limpida, con un cielo stellato sgombro di ogni nuvola e Greemerald e Tealoo nel massimo del loro splendore, qualcosa di nuovo stava per colpire i gormiti, dopo la maledizione di Magor e l’inizio della guerra.
Qualcosa di inaspettato che non avrebbe risparmiato nessuno dei due versanti.
Era una stella, una cometa…forse un asteroide? Nessuno poté dirlo con sicurezza quando lo vide quella notte, mentre cadeva dal cielo in una luce violacea.
Non tutti osservarono il globo magico cadere dal firmamento, pronto a schiantarsi con conseguenze ignote nel bel mezzo dello Stretto di Gorm.
Coloro che notarono e furono attratti dalla luce e dall’oggetto misterioso lo guardarono meravigliati e intimoriti nella sua caduta.
Cos’era? Da dove veniva? Cosa avrebbe provocato?
Con immenso stupore e col fiato mozzato, proprio mentre sembrò toccare l’acqua, il globo etereo viola esplose silenziosamente in un fumo –o in una polvere? - che si sparse tutt’attorno.
Non era l’unico oggetto caduto dal cielo quella sera: diverse altre sfere, viste o meno dai gormiti, abbandonarono il loro plausibile posto nel firmamento per affondare sul suolo di Gorm e diffondere la loro magica essenza…
Le domande rimanevano: che cos’erano, come erano cadute dal cielo, perché, e soprattutto cosa avrebbero fatto?
***
Un altro colpo dal becco di Noctis è una profonda ferita si formò sulla spalla di Poivrons.
Il Signore del Mare non prestò attenzione al danno subito: aveva occhi solo per il nemico davanti a lui. Non si accorse dell’esatta entità della ferita. Aveva sentito il becco del Signore dell’Aria penetrargli nella carne e il conseguente dolore, e ciò gli era sufficiente per capire che era stato ferito.
Non aveva importanza: l’avrebbe sopportata, come aveva sopportato e come sopporterà tagli peggiori.
Noctis, dopo il suo ritorno dall’oltretomba, aveva sfruttato i dati raccolti dal Popolo della Terra per organizzare un massiccio attacco al Bazaar, la città marina nell’entroterra di Dalarlànd.
L’assedio non aveva dato esiti rilevanti per alcune delle due fazioni.
Nonostante ciò – o forse a causa di questo - , Poivrons e Noctis si erano incontrati numerose volte in svariate zone di Gorm per confrontarsi. Erano sempre stati competitivi tra di loro, e la maledizione di Magor aveva acuito a massimi livelli la loro competitività.
Poivrons raccolse le mani sul fianco destro, preparando la sua Zanna del Demone Marino, che investì in pieno volto il Signore dell’Aria, facendolo barcollare all’indietro.
Approfittando del brevissimo e momentaneo stordimento di Noctis, Poivrons plasmò in fretta un grande globo d’acqua attorno al piumato guerriero, avvolgendolo in un freddo corpo d’acqua dove egli non potesse respirare.
Poivrons rise trionfale, mantenendo il controllo sulla sfera liquida con una mano tesa.
“Oggi è l’ultima volta che ci incontriamo, Noctis! - esultò - Annega, uccellino!”
Agitandosi spasmodicamente e sbracciando in cerca di aria, Noctis, senza pensare di ricorrere alla magia perché ritenendo di non essere concentrato a sufficienza, creò un’immensa bolla d’aria in continua crescita, che alla fine fece scoppiare in un acquazzone il globo di Poivrons, liberando Noctis.
Poivrons non fu contento. Era stato così vicino ad uccidere, per davvero in questa occasione, una volta per tutte, l’odioso Signore dell’Aria Noctis, fallendo.
Era anche stupito: quello scontro era durato molto più a lungo rispetto agli altri, ed entrambi gli sfidanti si erano spinti oltre i propri tradizionali limiti. Dovevano essere stanchi e sudici, e invece sembravano ancora capaci di maestosi e impegnativi attacchi elementali.
Solitamente, e nel caso di quel giorno doveva essere accaduto già da qualche minuto, uno dei due se ne sarebbe uscito con affermazioni quali ‘Che noia combattere con te!’ o ‘Non sei ancora alla mia altezza’ e avrebbe abbandonato, stanco, l’avversario.
Ma quel giorno ciò tardava ad avvenire.
“Vediamo se ti piace volare, Poivroncino!”
Con entrambi gli arpioni dorati puntati verso il Signore del Mare, Noctis evocò un mulinello nell’esatto luogo in cui Poivrons poggiava i piedi, e questi subito si alzò in aria, in preda al tornado in miniatura, vorticando furiosamente.
Poivrons, con la testa ormai che girava per conto suo e ogni membro del corpo che si agitava incontrollato, cercò di mantenersi lucido e provare a respingere la forza del vento.
Riuscì nell’intento, sfruttando la corrente ascendente del vortice per risalire e uscire dalla presa del mulinello, e gettarsi sul fautore dell’attacco.
L’unico problema fu che Noctis non era più lì, era scomparso, e Poivrons riuscì a malapena a coordinarsi per non cadere di testa o di schiena, atterrando sui piedi duolendoli leggermente.
Irritato per la sparizione di Noctis e ancora un po’ stordito, barcollando e incespicando sul terreno erboso, attese finché non si fosse rimesso in sesto per controllare finalmente la ferita sulla spalla, ricordandosene nonostante il dolore se ne fosse andato via.
Con suo profondo stupore si accorse che non c’era alcuna ferita, né sangue, nulla. Solo della pelle sbucciata.
Come era possibile? Poivrons aveva sentito chiaramente il becco di Noctis andargli a fondo nella spalla, e il dolore lo ricordava bene: era successo solo poco fa. Non poteva aver causato solo quel graffio. Forse se l’era solo immaginato, o aveva dato troppo peso alla fitta che aveva sentito?
Ciò gli diede da pensare. Pensare a molte cose.
Si tastò i tentacoli, sentendoli più duri di quanto si ricordasse. Si diede un’occhiata al corpo, vedendo la pelle di un blu deciso e brillante, che ormai da giorni stava diventando di una tonalità sempre più accesa.
La sua mente sondò i ricordi più recenti, alla ricerca di un avvenimento, una conversazione, una visione che potesse ricollegarsi alle stranezze che stava provando.
Aveva udito, tra il suo Popolo e in tutta Gorm, di gormiti il cui corpo aveva preso gradualmente a cambiare di colore, assumere maggiore durezza, di stelle viola che notti fa erano cadute dal cielo spargendo una misteriosa essenza che scomparve nell’aria, di gormiti che si giudicavano e si mostravano più potenti del normale. Cosa stava succedendo?
In bilico tra meraviglia e preoccupazione, con malsane idee e ragionamenti che imperversavano nella sua mente, Poivrons si ritirò per la sua casa.
Le notizie e gli avvenimenti circolarono in fretta per l’intera Gorm.
Ciò che aveva rammentato Poivrons in seguito all’ennesimo scontro con il Signore dell’Aria era vero: diversi gormiti, più che altro alcune decine, di ogni Popolo, non troppi giorni dopo la misteriosa notte delle stelle cadenti, mostravano segni di cambiamento fisico e potenziale: i loro corpi erano generalmente più robusti e i loro colori sfumavano in scuro e acceso, le loro capacità combattive erano evolute, potevano resistere a lotte prolungate, e il loro controllo degli elementi era migliorato.
Sia i Signori che i normali popolani non potevano che essere entusiasti di questa metamorfosi: dopotutto, i gormiti disponevano di qualità che avrebbero giovato innanzitutto a loro stessi e in secondo luogo al loro Popolo, non potevano lamentarsi.
Ma allo stesso tempo era lecito da parte loro domandarsi: come e perché?
Queste due domande non furono risposte allo stesso modo lungo l’Isola, ma generalmente la mutazione veniva affibbiata a un intervento divino, di semidei giunti in soccorso dei gormiti in guerra, oppure un aiuto proveniente dalle due guide, il Vecchio Saggio e lo Stregone di Fuoco, cupi e misteriosi, rinchiusi nei loro rifugi, riluttanti a mostrarsi e a parlare.
Un nome fu dato a questi gormiti scelti dal destino: i guerrieri mystica.
***
Lavion, inginocchiato con le gambe a stretto contatto col suolo pavimentato della sua stanza, pregava nobilmente e con grazia, con le braccia tese, alzando e abbassando il busto, onorando la statua del suo idolo.
Il suo braccio-chela era curiosamente rilassato e immobile, completamente alla corvee del Signore del Vulcano, come se anche la misteriosa creatura onorasse la figura divina e fosse convinta della fede in essa.
Magmion, in piedi di fianco a lui, con le braccia tese, lo osservava contrariato e scuoteva continuamente il capo per dare mostra della sua opinione su ciò che Lavion stava facendo.
“Non mi piace che tu aduli la figura di Magor.” grugnì infine, cercando di essere il più spiccio e meno grezzo possibile.
Infatti il fratello Lavion stava idolatrando niente di meno che una scultura in roccia lavica della loro guida e ispirazione Magor, lo Stregone di Fuoco. Ignorò completamente la voce del fratello, continuando a mormorare preghiere in gormitico, con gli occhi socchiusi.
“Lavion, smettila, insomma. - disse poi, con un tono più acceso - Magor non è un dio.”
“Questo lo dici tu.” replicò il fratello, senza smettere di chinare il torso nella sua preghiera.
Magmion voleva farlo ragionare. Sapeva che Magor non era una divinità, lo aveva sempre giurato sin da quando comparve nella piazza di Monte Vulcano e sempre sosterrà questa sua tesi – d’altra parte, lo stesso Stregone di Fuoco negava di essere una figura divina, pur nascondendo la sua vera natura - e trovava completamente sbagliato che i vulcanici lo adorassero come fosse Travor o Menumia o addirittura come una delle Somme Forze.
“Ho capito perché vuoi adorarlo. - rifletté Magmion - Credi sia l’artefice dell’evoluzione mystica.”
“Uh, davvero perspicace.” commentò sarcastico Lavion, senza togliere le sue attenzioni dall’atto religioso.
“Senti, Magor innanzitutto non è un dio. - lo avvisò, con un dito puntato - E non c’entra niente con questa cosa mystica.”
“Ah no? - sibilò Lavion, interrompendo la preghiera e guardando il fratello dritto negli occhi, visibilmente irritato - E chi credi sia stato, allora? Menumia? Quelli sono dei passati, non hanno più alcun valore per i gormiti.”
Riprese imperterrito la sua preghiera, cercando di far finta che Magmion e le sue maldicenze non fossero lì, di fianco a lui.
“Qualsiasi cosa sia questa cosa mystica, Magor non c’entra. - ruggì convinto Magmion - Ci avrebbe avvisato, non credi? E perché anche i gormiti degli altri Popoli si sono trasformati, hm?”
Lavion non rispose. Le pinze della sua chela presero a tintinnare minacciosamente.
“E anche se fosse stato lui. - continuò - Non è un buon motivo per crederlo un dio. Lui stesso dice di non esserlo, vaglielo a chiedere!”
“Allora? - domandò irato Lavion - Va bene, non è un dio, ma io voglio ringraziarlo lo stesso.” ammise, ma non credendo veramente a quello che diceva.
“Forse sei solo invidioso perché io sono stato toccato dall’evoluzione mystica e tu no! E non so nemmeno cosa ci fai qui: questa è la mia stanza.”
A questa affermazione Magmion cominciò ad alterarsi. Invidia! Invidia per lui, Lavion! Lo sporco, incapace e troppo giovane fratello di Magmion che era stato eletto Signore solo per quel mostro che portava appresso il braccio, di cui Magmion non sapeva nulla, e sicuramente nemmeno quell’idiota di suo fratello. Nessuno fuorché i loro genitori, e nemmeno loro, nel suo cuore Magmion ne era convinto, sapevano davvero cosa fosse e cosa significasse. Sogres, loro padre, rammentava sovente di come Lavion fosse nato prematuro: uscito dal guscio senza nemmeno piangere, le sue probabilità di sopravvivenza erano scarsissime, e padre e madre erano disperatissimi. Tentarono di tutto per mantenerlo in vita, per trovare un rimedio e, forse al culmine della follia, Sogres chiese l’aiuto dei Priori, che pregassero l’Occhio della Vita e i Semidéi affinché Lavion potesse vivere. Questi accettarono, presero l’Occhio e lo sfortunato cucciolo con sé: si richiusero in una tenda, e i loro canti enigmatici durarono a lungo. Luci scintillanti e grida di agonia eruppero dalla tenda prima che i Priori uscissero, con Lavion sano e piangente tra le braccia. Con quel braccio simbiotico e deforme. Voci che l’Occhio della Vita potesse creare e modificare la vita correvano per l’Isola sin dagli albori, ma in pochi ci credevano davvero, e Magmion non era tra questi.
I suoi genitori, ad ogni modo lo avevano ricoperto di attenzioni, più di quante ne avessero mai date al loro primogenito e bravo Magmion e più di quante egli, vulcanico modello, ne avesse mai richieste.
Perché quest’assurdità di trasformazione mystica aveva mutato quell’imbecille di Lavion – bizzarro e forse pazzo, Magmion ricordava perfettamente le notti in cui il fratello si svegliava, completamente lucido e con la chela che si agitava spasticamente, e tracciava strani disegni di cerchi allineati - e non Magmion il grande, il prediletto di Magor? Il braccio-chela di Lavion aveva una sfumatura dorata, mentre il resto del suo corpo sembrava abbronzato…al contrario: la sua pelle rossa diventava più chiara in certi punti. I suoi denti e i suoi artigli sbiadivano in arancione o in verdino.
Cercò di scostare dalla mente tutta quell’avversione per altro priva di logica nei confronti di Lavion e provò ancora una volta a farlo ragionare.
“Senti, Lavion. - grugnì nel tono più dolce che potesse creare - Io voglio solo che mio fratello non si riempia la testa di idiozie.”
“Uh, bello, grazie, e io voglio che mio fratello non mi rompa le palle!” replicò scontroso.
Questo era davvero troppo. Testardo, ostinato e deficiente di un Lavion! E maleducato, oltretutto: comportarsi così con suo fratello maggiore! Avrebbe avuto una lezione per le scemenze che perseguiva…
Magmion avanzò minaccioso più vicino a Lavion e, con un rapido movimento della sua gambe fece cadere in pezzi la statua idolo di Magor.
Lavion lo guardò esterrefatto.
“Ma che cosa combini, scemo? - urlò, raccattando rabbioso frammenti di roccia - Ci ho messo mezzo mese per farla!”
“Così impari a fare stronzate…e a disobbedirmi.” ruggì imperioso Magmion.
“Tu…tu! - lo puntò Lavion infuriato, con il braccio-chela tutto fremente - Sei uno stronzo, un bastardo!”
“Non peggiorare le cose con le tue parole, Lavion.” ringhiò, innervosendosi ancora di più.
“No, tu le hai peggiorate! - e gli sputò in faccia - Considerati morto per me! Tra noi è finita!”
***
La notte regnava di nuovo su Gorm, e su nel cielo Tealoo stava cedendo la sua luminosità, lentamente, a Redrubin, lontana ad est. Era una sera nuvolosa, quella, e le stelle erano poco visibili.
Sotto quel cielo cupo e plumbeo una barca approdò sulla solita isoletta nel mezzo dello Stretto di Gorm, la stessa isola ormai ufficialmente territorio neutrale su cui Togern lo Scovanascondigli si era incontrato con Livaz, Mantra e Mimeticus per scoprire la verità sulla guerra.
Dalla barca, abbastanza ampia, ben costruita e munita di accessori e decorata da maestri artigiani di Dalarlànd, attraccata alla spiaggia orientale, scese la figura massiccia, erbosa e nerboruta di Tasarau Signore della Foresta.
Anche lui era uno dei possenti guerrieri mystica: lo si poteva vedere dalle punte legnose sulla sua testa che erano imbiondite, dalla sua cellulosa bruna che riluceva di verde acceso anche alla luce delle cupe lune notturne, e dalla luminosità arancione che sfavillava lieve nei due tronchi del petto e negli artigli.
Il Signore della Foresta era stato convocato lì da nientemeno che Gheos. L’invito ricevuto e di autenticità inconfutabile parlava di una discussione saggia e riflettuta sugli ultimi avvenimenti che avevano scosso la civiltà dei gormiti.
Tasarau lo aveva letto ad alta voce, per far conoscere a tutti le intenzioni del suo avversario e per ricevere da tutti un’opinione.
La cosa puzzava di trappola, Tasarau ne era più che convinto, o almeno poteva trasformarsi in tale, ma non sia mai detto che un Signore come lui non abbia il coraggio di incontrarsi con un altro Signore, soprattutto per discutere di argomenti di interesse pubblico e che richiedono una certa conoscenza nell’arte del parlare e nell’argomentare. Tasarau possedeva entrambe le cose –aveva sempre preferito il dialogo alla lotta, anche con la mente avvelenata - e dubitava che gli altri Signori le avessero, non ai suoi livelli almeno.
Non c’era anima viva visibile sull’atollo, ma dalle finestre intatte della rocca temprata dal tempo e dalla natura fuoriusciva una fioca luce, come di candela.
Entrò per la porta distrutta, addentrandosi nella sala centrale dell’antica rocca, completamente conquistata dalle piante rampicanti e dagli insetti. Se Gheos voleva tendere una trappola a Tasarau, non aveva scelto un buon terreno.
Gheos era lì, e sul suo viso si disegno un'espressione quasi di disgusto non appena vide il Signore della Terra. Anche lui era stato mutato dalla mystica: la sua pelle giallo ocra imbruniva, e le scaglie sul suo corpo divenivano di un oro pallido. Non indossava la sua solita corazza argentata.
“Salute a te, Signore della Terra.” disse Tasarau con un leggero - leggerissimo - inchino e un’aria innervosita.
“Altrettante.” fu la risposta di Gheos.
“Qual è, dunque, il motivo della tua convocazione?” domandò Tasarau.
“La nostra trasformazione. Le leggende parlano che i primi gormiti si evolsero da semplici creature animali...”
“Ebbene?”
“Non ho finito. - replicò Gheos, stizzito - Ebbene, è possibile che stiamo subendo una seconda trasformazione, accelerata dal nostro costante combattimento.”
“Sei passato subito al sodo, pare. Niente convenevoli.” osservò il Signore della Foresta.
“Mi è sembrato giusto così. - rispose disinvolto Gheos - Ti aspettavi forse un banchetto e degli aerei che suonavano la lira?”
“Affatto. Ma mi aspettavo qualcuno con una certa bravura nell’oratoria. - lo stuzzicò con un’occhiata provocante - Partendo così, come un falco in picchiata, subito con l’argomento del giorno non dimostri maestria nell’arte del parlare.”
“Ti ho convocato solo per condividere e sapere delle teorie su questi guerrieri mystica, teorie di un gormita di certi livello e formazione.”
“Allora hai chiamato la persona giusta.” affermò vanitoso Tasarau.
“Indubbiamente…” disse Gheos alterato dalla sua mancanza di modestia.
“Se devo proprio essere conciso, sarò conciso: non c’è nulla che so su questa mutazione che non siano le solite leggende che circolano in giro.”
“Vale a dire?”
“L’intervento dei semidei, di alcuni almeno, che hanno scelto di aiutare i gormiti nella lotta, oppure qualche arcana magia del Vecchio Saggio o dello Stregone di Fuoco. La tua teoria mi è nuova, devo dire, ma mi trovo nella posizione di doverla confutare: la nostra lotta non è stata così estrema come credi.”
“E Patmut Iun ha dati su questa metamorfosi?”
“Sfortunatamente, no. - sospirò Tasarau - Quando sentii dei primi guerrieri mystica mi piombai al Museo, ma ne uscii come ne ero entrato.”
“Hai qualche nozione scientifica che potrebbe spiegare la mutazione, e perché solo alcuni si sono evoluti?”
“No. Non esattamente. E’ probabile che i guerrieri prescelti abbiano qualcosa in più, magari una preparazione, delle abilità innate particolari, che ha innescato la metamorfosi.”
“E della pioggia di stelle che mi dici?”
“Ti dico che l’ho vista, con quest’occhio. E’ stato un panorama unico e preoccupante, devo ammettere.”
Gheos non fece alcun’altra domanda, e il silenzio seguì, accompagnato dagli intermittenti canti dei grilli e i fruscii dei piccoli animali per l’erba.
“Questo tuo interrogatorio non mi è servito a molto. - uscì poi Tasarau - Tu hai ottenuto delle informazioni, per quanto inutili, ma io ho solo consumato il mio fiato per te. Spero tu abbia altro da fare questa notte.”
“Oh sì.” rispose subito Gheos, sorridente, accarezzando il suo martello grigio.
“Vedi, Tasarau, - disse cominciando a camminare avanti e indietro - Non abbiamo avuto molte occasioni di scontrarci noi due.” Tasarau si preparò all’imminente attacco.
“Credo sia giunta l’ora…di COMINCIARE!”
Con quest’ultimo urlo saltò in avanti contro Tasarau, atterrando poco prima di lui e sbattendo con forza il maglio al suolo, sollevando una dopo l’altra diversi pilastri appuntiti di roccia dal terreno, secondo la tecnica del Piggstrad. Tutte le stalagmiti furono però evitate molto atleticamente, nonostante la massa, da Tasarau.
Gheos alzò il martello, ma prima di poterlo usare per qualche tecnica su Tasarau, questi fece muovere due radici dietro di lui, che si aggrapparono al braccio con il temibile martello e, sebbene piccole e fragili, furono capaci di farlo cadere di schiena all’indietro.
Senza pensare di liberarsi dall’esile edera, plasmò col braccio libera una liscia sfera di pietra di discrete dimensioni che scagliò potentemente davanti a lui. Tasarau, riflessi da predatore, bloccò la pietra con le braccia inferiori e di scatto la buttò fuori dalla finestra. Quando il masso sferico non gli ostruiva più la vista, si vide l'imponente figura di Gheos caricare contro di lui.
Colto di sorpresa, fu colpito nel torace e spinto qualche passo indietro, schiena a terra.
Cercò di rialzarsi ma si ritrovò le braccia strette nella morsa di quattro bracci d’argilla, plasmati dal suolo.
“Addio, Tasarau!” gridò Gheos sollevando il maglio, osservandolo trionfante dall’alto,
“Ho anche le gambe sai?!” urlò Tasarau, e rapidamente sferrò un calcio nell'addome di Gheos, spingendolo indietro e facendolo cadere.
Con tutta l'energia in corpo, si liberò dalla morsa delle mani di roccia, e si alzò. Con un gesto fulmineo della mano fece apparire degli enormi grovigli di liane, radici e rami dal terreno ricoperto d’erba e le fece avvolgere attorno al corpo di Gheos, lasciando libera solo la testa.
Plasmò dunque un paletto di osso con la mano superiore sinistra, pronto a infilzarci il cranio del Signore della Terra e sconfiggere con la sua morte il Popolo della Terra.
Ma quando fu lì, inginocchiato, trattenendo con le tre braccia libere il fremente Gheos, l’appuntita arma sopra la fronte di Gheos, qualcosa lo fermò. Non era qualcosa di tangibili, o una presenza fisica che lo trattenne dall’uccidere il suo avversario.
Era qualcosa nel profondo del suo cuore, lo stesso moto dell’animo che diversi mesi fa lo aveva trattenuto dal massacrare fino alla morte il Signore del Mare Poivrons.
C’era qualcosa di sbagliato in tutto questo. Sapeva di dover porre fine alla vita del suo nemico, di volervi porre fine ma nel contempo si trovò incapace di trafiggere il teschio di Gheos come era sicuro di voler fare pochi secondi fa.
Scartò la lama ossea, alzandosi.
“Basta così. - esclamò con tono incerto - Voglio e non voglio ucciderti al tempo stesso. Seguirò l’etica piuttosto che l’istinto…questa volta. Addio, Gheos.”
E abbandonò il Signore della Terra nel suo groviglio erboso.
 
Gheos rimase intrappolato nel groviglio di frasche e rovi evocato da Tasarau. Ma era vivo.
Nonostante fossero semplici radici ed edera, erano estremamente dure e di una presa forte sui muscoli del Signore della Terra, che dovette faticare e sudare non poco prima di poter rialzarsi nuovamente, evaso dall’intricato tramaglio d’erba e legno.
Tasarau aveva commesso un grosso errore quella notte, un errore che Gheos non avrebbe perdonato e che non avrebbe ricambiato con la stesso senso di pietà e misericordia. Fosse stato nella sua posizione, Gheos non avrebbe esitato a conficcare la lama nella testa del nemico, avrebbe terminato la sua vita con la stessa facilità e noncuranza con cui si era comportato con Noctis…e si sarebbe assicurato di averlo ucciso seriamente, questa volta.
Gheos uscì alterato dalla rocca, nervoso per non esser riuscito a sconfiggere, nemmeno a ferire Tasarau, finendo invece per essere stato sconfitto lui stesso.
Che rabbia! E il Signore della Foresta gli aveva addirittura risparmiato la vita, come se il Signore della Terra non valesse la pena di commettere un omicidio, non fosse necessario finirlo una volta per tutto.
Qualsiasi fosse stata la sua motivazione per avergli prolungato l’esistenza, Gheos avrebbe agito diversamente, con lui così come con Poivrons e Noctis, e per i Signori del Vulcano.
Percorse l’atollo, lasciandosi dietro l’arcana rocca invasa dalla natura per rimuovere dal suo curato nascondiglio la sua barca. Anche se l’isolotto era territorio neutrale, nessuna precauzione era abbastanza sicura. Salì a bordo e cominciò a muoversi verso il Deserto di Roscamar, nella notte buia.
Era da solo, sperduto nello Stretto di Gorm, con una sola semplice barchetta e milioni di piedi che lo separavano dalla sua meta, dalla sicurezza della sua patria. Nonostante questo, non temeva aggressioni di nessun genere. O meglio, si preoccupava dell’evenienza di un agguato ma non temeva il modo in cui avrebbe reagito e in cui si sarebbe difeso. Era abbastanza forte e preparato per resistere e respingere ad attacchi sorpresa, il suo stato di mystica lo attestava chiaramente.
L’attraversamento dello stretto fu pacifico e lungo, e Gheos lasciò la barca al molo, dove fortunatamente c’era ancora qualche guardiano che potesse mettere regolarmente a posto la sua imbarcazione.
I barcaioli e le sentinelle lo salutarono con profondi inchini, ma non proferirono alcuna parola: non sapevano dove era stato di preciso né a quale scopo, e non se la sentivano di imbottirlo di domande.
Si incamminò per la sua casa, nel centro di Roscamar, più a ovest. Era sicuramente lontana, e al passo di quel momento vi sarebbe giunto non prima dell’alba. Ma non aveva fretta, non aveva sonno. Percorse nel più completo silenzio le vie della periferia di Roscamar, le luci nelle case quasi assenti, tutti nei loro comodi e per ora sicuri letti, i soldati alle porte che non avrebbero permesso a nulla di turbare la sicurezza della capitale. Non informarono Gheos di alcun avvenimento, e Gheos non chiese loro di essere aggiornato: probabilmente non c’era nulla di cui doveva venire a conoscenza.
Il silenzio e la cupa tranquillità della capitale notturna furono sconvolte da un gormita in corsa, proveniente da nord - est, abbastanza sudato e con un respiro e un passo così pesante per la fatica impiegata che nella quiete della notte parvero come una scossa di terremoto. Era Stalattite, l’atletico messaggero e corridore dell’esercito di Roscamar, rimasto nella sua forma abituale.
Si guardò attorno stremato, sperando con ogni membra e ogni parte della sua anima che il suo destinatario si trovasse lì. Vide poi, e nuova forza sembrò scorrere nel suo fisico consumato al limite, il suo Signore nelle vesti di guerriero mystica.
“Signore Gheos, mio Signore!” gridò, provocando un certo malcontento nei civili che riposavano mentre correva verso il suo Signore.
“Stalattite, che cosa significa tutto questo?” domandò irrequieto Gheos.
“E-Ecco, mio Signore.” farfugliò Stalattite porgendo una pergamena al suo sovrano.
Gheos la prese nervoso e la srotolò aspettandosi il peggio.
“L’Armeria di Roscamar è sotto attacco?!” proruppe poi sbalordito, con il foglio aperto davanti al suo viso.
“Esatto, mio Signore.”
“Perché non sono stato avvisato per tempo, con i falchi viaggiatori?”
“Mio Signore, è notte, i falchi non possono viaggiare, e nemmeno i piccioni.”
“Sì, è vero. - brontolò Gheos - Forse sono ancora in tempo per risolvere la situazione. Adesso prendo una salamandra e vado. Tu, Stalattite, rimani qui se sei spossato, o accompagnami se te la senti.”
Stalattite preferì rimanere alla periferia sud-orientale per riposarsi, mentre Gheos si diresse immediatamente al primo noleggio di salamandre che incontrò sul cammino. Il padrone delle cavalcature cercò di non mostrarsi indispettito per la richiesta a quell’ora della notte, e avvisò Gheos che la salamandra avrebbe potuto fermarsi lungo il viaggio. A Gheos non importava, e scappò al galoppo verso l’Armeria.
L’Armeria di Roscamar era un edificio di antiche origini, ai confini nord - orientali di Roscamar. Essa ospitava un gran numero di armi, proprie e improprie –improprie come ad esempio diversi manufatti magici - e di pezzi d’armatura, raccolti dal Popolo della Terra lungo le loro spedizioni, oppure fabbricati dagli stessi terricoli, o offerti in dono da altre genti.
Era più un museo che una vera e propria armeria: raramente le armi e gli armamenti custoditi all’interno venivano estratti dalle loro teche e portati in battaglia, ma ospitava comunque degli utensili che potevano ancora mostrarsi utili.
Gheos aveva compiuto grandi lavori di ristrutturazione e di rivalutazione dell’Armeria, giacché i Signori del passato l’avevano leggermente trascurata.
Giunse più velocemente e il più presto che poté all’Armeria di Roscamar, il museo a un solo piano sopraelevato su una scalinata, dotato di numerose finestre e diverse colonne scolpite nelle pareti. Il soffitto era interamente circondato da un insieme di capitelli che ritraevano alcune scene della storia gormitica del Popolo della Terra. Presso l’entrata principale, alla sinistra, vi era una statua a tutto tondo di Gheos. Vi era è il verbo giusto: ora era a pezzi per terra.
Tutt’intorno all’Armeria vi era una moltitudine di gormiti che osservava la scena con stupore e preoccupazione, e diversi terricoli uscivano ed entravano dall’Armeria per controllare lo stato interno dell’edificio.
Ad eccezione della scultura distrutta l’Armeria in sé non sembrava aver riportato danni. Ma era necessario entrarvi per scoprire cosa era veramente successo.
Senza badare alle grida dei sudditi nei suoi confronti che chiedevano umilmente spiegazioni o lo criticavano per non essere giunto in tempo, Gheos entrò.
Anche all’interno dell’Armeria, i danni erano lievi. Teche rotte, vetri infranti…e acqua lungo tutto il pavimento.
“Qualcuno si degni di dirmi cosa è successo, per favore.” proruppe Gheos, alzando la voce per farsi sentire da tutti, preoccupati per l’avvenuto senza badare al suo arrivo.
“Ah, mio Signore Gheos.” lo accolse uno dei gormiti presenti, con leggero inchino, giusto per mostrare un po’ di rispetto senza ricorrere all’ossequioso e artificioso inchino d’onore.
“Non lo sappiamo con sicurezza, mio Signore.” rispose facendo di no con la testa.
“Non avete visto nulla, né sentito qualcosa?” lo interrogò turbato.
“Alcuni dicono di aver visto delle figure passare di qui e entrare nell’Armeria chiusa. Poi tutti abbiamo sentito i vetri rotti e la vostra statua cadere.”
“Hanno rubato qualcosa?” domandò poi, dando un’occhiata alle diverse bacheche che, pur infrante, possedevano ancora le loro armi all’interno.
“Sì, mio Signore. Due spade e uno scudo. - rispose repentino il gormita, scrupoloso - Una delle spade era incantata, e lo scudo apparteneva a un lontano antenato. Il valore di quest’ultimo è molto elevato.”
“Hai idea di chi sia stato, o del perché l’abbia fatto?”
“Il perché non lo so, e non credo ce ne sia uno. - intervenne un altro gormita, con tono stizzito - Chiunque sia stato, poteva benissimo depredarci di tutto, invece che solo di quelle tre cosucce.”
Il terricolo che dialogava con Gheos non fu contento della sua intromissione e lo guardò in cagnesco. Poi riprese a parlare con il Signore.
“Ha detto bene, comunque. - concordò - Non possiamo capire il perché, però…avete visto tutta quell’acqua, anche sotto i nostri piedi. Qui c’è lo zampino del Popolo del Mare, a prima vista sembra così, ma non salterei a conclusione affrettate.”
“Nemmeno io” condivise Gheos “Qualcuno potrebbe voler far ricadere la colpa su Poivrons”
“Be’, c’è poco da fare, ormai. - stabilì infine - Invierò degli investigatori a setacciare l’area, e domani chiamerò qualcuno per ripulire e risistemare tutto.”
Pattuito ciò, se ne uscì, con strane idee per la testa e continue domande senza risposta. Ora che era lì, ad ogni modo, era suo compito dare una minima spiegazione dei fatti ai sudditi che osservavano da fuori.
Uscì dall’Armeria, pronto a dare il suo discorso, quando qualcosa catturò la sua attenzione. Erano i pezzi della sua statua. Quando era entrato non se ne era accorto, ma da quel punto di vista era inconfondibile: i resti della scultura erano stati riposti a formare delle lettere, e il loro significato era chiaro. Semal. Il Mare.
***
Tasarau era tornato in tutta tranquillità dall’isolotto alla sua casa, la costruzione sull’Albero Maestro. Il suo ritorno alla Foresta Silente non fu turbato da avvenimenti nefasti o da cattive notizie, e all’arrivo all’Albero Maestro la situazione continuò a rimanere serena.
Il Signore della Foresta non aveva alcun tipo di turbamento, né per quel giorno né per il successivo.
Giunto piuttosto presto con l’ausilio della magia, fu interrogato da diversi sudditi, alcuni visibilmente preoccupati per la salute del loro Signore, riguardo l’esito dell’incontro.
Tasarau rispose volentieri e sinceramente, descrivendo in maniera sintetica del loro dialogo da cui egli non aveva guadagnato nulla e di come la riunione fosse solo un pretesto di Gheos per poterlo affrontare. Non narrò del breve scontro che ebbero e di come finì.
Si arrampicò molto tranquillamente sull’Albero Maestro, e si coricò nelle sue stanze con la mente sgombra e serena.
Non aveva nulla di cui preoccuparsi, almeno questo è ciò che volle credere e che si ripeté nella testa prima di prendere sonno.
Indubbiamente era più sicuro di altri Signori: il suo esercito era ben organizzato, i civili vivevano bene e producevano abbastanza per sostenere sé stessi e i soldati.
Le frontiere della Foresta erano ben difese, e ciò si arguiva da come la Foresta Silente fosse la regione che subì meno attacchi e dove le razzie vulcaniche duravano meno e non penetravano molto in profondità.
Il giorno seguente non fu molto diverso.
Tasarau si svegliò piuttosto tardi per i suoi standard, ma comunque abbastanza presto rispetto al comune popolano.
Quel giorno Tasarau si sarebbe preso una pausa dalle campagne militari per dedicarsi al suo Popolo, controllare che ogni cosa andasse per il meglio, ascoltare critiche e reclami, aiutare dove possibile. A qualsiasi incursione ci avrebbero pensato i suoi generali, disseminati ai confini.
Quando si stava avvicinando l’ora di desinare e Tasarau era in cammino per la Biblioteca Silente, cuore della cultura forestale, il Signore della Foresta fu turbato da una sgradevole visione. Poco distante dalla sua posizione si innalzava del fumo bianco.
La presenza di fumo nella Foresta non era mai un buon segno: significava fiamme, incendio, morte e chiunque sa del pericolo che può portare pure la più piccola scintilla in una così vasta selva, dove non solo gli alberi possono prendere fuoco facilmente, ma gli stessi abitanti.
Si mise immediatamente a correre, seguendo il corso del fiume Cornolmo, verso l’origine del fumo. Contro ogni sua speranza non si trattava di una piccolezza e appoggiando ogni suo timore la situazione era grave: la stessa Biblioteca Silente, presso il fiume Cornolmo, stava andando a fuoco, per ora solo la sezione più vicina al corso d’acqua.
I gormiti nelle vicinanze strepitavano terrorizzati e correvano verso e dal fiume riempiendo e svuotando secchi che, con la forza o con la magia, venivano usati per cercare di spegnere le fiamme. Ma il fuoco, quasi fosse magico, era riluttante a cessare di bruciare.
“Che cosa è successo?” domandò preoccupatissimo ad un gormita.
“Mio Signore! - sussultò per un istante, non riconoscendo il suo sovrano, poi rispose - Non lo sappiamo. Un attimo prima era tutto tranquillo e un attimo dopo la Biblioteca è in fiamme! Alcuni gormiti sono entrati per salvare i libri, ma credo che non riusciranno a salvare sé stessi.”
“Che cosa?! - tuonò Tasarau - Devo andare a salvarli.”
“No, mio Signore, non andate! - lo supplicò il suddito, trattenendolo per le due braccia destre - Non ne vale la pena!”
“Lasciami! - gli intimò il Signore con uno strattone - Vale eccome la pena, per loro e per i libri.”
Mentre varcava il cancello, vide con la coda dell’occhio delle ombre bel fiume, emergere, guardarlo e poi scomparire. Le vide di scorcio e non si fermò per assicurarsene, ma fu sicuro si trattasse di figure gormitiche, non della Foresta.
Entrò e transitò in ogni aula di ogni piano della sezione ovest, tra fiamme, tizzoni, travi e scaffali che bruciavano e cadevano, imponendo a tutti coloro che incontrava, sia che fossero lì per spegnere l’incendio o per salvaguardare gli i volumi, di uscire senza indugio dalla biblioteca, congratulando comunque entrambe le tipologie per il coraggio dimostrato e invitandoli a portare in salvo i libri recuperati.
Non tutti furono accondiscendenti ad abbandonare l’edificio.
Uno all’ultimo piano, l’ultimo gormita rimasto e forse l’unico ad essersi spinto così in alto, diede a Tasarau molto filo da torcere.
Era al di là di un corridoio invaso dalle fiamme, in un antro asciutto e sicuro presso una finestra.
“E’ davvero curioso. - frusciava tutto preso dalla sua missione salvifica, parlando a pieni polmoni in un luogo dove il silenzio era sacro - Ci sono un mucchio di libri mancanti, ma non sono bruciati…come se qualcuno li avesse presi.”
“Vieni subito qua, è pericoloso!” gli intimò per l’ennesima volta Tasarau, anch’egli incredibilmente a disagio nel parlare a voce lì dentro, con una mano davanti al viso per coprirsi dal calore e dal fuoco. Non poteva attraversare quel buco infernale: avrebbe preso fuoco subito.
Il gormita, invece, che era animale, con un leggero balzo avrebbe avuta salva la vita con poche bruciature.
“Chiunque tu sia, questo è un ordine!” gli ripeté, constatando che non gli rispondeva e pareva ignorarlo, senza dare segno di volersene andare.
“Un attimo solo, Signore - gli disse con tono pacato e tranquillo, senza voltarsi per guardarlo in faccia - Mi mancano pochi libri.”
“Non c’è più tempo! - vociò - Vieni ora!” gli ordinò furioso.
Ma quel gormita era ostinato a non abbandonare la Biblioteca finché ogni tomo non fosse stato recuperato. E Tasarau era ostinato a non abbandonare quel gormita tra le fiamme.
Allora si concentrò, dicendosi che tutto sarebbe andato bene, sarebbe filato per il meglio e, tremando, affrontò la morte.
Con un grande balzo saltò pressoché illeso dall’altra parte del breve passaggio infuocato, pronto a tirare fuori di lì quel follemente testardo gormita.
“Adesso tu e i tuoi libri venite con me.” affermò con tono risoluto e indiscutibile, stringendo il gormita e la sua borsa tra le braccia inferiori.
“No! NO! - gridava lui, dibattendosi invano tra la stretta di legno delle mani del Signore - Devo salvarli tutti!”
Tasarau fece un altro salto che, nonostante il peso aggiunto, portò entrambi vivi e vegeti dalla parte opposta.
Corse verso le scale, ma non appena posò l’occhio diversi gradini precipitarono giù, nel baratro infernale, rosi dal fuoco e dal fumo.
“E’ la fine! E’ la fine!” piangeva terrorizzato il gormita, stringendosi ora più forte alle braccia del suo Signore, colto dalla paura e sicuro che la sua azione, oltretutto non portata a termine, sarebbe stata vana.
“Non è ancora arrivato il mio giorno.” mormorò Tasarau.
Corse contro la finestra del corridoio indenne dalle fiamme in cui si trovava, mandandola in frantumi gettandovisi contro.
Sebbene le capacità della magia potessero salvarli con discreta facilità, un salto da quell’altezza, con l’adrenalina che sale e il terrore di morire che aumenta più si acquista velocità e più ci si avvicina al suolo, infonde paura nel cuore di chiunque, e non si dimentica facilmente.
I due atterrarono integri al suolo, con la borsa del forestale che, sfuggita dalla presa dei due gormiti, faceva ora ricadere su di loro una pioggia di libri.
All’esterno il fuoco era stato domato, ma buona parte della sezione occidentale era totalmente annerita e rosa in modo irrecuperabile, le scale e gli scaffali all’interno inagibili.
Tutto sommato poteva andare peggio: Tasarau era salvo così come tutti i gormiti folli e coraggiosi che si erano assegnati il compito di strappare al pericolo i ricchi volumi della Biblioteca.
La Biblioteca Silente era però da ricostruire, e diversi manoscritti erano andati perduti, arsi tra le fiamme o trafugati dai misteriosi piromani come aveva fatto notare il gormita dell’ultimo piano.
Numerose domande che necessitavano di risposte e una collera ardente come la lava del Vulcano tempestarono il corpo e la mente di Tasarau.
Uno dei quesiti da lui posti ottenne presto risposta, e la sua rabbia sembrò poter essere indirizzata a qualcuno: presso la riva del fiume stavano bruciano delle strane fiamme, che si sviluppavano in una maniera insolita e irregolare.
Avvicinandosi, scoprì che delle scritte erano stato incise sul terreno e poi evidenziate da del fuoco magico. Il seguente è il messaggio oscuro che recavano: Vi abbiamo depredato di conoscenza. Se ve ne volete riappropriare, seguite il corso di Cornolmo, fino all’oceano dove noi regniamo.
***
Maginiu risistemava fischiettando dei tomi sul suo bancone. Non era cambiato nulla dall’ultima volta, circa trent’anni fa, quando il Vecchio Saggio si era recato lì per informarsi sugli Spiriti e Strappapensieri lo aveva attaccato.
La Tana Nera si era riempita di altri manoscritti e i suoi sotterranei ospitavano numerosi altri cimeli incantati e non, più che altro bottini delle razzie, e Maginiu era ancora il suo gestore.
Dopo il tentativo fallito di Strappapensieri alla Foresta, egli era stato tenuto prigioniero come ostaggio, e sarebbe stato liberato solo se i suoi fratelli avessero sborsato, e sborsato parecchio.
Fu un atto di grande clemenza, dopo quello che Strappapensieri aveva fatto. E con una simile clemenza i suoi compagni avevano pagato per riaverlo indietro.
Furono severi con lui solo fino a un certo punto: per un vulcanico non era molto forte fisicamente, e questa era una delle sue poche debolezze, ma la sua conoscenza magica aveva pochi eguali presso Monte Vulcano e la sua mente era tra le più forti. La sua conoscenza in generale era molto alta, giacché era proprietario della Tana Nera da diversi anni, e conosceva meglio di chiunque altro il contenuto di ognuno dei suoi libri, i poteri e la storia di ogni manufatto conservato. Questi furono i motivi per cui lo Stregone di Fuoco lo scelse nella sua cerchia di fedelissimi, insieme a Magmion e ad altri, e fu graziato con l’elisir di lunga vita.
Era in fin dei conti soddisfatto di come erano andate le cose. Ancora poco e il suo senso di benessere sarebbe svanito.
Sentì dei tremori nelle vicinanze. A primo impatto non si agitò e li giustificò come originati dal Vulcano. Ma si dovette ricredere: le vibrazioni continuavano troppo a lungo, e le sentiva troppo, troppo forti e vicine.
Cominciò a trovare difficoltoso reggersi in piedi. Gli elmi e le armi appesi e nelle bacheche presero a tremare e tintinnare. I libri scivolavano e cadevano dalla libreria.
Senza capire come e perché, un’onda d’acqua investì Maginiu e invase tutta la stanza nella sua completezza.
Tutto cadeva, i libri galleggiavano e le loro pagine si laceravano nell’acqua, i cimeli furono strappati dai loro appigli e sbatterono qua e là spinti dall’onda.
Strappapensieri, colto nella più completa impreparazione, iniziò a chiedere aria…
***
“Chiunque sia stato, la pagherà assai cara.” vociò drammatico Magmion, stringendo il sanguigno pugno, discorrendo alla banda di gormiti che si era portato dietro alla Tana Nera, con il soffitto completamente stravolto e devastato, le scarse finestre distrutte e riempite da macerie, l’entrata sbarrata da grossi massi.
“L’attacco alla Tana Nera e al nostro fratello Maginiu è stato un atto di scelleratezza, che vendicheremo con doppia crudeltà.” affermò.
“I gormiti si credono potenti, credono di poter conquistare Gorm e vincere il Vulcano. Non sanno veramente con chi hanno a che fare. Il Popolo del Magma non li perdonerà.”
I suoi sudditi assentirono, con grida di vendetta, esultanze e silenziose preghiere per il fratello caduto.
“Ora, Electricon, vieni con me e togliamo quei massi dall’entrata.” chiamò a sé con lo spunzone un gormita lucertola snello e rosso, con un volto triangolare e occhi ai lati del capo. Lo stesso vulcanico che guidò l’agguato all’accampamento terricolo, poco tempo fa.
Era uno dei guerrieri mystica, come si poteva arguire dalle scaglie sul torace e sulla schiena alcune verde pera altre gommagutta brillante.
Egli annuì, e si diresse verso la porta bloccata insieme a Magmion.
Ma qualcuno, che a giudicare dal cambiamento di espressione di Magmion non gli era affatto simpatico, sopraggiunse nella zona, a esprimere la sua opinione, appoggiato da alcuni suoi seguaci.
La sua voce giovanile era accompagnato da un continuo e nervoso ticchettio di ossa.
“Maginiu era uno di noi, era un aristocratico. - sostenne Lavion - Sarà il Popolo della Lava a vendicarlo e a scoprire cos’è successo qui.”
“Non ricordo che Maginiu si fosse schierato dalla tua parte, fratello.” ringhiò Magmion, mostrando i denti.
“Baciami il culo.” gli disse in un sibilo, provocando le risate dei suoi compagni.
“Ora, Angelo, vieni con me a liberare l’entrata.” disse poi invitando con la chela un vulcanico a seguirlo.
Era un gormita piuttosto snello e allungato, dal corpo pressoché elfo, dipinto di corallo. Le sue mani da cinque lunghe dita scolorivano in cenere. Il suo volto era ovale e anch’esso allungato. Gli occhi crema erano sottili, così come le labbra. Il suo naso tipicamente da primate era lungo e slanciato. Sulla schiena aveva delle ali che parevano magma che aveva preso forma, di camoscio chiaro.
Un momento: Popolo del Magma? Popolo della Lava? Credo sia necessario che dia qualche spiegazione.
Il diverbio avuto tra i fratelli Magmadoni qualche notte dopo la pioggia di stelle non si risolse, e tra i due fu davvero finita.
Annunciarono il loro scisma pubblicamente, dichiarando che il Popolo del Magma si sarebbe preso le difese dei ceti bassi e medi, dei lavoratori, degli operai, della milizia mentre quello della Lava avrebbe appoggiato i ceti medio - alti, i nobili, i proprietari terrieri, gli stregoni.
Il Popolo del Vulcano fu scioccato da questa annunciazione. Alcuni si schierarono, altri diedero carta bianca, rimanendo fedeli agli ideali e alla missione del Vulcano e allo Stregone di Fuoco.
Da Magor, che ormai da tempo rimaneva chiuso nella sua stanza, non era giunta alcuna voce in merito allo scisma, e nessuna notizia della separazione era trapelata fuori dalla regione settentrionale di Darth Kuun.
Prima che Magmion potesse replicare per le rime al suo fratello nemico, un sasso rotolò dal blocco di detriti che ostruiva l’entrata, e un braccio artigliato rosso mattone fuoriuscì dal buco del sasso.
Una voce supplichevole e allo stesso tempo dal tono innervosito – aveva udito i discorsi dei due Magmadoni - , attutita dalla pietra, giunse dalla Tane Nera.
“Qualcuno si decida ad aiutarmi. - gridava - Lava o Magma, non importa!”
Alla fine Electricon e Angelo si diressero alla porta, mentre Magmion e Lavion si guardavano fissi negli occhi, pieni d’ira.
Le macerie furono rimosse e Strappapensieri fu estratto vivo e apparentemente sano dalla Tana Nera.
Non lasciò che alcuno dei presenti diede mostra del sollievo per vederlo ancora in vita, urlando: “Dovete dare una lezione a quei bastardi del Mare! Subito!”
“Spiegati.” lo invitò Magmion, togliendo lo sguardo da Lavion.
“Sono stati loro! - gridò, come se qualcuno lo avesse appena infamato davanti a tutti - Hanno attaccato la Tana Nera con un’onda, mi hanno quasi annegato! Sarà ancora pieno d’acqua, là dentro!”
“Ne sei sicuro?” lo interrogò Lavion, che non voleva scendere così in fretta a conclusioni.
“Sì. - rispose. La risposta tuttavia non era della voce stridula di Maginiu, ma del timbro profondo di Angelo. - Venite a vedere.”
Dietro a un masso, sul terreno ruggine, erano state scavate delle parole, e poi riempite con del ghiaccio: Il fuoco non può nulla contro il potere del Mare. Vendicatevi, e dimostrateci il contrario.
“Questa è una chiara dichiarazione di guerra. - ruggì Magmion, che conteneva a stento la sua collera per il nemico e la sua voglia di menar le mani - Poivrons se ne pentirà. Gli dimostreremo il contrario eccome.”
“Vorrai dire che il Popolo della Lava gli dimostrerà il contrario.” lo corresse Lavion sibilando.
“Dipende da chi arriva prima.”
***
Angelo sorvolava intorno alla cima di Picco Aquila, silenzioso come il vento: attorno a lui un'aura di calore, generata dalle sue ali e dal modo in cui rendeva il suo volo più veloce.
Il recente misterioso attacco alla Tana Nera aveva messo in moto l’esercito, anzi, gli eserciti del Vulcano, così come quelli degli altri Popoli, dalle voci che circolavano, colpiti anch’essi da strani attacchi.
La colpa sembrava ricadere sul Popolo del Mare, l’unico non colpito da alcun agguato e che non aveva subita la minima perdita. D’altra parte, i messaggi ritrovati sui luoghi degli assalti parlavano chiaro…forse troppo.
Tutto ciò puzzava di trappola per Angelo e convinse il suo Signore Lavion a riflettere e indagare prima di mandare l'intero esercito ad attaccare il Mare: servivano prove più concrete.
Così si ritrovò a sorvolare Picco Aquila, in cerca di indizi. Il Popolo dell’Aria era da sempre noto per i suoi sotterfugi, per il suo carattere ingannevole, subdolo, e mai completamente decifrabile.
Già la finta morte di Noctis e la ‘resa’ del Popolo dell’Aria aveva fatto capire di che imbrogli fosse capace l’astuzia dei gormiti di Picco Aquila.
Tutti quegli attacchi e quell’attribuzione di colpe al Popolo del Mare poteva benissimo essere un ennesimo tranello di Noctis, per marciare sui territori degli altri Popoli mentre il grosso degli eserciti era lontano. Oltretutto, non erano giunte notizie di attacchi sorpresa a Picco Aquila, e ciò dava da pensare ancor di più
La sua ronda non stava perdurando da molto, quando una saetta lo colpì in pieno, ma non gridò di dolore e non perse l'equilibrio.
Si guardò intorno, a destra, a sinistra, in alto, in basso, dietro. Nessuna traccia.
E poi un’altra saetta.
Questa volta un forte ronzio provenne da dietro di lui, originato da un gormita dell'Aria che si preparava a scagliarsi con tutta forza contro Angelo.
Era un rapido, potente ma snello gormita dell’aria, dalle sembianze di un insetto. Le sue ali bianche quasi trasparenti presentavano le stesse decorazioni a cratere lunare di quelle del suo Signore Noctis. La sua pelle era candida, da quello che si poteva vedere, il viso ovale e appiattito, con una cresta appuntita sul capo e due ampi occhi neri. Un’armatura poco raffinata ma che lo ricopriva interamente proteggeva il suo corpo, robusta ma sottile e aderente, azzurro ciano. I pugni a tre dita erano invece rivestiti di guanti dorati.
Riflessi pronti, Angelo lo scansò, gli prese il polpaccio, lo fece roteare qualche secondo e lo lanciò.
Pungolo non sembrava sorpreso o intontito dall'attacco.
Una terza saetta piombò sul lavico, e questa volta sembrò indebolito, porgendosi una mano sul torace.
“Torna da dove sei venuto, fiammifero. - esclamò l’aereo puntando il dito aureo contro il nemico. - L’Aria non è il tuo posto.”
Angelo volse lo sguardo minaccioso ma sicuro al nemico. “Ne sei così convinto...?” disse Angelo con voce profonda e quasi impercettibile.
Prese il volo e raggiunse l’avversario. Poi si fermò.
Si mise a roteare a velocità pazzesca attorno all’aereo, che restò immobile, sicuro delle sue capacità...e di quelle del nemico.
Intorno a lui, intanto, si formò come una scia di fuoco, illusione ottica creata dal volo velocissimo di Angelo Infuocato. O così pensava.
Angelo si fermò e si allontanò. Ma l’illusiva scia di fuoco non scomparve. Il gormita dell’Aria sbarrò gli occhi, facendoli ancor più grandi di quanto già fossero.
Il cerchio di fuoco si restrinse rapidamente sempre più, fino a chiuderlo in una morsa bruciante, senza lasciargli il tempo di volare in alto o in basso.
Gridò di dolore come non mai, il gormita dell'Aria, e proprio come una mosca, si mise a svolazzare furiosamente di qua e di là, sbattendo le ali in modo frenetico tentando di spegnere il fuoco.
Poi guizzò verso la Foresta sotto di loro, e vi scomparve.
Peccato. pensò Angelo, e riprese a sorvolare il Picco Aquila.
Ma il nemico riapparve dietro di lui, silenzioso, e senza le fiamme che gli bruciavano il corpo, le quali, in un modo o nell'altro, era riuscito a togliersi di dosso.
A testa bassa, ronzò verso Angelo, che non immaginava il suo ritorno.
Angelo Infuocato si sentì la schiena come trafitta da una pietra, aprì la bocca e chiuse gli occhi in segno di dolore.
Si girò ed ecco davanti a lui l’aereo che si preparava a colpire di nuovo col suo corno.
Ma questa volta, nonostante il dolore, Angelo era pronto, e appena fu a un passo da lui, prese l’avversario per il collo, con la mano ardente, e avvicinò il viso del nemico al suo.
“Non sono qui per giocare...” ringhiò Angelo.
Si alzò in volo, con l’aereo nella presa della sua mano, e si lanciò in picchiata verso il suolo forestale in basso, porgendo la mano con il gormita in avanti.
Un enorme solco, accompagnato da un forte rombo, si creò dallo schianto del gormita dell’Aria, sradicando alcuni alberi vicini.
Respirava a fatica, e tossiva.
Angelo infuocato si avvicinò, e lo prese di nuovo per la gola.
“Ancora vivo, eh? - disse sorridente il vulcanico - Non ti chiederò che trucchetto hai usato, invece ti chiedo…nome, cognome e compito. Subito.”
“P-Pungolo Gott, s-sentinella.” mormorò tra un singhiozzo e l’altro.
“Che cosa sai degli attacchi sull’Isola?” domandò Angelo minacciosamente.
Pungolo continuò a tossire.
“Rispondi! - gridò alzando di poco la testa di Pungolo e sbattendola con forza sul terreno - Sai di cosa sto parlando.”
“N-non so...nie-niente...È-È stato il-il...Popolo del... M-Mare, l-l'unico non...attaccato...” rispose Pungolo terrorizzato, respirando a fatica.
“Ah, davvero? E che attacco ha subito il Popolo dell’Aria?”
“C-ci è stato ru-rubato il Volvorot, dalla chiesa di Co-Colle Tempesta.”
Forse è meglio che io ricordi cos’è il Cristallo Volvorot, lo citai solo una volta, anche se non c’è molto da dire: è una pietra magica, di origini divine, si dice, considerato sacro e custodito presso la chiesa di Colle Tempesta, situata presso una cascata. Cosa faccia di preciso non lo so.
Angelo dunque entrò nella mente di Pungolo, per verificare la veridicità di ciò che diceva.
A meno che Pungolo non fosse presente, non avrebbe potuto vedere l’episodio in sé, ma c’erano abbastanza dati: il racconto di un priore di Colle Tempesta, ammantato nel suo velo nero, che diceva che la chiesa era stata invasa da dell’acqua e che il Volvorot era scomparso, e qualcuno che si gettava nella cascata. Poi Noctis che mostrava a Pungolo una lettera, recanti le parole ‘Colle Tempesta’ e le iniziali P. L.
Sembra che non ci sia altro da sapere - riflettè Angelo, lasciando la presa dalla gola di Pungolo e abbandonando la sua mente - Il Mare è il colpevole, questo è ormai certo. Ma perchè? E’ evidentemente una trappola, ma non posso trattenere Lavion ancora a lungo. Andremo nella trappola, poi vedremo....

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Capitolo 19
*** Capitolo 8.3 ***


Il giorno era infine giunto. Il giorno che tutti i gormiti avrebbero ricordato, la cui memoria non sarebbe stata persa nel correre degli anni, riportata su ogni manoscritto storico, in ogni annale di Patmut Iun, in nuovi armoniosi cantari. Il giorno della verità, il 2 Redrubise 853…il giorno della fine.
Non gli pesava come, in quale preciso modo, con che piani, con quanti soldati pronti ai loro ordini, ciò che aveva importanza era che a conti fatti tutti i Signori di Gorm avevano deciso di fidarsi delle tracce lasciate sui luoghi degli assalti ed ora, nello stesso giorno, marciavano sulla superficie del mare contro Poivronopoli, ancora in costruzione, smuovendo e agitando le onde al passaggio delle loro grandi e numerose navi, spaventando le creature marine con la loro velocità, la loro fretta, le loro grida.
Che gli eserciti avanzassero tutti nello stesso giorno poteva significare qualche tipo di alleanza tra di loro, ma lui non la temeva. Non temeva nulla, né la loro rabbia, né i loro numeri, le loro armi.
Lui possedeva un’arma, una sola, grande arma capace di rendere inefficace ogni loro strumento di guerra, di spazzare via ogni loro speranza, ogni loro tentativo di fuga e di vittoria, di fare legna da ardere delle loro insignificanti, inutilmente raffinate e impotenti imbarcazioni, schiacciarli e spedirli nelle più oscure e pericolose profondità degli abissi, dove le lugubri creature dei fondali mai riscaldate dalla vitale luce del sole avrebbero strappato loro le viscere, fatto banchetto di ogni loro singolo membro, combattuto per quelli più sostanziosi e fatto stuzzicadenti delle loro ossa, che quando tutto sarebbe finito egli avrebbe raccolto e forgiato in un possente trono recante i simboli del suo Popolo e della sua stirpe, da cui lui e tutti i suoi discendenti avrebbero guardato dall’alto l’Isola di Gorm nelle loro mani, ricordando ogni volta che vi sedavano la tragica e decisiva sconfitta di Gheos, Tasarau, Noctis, Lavion e Magmion e come Poivrons li schiacciò.
Erano queste le visioni trionfali che si aggiravano nella mente del sovrano marino, forte e sicuro di sé sopra di uno scoglio, nel mezzo del regno del Mare, osservando le lontane navi nemiche all’orizzonte puntate su di lui, non aspettando altro che si avvicinassero, per dare il suo ultimo arguto e saporito discorso ai nemici prima di soffocarli nella feroce e ineluttabile stretta del suo trionfo.
Per l’occasione della sua vittoria si era addobbato di una magnifica e splendente armatura d’oro giallo e bianco, e di una coroncina dorata a tre punte rassomigliante una punta di tridente, uno dei tanti emblemi del Mare. I pettorali solari della corazza erano plasmati a forma di conchiglia, con l’apertura che si prolungava sulle spalle a fungere da spalliera. Il resto dell’armatura presentava altri elementi e simboli marini, e lungo la schiena e gli stinchi vi erano addirittura incise storie del passato, a disegni!
Che la corazza forse d’oro massiccio o solo rivestita di una lamina aurea, in entrambi i casi Poivrons era sicuramente l’unico che poteva permettersi di estrarre tutto quell’oro, farsi fare un’armatura del genere così piena di decorazioni, e allo stesso tempo portare avanti la costruzione della sua città, ormai quasi terminata, guidare il suo esercito e occuparsi del Popolo.
Come già ripetuto, il Popolo del Mare era il più sicuro e protetto di tutta Gorm. Nessuno aveva osato andare nelle profondità marine e attaccarlo –a parte alcune bande di vulcanici - e l’unico assalto al Bazaar non si era concluso piuttosto bene.
Le cose in futuro sarebbero cambiate, ma per ora il Popolo del Mare rimaneva intoccabile, e non c’era gormita, figurarsi una legione, che aveva intenzione di tuffarsi e colpirlo, sebbene ne avesse completamente le capacità.
Ora le navi dei Popoli avversari, galleggiando per lo Stretto di Gorm, erano vicine, e Poivrons, appoggiato da alcuni suoi guerrieri emersi dalle acqua, solo i loro volti e i loro occhi visibili sopra la superficie del mare, li invitava a fermarsi, convincerli a dargli ascolto prima di attaccarlo per ciò che aveva fatto.
Per quanto riguarda le imbarcazioni belliche – ricordo che al ritorno su Gorm i gormiti avevano una conoscenza più ampia della navigazione - di Foresta, Aria e Terra c’è poco da dire: oltre alla diversa pittura e bordature e ricami sulle vele, erano grossomodo simili.
I vascelli della Foresta erano per la maggior parte di una tipologia di navi assai lunghe, dalle fiancate ruvide di corteccia, come se il legno non fosse stato lavorato del tutto, con numerose file di vele e tanti pertugi da cui sparare coi cannoni e le balestre. La loro potenza e la loro velocità erano grosso modo sullo stesso livello.
I galeoni di Picco Aquila, finemente lavorati, levigati, dipinti e decorati erano più che altro un gran numero di navi molto piccole, veloci, una sola vela e tanti remi, con poche armi ma dotate di corvi per appigliarsi alle altre.
Il loro potere di volo potrebbe rendere tali strumenti inutili, però voglio specificare che non è facile volare da una nave all’altra, entrambe in movimento, sotto i colpi nemici: molto meglio camminare su un sostegno sicuro, dove azioni e reazioni sono più facili da coordinare.
Le navi della Terra, quelle più numerose – anche se più che numero davano solo spazio - erano immensi bastimenti, alti, larghi, non più lunghi delle tipiche navi forestali, abbastanza grandi, con le loro fiancate levigate, prive di ogni sfarzo decorativo, da poter tranciare di netto una qualsiasi delle altre navi. Ma la loro potenza era largamente limitata dalla loro scarsa velocità.
Le imbarcazioni del Vulcano, oltre che a presentare in numeri vari le già citate tipologie, erano uniche.
L’arma di cui parlò Magmion dopo l’assalto a Garsomor, era lì. Due grandi navi, sviluppate più in lungo che in alto o in largo, di forma ovoidale. Essendo fabbricate nel Vulcano, possedeva l’immancabile segno di riconoscimento di qualcosa del Popolo del Vulcano: una corazza di pietra lavica –o così sembrava - , di un marrone arancio. Diversi oblò e pertugi spuntavano ai lati della nave. Sotto di essi altre minuscole aperture, decine e decine di fori da cui uscivano lunghi remi, mentre sul davanti si trovava un enorme cannone, scavato in del metallo scolpito a forma di fauci di dragone. Tra le aperture per i remi e quelle per finestre e armi, risaltavano in un riflesso dorato le lettere in gormitico che andavano a formare un’unica parola, azzeccatissima per la potenza di fuoco del veliero: Bombarda.
A poppa un basso castello che occupava tutto lo spazio, ai suoi lati due grosse ciminiere, ricoperte anch’esse come le fiancate di rocca lavica o simile che emanavano fumo nero. La prua era quasi del tutto sgombra – di costruzioni - , con un solo albero e una sola vela triangolare. Al loro interno certo custodivano chissà quali altri marchingegni e armi.
Su una stava Lavion Magmadoni e sull’altra il fratello Magmion, che non cessavano di scrutarsi negli occhi, a guida dell’intera flotta che non so spiegare come fosse suddivisa e come obbedisse agli ordini.
Cannoni e balestriere erano ovunque su quelle due gigantesse, così come i gormiti vulcanici assetati di lotta, che fremevano con le loro armi in mano e gridavano, versi senza senso oppure urla di battaglia più o meno concrete.
Ma la lotta dovette aspettare. Giunti non troppo lontano da Poivrons, perché loro potessero sentirlo e vederlo con chiarezza e viceversa, con la città di Poivronopoli non troppo distante da lì, le imbarcazioni, con le navi da cui comandavano i Signori, si fermarono. I sovrani si dettero degli sguardi, mentre Poivrons li invitava a fermarsi e temporeggiare, con una mano ricolma di anelli tesa in avanti, aperta. I cinque Signori annuirono tutti, e acconsentirono alla richiesta di dialogo di Poivrons e dei suoi guerrieri dietro di lui, Magmion e Lavion cessando di osservarsi e indirizzando i loro ringhi a Poivrons, Gheos visibilmente più iroso degli altri, con una balestra alla mano.
“Dicci perché non dovremmo riempirti di cannonate all’istante.” ruggì appunto Gheos, pronto a scoccare la freccia.
“Credo che sia nel vostro interesse sapere di come abbiamo agito e del perché vi ho attirato qui.” disse molto pacatamente il Signore del Mare.
Gheos non apprezzò quella mancanza di paura e di rabbia nei suoi confronti e in quelli delle grandi flotte, quando lui non riusciva a contenerla. Senza più resistere, una piccola pressione del suo dito, e il dardo di balestra scattò come un fulmine, diretto verso il Signore del Mare.
Il colpo andò a rimbalzare nel vuoto, contro una barriera invisibile che proteggeva l’area intorno a Poivrons.
“Non così avventato, Gheos. - disse facendo segno di no col dito - E non credere che io lo sia. Ho preso le mie precauzioni”
“Tu non hai idea di quanto ci hai fatto perdere con il tuo attacco!” proruppe rabbioso nientemeno che Strappapensieri, dalla Bombarda governata da Magmion.
“Oh, ne ho idea eccome. - replicò Poivrons, squadrandolo per bene, con un certo senso di soddisfazione - Con voi mi sono mostrato meno caritatevole. Per ciò che avete fatto non meritate la pietà di nessuno.”
“Caritatevole? - intervenne Tasarau, incredulo - Caritatevole?! Quasi mezza Biblioteca Silente in fiamme, centinaia di volumi perduti, e altre centinaia che hanno rischiato, così come delle vite! Questo lo chiami caritatevole?”
“Lo chiamo caritatevole, sì. - sostenne Poivrons - Sapevo che tu, o chi per te, saresti stato capace di mettere in salvo tutti. E non ti preoccupare per i libri. Non sono affatto perduti: ho ordinato ai miei seguaci di metterli in salvo. Non potevo distruggere così tanta cultura.”
“Rubare il Volvorot! - sbottò qualcuno tra le navi dell’Aria - Non può essere caritatevole una cosa simile! Non c’è nome adatto per questo gesto: attaccare la religione! Il Cristallo dovrebbe essere sacro anche per te, per voi! Il tuo Popolo è davvero caduto in basso…”
“Basta con le chiacchiere! - vociò Gheos - Poivrons, restituisci le due spade e lo scudo, il cimelio più antico e più importante che tu ci potessi togliere! Fallo, e forse ti faremo meno male.”
“Restituire?” domandò Poivrons, come se quelle parole gli giungessero completamente nuove “Restituire! Oh, ma certo!” esclamò, dandosi una pacca sulla fronte, in un gesto alquanto teatrale e poco sensato.
“Sì, sì, vi restituirò tutto, non preoccupatevi. - promise sogghignando - Ogni cosa sarà restituita al suo proprietario…dopo. I furti erano solo dei pretesti per attirarvi qui…per dimostrarvi la potenza del Popolo del Mare e le grande capacità dell’evoluzione mystica.”
Alcuni dei gormiti marini a mollo dietro di lui emersero dalle acque e si affiancarono a Poivrons sullo scoglio in cui poggiava i piedi palmati. A giudicare dalle sfumature insolite e brillanti, dovevano essere tutti guerrieri mystica.
Come un sol gormita, tutti i marini mystica chiusero i propri occhi, Poivrons compreso, e si concentrarono, si concentrarono profondamente, unirono le loro forze e le loro menti per rendere invincibile il loro incanto, in un gesto bizzarro alla vista dei gormiti nelle navi, per richiamare dalle profondità la loro arma definitiva.
 
Non lontano, nella morbida e fredda sabbia del fondale marino, il loro richiamo giunse a destinazione. Un ronzio fastidioso, sempre più forte, incessante. Chiamava il Suo nome, la Sua forza, chiamava Lei, per poter avere sotto comando la Sua immensa potenza distruttrice.
La notte era ancora lontana, lo arguiva da tutta quella luce che dalla superficie penetrava nelle gelide acque e le doleva gli occhi, abituati solo al cupo bagliore notturno in cui Lei agitava debolmente e lentamente la testa per catturare il cibo galleggiante o alla base delle sue fauci che i gormiti le offrivano ormai da tempi immemorabili.
Il ronzio, il fastidioso richiamo che le imponeva di alzarsi, salire e obbedire al Suo maestro non si arrestavano.
Così Lei alzò il capo dal suo centenario giaciglio, e con esso a poco a poco il suo lungo collo, scuotendo gli abissi rimasti immobili da anni, assopiti nello stesso Suo torpore, e abbracciare dopo un lungo stato di riposo il calore e la luce dell’aria aperta, dove poter comprendere chi e perché L’aveva risvegliata dal Suo sonno.
L’acqua cominciò a ribollire e tremare, preparandosi al risveglio della Grande.
Emerse lenta e inesorabile al fianco dello scoglio su cui Poivrons e i suoi guerrieri mystica esercitavano il loro incanto e il loro controllo, il loro ‘ronzio fastidioso’, alzando le acque alla sua apparizione e sollevando stupore, meraviglia, terrore, disperazione e desolazione in tutti i gormiti di Terra, Aria, Vulcano e Foresta.
Non assomigliava affatto a una murena. Il suo muso, affusolato, e le fauci, sottili e prive di denti, e gli occhi piccoli erano più da serpente marino. La sua pelle era levigata e squamosa, viscida, e non aveva la lunga pinna lungo la spina dorsale. Non aveva nulla di murena. Ma era grande, immensamente grande, blu come il mare e come il firmamento, quasi fosse parte dell’oceano stesso.
Poivrons dilatò gli occhi, scosse mani e piedi, gridò e rise come un pazzo.
“Temete l’ira degli dei!” esclamò folle.
I gormiti erano paralizzati.
Non si muovevano, non tremavano, sembravano imbalsamati.
Neanche fuggivano, erano talmente terrorizzati che per muovere un qualsiasi muscolo avrebbero impiegato l’eternità.
Davanti a loro il Popolo del Mare, emerso in gran numero dalle acque, capeggiato da Poivrons, esultante come non mai, sicuri della vittoria della Grande Guerra, con la più terribile, la più potente bestia di Gorm sotto il loro controllo, convinti che il suo lungo assopimento avesse reso loro facile dominarla: la Grande Murena.
“Tu…tu sei un pazzo! - riuscì a gridare, atterrito, Tasarau, mentre ordinava a tutte le sue navi di fuggire, scappare il più lontano possibile, mettersi in salvo - Hai risvegliato una divinità, e credi di poterla dominare a tuo piacimento! Ma tu non puoi! Non puoi controllare il divino! Non hai diritto di controllare il divino!”
“Io posso, invece! - replicò ridendo malignamente Poivrons - Ora che la Grande Murena è nelle mie mani, potrei io stesso diventare un dio! Come Patmut, Asili, Menumia, come gli Osservatori, come il dio Silente della Foresta, come Roscamar!”
“Ora, miei Signori, dite addio all’Isola di Gorm. Grande Murena! Avanza! Mostra loro il tuo potere!” sbraitò il Signore del Mare con un ghigno da pazzo, imponendole il suo ordine mentre i suoi mystica gli aggiungevano potere.
Ma l’enorme bestia marina non gli obbedì. Continuò a guardarsi attorno, intontita. Sentiva chiaro e forte nella sua testa quel ronzio, non le dava pace, le imponeva di obbedire a un ordine…ma che ordine? L’ordine di chi?
Lei non era creatura che obbedisse agli ordini di qualcun altro. Lei era una bestia libera, libera e feroce che non doveva rispondere a nessuno. Nessuno doveva permettersi di svegliarla e osare darle degli ordini, con quel tremendo ronzio che le rimbombava nella testa.
La Murena si guardò attorno. Attorno a lei minuscoli esserini blu si accingevano in strani movimenti - stavano ancora esultando - ; davanti, invece, enormi masse di legno con creature di vario colore sopra di esse.
Volse lo sguardo verso il basso.
Un essere blu, ricoperto d’oro e d’argento, come quelli in mezzo all’acqua stava in piedi su uno scoglio, insieme ad altri ma discostato dal gruppo e sembrava arrabbiato. E la guardava, e emetteva strani rumori dalla sua bocca che, alla sua vista, si contorceva in modo bizzarro per farne uscire i suoni.
Ogni volta che quei suoni si facevano più forti, anche il ronzio lo divenne. E alla Murena non servirono altre prove.
Mossa dalla rabbia, fletté tutti i muscoli della sua coda e del suo corpo, fiaccati e indolenziti da secoli di torpore, ma ancora carichi di energia e di violenza come negli anni remoti in cui, proprio come la Grande Piovra a nord e a est, assaliva e sterminava ogni viandante proveniente da – o andante a - sud e ovest, per darsi un possente slancio e alzarsi sopra lo scoglio di Poivrons a coprire la luce del sole e schiacciare il folle minuscolo essere che si riteneva tanto forte da poter dare ordini a lei, la gigantessa, indiscussa forza della natura più imponente su Gorm.
Il capo della Murena torreggiava centinaia di piedi in alto, provocando ancor più terrore nei cuori dei gormiti, che incapaci di concepire una lotta contro una divinità erano tutti intenti a darsela a gambe in ogni direzione, pregano dei più benevoli che cacciassero la crudele bestia divina.
Poivrons guardò appagato e irritato per il ritardo la Grande Murena alzarsi e coprire il cielo con la sua mastodontica figura.
Ma la sua soddisfazione e il suo compiacimento per il vicino trionfo tramutarono presto in sgomento, incredulità e paura quando, con un grido delle sue millenarie fauci, la testa della Grande Murena cominciò a piombargli con un fischio sopra di lui.
Decine di quintali di massa corporea si precipitavano verso Poivrons, che, scioccato, fece appena in tempo rendersene conto e a creare uno scudo di acqua sopra di lui. La barriera magica che ancora lo difendeva non avrebbe resistito a un simile impatto.
La Murena lo colpì con forza, sgretolandolo  in migliaia di minuscole gocce d'acqua, rallentando la sua caduta.
Il Signore del Mare fece in tempo a scansarsi, saltando di lato e gettandosi in acqua, cosa che i suoi guerrieri mystica seguirono. Poivrons si salvò, ma non tutti i suoi sudditi, schiacciati tra lo scoglio e il maestoso capo della Grande Murena.
Ora non c’era nessun ronzio, nessuno sciocco essere inferiore che azzardava toccare la sua mente con la propria. La sua mente era libera da ogni intromissione, serena.
Ma da qualche parte nel suo cervello, la rabbia che si sembrava essere esaurita con lo slancio per alzarsi dal suo letto secolare c’era ancora, una minuscola fiamma d’ira, che cresceva e cresceva.
L’avrebbe fatta pagare per bene a quelle insignificanti creature.
Dopo secoli di inattività, la Grande Murena provava ancora una volta il tocco fresco dell’aria aperta, la luce e il calore del sole, perduti da anni e anni e rimasti fino a poco fa solo un lontano, confuso ricordo di una vita passata.
Ma adesso la Grande Murena li percepiva di nuovo, brezza e raggi vitali, si sentiva rafforzata da quel ritorno alla vita di un tempo, della forza che ancora scorreva nelle sue vene e nelle sue membra, della paura che la sua vista provocava.
Prima di tornare al suo riposo, i gormiti avrebbero visto di quali prodezze e quanta devastazione la creatura millenaria, il dio dei mari occidentali e meridionali, era ancora capace.
 
Poivrons galleggiava perso, desolato, cercando di rimanere nascosto alla vista di tutti, specialmente dei suoi sudditi del Mare, desiderando solo scomparire, non essere mai esistito, per aver provocato tutto ciò, per non dover vedere i suoi sogni andare in frantumi e con essi la vita di migliaia di innocenti che non meritavano una simile fine, di osservare un simile scempio.
Tutto era stato pianificato, tutto era stato programmato, tutti, o quasi, avevano accordato con Poivrons quel piano, quelle trappole, convinti della forza del potere mystica.
Ed era tutto andato a rotoli. La Grande Murena era fuori controllo, non c’era nulla che potesse dominarla, nessuno in grado di comandarla, e il suo risveglio si rivelò un devastante, atroce errore.
Aveva fatto evacuare le case nei fondali marini, prevedendo che il suo risveglio e i suoi movimenti le avrebbero fracassate per bene, ma ciò fu tutto inutile. La Grande Murena viaggiava libera, contro le navi dei gormiti, verso lo Stretto di Gorm e la sua mole distruttrice avrebbe devastato ogni cosa in cui il suo corpo sarebbe passato, e Poivrons non poteva farci assolutamente nulla.
Quando si sarebbe fermata? Fino a dove la sua rabbia e la sua vitalità l’avrebbero condotta, quante vite avrebbe spezzato? Poivrons non lo sapeva e, ugualmente, non poteva farci assolutamente nulla.
Poivrons era dannato, tutto di lui era compromesso: quando la Grande Murena tornerà al suo riposo, se Poivrons sopravvivrà verrà condannato, ritenuto un incapace, un folle, un cattivo Signore, non degno del titolo né di altro che gli desse gloria. Verrà condannato con i peggiori crimini, rinchiuso per interminabili anni e, se li avesse scontati tutti, esiliato in vecchiaia a morire in solitudine.
Addio sogni di gloria, addio benevola immortalità. Tutto era perduto, inclusa la fiducia dei marini che già allora sbiadiva sempre più.
Poivrons non sarebbe divenuto affatto il primo Signore di Gorm, non si sarebbe seduto su alcun trono, nessuno del Popolo del Mare avrebbe ricordato con gioia quel giorno, quel giorno che doveva essere di trionfo, ma trasformato in un giorno di dannazione e peccato.
Tutti i Popoli, d’ora in poi, avrebbero trattato con sprezzo e poco riguardo il Popolo del Mare, e il nome e la famiglia di Poivrons verranno evitati e condannati per sempre, ricordati nei millenni come esempi da non seguire, il peggio della feccia che potesse nascere dalle acque.
Non era questa l’immortalità che Poivrons sperava di raggiungere ma, come sempre, non poteva farci assolutamente nulla.
***
“Fermo, fermati, ti dico!” ordinava Magmion ruggendo, buttando in acqua il vulcanico che reggeva il timone della Bombarda, che faceva retromarcia più velocemente possibile.
“Siete solo dei codardi, tutti quanti!” li ingiuriò, puntando il suo spunzone fiammeggiante contro tutto l’equipaggio della Bombarda.
“Dov’è finito l’onore del Popolo del Vulcano, il coraggio?” chiese, e l’equipaggio diede segno di vergogna.
“Noi non scapperemo così! Non tradiremo i costumi dei nostri antenati! - li incitò - Noi combatteremo fino alla fine! E’ quello che sappiamo fare meglio, e ciò per cui siamo nati: combattere, sopportare il sudore, la fatica, il sangue, e alla fine vincere! E se non vinceremo, allora moriremo combattendo, e le nostre anime gloriose passeranno a combattenti e condottieri ancora più gloriosi e vittoriosi!”
“Noi…non…fuggiremo!” e ciò urlato alzò il suo uncino, sparando su nel cielo una grossa fiammata, vampata di energia e audacia.
I suoi sudditi sulla Bombarda – e non solo - parvero convinti delle sue parole, e alzarono con lui le loro braccia, infiammando il cielo di una pioggia di fuoco, eroismo, coraggio.
Non sarebbero scappati dalle avversità: le avrebbero affrontate da veri guerrieri quali erano, come già prima di allora avevano respinto l’ondata dei terribili dragoni e sopportato per ere la profonda e dannosa discriminazione degli altri Popoli, che furono in grado poi di sopprimere interamente in un sol giorno. Una gente capace di ciò non si sarebbe tirata indietro di fronte a nulla.
Magmion esultava e saltava, ruggendo gioioso grida di incitazione e di contentezza, agitando il suo pugno e tutto sé stesso come un cucciolo di gormita che festeggiava il suo compleanno con tutti i suoi migliori amici. Era orgoglioso del suo Popolo, del suo Popolo del Vulcano.
Lo avrebbe seguito ovunque, e Magmion mai l’avrebbe tradito. L’avrebbe guidato alla vittoria, alla vittoria o a un’eroica morte, degna dei loro avi.
Con sbigottimento da parte delle imbarcazioni di tutti gli altri Popoli, le due Bombarda –anche quella di Lavion, che aveva ascoltato il suo discorso - e tutte le navi vulcaniche si fermarono, smisero la loro risalita dello Stretto, verso la sicura terraferma della Valle del Vulcano, e fecero dietrofront, contro l’imponente Grande Murena, lenta e inesorabile, urlante.
Che cosa credevano di fare tutti quegli sciocchi? Combattere la Grande Murena? E’ da pazzi!
Non avevano alcuna possibilità di sconfiggere una divinità, creatura infinitamente più potente di ciascuno di loro. Eppure, i velieri e le Bombarda avanzavano, preparando i loro cannoni, le loro armi, diretti sempre più veloci contro la bestia.
Non si poteva accettare. I sudici e disonorevoli gormiti del Vulcano che affrontavano la morte e l’immortalità, dopo le scelleratezze che avevano fatto e che continuavano a compiere, con orgoglio anche, e i Popoli di Aria, Terra, Foresta e Mare no? I Popoli del Vecchio Saggio, che combattevano per il bene?
Era inammissibile: e quindi ogni singola nave da guerra seguì la Bombarda di Magmion, per dare il suo contributo alla sconfitta della Grande Murena o per vivere in eterno insieme ai loro eterni nemici.
“Forza, miei soldati! - gridava con un sorriso entusiasta Magmion - Per gli eroi del passato! Per Gorm, per l’Occhio della Vita, per noi!”
“Mostriamo agli dei il nostro potere!”
***
Le navi avanzavano rapide ai fianchi della Grande Murena, immessa nello Stretto di Gorm, per portare la sua furiosa vitalità nel cuore di Gorm e mostrare ai gormiti la vera paura, la vera distruzione.
Ma gli eserciti e le flotte di tutta l’Isola non glielo avrebbero permesso. Veleggiavano celeri ai lati dell’imponente bestia, cercando di evitare ogni suo contrattacco mentre esse la bombardavano di cannonate, dardi e colpi elementali.
Ogni nave, anche le più piccole, unite come mai prima, davano il loro contributo all’attacco devastante per sopprimere la Grande Murena, la divinità infuriata a cui i gormiti avrebbero dato la pace…a modo loro.
Tuttavia, nonostante il grande numero di cannoni e la loro forza, la fibrosa scorza del serpente marino non sembrava soffrire degli attacchi.
Lividi e solchi insanguinati si formavano sulla pelle della Grande Murena, a cui reagiva con grida acute e con vigorosi movimenti del capo con cui smuoveva grandi onde e talvolta colpiva le imbarcazioni.
I gormiti sui velieri dovevano stare molto attenti e molto veloci, in quell’impresa folle ed eroica: se le loro imbarcazioni erano di quelle grandi una mossa della testa le avrebbe potute danneggiare alquanto, se invece erano delle navi di modeste dimensioni anche l’acqua mossa dalla Murena potrebbe risultare fatale.
I remi di ogni veliero risultavano inutili se usati troppo in prossimità della Grande Murena, e molte navi proseguivano piuttosto lentamente a causa di ciò, anche le Bombarda, che si tenevano a debita distanza.
I vascelli da guerra provavano tutti a guidare la Murena lontano dallo Stretto, per evitare che desse danno alle abitazioni, alle case, ai civili, ma la bestia divina li seguiva solo per una certa distanza: se le navi si allontanavano troppo, la Murena le abbandonava per proseguire la risalita dello Stretto di Gorm.
Cosa che nessuno poteva permettere, come si erano accordati.
Magmion guidava furioso la sua Bombarda contro il nemico, spingendola a tutta velocità.
“Più veloce, più veloci! - gridava, a prua dinanzi al cannone di drago - Questo è il fiore del nostro progresso, può fare molto di più!”
I remi, perfettamente coordinati, si agitavano nell’acqua marina velocissimi, portando la Bombarda sempre più spedita contro il viso della Murena.
Tesissimo, diede un’occhiata alle altre imbarcazioni, intente a colpire e poi a fuggire, alcune con manovre avventate e pericolose che avrebbero benissimo potuto far ribaltare la stessa nave o farla scontrare contro un’altra.
“Mirate alla testa, idioti!” urlava a squarciagola Magmion, irritato dalla mancanza di competenza che vedeva negli altri velieri, che scagliavano dardi e palle di cannone a caso, lungo tutto il corpo della Grande Murena nonostante il poco che tali colpi le procuravano.
Nel capo del mostro marino vi erano due punti deboli: gli occhi e le branchie, forse gli unici in tutto il lungo cilindro squamoso, e forse anche le narici. Del resto c’era poco altro che i gormiti potessero attaccare: solo una discreta parte della Murena era visibile, in superficie, e già da sola era immensa e problematica per i gormiti.
“Forza, forza, scansafatiche! - incitava meglio che poteva Magmion il suo equipaggio, agitando con vigore il suo spunzone a destra e a manca (nonostante i rematori fossero nel livello sottostante, ma lo udivano lo stesso) Remate e pedalate contro quel mostro. Quando lo abbiamo ammazzato, avrete carne in abbondanza per riprendervi. Remate!”
L’orrendo muso della Grande Murena era ora vicinissimo e diede il benvenuto alla Bombarda con un urlo agghiacciante delle sue fauci spalancate e con il suo fetido respiro di salsedine e mucillagine. Magmion e il suo equipaggio non si fecero atterrire.
“Ora!” si disse Magmion deciso. Mise lo spunzone fiammeggiante in un antro, dietro al cannone a forma di bocca di dragone, mentre poggiò la mano su una manovella.
Prese dunque a ruotare tale manopola con forza, molta forza. Sembrava faticoso da muovere.
Al suo energico e continuo movimento, dalla bocca di dragone proruppe un getto di fuoco enorme e di ampia gittata che investì il capo della Grande Murena. Un ennesimo grido raccapricciante, questa volta ancora più spaventoso perché colmo di sincero dolore fisico.
Magmion, come pianificato, approfittò immediatamente del caduco stordimento della Murena.
“Virate, virate!” ordinò, mentre il gormita al timone lo girò con forza e la Bombarda si posizionava ora al lato del mostruoso volto.
“Sparate agli occhi e alle branchie, il tempo è poco!” comandò, andando egli stesso a caricare i cannoni, mentre la Bombarda si fermava.
Una pioggia di frecce e palle di ferro investì la testa, con il muso in fiamme, della Grande Murena.
Purtroppo l’attacco non diede ai gormiti grande vantaggio. In pochi secondi la Murena affondò il capo e parte del collo sott’acqua, recando sollievo al dolore e spegnendo il fuoco del cannone della Bombarda.
“Via, andiamo via!” impose dunque Magmion, stralunato, discretamente soddisfatto dell’attacco –erano riusciti a costringerla a ritirarsi - , ma temendo il suo contrattacco.
Per fortuna di tutto l’esercito, lo Stretto di Gorm non era molto profondo e le sue acque limpide. Quindi se la Grande Murena vi si nascondeva per proteggersi dalle aggressioni, per curarsi o per preparare un attacco sorpresa, i gormiti potevano vederla bene e tentare di fuggire.
Cosa che la Bombarda di Magmion fece seduta stante, con una estremamente brusca manovra: fecero dietrofront velocissimamente, inclinando la nave in maniera pericolosa, e poi i remi ripresero a spingerla forte, portandola lontano dalla Murena.
La Murena ricomparve dalle acque, il viso spento dalle fiamme leggermente ma visibilmente ferito, lo sguardo ancora più minaccioso che in precedenza. Fortunatamente non aveva attaccato le navi da sotto, ma ora prese ad attaccarle con più ferocia, da sopra. Tutte le imbarcazioni più piccole cominciarono a volare, investite dalla furia della Murena, il loro legno spezzato a mollo nell’acqua, a volte insieme a gormiti.
Molti preferirono dunque abbandonare le navi o combattere in acqua. D’altra parte, eccezion fatta per le continue cannonate e balestrate le cui munizioni non sarebbero durate in eterno, la maggior parte dei gormiti trovava molto più comodo e sicuro combattere in mare, completamente liberi e più veloci. E ora che Magmion aveva portato a compimento il suo attacco, ancora più gormiti lottavano la Murena fuori dalle imbarcazioni, giacché la bestia divina ora sapeva come difendersi da attacchi navali, e i gormiti necessitavano altre vie.
***
Gheos strinse tra i denti la corda e tirò, tirò sia la testa che il braccio a martello, mentre con un dito della sua mano teneva ferma la corda, a formare un nodo. Ne aveva già fatti tanti di nodi, ma per il suo obiettivo non gli parevano mai abbastanza.
Ritenette che il risultato fosse sufficiente, anche perché non aveva più corda da utilizzare e aveva troppa fretta per andarne a prendere dell’altra. Pensò inoltre che quel suo blocco corneo al posto della mano aveva anche i suoi svantaggi. Se avesse avuto un arto regolare, non avrebbe avuto la necessità di quel lavoro che impiegava molta della sua pazienza.
Con una sciabola accuratamente legata al suo martello, corse sulla prua della sua nave ammiraglia, diretto verso il suo affidato capitano, rinchiuso nella sua solita corazza, perito di mille battaglie, che teneva il timone.
“Mio Signore!” strepitò non appena se lo vide davanti, col tono affrettato di chi attende di riferire qualcosa di importante ma non trova le parole.
Gheos non gliele fece trovare, subito affermò: “Capitano, ti affido temporaneamente il comando totale. Se non torno, sarà tuo per sempre.”
Il capitano, già incerto per ciò che doveva dire al suo Signore, ora era stravolto e non riusciva a connettere il cervello con la lingua, e solo versi privi di significato uscirono dalla sua bocca, un’espressione di incredulità sul suo volto, mentre Gheos si piombava a rotta di collo...fuori dalla nave, nell’acqua dello Stretto!
Non prima di aver preso un’altra spada, una lama rettilinea e solida, non ricurva e sottile come la sciabola, si tuffò a capofitto nel mare cristallino.
Nonostante il martello al braccio, e nonostante essere un gormita della Terra che non va molto d’accordo con l’acqua, nuotare gli riuscì piuttosto facile.
Sguazzò audacemente e rapido verso l’enorme corpo della Murena vicino alla sua nave, un muro azzurro cielo di viscide e invincibili squame.
Arrivato davanti a quel invitto muro, provò a spiccare un balzo dall’acqua, portando in avanti e in alto la sciabola legata al suo maglio.
Il primo tentativo non fu di grande successo: Gheos saltò di poco più di un piede, la sciabola scalfì leggermente la pelle del serpente marino, e il Signore della Terra ricadde sbattendo la faccia contro le squame. Imprecò, ma non si diede per vinto.
Fece qualche bracciata più indietro, e ripeté il salto, impregnando il suo braccio sinistro di tutta la forza di cui era capace.
Ci riuscì: la sciabola, sebbene con poca profondità, si conficcò nelle dure squame della Grande Murena. Non attese che la lama scivolasse via dalle squame, intrisa di sangue, e subito, con la spada nel braccio destro, penetrò una seconda volta, in un secondo punto, l’untuoso e aspro muro blu.
Che la Murena percepisse o no il metallo trafiggerle le squame, a Gheos ancora non importava. Presto le avrebbe regalato uno squarcio, con quelle lame.
Prese dunque a ‘scalare’ il muro color del mare, infilzando la pelle con la sciabola e la spada finché non raggiunse un punto più o meno stabile del corpo della Murena, dove poter agire in modo più comodo e dove non fosse facile per lui cadere e scivolare in acqua o per la Murena disarcionarlo.
In groppa alla bestia, seduto, cominciò a graffiare, lacerare, ferire le squame della Grande Murena con entrambe le sue lame…e presto non si sarebbe limitato solo alle due armi.
La zona di pelle attorno a Gheos era piena di graffi e fori rossi…ma ciò sembrava non essere abbastanza per attirare l’attenzione della belva divina.
“Fai la dura? - vociò Gheos, spazientito - Vedremo chi è più duro.”
Infilzò molto profondamente la spada rettilinea e poi, cercando di mantenerla profonda, la trascinò con se, creando un taglio lungo e profondo.
Dalla bocca della Murena proruppe un urlo agghiacciante di pura sofferenza, prolungato e intenso. Tutti dovettero tapparsi le orecchie per non disorientarsi.
Gheos fu enormemente compiaciuto dell’effetto che le aveva procurato con le sue azioni, e ciò lo invitò a continuare con i suoi tagli come li aveva fatti finora…e anche peggio.
La testa della Murena, effettivamente non molto lontana dal punto di Gheos, si voltò all’indietro, riversando il suo urlo di rabbia e il suo fiato sul Signore della Terra e sugli altri addosso a lei che avevano seguito il suo esempio.
Prima che le fauci potessero raggiungerlo, mandando in sfacelo le imbarcazioni che si trovavano lungo il suo corpo nel processo, Gheos provò un altro attacco, per irritare ancor di più la Murena e portarla a cambiare direzione.
Evocò per aria una grande lastra di pietra, dall’estremità appuntita come una lama, una grossa amigdala.
Abbassò veloce la mano con cui la controllava, conficcando l’aguzza roccia nello squarcio sanguinante già formato, e letteralmente rigirò il coltello nella piaga, trascinando la lama rocciosa lungo tutta la ferita e oltre, prolungandola, provocando fitte lancinanti alla bestia, che dimenò in aria la testa più veloce di quanto avesse finora fatto con qualsiasi parte del suo corpo.
Gettò poi violentemente la sua testa nell’acqua, alzando grandi onde, e portando giù nel mare con sé tutto il corpo che era scoperto, sperando di dare sollievo al dolore e di levarsi di dosso quegli insetti fastidiosi.
Gheos infilzò ancora una volta la sua sciabola, dopo avervi ristretto la corda, che minacciava di sciogliersi, e la sua spada, più in profondità che poté e si tenne forte ad entrambe.
Lui e la pelle a cui s’appigliava piombarono in acqua con forza, fino ai fondali sabbiosi freddi. Poteva vedere tutte le ferite che lui e gli altri avevano provocato in superficie rilasciare sangue a fiotti nello Stretto…e anche frammenti di navi distrutte e corpi di gormiti morti nel tentativo di difendersi e di difendere la propria casa. Li avrebbe vendicati, tutti, forse anche quelli vulcanici.
La sosta subacquea della Murena si stava prolungando un po’ troppo. Rimpianse di non aver attivato subito un incantesimo di respirazione. Ora che era a corto di ossigeno e concentrato a trattenersi alle sue due lame, evocarlo sarebbe stato difficile. Ma non ce ne fu bisogno. Resistette ancora un po’, prima che la Grande Murena decise di essere pronta a riaffiorare in superficie, molto inconsciamente facendo riapparire tutto il corpo che fino ad allora era rimasto all’aria aperta, con tutte le sue ferite.
Rimase attaccato alle sue due spade, senza temere che la Murena fosse ancora decisa a liberarsi di quegli ‘insetti’, e riprese fiato. Restando steso sulle squame umide e unte, diede un’occhiata intorno a sé.
Diversi gormiti, di ogni Popolo, avevano seguito l’esempio di Gheos e ora attaccavano corpo a corpo il dorso della Grande Murena.
C’era Togern Scovanascondigli, che scavava piccole ferite con gli artigli sul dorso delle sue mani e poi le riempiva di sabbia e sassi, facendo di piccoli tagli un vero e proprio inferno per la Murena.
Dachiel che, tenendosi aggrappato con la sua frusta a un’apertura scavata tra le squame, ne tagliava altre con lame di osso e legno. Zetsel Picchiatore che, in un atto davvero violento e sanguinoso, prendeva a pugni dei grossi ma superficiali squarci sanguinanti, Mimeticus preferiva usare la magia e la forza magica.
Maginiu graffiava come un pazzo con i suoi artigli di fuoco, dopodiché sulle ferite aperte applicava delle magie.
Electricon apriva tagli con il fuoco e la pietra e poi li tempestava di scariche elettriche, Ogorion dava fuoco alle piaghe, il guerriero dal braccio sproporzionato, come Picchiatore, percuoteva le ferite con il pugno, infuocato però.
Alos dell’Aria agiva allo stesso modo, aggiungendo qualche incantesimo di tanto in tanto, macchiandosi il piumaggio bianco e violaceo –era uno dei mystica - del cupo sangue della Grande Murena.
Con sorpresa da parte di Gheos –si aspettava che se la fossero data gambe per la vergogna e per le conseguenze che sarebbero nate - anche i gormiti del Mare partecipavano ad arrestare l’attacco della Murena: Tenaglia strappava veementemente interi brandelli di carne con le sue chele, Mantra era meno violenta – d’altra parte non aveva le stesse armi naturali di Tenaglia.
Prima che potesse alzarsi e riprendere con loro la sua opera e prima che la Murena potesse decidere cosa farne di quei pericolosi insetti, fu avvicinato da un suo suddito, niente meno che Gravitus, il suo consigliere e, non da molto, comandante di alto grado dell’esercito di Roscamar, guerriero mystica come il suo Signore.
“Gravitus, che cosa fai qui? Dovresti essere sulla - ” iniziò il Signore, sorpreso di vederlo lì quando doveva badare alla flotta e alle truppe.
“Mio Signore, dovete venire via di qui!” gli intimò Gravitus, con una certa fretta.
“Perché, che succede?” domandò Gheos, che voleva dare un’altra lezione alla Grande Murena, estraendo una delle lame dalle squame.
“Il Popolo dell’Aria e altri volanti, con alcuni della Terra, stanno per attaccare la Murena…ed è meglio trovarsi sopra. Venite, Gheos!”
Gheos seguì Gravitus incerto giù dalla Murena, infastidito dal dover abbandonare i suoi piani a causa di qualcun altro, e anche dal fatto che, a quanto diceva il suo subordinato, dei sudditi della Terra stavano collaborando in qualche modo con il Popolo dell’Aria senza che lui ne fosse a conoscenza.
Intanto centinaia di piedi su nel cielo, Noctis e diversi gormiti aerei, ma anche marini, forestali, chiunque avesse sia le ali sia una certa forza, erano sospesi a dirigere e organizzare il loro attacco.
Grossi, spropositati massi ricoperti di funi venivano sollevati dal suolo da gormiti e portati alla posizione di Noctis.
“Il piano è semplice, eh.” affermò il Signore dell’Aria, indicando con il becco la direzione di un gruppo di gormiti e del loro sasso, un rilevante velo di serietà nel suo tono e sul suo viso.
Vista la conformazione delle sue ali, Noctis non poteva partecipare, solo coordinare, insieme a pochi altri.
“I terricoli creano questi massi, noi li portiamo quassù e li facciamo cadere, dritti sulla Grande Murena. Abbiamo fatto bene i calcoli, i massi andranno a segno. Abbiamo avvisato i gormiti, se ce n’è ancora qualcuno addosso a lei, affari loro, ma non mi dispiacerebbe se i macigni schiacciassero Gheos, o meglio ancora Poivrons, eh.” terminò con un sorriso scherzoso, nonostante le sue parole fossero cariche di serietà e di malvagità.
“Come fai a essere così cinico?” gli domandò esterrefatto Livaz, guardandolo con disapprovazione.
Noctis cercò di rispondere, turbato dal tono del figlio, ma non riusciva a trovare la risposta. Nonostante il risveglio della Grande Murena avesse spinto tutti i gormiti a collaborare, anche quelli del Vulcano, la maledizione di Magor avvelenava ancora le menti dei quattro Signori.
Noctis rimase immobile, mentre anche il gruppo con Livaz si schierava lungo il corpo scoperta della bestia, solo ad una certa altitudine da essa.
“E…via!” urlarono in coro Noctis e gli altri coordinatori.
Al loro grido i gormiti lasciarono le funi con cui sospendevano i macigni, e questi caddero, acquistando sempre più velocità e potenza.
Nessuno dei massi centrò la testa della Murena, ma tutti e quattro diedero il loro contributo, causando sicuramente grande dolore e un immenso trauma fisico alla Grande Murena, che inarcò il capo con un altro grido acuto.
“Forza, andate giù e prendete altri massi!” furono intimati i gormiti in aria, già precipitati sull’isolotto in cui i terricoli si impegnavano per plasmare grandi forme di roccia e terra.
Ma la Murena non si sarebbe lasciata sopraffare, non così. Non poteva raggiungere l’altezza degli insetti con le ali, però poteva attaccare l’isolotto degli insetti crea - sassi. Ma scelse un altro modo per fermare gli attacchi dei volanti.
Aprì le fauci e con inattesa rapidità strinse tra di esse la poppa di una nave lì vicina, che non si aspettava un simile gesto. Parte della nave, ancora occupata da gormiti, fu strappata, stretta nella bocca della Murena e dunque, dopo aver atteso un momento per prendere le misure, lanciata in alto, dove si trovavano Noctis e gli altri, facendo stramazzare e cadere tutti i gormiti intrappolati nel pezzo di nave.
La poppa non arrivò a destinazione, così come nemmeno la prua della stessa imbarcazione. Intanto, un po’ per volta, i gormiti sollevatori stavano tornando in posizione.
Un’altra parte di veliero fu scagliata nel cielo, anche questa senza dare i risultati sperati dalla Murena – oppure sì? - , ma con enormi perdite, in primo luogo la nave stessa e in secondo luogo tutti i gormiti a bordo che, come con il veliero precedente, non erano pronti a tale rapidità e, seppur ora aspettandosela, non furono comunque in grado di mettersi in salvo.
Prima che i nuovi macigni fossero in linea e pronti al lancio, un gormita vulcanico alato, Angelo, si avvicinò rapido a Noctis e agli altri coordinatori, due dell’Aria e uno della Foresta.
La loro prima reazione fu difensiva: tesero le loro braccia in pose di combattimento. Ma Angelo non era lì per dare danno, e si avvicinò con le mani tese in avanti, in segno di resa.
“Che cosa c’è?” chiese infastidito Noctis.
“Dovete smettere.” ordinò Angelo gesticolando, ma con un tono quasi supplichevole.
“La Murena non si fermerà finché continuerete a stare qui, e a lanciare pietre.”
“E allora?” domandò uno dei coordinatori dell’Aria, che non vedeva nulla di sbagliato nel continuare.
“Come ‘allora’? - ripeté Angelo, con tono innervosito. Si portò le mani alla testa, per sputare un discorso più convincente possibile - Non pensate a tutte quelle vite che la Murena sta mietendo per fermarvi? Volete solo terminare questa lotta in fretta, e vi capisco, ma così facendo non sarete molto diversi da Poivrons. Potete fermarvi e trovare un altro modo, prima che la Murena distrugga ogni nave; potete ancora fermarvi, a differenza di Poivrons.”
Noctis e gli altri rifletterono, mentre altro legno di velieri squarciati saliva dal basso per poi ricadere, accompagnato da urla di gormiti.
No, non avrebbero concluso la guerra in un mare di sangue.
“Andiamo via.” decise Noctis risoluto, voltandosi e trascinando con sé i due compagni dell’Aria, volteggiando verso il basso. I gormiti con le funi e i massi, chi con riluttanza chi meno, seguirono presto il loro esempio.
Rimaneva solo il coordinatore forestale. Era insicuro, come se davanti ai suoi occhi si fosse appena svolta un’atrocità. Angelo lo guardò minaccioso. Fremente, il gormita di Tasarau annuì, e scese anche lui di quota, mentre Angelo se ne volava via, sempre giù, ma nella direzione opposta.
Con travi e pali spezzati tra mascella e mandibola, la Grande Murena osservò compiaciuta gli insetti alati scendere da lassù, abbandonare i loro macigni, i loro piani di vittoria…obbedirle.
Era quella la via giusta. Quei ridicoli insetti dovevano comprendere che per sopravvivere bisognava obbedire alla Grande Murena, e mai contraddirla, o finire schiacciati. Tuttavia sembrava che i gormiti non l’avessero ancora capito appieno…inoltre, perché fermarsi a fare strage di navi a quel modo, solo perché quegli esseri le avevano obbedito? Si sarebbe fermata solo quando fosse stata sicura che i gormiti avessero compreso chi comandava e le avessero giurato eterna fedeltà e obbedienza e promesso sacrifici di viveri più sostanziosi.
Ma era rimasta troppo intenta a glorificarsi, troppo concentrata nei suoi sogni, si era adagiata sugli allori e non riuscì a evadere un colpo letale, un grande passo verso la sua caduta.
Una colonna di osso appuntita e data alle fiamme le si conficcò nell’occhio destro.
Il dolore fu insopportabile e l’urlo d’agonia straziante per le stesse orecchie della bestia, per le sue stesse tonsille. Ancora più insopportabile fu udire l’esultanza, alla sua destra, dei gormiti di Foresta tra cui Tasarau e di tutti coloro che avevano dato la loro energia per creare quell’arma.
La divinità stava cadendo.

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Capitolo 20
*** Capitolo 8.4 ***


Lo stregone bianco sedeva comodo, tranquillo. Un alone di fumo pervadeva la buia stanza, se di stanza si può parlare, quel profondo e cupo antro negli abissi della Caverna di Roscamar, illuminato da una e una sola pietra di luce, dalle pareti di ruvida roccia scura.
L’Occhio della Vita, poggiato sopra una sorta di altare, fluttuante, contribuiva fiocamente ad illuminare la stanza.
Manco a dirlo, gli scarsi mucchi di libri e i numerosi barattoli di vetro di sale nero sparsi per la stanza non illuminavano affatto.
La sfera veggente, dalla parte opposta, non emanava alcuna luce.
Sembrava essere stata gettata lì con forza, come se ciò che vi si fosse visto fosse stato inconcepibile e insopportabile, e avesse spinto l’utente a cessare immediatamente e bruscamente la visione.
Effettivamente non si poteva dire che lo stregone vestito di bianco fosse comodo, appoggiato su dei massi accatastati e riuniti a formare una sorta di sedia, con delle pelli riposte sopra.
A dirla tutta, nemmeno era bianco. Erano lo stesso saio cucito con le proprie mani più di trenta anni fa, e il medesimo mantello di lino con cappuccio comprato con del ben meritato sale nero.
Mai aveva usato altri abiti: li lavava spesso, ma il tempo e l’usura ne avevano intaccato irrimediabilmente il colore, ora unti e grigiastri.
Per quanto riguarda la tranquillità, anche quella non c’era. Come poteva essere tranquillo?
Il popolo di Gorm, quei gormiti, i suoi gormiti, a cui con tanta cura, pazienza, fatica e amore aveva dato vita e che aveva riportato nella loro casa, istruiti meglio che potesse, con la sua verità e i suoi ideali, addestrati a porre fine, in un modo o nell’altro, al problema dei gormiti del Vulcano, a combatterli se necessario, a salvarli da Magor, accettarli tra di loro e salvare Gorm una volta e per sempre, ebbene, questi gormiti, questo popolo, questa gente, a cui il Vecchio doveva molto a ma anche viceversa, stava lottando con se stesso e ora, spinto dalla sete di potere e dalla presunzione, minacciava di dannare in eterno la vita di Gorm con la Grande Murena.
Tutto questo per colpa di Magor, il più grande errore del Vecchio Saggio.
Era davvero il suo apprendista, la figura eterea e ignota, così come egli stesso, l’errore in tutto ciò? Forse non si sarebbe mai dovuto imbarcare, forse sarebbe dovuto ritornare a Lacedimora quando ne aveva avuto la possibilità e non aver mai toccato l’Occhio della Vita. Forse ancora avrebbe dovuto uccidersi giunto su Gorm, o non essere mai nato.
Ora c’era un peso sulle sue spalle, il peso dell’Occhio della Vita e quello dei gormiti. No, sapeva di stare lottando per la giusta causa. L’Occhio andava distrutto, e dopodiché avrebbe potuto introdurre i gormiti alla società del Grande Golfo, se la sua età glielo permetterà.
E Magor era l’errore, sì. Non avrebbe mai dovuto incontrarlo, mai avrebbe dovuto sceglierlo come apprendista. Alla fine, cambiava poco: la sua eredità che in tempi migliori voleva donare a Magor non sarebbe andata a nessuno.
Eppure, allo stesso tempo, non poteva non essere orgoglioso dello Stregone di Fuoco: aveva raggiunto livelli di stregoneria altissimi, che nessun altro se non il Vecchio Saggio poteva pareggiare. Ed era uno dei suoi più grandi amici. Era.
Anelli di fumo svolazzavano fuori dalla sua pipa, color terra bruciata, intarsiata di rame.
In un modo o nell’altro, lo si poteva descrivere come tranquillo. Conosceva il fumo da moltissimi anni, sebbene non tutti ne fossero a conoscenza, e sapeva che l’impasto giusto, il gusto giusto, gli dava sollievo, serenità. Si sentiva libero, e leggero. Creare anelli e forme con il fumo poi lo distraeva dai suoi problemi.
Ma avrebbe dovuto risolverli, prima o poi.
Percepì qualcosa avvicinarsi. Non lo sentiva dai passi, dal respiro. No, non erano suoni che una normale creatura vivente poteva produrre. Qualcosa che brucia, che brucia da sempre, in eterno. Ma niente odore di bruciato, o fumo – oltre quello della pipa - solo rumore. Calore.
“Sapevo che saresti arrivato.” sussurrò il Vecchio Saggio, togliendosi di bocca la pipa e facendo uscire il fumo con lungo sospiro.
Una parvenza di fuoco, dalla forma e dalle dimensioni elfe, fluttuò davanti a lui. Sul suo volto indecifrabile, uno sguardo serio e placido che racchiudeva anni di patimenti, di rabbia, di desiderio di vittoria. Il Vecchio non si mosse, non diede alcun segno di paura.
“L’ho notato. - replicò lo Stregone di Fuoco, pacato - Hai tolto ogni incantesimo, e mi hai lasciato via libera verso di te, e verso l’Occhio della Vita.” e il suo sguardo si posò fremente sulla magica sfera fluttuante. Il Vecchio Saggio lo notò.
“Tu però non sei qui per l’Occhio.” disse severo, riprendendosi la pipa, riempita di tabacco e altre erbe.
“Non ricordavo fumassi.” sviò Magor, dando una rapida occhiata alla casa abituale del suo maestro, con lo sguardo che si posava più volte sull’Occhio della Vita e sul sale nero guadagnato in anni di lavoro.
“Aiuta a rilassarmi. - spiegò il Vecchio, corrucciando il volto in un espressione seccata - Ti dà forse fastidio?”
A Magor non piacque quel commento. Il suo volto statuario diede il primo segno di nervosismo.
“Per niente. - rispose poi, con le mani dietro la schiena, cominciando a fluttuare avanti e indietro dinanzi al maestro seduto - Monte Vulcano è intriso di fumo da piedi a picco.”
“Vedo che hai Viaggi e Racconti di Remilia Sari - appurò, puntando l’indice verso il mucchio di libri - Anch’io ho - ”
“Smettila, Magor.” sbottò il Vecchio Saggio alzandosi di scatto, abbandonando la pipa e stringendo il fedele bordone.
“Quanto ancora vuoi attendere? Quanti gormiti vuoi ancora veder morire? So che da solo non puoi farcela, per questo sei venuto qui. Facciamola finita.”
Magor sorrise. Il suo sorriso divenne un ghigno. Dal ghigno proruppe una risatina sommessa. Il ghigno si spalancò e il risolino si tramutò in una gustosa e sguaiata risata.
Cessò di ridere, col volto ancora però sorridente, e fece segno di no con la testa.
“Per quanto a lungo continuerai questa inutile lotta, maestro? - gli chiese - Guardami. Guarda che mostro hai fatto di me! Come credi di poter stare dalla parte giusta, dopo ciò che mi hai fatto?”
“Io non ho fatto di te un mostro. - asserì il Vecchio Saggio - Lo eri da tempo, e avrei dovuto accorgermene subito. Solo un mostro di lunga data avrebbe potuto approvare, muovere un genocidio. Solo un mostro potrebbe sopportare il Flammae Corpus per quarant’anni!”
“Non mi farai la predica, maestro. Non oggi. Non adesso che sei un vecchio tronco che non capisce qual è il suo posto. Andiamo al sodo.”
Riacquistò compostezza dopo quello scatto di rabbia e di follia, e prese a spiegare, come il narratore di un’opera teatrale.
“Quando tornasti con i gormiti, cominciai a progettare un piano. Un piano per vedere come avresti reagito, quanto avresti sofferto. Quanto a lungo saresti stato fedele alle tue idee, e quanto ipocrita. Non ho pietà per i gormiti, non per coloro che stanno dalla tua parte, non adesso almeno. Vi ho lasciato del respiro per otto anni, poi, la notte dello scontro tra Signori del Torneo, inviai un mio fidato, ora in pace, per scagliare il mio incantesimo sperimentale. Era progettato per colpire le menti dei gormiti e creare in esse avversione per qualsiasi altro gormita di un altro Popolo, purché avvelenato dalla ‘maledizione’. Un lavoro di precisione, e ha dato risultati soddisfacenti. Non ha colpito solo i Signori, ma non ha importanza. Ora mi sono divertito abbastanza, a vedere la guida dei gormiti fare assolutamente nulla per aiutarli e struggersi nei dubbi e nei rimpianti. La Grande Murena è un pericolo, e, mi duole dirlo, non sono in grado di annullare l’incantesimo da solo. Ho bisogno del tuo aiuto.”
“Lo vedi? Sei davvero un mostro. - lo accusò il Vecchio Saggio - Mettere in pericolo un’intera popolazione, anche i tuoi sostenitori, solo per il tuo piacere! E’ una vergogna!”
“Ricordati, maestro. - sibilò Magor, con un dito accusatore vicino alla punta del naso - Tutto questo…è causa tua. Non avresti mai dovuto mostrarmi l’Occhio della Vita, mai e poi mai, e non avresti dovuto opporti a me. Tutto ciò che ho fatto, tutte le atrocità, le ho fatte per farti capire, maestro, che tu sei nel torto. Tu hai sbagliato, Razael. Hai sbagliato con me, con i tuoi familiari, con i gormiti, con l’Occhio della Vita, e queste sono le conseguenze per chi commette sbagli del genere.”
“Basta, basta -” si allontanò il Vecchio Saggio - Se non posso farti io la predica, non sarai certo tu a farmela, un ragazzino che non ha capito nulla di come funzionano le cose.”
“Ma prima di procedere. - lo fermò il Vecchio Saggio - Ho delle domande.”
“Delle domande! - rise Magor, strabuzzando gli occhi - Gorm è in pericolo e tu hai delle domande! Ah, ah! Sei davvero una sagoma! Ma va bene, sarò onorato di rispondere!”
Il Vecchio ignorò quell’oltraggio, anche se sapeva bene che il tempo era prezioso.
“Che cosa mi dici di Lavion e Magmion? Loro sono stati colpiti dalla maledizione?”
“No. - rispose secco Magor - Non ho fatto nulla a loro. Immagino Lavion abbia voluto smettere di rimanere all’ombra del fratello, o che Magmion non accettasse come Lavion fosse ‘raccomandato’.”
“E di questa ‘evoluzione mystica’, sai dirmi qualcosa?”
Magor esitò, tremante in corpo. Poi disse: “Niente di niente. Non sono così stupido da potenziare anche i miei nemici, ti pare?”
Stava mentendo. Lo si vedeva nelle sue movenze, nel volto, lo si sentiva dalla voce. Nascondeva qualcosa. Ma il Vecchio Saggio non aveva ormai tanto tempo da perdere.
“Un’ultima cosa: l’hai preso tu il tuo bordone?” Non si era dimenticato che, dopo aver maledetto l’apprendista, aveva voluto distruggere ogni elemento di Magor su Gorm, l’aliante e il bordone, senza però trovare quest’ultimo.
“Sì. - rispose orgoglioso - Mi è caro come il tuo bordone è caro a te.”
“Bene. Allora procediamo.”
***
Poivrons emerse dall’acqua e si posò, stremato, sulla costa lì vicino.
Sebbene non avesse vivamente partecipato all’attacco, si sentiva stanchissimo...il senso di colpa che percepiva lo faceva stare male, mentalmente e fisicamente.
Per quella stupida guerra di cui non ricordava la causa aveva cercato di svegliare e mettere sotto il suo controllo la Grande Murena. La Grande Murena!
Ma come poteva un gormita pensare di dominare la mente di un dio? Aveva solo messo in pericolo se stesso, il suo Popolo e tutta l’Isola.
Desiderava solo morire. Sarebbe stato meglio morire subito, abbracciare le Somme Forze, qualsiasi divinità più benevola della Murena, che sopravvivere e sentirsi ricordare ogni giorno della sua presunzione, del suo grande errore, del suo peccato, venire disprezzato fino al giorno della sua morte naturale e anche oltre, e dannare il suo Popolo. Una morte immediata e indolore sarebbe stato il massimo, paragonata ad anni di sofferenza.
Non voleva incontrare nessuno, vedere nessuno, tanto meno uno del suo Popolo che gli rinfacciasse il male che aveva fatto. Gli altri Signori. Ecco, uno qualsiasi di loro l’avrebbe incontrato volentieri, così si sarebbe risparmiato la fatica di ammazzarsi.
No, loro l’avrebbero ucciso lentamente, se lo sentiva, e lui non voleva questo.
Sentì dunque dei passi dietro di lui… non si voltò, non concentrò orecchie o naso per capire di chi si potesse trattare. Sperò con tutto il cuore fosse un qualche dio di una qualche arcana religione, giunto a prenderlo per portarlo nell’oltretomba.
Una pinza lo prese per il collo e lo sollevò. Poivrons roteò gli occhi all’indietro. Non voleva vedere.
“Dunque non hai intenzione di fare niente?” gridò una voce familiare. Non proprio familiare, ma l’aveva già sentita.
“Lasciami morire, Lavion. - disse Poivrons con l’intensità di un respiro - Non c'è niente che si possa fare.” continuò, e, cambiata idea, volse gli occhi dinanzi a sé e cercò di girarsi per guardare in faccia il signore del Vulcano. “Uccidimi”.
A quelle parole Lavion fu preso dalla rabbia, e scaravento il Signore del Mare a terra.
“Codardo! - urlò Lavion, con i denti che parevano ingrossarsi dalla rabbia - Sei davvero un disonore!”
Si avvicinò a Poivrons gli sussurrò nell’orecchio, scostando un tentacolo: “Pensi davvero che sia finita? Eh? Lo pensi?!”
Poivrons cercò di annuire, ma appena fu lì per farlo, Lavion gli lanciò uno schiaffo in faccia, che quasi fece perdere a Poivrons la voglia di morire.
“Sbagliato.” disse Lavion, e poi si alzò e si calmo, e assunse una posizione da uno che la sa lunga. “Il tuo Popolo ti ha seguito fino a qui, ha creduto in te, e nelle tue azioni. Lui ha accettato il tuo piano, ha partecipato. Ciò nonostante, non se l’è data a gambe, ha combattuto, per rimediare al danno. Non hanno paura per ciò che diranno i posteri di questa follia, e sono pronti a condividere con te l’onta...il tuo Popolo non si è arreso e tu, il loro Signore, vorresti arrenderti?”
Poivrons si innervosì, e sbraitò: “Che cosa pensi di fare, eh? Hai visto di cosa è capace, di ciò che abbiamo fatto senza ottenere niente! E’ un dio!”
“Me ne frego che sia un dio! - ribatté per le rime Lavion, con un dito accusatore puntato su Poivrons e la chela che fremeva tutta. - Può baciarmi il culo, questo dio! È fatto di carne, e la carne muore. E noi faremo sì che muoia presto.”
“Che cosa pensi di fare?” ripeté Poivrons, mostrando una vaga convinzione nelle parole di Lavion.
“Per ora, devi solo riunire gli altri Signori, e convincerli a unire le forze. Quando tornerò, vi dirò cosa fare!” e scappò, tuffandosi nell’acqua vicina.
Poivrons era disperato. Un attimo fa voleva suicidarsi, poi Lavion gli diede nuova forza e lo stesso Lavion adesso se n’era andato, lasciandolo nel dubbio. Che cosa doveva fare Lavion?
E cosa Poivrons! Riunire i Signori! Lui! Lui, il più odiato su Gorm, convincere i suoi acerrimi nemici, che da tre anni si volevano tutti morti, Magmion a parte – forse - a cooperare. Come fare?
***
Lavion, attivato un incantesimo di respirazione subacquea, rimaneva appigliato alla scorza della Grande Murena per uno spadino, mentre con la mano - chela applicava il prodigioso incantesimo che gli era stato consigliato.
Era un’impresa davvero tosta, che richiedeva precisione e molta energia. Per la precisione, Lavion dovette impegnarsi. Per l’energia, ne aveva in abbondanza. E non proveniva da pietre preziose o scorte di cibo che portava con sé. Era la sua chela.
Le sue ‘parole’ erano state chiare. Il messaggio della creatura gli suggeriva un portentoso incantesimo con cui terminare la Grande Murena, che richiedeva però l’aiuto di altri gormiti, gormiti precisi, i nomi sussurrati dal suo diabolico aiutante, e soprattutto un grande dispendio energetico. Ma, come già detto, non era un problema.
La chela gliene forniva in quantità sufficienti, o almeno sperava.
Che cos’era quel mostro di chela e tentacoli? Era forse l’esageratamente grande marchio di un particolare Spirito? Una creatura aliena, o sotterranea che si congiunse a Lavion alla nascita o in un momento particolare della sua vita? Una ‘semplice’ malformazione? Il frutto di qualche malsano esperimento?
La risposta Lavion la sapeva per certo, o almeno quella di cui lui, come suo padre che aveva accettato, era convinto: un dono divino dall’Occhio della Vita. Mentre abbandonava il tratto di squame affetto dalla magia per dirigersi a un altro, arrampicandosi un po’ più in alto con il coltello, accarezzava il proprio braccio e sembrava rivolgergli parole, al che la chela tintinnava dolcemente.
Percorrere tutto il lungo corpo della Grande Murena gli sembrò poter durare un’eternità.
Oltretutto molta della coda della Murena era situata davvero in profondità, e anche lontano dallo Stretto.
Lavion non poteva nemmeno teletrasportarsi velocemente, perché tra un punto e un altro su cui applicare la magia non poteva esserci troppa distanza o non avrebbe funzionato.
Ritenette di poter arrivare a un certo punto del corpo, ricoprirlo di numerosi punti di effetto incantesimo e poi terminare, invece che farlo tutto. Se la magia fosse stata abbastanza forte, c’era la possibilità di spaccare più o meno a metà la Grande Murena da quel punto.
Si fermò in un punto sopra il dorso della Murena, in superficie. Stava parlando, ma non sembrava esser rivolto a nessuno dei pochi gormiti lì attorno.
“Ce la faremo, vedrai. - diceva strofinando il ‘bicipite’ della creatura - Insieme, possiamo fare tutto, sì.”
“Che diamine stai facendo?” gli domandò curioso e inquieto un terricolo poco distante.
“Qualcosa di moooolto importante, te l’assicuro. - dichiarò, senza degnarlo di uno sguardo, con tono scherzoso, sebbene fosse serio - E faresti moooolto meglio a scendere dalla Murena, quando sarà tutto pronto.”
Il gormita della Terra non capì, e continuò a non capire quando Lavion si spostava e ripeteva le stesse movenze, seguendo un percorso a spirale attorno alla Murena.
Quando giunse al punto estremo, e iniziò a rivestire di punti d’effetto vicinissimi tra di loro un anello della Murena, nonostante i poteri del suo braccio, cominciò a sentire i primi segni di stanchezza. Aveva evocato numerosi incantesimi, sia tra quello suggerito che quelli per la respirazione, più di quanti normalmente se ne potessero evocare in quel lasso di tempo.
Riuscì a completare il giro. La sua parte del piano era terminata. Ora toccava agli altri Signori, doveva spiegar loro cosa fare, e sperava che Poivrons fosse riuscito a riunirli, là sulla costa.
Intanto la flotta gormitica aveva fatto un altro passo in avanti per la caduta del gigante marino.
Quattro delle navi da guerra più massicce, di quelle tipiche della flotta di Roscamar, si erano scontrate ai lati del collo della Grande Murena e, pressando in avanti, erano riuscite in qualche modo a tenerla bloccata.
L’azione combinata di alcuni gormiti del Vulcano e dell’Aria aveva poi creato un tornado di fiamme indirizzato all’occhio sinistro della bestia, ora completamente cieca.
Con il capo della Murena asserragliato dalle solide imbarcazioni, questo era il momento migliore per portare a termine ogni cosa.
Corse a nuoto più velocemente che le sue gambe gli consentivano, utilizzando di tanto in tanto qualche magia, ma poteva essere rischioso dopo tutti gli incantesimi compiuti e si limitava.
Con sua grande sorpresa Poivrons non era solo sulla spiaggia su cui l’aveva lasciato circa un’ora prima. Vi erano tutti i Signori, Magmion compreso, e sembravano spazientiti. Gheos stava confabulando con Poivrons, e non sembrava una chiacchierata tra amici. Come il Signore del Mare li avesse convinti non era importante per Lavion.
Ma c’era qualcosa di diverso. Tutti i quattro Signori lo sentivano, Magmion no, sebbene lo vedesse.
Tasarau, Noctis, Gheos e Poivrons si comportavano diversamente. Non sembravano volersi uccidere, come si erano sempre visti quando erano insieme.
Per quanto frenetici nei movimenti e scontrosi nel parlare a causa della situazione. parevano gormiti come altri.
Poivrons, così come Tasarau, Gheos e Noctis, non sentiva più alcun odio nei confronti degli altri. Non era più in conflitto con Tasarau per avergli ‘rubato’ Patmut Iun, anzi, sentiva quasi di dovergli delle scuse.
Quando Lavion arrivò, tutti e cinque si infiammarono. Poivrons fu entusiasta, perché non se la sentiva proprio di aver commesso un altro sbaglio, conducendoli lì.
“Finalmente, Lavion! - lo accolse con tono soave - Era ora!”
“Sì, era proprio ora! - ringhiò Magmion - Spero che ci sia qualcosa di concreto dietro tutta questa scemenza.” e osservò bieco Poivrons, che rimpicciolì. Molto probabilmente si trattava di qualcosa legato al modo in cui il Signore del Mare lo condusse lì.
“Sentite, state calmi. - interloquì Lavion. Esitò un istante, con lo sguardo perso - Anzi, non state calmi. Non ce n’è il tempo.”
“Vai al punto, Lavion!” ruggì Gheos con sincera avversione. Dopotutto, era un gormita del Vulcano, e nessuno li amava, tra i Popoli del Vecchio Saggio.
“Voi dovrete…portarvi davanti alla Grande Murena. E una volta lì, dovrete usare questo incantesimo, tutti insieme, in un solo colpo, dritto al naso, se non lo beccate non fate niente. Al resto ci ho già pensato io, voi dovrete solo fare l’incantesimo, due volte se riuscite. E’ un incantesimo abbastanza impegnativo, con più forze sarà più potente e se avete delle pietre con voi usatele. Ah, Magmion tu dovrai solo accompagnare l’incantesimo con del fuoco, ma se vuoi puoi fare entrambe le cose.”
I Signori rimasero interdetti. Non avevano capito molto bene a cosa mirasse Lavion, cosa avrebbe portato il compimento di quella magia. Tuttavia, nonostante la fretta nel parlare, Lavion sembrava piuttosto sicuro di ciò che diceva, e nessuna falsità traspariva dalla sua espressione o dalle sue parole.
“Allora, siete pronti? Dovrete salire su una nave per avere il punto a portata di tiro.”
“Siamo pronti.” confermò Gheos, battendo il pugno contro il martello, convinto.
“Non siamo pronti. - negò Tasarau, severo - Qual è questo incantesimo?”
“Ah giusto, sì, ecco si chiama Ignis Crepitus.”
“Sì, è una magia abbastanza dispendiosa, ma non tanto come credi tu.” rifletté Tasarau pensieroso.
“Qualsiasi cosa sia, muoviamoci, così Lavion smette di rompere.” proruppe Magmion.
Lui e i quattro annuirono e si mossero verso la nave più vicina. Magmion si fermò e prese il fratello per il collo.
“Se si rivela un’inutile perdita di tempo, ti stacco le dita della mano e dei piedi, una a una, e te le faccio mangiare.”
Lavion annuì tremante, non riuscendo a spiccicare parola con la mano del fratello al gozzo.
“Hai capito?!” vociò, e lo scosse, prima di lasciarlo e salire con gli altri sulla nave.
C’è da dire che l’equipaggio del veliero forestale fu piuttosto sconcertato dal vedere tutti i Signori salire e parlottare tra di loro, specie per Magmion e per Poivrons, che ricevette diversi sputi e calunnie.
Ma Tasarau disse che era tutto a posto, che stavano per finire la guerra.
Queste parole li sollevarono, ma furono meno sollevati quando Tasarau ordinò loro di togliere la nave dal suo posto contro il muso e portarsi davanti. Tuttavia nessuno trovò il coraggio di disobbedire a cinque dei gormiti più potenti e dignitosi di Gorm.
Le altre tre navi rimasero in posizione, riuscendo comunque a tener bloccata la testa della Murena, ormai a un passo dalla sconfitta definitiva.
Con manovre rapide e pericolose, il galeone da guerra di Tasarau aveva ora il suo fianco destro davanti al muso della Grande Murena. I suoi occhi non esistevano più, non come occhi, solo dei grumi rossi e rosi che sanguinavano sulla sua bocca e sulle sue narici.
“E’ il momento, immagino.” mormorò Poivrons, tendendo la mano in avanti deglutendo, mentre Tasarau, Noctis e Gheos posavano le loro mani sulla sua schiena, donandogli energia.
Magmion, di fianco al Signore del Mare, preparava il suo spunzone a sparare fuoco,
Quello segnò forse l’unico episodio di tutta la storia di Gorm. in cui i Signori di Terra, Mare, Aria, Foresta e Vulcano unirono le forze, combatterono fianco a fianco.
 
Il colpo dell’Ignis Crepitus, infiammato da Magmion, partì come una freccia da un arco teso al massimo, dalla mano aperta di Poivrons, appoggiato da i suoi un tempo peggiori avversari, ora uniti con lui per porre fine a tutto.
Un esplosione cancellò il naso della Grande Murena, che aprì le fauci in un ultimo, agonizzante ed eterno urlo di dolore.
Una striscia di fuoco bruciò una linea obliqua invisibile lungo il muso della Murena, scatenando un’altra esplosione presso il suo orecchio sinistro, e il fuoco continuava e continuava, provocando esplosioni su esplosioni su ogni squama della Grande Murena, la divinità caduta, anche sotto la superficie dell’acqua.
In breve tempo una portentosa e letale reazione a catena riempì di ampi fori sanguinanti tutta la Grande Murena, davanti agli occhi stupiti dei Signori di Gorm e di ogni gormita.
Lavion era l’unico non sorpreso, bensì gioioso come un cucciolo, che gridava ed esultava, con la sua chela più tintinnante e frenetica che mai.
Le ferite erano troppe, il sangue perso eccessivo, il dolore insostenibile.
La Murena aveva perso. Doveva abbandonare i suoi sogni, mai avrebbe dominato i gormiti. Nessuno poteva. Non poteva che rassegnarsi alla morte imminente, e separarsi per sempre da quella vitalità, quella forza e quella voglia di vivere che solo poche ore prima aveva riscoperto, dopo secoli di un lungo stato semi - letargico in cui aveva dimenticato cosa significava essere vivi, essere potenti.
Dimenò la testa in avanti un’ultima volta, acuendo il suo grido, finché non sbiadì fino a spegnersi, e il capo di squame color del cielo affondò nell’acqua limpida, non più animato da vigore, mai più animato.
L’esultanza di tutti gli eserciti fu indescrivibile. La Grande Murena era stata sconfitta, una divinità era stata sconfitta! Lo sterminio dell’esercito gormitico e la vittoria della bestia erano stati scongiurati.
Ma qualcos’altro, qualcosa di ugualmente importante aveva cessato di esistere quel giorno.
Noctis se lo sentiva nel cuore, scendendo dalla nave di Tasarau insieme agli altri Signori.
Sapeva che c’era stato qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava fatto, che lui non avrebbe mai dovuto fare. Sapeva che non era colpa sua, Livaz glielo aveva detto, ma non poteva non scusarsi.
“Tasarau, Tasarau!” corse verso il gigante legnoso e…lo abbracciò. Lo abbracciò profondamente.
“Io…io non…questo non doveva succedere.” singhiozzò il Signore dell’Aria, stretto non tra braccia furiose e mortali, ma tra quattro braccia amiche.
Tasarau comprese e accettò le scuse del gormita alato, sentendo anche lui dei rimpianti, che c’era qualcosa a cui doveva rimediare.
“Noctis! Per amor del cielo, datelo a me!” urlò Gheos apparentemente furibondo.
Tasarau sciolse l’abbraccio, sicuro di ciò che il Signore della Terra voleva fare.
Strinse Noctis in un abbraccio solido come la roccia, spargendo sincere lacrime – cosa memorabile: i terricoli erano di mente forte, oltre che di corpo - sul ceruleo piumaggio di Noctis.
“Oh, io…se quel giorno io ti avessi…ti avessi davvero, non oso pensarci, adesso…cosa…”
“Non pensarci, non pensarci. - lo rassicurò Noctis, con buffetti sulla schiena, stringendolo forte anche lui - E’ tutto a posto, adesso…”
Tasarau e Poivrons non si scambiarono abbracci. Il Signore del Mare non li accettava.
“Per favore, Tasarau, e anche voi altri. Vi ringrazio se volete scusarvi con me per ciò che mi avete fatto, ma non posso accettare…” sospirò triste “Io ho fatto il peggio, il peggio immaginabile, e non potrò mai scusarmi abbastanza. Non vivrò gli anni necessari per rimediare a quest’errore”
“Poivrons, stai tranquillo. - lo rasserenò, avvicinandosi per posare una mano sulla sua spalla, che il Signore del Mare non riuscì a togliere - Vedrai, tutto si sistemerà. Ridarò Patmut Iun a te, e lo aprirò di nuovo a tutti. Quello sì che è stato un errore.”
“Non scherzare. - ribattè Poivrons - E non sono sicuro che sia una buona idea riconsegnarmi il Tempio.”
“Non scherzo. E Patmut Iun tornerà al Popolo del Mare: è vostro da generazioni, e la cosa non cambierà mai.”
“Va bene, Tasarau. - accordò Poivrons, accennando un sorriso - Non so cosa sarà adesso di me, di noi, di Gorm. Ma sono contento che questa follia sia finita.”
Magmion osservava un po’ nauseato tutto quell’eccesso di bontà e di manifestazione di buoni sentimenti, di cui non capiva il senso.
Si voltò verso Lavion, ora serio, perché si aspettava che anche lui avesse qualcosa da dire.
Ma il fratello minore non gli rivolse parola, si limitò a fissarlo negli occhi, e Magmion lo fissò nei suoi.
“Hai delle scuse da darmi.” dichiarò dunque Magmion.
“Scuse? Io?” reiterò Lavion, portando la mano al petto per indicare se stesso, con un’espressione da vittima.
“Non ho nulla di cui scusarmi con te. Tu dovresti, invece. Ti sei comportato come un bambino.”
“Tu sei l’unico bambino qui.” grugnì Magmion con lo spunzone teso.
“Facciamo finta che tutto questo non sia mai successo, allora.” contrattò Lavion, stanco di dare danno al Popolo del Vulcano con quella separazione. Tese il pugno.
Magmion lo osservò distaccato e contrariato. Alla fine però tese anche lui il suo, e li batterono. “Mai successo.” ripeté
Non poterono, tuttavia, fare finta che proprio tutto non fosse successo. La Grande Murena era stata sconfitta e la Grande Guerra, a giudicare da come si comportavano tra di loro i quattro Signori, sembrava terminata.
Ma in quei tre anni, ma molto di più in quell’ultimo giorno, le perdite erano state esagerate. La flotta era stata decimata, e i gormiti morti in gran numero.
Per onorare la caduta di quei valorosi, si levò un coro tra i gormiti che risalivano le navi rimaste intatte per tornare a casa. Da chi e da dove di preciso si originasse la canzone non si poté capire, ma fu questione di minuti che tutto l’esercito gormitico intonò com’un sol gormita dei versi in memoria dei compagni caduti in battaglia.
 
Tra limpidissime acque
E bianche spiagge
Valorosi eroi hanno dato la vita
Affrontato la tempesta del mare
 
Tra la furia della bestia
E fratelli inaspettati
Valorosi eroi hanno sguainato le spade
Per il bene del loro mondo
 
Ogni gormita abbandonò dunque il campo di battaglia e la Grande Murena, lo Stretto di Gorm, portandosi con sé tutti i corpi che poterono, anche i vulcanici.
La Grande Guerra di Gorm, il secondo conflitto che interessò tutti i Popoli di Gorm, era terminata.
C’era molto da riparare, diverse cose da rivedere, problemi da risolvere, promesse da mantenere, ma sembrò che la pace, per quanto fosse così fragile, potesse vivere di nuovo a Gorm.
Ma la pace è solo un’illusione, uno stato di tranquillità temporaneo, delicato, che non può esistere senza conoscere la guerra, il dolore, il male.
Perciò quella pace era solo passeggera, destinata a non durare in eterno…o a non essere una pace vera e propria.
Al ritorno dell’esercito e dei Signori nelle proprie case, al loro ritorno per restare, i civili e tutti coloro che non avevano partecipato al conflitto festeggiarono ed esultarono, felice che la guerra fosse conclusa e che i severi e serrati ritmi di vita potessero cessare e si potesse tornare a una esistenza più pacifica, tranquilla…normale.
Tutti gli accampamenti furono smantellati, le armi e gli equipaggiamenti riposti, i soldati tornarono a vivere nel calore dei propri genitori, dei propri mariti e mogli, dei propri figli e familiari, riposarsi e mangiare vero cibo, non le insipide e scarse scorte militari.
I meno fortunati furono informati del triste ma eroico destino dei loro cari, che non saranno dimenticati, ma i più disgraziati non riuscirono nemmeno a riavere il corpo dei loro figli, dei loro coniugi e familiari.
Il Vecchio Saggio viaggiò di Popolo in Popolo, in tutti i maggiori città e centri, ad informare i gormiti della verità dietro quel caos. La mente malvagia dello Stregone di Fuoco Magor, e i suoi orribili malefici.
“Lo Stregone di Fuoco non si fa scrupoli per voi.” proclamava, agitando il bordone con lo smeraldo in aria.
“Egli ha una mente di ingranaggi e di veleno, un cuore di freddo ghiaccio, dediti solo alla follia e alla conquista del potere. Non ha pietà per nessuno.” diceva con sguardo severo, accrescendo la malvagità che risiedeva in Magor e nelle sue azioni con oscure metafore.
“Il suo desiderio era vedermi soffrire, mentre voi, i miei cari, amati gormiti lottavate tra di voi seguendo falsi ideali, e io incapace di aiutarvi. Tuttavia ora è finita. Il suo maleficio è scomparso, e il giorno della sua caduta e della caduta del Vulcano si avvicina, e voi dovrete scegliere se continuare a resistere o alzarvi e fronteggiarlo. Io vi auguro di poter risolvere questo dilemma nel modo più pacifico possibile, e sarò sempre dalla vostra parte, non dimenticatelo.”
La verità su come questo maleficio fosse stato rimosso non fu detta, solo che c’era e che ora era un ricordo, e non furono detti nemmeno tutti quei segreti che il Vecchio Saggio conservava da anni, ancora non sicuro che i gormiti fossero pronti.
Il Popolo del Mare, tra tutti, era il più prostrato. Non certo per le perdite subite, nemmeno per la poca distruzione che lo spostamento della Grande Murena aveva causato.
Al contrario, il Popolo del Mare non aveva alcun tipo di problema di restauro e ricostruzione: al sicuro, nelle acque dei fondali, durante la lotta Poivronopoli aveva addirittura continuato a crescere e la sua completezza era questione di giorni.
Tuttavia, tutti i gormiti del Mare, chi più che meno, non solo Poivrons, il maggior promotore del progetto, si sentivano infinitamente in colpa per aver risvegliato la Grande Murena, in quell’atto di crudeltà ed esagerata confidenza, nel credere che i loro poteri fossero così vasti da poter dominare una creatura, un dio, di tali dimensioni.
Per questo motivo il Popolo del Mare decise che avrebbe riparato e ricostruito ogni nave andata perduta contro la bestia marina, senza spese, tutte le imbarcazioni che fosse stato chiesto di rammendare. Inoltre, vista la loro ricchezza, per un breve periodo di tempo avrebbero scambiato le loro merci più preziosi a prezzi stracciati, o addirittura senza prezzi.
Non solo: si prescrissero l’obiettivo di recuperare ogni spoglia galleggiante e persa nello Stretto di Gorm, e riportarla partecipando loro stessi alla celebrazione e alla preparazione del funerali a chi di dovere.
Gli altri Popoli accettarono ben volentieri gli aiuti del Popolo del Mare, e anzi furono clementi nell’approfittare della disponibilità dei gormiti marini.
Ovviamente tutto il maltolto fu restituito, e subito: il Volvorot fu riposto nella chiesa di Colle Tempesta, venerabile da tutti, le due spade e lo scudo di nuovo al sicuro nell’Armeria di Roscamar, e tutti i libri ‘salvati’ dall’incendio della Biblioteca Silente riconsegnati al Popolo della Foresta.
Nonostante tutto, nonostante il madornale errore di presunzione commesso da Poivrons Legheri e dai suoi guerrieri mystica, il Popolo del Mare se la cavò davvero con poco. Gli incubi di Poivrons riguardo il futuro del suo Popolo, del suo nome e della sua famiglia, dannati e visti di cattivo occhio per quell’atto insano, furono del tutto scongiurati.
Fu sempre il Popolo del Mare a rimuovere la defunta divinità dallo Stretto di Gorm.
Nello stesso giorno della sua caduta aveva cominciato a emanare un lezzo senza paragone, attirando da tutta l’Isola mosche, vermi e i peggiori e più brutti animali che si cibano di escrementi e carogne.
Con navi – tutte del Mare - corde, funi, catene ed arpioni il cadavere del serpente marino fu trascinato, attentamente e con precisione per evitare che urtasse qualcosa nel tragitto, lontano dall’Isola, dal Mare di Gorm, dagli abituali confini della vita dei gormiti, che mai avevano avuto necessità di compiere viaggi oltre tali limiti, con poche eccezioni.
Una di queste eccezioni fu in seguito al Grande Sacrificio, ancora vivido e tremendo nei cuori di alcuni gormiti. No, non parlo dei superstiti salvati dal Vecchio Saggio, bensì di quei pochi valorosi che evitarono la morte per mano dei vulcanici e si riunirono e viaggiarono a sud, fondando una città in palafitta, che ancora esisteva, sebbene abbandonata da un decennio.
Attorno a questa città fantasma di legno fu lasciato il corpo della Grande Murena, a marcire con essa.
Dal Popolo del Vulcano, una volta ritirato nella Valle e nel Monte di Fuoco, non giunse più notizia o parola. Degli aiuti che il Popolo del Mare – con certa esitazione – offriva anche a lui non arrivò alcuna risposta, positiva o negativa che fosse.
Il Popolo del Vulcano era dunque ritornato nell’ombra, misterioso e minaccioso nel loro rilievo fumante, esattamente come tre anni prima. >>

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Capitolo 21
*** Capitolo 9.1 ***


Il Cronista terminò trafelato – senza però darlo a vedere – il lungo resoconto delle trappole del Popolo del Mare e della battaglia mozzafiato con la defunta Grande Murena.
Pativa nelle ossa la fatica dell’intensa sera precedente, la lotta uno contro tutti tra lui e i folli seguaci degli Osservatori asserviti al visionario Grandalbero, che nel ritorno a casa e nel riposo non s’era miracolosamente fatta sentire.
Per tutta la gradita narrazione – gradita sia da parte sua che dal pubblico di giovini – l’anziano ma ancora celatamente vigoroso maestro aveva avuto occhi solo per Osmaniu, rivelatosi orfano. E lui, del resto, non poteva non ritornare lo sguardo, sia per la nuova relazione instaurata tra i due che per la solita attenzione rivolta all’insegnante mentre parlava.
Il Cronista non aveva idea, ancora non riusciva a entrare nella sua mentalità, quali fossero i pensieri e le intenzioni del ragazzo. Che fosse ancora della balzana idea di diventare figlio adottivo del Cronista e di Inamia? Tanto peggio per lui: il maestro era buono e caro con tutti, ma per nulla al mondo avrebbe preso Osmaniu in casa sua. Le motivazioni per ciò gli erano fissate in testa come chiodi. Che questi, consapevole delle intenzioni del Cronista, avesse totalmente dimenticato, o quantomeno superato gli eventi e le parole della sera immediatamente precedente, e volesse continuare col suo modo di vivere alla giornata chissà dove e chissà come, al solito? Il Cronista non sapeva nemmeno in che modo preciso Osmaniu vivesse, da solo nella Foresta Silente, ma anche in questo caso non avrebbe permesso per nulla al mondo che seguitasse per quella via.
Non se lo meritava. Nessuno lo meritava.
E del resto, il Cronista non poteva certo abbandonarlo a sé stesso ora che conosceva la verità. Se l’era cavata finora, il ragazzo, ma chi può dire che non gli potesse succedere qualcosa di grave? La sera precedente era stata una dimostrazione dei pericoli che un giovane senza custodie correva, e solo la fortuita irruzione del Cronista l’aveva salvato.
Lo colpiva sempre di più, il giovane vulcanico. Quella mattina, nel tragitto dalla casa sull’albero fino alla radura, il Cronista gli era stato molto grato per non aver alzato la questione della sua presenza in casa, degli accadimenti di quella notte, per non aver detto alcuna parola né posto alcuna domanda in merito alle problematiche del suo futuro e delle volontà del Cronista. Aveva temuto che sarebbe stato assillante con continue richieste di chiarimenti e chissà cos’altro, che avrebbe pianto per la sua condizione o che sarebbe fuggito: doveva aspettarsi di tutto, da lui.
Invece, al risveglio e durante la colazione ‘in famiglia’ Osmaniu si era dimostrato estremamente affabile, gentile, disponibili, cortese e posato. E soprattutto silenzioso, ma non per questo di poca compagnia. La sua presenza aveva cambiato l’atmosfera della sala da pranzo, quel giorno; Inamia pareva più radiosa del solito, anche se attorniata dalla stessa aura di stranezza che il Cronista le aveva visto intorto la notte prima. All’arrivo alla radura nessuno dei pochi mattinieri alle lezioni sollevò polemiche sulla presenza congiunta di maestro e allievo; quando giunse Forteceppo Osmaniu gli si sedette affianco e parlottarono silenziosamente finché non ci furono tutti. Non sembrò che parlassero della condizione di Osmaniu, forse nemmeno l’amico ne era a conoscenza. Il Cronista pensò fosse meglio così, era una questione delicata: se il vulcanico non ne aveva parlato, non l’avrebbe fatto il maestro per lui, magari recandogli imbarazzo o vergogna.
Per un momento gli parve di invidiarlo e immediatamente dopo di detestarlo per l’ostentata, apparente indifferenza e insofferenza che mostrava nei confronti di ciò che gli accadeva intorno. Possibile che per lui fosse così normale e così facile vivere in solitudine, mangiare – questo quello che pensava il Cronista – cibo rubato, dormire in un buco in un albero? Forse sarebbe stato meglio, più normale da parte sua assillare il Cronista di domande e di lamenti. Dimostrava una maturità sconcertante, e il Cronista si sentì un poco a disagio.
Quasi non udiva le domande che gli venivano rivolte dagli studenti, ignari dell’incidente con i cultori, riguardo la storia appena terminata di raccontare, la fine mirabolante della dolorosa Grande Guerra di Gorm. Rispondeva meccanicamente, con tono distaccato che sollevava un leggero disappunto, cercando di non tenere troppo fisso lo sguardo su Osmaniu, per evitare di farlo sentire in imbarazzo.
Si trattava, in fondo, di una parte di storia che il Cronista amava molto, accaduta – forse per fortuna – pochi anni prima che nascesse. I Signori di Gorm si riscattavano dalla tremenda maledizione che lo Stregone di Fuoco Magor aveva follemente imposto sulle loro menti, inducendoli ad odiarsi tra di loro e a non provare alcun rimorso per le conseguenze delle loro, e portando conseguentemente l’intera isola a una pericolosa crisi interna, un’avversione tra Popolo e Popolo che persisteva in minia parte ancora ai suoi giorni. Solo dopo che gli sforzi congiunti di maestro e apprendista, entrambi con pentimento e desiderio di rifarsi, schiacciarono il seme dell’odio dalle menti dei quattro Signori del Vecchio Saggio questi poterono rendersi conto dove l’artificioso ma pur sempre innato istinto di competizioni li aveva portati: sull’orlo di un crollo, sia per loro che per l’Isola, scossa socialmente ed ideologicamente.
La Grande Guerra di Gorm fu straordinaria nella sua fase finale, ad ogni modo, e non serve specificarne il motivo. I gormiti, in particolar modo i nuovi gormiti del Vecchio Saggio, avevano dimostrato l’immensa potenza di cui disponevano, i progressi tecnici della costruzione di armi e di navi, logistici e strategici per la mobilitazione e lo schieramento delle truppe. Un esercito invincibile, capace persino di sconfiggere una divinità. La stessa concezione del divino e la verità e necessità della fede gormitica furono messe in dubbio.
Se Gorm fosse stata unita sin dal principio, forse l’approdo alle sponde del Grande Golfo si sarebbe verificato molto prima, ma al prezzo della conquista con la forza da parte degli inarrestabili gormiti delle razze deboli. Probabilmente nemmeno i forti e alti zoari avrebbero potuto resistere. Sta di fatto che la storia prese una piega diversa, e nonostante la naturale potenza dei gormiti, il connubio tra l’Isola sperduta e la moderna società polivalente occidentale fu pacifico.
“Maestro, l’evoluzione mystica mi sembra…strana. – domandò uno, attirando particolarmente l’attenzione del Cronista – Voglio dire, è apparsa dal nulla, così. Dal cielo. Gli dèi? Non so se voglio crederci…è tutto così strano, senza senso. Sembra fatto apposta. E se fosse un’invenzione?”
“È normale che tu sia confuso, figliolo. – fece lui, sorridendo a mezza faccia – Se fossi stato lì a quel tempo, saresti stato ancora più spaesato, sorpreso e forse spaventato dai tuoi nuovi poteri, se ti fossero stati concessi. Sta di fatto, comunque, che l’evoluzione mystica è un fatto. È venuta per alcuni e, come vedremo domani, è sparita, esattamente come è apparsa. Non vi posso dire ora cosa c’è dietro, sarebbe prematuro, anche se potete già farvi un’idea. Però vi dico subito che non c’è nessuna divinità di mezzo. Chi ha voluto che accadesse è un mortale di questa terra…tuttavia l’arte che l’ha resa possibile potrebbe non esserlo.”
 
“Come fai a chiedermi di badare a un cucciolo?”
Ederus fu la scelta più ponderata e più plausibile secondo il Cronista per trovare un luogo, una famiglia in cui far vivere Osmaniu come ogni bambino dovrebbe vivere. Tramite la sua osteria errante, i suoi viaggi in lungo e in largo per tutta l’estensione di Dalarlànd, comprese anche alcuni altipiani ai piedi di Picco Aquila, di conoscenze e di clienti abituali, di amici e di persone occasionali che condividevano con lui crucci occasionali, sogni d’infanzia, disperati progetti per il futuro immediato e remoto, dichiarazioni d’odio e d’amore verso gli individui più disparati…di gormiti che si intrattenevano presso l’eccentrico locale chiacchierando con un più che loquace proprietario ce n’erano più di quante se ne potessero contare sulle dita di un qualsiasi gormita.
Senz’altro doveva esserci qualcuno che avesse espresso, per un motivo o per un altro, il desiderio di avere un figlio, l’interesse all’adozione, o qualcosa del genere.
“Shh, parla piano, per Krut!” sibilò a denti stretti il Cronista, mentre Ederus, insolitamente spazientito, strofinava rumorosamente un boccale di vetro.
“No, non parlo piano. – obiettò quello, sbattendo suddetto boccale sul ripiano di legno, quasi fracassandolo – Che domande mi fai? Ti pare che io possa accudire un cucciolo? Non ho lo spazio, non sono nemmeno sposato.”
“Ederus, non ti ho mai chiesto di fare una cosa del genere. – cercò di ragionare l’insegnante, tamburellando freneticamente le dita sul bancone – Ti ho chiesto se conosci qualcuno che vuol mettere su famiglia, tra i tuoi tanti clienti, ecco tutto.”
“Ecco tutto? Non direi. Ti è scappata, Cronista, la parte in cui mi proponevi di tenere questo ragazzino da me. Non me la dai a bere.”
“Ho detto ‘se volevi’. Potrebbe essere un’esperienza interessante per entrambi…ma la tua reazione è stata fin troppo…calorosa. Non ti ho chiesto di offrirti in sacrificio.”
“Be’, poco ci è mancato, caro mio.” Sbuffò Ederus.
Stranezze. L’oste non si era mai adirato – termine esagerato – così tanto con lui. Con nessuno aveva mai dato dimostrazione di rabbia, di offesa così accentuate. Che avesse qualche cattiva esperienza con i cuccioli? Cosa poteva esserci di così traumatico da farlo innervosire così, per una semplice, secondaria proposta, per di più?
“Io non ci so fare coi bambini. Non so…non saprei nemmeno come, da dove. No. – illustrò dunque, facendo di no con la testa – Non voglio avere a che fare con cuccioli. Non ho lo spazio, come ho già detto. – prese a contare le argomentazioni sulle dita della mano – Non ho l’esperienza, non ho la voglia!, e tra il mio lavoro, i clienti, i viaggi, non c’è proprio l’ambiente giusto per un cucciolo.”
“Neanche per, che so, un paio di decimane? Il tempo di trovargli una sistemazione.” Tentò di contrattare il maestro.
“Neanche per un paio di decimane. – negò categoricamente l’oste, incrociando le braccia – E poi, perché non puoi occupartene tu? Sei già padre, chissà che tua figlia non ti ha fatto nonno, nel suo viaggio, ci sai fare e hai una mogliettina coi fiocchi.”
“Io sono vecchio.” Non gli riuscì di rispondere altro se non questo. Una motivazione che accigliò Ederus e che imbarazzò lo stesso Cronista.
“Manca ancora un po’ prima della stagione piovosa. – disse Ederus, calmatosi – Puoi tenere il cucciolo con te, e io cerco qualcuno disposto a tenerlo, prima che tu parta per cambiare casa, se hai tutta questa fretta. Ce la farò. Ma perché hai fretta?”
“Ho fretta, e basta. – il Cronista strinse il pugno, rammentandosi del pericolo corso la notte precedente – Non posso lasciarlo vivere da solo. Voglio che sia al sicuro.”
“Qual è il problema, Cronista? – Ederus allargò le braccia – Portalo con te. Non sei decrepito, vivrai abbastanza per vederlo diventare un uomo che saprà prendersi cura di se stesso. Se poi, come dici tu, ha già vissuto da solo, sarà pronto ancora prima.”
Il Cronista esitò. Non sapeva cosa rispondere, come argomentare e, nel profondo, era consapevole del fatto che la sua vita era stata già abbastanza lunga, non condivideva l’ottimismo di Ederus riguardo il futuro. Borbottò qualcosa, ma prima che le sue labbra potessero esprimere compiutamente un qualsiasi concetto, fu Osmaniu a prendere parola. L’orfano vulcanico era rimasto dietro di loro sin dall’inizio della discussione; era stato condotto all’osteria mobile dal Cronista immediatamente dopo che questi congedò tutti i suoi giovani alunni dalla radura.
“Maestro, basta! Basta così!” esclamò, fremente e agitato.
“Osmaniu, che cosa succede?” domandò il Cronista turbato. Gli aveva intimato di rimanere alle sue spalle e di attendere che i due discutessero in silenzio.
“Succede che ho sentito abbastanza! – gridò – Non sarete voi a decidere della mia vita! Farò quello che voglio, ecco!”
“Osmaniu, per favore…ragiona.” Il Cronista provò ad avvicinarglisi, ma a pochi passi da lui il vulcanico guizzò una palla di fuoco che fece arretrare l’anziano insegnante. Lo sguardo del giovine era gelido e furioso.
“Per favore…lo sto facendo per il tuo bene. – seguitò il Cronista, gesticolando – Non puoi continuare così, ieri hai rischiato di morire! Se non ci fossi stato io…se accadesse di nuovo, i semidéi potrebbero non aiutarti una seconda volta. Devi trovare qualcuno…”
“Se accadesse di nuovo, pace all’anima mia. – disse senza paura Osmaniu – Così non ti dovrai più preoccupare di me. La mia vita è la mia vita. Se devo andare in una famiglia, voglio decidere io chi. Avete parlato di me come un peso, un ostacolo! Se in giro è pieno di persone così, voglio continuare a vivere da solo. Non ho bisogno di nessuno.”
Il silenzio seguì. Il Cronista rimase colpito e ammutolito dalla straordinaria fermezza e serietà del cucciolo, non trovò di che ribattere. Sapeva, ora lo sapeva, di aver agito nel torto. Come si era potuto permettere di trattare delle sua vita alle sue spalle, comportarsi come un commerciante con un articolo da vendere al miglior offerente? Avrebbe dovuto tenerselo vicino, chiedere il suo consiglio, parlarne con lui…aveva maturità sufficiente. Alla sua iniziale e irripetuta richiesta di diventare…figlio…del Cronista, avrebbe dovuto acconsentire.
“Se vuoi davvero vivere da solo…perché mi hai chiesto di diventare tuo padre?”
Osmaniu tacque. Parve ribollire, le labbra gli tremavano per le parole impronunciate che avrebbe voluto riversare come torrente impetuoso sul Cronista. Sembrava sul punto di piangere e al contempo di esplodere in un raptus di rabbia.
“Perché…mi piacevi. Ma ora non più.”
Si dileguò tra i boschi senza guardarsi indietro.
 
Testa stretta tra le mani; passo rapido e incerto verso casa. Pensieri contrastanti. Reagire? Opporsi all’andamento degli eventi? O lasciare che il mondo scorra per i fatti suoi? Indecisione, un’indecisione rabbiosa, ribollente. Giusto o sbagliato? Chi l’avrebbe giudicato? Come l’avrebbe giudicato? Era tanto importante? No. Forse no. Contava ciò che per lui era giusto. Era giusto lasciarlo libero. La libertà è il dono migliore, una bestia caparbia. Sì! Non era affar suo. Un minuto più tardi, e la storia avrebbe preso una svolta diametralmente diversa. Nessun fardello sulle proprie spalle. Nessun bisogno, nessuna falsa necessità di agire per il bene. Nessun compito per affermare la propria benevolenza, per rendersi migliore. Agli occhi di chi? Gli occhi di nessuno! Non era affar suo. Chi era lui per decidere degli altri? Nessuno. Non era affar suo. Gli aveva chiesto protezione, gli rispose di no. Si era sforzato di aiutarlo, nel modo sbagliato, e gli rispose, giustamente, di no. Ora aveva preso la sua decisione. Niente di cui preoccuparsi. Niente per cui sentirsi colpevole. La vita procedeva secondo i soliti ritmi. Via le mani dalla testa. Via le tribolazioni, via i cattivi pensieri.
Il ritorno a casa. La cara, vecchia casa, rifugio della vecchiaia, dell’amore di una vita. Splendenti gli orti attorno al tronco. Lussureggianti e carichi dei frutti. I frutti degli ultimi anni, da condividere con la consorte. Mai pensiero fu più rassicurante. Il solito ritorno a casa: la risalita dei pioli lucidi dall’usura, l’ultima attesa prima del dolce pasto del mezzogiorno. E poi pensare, pensare. Riflettere, costruire, inventare: aveva un lavoro da svolgere, un lavoro che amava. Altre storie da raccontare. Non serviva altro. Una vita perfetta. Una vita perfetta e rendersene conto solo ora. Solo ora che la preoccupazione più grande degli ultimi anni era svanita come fumo! Non aveva bisogno di quella spinta per vivere. Inamia, la propria fantasia, l’interesse dei cuccioli alle storie, la buona cucina. Nient’altro per passare gli ultimi anni. Gli ultimi anni in solitudine.
Solitudine nel corridoio. Silenzio nella casa sull’albero. Aria ferma e senza odori nella casa sull’albero. Non un fruscio, uno spostamento d’aria, l’aroma del pranzo, il crepitio del fuoco.
Silenzio e solitudine. Il ritardo li giustificava? No.
Vuota la sala da pranzo. Nessun piatto, nessun pasto pronto per lui. Niente è stato mosso da quella mattina. Superfluo perlustrare lo studio.
Inamia. La dolce, amata Inamia, distesa lungo il letto. Schiena appoggiata alla parete, mani lungo i fianchi, libro aperto a un lato. Dormiva. Dormiva, sì. Era stanca, sì. Doveva esserlo, per non essersi occupata del pasto. Ci avrebbe pensato lui, il tempo non gli mancava. Le baciò la fronte, forse tentando si svegliarla. Le sue – di lui – labbra rabbrividirono. Gli occhi – di lei – erano aperti. Avevano perso la loro luce. Inamia non si muoveva. La scosse. La scosse ripetutamente, prima dolcemente, falsificando un sorriso e un umore tranquillo. Poi fortemente, fortemente, come aveva solo fatto nel campo di battaglia. Niente. Inerme.
“Inamia? Inamia, che hai? Inamia! Inamia, svegliati!”
 
Inamia non si era svegliata. Non si sarebbe mai più svegliata. Il vento che alla fine del tempo travolge, trascina tutto con sé, lasciandosi dietro masse fredde e immobili, le aveva chiuso le anziane palpebre per l’ultima volta, per il sonno senza ritorno. Ora il suo corpo reso gracile dal trascorrere degli eventi giaceva, le braccia incrociate sul petto verde oliva, in cima alla pira a cui si sarebbe presto dato fuoco, cosparso dei profumati liquori sacri a Melis e a Fendril – vino bianco e birra scura – le divinità del giorno della sua morte e della sua nascita.
La sua morte. Inamia era morta. Non era più con lui, non lo sarebbe mai più stata: la sua anima sarebbe partita, no, era già salpata alla volta del nucleo di costante e infinita annichilazione e rinascita delle Somme Forze, e avrebbe camminato nell’universo sotto nuove spoglie, per provare ancora una volta il brivido, la punizione e la libertà della vita.
Inamia era morta. Nessuna consolazione, nessuna possibilità di rimediare, di superare quest’infinito dolore, di tornare indietro, di impedire che la natura svolga il suo corso, di supplicare, di sfidare gli dèi perché a Inamia fosse concesso di tornare da lui, lui che l’aveva amata sin dal giorno in cui la conobbe. Era la sua promessa, la compagna di una vita, nessuno si sarebbe dovuto permettere di togliergliela, di privarlo del dono dell’amore.
Lacrime, silenziose, cariche di interminabile cordoglio avevano solcato le sue guance rigate, rigate dal tempo e dalla fattura, e ulteriormente scavate dal pianto addolorato, il pianto di due lunghi, dolorosissimi giorni. Due giorni da solo. Gli erano parsi un’eternità, sulla sua casa muta e fredda, privata del calore della presenza della sua amata. Un’eternità senza Inamia…quali soddisfazioni, quali piaceri avrebbe potuto godere del tempo che gli rimaneva senza la sua consorte? I lunghi anni del matrimonio erano volati loro alle spalle come caduche farfalle, e davanti al Cronista si prospettavano unicamente pochi anni prolungati all’inverosimile dallo sconforto, vissuti nella nostalgia e nel ricordo portatore di tristezza dei bei tempi passati della gioventù, della paternità, della tranquilla vita insieme.
Inamia era morta. Morta! Mai aveva pianto così, un pianto che gli aveva inaridito gli occhi e fatto del suo volto una maschera di liquida desolazione. Nemmeno nel distante giorno in cui diversi suoi compagni erano morti a causa sua – ricordava ancora i loro nomi, le espressioni maledette di ciascuno di loro quando fu falciata la loro anima – facendo di lui, attraverso il suo furente atto di vendetta, un eroe agli occhi di tutti i gormiti. Un eroe! Lui che era rimasto in vita grazie al sacrificio di altri. Lui che continuava a vivere senza Inamia al suo fianco. Pianse ancora, mentre il Priore – un Priore aereo che non aveva mai visto, ma che importava? – davanti alla mesta massa di gormiti iniziava a intonare l’ultimo canto, l’ultimo addio formale all’anima che il Cronista aveva amato.
Come poteva avere ancora lacrime da versare? Non c’era limite; eppure raggiunta una certa età si comprende realmente quanto la morte possa essere vicina, la si attende quasi con atto di sfida, si impara ad accettarla nella sua ineluttabilità e del suo arrivo per tutti. Ciò non lo confortava.
Inamia, morta. Il più desolato sorriso riempì il suo viso affranto, nel rammentare i migliori momenti della loro vita insieme. Il giorno del loro primo incontro, quando il Cronista, appena trentenne, era tornato su Gorm dopo il suo auto-inflitto esilio sulle sponde del Grande Golfo. Era la notte della Festa di Fine Anno, in una grande piazza del Rifugio della Rugiada. Lei era lì, tra tanti, e tra tante, una donna fresca, leggera, libera, dalla danza frenetica e sensuale, piena di voglia di vivere e di sperimentare le emozioni della sua giovinezza. Quanto era stato goffo nel primo approccio, quanto imbarazzato nel ballare insieme a lei su piedi che erano avvezzi a tutt’altro. Gli sguardi che si scoccarono l’un l’altro erano più eloquenti di qualsiasi passo di danza, di qualsiasi dichiarazione.
Il Cronista aveva amato – e certo anche Inamia, con il corpicino che si ritrovava – , prima di allora. Era prestante, cordiale, e la sua fama dopo la vittoria al Torneo di Astreg accrebbe la sua popolarità tra l’altro sesso. Almeno, credeva di aver amato. Dopo l’incontro con Inamia, gli fu chiaro che non aveva mai realmente amato qualcuno, non come aveva amato lei. Erano fatti l’uno per l’altra, il destino l’aveva scritto, gli dèi lo avevano ordinato. Il giorno in cui il loro amore si manifestò nella carne, con la loro figlia, fu il giorno in cui il Cronista fu il gormita più felice di tutta Mitera.
Per sempre, si erano detti, si erano continuati a dire, anche nella vecchiaia, quando il romanticismo sfuma e la tenerezza si fa sentire più col silenzio che con parole o gesti. Sarebbe ancora stato per sempre, adesso?
“Amici qui riuniti, fratelli e sorelle delle Somme Forze…” iniziò il Priore, ma il Cronista non aveva orecchie per lui. Non aveva orecchie né occhi per nessuno dei presenti. Solo all’inizio della cerimonia aveva dato uno sguardo a coloro che erano venuti a condividere con lui il suo immenso lutto. Amici di vecchia data suoi, tra cui Ederus, raro a vedersi fuori dalla sua osteria, e della passata – passata! Ancora non voleva, come poteva crederci? – Inamia. C’erano anche quattro suoi studenti, tra i quali Loctiu – immancabile, sensibile ed educata com’era, la sua presenza e il suo tatto spazzarono via parte della tristezza che gravava su di lui – e l’orfano Osmaniu. Non seppe come reagire al suo arrivo. Non c’era sua figlia Ceresa. In viaggio nelle terre degli elfi e dei vici, non aveva modo di contattarla e di comunicarle la disperata notizia.
Lui non aveva attenzione per quelle persone. I suoi occhi confusi dalle lacrime erano incentrati solo sull’esile e morta figura di Inamia distesa sulla legna ordinata, quasi nella speranza che d’un tratto si movesse, si alzasse dal suo sonno e accorresse ad abbracciare il Cronista; le sue orecchie mettevano a tacere tutti i rumori che provenivano dall’ambiente, ricercando invece da ogni dove i sussurri, i mormorii di Inamia che tanto aveva amato, parole della sua sposa che lo sollevassero per la perdita. Sapeva però che non avrebbe più udito nulla della melodiosa voce di Inamia. Era scomparsa per sempre. Per sempre, come il loro amore. Poteva davvero l’amore fra due persone sopravvivere quando una di queste moriva?
La torcia del Priore avviò la pira che avrebbe abbracciato il corpo di Inamia e ridato le sue spoglie alle viscere della terra da cui avevano tratto origine. Polvere alla polvere.
Quale profonda ingiustizia che regola il mondo! Perché due individui che si erano promesse l’amore eterno avrebbero dovuto separarsi da questo mondo fisico e tangibile separatamente, l’una dall’altra? Perché, perché ad una di esse doveva toccare l’estremo dolore della perdita, dell’impossibilità di una riconciliazione fisica, dell’abbandono? Perché, perché, perché gli dèi non facevano sì che gli amanti dessero addio al mondo in coppia, si riunissero nell’infinito l’uno con l’altro, l’uno nell’altro, che il loro amore non morisse, ma viaggiasse con loro nel mondo delle anime? Sì, perché per il Cronista era una certezza: non poteva esserci amore di una persona morta per una persona viva.
Le fiamme avvolsero la catasta e cominciarono a lambire le membra gelide e immobili di Inamia, e il rimorso e la frustrazione e un rinnovato lutto infiammarono il Cronista. Non era giusto. Il loro amore doveva durare, perché non poteva? Non gli era di conforto sapere che sulle pagine scritte, nei ricordi, il Cronista e Inamia sarebbero per sempre rimasti due grandi amanti e sposi: voleva la certezza inafferrabile che un giorno il loro amore sarebbe potuto rivivere senza essere succube dell’oblio delle cose terrene.
Era giusto, lecito, sensato pensare una cosa del genere? Il suo ego materialista riteneva di no, era una vana illusione. Quello stesso ego credeva fervidamente nell’immortalità di stampo gormitico, l’eternità attraverso le imprese, le opere, il ricordo. Non poteva valere forse anche per l’amore?
Certo che poteva. Certo! Ma qualcosa nel rito funebre dei semidéi era profondamente sbagliato.
Reincarnazione? L’anima – se esisteva – sarebbe ritornata al divino grembo, ‘ripulita’ e reinserita in un altro corpo, magari quello di un insulso animale, di una bassa pianta. L’identità di Inamia sarebbe stata perduta per sempre: i suoi capricci, la sua memoria, il suo amore…cancellati.
No, il Cronista non poteva permettere un simile abominio. Non voleva sottostare a simili regole, no! L’anima di Inamia apparteneva ad Inamia, l’amore nei confronti del Cronista non sarebbe stato distrutto da una maledetta rinascita!
Con un grido feroce e un balzo fuori dal normale per le sue membra indolenzite, si fece strada a spintoni e oltre il Priore che presiedeva alla pira. Incurante delle scottature, del fuoco e delle bruciature, strappò da quella distruttiva culla la sacra reliquia dell’amore di una vita. Non avrebbe permesso che il corpo e l’anima di Inamia venissero obliate in quel modo.
“Polvere alla polvere…sì…ma a suo tempo. Vivrai ancora, Inamia, vivrai ancora! – gridava piangente mentre fuggiva con il corpo caldo per le fiamme – Non sarai dimenticata, non sarai un mucchio di sabbia in mezzo ad altra sabbia…no. Ti seppellirò…il tuo nome sfiderà la morte, e il tuo amore non soccomberà nell’anonimato della terra.”
 
83 kruddie Redrubise. La seconda notte e l’inizio del terzo giorno senza Inamia, una corrente infinita di ore che si riversava sul Cronista come un nugolo senza fine di frecce avvelenate, un tormento senza sosta né rimedio. Ed erano passati solo due giorni dalla sua dipartita. Solo! Solo? Si sentiva un male dell’anima al solo pensiero, come rappresentasse una sorta di tradimento nei suoi confronti, di poter – dover! – passare sopra la morte e il dolore, di tornare a vivere in serenità e senza crucci. Forse la sua, di morte, l’avrebbe preso prima che la sofferenza fosse svanita, e sarebbe stato vicino a Inamia più che mai.
Giorni infausti si prospettavano dinanzi al Cronista: trascorrere quanto gli rimaneva da vivere in solitudine, traslocare durante il cambio di stagione senza compagnia, desinare in solitudine, ritirarsi nel letto in solitudine, un letto che non era fatto per una sola persona, una casa che non era fatta per una sola persona. Non c’erano case – almeno per quanto riguarda le abitazioni dei forestali nomadi tradizionali condivise – ‘fatte’ per un solo inquilino, e persino il ripostiglio più stretto e angusto scavato nel tronco più fragile gli sarebbe parso vuoto e privo di vita. Casa sua era vuota…ogni casa d’ora in poi sarebbe stata vuota, ai suoi occhi. Non voleva il vuoto, l’oblio. Desiderava allontanarsi da quel senso di vuotezza, da quello scrigno di nostalgia, nostalgia che ad ogni modo l’avrebbe sempre accompagnato. E così fece.
Uscì di casa alle prime luci dell’alba che filtrarono tra le fessure dei rami intrecciati del tetto, discese lentamente, traendo dalle assi dal pavimento, dalle pareti, dai pioli della scala sul tronco ogni briciolo dell’essenza di Inamia che vi era ricaduta, la casa sull’albero, procedette con lentezza estrema, ricercando come mai prima d’ora il gusto di godersi il panorama quotidiano dei sentieri che percorreva per le sue lezioni, soffermandosi ad ogni particolare, accompagnandosi col suo bastone. Non aveva remore di nascondere il proprio passo impedito, non più.
Era prestissimo quando si sedette sul suo scranno di radici, Nejema infuocato all’orizzonte, il cielo lungi dal tingersi d’azzurro. Il suo trono da insegnante, quel suo spiazzo dove impartiva le sue singolari lezioni…Inamia non vi era mai stata, non aveva mai partecipato, osservato il Cronista nel suo lavoro.
Non parteciperà né osserverà mai. Mai.
Incorse la mestizia. Di nuovo. Non c’era luogo, tempo, occasione che non gli portasse alla mente il suo tesoro perduto. Perché struggersi così tanto? La morte era inevitabile, era ormai vicina e lo sapeva, anche per lui, e il loro amore, lo sapeva, sarebbe comunque sopravvissuto. Nei loro cari, nella figlia Ceresa. Ma non riusciva a darsi pienamente pace: desiderava qualcosa di più che non sapeva bene cosa fosse. Era la natura della vita: il desiderio di protrarre la propria esistenza e la propria felicità senza limite. Sperare in una dimensione in cui ciò potesse avverarsi era una debolezza, una forte presa di posizione non giudicabile, o anch’esso un semplice istinto? E sapere la fattura di questo particolare dell’anima avrebbe recato conforto?
Doveva concentrarsi su qualcos’altro.
Inamia non vorrebbe che soffrissi così. Soffrirebbe anche lei, e io non ho mai voluto farla soffrire. Non voglio farla soffrire.
Sì, basta. Doveva continuare a godersi la vita, in nome di quello stesso amore che aveva generato altra vita, e attendere il suo turno. Per di più, la filosofia non faceva per lui. Lui era una storico.
Sì, uno storico. È il mio lavoro, la mia predisposizione. Mi piace fare lo storico.
Non si sarebbe fermato nel raccontare. Fino alla fine della storia sarebbe andato avanti, insegnando ai giovani gli eventi che avevano alle spalle. La storia non si fermava, e il passato non doveva essere dimenticato: si sarebbe impegnato ad insegnare ai nuovi venuti, non avrebbe sprecato il suo tempo nel pianto – ma nel suo cuore avrebbe sempre avuto un angolo per Inamia, per la nostalgia e il dolore del ricordo.
Tempo che passò velocemente. Ci sarebbe voluto ancora molto perché si riprendesse, se si fosse mai ripreso del tutto, ma si sentì più alleggerito dopo le ultime riflessioni, e iniziò a pensare che forse non sarebbe venuto nessuno quel giorno alla lezioni. Dopo ciò che era successo…
Il cielo sopra lo spiazzo erboso si era fatto d’un grigio azzurro, macchiato a tratti di poco promettenti nuvole color neve sporca – la stagione delle piogge era ormai davvero alle porte.
Era il momento in cui si presentavano i primi studenti. E si presentarono, emergendo silenziosi, stranamente cauti e rattristiti in volto, come fantasmi desolati, dagli arbusti raggrinziti.
C’erano quasi tutti i soliti, tutti in orario rigoroso: Forteceppo, Loctiu…Osmaniu. Fecero a gara per gettarsi tra le braccia del Cronista e dargli il loro conforto.
“Via, con queste mani. – fece scorbutico il Cronista, scostandosi di dosso Loctiu con una grazia infima che non le aveva mai riservato, e intimando agli altri di stare dov’erano – Non sono qui per farmi compatire da voi. Sono qui per insegnarvi, e raccontare. E racconterò.”
 
< Non avevano nulla contro gli altri Popoli, nessun’avversione, niente di personale, né intenzione di invadere i territori in mari di sangue, ma la Grande Guerra aveva fatto loro capire una cosa: che i gormiti avevano enormi poteri, avevano potenziale, ed erano giunti a ritenere che fosse giusto e meglio che l’Isola di Gorm fosse governata per intero da una forza centrale, e non in stati spezzettati.
Che l’odio dei loro Signori a muovere guerra fosse finto non sembrava aver alcun peso. I loro discorsi erano veri, e non erano stati cancellati come quell’odio.
E’ vero anche che le parole sbiadiscono, solo le cose scritte rimangono solide nel tempo. Ma i ricordi delle parole, degli inviti e delle promesse dei quattro Signori erano ancora vivi nelle menti e nei cuori di diversi gormiti, e necessitavano di più di tre anni perché potessero dimenticarli.
“Avete fatto delle promesse. - rinfacciavano alcuni - Ci avete promesso gloria, potere, dominio. E in un modo o nell’altro, le avremo. Se non sarete voi a darcele, saranno i vostri successori.”
Infatti il tempo di Gheos, Tasarau, Noctis, Poivrons e dei fratelli Magmadoni come Signori stava per terminare.
La guerra era durata poco più di tre anni, e il Torneo tanto maledetto si era tenuto circa un anno dopo le elezioni, in cui i Signori si erano impegnati e mobilitati per migliorare la vita loro e dei loro sudditi.
Si avvicinava dunque il giorno di nuove elezioni, e allo stesso tempo si richiedeva una soluzione per il problema posto dai gormiti riguardo il dominio di Gorm.
Nessuno degli attuali Signori alleati con il Vecchio Saggio voleva vedere Gorm dominata da un solo Popolo, un solo tiranno. Il Vulcano e Magor sicuramente, ma –oltre al fatto che nessuno, né tra i Signori o tra i popolani, volesse consegnare Gorm in mano loro - era necessario trovare una via pacifica per assegnare a qualcuno un titolo di governatore di Gorm, magari solo nominale e simbolico.
Fu, a questo proposito, indetta una riunione, il 30 Tealse 853, presso niente meno che la Rocca di Iustinsula, il nome dato all’atollo, territorio neutrale ormai ufficiale, su cui si erano incontrati Togern e compagni e Gheos e Tasarau, e in cui molte altre riunioni sarebbero state tenute, nel futuro vicino e lontano.
***
Una barca attraccò alla verdeggiante e sabbiosa Iustinsula, tre passeggeri a bordo.
Non era una barca scadente o comune, come quelle usata da Tasarau e da Gheos per il loro incontro, o quelle con cui Togern e compagni si riunirono nell’atollo.
Tuttavia, non era nemmeno una nave imponente da guerra. Era una via di mezzo, una navetta di discrete dimensioni, addobbata con le insegne e i simboli del Popolo della Foresta, e lo stesso riguardo i colori.
Mimeticus, il Signore Tasarau e il Vecchio Saggio scesero, uno per volta. Il Vecchio, che partecipava anche lui alla riunione, ossequioso e rispettoso, si mise di lato per far scendere il Signore della Foresta per primo, ma Tasarau disse che non era importante, e lo stregone elfo non obiettò.
Ancorata l’imbarcazione a un molo improvvisato, i tre si appostarono innanzi l’entrata della rocca, attendendo l’arrivo degli altri Signori, coi loro accompagnatori. Era stato scelto di condurre alla riunione anche i quattro gormiti che avevano scoperto, o quanto meno intuito, la verità sull’avversione che portò alla Grande Guerra. A nessuno era però stata data alcuna informazione riguardo il Cuore dello Scudo.
Tasarau, per l’occasione, indossava un ampio e coprente mantello grigio, nero all’interno. Su di esso erano ricamate figure astratte, insiemi di linee, cerchi, inscrizioni di vari colori. Centrale, inscritto tra i cerchi, il disegno di un albero spoglio ma completamente verde. Non il simbolo del Popolo della Foresta, solo un semplice albero.
Mimeticus non indossava granché, e fosse stato per lui non si sarebbe affatto vestito, ma Tasarau aveva insistito perché desse bella figura. Così il giovane gormita vestiva un gilet grigio metallico, con ricami dorati di foglie, fiori e radici.
Il Vecchio Saggio vestiva come suo solito –non poteva andare per Gorm nudo, al contrario dei gormiti che, anche scoperti, avevano poco da temere - e aspettava impaziente l’arrivo degli altri Signori, di uno in particolare, e del suo accompagnatore.
La sua attesa ricevette sollievo quando, all’orizzonte, si vide giungere a grande velocità il massiccio, per quanto piccolo come l’imbarcazione della Foresta, scafo di Gheos.
Il Signore della Terra e Togern scovanascondigli scesero saltano dalla nave. Gheos portava uno scialle bianco di pizzo, con cuciture nere e dall’aspetto metallico del simbolo del Popolo della Terra lungo tutto l’indumento, piccole e grandi, messe in un preciso ordine tra di esse.
Scovanascondigli indossava la sua solita armatura da guardiano. Gheos non l’aveva costretto, nemmeno invitato, a indossare qualcosa di particolare, e lo aveva quindi accompagnato con l’indumento, per così dire, che aveva addosso più spesso.
I due Signori si avvicinarono, si salutarono prima decorosamente, con l’inchino d’onore della Terra, poi, amichevolmente, batterono i pugni, e infine Gheos abbracciò Tasarau. Iniziarono quindi una loro privata discussione. Il Vecchio avvisò Mimeticus che doveva parlare a quattr’occhi con Togern, dopodiché glielo avrebbe lasciato. Il forestale acconsentì, e lo stregone corricchiò verso Scovanascondigli.
Il Vecchio si alzò sulle punte dei piedi per strofinare la guancia di Togern, la pratica da lui nota per salutare qualcuno a cui, nonostante la ripetesse varie volte, i gormiti non erano ancora abituati.
“E’ da un po’ che non ci si sente, Scova.” gli sorrise il Vecchio. Il terricolo accettò il fatto di essere chiamato a quel modo.
“Allora, dimmi, tutto a posto? Gheos ti ha punito per essere fuggito?”
“No, per fortuna no. - lo rassicurò Togern, scuotendo la testa - Ad essere sincero, è stato meno severo del solito, e ha apprezzato il fatto che abbia viaggiato nel Vulcano di mia iniziativa, con gormiti estranei. Non ha voluto dare ascolto alle mie motivazioni, però.”
“Ma gli hai detto di ciò che avevi scoperto, no?” domandò cauto il Vecchio Saggio.
“Sì, gliel’ho ripetuto quando è finito tutto. Strano a dirsi, si è mostrato davvero dispiaciuto per non avermi ascoltato. Continuava a dirsi che era stupido…ma tutto a posto, adesso.”
Seguì qualche minuto di silenzio. Il Vecchio Saggio si guardava intorno, e mormorava qualcosa che Scovanascondigli non capiva appieno, forse qualcosa riguardo l’arrivo degli altri Signori.
Poi decise di rompere il silenzio. “Il…il Cuore dello Scudo. - abbassò la voce - E’ a posto?”
“Cielo, me ne stavo per dimenticare!” esclamò il Vecchio, dandosi una botta sulla fronte che avrebbe fatto cadere qualsiasi altro elfo della sua età. Circospetto, mise la mano nella tasca sinistra del suo vestito, e vi estrasse il Cuore dello Scudo, intatto.
“L’avete riparato, quindi. Funziona?”
“E’ stato davvero un colpo di fortuna che si fosse spaccato in quattro pezzi esatti. Se funziona? Non ne ho idea, non l’ho provato. Tienilo.”
“Come? - chiese stupito e maldisposto Togern, che si vedeva consegnare il prezioso manufatto per la seconda volta - No, non è una buona idea.”
“Lo è eccome. Non so quando e come potrà essere utilizzato, ma in mano mia lo…Stregone di Fuoco potrebbe avvistarlo subito. Meglio che lo tenga un gormita, un gormita fidato, che lo terrà ben custodito, lontano dallo sguardo dello Stregone.”
“D’accordo, allora. Prenderò questo fardello.” e, muovendosi a rilento, prese il Cuore dello Scudo, e lo infilò in una sua bisaccia.
Arrivarono infine Poivrons e Mantra, emersi all’improvviso dall’acqua. Non erano molto vestiti –vivendo in mare, i normali abiti non sono utilizzabili, e i materiali per gli indumenti adatti all’acqua sono costosi, sia per lavorarli che per scambiarli.
Poivrons aveva due guanti verde mare rigati d’argento, lunghi fino ai gomiti. Un gonnellino cachi molto corto pendeva dall’inguine di Mantra. Sebbene la gormita non avesse seguito i suoi compagni fino alla fine, era stata informata degli esiti, anzi, si era voluta informare, poiché aveva a cuore la salute dei suoi amici.
Arrivò a Iustinsula dunque un’ennesima barca, piuttosto piccola in confronto alle altre, decorata e dipinta alla bell’e meglio. Ne saltò fuori Lavion Magmadoni, vestito proprio di nulla. Aveva però dipinto la sua chela d’oro e d’argento e rame. L’invito alla riunione era stato infatti spedito anche al Vulcano, ma il Vecchio Saggio e gli altri si aspettavano di ricevere sia Magmion che Lavion.
Ora che tutti i Signori mystica sono presenti, posso raccontare che cosa ne è dell’evoluzione mystica: esattamente così come era apparsa, all’improvviso e senza spiegazione, allo stesso modo se ne scompariva, portando via con sé gli effetti, visibili e non, che aveva recato ai gormiti. La scomparsa non era però legata ad alcuna pioggia di stelle, a nessuna polvere –o fumo? - viola, susseguiti a quelli iniziali.
Già da diverso tempo, i corpi irrobustiti e sfumanti in colori più cupi, brillanti e insoliti avevano cominciato ad andare a ritroso. La robustezza se ne sbiadiva, e i colori sfumavano fino a ritornare ad essere quelli precedenti. Le abilità migliorate fisiche e mentali regredivano fino ai livelli originali.
Non si davano alcuna spiegazione riguardo a ciò: forse l’evoluzione mystica era una metamorfosi temporanea. Tanto meglio: con nessun potere avanzato, nessuno avrebbe più creduto di essere così forte da soggiogare la mente di qualche altra bestia gigantesca.
Tornando a Iustinsula, Lavion salutò stretto gli altri Signori, diede loro qualche scarsa parola, poi s’ammutolì, appoggiandosi al muro infestato dall’edera.
La sua mutezza gli fu presto privata, quando Mantra gli si avvicinò strisciando la coda, decisa a parlargli.
“I miei saluti, Signore.” lo salutò abbozzando un inchino Mantra.
“Salve…” rispose Lavion stupito, guardandola storto, rimanendo immobile contro il muro.
“Volevo parlarvi, farvi delle domande. E’ possibile?” chiese molto cortesemente Mantra.
Lavion era davvero sorpreso. Un gormita, un ‘nemico’ che gli si rivolgeva con quel tono, con quelle intenzioni. Era tutta una mostruosa bufala o una verità davvero sconvolgente e insolita.
“Sì.” decise di crederle Lavion, staccandosi dalla pietra, e mettendosi a braccia conserte di fronte a Mantra.
“Grazie. Ecco, dunque…voi avete…indovinato? O vi è stato detto? Se potete dirmelo, ascolterò, in caso contrario, non insisto. Insomma, siete uscito fuori con questo incantesimo e con una reazione a catena che avrebbe ed ha sconfitto la Grande Murena. Perché scegliere di riunire gli altri Signori e far fare a loro il lavoro? Non potevate ordinare a dei vostri sottoposti di farlo, così il merito e la gloria era tutto vostro?? Sapevate forse che la maledizione della vostra guida era stata cancellata?”
“Noi non sapevamo nulla della maledizione, innanzitutto. - chiarì Lavion, che già vedeva sé, Magmion e tutti gli altri venire ingiustamente incolpati per ciò che aveva colpito i Signori - E poi, su, tutti, anche noi, volevamo finire la guerra, in un modo o nell’altro. Volevamo…volevo che la lotta finisse con i Popoli di nuovo in pace…anche il mio.”
Esitò, e osservò turbato Mantra, che lo osservava con uno sguardo in bilico tra sincera sorpresa e incertezza, ricordando che nessuno fuori dalla Valle del Vulcano sapeva del conflitto avuto tra i due Signori. Chissà cosa pensava Mantra di quelle parole, che idee, probabilmente sbagliate, si stava facendo sul conto di Lavion. Ignorò questi dubbi, e continuò col discorso premeditato.
“E’ stato molto meglio così. Soprattutto per Poivrons: ha avuto l’opportunità di rimediare al suo errore, eh.”
“Molto bene. Grazie per il vostro tempo e per le vostre parole.” si ritirò la marina, inclinando il capo.
“Avete agito in modo esemplare. Ciò mi fa pensare che non tutti quelli come voi siano uguali, o come ce li eravamo sempre immaginati.”
Lavion era lusingato, suo malgrado, da quelle confessioni.
“Questo non toglie - e lo sguardo di Mantra da sereno e quasi gioioso si fece più cupo - che il nostro odio per voi sia ancora vivo. Avete fatto cose terribili, che non potranno venire dimenticate. Accettate, forse, ma mai dimenticate. La pace tra le nostre, come dire, fazioni è ancora lontana.”
Lavion, da lusingato e a suo modo contento di come la marina era giunta di suo desiderio a parlare con lui, divenne serio e severo, e il suo volto e il suo tono si fecero i soliti, infranti tutti i sogni che il dialogo iniziale con Mantra aveva scaturito.
“Certo, certo…le nostre azioni. Puah. - disse stizzito Lavion - Nemmeno quel totano di Poivrons verrà dimenticato. Chi si credeva di essere? Chi vi credete di essere? Il Popolo del Mare avrà un posto speciale nei nostri progetti, stanne certa.”
Si fermo lì, temendo che ulteriori diffamazioni avessero attirato l’attenzione degli altri gormiti e che le repliche di Mantra lo avrebbero potuto alterare, e allora cosa poteva mettersi male. Oltretutto su Iustinsula, territorio definito ufficialmente neutrale da lui stesso.
Per fortuna arrivarono Noctis e il figlio Livaz a terminare il dialogo e l’imminente battibecco tra Lavion e Mantra.
Come ci si poteva aspettare, sia il Signore dell’Aria che Aquila Solitaria – a dirla tutta, da lui, sempre lontano dalla comunità, fu un po’ insolito - erano vestiti con sfarzo, eleganza e soprattutto con grandi quantità di indumenti.
Noctis, viste le sue ali, non indossava nulla sul torso, eccezion fatta per un corto mantellino grigio lucente bordato di blu, con ricche decorazioni astratte. Indossava un gonnellino, degli stivali e dei guanti completi di stessi colori e fattura.
Livaz poteva invece permettersi degli abiti sul petto – per i gormiti dotati di quel tipo di ali sugli abiti venivano scucite fessure in cui le ali potessero infilarsi ed essere usate normalmente - , nel suo caso una camicetta senza maniche bruna piuttosto blanda, degli stivali a punta neri e dei guanti senza dita blu notte.
La riunione poteva quindi cominciare. I Signori, dopo essersi tutti salutati per bene e scambiati qualche parola, camminarono insieme ai loro accompagnatori e al Vecchio Saggio.
Non entrarono nella Rocca, immettendosi nella stessa sala in cui i Signori di Terra e Foresta si erano incontrati. Bensì fecero il semiperimetro della modesta fortezza, giungendo presso una costruzione all’aperto, annessa alla rocca ma il cui passaggio interno era inagibili. Era una sorta di piccola arena, oppure un palco con pochi posti a sedere per rappresentazioni teatrali di breve durata e con scarsi attori. Come tutto il resto, era devastata dall’insorgere della ricca e selvaggia vegetazione, e all’occasione presentava grandi gruppi di insetti. Nulla che i Signori e le loro compagnie non potessero sopportare.
Tutti si scelsero dei posti – in piedi - Tasarau, Gheos e Poivrons da una parte, Lavion e Noctis – a una certa distanza l’uno dagli altri - dall’altra. Il Vecchio Saggio sedette in mezzo all’ ‘arena’, per vedere che tutti si comportassero com’era lecito, e per scoprire a che compromesso sarebbero giunti. Non avrebbe preso parte attiva nelle loro decisioni.
“Il nostro tempo sta per scadere. - iniziò drammatico Tasarau - Abbiamo agito in maniera…sregolata, durante la nostra carica. Abbiamo fatto anche cose giuste, ed è forse per questo che i nostri sudditi non ci hanno ancora spodestato. Con queste parole mi riferisco a noi quattro” disse poi, volgendo il capo a Lavion. Questi annuì, incitandolo a proseguire.
“Le nostre azioni non erano frutto della nostra volontà, tutti ne sono al corrente. Tuttavia ciò non sembra bastare ai gormiti per mettersi il cuore in pace. Prima di cedere il nostro comando, i nostri Popoli si aspettano che noi troviamo una soluzione per questo problema, una soluzione che soddisfi tutti.”
“E’ difficile trovare una soluzione soddisfacente per tutti. - proruppe Gheos, gettando un’occhiataccia a Lavion - Sebbene i nostri sudditi lo ignorano, noi non possiamo dimenticare come il Popolo del Vulcano ci ha giocato. Esso dovrà rispondere della maledizione che ci ha inflitto.”
“Come ho già detto alla qui presente accompagnatrice di Poivrons - si difese il Signore della Lava, mantenendo un tono calmo e usando un lessico curato - il Popolo del Vulcano non era al corrente della fattura scagliata dallo Stregone di Fuoco. Sarà lui a dover rispondere di essa a voi, e dovrà risponderne anche a noi.”
Il Vecchio Saggio percosse sonoramente il suolo di pietra con il bordone di legno.
“Signori, discutere della maledizione di Magor non è all’ordine del giorno.” li avvisò, per non parlare più.
“Vero. E allora, cosa facciamo? - interloquì Noctis allargando le braccia - I nostri gormiti ormai non ci hanno di buon occhio e dobbiamo trovare qualcosa di adeguato, e in fretta, oh sì.”
“Io e Tasarau - riprese Gheos - ci siamo accordati per far sì che colui che governerà Gorm abbia solo un ruolo simbolico e spirituale.”
“Non sono d’accordo.” obiettò Lavion alzando la chela.
“Come previsto.” sospirò Gheos.
“Voglio dire, il mio Popolo non è d’accordo. Magor non è d’accordo. - Si sentì un po’ in imbarazzo, l’unico contrario - A dirla tutta - aggiunse con una scrollata di spalle - La mia presenza qui non aiuta, e non vi assicura nulla. Qualsiasi cosa decidiate, non è detto che Magor e il Vulcano la accettino, o la considerino. Sono qui solo perché mi avete invitato…per farvi un favore, potrei dire.”
“Anche se il Vulcano non sarà d’accordo, non può opporsi alla maggioranza. - disse Noctis - E se ci vorrà dare guerra, è libero di correre il rischio.”
“Tutte queste divagazioni non ci aiutano. - si inserì per la prima volta Poivrons - Dobbiamo trovare una soluzione. Sono anch’io d’accordo con l’idea di una figura simbolica, tuttavia non possiamo sapere che questa figura sia d’accordo, dal momento che non sarà nessuno di noi a contendersi il titolo…abbiamo fatto fin troppo, noi.” e chinò il capo, con un sospiro.
“E se venissimo rieletti?” ipotizzò Noctis, sebbene anche lui non ci credesse veramente.
“Dubito che esista un gormita su quest’isola che ci voglia vedere di nuovo al trono.” confutò Tasarau scuotendo il capo, convinto.
“Comunque, non possiamo nemmeno decidere il Popolo sovrano a tavolino. - li avvertì Noctis - I gormiti non lo accetterebbero mai.”
“Bisogna che il nuovo sovrano sappia dimostrare il suo valore… - rifletté Gheos - Ma come? Ahimè, in pochi danno il giusto valore all’oratoria e alla conoscenza, e non sono sicuro che suggerire loro della lotta sia una buona idea.”
“Ora che la discussione si è spostata fin qui, credo di potervi proporre una soluzione. - asserì Tasarau, fattosi più grosso dalla convinzione e dalla verità che aveva scoperto - Le profezie, amici miei, esse hanno la risposta.”
“Parli bene, tu. - lo accusò velatamente Poivrons - Hai avuto Patmut Iun tutta per te per due anni.”
“Suvvia, Poivrons - lo calmò Noctis - Non hai più motivo di essere arrabbiato con lui.”
“Sì, hai ragione. - sospirò il Signore del Mare, passandosi una mano sul volto per la vergogna. Dopo ciò che aveva fatto, ancora esigeva! - Scusami, Tasarau.”
“Non preoccuparti, è tutto a posto.” lo rassicurò sorridente.
“Ad ogni, modo ecco ciò che ho scoperto. Secoli fa, quando scoppiò la prima guerra di Gorm, i Signori si erano riuniti per un’ultima lotta sulla Piana di Astreg, con i loro sudditi al seguito. La notte di quello scontro, ci fu un eclissi di sole. L’eclissi rivelò chi aveva il diritto di dominare sugli altri, chi era il Principe di Gorm. Tale Principe governò saggiamente l’Isola di Gorm per il resto dei suoi giorni, e quando egli spirò la Signoria ritornò, e tutto procedette come di consueto, solo che l’Isola fu di nuovo divisa, ma non più in conflitto.”
Gli altri non furono molto convinti. Quella profezia, studiata da Dachiel il giorno della presa di Patmut Iun, era vaga, confusa…come era stato scelto il Principe di Gorm?
“Di che Popolo era il Principe?” domandò Noctis, curioso.
“Non te lo so dire, Noctis. - rispose Tasarau facendo di no con la testa - La profezia è antica, e confusa. Ma ciò che vi ho detto è sicuro. E’ stato controllato e ricontrollate: le parole sono queste. So che è tutto molto vago, ma gli astronomi di Patmut Iun hanno previsto una eclissi di sole a breve, il 98 Greemeralse 854. Possiamo sfruttare questa profezia, e indire un torneo su Astreg, in cui i nuovi Signori si combatteranno e il vincitore supremo diverrà Principe di Gorm, rivelato dall’eclissi.”
“Ancora lotta? I gormiti non ne hanno abbastanza?” gli fece notare.
“Forse. - rispose Poivrons - Però devi tener conto anche di questo: tolto il giorno di Valladoin, il Torneo di Astreg è rimasto uno dei pochi giorni di svago, poiché non è solo uno scontro tra gormiti, ma una festa. Per due anni i gormiti sono rimasti senza, e anche se questa sfida sarà diversa, credo che la apprezzeranno.”
“Siete tutti d’accordo, allora? E’ deciso?” chiese conferma il Signore della Foresta.
“Io ci sto, sembra…bello.” concordò Noctis, allettato.
“E’ l’idea migliore, oltre che l’unica sensata che abbiamo pensato.” condivise Poivrons.
“Quindi, bandiremo questo torneo speciale in cui si contenderanno il titolo di Principe di Gorm i nuovi Signori. Regole e data precisa le stabiliremo quando i Consigli approveranno. Fino al giorno delle elezioni, approfitteremo del tempo che ci è rimasto per fare del bene.” fissò a nome di tutti Gheos, battendo il proprio martello sulla mano, risoluto.
“Un momento…e il Vulcano? - fece loro notare Noctis - Ha due Signori. Disporrà quindi di due campioni? Lavion, che dici?”
“Non dico nulla. - reiterò il Signore vulcanico franco, con una scrollata di spalle - Tornerò a Vulcano, e cercherò di informare Magor e il Consiglio della vostra decisione, ma non posso promettervi altro.”
 
La decisione della giunta dei Signori fu accolta pienamente da tutti i Consigli di Gorm. I Consigli dei Popoli di Foresta, Aria, Mare e Terra non indugiarono ad accettare l’idea di questo nuovo torneo: desideravano solo che i Popoli, infiammati dalle promesse dei Signori, smettessero di dibattere e di esigere. Davvero a nulla serviva dire loro che la colpa di tutto ciò che era successo non era da affibbiare ai Signori in carica, e loro per primi smisero di perdonarsi l’un l’altro, comprendendo che non era di alcuna utilità e quasi completamente senza senso.
Non c’era niente da fare: i gormiti non ascoltavano, volevano ciò che era stato loro garantito.
Ovviamente non tutti i popolani erano così decisi a farla finita e ad incoronare il proprio Popolo come sovrano assoluto di Gorm. Erano meno della metà per ogni Popolo che esigevano la vittoria totale, ma si agitavano e urlavano le loro idee così violentemente da sembrare effettivamente interi Popoli.
Questo nuovo tipo di torneo indetto dai Signori e dai Consigli dei Saggi non fu discusso, e fu anzi abbastanza gradito. Tasarau aveva ragione: il torneo era una delle celebrazioni più apprezzate da tutti i gormiti, e d’altra parte non era solo una competizione per la gloria, non tutti potevano qualificarsi d’altronde, ma anche un modo per stare insieme, spalla a spalla con gormiti degli altri Popoli. E inoltre, dopo il torneo e tra una sfida e l’altra, si tenevano grandi banchetti.
Il nuovo torneo, seppur strutturato diversamente e decisamente di durata più breve, sarebbe ugualmente apprezzato.
I neo - eletti Signori avrebbero dato prova del loro valore in un torneo a eliminazione diretta, in cui i primi due sfidanti sarebbero stati sorteggiati, e il resto sarebbe venuto da sé. Una procedura particolare si sarebbe tenuta per il campione del Vulcano, mai lo stesso, scambiato tra i due Signori di sfida in sfida, che si sarebbe scontrato col perdente del primo scontro, il perdente del secondo, il perdente della ‘finale’ e infine col vincitore…se naturalmente avesse vinto il primo round. A turno, tutti i campioni dei Popoli del Vecchio Saggio si sarebbero scontrati con uno dei Signori del Vulcano.
Un metodo decisamente non paritario, molto svantaggioso per la gente di Magor, ma fu il criterio migliore che i Saggi e i Signori riuniti potessero pensare, e il più giusto per gli orrori commessi dal Popolo del Vulcano.
Come previsto, nessuna voce, nessuna risposta o assenso giunse dal Vulcano. I preparativi per il torneo, tuttavia, procedettero ugualmente. Non avrebbero aspettato i comodi del Vulcano.
Il giorno delle elezioni si avvicinava e tutti i gormiti sembravano ansiosi di liberarsi di Gheos, Poivrons, Tasarau e Noctis. Al mantenimento delle promesse si aggiungeva un’apparente voglia di cambiare aria, di lasciarsi i Signori ancora per poco in carica alle spalle, che avevano fatto del bene ma anche del male, e passare avanti. Se la maledizione si fosse ripetuta, i gormiti non avrebbero esitato a scacciare i nuovi Signori e ad ignorare ogni loro supplica, ogni loro promessa, per evitare di ritrovarsi come erano allora.
Si respirava quindi un vento di cambiamento: nuovi valorosi gormiti emergevano tra gli altri, esponendo le loro idee, i loro progetti, distinguendosi dalla massa e accogliendo numerosi seguiti.
Nuovi gormiti, temprati dalla battaglia –le doti oratorie e dell’intelletto passarono in secondo piano, vista la natura della scelta del Principe di Gorm - , gormiti giovani e pieni di energia e passione, ma anche anziani, esperti ed eruditi in numerosi campi della lotta e del sapere.
I Saggi, apertosi l’anno 854, cominciarono dunque a percorrere in lungo e in largo i territori del proprio Popolo, partecipando alle orazioni dei candidati, raccogliendo gli apprezzamenti e le critiche dei popolani.

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Capitolo 22
*** Capitolo 9.2 ***


“E vi assicuro, miei fratelli e sorelle, che nessun gormita sotto di me sarà uno smidollato.” prometteva il terricolo a quattro braccia, sul suo ripiano, puntando tutti i suoi indici alla folla raggruppata davanti a sé, in attento e soddisfatto ascolto.
“Ogni scuola, di qualsiasi grado e specializzazione, avrà un insegnamento della lotta e dell’allenamento fisico all’avanguardia. Nessuno sarà lasciato indietro, e qui mi riferisco a chi trova difficoltoso tenersi in forma: per voi, i maestri procederanno con un insegnamento specializzato e semplificato, per aiutarvi a fortificare il corpo partendo dalle basi fino ad arrivare al limite. Perché nessuno, sotto Kolossus Drimari, sia sottovalutato per la sua minor forza. E sotto Kolossus Drimari, nemmeno la magia e l’intelletto mancheranno. Troppo a lungo il Popolo dell’Aria e il Popolo della Foresta ci hanno criticato la poca conoscenza magica. Sotto di me, la magia non sarà più dimenticata in un angolo. Eleggetemi, e sotto di me, nulla di questo mancherà! Per il progresso, Kolossus Drimari!”
La folla, maggior parte della folla, scoppiò in una fragorosa ovazione, ricca di grida e applausi e cori che intonavano ‘Ko - los - sus! Ko - los - sus!’.
Tale Kolossus era un gormita della Terra dalla pelle ocra e con diverse placche ossee di svariate gradazioni di grigio. Possedeva quattro braccia gigantesche, più grandi di quelle di Tasarau, puntellate da schegge color fumo sugli avambracci, una stazza decisamente smisurata. Il suo corpo, come già detto, era ricoperto da diverse placche, cresciute qui e là non a caso, vista la fila ordinata di placche che gli percorreva la colonna vertebrale. Sulle gambe la situazione non era diversa. I suoi piedi erano dei grossi zoccoli caprini. Caratteristica importante, oltre alle braccia, erano le due placche sugli occhi, che lo rendevano cieco dalla nascita, motivo per cui fu soprannominato sin da quando sviluppò i suoi massicci muscoli ‘il gigante cieco’. L'assenza di vista non gli era un problema: gli altri suoi sensi erano finissimi così come la forza della sua mente, seconda solo a quella dei muscoli.
Appagato dalla reazione della folla e terminato il suo discorso, Kolossus tornò un po’ più se stesso e, da terricolo qualunque, prese a sfoggiare i suoi muscoli, tendendo i bicipiti e mettendosi in pose per qualcuno imbarazzanti. L’ovazione continuava.
“Voglio sperare che tu non mostri solo i muscoli per diventare Signore!” giunse una voce, esterna alla folla, alle orecchie di Kolossus.
Il terricolo la riconobbe subito e, smesso di pavoneggiarsi davanti al pubblico, si volse verso l’origine della voce, sorridendo.
“Dedalo! Sapevo non saresti mancato!”
Anche lui era, in un certo senso, cieco. Ma non per nascita: viveva sempre al buio dei cunicoli scavati da lui stesso, e usciva poco alla luce del sole, tanto che vedeva benissimo di notte ma era quasi accecato di fronte alla luce. All'apparenza era un grosso insetto giallo dall'esoscheletro di vari grigi e marroni, con due tenaglie laterali come bocca, quattro braccia - molto piccole rispetto a Kolossus - che terminavano in artigli scavatori e piccole antenne sulla testa e sulle spalle.
Il gigante cieco diede un’ultima attenzione alla folla prima di abbandonare il suo piedistallo, affermando ‘Un vero Signore non dimentica le amicizie.’
Ciò detto, scese e procedette con l’inchino d’onore, imitato dallo stesso Dedalo.
“Come mancare all’elezione del mio caro amico tutto muscoli.” rise l’amico di Kolossus.
Questi, alzatosi dall’inchino, abbandonò ogni reverenza e corse incontro all’amico, abbracciandolo e alzandolo con le braccia superiori.
“Ehi, mettimi giù!” disse tra una risata e l’altra Dedalo, prima di essere finalmente posto a terra.
Il lavoro di Dedalo come scavatore e operaio gli lasciava poco spazio da dedicare al tempo libero e alle amicizie: Gheos aveva cominciato un’operazione di chiusura, o di riparazione, di alcuni delle decine di tunnel scavati durante la Grande Guerra, e chiunque con abilità naturali ed esperienza nello scavo era spronato a partecipare. Oltre ad entrambe queste cose, Dedalo possedeva anche un certo diletto: quel suo lavoro gli piaceva.
I due cominciarono una lunga chiacchierata, in vista dell’imminente arrivo nella capitale di Gheos e dei Saggi, che avrebbero finalmente scelto il nuovo Signore. Ma i discorsi dei due amici terricoli, pur partendo da tale evento, cominciarono presto a divagare e i due si ritrovarono a discorrere di argomenti molto più banali.
“Sai, dovresti uscire più spesso. - criticò Kolossus - Avresti più amicizie, e non solo quel tipo...come si chiama? Talps?”
“Sì, è Talps. - confermò Dedalo, sebbene contrariato dalle critiche del suo amico - Non è poi un tipo così strano come credi tu…è simpatico. E non dimenticare che è un eroe di guerra: con i tunnel scavati da lui è stata sventata una razzia del Vulcano!”
“Però credo che dovresti stare un po’ più…all’aperto. - gli ripeté con parole diverse Kolossus, facendo spallucce, mentre sul piedistallo saliva un altro terricolo, un altro candidato - Non ti fa bene stare sempre all’umido e al buio…”
“E’ vero, ma che ci posso fare? - sospirò Dedalo - I lavori sono lunghi…e poi mi diverto, e già lo sai.”
Rimase un attimo in silenzio, mentre Kolossus ‘guardava’ un po’ irritato l’altro candidato parlare alla folla. Poi Dedalo si ricordò di una cosa e scattò in avanti con la testa. Diede delle leggere gomitate a Kolossus, concentrato sull’altro terricolo. “Ehi, ehi! Ehi! Non ti ho detto che ho incontrato due del Mare, molto bravi a scavare. Una si chiama Tenaglia, ha partecipato al Torneo cinque anni fa, ricordi? L’altro, ehm…ah sì, Helico. Sono davvero simpatici, e bravi.”
“Ormai Gheos e i Saggi dovrebbero arrivare…” mormorò Kolossus, sentendo la tensione salire con l’avvicinarsi del momento fatidico, senza più interesse per ciò che aveva da dirgli Dedalo che, notando le preoccupazioni del suo amico, cambiò discorso.
“Sono sicuro che sceglieranno te, non ti preoccupare. - lo rassicurò Dedalo - Hai ottenuto molti consensi.”
“Lo spero davvero. - sospirò, innervosendosi - Il Popolo della Terra ha bisogno di essere al passo coi tempi nella magia, e nessun altro dei candidarti sembra interessato. Lo spero davvero, lo spero…”
“Hai poco da sperare, Kolossus.” gli rinfacciò l’altro candidato, che scendeva adesso dal piedistallo e aveva per caso udito il discorso di Kolossus con Dedalo.
“Il Popolo della Terra vuole rimanere fedele alle tradizioni, non gli interessa della magia.” gli disse sprezzante e sicuro di sé.
Tale candidato era una figura ben nota a tutti i terricoli, e non solo, e apprezzata da tanti. Gravitus, il consigliere di Gheos, vincitore del Torneo di Astreg. Nessuna traccia sul suo corpo tarchiato e muscoloso dell’evoluzione mystica che lo aveva toccato. In confronto a Kolossus, era leggermente piccolo.
“Te lo ripeto: non hai speranze. - sorrise Gravitus, guardandosi le unghie, convintissimo - Il Consiglio vuole soddisfare il Popolo, e il Popolo vuole vincere questo Torneo. E chi meglio di me, che ha già vinto il Torneo una volta?”
“Ma ti sei visto? - gli rispose per le rime Kolossus - Sei alto come un cucciolo…sono quasi il doppio di te, e molti conoscono bene la mia forza.”
“Dovresti sapere che le piccole dimensioni possono nascondere grande potenza.” gli disse altezzoso Gravitus.
Kolossus scosse la testa, nervoso. Non rispose, evitando di infiammare la discussione e di compromettere così i consensi dei sudditi. Ignorò ogni altra affermazione di Gravitus, e aspettò impaziente l’arrivo dei Saggi e di Gheos.
“Ma che gli è preso? - chiese Dedalo - Non è sempre stato così.”
“Si è montato la testa. - borbottò Kolossus - Da quando Gheos lo ha nominato consigliere. Quando aveva vinto il torneo era ancora normale…”
***
Il gormita falco dal piumaggio grigio azzurro. sfrecciava per i cieli di Picco Aquila. Il suo manto, sul petto e in viso, era candido, arricchito da un collare argentato costellato di diademi di zaffiro.
Le sue ali color dell'acqua si muovevano con movimenti lenti che lo facevano planare leggero, ma attendo, ed elegante.
Sui polsi brillavano altri zaffiri, incastonati in bracciali platinati. Dei lunghi stivali grigi, intarsiati di metallo argentato e gemme color della notte, gli aderivano dalle ginocchia ai piedi. I suoi artigli e il suo becco erano di opaco indaco, gli occhi aquilini di un chiaro pervinca.
Nonostante i suoi movimenti leggiadri e calmi, portava una grande ansia con se, mista a un po' d'imbarazzo per ciò che poteva accadere.
Si guardava attorno con una non ben nascosta frenesia, attento ad ogni movimento sospetto, sbattendo le ali adagio adagio, perché nulla di quello spazio di cielo gli passasse inosservato.
“Elios! - gridò, con una voce nobile nonostante la preoccupazione - Dove sei?”
Dove era sparito Elios? E perché era sparito proprio in quel momento? Non era stata la scelta migliore alzarsi in volo e abbandonare tutti i popolani, senza dare spiegazioni, avvisi, un orario di ritorno.
Avrebbe dovuto aspettarselo. D’altra parte, era abituato a queste uscite folli di suo fratello Elios, anche la sua candidatura, un’iniziativa davvero inaspettata e destinata a non avere esiti molto buoni, non aveva smosso molto il fratello. Ciò che invece lo stupì fu come i popolani apprezzavano le sue idee, e come la sua stessa famiglia lo appoggiasse. Con questo, egli avrebbe dovuto badare ad Elios ed affiancarlo nella propaganda e nella possibile futura signoria, per controllare che si comportasse a dovere e che non prendesse la cosa troppo poco seriamente, come tutti in famiglia temevano.
Una maestosa figura alata gli svolazzò davanti, salendo da sotto, travolgendo il gormita falco e facendogli perdere l’equilibrio per un momento. Questi si voltò ridendo, contento di aver colto di sorpresa il suo compopolano.
Era un capolavoro di gormita: un rapace elegante ed imponente.
Il suo piumaggio erano le cupe e azzurrine nuvole portatrici di tempeste, di un grigio azzurro soffice che copriva dei possenti ma moderati muscoli; qua e là le piume si facevano più spesse, grosse e tendevano a diventare una dolce ma buia notte estiva. I suoi artigli e il suo becco erano sottili, lunghi, e decisi; erano saette fulminee e taglienti, erano dei tuoni blu pavone squarcianti ma silenziosi.
I suoi occhi erano il luminoso cielo dell'alba, e a contornare il tutto delle ali e un manto candidi e avvolgenti e magnifiche come il sole nel suo massimo splendore. Non indossava alcun tipo di indumento o di gioiello, cosa davvero insolito per i raffinati e dedicati all’aspetto gormiti dell’Aria. Non vi era motivo di altro: le sue forme erano già belle e raffinate da sé, senza bisogno di sfarzosi vestiti o di ricche monili.
“Elios!” esclamò suo fratello, in preda all'ansia, con una chiara nota di rimprovero.
“Calmati Falcosilente!!” gli suggerì Elios, notando la preoccupazione nel suo tono. La voce gracchiante e stridula erano in netto contrasto con il magnifico aspetto di Elios.
“Sì, mi calmo. - acconsentì Falcosilente - Ma dovresti essere più responsabile.”
Ora era rigido e serio, e non più affrettato e ansioso: “Sai che Noctis arriverà ad Orsol tra poco, no?”
“Ovviam - ” L'euforica e innocente risposta di Elios fu stroncata da un severo Falcosilente.
“E allora non dovresti stare qui a svolazzare! Che figura farai - e farai fare alla nostra famiglia - se vieni eletto Signore e non sei nemmeno presente?”
“Va bene, va bene, fratellino!” rispose Elios, un po' stizzito. Ma poi rise, e prese il volo.
Falcosilente, appena resosi conto che suo fratello non era più davanti a lui ma già qualche dozzina di piedi più in là, lo seguì a tutta forza.
Elios era un maestro nel volo: elegante e velocissimo; più volte gli fu chiesto di insegnare il suo metodo, ma c’era poco da insegnare: il segreto erano le sue maestose ali. Oltretutto l'insegnamento non era il suo forte, e Falcosilente lo sapeva bene.
Lui lo conosceva meglio di chiunque altro. Nonostante suo fratello maggiore, Elios aveva sempre dimostrato una certa irresponsabilità nelle sue azioni, ciò nonostante, qualsiasi cosa si mettesse in testa di fare, l'avrebbe portata a compimento, costi quel che costi.
“Poi mi devi spiegare che diamine ti è saltato in testa.” gli impose severo Falcosilente, una volta raggiuntolo.
Elios rise, e piombò giù in picchiata. Tra le nuvole e la foschia, diradate, spuntò dunque la piazza della città di Orsol, capitale di Picco Aquila. Era zeppa di gormiti aerei e, cosa davvero insolita per loro, confabulavano caoticamente, ansiosi che Noctis e i Saggi uscissero dal corridoio della sede signorile per dare il loro responso.
Elios e Falcosilente atterrarono in un punto libero, dove tutti i candidati dell’Aria erano riposti in fila e rigidi, come da protocollo. Essi guardarono con leggero disprezzo l’arrivo di Elios. Gli altri gormiti del Popolo dell’Aria, erano in gran parte invece contenti che il giovane gormita fosse di nuovo tra loro: non si levava nessun rimprovero per l’aver abbandonato la piazza immediatamente dopo il suo discorso. Se vi erano critiche, erano silenziose, o gli aerei se le tenevano per sé.
Un gormita gli si avvicinò. Era all’apparenza una libellula umanoide, da un corpo ben compatto, due arti superiori e due inferiori, bianco, con parti più scure di grigio e blu scuro, e da due paia di lucenti ali da insetto sul dorso. Il suo capo era ricoperto di antenne, e attorno alla sua bocca, ‘normale’, vi erano numerose corte escrescenze ossee. I suoi occhi erano grandi e neri.
“Elios!” lo salutò avvicinandosi, sbattendosi le mani a vicenda, prima sui palmi, poi sui dorsi, facendo quindi curiosi giochi con le dita e infine stringendole.
“Dragon.” ricambiò Elios con un sorriso.
“Temevamo che non saresti tornato!” ammise Dragon, ma sul suo viso nessuna traccia del timore appena confessato.
“Non preoccupatevi, volevo solo sgranchirmi un po’.” spiegò, e poi diede uno sguardo misto tra lo sprezzante e il compassionevole agli altri candidati. Erano tutti bardati dei più ricchi e costosi vestiti e gioielli che si potessero permettere: al giorno dell’elezione, volevano apparire nel massimo possibile della loro bellezza. Elios era l’unico spoglio.
“E non volevo stare insieme a questi qui più del necessario. Guardateli: sono tutti dei vecchi tronchi, addobbati come Alberi di Valladoin, che sanno solo di magia…e-e le loro ali non li portano a più di dieci piedi d’altezza. Ma al Torneo non possono usare magia…e senza di quella, sono fritti di sicuro!”
Falcosilente diede una tozza sul braccio di Elios. “Un po’ di rispetto! - lo ammonì - Sono venerabili maestri, e potrebbero sapere e fare più di quanto credi.”
Elios non rispose. Non perché non avesse da dire, ma perché la sua attenzione si spostò altrove: la figura di Noctis, accompagnata da tre membri del Consiglio, faceva ora capolino dalla porta appena aperta del corridoio, tra le due sculture del simbolo dell’Aria.
“Ecco, ecco. Sta per dire il nome!”
***
Al buio delle fronde della Foresta Silente, avide della luce del sole, tra i suoi tronchi vecchi e giovani, ce n'era uno che si muoveva. Correva, correva...forse con lo stesso motivo di Falcosilente che sfrecciava in cerca di Elios...ed era così.
Era un gormita alquanto bizzarro: il suo corpo era un tronco marrone, alla cui estremità spuntava una faccia con occhi, naso e bocca munita di molti dentini legnosi. La punta della testa sembrava una cavità, nella quale chissà cosa entrava, e chissà cosa ne usciva. Ai suoi lati spuntavano i suoi arti, delle lunghe membrane di cellulosa verde, molto sottili, ma forti. Gli stinchi erano coperti da delle placche di legno massiccio.
Le elezioni per il Popolo della Foresta si stavano avvicinando e il suo amico, il suo compare da una vita, sembrava essersi assentato. Credeva di poter comprendere perché, ma non era la soluzione migliore: ormai si era candidato, e c’erano molti che credevano nei suoi progetti.
Si fermò poi in un'area in cui l'erba era stata tagliata, così come alcuni alberi lì intorno, creano una specie di stanza circolare. La luce era molto forte, mentre attorno le foglie la catturavano e la tenevano per sé, preziosa fonte di calore ed energia.
Nel centro, una massiccia figura gormitica marrone sedeva in meditazione.
“Barbataus.” disse con un po' di preoccupazione nel svegliarlo il gormita.
Gli occhi si aprirono all'improvviso. Dei profondi occhi verde limone luminosi scrutarono il viso del forestale, degli occhi che presiedevano a una grande saggezza, ma anche a una grande insicurezza.
Prima che il gormita potesse parlare, Barbataus si alzò, in tutta la sua grandezza e massa. Tutto il suo corpo, anziano ma forte, era di un forte marrone, una scorza dura quasi come una corazza.
Una corona di legno dentellata gli ricopriva il capo, e liane verde oliva scuro e pistacchio i gli scorrevano lungo tutto il corpo, creando curiosi disegni sulla sua pelle bruna.
Nel braccio sinistro le liane che gli correvano dalla spalla in già si ingrossavano e si ammucchiavano, unendosi a tentacoli grigi originati dal braccio stesso, dando origine a una lunga e pesante treccia multicolore di liane, una potente frusta.
Sua caratteristica principale era, tuttavia la sua lunga barba nocciola scuro, una caratteristica che condivideva con pochissimi altri, almeno per quanto riguardo la branca vegetale dei gormiti.
“Non ne sono sicuro, Troncannone. - proferì il gormita - Non ne sono mai stato sicuro”
“Barbataus... - Troncannone gli posò una mano sulla spalla - Non puoi tirarti indietro…non adesso! Io conto su di te, tanti altri contano su di te. I tuoi piani, le tue idee…sono le migliori che abbia sentito quest’ultimo mese. Dov’è finito il Barbataus determinatissimo che si è candidato?”
“Non lo so…forse non c’è mai stato. - sospirò, una voce saggia e anziana - Ho esposto le mie idee troppo presto…prima che fosse tempo di elezioni. I Saggi dovrebbero escludermi. No, non avevo pensato che…che avrei dovuto combattere.”
“Ma il Consiglio ha avvisato tutti per tempo del Torneo!” gli rammentò Troncannone
“Ma io ero già avanti. Ero troppo…deciso, troppo convinto. Se diventassi Signore, il Popolo della Foresta non vincerà il Torneo. E’ poco ma sicuro.”
“Senti, Barbataus.” parlò Troncannone, chiudendo gli occhi, concentrato, posando entrambe le mani sulle spalle del suo amico. Aprì gli occhi, fissando Barbataus in quelle pupille cupe, porte di una profonda saggezza.
“Non è importante che tu vinca il Torneo. Davvero. - confessò Troncannone - Non ci interessa dominare Gorm. Per Asili, ad alcuni sì, ma vedrai che si adatteranno ad essere dei ‘subordinati’. No, quello che conta davvero per tutti noi, per il vero Popolo della Foresta, è il benessere della Foresta Silente. E tu sei quello che lo porterai, che lo manterrai. Non puoi tirarti indietro.”
Barbataus annuì semplicemente. Forse era solo svogliato, o era il peso degli anni che lo preoccupava e temeva che, oltre ad aver fatto una figuraccia sull’arena, ci sarebbe pure uscito pieno di botte. Le parole di Troncannone lo rassicurarono sufficientemente perché si decidesse a mettersi in cammino per l’entrata del Rifugio della Rugiada e affrontare la sorte. C’era ancora la speranza che Tasarau e i Saggi scegliessero qualcun altro, e che Barbataus fosse sollevato da ogni onere.
“Andiamo! - lo incitò Troncannone, cominciando a correre - Noi siamo con te, saremo con te, e ti aiuteremo, non ti abbandoneremo.”
***
“Grazie per essere passato, Carrapax. - gli sorrise il gormita granchio, dall’altra parte della bancarella - Buona fortuna con le elezioni.”
“Di niente, Grankios. Buona fortuna a te con il lavoro.” gli ritornò l’altro gormita, passandogli un grosso pacco sul tavolo “Spero di poterti aiutare di più, quando sarò di ritorno”
“Hai già fatto tanto, Carrapax. Non aiutare solo noi, c’è tanta altra gente che ha bisogno di qualche cosa in più. Ora è meglio che vai.”
“Sì, hai ragione. - dovette concordare Carrapax, passandosi la chela dietro la nuca - Alla prossima, zio.”
Il gormita granchio, esile, dalla pelle blu verdastra, ricoperto di corazza oltremare e con piccole chele al posto delle mani salutò Carrapax, aprendo il pacco di telo e riordinando gli oggetti sulla sua bancarella, mentre l’altro gormita se ne andava a passo svelto, per il suolo a volte sabbioso, a volte di rude terra, a volte erboso.
Era un grande crostaceo, sostanzialmente. La sua carne era di un blu chiaro e intenso, un blu tipico del mare più vicino alla costa. Sul suo torso si stagliava una raffinata corazza lucente come il diamante, fabbricata con le conchiglie più lisce, più dure.
Sulle braccia vi si trovavano due immani chele, dello stesso colore di altre parti della sua armatura, come le spalliere e le placche che ricoprivano la parte inferiore delle gambe, terminanti in grossi piedi e quattro piccoli tentacoli: un verde mare scurissimo, come alghe cresciute nelle profondità degli abissi oceanici che per troppo tempo erano rimaste nell'ignoranza della luce del sole. Le parti verdi del suo carapace erano costellate da grumi blu molto scuri. La sua testa era piatta, con occhi laterali cupi ma attenti e una bocca da calamaro, con corti tentacoli.
La città marina nell’entroterra della Foresta Silente. Il Bazaar, centro mercantile di fondazione del Popolo del Mare, ma dove si riunivano gormiti di più popoli, specie, oltre ai marini ovviamente, di Terra e di Foresta.
Era una città variopinta e gioiosa, ricca. Le case erano molto simili a quelle di Roscamar e della Città Sotterranea, solo che ve n’erano molte a parallelepipedo piuttosto che emisferiche, e molte si prolungavano in altezza.
Era un agglomerato di mercati, bancarelle, il più grande di tutta Gorm, dove si poteva scambiare di tutto, oggetti e viveri provenienti da ogni angolo di Gorm, anche dalla Valle del Vulcano, trafugati da coraggiosi viandanti o rubati ai vulcanici morti durante la Grande Guerra.
Carrapax, candidatosi come Signore del Mare, vi era giunto per fare visita allo zio naturale Grankios, proprietario di numerose bancarelle e uno dei numeri uno nel commercio di trefoliea fuori dal Mare di Gorm, per dargli una mano e, in generale, per fare quattro chiacchiere. Non lo visitava molto spesso, nonostante lo avesse accudito per diversi anni quando i suoi genitori morirono, e, nel caso fosse stato eletto Signore, avrebbe avuto ancora meno tempo da dedicare al suo familiare.
Avrebbe fatto meglio ad affrettarsi, o sarebbe stato assente nel momento della sentenza di Poivrons e del Consiglio.
Procedette dritto verso sud, percorrendo l’intera parte di Dalarlànd che lo separava dal Mare. Ci ripensò immediatamente, ritenendo fosse meglio tuffarsi nello Stretto di Gorm e raggiungere Poivronopoli a nuoto.
Ebbene sì, dopo cinque anni dalla salita al potere di Poivrons, tre dei quali impegnati nella guerra, la maestosa Poivronopoli era stata infine completata. La grande, la prima città subacquea, nuova capitale del Popolo del Mare, costruita attorno alla Torre del Kraken, sede secolare del Signore del Mare. Il progetto originale la prevedeva adatta sia a gormiti marini che respiravano in acqua che a tutti gli altri gormiti, ma la magia, l’energia e la fatica che costava portare avanti un simile progetto spinsero il Signore del Mare a cambiare immediatamente idea, e a fare della sua città un semplice centro residenziale sottomarino.
Se Poivrons fosse stato dannato per il suo risveglio della Grande Murena, in compenso sarebbe ricordato per la grande opera che portava il suo nome.
Carrapax arrivò dunque, dopo sicuramente non meno di un’ora di nuoto, alternato a trasporto magico, all’entrata di Poivronopoli, sopraelevata su una collina sottomarina.
Una mastodontica porta rivestita di corallo, bordata di metallo argentato. In cima alla porta, una caricatura di una piovra, con gli occhi rossi di rubino: chiaro riferimento a Poivrons, che non si era limitato a darle solo il nome ispirato al proprio.
Una ronda di guardiani corazzati da testa a piedi, armati di alabarde e tridenti, su tre livelli: alla base della porta, a metà, e in cima.
Dall’entrata si prolungavano, a sagoma di ottagono, massicce mura non levigate, grezze e ruvide –ma all’interno non sarà così - , impenetrabili.
In cima, una cupola di dimensioni ciclopiche, blu notte, ricolma di finestre e di griglie in cui far passare l’acqua. Al centro si ergeva una lanterna piena di bassorilievi dei simboli del Popolo del Mare ed episodi della loro storia, raffigurazioni dei Signori del passato. Sopra di questa, una statua di niente meno che Poivrons, con un tridente nella mano sinistra e nella destro uno scudo circolare recante l’insegna del Mare. Quando dominava la bassa marea, chiunque sorvolasse o navigasse il mare poteva imbattersi nell’imponente scultura di Poivrons.
I guardiani lasciarono passare Carrapax, aprendo i battenti della grande porta con un movimento lento e drammatico.
All’interno delle mura, Poivronopoli era una città sicura, pulita, da edifici e pavimento ben lavorati, senza mancare di spazi per le vegetazioni dei fondali e per le colture subacquee.
C’era da dire che Poivrons e i suoi architetti avevano lavorato eccelsamente, specialmente se si considera il tempo e la situazione in cui la città era stata costruita. Non si poteva comunque non ringraziare anche terricoli e aerei che, prima della guerra avevano offerto il proprio aiuto, e dopo la guerra erano stati pagati per completarla.
Ovunque Carrapax passasse, molti suoi compopolani, fossero essi vicino alle proprie case o attraversanti la strada, lo salutavano con reverenza, i più giovani con frasi tipo ‘siamo con te!’, altri addirittura con un inchino, quasi Carrapax fosse già Signore.
Prima di raggiungere la Torre del Kraken, incontrò Murena, madre adottiva di Carrapax.
Carrapax corse ad abbracciarla.
“Presto, Carrapax, non manca molto prima che Poivrons nomini il nuovo Signore..che sarai tu!" disse Murena.
“Murena, non finirò mai di ringraziarti. - constatò Carrapax - Se non fosse per te io non sarei qui, adesso. Hai sempre creduto in me, sin da quando mi adottasti quando i miei genitori morirono…mi hai sempre sostenuto e incoraggiato, sei tu che mi hai sempre consigliato la cosa giusta da fare. - si fermò, si guardò attorno con aria felice - Se diventerò Signore, voglio che tu sia mia consigliera.”
Murena lo guardò con aria non molto stupita, quasi si aspettasse una simile richiesta “Mi onori, e accetterei il tuo desiderio...ma dai troppo peso a me, qui sei tu che vali! E adesso vai, ti seguirò al termine dell'elezione.” proseguì dopo una pausa.
Carrapax la lasciò, abbracciandola nuovamente.
***
Un fremito scuoteva tutto il Popolo del Vulcano, che era stato diviso durante la Grande Guerra ed ora si ritrovava di nuovo unito.
Scendere a patti con ‘gli Altri’ a cui avevano giurato guerra eterna non era una cosa che accadeva spesso, anzi, mai era accaduta fino ad ora. Ma ci si dovette rendere conto che patti, tregue, dichiarazioni erano necessarie, in un modo o nell'altro.
Seguendo lo stesso metodo di governo degli Altri, tramandato di generazione in generazione, da Popolo a Popolo quando ancora tutti i cinque convivevano ‘pacificamente"’, oggi era il giorno del nuovo Signore, per loro di due nuovi Signori.
Tutti i candidati, riuniti nella piazza a base del Vulcano, la stessa in cui Magor comparve per la prima volta, promettevano, acclamati da folle di vulcanici, più o meno le stesse cose.
Era certo giunta voce della maledizione che Magor aveva usato per avvelenare la mente degli altri Signori e che era alla radice di molti problemi e la causa del risveglio della Grande Murena da parte di Poivrons. Nonostante Magor non si mostrasse più in pubblico come una volta e molti erano giunti ad avere un certo timore di lui, diversi gormiti presero il cuore in mano e andarono da lui, nella sua stanza a porre le loro critiche.
Tutti tornarono indenni dal loro incontro con lo Stregone di Fuoco, indenni e con gli stessi dubbi di prima. Egli non aveva dato ad alcun gormita spiegazioni concrete riguardo i reclami, e aveva tutti informato che presto avrebbe dato la sua risposta all’intero Popolo del Vulcano.
Un richiamo sonoro attirò tutti i vulcanici verso un punto centrale nella piazza: una sfera di vetro, creata da lui stesso, posta sulla colonna eretta nella piazza centrale di Vulcano, che quando era in uso si illuminava di rosso e la figura di un occhio felino compariva al suo interno. Fu chiamata la Bocca di Magor.
Tutti fremevano, impazienti di sapere cosa la loro guida, Magor Stregone di Fuoco, aveva da dir loro e anche di sapere chi sarebbero stati i nuovi Signori.
“Mio Popolo fedele e alleato del Vulcano. - cominciò formalmente - Mi è giunta voce che la mia scelta di avvelenare la mente dei Signori Gheos, Tasarau, Poivrons e Noctis è stata criticata. Una critica più che giustificata: una critica giusta. Lo ammetto, davanti a tutti voi: ho commesso un errore, e chiedo il vostro perdono. Ho messo i miei desideri personali, la mia sete di vendetta, il mio rancore verso l’abominio che corre sotto il nome di Vecchio Saggio prima del benessere del mio, del nostro Popolo, senza immaginare le conseguenze che ciò avrebbe causato. Non è il primo errore che compio: un grande errore è stato permettervi di sterminare la razza dei gormiti. I gormiti hanno avuto ciò che si meritavano, non lo metto in dubbio, e siete tuttora liberi di prendere la vita di qualsiasi gormita ostacoli il vostro cammino, tuttavia lo sterminio non è la via del successo. La nostra vittoria sarà totale solo quando i gormiti saranno tutti sotto il nostro giogo, quando tutti avranno accettato la verità, che il Vecchio Saggio ostina a nascondere con menzogne e false speranze. Con ogni potere elementale sotto il nostro dominio, il nostro esercito non avrà debolezze, non avrà eguali, ed ogni civiltà si dovrà inchinare di fronte al prodigio dei gormiti e dell’Occhio della Vita!”
“Questo è tutto, per quanto riguarda il mio errore di voler vedere soffrire il Vecchio Saggio. Chi ha ancora domande e reclami, la mia porta è sempre aperta, e vi prometto che mi mostrerò più spesso.” riprese, dopo un’ovazione di approvazione da parte della folla di vulcanici.
“Ma abbandoniamo i sogni di gloria per tempi più proficui: l’Occhio della Vita non è ancora nelle nostre mani, e i gormiti sono ancora convinti di ciò che il Vecchio Saggio riempie loro la mente. Al giorno d’oggi, ci sono una serie di problemi che ci impediscono di progredire. Tutti ricordate la strage che ha compiuto lo Spirito noto come il Divoratore quando i gormiti scomparvero da Gorm, e della fatale epidemia che solo gli altri Popoli, avidi e meschini, sapevano curare e che ha preso con sé molte valorose anime. Questi che ho citato erano problemi esterni, imprevedibili e terribili. Ma ora il Divoratore è scomparso, e la cura per l’epidemia trovata. Nessuna piaga dell’esterno può ora indebolirci e con questo, non possiamo permettere che siano problemi interni ad ostacolarci. E’ chiaro che mi riferisco al diverbio tra gli attuali Signori Magmion e Lavion Magmadoni, e la loro separazione del Popolo del Vulcano in Magma e Lava. Ora, miei fedeli, questo è stato un episodio di scarsa rilevanza, e che sembra essersi risolto in fretta. Tuttavia, se scaturito in un’occasione diversa, la sua influenza sarebbe stata maggiore e avrebbe potuto significare la fine per il Popolo del Vulcano. E’ per questo che, accordato con il Consiglio e i Signori, è stato deciso che d’ora in avanti, finché si mostrerà vantaggioso, il Popolo del Vulcano sarà retto da uno e un solo Signore, non più da due. Questo è quanto. Come sempre, siete liberi di discorrere con me, o con un Saggio, di tale decisione, purché sappiate che non convincerete nessuno a cambiare idea. E’ tutto. Hava Vorcan!
Hava Vorcan!” ripeterono tutti i presenti.
La Bocca di Magor si spense, tornò trasparente, davanti alle molte facce attonite dei gormiti del Vulcano. Di lì a poco cominciarono svariate discussioni tra di loro, e si scoprì che alcuni avevano previsto questo fatto, altri che l'avevano sperato, altri che avevano sperato non accadesse, e vista la natura aggressiva dei gormiti del Monte di Fuoco, non mancò chi si prese a cazzotti per difendere la propria opinione, e decretarla come giusta.
***
Tutto era iniziato lì: la guerra, l’odio, la maledizione. Ed era lì che doveva finire, una volta per tutte, era lì che doveva nascere la pace. L’Arena di Astreg.
Gormiti da ogni dove si ammassavano, nell’88 Greemeralse, nei pressi della Piana di Astreg, nella radura erbosa vicino alla spiaggia dove si ergeva l’altopiano. Si accalcavano tutti per entrare nell’Arena, salendo tutti più o meno impazientemente la grande scalinata. Nonostante questo torneo fosse molto più importante di qualsiasi torneo precedente, vigeva ancora la regola di avere il permesso per assistervi, poiché i posti nell’Arena erano sempre quelli. Ma vista la straordinarietà –ed essendo lecito che un gormita scoprisse chi l’avrebbe governato - della sfida, il permesso fu molto poco costoso, quasi solo un pezzo di carta firmato e timbrato.
Diverse guardie erano presenti, per accertarsi che passassero solo coloro dotati del permesso e che la salita della scalinata procedesse nella giusta maniera e nella sicurezza di ogni gormita, compresi i pochi misteriosi vulcanici che comparivano di tanto in tanto sui gradini.
Poiché vi era una sola, ampia scalinata, diversi gormiti provenienti da nord e dall’estremo sud si trovarono costretti a fare un giro mezzo o pieno attorno alla Piana per poter accedere all’Arena.
Non mancavano naturalmente i soliti furbastri alati che tentavano di immettersi nella Piana furtivamente e superare la fila. Ciò non era permesso.
Non c’è da stupirsi che tra questi gormiti furbi e sciocchi i gormiti del Popolo dell’Aria, il più ricco di ali di Gorm, erano assai pochi. Gli aerei sono sempre stati rispettosi e puntuali, e sempre lo saranno, anche quando la situazione sarà completamente mutata, e lo stesso Elios, sicuramente più scherzoso e ribelle del suo predecessore, che sapeva essere molto serio ed era generalmente osservante delle regole, aveva fatto la fila e faticato lungo i gradini come tutti gli altri.
Diversi Saggi, su all’Arena, prima che tutti i gormiti fossero ai propri posti, terminavano alcuni lavori di riparazione e di decorazione dell’Arena di Astreg. Tasarau, Gheos, Noctis e Poivrons non c’erano. Era stato deciso, su loro stessa iniziativa, che non avrebbero preso parte in alcun modo a scontri, e che si sarebbero invece dedicati alla diplomazia, alla burocrazia, alla cura per i civili e tutti i gormiti nelle loro città.
I Saggi lasciarono che gli occupanti dell’Arena si accomodassero ai loro posti negli spalti color nocciola, separati da alte e grandi mezzelune di pietra, si adattassero, si trovassero a loro agio e che cominciassero a desiderare l’inizio del Torneo e vedere i propri Signori, che nelle poche settimane che avevano separato l’elezione da quel giorno avevano già iniziato alcuni loro progetti, combattersi per far trionfare il Principe di Gorm. Intanto i Signori si tenevano in forma nelle segrete, nel piano sotterraneo, facendo esercizi insieme ai loro allenatori.
Circolavano già numerosi scommettitori, nonostante non fosse stato deciso ancora nessun combattente. Scommettevano su chi avrebbe vinto su tutti, e chi sarebbe salito a Principe di Gorm. Ovviamente tutti puntavano sul proprio Signore, anche se dopo la prima sfida molti avrebbero perso e diversi sarebbero stati costretti a scommettere su un Signore estraneo, così come al round successivo. Tuttavia nessuno, o quasi, aveva intenzione, in quel momento del Torneo, di scommettere su un qualsiasi altro Signore che non fosse il proprio.
E i gormiti del Vulcano? Ve n’erano davvero pochi, si potevano contare sulla punta delle dita…di un gormita che aveva entrambe le mani e sette dita ciascuna, e stessa cosa per i piedi. Indicativamente, erano qualche decina, sparsi per gli spalti, mescolati a membri di altri Popoli.
Su chi scommettevano loro? Alcuni avevano firmato i loro fogli, con nomi dei Signori noti, ma nessuno scrisse i nomi dei Signori del Vulcano. Molti chiesero loro chi fossero i loro Signori, ma loro non dissero nulla, ringhiando contro e rinfacciando loro di quanto fosse ingiusta tutta quella procedura, di quanto fosse folle l’idea di quel Torneo. Non rivelarono nulla riguardo alla salita al potere di un Signore solo, e agli stessi Saggi dissero di non sapere nulla riguardo i propri sovrani, che non conoscevano, o addirittura non ricordavano! come avrebbero agito i loro Signori, che loro erano lì solo per gustarsi lo spettacolo e per fare guadagni facili con le scommesse.
Tutto questo era problematico per i Saggi che presiedevano al Torneo. Cosa dovevano fare? Aspettare l’arrivo dei Signori del Vulcano o procedere senza di loro? Come avrebbero reagito?
“Il tempo che possiamo consumare ad attendere sta terminando.” avvisò gli altri Delos, il Saggio del Popolo del Mare, nel suo solito lessico non ricercato, ma comunque di un certo livello, bello come sempre.
“Il pubblico comincia a impazientirsi, e se seguitiamo a temporeggiare, il Torneo terminerò dopo l’eclissi.”
“E’ davvero così importante quest’eclissi di cui parlate?” sbuffò un Saggio della Terra.
“Certamente. E’ l’eclissi ad averci offerto la risposta, la soluzione. - spiegò irritato Delos, che mal accettava le idee a suo dire rivoluzionarie del suo compagno della Terra - Forse il vostro Popolo è divenuto così ateo da rinnegare addirittura le profezie?”
“Io non - ” cominciò, corrucciando il viso per la provocazione.
“Fratelli Saggi, per favore. - li ammutolì il Saggio dell’Aria Grifon, ammantato in una lunga e coprente veste viola con ricami dorati, saettando un’occhiata di rimprovero a Delos - Non è questo il momento per riprendere la nostra avversione. Questo è il momento che la dovrebbe concludere. Il Saggio Danul ha ragione, a mio parere. Abbiamo offerto al Popolo del Vulcano il nostro aiuto, gli abbiamo chiesto conferma, non abbiamo deciso tutto senza pensare a loro, come invece avremmo dovuto fare. Ciò nonostante, non ci hanno inviato nessuna risposta, e non possiamo aspettare in eterno i loro comodi.”
“Avete mandato loro le lettere, i piccioni, i-i falchi?” chiese per conferma il Saggio della Terra, nonostante sapesse bene la risposta.
“Abbiamo fatto recapitare loro numerose lettere e inviti. - rispose un Saggio della Foresta - Gli uccelli viaggiatori sono tutti ritornati a casa, sani, senza però alcuna lettera, né le nostre, né quelle di risposta. Può significare solo che hanno ricevuto i nostri messaggi, che li hanno letti e che li hanno ignorati oppure che hanno altro per la testa, che interessarsi delle nostre carte e di ciò che offriamo loro.”
“Ma non accetteranno mai che si distingua il Principe di Gorm senza la loro presenza. - chiarì il Saggio della Terra - Credete forse che prenderanno alla leggera il fatto che un gormita loro nemico pretenda il dominio dei loro territori?”
“Questo non è di nostra competenza. - lo freddò Grifon - Sarà il Principe di Gorm a decidere. Se egli vorrà pretendere, avrà nelle sue mani abbastanza forze per sottomettere il Vulcano.”
“Quindi…quindi diamo inizio al Torneo?” domandò incerto il Saggio della Terra.
“Diamo inizio al Torneo.” asserì Delos.
***
La cronista del Torneo dell’Eclissi prese in mano i fogli passatile dai Saggi, il discorso che avrebbero aperto la speciale edizione del torneo della Piana di Astreg. Con la carta attaccata alla faccia, lesse e rilesse il discorso, posando i fogli per verificare quanto ne aveva imparato, ritornando con lo sguardo appiccicato alla carta poco dopo. Anche per quel torneo speciale era stato scelto di utilizzare un cronista che descriva le mosse, e questa cronista, oltre che a non amare molto quel temporaneo lavoro, non amava leggere le cose in pubblico, preferiva memorizzarle. I suoi quattro occhi non la aiutavano a imparare meglio le cose.
Era un’alta gormita della Foresta, un po’ gobba per via dell’età. La sua testa, a forma di picca rovesciata e il suo torace erano ricoperte da un indurimento della corteccia che sfumava in giallo cadmio, mentre la pelle era verde limone chiaro, ricolma di venature che nel complesso la facevano rassomigliare a un lavoro a maglia. Aveva tre dita nelle mani e i piedi erano due uncini bruni.
Quattro occhi, due sopra il naso, l’altro paio più in alto, sullo stesso livello, di un verde intenso.
Era un’anziana sentinella, già avanti con gli anni quando scoppiò la guerra, ciò nonostante i suoi occhi e la sua sveltezza e il silenzio nei movimenti c’erano ancora tutti, e fu un’ottima risorsa per l’esercito di Tasarau. Le fu conferito il nome di Sentinella Antica, il vero nome Sentraan.
Al termine del conflitto Sentraan decise di andare in pensione, di non dedicarsi più a campagne, lotte e missioni pericolose. Tuttavia la sua vista attenta e precisa tardava ad invecchiare, e le fu chiesto di essere la cronista del Torneo dell’Eclissi.
Accettò immediatamente, credendolo un lavoro facile e di tutto riposo, senza però immaginare di dover essere davvero attenta ad ogni mossa e di dover parlare quasi ininterrottamente.
Ma quando se ne rese conto aveva già accettato, e le sembrava scorretto e disonorevole tirarsi indietro.
Così Sentraan si rassegnò, e si preparò ad essere attenta, sia con la vista che con la voce, ed ora verificava la sua memoria, sussurrando e mantenendosi a distanza dai coni amplificatori, per evitare che i gormiti, impazienti e rumorosi, sentissero cose che non dovevano sentire. Una volta ritenuta pronta, si avvicinò alla finestra, controllò che fosse attivo l’incantesimo e parlò. I Saggi erano seduti nei loro posti d’onore, ai lati della cabina sopraelevata all’entrata del cronista. Il Vecchio Saggio non era presente.
“Gormiti di tutta Gorm! Popolani di Roscamar, di Orsol, della Foresta Silente, di Poivronopoli, di Monte Vulcano, provenienti da ogni angolo dell’Isola di Gorm. Siete stati rapidi e fortunati ad acquistare i vostri permessi prima degli altri, poiché quest’oggi, nella millenaria Arena di Astreg, sede di centinaia di Tornei, si terrà una competizione speciale: il Torneo dell’Eclissi. Da un’idea del Saggio Fegri e dallo studio delle antiche profezie, qui su questa piana i Signori di Gorm si scontreranno l’uno contro l’altro e il vincitore di ogni sfida, quando calerà il buio che Redrubin creerà coprendo Nejema, sarà proclamato Principe di Gorm, sovrano, temporale o simbolico, di tutti i Popoli di Gorm. Saranno servite vivande tra una sfida e l’altra, e sempre in questo tempo i nostri critici discuteranno di ciò che va e che non va nella società e negli scontri. Che il più valoroso dei campioni prevalga!”
Ci fu una pausa, durante la quale il silenzio che si era creato in vista dell’imminente inizio perdurò, un silenzio ricco di tensione e impazienza trattenuta. Non fu detto nulla riguardo ciò che era stato deciso riguardo il Popolo del Vulcano. Gli avevano offerto dei compromessi, gli avevano dato una possibilità, un’occasione per essere al pari – più o meno - degli altri, nonostante il Grande Sacrificio, nonostante la sua guida lo Stregone di Fuoco avesse giocato con la mente dei Signori e dato origine a tutto ciò. Avevano aspettato, ma ora basta. Sentraan riprese a parlare.
“A sorte, con dadi, sono stati scelti dai Saggi i primi due sfidanti del torneo che deciderà il destino e il futuro politico dell’Isola di Gorm, che segnerà la pace tra i Popoli: Terra e Mare! Che vinca il migliore!”
La folla scoppiò in un mare di applausi e tutti si precipitarono a dare le loro scommesse su chi avrebbe trionfato tra i due sfidanti. Manco a dirlo Terra e Mare giocavano la vittoria del proprio Signore. Gli altri gormiti puntavano – cosa ancor più ovvia che forse farei meglio a non scrivere - su chi tra i due sembrava più forte. C’erano molte firme a favore del Signore della Terra.
Fu lasciato un po’ di tempo ai due combattenti di finire di prepararsi. Erano ancora nelle loro stanze. Le grate che li separavano dall’arena sabbiosa erano ancora chiuse.
I tutori e gli allenatori dei due campioni davano i loro ultimi consigli e le loro dritte ai Signori prima che i cancelli di metallo si alzassero e i due fossero immessi nell’arena.
Gravitus osservava ansioso la sabbia, gli archi, le mura, i gormiti in esultanza dalle fessure quadrate delle grate. Era un momento fatidico. Non c’era via d’uscita, non c’erano compromessi: si vinceva e basta, o il titolo di Principe di Gorm sarebbe stato perso per sempre.
Cominciò a grondare sudore mentre cercava di immaginarsi come il campione del Mare avrebbe combattuto e agito. Aveva raccolto qualche informazione su di lui, e per vincere avrebbe dovuto far leva su questi dati. C’erano, oltre quei buchi tra la ruggine, centinaia di terricoli che speravano che il Signore della Terra diventasse Principe di Gorm.
Formulò una serie di tattiche da usare contro il Signore del Mare, mentre Dedalo, che aveva supplicato per farlo, massaggiava i muscoli…di Kolossus.
Gravitus era piuttosto teso e nervoso, e anche un po’ arrabbiato. Le grida del pubblico “Ko - los - sus! Ko - los - sus!” certo non lo aiutavano a calmarsi.
Attirò a sé l’attenzione del suo Signore che, invitato Dedalo a spostarsi, aveva cominciato a fare qualche molleggio con le braccia, la schiena e le gambe.
“Allora, ascoltami bene...ci sei?” disse frettoloso, senza offrirgli il voi dei Signori, come fosse uno stretto amico, un familiare o qualcuno non degno di essere riverito. Kolossus sembrò ignorarlo, mentre abbandonava il riscaldamento per scendere a terra ed eseguire delle flessioni, alternando le braccia superiori e inferiori. Diede uno sguardo al suo allenatore, confermando che era in ascolto e che poteva parlare.
“Innanzitutto, non fare mai si che il tuo avversario vada dietro di te, mi sono spiegato?” si fece spiegare Gravitus. Kolossus annuì.
“Tieni le gambe...i piedi ben piantati, se il tuo avversario te li prendesse saresti in serio pericolo. Ho visto come combatti: sei più abile coi pugni, le strette, le spalle. Non posso allenarti a usare le gambe in così poco tempo. Tienile ferme, usale solo per correre, non dare calci per nessun motivo. E poi, e poi non ti devi stancare! Sì, hai capito bene. So che noi terricoli siamo più resistenti di altri…il Signore del Mare potrebbe provocarti, invitarti ad attaccarlo per poi evitarti. Fa’ attenzione, e sii preciso coi tuoi colpi. Cerca di non stancarti, il segreto è respirare bene, mai affrettare o appesantire il tuo respiro...e non esitare a usare i poteri degli elementi! Capito?”
Kolossus si alzò di scatto dai suoi piegamenti, mentre Dedalo gli augurava in silenzio buona fortuna.
“Capito. - replicò Kolossus  -Lo terrò a mente.”
Dall’altra parte, nell’altra stanza chiusa dalla grata arrugginita, Carrapax era intento a fare degli addominali, mentre la madre Murena lo osservava, e gli dava qualche consiglio.
Il Signore del Mare era in quel momento senza le spalliere scure puntellate e senza il rivestimento delle gambe della stessa fattura. Anche la corazza cristallina sul petto e l’addome era assente. Così come il torneo regolare, il Torneo dell’Eclissi non includeva armi, armature, magia o forza magica.
Senza la corazza a proteggerlo, Carrapax sembrava stranamente…esile, e piccolo. Ciò nonostante i suoi muscoli, non esagerati, spiccavano nitidi tra la pelle blu mare.
“Sai come combattere. - disse tranquilla Murena. - Attento, a Kolossus. E' un avversario temibile e pericoloso. Con lui non puoi contare sulle tue doti da corpo a corpo, devi usare la forza elementale e su quella credo che lui non sia molto abile. Se trovi difficoltà anche così, allora cerca di usare la sua forza contro di lui.”
“Chiaro, madre.” replicò, mentre era steso supino, con le braccia incrociate, a compiere degli esercizi addominali. Terminato il suo allenamento, sciolse bene i muscoli, agitando e scuotendo braccia e gambe, e la testa. Incontrò lo sguardo apprensivo ma non preoccupato di Murena. Sua madre Murena…chissà perché l’aveva accolto tra le sue braccia, non l’aveva mai capito. Gliel’aveva chiesto alcune volte, ma non se lo ricordava. Forse era un’amica di Grankios? Non ricordava nemmeno chi fossero i suoi genitori e perché e come erano morti.
Ciò aveva poca importanza. Si fidava di Murena più di chiunque altro, era stata tutto per lui, lei e il marito Delos. Con Sonorca, la figlia dei due, non aveva mai legato molto.
Si udì un gong provenire dall’arena, dall’altra parte. Il torneo era veramente cominciato. Le grate si aprirono.
“Non ti deluderò, madre. - proferì Carrapax, varcando la soglia - Non deluderò il mio Popolo.”
I due sfidanti entrarono nello stadio sabbioso, pronti a picchiarsi come mai prima. La sfida avrebbe dimostrato il loro valore, la loro forza, il loro diritto di assumere il titolo di Principe di Gorm.
Kolossus si lasciò la grata dietro di sé, che si richiuse. Alla sua apparizione la folla fu in delirio, sbracciandosi, alzandosi dai seggi con applausi rumorosi, grida esultanti…un vero caos. Kolossus lo apprezzò, ritornandolo però con semplici cenni del capo sorridente e piccoli saluti con le mani.
Quando Carrapax apparve, l’ovazione del pubblico fu ugualmente rumorosa, ma meno sguaiata. Era chiaro che non in molti credevano nella sua vittoria. Li avrebbe smentiti, si diceva, mentre salutava la folla alzando una chela in aria e agitandola.
Il tempo delle chiacchiere e dei saluti era finito. Il pubblico si ammutolì, mentre Carrapax e Kolossus si sistemavano in pose da combattimento.
Rimasero in tali pose per diversi istanti, studiandosi reciprocamente. Carrapax lo osservava severo e stringendo gli occhi a fessure. Come l’avversario lo stesse studiando non si poteva capire. Oltre agli occhi, anche le sopracciglia erano assenti, e le sue emozioni erano indecifrabili dal viso, se non forse per la postura delle labbra, che comunque potevano voler dire molte cose. Solo il suo tono di voce era un’indiscutibile chiave per comprendere il suo stato d’animo, e non aveva alcuna intenzione di parlare in quel momento.
Invitò difatti Carrapax a venirgli incontro con un movimento della prima mano destra, mentre un sorriso gli increspava le labbra.
Il Signore del Mare inarcò un sopracciglio, incerto, ma sicuro di non accettare la proposta di Kolossus, e ritornò il suo invito muovendo verso di sé la chela sinistra.
Al contrario di Carrapax, il gigante cieco si smosse dalla sua posizione statuaria e non rifiutò la proposta dell’avversario. Con uno scatto feroce, iniziò una corsa rapida e caotica verso Carrapax.
Mossa avventata, pensò Carrapax. Quando Kolossus fu abbastanza, pericolosamente vicino, il Signore del Mare si spostò di lato con un salto, certo di evitare facilmente quella carica.
Si sbagliò: non appena si mosse per schivare, anzi, forse anche prima di compiere l’azione, Kolossus fece un altro pauroso scatto, che alzò un nugolo di sabbia e quasi cadde a terra. Scattò contro Carrapax, incapace ora di schivarla, e con un poderoso colpo di spalle schiantò quelle di Carrapax, gettandolo schiena a terra.
“Che rapidità d’azione, fratelli e sorelle! - diceva Sentraan - Scatti in corsa davvero epici!”
Kolossus approfittò del nemico al suolo per unire le braccia inferiori in un pugno, alzarlo e agitarlo, con grida esultanti, al pubblico che lo acclamava.
Ci voleva ben altro per stendere Carrapax: da terra, mentre Kolossus era impegnato a sfoggiarsi, unì le chele sul fianco sinistro, accumulando molta acqua, e poi gettò entrambe le braccia in avanti, travolgendo e sparando Kolossus qualche piede più in là con un fortissimo getto d’acqua.
“Carrapax è ancora in piedi e in salute, e ha travolto Kolossus con la tecnica della Zanna del Demone Marino!”
Kolossus non fu nemmeno gettato a terra dal colpo, ma sembrava nervoso. Caricò nuovamente contro Carrapax, ora a una distanza nettamente inferiore rispetto poco fa.
Qualunque fosse l’intenzione del Signore della Terra, non riuscì mai a portarla a termine.
Con i piedi ben saldi a terra, il corpo e lo spirito in equilibrio, Carrapax bloccò la carica di Kolossus, prendendogli i polsi superiori tra le chele.
Facendo leva sulla stretta ai polsi e sul peso di Kolossus, il Signore del Mare si alzò da terra, ancora stretto alle mani dell’avversario terricolo, e preparò le sue gambe, pronto a difendersi da un imminente colpo di uno qualsiasi degli altri due pugni liberi.
Il volto del Signore della Terra si piegò da una parte. Un altro calcio e si piegò dal lato opposto, ma Carrapax non lo smuoveva di un millimetro. Il Signore della Terra si sentiva sicuro di sé in quella posizione. Non sembrava nemmeno voler liberarsi dalla stretta o contrattaccare subito.
Prima che lo potesse fare, Carrapax strinse la morsa delle sue chele e gli pesto un piede saltando su di esso con tutto il suo peso.
“Argh!” stramazzò Kolossus, liberandosi dalle tenaglie blu con uno strattone e saltellando su di un piede dal dolore.
Carrapax, fiero di quel colpo così banale ma oltremodo efficace, ne approfittò subito, senza arruffianarsi il pubblico con movenze trionfali.
Pose le chele, aperte, davanti al petto, intersecandole così che lo spazio tra le due appendici fosse più ampio. Una sfera, invero alquanto piccola, di acqua concentrata si plasmò in questo spazio. Era di un colore azzurrino molto lieve, luminosa per la quantità di energia che conteneva.
Rimosse la chela destra, mantenendo la sfera di acqua in quella sinistra. Dopodiché, la scagliò su Kolossus con forza, non prima di aver torto il braccio all’indietro per darle più slancio e velocità.
“Attenzione, attenzione! L’onda d’urto oceanica! Questa sicuramente indebolirà Kolossus!”
Un’esplosione di acqua immane e poderosa devastò Kolossus, scaraventandolo dall’altro lato dell’arena, pancia a terra, e bagnando molta della sabbia.
Carrapax si mise a correre contro Kolossus, prima che potesse rialzarsi, agitando leggermente le chele in esultanza. Anche lui poteva darsi un po’ di arie, no?
“Kolossus, i piedi! I piedi!” gridava disperato Gravitus.
***
Le due guardie nella buia grotta sotterranea, illuminata scarsamente da poche pietre di luce, chiacchieravano silenziosamente, per passare il tempo in quell’oscurità e in quella noia.
Molte gallerie, tante scavate dagli stessi gormiti suoi abitanti quante quelle sconosciute da chiunque, tranne che forse dal Vecchio Saggio, si biforcavano dalla Città Sotterranea. Le gallerie scavate dal Popolo della Terra - e in parte anche dal Popolo del Mare - collegavano il mondo sotterraneo dei terricoli con varie zone dell’Isola di Gorm: dopo la guerra molte di queste, quelle che furono scoperte specialmente, furono bloccate, sorvegliate e/o continuate, da gormiti quali Dedalo, per ordine di Gheos.
La Città Sotterranea e la Caverna di Roscamar erano molto lontane dalla posizione dei due guardiani. Una scelta opportuna: se ci fossero stati dei problemi o degli attacchi, era meglio che i guardiani fossero lontani dal centro e che il pericolo fosse anch’esso lontano, per preparare meglio la Città Sotterranea all’arrivo di questo pericolo presso le sue porte.
Una di queste guardie era snella, appesantita da una spessa corazza. La sua testa era piccola con due occhi piccoli, ricoperta di un elmo a forma di masso con tre appuntiti aculei rocciosi.
Tutta la sua armatura di vari grigi e giallo scuro ricordava dei sassi, in particolar modo le sproporzionate spalliere. La sua stesse pelle, rugosa e ruvida, di un bruno sbiadito, ricordava la roccia. Aveva delle mani curiosamente larghe, con quattro dita tozze per ciascuna.
L’altra guardia era un gormita ugualmente snello, ma con meno corazza, molto atletico e muscoloso, con un volto triangolare e degli spunzoni piramidali sottili ai lati degli avambracci: Stalattite.
“Ma tu ci credi?” chiese tutto d’un tratto Stalattite al suo compagno.
“Credere a cosa?” domandò in risposta l’altro, non capendo.
“A tutta questa storia della Maledizione di Magor e di come ha scatenato la guerra…forse te l’ho già chiesto.” si spiegò insicuro Stalattite grattandosi uno degli spunzoni.
“Se devo essere sincero, no. Non ho mai creduto nemmeno in Magor.” ammise lui.
“Ah ecco. Te l’avevo già chiesto, mi ricordavo di questa cosa. - rammentò Stalattite con cenni del capo - Ma andiamo, Lacamos, come fai a non crederci? Il Vecchio Saggio si è inventato tutto?” lo accusò Stalattite, che aveva piena fiducia nel Vecchio Saggio.
“Non ne ho idea, Stal. - rispose Lacamos, guardando dritto davanti a sé - E’ tutto molto confuso. Troppo confuso. Non abbiamo mai visto questo Stregone di Fuoco…può solo essere una divinità inventata da quelli del Vulcano, e il Vecchio Saggio ci crede. E’ vecchio, ormai...”
Stalattite non era affatto d’accordo. Trovava quei commenti offensivi nei confronti del Vecchio Saggio, la loro guida, che ha fatto tanto per loro.
“Io non ti permetto di - ” cominciò irritato Stalattite quando qualcosa lo colpì in fronte, spedendolo nel mondo dei sogni e facendolo accasciare a terra.
Lacamos fu allibito. E preoccupato. Cos’era? Chi era stato? Era solo svenuto il suo amico? Controllò, dopo essersi dato una tesa occhiata intorno. Era buio, solo roccia dura e fredda. Non sembrava esserci altro. Il cuore di Stalattite batteva e respirava ancora. Quello di Lacamos batteva anche, ma molto forte. Trovò a terra uno strano sasso. Di colore nero-bruno. Un colore piuttosto insolito, e anche al tatto era qualcosa che a Lacamos non era familiare.
Schivò per puro caso un’altra di quelle pietre. Lasciò Stalattite, per fronteggiare il misterioso avversario. Plasmò dei massi tra le sue larghe mani.
Una risata echeggiò per la galleria.
Dei getti infuocati tentarono di colpire Lacamos, che saltando e arrampicandosi, si ritrovò sul soffitto della galleria, tenendosi a una stalattite. Dovette lasciare uno dei suoi macigni per tenersi al soffitto, e abbandonare lo svenuto Stalattite a terra. Una scelta difficile, ma non poteva rischiare di venire messo fuori combattimento anche lui e che quel gormita del Vulcano se ne andasse a spasso per le gallerie segrete della Città Sotterranea..
Sicuro che questo infiltrato sapesse della sua presenza, gridò: “Fatti vedere!”
“Se insisti.” rispose la cupa voce che poco prima rise.
Apparve un robusto e slanciato, nonostante la corazza, gormita del Vulcano, tra le ombre staccate sul suolo dalle pietre di luce.
Tutto il suo corpo era estremamente ricoperto di armatura lavica gialla, arancione e grigia, - se davvero era armatura - , di una strana fattura, tutta rigata e piena di fori, che sembravano tanti sassi cubici di diverse dimensioni cuciti insieme. Né le linee o le fessure sembravano casuali.  La sua pelle scarlatto scura spuntava qua e là nelle zone meno coperte. I suoi piedi erano grossi e massicci, che terminavano in dei grandi unghioni scuri. La faccia tonda era coperta da un elmo a strati, con un piccolo foro nel mezzo della fronte e delle placche sopra gli occhi che difendevano quel punto delicato.
Prima che potesse dire o fare qualcosa, un sasso di Lanciamassi lo colpì nel petto e nella pancia.
“Qui tu non puoi passare. - proclamò serio, sempre aggrappato al soffitto - Vattene.”
Il vulcanico non accettò bene d’essere stato colpito e che un gormita qualsiasi come Lacamos gli desse degli ordini. Doveva essere un tipo abbastanza irascibile.
Con Lacamos che lo guardava severo, piegò la schiena all’indietro, puntando contro il terricolo, gli avambracci corazzati rivolti contro di lui. Aprì la bocca.
Dalle fauci, dalla fronte, da tutti quei fori tra la corazza fuoriuscirono sottili ma rapidi e potenti getti infuocati, che colpirono tutti insieme il soffitto, come un terremoto, facendo crollare numerose stalattiti. Lacamos vendeva cara la pelle, saltando da una stalattite all’altra, ma alla fine cadde anche lui, aggrappandosi a una sporgenza rocciosa instabile.
Atterrò più o meno sano a terra. Cominciò a creare una pioggia di massi lanciati a grandi velocità contro il nemico. Questi, sebbene colpito da alcuni macigni e schivandone altri, non sembrava indietreggiare o sentirsi molto indebolito.
Lacamos, al contrario, si sentiva fiacco dopo tutti quei colpi. Cercò di parlare al misterioso vulcanico.
“C-che cosa vuoi? Perché…perché?” domandò disperato.
Il vulcanico non rispose. Sorrise, invece.
“Non avete via di fuga.” affermò sogghignando, mentre Stalattite rinveniva in quel momento. Si mise a ridere come un folle.
Lacamos non comprese. Dall’inizio di tutto non aveva compreso un accidente. Poi sentì un grande rumore, un rumore inconfondibile che gli fece raggelare il sangue nelle vene. Passi, tantissimi passi, in lontananza, ma presto vicini. Il Vulcano stava tentando un attacco alla Città Sotterranea! Non c’era più tempo da perdere, la città andava avvisata in tempo.
“Stalattite, Stalattite, andiamo!” lo aiutò ad alzarsi, mentre si massaggiava la testa e Lacamos gli passò un po’ della sua energia. Il compagno terricolo aveva il mal di testa. Non riusciva a capire nulla, a parte Lacamos che lo spingeva lontano. Gli bastò focalizzare lo sguardo sul vulcanico –che non provò a impedire ai due la fuga - per raccapezzarsi che qualcosa stava andando nel verso sbagliato.
“Forza, forza!” si misero a correre come dei forsennati, dopo aver chiuso l’entrata della galleria con una grande parete di roccia.
***
Non senza un certo diletto, Carrapax roteava l'ormai indifeso e disperato Kolossus attorno a se, cingendogli i piedi con le sue chele. Per quanto si stesse a suo modo divertendo –non che fosse sadico, ma si sentiva ormai la vittoria quasi in pugno - roteare a quel modo poteva dare danno anche lui, oltre che a Kolossus, e Carrapax avrebbe fatto meglio a mantenersi lucido, senza mal di testa, cosa che il Signore della Terra avrebbe invece sicuramente avuto, sia per la rotazione che per l’impatto che avrebbe avuto, col suolo o con le pareti dell’arena.
Fosse stato più aggressivo, avrebbe proseguito ancora per qualche minuto - o una dozzina di minuti, chi può dirlo? - , se non fosse che, come detto poc’anzi, per paura di farsi del male da solo e che per la velocità raggiunta Kolossus potesse essere scagliato contro il pubblico o farsi troppo male per i canoni del torneo, Carrapax smise di accelerare.
Prese in fretta le giuste misure ed eseguì i calcoli corretti - o così gli parvero - e lasciò che il Signore della Terra si scagliasse contro uno spalto.
Carrapax era sicuro di vincere adesso, e alzò le chele in segno di vittoria. Se non sicuro del suo trionfo, era sicuro di aver colto impreparato gran parte del pubblico, che osservava al colmo dello stupore il Signore del Mare contrattaccare con successo Kolossus, ritenuto il più forte e il chiaro vincitore di quello scontro. Invano forestali e pochi aerei cercavano di annullare le loro scommesse, o di cambiare la posta in gioco. I terricoli rimanevano sulle loro idee, sicuri che il loro sovrano potesse ancora vincere, che avesse qualche asso nella manica, che ci volesse ben altro per dichiararlo sconfitto. Sentraan era attenta a questo movimento tra i posti a sedere, oltre che a ciò che accadeva.
“Sembrerebbe davvero un colpo di scena! Carrapax da del filo da torcere a Kolossus, e pare che molti non se lo fossero aspettato! Se non si è fatto molto male, avrà sicuramente un bel mal di testa!”
Parole più vere di quanto Sentraan stessa credesse. Kolossus rimaneva accasciato alla parete, stordito, un caos in testa, subbuglio nella mente e nello stomaco.
Percepiva rabbia, dolore, confusione, voglia di rimettersi in piedi e continuare a lottare, più violento che mai, e terminare quello scontro con se stesso con un piede sul corpo stremato di Carrapax, steso a terra dai suoi colpi. Ma non riusciva a coordinarsi, a mettersi in piedi senza barcollare.
Non aveva in odio Carrapax, beninteso: nemmeno lo conosceva, aveva solo sentito il suo nome e gli era giunta voce di alcuni progetti che aveva iniziato.
Semplicemente non gli era di buon grado perdere così quello scontro, perché gli girava la testa, perché si era dato troppe arie e sottovalutato l’avversario. Non gli era di buon grado perdere in generale. Ma era così anche per Carrapax, per tutti i Signori.
Cosa fare, allora? Che fosse giusto o no che il suo stato fisico fosse per colpa sua, Kolossus non si sarebbe arreso a quel modo. Avrebbe combattuto finché aveva forza in corpo, e ne aveva ancora molta, lo sentiva.
Si staccò ancora confuso e intontito dalla parete di pietra, avanzando a passi incerti, sperando che la sua mira e la sua fortuna ci vedessero meglio della sua ‘vista’.
Forgiò una zolla di terra dalle mani destre, sospesa in aria, la scagliò contro Carrapax non molto distante con quanta potenza potesse.
La zolla procedette con forza nella direzione giusta. Carrapax, sebbene non comprese se era un colpo singolo o parte di un attacco più complesso, fu pronto. Aspettò che la zolla gli si avvicinasse.
Un movimento fulmineo e deciso del suo braccio, e un forte getto d’acqua respinse la zolla indietro…seppur non abbastanza da colpire Kolossus, non con abbastanza forza.
La zolla lo colpì, ma si sgretolò senza dargli alcun fastidio.
Sembrava essersi completamente ripreso dal giramento di testa: Carrapax lo poteva vedere correre come la luce contro di lui, preparando uno schianto letale. Una mossa non diversa dalla prima che utilizzò, all’inizio dello scontro.
Carrapax non vide però un’altra zolla, che Kolossus doveva aver creato mentre lui era intento ad avere l’altra abbastanza vicina a lui e respingerla.
Non fu abbastanza svelto e pronto da evitarla, e gli si rovesciò in faccia, coprendogli gli occhi di polvere. Ora non vedeva più! Si dimenava, agitava la chela davanti a sé, mentre già si spruzzava dell’acqua per rimuovere la polvere. Non poteva rimanere fermo o continuare a dibattersi a quel modo: non avrebbe ottenuto nulla. Kolossus non aveva affatto occhi, vedeva il mondo solo attraverso gli altri suoi sensi e la sua mente. Carrapax, per quei pochi secondi, fece lo stesso.
Sentì i passi pesanti di Kolossus percuotere il terreno sabbioso, sempre più rumorosi…sempre più vicini.
Scattò di lato, gettandosi a terra, mentre Kolossus, riuniti i due pugni superiori, colpiva a vuoto la sabbia.
“Incredibile! Anche senza la vista, Carrapax riesce a combattere…ad evadere gli attacchi di Kolossus! D’altronde, noto Kolossus, non ci si dovrebbe stupire di ciò.”
Kolossus ne aveva abbastanza. Ne aveva abbastanza di Carrapax che schivava i suoi attacchi. Quella corsa e quella mossa avevano peggiorato il suo mal di testa, ancora non passato.
Ora avrebbe provato il tutto per tutto: avrebbe racimolato tutta la forza che aveva ancora in corpo e usato tutta la concentrazione di cui disponeva per un colpo che avrebbe sicuramente steso Carrapax. Se non ci fosse riuscito, avrebbe steso sé stesso.
Tese le braccia, congiunte, coi pugni chiusi, innanzi a sé. Poi, digrignando i denti per la forza fisica e di volontà che necessitava, le allargò tutte quante, aprendo le mani. Lo Squarcio del Behemoth.
Al suo comando, il suolo dell’arena tremò, spaventando lo stesso pubblico. Con un fragore, la terra ai suoi piedi e davanti a sé si lacerò, si separò, si alzò.
Un varco vuoto e buio si aprì dunque nello spazio tra Carrapax e Kolossus, che dava sui magazzini sotterranei dell’Arena di Astreg, ma nulla si poteva vedere.
Scritto così sembra questione di diverso tempo, ma vi assicurò che fu invece rapidissimo.
Carrapax era stato travolto da una lastra di terra che si era innalzata per allargare lo squarcio, ma non era caduto o ferito. Era in piedi, in alto sulla deforme parete pietrosa e sabbiosa. Scivolò giù da tale parete, senza dare mostra della paura provata o dello stupore, pronto a dirigersi contro il Signore della Terra per contrattaccare.
Kolossus era stremato. Combinato al mal di testa che ancora lo tormentava, aumentato di intensità da quella folle carica di poco fa, la messa in atto dello Squarcio del Behemoth lo aveva deprivato delle ultime gocce di energia utile. Barcollò in avanti. Un suo piede poi non toccò più il suolo, ma il vuoto. Sprofondò, riuscendo a pelo a tenersi con una mano al bordo instabile, sabbioso, dello squarcio.
Carrapax apparve correndo, coperto fino a poco prima dalle zolle rialzate, per finire l’avversario e procurarsi l’accesso alla finale. Ma quando vide Kolossus allo stremo delle forze, appeso con una sola mano sul vuoto dei sotterranei, cambiò le proprie intenzioni.
Non si vedeva nulla nello squarcio, ma sapeva che era una bella caduta. Proprio perché non poteva vedere – forse Kolossus ne era capace, con i suoi sensi - c’era il rischio che cadesse su qualcosa di pericoloso.
Scelse di aiutarlo, incurante che fosse un trucco o che poteva semplicemente lasciarlo cadere e vincere. Si inginocchiò ai bordi dello squarcio, assicurandosi di non cadere, e tese la sua mano.
Non ci fu bisogno di parlare: Kolossus percepì l’aiuto che gli veniva dato e, con le mani libere, attanagliò l’intero braccio di Carrapax, mentre il Signore del Mare gli afferrava con l’altra chela la mano a cui si teneva sospeso. Lo trascinò lontano di pochi piedi dall’apertura con uno strattone, cadendo all’indietro per il peso di Kolossus, ma rialzandosi subito.
Kolossus invece non si rialzò. Rimase in ginocchio, ansando. Alzò lo sguardo verso Carrapax, ancora fresco e forte, e scosse la testa. No, diceva. E la abbassò, riprendendo fiato.
Carrapax comprese. Diede uno sguardo a Sentraan la cronista e ai Saggi seduti di fianco alla sua postazione, senza usare le parole poiché non voleva intaccare l’onore di Kolossus sconfitto, ma solo con un cenno del capo a significare ‘l’avete sentito, no?’.
Come Carrapax poc’anzi, Sentraan comprese, e le sue parole ruppero il silenzio creato dalla paura e dalla meraviglia che dominava il pubblico.
“Gormiti, il primo scontro del Torneo dell’Eclissi è dunque terminato! Kolossus, Signore della Terra, si è arreso, eliminando per sempre il Popolo della Terra dal candidato al titolo, e dando possibilità al Signore del Mare Carrapax di diventare Principe di Gorm! Salute al vincitore Carrapax, salute a entrambi, valorosi combattenti!”
Il pubblico affondò in un delirio di applausi e urla, generalmente appagati per lo spettacolo e contenti dell’esito. Il Popolo del Mare sugli spalti era esaltato al massimo per la vittoria del proprio Signore, che molti negli altri Popoli credevano impossibile. Maggior parte dei terricoli erano invece insoddisfatti, ma si guardavano bene dal dare critiche al proprio sovrano. Altri furono più accondiscendenti, accettarono la sconfitta, riconoscendo il valore che aveva dimostrato Kolossus sull’arena, pur perdendo.
***
Lacamos e Stalattite corsero come il vento presso il cancello nord - orientale della Città Sotterranea, sudando e respirando a fatica. Avevano trottato per innumerevoli piedi di bui tunnel, illuminati a intermittenza da torce e pietre di luce. Erano le uniche due guardie in quella galleria, e ciò rendeva la loro fuga per allertare i propri compagni ancora più faticosa e con esiti meno promettenti. Mentre loro fuggivano, i vulcanici potevano avanzare. Non avevano sentito però il muro di roccia eretto per rallentarli venire abbattuto. Ma erano già distanti parecchio, e il rumore poteva essersi perduto.
Videro poi una luce più forte, un’apertura più larga, delle figure gormitiche armate: il cancello roccioso della Città Sotterranea.
Lacamos prese il braccio di Stalattite, e con un ultimo sforzo dell’esigua energia che scorreva ancora, raggiunse in fretta il cancello con l’incantesimo di trasporto rapido.
Una delle guardie al cancello vide il loro arrivo.
“Nominativi.” ordinò, squadrando i due terricoli sfiancati.
“Non c’è tempo, per Krut. Ci sono nemici alle nostre porte!” ansimò Lacamos, pretendendo di entrare subito.
“Nominativi.” richiese la guardia rigida.
Se avesse continuato a insistere, avrebbe perso ancora più tempo. Cosa c’era di male in fondo a dire i dannati nominativi ed entrare? Lacamos si rassegnò, e Stalattite con lui.
“Lacamos Pagiani e Stalattite Gurras, guardie della galleria nord-orientale.” disse.
La guardia non li fece passare subito. Prese un rotolo di fogli da una sua bisaccia, e cominciò a studiarselo con tutta calma, cosa che fece irritare Lacamos, stringendo le sbarre del cancello per il nervosismo.
“Sì, siete in lista. - disse la guardia, trovati i nomi dei due compagni - Dovreste essere di guardia al tunnel, è il vostro turno.”
“Non hai capito che ci sono dei vulcanici? Dobbiamo avvisare la città!” ringhiò Lacamos, scuotendo il cancello. Quell’azione non piacque alla guardia.
“Dobbiamo parlare con un Saggio.” disse, più pacatamente, Stalattite.
“Va bene. - accettò la guardia - Entrate”. Il cancello si aprì, rivelando la grande e fiorente Città Sotterranea, luminosa come un centro a cielo aperto, grazie alle numerose pietre di luce.
Piena di abitazioni, di chiese, dei pochi allevamenti e colture che potevano tenersi in quel luogo, sotto la superficie.
“Papà!” gridò un cucciolo di gormita, docile, con le corna ancora piccole e innocue, i lineamenti del viso dolci, il corpo ancora paffuto e scarso di dettagli. Si diresse verso Lacamos, suo padre, a braccia aperte, desiderando un abbraccio.
Lacamos lo accettò, si chinò e lo prese con sé, portandoselo su.
“Sei arrivato presto oggi!” notò con tono innocente il figlioletto.
“E’ vero…” ammise Lacamos. Voleva dare una minima spiegazione per la sua presenza lì, ma allo stesso tempo non voleva allarmarlo. Era ancora piccolo.
“Senti, va’ dalla mamma, e dille di stare in casa con te, e di tenersi pronta, va bene?” gli suggerì, riportandolo giù e chinandosi nuovamente.
“Perché, cosa c’è?” domandò con voce preoccupata il piccolo, ma non tanto preoccupata quanto lo sarebbe stato se conoscesse la verità.
“Non importa. Va’, corri.” gli intimò, con tono non severo, ma abbastanza deciso da far capire al cucciolo che c’era poco da discutere.
Il piccolo annuì, e se ne corse via, verso la sua casa.
“Pagiani, che diamine state facendo qui?” gli chiese severo un gormita tutto imbacuccato in una pesante e aderente armatura nera e verdina, levigata e da precisi ricami geometrici. Le aggiunte quasi luminose ai lati delle braccia e sull’elmo che copriva fronte, mento e tempie, rassomigliavano dei diamanti. Non si poteva dire granché del suo corpo, se non che avesse la carnagione marrone e occhi gialli. Si muoveva e parlava in maniera molto militaresca. Era il capitano delle guardie della Città Sotterranea.
Lacamos attese che il figlioletto fosse fuori dalla vista prima di parlare con il suo superiore. Sia lui che Stalattite si misero sull’attenti e fecero il saluto militare.
“Riposo, riposo…Gurras? Anche voi? Avete disertato entrambi? Esigo delle spiegazioni.” sbottò il capitano.
“Capitano Diamantes. - iniziò Stalattite - Abbiamo avvistato delle presenze nemiche nel tunnel nord-occidentale”
“Presenze nemiche? Di che tipo?” domandò Diamantes.
“Gormiti del Vulcano, temo.” sussurrò Lacamos.
“Gormiti del Vulcano?!” sbraitò Diamantes, turbato. Le sue parole riecheggiarono rapide nella zona, raggiungendo le orecchie dei gormiti vicini, provocando lo stesso turbamento, lo stesso timore. Da gormita in gormita, si sparse la voce dell’avvistamento di nemici in prossimità dei territori della Terra. Ovunque genitori prendevano in braccio o per mano i propri figli più piccoli e li strattonavano in casa. Diversi gormiti di rango militare o comunque abili combattenti e soldati si riunivano attorno alle due guardie e al capitano.
“Informazioni più dettagliate, prego.” esigette Diamantes, mettendo le mani dietro alla schiena.
“Un vulcanico ci ha attaccato. - rispose Lacamos - Una sentinella, presumo. Ho tentato di respingerlo e di chiedere il motivo della sua presenza, ma stavano arrivando i suoi rinforzi e siamo dovuti scappare, non prima di averli rallentati con una parete di roccia.”
“Siete davvero sicuro che erano in forze e non solo uno?”
“Temo di no, capitano. Ma ho sentito i passi. Molti passi, e voci.”
“Potete confermare?” chiese Diamantes a Stalattite.
“Confermo. Sono stati loro a svegliarmi.” disse Stalattite, ma ben presto si pentì, nonostante la situazione, di ciò che aveva appena rivelato.
“Svegliarvi?” ripeté Diamantes, che già pensava che Stalattite stesse dormendo durante la ronda.
“E’ stato colpito alla testa ed è svenuto, capitano.” prese le sue difese Lacamos.
“Cosa facciamo, capitano?” domandò un gormita tra la folla di soldati riuniti.
“Lasciatemi riflettere…” invocò Diamantes, passandosi una manso sul viso.
“Non possiamo prendere decisioni avventate, capitano.” lo avvisò un grosso e muscoloso gormita, dalla pelle gialla, voce roca, un martello al posto della mano sinistra. Nessuna traccia sul suo corpo dell’evoluzione mystica.
“Saggio Gheos Massas. - lo salutò brevemente il capitano - Cosa consigliate?”
“Il Vulcano è subdolo, lo so meglio di voi. - concesse Gheos - Dobbiamo prendere decisioni ponderate. Non sappiamo le loro intenzioni. Questi due guardiani hanno visto un vulcanico, e sentito altri. Ma non abbiamo prove che siano qui in forze. Dobbiamo accertarci del loro numero.”
“Consigliate quindi di abbandonare la Città Sotterranea per andare a controllare?” chiese per conferma Stalattite.
“Non abbandonare. - chiarì Gheos - Lasceremo una retroguardia, una corposa retroguardia. Se la forza vulcanica è esigua, sarebbe inutile se non rischioso mobilitare un grosso plotone.”
“Sembra tutto molto chiaro, e già deciso…chi guiderà la truppa?” domandò un terricolo nella folla, battendo i pugni, già pregustando di menare le mani e sicuro che fosse già tutto prestabilito.
“Io propongo Gheos…cioè, il Saggio Massas. - propose un altro, avventato come il suo compagno e già pronto alla lotta - Ha più esperienza di noi.”
Molti altri terricoli si trovarono d’accordo, e Gheos fu scelto in pochi minuti come guida della truppa di accertamento.
“Vi ringrazio per la fiducia. - disse sorridente Gheos, ma subito il suo sorriso si tramutò in un’espressione seria - Tuttavia, stiamo agendo troppo tempestivamente.”
“Vero. - concordò Diamantes - Avete detto che il Vulcano è subdolo. Se fosse una trappola? Se vogliono attirarci lontano dalla Città Sotterranea per colpirla quando ha poche forze in sua difesa?”
“Il tunnel nord-occidentale è l’unica via sicura per la Città Sotterranea, oltre alla Caverna di Roscamar, ovviamente, ed è l’unica che conoscono.” assicurò Gheos - Ci sono molti altri tunnel, è vero, ma noi che abitiamo qui ne conosciamo davvero pochissimi e non in tutta la loro lunghezza. Dubito che il Vulcano li conosca…ma allo stesso tempo, non posso non prendere in considerazione questa possibilità. Lasceremo un esercito pronto a difendere la città.”
“Avvisiamo Roscamar. - propose un altro - Se qualcosa va storto, potremo mandare un messaggero a chiedere rinforzi.”
“Non voglio allarmare la capitale, non prima di essere certi con cosa abbiamo a che fare. Potrebbe benissimo non esserci alcun pericolo. - si impuntò Gheos - Potrebbero avere delle sentinelle lì e…non so. Faremo meglio ad agire silenziosi, finché possiamo.”
“Io non sono sicuro sia una buona idea, Saggio. - criticò un terricolo - Credo che faremo meglio a rimanere qui, e ad attendere l’arrivo dei vulcanici e fermarli.”
“Ti sei bevuto il cervello? - disapprovò sprezzante Gheos - E’ fuori discussione. Ci sono dei civili non adatti alla lotta…bambini, anziani, case e campi qui. Non possiamo rischiare che vengano danneggiati.”
“E’ tutto sbagliato! No, noi dovremo - ”
“Cos’altro c’è? Cosa?!” scoppiò Gheos, che ne aveva abbastanza di critiche e proposte indecenti “Ho ascoltato le vostre opinioni troppo a lungo. E voi mai mi avete ascoltato, solo quando ero avvelenato dalla maledizione. E quando questa finì, mi avete ignorato tutti, non avete voluto darmi ragione. Avete voluto che trovassimo una soluzione alle vostre stupide richieste di conquista, l’abbiamo trovata, avete voluto questo dannato torneo. Avremmo dovuto tornare subito a vivere in pace, forse adesso sarebbe più facile risolvere questo dilemma. Mi avete rinnegato per ciò che avevo fatto, quando sapevate che non era colpa mia, eppure, adesso, mi avete affidato il comando. Quindi ora obbedite od obbedite.”
Gheos si era sfogato abbastanza. Non voleva sembrare irascibile, troppo severo, troppo dittatoriale quando poi non era più Signore, ma ciò che gli era capitato, la maledizione di Magor, venire discusso da i propri sudditi e compagni, era profondamente disonesto.
“Scusatemi. - sospirò Gheos, levando le mani (la mano e il martello, meglio) - Mi sono lasciato andare…forse un po’ troppo.”
I terricoli accettarono le sue scuse, riconoscendo anche gli errori commessi. Il gormita che aveva iniziato a mettere in dubbio le decisioni di Gheos rimase a capo chino, e non espresse più la sua opinioni.
“Saggio Massas. - lo chiamò titubante il capitano Diamantes. Gheos gli diede parola con un cenno del capo - Avvisiamo il Signore Kolossus?”
“A che scopo? - sospirò Gheos - Non conosco gli esiti del Torneo, ma un gormita in più o in meno, anche se è il Signore, farà poca differenza.”
“E’ tutto, Saggio Massas?” volle conferme il capitano Diamantes
“Se avete altro da propormi, non esitate. - offrì Gheos - Tranquilli, non mi altererò…”
Dov’è il Vecchio Saggio? - pensava intanto - Lui potrebbe aiutarci
***
Kolossus era rientrato nella sua stanza, dopo lo scontro perso con Carrapax, mentre nell’Arena oltre la grata, in tavoli, parlavano alcuni critici sportivi –li poteva sentire discutere sugli errori commessi da lui durante la lotta - e dei Saggi e comuni gormiti della Terra riparavano il campo devastato dallo Squarcio del Behemoth in vista del prossimo scontro, Aria contro Foresta. Sugli spalti il pubblico si rincuorava con vivande.
Dedalo lo consolava, mentre – sempre per sua richiesta - gli medicava le poche ferite riportate.
“Non ti preoccupare. - diceva - Non è poi così importante. Sono sicuro che non ne usciremo svantaggiati, chiunque diventi Principe di Gorm…a meno che non sia il Popolo del Vulcano, ma quello ormai è fuori.”
Al contrario, Gravitus lo tempestava di critiche, gli riempiva la testa di ciò che avrebbe dovuto fare e di ciò che avrebbe fatto meglio a non fare…gli faceva pesare quella sconfitta come se avesse profanato delle tombe, una chiesa o…o ucciso un familiare.
Tra ciò che gli diceva Dedalo per confortarlo e le infinite critiche di Gravitus, il Signore della Terra capiva ben poco. L’unica cosa certa era che il mal di testa da poco passato avrebbe potuto ricominciare presto.
“Sei in guai seri, Kolossus. - lo ammoniva - Il Consiglio non sarà contento, e nemmeno il Popolo. Avrai un bel discorso da fare per aver perso in questo modo. Arrenderti! E’ davvero una cosa…orribile!” Non aveva il minimo rispetto per la figura di Signore di Kolossus, un titolo che Gravitus tanto agognava e tanto era sicuro di ottenere, e non sembrava temerne le conseguenze.
“Ah, se fossi stato al posto tuo, non mi sarei arreso per nulla al mondo. Non mi sarei fatto prendere i piedi, in primo luogo e poi - Ahia!”
Kolossus gli strizzò il naso, ricolmo dei suoi discorsi così avvilenti e decisamente esagerati. Riuscì nell’intento di zittirlo. Proseguì per la stanza, alla porta opposta alla grata che dava sull’arena.
Camminò per un lungo periodo, passando per le stanze dei campioni di Foresta e Aria e dei loro allenatori. La camera del Signore della Foresta sembrava vuota, e al contrario dalla stanza del campione del Popolo dell’Aria provenivano strani e forti suoni, come se gli occupanti stessero mettendo a soqquadro tutto.
Aveva poco interesse per i Signori di Aria e Foresta, in quel momento. Voleva parlare con Carrapax. Non sapeva come o perché, ma sentiva che provava una certa ammirazione nei suoi confronti, e forse anche un po' di riconoscenza - che in un modo o nell'altro gli doveva, per non averlo fatto cadere nello squarcio, sebbene l’entità del danno non potesse essere calcolata.
Non sentiva nemmeno la tristezza o la rabbia per aver perso: sentiva che, se fosse stato Carrapax a divenire Principe di Gorm, l’Isola era in buone mani e nessun Popolo aveva da temere.
Arrivò dunque alla stanza di Carrapax e Murena. Bussò, tossendo.
Gli aprì la porta la figura a lui sconosciuta di Murena. Ella lo squadrò, sospettosa.
“Non credo che Carrapax abbia tempo per te.” disse. Ma non lo disse con sprezzo o perché voleva tenere il figlio lontano da lui, semplicemente perché era così.
“Lascia stare, madre. - negò Carrapax - Posso dedicare qualche minuto fuori.”
“Va bene. Torna presto a prepararti.” acconsentì Murena, lasciando che Carrapax uscisse.
“Grazie.” mormorò Kolossus sia a Carrapax che a Murena.
I due si incamminarono insieme per i corridoi interni dell’Arena di Astreg, silenziosi.
Kolossus non riusciva a spiccicare parola, sebbene fosse quella la sua intenzione. Carrapax cercava di non osservarlo, per non aumentare l’imbarazzo del non riuscire ad attaccar bottone, e ne approfittava per sgranchirsi le gambe e i muscoli.
“E’ stato un bello scontro - parlò il gigante cieco dopo l’imbarazzante silenzio - Davvero. Io non sarei mai stato così capace di sfruttare la forza del nemico. Anche perchè sembra tu controlli la rabbia meglio di me, o che non ti arrabbi affatto.”
“Ti ringrazio, Kolossus. - gli disse Carrapax - E’ strano ricevere dei simili commenti da un vinto: il torneo è importante. Ma esageri: la fortuna ha avuto la sua parte in questa sfida.”
“Oh, andiamo. - rise Kolossus - Non essere così sminutivo di te stesso. Vantati un po’! Hai vinto! Lasciati andare!” E gli mise una mano sulla spalla.
La bocca di Carrapax si mosse a formare un sorriso.
“Comunque. - si fece serio Kolossus - Credo di doverti un grazie, per avermi tirato su. Avresti potuto lasciarmi lì,”
“No. - affermò, guardando dritto davanti a sè, compiaciuto. Mise la sua chela sulla spalla amica di Kolossus - Non avrei potuto.”
“C’è altro di cui vorresti parlarmi, Kolossus? - gli chiese Carrapax - Ora che sono in finale, mia madre vuole che mi alleni per bene, e che non mi perda il prossimo scontro.”
“Il tuo allenatore…è tua madre?” chiese Kolossus, tanto per dire.
“Sì. Non è la mia madre naturale. I miei genitori sono stati uccisi.” spiegò il Signore del Mare.
“Oh, mi dispiace.”
“Non importa. - lo rassicurò Carrapax posando nuovamente la chela sulla sua spalla - E’ acqua passata. Da molto tempo. Non so nemmeno chi fossero di preciso. Piuttosto, tu…” cominciò una domanda Carrapax, ma si fermò pensando che fosse un quesito indecente.
“Cosa c’è? Su, chiedimi.” lo invitò Kolossus, pronto a dirgli di tutto.
“Be’, mi domandavo…sei sempre stato cieco? Come fai a…vedere?”
“Ah, questa è una domanda che mi fanno in molti. - rise Kolossus, per nulla offeso - Sì, sono cieco dalla nascita. Non so spiegare come vedo di preciso…la mia mente vede, e gli altri miei sensi vedono. Ad esempio, posso dirti che adesso hai indosso la tua armatura cristallina. Perché ce l’hai addosso?”
“Notevole! Come fai?” chiese piacevolmente stupito Carrapax, senza però rispondere.
“Te l’ho detto: non lo so”
I due fecero dietrofront, poiché a breve sarebbe cominciato il nuovo scontro e Carrapax avrebbe fatto meglio a studiare le mosse del suo prossimo avversario.
“Un’ultima cosa, Carrapax. - lo fermò prima che entrasse nella sua stanza - Se dovessi diventare Principe di Gorm, cosa faresti?”
“Ottima domanda. - considerò il Signore del Mare - Non ho idee precise: voglio solo che l’Isola di Gorm torni in pace, come tutti dovrebbero. E invece, c’è gente che ha voluto questo torneo per il dominio tirannico dell’Isola…Se io diventassi Principe, il mio Popolo ne gioverebbe anche, dopo il risveglio della Grande Murena, che ancora ci viene rinfacciato.”
“Molto bene. - sorrise Kolossus - Sono convinto che l’Isola sarà dunque in buone mani, se verrai scelto. Buona fortuna.”

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Capitolo 23
*** Capitolo 9.3 ***


Il Vecchio Saggio spazzò via l’ennesima creatura d’ombra, che si dissolse come fumo nella buia grotta. Arrivavano in continuazione e lo attaccavano: esseri deformi, dagli occhi rossi, fatti di oscurità e polvere, con parvenze elfe, diabolici sorrisi e lunghi artigli di tenebra.
Non cessavano mai di piombargli addosso in grandi numeri. Un grande getto di energia magica fu sufficiente per mandarli tutti a catafascio, contro le pareti, a farli svanire nell’ombra da cui provenivano. Per sua fortuna non era necessaria grande energia per combatterli e finora non erano ancora riusciti a mettergli le mani addosso, o addosso l’Occhio della Vita.
“Non avrai l’Occhio della Vita, Magor.” diceva, mentre con un getto trasversale di forza magica tranciava a metà i corpi di mezza dozzina di quegli esseri mostruosi e informi.
Magor era lì: sapeva che era lui a inviare quelle cose a tenerlo occupato, e gli aveva già parlato, invitandolo ad arrendersi.
“Non avrei mai dovuto farti venire qui! Non avrei dovuto accettare il tuo aiuto.”
“Molte cose non avresti dovuto fare.” replicava la voce tenebrosa dello Stregone di Fuoco, che parlava e osservava la scena al sicuro della sua stanza, lontano, in cima al Monte di Fuoco, attraverso la sua sfera veggente.
“E molte avresti dovuto farle. Ad esempio, affrettarti a erigere le difese, o a cambiare nascondiglio.”
Il Vecchio Saggio non rispose. Aveva ragione: avrebbe dovuto spostarsi subito, non appena la loro cooperazione per annullare la maledizione si fosse conclusa.
“Il tuo vecchio corpo non reggerà ancora a lungo, e lo sai bene. Consegnami l’Occhio della Vita e te stesso, prima che io possa ferirti.”
“Scordatelo!” asseriva il Vecchio, mentre con vigorose sferzate del suo bordone di legno finiva altri di quei mostri d’ombra.
“Non so come tu riesca a creare queste cose, Magor, e non lo voglio sapere. A difesa dell’Occhio, potrei persino distruggerlo senza saperne le conseguenze, sappilo.”
Magor ignorò le ultime parole del Vecchio, focalizzandosi invece sulle prime.
“Delle creature interessanti, nevvero? Forse ora ammetterai che l’allievo ha superato il maestro.”
“Non lo ammetto affatto. - negò lo stregone bianco - Sei forse capace di creare il diamante?”
Magor non rispose. Si sentì al contrario il suo ringhio pervadere la stanza buia: in tutti quegli anni, Magor Vasìr, allievo di Razael Akkars, non era ancora stato capace di creare il diamante con la magia, ed era ancora un comune apprendista stregone.
Il Vecchio Saggio sorrise.
***
“Dopo uno scontro davvero esala...esaltante tra i due Signori di Mare e Terra, ora vediamo in campo i prossimi sfidanti, Signori di Aria e Foresta!” balbettava Sentraan dalla sua postazione per nulla ambita di cronista.
“Ecco dunque entrare in scena i campioni del Popolo dell’Aria e del Popolo della Foresta: chi tra loro vincerà, giungerà in finale e lotterà con Carrapax per il titolo di Principe di Gorm!”
“Barbataus!” un’altra grata si aprì, ma il suo occupante tardò ad uscire. Lo si intravide nell’ombra, prepararsi per uscire, fare dei passi avanti, poi voltare il capo indietro. Il suo allenatore gli dava delle ultime dritte. Un gormita piccolo per lo standard, ma temprato dall’esperienza, dall’età, dagli episodi vissuti, da rabbia ed odio contenuti. Un gormita vegetale della Foresta, dalla pelle verde limone, un volto consumato e carico di brutti ricordi, due corni lignei. Dalle sue braccia pendevano liane, e al loro interno delle minute mani a tre dita. Paludis, il sopravvissuto della Foresta e conoscitore dei segreti condivisi con il Vecchio Saggio.
Sebbene fosse Saggio, aveva abbandonato la carriera politica e voleva avere poco a che fare con il Consiglio. Come nella Grande Guerra, non amava che i gormiti dei diversi Popoli si combattessero a quel modo, ma finché non c’erano individui vulcanici da sopprimere, si sarebbe rilassato dando dritte combattive ad altri gormiti. Era stato lui a chiedere di poter allenare il proprio Signore, sebbene sapesse perfettamente che il sovrano silente non era molto interessato nella lotta o nel titolo di Principe di Gorm.
“Sentite, Signore. - lo fermò prima che uscisse dalla sua stanza - So che non vi interessa diventare Principe di Gorm e che non volete il dominio della Foresta sugli altri Popoli.”
Si fermò qualche secondo, riflettendo col capo chino. “E’ una scelta che ammiro, e spero davvero che anche gli altri la pensino a questo modo. Questa lotta non ha senso. Tuttavia, non lasciatevi sconfiggere. Fatevi valere.”
Prese la mano di Barbataus tra le sue liane, guardandolo dritto negli occhi, con quello sguardo sottile e antico, crudele, ma anche benevolo.
“Fate valere il Popolo della Foresta. - lo supplicò - Dimostrate che anche uno come voi può combattere, senza magia.”
“Farò del mio meglio, grazie Paludis.” lo ringraziò Barbataus, liberandosi subito dalla stretta forte di Paludis. Una presa come quella di una tenaglia, e l’unica mano a cinque dita di Barbataus era grande il doppio! Aveva un certo timore reverenziale per quel Saggio. Era piccolo nelle dimensioni, e sembrava molto più vecchio di lui, il che gli sembrava impossibile, e allo stesso tempo era più forte di quanto Barbataus potesse sperare di essere, più agile e forzuto di quanto lo sia mai stato in gioventù. Sì, era certo di provare anche invidia, oltre a quel timore.
Uscì infine dalla sua camera, molto lentamente, trascinando la sua frusta di radici e liane sul suolo polveroso e sabbioso, alzando più gloriosamente che poté il suo abnorme pugno, e si posizionò al centro dell’arena.
Ci furono poche grida e i fischi quasi non si sentivano. In compenso, c’era un caotico scroscio di applausi, proveniente in gran parte da gormiti della Foresta.
A Barbataus era più che sufficiente. Non era lì per dare mostra delle sue straordinarie tecniche o della sua leggendaria agilità…non era mai stato un abile combattente, per un gormita, e mai lo sarà, specie ora a quell’età.
Voleva davvero credere di poter dare mostra del suo valore, soddisfare la richiesta di Paludis e quella di molti altri forestali nel pubblico, ma era convinto di non esserne capace, e in più temeva che uno scontro prolungato non avrebbe giovato alla sua salute.
Prima che Sentraan diede il comando che la grata della stanza del suo avversario si aprisse, Barbataus notò qualcuno sbracciarsi tra il pubblico, attirare l’attenzione su di sé, mentre tutti gli altri erano tornati muti e tranquilli ai loro posti.
Era il suo amico Troncannone, da sempre suo grande compagno, da molto tempo suo maggiore sostenitore. I loro occhi si incontrarono: Troncannone, sorridendo, mostrò il suo pugno.
Quel gesto riscaldò il cuore –per così dire - di Barbataus, e gli fece mutare intenzioni, almeno in parte. C’erano amici, lì nel pubblico e non solo, ma più che amici suoi sudditi, suoi sottoposti. Persone che credevano in lui, che lo avevano scelto tra tanti altri valorosi. Lo avevano scelto non solo perché credevano nei suoi ideali, ma perché egli, per loro, era un esempio, un modello. Era dal Signore che ogni suddito doveva trarre ispirazione. Compito del Signore era animare i propri popolani, ispirare loro fiducia, incarnare tutto ciò che di buono c’era.
Barbataus non poteva tradire tutto questo. Avrebbe dato del suo meglio, era deciso.
“Elios!” giunse nitida la voce di Sentraan.
L’altra grata si aprì immediatamente, ed immediatamente fuoriuscì il Signore dell’Aria Elios, in tutta la sua giovanile bellezza, volteggiando. Uscì con il capo voltato, rivolgendo ciò che sembrava una pernacchia al suo allenatore nella camera.
Barbataus riuscì a malapena a sentire un’imprecazione soffocata dall’altra parte della grata prima che, svolazzando in modo molto vivace, con svariate capriole in volo, e agitando le braccia per avere le grida e l'esultanza della folla, ogni suono fu coperto dal chiasso delle urla e degli applausi, molto più rumorosi di quelli avuti da Barbataus.
I gormiti dell’Aria applaudirono ben poco, e i movimenti delle loro mani, lenti ma precisi, sembravano coordinati, dando origine a un solo enorme applauso, ahimè soffocato dal resto del caos. La brevità e la poca intensità dell’esultanza della maggior parte degli aerei non era dovuta a una mancanza di fiducia o di simpatia verso Elios. Semplicemente, ordinati e silenziosi com’erano, i gormiti dell’Aria ritenevano sufficiente l’ovazione da loro offerta.
Voltandosi verso il suo avversario, Elios fece un’espressione di disgusto, mascherata da un sorriso.
“E io dovrei combattere contro questo vecchio Albero di Valladoin?” esclamò gracchiante verso il pubblico, e non furono pochi a scoppiare in risate.
Barbataus non apprezzò quel sarcastico commento, ma mantenne calmo e rimaneva immobile al centro dell'arena: sembrava, anzi, che avesse gli occhi chiusi!
“Con l’età giunge l’esperienza, Elios. - sopraggiunse in risposta il Signore della Foresta, aprendo gli occhi - E tu manchi di entrambe.”
“Ah, questo è da vedere!” lo sfidò Elios altezzoso, puntandogli l’indice.
Il gong suonò nuovamente rapido e netto.
***
“Piano…piano, per gli dei!” bofonchiava Gheos, supervisionando lo spostamento di una grande e massiccia lastra circolare, che, controllata da più terricoli, veniva spostata dal suo ripostiglio scavato nella pietra e nella terra davanti al cancello nord - occidentale della Città Sotterranea.
Una precauzione che il Saggio Massas aveva voluto prendere: spostare il ‘Masso delle Grandi Occasioni’, protetto inoltre da qualche incantesimo, a difesa dell’entrata settentrionale della città.
“Non vorrete mica romperlo? Adagio, adagio.” comandava, mentre i suoi sottoposti, con cura e con sbuffi, posizionavano precisa la grande piastra rocciosa davanti al cancello. Leggermente sospesa, quando fu al suo posto i terricoli lasciarono il controllo su di essa, e toccò con un tonfo e un lieve innalzamento di polvere il suolo.
“Tutto regolare, Saggio!” lo avvisò il capitano Diamantes, correndo verso di lui e irrigidendosi nel saluto militare.
“Riposo, capitano.” lo fece rilassare Gheos, al contrario per nulla rilassato.
Mise mano e maglio sui fianchi, osservando con espressione poco soddisfatta il lavoro compiuto e il numero di gormiti al suo seguito. Erano poco più di un centinaio: molte armi, qualche corazza, poche salamandre, e l’equipaggiamento pesante – cannoni, arieti, carri - si poteva contare sulle dita.
Non sapeva cosa c’era ad aspettarlo negli oscuri tunnel, ma se c’era una forza vulcanica di un certo numero come temeva, i suoi uomini e l’equipaggiamento non sarebbe stato sufficiente per fermarli.
“Ehm, Saggio Massas?” cercò di parlargli Stalattite, picchiettandogli sulla spalla con il dito.
“Sì?”
“Mi chiedevo… - rimuginò - Se c’è una truppa, ecco, più grande di quanto possiamo affrontare, e mandiamo un messaggero a chiedere rinforzi, come farà a…a parlare, e dovrà spostare da solo il Masso?”
“Dov’eri quando ho spiegato? - gli chiese imbronciato Gheos - Si può sentire abbastanza bene anche con il Masso, e poi c’è il dialogo mentale. Per il masso, c’è gente dentro che lo può spostare.”
“Sì, scusatemi. - abbassò il capo Stalattite, rialzandolo subito dopo con un’altra domanda - Ma se, per caso, qualcuno dovesse venire catturato, e i vulcanici lo costringessero a parlare per aprire l’entrata, come faranno a…”
“Eventualità improbabili e che spero non debbano avvenire, guardia. - lo ammonì Gheos col dito sul petto di Stalattite - Ad ogni modo, le guardie dell’entrata sono ben addestrate, e capiranno se ci sono presenze non familiari oltre il masso.”
Gheos si voltò, e rifletté un attimo. Per quanto fosse davvero improbabile che un suo uomo venisse catturato e portato alla porta della Città Sotterranea da dei vulcanici, il tutto senza che nessuno vedesse nulla, non si poteva prevedere che ciò non accadesse. Meglio prendere altre precauzione, anche se ciò avrebbe diminuito la forza effettiva del suo gruppo di soldati.
“Stalattite, mi hai fatto pensare. - gli disse, poggiandogli una mano sulla spalla - Metterò delle guardie anche da questa parte del Masso. E tu sarai una di quelle. Renarz!” chiamò a gran voce. Il gormita in questione si voltò stupito, e indicò se stesso, come se temesse di aver capito male, che non si stava parlando di lui.
“Tu sarai l’altra guardia, posta qui a difesa dell’altro lato del Masso, chiaro?”
“A-agli ordini, Saggio Massas.” balbettò il terricolo.
“E ora prendete posizione, guardie. Tutti gli altri, con me! Ci mobilitiamo!”
“Come ci muoveremo, Saggio?” domandarono in molti radunatisi attorno a Gheos.
Questi estrasse dalla sua cintura – prima di uscire dalla Città si era preparato anche lui, come gli altri, e ora indossava un’armatura leggera e una cintura alla vita con molti appigli - un rotolo di carta. Lo srotolò, mostrando una mappa delle gallerie della Caverna di Roscamar.
“Questo ipotetico gruppo del Vulcano sta portando qualcosa con sé, o è molto corposo: altrimenti avrebbe potuto correre a piedi e con la magia, come hanno fatto Lacamos e Stalattite. Ciò significa che sta procedendo poco velocemente, ma non possiamo sapere, se c’è, la sua esatta posizione. Nel tempo passato si può supporre che il gruppo vulcanico sia più o meno qui. - e indicò una zona ristretta sulla cartina - Possiamo approfittarne: io guiderò un plotone per la scorciatoia, mentre i carri, i cavalieri e alcuni corridori proseguiranno per la strada principale e ci avviseranno se li incontrano. Così, possiamo chiuderli: anche se in numero maggiore, saranno circondati. E’ tutto. Muoviamoci!”
Gheos assegnò al capitano Diamantes il ruolo di guida dell’altro gruppo, e gli fece scegliere un discreto numero di terricoli atletici che potessero correre bene e a lungo per accompagnare lui e i cavalieri con i carri.
Il gruppo di Diamantes si mise subito al galoppo, mentre quello di Gheos, più lentamente, si intrufolava in segreti e bui passaggi che penetravano nella parete del tunnel e salivano in cima.
La scorciatoia che procedeva vicino al soffitto era un oscuro antro senza alcuna illuminazione, che si restringeva sempre più, sia in altitudine che in latitudine. C’era il rischio di inciampare su qualche roccia o di pestare qualcuno dei misteriosi animali che vivono nell’ombra e nell’umido delle grotte e delle gallerie. In un punto si restringeva talmente tanto da permettere il passaggio in larghezza di un gormita alla volta, e procedendo a capo e busto piegati, se non a gattoni.
Ci si poteva perdere, in quel tunnel segreto. Chi non vi era abituato, poteva perdercisi non solo con il corpo, ma anche con la mente.
Nuda e viscida roccia tutta intorno, nessuna fonte di luce per piedi e piedi. Un buio tale da rendere chiunque incapace di vedere dove si poggiano i piedi, cosa si ha di fronte. Poi, qualche creatura che si muove, con sinistri versi e rumori lugubri, la si può sentire viscosa e fredda sulla pelle.
Sarà una lucertola - si dice il gormita - Uno scarafaggio continua a ripetersi. Ma dove domina il buio, ogni certezza svanisce, e non si può mai essere sicuri di cosa si ha appena toccato, di cose si ha appena visto, nella fioca luce che può presentarsi. Senza sicurezza, si ha paura, e nella paura si è persi. La paura serve per dare dei limiti, si dice, per proteggere l’individuo dai pericoli.
Quando però non si conosce la natura del limite da non sorpassare, quando il pericolo non può essere definito, la paura non fa che aumentare e l’individuo perde la ragione, perde tutto. Vuole solo andarsene, togliere la paura, far sì che smetta, tornare in un luogo sicuro, ad ogni costo, con ogni sforzo. Ma in quel cunicolo a nulla serve delirare conquistati dalla paura: tanto è stretto che voltarsi per tornare indietro risulta impossibile, ed è abbastanza difficoltoso procedere in retromarcia nel buio, rischiando di cozzare continuamente, specie se sono presenti altri individui dietro, ansanti e invisibili, che anche loro non vedono l’ora di uscire da quel buco, continuando però ad andare avanti.
Riflessioni sulla paura, l’ultima cosa su cui Gheos pensava di poter concentrarsi. Lui era un guerriero, temprato dalla lotta, dal sudore e dal sangue, e dal costante timore di perdere la propria vita o quella dei propri cari. La paura lui l’aveva dominata tempo fa. Ma si sa, esiste sempre qualcosa che inquieta, in questo mondo.
Si poteva finalmente intravedere una luce: erano quasi giunti alla fine del tunnel. Se non altro, per quanto stretto e angusto, era una scorciatoia, e come tutte le scorciatoie, non era molto lunga.
Ora non restava che superare uno alla volta la piccola apertura, sgranchirsi qualche secondo sulla piccola altura, attaccare la corda a dei pioli sul soffitto, e scendere giù. Si poteva benissimo usare la forza magica per atterrare dolcemente dal ripiano alto fino in basso, ma non tutti ne sono capaci, specie tra i terricoli, e oltretutto lo spazio per quel tipo di manovre era ancora poco e colmo di pietre dure e aguzze. Molto meglio usare la corda.
Una volta che tutti furono discesi e la corda tolta, bisognava accertarsi se i vulcanici fossero davanti o dietro di loro.
Gheos mandò silenziosamente tre guerrieri a dare un’occhiata dietro di loro, per assicurarsi della posizione dei vulcanici e della squadra guidata da Diamantes. Li avrebbe mandati carichi di un incantesimo di mimetismo o di invisibilità, tanto per la loro sicurezza, se solo conoscesse la formula e le movenze.
Giunsero dopo nemmeno un minuto, accompagnati dal marciare sempre più lento della squadra di Diamantes, e infine dalla squadra stessa.
“Contatti negativi, Saggio.” Diamantes informò Gheos.
“Molto bene. - esclamò Gheos - Se la minaccia è reale, è davanti a noi. Restate pronti, sia che troviamo nemici, sia che non troviamo nulla.”
“Mi sento screditato.” sussurrò Lacamos indispettito. Gheos parve sentirlo, e gli diede un’occhiata strana. Lacamos non notò né Gheos udirlo ne essere guardata. Osservava quasi perso il nero e le luci verde - giallo delle pietre di luce. Forse pensava a suo figlio, alla sua famiglia.
Proseguirono lenti e silenziosi. Il movimento delle ruote di legno sul suolo e il sottile clangore del metallo di armi e corazze dei terricoli provocavano un caos assordante nel silenzio che si era generato.
Pur con tutti quei rumori, a Gheos, capofila, non sfuggì un suono diverso, non proveniente dalla sua truppa. Con uno scatto della mano ordinò a tutti di fermarsi. E tutti si fermarono.
Ora potevano sentirlo tutti: dei passi affrettati, e un respiro appesantito, nel buio del tunnel, dinanzi a loro.
Ecco ora apparire dalle ombre la figura indimenticabile anche nel nero di un gormita del Vulcano, dalla pelle rosso scuro e la corazza grigia. Si fermò non appena vide il plotone terricolo, muto e imponente. Il suo sguardo si paralizzò, così come il suo corpo.
“E’ lui! E’ il gormita che ci ha attaccati!” se ne uscì con quanto fiato aveva in corpo Lacamos, rompendo di botto il silenzio.
Il vulcanico citato e riconosciuto se la diede a gambe a passi larghi e svelti, e scomparve nel buio da cui era apparso. Nessuno lo inseguì o lo attaccò.
“E’ stato più facile di quanto temessi.” si rasserenò Gheos, non più teso. Lacamos si tranquillizzò anche lui. Il gormita vulcanico non era stata un’illusione –credeva di esser diventato pazzo - però era sicuro anche di aver sentito i rumori di altri gormiti, molti altri. Forse quella era davvero un’illusione.
“Era solo una sentinella, immagino. - continuò Gheos - Torniamo alla Città Sotterranea.”
Prima che lui o chiunque altro potesse voltare il capo o il corpo, l’aria si riempì di grida e di passi pesanti e veloci.
Subito davanti a loro comparve una schiera rossa e grigia, numerosa, armata fino ai denti, ricca di torce che riempivano il tunnel di calda luce e cupo fumo.
Era in numero spropositato, ben più grande di quello della schiera di Gheos. Correvano in carica pronti ad uccidere, avvicinandosi sempre più, e mai smettevano di uscire a fiotti dalla svolta del tunnel.
“Presto! - urlò Gheos, preparando il suo martello - Qualcuno torni indietro e avvisi la città, avvisi Roscamar!”
Immediatamente uno dei suoi uomini annuì e si mise rapidamente in corsa dietro di loro…ma poco dopo fu colto dalla morte, da una freccia scagliata dagli arcieri del Vulcano, e cadde, esanime al suolo.
“Non sprecare i tuoi soldati, Gheos.” lo esortò maliziosa una voce terribile. Davanti a lui, Magmion, il Saggio del Vulcano, precedente Signore, esponente della potente famiglia Magmadoni. Il suo uncino riluceva temibile nella soffocante luce delle torce.
“Non ti permetterò di rovinare i miei piani.”
“Cosa significa tutto questo?” ruggì Gheos digrignando i denti.
“Te lo dirò, Gheos, e anche in fretta. - acconsentì Magmion con un ghigno, compiaciuto di quanto stava accadendo - Terremo in…ostaggio la tua Città Sotterranea, e dopo di essa il Bazaar, finché non otterremo il dominio di Gorm. Questo per quanto riguarda il mio plotone. Devo ringraziarti per i tunnel che hai fatto scavare.”
“Cosa? - rifiutò di credere Gheos - Tenere in ostaggio un’intera città? Avrai anche questo esercito, ma la Città è ancora piena di soldati pronti a difenderla, e Roscamar è dietro l’angolo ad aiutarla.”
“Hai visto che fine ha fatto il tuo uomo, Gheos. - lo ammonì Magmion - Manda quanti uomini vuoi ad avvisare la città, i miei arcieri li uccideranno tutti. E non ti preoccupare di come lo farò: ho i miei mezzi.”
Gheos voleva capire, ma Magmion continuava a sogghignare, mentre il suo spunzone si ricopriva di fuoco. Non avrebbe rivelato altro, ne era sicuro.
Lo sguardo di Gheos si posò per un attimo su alcune catapulte, non molto grandi o alte, distinte in mezzo alla folla di vulcanici sanguinari. Le pietre che portavano avevano una strana forma e fattura: scure, avevano diversi solchi, luminosi di rosso e arancione.
“Cosa sono quelle cose?” chiese, senza sperare però di ottenere risposta, mentre Magmion avanzava minaccioso verso di lui.
“Le hai notate, allora. - sogghignò Magmion - Quelle, sono il nostro asso nella manica. Bombe. Bombe! Non esiteremo ad usarle per ottenere il dominio di Gorm, se ci verrà ordinato, anche al costo di perdere i miei uomini e di distruggere la tua preziosa città. Convincente, nevvero? Spero per te e i tuoi uomini che vi arrenderete.”
“Sei un folle, Magmion! - ringhiò Gheos mentre, con un battito della mano sul suo martello devastò l’avversario con un colpo di forza magica - Mettere a rischio così tante vite…no, non ci arrenderemo. Vi fermeremo, e moriremo con onore.”
***
“Riuscirai a vedermi? Ih ih!” gracchiò Elios svolazzando a grande velocità attorno Barbataus, che voltava lento e quasi disinteressato il capo per scorgere il suo avversario.
Era quasi impossibile vederlo! Non si fermava, pareva fosse lì e un attimo dopo era dietro, poi di nuovo davanti e infine di fianco pronto con i suoi artigli e il suo becco di tuono.
“Ehi, dove guardi!” lo istigava Elios, e lo colpiva con le sue unghie azzurre.
Barbataus gemeva piano, e si voltava ad ogni movimento d’aria, ogni volta che Elios parlava - perchè parlava, e anche tanto.
“Yuhuu, sono qui!” e una beccata.
Barbataus sembrava innervosito, o forse voleva solo farlo credere?
“Prima son qua. - rideva e dava una graffiata sulla sua spalla - E poi son qua!” e una graffiata sull'altra spalla.
“Mi vedi? Non mi vedi?” gli diede un calcio sulla nuca.
“Mi vedi? No, non mi vedi! Ah, ah!” un colpo di becco dritto nella schiena, tra i folti capelli verdi del Signore della Foresta, e questi rovinò a terra con un gemito.
“Il Signore della Foresta sembra non essere un efferato combattente!” commentò Sentraan che, essendo una gormita della Foresta e poiché non era stata sua precisa intenzione diventare cronista, non riusciva a nascondere un po’ di dispiacere nel vedere Barbataus perdere.
“Un colpo dopo l’altro, il Signore della Foresta è crollato di fronte agli svelti e numerosi colpi del Signore dell’Aria Elios! Si rialzerà? Si arrenderà?”
Ma Barbataus non sembrava sconfitto: muoveva gli arti, cercando di alzarsi. Non si era arreso, ma rimaneva sempre al suolo.
Elios, fermatosi, ridacchiò di gusto con la mano sulla pancia. Scese per la prima volta a terra e, voltandosi al pubblico, espresse chiare parole riguardo i suoi pensieri al combattimento.
Il piano di Barbataus cominciava a funzionare.
“Per quanto ancora devo umiliare questo tronco peloso? Dichiaratemi vincitore e facciamola finita con questa baggianata!”
Una strana sensazione pervase il collo di Elios. Sentiva il tempo che andava lento, come a significare che aveva fatto uno sbaglio e non avrebbe potuto correggerlo, ormai che era troppo tardi.
Percepì qualcosa che per questa sua sensazione gli parve viscido come un serpente, che gli si avvinghiava alla gola e un brivido gli percorse la schiena.
La viscida liana strinse forte il collo di Elios, che gracchiando di meraviglia e terrore portava le mani alla testa, nel tentativo di allentare la presa.
Barbataus sollevò Elios in aria, e con rapido movimento lo fece schiantare a terra.
Ma non era finita. La morsa della liana non era svanita: si ritrovò, Elios, di nuovo in aria, e poi di nuovo a terra, in aria e a terra, con il suo intero corpo che velocemente diveniva dolorante, e se non sanguinava era solo per la misericordia di Barbataus.
Sbattendo a terra un'ultima volta, per Elios sembrava che quella tortura fosse finita.
Invece no. La frusta di Barbataus lo sollevò nuovamente da terra, questa volta in modo, velocità e direzione diversa.
Ben fissata, dritta verso il cielo, la frusta del Signore della Foresta, questi prese a rotearla a mo’ di lazo, ed Elios, oltre a dolorante, era adesso anche nauseabondo.
Con la mente e il corpo in completo subbuglio, Elios non percepì la liana staccarsi dalla gola e il venire scagliato a gran velocità verso chissà quale direzione.
Barbataus osservò compiaciuto Elios che sfrecciava nel blu, e non per sua volontà, mentre il pubblico lo acclamava.
Ma l’incontro non era ancora terminato. Il Saggio predisposto al suono del gong non lo suonò. Sentraan rimase muta. I Saggi di fianco alla sua postazione mormoravano turbati.
Barbataus si sentì un po' preoccupato da ciò.
Le possibilità erano due: Elios sarebbe tornato entro un certo lasso di tempo, magari concedendogli la vittoria, e questa sarebbe stata una buona notizia, che il nemico si fosse arreso o meno.
Oppure Elios non l'avrebbe fatto, e Barbataus sarebbe stato condannato di aver ucciso un combattente nel torneo, e forse squalificato, dando a Carrapax il titolo di Principe di Gorm –non che a Barbataus interessasse tanto.
I sensi di colpa cominciavano a rivoltarsi nella testa di Barbataus e a roteare vorticosamente. Provenivano da diversi eventi della sua vita, eventi lontani, eventi completamente sconnessi da ciò che aveva fatto adesso, e pensava a cosa avrebbe dovuto fare per non ritrovarsi in quella situazione così scomoda e ahimè dolorosa.
Disperato, ritrovò la speranza in un suono.
Udì un sibilo, come di qualcosa che aumentava gradualmente e enormemente la sua velocità ad ogni metro.
Elios era lì, questa volta lo vedeva: occhi infuocati, pugni stretti innanzi, ali spalancate, un solo obiettivo.
Barbataus, trovando il tempo per un sospiro di sollievo, fece qualcosa di inaspettato.
Un salto imponente, impossibile per la sua stazza, ma non magico: i Saggi non percepirono magie.
Elios gli piombò sotto i piedi, scavando un solco lungo e profondo col becco e con la velocità, cercando di fermarsi con gli artigli ma scavando solo altri solchi.
Piombando a terra con un tonfo, Barbataus allungò di nuovo la liana e prese, con una certa forza, Elios per il collo.
Lo avvicinò a lui, e gli parlò.
“Ti arrendi?” disse con una voce profonda e gelida.
Elios cercava di divincolarsi, con il fiato che mancava, sia per la stretta che per la sabbia involontariamente inghiottita e con lo sguardo oscurato dalla stessa granulosa sabbia. Alla fine, poiché la morsa di Barbataus non cessava, fu costretto a dire: “Gah, sì! Sì!”, annaspando.
Il Signore della Foresta sorrise, e poggiò delicatamente Elios a terra, lasciando la presa. Il Signore dell'Aria si accasciò comunque sulle ginocchia, stanco come non mai.
Il gong di fine incontro suonò, e Barbataus ne fu il vincitore.
“Si conclude così il secondo incontro del Torneo dell’Eclissi! Barbataus, dopo un’iniziale svantaggio, si è rivelato il combattente più abile e valoroso e si aggiudica la finale! La luna ormai è prossima a coprire il sole: chi diventerà Principe di Gorm? Il giovane promettente e pieno di sorprese Carrapax o l’anziano ma vigoroso ed esperto Barbataus?”
La voce di Sentraan era nettamente più forte, pulita, e quasi felice. La ‘rivincita’ di Barbataus, il suo accesso alla finale, sembravano averla ravvivata e oserei dire quasi renderla soddisfatta del suo incarico di cronista.
Barbataus si alzò, e si girò verso Elios, prendendogli con dolcezza il braccio e alzandolo.
“Alzati, dài.” disse. Con la presa leggera della sua liana, nonostante la stanchezza, consegnò un po’ della sua energia allo sconfitto, molto più fiacco di lui.
Elios sbattè gli occhi, infastidito da quel gesto di Barbataus e quella sensazione che gli pervadeva il braccio, che non riusciva a comprendere. Ma in seguito, rinvigorito in un lampo, capì di che si trattava.
“Ehi, grazie, tronchetto!” si ritrovò a dire stupito Elios, che non si era per niente aspettato un’azione del genere.
“Di nulla. Non siamo nemici, dopotutto.” affermò Barbataus, profondamente convinto di ciò che diceva.
“Eh, no, no! - concordò Elios - Però, su, non dovevi. Sai, con la tua età…eh, eh!”
Barbataus lo guardò con la coda dell’occhio, uno sguardo di finto rimprovero che traspariva divertimento.
“Eh, eh, scusa! - scherzò Elios, dandogli dei buffetti sulla guancia - Però, proprio non mi aspettavo un vecchietto come te combattere…così, e resistere…così!” si congratulò con Barbataus, mentre avanzavano verso le loro stanze.
“Ora ti sei ricreduto. - lo ringraziò Barbataus - Devo dire anch’io lo stesso di te. La tua velocità non ha rivali. Tuttavia, poni troppa fiducia in essa, credendo che essa da sola possa farti vincere qualsiasi lotta.”
“Eh! Ho visto!” commentò Elios.
“Sai, credevo che voi dell’Aria foste molto più abili con la magia, e con i poteri elementali.” ammise Barbataus.
“La magia? La magia non fa per me. - asserì Elios - Per quanto riguarda i poteri, heh, non possiamo contare solo su quelli. Credevo di essere bravo nel corpo a corpo, ma mi sbagliavo, a quanto pare.”
“Non lo crederai davvero! - rise Barbataus - Hai perso solo perché avevi troppa fiducia in te stesso. Hai talento, e anche l’esperienza non ti manca, lo ammetto.”
***
Un’altra di quelle orride creature svanì nel nulla. Il Vecchio aveva una riserva di pietre preziose e di sale nero da cui attingere forze, ma chissà se sarebbero bastate. I mostri d’ombra continuavano ad arrivare a decine, inflessibili, innumerevoli, decisi a circondarlo. Magor sembrava poterne creare all’infinito.
Lo Stregone di Fuoco, nascosto nella sua stanza ben distante da lì, sembrava avere anche lui una riserva energetica possente.
Perdutosi un attimo nei suoi pensieri, il Vecchio Saggio non si accorse di uno di questi piombargli addosso e sferzarlo con i suoi artigli in pieno volto. Lo stregone chiuse gli occhi con un gemito e una profonda sensazione di dolore. O così pareva.
Aprì timoroso lo sguardo. Nessuna ferita, nessun dolore! La creatura di tenebra continuava a graffiarlo inutilmente: il fumo trapassava il suo corpo senza effetti.
“Che cosa? Delle..delle illusioni?!” gridò il Vecchio incredulo.
La gustosa risata di Magor pervase la stanza, e il Vecchio Saggio si sentì preso in giro, si sentì stupido e incosciente.
“Certo che erano delle illusioni! - confermò la sua voce ancora rotto da ghigni, mentre le creature del buio svanivano in vapori - Davvero credevi che potessi creare dei mostri, attraverso la sfera? L’età non ti ha giovato, maestro.”
“Perché ti stai prendendo gioco di me in questo modo?” sbottò rabbioso lo stregone bianco.
“Dovevo tenerti occupato fino al loro arrivo.” replicò Magor.
“Il loro arrivo? - ripeté il Vecchio, deglutendo - L’arrivo di chi?”
Gli giunse presto risposta: due gormiti del Vulcano, probabilmente seguiti da altri, fecero la loro apparizione nella camera segreta del Vecchio Saggio. Brandì con vigore e tremore il suo bordone.
Uno di questi, armato di balestra, guardava spensierato i barattoli pieni di sale nero e il prezioso Occhio della Vita, che da lungo tempo era stato nascosto ad occhi vulcanici, sognando ciò che avrebbe potuto fare con simili ricchezze.
L’altro era serio, e guardava severo il Vecchio Saggio.
“Dopo tutto ciò che ho fatto per voi! - singhiozzò lui - Io vi ho aiutato, vi ho...ho fatto dei favori al vostro Popolo! Ed è così che infine mi ripagate! Mi volete uccidere.”
“Non uccidere, Vecchio Saggio. - lo corresse il vulcanico serio - Non è nei nostri ordini, né nelle nostre intenzioni. Siamo qui per l’Occhio della Vita, e sono pronto a disobbedire a Magor, che vuole che recuperassi anche voi. Noi ricordiamo di come ci avete aiutato, e lo riconosciamo. Ma non riconosciamo la vostra iniziativa di trafugare l’Occhio della Vita e usare il suo potere per i vostri piaceri.”
“Non ho mai usato l’Occhio per i miei piaceri.” dichiarò risoluto il Vecchio Saggio. Era quasi una bugia, visto che aveva usato l’energia neozon dell’Occhio della Vita per ricreare la genie gormitica. Ma era stata un’azione contraddittoria più che giustificata!
“L’Occhio dev’essere distrutto, per il bene di tutti.”
“Ragionate, Vecchio Saggio. - contrattò il gormita - Non potete competere contro un folto gruppo di vulcanici, per quanto potente sia la vostra magia. Sono pronto a lasciarvi andare e a non farvi del male, purché ci consegnate l’Occhio della Vita.” e tese la mano in avanti.
“Basta con queste stronzate, Icarot. - intervenne il compagno armato di balestra - Sappiamo bene entrambi che non ce lo darà mai. Mettiamolo fuori gioco, e portiamo lui e l’Occhio dallo Stregone di Fuoco.”
“Voi sapete perché lo Stregone di Fuoco ha bisogno di me? - sviò il Vecchio Saggio, con il capo chino - Sapete perché non mi vuole morto? Sapete chi è in realtà lo Stregone di Fuoco?”
Prima che i due gormiti potessero fiatare o rispondere, giunse forte e imperiosa la voce di Magor.
“Sbrigatevi a prendere l’Occhio della Vita e il Vecchio! E non uccidetelo! Feritelo quanto vi pare, ma tenetelo in vita, e non credete a una singola parola di quello che vi dirà!”
I due vulcanici si misero sull’offensiva.
“I gormiti sono misericordiosi con voi. - confessò il Vecchio - Credono che ciò che è successo sia successo anche per colpa loro, e vogliono arrivare a vivere in pace con il Vulcano. Io avevo idee diverse, ma col tempo sono giunto a concordare con i loro piani. Ma voi, voi non mi lasciate altra scelta.”
***
Un fenomeno straordinario dominava il cielo diurno: la luna boscosa di Greemerald, sempre più scura nel firmamento color del mare, era giunta ai bordi del disco del sole. L’eclissi era ormai una questione di poche ore, se non di minuti. Quando l’astro del giorno avrebbe nascosto il suo volto luminoso sotto la maschera della luna verde, il Principe di Gorm si sarebbe manifestato.
Mentre Greemerald prometteva la discesa della notte da un momento all’altro, qualcosa si muoveva nella Foresta.
Nei suoi più profondi antri delle selve più scure, un nemico minacciava di mettere in pericolo la sicurezza della Foresta Silente, e le sue azioni combinate alle gesta di molti altri nemici sparsi per l’Isola minacciavano il benessere e la pace di tutta Gorm mentre, ignari di tutto questo, i Signori lottavano sull’Arena di Astreg per soddisfare i propri Popoli.
Il silenzio di quel bosco cupo fu rotto da leggeri fremiti. Il suono di pietra contro pietra, della terra che si apre, squarciata, strappata dal suolo.
Un grosso cespuglio di more fu sollevato da terra…da qualcosa sotto di esso. Una forte mano rossa come le fiamme e una grossa chela d’avorio dipinta con insegne di guerra sollevarono il cespuglio e una grande zolla di terra che le sue radici robuste e in continua crescita, grinzose e lo gettarono via.
Come se quelle stesse radici tenessero in piedi quel terreno, tutta la terra, granulosa o dura che fosse, lì attorno cadde in un baratro sotterraneo, creando un varco che si stagliava su un immenso tunnel delle profondità, in cui spuntavano centinaia e centinaia di gormiti rossi, arancioni, grigi, i più vicini ricoperti dalla testa ai piedi di terriccio e di zolle umide.
Tossivano, gracchiavano, altri, completamente ricoperti di terra, si alzavano a fatica sputando marrone dalle loro bocche. Tutti imprecavano più o meno pesantemente per quel mare di terra che li aveva stravolti.
Ma Lavion, già saltato sul suolo solido, mal sopportava tutto quel caos.
“Smettetela di sbraitare come bambocci. - sibilò paurosamente, guardando tutti storto - Questo buco è già abbastanza vistoso, non facciamoci sentire.”
In lui non c’era traccia del gormita civile ed affabile che si era mostrato durante la riunione dei Signori su Iustinsula.
I suoi uomini si zittirono subito, più o meno volentieri, e cominciarono a risalire per preparare il loro attacco. Lavion non poteva rischiare di farli emergere tutti in una volta: erano in tanti e, conoscendo il nomadismo dei forestali e la loro mania di mettere trappole ovunque non fosse un sentiero, sarebbe stato pericoloso ammucchiarli tutti lì. Ne fece uscire qualche decina, mentre gli altri sarebbero risaliti in piccoli gruppetti, e avrebbero seguito il resto della schiera già in marcia.
Lavion e un suo ufficiale si sedettero a terra, abbastanza stanchi –dopotutto avevano attraversato i tunnel sotterranei dei terricoli dalla Valle del Vulcano fino a quel luogo imprecisato della Foresta Silente, e il percorso era tutt’altro che rettilineo, e le pause scarse e brevi.
Ma i due rimasero poco accomodati sul suolo erboso. L’ufficiale di Lavion stese per terra, tra lui e il suo superiore, una cartina. Si misero a gambe incrociate per poterla osservare meglio da seduti.
“Noi dovremmo essere qui. - disse l’ufficiale, indicando una zona della Foresta a ovest della Piana di Astreg, leggermente più in alto - Qua vicino dovrebbe trovarsi una chiesa. E qui, secondo i nostri informatori. - spostò il dito - Si trova la Biblioteca Silente restaurata, secondo alcune voci ancora in costruzione ma già piena di tomi e di gormiti attaccati alle loro pagine.”
“Non serve che spieghi tutto così…così! Nel dettaglio, ecco. - replicò seccato Lavion - Sarà la quinta volta che mi dici che potrebbe non essere finita e dei gormiti coi libri in faccia. L’importante è che la Biblioteca sia lì, e che ci sia qualcosa di valore a renderla importante.”
“Scusatemi, non lo farò più.” sbuffò l’ufficiale, muovendo gli occhi al cielo, seccato quanto Lavion. “La distanza non è poca. - riprese poi - Dovremo cercare di arrivare a destinazione senza essere visti, e senza sprecare gli esplosivi.”
“Se dovessimo venire scoperti prima di arrivare. - spiegò Lavion, alzandosi -Terremo in ostaggio qualsiasi gormita incontriamo, con il terrore delle bombe. Pensa!” e alzò le braccia al cielo, immaginando il caos che avrebbe generato. La chela ticchettava paurosamente.
“Un piccolo incendio in questo posto, e tutto potrebbe venire distrutto. Case, mercati, chiese…persone.” Si voltò di scatto verso il suo ufficiale, e lui stesso si spaventò, alla vista di quel viso demoniaco reso ancora più diabolico dal malefico sorriso e dai suoi sogni di terrore.
“La paura e il caos che scateneremo sarà sufficiente a tenere a bada questi gormiti.” continuò, voltando le spalle al suo ufficiale e avvicinandosi a un albero e stringendo fra le mani un ramo, che intanto aveva riposto la sua cartina nella cintura.
“Questa Foresta è così…fragile.” Il ramo si spezzò nella stretta della sua mano.
Dopo poco l’esercito si mise in movimento, uscendo a fiotti dal varco nel terreno mentre Lavion, accompagnato dal suo ufficiale, avanzava tra cespugli, rovi, labirinti di rami, foglie e liane, a capo degli uomini già all’aperto.
Non tutti i vulcanici che uscirono si misero subito in cammino, seguendo Lavion. A un certo punto tutti si fermarono, mentre una dozzina di gormiti robusti si appostava ai lati dell’apertura, cautelandosi che il terreno fosse stabile e, gettando in basso delle corde che altri di sotto assicuravano all’obiettivo, tiravano con tutta la forza che avevano in corpo con quelle corde, senza strattoni, senza interruzioni, una tirata instancabile, vigorosa e imperterrita. Alla loro fatica un minaccioso marchingegno emergeva dalla terra scura e umida. Una piccola ma massiccia catapulta, di oscura fattura, del legno nero degli alberi del Vulcano, chiodi e giunture di un acciaio brillante, tutta segnata da marchi rossi. Il fardello della catapulta: una lugubre pietra arzigogolata, grande, come pece, da cui uscivano cupe luci come di fuoco.
Una volta che l’asso nella manica dei vulcanici fu portato in superficie, pronto ad incutere terrore, la marcia riprese. Le altre catapulte, ancora nel tunnel, avrebbero atteso.
Lavion procedeva sicuro a capo del suo plotone, per sentieri non tracciati, in un terreno ricolmo di foglie, arbusti e cespi. Molti alberi venivano buttati a terra per permettere il passaggio dell’esercito. La sua missione sarebbe andata a termine con successo. Ogni missione avrebbe avuto successo. Quel piano era destinato a trionfare.
“Ecco, guardate, la chiesa.” gli fece notare l’ufficiale, portando la sua attenzione a un edificio in mattoni bianco, largo, con un terrazzo sopraelevato al cui centro emergeva una bassa torre dotata di campanile. Poco lontano c’era il tempietto di pietra verde dell’Occhio della Vita, con le sue cinque colonne e le fiamme colorate, presso il quale anni addietro il Vecchio Saggio aveva fatto conoscenza con Florus Fegri, Signore della Foresta.
Nonostante non fossero più utilizzati come un tempo, non erano stati buttati giù, memori di un antico passato pacifico e simbolici, e molti dei cultori del mito degli Osservatori, così come i devoti di alcune religioni minori, che non entravano nelle chiese, li utilizzavano ancora come luoghi di preghiera e di rito.
“Significa che siamo sulla strada giusta.” ghignò Lavion, oltrepassando una siepe e immettendo sé e l’esercito nel sentiero della chiesa, mentre due alberi ai suoi lati venivano abbattuti.
Un gormita della Foresta, un priore, nel suo mantello nero, il collare argentato e il bastone scuro, emerse dalla porta della chiesa. E la sua espressione nel vedere i vulcanici marciare davanti casa sua e distruggere gli alberi del suo paese fu indescrivibile. Paura? Sgomento? Rabbia? Un miscuglio di tutto questo. Ma lasciò che nessuna di questa prese il sopravvento su di lui.
“Voi! - gridò, puntando contro Lavion il suo bastone - Disgraziati! Scellerati! Disonorate i nomi di Travor, di Menumia di tutti i semidei e della sacra forza Vorcan con le vostre azioni!”
“Stai indietro, priore, prima che - ”
“Eretici!” lo interruppe il priore colpendolo in viso con un blocco di legno. E se ne fuggì nella sua chiesa, prima che Lavion, con un labbro sanguinante, o uno qualsiasi dei suoi uomini potesse colpirlo.
Riecheggiarono per tutte le fronde le eco della campana che il priore suonava strattonando la fune con vigore. Uccelli svolazzavano e starnazzavano rumorosamente dai rami, scossi dal rumore, e diversi animali della terra, conigli, serpenti, insetti fuggivano impauriti da quel rimbombo.
“Che succede?” chiesero alcuni tra le fila, bloccate perché non avevano idea di cosa fare, tanto meno Lavion, che si aspettava il peggio.
“Ah, merda!” gridò uno, beccatosi una freccia sulla spalla.
“Aiuto!” gridò un altro, che veniva trascinato per un piede da una liana nascosta, spinto tra cespugli spinosi, per scomparire nel verde.
Altri seguirono il loro fato: uno si ritrovò sospeso in aria per un piede, un altro per il collo. Frecce rapide e silenziose che ferivano i vulcanici, radici e liane che sbucavano dal nulla e strappavano i soldati dai loro ranghi. Il fracasso della campana non cessava.
Immediatamente facevano capolino dalle foglie e dai rami nodosi facce, mani, braccia, corna di numerosi gormiti della Foresta, pronti a respingere la minaccia che attentava alla sicurezza della loro casa.
“Per Fendril, Praconrem, Krut e tutti i semidèi. - sussurrò Lavion, indietreggiando, bianco in volto - E questi da dove sbucano?”
Numerosi come un nugolo d’api gormiti forestali fuoriuscivano dagli alberi, chi armato, chi con corazze, chi con bordoni e bacchette, altri spogli, ma tutti decisi a far fronte all’esercito del Vulcano.
Quella era la loro casa, e l’avrebbero difesa. E chi conosce meglio la propria casa se non chi vi abita? La Foresta Silente, per quanto ricoperta quasi totalmente da fitti alberi, era un luogo aperto, e nulla passava inosservato agli occhi vigili dei gormiti di Vegnet.
“Maledizione! Pronti a usare quelle bombe! Dove sono le bombe?” sbraitò Lavion, che si vedeva venire addosso uno sciamo di forestali alla carica e la maggior parte dei suoi soldati allo scoperto era persa nelle trappole della Foresta.
“Saggio Magmadoni, la bomba è sparita! - lo informò uno, mentre lottava con un gormita nemico - La seconda catapulta è ancora nel tunnel, e non riusciremo a tirarla fuori!”
“Che cosa? Merda!” imprecò il Saggio vulcanico, pestando i piedi a terra. Tutto stava andando in fumo proprio davanti ai suoi occhi. E poco prima credeva quel piano fosse infallibile.
“Aaah!” urlò poi nella fuga, sentendo qualcosa avvinghiarglisi al piede e trascinarlo su, a mezz’aria, come un pesce lasciato ad essiccare.
“Dannazione!” esclamò, al primo tentativo fallito di tagliare il cappio di legno. La chela si dimenava a scatti e faceva fatica a controllarla. “Dannazione!” ripeté, incapace per la seconda volta di recidere la corda. Si focalizzò con lo sguardo sulla corda, saettando delle fiamme dai suoi occhi. Il cappio si infiammò e bruciò. Lavion cadde di schiena, abbastanza dolorosamente.
Sentì dei passi pesanti dietro di lui, e un’ombra molto grande proiettarsi sul suo corpo, sinistra e incombente.
Con il sangue raggelato, si voltò tremante. Di fronte a lui, la figura mastodontica e forzuta di Tasarau, Saggio della Foresta. Il suo occhio giallo era ricolmo d’ira.
“Ritiratevi. - ordinò Lavion, indietreggiando ma ancora a terra - Ritiratevi!”
***
Il Torneo era ormai giunto al termine: il Principe di Gorm sarebbe stato rivelato di lì a poco, alla luce del giorno prossima a scomparire
Tutto il popolo gormita fremeva nell’attesa, impaziente, speranzoso, timoroso.
I due contendenti al titolo di Signore supremo di Gorm erano Carrapax e Barbataus, che superarono i campioni di Terra e Aria Kolossus e Elios. Tra di loro, tra una sfida e l’altra, era nata una certa intesa.
Il Signore del Mare e il Signore della Foresta si affacciarono, a lati opposti, all'entrata dell’Arena di Astreg, pronti e preparati per lo scontro finale.
In attesa del gong che li avrebbe posti uno contro l'altro, per il dominio e la pace dell'Isola di Gorm.
“Donne e uomini, giovani, anziani, gormiti di tutta l’Isola! - richiamò Sentraan, contenendo a stento singhiozzi e balbuzie per la tensione - Siamo giunti finalmente al momento decisivo! A breve la Luna Verde Greemerald coprirà la luce del Sole, portando le tenebre. La profezia si avverrà, e nella notte di questo giorno il Principe di Gorm si distinguerà tra questi due valorosi combattenti. Barbataus Fangors, Signore della Foresta; Carrapax Danul, Signore del Mare. Fatevi valere!”
Il martello scosse il piatto metallico, e un suono netto, ma questa volta lento e continuo alle orecchie dei combattenti risuonò, mentre entravano avanzando a passo leggero e quasi indifferente.
Il tintinnio evanescente del gong rimbombò nella loro testa per tutta la durata dello scontro.
Gli occhi di Barbataus e Carrapax si incrociarono: le iridi color del limone, luminose e guardiane di una mente colta e solitaria, scrutarono nel profondo di due occhi scuri e introversi, in cui brillava una forte ma lontana luce azzurra di umiltà e fedeltà.
Due occhi molto diversi, ma che trasparivano uno stesso desiderio: il bene comune.
Come si poteva mettere uno contro l'altro due individui che nel profondo del loro animo bramavano la stessa cosa? Cosa c’era di così diverso in loro per farli scontrare al fine di far prevalere uno sull’altro.
Semplicemente nulla.
Questo è uno dei tanti esempi di come l’odio e la discordia, sebbene frutto del potente e quasi incontrollato incantesimo di Magor, che per quanto possano essere importanti e fondamentali nella storia di una civiltà, possono intaccare le menti delle persone e renderle dimentiche dei principi di unità, e di forza dell’unità.
Il passo dei due combattenti si affrettò.
Ben presto la loro camminata divenne una marcia, una corsa frenata.
E infine il freno smise di funzionare: i due Signori e campioni intrapresero una corsa velocissima, alzando le loro armi al cielo e vociando terribili urla di battaglia, pronti a darsele d santa ragione, e a darsele forti.
Lo scontro delle due corse fu un caos: chele che si aprivano e chiudevano spasmodicamente stringendo nella loro morsa ciò che capitava, pugni roteanti, calci violenti, pestate ai piedi, frustate impazzite, sfere d'acqua che si abbattevano come grandine, radici sbucate dal terreno che picchiavano con la forza di un gormita. Qualcuno disse di aver visto addirittura dei morsi.
Il pubblico era in delirio, alternando dei lunghi silenzi a delle urla di tifo sfrenato.
Sentraan, che ormai pareva aver preso gusto nell'essere cronista, si portava le mani alla testa, con un’espressione nervosa e ansiosa, cercando di capire e descrivere ciò che accadeva in quello scontro così ravvicinato. C’era in ballo il futuro avvantaggiato del suo Popolo, dopo tutto, e la possibilità di vivere i suoi ultimi anni come un Signore.
Gli unici che sembravano scontenti – per così dire - erano quei pochi vulcanici presenti, che tuttavia erano interessati a quella sfida così intensa. Era piuttosto stupido da parte loro, però, essere scontenti.
E’ risaputo: più si evolve, più cresce l’intelligenza, la capacità della mente, più una creatura diventa subdola, al punto che un animale che finge la morte per aggirare i predatori può diventare un individuo senziente capace di mentire spudoratamente per coprire le sue vere intenzione, per nascondere la reale priorità della situazione.
Questo sembrava senza dubbio il caso dei gormiti del Vulcano.
***
Gheos parò l’ennesimo affondo dello spunzone fiammeggiante di Magmion piegandosi sulle ginocchia. Da lì sotto caricò con tutto il suo peso contro il petto e il ventre di Magmion, facendolo inciampare, ma non cadere.
La situazione non era promettente. L’immensa truppa vulcanica, il cui esatto numero non poteva essere definito, aveva spinto il discreto gruppo di Gheos indietro, e aveva già mietuto numerosi guerrieri. Gheos e i suoi uomini cercavano di indietreggiare, ma dovevano farlo il più lentamente possibile, o gli infallibili ed invisibili arcieri di Magmion avrebbero attaccato, o qualcuna delle bombe sarebbe stata lanciata, creando danni incalcolabili alla galleria, e decimando sicuramente il gruppo del Saggio della Terra. Una prospettiva migliore di quella che vedeva l’esercito vulcanico alle porte della Città Sotterranea, entrare e tenere in riga tutti quanti con la minaccia delle bombe. A quale scopo? Cosa c’era dietro quell’avvisaglia esplosiva? Cosa contava di ottenere Magmion da tutto ciò? Era solo una scorreria, per far capire il pericolo incessante del Vulcano?
Domande a cui avrebbe avuto risposta più tardi, o mai, ma non ora. Aveva altro a cui pensare: resistere a Magmion e alle sue forze. Finora ci erano riusciti, mantenendo delle fila larghe in cui i vulcanici non potessero passare, impedendo loro di circondarli.
Gheos sperava di poter combattere abbastanza e continuare ad indietreggiare fino ad attirare l’attenzione delle guardie poste al cancello della Città Sotterranea, coi suoni o con la vista stessa di ciò che stava accadendo. Se ciò non fosse stato possibile, lui e i suoi soldati avrebbero ucciso quanti più avversari potessero, magari anche fatto esplodere una bomba. Qualsiasi cosa pur di danneggiare il nemico.
Magmion lanciò un lapillo infuocato a Gheos. Questi la parò con un muro di sabbia che, a contatto col fuoco, divenne tagliente vetro. Avvolse il lapillo nella sabbia e lo gettò su Magmion un letale dardo. Ma il colpo andò a vuoto.
“E’ inutile continuare a combattere, Gheos!” lo invitò Magmion, caricando contro di lui con un pugno diretto al mento, che l’ex-Signore della Terra evitò con uno scatto all’indietro.
“Inutile per te. - corresse lui, mandandolo a terra con un calcio nello stomaco - Vi rallenteremo e indeboliremo finché potremo, e la nostra morte eroica sarà la nostra immortalità.”
“Vorrei poterti credere. - mormorò Magmion, agitando la sua coda tozza e grigia alla ricerca del vicino piede di Gheos, che trovò, prese e strattonò, portando a terra con uno schianto il corpo del terricolo di fianco a sé. Magmion si alzò di scatto, ponendosi sopra Gheos, con lo spunzone pronto contro la testa - Ma non c’è nulla di eroico nell’opporsi all’inevitabile.”
L’uncino del Saggio Magmadoni fu afferrato dalla mano di Gheos. Magmion ringhiò forte, inumidendo il petto del terricolo col suo fiato. Gheos colpì il muso del vulcanico con il suo maglio, con ben poco effetto se non qualche goccia di sangue sul viso e sul collo. Magmion prese Gheos per il collo con la mano, mentre ancora cercava di colpirlo alla faccia con lo spunzone. Soffocandolo o fracassandogli il cranio, l’avrebbe ucciso. Invece, con un briciolo di concentrazione, Gheos soffiò della sabbia negli occhi di Magmion, che urlò per il fastidio.
Gheos poté infine liberarsi dalla stretta del nemico, sferrargli un calcio nello stomaco, prenderlo per la coda e sbatterlo a terra.
“Nulla è inevitabile, tanto meno tu e i tuoi scagnozzi.” dichiarò Gheos.
“Lo credi davvero? - lo provocò Magmion alzandosi - Un solo passo falso, un solo tentativo di fuga o di sotterfugi, e tu o qualcuno dei tuoi si beccherà una freccia in testa. E ricordati che non esiterò a lanciare una delle bombe, anche se non mi verrà ordinato da lui.”
Lui? Forse si riferiva allo Stregone di Fuoco, oppure a uno dei due Signori del Vulcano, ancora non resi noti. Qualche suo superiore, magari.
“E dà un’occhiata ai tuoi soldati! - lo invitò il Saggio del Vulcano, allargando le braccia - Giovani volontari che hanno solo giocato a fare la guerra, e che non hanno idea di cosa significhi la prima linea. Vecchi generali incapaci che nella Grande Guerra sono rimasti indietro, a dare ordini al sicuro delle loro tende. E guarda invece i miei uomini.” Puntò il pollice all’indietro.
“Tra di loro ci sono anche dei guerrieri mystica.” ammise soddisfatto.
“Cosa? Mystica? - domandò Gheos basito - Sei pazzo: nessuno è più un mystica oggi.”
“Non parlo di quei mystica. - chiarì Magmion, con uno sprezzante gesto della mano rivolto a Gheos - Parlo del mio corpo speciale di soldati. Il meglio del meglio dell’esercito! Guerrieri temprati da un addestramento durissimo e lunghissimo, esperti in ogni aspetto del combattimento, maestri di diverse arti marziali. La morte è loro amica.”
“Immagino tu sia uno di loro. - suppose Gheos sarcastico - Una mera soddisfazione, quella di essere chiamato mystica, dopo che gli déi non ti hanno graziato.”
Magmion ringhiò rabbioso. I suoi nervi si tesero, e strinse il pugno. Ma non caricò iroso contro Gheos. Al contrario, sembrò calmarsi, e rispondere a parole a quell’offesa.
“Sì, fai pure il gradasso Gheos, mentre i tuoi soldati muoiono, e i miei sono a un passo dal conquistare la tua città. Prima che tutto questo sia finito, ti strapperò quella lingua biforcuta e ti taglierò quel martello. E quando avremo finito, diventerai il buffone del Signore del Vulcano, a fare il mimo con una mano sola, e a beccarti frustate ogni ora perché non farai ridere nessuno.”
“Preferisco uccidermi che servire te e la tua razza!”
“Oh, non dire così. - gli disse con voce supplichevole - Se proprio devi morire, sarò io a toglierti la vita.”
***
Lacamos si guardava attorno nervoso, mentre stendeva i nemici del Vulcano con colpi secchi e precisi, frutto del suo allenamento come guardiano. Cercava un nemico in particolare, e voleva uccidere lui, a qualsiasi costo, lo doveva trovare.
Il vulcanico con il casco giallo e grigio che lo aveva attaccato circa un’ora prima con i getti infuocati, la sentinella dell’esercito di Magmion.
Non sapeva perché voleva combattere proprio lui. Non aveva colpe, be’, non più degli altri gormiti del Vulcano. Ma qualcosa lo spingeva a cercarlo e ad affrontarlo. Si sentiva in qualche modo…legato?
Quand’ecco che sembrava averlo intercettato, un altro gormita lo fermò, e quasi non lo ammazzò, con un fendente di una grossa spada d’acciaio scuro diretto al suo stomaco.
Lacamos si voltò, con i pugni pronti all’azione, per dare un’occhiata al nuovo avversario.
Era un alto vulcanico, dall’aspetto decisamente spaventoso. Non c’era un singolo lembo di pelle che non fosse corazzato o difeso da cotta di maglia –cosa piuttosto insolita per un gormita.
Totalmente ricoperto da un’armatura di metallo lucido nero, bordata di rosso. Il suo elmo spartano era molto ampio, su bocca e occhi, ma non si poteva vedere nulla se non il nero. Era a cavallo di una salamandra – come avevano portato le salamandre fin lì? Temevano il buio, e gran parte del tunnel era quasi per niente illuminato - dalle squame azzurrine.
Il misterioso cavaliere discese dalla sua cavalcatura, e con guizzo saltò davanti a Lacamos con la lama distesa, pronto a infilzare il terricolo scarso di armatura. Lacamos evitò quest’ennesimo fendente con un salto laterale. Il vulcanico corazzato continuò ad attaccarlo con fendenti ed affondi, piuttosto ripetitivi, ma decisamente pericolosi, che Lacamos continuò a schivare con facilità sempre minore, e diversi tagli gli coloravano i fianchi di rosso.
Il cavaliere fece una piccola pausa, leggermente stano anche lui, e Lacamos ne approfittò. Non per contrattaccare, ma per parlare.
“Chi sei?” chiese tremante.
“Il mio nome non ha importanza.” rispose freddo e distaccato il vulcanico, con un tono lugubre, mentre plasmò una sfera di fuoco nella mano libera che riversò su Lacamos. Prontamente, il terricolo la evitò gettandosi di lato, e afferrando una spada di un gormita morto lì vicino. Non poteva sperare di difendersi e contrattaccare a dovere senza un’arma.
“Sono il comandante incaricato di guidare l’assalto al Bazaar, se ti può interessare. - riprese in seguito, preparandosi al duello con la spada - Ma ho un interesse speciale per voi terricoli.”
“P-Perché?” domandò Lacamos, mentre parò un colpo della sua lama.
“Un terricolo ha ucciso mio figlio Efernus, due anni fa.” spiegò.
“Mi dispiace. - disse Lacamos, mentendo e tentando un colpo all’elmo del cavaliere - Ma c’era la guerra, e i soldati muoiono.”
“Non è morto sul campo. - raccontò il guerriero, ferendo Lacamos alla gamba - Era accampato lontano dalla battaglia, e un terricolo lo ha ucciso in un agguato, nel mezzo del territorio del Vulcano, Me lo ha detto lui, nei suoi ultimi respiri.”
“M-mi dispiace, allora. - balbettò Lacamos. Un terricolo nel territorio del Vulcano? Insolito, ma ricordava qualcosa, qualche voce, di un suo amico… - Non posso farci niente, non sono stato io. E perché prendertela c-con me, con tutto il Popolo della Terra?”
“Non ho mai avuto il piacere di uccidere uno di voi, dopo la sua morte. - spiegò - E voglio vendicarlo. Se non ucciderò il suo assassino, ucciderò un terricolo qualsiasi, un terricolo che mi aggradi, e lo farò soffrire.”
“N-non ha senso.”
“Non deve aver senso.”
I due intrapresero un duello impegnativo con il solo uso della spada: niente poteri, niente magia. Lacamos era in netto svantaggio, pieno di tagli più o meno profondi. Il suo avversario era inattaccabile: quella corazza attutiva qualsiasi tipi di colpo, mentre Lacamos aveva ben poche protezioni – se una cintura e una bisaccia possono definirsi tali.
Lo svantaggio si tramutò in sconfitta: il misterioso cavaliere mozzò il piede destro di Lacamos, che cadde sanguinante con grida di agonia. Il cavaliere si avvicinò, ancora per niente soddisfatto.
“T-ti prego, ho un f-figlio…di-di otto anni…” lo supplicò tra le lacrime, pur sapendo che non aveva alcuna speranza di uscirne vivo, né di avere una morte rapida e indolore.
“Un figlio… - rifletté il cavaliere, completamente insensibile - Ho sentito che la perdita di un genitore è traumatica per i bambini. Li segna per tutta la vita. Forse allora tuo figlio saprà come mi sono sentito io, quando Efernus mi è morto tra le braccia.”
Allora il misterioso cavaliere abbandonò la spada, prese la testa di Lacamos, gli aprì la bocca. Con la sola forza delle dita e della mano, strappò la lingua del terricolo, riempiendogli la gola di sangue scuro, che andò a soffocare le sue inutili grida di dolore. Lasciò andare la testa, riprese la sua lama. E con violenza estrema, squarciò la pancia di Lacamos, scagliando le sue viscere sulla sua corazza e sui cadaveri degli altri guerrieri gormiti.

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Capitolo 24
*** Capitolo 9.4 ***


Carrapax e Barbataus continuavano a colpirsi senza tregua, con tecniche corpo a corpo ed elementali. Il Signore del Mare non era semplicemente bagnato, ma sudato, e pieno di lividi e graffi rossi. Barbataus non era messo meglio: pieno di tagli anche lui, molti di più, e insudiciato dalla linfa che gli usciva dalla ferite.
Alla faccia del gormita anziano, debole e che aveva paura per la propria salute! Barbataus stava davvero dando prova del suo valore meglio di qualsiasi altro gormita della sua età che aveva lottato su quell’arena. Forse però avrebbe fatto meglio a riflettere, e a smettere: tutto ciò non gli avrebbe fatto bene.
“Lui ha detto che io ho talento.” diceva orgoglioso Elios a quelli seduti di fianco a lui, che lo guardavano storto, seccati, senza capire.
“Per favore, smettila.” lo rimproverò Falcosilente con una gomitata.
Barbataus sembrava ancora capace di grandi cose, pareva aver ancora energia nel suo corpo raggrinzito, nonostante tutto.
Rimessosi in piedi dopo che Carrapax lo aveva gettato lontano, spalancò la mano dinanzi a sé, mirando al Signore del Mare. Un palo di legno appuntito emerse celere dal suo palmo, con lo scopo di trafiggere Carrapax.
“La tecnica del Getnomtrengend! Il Getnomtrengend! - sbraitava incredula Sentraan - Barbataus riserva ancora sorprese! Ma non sarà troppo distante Carrapax per questa tecnica?”
Invero, c’erano troppi piedi tra il Signore della Foresta e quello del Mare perché il Getnomtrengend potesse centrare il bersaglio. Tuttavia, benché potesse, Carrapax non si mosse. Bensì, afferrò tra le due chele il palo di legno e con una brusca tirata lo strappò dal controllo della mano di Barbataus, che rimase scioccato: aveva commesso un grande errore.
Con la nuova arma inconsciamente donatagli da Barbataus, Carrapax aveva la vittoria in pugno.
Con vigore e agilità – e grugniti di fatica - il Signore del Mare bastonò Barbataus con il lungo e levigato palo ligneo, fino a romperlo, finché questo non fu ridotto a numerosi pezzi scheggiati.
E calò il buio.
La luna verde Greemerald completò infine la sua rivoluzione attorno al mondo di Gorm. La sua sagoma nel firmamento blu si sovrappose al disco solare, oscurando l’Isola di Gorm e prendendo per sé tutta la sua vitale luce.
L’oscurità avvolse ogni cosa, tutto divenne nero e cupo, i gormiti furono stravolti dall’improvvisa scomparsa della calda luce del giorno e dalla calata fulminea della frescura notturna.
Ma i loro occhi, le loro carni, il loro udito, olfatto, ogni loro senso non poteva perdersi nell’oscurità, e rimase attento, più attento che mai, al centro dell’Arena, dove Carrapax sferrava l’ultimo colpo contro Barbataus.
Questi cadde sulle ginocchia, sfinito, quasi morto. La vittoria era di Carrapax. La profezia si era conclusa: il Principe di Gorm era stato rivelato.
***
Paludis corse nel mezzo dell’arena, ignorando le grida e il tripudio e il Principe di Gorm, per raccogliere il suo Signore Barbataus. Necessitava cure mediche, riposo…aveva dato il meglio di sé, e anche troppo: ora doveva riprendere le energie. Il Popolo della Foresta avrebbe apprezzato quella fatica, quell’impegno da parte sua, anche se alla fine aveva perso. Considerando le sue idee iniziali sul Torneo, c’era da elogiarlo per come aveva combattuto. Lo prese, tra le sue braccia minute piene di liane, e lo trascinò fin dentro la sua stanza. Nonostante Paludis fosse un piccolo gormita e Barbataus uno con una certa stazza, il Saggio riuscì quasi senza fatica a condurlo al sicuro!
Carrapax non aveva tempo per curarsi di Barbataus. Gli importava eccome, ma non poteva distogliere la sua attenzione da ciò che stava accendo attorno a lui. Tutti si alzavano, tutti applaudivano, ogni gormita lo acclamava con gesta, grida, esultanze sfrenate.
Che fosse della Terra, dell’Aria, della Foresta o persino del Vulcano, anziano o solo un cucciolo, ogni singolo spettatore del Torneo si alzava per elogiare il vincitore, il gormita che trionfò su tutti, il Principe di Gorm della profezia dell’eclissi. Aveva dimostrato il suo valore, il suo diritto di possedere lo straordinario titolo Principe, e i gormiti lo accettavano, e lo congratulavano.
Carrapax cadde sulle proprie ginocchia, fiaccato anche lui, sulla sabbia calda, impregnata della forza e della fatica dei combattenti che hanno lottato su di essa. E sulla sabbia, inginocchiato, con le chele al viso, incredulo e orgoglioso, lasciò cadere qualche lacrima, dando vita a piccoli puntini scuri nel mare color nocciola, effimeri e proni ad asciugarsi in pochi secondi.
Aveva vinto: dopo il fortunato scontro con Kolossus, Carrapax era riuscito a sconfiggere anche l’anziano ed esperto Barbataus, in una lotta dissanguante che provò entrambi gli sfidanti.
Ma alla luce dell’oscurità, Carrapax era riuscito a dare meglio di Barbataus, a stremarlo e a vincerlo. Aveva vinto! Lui era il Principe di Gorm!
Esatto, il Principe di Gorm. Si rialzò: non poteva piangere in un momento come quello. Ora lui era il gormita con più autorità su tutta l’Isola, la sorte dei gormiti, il futuro dei Popoli di Gorm dipendevano da lui, dalle sue decisioni.
L’acclamazione del pubblico era immensa, incessante. Carrapax si stupiva di come tutti i gormiti si agitavano sui loro posti, correvano per gli spazi liberi, saltavano sui propri compagni in esagerate esultanze. Erano davvero tutti così fiduciosi in lui? Si scosse quei timori dalla testa, mentre correva, ancora ferito e sudato, per tutti gli spalti, con una chela al cielo che agitava vigorosamente, dove tutti i gormiti ai livelli più bassi allungavano le proprie mani, chele, tentacoli, qualsiasi cosa per accarezzarlo, abbracciarlo, alcuni addirittura lo baciarono.
Terminato il suo giro, si posizionò intorno al centro dell’arena, di fronte alla postazione di Sentraan e dei Saggi del Torneo, seduti e soddisfatti, mentre si guardava meravigliato attorno a sé gli spettatori ancora in tripudio. Non era ancora il Principe di Gorm, non ufficialmente: doveva ricevere la benedizione dei Saggi, e farsi consegnare la pergamena, firmata dagli ora Saggi Tasarau Fegri, Gheos Massas, Poivrons Legheri, Noctis Emarant e Lavion Magmadoni, che avrebbe potuto conferire a Carrapax enormi poteri su tutti i Popoli.
Sentraan la cronista, non del tutto soddisfatta dell’esito dello scontro ma ugualmente meravigliata e col fiato sospeso, zittì e calmò il pubblico esaltato.
“Fratelli e sorelle gormiti, silenzio, per favore!” disse, cercando di non apparire autoritaria. Poi si schiarì la voce, chiuse gli occhi. Preparò il discorso finale del Torneo dell’Eclissi, il discorso più ricco, più importante.
La folla si acquietò, e prese nuovamente il proprio posto a sedere, con gli occhi bene aperti su Carrapax che guardava in alto e le orecchie ben attente a ogni singola parola della cronista.
“L’eclissi ha scelto il Signore più valoroso che ha lottato su quest’antica Arena di Astreg. – cominciò - Di fronte a centinaia di gormiti il Signore vittorioso ha dimostrato proprio valore, vincendo i suoi avversari. Che parli ora chi ritiene che costui non sia adatto al titolo di Principe di Gorm!”
La folla tacque timorosa. I vulcanici bofonchiarono qualcosa silenziosamente, ma nessun’altro rumore giunse dopo il silenzio della richiesta di Sentraan.
“Carrapax Danul, siete voi quel Signore, e siete voi il Principe di Gorm. I Saggi vi consegneranno a breve la sacra pergamena del Principe di Gorm. Con essa, avrete tra le mani il futuro dei gormiti e di questa Isola. Scegliete con attenzione cosa farne. Prima che ciò accada, permettete che tutti noi ci inchiniamo di fronte a voi, in segno del vostro valore e della vostra supremazia.”
Come un sol gormita, Carrapax osservò Sentraan, dall’alto della sua postazione, i Saggi sulla loro tribuna, e tutti gli spettatori, gormiti del Vulcano compresi, lasciare i loro seggi e piegarsi in doverosi e rispettosi inchini. Elios, con le grandi ali avvolte ma ancora maestose, fece un inchino davvero magnifico, degno della sua figura e della sua bellezza.
Kolossus si piegò nell’inchino d’onore del Popolo della Terra, molto più profondo: la sua fronte toccò terra. Barbataus era ancora nella sua stanza con Paludis.
Carrapax ammirava tutto ciò, si sentiva orgoglioso. Ma più di tutto, si sentiva umile e voleva che i gormiti cessassero l’inchino, ma li lasciò fare. Sapeva perfettamente cosa fare del titolo di Principe di Gorm. Murena avrebbe approvato, tutto il Popolo del Mare avrebbe approvato.
I Saggi furono i primi ad alzarsi dal loro inchino. In fila, uno dopo l’altro, riccamente vestiti, con due Saggi del Mare a capo, primo dei quali Delos, il padre adottivo di Carrapax, con la dorata pergamena arrotolata sul palmo della mano e della chela, scesero dalle scalinate della loro tribuna, lentamente. Sentraan, ogni gormita tra il pubblico, i Saggi, Carrapax, erano tutti ammutoliti.
Il Signore del Mare deglutì.
Improvvisamente il cielo si fece scuro. Già lo era, a causa dell’eclissi che a breve avrebbe lasciato nuovamente il posto al giorno. Ma il cielo sopra Astreg si incupì, più nero della notte.
Oscure e paurose nuvole si ammassarono in fretta e furia sopra l’Arena, promettendo poco di buono.
I gormiti non badarono a quel curioso fenomeno, né Carrapax o i Saggi, imperterriti nella loro calma discesa dei gradini.
Un forte tuono, un fragore estremo, e gli occhi e le attenzioni di ogni gormita si rivolsero verso il cielo, dove scoprirono dunque l’insolito rannuvolamento, scosso da tuoni e temporali. I Saggi si fermarono un attimo a guardare anche loro le nubi nel cielo nero, disturbati dal frastuono.
Carrapax fu anche lui portato ad osservare il cielo nuvoloso di temporale. Nell’attimo in cui volse lo sguardo in alto, notò alcuni gormiti del Vulcano nella folla con strani sorrisi stampati sul volto.
Cominciò poi a piovere. Prima scarse, deboli e pesanti gocce presero a picchiettare la sabbia e la pietra, poi la pioggia si fece più forte.
Non era una normale pioggia: era una pioggia di fuoco.
“Proteggete la pergamena!” gridò disperato uno dei Saggi, piombandosi giù dai gradini, arraffando il rotolo di carta dorata e coprendolo nel suo mantello.
Per tutta l’Arena regnava il caos e la disperazione: la pioggia di fiamme non risparmiava nessuno, tutti cercavano di difendersi come potevano da quell’avvenimento spaventoso e inaudito.
Il fiato sospeso, il tripudio, la soddisfazione, il sollievo, la generale serenità che regnava per l’Arena fino a pochi attimi fa scomparve come una goccia di pioggia nel mare.
Non sembrava esserci alcune spiegazione per ciò che stava accedendo. Ma quando i pochi gormiti del Vulcano presenti, per nulla intimoriti dalle fiamme che cadevano dal cielo, si alzarono dai loro seggi, grossi e immovibili, per bloccare tutte le uscite, trattenere tutti i gormiti ai loro posti, passando senza pensarci due volte alle maniere forti, se non brutali.
Il Vulcano non si era affatto arreso! Non si era nascosto nella sua Valle, dopo la guerra. Aveva solo atteso il momento giusto per scatenare nuovamente la sua furia distruttrice. Ma a che scopo? Cosa contavano di fare quei soldati del Vulcano, con quella pioggia infuocata, quando tutti gli altri spettatori erano chiaramente in numero maggiore? C’erano anziani e bambini, vero, ma ciò avrebbe solo reso i gormiti più agguerriti, più cauti e letali, per proteggere i più deboli e i propri cari.
Carrapax, nonostante non al massimo delle forze e scombussolato da quella bizzarra e pericolosa svolta degli eventi, si mise subito a correre per aiutare i gormiti a liberarsi dai prepotenti vulcanici, che impedivano a chiunque di lasciare l’arena, con mura di fuoco, mentre la pioggia era cessata.
Non appena mosse il piede per voltarsi, vide una figura appoggiarsi sopra la postazione del cronista.
Una figura snella, mostruosa, quasi scheletrica. Era magro, ma le sue braccia e le sue gambe, protette da un’armatura sottile grigia e gialla dalle decorazioni di fiamma, erano muscolose.
Il suo torace era sottile e triangolare, con un petto massiccio, nudo.
Al braccio destro aveva un cannone lavico grigio, non coperto da corazza, composto da innumerevoli, sottili e appuntite membrane grigie.
Sulla sua schiena liscia e rossa come il sangue spuntavano due ali di ossa. Erano assurdamente scheletriche e piccole: mai avrebbero permesso a un gormita di volare. Forse erano finte, forse erano state bruciate e rose fino all’osso…ad ogni modo, sembrava avere abbastanza esperienza nell’uso della forza magica per volare e volteggiare senza problemi, come Carrapax poté notare quando saltò giù dalla postazione del cronista.
Infine, il suo volto era un terrificante teschio grigio, ruvido, apparentemente privo di pelle, contornato da due corna gialle che risplendevano come fulmini nella notte. I suoi occhi erano lucenti stelle morenti.
Carrapax trasalì alla vista di quel gormita nella sua interezza, di quel volto. Fu lui a parlare, puntando un indice accusatore verso Carrapax.
“Sono Orrore Profondo, Signore del Vulcano! E’ mio diritto lottare per il titolo di Principe di Gorm!” affermò rabbioso, in una voce talmente roca ma acuta da sembrare forzata, quasi innaturale.
Si alzò in un volo magico e, con la mano aperta in avanti, volò a tutta forza contro Carrapax, diretto al suo collo.
Il Signore del Mare non riuscì a evitare l’assalto o  a fermarlo, e si trovò la mano del misterioso vulcanico stretta attorno alla gola.
Ma l’intenzione del guerriero alato non era quella di strangolarlo, bensì buttarlo a terra. E non ci era riuscito, capace di spostarlo solo di mezzo piede.
Allora, con la mano ancora alla gola di Carrapax, lo fece ribaltare con una poderosa ondata di forza.
Carrapax fu spinto indietro, ma ancora non cadde. Si mise in posizione difensiva, pronto a combattere nonostante la stanchezza ancora dominante.
Tante domande gli ronzavano in testa: cosa voleva, perché fare tutto ciò, come contava di ottenere i suoi obiettivi ma l’unica cosa che gli uscì di bocca fu: “Orrore Profondo? Che razza di nome è?”
Il Signore del Vulcano non apprezzò affatto quella domanda e lo guardò storto, le labbra piegate dalla rabbia a mostrare i denti gialli.
“Che sfacciataggine! Chiedilo ai miei genitori, non a me.” replicò scontroso.
Sfacciataggine! E la sua cos’era, piombarsi nel mezzo dell’arena dopo aver avviato un attacco e chiedere il titolo di Principe di Gorm.
Ancora in volo, Orrore Profondo guizzò in avanti, piantando entrambi i piedi sul petto di Carrapax.
Con una capriola, mentre il gormita marino agitava invano le chele per acchiapparlo, si ritrovò dietro Carrapax, e lì ripete il calcio in aria, sulla schiena. Carrapax gemette prima di cadere a terra.
Non ancora soddisfatto, Orrore prese una chela del Signore del Mare, e strattonandolo lo rialzò.
Volteggiò di fronte a Carrapax, schivò lateralmente un goffo pugno della sua chela e, nello spazio liberato dal braccio, il Signore del Vulcano alzò la sua gamba per sferrargli una vigorosa ginocchiata nello stomaco, che fece rovesciare in avanti il volto e il busto al vero Principe.
Con la sua testa vulnerabile, Orrore ne approfittò per bombardarla con un calcio e un pugno, e infine, ficcò due dita nei suoi occhi.
Era ora del colpo di grazia. Atterrato, Orrore indietreggiò di qualche passo, tese il braccio con la mano. La mano era chiusa a pugno, con eccezione per l’indice e il pollice.
Dall’estremità dell’indice prese forma una minuscola sfera di fuoco, non più grande dell’occhio di Orrore o di Carrapax, ma il suo colore rosso sangue così intenso e il rumore che provocava la sua continua seppur lieve crescita la rendeva molto più potente di quanto le dimensioni potessero presagire.
Mezzo cecato, in un ultimo momento di coscienza dei suoi sensi e con un ultimo sforzo, Carrapax gettò una ventata d’acqua che spense il globo di fuoco in un mare di fumo.
“Nessuno sfugge alla Palla di cannone!” gridò Orrore stizzito, riprendendo immediatamente la posizione per il suo attacco. La sfera, più piccola di quanto egli desiderasse, fu di nuovo sull’indice di Orrore.
Abbassò il pollice. Come una freccia scagliata da un arco teso al massimo, la sfera si staccò dalla mano ad una elevata velocità, sibilando feroce. La velocità e il sibilo furono di poca durata.
La sfera esplose su Carrapax, riuscito all’ultimo secondo a porsi le chele davanti al corpo e al viso.
Le sue mani ne uscirono orribilmente mutilate, sanguinanti, doloranti. Carrapax cadde per l’ultima volta a terra, piangendo e respirando a fatica per tutto quel dolore.
Orrore Profondo fu soddisfatto di quella tortura, e sorrise maniacalmente.
Si voltò verso i Saggi sconvolti, mentre ancora i suoi vulcanici esercitavano il suo volere – non senza fatica - sugli spalti dell’Arena.
“Ho sconfitto il vincitore Carrapax! - ammise - Sono io il vincitore, adesso! - disse ridendo, con un dito puntato verso di sé - Sono io il Principe di Gorm! Consegnatemi la pergamena, Saggi!”
Davvero sfacciataggine: sconvolgere tutti i presenti nell’Arena di Astreg con quell’attacco e la mobilitazione dei suoi uomini. Colpire Carrapax quando meno se l’aspettava, quando era ancora stravolto e al minimo della forze dal recente scontro con Barbataus.
Ora esigeva di essere dichiarato Principe di Gorm, di fronte a tutti –e tutti sapevano cosa avrebbe fatto del titolo - e di farsi dare la pergamena. Non era di grande valore per lui o per i vulcanici. Ma dopotutto c’era anche la firma di Lavion quando era ancora Signore: significava qualcosa. E se gli altri gormiti la consideravano così importante, allora lo era anche per lui.
“Q-Questa è pazzia! - sbottò uno dei Saggi - E’ una vergogna! Non ti daremo mai il titolo!”
“Siete sicuri, Saggi?” li provò Orrore, sogghignando.
“Sicurissimi. Siamo pronti anche a bruciare questa pergamena.”
“Non lo farei, se fossi in voi. - lo avvisò Orrore sibilando - E non cambierà minimamente le cose. Ma forse possiamo contrattare, che ne dite?”
Orrore voltò le spalle ai Saggi, per avanzare nel mezzo dell’Arena e da lì alzarsi in volo, visto e udito da tutti.
“Scegliete, gormiti! - cominciò glorioso - Che i Saggi mi diano la pergamena del Principe di Gorm e con essa il comando di Gorm con mezzi pacifici, oppure li costringerò a farlo. Ho forze schierate in tutti i maggiori centri dell’Isola, pronte a gettare delle bombe a mio ordine!”
Alzò al cielo una sfera veggente – dove la teneva? - , poco visibile bel buio di Astreg ma rilucente di una luce propria.
“Non esiteranno a lanciarle, anche a costo della loro vita. E credetemi, la forza di quelle bombe è potente.”
Era vero quello che stava dicendo? Bombe e forze vulcaniche nelle città di Gorm? Se così fosse, erano in pericolo centinaia, migliaia di vite e non solo, e l’unica cosa che le teneva in vita era la volontà di Orrore Profondo, l’unico Signore del Vulcano. Avrebbe davvero ritirato le sue forze se avesse avuto il titolo di Principe?
Stava letteralmente tenendo in ostaggio intere città per avere quel titolo, e usarlo per ottenere il controllo assoluto dell’Isola di Gorm e di ogni singolo abitante. Stava davvero dicendo la verità?
“Sta a voi, gormiti, Signori, Saggi. - riprese - Consegnatemi la pergamena e la carica di Principe di Gorm, o passerò alle maniere forti.”
La folla era muta, paurosamente muta. Cosa fare? Cosa pensare? Era tutto profondamente ingiusto. Orrore Profondo non aveva il diritto di avere quel titolo, né di muovere le sue forze e minacciare i centri con attacchi terroristici. Non potevano prendere decisioni avventate, né potevano sapere che Orrore stesse dicendo la verità o fosse solo una finzione. Avrebbero potuto dargli quel dannato titolo, così le città sarebbero state salve – forse - per poi ribellarsi in seguito. Erano in numero decisamente maggiore, dopotutto. Ma se il Vulcano disponesse di quelle terribili armi in grandi numeri? Se il Vulcano, giunto a dominare l’Isola, ponesse tali bombe in ogni centro, ogni villaggio, per tenere a freno la rabbia, pronte ad essere usate in caso di ribellione?
No, il Vulcano non poteva avere quel titolo, quel dominio sull’Isola di Gorm. Ciò gli avrebbe permesso di mettere le mani sull’Occhio della Vita, e usarlo per espandere il suo tirannico dominio su molte altre pacifiche lande. Ciò non doveva accadere. Il Vulcano non doveva vincere.
Tutti i gormiti rimasero in silenzio, rabbiosi e intimoriti. Non avrebbero dato alcuna risposta.
“Esitate, dunque? - constatò Orrore Profondo - Molto bene. Non volevo passare a questo…ora vedremo se esiterete ancora.”
***
Le forze della Terra resistevano ancora contro l’imponente armata del Vulcano, la cui vista si perdeva per i meandri dei tunnel. Erano stati spinti fin quasi alle porte della Città Sotterranea, e le perdite erano state enormi.
Ora, una sola piccola svolta, ancora qualche passo indietro, e il cancello della Città Sotterranea, coperto dal Masso, sarebbe stato in vista a tutti.
Contro ogni timore per le bombe e le frecce, una volta abbastanza vicini all’entrata erano stati mandati dei messaggeri ad avvisare la città e Roscamar dell’incombente minaccia.
Alcuni dei messi furono colpiti e fermati, altri riuscirono a passare.
Ciò nonostante, la catapulta armata più vicina non gettò sui terricoli la sua letale granata.
Cosa avrebbero fatto? Avrebbero forse atteso l’uscita dei rinforzi, o l’entrata nella Città Sotterranea?
Gheos sperava vivamente che i rinforzi dalla Città arrivassero in fretta, e che ci fosse tra di loro qualcuno che avesse in mente qualche stratagemma per fermare le bombe, qualora fossero state lanciate, e magari respingerle sulle truppe vulcaniche.
Finalmente, le forze terricole, continuando ad essere spinte dai vulcanici, completarono la svolta, e si trovarono davanti al cancello nord - occidentale.
Il Masso era stato riposto a lato dell’entrata, il cancello spalancato, rinforzi terricoli bene armati correvano a piedi a soccorrere Gheos e gli uomini rimasti.
Sembrava che la situazione si fosse completamente ribaltata: anche se tardavano ad arrivare, gli uomini armati della Città Sotterranea erano chiaramente in numero superiore a quello dei soldati di Magmion e del misterioso cavaliere. Ma il problema e il terrore delle bombe rimaneva. Cosa aspettavano ad usarle, se davvero non temevano di morire loro stessi nell’usarle?
Gheos lottava ancora contro Magmion. Lo colpì al petto con una pietra, facendolo cadere all’indietro.
“Stai perdendo, Magmion. - rise Gheos trionfante. Magmion sollevò il capo, irato, con un ringhio.
- E non solo tu: l’esercito della Città Sotterranea e di Roscamar stanno arrivando, e per i tuoi mystica sarà finita.”
“Questo lo credi tu. - lo fece ricredere Magmion, strofinandosi il mento con la mano e rimuovendo un rigolo di sangue - I tuoi sporchi terricoli pagheranno con la vita la loro mancanza di paura delle mie bombe.”
Avanzò furioso verso Gheos, ancora riluttante a dare l’ordine di tagliare la corda – della catapulta.
L’ex-Signore della Terra fu pronto ad accogliere e a respingere ulteriori attacchi dal vecchio Signore vulcanico.
Quando una voce nuova e terribile pervase l’area attorno a Gheos e Magmion. Era una voce roca in cui i suoni aspri di lettere coma la t, la r, la z venivano resi ancora più duri. Non sembrava provenire da alcuna presenza tangibile lì intorno. Gheos non la conosceva…che fosse Magor?
Magmion invece, appena ne udì le prime parole, scattò subito sull’attenti, si immobilizzò e guardò in alto, come se chiunque stesse comunicando potesse vederlo o sentirlo meglio.
“I gormiti esitano, Magmion. - pronunciò malignamente - Che paghino per questa riluttanza. Lancia la bomba sulla gente della Città Sotterranea.”
Un sorriso diabolico deformò il volto di Magmion, che osservò un’ultima volta Gheos, prima di voltarsi e correre a dare l’ordine.
“No!” vociò Gheos spaventato, buttandosi con tutta la sua forza su Magmion che correva.
“Lanciate la bomba! Al cancell-off.” Magmion stramazzò al suolo, investito da Gheos, ma non prima che il suo ordine giunse a destinazione, chiaro e incancellabile.
Il vulcanico addetto obbedì. Estrasse la sua sciabola dal fodero e, con un fendente rapido e netto, recise la corda che teneva il tiratore della catapulta teso.
Fu un attimo, un sibilo. La catapulta scattò, la pietra letale fu scagliata con forza, lontano, nella traiettoria del cancello nord - occidentale. Crepitò rapida sopra gli sguardi scioccati e le bocche spalancate degli uomini di Gheos e poi dei soldati della Città Sotterranea, prima di toccare il suolo pochi piedi oltre il cancello.
Qualcuno che gridava “No!”, e poi un fragore assordante, un boato indescrivibile. L’esplosione, il fuoco. Corpi gettati in aria, mutilati, infuocati. Pietre, travi di legno, ciottoli sparati nel caos. Un rombo che scosse la terra e il soffitto, e rovesciò sulle forze della Terra e anche del Vulcano una pioggia di stalattiti.
***
“Il popolo della Città Sotterranea vi ringrazia, gormiti di Astreg! - esclamò Orrore Profondo, alzando al cielo ora nuovamente luminoso e soleggiato la sua sfera veggente - Grazie alla vostra esitazione, ora centinaia di gormiti della Terra sono morti, travolti dal fuoco e dalla roccia.”
“Tu menti!” gridò Kolossus, incredulo, coi denti di fuori.
“Siete liberi di non credermi, sciocchi. Ma quando tornerete alle vostre case devastate allora capirete di aver fatto la scelta sbagliata! Ho ordinato solo alle forze che assediano la Città Sotterranea di usare la bomba: ho ancora uomini nella Foresta e diretti a Picco Aquila, che attendono solo un mio ordine!” e alzò in bella vista la sfera veggente. Una mossa discutibile.
Grifon, il Saggio dell’Aria tese la sua mano artigliata senza essere notato, e con grande forza e concentrazione, prese sotto il suo controllo la sfera veggente e la strappò via dalla stretta di Orrore Profondo, gettandola fuori dall’Arena.
Quando Orrore sentì che la sua sfera non era più nella sua mano, si infuriò.
“Chi è stato? Chi è stato?! - gridò disperato - Chi si è opposto al Principe di Gorm?! E va bene. Non temete per le vostre città, forse temerete questo!”
Diede una rapida occhiata ai gormiti trattenuti sui seggi dell’Arena, scegliendo con cura la sua vittima…il suo primo bersaglio. Volò rapido verso una famiglia di forestali. Essa lo vide arrivare, volare verso di loro con quello sguardo malvagio, tentò la fuga, la difesa. Ma gli uomini di Orrore impedirono loro qualsiasi tentativo di evitare la volontà del Signore del Vulcano.
Prese per la gola la bambina del Mare che era con loro che, con un grido acuto di paura, fu strappata dalle mani dei suoi genitori e portata nel mezzo dell’arena.
Senza alcuna grazia o pietà, Orrore Profondo pose forte il suo piede sul petto della bambina, tenendola immobile sulla sabbia. Puntò il dito indice contro di lei, forgiando la Palla di cannone.
“Rendetemi Principe di Gorm, ORA! - esigette - O le farò saltare la testa!”
La folla era terrorizzata, non aveva idea di come agire.
“Sarà solo la prima delle teste che cadranno, se non vi spicciate!” li avvisò tutti, mentre la cucciola della Foresta frignava e singhiozzava.
“I miei soldati saranno pronti a uccidere. Avete davvero commesso un grande errore a lasciarli entrare!”
“Adesso avete paura, eh? Ipocriti! - seguitò Orrore Profondo - Non avete avuto timore per le dozzine di morti che ricoprono ora i tunnel della Città Sotterranea, così lontani da voi, e ora tremate per una sola vita, per una sola bambina! Siete pessimi!”
Barbataus si era svegliato, dopo essere stato medicato mentre Carrapax veniva acclamato e ascoltava il discorso di Sentraan. Nonostante l’età e le brutte ferite riportate, si era ripreso piuttosto velocemente, cosparso di bende e cerotti e riempito di energia, forse da Paludis.
Avevo riaperto gli occhi solo quando l’eclissi scomparve e ritornò la luce che disturbò il suo sonno.
Osservò e sentì Orrore Profondo lottare con Carrapax, vincerlo, ed esprimere le sue richieste e i suoi ricatti. E ora minacciava la vita di una piccola gormita della Foresta.
La posa di Orrore Profondo, la sua minaccia, l’incombenza della morte sulla giovane figlia del bosco, il suo tono, la sua rabbia, facevano riaffiorare oscuri ricordi da tempo sepolti nella mente di Barbataus, che riempivano il suo legno di nuova paura, ma anche ira ed energia.
Trent’anni e più fa, Barbataus aveva assistito al più grande orrore della storia dei gormiti: il Grande Sacrificio, il genocidio di un’intera razza per le mani degli infuocati gormiti del Vulcano, una grande ed esagerata vendetta per secoli di discriminazione.
Barbataus era riuscito a salvarsi con la moglie, fuggire nei mari del sud dove aveva aiutato a costruire la città di palafitte e in cui aveva abitato per anni. Ma prima di essere capace di lasciare Gorm, aveva visto suo figlio morire, abbandonare la sua anima alle Somme Forze senza che Barbataus potesse fare nulla per aiutarlo.
Non sarebbe successo di nuovo: non avrebbe lasciato che un altro forestale morisse sotto i suoi occhi.
Alzò silenziosamente la grata, accompagnato dal vendicativo Paludis, e sempre muto come un pesce si avvicinava ad Orrore, che gli dava le spalle, e continuava a provocare la folla.
Con un vigoroso pugno nella schiena fece urlare e stramazzare Orrore Profondo, lontano dalla bambina, mentre la Palla di cannone sfumava in fiamme che si spegnevano nell’aria.
“Va’, corri!” intimò alla cucciola di gormita, con il volto rigato dalle lacrime e la forza che gli mancava per la paura. Riuscì ad ogni modo ad alzarsi e ad incespicare fino alla grata aperta da Barbataus.
Orrore ritornò subito l’attacco, assalendo Barbataus con un getto infuocato dal suo cannone. Il Signore della Foresta si ritrovò col petto in fiamme. Non avrebbe potuto combattere, non prima di aver spento quel fuoco che minacciava la sua vita. Paludis prese rapido il suo posto.
Il piccolo Saggio della Foresta si avventò con una furia sproporzionata sul Signore del Vulcano, bloccandogli il cannone a braccio con le liane del braccio sinistro mentre col destro lo tempestava di pugni e con la testa di cornate.
Sollevò dunque il corpo di Orrore Profondo – una vista davvero spettacolare - , stringendo per bene le liane alle sue braccia, e lo gettò sbattendolo al suolo. Gli saltò poi sulla schiena potentemente, e in seguito avvolse la sua testa con le liane, mentre tentava di strappargli le ali di ossa con le mani libere.
“Muori, figlio di puttana!” esclamava Paludis.
Orrore gemeva acute grida di dolore. Ma infine riuscì a capovolgersi, gettando il Saggio della Foresta nella sabbia e liberandosi delle sue dolorose morse.
Con un ringhio terribile, riversò su Paludis un getto di fuoco e pietra lavica senza fine. Anche Paludis fu dunque fuori combattimento, dovendo spegnere le fiamme che imperversavano su di lui.
Seguendo l’esempio dei due politici della Foresta, senza più alcun ostaggio per cui esitare, tutti i gormiti presero a difendersi veementemente dalle prepotenze dei vulcanici e a evadere dai loro sbarramenti.
Orrore Profondo non fu affatto contento di ciò che stava accadendo.
“Conteneteli, trattenete quei bastardi!” urlava, vedendo che i vulcanici in numero nettamente minore venivano sopraffatti dalla rivolta.
All’improvviso Orrore fu anche lui sopraffatto, ricevuto un forte colpo di nuovo alla schiena, che lo gettò con la testa nella sabbia. Era la carica di Kolossus.
“Puah, dannazione!” bofonchiava Orrore, rialzandosi e sputando sabbia. Caricò un colpo del suo cannone, solo per essere fermato e afferrato da un gormita in volo.
Elios lo afferrò per le braccia, volando rapido, e facendolo schiantare contro la parete dell’Arena.
“Chi è pessimo adesso?” lo provocò ridendo Elios, guardandolo soddisfatto mentre cadeva al suolo, con la schiena che strisciava sul muro.
“Bruciate, tutti quanti!” imprecò Orrore Profondo, mentre cercava di rialzarsi, riuscendo solo a inciampare. Stava andando in fumo. Non poteva dare ordini agli altri eserciti, non da lì. I suoi uomini stavano fuggendo. Non poteva più sperare di ottenere il titolo di Principe di Gorm, non più.
“Non è ancora finita! - urlò - Magmion, Lavion ed Electricon sono ancora là fuori! Raderanno al suolo le vostre insulse città!” e, con un ultimo briciolo di energia e l’incantesimo di trasporto rapido, sparì.
***
Mentre Barbataus, Paludis e Carrapax venivano medicati, Kolossus e Gravitus si preoccupavano per le sorti della Città Sotterranea e sugli spalti i vulcanici vinti tentavano la fuga – ora erano gli altri gormiti a impedire loro di scappare e a trattenerli sui seggi, riuscendoci molto meglio - la porta dell’Arena si spalancò.
A uscirne fu Tasarau Fegri, Saggio della Foresta. Aveva in spalla un corpo gormita avvolto da una rete da caccia.
Tutti – o quasi - i presenti si voltarono di scatto verso la porta, temendo un altro attacco. Furono sollevati ma quanto meno stupiti di trovarsi Tasarau.
Egli, imperturbabile dagli eventi che avevano scosso il Torneo e dal suo esito, avanzò deciso poco più avanti a sé, e si tolse di dosso pesantemente il peso rinchiuso nella trappola di corda, senza dare mostra di grande rispetto per esso, fosse vivo o morto.
Gettò forte a terra il corpo del gormita vulcanico spento, svenuto. Un panno gli teneva bloccata la bocca, delle manette gli mantenevano ferme e inutilizzabili mano e chela grigia. Quest’ultima pareva anch’essa priva di sensi come il suo ‘padrone’, se così si può dire –riguardo i sensi.
“Fegri, che cosa fate qui?” gli chiese uno dei Saggi del Torneo dell’eclissi, sorpreso come gli altri della sua apparizione e di quel vulcanico prigioniero, ma più che altro memore del giuramento che lui e gli altri tre Signori dei suoi anni avevano in fatto in riferimento al Torneo e ai combattimenti.
“E che cosa significa questo?” continuò mostrando ora turbamento per il ‘regalo’ che aveva portato ad Astreg, indicando Lavion svenuto.
Gli altri gormiti, pur impegnati in altre faccende quali la cacciata e la cattura dei nemici vulcanici, la cura dei feriti, la riflessione sulle parole di Orrore Profondo, pur senza rivorgerglisi direttamente, avevano la stessa domanda, e attendevano la risposta.
“Guidava un attacco vulcanico nella Foresta Silente. - rispose insolitamente freddo Tasarau - Un priore ci ha avvisato dell’arrivo con il suono della campana, e le forze della Foresta nascoste sono apparse per respingere il nemico…”
Qui fece una pausa e rivolse il suo occhio e la sua voce verso Kolossus in particolare, che da parte sua diventò molto interessato in ciò che aveva da dire Tasarau. Alla notizia di quell’attacco di Lavion, che Orrore aveva nominato tra i suoi sgherri prima di scomparire, fece trasalire tutti quanti, in particolar modo i terricoli, sì, ma anche gli altri, atterriti che le minacce di cui li aveva avvisati il Signore del Vulcano fossero altresì reali.
“…in uno dei cunicoli scavati dal Popolo della Terra, da cui Lavion era arrivato”
“Che cosa?!” pianse Kolossus, che si trovava ora il peso delle numerose vittime alla Città Sotterranea, cadute dall’attacco di cui Orrore lo aveva avvertito.
“Ho interrogato Lavion. - continuò Tasarau - C’è un gruppo di vulcanici diretto a Picco Aquila, dalla spiaggia di Dalarlànd sullo Stretto. Sono stato contattato da Noctis, e mi ha informato che il gruppo è stato intercettato. Gli ho fornito alcuni dei miei per aiutarlo a fronteggiarli: Orsol è al sicuro.”
“E del Mare? Che mi dite del Mare? - chiese Delos turbato - Vi ha detto qualcosa?”
“Le forze dirette alla Città Sotterranea e al Bazaar sono congiunte. Ma l’unica galleria accessibile che porta al Bazaar si dirama dalla Città Sotterranea. Se non è stata ancora presa, Bazaar è fuori pericolo…per ora.”
“E allora muoviamoci, dannazione! - sbraitò Kolossus esasperato, desideroso di vendicare i caduti, di far valere il suo stato di Signore e di impedire che altri terricoli cadessero morti per la follia del Vulcano - Dobbiamo andare alla Città Sotterranea e fermarli!”
“La fretta porta cattivi consigli, Kolossus. - lo fermò Barbataus, oculato e mai precipitoso - Non arriveremo mai in tempo alla Città, e inoltre ricordati di quelle bombe. Non puoi rischiare che le usino ancora, senza un piano.”
“Ma non possiamo rimanere qui! - gridò il Signore della Terra - La mia città, la mia gente, è in pericolo, e lo sarà anche quella del Mare se non interveniamo subito. Ci dev’essere un modo per fermare le bombe.”
“C’è eccome.” rifletté Tasarau, con una mano al mento, rimuginante.
“Fateci capire.” lo pregò Kolossus, riempito di speranza da quelle parole.
“Serve con qualcuno con esperienza, e precisione. Qualcuno abbastanza abile con magia e forza magica che possa, se lanciate, fermare la bombe per neutralizzarle, o rimandarle a quelli del Vulcano.”
Tra il pubblico, carico di odio e di vendetta – temperata dai sempiterni ideali di rappacificazione con il Vulcano, che però scemavano ad ogni loro insurrezione - per quell’azione così subdola, inclusi anche i giovani, di qualsiasi Popolo, desiderosi di farla pagare cara al Vulcano per quel colpo basso, emersero numerosi abili stregoni, che avrebbero offerto le proprie doti ed esperienze per salvare la Città Sotterranea dalla cattura e dalla catastrofe, e lottare insieme per il bene comune.
“Ci siamo, dunque. - esclamò sempre più convinto e speranzoso Kolossus - Ora ci resta solo il problema del trasporto.”
Ed era un gran bel problema: come portare alla Città Sotterranea, in breve tempo un numero abbastanza grande di gormiti da fronteggiare l’esercito vulcanico?
“Per fortuna porto sempre con me qualche accessorio, che gli déi siano lodati.” rise Tasarau, interrompendo la freddezza con cui aveva conversato fino ad ora, rovistando tra le sacche che teneva legate alle gambe a mo di tasche.
Era davvero un colpo di fortuna, talmente grande e puntuale che il Saggio della Foresta non potè trattenersi dal ridere della grossa, - scatenando un certo disappunto tra i gormiti attorno a lui - sussurrando ringraziamenti ai semidei per quel dono.
“E per fortuna non ho usato questi per venire qui.” terminò, estraendo  appoggiando a terra diversi cristalli e sacchetti pieni di polveri.
“Posso creare un varco spaziale per portarvi nei pressi della Città Sotterranea, ma qualcuno abbastanza forte dovrà restare indietro ad aiutarmi: sarà un varco bello grosso, e dovrà durare non poco. E io da solo non posso crearne uno abbastanza largo né farlo durare molto.”
I volontari non mancavano, anche se tutti preferivano di gran lunga soccorrere i terricoli alla Città e combattere contro i vulcanici che restare nell’arena, ma comprendevano che aiutare Tasarau con il varco spaziale era utile ed aiuto tanto quanto l’ausilio militare.
Il desiderio di dominio, di sopraffazione di un Popolo sugli altri, di conquistare Gorm, i disaccordi tra i Popoli, tutte queste cose che erano alla base di quel Torneo appena terminato sembravano essere svaniti nel nulla, di fronte alla minaccia comune del Popolo del Vulcano nei confronti delle loro case e dei loro cari.
Tasarau procedette, tracciando un largo cerchio sulla sabbia dell’arena, passando poi a disegnare numerosi linee rette di diversa dimensione all’interno, insieme a formare la caricatura di una stella a punte a multiple.
Sparse diverse polveri lungo i solchi di tali linee, pronunciando parole nella lingua magica ad ogni passaggio, proseguendo poi a collocare i cristalli appropriati in precisi punti del cerchio sulla sabbia, accompagnati da ulteriori formule magiche.
Il cerchio del varco spaziale era davvero enorme, coprendo poco meno di un quarto di tutta la sabbia dell’Arena –e non è poco, l’assicuro - permettendo a circa una dozzina di massicci gormiti di passare dall’altra parte.
Il materiale era pronto: mancavano solo le coordinate e l’attivazione finale dello squarcio spaziale.
“Dove credete sia meglio arrivare?” domandò, sempre pronto, Tasarau.
“Sconsiglio di porci dietro alle forze del Vulcano. - proruppe Gravitus al fianco di Kolossus - Non abbiamo idee precise di dove siano, e da dietro di loro avremo poca possibilità di fermare le bombe”
“Giusto. - concordò Kolossus - Allora li fermeremo dal davanti, e li spingeremo da dove sono venuti. Tutti d’accordo?” chiamò a gran voce. Le forze unite di Terra, Foresta, Mare e Aria vociarono all’unisono la loro approvazione per il piano, pronte a lottare.
Tasarau inserì allora le coordinate fornitegli da Gravitus. Affiancato da vigorosi gormiti pronti a passargli la loro energia.
Il fragore come di un tuono, di centinaia di tronchi che si spezzano.
Un disco nero, un’apertura sul vuoto. Nel mezzo dell’Arena di Astreg, laddove era stata disegnata la stella inscritta, ricca di cristalli e polveri luminose, comparve una breccia spaziale, una rottura nello spazio che collegava due luoghi tra loro lontanissimi.
“Coraggio, gormiti! - li incitò Kolossus, battendo due dei suoi pugni e sollevando in aria i restanti - Salviamo la città della Terra! Salviamo Gorm!”
Un coro di grida di battaglia provenivano dal profondo dell’anima di ogni gormita, anche degli aiutanti di Tasarau, terminò l’evocazione di Kolossus. Ognuno di essi bramava aver la propria personale vendetta per tutte le disgrazie che il Popolo del Vulcano aveva recato ai gormiti, e per fermarli da compierne l’ennesima.
“Non vedo l’ora di spaccare qualche testa.” disse sogghignando Paludis, pregustando gli arti che si sarebbero spezzati sotto la sua presa temprata da decenni di allenamento.
“Verrò anch’io.”affermò Carrapax risoluto, ponendosi al fianco di Kolossus, guida delle forze di Astreg, il primo che sarebbe saltato per la Città Sotterranea.
“Carrapax, no.” rifiutò Kolossus turbato, che sperava ardentemente di poter lottare fianco a fianco con il Signore del Mare dopo essere stato vinto nel Torneo, ma che ora era preoccupato per la salute del suo amico. Dopo essere stato massacrato da Orrore era stato riempito di energie e medicato grossolanamente – per quel torneo le riserve dell’Arena erano state rifornite meno del solito, e di certo i direttori non si aspettavano che la situazione potesse peggiorare a quel modo - , ma le sue chele, che avevano subito il danno peggiore, mostravano ancora vivide ferite che avrebbero impiegato diverse settimane prima di rimarginarsi completamente.
“Sei ancora stanco e ferito. Resta qui, aiuta Tasarau, se vuoi.” gli consigliò il Signore della Terra, premuroso.
“Posso combattere. - asserì Carrapax, indiscutibile - Voglio combattere”
“Datevi una mossa, per il becco di Praconrem.” li avvertì alterato Tasarau, che stava tenendo aperto il varco per niente, fino ad ora.
Kolossus non comprese le ragioni per cui Carrapax voleva unirsi a lui. Ciò nonostante, capì che fargli cambiare idea sarebbe stata una perdita di prezioso tempo, e accettò il suo aiuto.
“Grazie.” sussurrò Carrapax a Tasarau, prima di entrare nella rottura. Egli chiuse l’occhio, e annuì semplicemente.
***
Uno dopo l’altro, guidati da Kolossus e Carrapax, terricoli, forestali, aerei e marini a centinaia armati più che altro della propria pelle, si ritrovarono nella strada principale della Città Sotterranea.
Il cancello nord - occidentale, distrutto, ricoperto di cadaveri e macerie, era ben visibile.
L’esercito della Città Sotterranea era in movimento contro l’amalgama rossa e grigia che premeva oltre il cancello contro una minutissima forza gialla e bruna.
All’arrivo di quella truppa così variopinta, i civili e i soldati che andavano a ingrossare la schiera in movimento rimasero basiti. Non si aspettavano rinforzi, tantomeno provenienti dagli altri Popoli.
Kolossus, in carica di Signore della Terra, decise di dedicare loro qualche parole per incoraggiarli a scacciare gli invasori, mentre comandava le forze radunate ad Astreg verso il cancello devastato, osservando con rammarico e rabbia i corpi esanimi vittime della bomba.
“Oggi il Vulcano ha mostrato il peggio di sé, e ha mietuto numerose vittime: non ne mieterà altre, non oggi, è una promessa! I Popoli si sono riuniti, e il Vulcano non potrà opporsi più a noi con la stessa forza di un tempo! Non temete le loro armi, e abbiate a cuore una cosa sola: il bene di Gorm, oltre che di questa Città e dei vostri cari, la sicurezza dell’Occhio della Vita! Se falliremo, lo faremo con onore, resistendo con quanta forza abbiamo nell’animo di fronte alle avversità, macchiando queste gallerie dell’ignobile sangue del Popolo del Vulcano. Avanti!”
Quelle parole rincuorarono e infiammarono gli animi gli animi dei combattenti, e dei civili, diversi dei quali decisero di abbandonare le proprie abitazioni, aprire le proprie porte e unirsi alla valorosa marcia della vittoria.
Le parole, ripetuto ed echeggianti, giunsero alla piccola resistenza di Gheos e alle forze di Magmion e del misterioso cavaliere, che ora temevano per la riuscita del loro piano.
Gormiti vigorosi ed energici piombarono fuori dal cancello distrutto, forti della rinnovata alleanza tra i Popoli di Gorm.
La loro carica fu immane e devastante, molto più potente e sostanziosa della spinta che i vulcanici davano verso la Città Sotterranea, così vicina, vulcanici che avevano dalla loro parte solo il fuoco e la pietra, opposti dalla forza combinata di aria, acqua, roccia e legno.
“Maledetto Orrore!” sbraitava Magmion, che con quell’improvviso arrivo di rinforzi vedeva i piani del Popolo del Vulcano sfumare davanti ai suoi occhi.
“Come sono arrivati qui questi? Che diamine ha combinato all’Arena quell’incompetente?! Animo, soldati! Orrore ha fallito, ma non ci arrendiamo: abbiamo ancora tre bombe. I gormiti si pentiranno di non averne paura. Sganciatene un’altra!”
L’ordine fu ricevuto immediatamente, e non discusso, obbedito senza ripensamenti.
I vulcanici non avrebbero indietreggiato per nessuna ragione, non ora che le porte della Città Sotterranea distavano ormai poche decine di piedi, e avrebbero usato qualsiasi risorsa in loro possesso per raggiungere il loro scopo, e sarebbero giunti anche alla morte per difendere il loro onore.
La corda tesa fu recisa, la catapulta scattò in avanti, la bomba gettata in alto.
Il gruppo di Kolossus si era preparato come riteneva opportuno contro quell’evenienza, ma il terrore che scaturiva quella pietra così piccola per i danni che poteva arrecare, e non esser per nulla sicuri di essere in grado di fermarla né averla mai vista in azione era comunque alto.
Ma i gormiti non si dovettero preoccupare di nulla di ciò: la bomba fu sospesa a mezz’aria, mentre i gormiti tutti con il fiato sospeso, stupiti, perché nessuno di loro si era mosso a fermarla.
Apparso dal nulla, c’era il Vecchio Saggio, agguerrito, col bordone di legno puntato verso la bomba.
I suoi abiti e il bastone con lo smeraldo erano macchiati di sangue…ma non sembrava il suo sangue. Non presentava ferite visibili e i suoi panni erano intatti.
Senza pensarci due volte, una volta che la bomba smise di accelerare, dominata dalla forza magica dello stregone, il Vecchio Saggio la reindirizzò dietro di sé, verso i vulcanici ancora indietro nel tunnel. L’esplosione, le perdite, il fracasso furono immani. Ma anche la paura per il potenziale, oltre che per il frastuono, che quell’arma frutto dell’ingegneria e del progresso possedeva nonostante le sue dimensioni.
Dopodiché, con trasporti rapidi in successione, lo stregone elfo si pose di fianco a Kolossus, Gheos e il Principe di Gorm, a guidare insieme a loro la resistenza.
“Vecchio Saggio!” esultò Gheos, sorridente, sollevato dalla presenza dell’arcano stregone, la loro guida da anni.
“Dove eravate? Cosa vi è successo?” chiese poi, guardando con preoccupazione il sangue sui suoi vestiti.
“Lo Stregone di Fuoco mi ha tenuto occupato. - rispose sbrigativo - Nulla di importante, adesso. Ora sono al mio posto, al vostro fianco ad aiutarvi.”
Ora che anche il Vecchio Saggio si era unito al contrattacco, la forza dei gormiti alleati fu inarrestabile.
Magmion non era per nulla intimorito dalla maggiore forza numerica del nemico, né dal loro uso intelligente della loro bomba contro i suoi proprietari, e se lo era non lo dava a vedere. Avrebbe lottato fino alla fine. La fuga? La resa? Parole che non gli erano familiari, usate solo dai suoi avversari.
Ma l’altro capitano vulcanico, il cavaliere assassino di Lacamos, non era della stessa impressione.
“Magmadoni, richiamate i vostri uomini. - gli intimò - Qui abbiamo finito, abbiamo perso.” ammise con un tono per nulla turbato, quasi la sconfitta non lo toccasse.
“Taci! - ringhiò Magmion - Io non mi arrendo, combatterò fino alla fine!”
Il misterioso cavaliere gli menò una scappellotto col suo guanto metallico. Magmion fu sconvolto da quella mossa così inaspettata…così insolita e moderata, per un vulcanico. Quando uno voleva far valere la sua opinione, non esitava a passare alle maniere forti. Ma quel gesto, quel colpo, non rispondeva del desiderio del cavaliere in armatura di farsi valere sul Saggio Magmadoni. Bensì, sembrava più che altro un rimprovero, un invito a ragionare.
Ma qualunque fosse il motivo di quell’azione, Magmion non era tipo da farsi mettere le mani in faccia così facilmente. In un’altra situazione, Magmion avrebbe violentemente restituito il favore, che il suo nemico avesse una corazza oppure no. Ma quell’occasione fu diversa: non provò l’impulso di svitargli l’elmo e dargli un pugno in mezzo agli occhi – o all’occhio. Qualcosa lo tratteneva.
“Non fate  il babbeo, Magmadoni. - lo sgridò dunque - Nessuno vi ricorderà come eroe per esservi opposto a sconfitta certa, e aver guidato i vostri uomini allo stesso destino. La situazione non è vitale da agire in tal modo. Non possiamo rischiare di perdere altri uomini e di sprecare altre bombe: sapete bene quanto sono costate. Ma i soldati sono più importanti. Il Vulcano ha bisogno di un futuro.”
“Rimanete pure, se volete. - lo provocò infine, mostrando una certa critica per i metodi e le idee di Magmion, per il suo stesso personaggio - Ma non fate fare ai vostri soldati una fine così inutile.”
Magmion ruggì in disapprovazione. Ma per quanto fosse contro i suoi canoni, contro i canoni di ogni vulcanico che si rispetti, se non addirittura di ogni gormita fuggire da uno scontro, comprendeva che altre perdite, dopo quella bomba andata a vuoto, sarebbero state svantaggiose e poco onorevoli.
Alla fine, urlò: “Ritirata, ritirata!”
In successione, chi riluttante come Magmion, chi contento di tale decisione a seguito della piega che avevano preso gli eventi, le forze di Magmadoni e del cavaliere fecero rapido dietrofront, raccogliendo quanti più caduti potessero per render loro meritati onori funebri, mentre i gormiti alleati, continuavano ad attaccarli, senza però inseguirli e respingerli oltre.
***
Un numero esagerato di gormiti, mai visto prima in quel luogo, si ammassava su Iustinsula, giunto con grandi e maestose e raffinate navi. Le imbarcazioni recavano le insegne di ogni Popolo, meno quelle di Monte Vulcano.
Ad accompagnare i Signori dei Popoli e il Principe di Gorm il Vecchio Saggio e numerosi gormiti di ogni ceto e classe, disposti a pagare un’esigua quantità di sale nero e i più veloci a procurarsi i permessi per poter partecipare a quell’evento così esclusivo. Una cerimonia davvero straordinaria, ma Iustinsula era davvero piccola, e non poteva ospitare tante persone.
Vi erano numerosi Saggi, riconoscibili dalle loro vesti lunghe e dai preziosi ricami, tra cui tutti quelli che avevano lavorato come direttori del Torneo dell’eclissi.
Parecchi altri gormiti, provenienti da ogni Popolo, stavano ultimando i lavori di restauro della Rocca di Iustinsula. Le erbacce, i rampicanti che in quegli anni di disuso l’avevano completamente conquistata venivano rimossi. Il pavimento veniva spolverato, le mattonelle riparate, le pareti risanate e ridipinte. Per tutto il giorno precedente operai e maniscalchi erano stati mobilitati su Iustinsula per rimettere in sesto la rocca, e oggi terminavano il lavoro.
Fuori dalla Rocca, dalla parte opposta di dove Signori e gormiti attendevano di entrare per la cerimonia, erano ammucchiati carri, carriole, pacchi di legno, contenenti statue, quadri, pergamene di dichiarazioni del passato, collezionate dai maggiori centri di cultura di Gorm, come la Biblioteca Silente, il Rifugio della Rugiada, l’Armeria di Roscamar. Dagli esperti scultori di Orsol e di Colle Tempesta era stata costruita un’imponente scultura finemente dipinta di Carrapax, Principe di Gorm, insieme a un’altra statua, decisamente di uno stile più astratto, che doveva rappresentare il Principe di Gorm dei tempi andati.
La Rocca di Iustinsula sarebbe d’ora in poi servita come museo e come luogo d’esposizione dei grandi trattati stipulati tra i Popoli di Gorm.
Come luogo definito neutrale da tutti i maggiori capi durante la Grande Guerra, qualsiasi gormita era libero di recarvisi e in totale sicurezza, compresi i gormiti del Vulcano, mentre la rocca sarebbe stata tenuta in ordine periodicamente da una congrega di gormiti di diversi Popoli.
Non c’era da aspettarsi che i vulcanici rispettassero la neutralità e la pace di Iustinsula, anche se per tutta la guerra era stato così. Ma dopotutto, quando ognuno degli attacchi sleali del Vulcano fu sventato, Orrore Profondo fu obbligato a firmare una pace con gli altri Signori, in cambio di vulcanici, tra cui Lavion e diversi altri presi ad Astreg, che i gormiti tenevano in ostaggio.
Nulla di concreto: i vulcanici non si sarebbero fermati di fronte alla carta, ma per il titolo di Principe lo avevano fatto, e sarebbe stato così anche in questa occasione, giacché nel trattato di pace era stabilito che se il Vulcano avesse rotto la pace entro il tempo stabilito – intorno ai due anni - , i Popoli non avrebbero esitato a unirsi contro di lui e ad attaccarlo, qualunque fosse stata la presa di posizione del Principe di Gorm nei confronti dei poteri di quel titolo.
Infatti, dopo la rivelazione degli oscuri tranelli tesi dalla gente di Monte Vulcano e dalla rapida mobilitazione dei gormiti riuniti ad Astreg in aiuto alla Città Sotterranea, né il giorno seguente, non vi era mai stato il tempo di tenere la cerimonia esclusiva e immancabile che avrebbe conferito ufficialmente a Carrapax la carica di Principe di Gorm, la cui pergamena sarebbe stata poi privata di qualsivoglia attribuzione di potere e inquadrata, insieme al trattato di pace.
Quel giorno, quando gli operai e tutti i facchini diedero segnale di lavoro terminato con sonore scampanellate, la cerimonia si sarebbe tenuta.
Carrapax abbandonò la folla che lo accerchiava, che lo aveva ringraziato, adulato, interrogato fino a quel momento, per seguire i Saggi del Torneo nell’entrata della Rocca e nel salone.
Lì, Delos con il rotolo dorato nella mano e gli altri Saggi si posero su un piedistallo, da cui poterono vedere dall’alto l’umile Carrapax, inchinatosi sulle ginocchia, col volto chino. Dietro di lui, Barbataus, Elios, Kolossus, lo stregone e tutti i gormiti, che attendevano in silenzio la fine della cerimonia e l’inizio del banchetto celebrativo, che si sarebbe tenuto per motivi di spazio fuori dalla rocca, in tavoli preparati per l’occasione.
“Carrapax Danul, Signore del Mare. - cominciò Delos solenne - Avete sconfitto valorosamente e con abilità gli altrettanto valorosi ed abili avversari che vi siete trovato davanti durante il sacro Torneo dell’Eclissi. Il Signore della Terra Kolossus, il Signore della Foresta Barbataus, il Signore dell’Aria Elios, noi Saggi del Consiglio, e spero molti dei gormiti qui presenti che non si sono sognati di perdere questo magnifico momento, siamo testimoni della dimostrazione della tua virtù, e del tuo diritto di salire alla prodigiosa carica di Principe di Gorm.”
“Come pattuito tra Lavion Magmadoni, Noctis Emarant, Tasarau Fegri, Gheos Massas e Poivrons Legheri, Signori di Gorm a loro tempo, e stabilito in questo consacrato foglio, spetta a voi la decisione di come assumere questo titolo, questa responsabilità. Volete voi assumere il totale comando dei Popoli dell’Isola di Gorm e riunire fino alla fine dei vostri giorni il governo nei territori del Popolo del Mare, oppure desiderate ignorare questa possibilità, e assumere solamente una carica spirituale e simbolica per i gormiti vostri pari? Avete avuto il tempo di riflettere, Signore del Mare: prendete ora la vostra decisione.”
“Non assumerò il comando di gente su cui non ho alcun diritto di comandare.” espresse sonoramente e sicuro di sé. Molti tra la folla dietro di lui, tra cui Elios, che aveva altri progetti in mente, furono molto stupiti di quella decisione. Tutti gli altri, compreso il Vecchio Saggio, condivisero invece la visione delle cose di Carrapax e la sua decisione.
“Se io dovessi, scatenerei il malcontento tra la gente che abita nella Valle del Vulcano. - spiegò poi, ancora col capo chino e sulle ginocchia - E il malcontento tra i Popoli alleati, che si troveranno costretti a prendere le armi contro Monte Vulcano. Non spingerò la mia gente, i miei cari, ad un’altra guerra.” Qui alzò il capo e sciolse l’inchino, più convinto e irriducibile che mai.
“La mia decisione è di diventare guida simbolica e spirituale. A tutti dispenserò consigli, di tutti sarò l’umile servo; a nessuno negherò il mio aiuto.”
“Così sia, Principe di Gorm. - replicò Delos, accondiscendente e soddisfatto della scelta del figlio
- Le vostre decisioni non saranno obiettate. Ora siete ufficialmente ciò che avete desiderato di essere: guida simbolica. Questa carta non ha ora più alcun valore materiale.” disse, sollevando in aria e srotolando il foglio dorato, prima di farlo passare in mano a tutti i Saggi alla sua destra e a un operaio forestale, che procedette a infilarlo in una tela di quadro, e ad appenderlo a una parete.
“Che i semidèi proteggano il Principe di Gorm ed ogni abitante di questa meravigliosa isola.” dissero infine in coro tutti i Saggi sul piedistallo
“Che il banchetto abbia inizio, e che Gorm possa prosperare!”
***
“Tutto per colpa di Lavion! - gridava, triste e iroso allo stesso tempo, camminando in torno nella sua stanza, alta all’interno del Monte Vulcano, il Saggio Magmion - Se ci fossi stato io lì non mi sarei comportato così!”
Con un grido disperato sferrò un pugno al muro. “E abbiamo pure dovuto pagare per riavere un idiota come lui!”
Dopo aver ordinato la ritirata ed esser ritornato a Monte Vulcano, Magmion aveva tutte le intenzioni di trovare quel diavolo di Orrore Profondo e fargliela pagare per quel fallimento di quel piano ideato da lui che era costato così tanto.
Ma scoprì che il suo Signore Orrore aveva la colpa minore in tutto quel casino, che se non fosse stato per l’inettitudine del suo fratello Lavion la presa dei centri dell’Isola sarebbe stata possibile.
E allora la sua ira si riversò su suo fratello minore, che da sempre non mostrava di avere in grande simpatia, sin da prima che Lavion divenne un mystica mentre Magmion rimase nello stato di sempre. La cosa peggiore fu non poter sgridarlo e picchiarlo subito per quel disastro, poiché incatenato insieme a molti altri dai gormiti alleati.
“Lasciamolo a marcire,” fu la prima proposta dell’ex-Signore del Vulcano.
In cuor suo, però, anche Magmion voleva rivedere Lavion, suo fratello, salvo nelle sue stanze. E lo riebbe, e la sua ramanzina fu ben più moderata di quanto Magmion aveva dapprima desiderato e di quanto Lavion temesse.
Rinchiusa nella sua reggia signorile, riparata e a grande altezza in Monte Vulcano, intanto, Orrore Profondo rimuginava, tramava, tesseva la sua vendetta. I piani elaborati tra lui, Magor e il Consiglio avevano reso probabile questa serie di eventi, e avevano pensato ad altre soluzioni per avere la meglio e appropriarsi dell’Isola, dei suoi segreti e dell’Occhio della Vita.
“Non credete di averla vinta, piccoli e sciocchi gormiti, vi annienterò!” gridava Orrore nel suo soliloquio, rigorosamente ad alta voce, osservando i suoi uomini muoversi dalla finestra, nelle città ai piedi di monte Vulcano.
“Con una lama avete trafitto la nostra ragnatela, ma è ancora intatta…ben presto sarà riparata, e diventerà più grande; scoprirete cosa è in serbo per voi e io tornerò! Tornerò!”

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Capitolo 25
*** Capitolo 10.1 ***


Il silenzio dominò la radura illuminata dal sole del pomeriggio. Nejema scompariva e faceva nuovamente capolino, a intermittenza, tra le sempre maggiori nuvole che coprivano il cielo sopra Dalarlànd, ma Nejema era molto più alto e cocente del normale, per il termine della lezione.
“Be’, ho finito. – borbottò il Cronista – Fatemi delle domande.”
Il suo pubblico di giovani studenti si era notevolmente sfoltito, unico colpevole l’estremamente lunga durata della lezione odierna. Il maestro si era fin troppo prolungato nella sua narrazione dei tempi e degli uomini che furono, e chissà per quale motivo, perse la cognizione dei suoi, di tempi – pur avendo congedato (con mere gesti della mano, sia come permesso per andarsene, che come ordine di starsene zitto) chi decise di andarsene nel mezzo del racconto, e non aveva sospettato che ci fosse qualcosa che non andava.
Aveva preso gusto a raccontare? Lo faceva sempre, e quando esagerava non si inoltrava mai così tanto dopo la mezza giornata.
Era una fonte di distrazione dal dolore che lo attanagliava, la consapevolezza ineluttabile che, al suo ritorno, avrebbe trovato il pranzo assente e la casa vuota, e la volontà consequenziale di prolungare il quanto più possibile quella raffazzonata quanto avvincente rielaborazione storica?
Sì, era certamente questo. Il Cronista si fece cupo, e implorò selvaggiamente e violentemente i suoi déi – quali? Non c’erano déi per lui, non più ormai – che quei bambini…quei dannati bambini lo tartassassero di domande, diluissero la sua sofferenza con le loro chiacchiere, amabili o banali che fossero.
Loctiu c’era, la sua pupilla, ed era un bene: con lei poteva intavolare discussioni interessanti. C’era pure Forteceppo, e anche questo era un elemento a suo favore. C’era Osmaniu – certo, non c’era nessuno ad aspettarlo a ‘casa’ – e qui non seppe cosa pensare. Agli altri – pochissimi, le dita del Cronista erano sovrabbondanti rispetto a loro – non badò quasi. Esistevano soltanto loro tre, per lui. Per motivi diversi, e anche ignoti a lui stesso.
“Su, insomma! Chiedetemi qualcosa!” esclamò dopo il lungo silenzio, un po’ sgarbato.
Gli studenti lo guardarono senza sapere come agire. Avevano senz’altro timore della suscettibilità del loro maestro, dopo la sua ultima perdita…ma che avevano da temere?! Sapevano che il Cronista era rigoroso e imperturbabile nel suo lavoro, non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa da nessuno e niente, non sul lavoro a cui aveva dedicato una vita, no. Loctiu mosse una gamba e tremolò un poco le labbra.
“Si tratta di un episodio…chiave, per la nostra condizione attuale.” Disse la ragazza, incerta, tentando di dar corda alla volontà del Cronista.
“Eccome, Loctiu! – esclamò ancora il maestro, annuendo ferocemente – Eccome. Se Carrapax, o anche se avesse vinto qualcun altro e il suo ruolo come Principe fosse stato diverso, cioè quello di un condottiero, i Popoli divisi non esisterebbero da tempo, e forse la pace con il Vulcano sarebbe stata raggiunta molto prima.”
Il maestro si incupì, massaggiandosi il mento. Si alzò e girò in tondo, riflettendo.
“Oppure… – continuò – Gorm sarebbe entrata in una guerra ancora più disastrosa della Grande Guerra di Gorm o la Guerra della Magia. Nessuno dei Popoli, in fin dei conti, desiderava essere sottomesso. E il Vulcano l’avrebbe vinta sin da subito, questa volta, senza i discordi tra i suoi Signori (ce n’era uno solo, Orrore Profondo!) e i lavori per le loro speciali navi Bombarda.”
Loctiu si limitò ad annuire e a concordare con tutto ciò che diceva il suo buon maestro e a ripetere i suoi stessi concetti con altre parole, molto spesso monosillabiche. Anche gli altri annuirono e concordarono meccanicamente, come in una farsa. Al Cronista l’atteggiamento non piacque affatto, ma sulle prime tentò di ignorarlo.
Forteceppo dunque prese parola, e il Cronista sospirò felicemente, pensando che, almeno lui, portasse avanti un discorso sensato e capace d’intrattenerli a lungo.
“A proposito del Signore unico…” iniziò, con espressione enigmaticamente sorniona, ma fu subito interrotto, nientemeno che dal maestro, che azzardò ad indovinare l’argomento della questione di Vradicus.
“Sì, sì, so bene che per voi sembra una cosa strana. Da anni ormai ci sono due Signori del Vulcano…anzi, due Signori di Darth Kuun Nord, è meglio dire, dopo i cambiamenti politici con il Consiglio dei Signori.”
“Non era di questo che volevo parlare…” precisò Forteceppo, basito. Osmaniu dietro di lui sembrava stesse lottando per reprimere una risata, e poi si fece serio, quasi disgustato, evitando lo sguardo del suo amicone della Foresta.
“Oh, e che cosa volevi dire?” fece il Cronista un po’ imbarazzato.
“Semplicemente, il primo Signore del Vulcano dopo secoli…si chiama Orrore Profondo! – sghignazzò – Orrore! Profondo! Che razza di nome è? Capisco l’enfasi, ma è davvero assurdo, ah, ah!”
Il Cronista si crucciò, per nulla divertito. Pochi altri trovarono comica l’uscita del giovane forestale, il quale dopo poco si rese conto di avere esagerato un po’ con la sua ilarità.
“Senti chi parla. – sbuffò il Cronista, incrociando le braccia – Tu ti fai chiamare Forteceppo. E dove saresti forte? Non hai un’ombra di muscolo, piccolo come sei.”
Un silenzio pesante e opprimente come una montagna sulle spalle scese sulla combriccola riunita nel bosco. Forteceppo rimase allibito, offeso come mai prima d’ora, e per le parole del Cronista! Il Cronista, che mai si era permesso una cosa del genere. Era talmente sconvolto che non pensò nemmeno a precisare che Forteceppo non era il suo vero nome, cosa del resto il Cronista sapeva. Allora…perché? Non credeva di aver detto qualcosa di così sbagliato o inopportuno.
Egli tornò a sedere.
“Basta, è tardi. – sospirò, sfregandosi la fronte, gli occhi chiusi – Tornate casa, da bravi. Non voglio che i vostri genitori vengano a infastidirmi perché vi ho intrattenuto troppo. Su, via. Via!”
 
Incapaci, impertinenti, immaturi, stupidi, pavidi, falsi…questi e altri aggettivi di dubbia correttezza sferzavano le pareti della mente del Cronista, intimamente deluso e innervosito da quel loro atteggiamento così infantile e…e…
Non c’erano parole, il Cronista si sentiva frustratissimo, come se la sua intera famiglia passata e futura fosse stata calunniata e fossero state date le prove a giustificarne l’offesa. Si sentiva persino tradito…e non riusciva bene a spiegarsi il perché, nel suo tragitto verso casa, mentre oramai il cielo s’era coperto di nubi gocciolanti, anticipando la stagione umida.
Perché si erano comportati a quel modo? Di che avevano dannatamente timore o insicurezza, per Asili? Lui era stato chiaro, tutto si sarebbe svolto secondo il solito costume: narrazione, domande, chiarimenti. La cosa sarebbe finita lì, avrebbero fatto quattro chiacchiere in libertà e magari una risata – il Cronista aveva tanto bisogno di risate, del resto.
Eppure loro esitavano a parlare, come se avessero paura di tirarsi addosso l’ira funesta del Cronista…
Non era una paura giustificata? Forteceppo ne era la dimostrazione. C’era qualcosa di profondamente sbagliato, in tutto quanto. Ogni cosa andava per il verso sbagliato, accadeva tutto e il contrario di tutto, in un vortice irrazionale di cui la perdita di Inamia rappresentava l’occhio del ciclone.
Come se non bastasse, alla caterva di emozioni tutt’altro che positive che tormentavano il vecchio insegnante, si aggiunse ora persino il senso di colpa, per essere stato così maledettamente sgarbato con il povero e innocente Vradicus Forteceppo, che era rimasto senza parole per quell’uscita così inattesa del suo solitamente tranquillo maestro che si sforzava a tenere le proprie peripezie private, e le emozioni derivanti, ben lontano dalla sfera delle sue tanto care e preziose lezioni.
Era possibile farlo? Aveva fallito, miseramente fallito in quell’operazione che faceva del male, e che aveva finito per fare del male pure agli altri? Non poteva davvero affogare con le parole la sua scomparsa, e continuare come tutto era sempre continuato, anche se doveva.
No. Tutto ma non questo. Non avrebbe ammesso una simile debolezza, da parte sua: la colpa era unicamente dello sfrontato Forteceppo, con una battuta così nonsense, fuori luogo, priva di rispetto, in luogo di domande e discussioni serie che egli s’aspettava. Orrore Profondo poteva pure essere un nemico terribile per ogni gormita non del Vulcano che solcasse il suolo di Gorm – più di tutti il Cronista: non avrebbe mai dimenticato quella furiosa rincorsa tra i blasfemi, sanguinosi boschi… – e avere un nome ai limiti del ridicolo, ma era stata comunque una persona, viva, con la propria identità, ed era scorretto, immorale sparlarne alle spalle, quando essa non avrebbe più potuto difendersi per di più. Un’argomentazione anche questa che confinava l’assurdo, ma nella testa confusa del Cronista gli parve più che accettabile e universalmente corretta.
A ben guardare, la colpa di quelle parole offensive era anche sua: si era lasciato sopraffare, avendo sopravvalutato la capacità di essere seri di quei cuccioli che, appunto, non erano altro che dei cuccioli. Avrebbe dovuto aspettarsi e infine tollerare uscite di questo genere. Da Forteceppo, poi! Lo conosceva bene.
Sì, il giorno dopo avrebbe chiesto scusa, e esposto le dovute argomentazioni.
Un proposito benevolo che purtroppo non arrecò grande immediata soddisfazione nel cuore affranto del Cronista: casa sua era sempre più vicina, la solitudine del rifugio del suo amore si sarebbe fatta sentire di nuovo. Per sempre.
Il suo bastone – non se ne separava più, ormai – arrancava sbilenco nel fango.
Fango. – borbottò desolato – Santi Semidéi, anche la pioggia.
La natura, il cosmo intero ce l’avevano con lui, in una sorta di sadica punizione per gli errori remoti e recenti, oppure per effettuare una ancora più sadica sfregata di sale sulla ferita, giusto per ricordargli che il male non veniva mai da solo.
L’inseparabile mantellina grigia era completamente zuppa, quando giunse infine alla scala del suo solitario tronco. Sospirò tristemente, abbandonando il bastone ai piedi del fusto, e iniziando la lenta scalata. Lentissima, come un viaggio a piedi da Gorm per incontrare il disco di Nejema, ma colma di inesorabile desolazione, come una consapevole discesa nel baratro più buio della terra.
Spalancò la porta, gettò a terra la fradicia mantellina, schizzando acqua su tutto il pavimento lindo e lucido del corridoio dell’entrata. Si piegò sulle gambe per recuperare il proprio bastone, ma la posizione gli risultò estremamente faticosa per le sue vecchie ossa. Così, si acquattò a contatto col pavimento con tutto il suo corpo, solamente il capo e un braccio che spuntavano fuori dalla porta come funghi grotteschi. Agitò mollemente alcune dita, focalizzando la vista sul suo bastone, giù, ai piedi dell’albero, il quale dopo poco levitò fino ad arrivare in mano al Cronista.
Chiuse la porta rialzandosi, isolandosi definitivamente e completamente dal mondo esterno nella grotta lacrimosa della prospettiva di passare i suoi ultimi pochi anni da solo. Pochi, troppi.
Non aveva fame, non badò affatto alla cucina e alle polveri nelle mensole, alle ricette prestategli da Ederus.
Sgattaiolò in camera da letto, e il suo sguardo incontrò un elemento di intenso interesse per il Cronista. I lunghi ferri bronzei di Inamia, con cui sin da prima della vecchiaia si era appassionata a cucire di tutto e di più, per sé, per il suo amato, per gli amici.
Mentre, quasi in una sorta di trance, le sue mani si allungavano per toccare quel cimelio toccato da lei, rifletté su tutte le volte che egli si era complimentato per la bravura nel tessere e la bellezza delle sue opere di filo, e l’aveva a più riprese incitata a farne una fonte di guadagno, e lei di contro si era sempre rifiutata. Il ricordo gli strappò un sorriso.
Stava cucendo qualcosa per lui, prima che morisse.
Le sue mani strinsero con forza quei ferri, ma poi si ritrassero tremanti. Gli parve, per un istante, un’azione illecita, profana, corrompere con le sue dita quel poco che gli rimaneva di lei.
In un raptus di razionalità, si disse che stava decisamente esagerando con il romanticismo e quei pensieri così aulicamente tristi.
Non aveva mai filato a maglia, ma quando iniziò a muovere le due bacchette metalliche, era come se sapesse perfettamente cosa stava facendo, e cosa ne sarebbe venuto fuori. Si illuse con una mezza risata che Inamia potesse rivivere in quell’azione, che era lo spirito di Inamia a guidarlo. Sì, lo spirito, qualsiasi cosa esso fosse realmente.
Avrebbe completato per lei ciò che non era riuscita a terminare. Le opere inconcluse sono il maggior cruccio di ogni uomo.
Mentre dalle sue dita prendeva forma…di qualsiasi cosa si trattasse, l’avrebbe presto scoperto, con la mente vagò al futuro più prossimo, alla mattinata del giorno seguente. Formulò tra sé, e ogni tanto gli uscivano a voce, le parole con cui avrebbe iniziato, eseguito e concluso la narrazione della ricerca e conquista dei poteri mythos, della grande mossa di Elios che determinò uno dei cambiamenti più epocali nella storia dell’Isola.
 
<< Sotto la guida del Vecchio Saggio e del Principe di Gorm Carrapax, per i Popoli alleati di Gorm si prospettava un periodo di coesione, serenità e progresso.
Gli oscuri e violenti progetti del Popolo del Vulcano e di Magor erano stati fermati, e la divisione tra i Popoli causata dall’anatema dello Stregone di Fuoco che egli poteva usare a suo vantaggio fu annullata, proprio da questi stessi progetti.
Erano stati anni cupi e intensi, di pura guerra, odio e inquietudine. Dall’indimenticabile e tremendo giorno del Grande Sacrificio per i gormiti, anche per quelli del Vulcano, come raccontato da Magor, furono giorni difficili. Il ritorno nella loro isola natale dopo quei circa trent’anni – trenta nell’ordine temporale regolare, per il Vecchio Saggio, gli altri superstiti e alcuni altri gormiti ne erano passati molti di più, tra le varie camere del tempo – fu quasi per niente un periodo memorabile e pacifico. Soli otto - nove anni di tranquillità per ricostruire la civiltà gormitica com’era un tempo, per riassestare le abitazioni, reinstaurare scuole, miniere, fabbriche. Anni lunghi ma di poco sufficienti per i gormiti per tornare ad essere quelli di una volta, una società che stando agli antichi testi e agli oracoli esisteva da un millennio e che aveva impiegato secoli per diventare ciò che era ora.
La vittoria quasi totale dei Popoli del Vecchio Saggio, ottenuta al prezzo di un cancello e di quasi un centinaio di valenti terricoli, avrebbe potuto dare ai gormiti il tempo di fortificarsi e di progredire sereni, dopo il conflitto che aveva separato i Popoli.
Nessuno era molto convinto che in quei due anni si potesse fare molto, né che il Vulcano non decidesse di rompere la pace prima del previsto, o che non usasse quei due anni di tregua per macchinare un piano definitivo per conquistare Gorm e i suoi segreti.
Ma i gormiti preferirono ignorare, finché potevano, l’incombente e sempre presente minaccia del Popolo del Vulcano e dello Stregone di Fuoco – di cui diversi ancora mettevano in dubbio l’esistenza.
Tutti i gormiti agognavano fortemente la giunta di un periodo in cui il Vulcano avrebbe cessato di essere  una minaccia, in cui le due fazioni si sarebbero vicendevolmente perdonate incomprensioni e peccati commessi, per poter convivere sulla stessa isola in pace, una pace che Gorm non aveva mai visto, se non migliaia di anni fa quando i gormiti non erano ancora esseri senzienti.
Questa pace, la vera pace, avrebbe impiegato ancora molto per arrivare. Il Vecchio Saggio doveva trovare un modo per distruggere in sicurezza l’Occhio della Vita, porre fine al pericolo che rappresentava, e con esso al desiderio dei vulcanici di dominio.
Non era facile come sembrava: l’Occhio della Vita aveva ancora molto da rivelare, e Razael ne sapeva ancora molto poco.
Sapeva che conteneva una quantità inimmaginabile di energia, denominata neozon dagli studiosi a cui chiese aiuto in passato, e che in qualche modo poteva rigenerare, anche molto velocemente.
L’involucro cristallino –oppure era una sfera piena? dal peso non sembrava, ma non poteva esserne certo - non era molto difficile da rompere: un colpo di martello l’avrebbe facilmente mandato in pezzi. E dopo? Cosa sarebbe successo dopo? Dove sarebbe andata l’energia neozon, e in che forma? Cosa sarebbe successo ai gormiti, con cui l’Occhio possedeva un misterioso legame, allo stregone e a tutti quanti ancora poco chiaro?
Il Vecchio Saggio non avrebbe rischiato: doveva scoprire fino in fondo tutto ciò che c’era da sapere su quell’oggetto, e sapeva bene che più l’Occhio rimaneva intatto e accessibile, Gorm e i gormiti sarebbero stati in conflitto.
Ma i gormiti –e in parte anche il Vecchio Saggio, che da tanto non aiutava a dovere la sua gente e decise di dedicare ad essa più parte del suo tempo - stabilirono di non porsi più queste grandi domande, di lasciare i problemi di grossa portata al futuro. In quei due anni, Vulcano compreso, i gormiti si sarebbero dedicati ai problemi più ‘piccoli’.
***
“Piano con qui mattoni, Evera!” urlò un terricolo, che si vide un mattone grigio unto di intonaco strisciargli non molto leggermente di fianco alla testa.
Era un viavai di terricoli –e si intravedeva pure qualche gormita esterno - dall’entrata nord-occidentale alla piazza, alle case della Città Sotterranea e viceversa. I gormiti andavano e tornavano con carriole piene di mattoni, pietre, ghiaia, travi di legno, sotto braccio e in mano zappe, martelli, cazzuole, sacchi di chiodi, attrezzi e utensili svariatissimi.
Dopo l’attacco a quel cancello, i gormiti non avevano perso troppo tempo a riposare sulla vittoria definitiva o a piangere i danni e i caduti, e iniziarono quasi immediatamente i lavori di riparazione del cancello e delle altre cose che erano state devastate dall’esplosione della bomba.
Gli operosi terricoli, con alcuni aiuti da fuori, erano all’opera nella ricostruzione del cancello. Ma non si sarebbero limitati a ricostruirlo come era in precedenza: lo avrebbero migliorato, con grandi e robuste strutture in muratura e una enorme porta metallica che potesse venire chiusa quando incombevano pericoli, una difesa in più in supporto al Grande Masso, miracolosamente intatto, se non qualche crepa.
“Va bene, farò più attenzione.” promise il gormita, con sicurezza, che stava manovrando con la forza magica i mattoni e l’intonaco, per posizionarli l’uno sopra l’altro, legarli tra di loro, in una sorta di muro. La forza magica per quanto utile era poco precisa, e i mattoni sollevati e consegnati dalla gormita dovevano poi venire sistemati per bene e rivestiti di nuovo intonaco, entrambe le cose manualmente, con l’aiuto di cazzuole.
Era una giovane donna, che si era trovata in paradiso dopo i nuovi progetti riguardo la magia approvati da Kolossus e un’apertura più ampia ad essa da parte del Popolo della Terra.
Durante la Grande Guerra e la presa di Picco Aquila da parte della sua gente, i suoi genitori, entrambi ufficiali dell’esercito, decisero di stabilirsi lì e portare anche lei, che durante la presa era rimasta con il resto della sua famiglia. Lei aveva sempre avuto affinità ed interesse per la magia, e a contatto con i gormiti dell’Aria, rinomati esperti stregoni, le sue conoscenze e la sua abilità magiche divennero eccelse. Anche quando l’Aria scacciò gli occupanti terricoli con la rivelazione della finta morte di Noctis, lei rimase, offrendo tutta se stessa e accettando qualsiasi tipo di sacrificio e proibizione pur di continuare il suo apprendistato da strega.
Alla fine della guerra, fu lasciata libera di tornare a casa da sua madre –il padre era morto. Non che gli aerei la trattassero male o le vietassero molte cose, anzi avevano un certo rispetto per lei e per la bravura che dimostrava, e lei non rimpiangeva affatto di essere rimasta più o meno malamente prigioniera di guerra e di esser stata lontana da casa e dai suoi per così tanto tempo.
Era di media statura, con gli occhi verde intenso; la sua pelle era giallina, tra il sabbia e il nocciola, apparentemente liscia, cosparsa di anelli non poco spessi, grigi, come il ventre di un serpente.
Portava dei guanti bianchi senza dita con ricami arzigogolati giallo scuro. Presentavano anche un foro sul palmo, che a detta di chi glieli aveva venduti dovevano rendere la forza magica più precisa e concentrata, ma lei li teneva solo perché le piacevano. Di simile fattura e ugual colore erano gli stivali. Non recava altri vestiti, né particolari fisici rilevanti, se non qualcosa sulla sua testa. Era leggermente rigonfia, con due piccole corna lucide e dritte, corte e coniche. A un certo punto la pelle terminava per dare spazio a una formazione ossea nera, lucida anch’essa, durissima e coprente maggior parte della fronte e della nuca, dell’intero capo. La lucentezza e la sfericità di tale particolare le avevano conferito un soprannome che lei non apprezzava molto.
“Ehi, Opale nero!” la chiamò a gran voce uno dietro di lei, non vicino.
“Quante volte ve lo devo dire che non dovete chiamarmi così?” si voltò di scatto, puntando il palmo aperto, con tono minaccioso. Il gormita che l’aveva chiamata sussultò, gettando le mani davanti alle spalle in segno di resa.
Evera rise, abbassando la mano. Anche l’altro gormita sorrise. Non c’era nulla di malvagio in tutto ciò: per quanto non le piacesse, era abituata a quel nomignolo, e i suoi compari si divertivano a chiamarla così, e sapevano bene che non avrebbe mai attaccato qualcuno solo per stizza. Era tutto un gioco.
“Va bene, va bene! - acconsentì sorridendo “Comunque, Evera, ti vogliono di là.”
Il compagno terricolo mise bene in vista la propria mano, stretta a pugno, indicando con il pollice all’indietro un gruppo di lavoratori intento a montare una finestra.
“Vado subito. - annuì Evera - Vi devo lasciare da soli.” informò i muratori.
“Nessun problema, Opale nero.” dissero, ridendo.
Evera camminò per la sua strada guardandoli male, passando per caso di fronte al tavolo in cui lavoravano il Saggio della Terra Rock e il Vecchio Saggio. Li salutò con la dovuta riverenza, senza però rivolger loro parole.
Rock, privo di qualsiasi addobbo, monile o indumento che riconoscesse la sua carica di Saggio del Consiglio, lavorava con freddezza con martello, chiodi e la grande asse di legno che sarebbe dovuta diventare una porta, mentre il Vecchio Saggio, con antiche e complicate tecniche, piallava il legname.
“Perché un Saggio come te fa un lavoro così duro?” disse a un tratto il Vecchio Saggio, ironizzando “E sei anche anziano…sta attento!”
“Senti chi parla! - ribatté Rock - Quanti anni hai, tu?”
“Più di quanti me ne sarebbero concessi.” sospirò lo stregone.
“Eppure guardati. - disse Rock, fermandosi un attimo, appoggiando le braccia sul martello, osservando l’elfo - Sei attivo, dinamico…e nonostante la tua età, tutto’oggi ci offri il tuo aiuto, per migliorarci…per porre fine all’Occhio della Vita e ai problemi che dà.”
“Mi sento in dovere di farlo. - spiegò il Vecchio Saggio - Questa non è la mia casa, voi non siete la mia gente…eppure mi avete accolto, nutrito; d’altra parte, cos’altro posso fare se non passare la vecchiaia ad oziare? Preferisco dare una mano, anche ora che c’è Magor.”
Si fermò un attimo, impallidito: nessuno sapeva chi era Magor, che lui e lo Stregone di Fuoco erano amici e colleghi, e che lui l’aveva maledetto. Fortunatamente Rock non si soffermò su quell’ultima frase.
“Già. - disse, riprendendo a battere chiodi col martello - Voglio anch’io dare il mio contributo, come fai tu. Sei una fonte d’ispirazione per tutti noi, e lo sai bene. La vita politica e burocratica non fa per me, ma io e te.” e qui si fermò, dandosi una rapida circospetta occhiata attorno a sé “Sappiamo perché io sono Saggio, e perché è meglio che io goda dei conseguenti vantaggi. Però essere Saggio non mi soddisfa. Voglio sentire il sudore, la fatica. Solo così, faticando per aiutare, mi sento davvero realizzato.”
“Capisco.” comprese lo stregone, riprendendo con Rock il lavoro sulla tavola di legno.
“Ah, questo posto! - esclamò tutt’un tratto il terricolo, fermandosi nuovamente e asciugandosi la fronte - Ricordo ancora la volta che ci siamo incontrati, nella galleria mineraria. Tu ci aiutasti ad aprirci una strada con quell’affare esplosivo.”
“Lo ricordo bene. - rammentò il Vecchio Saggio, sospirando e scuotendo la testa - E guarda come hanno utilizzato quelle conoscenze, Rock!” e indirizzò il bordone a tutta la distruzione causata dalla bomba, costruita quasi certamente dallo studio degli ordigni esplosivi minerari che Razael aveva introdotto a Gorm.
“Non fartene una colpa. - lo sostenne Rock - Non potevi prevedere tutto questo.”
“Spero tu abbia ragione.”
***
La stanza era buia, una grotta, probabilmente. Nonostante l’oscurità, vi erano diverse fonti di luce che facevano capire come quel luogo fosse visibilmente lavorato, cuore di un grande progetto. Da una rialzata del suolo, una sorta di altare di pietra a cui stava lavorando una gormita dell’Aria, fuoriuscivano numerose tubature di legno e metallo, che portavano fuori dalla stanza, o almeno così sembravano dover fare: alcune non erano ancora complete.
“Siete sicuro di ciò che state facendo, mio Signore?” domandò la donna, impegnata con magia e strani attrezzi a scolpire lo strano altare, che presentava un mucchio di pietre cristalline accatastate sul ripiano, ancora grezzo e ruvido perché non lavorato.
“Certo che sì!” rispose entusiasta niente meno che Elios, Signore dell’Aria. Su un tavolino di legno, con martellini e scalpelli, seduto e come suo solito senza alcun abito, stava scolpendo della pietra, e dava ad essa la forma di quattro falchi appollaiati, o così diceva. Quelle sculture e l’altare a cui stava lavorando la sua subordinata, a cui numerosi altri avevano lavorato e molti ancora avrebbero dato il loro contributo, riempiendola di magia e strani meccanismi, non erano scollegate tra di loro. Facevano parte dello stesso ambizioso progetto.
“Questa opera ci porterà via grandi risorse e molto tempo, forse anni, ne siete al corrente, vero?” domandò ancora, non molto convinta.
“Anche qui, certo che sì!. - disse vivace Elios. Si concesse una pausa, per voltarsi e guardare faccia a faccia la sua compagna lavoratrice - Suvvia, su Picco Aquila c’è molta roccia, e molti metalli. Sapremo portarlo a termine, ne sono sicuro.” affermò davvero molto convinto e, caso più unico che raro, con una serietà in volto paragonabile a quella del più contenuto priore dell’Aria.
“Non oggi, né nel vicino domani. Ma lo finiremo.”
“Spero, mio Signore, che valga la pena di impiegare tutto questo tempo e questi fondi per il progetto. - commentò lei, ancora dubbiosa - Il progetto va avanti già da molti anni, da prima del Grande Sacrificio, ed è stato bloccato più volte perché non sapevano come continuare.”
“Ma oggi sappiamo continuarlo. - dichiarò Elios - E presto o tardi sarà completo. Il Popolo dell’Aria non dovrà più scavare nella dura roccia di Picco Aquila per fare una casa, non sarà più costretto a subire il clima rigido di questo monte.”
“E’ davvero così grave?” domandò ancora una volta la gormita, riferendosi alla condizione del Popolo dell’Aria su Picco Aquila, e direi quasi preoccupata per la serietà continuata che stava dimostrando il suo giocondo Signore.
“Il Popolo dell’Aria non è più abituato come un tempo al freddo e alla neve, quindi, sì.” rispose
“Che ne pensi?” chiese poi sorridente, alzando una delle quattro piccole sculture e mostrandola alla sua collega.
Ella non fu molto contenta del risultato. La scultura di falco non ricordava quasi per niente un falco, e presentava imperfezioni ed errori ovunque,
“Ehm, forse vi dovreste impegnare di più, o lasciarlo a qualcun altro.” cercò di non far trapelare la sua vera considerazione su quella scultura.
“Perché, poi, siete stato voi a riprendere questo progetto, e a volervi partecipare? - domandò, sviando la conversazione dalla bravura artistica di Elios - Non siete molto esperto con la magia, se me lo permettete, e il progetto è basato sulla magia.”
Elios fece spallucce, capendo anche che quelle statue del falco facevano davvero pena.
“Qualcuno doveva farlo. - sostenne - Mi interessava. E, come vedi, anche se c’è magia ovunque, ho trovato il mio impiego.”
***
“Portate questa legna sulla nave per Garsomor, e mettete quest’altra sui carri per Orsol. Serve per il loro progetto, e noi potremo finalmente avere quei semi.”
Barbataus, completamente ripresosi dalla ferite e dai danni presi all’Arena di Astreg, e soprattutto lontano da qualsiasi lotta, scontro, guerra, poteva ora dedicare tutto se stesso al vero lavoro di Signore, portare a compimento i piani che lo avevano innalzato, e riparare alla distruzione –nettamente inferiore rispetto a ciò che era successo alla Città Sotterranea - che avevano arrecato Lavion e le sue forze con il loro passaggio, rovinando il terreno in cui terminava il tunnel e disboscando una larga porzione di Silente.
Vi erano quindi numerosi tronchi, anche giovani, abbattuti da essere rimpiazzati con altri nuovi alberi.
Barbataus decise di approfittare di quel disboscamento gratuito e dei grandi fusti caduti.
I semi, i frutti, le foglie degli alberi abbattuti, quando c’erano, furono tolte e raccolte. Frutti e semi sia per nutrimento, per gormiti e animali allo stesso modo, che da vendere o da fondere in qualcuno degli speciali infusi e pastoni che i vegetali utilizzavano come principale fonte di nutrimento.
La legna dei tronchi fu ordinato di essere tagliata e lavorata, da poter essere adoperata nella costruzione di edifici, come riserva per eventuali future riparazione e anche qui per il mercato, sia interno alla Foresta che per gli altri Popoli. Laddove i tronchi non fossero stati abbattuti di netto, le radici e tutto ciò che rimaneva della pianta veniva estirpato, e per l’impossibilità di lavorazione e di ricavarne frutto, molto era destinato ad essere bruciato, se non subito comunque devoluto a legna da ardere.
Al posto degli alberi caduti, Barbataus avrebbe seminato nuove piante, di quegli alberi di cui la Foresta Silente cominciava a scarseggiare, di quelli più richiesti dai popolani e delle piante speciali che aveva in mente il Signore, che secondo lui, con i loro semi e frutti, avrebbero dovuto recare guadagno maggiore che le piante prima di loro.
Il terreno attorno all’entrata della galleria era instabile e sfigurato, però, nonostante anche il pericolo che quei tunnel avevano rappresentato, una riunione dei Consigli dei Saggi e dei Signori stabilì di poter trarre vantaggio dalle gallerie ancora intatte e agibili, e di annullare ogni minaccia che esse rappresentavano posizionando adeguate ronde di guardia non solo ad ambo le entrate, ma anche nell’interno.
Così, il suolo franoso attorno all’apertura della galleria non fu risanato, bensì stabilizzato e irrobustito con mura di legno e mattoni.
Una discreta zona di Foresta Silente era quindi occupata da grandi lavori, sotto la direzione di Barbataus, dal tunnel della Terra sino alla chiesa del priore.
Costui divenne un vero e proprio eroe: il suo tempistico avviso dell’arrivo delle forze vulcaniche aveva allertato tutti i guardiani forestali nascosti nella zona, che grazie alla loro conoscenza del territorio e al loro star nascosti avevano impedito la riuscita dell’attacco del Vulcano, e di conseguenza, con l’interrogazione e la cattura di Lavion, ogni altro assalto poté essere fermato e la pace siglata.
In poche parole, la situazione sarebbe molto diversa in quel momento se il priore non avesse suonato la campana in tempo o non avesse affatto visto Lavion guidare i suoi uomini nella Foresta.
Egli era a dir poco in imbarazzo per ciò che gli stava accedendo, per come veniva ora considerato. La sua educazione da priore gli imponeva una certa moderazione del carattere, e con essa lui non doveva riposare sugli allori per le vittorie ottenute né farne vanagloria. Ma come poter ignorare tutta quella gente che lo ringraziava e veniva da lui per discorrere? Scelse quindi di approfittare di quel momento per illustrare i gormiti più giovani e ai cuccioli –erano essi a mostrare maggiore interesse per la sua ‘eroica impresa’ - le vie e gli insegnamenti e la morale del culto delle Somme Forze, e a riportare coloro che lo avevano abbandonato per religioni minori nella giusta strada.
***
Il Vulcano aveva da lavorare. La costruzione delle Bombarde durante la Grande Guerra, e lo stato di guerra in generale, aveva portato via dalle riserve molte risorse preziose, e l’attenzione di ogni vulcanico era rivolta al combattimento e al mantenimento delle forze militari, favorendo le industrie di principale interesse per la guerra mettendo in secondo piano l’artigianato e la cura di campi e allevamenti, che venivano solamente sfruttati senza essere lavorati o sostenuti.
Dopo la guerra, il piano ideato da Orrore Profondo, la costosa e faticosa fabbricazione di quelle potenti bombe, e la mobilitazione di grossi plotoni, l’attenzione vulcanica riversata nuovamente sul sostenimento al fine della vittoria delle forze belliche del Monte di Fuoco.
Questi anni in totale stato di tensione e di puntuale ed eterna preparazione militare non aveva procurato grandi beni al Popolo del Vulcano.
Constatando poi che la Guerra non era stata effettivamente vinta da alcun Popolo e che il piano dell’attuale Signore del Vulcano era andato in fumo, si può ben dire che il Vulcano oltre ad averci guadagnato ben poco aveva addirittura perso.
Ci furono scioperi, proteste: lo Stregone di Fuoco, il Signore del Vulcano e tutti i Saggi avrebbero dovuto mostrare più attenzione ai bisogni di sostentamento –nonché di tranquillità: dopotutto anche loro necessitavano riposo - del Popolo del Vulcano.
Per quanto avessero in odio tutto e tutti al di fuori dei loro territori, la pace di due anni che furono costretti ad accordare dava loro una possibilità per riprendersi, fortificarsi: un’occasione che non avrebbero sprecato.
Così i vulcanici abbandonarono temporaneamente le armi e le corazze, presero in mano zappe, vanghe, aratri per dedicarsi a lavori più fruttuosi.
Lo Stregone di Fuoco Magor non poteva che essere contento di come le cose si erano risistemate, dopo la sconfitta di Orrore Profondo. Aveva per la prima volta temuto per la sua posizione, che il Vulcano avesse smesso di credere nella sua guida. Per fortuna tutto si risolse.
Al sicuro tra le pareti brune della sua segreta stanza in cima a Monte Vulcano, accerchiato da tomi polverosi, numerose pietre preziose cristalline –servivano per il suo sostentamento: era tecnicamente immortale, non potendo invecchiare né mangiare o respirare in quella forma, ma la materia infuocata in cui il veleno del Flammae corpus aveva mutato la sua forma elfa necessitava di energia per continuare a bruciare, e a mantenere ‘vivo’ Magor, e senza aria o cibo da poter assumere secondo i normali canoni, vi era solo un'altra via - , eternamente pensieroso, osservava quasi tutta Gorm attraverso la sua sfera veggente, oggetto potente ed impegnativo.
Fortunatamente il piano di Orrore Profondo era, appunto, di Orrore Profondo, lui l’aveva solo approvato, credendo avesse qualche possibilità di funzionare. E sempre grazie alla fortuna la colpa maggiore ricadeva su Lavion, che ora doveva stare attento a mostrare la sua faccia in giro. Magor era fuori pericolo.
Non poteva però essere del tutto contento di quella sconfitta, né sopportare facilmente che Lavion, uno dei suoi fedelissimi, e Orrore, un gormita davvero carismatico e talentuoso, venissero mal guardati per la sconfitta.
Il Popolo del Vulcano passava facilmente sopra tutto questo, nonostante raramente accettasse di buon grado errori e sbagli. Sapeva di essere in grado di vincere, presto o tardi, e, si diceva tra sé e sé, quelle sconfitte e quelle sviste gli sarebbero servite da lezione, finché non ne avrebbero più fatte e avrebbero trionfato.
Magor era anche stato molto vicino al prendere finalmente l’Occhio della Vita, adeguandosi al piano di Orrore e mandando alcuni dei suoi a colpire il Vecchio Saggio, che aveva tardato a coprire le sue tracce e a difendersi. La tensione che provava in quei momenti, mentre il suo vecchio maestro combatteva le illusioni e i gormiti vulcanici, che nascondeva sotto finta sicurezza, era indescrivibile.
L’Occhio della Vita sarebbe potuto diventare suo, anche con la non riuscita del piano di Orrore Profondo. Forse aveva sottovalutato la potenza della magia del suo maestro, che credeva intaccata dalla vecchiaia e da anni di elisir di lunga vita, oppure sopravvalutato le potenzialità e la forza fisica dei gormiti che aveva mandato a prenderlo.
Ad ogni modo, aveva fallito. Aveva già altri progetti, ma dovevano essere perfezionati, e doveva attendere che il Vulcano si ristabilisse, e che la pace terminasse. Non poteva rischiare una guerra aperta contro i Popoli uniti.
Spiava quasi ininterrottamente il Vecchio Saggio dalla sua sfera. Era davvero così stupido? Non si era mosso dagli oscuri antri della Caverna di Roscamar, né si era affrettato ad alzare nuove difese. Lo vedeva chiaramente, camminare avanti e indietro nella sua grotticina prediletta, abbandonarla di tanto in tanto per recarsi ad aiutare tutti quanti, e lasciare l’Occhio incustodito. A volte, nel sondare le gallerie di Roscamar, incappava in aree nere, dove il Vecchio aveva innalzato difese magiche, ma riusciva sempre a rintracciarlo, a volte qui a volte là. Perché stesse facendo ciò, non ne aveva idea. Tanto meglio: quando avrebbe deciso di attaccare nuovamente i gormiti, se continuava a comportarsi così stupidamente, l’avrebbe preso.
I suoi ragionamenti furono improvvisamente interrotti: qualcuno bussava alla sua porta.
Magor era sempre pronto a ricevere visite, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Riceverle era simbolo della fiducia che il vulcanici avevano nella sua figura. Ciò lo rendeva soddisfatto…quasi felice. Anche se non sempre le richieste che gli porgevano i visitatori erano di sua precisa competenza: a volte i vulcanici ignoravano l’esistenza del proprio Signore e si recavano subito da lui.
Non diede alcuno sguardo alla sfera per sapere in anticipo chi fosse il richiedente, come era solito fare.
“La porta è aperta.” esclamò, alzando la grande lastra di pietra con un semplice movimento della mano.
Ad entrare fu un corposo gruppo di vulcanici, sette o otto. Contadini…o artigiani. Avevano alcuni strumenti con loro, falci, zappe e martelli, ma non sembravano dei soldati. Però sembravano poco contenti, a giudicare dalle loro espressioni.
“Cosa vi reca qui a chiedere il mio consiglio?” domandò sonoro Magor, intrecciando le dita delle mani, dopo che i suoi seguaci si piegarono in inchini più o meno profondi.
“O potente Magor, abbiamo bisogno di aiuto.” avanzò il loro portavoce, fattosi avanti agli altri.
“L’avevo immaginato. - sospirò Magor - Che cosa vi serve?”
“Attrezzi da lavori. Non ne abbiamo più.” disse.
“Spiega meglio.” replicò Magor inarcando un sopracciglio, incuriosito da una simile richiesta.
“La Grande Guerra e l’attacco con le bombe, sommo Magor, hanno portato tutti i metalli, tutti gli attrezzi, ad essere usati in battaglia. Ora siamo rimasti senza.”
“Assurdo. - esclamò Magor - Le miniere di Sangor sono esaurite?”
“Niente affatto, o Stregone di Fuoco. - negò il portavoce scuotendo vigorosamente il capo - Non è quello che volevo dire. Le risorse ci sono, ma mancano gli strumenti per lavorarli. Gli stessi fabbri non hanno più gli strumenti per piegare il metallo.”
“Che cosa volete che faccia, esattamente?” chiese Magor.
“Riaprire la vecchia fonderia, o Magor! - esclamò sorridente il portavoce - E’ stata chiusa anni fa, nessuno l’ha più usata da allora, ma tutto è rimasto dentro. Ci sono ancora gli strumenti per lavorare il metallo. Sono vecchi, ma li possiamo usare per crearne di migliori.”
“Capisco. - disse Magor alzandosi, e portandosi vicino al portavoce, quasi poggiando una mano sopra di lui - Ma non capisco perché chiedere a me. Io mi occupo di cose più importanti. Orrore Profondo è il vostro Signore e - ”
“Abbiamo già chiesto a Orrore Profondo, o potente.” spiegò il portavoce, interrompendo Magor, al che i suoi compagni si spaventarono un poco.
“E ci ha detto di venire a chiedere voi. Siete stato voi a chiudere la fonderia, e Orrore non può opporsi alle vostre decisioni.”
“E’ vero.” rimembrò Magor, portando la mano infuocata lontano dal capo del gormita. Volse loro le spalle, con le mani dietro la schiena.
“Ricordo anche del perché l’ho chiusa. - raccontò - I suoi fumi e i suoi scarti inquinavano il cielo, la terra e il mare, in maniera esagerata. Credete che i vostri raccolti siano così fiorenti e che i pescherecci ritornino sempre pieni se fosse ancora aperta?”
“A che serve avere buoni campi se non si hanno gli attrezzi per lavorarli?” spiegò il portavoce.
Magor dovette quindi trovare una soluzione. La fonderia andava riaperta…oppure poteva solo spostare gli strumenti al loro interno altrove? Non sarebbe cambiato nulla, gli scarti inquinanti ci sarebbero stati comunque.
Così decise di riaprirla…ma non nello stesso luogo. Fece spostare prima ogni attrezzo, poi ordinò di smantellare tutto quanto e di conservare tutti i pezzi. Tutto fu poi spostato all’interno del Monte Vulcano, in un’area non occupato. I fumi sarebbero stati incanalati verso la cima del monte attraverso un sistema di camini e cappe. La cima del Vulcano eruttava fumo più che altro per volere di Magor, per dare ad esso un aspetto minaccioso, con metodi poco inquinanti. Se avesse davvero esalato tutta quella cenere, i vulcanici sarebbero di certo morti soffocati. Tuttavia periodicamente veniva espulso del fumo, perché dopotutto era un vulcano. Un problema risolto.
Per i resti di metallo fuso bollente, fu costruita una rete di canali interni di scolo, che portassero il materiale incandescente dalla sede della fonderia fino al fossato che circondava Monte Vulcano, che teoricamente doveva essere pieno di lava e magma, ma scarseggiavano sempre di più. In questo modo, aveva anche fortificato le difese fisiche di Monte Vulcano.
Ora i vulcanici, finché c’erano metalli da trovare, avrebbe potuto creare tutti gli attrezzi che volevano, e Magor ritornò a pensare alla conquista di Gorm e alla presa dell’Occhio della Vita…e alla fine della maledizione.
La sua mente era davvero potente, se n’era stupito lui stesso. Era riuscito a contenere il dolore di avere un corpo bruciante, ed era riuscito a mantenersi in vita con rubini, smeraldi e altri cristalli fino adesso. Non sarebbe mai morto, il suo corpo si sarebbe preservato tale e quale era prima della maledizione, quando questa sarebbe stata annullata. Era un vantaggio, in un certo modo. Ma quella non era vita: era l’ombra di una vita, senza poter assaporare il gusto dei cibi, il calore di un corpo, la brezza del vento, addirittura aver paura di uscire all’aperto, dove una sola goccia d’acqua o di qualsiasi altro liquido avrebbero potuto danneggiarlo oltre riparazione. Il problema più grave era che quella maledizione era stata fatta dal suo attuale acerrimo nemico, che mai avrebbe annullato la maledizione di propria volontà. Oltretutto egli era vecchio oltre ogni misura…se fosse morto prima di averlo costretto a riparare a quell’errore, Magor sarebbe stato costretto a una vita eternamente di fuoco. Le maledizioni possono essere annullate solo da chi le ha lanciate. Magor non si sarebbe dato pace.
Mentre osservava disgustato il Vecchio Saggio con quel suo corpo orribilmente peloso e raggrinzito, tanto che Magor dovette smettere di guardare, pensò a come avrebbero reagito i vulcanici, e tutti i gormiti a sapere che lui, lo Stregone di Fuoco, era stato amico e allievo del Vecchio Saggio, che era semplicemente un elfo maledetto con un’abilità nella magia superiore alla media.
Dovette nuovamente lasciare quei pensieri per dopo, che qualcuno ancora bussava alla porta.
“Avanti.” sbuffò, alzando la parete rocciosa bruna.
“Stregone di Fuoco, c’è bisogno del tuo aiuto.” disse senza troppi convenevoli una gormita entrata di corsa.
“Davvero?” domandò ironico e spossato, con la testa appoggiata sulla mano –potrebbe sembrare una cosa strana, ma finché i contatti avvenivano tra parti del suo corpo, era come se fossero solide.
“Arando un campo, abbiamo fatto una strana scoperta.” spiegò frenetica e irrispettosa.
“Ne hai parlato con Orrore Profondo?” domandò quasi disinteressato.
“Ovviamente, Stregone di Fuoco. - rise la gormita - La scoperta è avvenuta sul mio campo, su cui lavorava lui, mio cugino. E non ha saputo darsi spiegazioni.”
“Ah. - esclamò mentre si alzò di scatto Magor, ritenendo che la cosa fosse davvero importante - E…di cosa si tratta?”
“Mentre lavoravamo, delle zolle sono cadute, di sotto. Si è aperto un buco, e sotto c’era uno strano liquido. Un liquido rosato. Non abbiamo osato toccarlo. Dovete venire a vedere.”
“Un liquido rosato? Un liquido? - ripeté stupito Magor - Hai idea del rischio che corro, già uscendo di qui, e per andare a controllare un liquido, poi!”
“Mi farò coraggio, e uscirò. - disse poi, prima che la gormita potesse dire la sua - Portami in questo campo.”
 
Magor, guidato dalla cugina di Orrore Profondo, sopraggiunse sul luogo della rinvenuta. Orrore era al bordo del buco, piegato sulle gambe, e guardava interessato l’acqua rossa che ribolliva di sotto.
“Orrore, sta’ lontano da lì. - lo rimproverò sua cugina - Potrebbe cadere altra terra, e andresti giù anche tu. Magari ti friggi.”
“Stai tranquilla, insomma.” borbottò Orrore, continuando imperterrito a guardare l’acqua misteriosa all’orlo dell’apertura.
“Ah, Stregone di Fuoco, siete arrivato!” esclamò notando la figura eterea di Magor, e facendo un piccolo inchino. Non era abituato a vederlo fuori dalla sua stanza, e nel chiarore del giorno la sua figura si faceva fatica a distinguere.
“Che cosa vi hanno detto i gormiti, nel vedervi all’esterno?” domandò il Signore del Vulcano, con la solita voce che pareva forzata, e con quel tono e in quel discorso così…pacifico faceva quasi ridere. Magor non rideva affatto, però. Non gli piaceva il vento leggero che soffiava, che lo faceva sentire come se stesse volando via, né gli piaceva essere uscito.
“Poche chiacchiere. - brontolò, per nulla interessato ad aprire qualsiasi tipo di conversazione - Cos’ha di strano questo liquido?”
“Non saprei dire, Magor. - rispose vago Orrore, grattandosi la nuca - E’ semplicemente strano. Non assomiglia a nulla che abbia mai visto.”
Magor si avvicinò al bordo, per dare un’occhiata da vicino a quest’acqua così sorprendente.
“Stiate attento a non bagnarvi, Stregone di Fuoco.” lo avvisò la cugina di Orrore.
“So i rischi che corro.” affermò freddo.
Arrivò dunque sopra il foro non molto largo da cui si intravedeva, più in basso, il liquido rosso. Pareva acqua, acqua effervescente, per le bollicine che continuavano a sprizzare. Non era fuoco liquido, né metallo fuso né qualche filone di qualche minerale strano. All’apparenza, era troppo poco densa.
Magor percepì qualcosa. Un pizzicorìo nella sua mente infuocata, uno stimolo. Un ricordo stava emergendo. Ma era un ricordo di qualcosa che non aveva mai visto, qualcosa che lui non conosceva, come le memorie di un’altra persona, ma che alla vista di quella pozza rosea risalivano nella sua mente come ricordi suoi. Non era la prima volta che succedeva. Qualcosa gli era successo, nei suoi anni a Gorm, e in lui affioravano i ricordi di un’altra vita, un’altra persona.
Così, osservando la pozza, vide qualcosa come una grossa pianta, o un grande animale. Qualcosa come un pungiglione, e poi un veleno, e poi tale creatura affondare nella pozza, che alla sua lenta morte divenne rossa. E all’improvviso Magor sapeva, o credeva di sapere, cosa fosse quel liquido, cosa farne e come utilizzarlo. Ma a parte quella visione, il resto fu molto vago, e avrebbe dovuto studiare per capire a fondo.
Magor si alzò dunque in volo, cioè, si alzò in aria più in alto del solito.
“Allontanatevi.” intimò ai due cugini, che senza troppe domande obbedirono.
Puntò entrambe le sue mani alla terra che ancora resisteva, attorno alla fessura della pozza. Con un utilizzo estremo e potente della forza magica, Magor aprì la terra, scosse le zolle e il suolo, le tolse dal loro posto, devastando una grande porzione di campo.
Laddove prima c’era suolo arato bruno e granuloso, ora si trovava una grande distesa d’acqua rossa, un laghetto, una larga pozza. E in mezzo alla pozza, sul fondo, i resti di una strana creatura, la stessa creatura che Magor si era ‘ricordato’.
“Che cosa significa tutto questo?” domandò turbato ma anche innervosito –gli era stato rovinato un campo - Orrore Profondo.
“Non lo so ancora, Orrore. - mormorò Magor, guardando sorpreso quella pozza rossa - Non lo so ancora.”
“E il campo?” domandò la cugina, anche lei preoccupata per le cose materiale e certe.
“Non ti preoccupare, darò qualche toccata ai fondi signorili…” propose Orrore Profondo.
“Non serve, Orrore. - affermò Magor - E sarebbe poco corretto. Ho pietre preziose in grandi quantità. Te ne posso dare quante ne vuoi, per comprarti qualche altro campo, ma ho bisogno di questo. Lo devo studiare.”
***
Elios, le ali di neve che brillavano alla luce del tramonto, sorvolava i cieli sopra l'isola di Darth Kuun, nella parte del Vulcano, guardingo ma sicuro che nulla avrebbe trovato di insolito.
Il centesimo giorno di Redrubise dell’856 volgeva al termine, il sole si perdeva all’orizzonte.
I due anni e mezzo previsti dalla pace siglata a forza con il Popolo del Vulcano erano passati in totale sicurezza, con il Vulcano che mai aveva minacciato attacchi, agguati o assalti, a nessuno degli altri Popoli.
Oltretutto, un terzo anno stava volgendo al termine senza che il Vulcano riprendesse le proprie forze per sferrare un attacco contro gli altri Popoli e per l’Occhio della Vita. Il timore delle forze combinate di Aria, Terra, Mare e Foresta sembrava trattenere i gormiti del Vulcano nella loro valle e nel loro monte.
In quegli anni i gormiti si erano dati da fare per migliorare se stessi, la propria vita, le proprie case. Grandi progetti d’architettura, di magia, di bonifica che durante gli anni dei primi Signori dopo il Grande Sacrificio non era stato possibile attuare venivano recuperati, prendevano forma, alcuni addirittura terminavano.
Tuttavia i gormiti non erano rimasti a guardare il Vulcano rimanere in silenzio e ignorarlo nel sonno in cui era sprofondato, e ignorare ogni sua possibile futura mossa.
Sotto consiglio del Vecchio Saggio, che ne era stato informato a sua volta da Gheos, tra le fila degli eserciti di Gorm, che non erano certo stati messi allo sbando, venivano scelti alcuni dei combattenti più promettenti e offerto loro di far parte delle forze militari speciali, denominate mystica.
Come Magor e Orrore Profondo allenavano le loro forze d’elite non si sapeva affatto, quindi si dovettero arrangiare, assegnando alcuni veterani di guerra, esperti nelle arti marziali e abili stregoni a i gormiti che furono immessi nel programma.
Molti di quelli adocchiati dai capi militari accettarono, ma ci furono anche diversi volontari, sebbene non tutti pronti ad accedere al durissimo allenamento per entrare nei guerrieri mystica.
Il Vecchio Saggio aveva scelto di appoggiare l’idea di Gheos di un corpo di soldati d’avanguardia per più di una ragione, e una di queste era preparare i gormiti alleati ad un affronto diretto contro Monte Vulcano e i suoi abitanti. Queste erano le sue idee anni prima, quando cresceva i gormiti con l’ausilio delle camere del tempo e l’aiuto dei superstiti, che poi erano state mutate col tempo e con le parole degli stessi gormiti. Ma dopo l’assalto alla Città Sotterranea e l’attacco alla sua stanza da gormiti inviati personalmente da Magor per lui e per l’Occhio, il Vecchio si era profondamente ricreduto ed andava in giro per Gorm aiutando i gormiti nei loro lavori e predicando l’imminenza di eliminare il problema del Popolo del Vulcano, ora che era più indifeso, senza però convincere nessuno.
“Non vi ascolteranno mai!” ripeteva sempre il Vecchio Saggio, e sempre i gormiti ribadivano le loro idee e non le mutavano, aspettando un tempo in cui poter trattare la pace con i vulcanici, quando l’oggetto del loro conflitto non sarebbe più esistito e limitandosi per ora solo a controllare che il Vulcano non decidesse di attaccare.
Già, perché oltre a tenersi militarmente pronti i gormiti avevano stabilito dei turni giornalieri di vedetta attorno alla Valle del Vulcano, con gormiti o gruppi di gormiti alati di ronda in diverse aree, per assicurarsi che non ci fosse nessun plotone in movimento e, in generale, che la situazione fosse stabile, e che non ci fosse alcun pericolo incombente. Ciò era stato stabilito prima della fine della pace perché, per quanto di pacifici desideri potessero essere i gormiti, la prudenza con i vulcanici non era mai troppa. Oltretutto dal cratere del Monte di Fuoco, già dal primo anno della pace, erano cominciati a uscire fumi: i gormiti sapevano bene che la fuoriuscita del fumo era segno della minaccia dei vulcanici, che stavano macchinando qualcosa e che era meglio stare alla larga –non sapevano in realtà che i fumi di quei periodi erano dovuti alla fonderia riaperta e traslocata, e inoltre sarebbe davvero stupido dare ai nemici un simile avviso riguardo i loro piani.
Quel giorno, in quella zona verso nord, era il turno di Elios, che si era proposto sin da subito come vedetta, affermando di voler spaventare i vulcanici coprendo la luce del sole con le sue ali. E non era una cosa sciocca: le sue ali grandi erano davvero temibili, e molto invidiate da più di un paio di gormiti.
Così, il Signore dell’Aria in carica si trovava ancora una volta a volare, pericolosamente basso sopra la distesa della Valle del Vulcano a lui assegnata, sicuro –e rattristito - di non trovare anche stavolta nulla di rilevante.
Canticchiava alcune canzoni del folclore di Picco Aquila, mentre saliva ridiscendeva volteggiando per aria, piuttosto annoiato.
Praconrem, che sacco di piume! esclamò nella propria mente –sacco di piume era una tipica esclamazione dell’Aria che indicava le piume appesantite dalla fatica, ma anche dalla noia.
Povero me, non dovevo scegliere di fare lo spione. E a spiare cosa, poi? Qua non c’è niente
Nevvero, la zona a lui assegnata era in buona parte non adatta ad abitazioni o campi e difficoltosa per pascoli o qualsiasi passaggio di gormita, e i vulcanici che aveva visto in quegli anni di vedetta si potevano contare sulle dita delle mani –e ne aveva solo sei. Forse gli avevano affidato quella terra povera per la sua sicurezza. Era un Signore, dopotutto, e i governanti che morivano prima della fine della loro carica lasciavano solitamente del caos diplomatico alla loro scomparsa, che avessero dei consiglieri o meno.
All’improvvisò notò qualcosa che fece scattare la sua attenzione, e abbandonare la noia. Vide un bagliore non molto lontano, un luccichio continuo. Era abbastanza forte, ed era entrato nel suo raggio d’illuminazione, e gli accecava gli occhi.
Che è? pensò spostandosi, e avvicinandosi lentamente alla fonte luminosa. Non riusciva a vedere cosa la originasse, se ci fosse qualcuno che la muovesse. C’era solo qualcosa di bianco che gettava fasci di luce. E poi nuovamente il raggio luminoso fu proiettato sulla sua faccia, ciecandolo di nuovo.
Ma che diamine! - si disse Elios, ponendosi le mani davanti alla faccia e spostandosi di lato - Questo è uno scherzo di cattivo gusto.
Si decise ancora di più ad andare a controllare di cosa si trattasse quando, dopo aver nuovamente evitato la luce negli occhi, questa si ripose di nuovo sopra.
Allora volò rapido verso la poco distante eppure indistinta e indefinibile fonte di luce, che continuava ad annebbiargli la vista, ed Elios era costretto a volare obliquamente, per evitare di diventare cieco per davvero.
Correva un rischio a volare così basso verso quel soggetto non ben identificato solo per stizza in riguardo al fascio di luce –poteva essere una trappola - , ma era una vedetta: il suo compito era vedere le cose con chiarezza.
Sì, meglio dare un’occhiata - si convinse Elios, che aveva rallentato la sua corsa, roso dai timori di cadere in qualche tranello - Come diceva il nonno, non guardare un dipinto solo nella sua interezza ma soffermati sui dettagli! Eh, eh, a papà non piaceva quando andava in giro a dare consigli a tutti.
Ad un certo punto della sua corsa in volo, la luce smise di brillare, e colui che governava quel fascio luminoso fu ben visibile e distinto agli occhi del Signore dell’Aria. Ripose tranquillamente la lastra di specchio che usava per riflettere la luce su Elios e comodamente si sedette, accavallando una gamba, su una roccia. Non perché lo riconobbe si fermò, anzi avanzò più deciso, preparandosi cautamente nella sua tesa a qualsiasi mossa del nemico. Non fu così incauto da porsi a terra, anche se conoscendo le abilità del vulcanico in questione ciò era di poco vantaggio per lui, anche se più veloce.
Si fermò, a pochi piedi da terra ma molti di più di distanza dal gormita che lo aveva attirato, incrociando le braccia.
“Orrore Profondo.” disse come a mo di saluto, guardandolo con gli occhi sottili. La figura esile e al contempo muscolosa del Signore del Vulcano, priva di corazza o armi, solo la pelle rossa e i dettagli grigi, se ne stava comoda sulla sedia improvvisata. Attorno alla zona vi erano sei grandi torce, con ampie fiamme che bruciavano. Il volto scheletrico e scarno di Orrore non aveva mai smesso di incutere paura in tutti coloro che lo avevano visto. Nemmeno in Elios, che pur giocando sulla paura che circondava il suo personaggio, arrivando pure a terrorizzare alcuni suoi cugini e nipoti più giovani dicendo loro ‘Niente è più terrificante di Orrore Profondo! Ogni altro incubo, anche il più pauroso, ti sembrerà un dolce ricordo al confronto…’, non poteva trattenere i fremiti dallo stare così vicino a quel pericoloso gormita.
“Allora, come vanno le cose a Monte Vulcano? Fa freddo? - gli chiese cordiale, mascherando piuttosto bene la sua paura - Ti piace giocare con gli specchi, vedo.” continuò, senza dare tempo a Orrore di ribattere per tempo.
“Dovevo attirarti qui.” si giustificò Orrore Profondo, con quella voce che faceva rizzare i peli, qualunque fosse il suo tono, se serio, tristo o felice –se mai lo era.
“Se ti fossi venuto incontro dicendoti di scendere per parlare dubito che saresti venuto.”
“Fai bene a dubitare.” commentò Elios, facendosi forza con le parole di fronte alla chiara superiorità nel combattimento del Signore del Vulcano, senza però accennare a fuggire.
E come sa che io faccio la ronda qui? si domandò. Solitamente Elios volava alto, e sarebbe stato difficile riconoscerlo da sotto.
“Parlare, dici? E parlare di cosa?” chiese poi, soffermandosi sulla spiegazione di Orrore riguardo il suo uso della luce.
“Un’offerta. - replicò con un sorriso gelido - Voglio parlare con te riguardo…riguardo lo stato dell’Isola, e voglio anche che tu parli a qualcuno delle stesse cose.”
“Non vedo perché dovrei fermarmi a parlare con gente che mi preferisce lontano da casa loro e muto, e morto.”
“Fammi finire, testa di gallina.” ringhiò Orrore, che fino ad ora aveva mantenuto un tono leggero e affabile, ma si era alterato all’interruzione di Elios.
“Non sei costretto a parlare. Se te ne vuoi andare, sei libero di farlo, anche adesso. Ma sono sicuro che ciò di cui parlerai sarà interessante per te.”
Dov’è l’imbroglio? continuava a chiedersi Elios, guardando sottecchi quel Signore del Vulcano così cordiale e…tranquillo. Negli anni della pace si sarebbe volentieri fermato a fare quattro chiacchiere con un vulcanico, magari per schernirlo e semplicemente per passare il tempo –anzi, lo aveva già fatto. Ma ora che la pace era terminata e né il vulcanici o gli altri gormiti erano tenuti a mantenere rapporti amichevoli con i propri nemici, poteva essere un serio pericolo mettere piede nella Valle del Vulcano. Tuttavia Orrore sembrava sincero, e non pareva aver intenzione di ingannarlo. La sua voce era seria, ma ‘normale’, non suadente o persuasiva.
“Sei riluttante?” domandò Orrore, che attendeva che Elios scendesse o volasse via, senza però mettergli alcuna fretta.
“Eccome.” rispose frenetico e indeciso Elios. Doveva essere cauto…magari c’era qualche incantesimo lì attorno che lo rendeva suscettibile, o qualche trappola pronta a scattare appena avesse toccato terra.
“Allora che ne dici se lasciamo che siano i fatti a decidere?” gli propose il vulcanico, sorridendo.
“Eh? I fatti?” ripeté Elios, inarcando confuso un sopracciglio.
“Sì. Ti propongo una sfida. Per testare le mie abilità e confrontarmi col Signore dell’Aria. - e alzò drammaticamente il suo pugno dinanzi al suo petto - Che spero sia un abile combattente. All’Arena di Astreg non abbiamo avuto modo di dimostrare reciprocamente le nostre potenzialità.”
“Una sfida? Intendi, una lotta.”
“Esatto. Non ti preoccupare, la cosa rimarrà fra noi e non sarà nulla di serio. Una sfida amichevole…io non proverò ad ucciderti, e tu farai lo stesso con me. Se vinco io, verrai con me a discutere, se vinci tu…puoi fare quello che vuoi.”
‘Io non proverò a ucciderti’. -  lo canzonò nella sua mente - Ma a chi vuole darla a bere?E che cosa significa tutto ciò?
“Come faccio a essere sicuro che non mi ucciderai?” gli chiese infine, sospettoso.
Orrore fece spallucce, alzando anche le sue ali sottili e grigie nel movimento. “Devi solo fidarti. Non ci vuole molto a capire che il tuo omicidio non è di alcun giovamento per me. I tuoi compagni sanno che sei qui, e se non torni capiranno che sei stato ucciso da noi. E noi non siamo capaci di un secondo Grande Sacrificio. Coraggio, è solo un’occasione per dimostrare la nostra forza.”
Già, sembra…logico. - rifletté Elios - Ma che cos’ha in mente? Mah, spero che sia di parola, o avrà un’invasione da respingere.
“Ci sto, Orrore.” accettò infine, sciogliendo le braccia, pronto ad usarle in combattimento. Orrore sorrise, scavallando le gambe ed alzandosi in piedi.
“Ma ad una condizione.” lo informò il Signore dell’Aria. Orrore cessò di sorridere e domandò “Certo…e quale sarebbe?”
“Niente magia o forza magica.” espresse Elios. Una scelta cauta e giusta, che andava tutta a suo vantaggio. Ad Astreg Elios aveva visto come Orrore Profondo potesse volare nonostante le sue ‘ali’ fossero degli stecchini, un chiaro segno di uso di forza magica, e altri attacchi usati contro Carrapax dimostravano la sua esperienza in quel campo. Elios, al contrario, diversamente dalla maggior parte dei suoi simili, aveva ben poca affinità con la magia, sebbene si fosse fatto dare qualche dritta e qualche potente incantesimo da Barbataus e altre sue conoscenze, e con la forza magica il massimo che riuscisse a fare era raccogliere un libro caduto e rimetterlo a posto.
“Accetto la tua condizione.” acconsentì Orrore senza discutere, scatenando lo stupore di Elios “Cominciamo.”
Elios attaccò per primo, menando un calcio sul fianco di Orrore. Cauto, scaltro e rapido, il Signore dell’Aria continuò nella tattica mordi e fuggi, facendo leva sulla propria velocità e il proprio volo per colpire il Signore del Vulcano in punti che lasciava scoperti mentre tentava di contrattaccare.
Un vantaggio in più, le sue ali che, al contrario di quelle di Orrore potevano farlo volare senza usa di magia.
Più o meno da quando quella mattina aveva cominciato il suo turno di vedetta, non aveva quasi mai toccato terra, e il momento di farlo sarebbe arrivato presto. Ma per quello scontro contro Orrore, qualsiasi fosse stata la sua durata, sarebbe rimasto in volo, al sicuro.
Se Elios era indubbiamente più veloce fisicamente, Orrore Profondo aveva dalla sua la forza distruttrice del fuoco. Per dare all’aria capacità di distruzione bisognava impegnarsi e sforzarsi molto, e molta esperienza. Elios non aveva intenzione di distruggere alcuna cosa, e aveva abbastanza esperienza e bravura nel controllo elementale da evocare attacchi d’aria abbastanza forti da contrastare i colpi infuocati di Orrore.
C’era qualcosa di strano in quella lotta: Elios trovava molto semplice colpire l’avversario vulcanico, anche se i suoi continui e forti attacchi, combinati al lungo periodo di volo, lo stavano privando discretamente velocemente di energia.
Lo stesso valeva per Orrore Profondo, che con fuoco e pugni aveva colpito –toccato - Elios sì e no un paio di volte, e aveva creato grandi e dispendiose mura di fuoco che lo avevano stancato senza che queste andassero a segno. Elios trovava tutto questo molto insolito.
E’ davvero così schiappa senza la magia? - pensò incredulo - O io sono davvero così forte?
Una botta sulla nuca del Signore del Vulcano, e questo, già ansante, cadde sulle proprie ginocchia, apparentemente sfinito.
E’ per forza una finta. si disse Elios, convinto che Orrore Profondo non potesse essere sbaragliato così facilmente e velocemente. Elios si era davvero impegnato molto, però, doveva ammetterlo, giacché cominciava a sentirsi appesantito.
Il giovane e bello aereo stava per dire a Orrore se si fosse arreso quando questi, con un grugnito di fatica, si rialzò in piedi.
Tese quindi la propria mano verso una di quelle sei torce che circondavano quel piccolo spazio.
Davanti agli occhi di Elios dunque, la fiamma cominciò rapidamente a divenire più piccola, fino a spegnersi, mentre Orrore Profondo, che prima respirava pesantemente e chino dalla fatica, ora diventava più rilassato e pareva fresco come appena svegliato da un sonno rigenerante.
Ha assorbito la fiamma?! - si chiese Elios stupefatto - Che stregoneria è questa? Non ho mai visto niente di simile…
Egli non poté rimanere a pensare a lungo a ciò a cui aveva appena assistito, poiché Orrore raccoglieva le proprie mani –la mano e la bocca del cannone a braccio - sul fianco, generando del fuoco concentrato nello spazio tra i palmi, in una posa tale e quale a quella della Zanna del Demone marino…con la sola differenza che qui il getto era di fuoco e, pertanto, enormemente più potente e dannoso. Il Respiro del drago. Elios lo schivò all’ultimo, pietrificato da come questi era riuscito a ricaricarsi di energia più che sufficiente per generare quel letale getto.
Si trattenne dal chiedere come avesse fatto, poiché ora che Orrore aveva ripreso le proprie forze, caricava contro Elios più forte di prima. Il Signore dell’Aria però trovò comunque molto facile evadere nuovamente i suoi attacchi, seppur più forti e la stanchezza crescente lo rendeva più lento.
Quand’ecco che Elios, ormai allo stremo delle forze e deciso a finire quella sciocca sfida una volta per tutte, scagliò in successione una serie di potenti tecniche elementali, sfere d’aria compressa, mulinelli, grossi venti, che andarono tutti a colpire il bersaglio, e Orrore Profondo si ritrovò nuovamente sulle proprie ginocchia.
Pur aspettandoselo ma senza fare niente per impedirlo, quasi come fosse da copione e non dovesse intromettersi, Orrore si rialzò nuovamente, con la mano rivolta verso la torcia a cui si stava avvicinando, e che lentamente si spense, rielaborata dal vulcanico sotto forma di forza fisica.
Elios era stanco, e non aveva alcun misterioso metodo da cui attingere forze, e per questo il getto del Respiro del drago questa volta lo colpì nell’addome, facendolo cadere e toccare il suolo per la prima volta quel giorno di vedetta. Orrore avanzò minaccioso verso di lui: gli afferrò i piedi cornei e artigliati, lo alzò più in alto che i suoi discreti muscoli potessero e lo sbatté a terra. Dopodiché avanzò verso la testa, e qui Elios vide tutta la sua vita scorrergli davanti, temendo che il crudele Signore del Vulcano stesse preparando la sua micidiale Palla di cannone per fargli saltare la testa. Ma non successe: Orrore si limitò a dargli qualche schiaffo e qualche pugno, per poi stringergli il collo e sbatterlo su una pietra.
Quindi disse, con un tono che non si distingueva dal minaccioso all’amichevole, come fosse una domanda che uno studente fa al proprio insegnante: “Ti arrendi?”
A Elios non piacevano quelle parole: le aveva già sentite una volta, contro il suo ora maestro di magia, e non lo aveva affatto apprezzato. A nessuno piace perdere. Ma piuttosto che farsi dare altre mazzate fino a svenire o a rompersi qualche costola, Elios preferì ancora una volta gettare la spugna.
“Sì, sì! Mi arrendo!” strepitò più rumorosamente che le forze residue gli permettevano.
“Molto bene: quindi parlerai” affermò come un ordine Orrore Profondo, togliendosi di dosso da Elios. Passò quindi la sua mano sul petto del Signore dell’Aria: il suo cuore batteva impazzito, per lo sfinimento e la paura. Contrariamente a tutte le follie che Elios pensava gli stesse per fare, Orrore Profondo sfruttò quel contatto per passare parte della propria energia al candido Signore, e rimetterlo in piedi.
Questa me la segno. si disse Elios, scombussolato fisicamente e mentalmente.
“Avanti, seguimi.” lo invitò Orrore, già messosi in cammino. Il pensiero di disobbedirgli non sfiorò nemmeno di striscio la mente di Elios, che obbedì e si mise al suo seguito senza fare storie.
Il paesaggio lì attorno era davvero desolato: solo massi rossicci e bruni, talvolta pure neri, un suolo a volte sabbioso a volte compatto, ma sempre ruvido. Radi cespugli di spine e arbusti senza fiore ne frutto spuntavano di tanto in tanto. Nessun’altra forma di vita, comune animale o gormita che fosse.
“D-Dove stiamo andando?” domandò Elios, turbato dalla desolazione del posto, e da ciò che lo aspettava.
Perché lo sto seguendo? si chiese Elios, pensando a qualche pozzo incandescente in cui sarebbe stato gettato, o degli arcieri che sarebbero sbucati dal nulla e che lo avrebbero bucherellato, o magari una di quelle bombe che gli cadeva dritta sulla testa. Si immaginava tutto questo senza però pensare di fermarsi e voltargli le spalle, o ancora meglio attaccarlo alle spalle e fuggire. Gli camminava davanti, senza curarsi di guardare indietro per vedere che Elios fosse ancora lì e al passo. Un’occasione irripetibile per uccidere il Signore del Vulcano. Ma Elios non se la sentiva di agire a quel modo. Per quanto incredibile tutto quanto che era accaduto fosse, Orrore Profondo era stato di parola: non lo aveva ucciso, non aveva nemmeno dato segno di averne intenzione.
Onore: se ne disponeva uno come lui, che aveva architettato quel piano malefico e sanguinario per soggiogare le città gormitiche, Elios non si sarebbe macchiato di un simile disonore, e avrebbe rispettato la parola data. Tuttavia, non poteva non preoccuparsi.
“Da colui che vuole discutere con te.” rispose distaccato Orrore Profondo, procedendo deciso e inflessibile.
“Non parlerò con te?” chiese poi, ricordandosi delle sue parole, ‘voglio parlare con te’.
“Non oggi. - negò invece Orrore - Forse in futuro. Dipende da te. Non è nei miei programmi fare amicizia con un aereo, anche se prima o poi tutti saremmo costretti, qualsiasi sia la tua decisione.”
Ma di che sta parlando? Elios non capiva a cosa si riferisse con quel ‘dipende da te’, ‘la tua decisione’ e l’incombenza di avere amici tra il Popolo dell’Aria. Soprattutto non capiva come quelle cose fossero collegate.
Il cammino sembrava dover durare ancora qualche tempo. Elios si sentiva turbato e in un grosso, grosso pasticcio, eppure non aveva la forza di abbandonare Orrore Profondo. E inoltre, in sua compagnia si sentiva insolitamente e inspiegabilmente al sicuro. Se avesse viaggiato a Monte Vulcano con Falcosilente, il Vecchio Saggio o un intero plotone di soldati, non si sarebbe sentito allo stesso modo. E contemporaneamente la vicinanza del Signore del Vulcano lo faceva anche sentire scomodo –non era certo una situazione all’ordine del giorno. Sicuro e insicuro allo stesso tempo.
Quel paradosso, il silenzio e la continua assenza di movimento in quell’area lo mettevano ulteriormente a disagio, pensando poi che a breve il suo turno di guarda sarebbe terminato e se ne doveva andare. Quindi, sebbene Orrore stesso avesse affermato di non avere intenzione di entrare in confidenza, Elios cominciò a parlargli.
“Che cos’era quella…cosa con le fiamme?” chiese curioso
“Te lo spiegherà lui.”
“Lui chi?”
“Lo scoprirai quando saremo arrivati…e secondo me hai già un’idea.”
“Sì.” Magor. - pensò rabbrividendo - Io vedrò Magor! Magor mi vuole parlare! Per Praconrem, questa cosa non ha senso. E la sto prendendo troppo alla leggera.
“E quando arriviamo?”
“Krut, fa’ silenzio.” gli intimò con un sibilo, e la parte di Elios che provava sicurezza vicino a lui si fece piccola piccola.
“Eccoci.” disse poi Orrore Profondo, dopo alcuni minuti di cammino in una piccola radura dominata da alberi selvaggi ricolmi di liane fastidiose e pungitopo che davano a Elios una certa irritazione.
Il Signore del Vulcano indicava col dito una grotta scura nascosta tra edere e muschio. Dalla buia entrata fuoriusciva un bagliore rosso.
Elios era ora dominato dalla paura e dai fremiti, non riusciva nemmeno a pensare. Cosa lo aspettava dall’altra parte della grotta? Cos’era quella luce rossa? Che cosa voleva da lui Magor? Magor, lo Stregone Fuoco, la guida del Popolo del Vulcano alla conquista dell’Occhio della Vita, il fautore del Grande Sacrificio. Non c’era da aspettarsi nulla di positivo da una discussione con lui. Che cosa era, poi? Gormita? Elfo? Ka’nhili? Divinità?
“D-devo davvero andare?” tremò Elios, che desiderava tanto essere nel suo comodo, caldo letto e svegliarsi da quello strano sogno.
“Hai dato la tua parola. - gli ricordò Orrore - Non ti ruberà molto del tuo tempo. Ascoltalo, e dopo sarai libero di rifiutare la sua offerta.”
“D-d’accordo.” deglutì Elios, avanzando. D’accordo per niente! Che vuole farmi?
Il Signore dell’Aria camminò lentamente verso la grotta, incapace di fare altro, non potendo scappare con Orrore Profondo che lo teneva imprigionato con gli occhi e gli stava quasi appiccicato.
Infine, lo vide. Alla prima occhiata la grotta gli sembrò vuota, con solo un fuoco acceso in mezzo. Ma poi, tra il fuoco, che non era un normale fuoco –non era nemmeno fuoco a dirla tutta, ma lui non lo sapeva - , sospeso nel vuoto, notò dei lineamenti, dei contorni. C’era una figura, eterea, esile, indistinta tra quelle fiamme. Le fiamme erano parte di essa, ed essa era le fiamme. Quello era Magor, lo Stregone di Fuoco. Un nome a dir poco azzeccato. Elios rimase a becco spalancato, incredulo di fronte a quella curiosa forma di vita, di poco più bassa di un gormita medio, e con il battito a mille per l’essere di fronte alla figura più temuta e più misteriosa di tutta Gorm, e alla seconda maggiore influenza gormitica.
“Salve, Elios Signore dell’Aria.” parlò quella creatura di fuoco, con un tono assai affabile, profondo, roso da quel corpo infuocato e che incuteva una certa riverenza.
“Mettiti pure comodo, e stai tranquillo. - lo rassicurò - Non ti sarà fatto alcun male. Non ho motivo di fartene. A meno che tu non mi attacchi.”
Elios obbedì senza pensarci. Aveva paura, molta paura, ma anche un mucchio di domanda, che però non riuscì a porre, continuando ad osservare stralunato quell’essenza di fuoco vivo. Orrore Profondo era appoggiato alla parete, dietro di lui.
“Ho un’offerta per te, e per il tuo Popolo.” cominciò Magor, volteggiando in cerchio davanti ad Elios.
“Un’alleanza tra Aria e Vulcano.”
“C-che cosa? - quasi sputò Elios, non credendo alle sue orecchie - Ma non, non..no!”
“Lasciami finire, Signore dell’Aria. - lo zittì Magor con sguardo severo - Non chiederò il vostro aiuto in cambio di nulla. Ma prima di mostrarti cos’ho per te, voglio farti capire la verità.”
“Tu hai idea di cosa sia veramente l’Occhio della Vita?”
Elios titubò, indeciso se parlare o meno. Prima aveva dato voce ai propri pensieri per la straordinarietà delle parole di Magor, che lo avevano quasi spinto ad andarsene da lì ma non si sentiva pronto a parlare con lui. Avrebbe potuto usare qualsiasi cosa avesse detto contro di lui, per farlo ricredere, pentire, disperare. Diverse cose si dicevano su Magor, sebbene nessuno tra gli alleati avesse mai parlato con lui.
“E’ un oggetto misterioso, potente e pericoloso. Il Vecchio Saggio - ”
“Pericoloso, dici? Ne sei sicuro?” lo interruppe Magor.
“Il-il Vecchio Saggio dice - ” cercò di giustificarsi Elios.
“Il Vecchio Saggio dice, il Vecchio Saggio fa…non dovreste fidarvi così ciecamente di lui. Vi ha raccontato un mare di menzogne.” affermò, scuotendo il capo.
“A-ad esempio?”
“Ad esempio, lui dice che l’Occhio della Vita è pericoloso, che la sua energia nelle mani sbagliate potrebbe far crollare intere civiltà, e che si impegna per trovare un modo nel distruggerlo.”
“Ma nulla di questo è vero. Nulla! - esclamò Magor - Il Vecchio Saggio vi hai mai parlato dei suoi progressi nella ricerca per la distruzione? Vi ha mai esplicato quali sono i veri orrori che può generare l’Occhio e del bene che può fare?”
“Io - io temo di no, non a me, ma…” cominciò Elios, senza essere capace di finire la frase.
“La verità è che l’Occhio della Vita è già caduto nelle mani sbagliate: le mani del Vecchio Saggio! Sta usando la sua infinita energia per sé stesso, per vivere in eterno! Voi non conoscete gli elfi, ma io sì, e vi assicuro che dovrebbe essere a riposare nella sua tomba da più anni di quanti riesca a immaginare. Vi siete fatti fare il lavaggio del cervello, credendo di combattere per la giusta causa, quando non conoscevate la verità. E non sapete come il Vecchio Saggio ha ottenuto l’Occhio della Vita. Esso era un oggetto sacro, intoccabile. E quel perfetto modello di vita del Vecchio Saggio, indovina cosa ha fatto? Ha infranto questa sacrosanta legge, ha rubato l’Occhio della Vita per studiarlo in segreto, più volte, e tutto ciò che scopriva lo teneva nascosto, prima del Grande Sacrificio. Solo quando i gormiti sono morti per causa sua ha trovato giusto raccontarvi delle sue scoperte.”
“C - come fai a esserne sicuro? Come sai tutte queste cose?” domandò disperato Elios, che vedeva in pochi minuti rompersi di fronte a lui le verità e gli ideali di una vita. Il modo in cui Magor raccontava gli eventi, il suo tono, facevano sembrare tutto vero e assolutamente credibile. Ma come era possibile? Il Vecchio Saggio non poteva essere una persona così malevola: lui non aveva scatenato alcun genocidio.
“Io osservo il Vecchio Saggio ininterrottamente, Elios. - spiegò - I prodigi della sfera veggente. Quando so dove si trova, lo guardo, prevedo i suoi movimenti, le sue mosse, i suoi tranelli, le sue menzogne. Quando non riesco a trovarlo, setaccio ogni angolo di Gorm che conosco alla sua ricerca. Ma molte di queste cose me le ha rivelate lui stesso.”
“Te le ha dette lui? - chiese stupito - Voi…tu…come?”
“Io e il Vecchio Saggio. - iniziò, a capo chino - Ci conoscevamo. Ci stimavamo. Lui mi ha promesso molto, ma poi conobbe l’Occhio della Vita, e ne fu avvelenato, e ha mantenuto poco. E dopo, ha dannato la mia vita. Non credere che io sia sempre stato così, Elios.” disse, indicando con la propria mano il suo corpo in fiamme.
“E-e tu per vendetta hai scatenato il genocidio di una razza! - gli rinfacciò Elios, che, seppur non credendo interamente a quanto gli veniva detto, stava prendendo sicurezza e coraggio - Questo non è assolutamente giustificabile, per qualsiasi cosa tu combatta.”
“Hai ragione, Elios. - acconsentì Magor con un sospiro - Approvare quella rivolta è stato un grande errore. I gormiti sono una razza straordinaria, che non meritava di essere decimata. Nessuna civiltà lo merita. E a questo proposito, il Vecchio Saggio ha fatto una cosa buona per il mondo: ha reso i vostri numeri più grandi, a partire quasi da zero. Come ci sia riuscito, non lo so, e nemmeno voi lo sapete.”
“Ma la nostra causa è quella giusta. - affermò risoluto lo Stregone di Fuoco - Noi combattiamo per la condivisione dell’Occhio della Vita e del suo enorme potere. Pensa, la sua energia potrebbe aiutare qualsiasi civiltà, potrebbe rendere deserti foreste abitabili e rigogliose, curare qualsiasi malattia! E’ un potere che non va sprecato, né considerato pericoloso come il Vecchio Saggio vi fa credere. E a proposito del Grande Sacrificio. - rifletté, cambiando per un attimo discorso - E’ parzialmente giustificato, dal vostro comportamento discriminatorio ed emarginante nei confronti del Popolo del Vulcano. Non avevate accettato la mia gente così com’era e pensavate di cambiarla secondo i vostri gusti. Questa è una cosa sbagliata. E la mia offerta è un’occasione per aprire i ponti tra queste due società, che tanto hanno da dare l’una all’altra.”
“Perché chiedere proprio all’Aria di unirsi ai tuoi mostri?” domandò Elios, cercando di essere sprezzante e di dimostrare di non essere per niente convinto dalle sue parole.
“E’ una storia complicata.” disse Magor, che sembrava non volerne parlare. Volse per un attimo le spalle a Elios, e qui egli pensò nuovamente di attaccarlo alle spalle e fuggire. Avrebbe posto fine a tutto. Ma qualcosa lo trattenne.
“Tuttavia… - mormorò lo stregone - Credo di potertela raccontare ora.”
***
Magor osservava muto e studioso la lavagna su cui aveva segnato gli appunti e le scoperte riguardo quella misteriosa sostanza liquida.
Le sue accurate analisi e i ricordi che lampeggiavano nella sua mente lo avevano portato a una grandiosa rivelazione. La straordinaria qualità di quell’acqua colorata, intrisa del veleno esalato dalla creatura morente annegata anni or sono, avrebbe potuto dare alla sua gente un netto vantaggio sugli altri Popoli, e una guerra contro gli altri gormiti, nonostante la minoranza numerica, potrebbe essere stata fattibile.
Ma prima doveva essere certo di ogni evenienza, e sicuro che quel veleno diluito avrebbe dato gli effetti sperati che sarebbero perdurati, senza effetti collaterali.
Inoltre, voleva essere certo di una forza militare non solo pari a quella del nemico, ma superiore: in caso contrario, la vittoria, da un lato o da un altro, sarebbe stata possibile solo con rese, attacchi suicidi con grosse armi, o infiltrati.
Con la mente che da quella mirabolante scoperta viaggiava verso la possibilità di una guerra insulare e oltre, dei dubbiosi colpi bussarono alla porta rocciosa.
Lo Stregone di Fuoco era ormai abituato a quelle continue richieste di aiuto e di supporto, sin da quando si pose come guida del Popolo del Vulcano alla conquista dell’Isola e dell’Occhio della Vita aveva previsto tutto questo, e se n’era abituato presto, ma in questo periodo di pace e ricostruzione lo era ancora di più.
Magor sollevò la porta di pietra rossa, senza dare voce al proprio consenso.
Ad entrare, titubanti, nella stanza dello Stregone di Fuoco, furono una donna vulcanica…e un aereo, o così sembrava.
La donna era snella, prestante e leggermente più alta della media gormitica. La sua pelle era rosso carminio, e qua e là essa si scuriva e si rafforzava, divenendo grigia. Quattro le dita per le mani dalle unghie arancioni come gli occhi. La testa era ovale, piccola, ma bassa, quasi incassata nelle spalle. Tuttavia, era un viso levigato e dolcemente modellato dal tempo…molto bello, per i canoni gormitici. Nonostante la muscolatura sviluppata tipica dei gormiti del Vulcano, anche delle femmine, la sua forma era atipicamente molto aggraziata e, oserei dire, attraente.
Per quanto riguarda per il gormita che lo accompagnava, c’è da dire che era piuttosto corpulento per uno della sua razza, dalla pelle azzurro cupo dura e squamosa priva di piume, in compenso con numerosi bozzi violacei. Tre erano le dita dai grossi artigli di mani e piedi. Gli occhi erano verde acqua, dalla schiena prendeva forma una lunga coda, e dal torace compatto e massiccio crescevano due larghe ed insolite ali simili a quelle di un dragone, rossicce. Il volto era discretamente allungato, con i canini superiori lunghi e sporgenti, e una curiosa formazione squamosa viola, quasi una sorta di corona.
Magor sobbalzò, colto dal disappunto e dal nervosismo di trovarsi un nemico dritto nelle sue stanze.
“Furia, che cosa significa questo?” esigette paurosamente arrabbiato, temendo quasi un tradimento da parte dei suoi. Dopotutto, per arrivare lassù quel gormita dell’Aria avrebbe dovuto passare per quasi l’intera rete di gallerie interne del Monte Vulcano, e se ci era giunto doveva significare che tutte le guardie, ma anche i civili del Vulcano lo avevano lasciato passare.
“Chi è costui? Cosa ti porta a condurlo al mio cospetto?”
Puntò il dito infuocato verso l’insolito occupante della sua stanza, non per enfatizzare a chi si rivolgesse, bensì per tenerlo sotto tiro di qualche incantesimo, nel caso lo avesse trovato necessario.
“Grande Magor, no!” pianse Furia, la gormita, ponendosi a braccia aperte davanti al compagno aereo, pronta a sopportare per lui qualsiasi dei terribili e dolorosi incanti dello Stregone di Fuoco.
“Esigo una spiegazione, immediatamente.” intimò Magor, freddo e feroce, colpito da quel gesto, ma non abbastanza da ritrarre le sue intenzioni offensive.
“Non sacrificatevi, madre. - parlò con una voce cupa lo strano gormita - Sono pronto a correre ogni rischio.”
“Madre? - ripeté Magor, ora visibilmente confuso, ritraendo il suo dito - Come sarebbe a dire?”
“Grande Magor, questi è…mio figlio, Dragon.” rispose a capo chino Furia, quasi vergognandosi di se stessa.
“Avevo avuto notizia dei successi della tua bellezza e del tuo fascino nel Vulcano, Furia. - ammise Magor, sorridente e rilassato - Ma non mi sarei mai aspettato che avessero fatto successo anche fuori, e con simili risultati! Un mezzosangue di Vulcano e Aria!”
Dragon ringhiò sommessamente all’esser definito mezzosangue –era un termine dispregiativo per quelli come lui - , ma si contenne, sapendo di essere dinanzi alla figura più politicamente potente –e forse non solo - della sua gente.
Giusto per mettere le cose in chiaro: gli ibridi tra gormiti di Popolo diverso, che come ho forse già accennato sono completamente fattibili ed esistono, ed ereditano i tratti di entrambi i gormiti che gli hanno dato vita. Ma tra i due genitori ve n’è uno che è dominante. Non è una cosa legata al sesso o al Popolo di provenienza, è una cosa ‘casuale’, anche se non lo è davvero, che varia da gormita a gormita. Ad ogni modo, l’ibrido erediterà in gran parte i tratti del genitore dominante, cioè i colori del proprio corpo e l’elemento che si controlla, ma erediterà anche tratti dal genitore ‘passivo’, generalmente un controllo parziale dell’elemento di tale genitore, insieme ad altre caratteristiche minori –in questo caso la corporatura massiccia di Dragon, tipica dei vulcanici ma insolita per la gente di Picco Aquila.
“Furia, come è successo? - chiese Magor entusiasta – Raccontami.”
“Io…io e suo padre.” cominciò a raccontare la gormita, che si vedeva non aveva grande intenzione di parlarne
“Chi è suo padre?” la interruppe lo Stregone di Fuoco
“Si chiama Dragon, come lui. Ha - ha le ali da libellula e una coda e…e…”
“Va bene così. - la fermò Magor, notando che aveva difficoltà a descriverlo, e non essendo interessato ai dettagli fisici del suo amante – Continua.”
“Io e Dragon ci siamo conosciuti su Picco Aquila, l’anno del ritorno degli altri gormiti. Non ricordo perché fossi lì, e - era solo un giro. Dragon quando mi ha visto non è scappata né mi ha attaccata. E’ rimasto fermo, e ha cominciato a parlarmi. Ha - ha detto che non mi conosceva, e che per qualche sua regola non era tenuto ad attaccare i vulcanici o qualcosa di simile. Io ero un po’ più scorbutica, ma lui continuava a dire che avremmo dovuto conoscerci prima di dichiararci nemici. E - e io ho accettato. Mi piaceva la sua voce e…e niente. Ci siamo incontrati più volte in una zona nascosta di Picco Aquila. Diventammo amici nonostante avessimo molti contrasti, e poi arrivammo e piacerci e…e, insomma…”
“E…cosa? - la spronò a terminare Magor - Cosa è successo dopo?”
“Ecco, a noi piaceva…piaceva fare l’amore” mormorò a capo chino Furia.
“Vi piaceva fare l’amore? - ripeté alquanto sbigottito Magor - Questo è davvero…curioso.” Magor si grattò il mento pensoso, prendendo quindi a camminare –fluttuare - avanti e indietro, assorto.
“Non è tipico dei gormiti, tutto questo. Con la vostre strane tradizioni e tabù riguardo la sessualità, eppure, ora questo! Va’ avanti.”
“Be’, c’è poco altro da dire. Continuavamo a incontrarci e…a farlo, quando al secondo anno dissi a Dragon che aspettavo un cucciolo. Lui cambiò subito atteggiamento nei miei confronti, diceva che non voleva un figlio, che un ibrido sarebbe stato solo un problema. Smise di vedermi per un po’ di tempo. Io…io non mi infuriai. Piansi. Ma quando nacque Dragon, fu lui a venire a trovare me. Diceva che era una sua responsabilità, ma si capiva che non era quello che voleva. Dragon fu cresciuto a Picco Aquila. Il padre Dragon non aveva mai molto tempo per lui, e io dovevo sempre venire di nascosto. Dragon di recente non si è fatto più vedere, dopo aver detto che non poteva continuare così, e avermi dato nostro figlio.”
“Ci ha abbandonati senza ripensamenti, è questa la verità! - disse Dragon, arrabbiato - Ha lasciato mia madre che ha fatto tanti sacrifici per lui e un figlio non ancora adulto che era troppo pigro per crescere.”
Furia abbassò il capo, con le lacrime che cominciavano a rigargli il volto. Dragon la consolò, abbracciandola.
“Una storia davvero appassionante, Furia e Dragon. - esclamò Magor, attirando la loro attenzione - Non posso che essere dispiaciuto per voi due, soprattutto per te, Dragon”
“Per me?” domandò sorpreso il gormita ‘dell’Aria’, ma anche un po’ innervosito. Non gli piaceva essere consolato.
“Sì. Non ho mai conosciuto i miei veri genitori, e l’unico degno di essere chiamato tale è morto quand’ero ancora un bambino. In un modo o nell’altro, mi ritrovo in te, anche se si può dire che tu sia stato più fortunato. Hai ancora una madre che ti vuole bene, mentre io ho perso tutto…”
Anche il mio corpo. pensò Magor, rivolgendo tutti i suoi dispiaceri verso il Vecchio Saggio, con lo sguardo basso.
“Se non ti dispiace, Furia, vorrei fare qualche domanda a Dragon.” riprese Magor alzando lo sguardo serio e audace.
“Ma prima: con le mie richieste vi ho portato via già molto tempo, e né io né voi ne abbiamo avuto per sapere cosa vuoi che faccia.”
“Semplice, sommo Magor. - cominciò Furia - Suo padre lo ha abbandonato, e non è più visto di buon occhio su Picco Aquila. Vorrei che gli deste il titolo di cittadino del Vulcano. Così avrà una casa sicura in cui vivere.”
“Sarà fatto, Furia.” Magor volse le spalle ai due per rovistare –magicamente - tra gli scaffali di pietra della sua stanza, cercando dei fogli. Trovo dunque il foglio che gli serviva dopo qualche minuto di ansiosa ricerca –raramente le richieste dei vulcanici e le sue procedure richiedevano burocrazia, ma questa volta sì, e la carta in questione era davvero difficile da trovare, quasi mai utilizzata - e attiro a sé il suo timbro speciale, poggiato su uno scaffale dall’altro lato della stanza. Lo stampò alla base del foglio, sempre con la forza magica. Ripose il timbro e consegnò il foglio a Furia, facendolo fluttuare veloce verso di lei.
“Portalo a Orrore Profondo. Metterà la sua firma, dopodiché Dragon potrà volare ovunque nella Valle del Vulcano.”
“Grazie, grazie, grande Magor!” espresse la sua gratitudine la donna, piegandosi in un ampio inchino, prima di uscire dalla stanza. Dragon rimase, a braccia incrociate, attendendo le domande dello Stregone di Fuoco.
“Che cosa volete chiedermi, Stregone di Fuoco? - gli domandò - Sappiate che non mi piace essere consolato. Mi fa sentire…debole”
“L’avevo capito, Dragon. - replicò Magor - Dal primo momento che parlasti ho capito il tuo modo di pensare, e la tua stoffa. Forse, Dragon, tu potresti aiutarmi in un modo che nemmeno immagini.”
“Ne…sarei onorato, Magor. - balbettò confuso Dragon - Ma…non capisco come possa aiutarvi. Devo uccidere qualcuno?”
“Ma no, oh, no, no! - rise Magor - Non ti sopravvalutare, Dragon. So che sei un gormita forte, ma per gli assassini ho uomini migliori di te, e non manderei mai un cucciolo a svolgere un simile incarico.”
“E cosa, allora?”
“Parlami di tuo padre. - dichiarò Magor, poggiando il capo sopra le mani incrociate - Voglio capire che tipo di persona è, sempre che non ti dispiaccia parlare di lui.”
“Mi dispiace eccome. - disse - Ma sono disposto a questo e altro per aiutare la mia nuova famiglia.”
“Mio padre…Dragon era un gormita che amava la compagnia. Gli piaceva divertirsi, seppur nel modo strano dei gormiti dell’Aria. Ma si lasciava sempre scappare qualche atteggiamento altezzoso. Disprezzava molti dei modi di fare degli altri Popoli, e diceva che l’Aria era superiore. Gli piaceva sentire l’adrenalina durante il volo, scendere in picchiata e poi risalire quando si era a qualche piede da terra, anche se era pericoloso, e diceva sempre che voleva trovare nuovi modi di controllare la natura per i suoi scopi, fare cose che in nessun modo ‘normale’ sarebbe stato possibile. Forse è per questo che ai gormiti dell’Aria interessa così tanto la magia.”
“Tu sei stato a contatto anche con altri gormiti dell’Aria, giusto?”  domandò Magor, supponendo che Dragon avesse finito notando che aveva difficoltà a continuare.
“Sì. Non è stata una bella esperienza. Mi guardavano tutti storto, anche se nessuno sapeva che ero un ibrido. Dragon finse di avermi trovato abbandonato in un bosco.”
“E di questi altri gormiti, cosa mi sai dire? Come si comportano?”
“Non parlavo molto con loro…” disse Dragon, grattandosi la nuca, insicuro su come continuare “Ma origliavo. Molte delle cose che dicevano erano simili a quelle che diceva Dragon: dette con altre parole, ma gli stessi concetti. Nello specifico…”
***
“Dragon se la faceva con una del Vulcano?! - gridò Elios stralunato, perso nella reminescenza di Magor e dimentico per un attimo di ciò che stava accadendo nel presente - Aspetta che lo venga a sapere Falcosilente.”
“Dragon è un gormita davvero straordinario. - vociò entusiasta Magor - Un gormita dell’Aria, con la mentalità di un vulcanico. Grazie al suo contatto con voi, è riuscito a capire il vostro modo di pensare, a sapere le cose che desiderate di più. E con le mie domande, sono usciti fuori tutti quei sogni del Popolo dell’Aria che io posso aiutare a realizzare.”
“Sarebbe a dire?” chiese Elios, tornando nel mondo reale, tornando ad essere dubbioso e convinto allo stesso tempo.
Lo Stregone di Fuoco sembrò ignorare la sua domanda.
“Puoi non credere a ciò che ti ho detto sul Vecchio Saggio, Signore dell’Aria, e continuare a ritenere che egli combatta per la distruzione dell’Occhio della Vita. Ma sei davvero sicuro che la distruzione sia la soluzione migliore? Perché sprecare questo dono divino nella paura per il pericolo che può rappresentare, e non sfruttarlo per porre fine a qualsiasi pericolo? Ti ho già esposto le infinite possibilità che derivano dalla sua energia, e non le ripeterò.”
“Io non…non lo so. - Elios liquidò in poche parole tutta la sua insicurezza - Tu hai parlato di usare l’Occhio per aiutare l’intero mondo. Ma noi gormiti non ci siamo mai inoltrati oltre l’Isola di Gorm, e parlare di mondo, o di mondi, è esagerato! Non abbiamo idea di cosa troveremo fuori dai nostri confini. Come potremo noi imporci su altre civiltà, quando abbiamo così poche conoscenze?”
“Con l’Occhio della Vita, naturalmente. - rispose entusiasta Magor - Esso è la domanda e la risposta. L’Isola di Gorm sarà solo il primo passo, e dopo di essa, illuminare le altre genti sarà facile. Tutti ci ringrazieranno per aver condiviso questo enorme potere, compresi tutti i gormiti, offuscati dalle idee del Vecchio Saggio. Ma forse, forse il tuo Popolo non crede affatto in ciò che il Vecchio Saggio continua a dirvi sull’Occhio. Forse a voi non interessa, e seguite la sua via solo per moda, per non essere invisi agli altri Popoli ed essere decretati nemici al nostro pari. Non è forse così?”
“Io credo…” cominciò Elios insicuro, e intimorito dalla familiarità con cui ormai parlava con Magor, come fosse un amico di vecchia data o una figura amichevole con cui era facile entrare in sintonia. Ma lo Stregone di Fuoco non era nulla di tutto questo. Era il suo peggiore nemico. Eppure, eccolo lì, a parlare con lui a cuore aperto, sincero.
“Credo di sì. Sì!” esclamò Elios, ma un’esclamazione di disperazione. Ciò che stava dicendo Magor era vero, e Elios era ora in bilico tra delle scelte difficili.
“Noi…noi ci siamo omologati. Non…non volevamo dividerci dagli altri…noi…oh, Praconrem, perché?”
Magor sorrise. Il suo progetto stava andando a buon fine, e non aveva ancora offerto all’Aria nulla di ciò che aveva in mente di offrire.
“Vedo che cominci a capire, Elios. A capire gli errori, la verità. Tu e il tuo Popolo forse sarete più veloci a capire quando saprete i vantaggi che trarrete da questa alleanza.”
“Se vi unirete a noi, e l’Isola di Gorm cadrà sotto il nostro comando, tutti i Popoli alleati potranno essere guidati dal Signore dell’Aria. Questo significa che sarete voi, dopo di me, a dettare le regole su Mare, Terra e Foresta. Immagina: con te al comando di Gorm, potrai finalmente realizzare il sogno di tuo padre, di Falcosilente e di molti tuoi compagni, nonché tuo. Fare dei gormiti una civiltà raffinata ed evoluta, con il Popolo dell’Aria come modello. Tutti sapranno vestirsi bene ed elegantemente, nessuno sarà più ignorante nella magia, tutti impareranno a parlare nel vostro modo colto e forbito, e l’arte non sarà più messa da parte, tutti sapranno apprezzarla e realizzarla. I gormiti, i dominatori dei mondi, verranno visti come una società elevata, divina, e non come una rozza comunità tribale con la guerra nelle fondamenta. Non è forse ciò che volevi tu, ciò che avresti fatto a quest’Isola se avessi vinto il Torneo dell’Eclissi?”
“Io…sì. - dovette confermare Elios, incapace di mentire di fronte a simili verità - Ma…come lo sai?”
“Dragon, il figlio. - gli ricordò Magor, con un’espressione enormemente soddisfatta sul volto - Da lui ho scoperto questo e molto altro. E Dragon mi fa pensare anche a un’altra vittoria. Con quest’alleanza, i due Dragon e Furia non avranno più motivo di vivere separati. Sarà una famiglia felice, il tuo amico Dragon sarà felice. Non ne saresti contento?”
“Ma non è tutto qui, caro Elios.” lo zittì prima che potesse dire la sua, ponendogli il dito fiammante pericolosamente vicino al becco del pennuto gormita.
“Il tuo Popolo ha in mente un progetto ambizioso tanto quanto loro. Ma è un progetto costoso, e che non potete portare a termine da soli. Il Vecchio Saggio potrebbe esservi di enorme aiuto nel campo magico, ma voi lo state tenendo segreto, e anche se fosse pubblico, l’esperto stregone avrebbe altro da fare, immagino. Io, invece, mago al suo pari, troverei il tempo da dedicare al vostro progetto, e dispenserò numerosi validi operai per le operazioni di scavo e di lavorazione.”
Elios tremava e tentennava, incerto, e timoroso di tutte le informazioni che in poco tempo lo Stregone di Fuoco era riuscito ad ottenere. Spero…spero con tutto il cuore di aver sentito male…Non può star parlando di quel progetto…come farei a rifiutare?
“Sì, Elios, sto parlando del progetto delle Fortezze Volanti.” confermò purtroppo lo Stregone di Fuoco, sogghignando. Elios era nelle sue mani.
“Ma…ma è un progetto segreto! Come…ma…” balbettava il Signore alato. Si mantenne composto, cercando di trovare le parole per ribattere, qualcosa da contrastare le sue proposte.
“Perché il mio Popolo dovrebbe aver bisogno dell’aiuto del Vulcano? - domandò fiero, sicuro di aver trovato un argomento valido - Perché non chiedere agli altri?”
“Molto semplice. - Magor chiuse gli occhi, concentrandosi e facendo filare il susseguente discorso chiaro, liscio e indiscutibile - L’Aria non ha esperienza in miniere o in costruzioni di simili proporzioni. Stesso vale per la Foresta: dalle del legno e ti fanno capolavori, ma dalle della pietra e non sa farne nemmeno un’amigdala. Il Popolo della Terra ha già scolpito per voi un’intera vetta di montagna, un lavoro ciclopico, e se doveste chiedere ancora una volta il loro aiuto, esigerebbero una ricompensa molto cospicua. Il Mare potrebbe essere l’alternativa migliore, ma dubito che, come anche per la Foresta, possa resistere al clima delle miniere di Picco Aquila, senza contare la loro necessità di essere sempre bagnati, cosa che potrebbe danneggiare il lavoro. E nessuno di questi Popoli ha abbastanza maniscalchi e muratori da poter completare l’opera in un tempo ristretto. Il Vulcano, al contrario, sì, e inoltre imporrò dei salari bassi, giusto per convincervi ulteriormente.”
Elios rimase muto, incapace di ribattere, incapace di contrastare Magor con un alto argomento valido almeno all’apparenza la metà di quello appena esposto e appena distrutto.
“E sempre per convincervi ulteriormente. - riprese Magor - Ho un’ultima offerta per voi, qualcosa che vi riguarda…più da vicino. Immagino Orrore Profondo ti abbia fatto vedere come riesce ad ottenere energia fisica dalle fiamme, dico bene?”
“Di - dici bene.” fu l’unica cosa che riuscì a dire Elios
“Esso è il frutto di studi e scoperte. Un veleno estratto da una delle numerose varietà di una speciale forma di vita vegetale, che vista la natura diluita in cui è stata rinvenuta, è stato bene farglielo bere, a lui e ad altri, per ottenere questo portentoso potenziamento, quasi immediato e che dovrebbe durare in eterno, senza danni collaterali, da me denominato ‘combustione inversa’. Ma come ho appena detto, la fonte di questo magico veleno è solo una delle varietà di queste creature. Ho scoperto un’altra varietà, il cui veleno dona abilità più affine alla vostra natura. Esso però dovrà essere percorso da una scarica elettrica rivolta verso di voi per avere effetto, e suggerisco di usare il Volvorot per donarlo ai tuoi seguaci, per la sua capacità magica di controllare le correnti. Questo potenziamento, il ‘senso di colibrì’, accelererà i vostri riflessi oltre le normali capacità del vostro cervello. E per te, solo per te, se accetterai l’alleanza, ovviamente, donerò entrambi i potenziamenti.”
“Questo è tutto, Signore dell’Aria Elios. - concluse Magor, incrociando le braccia - Tutto ciò che ho da offrirvi, tutto ciò che ho da dirvi, è stato descritto. Ora spetta a te decidere, e decidere in fretta.”
Elios abbassò il capo ancora di più, chiuse gli occhi. Stramazzò a terra, sulle proprie ginocchia, le braccia sciolte, morte. Orrore Profondo dietro di lui, guardingo ma assente, attento che Elios non scappasse. Magor davanti, paziente ma sicuro di sé, con un sorriso stampato sul volto. Il futuro di Gorm dipendeva da lui. La sua decisione avrebbe potuto sconvolgere l’intero assetto dell’Isola, o lasciarla invariata. Il suo Popolo poteva trarne vantaggi e successi inimmaginabili, oppure rimanere in quello stato, continuando a sognare una nuova Gorm che non sarebbe mai venuta.
Elios alzò il capo, aprì gli occhi, fissando le pupille inesistenti delle iridi infuocate di Magor.
“Accetto la vostra proposta.”
 
Le fatali parole erano state pronunciate. La decisione era stata presa: non era stato un miraggio, un’illusione.
La voce di Elios aveva parlato, e il suo decreto avrebbe cambiato molto sull’Isola di Gorm, e l’aver dato al temuto ma carismatico Stregone di Fuoco il voi era simbolo del suo nuovo ruolo nelle idee di Elios.
Orrore Profondo era stupefatto dalla rapidità e in un certo senso la facilità con cui il Signore dell’Aria era stato convinto. Si staccò di scatto dalla parete dell’entrata della grotta, con gli occhi violacei spalancati.
Se gli ideali di Magor potevano attecchire nella mente dei gormiti a quel modo, molti altri gormiti, forse di tutti i Popoli, potevano convincersi degli obiettivi dello Stregone di Fuoco e seguirlo nella retta via, creando scompiglio tra i Popoli alleati, cosa che nell’insieme avrebbe dato guadagno al Popolo del Vulcano.
La persuasione espressa dalle orazioni e dalle offerte sarebbe stata un elemento chiave nei prossimi passi di Elios per l’alleanza tra Aria e Vulcano.
“Eccellente, perfetto! - gioì Magor con un ampio sorriso sul volto - Sapevo che avresti compreso la verità e non avresti rinunciato a queste opportunità.”
Brucio dal desiderio di battere il pugno a un gormita così intelligente e brillante come te, Elios. Ma temo che l’atto termini con tu stesso che bruci, e sarebbe a dir poco controproducente.” scherzò Magor, ma non troppo ironico.
“Quest’isola ha bisogno di te. - continuò, drammatico - Sarai l’araldo di un’era di cambiamenti, di progresso, di successi.”
“Lo immagino, Stregone di Fuoco.” mormorò ancora incerto ma cosciente di non poter tornare indietro Elios. Una grande responsabilità gravava sulle sue ali. Cosa delle proposte di Magor lo aveva convinto di più? Credeva davvero in modo sincero alla potenza da condividere dell’Occhio della Vita? Oppure era stato attratto da quelle offerte più materiali quali gli aiuti nel progetto segreto o dai potenziamenti?
Questi ultimi per quanto vaghi doni e la prospettiva di un’Isola governata dal Popolo dell’Aria e modellata a sua immagine avevano acceso in lui un’arrogante ambizione da tempo recondita, spenta nel suo animo.
Gli è bastata una piccola scintilla, un barlume, per accendere quel desiderio, infiammare la sterpaglia, le foglie secche nel profondo del suo spirito, fuoco che poco a poco si è espanso, e ha invaso l’intera selva del suo animo con nuovi sogni e brame.
“Ma…io sono solo un gormita, anche se Signore” riprese Elios ancora titubante, ma deciso ad ottenere ciò che gli era stato promesso.
“Se il mio Popolo non mi desse ascolto, non si mostrasse d’accordo, non accettasse…cosa farò io?”
“Se tu, Elios, il meglio che il Popolo dell’Aria ha da offrire, ha compreso gli errori della via del Vecchio Saggio e si è schierato dalla mia parte nonostante l’astio con il Popolo del Vulcano, e non ha rinunciato al benefici di questa prospettiva, si può essere certi che nessuno con un po’ di cervello tra le tue fila rifiuterà, e verrà al tuo fianco immediatamente.” lo rassicurò Magor, con un tono quasi paterno.
“Spero che sia così…”
“Non avere timore, Elios.” lo rasserenò ulteriormente, arrivando quasi a toccargli la spalla con la mano incandescente. La ritrasse quasi immediatamente, come se avesse commesso un’atrocità.
“Tuttavia. - continuò serio, con le braccia dietro la schiena - Devi sottostare a una…prova, prima che io ti dia i meritati doni e che tu parli ai tuoi seguaci.”
“Sarebbe?” domandò deglutendo
“Devi, accompagnato da Orrore Profondo che controllerà, attaccare un gormita dei Popoli alleati, preferibilmente un tuo amico.”
“Cosa?! - esclamò stravolto Elios - E perché?”
“Capiscimi, Elios. - si fece premuroso Magor - Questo cambio di posizione è una vittoria per i nostri Popoli. Ma per tutti gli altri, la tua decisione verrà vista unicamente come un grande tradimento che finché Gorm sarà in conflitto verrà ricordata dai tuoi nuovi nemici con rancore.”
Elios cominciava a dubitare e a pentirsi leggermente della propria scelta.
“In una simile situazione, nel conflitto che si scatenerà, devo essere sicuro che tu sia pronto a prendere le armi contro i tuoi amici degli altri Popoli.”
“Io…” balbettò Elios. Colpire un suo amico solo per due sciocchi doni magici! Sembrava profondamente scorretto ed egoistico.
L’idea di ritrovarsi a combattere individui che stimava e che al momento lo stimavano lo riempiva di tristezza, e non lo aiutava ad accettare di buon grado di essere arrivato in quella situazione di non ritorno.
Ma non c’erano solo degli stupidi bonus  in ballo: l’Occhio della Vita non poteva continuare a rimanere nascosto attendendo di scomparire. Non poteva essere sprecato, ed Elios non avrebbe continuato a seguire alla cieca i comandamenti del Vecchio Saggio, né avrebbe permesso a coloro che credevano in lui di fare lo stesso, non senza illustrare loro tutte le possibilità.
L’Occhio della Vita poteva aiutare, era la chiave per la vittoria universale. Non poteva mettere le proprie amicizie di fronte a prospettive di simili proporzioni, e il suo Popolo avrebbe fatto meglio a capire.
“Va bene, Magor. - accettò infine, risoluto, Elios - Questo e altro per la giustizia.”
“E’ una cosa difficile, Elios, lo capisco. - ne ebbe compassione Magor - Ne varrà la pena, Elios, te lo prometto.” gli assicurò Magor, guardandolo dritto negli occhi piccoli, con un’espressione amorevole, questa volta davvero paterna.
“E la tua tempra morale ti renderà forte, te lo farà sopportare. Non avrei potuto scegliere alleato migliore.” se lo arruffianò per bene, infondendogli fiducia e sicurezza.
“Ma ora va’. Orrore verrà con te, rimarrà nascosto, e ti guarderà. So che forse questa cosa non ti piacerà, ma voglio che ci sia qualcuno che mi garantisca che tu abbia davvero fatto ciò che stai per fare.”
“Nessun problema. - capì Elios - Ci vediamo dopo.” e uscì di corsa da quell’antro illuminato da vero e proprio fuoco vivo, pronto a compiere quell’atto difficile ma necessario, desideroso di portarlo a termine il più presto possibile, sebbene sapesse che si sarebbe trovato di fronte a numerose simili situazioni, anche peggiori. Prima di uscire, si fermò di fronte a Orrore Profondo, suo nuovo socio, in futuro forse anche amico, allo stesso modo in cui lo divenne con Barbataus, Kolossus e Carrapax.
Non gli riuscì, però, di fare o dirgli alcuna cosa. Era ancora troppo presto, e passò oltre.
Magor, che pur era permissivo e poco esigente, fece passare per questa prima volta in sua presenza quel tono troppo confidenziale che Elios aveva dimostrato e l’essersi separato da lui senza nemmeno un inchino o un piccolo piegamento del capo, che sarebbe più che bastato. Era abituato a simili riverenze dei vulcanici –a cui non aveva mai chiesto nulla di simile - ed era giunto ad apprezzarli e ad esigerli.
Orrore si fermò un attimo con lo Stregone di Fuoco.
“E’ stato un interessante discorso, o Stregone di Fuoco.” si congratulò, con quella voce che non smetterò mai di dire come sembrasse fuori luogo e quasi comica in una conversazione amichevole.
“Per fortuna non siete mio nemico, sommo. Non credevo che poteste impiegare così poco a convincerlo. Uno in più dalla nostra causa, e non se ne pentirà. Mi è piaciuto quando gli avete detto di essere quella farsa di voi amico tradito del Vecchio Saggio. Una bugia che non vi rimprovero: è stata sicuramente di grande aiuto.”
Magor rimase perplesso. Proprio dove aveva confessato, in grande o piccola parte, le più atroci e da sempre celate verità, Orrore Profondo, il vulcanico più vicino e fidato che aveva in quel momento, credeva fosse una menzogna, un’invenzione per accattivarsi Elios. Non lo aveva previsto. Ci riflettè un attimo, nemmeno un secondo prima di replicare al Signore del Vulcano: forse era meglio così, forse i suoi seguaci non erano ancora pronti a scoprirlo, né lo erano gli altri gormiti.
“Grazie, Orrore Profondo. - lo ringraziò dunque - Sì, nemmeno io mi ero immaginato una simile rapidità e una così scarsa insistenza. Riguardo quella bugia…sì, non è proprio corretta, ma devo ammettere che è stata un’ottima mossa. Ma preferirei che distogliessi Elios dal rivelarla a tutti.”
“Non vi preoccupate. Ora vado.” e si inchinò, prima di uscire.
 
Orrore Profondo, non occultato magicamente, rimaneva però  nascosto tra il cespuglio della riva sabbiosa.
Il tramonto rosato illuminava la vicina città del Bazaar, proiettando grandi ombre ricurve di alberi e gabbiani sulla spiaggia color fuoco. In quel paesaggio caldo, spoglio, mite, camminava un gormita del Mare, che si prendeva un attimo di pace e tranquillità da una dura giornata, con il caldo volto del sole che lo baciava e lo riscaldava per l’ultima volta, quel giorno, su quel tratto di battigia poco frequentato, silenzioso.
Tra le ombre che si stagliavano sulla sabbia, ce n’era una grande, distinta, particolareggiata, ma confusa e misteriosa. Su nel cielo che diventava buio, non sembrava esserci nulla a generare quell’ombra. L’incantesimo dell’invisibilità non nascondeva i propri getti d’oscurità. Il gormita non sembrava rendersene conto, o accorgersi di quello strano fatto. Ammirava il mare, la sua casa, le onde cupe che danzavano leggere e morbide al debole tocco del vento.
Elios titubava. Con tutti gli amici, i conoscenti, o anche uno sconosciuto qualsiasi –lo Stregone di Fuoco aveva espresso una preferenza, ma non gli aveva ordinato nulla di preciso - che c’erano nei Popoli di Mare, Terra e Foresta aveva scelto proprio lui. Un avversario formidabile. Il Signore dell’Aria aveva dalla sua un completo e totale effetto sorpresa. La sua scelta non sapeva perché lo stava attaccando e a vedere un volto amico forse si sarebbe trattenuta dal contrattaccare ferocemente.
Ciò non toglieva che forse si era montato la testa…assalire il Principe di Gorm, il vincitore del Torneo dell’Eclissi! Se Elios non fosse riuscito a colpirlo e scappare, se Carrapax l’avesse trattenuto, sarebbe andato tutto a rotoli. Magor non l’avrebbe mai perdonato, lui non se lo sarebbe mai perdonato: avrebbe perso tutto.
Si fece forza. Dopotutto, non doveva restare lì in uno scontro prolungato –cosa che avrebbe potuto attirare l’attenzione di qualcuno vicino, un guaio - solo scagliargli qualche attacco per mostrare di essere capace di ferire un amico.
E ho più paura di Kolossus che di lui. confessò.
Avere il coraggio di attaccare il Principe, inoltre, poteva dimostrarsi un segno di grande valore: Magor avrebbe potuto elogiarlo, premiarlo per questo.
Non lo sfiorò nemmeno di striscio l’idea di abbandonare tutto, di aver commesso un errore, di non avere possibilità di successo. Era convinto di ciò che faceva e di ciò stava per fare, solo timoroso, ma prima o poi l’avrebbe fatto.
Scrollò le spalle, fece un respiro profondo, rimosse l’incantesimo di occultamento. Volò giù in picchiata. Sempre più vicino, sulla riva, il Signore del Mare Carrapax per nulla preoccupato, ma che cominciava a sentire il sibilo di Elios.
Il becco di tuono sulla nuca lo fece preoccupare non poco. Si guardò attorno frastornato, tastandosi il collo dolorante. La chela si macchiò di una piccola macchietta rossa. Poi vide Elios, svolazzare dinanzi a lui, scattando da un lato all’altro, come se volesse sfuggire.
Carrapax era sconvolto. Ciò nonostante, non diede segno di rispondere all’attacco. Invece, chiese, con tono quasi di supplica: “Elios, che stai facendo?!”
Il Signore dell’Aria aveva uno sguardo torvo, incupito. Non voleva incontrare gli occhi di Carrapax, non lo avrebbe aiutato. Si mostrò incurante delle sue domande e del suo dolore, alzò di pochi piedi il suo volo. Poi una piccola rincorsa all’indietro e uno scatto in avanti.
Due forti calci a piedi uniti percossero il petto nudo e bluastro di Carrapax, facendolo barcollare e inciampare. Cadde di schiena.
Elios distolse lo sguardo, rivolgendolo erroneamente verso il teschio grigio di Orrore, nascosto tra le foglie. Incrociò il suo sguardo di fuoco viola. Fece di no con la testa. Quello che aveva fatto non era sufficiente. Si chiese in un lampo se davvero non lo fosse o se Orrore Profondo gioisse nel vedere Carrapax soffrire. Dopo ciò che era successo alla Piana di Astreg, circa tre anni fa, Orrore Profondo doveva covare astio nei suoi confronti. Forse ancora, aveva in astio lo stesso Elios e gli piaceva veder soffrire lui mentre colpiva un suo amico. Elios si tolse quei pensieri dalla testa: quell’alleanza dovrebbe cambiargli il modo di vedere e concepire il vulcanico medio.
Accettò non di buon grado di infliggergli un altro attacco. L’incrocio con gli occhi di Orrore, la comprensione del messaggio, i pensieri, tutto nell’arco di pochi secondi. Carrapax era a malapena riuscito a rialzarsi. Il Signore dell’Aria intanto roteava le proprie mani a tre dita di fronte a sé, in un ordine e con ritmi precisi.
“Perdonami.” mormorò, pronto a piangere, prima di terminare.
Finì di agitare le mani e le tese in avanti con le braccia. Dalla sfera d’aria che stava manipolando si generò un forte turbine, diretto con ferocia contro Carrapax. La Picchiata del Re del Cielo.
Il piccolo tornado localizzato investì il Signore del Mare, sollevandolo in aria, facendolo vorticare all’impazzata, e portandolo lontano di diversi piedi, fino a farlo crollare sul tronco di un albero.
Elios non guardava, chiuse gli occhi mentre la Picchiata afferrava Carrapax e lo tormentava.
Li riaprì, ancora una volta per scorgere Orrore Profondo. Questa volta, però, il Signore del Vulcano era emerso dal suo nascondiglio frondoso senza occuparsi di celare la propria figura, e con un semplice cenno gli indicò di lasciare Carrapax e la spiaggia, e di tornare dallo Stregone di Fuoco.
 
“Eccellente, Elios!” si congratulò Magor, ascoltando il resoconto di Orrore Profondo, di come aveva colpito Carrapax.
“Hai scelto un bersaglio audace, e ne sei uscito salvo. Ottimo!” lo elogiò. Non esattamente come Elios aveva sperato, ma lo Stregone di Fuoco si mostrava comunque sorpreso e soddisfatto della scelta del Signore dell’Aria.
“Queste azioni sono sufficienti, per me.” continuava Magor, mani dietro la schiena, camminando –come sempre, fluttuando - avanti e indietro.
“Immagino come tu ti sia sentito, e come ti senti tutt’ora al pensiero di lottare contro i vecchi amici. - lo consolò - Continua così, Elios. Sopporta. Presto questo dolore darà i suoi frutti. Pensa al futuro.”
Elios ascoltava senza aprire becco. Sembrava che lo Stregone di Fuoco, nonostante gli occhi offuscati dal fuoco, vedesse molto bene, capisse davvero come si sentiva Elios. Ciò nonostante, il suo tono e i suoi discorsi, ora che era ufficialmente –o quasi - dalla sua parte, cominciavano a dargli noia. Aveva fretta di andare a Picco Aquila e convincere i suoi gormiti dell’alleanza, togliersi quella preoccupazione di dosso; aveva fretta di ricevere quei poteri promessi che tanto bramava.
“Ti sei dimostrato capace e affidabile. - disse poi - E sono sicuro che ci saranno altre occasioni in cui potrai dare mostra delle qualità. Ma ora, rilassati, finalmente ti concedo quei veleni che desideri. Ho visto quanto ardi dal volerli.”
Ancora una volta Magor si mostrava enormemente perspicace: la sua vista andava oltre ciò che l’occhio poteva scorgere. Era davvero così abile, o Elios era così incapace nel nascondere i propri sentimenti?
Lo Stregone di Fuoco volse le spalle ad Elios e a Orrore dietro di lui, per mettere mano –magicamente - a delle fiale e dei barattoli di diversa dimensioni accatastati dietro di lui.
Elios non ricordava di averli mai visti prima d’ora, in quella cava. Da quanto si trovavano lì? Forse Magor, mentre i due Signori cacciavano la loro preda, se n’era andato a Monte Vulcano o in qualcuno dei suoi rifugi a prendere gli strumenti.
Prese due fiale piccole, e un grande barattolo pieno di una sostanza verde - giallina. Una delle fiale conteneva lo stesso materiale, l’altra un liquido rosato. La sostanza giallognola non sembrava molto liquida, pareva più gelatinosa.
“Questo è il veleno filtrato del senso di colibrì. - spiegò, alzando il barattolo grosso - Per i tuoi seguaci, coloro che giudicherai pronti e disponibili ad ottenerlo. Non basterà per tutto il tuo Popolo, e ti sconsiglio di somministrarlo a bambini ed anziani. Ricordati di portare i gormiti scelti alla chiesa di Colle Tempesta, di spargere il veleno sul Volvorot e innescare la sua scarica per potenziare tutti i presenti.”
“Questi, invece. - e fece ruotare le due fiale attorno al capo di Elios, a cui mancò poco per avere un giramento di testa - Sono i due veleni per te. Il senso di colibrì ha sempre bisogno di una scarica, l’altro è da bere.”
Elios guardava incantato le fiale girargli attorno, seguendo il loro corso solo con gli occhi. Le dita gli fremevano, pronte a scattare al momento giusto per prendere le fiale. Non fu nemmeno in grado di provare a prenderle, che lo Stregone di Fuoco le portò vicino a sé, e le fermò
“Devo avvisarti. - disse - Che non sono sicuro degli effetti di due veleni combinati. Potrebbe essere rischioso. Il tuo Popolo vorrà avere una dimostrazione di ciò che sarà capace di fare, pertanto il veleno di senso di colibrì non è un’opzione. Se vuoi rischiare, prendi anche la combustione inversa.”
“Li prendo tutti e due.” affermò Elios risoluto, senza paura.
“Come desideri.” sussurrò Magor. Gli porse il veleno da bere. La gelatina verdognola la tenne per sé. Aprì la fiala, e cosparse con la forza magica la sostanza gialla sul petto di Elios. Quand’ebbe finito, con il dito puntato verso il magnifico Signore dell’Aria, riversò su di lui una scarica magica di un secondo. In quel solo secondo, la gelatina verdina sulle piume del torso di Elios scomparve, assorbita. Mentre Magor dava origine alla scarica, Elios aveva già tracannato tutto il veleno rosato.
Quando gli ebbe assunti entrambi, Elios scosse ferocemente il capo, gorgogliando, come quando si ha bevuto un liquore forte in fretta e si vuole far sparire quella sensazione di freddo al cervello.
Il freddo lo sentiva non solo in testa, ma anche nello stomaco, al cuore. Da lì, si protrasse per tutto il corpo. La sensazione di freddo glaciale si tramutò poi in un grande calore, come se avesse preso più energia di quanto fosse necessario da pietre preziose.
La situazione tornò presto normale. Niente più freddo o caldo. Elios si sentiva esattamente come prima. Ma allo stesso tempo, sentiva qualcosa in più. Percepiva le cose attorno a sé più nettamente, più nitidamente di prima, con tutti i sensi.
Qualcosa lo fece rabbrividire, e Elios percepì lo stimolo irrefrenabile di abbassarsi. Così fece, e il pugno di Orrore Profondo fu solo in grado di sfregiargli qualche piuma del capo.
Era senza dubbio il senso di colibrì che glielo aveva fatto fare. In pochi secondi, i suoi riflessi avanzati avevano sentito lo spostamento d’aria e la sua direzione, e il senso di sopravvivenza della sua mente, per evitare il dolore fisico e l’indebolimento, avevano subito fatto scattare in lui uno stimolo per difendersi dall’imminente attacco.
Orrore Profondo continuò a menare colpi, calci e pugni, getti di fuoco, senza troppa moderatezza. Più della metà di essi, Elios fu capace di schivarli, e il resto dei colpi lo sfiorarono solamente. Solo in pochi andarono a segno –e che segno! Erano attacchi forti che facevano un bel male: nessuno di quei due veleni aveva potenziato la sua prestanza fisica.
“Ma è fantastico!” gioì Elios, evitando un montante di Orrore diretto al suo volto, abbassandosi sulle ginocchia. Preparò poi un rapido calcio alto diretto al viso del suo nemico - amico. Orrore lo parò con il braccio e, forse arrabbiato, riportò la gamba di Elios a terra violentemente.
“Sono contento che tu apprezzi. - disse Magor soddisfatto - Se tu apprezzi, anche i tuoi seguaci apprezzeranno. Sai già cosa può fare la combustione inversa, quindi non tergiversiamo. Hai un Popolo da convincere all’alleanza.”
“Ma ormai è quasi notte.” notò il Signore dell’Aria, riportato alla realtà dei fatti come svegliato da un sogno.
“Sarà difficile ra - radunare il Popolo nelle città per il di – discorso.” La fretta che aveva prima nel terminare tutto il più presto possibile era svanita, rimpiazzata dal timore del fallimento. Ora che era finalmente giunto il momento fatidico di rivelazione, Elios voleva evitarlo ad ogni costo
“E non arriveremo mai in tempo…” continuò. Tempo? Che tempo? Siamo già fuori tempo! - si disse Elios - Dannazione, ora capirà che ho paura.
“Ho gli strumenti per un varco, e l’attesa non porterà nulla di buono.” spiegò lo Stregone, confuso, che sì vedeva la paura di Elios, ma non dava ad essa troppo peso: era tempo di agire, non di parlare.
“Ma ho detto che…che la gente dorme e - e, è quasi notte e…Oh, Praconrem!” urlò Elios, con le mani alla testa ricordandosi solo ora di che giorno fosse quello, di come e quando tutto ciò era iniziato, e del vero problema che portava il buio.
“E’ quasi notte! Per tutte le piume di Praconrem! Io dovrei essere di ritorno dalla vedetta da un pezzo! Mi avranno sicuramente mandato a cercare!”
“Un motivo in più per tornare ad Orsol adesso e non aspettare il vicino domani per il discorso. - gli intimò Magor - Orsol sarà l’inizio, e indubbiamente non potrai parlare in tutte le città entro oggi, ma è bene iniziare subito.”
“Che cosa faccio se nessuno mi ascolta? Cosa sarà di me?” domandò supplichevole Elios, che si disperava nell’immaginarsi un futuro prossimo in cui veniva bandito dal suo stesso Popolo, e forse anche giustiziato da Magor per inettitudine.
“Riuscirai, Elios. - lo rassicurò severo Magor - Non pensare al fallimento. Non succederà. Stai fedele al mio discorso, se non hai idee per uno tuo. Ricordati le mie parole, le cose che ti ho detto per convincerti. Come hanno avuto successo con te, lo avranno anche con loro.”

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Capitolo 26
*** Capitolo 10.2 ***


I due Signori emersero dal varco spaziale di Magor nella salita di Picco Aquila che dava verso Orsol, la capitale dell’Aria.
Un’apparizione improvvisa di Orrore Profondo nel mezzo della capitale sarebbe stata troppo sospetta, e avrebbe generato reazioni pericolose. Così lo Stregone di Fuoco portò Elios, con il barattolo stretto in un braccio, e il Signore del Vulcano nella strada verso Orsol, per percorrere il resto del tragitto a piedi, mostrarsi, ripetere a tutti coloro che si incontravano che era tutto sotto controllo.
Il sole stava completando il suo corso e il buio iniziava la sua invasione dell’Isola di Gorm, Picco Aquila compreso. Lungo tutta la strada in salita, lanterne dorate, torce rosse e bianche pietre di luce illuminavano il sentiero, le rocce e gli alberi dell’alta vetta. La luce artificiale non era uniforme ovunque, e la combinazione di colori delle diverse fonti luminose dava all’ambiente un aspetto quasi spettrale, proiettando scheletriche ombre dei tronchi e dei rami sul suolo povero di verde grigio e bruno.
Elios camminava veloce, frettoloso e in preda all’ansia, cercando di mantenere quanto poteva una certa compostezza, accompagnato da Orrore Profondo, apparentemente tranquillo e impassibile, che pur procedendo più lentamente era misteriosamente sempre al passo di Elios. Si guardava intorno con velata curiosità, mista a un che di noia.
Ad Elios sembrò un buon momento per parlare di qualche cosa con il suo nuovo socio –così gli aerei più vicini avrebbero capito che non c’era nulla da temere nella presenza del Signore vulcanico, senza che Elios dovesse spiegarlo loro direttamente - , tuttavia, come prima di partire per attaccare Carrapax, non gli venne in mente nulla che non sembrasse stupido di cui discutere, e rimase in silenzio. D’altronde, Elios era troppo impegnato a ricordarsi il discorso per convincere i suoi compagni e a dimenticare il volto confuso e addolorato di Carrapax, attaccato alla sprovvista. Quella faccia che gli tornava in mente a intermittenza lo irritava, e lo irritava vedere come Orrore Profondo fosse tranquillo, si trovasse a suo agio in quel territorio, il territorio di Elios che al contrario cominciava quasi a sudare.
Il primo contatto con un gormita fu fatto a breve: un aereo dall’aspetto insettoide intento a scavare con una vanga, nei pressi di un albero. Cosa stesse facendo di preciso e perché non oso immaginarlo, ad ogni modo agitava la vanga vigorosamente, spargendo terra morbida a ogni lato.
Udì i passi di Elios e di Orrore Profondo, senza sapere a chi appartenessero. Si voltò interrompendo il suo lavoro, riconobbe il suo Signore Elios, sorrise e cominciò a piegarsi in un inchino.
All’improvviso si immobilizzò, il suo volto cambiò drasticamente non appena pose lo sguardo sul Signore del Vulcano. Spalancò la bocca e gli occhi, e la vanga cadde dalla sua stretta sonoramente.
Elios gli si avvicinò premuroso, corricchiando.
Gli richiuse la bocca, prese la sua vanga e la ripose nelle sue mani.
“E’ tutto a posto, popolano.” gli assicurò con espressione solare e con entrambe le mani sulle spalle.
“Non preoccuparti di lui, di me, di nessuno. Prosegui il tuo lavoro in pace, va bene?”
“Augh.” bofonchiò quello, volendo dire ‘va bene’ ma proferendo solo un gemito gutturale, scosso da quella vista.
Elios ritornò da Orrore, che si era fermato quando il compagno era andato a tranquillizzare il suddito. Non commentò l’accaduto, ed Elios non si sentì di farlo: silenziosamente ripresero il percorso verso Orsol, mentre, preoccupato, l’aereo incrociato continuava come intimato a scavare, guardandosi continuamente indietro.
I due Signori continuarono il loro cammino nel sentiero brullo contornato da delicati alberi e luci offuscate con le stesse emozioni e le stesse movenze di prima, come se il breve incontro non fosse avvenuto. Un episodio simile non si ripeté per un bel pezzo, mentre in lontananza cominciavano a farsi vedere le prime abitazioni.
“Praconrem!” urlò Elios all’improvviso, bloccandosi.
Orrore continuò di qualche passo, prima di voltarsi e guardare Elios interrogativo.
“Mi ero quasi dimenticato. - precisò, turbato - Sta’ attento agli arcieri nascosti, potrebbero colpire”
“E me lo dici adesso?!” chiese Orrore irato, che era stato in pericolo sin dall’inizio, senza saperlo.
“Di’ loro qualcosa, se sai che ci sono.” gli intimò.
“E se non mi volessero ascoltare?” ipotizzò Elios.
“Sei il loro Signore, diamine. Devono ascoltarti. Faranno meglio ad ascoltarti, e a prendere bene la mira se non lo fanno. Facile immaginare cosa sarà di loro se mi colpiscono senza uccidermi.” lo convinse temibile.
“Va bene, va bene…” lo calmò Elios, più annoiato che preoccupato dalla reazione aggressiva di Orrore.
Invitò dunque Orrore Profondo a seguirlo, a continuare a camminare mentre Elios parlava alle guardie mimetizzate: “Arcieri e sentinelle nascoste, abbassate le armi! Costui non è un nemico, non è una minaccia! E’ tutto sotto controllo, non attaccatelo!”
Ripeteva tali parole ad ogni tratto di strada, fino a giungere in tutta sicurezza al punto dove cominciavano a spuntare come funghi le raffinate abitazioni del Popolo dell’Aria, ai bordi del sentiero o scavate nel fianco della montagna.
Nonostante Elios continuasse a tranquillizzare tutto e tutti della non - pericolosità di Orrore Profondo, le reazioni non furono certo delle più pacifiche. Tutti i cuccioli furono portati di corsa in casa, madri e anziani sbarravano ogni finestra, padri e giovani ma abili gormiti chiudevano le porte di casa e scrutavano i movimenti di Orrore da dietro i pertugi, con le armi pronte oltre le difese di legno delle entrate. I gormiti che rimanevano per la strada si irrigidivano, cauti, con difese preparate, e si mobilitavano solo quando il Signore del Vulcano era passato oltre, continuando però a tenerlo sott’occhio fin dove la vista poteva.
“Non mi piacciono le vostre case.” espresse a un certo punto Orrore, senza essere interpellato.
Elios fu stupito di quella autonoma, presa di parola e domandò: “Perché?” senza dare grande importanza alla domanda stessa quanto alla discussione pacifica che stava per avere con il suo socio.
“Sono troppo…artistiche. Tutti quei fronzoli, e le rifiniture. Sono inutili. Li capirei se fossero nella sede del Signore, in un…un museo, una chiesa, che devono mostrare potere. Ma nella casa di un popolano qualsiasi? Non ha senso.”
“Non so che dire.” si ritrovò a dire Elios, pentendosi di quanto appena detto, dal momento che era sua intenzione avere qualcosa da dire per entrare in confidenza
“Non facciamo arte per potere. Facciamo arte… - fece spallucce - per arte. E la facciamo ovunque. Ci piace vedere cose belle ovunque.”
“E’ solo uno spreco. - criticò Orrore - Le case dovrebbero essere spaziose e sicure, prima che belle”
“Dove sta scritto che non sono sicure?” domandò irritato Elios. Chi si credeva di essere? Insegnare l’arte agli artisti più rinomati dell’isola, e criticare il loro operato.
“E - e voi allora? Perché non fate le case tonde, come i terricoli -” lo provocò, senza sapere se il suo argomento fosse effettivamente valido - Perché faticare a farle quadrate?”
“Le case tonde sono…instabili. - spiegò il Signore del Vulcano, che si mostrava più colto di quanto non desse a vedere - E difficili da riparare.”
Elios sbuffò, e non replicò, non volendo continuare a discutere né sentire altre critiche su ciò che faceva il Popolo dell’Aria, e soprattutto temendo di riempire il discorso di falsità e baggianate, non essendo lui stesso molto colto.
La possibilità di Elios e di Orrore di continuare la chiacchierata fu ulteriormente compromessa quando, ormai entrati ad Orsol e con il maestoso palazzo del Signore di Picco Aquila in vista, furono avvicinati dal Saggio Noctis.
Aveva un aspetto…consumato, e diverse rughe sul volto, forse occhiaie, nonostante fosse il più giovane dei Signori precedenti, e indubbiamente uno dei più giovani Saggi che siano mai esistiti. Evidentemente la vita da politico ‘passivo’ non faceva per lui, oppure voleva continuare ad essere attivo come un Signore, e il suo lavoro lo sciupava o gli lasciava poco per dormire.
Ad ogni modo, si mostrò ancora vitale nella corsa che fece verso Elios, e nella sua parlata veloce e dal timbro acuto quasi come quella di un bambino.
“Elios!” lo salutò con nessuna riverenza, gioioso, ignorando Orrore al suo fianco, almeno inizialmente.
“Dove sei stato fino adesso? Che cos’hai fatto, eh? Dovevi essere rientrato molto prima del tramonto!” gli domandò con tono di rimprovero, abbandonando parzialmente la gioia nel rivederlo.
“E che ci fa lui qui?” continuò a porre quesiti senza attendere risposte, puntando gli arpioni delle sue braccia contro Orrore e lasciando definitivamente ogni barlume di contentezza.
“Che cosa è successo là fuori? Non dirmi che ti ha preso in ostaggio! Ah…ah, ho capito! Ti sta manipolando con la mente! Ah, Fendril, te l’avevo sempre detto di esercitarti sulla mente, e anche con la magia! Elios, so che mi senti, resisti al suo controllo!”
Orrore Profondo avanzò temibile, mentre Elios, intontito da tutto quel parlare, rimaneva in silenzio.
“Stai indietro, vordiats !” gli ordinò con un pesante insulto nella lingua gormitica originale, saldo al suolo, agitando nervosamente ma senza paura i due arpioni appuntiti.
Senza che Noctis potesse fermarlo, Orrore Profondo gli prese un polso, lo bloccò, e lo strinse forte. Ma la sua offensiva si fermò lì. Il Saggio dell’Aria aprì la bocca per il lieve dolore, ma non fece alcun gemito. Guardò Orrore negli occhi, attendendo la sua prossima mossa o l’interruzione di Elios. Tutto nel giro di pochi secondi.
“Dovreste portare un po’ più di rispetto al vostro Signore. - sibilò Orrore, stringendo Noctis in una presa di marmo - Dargli del voi, magari. Non trovate, Saggio?”
“Orrore!” lo sgridò Elios, prevedendo come la situazione avrebbe potuto degenerare, e stringendo il braccio del socio vulcanico con una vigorosa stretta –nulla di paragonabile alla sua.
Il Signore del Vulcano lasciò andare Noctis, sbuffando. Elios lo scansò con una gomitata, ponendosi tra lui e Noctis.
“Scusalo. - disse al Saggio, guardando male Orrore - Sai come sono fatti, no?”
“Che cosa significa tutto questo, Elios?” gli domandò severo e imperioso.
“Saprai tutto a tempo debito. - gli promise il suo Signore - E non solo tu: tutti lo sapranno. E non solo ad Orsol. Raduna i cittadini. Devo…devo fare un discorso, e spiegherò ogni cosa.”
Noctis rimase immobile e muto, confuso da quella serie di eventi, massaggiandosi il polso stretto da Orrore Profondo.
“Dai!” lo incitò Elios, notando che non si smuoveva. Noctis obbedì con un grugnito, e se ne andò.
Lui e Orrore Profondo si diressero dunque al palazzo signorile, tra gli sguardi attoniti e preoccupati degli aerei nei paraggi, mentre ancora più attoniti venivano convocati, nessuno escludo, da Noctis nella piazza dietro alla torre del palazzo, davanti al balcone dove i Signori discorrevano.
Elios non disse nulla ad Orrore lungo il tragitto, né accadde il contrario. Il Signore del Vulcano trovò nuovamente qualcosa da dire riguardo l’arte degli aerei, criticando i soggetti delle sculture e dei quadri, che nella reggia del Vulcano erano esclusivamente di tema guerresco e mettevano in risalto il valore del combattimento e dell’onore. Rimase qualche minuto incantato ad osservare un ritratto del Vecchio Saggio –o così diceva l’etichetta sotto il quadro - prima di salire le scale per il balcone. Indossava una veste più raffinata e decisamente più pulita di quella con cui lo si vedeva di solito, e sul volto e sul capo non c’era traccia di quei lunghi peli e capelli che mostrava in quel tempo, né rughe.
Elios e Orrore salirono infine le fatidiche scale, raggiunsero il fatidico balcone, osservarono una fatidica folla radunata da Noctis in poco tempo.
Il cuore di Elios batteva fortissimo. Ora o mai più, tutto o niente. Uno dei cambiamenti più sconvolgenti mai accaduti a Gorm stava per accadere…o per essere abbandonato per sempre.
Deglutì, mentre sentiva come se dimenticasse ogni cosa che si era prefissato di ricordare, davanti a lui una folla sorpresa e confabulante, che esigeva risposte.
Era davvero un enorme pubblico. Come lo aveva attirato Noctis in così poco tempo? Forse Orrore si era fermato a guardare il ritratto più di quanto sembrava, o la scalata dei gradini era durata davvero tanto, e non era solo un’illusione dell’ansia di Elios. Per quanto grande fosse la folla, comunque, non era tutto il popolo di Orsol –che la piazza non avrebbe potuto contenere. Non era importante che tutta la città sapesse subito, o che tutto il Popolo approvasse. Era necessaria solo più della metà dalla parte di Elios, e il resto si sarebbe adeguato. Così funziona la democrazia.
Il timore svanì, Elios riprese memoria di ogni cosa, quando volse lo sguardo verso Orrore Profondo, e questi annuì, assicurandogli che nulla sarebbe andato storto.
Dunque parlò.
“Popolo dell’Aria, mio caro Popolo, mia famiglia. Voglio essere chiaro e rapido, perché la verità è una sola, e voglio che la capiate bene: ho pattuito un’alleanza con il Popolo del Vulcano.”
Un mormorio di terrore e di incredulità si sparse per la piazza. Quelle parole erano tremende, tragiche. La freddezza e la semplicità con cui Elios le aveva dette fecero preoccupare oltremodo ogni singolo gormita presente, e alcuni addirittura se andarono, con le orecchie tappate, non volendo credere a ciò che stavano sentendo.
Come poteva essere? Cosa era successo? Perché? No, non potevano abbandonare la piazza senza avere risposte a quelle domande. Elios si stava giocando la sua posizione di Signore se quella scelleratezza era vera. Un caos indescrivibile, illazioni nei confronti di Elios, diti puntati si mescolarono nella piazza presso il balcone.
“Popolo dell’Aria, calma, per favore!” comandava Elios, già pronto per la disfatta, ma deciso a rivelare tutto prima di venire spodestato o esiliato.
“SILENZIO.” urlò infine con un tono e un’espressione indiscutibili, aumentando la propria voce con un incantesimo.
Tutto il Popolo tacque infine, per educazione e il buon temperamento tipico dei gormiti dell’Aria, ma tremava in brontolii e disapprovazione. Le risposte e le giustificazioni per tutto ciò dovevano essere date, e le avrebbero ascoltate in silenzio, ponderandole con giudizio e calma, come da etichetta.
“Non ho accettato quest’alleanza così alla leggera, ho avuto i miei buoni motivi, e sono sicuro che sono abbastanza buoni anche per tutti voi.”
“Innanzitutto, sappiate che il Popolo del Vulcano non è solo una macchina da guerra. E’ molto di più, e abbiamo molto da imparare dalla sua cultura. So che siete preoccupati per le conseguenze che quest’alleanza porterà. Se l’Aria si schiererà con il Vulcano, un conflitto di ideali sarà inevitabile, con i Popoli tuttora nostri amici. Ma solo perché i vulcanici son sanguinari, e non possiamo biasimarli se questa è la loro natura, non significa che anche noi, in qualità di loro alleati, dobbiamo esserlo o diventarlo. Il conflitto che si genererà non deve per forza finire nel sangue, e io farò di tutto perché ciò non debba accadere. E ora ascoltatemi, per favore. Il conflitto si baserà sugli ideali: è su di essi che lo Stregone di Fuoco mi ha fatto riflettere, e voglio far riflettere anche tutti voi.
Noi ci siamo opposti al Popolo del Vulcano perché vuole il possesso dell’Occhio della Vita, oltre che per la loro natura così aggressiva nei nostri confronti e per ciò che hanno fatto. Noi, insieme agli altri Popoli, crediamo, per ciò che ci ha rivelato la nostra guida il Vecchio Saggio, che l’Occhio della Vita, gigantesca fonte di energia, sia pericolosa e non possa essere utilizzata. Crediamo sempre che quindi l’Occhio debba essere distrutto, perché non sia più una minaccia. Il Vecchio Saggio si occupa di trovare un modo per distruggere l’Occhio della Vita in modo sicuro, senza creare danni. O questo è quello che vuole farci credere. Siamo davvero sicuri che il Vecchio Saggio si stia impegnando per distruggerlo e non lo stia usando per i propri scopi? Ci ha forse mai aggiornato sui suoi progressi nello studio, o rivelato ciò che ha scoperto? E anche se davvero volesse distruggerlo, siamo certi della sua pericolosità? Dove sono le prove? Siamo certi che la distruzione sia l’unica via da seguire? Mag…lo Stregone di Fuoco mi ha illustrato alla perfezione le infinite possibilità dell’infinita energia dell’Occhio della Vita.”
Qui un altro mormorio turbato si alzò tra la folla. Elios aveva parlato con l’innominabile Stregone di Fuoco? Lo aveva visto? Era qualcosa di difficile da credere, e allo stesso tempo riempiva i sudditi di Picco Aquila di soggezione verso Elios: il gormita esterno al Vulcano che aveva veduto il misterioso e potente Stregone di Fuoco, ed era tornato per portare a loro le sue conoscenze.
“Con il suo potere, possiamo migliorare, accelerare il nostro progresso, la nostra evoluzione! Potremo creare di tutto, conoscere tutto. E con la sua energia, potremo andare oltre i confini dell’Isola di Gorm, oltre i confini dei questo pianeta, e condividere l’enorme potere di questo dono con le altre specie, aiutare, illuminare le altre civiltà, che mai potranno ringraziarci abbastanza per questa generosità!”
Elios alzò le mani al cielo, trionfale, indirizzando le proprie dita e il proprio sguardo all’infinito delle stelle: l’Occhio della Vita poteva portarli fin lassù, a scoprire le altre civiltà del cosmo, rivelare ogni segreto nascosto nei più lontani meandri dello spazio scuro.
Rimase un attimo in silenzio, soddisfatto del proprio storico discorso e della reazione che ebbe tra i suoi sudditi: la disfatta di Elios avrebbe atteso un’altra occasione. In quel silenzio, lasciò i propri popolani a riflettere sulle sue parole, e a porre le loro domande, rivelare i loro dubbi.
“Come fate a essere sicuro che l’Occhio della Vita sia una fonte di energia così potente?” fu la prima delle domande, a cui Elios impiegò poco per trovare una risposta.
“Il Vecchio Saggio lo aveva sempre detto, nelle sue predicazioni. Mai qualcuno aveva osato metterlo in dubbio. Perché farlo ora? Perché lo dice anche Magor? Forse non ci avevate mai creduto, ma è la verità. Sono sicuro che è la verità.”
“Non mi schiererò mai con il Vulcano. - esclamò deciso un altro, incrociando le braccia - Ricordate cosa ha fatto a noi, a tutti i gormiti, trenta e più anni fa, e di cosa ci ha fatto passare durante la guerra.”
“Ricordo bene. Come potrei dimenticare? Il Grande Sacrificio ha segnato tutti noi, Vulcano compreso. Ma tu dimentichi forse cosa lo ha scatenato. No, non è lo Stregone di Fuoco la risposta. Lui ha solo fatto sì che accadesse prima, ma è un evento che sarebbe accaduto ugualmente. La nostra discriminazione, i nostri abusi di un tempo, causa di rabbia, odio, rancore repressi che si accumulavano sempre più, che erano destinati a scoppiare. Non posso dire che ce lo meritavamo, e nemmeno che è stata una cosa giusta, nemmeno i vulcanici o lo Stregone lo credono, fidatevi di me, ma è qualcosa che i nostri antenati avrebbero dovuto prevedere, degli errori che avrebbero dovuto riparare molto tempo prima, o non aver mai commesso. Per quanto riguarda la Grande Guerra, non è stato il Vulcano a volerla, fu solo un’idea di M…dello Stregone di Fuoco di cui non aveva parlato a nessuno, e che ha ammesso di essere stato uno sbaglio.”
Diverse di queste cose non gli erano state dette da Magor personalmente, gliele rivelò Orrore Profondo durante la ricerca di Carrapax, e al ritorno –Elios aveva chiesto e Orrore risposto.
Elios si era fatto molto serio, e quasi mesto, al parlare di quei due grandi eventi del passato, quelle due tragedie, che lui stesso non era del tutto sicuro potessero essere giustificate a quel modo. Poi alzò lo sguardo, sereno, e spalancò nuovamente le braccia.
“Ma è tempo di smettere di struggersi nei rancori di un tempo. Lasciamoci alle spalle il passato, e guardiamo al futuro, al ricco futuro che ci aspetta!”
Elios fu pronto a continuare il suo discorso illustrando i doni per il Popolo dell’Aria, quando Noctis, presente anche lui nella piazza, del tutto contrariato da tutto ciò che usciva di bocca ad Elios, prese parola.
“Cosa ti fa credere di avere il diritto di usare l’Occhio della Vita per… per ‘illuminare’ le altre civiltà, che immagino voglia dire dominarle? - domandò - Solo perché si trova sull’isola dove sei nato, pronto da usare? Se io avessi una lama tra le mani, sarei giustificato se ti pugnalassi?”
Parole colte e ben pensate, quelle di Noctis, e diversi aerei nella piazza dovettero concordare con i suoi pensieri, espressi così magnificamente. Ma Elios non fu intaccato.
“Sagge parole, Noctis. Ma qui la situazione è diversa: non stiamo parlando di un’arma qualsiasi, di una miniera d’oro o di un grande carico di bestiame. Hai ragione, sono troppo lungimirante a credere di poter prendere sotto il nostro braccio intere civiltà, ma l’Occhio della Vita è un dono degli dèi che non migliorerà le nostre vite venendo venerato o distrutto.”
“E che non sprecheremo. - e qui continuò il suo discorso, con l’opposizione di Noctis che andava svanendo - Lo Stregone di Fuoco non ha scelto a sorte il Popolo a cui chiedere l’alleanza. Ha visto in noi Popolo dell’Aria il meglio che la civiltà gormitica ha da offrire, sotto certi aspetti. La nostra educazione, la nostra arte, la nostra magia: sono questi i nostri pregi. Il Popolo dell’Aria è l’emblema della ricchezza culturale e artistica della genie dei gormiti, mentre il Popolo del Vulcano rappresenta al massimo possanza e la supremazia militare di noi gormiti. Con noi due a rappresentare l’intera società gormitica, appariremo come un dominatore potente e temibile e allo stesso tempo ricco e colto. Con il nostro dominio sull’Isola, quando avremo l’Occhio della Vita, ogni gormita di ogni Popolo imparerà ad apprezzare l’arte, a realizzare arte, a parlare bene, a vivere bene, come noi sappiamo fare più degli altri.”
“Questa è un’offerta allettante. - si intromise un aereo, contento - Sapeste le cose che vedo…sento. Gormiti che si lavano solo una volta a settimana! Potremo migliorare le loro condizioni.”
“Sono d’accordo. - disse un’altra - E insegneremo loro a curarsi del proprio aspetto. Tutti scorrazzano nudi, senza pudore, e quando si vestono sono stracci sporchi che hanno addosso. Le altre civiltà non vedranno nulla di simile.”
Elios stava avendo successo, e non aveva ancora finito.
Noctis era sempre più contrariato, e non poteva credere che c’era qualcuno dei suoi che potesse trovarsi d’accordo con quelle stupidaggini.
“Come potete giudicare gli altri Popoli da come si vestono o da come si lavano?” chiese esterrefatto. Non ricevette risposta, e le sue domande furono soffocate da Elios che continuava il suo discorso.
“Non finisce qui: per ringraziarci di accettare la sua proposta, Magor (ora non aveva timore di nominarlo) ci ha offerto dei doni: esperti e instancabili minatori a poco prezzo per il progetto Fortezze Volanti, che grazie al loro aiuto sarà completato entro pochi anni. E in più, dei potenziamenti magici. Dei veleni ricavati da speciali piante che ci conferiranno una prontezza di riflessi impareggiabile.”
I presenti accettarono con riluttanza che il progetto segreto venisse così apertamente rivelato, ma all’idea di prendere dei veleni per potenziarsi cambiarono del tutto atteggiamento. Si fecero più sospettosi…ma anche ambiziosi.
“Magor vi ha dato questo veleno? Funziona?” domandò dubbioso uno.
“Certamente, e sono pronto a darne prova.” esclamò Elios, indicando se stesso con il pollice.
Dunque, balzò giù dal balcone –Orrore lo seguì poco dopo - e planò piano piano in un’area, vicino al gormita richiedente, che i vicini facevano più larga per l’atterraggio del Signore.
“Colpiscimi…o provaci.” lo sfidò il suo Signore, aprendo le braccia, sicuro di sé.
Il gormita fu titubante in un primo momento. Non se la sentiva di attaccare il suo stesso Signore. Ma visto che non correva alcun rischio ed era curioso di sapere gli effetti di quel veleno, attaccò.
Tutti i suoi colpi, o quasi, furono intercettati da Elios ed evitati o parati per un contrattacco, e tutti i presenti poterono constatare che la rapidità con cui evadeva dalle mosse dell’avversario era qualcosa di mai visto prima.
“Soddisfatto?” gli domandò ridente Elios, dopo averlo fatto cadere con uno sgambetto.
“S - soddisfattissimo, mio Signore!” balbettò tra le risate il tale.
“Lo sarai ancora di più quando lo riceverai” gli promise, porgendogli una mano e alzandolo da terra “Ma non ora. Ci sono altre città a cui devo parlare” Dava per scontato che tutti i presenti si trovassero d’accordo con lui. Non era così.
“Elios, Elios! Quanto sei caduto in basso! - gli rinfacciò Noctis, triste, scuotendo la testa - Non credi a nulla di quanto hai detto riguardo l’Occhio della Vita, non è vero? Tu vuoi solo il dominio, e quei poteri. Sei stato avvelenato dalla bramosia!”
“Come osi?” sibilò Elios bieco, non credendo di dover mai rivolgere quelle parole e in quel tono a Noctis, suo predecessore e suo mentore.
“Oso eccome! - disse - Falcosilente! Falcosilente, dove sei? Ah, eccoti!” si scrutò attorno, cercando il volto del fratello e consigliere di Elios. Al sentirsi nominato ed osservato, il nobile Falcosilente si fece piccolo piccolo.
“Non hai nulla da dire a tuo fratello? Davvero niente?”lo interrogò esigente. Falcosilente abbassò il capo per la vergogna.
“Niente di niente? - ripeteva Noctis, scuotendo deluso il capo - Che vergogna! Tu, il più aggraziato e colto aereo che conosca, che concorda con tutte queste fesserie. Dovresti essere qui a far cambiare idea a tuo fratello, e non nasconderti tra gli altri e acconsentire a tutto quello che dice.”
“E dov’è vostro padre, per Melis? Eh! Quel diavolo! Dovrebbe dare dei ceffoni a tutti e due per la vostra condotta.”
Elios gli si parò davanti furioso, quando questi si mosse in ricerca di loro padre.
“Non toccare la mia famiglia, Noctis!” sbraitò, con un dito accusatore quasi nell’occhio al Saggio.
“Non ti…vi permetterò di fare leva sui miei familiari.” Corresse il tu con il voi strategicamente. Già aveva dato mostra della propria nobiltà difendendo verbalmente suo fratello e suo padre, e dare il voi al Saggio era segno di ulteriore nobiltà, che stava a significare che nonostante il contatto con il Signore del Vulcano e il tremendo Magor, Elios era ancora uno di loro: un valoroso e promettente gormita di Picco Aquila.
“Non avete abbastanza parole per difendere la vostra causa, e pregate i miei familiari, i miei, che trovino le parole per voi. Disgustoso.” lo schernì.
“Non vi lascerò continuare a criticare offensivamente le mie idee. La maggioranza ha deciso, credo. Quindi, potete rimanere in questa città e adempiere ai vostri compiti di Saggio o rischiare l’esilio continuando a infamare la mia famiglia.”
Noctis non voleva crederci. Lui, il primo Signore dell’Aria dopo il Grande Sacrificio minacciato di esilio da quello sporco traditore! Cosa aveva fatto Magor a lui? Tutto ciò era impossibile. Elios non poteva credere davvero a tutte quelle cose, e nemmeno i suoi stessi compagni. Oppure sì?
Ma Noctis non sarebbe vissuto in una tirannia dell’Aria. Non aveva nulla in contrario ai vulcanici –non più di altri: un giorno avrebbero dovuto vivere in pace - ma molto verso le loro idee, che avevano portato a diversi abomini. Finché quelle idee vivevano, Noctis amico del Vulcano era un sogno irrealizzabile.
“Sei una disgrazia per il Popolo dell’Aria!” decretò, segnando il suo abbandono da quella città.
“E voi siete nominalmente esiliato da Orsol e da Picco Aquila. - replicò Elios, impassibile - E presto lo sarete ufficialmente. Vi invito ad abbandonare ogni proprietà e lasciare il dominio dell’Aria il più presto possibile.”
“Delle ultime parole?” domandò, con Noctis che già gli aveva voltato le spalle. Non era una domanda sarcastica. Era sincera. Elios non era malvagio, anche se qui lo sembra, ma non poteva permettere che l’alleanza andasse a rotoli per un solo gormita, che minacciava la sua famiglia di dirgli qualcosa in merito.
“Sono davvero l’unico idiota che crede che quest’alleanza sia sbagliata? Non c’è nessun altro?” chiese a gran voce, voltando il capo da un lato all’altro della piazza. Niente movimenti.
“Nessuno?” chiese in un sussurro, con le lacrime agli occhi.
Infine ci furono dei movimenti. Passi, battiti d’ali piumate e da insetto. Un discreto numero di gormiti che usciva dalla folla incantata da Elios e si affiancava a Noctis e affrontava con forza l’esilio dal Popolo dell’Aria e dalla loro casa. Erano meno di venti, molto pochi. Quel numero rattristò Noctis –il Popolo dell’Aria era perso - ma lo ravvivò allo stesso tempo: c’era qualcuno ancora con la testa a posto.
Elios li lasciò fare senza dire o fare nulla per convincerli a restare. Vigeva libertà di parola e d’azione, ed Elios l’avrebbe fatta rispettare.
Falcosilente mosse un passo, senza essere visto o udito da nessuno. Forse. Voleva andare insieme a Noctis: l’idea di dominare gli altri Popoli, di dominare altre genti con il potere dell’Occhio della Vita, era malsana. Molti di loro si erano fatti ammaliare da quei sogni di conquista e dai doni di Magor, ma non lui. Ci voleva ben altro per spezzare la sua morale. Tuttavia, era riluttante ad abbandonare Elios. Suo fratello, il suo primo amico, il migliore amico che ebbe, a cui diede molto e che diede altrettante. Era suo consigliere, il gormita più fidato che avesse tra quelle fila. Come poteva abbandonarlo in quella nuova ‘avventura’? Elios si sarebbe disperato se suo fratello se ne sarebbe andato proprio ora. Cosa fare? Tradire il migliore amico e fratello o milioni di gormiti, tra cui diversi conoscenti?
Falcosilente ritrasse la propria gamba, e si rimise al suo posto, lo sguardo basso.
“Mi dispiace di dovervi esiliare tutti. - dichiarò Elios, sospirando - Mi dispiace davvero. Siete tutti buoni gormiti, vi conosco. E dimostrate grande valore affrontando l’esilio per non abbandonare i vostri principi. Siete esemplari. Ma mi trovo costretto a esiliarvi. Non verrete dimenticati, e quando trionferemo verrò a cercarvi per chiedervi di rientrare tra noi. E se non dovessi essere presente, quel giorno, farò in modo che i miei successori siano benevoli.”
***
“Alos, anche tu?” domandò Noctis, sbattendo rapido le ali nella notte, ancora rattristato, ma sorpreso di vedere il lottatore di Astreg tra coloro che ancora credevano nella malvagità dei piani di Magor.
“Pensavo che saresti rimasto, all’offerta dei veleni.”
“Mi offendete, Saggio.” replicò il tarchiato e muscoloso gormita dell’Aria, dal fiero piumaggio azzurrino e il volto come quello di una civetta, i profondi occhi neri.
Aveva partecipato, raggiungendo la semifinale contro Gravitus, al primo Torneo di Astreg ufficiale dopo il ritorno dei gormiti. Negli anni successivi alla guerra, a cui aveva attivamente preso parte, era arrivato in buone posizioni in tutti e tre i Tornei che si erano tenuti, raggiungendo la finale solo una volta, senza mai vincerla.
“Non credo in nulla di ciò che ha detto. - affermò risoluto, stringendo le tre dita gialle in un pugno, mentre le grandi e spesse ali bianche volteggiavano flemmi - E per quanto naturali possano essere, solo l’esercizio e la fatica potranno rendermi più forte, non un’iniezione.”
“Capisco, scusami, Alos.” sospirò Noctis, continuando ad avanzare nel nero stellato.
“Non vi preoccupate, Saggio.” lo rassicurò il lottatore, che si mostrava piuttosto loquace, quando solitamente parlava poco e abbastanza freddamente. Ma la situazione in cui si trovavano aveva scosso tutti loro nel profondo, e il loro atteggiamento ne era uscito segnato,
“Non sono più Saggio, Alos.” mormorò Noctis chiudendo gli occhi per un istante, pensando con malinconia a tutte le cose che aveva perso, tutto ciò che potevano ancora perdere.
“Non siamo più niente.” disse, mesto e convinto, volando insieme alla sua piccola compagnia come rondini perdute nella notte oscura e temibile “Non significhiamo più nulla per il Popolo dell’Aria”
L’oscurità e il silenzio scesero su di loro, battendo le ali con rassegnazione e triste lentezza, mista a un vago desiderio di riscatto.
I cupi alti alberi della Foresta Silente, di notte tanto pericolosa quanto lo stesso Monte di Fuoco, frusciavano al vento freddo sotto di loro, mentre le loro teste chine per la desolazione erano sovrastate da un cielo nero e nuvoloso. Nessuna stella illuminava il loro confuso cammino, nessuna delle tre lune ravvivava la speranza degli esiliati con il fioco barlume della luce riflessa del sole.
Erano completamente spogli, nudi. Niente sulla loro pelle piumata, ricoperta di delicato pelo o a volte solo squamosa esaltava la loro già innata bellezza.
Le proprietà che dovevano abbandonare secondo le regole dell’esilio includevano anche i loro ricchi e costosi indumenti, che mai avrebbero più indossato. Tutti i loro averi, compresi figli, oggetti di grande valore materiale e affettivo, ogni cosa era stato loro strappata via.
“Noctis, cosa sarà di noi? - domandò supplichevole e rassegnato uno tra i suoi seguaci - Cosa sarà del Popolo dell’Aria?”
“Hai visto come Elios è riuscito a persuadere tutta Orsol.” dovette ricordargli Noctis, e il solo rammentare delle fandonie, dei folli sogni di conquista e della corruzione che così facilmente e velocemente si erano impossessati degli animi e dei cuori di quei gormiti così raffinati e inflessibili lo riempì di lacrime, di desolazione, di vergogna.
“Temo che il Popolo dell’Aria sia caduto, e forse non vivremo abbastanza per vederlo rialzarsi.” proferì tristemente sicuro di sé.
“L’unica cosa in cui possiamo sperare, il massimo per cui possiamo pregare, è che ci siano altri come noi, nelle altre città, che temono più il tradimento che l’esilio.”
“Abbiamo davvero così poca speranza? Il Popolo dell’Aria è davvero perso per sempre?” pianse una gormita, che aveva dovuto abbandonare diversi suoi familiari pur di rimanere sulla retta via.
La certezza di essere gli ultimi veri gormiti dell’Aria fu tale che nessuno ebbe abbastanza coraggio da rispondere.
“Io non posso crederci! - esclamò adirato un anziano guerriero alato - Dove abbiamo sbagliato? Perché si sono fatti corrompere così? Dannazione! Non può essere vero, non possiamo essere gli unici che capiscono ancora qual è il nostro posto! Ci dev’essere qualcun altro.”
“Noctis, che cos’hai intenzione di fare -” domandò lo stesso gormita - Non possiamo rimanere in silenzio.”
“Non rimarremo nascosti. - lo rassicurò Noctis - Elios non può essere in molti luoghi contemporaneamente, e questo ci darà tempo. Tempo per avvisare gli altri Popoli e il Vecchio Saggio di quello che sta succedendo. Non sappiamo come agirà Elios quando avrà il Popolo dalla sua parte, ma sono sicuro che il Vulcano ha forze già preparate, già in movimento pronte a colpire se qualcuno dovesse opporre resistenza. Prima li informiamo, meglio sarà per tutti.”
“Ma, fratelli, voi non siete obbligati a seguirmi.” disse loro premuroso, fermandosi e arrestando il volo dell’intero gruppo, voltandosi e guardando ognuno di loro negli occhi, uno, due, tre o quattro che fossero. Erano davvero pochissimi.
“La nostra resistenza ci metterà in una situazione pericolosa. Non ho più molta fiducia delle parole di Elios, e potrebbe non esitare a toglierci di mezzo se ci mettiamo sul suo cammino. Per il vostro bene, pensateci. Potete andare a fare fortuna in qualche Popolo, finché non comincerà la guerra, ma almeno non sarete nell’occhio del ciclone. Potete anche ritirarvi a Karmil, lì sarete ancora più al sicuro.”
“Mai, Noctis. - affermò deciso Alos - Non fuggiremo. Abbiamo perso Picco Aquila, ma Gorm è ancora in piedi. Lotteremo fino all’ultimo per difenderla.”
“E non ti abbandoneremo. - seguitò un altro compagno - Sei il più forte di tutti noi. L’unico che ha avuto il coraggio di porsi apertamente contro Elios, mentre noi siamo rimasti muti tutto il tempo, anche quando decidemmo di seguirti. Combatteremo al tuo fianco, Noctis.”
“Vi ringrazio di cuore, per questa fiducia.” Noctis espresse la propria gratitudine con delle scarse lacrime, di gioia questa volta, conscio di venire nuovamente incaricato di guidare la sua gente, sebbene ora fosse un Popolo molto più ristretto. Ma questa volta sarebbe andata meglio: il veleno di Magor, che fosse magico o fatto di parole, non avrebbe compromesso le sue azioni.
“Non vi deluderò, questa volta, e non farò gli errori di Elios. E’ una promessa.”
“Dove andiamo adesso? - chiese frenetico l’anziano aereo di poco prima - Qualcuno sa dove si trova il Vecchio Saggio?”
“Notte fonda non è il momento migliore. - lo raffreddò la loro guida - E insieme al Vecchio Saggio devono esserci tutti i Signori. Ora cerchiamo un posto sicuro, cerchiamo di dormire, e domani informeremo l’Isola del tradimento.”
Il gruppo di esiliati fu d’accordo con l’idea dell’ex - Signore. Accelerarono il loro volo, cosicché, oltre che a raggiungere prima la meta, la crescente stanchezza avrebbe permesso loro un minimo di riposo, cosa che gli avvenimenti di quel nefasto giorno minacciavano di negare.
Gli occhi degli alati viaggiatori si fecero strada attraverso il buio imperatore fino a scorgere la chiara sabbia e il lucido marmo di Iustinsula. Rocca antica che aveva visto e vissuto più di qualsiasi gormita che ancora calpestava il suolo dell’Isola, casa di tutti i gormiti, rifugio sicuro e inviolabile.
Si accamparono tra le sue statue e i manoscritti stesi e incorniciati, sperando che le tenebre e le e il lungo volo assopissero le loro membra e calassero le loro palpebre.
“Che tu sia dannato, Elios! A causa tua, la reputazione del nostro Popolo è macchiata per sempre!”
Con una maledizione si chiuse quel giorno funesto, il 101 Redrubise 856.
 
Il bordone del Vecchio Saggio cadde a terra rumorosamente. Con un sonoro affanno di costernazione e incredulità, sentì la terra sotto i suoi piedi cedere, e dovette appoggiarsi con la mano alla bianca parete della rocca per non rovinare a terra dallo sconforto, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata incapace di commentare l’abominevole notizia.
Noctis che lo aveva dovuto informare si unì al suo sconforto, abbassando il capo indebolito mentalmente e chiudendo gli occhi che si erano trovati a trattenere troppe lacrime amare.
Il grande stregone Razael Akkars, un antico nome andato perduto nella storia, più di tutti tremava di fronte a quella nuova e dolorosa verità. Lui che aveva cresciuto i gormiti dell’Aria, così come quelli degli altri Popoli, come suoi figli e fratelli, che aveva insegnato loro quanto più poteva, li aveva salvati dall’annientamento e dato loro una possibilità di riscatto; quei gormiti per cui tanto aveva speso e faticato che credeva eternamente riconoscenti nei suoi confronti, ora gli sfuggivano via dalle mani come sabbia al vento. L’avevano abbandonato senza che lui potesse rendersene conto e tentare di fermarli.
Il Vecchio Saggio cadde definitivamente a terra, poggiandosi sulle ginocchia, a ponderare su quella tremenda nuova realtà, provare a farne fronte, discostando l’incredulità, ripetendosi che era tutto vero, e cercare una soluzione per rialzarsi in piedi di fronte a quella mestizia.
Una piccola canoa addobbata con una quasi invisibile insegna di pezza della Terra approdò all’atollo, con a bordo il nerboruto Signore della Terra e il messo di Noctis inviato a informarlo dei cambiamenti.
Kolossus balzò fuori dalla barca frettoloso e apparentemente innervosito, e cominciò a marciare a passi pesanti e denti stretti, stringendo i quattro pugni a intermittenza.
“Adesso basta! - proruppe, avanzando minacciosamente verso Noctis - Questo è uno scherzo, Noctis! Dimmi che è uno scherzo!”
Gli diede uno spintone con due mani sul petto, notando che tardava a rispondere e dargli ragione.
“E’ uno degli scherzi di Elios!”
“Sono desolato, Kolossus, ma temo di no.” si intromise la voce stanca e addolorato di Barbataus, il frondoso e anziano Signore della Foresta.
La sua imbarcazione, leggermente più grande di quella del terricolo, era arrivata da poco e da essa scendevano due dei messaggeri dell’Aria, Barbataus e dietro di lui il Principe di Gorm nella sua armatura cristallina.
“Picco Aquila questa mattina ha chiuso ogni contatto con la Foresta Silente. Tutte le strade del monte sono state sbarrate. I forestali e altri gormiti esterni che si trovavano nella montagna sono stati fatti uscire, tutti quanti, e le notizie che hanno portato sono state…devastanti, e non ho potuto impedire che tutto il Popolo lo sapesse.”
Barbataus aveva elencato tutti quegli eventi piuttosto…distaccatamente, nonostante si vedesse nel suo volto segnato dal tempo come quel tragico evento lo aveva segnato ancor di più. Adesso si faceva molto più turbato.
“Il mio Popolo sta tremando. - enunciò, rabbrividendo lui stesso - L’Aria è alle nostre porte, siamo in loro balia, e non sappiamo cosa ha in mente di fare, né come e quando lo farà.”
“Elios ieri mi ha colpito. - aggiunse Carrapax, massaggiandosi la nuca in ricordo di ciò che era successo il giorno precedente - Non so perché, ma c’era…c’era Orrore Profondo con lui. L’ho visto.”
“Cosa? Ti ha colpito?” chiese Kolossus preoccupato, avvicinandosi, che nutriva per Carrapax ben altro che la riverenza che mostravano gli altri verso la sua figura di Principe di Gorm, ma una profonda amicizia.
“Ti ha fatto male?” domandò premuroso.
“Nulla di che, ora è tutto passato.” lo rassicurò, abbastanza tranquillo.
Kolossus notò con disapprovazione la sua calma nei confronti di ciò che era successo.
“Dovresti essere arrabbiato, molto. - gli fece notare, arrabbiandosi lui al posto suo - Come fai ad accettare così che qualcuno ti abbia attaccato?”
“E’ successo tutto in fretta, Kolossus… - gli disse turbato - Voglio capire perché mi ha colpito.”
“Perché lo Stregone di Fuoco gli ha dato dei doni che non ha potuto rifiutare.” spiegò Noctis.
Il Vecchio Saggio ascoltava silenzioso e immobile, con la bocca aperta e la barba che toccava terra, il discorso tra i Signori e l’ex - Saggio, ma ora si stava rialzando, raccoglieva il suo bordone, ma non proferiva parola.
“Di che doni stiamo parlando? Siamo sicuri che non gli ha fatto il lavaggio del cervello?” domandò furibondo e incredulo Kolossus.
“Io c’ero quando ha parlato dei doni. - confermò Noctis - E anche loro. - disse allargando le braccia per indicare tutti i suoi compagni - Vorrei anch’io sperare in un lavaggio del cervello, se così fosse c’è speranza per riportarlo tra noi. Ma ha fatto tutto di testa sua, così come anche tutti gli altri aerei.”
“Perdona la domanda, Noctis. - si intromise Barbataus, insicuro che quello che stesse per chiedere fosse pertinente - Hai detto che M…lo Stregone di Fuoco gli ha offerto qualcosa? Elios gli ha parlato? Lo ha visto?”
“Non ve lo so dire. Ha solo detto di come lo Stregone lo ha..illuminato e fatto delle promesse, più o meno materiali.”
“E quali sono queste promesse?” domandò il Vecchio Saggio, che aveva finalmente ritrovata la parola, ma il suo tono era spento, freddo. Chiedeva come se non gli interessasse affatto conoscere la risposta, spinto da un istinto che non approvava, ma che comunque non rigettava.
“Parlava di aiuti in manodopera per il progetto segreto delle fortezze volanti, del dominio dell’Aria sugli altri Popoli, e i gormiti che sarebbero stati modellati secondo la nostra cultura superiore, così diceva. Usare l’Occhio della Vita per conquistare le altre genti, e raggiungere le stelle.”
“Follia! - esclamò il Vecchio Saggio, strappandosi i capelli - Non sono in grado di controllare la potenza dell’Occhio della Vita! Lo Stregone di Fuoco ha sogni di enorme portata, ma pericolosi e destinati a fallire.”
“Perché non l’hanno capito? Perché non mi hanno ascoltato?” sospirò, amareggiato.
“Come è potuto succedere tutto questo?” chiese Carrapax, che mai avrebbe immaginato il Popolo dell’Aria farsi ingannare da simili promesse. Sia lui che gli altri decisero di sorvolare l’argomento delle fortezze volanti, sebbene interessante: non era all’ordine del giorno.
“Credevo che l’Aria fosse un Popolo nobile, che credesse nella nostra amicizia. Rinuncia a tutto questo così facilmente?”
“Qualcosa è andato storto. - propose di chiarire Noctis - Abbiamo sbagliato, noi padri, da qualche parte. Oppure nel profondo il nostro Popolo è sempre stato così. Ma io sono fedele ai miei amici, e mai combatterò fianco a fianco con uno del Vulcano, non finché non si danno una regolata.”
“Elios ci ha traditi tutti, e con lui il vostro Popolo. - asserì Kolossus, più irato che rattristato - Non possiamo rimanere qui. Aria e Vulcano insieme saranno micidiali: dobbiamo difendere le nostre case, prepararci alla battaglia.”
“E difendere l’Occhio della Vita.” aggiunse Barbataus.
“Noctis. - intervenne uno dei suoi - Hai dimenticato i potenziamenti.”
“Praconrem, è vero.” rammentò l’aereo, dandosi una pacca sul volto.
“Che cosa sono questi potenziamenti, adesso?” richiese chiarimenti il Signore della Terra, desideroso di andarsene e comunicare alla sua gente come muoversi.
“Elios ha parlato di un veleno donatogli dallo Stregone di Fuoco. - cominciò - Che Elios aveva. E ne ha dato dimostrazione. I suoi riflessi sono…eccezionali. Può prevedere gli attacchi, e reagire di conseguenza, evitandoli o parandoli. Ve lo assicuro, è portentoso.”
“Hai detto veleno?” domandò il Vecchio Saggio, con un tono più interessato che in precedenza. Quella parola aveva fatto scattare un ricordo e un’idea in lui.
“Sì, un veleno. Aveva un barattolo giallo…”
“E questo veleno accelera i riflessi?”
Noctis annuì.
“Questo…questo mi ricorda qualcosa.” affermò lo stregone, cercando di ricordare meglio, con le mani alla testa.
“Il libro. Quel libro! Sì, lo ricordo benissimo!” esclamò poi aprendo le braccia, mentre i gormiti attorno a lui lo osservavano confusi e incuriositi.
Si piombò dentro la Rocca, senza dare alcuna spiegazione. Forse il libro era lì dentro, tra gli altri reperti e dichiarazioni. Kolossus guardò Carrapax, pensando che forse lui avesse idea di cosa stava succedendo. Il Principe fece spallucce. Barbataus si grattava il capo, e Noctis non sembrava affatto interessato, con l’attenzione rivolta ancora a tutti quegli aerei avvelenati dalle promesse di Magor.
Uscì fuori dopo pochi minuti, sfogliando catturato un largo libro tra le sue mani.
“E’ scritto tutto qui. - illustrò - Quel veleno che potenzia i riflessi, quello che lo Stregone di Fuoco ha senza dubbio usato, proviene da una varietà di grande daicao, i cui denti dispongono di veleni dalle capacità magiche.”
“I grandi daicai? - chiese Barbataus stupito - Credevo fossero delle leggende.”
“Lo credevo anch’io, fino adesso. - confessò - Magor…scusate, lo Stregone di Fuoco ha in qualche modo scoperto la loro effettiva esistenza, ne sono sicuro.”
“E questo come ci aiuta?” domandò Kolossus
“Non capite? Se il daicao dal veleno usato su Elios esiste, forse esistono anche le altre varietà! E potremo usare i veleni di ciascuna per potenziarci, e renderci al pari dei nuovi nemici.”
“Io non sono d’accordo. - rifiutò immediatamente Alos - Non saranno dei veleni a farmi vincere il nemico. E sono convinto che faremo meglio a prepararci militarmente prima che sia troppo tardi, invece di metterci alla ricerca di antiche leggende.”
“Nessuno sarà obbligato a prendere questi veleni, sempre che li troviamo. Solo chi vorrà e chi è pronto.” chiarì il mago.
“La trovo una perdita di tempo prezioso.” si mantenne sulle sue Alos.
“Forse il Vecchio Saggio ha ragione, Alos. - si mise dalla parte della loro guida Noctis - Il Popolo dell’Aria di Elios diverrà più forte, e sono sicuro che lo Stregone di Fuoco ha fatto qualcosa anche al Vulcano. Insieme è una forza pari alla nostra, e se hanno dei potenziamenti la forza sarà addirittura superiore. Dobbiamo tentare.” >>

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Capitolo 27
*** Capitolo 11 ***


Pranzò e cenò in solitudine, facendosi dei tagli sminuzzando per una delle prime volte le erbe e gli aromi per il pastone; proseguì a letto il lavoro a maglia, prendendovi gusto in modo impressionante, più di quanto si fosse immaginato; dormì una notte insolitamente tranquilla, con quel lavoro insieme suo e di Inamia di fianco a lui, sul comodino. Si levò di buon’ora, sotto un cielo miracolosamente limpido, e sopraggiunse con umore tranquillo alla sua cara radura; narrò speditamente e scioltamente del Grande Tradimento di Elios e del Popolo dell’Aria, sotto un cielo temporalesco di incedente piovuta, con una ricchezza descrittiva e patetica un po’ fuori dal normale, ma non spiacevole. Non per lui, almeno.
Si era rapidamente e sinceramente scusato per i suoi bruschi toni del giorno prima con Forteceppo, al che ottenne dei semplici quanto eloquenti cenni e mormorii di assenso. Il Cronista aveva ritrovato una certa tranquillità d’animo, e incredibilmente presto.
Una distensione destinata a una imminente rottura. Il Cronista aveva terminato la sua narrazione, e il silenzio disturbava, avvelenava i suoi nervi. Possibile che i suoi fedeli scolari non avessero proprio nulla da dire? Qualcuno aveva loro mangiato, tagliato la lingua? Avevano pure visto che si era dato una calmata, era socievole, rilassato, non più irascibile e scontroso – se pur solo a parole – come immediatamente dopo la morte di Inamia, dannazione, perché non ritornavano quelli di una volta, pronti a fare domande, anche nel bel mezzo della narrazione, e a fare battute? Anche una stupida, sciocca uscita di Forteceppo, esattamente come quella del dì prima...l’avrebbe accettata e si sarebbe pure fatto una risata sopra.
Eppure, niente. Il silenzio. Il Cronista ne aveva fin sopra i rigidi capelli ricci.
“Figlioli, suvvia, parlatemi! – esclamò a un certo punto, le dita inquiete attorno al proprio bastone – Non abbiate paura di…di cosa dovete aver paura! Fatemi delle domande, come un tempo, per gli dèi.”
Un tempo. – sbuffò il mentore nel furore nervoso che covava dentro di sé – Melis, è grave. Sono passati solo due, tre giorni, e dico ‘un tempo’. È come se lo fosse passato, del resto…ma perché sono così distanti? Non riesco a sopportarlo.
“Basta, ragazzi. Basta con questi silenzi.” Enunciò quindi, alzandosi dallo scranno e reggendosi, severo, sul proprio bastone scuro. I pochi – davvero molto pochi, il Cronista sperò fosse per il timore della pioggia, ma temeva fosse per altri motivi a lui più vicini – studenti lì presenti sussultarono un momento, poi guardarono indecisi sul da dirsi il loro maestro, volgendo altrove gli occhi che tradivano imbarazzo e mordendosi le labbra.
Il Cronista sapeva che stava per agire in modo scorretto, ma ne aveva abbastanza.
“Cosa è successo, per tutti i Semidèi? – disse a gran voce, ormai esasperandosi – Quando vi ho conosciuto, molti di voi, Loctiu, Erdeviu, eravate spigliati, vi divertivate, scherzavate, domandavate! Dove sono finiti quei tempi, perdiana? Di che cosa avete paura?”
Nessuna risposta. Il Cronista cominciava ad arrabbiarsi.
“Somme Forze, siete diventati muti? Perché venite qui ad ascoltarmi, e basta, e non fate nient’altro? Temete qualcosa come con Forteceppo, ieri? Be’, avete ragione. Ho sbagliato, ma non succederà più, mi sono scusato. Potete parlarmi liberamente, non vi farò del male! Dannazione, se non volete più venire qui da me, non venite, non siete costretti…non siete pagati, non dovete pagarmi, è tutto…” Non aveva idea di dove stesse andando a parare. La sua inquietudine prese il sopravvento e la sua lingua si muoveva da sola.
“Davvero niente? Siete morti? È una sfida, questa? Dimostratemi che vi interessa, almeno minimamente! – incespicò verso i silenziosi studenti – Si tratta del Grande Tradimento! Elios rinnega ogni insegnamento del Vecchio Saggio, ogni amicizia, per schierarsi dalla parte di Magor, e con lui il suo Popolo intero. Capisco che tra di voi non ci siano aerei, ma…la cosa non vi tocca minimamente?”
Il Cronista mise la propria faccia nel palmo, deluso ed esasperato.
“Non vi riconosco. Non siete più voi. Loctiu! Loctiu, almeno tu, fingi interessamento! – si diresse a passo cadenzato verso di lei – Chiedimi di Elios e dello Stregone di Fuoco! Dei segreti dietro i poteri mythos e i grandi daicai. Chiedimelo, chiedi qualcosa, qualunque cosa!”
Senza accorgersene, aveva preso per il polso la giovane con la sua forte mano a sette dita. Senza rendersene conto, la aveva strattonata, scossa, mentre la sua gola supplicava domande e intervento. Senza che se ne raccapezzasse, lei aveva emesso un grido, strillava di lasciarla andare, la stretta furiosa del Cronista l’aveva ferita. Senza saper come reagire, il Cronista rimase immobile a bocca aperta e asciutta, ancora trattenendo Loctiu.
Un gormita tra il giovane pubblico si levò repentinamente a quella situazione, cupo in volto, e con balzi non poco stupefacenti si avventò contro il maestro uscito fuori di senno, gettò una mano in avanti per recidere il doloroso collegamento tra Loctiu e il Cronista ma si ritrovò a dare un colpo a vuoto, essendosi quest’ultimo già ripreso e consapevole di aver esagerato – ma ancora ammutolito dalle proprie stesse azioni. Era Forteceppo, e si parò tra studentessa e mentore.
“Maestro, avete oltrepassato ogni limite!” gridò il baldo forestale.
“Non-non capisco, Forteceppo. – Finse in modo tremendo il Cronista – Voglio solo spronarvi a parlare, tutto qui.”
“No, voi siete troppo…non state bene, maestro. – disse Forteceppo scuotendo la testa, alle cui parole il Cronista inarcò un sopracciglio e si innervosì – Quello che è successo oggi, e anche ieri, è una prova che…dovete prendervi una pausa.”
“Quello che è successo…ah, è così, dunque? – si inalberò definitivamente – Mi avete giocato, era una…una sfida! Razza di ingrati io…non so cosa pensare di voi, adesso.”
“Maestro, l’abbiamo fatto per voi. Avete perso vostra moglie, è naturale che…”
“Naturale che cosa, cucciolo dei miei stivali? Come ti permetti, tu, che della vita non sai proprio niente? Hai neanche metà della metà dei miei anni, e pretendi di dirmi come comportarmi?”
“Lo sentite, maestro? – lo accusò Forteceppo indicandolo, ma indietreggiando timorosamente – Poco tempo fa non ci avreste mai rivolto la parola con questo tono! Siete…siete accecato dalla perdita! Inamia non vorrebbe che-”
Il riverbero di uno schiaffo a sette dita risuonò per l’aspra radura, lasciando tutti col fiato sospeso.
“Non ti azzardare a dire il suo nome! Non ti azzardare a spiegarmi cosa provo e cosa dovrei fare! Tu non sai niente. Niente! Niente…niente…”
Il Cronista si sconvolse, infine, osservando il piccolo indifeso, e da una parte giusto giovane Forteceppo massaggiarsi la guancia dolente, gli occhi lucidi. Ci rimase di sasso: sentì le proprie ginocchia cedere, e i suoi stessi occhi inumidirsi dalla vergogna, dal rimorso. Un oceano ribollente di sentimenti e di negatività scosse il suo animo e la sua mente nel profondo. Osservò incredulo la propria mano, la stessa mano solitamente riposta comodamente nell’altra, lungo i fianchi, libera e sciolta o attorno al legno del suo bastone da passeggio, la stessa che per un eccesso d’ira che la perdita ancora viva di Inamia non era riuscita a controllare e aveva percosso malamente il cucciolo della Foresta.
“La lezione è terminata. – tuonò, a sguardo basso; non aveva il coraggio di guardare negli occhi i suoi piccoli studenti, convinto che la loro stima nei suoi confronti fosse ormai vicina allo zero, dopo le uscite degli ultimi due giorni – Andatevene. Lasciatemi da solo. Ho bisogno di una pausa.”
 
La Biblioteca di Silente era una maestosa costruzione a forma di pentagono della Foresta, edificata a mo’ di palafitta nel mezzo di un’enorme palude, la Palude di Taus.
Sebbene fosse realizzata principalmente in legno, non sembrava essere poco resistente o mal fatta; tutt'altro, era imponente e emanava un senso di saggezza solo a vederla.
Sembrava un castello di legno - e non legno qualsiasi, era dermiquercia, l'albero dal legno più resistente (e più difficile da lavorare) su Gorm, ignifugo e impermeabile dopo attenta e magica lavorazione - con addirittura torri sporgenti dai suoi lati, coperte da guglie di legno.
Si diceva prendesse il nome da Silente, una divinità gormitica che secondo la mitologia fu colei che rese fertile la Foresta, vi piantò tutte le specie di piante e vi introdusse tutti gli animali, per poi renderla la casa dei gormiti della Foresta.
Altri pensano il nome derivi da un nome con cui alcuni gormiti chiamavano il Vecchio Saggio, altri ancora, più superficiali, credevano il nome lo prendesse semplicemente dalla Foresta Silente, così chiamata per il silenzio che normalmente vi regna – e non, per i ferventi religiosi, dalla stessa divinità sovra citata.
Quando fu costruita non sorgeva nella Palude di Taus, bensì sul corso di un fiume, all’estremità opposta della Foresta. Ai tempi della Grande Guerra, fu attaccata da un inizialmente sconosciuto nemico, che poi si rivelò essere il Popolo del Mare di Poivrons, come il Cronista ricordava e raccontava, giunto attraverso il letto del fiume.
Il piano di Poivrons, rammentò il maestro, era quello di attirare gli eserciti dei Popoli nel Mare per poterli sconfiggere tutti in un solo colpo con l’aiuto della Grande Murena.
Comunque Poivrons era stato saggio nei suoi attacchi e i danni arrecati alla Biblioteca furono lievi, poiché Poivrons sapeva di quanta conoscenza ospitasse l’edificio e non voleva che andasse perduta.
A seguito di ciò, terminato il conflitto tra i Popoli, la Biblioteca Silente fu smantellata, i vari pezzi traslocati presso l’attuale spiazzo e infine ricostruita sopra la Palude di Taus.
Qui il Popolo della Foresta era sicuro fosse al di fuori di ogni assalto: nella Palude vivevano creature mostruose, o così era ritenuto. Molti di coloro che vi erano affondati ed erano riusciti a tornare in superficie hanno parlato di mostri terrificanti e ne hanno avuto incubi per molto tempo.
Sin dagli albori quando fu edificata sulle sponde del Cornolmo, il cui residuo infuocato ancora si erge lungo la riva, immemore cicatrice di tempi bui, sia nella sua rinnovata e ancora più ampia e grandiosa versione in prossimità della sorgente da cui il Cornolmo discende da Picco Aquila, la Biblioteca Silente era stata ed era il fulcro, l’archivio di tutta la cultura e la letteratura dell’Isola di Gorm – meno quella del Popolo del Vulcano, entrata massicciamente a disposizione della biblioteca universale solo in tempi relativamente recenti.
Nessuno dei vari locali, circoli, studi, accademie e compagne biblioteche da sempre contenuti all’interno del Rifugio della Rugiada, effettiva megalopoli e capitale della società della Foresta Silente, poteva competere con la suprema Biblioteca Silente in quanto a fama e a conoscenza ed arte custodite. Custodite con coraggio ed ardore, come si poteva facilmente notare dall’aspetto maestoso e massiccio, quasi un castello, una fortezza inoppugnabile con guglie appuntite e torrioni dell’imponente costruzione in costosissimo legno magico, sovrastante l’esoterica Palude di Taus, e dalle due guardie armate d’alabarde al cancello d’ingresso. Nessun nemico, antico e moderno, insospettabile o prevedibile, avrebbe mai avuto ancora occasione di danneggiare il possente archivio di cultura e informazioni della Foresta, sua vera e propria fonte di prestigio e potenza.
Una potenza, quella del sapere, che il Popolo della Foresta – inteso come nazione – prima e il Popolo della Foresta Silente dopo – due cose ben diverse – detenevano solo nominalmente in quanto inglobato il suo rappresentante nei loro, pressoché identici, domini, e che non avevano mai avuto brama di trattenere per sé. Anche ai tempi della Guerra della magia, della Grande Guerra di Gorm e delle Guerre di riconciliazione, la Biblioteca Silente era stata aperta a gormiti di ogni Popolo, fazione, ideologia. Era comune incrociare nell’ambiente tanto silenzioso da udire il sangue scorrere nelle vene proprie e altrui, dove il frusciare delle pagine era una tempesta, della capiente biblioteca gormiti di ogni dove.
Dopo l’istituzione del Consiglio dei Signori e l’abbattimento delle frontiere etniche, molti aerei divenuti cittadini del Popolo della Foresta Silente si erano insediati in quei pressi, vicino ai piedi della montagna madre della loro gente. Un elemento di bizzarra coincidenza era che la nuova Biblioteca Silente fosse situata in una radura e in un’angolazione dalle caratteristiche tali che il monumentale picco scolpito del monte di Dalarlànd era particolarmente visibile, quasi a far rimpiangere quei gormiti dell’Aria di aver abbandonato le loro radici e di non aver preso parte al frutto finalmente maturo – e anche questo da lì osservabile – di decenni di progetti e lavori proceduti con discontinuità, antecedenti persino Noctis, un’opera troppo impegnativa ed utopica perché potesse essere realizzata esattamente come era stata immaginata ai primordi, come ne parlavano Elios ed altri nelle narrazioni del Cronista, ma che aveva finalmente visto la luce: la Fortezza Volante.
Un singolo relativamente e sorprendentemente corposo blocco urbano sospeso a centinaia di piedoni da terra, costruito su di una cupola rovesciata, tenuto in posizione e in movimento stabili intorno a Picco Aquila secondo complicati meccanismi e incantesimi di magnetismo e un cosiddetto ‘collegamento particellare’, regolati in una camera segreta in cima alla montagna dove lo spostamento di statuette a forma di falco – quelle su cui stava lavorando Elios, nella lezione di quel giorno – l’animale più sacro nella tradizione aerea, il rapace maschera e simbolo di Praconrem, definiva un cambiamento corrispondente nell’orbita della cittadella fluttuante.
Un capolavoro di ingegneria e magia a cui era difficile non prestare attenzione, anche comparato alla cosmica conoscenza della Biblioteca Silente per la quale il Cronista aveva compiuto a piedi tutto il cammino, al fine di porre tregua e trovar rimedio ai suoi infiniti crucci che non l’avevano più abbandonato dalla morte di Inamia.
Ora riusciva, ed era un gran traguardo, a pensare, formulare mentalmente il concetto della sua scomparsa con notevole lucidità e senza riempirsi l’animo di cordoglio e le fibre di debolezza.
Forse perché le sue fibre erano già indolenzite dall’estrema camminata compiuta a stomaco quasi vuoto, a intervalli interrotta da tratti di carrozze pagate fin troppo, e il suo animo era in quel momento concentrato su altro: la sua relazione con gli studenti.
Doveva superare la perdita di Inamia, causa del suo atteggiamento scontroso e del sospetto generato tra i giovani e dei loro piani complicati e da un certo punto di vista malevoli; solo così sarebbe potuto tornare a fare quel che amava con la passione e la tranquillità che lo avevano sempre caratterizzato fino a pochi giorni prima, che gli avevano garantito fiducia e spontaneità dei cuccioli, così bizzarramente compromesse tra quel giorno e il giorno prima.
La colpa era sua, se ne raccapezzò e non se ne crucciò più di tanto: avrebbe posto le sue scuse personalmente ad ogni studente e ai loro genitori, in casa loro. Poi sarebbe tutto continuato come al solito, come doveva essere. Senza Inamia, che però continuava a vivere nei suoi ferri e nell’ignoto vestito che il Cronista non avrebbe mai completato.
Ora, all’interno del più prestigioso e silenzioso edificio dell’intera Isola di Gorm, i suoi problemi non avrebbero dovuto turbarlo. Si sarebbe perso tra pagine e pagine di storia, di biologia, di alchimia, di magia, di scienza, di finzione, di poesia, la sua mente avrebbe ritrovato la pace dei sensi e i suoi dolori avrebbero trovato una cura nello svago e nello studio forniti dai libri. Libri! Migliaia e migliaia di libri, di ogni genere, stile e contenuto. Che invenzione straordinaria era il libro, la parola scritta! Il Cronista sarebbe persino potuto morire, lì dentro, pensò, tale era la sua ritrovata serenità, i pensieri rivolti in quel momento alla mitologia zoara e alla figura dell’elefante a loro tanto cara, contrapposta a quella del dragone che invece odiavano in quanto predatore naturale dello zannuto pachiderma.
Una razza singolare, quella degli zoari, definiti prosaicamente anche giganti dalle altre specie, per i gormiti quasi totalmente ignota, al di fuori dei libri che parlavano di essi, di fortunati incontri dei più ricchi sulle sponde del Grande Golfo, della Repubblica Indipendente di Inverrith, dove zoari, umani, vici fondatori e negli ultimi anni persino alcuni gormiti convivevano democraticamente.
Piazzati, nerboruti, pelosi – di setole sottili dalle gradazioni di bruno, grigio – ominidi di circa nove piedi, che si ergono su massicci piedi zoccolati; simmetrici come tutte le specie oltre i gormiti, tre dita per mano, corna in prossimità delle tempie che si sviluppano circolarmente, come quelle d’un caprone, muso schiacciato e naso piatto. Questi erano i temuti zoari, apprezzati per il loro naturale e imbattibile vigore nella lotta e la loro arte della pietra e del metallo che forgia monumenti e costruzioni di ciclopiche dimensioni, potenti, in barba alla razza a cui sono indirizzati.
Nell’anno gormitico 891 nella Zoah, le sette tribù montanare in cui era da lungo tempo suddivisa la razza dei ‘giganti’, più i Raminghi, la tribù nomade che soggiornava oltre le Terre Selvagge, o Ast Nederr, come le chiamano loro, si riunirono a seguito – e non si fermarono di certo dopo l’unione – di alcuni conflitti in un nuovo impero della Zoah, con capitale ancora una volta nella fortezza a lungo disabitata di Viema, che si diceva ora essere stata ricostruita, ristrutturata, ritornata allo splendore architettonico di quasi un secolo prima. La nuova nazione aveva un governo pressoché chiuso, da quel che si sapeva, i legami con le altre società del Grande Golfo erano rari, le informazioni dall’interno erano trattenute e riviste prima di essere divulgate. Si sospettava che avessero trovato, gli zoari, una ricchezza o una meta imperialistica oltre i confini maledetti e malvisti delle misteriose Ast Nederr. Ciò non era affatto motivo di tranquillità per le città-stato umane e per la Triade Vicia, che temevano un’invasione della nuova potenza. Tuttavia nei quasi quarant’anni che l’impero zoaro era risorto, non ci fu nessuna pretesa del genere da parte sua, e i rapporti erano pacifici e, di solito, fruttuosi per entrambe le parti, qualsiasi fosse quella opposta all’impero.
Le elucubrazioni del Cronista su questa razza tanto temibile e a lui misteriosa furono bruscamente interrotte. Che nella Biblioteca accadesse qualcosa, qualsiasi cosa, in modo brusco, era una meraviglia che aveva dell’incredibile: il silenzio era sacro, l’imprudenza e il rumore profani. Si chiese chi potesse permettersi di fare un simile baccano lì dentro. Sentì che i passi per nulla ponderati che avevano dato origine a quell’interruzione del silenzio si stavano avvicinando verso di lui, verso il Cronista. E sentì che non era una sola persona.
Non era altri che il Signore della Foresta Silente.
Quercus Galamni, Signore della Foresta Silente, di Dalarlànd sud, in tutto il suo splendore; preziose vesti ornamentali di lino e seta cremisi, uno scialle viola bordato d’oro che gli pendeva dalle spalle, il ciondolo dorato recante il simbolo di Vegnet, che si voleva ritenere il medesimo collare che impreziosiva Florus Fegri, Signore della Foresta di leggendaria memoria, una delle prime amicizie del Vecchio Saggio, che gli gravava dal collo.
Il Signore Quercus, gormita vegetale di piccola taglia – qualche spanna più basso del Cronista – ma dalla scorza color terra, nelle sue parti più resistenti, altrove era d’un verde morbido, smeraldo chiaro, estremamente dura. Braccia tozze e corte, tre dita per mano, testa pressoché ovale, d’un verde più scuro e acceso, bocca larga dai denti spaziati, occhi ampi, arancioni e languidi.
Fornito d’una loquacità scarsa ma d’una notevole generosità e accondiscendenza, era salutato come un Signore discreto e che compiva bene il suo lavoro, senza eccessi né creando grandi delusioni.
Destò ragguardevole scalpore quando, di ritorno da un viaggio d’ambasciata nel Grande Golfo, si presentò alle folle con una guardia del corpo zoara.
Il fatto era strano perché, in primo luogo, qualsiasi gormita, anche il più imbranato, sa cavarsela a menar le mani, e raramente qualcuno aveva sentito il bisogno di un difensore personale che lo seguisse ovunque in pubblico.
In secondo luogo, gli zoari erano una razza misteriose, come già descritto in precedenza, e abbastanza chiusa e, per quel che circola su di loro tra le masse di Gorm, anche sospetta. Se poi quella stessa guardia del corpo di quasi dieci piedi si presentava davanti al fianco di un individuo basso per gli standard gormitici, l’effetto disagio era assicurato.
Doveva essere stata lei a creare quel baccano così anomalo per la Biblioteca Silente, e per quanto Quercus tentasse di nasconderlo, il suo volto tradiva un poco l’imbarazzo per il rumore.
Intanto, benché ancora più disagiato per starsi informando proprio sugli zoari, il Cronista non si dimenticò di inchinarsi di fronte al proprio Signore. Attese poi che avviasse la conversazione mentale, com’era consono dati il luogo e la circostanza. Cosa che avvenne.
Salve, maestro Cronista. – iniziò – Mi auguro che tutto proceda per il meglio.
I miei omaggi, mio Signore. E vi ringrazio per non chiamarmi col mio vero nome, anche nella mente. Qualcuno potrebbe sempre origliare e, sapete, io ci tengo. Comunque sì, procede tutto discretamente. Non mi lamento. Non più.
Vi comprendo. – fece Quercus; tacque per un attimo, guardando in basso – Temo tuttavia che non diciate la verità quando sostenete che tutto vada per il meglio, e se lo credete davvero, dovrete ricredervi dopo ciò che vi comunicherò, e mi dispiace: so che siete un brav’uomo e cos’avete dovuto affrontare, specialmente negli ultimi giorni, ma non posso ignorare i reclami del Popolo.
Il Cronista rabbrividì. Fu un poco infastidito dal fatto che il Signore gli avesse posto una domanda di cui, secondo la sua opinione, egli disponesse già la risposta. Una presa in giro. Nondimeno, la preoccupazione per ciò che stava per dirgli era ben maggiore. Un’altra maledizione, dopo la morte di Inamia e il discredito dei suoi alunni?
Questo stesso giorno, Cronista, ho ricevuto la visita di un mio cittadino, un genitore. Genitore di uno dei vostri alunni, tale  Loctiu, che afferma che voi abbiate alzato le mani su sua figlia. Cosa avete da dire in merito, Cronista?
L’interrogato strabuzzò, stralunò, quasi gli parve di perdere l’equilibrio. Gli prudettero tutte quante le nocche, non sapeva se per rabbia, frustrazione o altro.
Alzato le mani! – ripeté in un’esclamazione mentale, a stento dominando l’impulso di alzare in quel momento, le mani, a sottolineare la follia di quello di cui veniva accusato, e di urlare in piena Biblioteca Silente – Mio Signore, questo è un errore, un’incomprensione tremenda, grande quanto…il Rifugio della Rugiada!
Per favore, Cronista. – lo interruppe Quercus prendendolo per mano, con una vena di premura e un’espressione addolorata – State calmo. La questione non piace neanche a me, ma voglio vederci chiaro. Rispondete semplicemente sì o no, vi prego.
Be’…sì. L’ho…toccata. Un po’ forte, forse. Ma alzare le mani! È un’esagerazione, volevo solo…
Non è tutto qui, Cronista. – lo interruppe nuovamente – So anche che di recente avete preso in giro un altro dei vostri alunni. E non è l’unica cosa di cui sono venuti a lamentarsi da me, e nemmeno solamente negli ultimi giorni. Da parecchio tempo, ormai, i genitori o i tutori di cuccioli che presiedono alle vostre libere lezioni hanno reclamato la troppa ricchezza nelle vostre narrazioni di elementi crudi e violenti. Nelle prime occasioni ho lasciato correre, Cronista, volevo credere che i genitori stessero semplicemente esagerando, e darvi una possibilità per mitigare i vostri metodi. Tuttavia i reclami sono continuati, e io, mi dispiace, mi dispiace davvero, Cronista, non vedo alcun rimedio se non quello che state già immaginando. Anche in relazione alla vostra recente perdita, temo che la vostra capacità di insegnare sia stata compromessa. Se vi lascio insegnare, ho il timore che le lamentele aumenteranno come anche, permettetemi, e mi duole dirlo, vostre escandescenze. Pertanto, vi proibisco, fino a data da destinarsi, di praticare sul suolo della Foresta. Mi dispiace.
 
Per un intero giorno il Cronista non fu più visto fuori dalla sua casa sull’albero. Dalle poche luci che si intravedevano nelle fioche finestre, e dai pochi vicini che potevano constatare una presenza o meno dell’individuo o delle luci, taluni pensarono che l’antico maestro dall’ignota identità non fosse più effettivamente nella Foresta Silente, che fosse scomparso, che avesse abbandonato la sua patria o che, nella peggiore delle possibilità, che si fosse tolto la vita.
Evidentemente, la voce del suo forzato ritiro si era sparsa rapidamente in quelle poche ore, nel vicinato della Biblioteca e della residenza attuale dell’insegnante. Di certo non per merito suo: i suoi alunni, forse, che, interrogandosi e indagando, o semplicemente indovinando con i dati a loro disposizione, erano giunti alla curiosa e probabilmente desiderata conclusione. Ancora, chi poteva dire che qualcuno nel muto archivio non avesse davvero origliato il penoso discorso, come il Cronista aveva temuto, il quale a stento era riuscito ad ascoltarlo rimanendo in silenzio e immobile?
Nessuno, dal suo ritorno dalla Biblioteca, aveva osato recarsi sulla sua casa sull’albero per avere certezze. Più per paura della reazione di un Cronista vivo che di trovare un cadavere o, perché no, un fantasma iracondo.
Il Cronista era più vivo che mai, ad ogni modo, e nella sua feconda mente vessata dalla frustrazione prendevano forma progetti molto vivi, e che avrebbero trovato attuazione al più presto.
Vivo, e per nulla arrabbiato. Se da quella caterva di maledizioni che gli erano crollate tra capo e collo come un acquazzone di macigni aveva appreso qualcosa, era che doveva controllare le sue emozioni e reazioni emotive, anche di fronte al più sconvolgente dei traumi. La rabbia la covava dentro, ormai da diversi giorni, e appena rientrato nella sua sola dimora lo aveva certamente preso l’impulso di buttare all’aria ogni mobile, ogni libro, ogni attrezzo da cucina, rompere ogni finestra e ogni muro, ma si contenne e decise di sfruttare quell’energia per qualcosa di più produttivo.
Non era nuovo alla via della luce, del resto, su Karmil ci aveva passato una parte consistente della propria vita, e non si poteva abitare nel regno dei Sommi senza avere una conoscenza anche minima dell’arte della forza magica che trae potere dalla padronanza dei sentimenti.
Può sembrare che, in fondo, il Cronista non avesse preso tanto male l’abbandono forzato del suo lavoro. Sbagliato.
Un’altra cosa che aveva appreso da quella sfortunata serie di eventi era l’impreparazione su tutti i fronti della società della Foresta Silente. Tradizionalista, limitata, anacronistica, chiusa alle innovazioni e fin troppo repentina nelle sue decisioni. Forse era il rancore che reprimeva a fargli pensare queste cose, aberrazioni contro la sua stessa cultura, la sua stessa gente, ma, relegato in casa a tessere e riflettere e odiare, e reprimere l’odio, dati inconfutabili dell’inadeguatezza della società di Dalarlànd sud gli si fissarono in testa come chiodi.
Tralasciando la prosaica fretta del Signore Quercus, che pure rispettava, nel mettere a tacere il Cronista così su due piedi, senza dargli una seconda occasione, il tempo di riprendersi – tempo che aveva peraltro accettato, deciso gli fosse necessario – sapendo, senza presunzione, che il Cronista fosse un uomo di valore, l’obsoleto stile di vita tipicamente forestale – nell’antico significato, quello delle narrazioni del Cronista – del nomadismo e dello scambio di abitazioni e di proprietà era una falla evidente. Un retaggio culturale inutile e sconveniente, oltre che inverosimile – Per tutti i Semidei, come abbiamo fatto a vivere in questo modo per più di un millennio? Mi sorprende, ora che rifletto… – impraticabile nella modernità, ora che non si parlava più di ‘Popolo della Foresta’, ma di una società eterogenea.
I gormiti vegetali sono una minoranza, e i loro costumi, se non cambiati per tempo, potrebbero allontanarli, emarginarli.
Non avrebbe più eseguito alcun cambio di abitazione, non di certo secondo la tradizione della sua gente. Poi, e lui lo sapeva bene, l’insegnamento inadeguato, indecente. Anche qui, strano, incredibile che non se ne fosse raccapezzato o che, se l’avesse fatto, l’abbia tollerato, una conseguenza del radicato nomadismo forestale. Non possedendo alloggi stabili, era impossibile stabilire edifici pubblici di educazione, dove gli alunni potevano studiare senza lacune conseguenti ai cambiamenti di residenza, stringere rapporti che li formavano, quando in realtà erano un’esigenza. Nella Foresta, invece, l’insegnamento di qualsiasi tipo era prerogativa dei genitori, che spesso non avevano una buona, corretta conoscenza dei fatti, o all’occorrenza i figli venivano inviati ad ascoltare cialtroni dementi nomadi, come il Cronista, forse.
Non voleva mettere in discussione l’educazione degli altri Popoli, reputare quale fosse la migliore, ma sapeva per certo che la situazione nel Mare, altro moderno emarginato, non era del tutto dissimile da quella della Foresta, con accademie private, e che le scuole pubbliche dell’Aria formavano i migliori gormiti di tutta l’Isola. Non è un caso che gli aerei, sia da Popolo dell’Aria che da Popolo di Picco Aquila, siano stati capaci di modellare a loro piacimento la cima di una montagna e costruire una città perennemente sospesa in cielo.
Le parole di Quercus, d’altra parte, erano state fin troppo chiare: il Cronista non avrebbe più potuto praticare sul suolo della Foresta Silente. In tal caso, avrebbe insegnato altrove, e non avrebbe commesso gli stessi errori compiuti di recente nella sua radura.
Sapeva già dove, era già pronto a partire. Non c’era una motivazione particolare per quella meta.
 
“No, non credo tu abbia capito la situazione. – specificò il Cronista a un incredulo interlocutore – Io parto per Darth Kuun, definitivamente…non intendo ritornare qui, se non per…non lo so, occasioni particolari, del tipo che non mi viene in mente al momento. Questo è il nostro addio, a meno che tu non venga a visitarmi, dovunque andrò ad abitare.”
Era comico vedere il Cronista affaccendarsi leggermente agitato, stracarico di un pesante bagaglio sulle spalle e uno a tracolla, a spiegare le sue tesi gesticolando, una mano impegnata a reggere il bastone che di tanto in tanto roteava, all’amico che pareva non voler capire, ostinato e stretto saldamente al bancone di quel suo strampalato edificio insieme casa mobile e piccola osteria itinerante. Discutevano da qualche minuto, ormai, e il Cronista, inizialmente tristo e con un principio di lacrime, era arrivato ad essere debolmente irritato e frettoloso di lasciare gli ultimi saluti, di fronte ai continui tentativi di Ederus di fargli cambiare idea storpiando e reinterpretando le parole del maestro.
“Oh…sul serio, Cronista? Sai che potremmo davvero non vederci…mai più, mai? – fece Ederus, ormai rassegnato, guardando basso; il Cronista fece segno di sì, e l’oste si rattristò: era invero piuttosto sentimentale, quel giorno – Nessun ripensamento di alcun genere, sei deciso fino all’ultimo?”
“Sì, Ederus. Come ti ho detto, il mondo della Foresta non fa più per me. L’ho capito tra ieri e oggi…le disgrazie che mi sono capitate hanno avuto un ruolo marginale, oserei dire. Col tempo, sarei giunto alle stesse conclusioni. Il fatto è che la società in cui ho sempre vissuto è piena di errori, e io so per altro di non essere più il benvenuto, come una volta. Forse non troverò di meglio, e forse sto compiendo un errore a voler adeguarmi a un mondo che non mi appartiene…un po’ come hai fatto tu, Ederus, a decidere di adattarti alle nostre tradizioni.”
Il mentore si bloccò, come se avesse ingerito un boccone amaro, e osservò Ederus, il viso tra i coltelli che pendevano, che dal canto suo aveva esaurito le parole da esprimere. Il Cronista azzardò una mezza risata, riflettendo su ciò che aveva appena detto.
“Scusa, sembra che così ti offenda. – spiegò – Non hai fatto una cosa sbagliata, ma una cosa…coraggiosa, a scegliere la vita dei gormiti vegetali. Io farò lo stesso, nel tempo che mi resta, ma per motivazioni diverse dalle tue che, anche se non conosco, scommetto siano ben altre. Davvero, ora che…ho visto la verità, se mi permetti questa enfatizzazione, trovo davvero sconcertante come tu sia riuscito, come tu abbia veramente voluto adattarti ai nostri costumi. Spero per te che la tua scelta non ti arrechi delusioni, in futuro.”
Il Cronista si sorprese di quanto, a volte, potesse veramente esagerare con i suoi discorsi che, forse complice la lunga attività da insegnante, solevano divenire dei monologhi ricolmi di ricerca di lessico e stile, da vero oratore, come un novello Signore, e potessero completamente cancellare, all’apparenza, i moti dell’animo di cui quegli stessi discorsi si facevano interpreti.
Per quanto, infatti, il Cronista sembrasse risoluto, anche ottimista, dentro di sé era profondamente turbato, insicuro, terrorizzato, anche, dall’idea di non venire accettato, di trovarsi peggio che nella Foresta come l’aveva davvero capita solo poco tempo prima, o addirittura, perché no, di schiattare d’infarto durante il viaggio.
Un incipit di crepacuore, un improvviso aumentare della frequenza del flusso di energia dal suo bulbo cardiaco verso tutte le regioni del corpo, lo saggiò in quel preciso momento quando, senza preavviso né aspettativa alcuni, si vide Ederus uscire dalla sua locanda portatile e abbracciarlo, provocandogli leggere fitte visto tutto il peso che doveva sopportare sul suo vecchio corpo, ma che accettò volentieri, accompagnate dal calore vivo – sia materiale che metaforico – di quelle membra animali così diverse dalle sue, ma mosse dagli stessi impulsi, dalle stesse passioni e gli stessi dolori.
Ederus parve voler dire qualcosa, guancia a guancia con il Cronista, il mento sulla spalla, forse spiegare il motivo di quell’inusitato eccesso di affetto che non gli si confaceva, conoscendolo il maestro da diversi anni, ma, almeno per quanto sembrò a questi, preferì evitare.
Si separò, Ederus, dal grande maestro di storia, per proporsi in un più contenuto ma ugualmente caloroso battito di pugno.
“Ti capisco, Cronista. Ti auguro ogni bene per il tuo viaggio, per gli anni che ti restano! Verrò sicuramente a trovarti, presto o tardi. – esclamò – Eh, questo posto non sarà più lo stesso senza di te. Arrivederci, maestro.”
“Arrivederci, Ederus. Mi mancherai, come, mio malgrado, mi mancherà molto di questo luogo. Ciao!”
Non fece in tempo a riflettere sul proprio futuro preciso – alloggio e carriera – sulle problematiche che avrebbe incontrato, sui rimorsi che avrebbe potuto avere una volta sul posto, che, non appena a un piedone verso sud, verso il molo del Bazaar da cui sarebbe partito verso Gorm orientale, dalla locanda, tra il fogliame comparve una minuta ma ben nutrita figura sanguigna, che gli occhi del Cronista non potevano confondere, e che non avrebbero più confuso. Sia perché vulcanici nella Foresta erano rari, adulti come cuccioli, sia per l’avventura pericolosa che con quel preciso vulcanico aveva il Cronista corso.
“Osmaniu. – lo salutò abbastanza freddamente, a metà tra il sorpreso e l’irritato, ma sorridendo un poco (non aveva certo dimenticato il disdicevole inganno che gli alunni avevano tramato contro di lui, ulteriore motivo della sua partenza) – Arrivi giusto in tempo per l’ultimo saluto, figliolo. Sto partendo per Darth Kuun, dal porto del Bazaar. Avvisa gli altri compagni, quando puoi. Sapete che non posso più insegnare, vero?”
Disse quell’ultimo periodo con una punta di sarcasmo e cattiveria di cui si vergognò quasi subito, ma il disagio all’arrivo inaspettato del piccolo vulcanico rimaneva. Lo turbava soprattutto l’aspetto di Osmaniu: addobbato di due zaini, pareva anche lui in procinto di partire da qualche parte.
“Lo so. Parto anch’io con voi…con te.”
Se al Cronista non cedettero le ginocchia, non si congelò l’intero corpo, dovette ringraziare i grandi Semidei che viaggiano per i mondi, pur non pregandoli più.
“Cosa…come? Non puoi. Non…perché?”
“Ti abbiamo trattato male, maestro, lo ammetto. – spiegò trafelato Osmaniu, con tutto l’aspetto e i modi di chi si era imparato un discorso a memoria, ma solamente perché in quello che diceva credeva sul serio, lo si capiva da come tremava e guardava negli occhi il Cronista – Non era una cosa da fare. E io più di tutti…quando mi hai salvato da quel Grandalbero e quegli altri pazzi…non sono stato bravo, tu volevi aiutarmi, e io ti ho voltato le spalle. Mi hai aiutato anche quando hai raccontato del Grande Sacrificio…io voglio aiutare te, stavolta. Voglio stare con te. Come f-figlio.”
Di nuovo quella proposta indecente. Da che pulpito? Perché era così ostinato? Il Cronista non aveva alcuna predisposizione a crescere, adottare un gormita che più che figlio poteva al massimo sembrare suo nipote. Gli sembrava soprattutto un’offesa a Ceresa, la sua vera figlia, un tradimento: non potendo contare su di lei – Semidei, ancora non sa della scomparsa di sua madre! Chissà quando dovrò dirlo, ancora altro dolore…–  si rifaceva su qualcun altro, che potesse provare per lui un genuino affetto infantile.
No, non posso pensare queste cose. Io non voglio Osmaniu…eppure, sulla base di questo ragionamento sembra proprio così. No…
Il Cronista si massaggiò la fronte, esausto, poi parlò, ad occhi chiusi: “Come credi che avere un figlio così giovane possa essermi d’aiuto? Volendo essere realisti fino all’osso, è un problema in più. Non trovi?”
“Sei solo, maestro. Se sei da solo, non stai bene. – azzardò Osmaniu, e adesso non pareva un discorso memorizzato: erano parole semplici che venivano dal cuore – Si è visto, non…non lo puoi negare. Hai bisogno di qualcuno su cui contare, qualcuno che ti è…ti sia di supporto, pensi a te, ti aiuti. Pensa a me! Dammi questa possibilità, farò qualsiasi cosa…voglio una famiglia, un padre…non ho mai avuto un vero padre. Sarò un figlio perfetto, lo giuro su Krut! Fammi venire con te!”
A questo punto, il Cronista era troppo commosso per poter continuare a ribattere.
Dannazione, sono troppo compassionevole. Maledetta empatia.
Quelle parole lo avevano colpito al cuore come una pioggia di sassi appuntiti, un feroce pugnale cosparso di soave miele. Lui che solo qualche giorno prima aveva fatto – o quanto meno aveva pensato di fare – di tutto per poter regalare una vita migliore al povero, abbandonato Osmaniu, un giovane vulcanico che viveva ancora troppo vicino alle ultime guerre di Gorm per poter sopravvivere alla discriminazione, e che aveva rifiutato di prenderlo sotto di sé unicamente, alla fine, perché era con Inamia, e non necessitava la compagnia di nessun altro, ora, mosso da una misericordiosa volontà, e di avere qualcuno di caro vicino nei suoi ultimi anni, non poteva dire di no. Non pensò affatto ai problemi di ambientazione o di denaro per la sussistenza di entrambi – quest’ultimo anzi non era un problema: aveva una scorta di sale nero più che sufficiente per un’intera famiglia – anzi, ci pensò, e trovò che non erano degni di eccessiva preoccupazioni.
“Vieni qui.” disse quindi il Cronista, allargando le anziane braccia, amorevole. Era il gesto che Osmaniu attendeva più di ogni altro. Sgranando gli occhi e le labbra, corse come un folle in direzione del maestro-padre, e gli sarebbe saltato addosso se non si fosse ricordato della sua età e delle proprie promesse di aiutarlo, quindi di non nuocergli. Dovette arrestarsi e procedere a un abbraccio ben più discreto, ma pieno di vita. Vita che riempì il Cronista come se si fosse di colpo ritrovato giovane e con un’infinità di anni davanti, aperto alle possibilità dell’esistenza e ancora non tormentato dagli esiti che le Guerre di riconciliazione avevano avuto per lui.
Aveva di nuovo qualcuno su cui contare, qualcuno che dipendesse da lui – riempiva di soddisfazione e di realizzazione – qualcuno che si sarebbe a lui ispirato, qualcuno da amare. Non come Inamia, ma pur sempre di amore si parlava. Gli anni che gli rimanevano li avrebbe vissuti con l’intensità di un giovane adulto.
“Grazie…padre.” Disse Osmaniu, separandosi. Il Cronista fu percorso da un brivido di affettuoso piacere.
“Sono felice che le cose siano andate così. Non me lo aspettavo proprio. Su, andiamo al Bazaar. Il dominio del Signore della Terra ci aspetta. Sarà un viaggio un po’ lungo in traghetto. Sei mai stato in traghetto o in barca?”
“Non serviranno le barche. – sogghignò Osmaniu, estraendo dalla sua cintura diversi sacchetti pieni di strane polveri – Guarda cos’ho qui. Sì, l’ho rubato…ma ci risparmierà un sacco di tempo…no?”
 
Cielo sgombro, sconfinato, d’un blu intenso e denso. Aria secca e calda. Il vento stanco e spento sul panorama rosso sollevava leggeri refoli di sabbia rossa, che poco sollievo o fastidio davano, abbattendosi e terminando su pareti di roccia rossa, monumenti naturali su una distesa rossa.
La Valle dei Canyon.
Il Cronista trovò, dopo un’iniziale dubbio, che ci fosse qualcosa di perversamente divertente nello sfruttare le polveri per un varco spaziale rubate. Si meravigliò di se stesso, considerando la sua regolare sobrietà e serietà e soprattutto il contante di sale nero necessario al loro acquisto. Chi le aveva comprate doveva pur servirsene, presto o tardi, e invece avrebbe dovuto sborsare ulteriore sale. Il Cronista avrebbe dovuto sgridare Osmaniu per quella furbata, ma non lo fece.
Forse la relazione cominciava già male?
Sta di fatto che il divertimento si spense quasi subito: in primo luogo, Osmaniu – e giustamente, vista la giovane età – non aveva bevuto il succo di linfa viola, e pertanto non era in grado di passare la propria energia al Cronista, che fu costretto ad attivare il varco da solo; in secondo luogo, la sua conoscenza delle coordinate spaziali lasciava a desiderare. Infatti, invece di trovarsi alle porte della meta desiderata, si trovarono in un punto imprecisato della Valle dei Canyon, che sperarono fosse vicino alla città di mattoni rossi. Doveva ritenersi fortunato che, pur sbagliando, avesse in qualche modo indovinato la locazione generale. Si sa, le coordinate dei varchi spaziali hanno un funzionamento molto complesso e per gran parte sconosciuto: un solo piccolo errore in un numero o una lettera e puoi ritrovarti nel più completo ignoto, magari persino su un altro mondo, o nel nero vuoto tra di essi.
A ben pensarci, c’era da disperarsi di perdersi o di non trovare la città entro la notte, ed essere costretti ad accamparsi nel freddo deserto quando il Sole non scaldava più la sabbia rossa, cibarsi delle poche cose che avevano con se, senza riparo alcuno. Raro era infatti trovare ancora un abitante della Valle dei Canyon che non si fosse trasferito all’interno delle mura.
I due avevano camminato, dando occhiate vaghe e sconclusionate a una mappa ingiallita che il Cronista aveva seco, per un buon centinaio di piedoni, andando più a memoria del Cronista, che aveva già visitato il posto, piuttosto che sfruttando qualsivoglia metodo di orientamento.
Osmaniu fremeva, era in fibrillazione, non stava in sé, eccitatissimi dai nuovi felici sconvolgimenti della sua vita. Il Cronista partecipava alla sua felicità, pur covando dei dubbi, ma tra i due non ci era stato ancora alcun dialogo, nel tragitto percorso.
Ad un certo punto, svoltata un’immane colonna di pietra, ecco, scolpita sulla parete della montagna, palesarsi la maestosa ed incrollabile città di Garsomor.
Essa era uno spettacolo di architettura, lavoro manuale e, senza bisogno di avere certezza, di magia. Ogni volta che la vedeva il Cronista si stupiva che un tempo, e per due volte, il Popolo del Vulcano l’avesse conquistata e occupata. Era l’apoteosi dell’infrangibilità e impenetrabilità. La mente pur avvezza alle armi più micidiali dell’anziano maestro non riusciva a concepire un mezzo sicuro per poter fare breccia all’interno della seconda città del Popolo della Terra, che non fosse un massiccio bombardamento. Ma sarebbe stato vergognoso anche per il più scellerato dei nemici distruggere delle mura così grandiose.
Scavata, modellata sul fianco di una gigantesca, forse la più mastodontica su Gorm, parete di canyon, si ergeva in altezza, su doppie mura circolari, e alla sommità un mistico monumento, il Tempio di Roccia, l’operosa città di Garsomor.
Quelle alte mura, che parevano modellate dagli stessi agenti che avevano eroso l’intera Valle dei Canyon, partorite dalla stessa terra ma conservate e curate con maggiore grazia dalla natura che di ogni altra cosa in quel mondo, erano vertiginose, sfavillanti, massicce, di una roccia rosata non dissimile, difficilmente distinguibile dal materiale che governava l’intera regione centrale di Darth Kuun.
Al grande cancello di pietra diverse guardie scrutavano ligie e minacciose l’orizzonte, equipaggiate con lunghe lance dalla punta arzigogolata, e altre armi pendenti dal cinturone della loro scarsa corazza; segno distintivo, una sorta di veste a croce con i bracci dalle estremità a punta che copriva le spalle, il petto e la schiena, con l’effigie del Popolo della Terra in ogni triangolo terminale.
Osservavano con indifferenza e noncuranza i poveracci e gli straccioni, o i truffatori, che pretendevano di poter avere accesso alla città mancando del sale nero per il pedaggio, con grida, pianti e piagnistei; al contrario, si facevano assai affabili e disponibili con chi rispettava le regole. Scrutando la costruzione, il Cronista non poté non immaginarsi Osmaniu terribilmente, esponenzialmente più ammaliato e meravigliato di lui – sentendosi soddisfatto per potergli donare quella vista – e, a vederla quasi pendere da quella muraglia naturale di roccia, probabilmente si chiedeva: non c’era il pericolo di un crollo? Come l’avrebbero affrontato gli abitanti?
Sicuramente della terra e delle rocce non c’era un solo gormita lungo l’estensione meridionale di Darth Kuun, anche dopo l’istituzione del Consiglio dei Signori e l’abbattimento delle frontiere etniche, che ne avesse paura. Il dominio della terra, di ogni tipo di pietra e terriccio non poneva all’autentico Popolo della Terra alcun limite in qualsiasi cosa avesse a che vedere col suolo e con la sostanza solida. Dove c’era un ostacolo, lo rimuovevano. Dove non c’era sostegno, lo forgiavano dalle loro dita. Era forse così che quella città era nata in quell’ambiente impervio, dove elfi, vici, zoari ma anche qualsiasi altra razza di gormita, avrebbero impiegato diversi anni a costruire un solo complesso di abitazioni, mentre i gormiti avevano eretto una città intera nel giro di mesi, forse, e arricchitala e miglioratala continuamente negli anni che seguirono, tanto che era sopravvissuta a due occupazioni militari e non mostrava segni di cedimento. Complessi ingranaggi e rilievi di roccia componevano il cancello della città. Il cancello si trattava di un muro i cui contorni non potevano vedersi, nel resto delle mura. Sbarre e ruote dentate di roccia di varie dimensioni correvano sia per l’alto che per il largo, in gran numero, per far entrare più persone alla volta e anche più mezzi, o animali. Al porgere di un sacchetto del Cronista due guardie armate chinarono il capo e, facendo leva sul dominio della terra, col semplice movimento rettilineo delle mani spostarono due sbarre rocciose. La ruota dentata soprastante si mosse conseguentemente, finché una porta tripartita – ben più piccola dell’intero cancello – con due ‘battenti’ laterali e uno ‘sportello’ superiore si spalancò sull’interno della città. E si richiuse subitamente non appena furono, Cronista e Osmaniu con la bocca spalancata, all’interno.
Un’ampia scalinata scorreva centralmente all’intero complesso. Ai suoi lati, su vari livelli di altezza, si incespicavano le tipiche abitazioni rotondeggianti grandi e piccole della Terra, e ampi ettari di coltivazioni colorate, ma per lo più verdi o gialle. Numerosi, a migliaia erano i gormiti, non solo terricoli, che si affollavano per gli abbondanti gradini o lungo le strade secondarie, intenti fare passeggiate in compagnia senza scopi precisi o a vendere o comprare mercanzie svariatissime, dal semplice pane quotidiano a vestiti raffinati a gingilli per la decorazione della casa e accessori per il corpo in pittoresche baracche.
Percorrendo una piazza curiosamente ricca di locande ambulanti non molto dissimili da quella di Ederus – con la differenza che non erano adibite a dimore e atte alla cucina di solo una o poche specifiche leccornie – e osterie di seconda classe tutte accalcate l’una sull’altra, con i comignoli che spandevano generosamente fumi di legna e aromi di spezie e salse dai forni di mattone, al Cronista sopraggiunse un certo languore. Gli pizzicò un poco la lingua dalla fame – la corrispondenza dei borbottii di stomaco degli animali – e se la rimasticò impaziente tra i denti legnosi.
Forse la cagione dell’improvviso appetito era da ricercare nelle energie spese per l’apertura del varco spaziale ‘illegale’ che lo aveva senza dubbio privato, insieme alla scarpinata nel deserto dei canyon; rifletté il Cronista nei pressi della fontana al centro della piazza, fontana al momento vuota d’acqua, semplicistica come maggior parte dell’arte decorativa terricola, ornata da un monumentale, tozzo pilastro rettangolare al suo centro che commemorava i caduti durante l’assalto del Vulcano a Garsomor del 852.
Più semplicemente, pensò poi, si trattava solamente dei profumi che arrivavano al suo naso che risvegliavano in lui antichi sapori saggiati in tempi che furono e il gusto della magnifica cucina gormitica animale, di grande fama persino presso il Grande Golfo, di cui il mentore si riteneva, modestamente, un riguardoso intenditore, pur dovendo moderare il suo cibarsi alla maniera animale, soprattutto alla sua età, che poteva costargli complicazioni.
“Dat- dammi una di quelle borse.” Si offrì di tutto punto Osmaniu, fermandosi e porgendo una piccola grande mano verso di lui.
“Come, figliolo? Oh, non ti curare…non pesano molto.”
“Andiamo, padre, chissà quanto ancora cammineremo. – si impuntò il giovine – Il mio zaino pesa poco, è quasi vuoto. Dammi un po’ della tua roba.”
Il Cronista preferì non rifiutare a questa seconda richiesta. Non mentiva quando sostenne che fossero di poco peso – non per lui, almeno, temprato, seppur molto tempo prima, da una solida esercitazione fisica – ma, se al…al figlio adottivo…che riverbero strano creava quel solo pensiero, faceva piacere, tanto meglio. Gli diede la bisaccia a tracolla, la stessa che solitamente utilizzava nell’andare a e venire da le lezioni, ora giusto un po’ più piena. Erano già altri tempi, quelli, ormai.
Passeggiarono con incerta velocità per i vicoli sempre più stretti, mentre la seconda cinta muraria si avvicinava, lasciando cinque serie di impronte sul terreno sabbioso – il Cronista ormai non abbandonava più il bastone – per ancora pochi piedoni. Quand’appena l’imponente fontana celebrativa sparì dietro una casa e la larghezza della piazza era un ricordo, Osmaniu se ne uscì: “Ho un po’ di fame, padre.” Disse con tono forzatamente spento, quasi come se stesse semplicemente elencando qualcosa, o esplicando un concetto che non meritasse emotività, del tipo ‘l’acqua è bagnata’. Forse aveva paura di mostrarsi esigente o lagnoso. Se il Cronista non lo aveva già spinto dentro una locanda, era unicamente perché voleva sapere che intenzioni avesse Osmaniu, e quando le avrebbe espresse.
“Invero, ho un certo appetito anch’io. È da tanto che non mangio della vera cucina della Terra.”
“Allora andiamo a mangiare qualcosa!” esclamò Osmaniu con rinnovata euforia. Lo premette, non fisicamente ma costringendo il maestro a rincorrerlo per paura di perderlo, tra una ristretta calca di gente dentro la prima osteria che pizzicò l’occhio del vulcanico, oppure quella con la vetrata, la porta o l’insegna – Quel pollo che sei, un nome ironico ma sottesamente preoccupante – più vistosa e accattivante che trovò.
Il Cronista avrebbe voluto agire con più calma e oculatezza, ben consapevole che i locali alla periferia di Garsomor, e di qualsiasi città animale in genere, era preferibile evitarli per una varia serie di fattori se non per occasioni eccezionali.
Oh, be’. Che può accaderci? Non ci ammazzeranno mica.
Si presero un posto a sedere, trovato forse per fortuna, districandosi tra l’estrema folla in movimento – in realtà era poca gente, ma faceva moto e casino per molta di più – che occupava quello spazio angusto e, appoggiati i bagagli ai loro piedi – quelli di Osmaniu pendevano dagli alti sgabelli – notarono subito con un mezzo sorriso inspiegabile che il menù era inciso sul legno del tavolo. Nelle scanalature di tali incisioni si vedeva chiaramente sporcizia e grasso andatisi ad incastrare e mai puliti. Di primo impatto, il Cronista volle uscire. Del resto, però, un’occasione valeva l’altra per gustarsi qualcosa di buono e per comunicare con, conoscere meglio Osmaniu. Quale miglior argomento se non la cucina, una delle tradizioni più fondamentali e ricche della cultura gormitica?
“Che cosa prendi, Osmaniu?” domandò, guardandolo ben bene mentre ‘sfogliava’ col ditone sul tavolo.
“Questo mi sembra buono. Filetto di maiale in salsa di farina e vino bianco, con contorno di patate arrosto. – disse sgranando gli occhi, probabilmente non avvezzo a una cucina così ricca – Ma mi pare un po’…costoso.”
“Non stare a preoccuparti così tanto per ogni cosa, figliolo. Il prezzo delle cose è l’ultimo dei nostri problemi, che se anche dovessi tirare le cuoia oggi stesso, avresti abbastanza sale nero per un po’ di anni, se usato con moderazione! – ribatté ridendo di gusto, pensando alla propria morte con turbante leggerezza – Però non esagerare comunque, eh.”
“Ah, ah, va bene, va bene…allora lo prendo. E…tu? Cosa mangi? Cioè…puoi mangiare queste cose? Non so se qui li fanno quei pastoni che mangiate voi.”
“La gente come me, dimentichi, non ha problemi a mangiare come fai tu e i tuoi, anche se deve farlo con calma. E per quanto riguarda i pastoni, so meglio di te dove li fanno e dove no. Io ad ogni modo, se posso, preferisco la vostra cucina!”
Se la presentazione dell’osteria lasciava a desiderare, il servizio era ottimale. Ordinarono e i piatti furono loro serviti in pochissimo tempo, ed erano di buon aspetto. Osmaniu divorò con grande gusto il suo maiale in salsa, lasciando un po’ di patate per l’insegnante, che dal canto suo optò per qualcosa di più leggero, peperoni gratinati con scaglie di formaggio di capra, e un buon bicchiere di agromanto dei pineti della costa.
“Dunque. – fece il Cronista mentre Osmaniu sgranocchiava le ultime patate – Che cosa ti piace mangiare, a parte la carne? Ti piacciono tutti i tipi di carne? Sai, so cucinare abbastanza bene un po’ di tutto.”
“Hmm. – parlò Osmaniu, senza un’idea chiara di dove il maestro volesse andare a parare – Il maiale non lo batte nessuno. Anche il pollo, sì, magari impanato.”
“Pesce?”
“Non…non lo so. Non credo di aver mai mangiato pesce. Cioè, non lo so. Però non mi ha mai ispirato.”
“Il pesce fa bene, lo so pure io. Ti insegnerò ad apprezzarlo. E frutta e verdura?”
“Mangio più o meno tutto. Tranne i carciofi. Che schifo.”
La conversazione terminò con i cenni d’assenso del Cronista, che in seguito, su richiesta del figlio, gli porse la propria cartina della città, e appena gliela diede chiese dove voleva recarsi una volta usciti. Stava discorrendo di ‘fare un giro’ per Garsomor come se si trattasse di una gita turistica, un viaggio in vacanza, senza per niente dare l’idea – per altro affermata sin dall’inizio – di stabilirsi definitivamente nella città del Popolo della Terra. Dove avrebbero dimorato? Di che cosa avrebbero vissuto? Certo il Cronista poteva – voleva – riprendere gli insegnamenti in loco, ma dove e come non lo sapeva ancora, e lo stesso Osmaniu avrebbe potuto trovare qualche lavoretto per guadagnarsi qualche gruzzolo giornaliero o decimanale. Di smania di rendersi utile, di adoperarsi, ne aveva eccome, e il padre non si sarebbe messo di mezzo.
Fintanto che rifletteva su queste impellenze e Osmaniu girava e rigirava quella mappa sgualcita, l’occhio del Cronista cadde, con discrezione, a un’analisi più preoccupata che in partenza del locale in cui ‘avevano’ deciso di pranzare. C’erano, invero, parecchie occhiate sospette e sprezzanti di numerosi figuri in direzioni dei due ultimi ospiti. Che fossero intrise di razzismo per Osmaniu, in una città ad alta percentuale di popolazione vulcanica come Garsomor, era improbabile – ma non molto, vista la zona periferica in genere malfamata – anche perché vulcanici adulti sedevano e mangiavano tranquillamente. Certamente non conoscevano chi fosse veramente il Cronista, quindi l’idea che mostrassero avversione verso di lui per il suo particolare potere era da scartare. Oppure no? Sin dalla fine delle Guerre di riconciliazione c’erano stati episodi di razzismo nei confronti dei forestali, sempre originati dalla nuova paura per questa ‘nuova’ potenzialità, di cui sempre più gormiti manifestarono la proprietà – si parla comunque dell’ordine di una o due centinaia, e con gradi di maestria molto divergenti. Oppure, l’aveva sempre pensato, questa innovativa discriminazione dei forestali era solo l’immaginazione del Cronista, e quelle occhiatacce erano semplicemente dovute alla natura circospetta – e aperta allo scontro – degli abitanti di quella parte di città.
In sostanza, cibo buono e buon servizio, ma cattiva compagnia.
La conferma definitiva che Quel pollo che sei era una bettola di prim’ordine da cui uscire al più presto il Cronista la ebbe quando si udirono alcune urla alticce.
“Tu…tu non ti devi permettere di darmi del cornuto! Ti sei visto, porca puttana?” vociò, malamente, influenzato da una sbornia invidiabile – era appena mezzogiorno! – un tale terricolo, reggendo un boccale che fremeva di essere frantumato su qualche cranio.
“Senti un po’, fratello, stai calmo, eh! Sei ubriaco da stamattina e non capisci niente, come al solito.” Tentò di tranquillizzarlo un secondo terricolo, avvicinandoglisi cauto, ma ridendo, e provando a calmarlo con le mani. Il primo si liberò da queste con uno scatto ferino, e poi spingendo ‘l’amico’ in avanti con la mano libera.
“’Sto cazzo! – gridò – Hai finito di dirmi cosa devo fare!” e con urlo di slancio fiondò quel boccale, ancora a metà pieno, in mezzo alla folla. Il gormita a cui era indirizzato non dovette sforzarsi molto per evitare il tiro sbilenco, del quale subì solo un po’ di schizzi di birra. Il grande bicchiere finì dritto a schiantarsi sulla schiena di un vulcanico seduto poco più in là. Il quale immediatamente, senza pensarci due volte, si alzò facendo cadere la sedia e dirigendosi ringhiando verso il terricolo sbronzo.
“Figlio d’un cane!” esclamò, gettandosi alla sua preda e spintonando chi gli si metteva tra i piedi.
“Ehi, ehi, no, stiamo calmi per favore!” si intromise uno con le mani in avanti, un altro compare dei due terricoli iniziali.
“Levati dai coglioni.” Sbottò, spingendolo a terra.
“Di’, ma sei fuori di testa!” gridò una donna, probabilmente la moglie dell’ultimo caduto, guardando arcigno l’uomo del Vulcano e accorsa a rimettere in piedi il suo compagno.
“Lo so io chi è cornuto, per Krut! – delirava intanto il primo sbronzo – Tu! – e indicò un forestale, che fino a prima d’essere interpellato se la spassava beatamente – Tu, sì, proprio tu, Gaelos! Tua moglie se l’è fatta Tasarau tante di quelle volte che nemmeno t’immagini!”
“Tua mamma è troia!” fu l’ultimo dei fantasiosi intercalari ad udirsi in maniera definita.
Il vulcanico prese l’ubriaco per la collottola e lo gettò di forza contro uno che se ne stava comodamente seduto. Gaelos ribaltò il tavolo e, con i propri poteri, lo scagliò in avanti, senza nessun apparente bersaglio preciso, atterrando due che non avevano fatto nulla di male.
Dopodiché volarono pugni, bestemmie, sedie, bicchieri, piatti ancora pieni della loro portata. Un aereo si fece spazio con una grande bolla d’aria che mandò in diversi ad appiattirsi gli uni sugli altri o sulle pareti, salvo poi questo ritrovarsi gli stessi e tanti altri abbattersi con foga su di lui.
Una rissa da osteria in piena regola. In piena regola da finzione letteraria, di quelle che si possono trovare in una satira o in una favoletta da quattro soldi. Il Cronista, che pure aveva vissuto parecchio su Gorm, non credeva che un delirio simile potesse davvero succedere. Al suo primo giorno da padre di Osmaniu gli mostrava uno dei più esemplificativi spettacoli dello strato più umiliante della società gormitica. Ma no: lui pareva divertirsi, finché le botte non le davano a lui, almeno.
Si fecero strada a fatica tra la folla scalpitante, dando il più anziano colpi di bastone e di forza magica a destra e a manca. Tuttavia l’ingresso pareva lontanissimo, irraggiungibile, tra tutta quella calca in guerra.
“Ordine, ordine!”
Lo scatto provvidenziale della porta d’ingresso mise tutti a tacere, rivelando non uno, non due ma ben quattro soldati armati di lunghe alabarde, comandati da un gormita della Terra tracagnotto e rivestito di un pesante mantello bianco, che si contorceva in una sorta di scialle attorno al collo e ricopriva per intero due spalliere appuntite.
“In decimana è già la terza volta che fate un casino immondo in questo locale, buona Celeles! – esclamò, avanzando a braccia conserte tra la folla che lo lasciava passare intimorita; aveva un viso da cinghiale pingue e rugoso d’età, dall’aspetto straordinariamente bonario e burbero al contempo – Subito fuori i responsabili, questa volta, o giuro che faccio chiudere questo maledetto locale, quanto è in mio potere!”
Lo sbronzo fu trascinato seduta stante ai piedi del consigliere del Signore della Terra – perché di questi si trattava – mentre, apparentemente di propria volontà, il vulcanico, pur ringhiando, si portò dinanzi ad egli, sotto le lame della sua scorta.
Ci furono ammonimenti severi, minacce di prigione rivolte ai due coinvolti, così come all’intero locale e anche allo stesso proprietario. Si alzò un violento sabbione quando il consigliere si rivolse a lui, che si mostrò pesantemente offeso da quel monito a lui; ma la voce grossa, il metallo vibrante e la logica incontestabile del consigliere ebbero alla fine la meglio. L’oste finì per abbassare il capo umiliato ed assentire ad ogni sgridata del politico.
Osmaniu, che pareva alquanto divertito dalla piega degli eventi, si perse la conclusione, spinto fuori dalla detestabile osteria da un frettoloso Cronista. Ritornarono in cammino verso l’ignoto, verso una non ben chiara meta all’interno delle seconde mura di Roscamar, ambiente più sicuro e più di classe, più adatto insomma a un personaggio del calibro del Cronista, e al suo nuovo figlio, che certo si meritava di crescere in un ambiente meno degradato. Forse il Cronista esagerava, a giudicare così impudicamente quella zona della città, unicamente per quell’episodio all’osteria.
Di sicuro non si aspettava che l’ambiente in cui avrebbe vissuto i prossimi anni sarebbe stato così roseo, così dentro, così al centro delle seconde mura.
“Ehi, voi, fermatevi!”
Il Cronista si immobilizzò e rabbrividì per un istante, riconoscendo subito la voce e temendo che qualcuno avesse fatto il suo nome – o, per meglio dire, la sua faccia – nella baruffa alla locanda. Poi, tranquillizzandosi – dopotutto sapeva di non aver torto a nessuno – imitò un più spontaneo Osmaniu, che si era voltato immediatamente.
Il più anziano, nonostante le ginocchia scricchiolanti, si piegò subito nel tradizionale inchino d’onore del Popolo della Terra, già intrapreso dal suo interlocutore, e con una leggera botta al gomito di Osmaniu gli intimò di fare altrettanto.
“Via, via, Cronista, non serve essere così ossequiosi, alzatevi e state tranquillo. – disse spavaldo il consigliere della Terra – Siete il Cronista, dico bene?”
“Proprio io, consigliere.” Si affrettò a rispondere.
“E il piccolo?”
“È…mio figlio. Adottivo. Osmaniu.” Esitò un poco.
“Ah. – rimuginò quello, mettendo la mano al mento, pensieroso, studiando la piccola (ma neanche tanto) figura del vulcanico – Ottimo. Sono contento per voi…credo. Spero che sappiate quello che facciate. Ad ogni modo, ho buone notizie per voi.”
“Ah, sì?” fece genuinamente incredulo il Cronista. Di che si trattava? Non sapeva di essere desiderato, da quelle parti. Forse era ironico…Osmaniu, dal canto suo, pareva parecchio eccitato.
“Eccome, Cronista. Il Signore della Terra è alla ricerca di insegnanti di un certo livello per sua figlia. Si dà il caso che ella voglia proprio impegnarsi nello studio della storia, che di certo non vi è estraneo. Al Tempio di Roccia è stato fatto il vostro nome (si fa per dire, eh) da molto tempo, e il mio Signore da molto ha tentato di rintracciarvi nei domini di Quercus. Non so per quale motivo siate qui, ma siete venuto nel momento giusto: se non siete qui in vacanza, il mio Signore Atarros ha tutte le intenzioni di assumervi come precettore della figlia, affittarvi una camera nel Tempio, farvi cittadino, voi e vostro ‘figlio’, della Terra, se desiderate. Sta a voi decidere.”

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Capitolo 28
*** Capitolo 12 ***


<< Non c’era stato il tempo di pensare, di commentare ulteriormente quella scoperta di quei veleni potenziamenti e il suggerimento del Vecchio Saggio di mettersi alla loro ricerca finché ne erano capaci.
L’evento principale, il tradimento di Elios e del Popolo dell’Aria, era stato completamente superato da quella nuova urgenza di recuperare gli antichi e misteriosi veleni, ma non dimenticato.
Tutti i Popoli di Gorm dovevano sapere, per prepararsi al meglio ad ogni possibilità. L’idea di tralasciare il cambio di posizione del Popolo dell’Aria per andare a caccia di reperti leggendari avrebbe generato qualche disappunto, e anche se erano i Signori a volerlo i popolani avevano la capacità di obiettare la scelta e di mettere in discussione la necessità e la convenienza di un simile viaggio, poiché sicuramente i grandi daicai o qualsiasi cosa nascondesse i veleni magici non era dietro l’angolo.
I Signori stessi non erano del tutto sicuri di doverlo fare davvero. Pareva loro troppo…improvvisato ed istintivo, mentre la priorità sarebbe dovuta andare alla pace, alle parole prima che al conflitto, anche se solo sotto forma di preparativi militari.
Il Vecchio Saggio non sembrava curarsi molto di queste loro preoccupazioni, e sfogliava interessato il libro. E mentre leggeva, parlava e parlava di ciò che trovava, ma non a un interlocutore specifico: parlava a sé stesso, borbottando e farfugliando. Quello che i gormiti vicini, muti e turbati, poterono capire fu che il libro era scritto da un certo Muscor, che c’erano delle precauzioni da prendere nell’utilizzare i veleni e che per qualche strana ragione i gormiti del passato erano pazzi, a detta del Vecchio.
Poi l’anziano stregone elfo smise di cianciare senz’ordine, sollevò gli occhi dalle pagine ingiallite per guardarsi attorno.
Il primo che chiamò a sé fu Kolossus. Questi si avvicinò lentamente, scosso e innervosito da tutti quegli impegni che così fulmineamente gli riempivano l’agenda oltre che per gli eventi in sé.
“Kolossus, per te e per il Popolo della Terra ho trovato un potenziamento che troverete utile, a mio avviso.” iniziò, sicuro che il Signore della Terra fosse d’accordo con le sue intenzioni, così come gli altri presenti.
“E, se non lo troverete utile, potrà sempre essere usato da altri gormiti. Si chiama vigore cristallino, e deriva dal veleno contenuto sotto forma gassosa in delle gemme luminescenti contenute in una camera misteriosa delle gallerie della Caverna di Roscamar, difese da quanto dice il libro da un misterioso Guardiano delle Gemme. Qui c’è un abbozzo di mappa.”
La strappò, e la porse a Kolossus. La vista interiore del Signore bruno percepì il pezzo di carta, ma non era abbastanza forte da capire cosa vi fosse inciso. Kolossus si sentì offeso.
“Scusami. - si scusò il Vecchio, comprendendo l’errore - Ci vorrà qualcuno con…con degli occhi…uno esperto nell’esplorazione della Caverna, magari.”
Kolossus prese in mano il foglietto, e lo strinse nel suo pugno. Osservava – per modo di dire - il Vecchio Saggio con un’espressione – altro modo di dire, almeno in parte - piuttosto contrariata.
“Credete davvero che sia la cosa giusta da fare?” gli domandò in totale serietà, con una sua risposta personale.
Il Vecchio Saggio si fece scuro in volto, e lo rivolse a terra, sospirando.
“Vogliate perdonarmi, gormiti. - si scusò con tutti, scuotendo miserabilmente la testa.
 Mi sono fatto prendere troppo dal…dall’emozione, si può dire così. Per alcuni anni ho fatto ricerche sui grandi daicai, senza mai avere prove della loro esistenza. E sapere ora che tutte quelle teorie, quasi tutte, erano esatte mi ha…mi ha offuscato la mente. La priorità è il Popolo dell’Aria, lo comprendo bene, e ho creduto troppo nella fiducia che mostrate verso di me, creduto di potervi indurre a fare quello che desidero. Perdonatemi.”
“Non fatene un dramma, Vecchio Saggio. - lo consolò Noctis - Eravate scosso, come tutti noi, e avete agito impulsivamente. Uno sbaglio accettabile.”
“Grazie, grazie davvero, Noctis. - sorrise il Vecchio Saggio - Sento ancora il mio cuore gelare per la scelta di Elios, non credere che sia tutto passato - e dicendo quelle parole si portava la mano libera al petto - Un simile episodio non si cancella facilmente…non lo dimenticherò fino alla fine dei miei giorni, mi sento in qualche modo colpevole.”
Prima che qualcuno dei presenti potesse ribattere in sua difesa o dire meramente la sua opinione, il Vecchio Saggio prese nuovamente parola.
“Per quanto possa considerare voi, tutti voi, la mia grande ed unica famiglia, qui si tratta solo di voi gormiti. Non posso, non voglio intromettermi più del necessario. Cosa farete?”
“Non dimenticheremo la diplomazia.” annunciò Kolossus, con due pugni sul petto. Ci furono delle risatine sommesse, che non passarono inascoltate alle orecchie del gigante cieco.
“Sì, so bene che il mio Popolo non è mai stato bravo a parlare, ma ci mostreremo calmi, pacati ed di buone maniere agli occhi del Popolo dell’Aria. Manderemo dei messi a chiedere loro spiegazioni…in modo pacifico, e sapere che intenzioni hanno e se si può giungere a qualche accordo…anche se tutti noi sappiamo che non c’è molta speranza.”
“Sì, non c’è molta speranza. - concordò suo malgrado Carrapax - Ma per quanto poca, c’è. E ci affideremo ad essa finché la sua fiamma ci illumina. Anche noi invieremo degli ambasciatori. Tutto questo può finire senza spargimenti di sangue, se agiamo bene.”
“Ho i miei dubbi sulle tue parole, Carrapax. - ribatté Barbataus, tastandosi pensieroso la barba.
- Ma capisco che un’altra guerra è da evitare, in ogni modo possibile. Voglio però invitare tutti voi a non dimenticare che il Popolo dell’Aria è colpevole in tutto questo, e che non possiamo mostrarci troppo caritatevoli, o potrebbero usarla come un’arma contro di noi.”
“Per quanto riguarda quel veleni. - cambiò indirizzo Kolossus - Vecchio Saggio, hai la mia parola: convincerò il mio Popolo a fidarsi di te ancora una volta, e invierò qualcuno in ricerca di queste gemme, che accompagnerò io stesso. Non sono ancora molto sicuro che sia una buona idea. Gli unici ad aver prova credibile della loro esistenza e delle loro capacità sono Noctis e i suoi, e temo che tra le mie fila non tutti potrebbero fidarsi delle parole di aerei rinnegati.”
Noctis si sentì urtato nell’orgoglio, e si fece avanti verso Kolossus impettito ed elegante.
“Signore della Terra, state mettendo in discussione la buona fede di un gormita dell’Aria…un vero gormita dell’Aria che non ha abbandonato le proprie radici. Se c’è qualcuno che può dubitare di me, che ho abbandonato tutto quanto avessi di mio a Picco Aquila, tranne mio figlio, qualcuno che può dubitare di noi, è cieco in tutti i suoi occhi.”
***
Dopo alcune ultime avvertenze da parte dello stregone, Kolossus si era diretto immediatamente alla sua casa, ignorando ciò che il Vecchio ebbe da dire a Barbataus e Carrapax subito dopo avergli parlato, augurando più a se stesso che agli altri buona fortuna prima di partire, remando con tutte le braccia sebbene avesse un solo remo, che rischiava di rompersi.
L’arrivo alle sponde del territorio di Roscamar non fu dei migliori: le nuvole che la notte prima avevano oscurato la luce delle stelle e delle lune sopra la Foresta Silente si era rapidamente spostato in mattinata nel cielo del Popolo della Terra, e non si erano limitate a coprire il sole.
Il clima dell’Isola di Gorm, in ognuno dei suoi ricchi paesaggi, sebbene quasi fisso in ogni diversa regione, era talvolta misterioso e imprevedibile: fu così che anche nella zona secca e ai confini settentrionali semi - desertica attorno alla città di Roscamar cadevano grosse fredde gocce di pioggia.
Il tempo non era a favore di Kolossus. Avrebbe dovuto parlare al suo Popolo, e avviare le preparazioni militari, e per tutto questo c’era bisogno di riunirlo, nei più grandi numeri possibili. La pioggia non lo aiutava minimamente, e dubitava di avere un folto pubblico ad ascoltarlo, e nessuna delle piazze in cui poteva dare il suo discorso possedeva ripari per la pioggia, fenomeno assai raro in quella città. Poteva benissimo recarsi subito alla Città Sotterranea e parlare all’asciutto umido delle gallerie, ma era bene informare tutti il prima possibile. A Garsomor e ai piccoli insediamenti oltre il Deserto di Roscamar ci avrebbe pensato il consigliere Gravitus.
Il Signore della Terra era confuso, nervoso, frenetico. Aveva troppe cose a cui pensare. L’avvio dei preparativi, la reazione del suo Popolo di fronte a quelle novità, l’invio dei diplomatici a parlare con l’Aria, improvvisamente chiusa a qualsiasi contatto con i Popoli finora amici.
Tutto gli sembrava più facile quando si era candidato in vista del Torneo dell’Eclissi e doveva comandare piccole squadre per respingere le ultime insignificanti presenze vulcaniche nel proprio territorio, e tenere i terricoli pronti a qualsiasi ulteriore attacco. Le responsabilità meno pratiche e che meno piacevano a Kolossus non mancarono ad arrivare nei primi giorni della signoria, anche se erano leggere e tollerabili. Ma quando cominciarono ad appesantirsi, Kolossus non fu ma capace di abituarsi e a non tornare a letto stanco anche se non aveva lottato. Per fortuna, Gravitus sembrava più che felice ad occuparsi di molte delle faccende burocratiche e ‘mentali’, ma il gigante cieco doveva guardarsi bene ad assegnargli più funzioni del dovuto. Poteva darsi delle arie e credere di essere lui il Signore e incitare i terricoli alla rivolta, perché no. E oltretutto il consigliere che faceva molti lavori per il Signore non dava affatto una buona immagine di Kolossus, tra i suoi sudditi e gli altri Popoli.
Non riusciva a concentrarsi troppo su un singolo pensiero che subito si preoccupava per un altro. Ma su di uno ritornava frequentemente: lo aveva attirato, anche se su Iustinsula non l’aveva dato a vedere, l’idea del Guardiano delle Gemme. Non sapeva bene perché dovesse esistere un guardiano, o perché le gemme del vigore si trovavano lì e solo lì, ma se davvero esisteva doveva essere rimasto a guardia di quella misteriosa grotta per almeno un secolo. Doveva essere una figura mitica, e sicuramente un combattente degno di essere affrontato.
Nell’incamminarsi a passo rapido verso la piazza centrale di Roscamar, mentre la pioggia scendeva rapida sulle sue scaglie, incontrò qualche suo suddito. Non tutti, sembrava, lo salutavano con l’inchino d’onore. Forse non lo avevano visto o forse il rumore della pioggia offuscava i sensi della sua mente. Uno gli si avvicinò, con tono preoccupato e curioso, ma educato, chiedendo:
“I miei saluti, mio Signore. Posso chiedervi cosa è successo?”
“Un grosso dramma.” replicò frettolosamente Kolossus, continuando ad avanzare. Il suddito lo seguiva interessato.
“Devo parlare al mio Popolo. Il dramma è grave, e tutti devono sapere. Raduna quanti più poi alla Piazza del Toro, e cercami il consigliere, se sai dov’è. Per cortesia.”
“Riguarda il Popolo dell’Aria, non è vero?” domandò rassegnato il terricolo.
Come faceva a saperlo? Che l’Aria avesse già agito? Forse qualcuno aveva origliato il discorso tra Kolossus e il messo di Noctis e le voci di ciò che si era verificato si erano sparse. Kolossus non perse tempo a domandargli di ciò che sapesse, limitandosi a ripetergli di radunare amici e parenti.
Proseguì per la sua strada verso la vicina Piazza del Toro, non molto distante dalla Caverna di Roscamar. A tutti coloro che incontrava fuori in balia della pioggia diceva di chiamare quanti più potessero per incontrarsi in piazza. Contrariamente a quanto si aspettava, molti si affrettarono a richiamare persone e a seguirlo, ignorando la pioggia. Le voci dovevano essersi sparse, e in fretta, e molti erano a desiderare risposte e conferme.
Si chiuse in uno stanzino circolare di pietra nella piazza, attendendo l’arrivo di ulteriori sudditi, di Gravitus e formulando il suo discorso.
Mentre cercava di prevedere le domande e i dubbi che gli avrebbero posto i popolani, la pioggia sembrava rallentare la sua caduta e picchiettare sempre più debolmente sul tetto di quella camera.
Qualcuno dunque bussò alla porta. Kolossus si piombò ad aprire, ma non per parlare o far entrare il gormita appena arrivato –il consigliere - , bensì per uscire e fare il suo discorso a tutti coloro che si erano riuniti.
Uscì con Gravitus che lo tempestava di domande, e una folla molto più corposa di quanto si era aspettato ad attendere le sue parole sotto la pioggia che si era indebolita, ma ugualmente incessante.
La Piazza del Toro non era proprio l’ideale per dare discorsi. A parte quella casa abbandonata –che cosa ci faceva poi in mezzo alla piazza? - e una fontana poco più avanti, non presentava alcuna struttura o podio in cui un Signore o un predicatore poteva parlare, e non c’era stato il tempo di allestirne una, e non ce ne sarebbe stato. Quindi, saltò in cima al tetto della casetta, dove potessero vederlo bene anche quelli alle estremità della piazza, e parlò.
 
Scalpore e incredulità avevano colpito il Popolo riunito che rimuginava e borbottava preoccupato, aggiungendo i loro mormorii tremanti al ticchettio della pioggia sul pavimento e sulla loro pelle.
La notizia era davvero travolgente e drammatica, e completamente imprevedibile. Nessuna voce al riguardo, nessun preavviso, nulla che potesse far capire ai Popoli alleati le intenzioni di Magor.
Aveva agito nel silenzio e nella più totale impreparazione nemica, e la cosa che destò più terrore fu il successo da lui ottenuto.
Ma i terricoli erano un Popolo dall’animo forte, oltre che dalla dura scorza. Si adattarono presto a quella nuova realtà, sebbene i loro cuori erano raggelati dalla sicurezza che l’Isola di Gorm era spezzata irreparabilmente e che molti di loro avrebbero ancora una volta dovuto affrontare volti amici. Questa volta però, tali volti avrebbero potuto non mostrare pietà. I terricoli di Roscamar si fecero forza: avevano affrontato molte altre disgrazie, e ne erano usciti più forti di prima. Tra queste, la memorabile guerra contro i dragoni che aveva mietuto numerose vittime e procurato danni immani al territorio. Ma i terricoli li avevano vinti, anche se respingerli in territorio vulcanico già a quel tempo era stata vista come un’idea discutibile. Poi, il Grande Sacrificio, da cui tutti i gormiti dell’Isola erano tornati rinforzati, ma, stando ai racconti dei superstiti ancora in vita, di grande importanza per i terricoli. Si diceva che Roscamar e la Città Sotterranea fossero le città in cui fu mostrata la maggiore resistenza nei confronti dei vulcanici, anche se caddero inevitabilmente come tutto il resto.
Si sa, i terricoli, un po’ come i vulcanici, non dispiacciono la lotta. L’imminenza di allestimenti di difese, ristabilimento di eserciti e di gradi militari, ritornare a imbracciare armi e corazze non fu vista come un impegno di grande peso, sebbene serpeggiasse una certa insicurezza tra i soldati che ancora una volta vedevano propri amici come avversari.
Il morale si risollevò alla notizia dei potenziamenti magici che si sarebbero dovuti cercare. Diversi, non solo soldati, mostrarono uno spiccato interesse verso le gemme del vigore.
Kolossus, dopo aver discusso sul da farsi con Gravitus, dichiarò che sarebbe stato lui a mettersi alla ricerca della grotta che le nascondeva, ma richiedeva qualcuno che lo accompagnasse, un terricolo conoscitore degli intricati e più inesplorati cunicoli della Caverna di Roscamar ma che sapesse anche difendersi con esperienza, in vista della lotta con il Guardiano.
I volontari furono in gran numero, e tra di essi anche quelli che non soddisfavano uno dei requisiti del loro Signore, talvolta anche entrambi. Kolossus doveva scegliere con cura. Non poteva rischiare di perdersi e compromettere ogni cosa, né che un suo suddito morisse –tanto meno lui stesso.
Alla fine, il Signore della Terra trovò il proprio accompagnatore. Gravitus si occupò di informare tutti i centri della Terra e di raccogliere tutti i soldati pronti e di arruolarne di nuovi.
Kolossus si fermò nella piazza centrale della Città Sotterranea a ripetere un simile discorso, prima di inoltrarsi nelle gallerie meno illuminate.
Il suo socio era un gormita di bassa statura e carnagione bruno chiaro e a tratti grigio scuro, che di nome faceva Ierir Alagari, ma era meglio noto con il soprannome affibbiatogli dai suoi colleghi minatori per la sua velocità ed efficienza nel lavoro. Negli scavi, che utilizzasse una pala, una vanga, un piccone o le nude mani, era di una velocità impressionante nel creare buchi e interi cunicoli. In molti casi la rapidità coincide con un lavoro fatto male, ma questo non era il caso di Ierir. Per la velocità con cui scavava, il modo in cui letteralmente divorava la terra, veniva chiamato Mangiaterra.
Sebbene basso per la media gormitica, le braccia erano molto lunghe e sottili, interamente di una tonalità di marroncino tendente al giallo, con sette lunghe dita. Il suo torso era lineare, triangolare e sottile come profondità, ma massiccio in larghezza. La testa, grigia come il torace, era pelata e priva di dettagli particolari, quasi incassata tra le spalle. Aveva occhi sottili verdi e una bocca molto ampia, con numerosi piccoli denti, che nessuno –tranne forse il suo medico di fiducia - sapeva quanti fossero con esattezza: ogni volta che glielo si chiedeva, il numero cambiava, anche di molto.
Lui e il suo Signore non procedettero immediatamente con la loro missione: tra una cosa e l’altra, i discorsi, i preparativi, il viaggio e le faccende da Signore che doveva sbrigare Kolossus, si era fatta notte, ed era opportuno fare una bella dormita prima di avviare la missione, che sarebbe potuta durare diverse ore e il cui scontro finale –se ci fosse stato - poteva dimostrarsi faticoso.
Così Kolossus e Mangiaterra si accamparono per la notte in una tenda, nei pressi di un sito minerario, poco lontano da dove avrebbero dovuto cominciare la loro ricerca, secondo quanto detto da Ierir.
Kolossus faticava a dormire, guardando il buio davanti a sé che vedeva sempre. Ma sapeva di essere sveglio, e che il sonno non l’avrebbe preso facilmente.
Non era colpa della scarsa comodità dei loro letti –non che i canoni di comodità dei terricoli, compresi quelli riservati ai Signori, fossero molto alti - , né della fatica, più mentale che fisica, che gli fiaccava le membra.
La sua mente era invasa dai pensieri, e più ne scacciava uno più un altro prendeva prepotentemente il suo posto.
Era successo tutto così in fretta, Kolossus doveva sforzarsi di ricordare per bene i fatti e il loro ordine nel tempo. Il tradimento del Popolo dell’Aria, così inaspettato e tragico. Chissà se Elios aveva già parlato a tutti i suoi sudditi, e se li avesse convinti tutti o ci fosse stato qualche altro disertore ancora dalla parte del Vecchio Saggio, come Noctis. Kolossus, gormita dal cuore generoso, capiva i motivi per cui gli aerei, anche in disaccordo, rimanevano al fianco di Elios: perdere la loro casa, averi e familiari era dura. Però non poteva nemmeno perdonarli. Elios poteva perdonarlo meno di tutti. Lo irritava di più il fatto che avesse attaccato Carrapax, suo grande amico, alle spalle, un colpo al collo che si sarebbe potuto dimostrare fatale.
La reazione dei suoi sudditi nei confronti del nuovo panorama non lo aveva colto alla sprovvista, ma gli dava comunque da pensare: sapeva che nel profondo della scorza dura e testarda di ogni terricolo batteva un cuore sensibile, e che affrontare vecchi amici non sarebbe stato affatto facile per nessuno di loro, al contrario di quanto sostenevano. Ma voleva averne la conferma: la freddezza crescente dei terricoli cominciava a preoccuparlo, e combinata alla loro passione per la lotta li faceva assomigliare a dei vulcanici moderati…chissà per quanto ancora però.
Poi il mitico Guardiano delle Gemme. Non sapeva con chi avrebbe avuto a che fare, e come già detto metteva in dubbio la sua esistenza, e forse anche quella delle gemme stesse. Da una parte sperava che il guardiano esistesse: era da tanto che non affrontava un combattimento degno di essere affrontato, e si preoccupava di essere fuori allenamento. Dall’altra, pregava che non esistesse, che fosse una finzione per tenere lontani dalle gemme gormiti troppo curiosi –idea che dovette scartare immediatamente: che senso aveva nascondere quegli amuleti per poi divulgarne la presenza in un libro? - : temeva di non esserne all’altezza.
“Devo smetterla di grattarmi.” esclamò tutt’un tratto Mangiaterra.
Kolossus sospirò. Infine c’era lui, a rovinargli il sonno. Un gormita davvero curioso, e lo sentiva grattarsi e rigirarsi senza fine sul materasso di piume e paglia, originando un rumore che avrebbe svegliato qualsiasi animale dal letargo, nonostante avesse appena detto di non doversi grattare.
Aveva già potuto appurare che quel gormita aveva qualcosa che non andava. In diversi momenti imprevedibili e in occasioni a volte imbarazzanti, se n’era uscito con affermazioni del tutto insensate e non pertinenti, e non sembrava vergognarsene affatto. E alle volte, quando veniva interpellato, non rispondeva, e se lo faceva lo faceva replicando idiozie o quando il richiedente si era dimenticato la domanda.
Uno svitato, fu la prima impressione di Kolossus quando scoprì quella sua insolita attitudine. Ma per quanto riguardava l’esperienza nella lotta era ben allenato, e per la dimestichezza con i labirinti oltre la Città Sotterranea glielo aveva assicurato più volte, lui come i suoi superiori, colleghi, amici.
Se Ierir continuava però a fare tutto quel rumore, Kolossus non si sarebbe di certo addormentato, e forse nemmeno lui. E il giorno seguente ne avrebbero pagato le conseguenze.
 
“Sei sicuro di non esserti perso, Mangiaterra?” domandò irritato Kolossus, davanti a una luminosa pietra di luce sulla parete che separava due bivi. Era sicuro di essere passato davanti a quel bivio più di un paio di volte, e dubitava di sbagliare: le gallerie che dovevano attraversare erano inesplorate ai più, e non potevano esserci delle pietre di luce a chiarire il cammino.
Mangiaterra non rispondeva, continuava a girare la mappa del libro di Muscor per capire con esattezza la strada giusta da prendere, segnando varie croci – a volte si perdeva in disegni - sui diversi sentieri. Non pareva affatto disturbato dalla fretta crescente di Kolossus né si sentiva in colpa per aver effettivamente fatto diversi giri a vuoto intorno a quel bivio.
Ierir si era portato con sé una cotta di maglia e una corazza per la parte superiore del corpo a mosaico, costituita da numerosi tasselli quadrati dipinti sulla faccia frontale di svariati colori, oro, argento, nero, arancione.
Kolossus non aveva alcuna armatura. In compenso portava un cinturone alla vita con quattro diverse armi: un martello, un ascia, una mazza e uno spadone, e in più diversi sacchi avvolti e arrotolati, con cui avrebbero dovuto portare indietro le gemme del vigore.
“Ecco!” esclamò all’improvviso Mangiaterra, dirigendosi a passo rapido con una pietra di luce verso la galleria alla sua destra. Kolossus non se ne accorse subito, e dovette corrergli dietro per non perderlo.
“Spero che questa volta non ci ritroviamo nello stesso bivio di prima.” borbottò Kolossus.
“Non succederà, giuro.” assicurò stranamente pertinente Ierir, poggiando una mano sul cuore e chiudendo gli occhi, cosa che gli fece perdere l’orientamento e inciampare sul suo Signore. Si rimise in sesto immediatamente, arrancando davanti a Kolossus e guidandolo.
Quelle prime gallerie erano ancora piuttosto alte e larghe, a significare che erano ancora vicini alla civiltà. Ma il Signore della Terra, pur non potendolo vedere, sentiva che i cunicoli diventavano sempre meno ampi. Lo sentiva per la terza o quarta volta, e quella ripetitività gli stava dando alla testa.
Non poteva percepirlo con precisione ne essere sicuro di cosa avesse attorno a sé, ma era convinto che quelle gallerie fossero ancora illuminate da pietre di luce, che ad ogni decina di piedi diventavano sempre meno frequenti. Non che Kolossus ne avesse bisogno. Mangiaterra sì, ma aveva la sua scorta.
Arrivarono, per l’ennesima volta, in un punto in cui la galleria si allargava enormemente, anche se era ormai molto bassa. Diversi cunicoli più o meno stretti si aprivano di fronte a loro.
“Non torniamo di nuovo indietro, adesso.” ordinò Kolossus. Non succedeva spesso, ma in quel momento si sentiva impotente a causa della sua cecità. Se avesse avuto tra le mani la mappa, se avesse potuto leggerla avrebbe potuto scegliere lui la strada da percorrere e si sarebbe risparmiato la fatica di compiere diversi giri a vuoto…forse. Ma Kolossus non poteva fare nulla di tutto quello, e anche se ne fosse stato capace, lui non era pratico delle intricate gallerie della Caverna di Roscamar, e aveva bisogno di Ierir, che gli era stato detto fosse un individuo di competenza. Anche se già da tempo aveva cominciato a seccarlo.
Ierir si portò la mappa davanti alla faccia. Tracciò qualcosa di continuato sul foglio, forse una lunga linea. Senza dire nulla, cosa che faceva innervosire ancora di più il cieco Kolossus, proseguì per uno dei cunicoli di fronte a lui.
Kolossus non parlò, si trattenne dal dire qualsiasi cosa avesse prima in mente di dire. C’era qualcosa di diverso nella galleria che avevano appena imboccato. L’aria aveva un odore diverso, e Kolossus si sentiva le pareti più pressanti che mai prima. Non erano entrati nello stesso tunnel di prima, ma bisognava aspettare per gioire o considerarlo un successo: c’era sempre la possibilità di perdersi di nuovo e ritornare al bivio iniziale.
La galleria era davvero molto stretta, quasi pressante, e si sentiva un certo freddo. A Kolossus ricordò per un istante il buio e inquietante cunicolo d’emergenza che passava per il soffitto del tunnel della galleria nord - occidentale, utilizzato pochi anni prima per accertarsi e respingere della presenza delle forze di Magmion nella regione. Kolossus non aveva belle memorie riguardo quel buco. Da piccolo ci si era perso per uno scherzo di alcuni suoi amici, e non ci aveva più messo piede da quando uscì.
“E’ davvero umido qui dentro. - se ne uscì Mangiaterra - Non dovrò farmi il bagno.”
Una delle sue solite idiozie. Non era affatto umido, in primis. Kolossus si sentiva asciutto e anzi cominciava a tremare per il freddo. Dovevano essere senza accorgersene scesi molto in profondità.
Se erano incappati in altri bivi o diramazioni, Kolossus non se n’era accorto. Seguiva silenzioso Mangiaterra, che al contrario non era affatto silenzioso, ma allo stesso tempo non diceva nulla di concreto. Borbottava riflessioni a voce alta, ma non abbastanza perché Kolossus potesse comprendere di cosa si trattasse. Almeno questa volta il viaggio proseguiva in maniera lineare, e non pareva di essere ritornati al punto di prima. Kolossus chiese a Ierir, per conferma, se erano davvero sulla strada giusta. Mangiaterra disse di sì…ma in maniera enigmatica: affermò che non c’erano più pietre di luce a illuminare il cammino, e che si stava facendo strada con una della sua scorta. Kolossus capì che si erano inoltrati nei labirinti inesplorati. Non dava la conferma che erano sul percorso corretto, ma Kolossus si fece bastare quella risposta.
Ad un certo punto, cominciò ad echeggiare nei cunicoli un bizzarro, inquietante lamento.
Non era riconducibile a nulla che Kolossus conoscesse. Non era il pianto di un gormita, né sembrava essere uno scherzo della natura, come il rimbombo di acqua sulla pietra, come Kolossus sperava inizialmente. Sembrava il richiamo di un animale. Un richiamo per cosa? E cosa ci faceva l’animale laggiù?
Kolossus era preoccupato. Non vedere niente e sentire i guaiti di un mostro sconosciuto non gli infondeva alcuna sicurezza. Poteva essere il richiamo del mostruoso Guardiano, un lamento magico che forse stava attirando Kolossus e Mangiaterra in una trappola. Non si sentiva a suo agio, al contrario di Ierir, che continuava a bofonchiare, con voce più alta.
“Hm, già. L’agromanto rovina il pasticcio di tacchino.” esclamava quasi estraneo alla situazione. Kolossus avrebbe spalancato gli occhi se li avesse avuti.
“Cosa credi che sia?” non poté non domandargli il Signore della Terra, per avere la sua opinione.
“Mah, boh. Dei pipistrelli.” rispose disinteressato Mangiaterra.
Non gli piacque quella risposta. Era un suono che non somigliava affatto a qualsiasi verso o rumore che potessero produrre dei pipistrelli, senza contare che quegli animali notturni vivevano sempre in compagnia, e il proprietario di quel lamento era sicuramente una sola creatura.
Proseguirono nella sicurezza di essere sulla strada giusta con quel gemito ululante che interrompeva il quasi totale silenzio a ritmi irregolari ad accompagnarli.
In seguito Kolossus incespico addosso a Mangiaterra, che si era inspiegabile fermato, di lato alla parete. Mangiaterra non sembrò soffrire dell’urto, ma al contrario Kolossus, disorientato, arrancò e cadde all’indietro nel tentativo di non rovinare su Ierir e portare entrambi con la faccia sulla dura terra.
“Ierir Alagari, che diamine stai facendo?!” urlò Kolossus definitivamente spazientito, rialzandosi e avanzando verso Mangiaterra con passo feroce.
“Perdonatemi, Signore. - si scusò, con un tono che faceva capire che l’aver fatto arrabbiare il proprio Signore non lo toccava minimamente - Ho trovato qualcosa, su questa parete.” e la illuminava con la pietra che aveva in mano.
“Qualcosa? - sbuffò il Signore, togliendosi di dosso la polvere accumulata con la caduta - Spiegati meglio.”
“Un disegno. Un graffito.” chiarì Ierir.
“Un graffito? Qui? Com’è possibile?” chiese Kolossus ora interessato. Si avvicinò alla posizione di Ierir, poggiò le mani sul graffito. Sì, c’era davvero, sentiva la roccia scalfita dallo scalpello e limata dalla pittura, ma non riusciva a capire cosa fosse rappresentato. Dovette chiedere a Mangiaterra di descriverglielo.
In alto, vi erano disegnati tre cerchi. Uno rosso, uno blu, al centro uno verde, con un raggio più grande. Mangiaterra affermò con sicurezza che si trattava delle tre lune.
In basso, ai lati, due figure dalle braccia tese che puntavano al cielo, alla luna verde Greemerald.
Tra le due figure, numerose altre, che guardavano verso l’alto con espressioni di stupore. Tra la folla in basso e le lune nel cielo, immediatamente sotto il grande cerchio verde, vi era una sfera più piccola, dipinta con un azzurro chiaro, adornata da piume e da un paio di grandi ali candide. Mangiaterra disse che quel piccolo cerchio alato era l’Occhio della Vita, e che quella era una rappresentazione di uno dei miti riguardante il culto degli Osservatori. Cosa ci facesse in quella sperduta galleria non osò presumerlo.
Kolossus rimase incantato a tastare il graffito, incuriosito da ciò che rappresentava e dal perché si trovava lì. Dovette presto abbandonare il suo interesse per quella pittura che Mangiaterra si era allontanato senza avvisarlo. Si mise a correre, mentre sentiva che il lamento incessante si era fatto più forte.
Si ritrovò nuovamente a sbattere contro di lui, stavolta facendolo cadere. Sentì poi un forte gemito per niente familiare, che non poteva essere di Ierir, ma la sua fonte era vicinissima.
“State attento!” lo avvisò Mangiaterra, distanziando il suo Signore da sé.
Kolossus credeva di aver capito, e immediatamente estrasse il martello dal suo cinturone.
“Che cosa abbiamo, Mangiaterra?” chiese gridando, mentre il lamento si ripeteva a pochi passi da Kolossus.
“Mettete via quell’arma, lo spaventerete.”
Kolossus non obbedì. “Che cosa c’è?”
Mangiaterra spiegò che era un bisonte roccioso. Uno degli animali comuni nei territori del Popolo della Terra, tipici della Valle dei Canyon. Grossi bisonti dal corto pelo che sfumava dal biondo al bruno, dalle gambe sottili ma robuste, e un cranio con due grandi corna coniche sulla fronte.
“Cosa ci fa qui un bisonte roccioso? E’ ferito?” chiese Kolossus, decisosi infine a riporre il suo martello, e chinatosi ad accarezzare l’animale. Erano creature abbastanza docili, se ci si avvicinava piano e non si mostrava loro segno di pericolo.
“Dev’essersi perso. Chissà da quanto tempo si lamenta e non mangia. Povero bisonte! Povero Roscalion!” lo coccolava, mentre procedeva a passargli un po’ di energia per rimetterlo in piedi.
“Roscalion?” domandò il gigante cieco grattandosi il capo.
“Sì. Lo chiamerò Roscalion, guardiano della Caverna di Roscamar. Che ne dici, ti piace?” spiegò a Kolossus e domandò al suo nuovo amico animale, accarezzandogli sorridente la schiena che, rimessosi in piedi, scosse il capo e grugnì soddisfatto.
“Sì, gli piace.” assicurò Mangiaterra a Kolossus, saltando in groppa al nuovo acquisto. Si incamminò quindi, e Kolossus trovò strabiliante come fosse riuscito a farsi amico l’animale e a domarlo. Ma ritornò presto alla realtà.
“Lo portiamo con noi?” domandò contrariato Kolossus.
“Non possiamo permetterci di tornare indietro. Siamo quasi arrivati ormai. Dico bene, Roscalion?”
“Ah, hai ragione. - dovette trovarsi d’accordo - Bene. Allora fammi strada. E va’ piano.”
I due –i tre - proseguirono dunque per il loro tragitto, con Mangiaterra alla guida sopra Roscalion, mappa alla mano. Kolossus non era per niente sicuro che portarsi dietro quel bisonte roccioso appena salvato fosse una buona idea, né che fossero davvero sulla buona strada. Con Ierir non si poteva mai sapere, e la destinazione poteva essere ancora molto lontana.
L’ultimo dubbio di Kolossus fu risolto: dopo pochi minuti di viaggio nell’oscurità, ci fu nuovamente la luce.
“Mio Signore, c’è di nuovo luce.” lo informò Ierir, scendendo da Roscalion.
“Ah sì? Da dove proviene?” domandò.
“Dall’altra stanza, oltre questo ponte. Ci sono un sacco di pietre di luce appese, e una porta.”
Kolossus avanzò a tentoni. Percepì il ponte di roccia, forse naturale, molto stretto almeno all’inizio, che dava su un vuoto inimmaginabile.
“Le gemme si trovano al di là?” chiese.
“Credo di sì.”
Erano quindi giunti alla resa dei conti. Se le gemme esistevano, erano a qualche decina di piedi da loro, e l’ultimo ostacolo oltre il ponte era il leggendario Guardiano.
“Dobbiamo passare in fila su questo ponte, o cadremo. Vado per primo io.” li avvisò Kolossus, incamminandosi. Non temeva di cadere. La sua vista era assente, ma gli altri suoi sensi e gli occhi della sua mente erano forti e attenti, e lo avrebbero tenuto in vita.
“Roscalion, è meglio che tu resti qui. Sei troppo grande per il ponte.” Mangiaterra si occupò del suo amico a quattro zampe, abbassandosi per accarezzargli il muso. La sua familiarità con gli animali era davvero impressionante: il bisonte roccioso li aveva seguiti fin lì senza fare alcuna storia, nonostante chiaramente il suo massimo desiderio fosse uscire e mangiare, cosa che la condivisione di energia non poteva sostituire o pareggiare. Mangiaterra sapeva che avrebbe potuto seguirlo anche oltre ma non voleva perderlo ora che l’aveva salvato, e temeva più per lo scontro con il guardiano che il passaggio sicuro attraverso il ponte.
“Resta qui, capito?” gli ordinò un’ultima volta, prima di correre per il ponte e rimanere vicino a Kolossus, anche lui senza la minima paura di cadere.
Il Signore della Terra fremeva di eccitazione al pensiero del Guardiano delle Gemme, e allo stesso tempo di paura di esser giunto fin lì e non essere capace di vincerlo. La sua riluttanza nel credere all’esistenza del Guardiano e delle gemme del vigore svanì in un attimo, nel vedere ciò che lo aspettava oltre il ponte. Una grande porta di pietra, adornata da due enormi pietre di luce come mai se ne erano viste poste su degli scettri, e davanti alla porta una figura alta quasi indiscernibile dal muro di roccia grigia, dello stesso colore e forse della stessa consistenza.
Arrivando in un batter d’occhio all’entrata con un salto, vide allora le vere fattezze del Guardiano delle Gemme.
Si erse imponente e molto alto dalla grande parete rocciosa che separava quella zona dalla camera contenente le gemme. Non era naturale. Molto più alto di un gormita, la sua pelle se di pelle si poteva parlare era d’argento, o di platino, e forse non solo nel colore. Aveva una lucentezza anormale per una pelle fatta di carne: era fatto di metallo? Le sue fattezze parevano quelle di un gormita. Quattro dita alle mani, piedi zoccolati. La sua testa era piatta con tre occhi, anch’essi di quella insolita lucentezza metallica. Kolossus ovviamente non poteva rendersi conto di tutti questi particolari, e dovette entrare nella mente di Ierir, che sembrava essere toccata per la prima volta dalla paura, per capire con esattezza cosa stava affrontando.
 
Kolossus cadde stremato e rassegnato a terra, ansante come non mai. Mangiaterra non era messo molto meglio, e anche lui dovette abbandonarsi alla supremazia combattiva del loro avversario.
Si era dimostrato un combattente davvero eccezionale come lui e i suoi conoscenti gli avevano assicurato, ma nulla sembrava essere utile contro il Guardiano.
Ogni attacco andava a vuoto. I colpi corpo a corpo, oltre che a non dare alcun guadagno finivano col ferire chi li aveva sferrati. Attacchi di roccia non sembravano essere di alcun effetto sul corpo di metallo del misterioso guerriero. Il Piggstrad di Kolossus era riuscito a perforargli le gambe, ma con disgrazia scoprirono che a meno che non lo distruggevano completamente il Guardiano non si fermava. Era interamente di metallo, forse non era nemmeno vivo. Non soffriva le ferite e gli attacchi mentali non erano attuabili.
Kolossus non se la sentiva di continuare. Contro qualcosa che sembrava rinnegare tutte le certezze che potevano essere usate per abbattere un nemico non c’era motivo di andare avanti e sprecare le proprie forze. Non era da Kolossus abbandonare le missioni e arrendersi nelle lotte, ma tra la possibilità di morire senza aver ottenuto nulla e quella di aver fallito ma essere ancora in vita, preferiva di gran lunga quest’ultima. Non solo per lui, ma per il suo Popolo: un Signore morto, o peggio ancora disperso era un grattacapo per la continuità della signoria.
Ma chissà per quanto ancora sarebbe rimasto in vita: il Guardiano si era fermato quando i due terricoli avevano cessato i loro attacchi e si erano lasciati andare alla forza di gravità. Cosa avrebbe fatto ora? Li avrebbe lasciati andare.
“Voi vi arrendete.” esclamò una voce proveniente dal nulla.
“Sì.” fu la prima cosa che saltò in mente di dire a Kolossus, sentendo quelle parole. Poi ci pensò su, e si preoccupò. Chi aveva parlato?
“Non era una domanda.” disse la stessa voce.
Dal mostro di metallo uscì un’essenza, una parvenza di individuo, una proiezione dell’aspetto di un gormita che era. Uno spettro bianchiccio, dalla forma simile a quella che aveva il Guardiano, i colori sbiaditi.
Kolossus non lo vedeva, ma in qualche modo lo sentiva.
“S - sei un fantasma?” domandò strisciando indietro.
“Certo che sì. Cos’altro potrei essere?” domandò ironico il fantasma.
“Come facevi a controllare quel…il Guardiano?” domandò di nuovo Kolossus, che cercava di prendere tempo per scappare, non avendo una buona opinione dei fantasmi. Fantasmi: proiezioni di un materiale luminoso del corpo morto di un individuo, la cui paura per la morte e il desiderio di continuare a vivere erano tanto grandi da permettere alla sua coscienza e personalità di sopravvivere finché non sarebbero stati pronti a lasciare per sempre il mondo dei vivi. Non rari, ma nemmeno comuni, poiché per far sì che la propria coscienza sopravviva, oltre a un grande attaccamento alla vita e a un particolare compito da svolgere prima di morire era necessario essere addestrati in una qualsiasi delle vie della forza magica, abbastanza da essere in grado di manifestarla sotto forma di luce o ombra.
“Non sei molto informato su noi fantasmi, dico bene? - gli fece notare il fantasma - Possiamo ancora manipolare la realtà, ed è ciò che ho fatto con questo guscio di metallo.”
“Voi siete stati sconfitti dal mio Guardiano. - continuò - Perché non eravate abbastanza forti da sconfiggerlo. Vi siete arresi. Ciò facendo, avete passato la mia prova, e ottenuto il diritto di utilizzare le gemme del vigore.”
“Aspetta…cosa?” domandò incredulo Kolossus. Tutto si stava ribaltando. Non credeva alle sue orecchie: mai avrebbe pensato di ottenere qualcosa perdendo.
“Chi sei? E cos’avresti fatto se lo avessimo sconfitto?” chiese Kolossus, strisciando in avanti, interessato a capire – e ad avere le tanto agognate gemme.
“Io fui Muscor, gormita del Popolo della Foresta.” dichiarò. Kolossus si ricordò di quel nome: l’autore del libro rinvenuto dal Vecchio Saggio.
“Ai miei tempi, scoprii grandi cose sulla magnifica ed intrigante specie vegetale nota come grande daicao. Le abilità magiche dei loro veleni, le diverse varietà, le loro collocazioni. Divulgai le mie scoperte ai miei contemporanei: essi furono ammaliati dalle potenzialità di questi veleni, ma non capirono la loro pericolosità. E questo, il veleno contenuto nelle gemme del vigore, era tra tutti il più pericoloso: ho spento anni a cercare un metodo per renderlo meno potente ed utilizzabile. Poteva uccidere i gormiti, e molti ne abusavano, assorbendone quantità tali da renderli inarrestabili. Anche diluito e trasformato in gas dentro queste gemme, poteva essere dannoso. Questo non potevo permetterlo. E nemmeno che i gormiti utilizzassero questi veleni senza precauzioni. Così, nascosi qui tutte le gemme che avevo creato, celai tutte le posizioni dei daicai che generavano il loro veleno e lasciai i miei libri per Gorm, attendendo un tempo in cui i gormiti avrebbero davvero avuto bisogno di queste gemme, e lo avessero dimostrato venendo sconfitti dalla mia creazione.”
Kolossus spalancò la bocca.
“Avevi davvero voglia di dire tutto questo, eh? - trovò la forza di scherzare Mangiaterra - Non te lo abbiamo chiesto.”
“E’ mio dovere dirvelo. - spiegò Muscor - Non lascerò che i gormiti di questo tempo abusino dell’enorme potere delle gemme come è successo ai miei giorni. Voi dovete sapere.”
Agitò una delle sue braccia da fantasma, e pronunciò un codice magico. La porta di pietra scavata nella roccia si aprì, rivelando oltre di essa una stanza piena di luminose gemme di grossa taglia –per delle gemme. Simili alle pietre di luce, ma di un netto colore verde limone.
“Ecco, le gemme del vigore sono vostre. - annunciò intrecciando le braccia - Vostre e di chiunque riteniate abbastanza sano di mente da poterle usare. Le gemme vanno spezzate, e tutta l’aria respirata. Siate cauti: una gemma per ogni gormita, non di più, non di meno, o tutti gli anni passati in questo limbo tra vita e morte saranno stati inutili.”
“Non ci hai detto come ti saresti comportato con dei vittoriosi. - sussurrò Kolossus, avvicinandosi spaventato e stupefatto alla grande camera piena di luce verde - Noi siamo i primi?”
“Non ha più importanza. - rifiutò di rispondere Muscor - E sì, siete i primi. Ma meglio tardi che mai.”
“Ora…ora, ah…” mormorò Muscor, portandosi una mano all’addome, con gemiti quasi di dolore.
Si guardò la propria mano. Si stava dissolvendo, come fumo.
“Il…il mio tempo è dunque finito.” dichiarò, mentre la sua parvenza si faceva sempre più offuscata.
“Voi ora sapete la verità. Il mio compito è terminato: non ho più motivo di esistere.”
“Stai…stai…‘morendo’?” chiese Kolossus, che si sentiva improvvisamente triste per il destino che era toccato a Muscor.
“Sì.” disse sottovoce il fantasma, con entrambe le mani alla pancia. La sua voce era flebile, e trasaliva debolezza infinita da ogni parte del corpo ancora ‘intatta’.
“Finalmente le Somme Forze stanno venendo a prendermi. Non dovrò più soffrire.”
“Ma io sarò immortale. Gormiti! - urlò, incanalando tutta la ‘forza’ che aveva nella sua voce - Non dimenticatevi dei miei avvertimenti, non dimenticatevi del mio nome!”
“Muscor!” gridò un’ultima volta, prima che la luce del suo corpo scomparve per sempre.
***
Kolossus non era ancora giunto al largo di Iustinsula, che il Vecchio Saggio sfogliò frettolosamente le pagine del libro di Muscor, rivolgendosi per secondo all’anziano Signore della Foresta.
“Barbataus, anche tu, come Kolossus, dovrai inoltrarti nel tuo dominio per potenziare il tuo Popolo di fronte all’Aria” cominciò. Barbataus ascoltava silenzioso, attendendo educatamente la fine del discorso dell’attempato stregone prima di dire la sua.
“Ecco, una mappa del tuo obiettivo, Barbataus.” disse, strappando meticolosamente la cartina dal libro, assicurandosi che nessun dettaglio rimanesse al libro e che sull’altro lato della pagina non ci fosse nulla di importante.
“La missione nella Foresta potrebbe essere potenzialmente più pericolosa delle altre, Barbataus.” gli sussurrò il Vecchio Saggio.
Il verde Signore tremò per un istante. Decise però di non interrompere ancora lo stregone, aspettando che gli rivelasse tutto prima di parlare.
“Il veleno in questione conferisce il potere del mimetismo perfetto. - narrò il Vecchio, senza però gettare lo sguardo sul tomo, come se ne fosse già a conoscenza - Esso in teoria rende capaci di una mimetizzazione totale del proprio corpo e di ciò che si ha con sé con l’ambiente circostante.”
“Il problema. - si asciugò la fronte, un po’ impaurito - E’ che questo veleno non è stato estratto, filtrato e o contenuto altrove come per le gemme di Kolossus. Non è mai stato preso dal grande daicao che lo possiede.”
Barbataus cominciava a capire dove stava la pericolosità.
“Questo libro è datato. - continuò il Vecchio Saggio, questa volta esprimendo il proprio parere invece che riassumere il contenuto del volume - Il grande daicao potrebbe essere morto da anni, e in tal caso potreste non trovare niente sul posto, nemmeno un dente con ancora del veleno all’interno. Sì, i veleni magici si trovano nei denti di queste creature. In tutti quanti.”
Il Signore della Foresta sapeva bene come erano fatti i daicai: grosse dionee con un tronco abbastanza solido, e due teste dentate con una discreta capacità di movimento. Ma non aveva idea di come potesse essere, di quanto davvero grande fosse un grande daicao.
“Qui non vi è scritto nulla su come ottenere questi denti dalla bestia. - seguitò lo stregone bianco - E’ probabile che questo Muscor non sia mai riuscito ad ottenerli, non dal daicao in questo posto, almeno. Io ne so meno dell’autore, purtroppo. Non so cos’altro suggerirti, Barbataus. La scelta di come gestire la cosa, e se metterti o no alla ricerca di questo vegetale, è tutta tua.”
“Farò ciò che posso per convincere i miei uomini dei benefici che potremmo ottenere, Vecchio Saggio.” promise il Signore della Foresta nella sua voce tremolante e appesantita dagli anni e dalle esperienze.
Il mago della lontana Setturnia provvedeva a ritagliare altri fogli dal libro, e a scribacchiare – aveva davvero di tutto nelle tasche interne della sua tunica macchiata - appunti utili sul fronte e sul retro della mappa per il grande daicao. Tuttavia Barbataus non era ancora pronto a lasciare Iustinsula, e aveva ancora dei dubbi che voleva condividere con l’esperto stregone elfo.
“Vecchio Saggio, vorrei sapere…delle cose.” iniziò titubante.
“Dimmi pure, Barbataus. - fu accondiscendente il Vecchio - Sono qui per aiutarvi.”
“Ecco…che cosa farete con il Popolo dell’Aria?” domandò insicuro.
“Dipende da cosa intendi con ‘fare’.” esigette chiarimenti l’elfo.
“Voi siete stato la nostra guida per innumerevoli anni, la guida anche per il Popolo dell’Aria. - spiegò Barbataus - Forse Elios e gli altri tengono ancora a voi, forse se…se vi recaste da loro a parlare, potreste farli ragionare.”
“E’ una possibilità, Barbataus.” studiò accuratamente l’idea l’uomo, aguzzando gli occhi e massaggiandosi la lunga barba nella sua riflessione.
“Però credo che sia una possibilità maggiore e peggiore che il Popolo dell’Aria voglia catturarmi, vivo. Sono colui che più di tutti sa dell’Occhio della Vita, e inoltre lo Stregone di Fuoco mi vuole per…ragioni personali. Non dubito che forse qualcuno verrà convinto a tornare dalla nostra parte se studio bene il mio discorso, ma correrei un grosso rischio ad entrare in territorio aereo. E finché posso, voglio aiutare coloro che ancora mi sostengono. E un’altra cosa, riguardo l’Occhio della Vita: quando i preparativi saranno completati, dovrò parlarti di un mio progetto. Ti farò sapere al momento opportuno.”
“Capisco…” sospirò Barbataus.
“Sono pronto a partire, Vecchio Saggio. - disse poi, raccogliendo e arrotolando i fogli che il Vecchio gli porse - Ma un’ultima cosa.”
“Sono sempre qui. - si mostrò ancora disponibile l’elfo - Però è meglio sbrigarsi, Barbataus.”
“Lo so. Ecco, voi dite che questa missione potrebbe essere pericolosa. Ma non lo è forse anche lo scontro con il Guardiano delle Gemme?”
“Indubbiamente lo sono entrambe. - rispose - Tuttavia, ho l’impressione che il Guardiano sia…un diverso tipo di nemico. Inoltre, so che non ami la lotta, Barbataus: volevo avvisarti che, perdonami per la presunzione, potresti non essere all’altezza del grande daicao. Ma la scelta, come ho detto prima, è tua.”
 
Barbataus era rientrato in fretta nella sua dimora, la Foresta Silente. Il sole splendeva alto e forte in cielo, ma sotto le fronde della selva la luce e il calore del giorno venivano alterati. Le radure prive di alberi, o che ne avevano abbastanza pochi da farle luminose come in spazi aperti erano rare, e quasi sempre molto ristrette. Non aveva idea di dove o come avrebbe portato le nefaste notizie alla sua gente. Lo stato di semi - nomadismo dei suoi simili era un problema in più. Solitamente si utilizzava una delle piazze del gigantesco Rifugio della Rugiada o la stessa Piana di Astreg per riunioni e celebrazioni. Ma la procedura dell’incontro odierno doveva essere studiata a fondo, anche in fretta però. Prima di dare qualsiasi notizia, si sarebbe consultato con i Saggi riguardo il da farsi, e contava di incontrare tutti al Rifugio, che raramente abbandonavano. Non era comunque una cosa facile riunire i Saggi, sempre che fossero tutti al Rifugio: era davvero immenso, sia in altezza che in larghezza.
Lui meno degli altri sembrava sconvolto dall’improvviso e tremendo cambio di posizione del Popolo dell’Aria. Lo stupore e la delusione c’erano eccome, ma Barbataus aveva assistito e partecipato a numerosi eventi tragici nel corso della sua lunga vita –era anche un superstite del Grande Sacrificio ed aveva perso suo figlio - , e alla lunga era giunto ad abituarsi alle cattive nuove e ad aspettarsi sempre il peggio.
La cosa che lo deluse di più era senza dubbio la decisione di Elios, la conoscenza che di tutto ciò che stava accadendo il fautore era lui. Dopo il loro primo incontro - scontro, Barbataus ed Elios si erano incontrati diverse volte, nella Foresta e su Picco Aquila. Il Signore della Foresta gli aveva promesso di dargli qualche dritta sulla lotta, e così fu. Elios per ricambiare gli passava sempre in gran segreto alcuni libri degli aerei che il governo di Picco Aquila voleva tenere per sé.
Era davvero scoraggiante sapere che quella persona tanto amabile e simpatica aveva così velocemente lasciato dietro a sé tutti le amicizie. Barbataus sperava di incontrarlo presto, magari sul campo della battaglia che sarebbe nata a breve, per scoprire come avrebbe agito, se avesse davvero avuto il coraggio.
Ma prima di pensare al futuro, doveva pensare al presente. Accelerò il passo, per raggiungere presto il Rifugio della Rugiada. Correre non era di grande utilità, l’edificio era quasi da tutt’altra parte. Avrebbe fatto meglio a prendere una carrozza, o a procurarsi i materiali per un portale da qualche mercante o semplice popolano nelle vicinanze, anche se forse ottenerli tutti gli avrebbe portato via più tempo che usando le salamandre.
Incappò in forestali occasionali, intenti a chiacchierare più o meno rumorosamente tra di loro, che al suo passaggio si voltavano e gli rivolgevano dei saluti.
Alcuni, interessati alla riunione su Iustinsula –che non era di dominio pubblico, ma si sa, le voci scorrono veloci - gli domandavano di cosa avessero parlato. Barbataus rispondeva evasivamente, ‘questioni riservate’ e a volte proprio ignorava le loro domande, chiedendo loro se sapessero di qualche carrozza o salamandra a noleggio nelle vicinanze.
Ottenne ciò che voleva, ma prima di potersi mettere in cammino per la stalla indicata, gli si avvicinò cavalcando una salamandra violacea un forestale di sua conoscenza, basso, mingherlino ma di una certa prestanza.
“Mio Signore.” esclamò con tono turbato il Saggio Paludis, arrestandosi davanti a lui, senza scendere di sella o fargli un cenno di saluto. I gormiti con cui Barbataus si era appena fermato non apprezzarono questa sua leggera mancanza di rispetto, anche se era un Saggio, e ripresero a parlare tra di loro rivolgendo occhiatacce verso sinistra.
“Dovete venire con me immediatamente, alla chiesa di Erocol.” gli intimò senza troppe premure.
“Perché? Cosa è successo?” domandò sospettoso Barbataus, incurante del modo di rivolgerglisi di Paludis.
“Sono arrivati due ambasciatori dell’Aria, Signore. - lo informò Paludis - C’ero io e un altro Saggio, ma dicono di voler parlare con voi soltanto.”
Ambasciatori dell’Aria? Elios era davvero così veloce a convincere il suo Popolo e a organizzare le sue azioni? Forse riceveva qualche aiuto dal Vulcano…ma non era il tempo di formulare idee. Qualsiasi cosa volessero, Barbataus avrebbe fatto meglio a raggiungerli. Temeva che potessero rivelare la loro scelta di ideali in maniera brusca o comunque non nel modo che Barbataus desiderava, o che peggio ancora parlassero di cose che avrebbero potuto convincere i suoi uomini a unirsi alla loro causa. Se davvero fossero rimasti zitti, la presenza dei due Saggi l’avrebbe aiutato a informare la Foresta dei cambiamenti – un evento ormai inevitabile e prossimo - nella giusta maniera. Ma un lato positivo c’era: Barbataus non avrebbe dovuto inviare degli ambasciatori suoi.
“Salite, presto.” lo invitò Paludis. Barbataus si preoccupò un attimo per la salamandra. Sembrava avere le gambe fragili, anche se il corpo era bello robusto. Di rado una salamandra portava più di un passeggero. Ma sebbene Barbataus fosse leggermente più grande del gormita medio, Paludis era più piccolo…più che leggermente. Non dovrebbero esserci stati problemi. Salì piano in groppa alla salamandra, che non soffrì minimamente l’aumento di peso. Raggomitolò la propria frusta, si tenne per bene agli appigli dell’equipaggiamento da galoppo, e partì alla volta della chiesa di Erocol.
Il viaggio durò poche ore, con diverse pause per stirare le gambe e nutrire la salamandra, che anche senza darlo a vedere faticava a trasportare due gormiti su di sé a passo certamente non lento.
La chiesa di Erocol, decisamente alta per una struttura religiosa, si ergeva colorata nel bel mezzo del nulla, un punto intriso di alberi comune e privo di particolari degni di interesse della Foresta, come ce n’erano a migliaia. L’unico dettaglio di una certa importanza era la frequentazione del luogo: sebbene la religione non fosse più ‘di moda’ come una volta, erano ancora in molti a riunirsi quotidianamente nella chiesa e pregare i semidei, l’unico culto gormitico che disponeva di tempi adatti alla comunione e alla preghiera congiunta, e l’unico riconosciuto pubblicamente.
La chiesa in questione era molto vivace, tutt’uno con la natura, con la foresta: sulle sue pareti si facevano crescere piante rampicanti delicate e coprenti, di diverse varietà e colori, che venivano curate dagli abili e premurosi priori della chiesa. Le mura, la porta, il tetto, erano un mosaico di colori piacevole agli occhi. Sul retro, recintati, c’erano un grande orto e un pollaio, e un pozzo ricoperto anch’esso di edere multicolore.
Quel giorno c’era un dettaglio in più: un esiguo numero di forestali fuori dalla chiesa, tra cui il Saggio citato da Paludis, e due figure decisamente estranee insolite per quel luogo.
Due gormiti aerei, i due ambasciatori, addobbati in spesse vesti nere bordate in oro che lasciavano del loro corpo scoperti solo la testa, le mani, le ali, che spuntavano come fiori tra le cuciture apposite dei manti scuri.
Uno di questi era un gormita dalle fattezze di volatile, un tale dalla pelle indaco e un rado pelame grigio azzurro. Aveva un capo allungato, una fronte ampia ma un becco biondo molto piccolo. Le ali erano pennute e di media grandezza.
Il suo compagno rassomigliava invece a un insetto, un coleottero per la precisione. La conformazione delle sue ali e le placche a loro difesa non gli permettevano di indossare lo stesso capo dell’altro ambasciatore. Aveva quindi l’intero torso, in cui si riscontravano squame blu, giallino e piccole piume grigie, interamente scoperto. Le braccia erano vestite di maniche a se stanti, tenute ben strette da bracciali dorati.
Videro arrivare Barbataus a galoppo della salamandra. Sorrisero al suo arrivo, salutandolo da lontano con eleganti cenni del capo, e stravaganti sorrisi stampati sulle labbra.
Scese da salamandra insieme a Paludis, che lo seguì tenendo la cavalcatura per la briglia.
Si avvicinò lentamente ai due ambasciatori, cercando di apparire calmo e quanto mento stupito del loro arrivo, anche se lo era davvero, ignorando di sapere il motivo della loro presenza.
“I nostri più sinceri omaggi, Signore della Foresta” disse l’ambasciatore pennuto, chinandosi con la schiena e allargando le braccia in segno di rispetto e saluto. L’altro rimase muto e immobile, facendo scomparire il sorriso con cui aveva inizialmente accolto Barbataus.
“Siete i benvenuti nel mio dominio, amici dell’Aria.” li salutò con il dovuto – finto - garbo Barbataus.
“E’ un piacere avervi qui.”
“Il piacere è nostro. - replicò rapido l’ambasciatore - Il vostro regno è oltremodo piacevole da vedere e da vivere. Pieno di vita e di colori…pericoloso, anche. Questo lo rende più affascinante.” elogiò la Foresta, camminando lento davanti a Barbataus, e indicando alle sue parole la chiesa, i fiori e i frutti che si vedevano pendere dai rami lì vicino.
“Tuttavia non mi trovo dinanzi a voi, Signore della Foresta, per il piacere di esserlo e per ammirare la vostra dimora.”
“Ne ero sicuro, ambasciatore. - commentò Barbataus con una risata - Avete domandato la mia presenza per parlare, e credo che abbiate ancora molto da dirmi.”
“Credete bene, Signore della Foresta.” disse.
“Il nostro illuminato Signore dell’Aria Elios ha ritenuto bene illuminare anche noi suoi umili sudditi della verità e delle opportunità che il futuro ci tende. Non più buio e monotono come quello che vuole per noi il Vecchio Saggio, ma un futuro luminoso e ricco, che ci porterà fino alle stelle.”
Queste ultime parole pronunciate con enfasi e teatralità avevano catturato ancora di più l’attenzione dei gormiti riuniti presso la porta della chiesa. Barbataus non voleva credere a una sola parola di quello che gli veniva detto, ma voleva continuare a far credere di non essere al corrente di nulla.
“Il futuro che vuole il Vecchio Saggio? - ripeté grattandosi il capo Barbataus - Che cosa intendete dire, ambasciatore?”
“Colui che chiamiamo Vecchio Saggio, che ci ha guidato e modellato secondo i suoi ideali, ci ha tenuto per anni all’oscuro di molte, troppe cose. Elios ha ricevuto l’illuminazione da colui che non ha paura della verità. Sotto la sua guida, il Popolo dell’Aria e tutta la civiltà dei gormiti avranno a disposizione conoscenza e potere illimitato.”
I pochi presenti aumentarono di numero, attirati da quel discorso enigmatico ma allo stesso tempo chiaro. Qualcosa era cambiato.
“Chi è questa persona, scusate? - domandò Barbataus fingendo ingenuità - E che cosa volete dal Popolo della Foresta?”
“Il vostro Popolo, Signore della Foresta, e gli altri Popoli di Terra e Mare sono sotto il giogo del Vecchio Saggio, come noi, ma la sua presa su di noi era debole. Il Liberatore è riuscito a illuminarci, ma teme di non essere capace di liberare la vostra morale come ha fatto con la nostra. Non vi chiediamo di comprendere, di schierare tutti voi stessi dalla nostra parte, ma di ragionare, e di sottomettervi per evitare la sconfitta. Credetemi, Signore della Foresta, è la scelta giusta da fare, e anche se sceglieste di non arrendervi, sappiate che tutti i gormiti, a prescindere dalla loro presa di posizione, ci accompagneranno nella conquista e nella nuova vita.”
“Il Liberatore? - chiese Barbataus - Che cosa stai farneticando, ambasciatore? Ho paura che tu sita parlando…di Magor. Magor!” gridò, attirando sulla sua voce l’attenzione dei presenti, anche per impedire che venissero ammaliati dalle parole dei due aerei, sebbene finora non avessero fatto loro offerte considerevoli.
“Vi siete schierati dalla parte di Magor! Non è così?” urlò rabbioso Barbataus.
“Un modo sminutivo per descrivere ciò che è davvero successo. - commentò per nulla intimorito l’ambasciatore - lo Stregone di Fuoco ci ha fatto capire di cosa siamo capaci, degli errori commessi dal Vecchio Saggio. E che voi siate o meno in grado di comprendere le stesse cose che abbiamo compreso noi, ha poca importanza. Barbataus, pensateci bene. Arrendetevi alla supremazia di Aria e Vulcano, e tutto procederà per il meglio, senza inutili conflitti.”
“Supremazia di Aria e Vulcano, dici? Tu sei pazzo! Ci avete voltato le spalle!” lo insultò Barbataus, indietreggiando disgustato dai due ambasciatori.
“Abbandonate la mia casa, ambasciatori. Immediatamente.” ordinò loro impetuoso
“Cosa dovremo riferire dunque al nostro Signore?” chiese imperturbato l’aereo.
“Andatevene subito, ho detto!”
I due non replicarono, ma nemmeno dettero segno di voler obbedire al Signore della Foresta. I gormiti vicini ormai avevano capito ciò che era successo, ma i meno dubbiosi erano pietrificati dallo stupore, non riuscivano ad agire. Non si potè dire lo stesso per il combattivo Paludis.
Con un balzo rapidissimo, dal fianco di Barbataus si piombò sull’aereo più vicino, quello insetto, per menarlo per bene.
Come se avesse previsto una simile mossa, l’ambasciatore si scansò con uno scatto impercettibile, e Paludis si ritrovò faccia a terra.
Non perse tempo a lamentarsi del dolore o a chiedersi come aveva fatto: si rialzò subito e menò fendenti scattanti con le fruste sulle braccia. Ma l’aereo era estremamente abile: rimanendo ancorato al suolo, riusciva a evitare o quanto meno a non farsi troppo male degli attacchi di Paludis, che lenti non erano affatto. Quando infine riuscì a tenerlo fermo bloccandogli la caviglia con una delle sue liane, e creando una lama di legno –tutto nell’arco di meno di un minuto - Barbataus lo prese per la spalla e lo strattonò indietro, impedendogli di portare a termine l’attacco –ma facendo cadere l’ambasciatore, che però si alzò in volo quasi subito.
“State fermo, per Asili! Tutti quanti, non attaccate! Peggiorerete solo le cose!” avvisò Barbataus, a Paludis e ai presenti.
“Avete già peggiorato la vostra situazione, Signore della Foresta. - lo rimproverò l’ambasciatore pennuto, già sollevato da terra - La vostra casa brucerà! Pregate lo Stregone di Fuoco che mostri clemenza.”
Obbedendo agli ordini dati, Paludis e i forestali lasciarono che i due gormiti dell’Aria se ne volassero via, per lo stesso passaggio tra le foglie da cui erano arrivati. Barbataus aveva parecchio da spiegare.
“S - Signore… - tremò uno dei presenti poco dopo che i due ambasciatori furono fuori dalla vista - C - che cosa significa?”
Il suo tremulo interrogativo fu seguito ed echeggiato da molte voci, provenienti da tutti i forestali radunati alla chiesa di Erocol. Un attimo prima deboli e dubbiose, poi le richieste di spiegazioni si fecero sonore e decise, come il vociare di una protesta. La verità, rivelata in quel modo violento ed imprevisto, scosse gli animi dei forestali come una tempesta, e il timore e lo sconforto li fecero alterare. Uno dei priori della chiesa, uscito fuori con un secchio per prendere acqua dal pozzo, rovesciò la tinozza e l’immancabile bastone nero lucido dallo sgomento, e continuava a ripetere preghiere in silenzio.
Barbataus dovette alzare la voce, senza ottenere risultati. Paludis, rabbioso, alzò la propria con uno sguardo feroce e impetuoso, e infine il silenziò calò tra la minuta folla.
“Signore della nostra casa, per il buon nome dei nostri patroni, che cosa è accaduto?” domandò garbatamente il priore, raccolto il secchio, ancora spaventato. Tutti i forestali lì raccolto, Paludis e l’altro Saggio compresi, fissarono Barbataus con fare interrogativo, attendendo la risposta che ognuno di loro temeva e attendeva.
“Non volevo che lo veniste a sapere così bruscamente. - si scusò Barbataus, scuotendo il capo e sospirando - Vi devo confessare che ne ero già a conoscenza, volevo fingere di non esserne al corrente per vedere come avrebbero agito. Ma bando alle ciance, ormai non ve lo posso più nascondere: il Popolo dell’Aria ha tradito tutti noi.”
Degli ‘oh’ sonanti e improvvisi come un singhiozzo uscirono dalle bocche dei forestali, da quelle che non furono coperte per lo stupore. Il priore, insieme a un altro che era uscito in quel momento, si unirono al coro di scalpore, e (ri)presero a sussurrare cantici per la loro protezione e per pietà dei peccatori.
“Cosa vuol dire che ci ha tradito?” domandò per chiarimenti uno tra i presenti.
“Si è schierato dalla parte dello Stregone di Fuoco e del Popolo del Vulcano. E’ stato corrotto.” chiarì a capo chino Barbataus.
Altri ‘oh’ seguirono a quella rivelazione.
“Giuro, nel nome della mia famiglia, che non era questo che volevo. - continuò Barbataus alzando il capo, cercando di essere premuroso ma anche convincente - Volevo prepararvi a dovere a questa terribile verità, ho fatto del mio meglio ma non è stato abbastanza. Non voglio mettervi fretta o pressione, ma la situazione è quella che è: l’Aria sa che siamo in loro opposizione, e la loro corsa per il dominio di Gorm comincerà senza dubbio da noi. Dobbiamo prepararci.”
Dopo lo sgomento iniziale, i forestali presenti si calmarono con discreta facilità, pur mantenendo dentro di loro preoccupazione, paura, insicurezza. Valeva per loro tutto quello che è valso per gli altri: lottare contro vecchi amici che sembrano non farsi problemi a ferire coloro che poco prima erano loro cari. Una nuova battaglia così poco dopo che l’ultima micidiale Grande Guerra di Gorm si era conclusa. Un intero Popolo che dopo anni, secoli di coesione con gli altri –ignorando la Grande Guerra - si schierava unanimemente e improvvisamente con il Popolo del Vulcano, nemico giurato da circa mezzo secolo, gente che da nessuno era mai stata guardata troppo bene prima del Grande Sacrificio, e si parla di quasi un millennio.
I pochi ma tanto scossi presenti ascoltarono con attenzione e obbedienza i consigli del savio Barbataus, Signore non a caso: farsi forza, coraggio, guardare al futuro con speranza e avvisare con quanta grazia possibile i propri cari e conoscenti della paura e del conflitto che il futuro prospettava per loro, altro che speranza.
“Per favore, contatta il resto del Consiglio. Ho bisogno del supporto di tutti.” chiese Barbataus all’altro Saggio. Questi obbedì senza discutere.
Barbataus sospirò, appoggiandosi al tronco di un albero, spossato, appesantito.
Quelli erano tempi bui, molto bui. Sin dal loro ritorno sull’Isola di Gorm, per i gormiti non c’era stato un attimo di pace. Nemmeno i primi anni antecedenti all’inizio della Guerra furono pacifici. Non ci furono conflitti, ma i gormiti erano impegnatissimi. A dirla tutta, nemmeno prima del ritorno la vita per i gormiti era stata facile. Barbataus non sapeva dove fossero cresciuti o da dove venissero i gormiti ricondotti a casa dal Vecchio Saggio, ma sapeva per esperienza personale che vivere nella città di palafitte era una paura continua che qualcosa o qualcuno affondasse.
Barbataus non si era certo aspettato che la carica da Signore fosse stata facile, ma certo non immaginava di dover assistere a così tante catastrofi, a così tanti problemi.
“Barbataus…stai bene?” domandò crucciato Paludis. Barbataus lo guardò scoraggiato, non sapendo cosa dire. Da lui meno da tutti si sarebbe aspettato sensibilità riguardo ciò che stava accadendo.
“Sì…no, non sto bene.” sospirò Barbataus, mentre si passava sconsolato la mano davanti alla faccia. “Non volevo assistere a tutto questo. Fendril, sarei dovuto morire durante l’attacco del Vulcano. E invece no, il destino mi ha portato via mio figlio e costretto a sopravvivere per vedere quali altre disgrazie il futuro mi avrebbe portato. E ora non posso nemmeno godermi i miei ultimi anni in serenità, devo ancora vivere per guidare la mia gente alla salvezza. Vorrei davvero essere morto”
“Ma non posso. - esclamò poi, facendosi serio in volto, aggrappandosi alla fioca speranza rimasta in lui e sull’Isola - Ho fatto la mia scelta, e non posso tirarmi indietro, non ora.”
“Paludis, andate a chiamare il maggiore Dachiel”. ordinò dunque al compagno Saggio, trascurando la propria tristezza, trapelata per pochi istanti poc’anzi.
“Maggiore?” chiese Paludis, leggermente confuso, e senza insistere sullo stato dell’Isola e la poca speranza di pace che viveva nei cuori di tutti “credevo fosse capitano”
“E’ stato promosso. - chiarì Barbataus - Va’ a chiamarlo, per favore.”
***
Il maggiore Dachiel, il soldato che guidò la presa di Patmut Iun durante la Grande Guerra, che ricevette la promozione da Tasarau, e anche una certa fama di cui non andava fiero, per quella missione, ora veniva nuovamente incaricato di una missione di una certa segretezza e importanza, proprio come la presa del Museo. Paludis non era stato molto chiaro riguardo i parametri della missione –lui stesso non lo sapeva - e continuava a dire ad ogni domanda di Dachiel che Barbataus gli avrebbe spiegato tutto. Dachiel sperava solo che il suo compito fosse stato questa volta meno compromettente del precedente nel campo etico.
Sebbene la cattura del Museo della Ricerca Storica fosse stata la sua ultima vera e propria missione, e per il resto della guerra si era dedicato al solo combattimento, e fosse rimasto inattivo per qualche anno, Dachiel non era per niente fuori forma o impreparato; se non altro i gormiti avevano imparato ad addestrare bene i propri militari, e una volta intrapresa quella via, non si poteva certo rimanere seduti a ingrassare, e dimenticare come tenere in forma i muscoli.
La sua frusta verde come una gemma al braccio destro era grossa e lucida, le sue membra color daino magre come sempre, ma non esili bensì resistenti e inflessibili. Sembrava pure più alto. Anche se chiamato nuovamente all’azione, non aveva con sé alcun armamento, non il suo elmo oliva lucente né le parti di corazza terra bruciata e giallo scuro decorate con venature di foglia. Senza sapere quale fosse il suo obiettivo, ritenne opportuno non portare con sé alcun equipaggiamento che potrebbe poi rivelarsi inutile o d’intralcio. Senza elmo, dunque, si vedeva chiaramente il suo viso sottile e delicato, rigato come il resto della pelle, occhi piccoli giallo limone, e una striscia di capelli biondi a punta.
La salamandra di Paludis arrivò infine a destinazione. Davanti alla chiesa era stata costruita una larga tenda e un enorme tavolo circolare di legno, su cui lavoravano e parlavano Barbataus e due Saggi che l’avevano raggiunto. Paludis scese, seguito da Dachiel. Mentre l’anziano Saggio legava la propria bestia a un albero, Dachiel procedette senza domande verso il suo Signore.
Si appostò a pochi piedi dalla tavola lignea, con le mani dietro la schiena, attendendo con educazione che Barbataus finisse di parlare con i Saggi.
“Maggiore, siete arrivato.” lo notò infine Barbataus, facendo segno agli altri due di aspettare, e allontanandosi dalla tenda.
“Maggiore Dachiel, dai rapporti di cui dispongo, so che siete un soldato formidabile ed affidabile. E’ proprio ciò di cui ho bisogno.” iniziò.
“Lusingato, mio Signore. - lo ringraziò freddamente Dachiel con un cenno del capo - ma molti altri hanno ricevuto la mia preparazione.”
“Ho bisogno di un soldato capace, che sappia riconoscere il pericolo e quando è meglio scappare che continuare a lottare per la gloria. - continuò Barbataus - Questa missione è potenzialmente importante e potenzialmente pericolosa. Non vi posso fornire dati molto sicuri.”
“Di cosa si tratta, mio Signore?” domandò Dachiel
“Dovete ritrovare dei…degli oggetti, maggiore. Innanzitutto, spero siate informato della triste notizia.”
“So che il Popolo dell’Aria ci ha tradito, mio Signore.” disse
“Bene. Male, anzi. Ma non dovrò perdere tempo nel raccontarvi i dettagli. Prima, però, devo dirvi anche che il Popolo dell’Aria ha ricevuto…dei potenziamenti, dallo Stregone di Fuoco. Se aveste assistito al conflitto tra Paludis e gli ambasciatori giunti qui, capireste senz’altro a cosa mi riferisco. Ma voi non c’eravate, e ve lo dirò io: hanno preso un veleno che migliora i loro riflessi.”
“Fatemi capire: questi ‘oggetti’ che dovrei recuperare contengono dei potenziamenti per noi?” lo interruppe perspicace Dachiel.
“Esattamente.” confermò Barbataus.
“Perdonate la mia critica, ma credo che un simile compito sia più adatto ad una sentinella o ad un cacciatore, che ad un soldato.”
“Non è tutto, maggiore. Vi ho descritto la parte potenzialmente importante della missione. Ora la parte potenzialmente pericolosa. Avete mai sentito parlare dei grandi daicai?”
“Grandi daicai… - riflettè per un attimo Dachiel - Sì, credo di sì. In leggende. Sono…sono reali?”
“E’ quello che potreste scoprire, maggiore. Io non sono sicuro della loro esistenza, ma il Vecchio Saggio sembra esserlo, e ho deciso di fidarmi e di dare una possibilità alle sue teorie. Il veleno contenuto nei denti del grande daicao situato qui nella Foresta Silente dovrebbe conferirci il potere del mimetismo perfetto. Qui vi è la mappa e tutte le indicazioni da seguire riguardo al veleno.” disse e gli porse il foglio del libro di Muscor.
“Voglio che sappiate, maggiore, che potreste non trovare niente in quel luogo, oppure un daicao morto…niente di utile, insomma. Ma se c’è qualche risorsa, qualsiasi risorsa nella nostra portata che possiamo utilizzare, è meglio averla sotto mano. Vi consiglio di portare con voi una squadra per affrontare qualsiasi cosa voi possiate trovare. Gente che possa superare qualsiasi ostacolo. Una squadra discreta, non più di venti gormiti.”
“Contro cosa dovrei combattere, mio Signore? - pretese chiarimenti Dachiel - Non posso prepararmi a dovere se non so a cosa vado incontro.”
“Perdonami, Dachiel. - sospirò Barbataus - Vorrei poterti aiutare più di così, ma, davvero, io non so altro. Sappiate che non siete costretto ad accettare questo incarico, maggiore. Potrebbe essere una missione suicida, o una mera perdita di tempo. Se dipendesse tutto da me, lascerei qualsiasi cosa si trovi lì al suo posto. Una guerra non si vince con le droghe. Gli altri però non la pensano allo stesso modo. Potete sempre rifiutare.”
Dachiel ponderò i dati finora ottenuti, gli unici che avrebbe ottenuto. La sua compostezza militare poteva nascondere le sue preoccupazioni, ma non cancellarle, e nel profondo comprendeva gli enormi rischi che poteva correre nel portare con sé uomini e prepararli nel modo sbagliato contro il grande daicao, finendo con dei morti sulla coscienza, oppure rubare uomini ed utili equipaggiamenti al Popolo della Foresta che si preparava al conflitto per qualcosa che non esisteva. Tuttavia, non gli sembrava una buona cosa da fare rifiutare l’incarico, anche se ne aveva la possibilità. Dopotutto, questo grande daicao non poteva essere invincibile, né grande come le diverse leggende dicevano: una pianta mostruosa di cento piedi non sarebbe di certo passata inosservata. Alla fine, decise.
“Mi metterò subito alla ricerca di uomini per questa missione, mio Signore.”
 
Il maggiore Dachiel, perfettamente armato e corazzato, completo di elmo verde e spada ricurva –niente armi da difesa, sarebbero state inutili contro qualcosa di sicuramente molto più grande di loro - guidava la sua ristretta squadra d’assalto nei sentieri sempre più stretti e intricati della Foresta Silente, con il verde e il bruno tutt’intorno a loro, bruno e verde dovunque l’occhio arrivasse.
I suoi compagni non erano tutti soldati. Seguì saggiamente il consiglio di Barbataus di portare con sé uomini capaci di poter superare qualsiasi situazione, e vista la natura misteriosa del loro nemico, avrebbe agito in quel modo anche se Barbataus non gliel’avesse consigliato.
Tra di loro vi era Troncannone, vecchio amico del Signore della Foresta, perito con incantesimi, rivestito di una corazza leggera rossa con rifiniture dorate, che si adagiava sul suo corpo legnoso dolcemente, come grosse piume. Dachiel si era mostrato decisamente contrario all’uso di un’armatura così vistosa, che lo avrebbe sicuramente reso un facile bersaglio, ma Troncannone aveva insistito e non voleva sentir ragione.
Anche Paludis era tra la squadra. Nonostante sia Dachiel, per la sicurezza del Saggio, che Barbataus, che voleva al suo fianco qualcuno di vicino che lo aiutasse, aveva insistito perché Dachiel gli permettesse di accompagnarlo, affermando di essere molto più abile a combattere che nella politica –arrivò pure a dire di essere più preparato della maggior parte dei soldati della Foresta. Il maggiore non obiettò ulteriormente le richieste di un Saggio, e lo lasciò fare, non prima però di aver visto con i propri occhi di cosa fosse capace Paludis, per poter poi scegliere con cura gli altri membri della squadra.
Per la missione, Paludis si era pesantemente corazzato con una protezione grande, spessa e resistente di un terra talmente bruciata da sembrare nero quando la luce era poca. Era talmente coprente e voluminosa, che Paludis pareva un blocco basso e grosso di legno nero. Aveva anche un elmo che aggiungeva due ricurve corna di metallo in più a quelle che già possedeva di natura.
Paludis non sembrava risentire della massa e del peso del proprio equipaggiamento, e più volte dovette rallentare per non porsi davanti a Dachiel. Come se non bastasse, aveva con se una grossa ascia.
Gli altri componenti per la missione sono gormiti nuovi ai lettori, ma che credo compariranno ancora nel futuro, vicino e lontano, con ruoli più o meno importanti: quindi, che ci si ricordi bene come sono fatti e i loro nomi.
Un tale era moderatamente alto e anche largo per la media gormitica, però procedeva sempre gobbo, forse era fatto così. La sua pelle di cellulosa era ruvida e verde palude; grandi braccia, molto lunghe e forti con tre dita alle estremità, mentre le gambe erano curiosamente corte. Il suo volto era un po’ piccolo, più lungo che alto, ruvido e striato come il resto del corpo, con una grande bocca e due occhi blu scuro. Se sul dorso o sul petto avesse particolari degni di nota, non se ne potevano vedere, poiché l’uno, così come le spalle, coperto da una corazza color seppia ripiena di spunzoni appuntiti, e l’altro difeso da una sottile corazzatura grigio asparago. Era un soldato arruolatosi dopo la Grande Guerra, e che quindi non aveva mai preso parte all’azione militare vera e propria.
Un altro ancora era un gormita piuttosto bizzarro, di una certa stazza finchè si parlava del torso e della testa, mentre gli arti erano più sottili. Tale testa era decisamente larga, allungata, ma senza un collo visibile: incassata nel torace. Possedeva delle enormi labbra verde trifoglio, mentre il resto di lui era verde olivastro che sfumava note più scure tendenti al marrone. Una cresta rigida grigio - gialla che dalla fronte gli proseguiva fino al termine della colonna vertebrale –e si può ben parlare di colonna, giacché era un gormita animale. I suoi occhi erano piccoli e laterali, rossi. Come già detto, gambe e braccia erano stranamente sottili per un corpo simile, e sia mani che piedi possedevano sei dita, le prime corte, le ultime più lunghe. Era un ricognitore, molto silenzioso e veloce, che sapeva riconoscere buoni nascondigli da quelli da evitare, anche se una sua certa abilità speciale lo rendeva anche un nemico che era meglio tenere alla larga e combattere da distanza.
L’ultimo della compagnia era un gormita un po’ più nella media, senza particolari sproporzioni, eccezion fatta per il vistoso a ampio cappello flessibile molto simile a quello di un fungo, marrone con bozzi gialli. Il resto di lui, con la possibile eccezione del petto, l’addome e gli stinchi protetti da corazzatura grigia, era di un castano uniforme. I colori e la composizione del suo cappello da fungo si ripetevano sui dorsi delle mani, seppur in dimensioni molto più ristrette e per niente sproporzionate, a fungere probabilmente da ammortizzatori per i pugni. Occhi e lineamenti erano difficili da scorgere sotto il cappello, combinato poi con la scarsa luminosità delle fronde della Foresta. Non aveva alcuna preparazione di tipo militare –non che, come per la maggior parte dei gormiti, ciò lo rendesse indifeso e non pericoloso - ma era famoso per la sua bravura con l’arco, che gli aveva fatto vincere numerose competizioni puramente sportive e anche di caccia. Inoltre, il suo lavoro lo rendeva capace di sormontare ostacoli fisici con l’ingegno, aguzzando mente e lavoro di dita, piuttosto che usare la forza bruta per distruggere tutto con possibili danni collaterali per liberare il proprio cammino dagli imprevisti.
Il cammino dei sei gormiti era stato silenzioso. Dachiel aveva avuto modo di parlare con loro al momento in cui li aveva ‘arruolati’, e tra di loro si erano parlati quando si erano riuniti per mettersi in marcia. Se poi parlavano a mente, Dachiel non lo sapeva, non avendo motivo o argomento di cui discutere, limitandosi ad impartire loro ordini vocali o con segnali. Il tradimento dell’Aria e l’imminenza di un nuovo conflitto insulare era stato una materia largamente ignorata, che preferivano tenere per sé e celare le paure al riguardo perché i loro timori non influenzassero le loro prestazioni. Quando si erano incontrati, si erano limitati a conoscersi, scambiarsi nomi e ruoli, anche se si può ben immaginare la vitalità di quei discorsi.
Lungo il cammino, vi erano state numerose occasioni in cui Troncannone e Sporius, l’arciere, poterono dimostrare la loro abilità magica e tecnica per superare ostacoli. Sferst, il ricognitore muto – e si scoprirà perché - , non ne aveva avute, poiché non c’era ancora nessuno o niente da cui nascondersi, e la mappa del libro di Muscor sembrava chiara, e non ci furono momenti di disorientamento in cui Sferst dovesse agire per ritrovare la strada.
La mappa li aveva portati ben lontano dalla società della Foresta, verso i confini sud - occidentali di Dalarlànd. Pur nel loro stato di semi - nomadi, c’erano sempre dei luoghi chiave che venivano frequentati assiduamente e periodicamente, mentre c’erano posti che raramente vedevano visitatori, e quello in cui si inoltravano sembrava appartenere a tale categoria. Ben presto forestali e gruppi di forestali che viaggiavano o solo parlavano si facevano sempre più rari e meno numerosi, finché smisero di comparire, e la loro assenza fu riempita da una brezza marina più si avvicinavano alla costa meridionale che portava il fresco profumo del mare presso di loro. Nessuna traccia, tuttavia, del vento tra gli alberi, le cui foglie rimanevano immobili.
Giunsero infine al punto x, la fantomatica tana del daicao. Ma ciò che trovarono fu tutt’altro che una tana, o un daicao.
Era, per quello che si poteva vedere, un giardino circolare e stranamente…curato. Completamente distaccato dal resto della Foresta, parve appartenere a un altro mondo.
Una mezza dozzina di alberi delimitava il giardino, alti, larghi e imponenti. I loro rami si estendevano ed allargavano fino a non lasciare alcun buco perché da fuori si potesse vedere cosa c’era all’interno del cerchio di alberi.
Qualsiasi sentiero –vi erano anche lì dei sentieri, sebbene rari e non tenuti in buono stato - che un tempo forse proseguiva in mezzo al giardino si bloccava come tagliato, per seguitare magari oltre di esso. Dachiel questa volta inviò Sferst in avanscoperta, indicandogli l’apertura tra i due tronchi di alberi, mentre il maggiore e gli altri andavano a nascondersi in punti diversi, dietro rocce, alberi o in cespugli.
Sferst si acquattò, e attese che tutti fossero ben nascosti, prima di proseguire quasi a gattoni, senza produrre il minimo fruscio, verso i due immensi alberi. Si alzò di scatto rapido e silenzioso come il più piccolo e veloce degli insetti, aderendo al tronco quasi fosse un magnete attratto da una grande parete metallica. Guardò dall’altra parte. In nome di Krut e Praconrem, solo lui sa come ha fatto a diventare ricognitore con la testa che si ritrova, e come ancora riesca a non farsi vedere.
Balzò invisibile e inudibile in avanti, piroettando di lato e sparendo dalla vista dei forestali nascosti.
Attesero sue indicazioni per diversi minuti, facendo a intermittenza capolino dai loro nascondigli, impazienti di vedere esiti, positivi o negativi.
Ottennero ciò che volevano quando Sferst comparve, per niente furtivo, quasi rilassato, tra i due tronchi, facendo loro segno di avanzare.
Con Dachiel a capo, tutti i forestali uscirono, circospetti e con armi alle mani nonostante la calma dimostrata dal ricognitore, seguendo il maggiore dentro la cerchia di immensi alberi.
Già dall’esterno si percepiva che quel luogo era…diverso, troppo perfetto. All’interno la situazione non cambiava: non un sasso, non una pianta selvatica, non una scia di terra scoperta dall’erba, ne resti organici di qualsiasi tipo deturpavano la bizzarra atmosfera pacifica, ad eccezione di un colossale mezzo tronco cavo pressoché al centro del giardino.
Troppo perfetto, troppo pacifico. E nessuna traccia di ciò che stavano cercando.
“Il nostro piacevole incontro con la Leggenda sembra sia saltato!” se ne uscì Supplitiu, il soldato novello con la corazza puntuta, a voce decisamente non bassa
“Rinviato a data da destinarsi! Andato come io non vorrei mai finire…in fumo!” cercò di sdrammatizzare, sicuro – e in cuor suo anche contento di non doversi trovare faccia a faccia con ‘la Leggenda’ - che non ci fosse altro da fare. Un timore e un sollievo comprensibili: nonostante i tre anni di esperienza e di allenamento, era ancora un novellino e non si sentiva del tutto pronto ad entrare in azione, contro un mostro leggendario, poi.
“Io non ne sono soddisfatto, novellino” disse Paludis contrariato “Questo veleno poteva ribaltare le sorti della guerra, ne sono sicuro. E non sono venuto fin qui per fare una passeggiata”
“Il nostro Signore non sarà contento dell’esito di questa missione.” affermò Sporius, riponendo sulla schiena il proprio arco.
“E se…se il Popolo dell’Aria sapesse cosa stiamo facendo, e ci avesse preceduto?” teorizzò Supplitiu. Un’idea che non potevano ignorare facilmente.
“Uomini, silenzio. - ordinò Dachiel. Si voltò, guardandoli non male, ma nemmeno bene. Uno sguardo serio - La missione non è conclusa. Questo giardino è ampio. Forse il grande daicao è nascosto da qualche parte, forse il grande daicao non è come ce lo aspettiamo. Pattugliate la zona, cercate.”
Volse nuovamente le spalle ai suoi uomini, mentre questi, riprese nuovamente le armi, chi ne aveva, procedevano in direzioni diverse, guardandosi tutt’intorno, pestando i piedi, tastando i tronchi, senza una vaga idea di cosa né di dove cercare o trovare.
“E questo tronco cavo?” rifletté a voce alta il maggiore Dachiel, procedendo piano piano verso l’enorme apertura di legno che si apriva al centro del misterioso giardino, un vecchio tronco le cui dimensioni non rivaleggiavano con quelle del Rifugio della Rugiada, ma erano comunque fuori dal normale.
Il tronco cavo era meno perfetto del resto degli elementi del giardino. Era alto in maniera moderatamente uniforme in ogni lato, ad eccezione di una piccola sezione, verso cui si stava muovendo Dachiel, in cui il tronco presentava un taglio a triangolo rovesciato. All’interno, però, non sembrava esserci nulla che potesse essere visto da lì.
Dachiel rammentò ciò che era scritto sul foglio riguardo il veleno in questione: il veleno del mimetismo perfetto. Mimetismo perfetto. Un’abilità prodigiosa, che necessitava della sola volontà per nascondere alla perfezione il proprio corpo con l’ambiente circostante, senza grande dispendio di forze come accadeva con l’incantesimo di invisibilità. Forse, avendo esso stesso il veleno, il grande daicao lo stava usando. Forse le cose non stavano come sembravano…
“Attenti!” urlò all’ultimo istante, buttandosi di lato, evitando per un soffio un colpo di una grande massa che sbatté al suolo, sollevando aria e polvere.
Dachiel, alzandosi, e tutti i suoi uomini intimoriti e riuniti in posizione da combattimento, si trovò davanti, per un istante, una bestia immensa.
Nel mezzo del gigantesco tronco cavo, si ergeva un altro tronco, più piccolo ma sempre gigantesco, di un verde spento, solido e rigido. A incirca metà della struttura, il tronco si biforcava in diversi rami…cinque rami flessibili e di ampio raggio, con temibili fauci dentate all’estremità, bocche grandi abbastanza da contenere un gormita e ucciderlo senza troppa fatica, trafiggendolo con i suoi numerosi denti arancioni. Nessun occhio, orecchio, o narice. Se era capace di sentire le cose, aveva altri mezzi che non potevano essere dedotti dall’osservazione a nudo.
Tra tronco rigido e ‘braccia’ mobili, il grande daicao era alto quasi settanta piedi. Un avversario colossale, che aveva dalla sua anche la capacità di nascondersi, e uccidere le proprie prede senza che queste potessero vederlo.
“C - come dovremo abbattere q - quel coso?!” domandò terrorizzato Supplitiu, la spada che ora teneva in mano che tremava con lui.
Dachiel osservò impotente il grande daicao, che spalancava le sue bocche famelico, senza produrre alcun suono, per poi tornare perfettamente mimetizzato, cosa che gli ricordò che stare fermi non era una buona idea.
“Ci pensiamo dopo! Allontanatevi, non fatevi colpire!” gridò il maggiore, cominciando a correre all’impazzata, senza criterio o direzione. La stessa cosa fecero i suoi uomini, spaventati e impauriti come lui. Non era una cosa facile, correre ed evitare di essere colpiti da qualcosa che non si vedeva. Bisognava prestare attenzione agli spostamenti d’aria e al minimo suono che indicava qualcosa che cadeva. Dachiel evitò per poco diverse volte di essere sfracellato dall’enorme corpo vegetale invisibile, e per gli altri la situazione non doveva essere molto differente. L’unico che sembrava meno preoccupato era Sferst: la sua preparazione da ricognitore, ma anche da spia e infiltratore gli aveva conferito dei sensi e dei riflessi sviluppati, ma comunque non poteva non temere per la propria vita.
Dovunque corressero, le braccia e le teste del grande daicao li raggiungevano sempre. Non c’era via di fuga dalla sua ira omicida e famelica, se non uscire dalla cerchia di alberi. Ma non potevano scappare ora. Prima di ritirarsi, dovevano almeno tentare.
Dachiel cominciò a dubitare della buona riuscita della missione sin da subito, ma ciò che accadde dopo lo demoralizzò ancor di più.
Supplitiu fu colto impreparato. Evitò di essere travolto da una testa, tutto tranne il suo piede.
Urlò dal dolore, forse se l’era rotto, e cadde all’indietro, tenendoselo con entrambe le mani.
Il grande daicao non ignorò questa prima vittoria sul suo sostanzioso pasto, e ne approfittò seduta stante. La testa che lo aveva colpito si rialzò di pochi piedi, per poi sbattere con forza contro Supplitiu dolorante e incapace di muoversi. All’ultimo, riuscì a voltare la schiena al nemico, ma non fu abbastanza. Un grido secco e tremendo, e Supplitiu non diede più segno di vita.
“Supplitiu!” pianse Troncannone, che non si era sfuggito la malevola scena. Nessuno di loro conosceva come amico il giovane soldato, e non l’avrebbero mai conosciuto.
“Supplitiu, no!” si unì al compianto Paludis, sempre correndo ed evitando di seguire il suo destino “Era troppo giovane per morire…”
“Lo piangeremo più tardi, o quando ci uniremo a lui nelle Somme Forze.” cercò di tenerli in riga Dachiel “Barbataus ci aveva avvisato di quello a cui andavamo incontro”
Continuarono con la propria vita appesa a un filo invisibile a correre ed evitare di essere colpiti, aguzzando tatto e udito, captando spostamenti d’aria e sibili di cadute. Il corpo di Supplitiu era ancora a terra, inerme e inviolato. Il grande daicao prospettava di pranzare con tutte le sue cinque bocche piene. C’era spazio a sufficienza per quei sei gormiti, e uno era abbastanza piccolo da condividere la gola con qualcun altro.
Non potevano continuare a correre senza meta e aspettare che il daicao colpisse: non lo avrebbero di certo sconfitto così.
Sporius si avvicinò cautamente a Dachiel, saltando e scansandosi.
“Cacciatore. - lo ‘salutò’ il maggiore, trovandoselo di fianco - Hai in mente qualcosa?”
“Sì.” confermò Sporius, spingendo Dachiel in avanti, mentre una testa del daicao piombava loro in mezzo.
“Di cosa si tratta?”
“Posso scagliare frecce, e voi altri schegge di legno e osso, per rendere tangibile il nemico.” spiegò.
“Sei sicuro che le frecce non scompaiano?”
“Proviamo subito.”
Sporius indietreggiò, e scagliò una freccia tendendo l’arco al massimo. Questa si conficcò sonoramente…nel nulla. Si vedeva la freccia spuntare da un tronco di albero, che in realtà era solo il riflesso di ciò che si trovava dietro, e infatti la freccia si spostò, e ora pareva infilata nel cielo stesso.
“E’ fattibile, complimenti. - lo congratulò - Dopo che potremo ‘vedere’ il nemico, hai idee su come agire?”
“Ci servono i denti, giusto? I denti si trovano nelle teste. Potremo salirgli sopra e tagliare le teste. Potrebbe ucciderlo, ma anche se vive senza teste sarà meno pericoloso.”
“Credo che si possa fare. - constatò Dachiel - ma non sono sicuro che decapitarlo e andarsene sia la cosa migliore da fare. E’ un mostro pericoloso, non possiamo lasciarlo qui. Pensavo potessimo bruciarlo.”
“Troncannone ne sa più di me.”
Incespicando tra masse di legno e cellulosa invisibili che cadevano dal cielo, Dachiel e Sporius procedettero verso Troncannone, che evitava la morte dalla parte opposta. Lo chiamarono, non riuscendo ad avvicinarsi abbastanza. Dovettero parlare a distanza, a voce alta.
“Stregone, puoi usare il fuoco per danneggiare questo mostro?” chiese il maggiore.
“Sì può fare, ma sarà difficile prendere la mira.” urlò in risposta Troncannone.
“Sporius ti renderà le cose più facili. E poi…” affermò, e rifletté -
- Troncannone, credi che se lo feriamo abbastanza non sarà più capace di mimetizzarsi?”
“E’ logico pensare che sia così. Ma non abbiamo sicurezza.”
“Dobbiamo tentare, stregone.”
“Capisco. Maggiore, dovete sapere però che non potrò creare grandi quantità di fuoco, né mantenerlo troppo a lungo.”
“Sarà un problema?”
“Potrebbe esserlo.”
A Dachiel venne un’altra idea. Chiamò Sferst, il ricognitore, che ancora continuava a evitare i colpi del daicao senza troppi affanni.
“Sferst, il tuo acido è infiammabile?” urlò Dachiel.
Sferst, da lontano, rimase muto –manco a dirlo - e immobile, guardandosi dubbioso a destra e a sinistra. Poi, dopo una grattata di capo, annuì ripetutamente.
“Te la senti di salire sul grande daicao e spargerlo? Sporius renderà le cose più facili.”
Sferst questa volta annuì subito, senza pensarci due volte.
“Ottimo, stregone. Abbiamo un piano. Tutti ci impegniamo per colpire il mostro con frecce e dardi. Quando Sferst avrà finito, colpirete con il fuoco, e io, Paludis e anche voi, se trovate una lama, saliremo su di esso per tagliargli le teste. Dividiamoci! Sporius, via! Supplitiu non sarà morto invano.”
Con una rapidità di braccia e mani –e gambe, perché dovevano continuare a schivare gli attacchi invisibili - Sporius iniziò a bombardare il mostro invisibile di frecce, così come gli altri, più occupati però a continuare a badare a sé stessi. L’unico che aveva più ‘a cuore’ l’azione di rendere visibile il grande daicao oltre Sporius era Troncannone, le cui schegge venivano scagliate con una notevole precisione e potenza. Ma non poteva essere paragonato a Sporius, poiché i suoi colpi erano frutto della magia e non dell’esperienza.
Il cacciatore era davvero un maestro con l’arco: nel momento in cui una freccia veniva scagliata, con l’arco teso fortemente, la mano ferma, gli occhi fissi al bersaglio, un’altra prendeva nel giro di pochi secondi il suo posto, pronta ad essere scoccata con la medesima maestria della precedente. E mentre lanciava ed estraeva frecce, era in costante movimento e attenzioni di occhi, per quanto potesse essere utile, e orecchi, e la frenesia del momento non sembrava intaccare minimamente le sue prestazioni con l’arma.
Il suo bersaglio principale era il tronco rigido del daicao, ma non mancava mai che qualche freccia si conficcasse nelle teste in movimento –il grande daicao sembrava proprio non soffrire della stanchezza o del probabile dolore di muovere e sbattere incessantemente i propri bracci sul suolo.
Era davvero curioso, quasi comico, osservare le frecce e gli altri dardi infilzare il nulla, e scomparire fino quasi a metà della loro lunghezza in qualcosa che c’era ma non era quello che sembrava.
La faretra di Sporius cominciava a vuotarsi: non avrebbe potuto continuare a quel modo ancora a lungo. Ma non sembrava essere più un problema: il tronco del grande daicao era ormai un nugolo di frecce sospese nel vuoto.
“Maggiore! - urlò, riponendo il proprio arco e dandosi alla fuga sfrenata - Frecce finite!”
“Va bene! Corri, cacciatore! Sferst, ora!” ordinò Dachiel, che aveva appena squarciato – o così credeva - una delle teste che gli era piombata di fianco con la spada che, ritrattala, ne uscì cosparsa di un liquido oleoso quasi trasparente.
Sferst obbedì all’ordine immediatamente. Si mise a correre sfrecciando verso l’enorme tronco cavo, apparentemente sicuro di come salirci sopra e assaltare da vicino il fusto del grande daicao.
Una delle braccia del grande daicao gli sferzò vicino, ma Sferst riuscì a intercettarla ed eludere l’urto con essa, anche grazie alle numerose scaglie di cui era ricoperta.
Non solo la schivò, ma riuscì anche a salirle sopra. Da lì, la strada per l’attacco al tronco sarebbe stata molto più facile. Se camminare su qualcosa di invisibile, che si muove e si dimena mentre la si percorre, può considerarsi facile.
Ma Sferst era capace, sebbene vedere il suolo sotto di lui farsi sempre più lontano gli procurò delle non trascurabili vertigini. Sapeva però che non poteva fallire, né tantomeno cadere. Procedette dunque a gattoni, per essere sicuro di camminare su qualcosa di solido e avere una presa migliore nel caso la testa si fosse voltata pericolosamente.
Giunse tortuosamente alla metà, saltando non appena il braccio su cui si trovava fece un pericoloso scatto in avanti, e Sferst rischiò di perdere la presa e cadere. Per fortuna atterrò nel punto in cui il tronco si divideva nelle cinque teste, spezzando e facendosi male con alcune delle frecce. Ora arrivava la parte più facile del lavoro.
Tenendosi bene agli appigli visibili, cercando di restare in piedi tra le braccia in continuo movimento, abbassò il proprio corpo, spalancò la propria bocca. Con rigurgiti disgustosi e gutturali, dal suo stomaco e fuori dalle sue enormi labbra, vomitò un’acqua giallastra e bollente, che emanava un vapore corposo e dall’odore tutt’altro che gradevole. Una sostanza acida, il grande potere speciale di Sferst il ricognitore. Dai mille usi e letale, anche per lui: doveva stare attento a non toccare il proprio acido con qualcosa che non fossero le sue labbra o il suo esofago, o ne avrebbe sofferto come chiunque altro. Il prezzo di questa pericolosa abilità era il non poter parlare: non aveva né lingua né corde vocali, i suoi unici mezzi di comunicazione, parole scritte a parte, erano i gesti. Non essendo mai stato capace di dare voce ai propri pensieri, anche il dialogo mentale ne risentiva, e non era in grado di formulare pensieri troppo complessi.
Il grande daicao sembrò immobilizzarsi per un istante, non cercare più di colpire le sue prede che ora erano molto più simili a predatori. Nell’istante in cui Sferst diede al mostro vegetale il primo assaggio del suo acido, il mimetismo del grande daicao scomparve. L’ipotesi di Dachiel si era rivelata corretta. Ma il dolore provato dalla bestia non era abbastanza, e dopo pochi secondi tornò invisibile.
Per sua sfortuna, Sferst non si limitò a un singolo colpo. Continuò a riversare tutto l’acido che conteneva, lo ‘spalmò’ lungo tutta l’estensione del tronco e sugli apici delle braccia. Quando finì e non potè fare altro, salì su una delle braccia e con un balzo scomparve oltre il muro legnoso del tronco cavo che faceva da tana al mostro leggendario.
Il grande daicao era davvero dolorante, ma non abbastanza perché potesse smettere di attivare il proprio occultamento: si nascondeva e riappariva a intermittenza.
Era ora il momento che Troncannone agisse, e procedette senza che il maggiore richiamasse la sua attenzione.
Con movenze rapide e nette delle proprie mani, dal suo palmo fuoriuscì un cerchio di fuoco, che si gonfiò e avanzò velocemente verso il tronco, laddove l’acido di Sferst corrodeva il legno.
Il risultato fu…divampante. Un enorme fiammata che divorò il corpo del grande daicao come un fiume in piena fa con i raccolti. L’invisibilità del grande daicao ora cedeva, e il gigante di legno si ergeva fiammeggiante e morente di fronte a loro. Tempo di salire e su di lui e tagliargli le teste.
Cosa che fu resa enormemente più facile dall’enorme agonia del mostro, tale da impedirgli di alzare le proprie braccia, chine e abbandonate per terra.
La prima testa fu tagliata da Supplitiu ferocemente e senza pietà. Esatto, Supplitiu. Tutti furono presi completamente alla sprovvista, attenti com’erano all’incendio che uccideva la bestia e all’imminenza della vittoria. Un attimo prima osservavano tutti sbalorditi la caduta della leggenda, convinti che quel grandioso combattimento sarebbe stato ricordato per secoli, indecisi su quale testa scegliere, e un secondo dopo ecco Supplitiu rialzarsi zoppicante dalla polvere e affondare il suo spadone nella verde carne delle testa a lui più vicina. Estrasse l’altro spadone che si era portato con lui, ficcandolo con rabbia vendicativa nel taglio prodotto dall’altra lama. Le tirò fuori entrambe vigorosamente, macchiandosi d’acqua appiccicosa, e con estrema ferocia affondò prima una spada, poi l’altra, e infine entrambe, finchè la testa del daicao non rotolò, separata dal suo braccio.
La leggenda era stata resa realtà, e la realtà vinta.
***
“Carrapax, Principe.” lo interpellò per ultimo il Vecchio Saggio, sfogliando molto serio il libro.
“Per te le cose non saranno diverse.” disse. Sebbene Carrapax non lo esigesse – ma tutti gli si rivolgessero a quel modo - , il Vecchio Saggio non gli dava del voi, e come per Barbataus e Kolossus non si faceva problemi a dare del tu a coloro che chiunque altro mai avrebbe azzardato.
“Una fonte di poteri mythos, in particolare il potere della rigenerazione acquea, è ben nascosta in un punto del dominio del Popolo del Mare. - spiegò - Un luogo ben conosciuto. O almeno, molti credono di conoscerlo. Dopo esserti recato e per poi tornare, tutti cambieranno idea a riguardo. Hai mai sentito parlare della Fossa degli Spiriti?”
Carrapax rimuginò per un istante. Quel nome non gli era del tutto ignoto. Lo aveva già udito dalla bocca – o dalla mente - di qualcuno. Per quanto si sforzasse, non riuscì a ricordare di cosa si trattasse, e si arrese.
“Sì, l’ho sentito. - rispose, dubbioso - Ma solo sentito. E credo che girino voci non troppo buone su questa Fossa.”
“Sono voci generate dalla paura, paura generata dall’ignoranza, dalla mancanza di certezze. E i gormiti vogliono avere certezze, per questo spacciano le loro supposizioni come verità.” esclamò, con una nota non molto velata di rimprovero, il Vecchio Saggio, dimenando il proprio bastone al cielo.
“Comprensibile, ma discutibile. - si calmò poi, poggiando il bastone a terra - Ad ogni modo, ciò che c’è scritto qui, e che forse molti ospiti di Spiriti ci hanno nascosto o hanno pensato non essere importante, cambierà per sempre le convinzioni moderne.”
“Forse gli stessi ospiti non lo sanno. Gli Spiriti potrebbero non aver rivelato nulla nemmeno a loro.” ipotizzò Carrapax facendo spallucce. Non aveva idea di cosa potessero avere a che fare con tutto quello che stava succedendo gli Spiriti, ma la visibile pesante disapprovazione e critica nei confronti di certe persone del Vecchio Saggio preoccupava il Principe di Gorm, e voleva che fosse meno brusco.
“Non lo nego. Ma presto potremo scoprire qualcosa in più sugli Spiriti.” e qui il biasimo che dominava i suoi lineamenti scomparve quasi del tutto, offuscato dalla possibilità di nuove scoperte, nuove realtà che avrebbero potuto sconvolgere molte verità attuali. I suoi occhi brillavano dalla curiosità.
“Nel libro, è scritto che questa Fossa altro non è che il punto di ritrovo degli Spiriti di tutta Gorm. Gli Spiriti che non sono ospiti di un gormita risiedono tutti lì, e quelli che sono altrove, più volte vengono chiamati per…delle riunioni, così pare. Ma c’è altro.” Il Vecchio Saggio tremava per quelle scoperte e dall’impazienza di avere prove più concrete.
“Per qualche ragione, in questa Fossa vi è un archivio. Un archivio di numerosi veleni di daicai, a cui gli Spiriti sembrano fare da guardia. Sono sicuro che appena ti recherai lì, potremo sapere molto di più sugli Spiriti.”
Carrapax non sembrava molto convinto. Guardò pieno di domande la cartina e tutti gli appunti per giungere alla Fossa degli Spiriti che il Vecchio gli agitava sotto gli occhi, avvisandolo di procurarsi una copia più ‘solida’ di quei dati, che non venisse rovinata dall’acqua e dalla pressione.
“Tutto qui? - chiese, mettendosi a braccia conserte - Il Principe di Gorm deve discorrere con degli Spiriti in una caverna subacquea, mentre Kolossus e Barbataus rischiano la pelle in combattimenti contro nemici oscuri?”
Non amava chiamarsi Principe di Gorm o darsi delle arie, ma tutto ciò gli sembrava ingiusto e preoccupante. Voleva spiegazioni ulteriori. Era fin troppo facile.
“La diplomazia è un’arte per pochi. - cercò il Vecchio Saggio di convincerlo della difficoltà della missione, al pari di quelle degli altri due Signori, capendo i sentimenti di Carrapax, preoccupato - Sicuramente gli Spiriti non consegneranno in mano a chiunque i veleni che difendono. Chissà che sotterfugi hanno in mente. Ti consiglio di prepararti a tutto, sempre che sia tu a recarti nella Fossa.”
I chiarimenti e le incognite fornite dal Vecchio Saggio non erano per niente sufficienti. Carrapax era ancora convinto che quella missione fosse un enorme disappunto. Al Principe di Gorm sarebbe dovuto toccare qualcosa di ben più pericoloso, qualcosa al suo livello. La grande umiltà di Carrapax non era cambiata in quegli anni, ma il titolo di Principe di Gorm guadagnato con la fatica non gli dava i successi e le soddisfazioni che voleva. I gormiti lo ammiravano e lo rispettavano, Carrapax sarebbe stato ricordato per sempre negli annali di Gorm; due elementi, profonda stima e immortalità garantita, che gli erano più che sufficienti. Ma Carrapax sentiva di non aver fatto ancora nulla di veramente importante, nulla degno di quel titolo e di quella riverenza nei suoi confronti. Aveva assistito tutti quelli che necessitavano del suo aiuto, dentro e fuori il Popolo del Mare, tutte cose però di poco conto, che accrescevano l’ammirazione per il Principe anche da parte del più umile, povero e incolto gormita, niente però che avesse grandi risvolti sull’Isola, nessun grande e sconvolgente cambiamento in bene per cui sarebbe stato degno essere ricordati.
Prese il foglio, consolandosi con l’opportunità di scoprire la verità sugli Spiriti.
 
I gormiti del Mare sono sempre stati svantaggiati, da una parte. Nell’acqua, il suono viaggia troppo lentamente perché parlare usando la lingua potesse essere utile. Fuori dall’acqua, i primi gormiti del Mare nati in essa trovarono davvero difficile dare per la prima volta aria alle tonsille.
La necessità di comunicare mentalmente li portò ad un’altra necessità, quella di mantenere la propria mente sempre aperta a quella degli altri. Con il progresso, e la scoperta di sempre più metodi di ferire fisicamente e mentalmente una persona, lasciare la propria mente accessibile divenne sempre più problematico. Per quanto concerne i problemi prettamente fisici, i gormiti marini non sono mai stati uguali agli altri quando si trovano sulla terra asciutta. Sono lenti, molli, e più facili a ferirsi che tutti gli altri, e temevano il calore e la siccità più di ogni altra forma di vita.
Pochi, come Carrapax, si sono allenati abbastanza e abbastanza duramente fuori dall’acqua per essere in grado di tener testa ai più forti campioni degli altri Popoli, motivo per cui di vincitori marini del Torneo di Astreg se ne contano davvero molto pochi.
Legati alla pericolosità dell’asciutto sono numerose noie degli altri Popoli nei confronti della loro necessità di essere sempre bagnati. Dovunque andassero gormiti del Mare, si poteva capire dalle scie umide che lasciavano dietro di loro, passi segnati dall’acqua. In luoghi pubblici e in manifestazioni, poi, queste noie ottenevano anche una connotazione igienica. Basti pensare ai banchetti nei quali, oltre a bagnare il tavolo, le sedie, i piatti, gocciolavano la propria acqua sulle stesse pietanze.
Ma sto divagando; in un modo o nell’altro, tenere conferenze, riunioni, discorsi sotto il livello dell’acqua era sempre una grossa difficoltà, perché il ‘suono’ della mente ha anch’esso la sua forza e la sua velocità.
Qualcuno può ricordarsi di alcuni dialoghi mentali tra Raganels e Razael, molti anni e capitoli fa, e la facilità con cui essi parlavano può sembrare far incorrere a un’incoerenza: Raganels, in qualche maniera, comprese sin da subito la grande esperienza con la magia del Vecchio Saggio, e sapeva esserlo in grado di incantesimi che potessero amplificare il raggio della sua mente.
Magie non facilmente eseguibili da chiunque, e di stregoni come il Vecchio Saggio ce ne sono pochi, sia tra elfi che tra gormiti. Non vorrei che i lettori si facciano un’idea sbagliata della magia e della sua accessibilità. E’ vero che chiunque può praticare la magia, ma è anche vero che non tutti eseguono incantesimi con la stessa bravura e gli stessi successi. Magor e Razael sono dei casi isolati di massima maestria magica: pochi altri possono considerarsi vicini al loro livello.
Comunque, Carrapax si ritrovò di fronte al problema di parlare nella piazza centrale di Poivronopoli, di fronte alla Torre del Kraken, l’antica residenza signorile, antecedente al Grande Sacrificio.
Poivronopoli era una vera e propria metropoli sottomarina, dove i gormiti sfrecciavano indaffarati e parlavano mentalmente in una confusione di flussi di parole indescrivibile. Altro problema era anche raccogliere i sudditi e avvisare loro dei discorsi che stava per dare il Signore, o un predicatore qualsiasi.
Le reazioni dei sudditi raccolti nella piazza circolare enorme, circondata da un’infinita e molto alta esedra color avorio, furono molteplici, ma per la maggior parte di triste compassione, non di disperazione.
Il Popolo dell’Aria ha abbandonato tutto ciò in cui credeva, tutti gli amici che aveva tra di noi. proclamava il Principe di Gorm solennemente, senza però nascondere la sua stessa tristezza
Dobbiamo farci forza, amici miei. Vorrei poter dire che ci sono stati tempi peggiori, ma ho paura di dover dire che tempi peggiori devono ancora arrivare. Ma noi resisteremo, resteremo uniti, come è giusto che sia.
Questo tradimento mi ricorda quando decidemmo di accettare l’idea di Poivrons e dei Saggi di risvegliare la Grande Murena. azzardò a dire uno.
Come puoi fare un simile paragone? - lo criticò aggressivo un altro - Risvegliare la Murena era stata un’idea sbagliata, spinta da ideali avvelenati, ma in risposta ad una necessità: quella di porre fine allo strazio della guerra. Questo cambio di posizione non è una necessita: è solo una spudorata manifestazione di egoismo e avidità, ecco.
Be’…sì, hai ragione - constatò il marino di prima, grattandosi il collo imbarazzato, avendo compreso l’esagerazione del suo paragone - Però…spero solo che il Popolo dell’Aria, come noi, possa pentirsi presto dei suoi errori e che ripari subito ai danni fatti.
La tua è una speranza condivisa, mi auguro, da noi tutti. lo appoggiò Carrapax, parlando dal suo piedistallo.
Mi auguro, inoltre, che la pietà che alcuni di noi vogliono offrire ai nostri vecchi amici non sia una mossa sbagliata. Perché troppa misericordia abbiamo dato al Popolo del Vulcano. Io avrei potuto evitare tutto questo, se avessi compreso il pericolo vero del Vulcano. Avrei potuto riunire i Popoli e sottomettere i vulcanici, e finire un conflitto che dura da troppo tempo. Invece, ho creduto che un ulteriore generosità nei loro confronti potesse spingerli a cambiare atteggiamento. Niente: non solo non hanno cambiato, ma sono giunti a cambiare il Popolo dell’Aria.
State forse dicendo che non dovremmo più cercare la pace con il Vulcano? Che dovremmo sopprimerli? domandò una, stupita ella stessa di quelle parole.
Per niente! - si difese Carrapax, agitando le chele - Non penserei mai una cosa simile. Non dobbiamo cercare il conflitto. Sto solo dicendo che in futuro dobbiamo essere più…accorti nei confronti del Vulcano. E che io avrei potuto evitare tutto questo.
Signore, non esagerate - proruppe un altro - Non datevi colpe che non avete. Anche se il Vulcano fosse stato conquistato, Elios avrebbe comunque accettato le idee dello Stregone di Fuoco, e diversi lo avrebbero sicuramente seguito.
Forse è così - sospirò Carrapax - Tuttavia, io sono il Principe di Gorm. La persona con più potere su tutta l’Isola. La persona con più potere e più responsabilità. Per ogni male che colpisce l’Isola, la colpa, grande o piccola, è anche mia.
Che cosa faremo ora? domandò schietto uno, per nulla interessato agli ideali che predicava Carrapax.
Ci prepareremo al conflitto – rispose - Elios e…Orrore Profondo sono là fuori, ad ammassare le proprie forze per conquistare l’Occhio della Vita e con esso porre Gorm sotto il loro giogo. Dobbiamo impedirlo, insieme agli altri Popoli amici. Richiameremo i soldati, ristabiliremo turni di guardia e accampamenti, raccoglieremo rifornimenti. Le forze nemiche si concentreranno sul nascondiglio dell’Occhio della Vita, ma non possiamo essere sicuri che non tentino attacchi mirati direttamente alle nostre abitazioni. Qualcuno di voi dirà: che bisogno c’è? Sott’acqua siamo al sicuro. Ebbene, voglio ricordarvi una cosa: durante il Grande Sacrificio, i vulcanici si spinsero fin qui, nelle nostre case. Riuscirono a spazzare via la nostra gente. Possono riuscirci di nuovo. Possono riuscirci ancora meglio, ora che sono affiancati dalle conoscenze magiche del Popolo dell’Aria. Dobbiamo essere pronti a tutto.
Mio Signore, prima avevate parlato di alcuni veleni, potenziamenti usati dal Popolo dell’Aria. riprese sempre diretto e frettoloso lo stesso gormita.
Sì. Il Vecchio Saggio è risalito all’origine di questi veleni adoperati dal Popolo dell’Aria e forse anche dal Vulcano spiegò. Il gormita che aveva posto la domanda, insieme a diversi altri giovani, sembrava molto interessato a quella parte del discorso.
Ha scoperto altri veleni, su tutta Gorm. Dove sono nascosti, come ottenerli e come usarli. Uno di questi veleni è nascosto non molto lontano da qui, nella Fossa degli Spiriti.
Un silenzio turbato da vibrazioni di stupore e meraviglia seguì all’affermazione di Carrapax.
Il gormita davvero interessato all’azione, che aveva domandato per i preparativi del Mare e dei veleni, ruppe il silenzio con un’altra, davvero esplicita domanda.
Posso accompagnarvi, mio Signore? - lo supplicò agitandosi e sorridendo - Ho una buona preparazione, e sono stato più volte a Picco Aquila ad apprendere incantesimi. Pensate che alcuni mi chiamano ‘sergente’, e poi-
No, ‘Sergente’ - lo freddò Carrapax, ponendo una chela in avanti per zittirlo - Mi recherò da solo alla Fossa.
Cosa? Perché? continuò a domandare il Sergente, gormita a metà tra un cavalluccio marino e una lucertola, accompagnato in sottofondo da altri sommessi commenti riguardo le voci che circolavano su quel luogo arcano e su come fosse sbagliato che Carrapax, prima Signore del Mare e poi Principe di Gorm, volesse raggiungerlo da solo.
Ho il motivo di credere che la Fossa degli Spiriti non riservi il pericolo che credete, e che sia in grado di cavarmela in autonomia.
I sudditi seguitavano a non essere d’accordo, e il ‘Sergente’ insisteva perché lo accompagnasse. Ma presto smisero, capendo che Carrapax non avrebbe cambiato idea, e che l’ordine del proprio Signore non si discuteva.
Mi recherò prima alla piazza orientale, poi partirò disse Nella mia temporanea assenza, il consigliere Helico comanderà ai preparativi.
 
Per fortuna, in acqua, i gormiti del Mare erano i dominatori indiscussi e, rispetto alle forme di vita terrestri, molto avvantaggiate. Un esempio della loro supremazia, la loro capacità di sopportare livelli di pressione molto alti e temperature sottomarine molto basse. Cosa che sicuramente fu utile a Carrapax per raggiungere la sua meta.
La Fossa degli Spiriti non era lontana dalla capitale del Popolo del Mare Poivronopoli.
Dove un tempo poggiava la testa la Grande Murena, oramai un ricordo seppur molto recente, e dove i tributi venivano posti da tutti i gormiti e non tutti venivano mangiati dalla pigra e dormiente Murena, lì si trovava Fossa degli Spiriti. Si era sempre saputo –o quanto meno dedotto - che la misteriosa Fossa si trovasse in quel luogo. Quando quella frazione del fondale era occupata dalla testa della Grande Murena, ben pochi avevano preso il cuore in mano e deciso di avventurarvisi. Molto di ciò che il gormita medio sa di quel luogo si deve a manufatti antichi, testi e anche profezie di secoli fa, voci provenienti dagli oracoli. Tutte fonti che parlavano di un tempo antecedente al letargo della Grande Murena. Un tempo che nessun gormita vivente ha visto con i propri occhi.
Gli avventurieri più recenti, quando tornavano ed erano in condizioni di parlare, non portavano informazioni in più di quante già non ne avessero.
Anche senza la Murena a infondere timore, i gormiti si tenevano lontani dalla Fossa degli Spiriti, meno di prima però. Infatti il terreno e l’acqua nelle vicinanze, concimati da tutti quei tributi che la Grande Murena era troppo pigra per mangiare, erano ricchissimi di utili e rari minerali, che rendevano la zona fertile, prospera di animali e piante e di gormiti che avevano comprato pezzi di fondale per farvi piantagioni di alghe e pascoli di salmoni e altri pesci prelibati.
Tutto questo però tenendosi a debita distanza dall’enorme crepaccio in cui si trovava la famigerata Fossa degli Spiriti.
Le voci che circolavano parlavano di gormiti recatisi senza tornare, o ripresentatisi scioccati e restii a parlare di ciò che avevano visto, alcuni dimostravano di addirittura essere diventati pazzi, diversi permanentemente. Tutti o quasi tutti confermavano la presenza degli Spiriti in quel luogo. Non sembrava esserci nessuno sano di mente e con abbastanza fegato da poter dire con esattezza cosa si trovasse e cosa accadesse nella Fossa degli Spiriti, non nel Popolo del Mare, almeno. E Carrapax non aveva tempo per gite intorno all’Isola.
Non aveva nemmeno tempo per credere a tutte le voci vigliacche che lo invitavano a tenersi lontano da quel luogo. Quel libro di Muscor era attendibile, di questo si era convinto, e, un po’ per il libro un po’ per le poche informazioni provenienti dall’esterno e soprattutto per la parola del Vecchio Saggio, si era anche convinto della presenza degli Spiriti. Era sicuro che gli Spiriti non farebbero mai del male di loro iniziativa ai gormiti – Divoratore escluso - , e voleva scoprire cosa centrassero gli Spiriti con i poteri mythos e con la pazzia e lo shock di quei gormiti avventuratisi nella Fossa.
Carrapax era alfine giunto al limite dei campi sottomarini, nei pressi del misterioso e buio crepaccio.
Aveva lasciato dietro di sé i fertili e verdi appezzamenti, in cui aveva incontrato scarsi popolani che avevano pronunciato in suo favore preghiere.
Avanzò spinto dalle correnti presso l’apertura del canyon subacqueo, e lì si fermò, ancorandosi alle poche dure rocce sul bordo del precipizio, mentre tutto il resto era morbido e spianato, modellato dal sonno della Grande Murena.
Dinanzi a lui si apriva un enorme vuoto blu, che come un cielo in tempesta che perdeva la sua luce con l’avanzare del vento e delle nubi diventava rapidamente più nero tanto più si spingeva lo sguardo in basso. Unico bagliore, il sole di quel cielo freddo e cupo, solo punto di riferimento era una luce bianca che fuoriusciva da una piccola apertura, molto in basso.
Rabbrividì. Non sembrava esserci un fondo a quel baratro ghiacciato. Era decisamente molto freddo laggiù: bastava sporgersi oltre il bordo con la testa per venire colpiti da gelide correnti ascensionali, che fortunatamente non parevano abbastanza forti da impedire a Carrapax di scendere facilmente.
Si sentì improvvisamente molto a disagio al pensiero di lasciare la sicurezza e il torpore del fondale conosciuto per recarsi in fondo al crepaccio. Cosa aveva spinto gli esploratori, i folli e i coraggiosi prima di lui ad immergersi in quell’antro oscuro e infinito? Buio, gelido e ignoto: l’atmosfera di quel luogo minacciava degli occupanti consoni a quell’inospitalità.
Per quest’evenienza, Carrapax si era portato con sé la solita corazza cristallina, delle spalliere e un cinturone di corallo, e una spada ricurva. Tutte cose che sperava non aver bisogno di utilizzare.
Infine, fece un profondo respiro – figurativamente - , prese il coraggio a due mani e si buttò nel crepaccio. Coloro prima di lui erano stati spinti dalla mera curiosità e dalla sete di conoscenza, il desiderio di riempire i buchi dell’ignoranza: Carrapax doveva farlo, come obbligo da Signore. Obbligo che si era dato da solo e che aveva proclamato ufficialmente al suo Popolo. Non poteva certo tirarsi indietro. I suoi sudditi non avevano fatto tanti commenti riguardo la necessità di questi potenziamenti, i poteri mythos. Ma Carrapax era intenzionato a scoprire cosa c’era dietro alla Fossa degli Spiriti e, soprattutto, ad entrare di nuovo in azione, per qualcosa di grande. Che quel qualcosa fosse legato all’imminente conflitto contro suoi vecchi amici tra cui lo stesso Elios lo turbava un po’. Avrebbe avuto la forza di colpire il suo amico?
La forza cominciava a mancargli in quei momenti. L’acqua era davvero estremamente gelida, gli raggelava il sangue nelle vene, si muoveva lento, quasi si stesse congelando lentamente.
Ma c’era ancora un poco di calore nelle sue membra, e per quanto il tempo sembrasse rallentare e l’apertura luminosa parere molto in profondità, il Principe di Gorm vi era stranamente molto vicino.
Se doveva morire per il freddo, tornare in alto gli avrebbe semplificato le cose. Quindi, fece leva sul calore che ancora sentiva in corpo, e avanzò a bracciate ampie e lente verso la luce, che fuoriusciva da un buco abbastanza grande perché due gormiti potessero passarci benissimo.
Quand’ecco che fu in prossimità della mistica entrata luminosa e raddrizzò il corpo in linea con il verso della forza di gravità per un più agevole ingresso, i suoi occhi si sgranarono sotto l’effetto di un’infinita terribile meraviglia, il suo cuore ebbe un sussulto di fronte a quella mastodontica, cosmica visione mozzafiato.
Lì, sulla facciata dell’imponente canyon sottomarino in cui era scavato l’ingresso luminoso, cupamente illuminata dall’ombrosa luce filtrata dalle acque gelide, Carrapax scoprì la creazione di un dio. Il foro d’ingresso era solo la minima parte di un’immensa, raggelante composizione in altorilievo, scolpito sulla roccia da mani che non erano di questo mondo.
Tre ulteriori, giganteschi cerchi, uno gargantuesco immediatamente sopra l’entrata, due di dimensioni minori lateralmente, sovrastavano la minuta e impotente figura del Principe di Gorm. Una curva a parabola, abbastanza appiattita, si protraeva inferiormente all’ingresso fin nel buio insondabile al di sotto.
Giganti di fredda e inamovibile pietra bluastra, infine, erano stati posti, congelati nel tempo e nello spazio, ai lati della composizione di cerchi. Minacciosi e terribili, di una forma totalmente aliena, allungata e massiccia al contempo, vagamente insettiforme, scrutavano l’orizzonte con il loro sguardo glaciale e insostenibile a sei occhi, e decretavano il pericolo per chiunque osasse superare la loro difesa, imponendo le loro mani – quella sinistra per il gigante a destra, la destra per il sinistro – a tre dita affusolate e appuntite in avanti. La testa, in particolare, pareva quella di uno spaventoso e allo stesso tempo disgustosamente elegante insetto, dalla forma romboidale, schiacciata sul davanti e con gli occhi che prendevano le sagome di due triangoli. Le fauci squadrate, dai geometrici denti scoperti, erano particolarmente compatte e dalla parvenza indistruttibile.
Perché nessuno aveva mai parlato di quell’orrenda e maestosa, ciclopica opera d’arte?
Che razza di dei erano quelli scolpiti da artefici giganti e incredibilmente potenti, in quella fortezza sottomarina? Certo non i Semidéi, concepiti in ben altre forme e in ben altre misure dal culto tradizionale. Gli Osservatori? Che cosa volevano? Perché fissare quei guardiani nella roccia, in profondità? Per impedire l’accesso? E perché? E quale oscuro significato avevano le migliaia di geroglifici circolari incisi in ogni spazio tra le grandi circonferenze e le due impossibile sentinelle, e persino su queste stesse?
Con una spinta faticosa, si salvò dal rapimento di quella visione aliena, e fu dentro. Rapidamente la glaciale acqua si fece via via più tiepida, fino a diventare calda come fossero in prossimità della superficie.
L’apertura era più stretta di quanto appariva dall’esterno, ma la galleria si faceva sempre più larga, finchè non giunse, con un brivido di paura nel rammentare i racconti su quella caverna, a una grande ‘sala’, la grotta vera e propria, la Fossa degli Spiriti.
Si guardò intorno sbigottito. Era una caverna vuota. Solo una semplice normale caverna, illuminata a giorno di superficie magicamente. Era anche piuttosto alta, si intravedevano delle strane pietre appuntite sul soffitto, e una fonte di luce molto forte in cima al soffitto conico.
Di fronte a loro si trovava un ripiano alzato: su di esso si trovavano delle ossa. Davvero curioso.
C’era un teschio senza mandibola, mascella e mandibola senza teschio, una mano con sette dita,e quello che sembrava una colonna vertebrale con una coda arrotolata. Altre ossa di diversa fattura che Carrapax non riconosceva, bianche, corrose e ingiallite.
Benvenuto, Signore del Mare Carrapax. rimbombò nella sua testa una voce profonda e matura. Aveva uno strano accento, come se non fosse abituato a parlare quella lingua.
Carrapax fece scattare lo sguardo a destra e a sinistra, con una chela pronta a sfoderare la lama, incapace di identificare l’origine della voce. E come faceva a sapere chi era? Non poteva essergli entrato nella mente, non l’aveva percepito.
Non cercare intorno a te la nostra presenza: non puoi scorgerci. risuonò la stessa voce di prima, e Carrapax, obbediente nell’ignoranza, si quietò, volgendo il proprio sguardo sul ripiano con le ossa.
Si era ricordato della necessità degli Spiriti di possedere un corpo materiale, in quanto essi non ne avevano, in un modo simile ai fantasmi, o così credevano tutti.
Abbandona l’arma, Signore del Mare, e rilassa le tue membra: non ti sarà fatto alcun male. disse un’altra voce, di timbro più giovanile, e femminile.
Dite che non volete farmi del male - prese parola Carrapax, lasciando la presa sulla spada e cercando di esprimersi il meglio possibile e senza far trapelare il suo disagio - Come giustificate la pazzia mostrata da molti dopo essere ritornati da questo luogo? Cosa è stato fatto loro? Voi, Spiriti, che cosa cercate in noi gormiti?
Non dare sfoggio della tua insolenza, gormita - lo criticò un'altra voce (quanti Spiriti c’erano in quella camera?) che aveva colto appieno il tono da vittima di Carrapax e ne pareva offeso - I gormiti si credono tanto forti da resisterci, e alla fine molti falliscono. Li avevamo avvertiti di ciò a cui andavano incontro.
Di cosa state parlando? chiese Carrapax, scosso e molto a disagio: non gli piaceva essere circondato da persone che tutte ne sapevano più di lui. E se poi queste persone erano invisibile, tanto peggio.
Per quale motivo ti sei recato qui? domandò la stessa voce, impetuosa, senza apparente intenzione di placare la curiosità di Carrapax. Le altre balbettarono qualcosa, ma quella le zittì tutte quante.
Io non -
Rispondi alla mia domanda, Signore del Mare. Il resto può aspettare. lo interruppe.
Pieno di quesiti e preoccupazioni, sicuramente palesi agli Spiriti, ma senza alternative e senza alcun intenzione di incappare nel risentimento degli Spiriti, si ammutolì, e pensò bene a come rispondere. Parlare con il pensiero era una faccenda piuttosto complicata: mentre si rimuginava e si faceva passare per la testa suoni, immagini, parole agli orecchi –orecchi interiori - degli ascoltatori giungeva un farfuglio imprecisato, e non era raro, se non si era abili a schermare la propria mente e a selezionare bene i propri pensieri, che ci si lasciasse scappare qualcosa che era meglio tener celato.
I gormiti del Mare, nati con la necessità del dialogo mentale, erano avvantaggiati su questo punto di vista. La stessa cosa poteva dirsi per gli Spiriti: nella loro segretezza e aura di misticità che li avvolgeva, sembravano capaci di tutto, e superiori ai gormiti, agli elfi, a chiunque per qualsiasi cosa riguardasse la mente.
Dunque Carrapax, un po’ intimorito un po’ in soggezione, e sopra tutto questo confuso, si concentrò sulla domanda e sulla risposta che avrebbe dato.
Sono giunto qui per i veleni mythos. proclamò infine, scandendo le parole molto nettamente, indeciso se confessarlo con fierezza o con vergogna
Ho bisogno di questi potenziamenti per preparare il mio Popolo per un’imminente guerra
Hm. - borbottò lo Spirito - Una giusta causa, lo devo ammettere. Ti faremo accedere alla Prova.
E’ opportuno che tu cessi di dichiarare cause giuste e cause sbagliate, Haciar - lo criticò con tono d’accusa un suo compagno invisibile - Non abbiamo mai negato la Prova a nessuno, e mai lo faremo: non possiamo interferire.
Ve ne prego, Haciar, Arien. - si intromise infine un altro Spirito, quello dalla voce matura che per primo aveva parlato a Carrapax - Non ritorniamo su questo argomento, tutti siamo a conoscenza di come terminerà: qualcuno ammetterà che la nostra intromissione si è già spinta troppo oltre su questo mondo, e giudicherà il nostro dovere. Abbiamo tutti agito secondo il progetto, e quello che è stato fatto è stato fatto, e noi continueremo il nostro compito fino alla fine.
Perdona il nostro sproloquio, giovane marino - si scusò una voce anziana di donna a nome di tutti i suoi fratelli - Sei qui per uno scopo. Dunque, vuoi tu accogliere la Prova?
Che genere di ‘prova’? chiese Carrapax dopo più di un minuto di silenzio, impegnato ad elaborare quanto gli Spiriti avevano rivelato.
Una sfida davvero interessante, oh sì. disse entusiasticamente un giovane Spirito maschio Metteremo alla prova la tua mente, per permetterti di fortificare il tuo corpo.
Ha…ha una sua logica - balbettò Carrapax, ancora confuso - Ma in che cosa consiste?
Ad ogni modo, noi entreremo nella tua mente con forza. - spiegò uno - Se riuscirai a resisterci per tutto il tempo previsto, i veleni dei poteri mythos saranno tuoi.
Entrare nella sua mente? In quanti? E con quanta forza? Carrapax non era molto convinto che fosse una buona idea accettare quella prova, anche se sapeva, o quanto meno immaginava, che qualcuno l’avesse già superata in passato. Doveva sapere di più.
Cosa mi accadrà se non saprò resistere?
Se capirai in tempo di non essere in grado di sopportarci, sarà sufficiente ordinarci di porre fine alla Prova. Noi cesseremo di premere la tua mente, e tu sarai libero e invitato ad uscire da questa camera, con il divieto di non ritornarci prima che sia passato un anno, se vorrai ripetere la Prova.
E se dovessi impazzire? Carrapax non si era certo dimenticato di coloro che erano tornati dalla Fossa degli Spiriti privi di senno, e alcuni li aveva pure visti di persona, nel suo viaggio verso la Fossa.
La tua mole di quesiti è imponente, Signore del Mare - affermò con tono insieme stupito e contento uno Spirito - Mai prima d’ora qualcuno era stato talmente…preoccupato? Cauto? Tutti si erano gettati a capofitto nella prova, avidi dei veleni.
Dovremmo appuntare questa singolarità. suggerì il giovane Spirito maschio.
A qualsiasi danno che potrà essere recato alla tua mente - spiegò poi - Faremo del nostro meglio per porgli rimedio. E’ tutto ciò che possiamo assicurarti, e tutto ciò che possiamo rivelarti. Le cose che vedrai, le cose che sentirai, non le possiamo prevedere né rivelare: nessuna Prova è mai uguale a un’altra.
Vuoi accettare la Prova? gli chiese una seconda volta dunque la voce che associava al nome di Haciar.
Carrapax deglutì. Non era nulla di buono o sicuro ciò a cui stava andando incontro. Non poteva permettere che la sua mente venisse danneggiata. Poteva solo vagamente immaginare i problemi che un Signore, oltretutto uno con la carica di Principe di Gorm, impazzito avrebbe potuto generare.
Non poteva poi essere così difficile o così doloroso. Non volle pensare a nulla di male. Si aggrappò a quanto di buono avesse e ci fosse, fuori da quella Fossa, e alla sua promessa. Inoltre, alla speranza di poterne sapere di più, nel caso avesse superato la sfida.
Accetto.
Molto bene, Signore del Mare.
Rilassati. Abbandonati all’eternità del creato, lascia che esso sia parte di te. Abbraccia l’ignoto.
 
Carrapax avvertì la realtà intorno a lui distorcersi, mutare, degenerare in qualcosa che non poteva descrivere: vedeva l’acqua, le ossa, la pietra azzurrognola della caverna confondersi, mescolarsi, contorcersi. L’unica cosa che pareva rimanere stabile e al suo posto era lui stesso.
La degenerazione della realtà non era solo visiva: Carrapax sentì il suolo scivolargli via dai piedi, l’acqua intorno a lui perdere la sua pressione e la sua presa sul suo corpo.
Non aveva appoggio, non aveva appiglio. Piombò in basso a velocità sfrenata, o questo era quello che percepiva: sentiva di essere in caduta libera, ma lo spazio attorno a lui non mutava, non come dovrebbe se Carrapax stesse davvero cadendo.
Ma ciò non sembrava avere importanza: la sensazione di cadere nel vuoto c’era ed era potentissima. Carrapax aveva la nausea, i timpani gli scoppiavano. Aveva cominciato a risuonare un crepitio sgradevole ed incessante, come metallo che strideva. Non smetteva mai, e anzi aumentava d’intensità. Per quanto si ostinasse, non riusciva a tapparsi le orecchie, non riusciva ad alzare le braccia verso la testa. Non riusciva a muoversi: aveva perso ogni tipo di controllo sui suoi arti, sui suoi muscoli.
Tutto attorno a Carrapax si fece improvvisamente sfocato e impercettibile. I colori contorti del luogo in cui si trovava –o in cui credeva di trovarsi - mutarono, e ogni rassomiglianza con oggetti che credeva essere a portata di mano sparì. Un vortice di colori e suoni indicibile e agghiacciante, in cui Carrapax veniva risucchiato.
Carrapax aprì gli occhi. Non si ricordava quando li avesse chiusi, o da quanto tempo non li avesse aperti.
Non sapeva, non rimembrava nulla; spalancò lo sguardo, e diede un’occhiata curiosa al luogo in cui si trovava. Una pianura verdeggiante, rada di alberi, assolata. Una collina poco più avanti. Sospirava una brezza leggera, fresca e profumata.
Qualcosa ricordava: sapeva che posto era quello, lo aveva visitato più volte con i suoi amici.
Ed ecco apparire i suoi amici, come dal nulla. Carrapax non se ne stupì: era come se fossero sempre stati lì, e lui con loro.
Grankios, Multiplop, Ederus,  Astix, Kolossus, Tentaclos, Gorgous, Elios, Aduncus, Helico, Barbataus…tutti o quasi gli amici e i conoscenti più vicini erano lì.
Scorrazzavano e gridavano spensierati, felici come dei cuccioli. Tutti invitavano Carrapax a seguirli, e a riunirsi per una grande festa su nella collina.
Carrapax era in giubilo, e ogni volta che qualcuno gli faceva segno di seguirlo, prima di correre come il vento alla collina, lui indicava se stesso, come se non fosse sicuro parlassero a lui.
Ma Carrapax non aveva problemi di alcun tipo, non aveva impegni, nulla che gli impedisse di seguire i suoi amici alla festa. Li seguì correndo: erano tutti in cima al colle, e lo salutavano a bracciate con grossi sorrisi stampati sulla faccia: Carrapax non potè non imitarli.
Quand’ecco che gli parve di essere a un passo dallo stringere la mano alla sua compagna Astix, Carrapax ritornò al punto di partenza: stava correndo, i Signori amici e gli altri lo salutavano, distanti come se il Signore del Mare non avanzasse affatto.
Mise tutto se stesso, corse all’impazzata, ma Astix, Barbataus, Grankios, tutti rimanevano là, lontani e irraggiungibili, muovendo le loro mani all’infinito.
Alquanto sbigottito, smise di correre. Non aveva idea di cosa fare, di cosa stesse succedendo, e di cosa e perché stesse facendo in quel momento: prese a camminare, molto lentamente. Ma lui non muoveva le gambe: non dalla sua volontà i piedi si alzavano da terra. Si sentiva improvvisamente freddo, separato da tutto e da tutti, eppure continuava a camminare, come mosso dai fili di un burattinaio.
Il piede toccò terra un’ultima volta, e Carrapax si ritrovò di scatto in cima alla collina. Ma non c’era traccia dei suoi amici: solo Elios, a un pollice da lui. Uno sguardo gelido e apatico sul volto.
Un rumore assordante, penetrante. Sentiva il suo cranio come trafitto da spade di fuoco.
Carrapax cadde sulle proprie ginocchia, le chele strette intorno alla propria testa.
La verde e gioiosa collina scomparve, per lasciare spazio a una realtà confusa e annebbiata: l’aria era intrisa di fumo, tanto che Carrapax faticava a respirare, e c’erano fiamme ovunque, e figure nere e indefinite, ondeggianti, fissate al suolo.
Elios era rimasto. Il Signore dell’Aria era rigido, davanti a Carrapax inginocchiato. Il rumore cessò. Carrapax tolse le chele dalle orecchie, alzò il capo.
Il Signore dell’Aria lo squadrò dall’alto, sul volto un’espressione distante. Il suo corpo cominciò a mutare. La sua pelle piumata sembrava non riuscire a contenere i muscoli e le ossa. Ferite e tagli gli si aprivano ovunque, sprizzando sangue come una fontana, mentre il suo corpo si gonfiava.
La testa stessa stava aumentando di volume: gli occhi uscirono fuori dalle orbite, il becco si ruppe, le piume cadevano. In una rossa esplosione, la sua testa scoppiò.
Laddove prima c’era l’elegante Signore dell’Aria, ora c’era un’altra persona…ben nota a Carrapax.
Fiammeggiante e cosparso di sangue, Orrore Profondo, la massima paura del Signore del Mare, apparve, diabolico e portatore di morte.
La sua mano scattò al collo di Carrapax: una presa incandescente sembrò staccargli il collo.
Qualcosa bloccò la realtà: qualcosa che già era successo prima, Carrapax sembrava ricordarlo, ora.
Orrore Profondo scomparve, la grigia piana in fiamme si contorse e si mescolò con colori provenienti da nessun dove. L’intricato intreccio di suoni e colori, la sensazione di caduta, si ripeterono. Come aveva potuto dimenticarle?
Gli sembravano molto più veloci: in men che non si dica, si trovava nuovamente in acqua. Nuovamente? Perché? Lui era sempre stato in acqua, quel giorno.
Da quando si era svegliato, non aveva abbandonato quel luogo, che conosceva molto bene.
Poivronopoli, non distante dalla Torre del Kraken. Il palazzo che Carrapax aveva donato a Murena, sua ‘madre e consigliera, e che lì viveva insieme al compagno Delos e alla figlia, ‘sorella’ di Carrapax, Sonorca.
Decise di andare a fare una visita alla sua famiglia, non sapendo del perché si trovasse lì davanti ma sapendo che le visite ai familiari non erano certo un male.
Non si vedeva anima viva in giro. Molto strano: Poivronopoli era piuttosto trafficata, giorno e notte.
Qualcosa di insolito catturò la sua attenzione, nei pressi della porta d’entrata. L’acqua aveva assunto uno strano colore rosso…sanguigno. I timori iniziali di Carrapax furono comprovati, quando si vide fluttuare davanti, in una scia scarlatta, un pezzo del tentacolo di Delos.
Proprio sulla porta, c’era un gormita ben piazzato, che stava facendo a pezzi Delos, Sonorca e Murena.
Sonorca era già morta, trafitta nell’addome. Murena giaceva a terra: si muoveva, con entrambe le braccia recise e numerosi tagli sul collo, ma era morente.
Delos era stato fatto a brandelli: solo il torace era intatto, ma non lo sarebbe stato per molto. La figura assassina si stava cibando di Delos.
La sensazione di gelo e di disperazione provata da Carrapax si infiammò in una rabbia e un desiderio di vendetta immense.
Avanzò verso l’atroce cannibale omicida. E ciò che vide fece prevalere in lui il gelo, mandando via ogni rabbia. L’assassino, colui che aveva ucciso la sua famiglia e che stava mangiando i resti del padre adottivo…era lui. Una copia perfetta di Carrapax, Signore del Mare e Principe di Gorm, fluttuava dinanzi allo stesso Carrapax, con la bocca rossa e intrisa di pezzi di carne.
Come era successo con Elios poco –era stato poco? - prima, e improvvisamente Carrapax se ne ricordò, il corpo del suo gemello prese a gonfiarsi e a deformarsi, finché la testa non scoppiò, la pelle blu non si lacerò per far sì che il corpo di Orrore Profondo fuoriuscisse.
“Ho visto il tuo cuore, Carrapax. Ed è mio!” rimbombò come un verdetto la voce di Orrore.
Di nuovo, la mano bollente e infuocata del tremendo Signore del Vulcano prese Carrapax per la gola. Questa volta, tuttavia, non successe niente: Carrapax e Orrore rimanevano lì. Nessun vortice, nessuna distorsione. Solo paura e dolore incessanti.
Carrapax rivisse tutta la sua vita, cercando di soffermarsi sui momenti felici. Non riusciva a fare nulla se non soffrire, non riusciva a reagire.
La sua mente ricordò Grankios, il suo vecchio compare, come un padre per lui, e Murena sua insegnante di vita e tutrice. Sua sorellastra Sonorca, il patrigno Delos. L’amante Astix, con cui voleva avere un figlio. Ricordò Barbataus, amico come pochi, che gli aveva anche insegnato un po’ di magia, Kolossus, indubbiamente il suo migliore amico fuori dal Popolo del Mare, e anche Elios, l’amico perduto che doveva riconquistare.
C’era un Popolo che credeva in lui, che aveva posto in lui le sue speranze: non l’avrebbe deluso.
“No!” urlò. Raccolse le sue chele, con l’immane mano del mostro a meno di un piede da lui, e caricando un grande colpo d’acqua, lo riversò su di esso.
La morsa di fuoco cessò: il dolore svanì. Orrore Profondo si dissolse nell’acqua di Poivronopoli, che Poivronopoli più non era. Le case, le mura, la sabbia del fondale, scomparvero, e gli occhi di Carrapax guardavano di nuovo la realtà. La vera realtà.
Era di nuovo nella caverna luminosa: davanti a lui le ossa sul ripiano, dietro di lui la galleria che portava alla fossa fredda.
Complimenti, Carrapax - si congratulò uno Spirito - Signore del Mare e Principe di Gorm. Dei titoli importanti, e hai dimostrato con onore il valore di uno con tali cariche.
Apriremo la porta, e avrai accesso a diversi tipi di veleni. - continuò un altro (a che porta si riferiva?) - Hai detto di dover preparare un Popolo, e ne abbiamo avuto la conferma nella tua mente. Bada però a prendere solo i denti necessari: altri dopo di te potrebbero aver bisogno di quest’archivio.
Gli Spiriti schermarono le loro menti da quella di Carrapax. Pronunciarono delle parole chiave, o così immaginò Carrapax. Dietro al ripiano, perfettamente mimetizzata con la parete, si sollevò una lastra cilindrica molto grande, che poi si aprì: all’interno, diverse centinaia di strane lame lucenti, di colore diverso. Erano disposte senza un’apparente ordine, probabile segno di gormiti prima di lui che si erano presi la loro dose di potenziamenti. Sì, dei denti di daicao, ma Carrapax non poteva saperlo, non subito.
Era ancora impegnato a capire cosa aveva visto, cosa era successo. A capacitarsi di aver sopportato tutte quelle orribili visioni e di esserne uscito con la mente integra, o così gli pareva.
Il Vecchio Saggio ti ha consigliato il potenziamento della Bioluminescenza - lo informò uno - I denti di quel potere sono laggiù, quelli celeste. Ne puoi prendere altri, se vuoi, ma sii parsimonioso. E leggi le precauzioni sul libro.
Carrapax, seppur scosso e un po’ disorientato, aveva ancora dei quesiti da risolvere, che pose mentre avanzava verso la porta.
Che cosa sono questi denti? Perché sono qui? Perché la Prova?
Ti sei guadagnato il diritto di avere delle risposte. accettò Haciar
Tempo fa, prima dell’evento che voi chiamate Grande Sacrificio, ci fu un intraprendente gormita della Foresta. Il suo nome era Muscor. Sì, lo stesso che ha scritto il libro recuperato dal Vecchio Saggio. Muscor era molto interessato a scoprire quanto più possibile sulle misteriose entità note come Grandi Daicai, dotati di denti i cui veleni, se opportunamente studiati e dosati, conferivano svariati poteri. Il suo impegno costante lo portò a risultati eccezionali. Ma i gormiti del suo tempo, a sua detta, non erano pronti a questi potenziamenti. Muscor scrisse il suo libro, dove narrava delle sue ricerche e di ciò di cui era venuto a conoscenza, e anche dove aveva nascosto diverse fonti di poteri mythos, in modo che i posteri che ne avessero davvero bisogno e fossero abbastanza coraggiosi, poterono mettersi alla loro ricerca e ottenere ciò che bramavano. A molte cose ha pensato lui stesso: ma il tempo non era dalla sua parte. Ideò lui la Prova, mentre lasciò a noi Spiriti, interessati come lui ai Grandi Daicai, il compito di tenere nascosti questi denti e permettere a solo chi superasse la sfida di poterne usufruire.
Carrapax rimase con la bocca aperta, ma la chiuse subito, per evitare di inghiottirne troppa. C’erano affari molto complicati dietro a Gorm che nessuno si era mai immaginato.
Vi interessano solo i Grandi Daicai? chiese poi mentre, con la chela tremante, prendeva uno di quei denti. Non aveva con se nulla con cui portarli fuori.
Cosa cercate in noi gormiti?
Una domanda interessante - ponderò Haciar - Non sei il primo a porla, e non sarai l’ultimo a cui diremo che ci sono cose che è meglio non sapere. Il nostro compito è studiarvi da vicino. Non possiamo dire altro.
E Il Divoratore? E’ un ribelle?
Sì. - affermò con durezza - Ha abbandonato la nostra causa e rigettato i nostri principi. E’ un eretico e un rinnegato. Non ti preoccupare per lui: abbiamo un piano, già in atto da molti anni. Ben presto non sarà più un problema, né per noi, né per voi.
Il suo vero nome? domandò il Signore del Mare, mostrando un apparente scarso interesse verso i denti.
Non ottenne risposta.>>

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Capitolo 29
*** Capitolo 13.1 ***


In quel kruddie 106 Redrubise del 931 dall’inizio della civiltà il sole filtrava dalle vetrate colorate dell’aula con il tipico calore della stagione e della zona, ma con un’insolita, per l’orario antimeridiano, tonalità rossastra che incupiva, e al tempo stesso rendeva più fascinosi, maturi ed attraenti, anticipando la visione della sua figura adulta, da donna ben fatta, i lineamenti e i contorni e le curve della figlia del Signore di Darth Kuun Sud Atarros, Lafivias; ella era ben intenta, con le sue dita veloci ed esperte, da vera precoce appassionata di cultura, ad appuntare gli ultimi resoconti prorotti dalle labbra anch’esse esperte, sapienti, e tutt’altro che precoci, vegliarde, dello storico di fama insulare – e ben noto anche nelle coste e negli entroterra per i gormiti ancora vergini del Grande Golfo, grazie al viaggio che lo fece così dotto – che sedeva comodo e pago su una seggiola di vimini dalla parte opposta, accanto a una lavagna colma di date, precise e approssimate, e di una serie di diagrammi per una comprensione più sistematica e matematica del corso degli eventi.
Difatti, il Cronista aveva mutato il suo metodo, dopo che gli era stato così improvvisamente e generosamente – provvidenzialmente! – offerto quel posto di lavoro, insieme a un alloggio nella residenza del Signore per sé e per suo figlio Osmaniu, anch’egli presente alla nuova lezione con la nuova alunna. Mutato era anch’egli nell’aspetto e nel portamento, del resto. Due anni e un cambiamento radicale di condizione non possono che mutare gli atteggiamenti di un individuo.
“Maestro, so che ve l’ho già chiesto, ma avete mai pensato di mettere per iscritto le vostre lezioni? Sarebbe un successo come pochi. Avete una dizione, un modo di raccontare…fantastico.” Disse Lafivias, non appena ebbe riposto la propria matita in uno scomparto cucito proprio sulla copertina di pelle della sua agenda.
“Sono d’accordo, padre. E lo sai, te lo dico sempre. Secondo me potresti almeno provare.” S’accodò subito Osmaniu, anche lui, ormai quindicenne, molto più formato e definito che quando il Cronista gli aveva fatto da insegnante, là nella selva, per la prima volta. L’unico altro alunno, eccezion fatta per le occasionali presenze del Signore Atarros stesso o di qualche visita di personaggi da tutta l’Isola e non solo – e in quel caso Atarros era sempre presente. Osmaniu, invece, no, per gli impegni lavorativi che aveva avuto la fortuna di intraprendere. Se le lezioni si tenessero sempre alla stessa ora, come un tempo, in quel caso sì, ma Lafivias frequentava altri corsi privati, e, in genere, preferiva impegnare il suo tempo in modi diversi, ed un’elasticità di orari era quindi richiesta, cosa che del resto al Cronista andava più che bene. Non aveva idea di quali altri lezioni seguisse la figlia del suo protettore, non gliel’aveva mai chiesto né gli era mai stato di grande interesse – fuorché inizialmente, poiché, dopo presentazioni e quisquilie varie, gli era parso, gliel’avevano praticamente dichiarato, che Lafivias aveva proprio l’intenzione di impegnarsi nella storia e nell’insegnamento nel suo futuro lavorativo – tuttavia, anche se mai c’era stata un’aperta affermazione da parte sua, che se anzi ci fosse stata il Cronista non l’avrebbe creduta, era chiaro che le lezioni di storia fossero le sue preferite.
“Lo sai, lo sapete, come la penso, ragazzi. La letteratura non fa per me, capisco bene che sarebbe senz’altro più comodo, ma il fatto è che i miei racconti non sono mai gli stessi. Cambio qualche particolare di qua, qualcun altro di là, pur mantenendo i fatti storici essenziali veri come sono giunti a noi. Mi dispiacerebbe vedere queste storie fissate, incapaci di cambiare, quando magari mi accorgo che avrei potuto rendere meglio una scena o una descrizione e non posso rimediare. E se potessi, sarebbe una correzione continua. No, no. L’oralità è ciò che fa per me.” Discorse esaustivamente, anche troppo.
Logorroico come sempre. Si disse infatti.
Il corso di storia, sì, era il preferito di Lafivias. Se Osmaniu condivideva quella passione per le lezioni come un tempo, tanto quanto lei, il Cronista non poteva dirlo. Era senz’altro chiaro che la ragione principale per cui Osmaniu assisteva ancora agli insegnamenti del padre, e per cui Lafivias elevava gli stessi sopra tutti gli altri – oltre che per un fatto di interesse storico, indubbiamente – era per godere il più possibile l’uno della compagnia dell’altra. Lo si vedeva da come stavano vicini, da come si guardavano, da come, quando il coinvolgimento di Lafivias per la storia si faceva più forte e aveva occhi solo per le parole del mentore, Osmaniu, meno partecipe, non le staccava lo sguardo di dosso. C’era del tenero tra i due, da un certo tempo, anche se non era mai stato ufficializzato – che il Cronista sapesse – e non poteva che esserne contento. Lafivias era, nessun dubbio, una ragazza seducente e attraente, già una donna formata nonostante i sedici anni di età – uno in più di Osmaniu, il quale doveva rallegrarsi e ritenersi fortunato dell’amore, per quanto immaturo, di una tale gormita – con un fisico a clessidra perfettamente definito, asciutto e pieno, tipico di un terricolo ma anche di chi ha vissuto in una famiglia facoltosa, affascinante nella sua tinta color del deserto, nei corposi bitorzoli allungati e biondi che le ricoprivano il capo dal viso sottile, per nulla intaccata nella sua giovane bellezza da un avambraccio sinistro che si sviluppava più grande del destro e in una cromatura più cupa, e con un dito in meno – tre – cosa che anzi le conferiva ancora più avvenenza, il fascino esotico dell’asimmetria. Un vero fiore di Garsomor, che molti, di qualsiasi età, non avrebbero esitato a giudicare sensuale e meraviglioso, nemmeno il Cronista che, scendendo in simili particolari sul suo aspetto, si vergognò un poco.
“Siete davvero bravo, maestro, ad usare le parole – seguitò dunque la ragazza – in modo così…evocativo, suggestivo…immaginifico. – scoppiò in una risata leggera nell’utilizzare un termine così ricercato – Mi è piaciuta tantissimo la descrizione dell’ingresso alla Fossa degli Spiriti…Quelle divinità guardiano scolpite…mi ha messo i brividi. Chiederei se è vero se non conoscessi già la risposta.”
“Papà, credi sia possibile andare a visitare questo ingresso?” se ne uscì Osmaniu tra il serio e lo scherzoso, troncando possibilità di ringraziamento, il Cronista non capiva quanto seriamente e quanto scherzosamente.
“Oh, non dire sciocchezze, figliolo. – fece il maestro agitando la mano – È una bella discesa in profondità, anche un marino troverebbe difficoltà. E poi è una vista letteralmente mozzafiato, e non esagero…non so se mi spiego. Io stesso non ci sono mai andato. Preferisco non rischiare di vivere emozioni troppo forti, alla mia età, per di più…e nemmeno che rischi tu, o tu, Lafivias. Non farti attirare in follie da Osmaniu!” rise.
“State tranquillo, al massimo è il contrario…una domanda. Arien della Fossa degli Spiriti e la stessa che aiutò Razael, anni prima, a sconfiggere il Divoratore?”
“Sì, è proprio lei.”
“Scusatemi, ma non era legata a quel terricolo con l’anello di Deciber? Credevo che quando scegliessero un gormita ospite, rimanessero con lui…per sempre.”
“Lo fanno per moti di compassione, non sono obbligati a farlo e non accade sempre. Devi sapere che mantenere una vicinanza tale a qualcuno per così tanti anni è un’esperienza che segna gli Spiriti, che pure sfuggono alla maggior parte dei nostri ragionamenti. Preferiscono lasciarsi morire insieme all’ospite di una vita che continuare a vivere senza, spesso. Tuttavia essi hanno un compito e sono in un numero limitato su Gorm, quindi la morte scelta di uno Spirito è una cosa che non dovrebbe accadere. Non so dire altro, già queste sono ipotesi azzardate basate su dati scarsi.”
“Capisco…è una cosa molto triste. Intrigante, però.”
“Ho io una domanda. – fece Osmaniu alzando un dito – Riguarda quel graffito con i quattro cerchi e la curva sotto. Sì, quello trovato da Kolossus e Mangiaterra nelle caverne profonde…e mi pare di aver già visto altrove, nei racconti. È tremendamente simile all’incisione gigante sulla parete della Fossa. – i suoi occhi qui brillarono e le sue labbra si piegarono in un ghigno affascinato – Possibile che esista qualche, sì, qualche fantastico collegamento?”
“Mi dispiace deludere le tue aspettative, ma non c’è nessun segreto scottante, che peraltro ormai dovrebbe essere di dominio comune, vista l’antichità, dietro questa presunta somiglianza. Probabilmente i primi cultori degli Osservatori si ispirarono a questa reale scultura nella roccia, di fattura così inconcepibile, per le loro teorie e i loro disegni sacri. Nulla di più, anche se il significato del rilievo è tuttora sconosciuto.”
“Oh. Oh be’…continuerò a immaginare. Non ho altre domande.”
“Nemmeno io. – soggiunse Lafivias, prendendo la mano di Osmaniu – Anche se c’è molto su cui riflettere.”
“Riflettete pure, io sono sempre a vostra disposizione. – parlò il Cronista, alzandosi – Deduco che per oggi termini qui. A quando la prossima lezione? Domani alla quindicesima ora?”
“Ehm…preferirei la diciottesima.” E si volse con sguardo complice in direzione di Osmaniu, che, per quanto gli fosse possibile, arrossì.
“Sei tu a decidere! In tal caso, domani alla diciottesima ora. Tanti saluti, ci ritroviamo a cena.”
Osservò compiaciuto i due giovani amanti, uno con mero panno alla vita, l’altra con un gilet e una gonnella più sofisticati, allontanarsi mano nella mano dalla stanza dopo i dovuti saluti, più ossequiosi, come sempre, da parte di Lafivias. Risistemando pile di libri e la lavagna, il Cronista si perse a riflettere sulla bella vita che stava vivendo da due anni.
Si trovò quasi a ridere per l’estremamente positiva piega che gli eventi avevano preso, nel giro di una manciata di giorni, quasi immediatamente dopo che la vita del Cronista sembrava aver intrapreso una strada in costante e irreparabile discesa, fino alla morte. Ora, l’attesa della fine dei suoi giorni che solo due anni prima – e ora, ne era consapevole, i suoi giorni erano ancora di meno – gli era motivo di sconforto inguaribile, era un dato di fatto che quasi non lo toccava, non gli faceva né caldo né freddo. Lo accettava con serenità, convinto di aver dato il suo meglio nella candela della vita che aveva ormai consumato tutta la sua cera. La sua esistenza si era risistemata nel miglior dei modi immaginabili – inimmaginabili, forse – roseo, o come minimo promettente, era il futuro suo e del figlio che avevo preso come suo. Non era invero più preoccupato, non tanto quanto agli inizi se non altro, della possibilità di spirare lasciando un figlio non ancora maturo. Confidava che i rapporti con Lafivias e con Atarros, pur sempre facoltoso e di rilievo anche scaduta la sua carica di Signore, gli avrebbero permesso di sopravvivere in condizioni abbastanza brillanti.
Era giunto tutto così inaspettatamente, pensò con un sorriso il Cronista. Certamente sapeva che era di fama in tutta l’Isola, ma che lo fosse proprio per la figlia dell’attuale Signore, la quale aveva ella stessa da sempre richiesto – così raccontavano lei, con imbarazzo, e Atarros, con più orgoglio – la figura del savio della Foresta come insegnante di storia, e che egli avesse, casualmente, scelto proprio Garsomor come sua nuova casa…tutto questo il Cronista non poteva concepirlo. Era fin troppo fortuita come circostanza, tant’è che ogni tanto pensieri nefasti, la certezza che un avvenire negativo fosse incombente, gli attraversavano la mente; tuttavia nel corso di quei due anni le sue illusioni in questo campo erano state sempre infrante, e ciononostante continuava ad immaginarsi disgrazie e catastrofi. Per scaramanzia. Aveva anche temuto, inizialmente, che, se si fosse venuto a sapere dei motivi dietro la sua ‘fuga’ dalla Foresta Silente, le lamentele dei giovani alunni e dei genitori, la sentenza di Quercus, tutte le belle speranze nutrite dall’invito di Atarros sarebbero state vane; invece, Atarros era ben consapevole degli ultimi atti del Cronista presso Dalarlànd, ed aveva prontamente deciso, in una gentilezza che il maestro avrebbe sempre elevato a divina, di passarci sopra, considerando ciò che stava dietro a tutto quanto, e di dargli una possibilità per accontentare i desideri della figlia. Figlia con cui il Cronista, di questo era entusiasta sopra ogni altra cosa, quasi, aveva potuto intraprendere un percorso di insegnamento decisamente diverso, più confacente e soddisfacente, di quello adottato con i piccoli, più maturo e critico.
Non si creda, no di certo, che avesse abbandonato e dimenticato tutto quel dolore con cui negli ultimi giorni nella sua casa a Dalarlànd aveva imparato a convivere, e che mai però aveva smesso di ferirlo. Tutt’altro, la perdita di Inamia era ancora un fatto vicino nel tempo, e sebbene il Cronista fosse sereno e attaccatissimo alla vita, nessuno poteva negarlo, il ricordo di Inamia – nonché la pessima condotta degli ultimi alunni nella Foresta – era ancora fonte di tristezza. Non ne parlava mai, e caso mai qualcuno sollevasse l’argomento, anche alla lontana, discorrendo magari di aver perduto cari e parenti, il Cronista taceva, o si congedava.
Si cullava nella da sé costruita illusione che Inamia vivesse ancora con lui in un modo o nell’altro. Il lavoro a maglia che la moglie aveva lasciato incompiuto nella vecchia casa sull’albero era stato completato, con estrema cura e mai fretta di vederlo finito, quasi la sua finitezza significasse una vita più breve, ed ora costituiva l’unico capo d’abbigliamento del Cronista: uno scialle viola, molto largo e pesante, dalle nappe di fili dorati. La tunica/mantellina d’una volta era da diverso tempo appesa in un armadio dimenticato a collezionare polvere.
Il cambiamento nel suo aspetto non era limitato a quello scialle appariscente: l’immancabile bastone, per cui ora non mostrava più vergogna, lo stesso bastone con cui aveva fatto valere la propria vegliarda forza sui pazzi cultori, quella notte dove segnò con la lotta l’allinearsi del suo destino con quello di Osmaniu; gli occhiali rotondi in viso, da cui si separava solo mentre dormiva. Un’invenzione vicia non troppo recente, strumento di miglioramento della vista in vetro e fili di metallo. Una curiosità in tal merito è come i primi occhiali fossero stati inventati notevolmente più tardi rispetto ai primi cannocchiali e telescopi gormitici, e notevolmente prima rispetto ai primi cannocchiali e telescopi vici e delle altre genti del Grande Golfo, nonostante la dinamica di base fosse la stessa. Indubbiamente a ritardare l’introduzione degli occhiali su Gorm fu la non conformità dei visi gormitici, talvolta dotati di un occhio, tre occhi, quattro, piuttosto che i due di vici, zoari ed elfi, una comunanza interspecie ed extraspecie che ne fece un successo commerciale immediato e di subitanea diffusione.
Abbandonò dunque l’aula delle lezioni dirigendosi a passi sonori dei suoi piedi e del suo bastone verso le sue stanze, per i corridoi tappezzati della residenza del Signore della Terra, il Tempio di Roccia. Ricordava ancora con precisione la prima volta che percorse quegli anditi, in senso contrario però, ornati di fastosi tappeti, arazzi interminabili alle pareti e busti di eroi e personalità del Popolo della Terra e di tutta Gorm. Ricordava che li aveva percorsi con Osmaniu al fianco, tremante quanto lui per l’imminente e decisivo discorso con Atarros, e che su due di quei busti aveva posto un interessa particolare.
“Questo non è Radiclon Strapparami, padre? L’eroe delle guerre di riconciliazione?” aveva domandato il figliolo, indicando il busto di un forestale dal volto fiero ma nemmeno troppo vagamente angustiato e segnato da qualche male indecifrabile, una singolare chioma di capelli spessi e nodosi come radici che si levava dal capo.
Il Cronista si era irrigidito. “Ti posso dire che, sì, è Radiclon detto Strapparami. Che sia un eroe è invece un altro discorso.”
“Perché? Grazie a lui i…il Triumvirato del Vulcano è stato eliminato, ed ha aperto la strada per l’unione dei popoli.”
“Hai studiato cose che non ti ho mai insegnato, vedo. Sì, è vero: ha fatto quello che hai detto. Ma a che prezzo? Era membro di una squadra. E sono tutti morti, tranne uno che se l’è cavata con un profondo taglio alla spalla.”
Il secondo era invece: “Salogel, figura di spicco nell’esercito della Terra durante le guerre di riconciliazione.” Aveva parlato il Cronista notando l’interesse di Osmaniu per un volto ovale e pieno, il capo ricolmo di una serie di piccoli corni disposti simmetricamente.
“Quello che ha riunito lo Scudo di Skantis? Cristallo di Volvorot, Ala destra e Ala sinistra dello scudo. So che ha fatto cose grandiose, con quelle armi.”
“Proprio lui. Cose grandiose, certamente. Ma era un visionario e un pazzo. Forse qualche influsso malevolo dello Scudo, forse era già ammattito di suo. Lo Scudo gli dovette essere tolto a forza, colpì persino persone che aveva salvato con esso. Poi si isolò…credo che sia morto da pochi anni.”
La storia è ricca di mostri. Mostri che la comunità eleva ad idoli, nascondendo ciò che l’anonimo gormita della massa aborrisce ed esaltando tutto il resto.
 
< Di nuovo. Aveva nuovamente fatto sogni strani, confusi, preoccupanti. Cosa avesse visto di preciso, non lo sapeva. Era solo sicuro che riviveva diverse paure e angosce, e che non riusciva a dormire.
Dormire, finché poteva, era un obbligo: il giorno seguente doveva mobilitare le sue truppe, e si sarebbe dovuto svegliare molto presto.
Si massaggiò il braccio sinistro, proprio sopra la chela. Lì, si era punto con il dente di daicao e aveva lasciato che il veleno scorresse dentro di lui, diventasse parte di lui.
La puntura non era stato affatto dolorosa, né sentì dolore in seguito. Il segno del dente era appena visibile. L’unica cosa che aveva sentito, al momento in cui il veleno si iniettò nelle vene, fu un grande freddo, seguito poi da una vampata di calore, quasi febbrile, che durò pochi minuti per poi scomparire, e lasciare Carrapax –nonché gli altri marini - uguale a prima.
La bioluminescenza, o profonda bioluminescenza come insistevano a chiamarla gli Spiriti, era un nome più teatrale che descrittivo del potere mythos di quel veleno: permetteva a chi lo possedeva di assorbire energia dall’acqua. L’unico riferimento alla luce era l’insolita lucentezza che assumeva la pelle di un gormita mentre si ricaricava con l’acqua.
Riposa. E’ ancora presto. gli suggerì premuroso Atellos. Poi c’era lui. Lo Spirito, il primo che Carrapax aveva sentito, quello dalla voce anziana che aveva insistito perché accompagnasse Carrapax fuori dalla Fossa.
Dal momento che non era giunto nel periodo di riunione degli Spiriti, tutti quelli che aveva incontrato giù nel crepaccio erano Spiriti liberi, non associati ad alcun corpo ospite, se non quelle ossa. A Carrapax fu rivelato, dopo quelle poche informazioni sul Divoratore, che la Fossa era un luogo di riunione per tutti gli Spiriti di Gorm, che più volte all’anno si riunivano per discutere. Sugli argomenti di tali discussioni gli Spiriti avevano taciuto.
Dopo ciò che aveva visto, che in qualche modo aveva vissuto, Carrapax non era incline a diventare il corpo ospite di uno Spirito. Uno Spirito: un’essenza immateriale viva, che non dorme mai, con accesso completo alla mente, ai ricordi, ai segreti del suo ospite. Il quale, al contrario, ha un accesso limitato alle conoscenze dello Spirito.
Promettetemi che non dovrò più vivere quelle visioni. aveva richiesto Carrapax in seguito a quella proposta.
Tutti gli Spiriti, non solo Atellos, avevano dato la loro parola che non gli sarebbe stato fatto alcun male da parte loro.
Carrapax aveva comunque accettato con riluttanza, mentre Atellos entrava in lui, e lasciava sul suo collo il suo marchio: uno strano segno grigio a forma di T.
C’erano dei vantaggi all’avere uno Spirito: questi non dormiva, e quindi anche quando il suo ospite era nel sonno, era attento a ciò che accadeva attorno a lui, pronto a svegliarlo se necessario, e allo stesso modo poteva vedere ciò che agli occhi dell’ospite era negato vedere, avvisandolo di agguati e facendogli notare dettagli che altrimenti non avrebbe mai considerato; erano sempre pronti a dare utili consigli e approfondimenti su ogni cosa che si incontrava.
E poi il potere unico di uno Spirito. Atellos era rimasto zitto su questo proposito, affermando che tutti dovevano scoprirlo da sé.
Nonostante tutto questo, Carrapax era insicuro, e avrebbe continuato ad esserlo.
Se vuoi, posso allietare i tuoi sogni. si offrì Atellos.
No…no, grazie. declinò Carrapax. La portata delle abilità degli Spiriti sulla mente delle persone non alleggeriva la sua insicurezza.
Scosse, la testa, chiuse gli occhi, sforzandosi di dormire. Sprofondò nel suo letto di pesce piuma, nella stanza della sua reggia riscaldata da ben tre pietrefuoco. Mai, prima di diventare Signore, aveva avuto più di una pietrafuoco in un’intera casa, e la Torre del Kraken ne era piena. Una delle numerose fortune della carica signorile.
***
Il sole cocente del 41 Tealse 856 infuocava le sterminate distese sabbiose e abbagliava chiunque passasse, riflesso sulla sabbia.
L’arido Deserto di Roscamar era stato appena varcato, e, dietro, la cupa e rocciosa Valle del Vulcano non era molto distante.
Il passaggio da un ambiente all’altro era quasi immediato, e con esso l’improvviso aumento di temperatura. Gorm era certo un’isola singolare…e l’unica, eccezion fatta per Karmil e Tato Yami, per altro poco frequentate dai gormiti, che questi conoscessero ed avessero esplorato.
Erano sempre stati riluttanti a spingersi oltre i limiti della propria casa, e vedevano la Grande Piovra e la Grande Murena come degli ostacoli per impedire loro di prendere la decisione sbagliata di abbandonare l’Isola. A seguito del Grande Sacrificio, e anche prima con gli approdi nelle case del Popolo della Luce e del Popolo delle Tenebre, la riluttanza, in qualche modo il divieto dei gormiti di rimanere ancorati all’Isola di Gorm venivano meno.
Molto desiderosi di scoprire nuovi orizzonti erano i gormiti del Vulcano. Grazie a Magor, si erano convinti della grandezza del loro potere, e di come sfruttare questa grandezza in altre terre, su altre genti potesse garantir loro un vantaggio.
Ad essi si erano ovviamente aggiunti anche gli aerei: la loro nascosta ambizione, combinata alla convinzione di poter usare la potenza del Vulcano per i loro scopi, aveva acceso in loro, chi più chi meno, il desiderio di spingersi oltre Gorm e di plasmare gli altri popoli, forti della propria supremazia, a loro immagine e somiglianza.
Ma nessuno di questi ideali alti e sofisticati marciava ora il confine tra Valle del Vulcano e Deserto di Roscamar, con le rosse pareti della Valle dei Canyon in vista.
L’incarnazione della potenza combattiva di tutti i gormiti, della forza bruta e della disciplina militare; la mera sete di conquista era ciò che avanzava bellicoso per la sabbia.
Un cospicuo esercito, compatto e armato fino ai denti. Cremisi, scarlatto, grigio, arancio erano i colori che saltavano all’occhio, mescolati al nero, l’argento e il grigio metallico delle armi e delle corazze, splendenti e bollenti al sole.
Perché non ci fossero soldati dell’Aria –o forse c’erano, nascosti tra le truppe infuocate - è un mistero.
L’arsura era già sufficiente così com’era, e a passo militare, con indosso armamenti il sudore e il calore sofferti erano ancora più intensi.
Ma il Popolo del Vulcano sembrava sopportare senza apparenti proteste il calore: nati nel Monte di Fuoco, del fuoco erano padroni: il calore era l’ultima delle loro preoccupazioni.
Senza dubbio avevano mezzi con cui alleggerire fatica e calore, nei numerosi carri che portavano con sé.
Disponevano davvero di tutto: una folta fanteria, cavalleria pesante, artiglieria alata, grandi carri riempiti dei rifornimenti, di attrezzi e tende per gli accampamenti, arieti, catapulte…
Difficile pensare a qualcosa che potesse fermarli, e le forze vulcaniche non erano nemmeno tutte lì. Vi erano altre truppe, con numeri ed equipaggiamento diversi, che seguivano percorsi e orari diversi, ma tutti diretti a un’unica meta: Roscamar e l’omonima Caverna, dove Magor aveva scoperto era stato di nuovo nascosto l’Occhio della Vita.
Le grandi pareti rocciose e il terreno più compatto e rossiccio della Valle dei Canyon cominciavano a prendere il sopravvento sul deserto sabbioso e spoglio. Il suolo si faceva via via più scuro e più solido, e comparivano sempre più frequenti poche formazioni pietrose e piccole voragini crescenti in profondità più si avanzava.
Garsomor, la città dei canyon, non era ora molto distante, nascosta tra le mura di fuoco dell’immensa valle che si estendeva alla sinistra dell’esercito.
Non fu sufficiente tenersi lontano il più possibile dalla Valle dei Canyon per impedire di incorrere nella resistenza di Garsomor, che avrebbe fatto solo perdere tempo al Vulcano –ma che certamente non l’avrebbe arrestato.
All’orizzonte, emergendo da oltre una grande ed estesa duna, sfocata per il calore emanato dalla sabbia, si faceva avanti un immenso esercito di quelli che parevano terricoli, pronti a fermare l’avanzata del Vulcano e dell’Aria –che non sapevano assente - verso la Caverna di Roscamar.
Le due schiere avanzavano a rilento, senza fretta, consce finalmente della presenza l’una dell’altra. La distanza tra le legioni diminuiva… il conflitto, lo scontro tra il metallo e gli elementi era imminente e la marcia dei soldati sembrava accelerare.
Quando le fila erano sul punto di rompersi e darsi all’attacco sfrenato, la truppa terricola si immobilizzò.
Il comandante dell’esercito vulcanico, completamente immerso nel metallo dipinto della sua corazza in barba al sole ardente, forte sulla sua salamandra, si fermò e ordinò a tutti i suoi uomini di fare altrettanto. Cosa che i più non accettarono di buon grado, ma al capo non importava: qualsiasi cosa avessero in mente i gormiti della Terra, lui aveva una procedura da seguire, nota ai suoi soldati, che non avrebbe abbandonato.
Circa trenta piedoni –seicento piedi - separavano le due unità militari. Da quello che entrambe potevano vedere dell’altra, tutte e due erano ampiamente equipaggiate, dotate di tutto –quella terricola, però, possedeva meno soldati alati. La differenza numerica, se c’era, non era molto netta.
I vulcanici non erano minimamente spaventati da questa parità: avevano, come detto, altri uomini in viaggio e finché l’intera città di Garsomor non fosse uscita in battaglia, o non avessero chiuso l’esercito nella Valle –situazione che però sarebbe risultata scomoda anche per i terricoli - erano convinti del buon esito dello scontro.
Inizialmente leggermente annoiati e ansiosi di farla finita, l’attenzione dei vulcanici fu ravvivata da una figura a bordo di una salamandra grigia che si separò dal resto della sua truppa e galoppò fino a metà della distanza tra i due eserciti.
“Mantenete le fila, uomini.” vociò il comandante vulcanico, capendo cosa stava succedendo, e passando in rassegna tutti i suoi soldati galoppando davanti a loro, e assicurandosi che fossero tutti in posizione.
“Nessuno si muova fino a mio ordine, tutto chiaro? - ripeté severo - Niente iniziative, o vi seppellisco nella sabbia e sopra le vostre teste faccio passare le catapulte.”
Detto ciò, diresse la sua salamandra bruna corazzata dalla parte opposta, correndo con l’armatura e la spada che tintinnavano e luccicavano.
Raggiunse il terricolo, che al suo arrivo scese da salamandra. Il cavaliere comandante fece altrettanto. Quel soldato era vestito di un’armatura curiosamente leggera…molto leggera, e aveva solo una banale spada e un pugnale.
Il cavaliere corazzato, al contrario, era difeso pesantemente, o più che pesantemente, uniformemente: non c’era lembo di pelle scoperto al sole. Nera era l’armatura, con rifiniture sottili di rosso acceso. A un cinturone portava appeso un grosso spadone.
Il terricolo aprì la bocca: “Sono giorni in cui - ”
“Inviare un ambasciatore ai propri invasori, per tentare di raggiungere un compromesso e farsi trattare pacificamente.” lo interruppe il cavaliere con tono irrisorio. La sua voce era profonda, forte…temibile. Nell’ombra dell’elmo spartano che copriva il suo volto ogni cosa era nascosta, e a parlare pareva uno spettro.
“Patetico. - lo insultò. Il terricolo era paralizzato, ma anche offeso - Se c’è qualcuno che doveva inviare ambasciatori, quelli siamo noi, a offrirvi la possibilità di arrendervi e di limitare le vostre perdite. Voi e io sappiamo bene entrambi che non ci fermerete.”
“Avreste davvero fatto quello che state dicendo?” domandò il gormita, non credendo affatto a quanto riferito.
“Per quanto possa sembrarvi strano, sì. - affermò il cavaliere, incrociando le braccia. Scosse la testa - Magmion aveva ragione: vi siete davvero dimenticati del nostro senso dell’onore.”
“Che cosa avete da dire? Cosa volete darci? Perché vi ostinate a trattare pacificamente con noi?” gli domandò poi esigente.
“Nulla di ciò che avete da offrire potrà placarci…a meno che non ci consegnaste l’Occhio della Vita, ma non succederà mai.”
“E’ la promessa che abbiamo fatto con noi stessi. - spiegò, con una mano sul petto, l’altro - Il nostro modo di risolvere gli errori del passato. Gorm ha bisogno della pace, di essere unita. Non importa cosa farete, cosa direte, quanto lontano si spingeranno le vostre atrocità, noi non cesseremo mai di provare.”
“La maggior parte di noi, almeno.” commentò in seguito, e si fece circospetto, dandosi un’occhiata alle spalle e facendo scivolare la mano dal petto.
Si avvicinò di scatto al cavaliere, gli poggiò la mano sulla spalliera, la bocca all’apertura dell’elmo.
“Fatemi entrare nei vostri ranghi. - lo supplicò, sorridendo - So cosa ha in mente il Vecchio Saggio, se solo - ”
Il misterioso cavaliere – proprio lui, ma spero sia stato già capito - si staccò di dosso il terricolo, afferrandogli la gola con la mano e stringendo.
Mai si sarebbe aspettato una simile proposta, e da parte di un gormita della Terra! Così attaccati alle tradizioni, alla famiglia…
Il suo stupore lo tenne per sé, nascosto dal buio dell’elmo.
“Io odio i traditori. Non puoi fidarti di loro.” esclamò gelido, avvicinando il suo volto a quello del gormita terricolo.
“D - Davvero?! - lo canzonò quello, senza dimenarsi - Ipocrita! Che mi dici del Popolo dell’Aria?”
“Loro non sono traditori. - azzardò dire, ma molto sicuro - Non proprio. Non come te, questo è certo. Loro hanno compreso, e hanno scelto. Inoltre, le tue supposizioni sono sbagliate: non tutti noi andiamo in amore e arcobaleni con gli aerei, ma tutti noi abbiamo compreso perché, perché loro hanno bisogno di noi e perché noi abbiamo bisogno di loro.”
La stretta si fece più forte.
“Tuttavia, non comprendo perché dovrei avere bisogno di te…infido, disonorevole, bastardo d’un traditore che non sei altro…”
Con la mano libera, il cavaliere raccolse il pugnale dalla cintura del terricolo. Lo fece scorrere davanti agli occhi del gormita. Volse la lama verso l’occhio destro.
Il terricolo cominciò ad agitarsi, a singhiozzare, a picchiare il braccio del cavaliere, finendo però solo col farsi male da solo a causa della corazza, mentre la punta si avvicinava.
Entrò nella cornea. Grida esasperanti di agonia ruppero il silenzio nel deserto. I terricoli dall’altra parte non capivano, e non avevano intenzione di andare a fondo a quel problema.
Tra gli stessi vulcanici c’era chi non volle guardare. Tutto finì, quando, con un colpo secco, il pugnale trafisse interamente l’occhio e il cranio, e il gormita cadde a terra esanime.
La salamandra del terricolo corse via spaventata, guaendo.
Il misterioso cavaliere salì sulla propria, sguainò lo spadone.
“All’attacco.” gridò.
Senz’esitazione, l’esercito infuocato si scatenò. Come un unico, enorme animale le forze vulcaniche si mossero all’assalto del nemico.
I cavalieri, con il misterioso comandante alla guida, furono i più veloci e agguerriti. Le loro salamandre macinarono quei trenta piedoni in pochi secondi, e i loro cavalcatori abbassarono tosti le lance e le alabarde.
Dalla parte opposta, i terricoli non rimasero fermi a guardare. Avanzarono anch’essi, seppur in ritardo rispetto alle truppe del Vulcano, spedendo in avanguardia i propri cavalieri, mentre la maggior parte della fanteria si mise sulla difensiva e marciò a testuggine con migliaia di scudi come corazza.
Lo scontro tra le due cavallerie fu impressionante e devastante, con decine di perdite da entrambe le parti. Le lance perforavano teste, laceravano le salamandre nemiche, abbattendole, trafiggevano petti e addomi dei cavalieri.
Ambo gli eserciti scombinarono immediatamente e caoticamente le proprie fila non appena i soldati a salamandra si scontrarono. Dove prima v’erano due legioni composte e ordinate, ora i guerrieri si sparpagliavano senza meta e senza criterio, falciando con le proprie lame ogni nemico, demolendolo a forza bruta, incendiando il suolo sotto di lui, colpendolo con una pioggia di pietre.
Fuoco e pietra contro sabbia e roccia. Il vantaggio più grande, per l’esercito di Kolossus, era l’ambiente: sabbia a volontà con cui creare onde anomale di pietrisco, accecare il nemico per finirlo poi come più piaceva.
Ma il potere degli elementi aveva i suoi limiti, e tre anni erano ben pochi per sperare di superare la forza militare del Popolo del Vulcano, anche con un notevole miglioramento dei terricoli nella magia.
“Schierare un così corpulento battaglione presso Garsomor ed esserne a capo.” constatò il misterioso cavaliere, cadendo dalla propria cavalcatura e atterrando teatralmente e senza graffi con una capriola, abbattuta da un celebre avversario.
“Dovete essere molto sicuro del vostro potenziale, per abbandonare Roscamar.” continuò, dopo aver accarezzato un’ultima volta la sua salamandra.
Kolossus, il Signore della Terra, il carnefice della salamandra del misterioso cavaliere e suo sfidante nella lotta seguente.
Portava, come il suo opponente, un’armatura coprente e nera, lucida. Inserti argentati e altri, piuttosto insoliti, come gemme verdi luminose, sulle spalle, lungo la schiena, sugli avambracci.
Le decorazioni color pera, senza dubbio un riferimento alle gemme del vigore, erano rade e mai molto grandi, tranne che quelle grandi sulle placche del viso, mentre quelle d’argento si diradavano in linee che si mescolavano in forme e simboli emblematici del Popolo della Terra.
Era molto più temibile con quella corazza oscura e al tempo stesso lucente.
“Roscamar, e l’Occhio della Vita, sono al sicuro dalle vostre grinfie.” affermò sicuro di sé Kolossus, caricando contro il suo nemico.
Il cavaliere appiedato evitò la carica senza fatica, ma Kolossus percepì il suo spostamento e con ambo le braccia destre lo colpì durante la corsa, portandolo a terra.
Dopodiché, puntò i palmi questa volta sinistri al suolo sotto il guerriero, e spostandoli poi verso l’alto con vigore, innalzò una colonna rocciosa da terra che colpì nella schiena il vulcanico e lo lanciò qualche piede più in là.
Con prontezza di riflessi e agilità apparentemente impossibile vista il peso dell’armatura, il cavaliere evitò un’altra volta di rovinare a terra, atterrando teatralmente con le gambe larghe, un braccio gettato all’indietro e uno che toccava terra.
Sfilò rapido il suo spadone, strinse forte l’elsa, e agitò la lama davanti a sé, generando da essa una falce di fuoco diretta a grande velocità contro Kolossus, che ne fu investito, ma riuscì a liberarsi dalle fiamme.
“Chi sei tu?” domandò Kolossus, camminando di lato con una grossa lancia pronta, prospettando uno scontro decisamente lungo.
“Il generale di quest’esercito.” rispose secco.
“Intendevo, il tuo nome.” replicò seccato Kolossus.
“Il mio nome non ha importanza.”
“Non è forse l’obiettivo di ogni gormita raggiungere l’immortalità attraverso le gesta? – ponderò - Come speri di essere ricordato se nascondi il tuo nome?”
“Il mio nome è noto e verrà ricordato da coloro che contano: la mia gente.” spiegò, scattando in avanti e menando un fendente che Kolossus parò con l’asta della lancia.
Il cavaliere aveva preso l’avvio dell’assalto. Non diede tregua a Kolossus, seguitando ad agitare il proprio spadone con sciabolate rapide che il Signore della Terra riuscì a parare tutte, ma non riusciva a contrattaccare, nonostante avesse due braccia in più, e libere.
Parando continuamente, l’asta di Kolossus si ruppe, e lo spadone stridette sull’addome corazzato del terricolo.
Kolossus si spostò più rapidamente che poté per evitare i tagli della spada. Gettò i resti della lancia in faccia al cavaliere, nel tentativo di confonderlo, e poi lo colpì, sempre in viso –sull’elmo -  con una roccia modellata sul suo palmo. Il cavaliere ne fu stordito, ma solo per un momento e il susseguente rovescio di Kolossus andò a vuoto.
“Ditemi, Signore della Terra: di che potere mythos disponete?” gli domandò con fare superiore.
Kolossus sussultò. “Come sai queste cose?” volle sapere.
“Nulla sfugge al potente Stregone di Fuoco.” svelò vanitosamente.
Kolossus sogghignò. Disse saccente: “Non ne sono così sicuro.”
“L’unica cosa di cui non dovete essere sicuri è la lealtà dei vostri uomini.” gli rivelò il cavaliere, riversandogli sulla spalla un getto infuocato.
“Di che cosa parli?” chiese Kolossus, corrugando la fronte e sopportando il fuoco.
“Nei suoi ultimi momenti, il vostro messo ha chiesto di essere ammesso nella cerchia dello Stregone di Fuoco, offrendo informazioni sui vostri piani.” rivelò, e Kolossus potè notare l’ombra di un gelido sorriso nel nero dentro il suo elmo.
“Stai mentendo.” negò egli, congelato.
“Non sto mentendo. E’ la verità. Accettatela!”
“Stai mentendo!” ribadì Kolossus arrabbiato, afferrando tra le mani lo spadone dell’avversario, e sfilandoglielo.
Questi si buttò per riprenderselo e per evitare un pugno doppio dal terricolo. Riuscì solo nell’ultimo intento: l’arma era ancora lontana.
“Perché così stupito? - gli chiese beffardo - Dopo quello che ha fatto il vostro amico Elios, dovreste aspettarvi di tutto.”
“Basta con queste chiacchiere!”
***
Magor era ansioso nella sua camera in cima al Vulcano, e osservava sempre ansiosamente la sfera con cui poteva vedere le cose lontane, ciò che accadeva in luoghi impressi nella sua memoria.
La sfera veggente. Un amuleto tanto utile e dalle enormi capacità quanto costoso e dispendioso. Utilizzarlo, anche per il secondo mago del Grande Golfo, significava un enorme dispendio energetico. Costi e fatiche delle sfere veggenti erano tali che i loro numeri nella Setturnia si contavano nelle dita di un elfo.
Ansioso osservava prima la stanza in cui era conservato l’Occhio, poi lo scenario di guerra nel deserto. Ansioso, ma convinto e speranzoso, sorridente.
“Davvero patetico, maestro. Nascondere di nuovo l’Occhio nella Caverna di Roscamar. Devo ammettere che me l’avevi quasi fatta, erigendo difese magiche ovunque nella Caverna per tenermi occupato, mentre l’Occhio giaceva privo di difese, nello stesso luogo di prima. Furbo, ma avventato e pericoloso. E ora, sai che sono nella strada per il tuo nascondiglio, e cosa stai facendo? Assolutamente niente. Sei davvero molto sprovveduto, maestro, sprovveduto e troppo sicuro di te”
Si vantava, lo Stregone, mentre osservava il Vecchio Saggio nella sua sfera, che camminava avanti e indietro, con una mano che accarezzava la barba, in un antro buio illuminato da pietre di luce e, sopra tutte, il magnifico Occhio della Vita.
La quasi spensieratezza del suo maestro faceva addirittura ridere Magor. Come minimamente pensava di poter essere al sicuro, e di stare lì senza far niente? Magor non poteva che trarne motivo di gaudio e risata. Finalmente l’età pluriavanzata del suo maestro aveva intaccato la sua mente. Stava diventando davvero vecchio.
“Spero tu non sia così vecchio da non ricordarti la formula del Flammae corpus. Prima di morire, devi riparare ai tuoi errori, maestro.”
Magor spostò per un momento, sempre con un ghigno infuocato stampato sul volto, lo sguardo dalla sfera, e lo pose su uno scaffale appoggiato al muro della sua stanza. Il ghigno scomparve, sostituito da un’espressione appena accennata di delusione e rassegnazione.
Magor sospirò, chiuse gli occhi. Li riaprì, e chiamò a sé l’ampolla contenente polvere di carbone.
Si fece scuro e iroso in volto tutto d’un tratto. Abbandonò le sue intenzioni, e ripose il contenitore vitreo al suo posto.
Sbuffò. “Quando avrò l’Occhio della Vita, potrò fare ogni cosa. Ogni cosa.”
“Hai capito, maestro? Ogni cosa! Non avrò bisogno dei tuoi insegnamenti!”
Senza accorgersene, ritornando con l’attenzione nella sfera, parlò in modo che il Vecchio Saggio poté sentirlo…o così dovrebbe essere stato.
Dopo essere rimasto impietrito per un momento – anche nella convinzione della riuscita del suo piano, se il Vecchio Saggio l’avesse sentito avrebbe potuto scoprire tutto e ribaltare la situazione - Magor si acquietò. Il Vecchio sembrava non aver sentito nulla e, terminando la sua camminata in tondo, si adagiò sulla poltrona di pietra ammorbidita con pelli di varia origine.
Che fosse diventato sordo di punto in bianco?
Magor cominciava a sospettare qualcosa. E quel qualcosa non gli piaceva affatto.
Forse era davvero sordo. Oppure era tutto diverso da come sembrava: Magor avrebbe potuto azzardare, e se avesse ragione o meno, in ogni caso sarebbe stato rovinato.
L’insicurezza era troppa. Magor non poteva rischiare, e allo stesso tempo era obbligato a farlo, o i suoi piani sarebbero andati in fumo.
Pose tutta la sua attenzione sulla sfera veggente. Diede forma con la magia a una figura d’ombra e dagli occhi rossi, un’illusione, nella stanza del Vecchio Saggio. Far funzionare magie attraverso le sfere veggenti era estremamente impegnativo, esclusivo di stregoni di alto livello, tanto che Magor si sentì quasi spegnere, nonostante l’avesse fatto più volte, e ne aveva originate ben più di una.
L’ombra si avventò sul Vecchio ignaro. Lo graffiò con artigli immateriali. Nulla. Assolutamente nulla. L’uomo non vide, non sentì niente.
Era una finzione. Un miraggio: il Vecchio e l’Occhio della Vita non erano lì.
Un urlo disperato echeggiò per tutto il Monte Vulcano.
***
Un piccolo scrigno di legno, chiuso con tre lucchetti. Un forziere più grande, ligneo e metallico, circondato da catene. Un terzo baule avvolto in corde e catene cosparse di lucchetti, circondato da una coperta mimetica bruna e verde. Interamente difeso da potenti magie, e il tutto nascosto in una larga buca scavata nel terreno, e poi ricoperta e celata da assi di quercia, come tutto il pavimento attorno.
L’Occhio della Vita, la luce e il veleno di Gorm, era stato nascosto in tutto questo, al sicuro nel suolo della Foresta Silente. Per quanto ancora al sicuro, chi può dirlo?
Inattaccabile, inespugnabile: se anche i suoi protettori fossero caduti, se le difese poste intorno al suo nascondiglio fossero state distrutte e la ubicazione  rivelata, molto tempo sarebbe stato perso cercando di violare gli incantesimi che lo tenevano rilegato, tempo necessario per recuperare le forze e riappropriarsene.
Un solo passo falso, e l’intera cassa sarebbe saltata in aria, e l’Occhio della Vita insieme ad essa.
Una risoluzione che tutti agognavano, compreso il Vecchio Saggio. Ma era un’ultima risorsa: nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo in seguito.
Dove si trovava l’Occhio della Vita? Dove era stata scavata la sua fossa, dove calato il grande baule?
Un nome che ho già ripetuto più volte, ma che mai ho definito: il Rifugio della Rugiada.
Un immenso albero, tutto qui. ‘Tutto’.
Quanto grande? Si potrebbe pensare, che so, quarantasette piedoni in altezza e quattordici piedoni di raggio. E’ sicuramente un enorme albero. Non so, su Gorm alberi simili sono rari, ma esistono.
Il Rifugio della Rugiada sorpassava di centinaia di piedi tutte queste lunghezze.
Immenso, gigantesco, unico. Il Rifugio della Rugiada è l’albero più alto e più largo che io abbia visto in tutta la mia vita, e di alberi ne ho visti parecchi, di diversa razza e provenienza.
Qualcosa di mastodontico, difficile da raccapezzarsi, magnifico. Non a caso il centro della cultura e dell’amministrazione del Popolo della Foresta, che necessità di simili luoghi anche nel suo stato di seminomade, e suo simbolo.
Si erge nella Foresta Silente, ciclope tra gli altri alberi, in più di cinquecento piedoni, poco più di mille piedi, in altezza, e un diametro di trecento piedi che si va via via accorciando più si procede in altezza, fino a spezzettarsi nelle misure più piccole dei suoi numerosi rami all’estremità.
Contrariamente a quanto ci si può aspettare, le sue foglie non erano proporzionalmente grandi al resto dell’albero: erano di una certa larghezza, certo, - e di una forma mai vista altrove - ma se cadevano non ammazzavano nessuno.
Un capolavoro della natura davvero singolare. Come è potuto crescere così tanto, quanti secoli ha, quali prodigi della magia lo hanno reso ciò che è adesso, nessuno lo sa ma tutti se lo chiedono.
Ma il Rifugio della Rugiada è il centro amministrativo della Foresta, come già detto, oltre che un patrimonio per l’intera isola: nessuno, al giorno d’oggi, si sognerebbe mai di attaccarlo per contare gli anelli del suo tronco o tranciarne un ramo per studiarne anatomia e quant’altro. Senza contare che le dimensioni degli strumenti necessari per fare una qualsiasi di queste due cose sono qualcosa di inimmaginabile.
Tale è la grandezza del suo tronco, delle sue stesse radici protendenti dal suolo che il maestoso albero è stato scavato innumerevoli volte nel passato remoto e prossimo. Al suo interno si può trovare davvero di tutto: la sede del Signore e del Consiglio dei Saggi, in primis, biblioteche il cui numero di volumi rivaleggia quello della più celebre Biblioteca Silente, manco a dirlo, rifugi per chi ha bisogno di un tetto e di cibo, musei, accademie, scuole.
Crivellare sempre di più il Rifugio ha in anni recenti turbato i forestali, che temevano potesse da un momento all’altro cadere sulle loro teste, nonostante non avesse mai dato sintomi di questo tipo. Così, da circa un secolo, la quantità di alloggi scavati nel suo legno ha cessato di aumentare.
Difendere un così ampio spazio con la magia richiede abilità, forze e strumenti altrettanto ampi. Il Vecchio Saggio aveva l’abilità, Gorm diversi strumenti, e stregone e vari gormiti la forza necessaria per tenere il tutto in piedi.
“Vecchio Saggio, quello che avete fatto è sensazionale.” si congratulò Barbataus, rivestito di un’armatura leggera di un vistoso giallo, sulle spalle, sul petto, sull’inguine.
Il suo volto era meravigliato e stupito, non traspariva il timore del conflitto, il conflitto con vecchi amici –e vecchi nemici. Il prodigio a cui aveva assistito era tale da fargli dimenticare tutto il resto.
“Non sono stato da solo, Barbataus. - ripeté umile il Vecchio Saggio - Ho avuto l’appoggio della tua gente, di altri grandi maghi dell’Isola, e delle loro pietre preziose. Senza questi aiuti, le mie conoscenze non sarebbero state di alcuna utilità.”
“Ma avete circondato l’intero Rifugio della Rugiada e lo spazio più vicino di un barriera magica!- esclamò Barbataus agitando la sua frusta, come innervosito dalla tranquillità dell’elfo - Aerei e vulcanici non possono entrare! E’ qualcosa di…di…spettacolare. Mai prima d’ora era stato fatto qualcosa di simile, di portata così grande.”
“Non qui su Gorm, forse…” mormorò il Vecchio, abbassando il capo, perdendosi in alcuni ricordi.
Rialzò la testa, con un sorriso e confessò: “Ma, devo ammetterlo, non è stata una bazzecola.”
“Però devo ringraziarti, Barbataus. Devo ringraziare tutti i gormiti per aver riposto in me tutta questa fiducia. Affidare il Rifugio della Rugiada, mettere in pericolo questo e tutta la Foresta, per difendere l’Occhio della Vita…spero che un giorno potrò ripagare a dovere tutto questo, prima di andarmene per sempre.”
“Ci avete dato molto, Vecchio Saggio, e io lo ricordo meglio di altri. - disse Barbataus - Credere in voi è il minimo che possiamo fare, e non smetteremo di farlo. Non seguiremo l’esempio di Elios.”
Al nominare quel nome il volto di Barbataus si fece scuro…e rabbioso. Elios avrebbe pagato per il disordine che stava generando.
“Posso chiederti una cosa, Barbataus? - chiese dopo alcuni attimi di silenzio il Vecchio, massaggiandosi la barba, pensieroso - Forse l’ho già chiesta, ma voglio essere sicuro che i miei ricordi siano esatti. I miei anni cominciano a farsi sentire, ed è ora.”
“Chiedete pure.”
“Ecco, cosa vi fa credere che l’Occhio è davvero una fonte di energia? Avete mai visto qualcosa che ve ne ha convinti?”
“Non di persona, no. - ponderò il Signore della Foresta, imitando il Vecchio Saggio con la barba - La tradizione dice che l’Occhio della Vita, quando fu scoperto da Valladoin, aveva trasformato alcuni gormiti in gormiti più forti, e aveva riempito al massimo alcune pietre preziose poste attorno ad esso. Nient’altro. Si è parlato, come dicono gli annali a Patmut Iun, di ‘Seconda Ondata, anche se il significato è da sempre un mistero. Voi che cosa avete visto?”
“Trasformato? Trasformato! - esclamò il Vecchio Saggio con una pacca sulla propria fronte - Questo davvero me lo ero dimenticato.”
Tornò serio dopo quell’attimo di esaltazione.
“Io ho visto di cosa è capace. - sussurrò - Ho visto…quanto bastava.” Si ammutolì. C’erano cose che doveva tenere nascoste ancora a lungo.
Mentre cercava di immaginarsi cosa sarebbe successo se, per un motivo o per un altro, l’Occhio della Vita avesse emanato la ‘energia neozon’, che ora supponeva avesse proprietà mutageniche, mentre dentro al forziere, il silenzio di tensione fu interrotto dall’apparizione di due gormiti, che sembravano azzuffarsi.
E uno di questi aveva fattezze e colori che non erano i benvenuti. Ma per lui si facevano eccezioni.
“Bada di non fare scherzi.” lo ammonì severo il soldato forestale, strattonandogli i polsi che teneva stretti con delle manette improvvisate.
“Comprendo la tua preoccupazione, ma lasciami andare: il Vecchio Saggio e il tuo Signore sanno chi sono.” si lamentò, ma con compostezza ed educazione, l’aereo prigioniero. Non era uno dei rinnegati di Noctis.
Un forte e compatto becco blu, volto elegante da falco, piume e penne bianche lucide, pulitissime. Forti e ordinate ali ben ripiegate, candide. Ai polsi, anche con la corazza, portava i suoi inseparabili bracciali con diademi. Gli altri diademi, ossei, sul petto non erano visibili, coperto questo da un’armatura.
“Decido io quando lasciarti andare.” gridò imperturbabile il gormita della Foresta, con un altro strattone. Si fermò, a una certa distanza da Barbataus e dal Vecchio Saggio, che guardavano incuriositi e insicuri delle notizie che quel fidato aereo avrebbe portato.
Tolse la mano dai polsi legati dell’aereo per affondarla nelle piume della nuca e gli piegò il capo, e con esso tutto il torso, mentre il forestale faceva lo stesso di propria volontà. La solita riverenza verso un Signore.
“Mio Signore. Venerabile Vecchio Saggio. - li salutò, rialzandosi dall’inchino ma non permettendo al prigioniero di imitarlo - Questo gormita dell’Aria si è consegnato a noi: dice di essere un rivoltoso e che ha informazioni per voi.”
“E’ sicuro, soldato. E degno di fiducia, hai la nostra parola; e il mio ordine di lasciarlo libero.” lo rassicurò Barbataus, indicandogli di togliergli la corda alle mani e di permettergli di muoversi liberamente.
“E’ vero, Falcosilente?”
“E’ tutto vero, purtroppo.” sospirò il fratello di Elios, libero dal soldato della Foresta.
Un cuore puro, un animo nobile: uno come lui mai avrebbe abbandonato gli amici negli altri Popoli e il Vecchio Saggio come molti della sua gente avevano fatto, e allo stesso tempo non poteva tradire il suo Popolo, il suo Signore e fratello, e amico.
Le idee di Magor, la collaborazione con il Popolo del Vulcano, la conquista del mondo…Falcosilente non era d’accordo con alcuna di queste cose, e Noctis giorni addietro gli aveva fatto capire quanto davvero era sbagliata la strada che stavano percorrendo, ma non sarebbe mai stato capace di opporsi apertamente.
Ma non sarebbe stato con le mani in mano mentre la sua gente e i suoi principi degeneravano: avrebbe fatto il possibile per aiutare segretamente quelli che ancora seguivano il giusto cammino, e tentato non troppo veementemente di far raccapezzare Elios, finora senza buoni esiti.
“Che notizie ci porti, Falcosilente?” domandò Barbataus. Falcosilente avanzò verso di loro, finendo però con l’andare a sbattere nel vuoto. Al contatto con il muro trasparente e impenetrabile, ci fu un leggero e rapido flusso di luce arancione.
“Perdonate, me ne ero dimenticato.” disse indietreggiando, con una mano sul becco.
“Ad ogni modo, preparatevi: Magor ha scoperto la trappola, sa che l’Occhio è qui.” Nominare il temibile Stregone di Fuoco non era più un tabù per il Popolo dell’Aria: suo malgrado, anche Falcosilente si era abituato a sentirlo e pronunciarlo.
“Il Vulcano si sta riorganizzando per attaccare il Rifugio, e l’esercito dell’Aria sarà qui a breve.”
“Di già? - domandò esterrefatto il Vecchio Saggio - Come ha fatto a scoprirlo così in fretta?”
Perché me ne stupisco? - disse tra sé subito dopo - E’ capace di tutto, e io lo so bene.
“E’ tutto ciò che so: Orrore Profondo e Elios si stanno dirigendo qui. - ripeté Falcosilente - E ora devo ritornare, o la mia assenza desterà preoccupazione.”
“Nessun problema, Falcosilente.” lo lasciò andare Barbataus, uscendo dal raggio d’azione della barriera per porgli la mano sulla spalla.
“Riconosciamo il rischio che corri e la sofferenza che provi: i tuoi sforzi non saranno dimenticati.” gli promise premuroso.
Falcosilente abbassò il capo, apprensivo.
“Preghiamo che ci siano poche perdite da entrambe le parti. - mormorò - Buona fortuna.”
“Buona fortuna a te.” sospirò Barbataus mentre Falcosilente volava via.
“Preghiamo di essere capaci di difendere la tua casa, Barbataus. - fremette il Vecchio - Chissà cosa farà il Vulcano quando scoprirà la barriera.”
***
Il sole splendeva limpido nel cielo del pomeriggio. Nessuna nuvola teneva la luce dell’astro per se, una giornata apparentemente tranquilla e serena ottima per andare a pesca o a caccia o per una semplice scampagnata.
Nessuno avrebbe mai osato dire che quello era un giorno di guerra. Il primo, ad essere precisi, e la guerra era già cominciata, lontano dagli alberi frondosi e verdi come Greemerald nel periodo di nuova che catturavano la luce e crescevano smisurati.
Ma la guerra avrebbe avuto la sua sede principale proprio in quegli stessi alberi di quella stessa Foresta, le cui foglie sarebbero state scosse con forza e costrette a cadere ma non si sarebbero rinsecchite senza provare a tornare ai loro rami.
All’interno, al di sotto degli alberi, vi era una pace silenziosa accompagnata dai canti degli uccelli e dai fruscii degli animali. Tutto abbastanza insolito per la Foresta Silente, che, sebbene erano molto abili nel restare quieti nella loro casa, solitamente pullulava di affaccendati gormiti della Foresta.
Oggi i forestali si erano impegnati ad essere più silenziosi del solito. E non solo: erano fermi, e invisibili, mimetizzati con gli alberi, i cespugli, gli arbusti. Un occhio straordinariamente attento avrebbe visto uno di loro immobile contro un albero, mimetizzato alla perfezione con esso, pronto a cogliere di sorpresa il nemico, ignaro di questo potere. Tutti gli altri gormiti che non avrebbero preso parte al conflitto, nascosti e sorvegliati in segreto, come solo i forestali sanno fare.
Un rumore insolito ruppe la silenziosa pace che un attimo prima regnava incontrastata. Lo sbattere di ali, ali grandi a giudicare dal brusio, e piumate.
Poi il suono di passi furtivi.
Un gormita piumato, dall’aria vecchia, comparve guardandosi a destra e a manca. Sembrava solo: probabilmente era una sentinella.
La sua testa era piccola e munita di un lungo becco non-ti-scordar-di-me. Era simile al muso di un corvo. I suoi occhi erano luminosi.
Maggior parte del suo corpo era ricoperto di un manto piumato esageratamente luminoso alla luce del sole, ma paurosamente cupo all’ombra degli alberi. Le sue braccia, di piume più piccole e soffici, erano lunghe quasi fino a terra ed erano di un brillante azzurro. I suoi artigli sembravano ricoperti di uno sgargiante smalto violetto.
Un rumore di erba calpestata non sfuggì alle orecchie del gormita, che si voltò di scatto.
Vide un semplice arbusto, che tuttavia giurò che non fosse lì prima.
Si voltò nuovamente in avanti, preparandosi a prima vista a proseguire, ma poi si bloccò ed emise una flebile e quasi isterica risatina.
“Mi avevano detto che eravate silenziosi!” disse sadico, si girò di scatto e colpì l’arbusto con una sfera d’aria.
L’arbusto cadde a terra, ma non pareva sradicato. Mutò di colore, rivelando il gormita che si sfalsava per alberello: un Supplitiu con una nuova corazza gialla e verde smeraldo durissima, con immancabili decorazioni spinose su spalle e schiena.
“Una magia interessante. - osservò il gormita dell’Aria - Strano, da parte vostra.”
Non sembrava essere a conoscenza dei potenziamenti, oppure era solo in vena di fare dell’ironia o di dare aria al becco.
Supplitiu non rimase fermo a pensare: si alzò con un balzo, lanciandosi verso l’aereo.
Questi, nonostante i rami che lo rendevano difficoltoso, si sollevò in volo con la stessa risatina di poco fa.
“Prova a prendermi, tronchetto!” lo istigò in modo davvero fastidioso, come non ricordava nessun aereo aver mai fatto, che prese a volteggiare nell’aria rapido e sinuoso, che sembrava una foglia. Prese a lanciare nuove sfere d’aria, e non tutte furono schivate.
Supplitiu emise un debole grugnito in risposta, ma non mancò di accettare la proposta.
Il tutto senza rivolgergli la minima parola. Non era un gormita di sua conoscenza, e anche se lo fosse stato, non avrebbe sprecato tempo a parlare.
Prese ad agitare le grandi braccia nel tentativo di acchiappare o colpire il gormita, ma sembrava più che altro che cercasse di prendere una mosca.
L’avversario, da parte sua, sembrava divertirsi e ripeteva la solita risatina ogni volta che Supplizio lo mancava o che lo colpiva con le sue sfere, anche se probabilmente non era questo che doveva fare. Un atteggiamento veramente improprio per un gormita dell’Aria.
A un inafferrabile e rapido gesto della mano dell’aereo, Supplitiu si ritrovò improvvisamente con un tremendo dolore alle gambe, come se avesse urtato contro un muro di spine alto solo la metà di lui, e cadde ginocchia a terra.
“Prima il dovere, acchiappa-mosche. - lo schernì, agitando le mani preparando un altro incantesimo - E’ stato un piacere aver fatto la tua conoscenza. Ora..aah!”
La frase fu stroncata da un suono rigurgitante, simile allo scroscio del vomito, e dal susseguente dolore provato dall’aereo.
Questi cadde, con le ali e la schiena letteralmente fumanti e doloranti, in gemiti silenziosi, quando il misterioso attaccante si staccò dall’albero su cui era appostato e mostrò i propri forma e colori.
Un piccolo corpetto verde con, un torace e una testa tutt’uno, grosse labbra color del limone.
Dalla sua bocca colava ancora l’acido liquido con cui aveva attaccato l’avversario di Picco Aquila.
“Ben fatto, Sferst.” si congratulò Supplitiu, porgendoli la mano. Sferst grugnì in risposta, dandogli il cinque.
“Portiamolo via, adesso. I suoi amici arriveranno presto.” ordinò poi, mentre si apprestava a raccogliere l’aereo svenuto.
Sferst grugnì di nuovo. Non parlava: un piccolo prezzo per la saliva acida per cui era famoso tra i suoi nemici – cosa di cui ho già parlato.
Non riuscì nemmeno a toccarlo che fruscii e turbini di vento provennero da davanti a lui e Sferst.
In numeri non definibili, guerrieri dell’Aria a piedi si facevano strada con eleganza e prepotenza tra le fronde della Foresta Silente, tranciando gli ostacoli vegetali sul loro cammino con le loro lame e scagliando magie contro i due guardiani.
Questi furono costretti alla ritirata, e al nascondiglio. Per loro grande fortuna, il potere mythos del mimetismo consentiva loro di occultare qualsiasi cosa avessero indosso o in mano al momento dell’attivazione. O qualcosa di simile. Le meccaniche precise con cui funzionava non erano certe.
Così, corpi, armi e corazza di Supplitiu e Sferst divennero invisibili, amalgamati all’ambiente circostante alla perfezione, indiscernibili.
I suoni che provocavano non venivano certo attutiti, e quando un forestale occultato si spostava e si agitava poteva essere intravisto, ma i due furono presto fuori dall’obiettivo dei guerrieri aerei appena arrivati.
D’ovunque attorno a loro, trappole di vario genere, frecce scoccate, pugni e tozze e sciabolate invisibili azionati sicuramente da più di due gormiti impedivano ai soldati dell’Aria un attraversamento sicuro e facile della radura.
Ma qualunque fosse il numero dei guardiani della Foresta e delle trappole presso quella giungla vicina ai piedi di Picco Aquila, non sarebbero mai state capaci di bloccare per sempre l’avanzata dell’esercito dell’Aria.
Le truppe di terra erano solo una minima parte del grande battaglione che Elios stava schierando e guidando lui stesso in quel momento. Un enorme stormo come di uccelli, uno sciame di vespe, un branco di pipistrelli armati, potenziati e con pericolose conoscenze magiche.
Per quanto caotica l’immagine che ho dato dell’esercito di Elios possa essere, in realtà i suoi soldati alati erano sì variegati per aspetto, colori, dimensioni ma uniti tutti dalla compostezza, dalla severa eleganza del loro volo, dalla loro minacciosità come membri di una classe superiore in molti termini.
Con Elios a capo, i numerosi guerrieri volanti, predatori infallibili dei cieli, sfrecciavano sopra l’ampia distesa verde, diretti come lampi verso l’enorme Rifugio della Rugiada che si stagliava centinaia di piedi dal suolo.
A poco servirono le frecce, i dardi e gli incantesimi scagliati dai forestali mimetizzati sopra gli alberi, o gli scontro diretti di alcuni temerari che, invisibili, si scagliavano in aria nel tentativo di abbattere le fila nemiche. Ci furono successi: molti aerei crollavano al suolo, facendo a volte cadere quelli immediatamente dietro di loro, trafitti da frecce più veloci di loro e da blocchi invisibili che si gettavano contro di essi e che diversi non riuscivano a schivare nemmeno con il senso di colibrì.
Pochi caddero, pronti ad essere razziati e immobilizzati dai re della giungla. L’esercito aereo continuava ad avanzare incrollabile nonostante le perdite, e in discesa, a piedi o in volo, da Picco Aquila si intravedevano i rinforzi.
L’entrata del Rifugio era ormai in vista, pesantemente difesa da forti schiere di forestali e anche di stessi aerei – nemmeno l’ombra di Noctis, però, né di Barbataus o tantomeno delle forze di Terra e Mare. Non si trovavano però catapulte o simili armi: rischiose da utilizzare, avrebbero potuto danneggiare la Foresta Silente, e in generale non adatte a una battaglia contro nemici in volo perfettamente capaci di evitare di essere colpiti dai massi non appena fossero stati lanciati o, peggio ancora, di respingerli.
La prima disfatta del nemico era prossima: non ci furono attacchi a distanza, né Elios o chi per lui fermarono la flotta per dare ordini di attacco o di posizione. Si fiottarono senza se e senza ma come civette verso un topolino, per niente rallentando la loro carica.
La scena che seguì fu tra le più comiche che si siano mai viste in uno scenario di guerra. Uno dopo l’altro, a ruota di Elios, decine e decine di guerrieri alati sbatterono la testa ignari e colti completamente alla sprovvista, e gli aerei dietro di loro, per colpa della velocità, non fecero in tempo a fermarsi e si schiantarono contro i corpi dei loro pari. Tra armi e corazze –e tra chi non aveva elmi - ci furono diverse ferite e molti ebbero il mal di testa per tutta la durata del combattimento.
Elios, massaggiandosi la testa, ordinò infuriato ai suoi uomini di ricomporsi, e di immediatamente difendere sé e gli altri dai colpi dei nemici, che non persero tempo a ridere e colsero i brevi momenti di debolezza degli aerei per attaccarli dal sicuro della loro barriera.
Sferrò un pugno dinanzi a lui, con il suo guanto violetto. Un lampo arancione ellittico seguì l’impatto con l’impenetrabile difesa invisibile.
Volteggiò su più lati, attorno al Rifugio della Rugiada mentre sotto di lui infuriava uno scontro destinato a non finire bene per le sue forze, sfoggiando una corazza leggera e raffinata, di un deciso viola su cui scorrevano, sottilissime, linee di un viola più scuro e rosso, che sul petto segnavano il simbolo dell’Aria e, sulla schiena, tra le giunture delle ali, la M dell’alfabeto gormitico: la M di Magor.
Colpì con svariati attacchi e incantesimi –appresi da pochissimo - laddove vedeva ergersi la barriera, tutti senza successo.
“Eh! - esclamò - Che diavoleria è questa? Che diavoleria è?!” si chiedeva a voce alta più e più volte, osservando che nulla sembrava fare breccia, né di suo né dei suoi stregoni.
“Io non ci posso credere! Dovremmo essere noi i maestri della magia, non questi qui! Dev’essere uno scherzo. Oooh, oh, oh.” si lamentava.
Intanto i difensori forestali non rimanevano fermi nella loro barriera, né gli aerei rimanevano fermi di fronte all’entrata, volando tutt’attorno al Rifugio per cercare dei punti deboli, qualsiasi cosa.
Taluni uscivano dalla barriera, per affrontare corpo a corpo i loro nemici: del resto, a distanza era troppo difficile sconfiggere gli scattanti gormiti dell’Aria: i più schivavano gli attacchi prima ancora che fossero scagliati.
Lo scontro non fu affatto furioso: gli aerei si impegnavano più a difendersi mentre cercavano di spezzare la barriera, senza degnare della loro attenzione offensiva i forestali. Al contrario, questi ultimi volevano farla finita il più in fretta possibile: molti cercavano, tra tutti i nemici, aerei di loro conoscenza, far fronte ai loro timori, fronteggiarli e porre fine a quell’incubo una volta per tutte.
Nessuna delle due file fu capace di nascondere le proprie paure: gli amici che si scontravano, quando si intravedevano, si bloccavano e si fissavano. Non volevano farlo, volevano che non fosse vero, entrambi. Ma alla fine i risentimenti crollavano, e, più o meno violentemente, le amicizie bruciavano in lotte.
“Elios, aggiornami.” udì il Signore dell’Aria attorno a lui, mentre con un turbine di vento rispediva dentro la barriera un forestale che lo aveva caricato. Era la voce indimenticabile di Magor, lo Stregone di Fuoco. Elios divenne improvvisamente euforico, raccapezzandosi dello Stregone che parlava con lui attraverso la sfera veggente: si sentiva importante. Ma l’euforia si dissolse subito: lo scontro non era cominciato bene, e avrebbe potuto finire peggio.
“Hai trovato il Rifugio? L’Occhio della Vita è lì?” domandò frettoloso Magor.
“Sì, l’ho trovato, mio Stregone. - assentì Elios - Non so se l’Occhio della Vita è qui, però. Ma sono sicuro che lo sia. Ci sono forze di Barbataus e di Noctis: è un indizio importante.”
“Concordo. - disse - Che cosa c’è nel Rifugio? Non riesco ad osservarlo: ogni volta che provo a vederlo nella sfera, appare il nero.”
“Non vi piacerà, potente Magor. - lo avvisò Elios con un sospiro - E’ stata eretta una barriera magica, molto potente. Non riusciamo a trovare un modo per distruggerla; c’è sicuramente lo zampino del Vecchio. Se non troviamo una debolezza o non ci viene in mente un diversivo, qui finiamo male.”
“Una barriera magica indistruttibile, dici?” ponderò Magor.
Il silenzio seguì. Magor ricordò qualcosa. Qualcosa che aveva già ricordato, in passato. Ancora una volta, la sua memoria gli faceva vedere oggetti, situazioni, persone che non riconosceva, appartenenti alla memoria di qualcun altro, ma che in certe occasioni gli apparivano in testa come ricordi suoi.
La sagoma di un’arma. Forse. Qualcosa di allungato e sottile, largo a un estremità. Come già detto, non era la prima volta che vedeva quella…cosa. La aveva addirittura cercata, lui da solo o attraverso emissari. Quella rimembranza gli fece venire in mente un altro ricordo. Un ricordo, questa volta, suo. Qualcosa che aveva visto con i propri occhi.
 
“Svegliati, Buferios.” vociò solenne Magor. L’oracolo di fronte a lui, di un legno bianco come il latte e ricoperto di muschio, aprì i suoi luminosi e al contempo cupi occhi, di un giallo minaccioso.
La visione di quell’arma, che già credeva di aver visto tra i libri della Biblioteca Silente e addirittura in graffiti sotterranei, lo aveva condotto a intraprendere uno studio e una ricerca di armi e amuleti dell’antichità. Così occupava il tempo libero, quando non era impegnato ad aiutare l’amato Popolo del Vulcano e a formulare progetti per il suo e il loro futuro.
Le tracce finora recuperate lo avevano portato al dialogo con un oracolo: l’oracolo di Orsol, Buferios, uno dei pochi gormiti vegetali che annoverava l’aria e, dopo il micidiale tributo agli déi del Vulcano, forse uno degli ultimi.
“I miei saluti porgo a te, essere di fuoco che al nome di Magor vai.” gli diede il suo gelido e distaccato benvenuto.
Magor trasalì. Come sapeva il suo nome? Aveva anche intimato ai suoi uomini di nominarlo solo in rare occasioni.
“Come mi conosci?” lo interrogò.
“Altri oracoli hanno conosciuto te su quest’isola, e io conosco insieme a loro.” rispose.
Magor non comprese del tutto, ma fu rassicurato: la sua identità elfa era ancora nascosta.
“Sai dirmi che cos’è la Lancia dell’Oblio?” domandò poi.
“Lancia dell’Oblio, Lancia dell’Oblio.” ripeté Buferios, e il suo sguardo si fece più ampio e luminoso, come stupito.
“Mia invenzione, mia eredità, mia immortalità.”
“Tua invenzione? L’hai costruita tu? - chiese meravigliato Magor - Quanti anni hai, per l’esattezza?”
“Io non ho età. - disse - Cessato di invecchiare io ho. Il gormita che ero tutto ciò che era ha abbandonato per unirsi alla natura. Con la natura io sono, e con me è la natura. La natura non ha età, e io insieme a lei.”
“Va bene, va bene. Come vuoi tu.” lo zittì Magor, che avendo parlato con molti altri oracoli ne aveva già abbastanza dei loro discorsi criptici.
“Allora, hai costruito tu la Lancia dell’Oblio?”
“Il gormita che ero l’ha costruita. - disse - Ai tempi della scoperta della magia, della Guerra della magia, quando degli Aborigeni demiurghi della magia le misteriose tavole nel cuore di Picco Aquila furono scoperte. Si impegnarono e si dilettarono tutti a dare vita alla propria immaginazione, e il loro esempio Buferios seguì: la Lancia dell’Oblio vide la luce a quel tempo. Ispirazione nella preghiera trassi, presso l’Occhio della Vita. I tre cerchi e uno vidi, e tutto mi fu chiaro.”
“E di che cosa è capace?” chiese eccitato.
“Che sia magia, che sia illusione, che sia reale, nulla può resistere ai suoi colpi. Tutto dalla sua lama può essere spezzato. Grande potere deriva da essa, ma anche grande paura.”
“Paura? In che senso?”
“Bada: tale è la sua potenza che anche le menti possono essere spezzate. Pericoloso è adoperarla. Bada: se di resisterle sarai capace, sii paziente. Quando essa spezza, tempo dovrà scorrere.”
“Che cosa significa che il tempo dovrà scorrere?” domandò innervosito Magor, che era così vicino alla risoluzione ma non riusciva a capire.
“Sii cauto. Sii… paziente. Scorrere dovrà…il tempo.” Gli occhi di Buferios si chiudevano. Il suo, di tempo da sveglio, stava terminando.
“Aspetta, aspetta! Dimmi dove si trova!”
Gli occhi di Buferios si chiusero e la sua bocca pure.

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Capitolo 30
*** Capitolo 13.2 ***


Con l’arrivo delle forze del Mare la situazione per l’assalto aereo si faceva tostissima: i rinforzi guidati da Orrore Profondo e quelli poco prima impegnati presso Garsomor erano obbligati ad arrivare in fretta, o l’attacco sarebbe stato un fiasco totale. Senza dubbio l’esercito con a capo il misterioso e innominato cavaliere avrebbe tardato ad arrivare: Kolossus e i suoi occupati a fargli fronte avrebbero fatto di tutto per rimandare la loro fuga. Questo era forse un vantaggio, poiché di conseguenza anche i rinforzi della Terra sarebbero giunti in ritardo.
Carrapax e i guerrieri del Mare erano emersi dalle fronde nel più completo silenzio e nella totale impreparazione da parte dei soldati di Picco Aquila, e rinforzavano le truppe forestali da dietro e oltre la barriera.
Infatti, con la comparsa tra le file alleate del Principe di Gorm, vincitore del Torneo dell’Eclissi, gli animi dei difensori del Rifugio si erano fatti più sicuri e aggressivi, e uscivano temerari a grandi numeri fuori dalla sicurezza della difesa magica per un sano e violento combattimento corpo a corpo con gli invasori e traditori dell’Aria, sempre pronti a ritirarsi nuovamente dentro quando erano in pericolo.
Se non altro, Elios e i suoi uomini non avevano da temere di essere schiacciati su entrambi i fronti, giacché la loro casa su Picco Aquila era alle spalle –garantendo loro un facile traffico di rifornimenti e rinforzi - e oltre di esso non c’era nemico conosciuto che potesse coglierli alla sprovvista.
Ma questo era solo un piccolissimo e ad esser sinceri insignificante vantaggio nei confronti del nemico: ora che si erano aggiunti i marini, erano in netta minoranza numerica e la condivisa capacità di volare e i riflessi potenziati non sembravano essere d’aiuto sotto il fuoco incrociato di cotanti guerrieri.
La portentosa barriera di cui disponevano le forze del Vecchio Saggio era una spina nel fianco: nulla sembrava essere capace di penetrarla, o anche solo di indebolirla –sebbene, sotto colpi magici e fisici, si udissero di tanto in tanto dei curiosi crepitii - e le fonti che la tenevano in piedi e i gormiti addetti a tenere in piedi le fonti erano senza dubbio all’interno.
Era stato provato di tutto: volare fino in cima all’altissimo Rifugio della Rugiada per cercare dei buchi - che straordinariamente non c’erano: l’intera struttura, in tutta la sua altezza e larghezza, era protetta - , o anche scavare per terra e oltrepassare la barriera da sotto. Niente da fare. L’idea di scavare fu per altro solo accennata, e mai messa in pratica. Per quanto ci si potesse sforzare con le difese e tutto, avviare uno scavo nel mezzo di una battaglia era del tutto infattibile, senza contare poi che raramente si è sentito parlare di un aereo minatore.
Gli aerei giunsero anche ad adoperare bacchette e bordoni in grandi quantità, solitamente solo a scopo decorativo, per verificare se le magie operate tramite esse fossero davvero più precise o più potenti. Ma, per quanto ormai tempestata di colpi e brillando senza sosta di arancione, la barriera non cedeva.
Nemmeno Elios cedeva.
Magor gli aveva rivelato cosa fare, ma doveva aspettare l’arrivo di Orrore Profondo, per avere una buona copertura e qualcuno di estremamente fidato a guidare l’assalto. Doveva aspettare, e combattere.
Nella mischia e nella corsa, colpendo chiunque e colpito da chiunque senza nemici precisi nel mirino, aveva trovato qualcuno che, al contrario, sembrava bene intento a non perderlo di vista.
Un marino che, alla stregua di Carrapax e tutti i guerrieri dello stesso Popolo, era giunto sul campo di battaglia rivestito di una armatura piuttosto raffinata: ampie zone della corazza costituite da scaglie di corallo di arancione brillante, mentre tutto il resto dipinto di una patina di un azzurro metallico molto tenue e lucente.
Aveva un elmo del tutto azzurro, salvo per una vistosa cresta fiammeggiante, che ricopriva un viso allungato che ricordava vagamente quello di un ippocampo o di un coccodrillo. Il suo collo era allungato, e dalla parte opposta aveva una piccola coda tozza, entrambe difese da cotta di maglia.
La corazza delle braccia terminava lateralmente con tre lame una di seguito all’altra, sopra un ugual numero di ‘strati’ d’armatura.
Dal poco non protetto da armamenti che si intravedeva, si desumeva che la sua carnagione fosse di un azzurro deciso.
Le sue movenze erano rapide e precise, i suoi colpi molto aggressivi.
Si muoveva con una velocità tale che lo stesso Elios, potenziato nei riflessi, trovava difficile evitare e schivare gli attacchi.
Con una simile celerità e prontezza di riflessi l’avversario marino eludeva gli attacchi del Signore dell’Aria con maestria e oculatezza, sfruttando ogni momento in cui Elios si sbilanciava con l’intento di attaccare per spostarsi e colpire i punti che questi lasciava scoperti stendendo un braccio o una gamba.
I suoi pugni e i suoi calci, che se non fossero rinforzati da lame sarebbero stati piuttosto inefficaci in uno scontro armato, erano tesi con precisione e fluidità davvero ottime, e ogni parte del suo corpo si muoveva con estrema agilità ed elasticità, al pari dei guerrieri mystica dell’Aria avvelenati dal senso di colibrì. Che forse avesse egli stesso assunto quel veleno, recuperato da qualche parte?
Se sul livello di potenziamenti potevano considerarsi pari, per quanto riguardava forza bruta e resistenza Elios era su un gradino inferiore. Nessuno dei due era in grado, nel caos dello scontro ravvicinato, di utilizzare le tecniche degli elementi né tantomeno le arti magiche, in cui Elios era convinto di potersi reputare superiore al suo avversario.
Oltretutto, la violenza e l’aggressività del gormita del Mare – che accompagnava più o meno ogni attacco con forti urla - lasciavano Elios meravigliato e turbato. Non sembrava nutrire alcun buon sentimento verso il Signore dell’Aria, né dava segno di averne mai mostrato.
Pareva volerlo morto senza rancore o ripensamenti.
La forza e la violenza che Elios non poteva eguagliare furono presto la sua rovina: nessuna delle lame dell’avversario lo aveva ferito, ma la costante pressione che questo faceva su di lui ora lo faceva respirare pesantemente e tutti i suoi muscoli si erano fiaccati e irrigiditi, tanto che il senso di colibrì sembrò come svanire e i suoi movimenti si rallentarono.
Elios era davvero stanco, e non era più capace di sfuggire agli attacchi con la stessa rapidità e sferrarli con la stessa forza. Credette inconsciamente che anche per il suo nemico fosse così, ma così non era.
Questi ne approfittò: unì le proprie mani chiamando a sé la potenza dell’acqua e del mare, riversando un potente getto che investì lo sfinito Elios facendolo sbattere contro un albero, secondo la tecnica della Zanna del Demone Marino, e accasciare al suolo.
Elios, il Grande Traditore: era sfiancato ai piedi di un albero, a pochi piedi da lui, caduto sotto la sua superiorità combattiva.
Era tempo di terminare quell’abominio. Forse la morte di Elios non avrebbe riportato al suo posto il Popolo dell’Aria, ma sarebbe stata fatta giustizia per le follie che aveva compiuto in quel misero periodo di tempo. Avanzò con le sue lame.
Elios era senza dubbio stanco e impaurito, ma non privo di risorse. Diede una rapida occhiata intorno a sé, cercando un arma, una difesa, un diversivo, qualunque cosa che potesse ripararlo dalla furia del combattente del Mare.
I suoi occhi caddero su un fuocherello, davvero molto vicino, acceso probabilmente dalla magia, che bruciava allegro in mezzo al caos, divorando lentamente ma facilmente sterpi e foglie nel suo calore. Forestali e gli altri gormiti sembravano non prestargli molta attenzione. Elios si sentì rivivere.
Tese la sua mano e tutto il suo lungo braccio in direzione del minuscolo incendio. Si concentrò.
Mentre le fiamme come per magia si smorzavano senza acqua a spegnerle, Elios sentiva le sue membra riprendere energia e il suo senso di colibrì farsi nuovamente vivo.
Il fuoco era del tutto scomparso, ed il Signore dell’Aria ora si alzava dal suo letto legnoso e dalla sua stanchezza con rinnovato vigore e una risata diabolica, mentre il gormita del Mare era profondamente scioccato da ciò che aveva osservato. Tanto scioccato che non fu capace di scansarsi e finì per essere travolto da un turbine di vento che lo rispedì all’interno dei confini della barriera.
Elios sospirò soddisfatto.
Contento di quella piccola vittoria ma allo stesso tempo turbato dal rischio corso, si sollevò da terra sbattendo le grandi candide ali, con l’intento di continuare la lotta a magie e ad attacchi d’aria, e con la promessa di non atterrare più fino alla fine del conflitto.
Una fine che non avrebbe tardato ancora a lungo: le perdite dalla parte dell’Aria erano disastrose, e prima che altre forze fossero giunte da Picco Aquila il battaglione di Elios sarebbe stato senza dubbio decimato o costretto alla ritirata.
Elios non dovette assistere a nessuna di queste due cose, quel giorno.
Una pioggia di lapilli infuocati scese dal cielo ancora limpido e luminoso, segnalando l’arrivo delle forze alate del Popolo del Vulcano, capeggiate dallo stesso Orrore Profondo.
Vittime della pioggia di fiamme furono non tanto forestali e marini quanto la vegetazione, cosa che irritò non poco i gormiti alleati, in particolar modo quelli della Foresta.
Con l’arrivo del temibile Orrore Profondo, cangiante al caldo sole del pomeriggio ricoperto di una brillante corazza color ambra e rubino con intagli dorati, gli uomini di Elios presero a vociare urla di guerra ed incitamenti più vigorosi di prima, e si sparse la convinzione che le forze terrestri vulcaniche, passanti per Picco Aquila, non avrebbero tardato ad arrivare –e non tardarono.
La presenza dei vulcanici e in particolar modo del grandioso e terribile Orrore Profondo, come era successo poc’anzi con l’arrivo di Carrapax, rallegrava oltremodo gli animi dei guerrieri dell’Aria: insieme a loro, si sentivano più potenti, capaci di superare ogni difficoltà, e sicuri che la loro mancanza di scrupoli ed esperienza militare superiore avrebbero assicurato una riscossa, un modo per eludere l’impenetrabile, potentissima e misteriosa barriera magica che chiudeva l’accesso all’Occhio della Vita.
Meno di un’ora prima la presenza del Principe di Gorm in carne, ossa e corazza tra le fila dei difensori del Rifugio aveva infiammato gli animi dei forestali di un enorme coraggio che li spinse fuori dalle sicure delimitazioni della barriera per respingere i traditori una volta per tutte.
Adesso, con l’arrivo del Signore del Vulcano e della sua orda di razziatori, quel coraggio si spegneva e, non più temerari, i difensori si ritiravano nuovamente nella salvezza.
La paura che da sempre incutevano i vulcanici, specie quando erano in guerra, non sarebbe mai scomparsa dai cuori dei gormiti.
Per scatenare stragi, spargere e sangue e distruzione, talvolta non avevano nemmeno bisogno di ricorrere al fuoco: erano sufficienti la loro carica selvaggia, la loro immensa forza bruta e il loro uso spregiudicato di una letale varietà di armi.
Su questo campo di battaglia la situazione non fu diversa. Ma la massiccia ritirata degli avversari all’interno della barriera – che anche gli stregoni del Vulcano, ovviamente, cercarono di spezzare come potevano - costrinse Orrore Profondo ad utilizzare una tattica diversa.
La sentenza del capo militare supremo fu immediata e drastica.
“Spargete il fuoco. Bruciate, bruciate tutto. - ordinava freddissimo Orrore ai suoi uomini - Faremo uscire quei codardi da quel buco, dovessi ridurre l’intera Foresta Silente in cenere! Vedremo quanto hanno a cuore la loro casa.”
***
Elios, molto sprovvedutamente, senza pensare a una via di fuga sicura o a portare con sé una scorta nascosta, informò Orrore Profondo da poco arrivato delle intenzioni di Magor e della sua missione.
Ciò fatto, si piombò a capofitto oltre il Rifugio della Rugiada, nell’infinita distesa della Foresta Silente, affidando temporaneamente al Signore del Vulcano il comando di truppe aeree insieme a vulcaniche.
Non fu in grado di assistere alla messa in pratica dell’originale tecnica di terra bruciata ordinata da Orrore ma, volando dietro al maestoso tronco e abbandonando lo scontro poté già sentire l’aspro odore della cenere e vedere rossi bagliori tra le fronde e innalzarsi sopra di esse nere scie di fumo.
Non mancavano sentinelle e guardiani nascosti che, tra gli alberi, lo vedevano oscurare il sole con le sua grandi ali e attaccarlo senza pensarci due volte. Elios non mancò di supporre che ci fosse addirittura qualche squadra a inseguirlo, o delle trappole che lo attendevano più in là.
Del resto, il fulcro del conflitto era e doveva rimanere il Rifugio della Rugiada: oltre di esso, i civili e i pochi soldati a loro guardia attendevano ammassati e tremanti in svariati nascondigli che lo scontro risparmiasse i loro cari, le loro abitazioni e che terminasse presto con la sconfitta dei nemici. Nessuno sarebbe dovuto avvicinarsi, anche solo per errore, ai rifugi nascosti.
L’aggressività con cui i forestali mimetizzati scagliavano dardi di legno e frecce contro il Signore dell’Aria, l’indesiderato numero uno, forse più di Orrore o di un qualsiasi vulcanico, era comprensibile.
Tuttavia il grande traditore non aveva alcuna intenzione di recare danno ai civili o ai loro asili. Non era nei suoi metodi aggredire gli indifesi, non nei suoi piani un bagno di sangue dei gormiti della Foresta o una strage delle loro case. La battaglia non era stata agognata da Elios, ma comprendeva perché si era arrivati ad essa e perché ne aveva bisogno. Avrebbe ottenuto ciò che voleva, con ogni mezzo, anche con la furia distruttrice del Popolo del Vulcano.
Per queste ragioni, e per la velocità che richiedeva l’attuale missione, reagì con noia e noncuranza agli attacchi degli avversari più in basso, limitandosi a evitare di essere colpito e ad accelerare il volo per toglierseli di torno.
Giunse infine in un punto in cui i colpi si fecero meno violenti, e gli aggressori parvero diminuire di numero, insieme ai dardi scagliati. Forse Elios si era allontanato dai rifugi nascosti dei civili…o avevano ricevuto l’ordine da Barbataus o un Saggio o un capitano qualunque di cessare il fuoco, lasciarlo andare.
“Finalmente vi siete rassegnati, tronchetti! - urlava Elios in tono canzonatorio - Non ne potevo davvero più!”
Era contento che non ci fosse più nessuno a infastidirlo. Stavano solo rallentando l’inevitabile, un inevitabile che, nel profondo, sarebbe stato un guadagno per tutti, ma pochi lo comprendevano davvero.
Barbataus, forse, era uno tra quelli, avendo probabilmente ordinato di lasciar passare Elios; di questo si era convinto l’arrogante Signore dell’Aria.
Barbataus…non l’aveva più visto da quando partì per il turno di vedetta, quel pomeriggio di circa un mese fa, e per tutto il conflitto odierno non c’era stata ombra o allusione alla sua presenza.
Lontano dal fuoco della battaglia, senza più guardiani della Foresta a importunarlo dal basso, Elios ebbe il tempo e la tranquillità per riflettere.
Il suo primo pensiero fu rivolto proprio alla battaglia del Rifugio della Rugiada, che infuriava e mieteva senza di lui. Un vero Signore, un Signore che si rispetti e della sua età, partecipa sempre alle campagne militari, sia che combatta in prima linea infondendo coraggio nei suoi uomini o che diriga le sue forze e progetti strategie in accampamenti protetti dai soldati.
Elios non stava facendo nulla di queste cose, e la sua repentina e poco spiegata scomparsa dallo scontro aveva sicuramente gettato false dicerie sul suo conto. Ma quando sarebbe ritornato con la chiave per la vittoria nessuno avrebbe più osato definirlo codardo o fedifrago.
Fedifrago…passare alla storia per un traditore, anche per il bene ultimo della sua gente, di tutta la sua gente, non era facile da sopportare. Il Signore dell’Aria era speranzoso: sarebbe arrivato un giorno in cui Elios Remitri verrà onorato e ringraziato per la decisione fatta in quell’anno.
Tali visioni del futuro erano però di poco conforto, in quel momento, ad Elios. In quel momento di ‘pace’ più che mai prima, il Signore dell’Aria era crucciato.
Non aveva assistito, durante lo scontro, ad alcuna manifestazione di riluttanza a combattere, da nessuna delle parti. Molto diverso da ciò che tutti si erano aspettati. Che tutti i gormiti, così abituati alla guerra, avessero completamente dimenticato i valori dell’amicizia, della compassione, del rimpianto per curarsi solo della sopravvivenza propria, dei propri figli e delle proprie case?
Elios non l’avrebbe accettato, soprattutto da parte del Popolo dell’Aria. Era compito del Popolo del Vulcano mostrare insofferenza e ferocia; il suo avrebbe dovuto mostrarsi raffinato e elfo.
Se l’Aria, e gli altri Popoli, avesse perso il suo valore emotivo le civiltà dei mondi avrebbero mostrato solo paura nei confronti dei gormiti, e nessun rispetto per la loro cultura e il loro modo di vivere. Non erano questi i piani di Elios.
Oltre a Barbataus, diversi altri amici che annoverava tra Mare e Foresta non si fecero vedere, o si celavano di propria volontà agli occhi di Elios. Carrapax lo aveva evitato spudoratamente, e nonostante gli fosse passato vicino più volte ignorava interamente la figura di Elios.
Da una parte, Elios era sollevato da questo suo atteggiamento: se non lo avesse volutamente provocato, non avrebbe riversato su di sé montagne di rabbia e frustrazione –Carrapax era stata la prima vittima di Elios - ; per quanto Carrapax si sforzasse di apparire umile e generalmente pacifico –e il più delle volte lo era davvero - , Elios dubitava che si sarebbe contenuto per molto tempo.
Dall’altra parte, Elios era dispiaciuto. In tre anni, avevano avuto modo di incontrarsi più volte per motivi politici, e di conoscersi e di stringere l’amicizia solita tra i capi di stato. Si sarebbe aspettato che, al vederlo in quello scontro, lo avesse almeno degnato di un piccolo discorso, poche parole di sdegno, di rimprovero o di delusione, proposte in nome della vecchia amicizia. Niente di niente. Elios si rattristò al pensiero. Per un attimo, volle tornare indietro, tornare indietro a tutto, scusarsi con Carrapax, con Noctis, tutti quanti e…
No. Come poteva solo immaginarlo? Tornare sui propri passi non sarebbe servito a nulla. I suoi sentimenti non avrebbero compromesso la sua missione; una missione, un obiettivo in cui credeva.
“Elios!” lo chiamò all’improvviso una voce dal timbro roco e appesantito.
Elios, da perfetto inetto qual’era, senza fermarsi a pensare sulla situazione in cui si trovava, fermò il suo volo, cominciando a svolazzare a ruota nello stesso punto, guardandosi attorno in cerca dell’individuo che lo aveva chiamato, che sapeva essergli decisamente familiare.
Sotto di lui, emergendo dal mimetismo perfetto, comparve il Signore della Foresta Barbataus, rivestito di una corazza gialla.
Che lo avesse seguito sin dalla sua partenza, che avesse dato il comando alle sue sentinelle di lasciarlo andare, che fosse lì solo in difesa di un altro rifugio di civili, non sono stato capace di scoprirlo.
Ad ogni modo, aveva osservato Elios nel suo volo, incuriosito della sua presenza lontano dal Rifugio e deciso a scoprire i suoi piani, nonché adempiere allo stesso tempo ai suoi compiti in quella zona.
“Che cosa combini qui?” domandò, mostrandosi indifferente e distaccato alla situazione e quasi affabile nei confronti del Signore suo pari.
“Mmm, niente che ti riguarda!” esclamò Elios disinvolto e sfacciato come un bambino, senza ponderare troppo sulla domanda.
Barbataus non apprezzò affatto quella sfrontata risposta, e si fece scuro e nervoso in volto.
Lui era il Signore della Foresta: tutto ciò che vi accadeva lo riguardava ed Elios non era un ospite ben gradito.
Elios non pareva voler riprendere il suo volo, e Barbataus continuava a fissarlo con sguardo truce, esigendo una risposta più veritiera.
“Va bene, va bene. - continuò in tono scherzoso, seppur preoccupato. Perché non stava semplicemente fuggendo? - Diciamo che…sto cercando di entrare… a fondo in questo problema!”
Quel curioso ed enigmatico gioco di parole non passò per le orecchie di Barbataus senza turbarlo.
Ma era, appunto, troppo enigmatico perché Barbataus potesse comprendere le vere intenzioni di Elios e saltare a conclusioni.
Questi trovò finalmente la forza di voltare le spalle al vecchio compagno e proseguire il volo.
“A - aspetta!” lo richiamò Barbataus, per temporeggiare, avviando una lenta corsa per non perderlo di vista.
“Non ho nulla da rivelarti. Siamo in guerra, Barbataus! Dovresti avermi già attaccato, o ordinato ai tuoi uomini di farlo per te.” lo freddò Elios senza girarsi.
“Prima dell’offensiva c’è la diplomazia.” affermò Barbataus, citando una frase molto usata dai saggi dell’Aria. Elios si fermò un attimo, solo per riprendere il volo un attimo dopo, seppur più lento.
“Non hai davvero nessun ripensamento, Elios?” gli chiese supplichevole il Signore della Foresta.
“Ti fidi davvero dello Stregone di Fuoco più che di me, di noi? O Patmut, lo conosci solo da un mese!”
Elios non rispondeva.
“Non sono stato il tuo mentore per lasciarti usare quelle tecniche contro la tua gente, la tua famiglia!” lo criticava sempre più veementemente e tristemente.
“Hai idea delle persone con cui ti sei alleato? Non hai visto quello di cui sono capaci? Diamine, hanno sterminato la nostra razza anni fa! Credi che non siano in grado di farlo ancora?” fece leva questa volta su altre argomentazioni.
“Che bella faccia tosta!” lo insultò infine Elios, senza però voltarsi e guardarlo in viso.
“Con che persone mi sono alleato? Di cosa sono capaci? - ripeteva - Con che spudoratezza tu, come tutti i tuoi simili, tu che da una vita continui dicendo di volere la pace su Gorm, tra i tuoi Popoli e il Vulcano osi dire una cosa simile? Finora sono stato io, io l’unico ad aver raggiunto una tale pace. Perché ho compreso le loro motivazioni, ciò che li spinge ad andare avanti. Tu invece no, tu che lecchi i piedi al Vecchio Saggio…non capirai mai.”
Barbataus rimase perplesso e sconsolato. Elios era giovane e un aereo insolito, ma pur sempre un aereo, e un Signore: le sue doti oratorie erano brillanti, quando si impegnava a mostrarle.
Però era anche giovane, e irrimediabilmente e fatalmente testardo. Non avrebbe cambiato idea di fronte a nulla. Chissà a quali ulteriori tormenti avrebbe spinto l’Isola di Gorm.
Per ora, tuttavia, l’unica cosa da lui spinta per la quale Barbataus avevo un immediato interesse era il suo volo. Barbataus dovette sudare molto, incespicare per sentieri non battuti e spinosi per tener testa a Elios. Qualsiasi cosa avesse in mente di fare, l’avrebbe scoperta e avrebbe fatto tutto il possibile per impedirne la riuscita.
L’unica fortuna che aveva era la forse eccessiva sicurezza di sé mostrata dal Signore dell’Aria, che non faceva assolutamente nulla per impedire all’anziano superstite di seguirlo. Dal canto suo, Barbataus non fece nulla per cambiare l’atteggiamento del giovane condottiero, limitandosi a non perderlo vista.
“Non riuscirai a fermarmi!” gracchiava Elios dall’alto.
Barbataus non ci badava. Era ora più focalizzato sul luogo in cui egli lo stava portando. Sebbene non avesse mai calpestato quel suolo con i propri piedi, lo ricordava come se ci fosse stato.
Riconosceva alcuni punti di riferimento segnati sulla pagina del Libro di Muscor, i segni del passaggio di Dachiel e della sua squadra e i luoghi dalle descrizioni nel rapporto del maggiore.
Arrivati all’enorme giardino circondato da ciclopici tronchi, Barbataus non aveva più dubbi.
Erano nella tana del Grande Daicao. Che cosa poteva mai stare cercando Elios in quel luogo?
Elios era ormai entrato nella cerchia degli immensi alberi, ma già da qualche piedone di distanza si poteva percepire la presenza della carcassa del daicao: l’aria era impregnata dal lezzo del legno madido e marcito.
Quando infine anche Barbataus entrò nel giardino violato, vide con la coda dell’occhio il Signore dell’Aria calare di quota ed entrare nel grande tronco che aveva servito da casa per la leggendaria bestia. Il suo cadavere, gigantesco, giaceva incontaminato, così com’era quando gli fu tolta la vita.
Le cinque braccia pendevano morte e prive di stimoli dal corpo centrale, irrigidite. Quest’ultimo, e in parte anche gli apici delle braccia, erano annerite e rose piuttosto profondamente, vittime del letale acido di Sferst dato alle fiamme.
Solo quattro delle cinque teste erano presenti. Una, quella che recise Supplitiu al suo risveglio, era stata trainata fino a casa come trofeo.
Barbataus non poté contemplare a lungo la salma del mostro che Elios ritornò dalla sua escursione nel sotterraneo della tana del daicao. Non da solo.
“Finalmente, la Lancia dell’Oblio!” esclamava trionfale, brandendo una curiosa e lunga arma tra le mani.
Una sorta di lancia metallica, costituita, a vista, da due barre, una argentata l’altra di grigio metallico, che si mescolavano tra loro in una spirale e terminavano all’estremità superiore in due lunghe lame non molto sottili e distanziate non poco l’una dall’altra, entrambe di un vivo arancio.
Elios studiò per un attimo la strana arma e subito dopo, come viti attratte da un magnete, le sue dita si attanagliarono, strettissime, al corpo della lancia.
Elios si trovava con la strana arma in mano, stretta avidamente tra gli artigli.
Barbataus osservava la curiosa scena facendo capolino da dietro l’enorme tronco, evitando, contrariamente a come aveva agito fino a un momento prima, di farsi vedere da Elios.
Da quando il Signore dell’Aria aveva aperto bocca, emerso dal tronco con la misteriosa arma, Barbataus aveva percepito un incombente pericolo.
Si accorse, immobile dietro il tronco, che le sue sensazioni avevano una minima ragione di essere: Elios, pur generalmente immobile anche lui, aveva qualcosa di strano.
Le sue penne parevano stranamente arruffate, e fremevano impercettibilmente.
La testa schizzava di qua e di là osservando ogni angolo di quella lancia, con scatti rapaci degli occhi e del capo, come fosse un falco.
Barbataus si spaventò enormemente quando, per un istante, gli occhi di Elios incrociarono i suoi. Istintivamente, nascose il proprio capo dietro al legno, e tutto il suo corpo con la magia del mimetismo perfetto. Non percepì altri movimenti per pochi istanti. Elios aveva casualmente incontrato il suo sguardo: non si era accorto di lui.
Non si era accorto di lui? Elios sapeva benissimo che Barbataus era lì presente, avendo seguitolo fin lì, e Barbataus era al corrente della conoscenza di Elios. Perché si era nascosto quindi?
La spiegazione era negli occhi di Elios: il Signore forestale vi aveva visto qualcosa di terribile e spaventoso, che lo indusse a rifuggire da quello sguardo.
Riflettè per qualche breve istante, prima di decidere sul da farsi, per dare una spiegazione più concreta a quella sua paura. Elios aveva trovato ciò che stava cercando, la Lancia dell’Oblio. Uno strumento sicuramente estremamente potente, se Elios aveva abbandonato la lotta per recuperarlo.
Ora che l’aveva trovato, indubbiamente l’avrebbe usato, e forse non si sarebbe più mostrato così insofferente nei confronti di Barbataus che lo seguiva.
Un suono gutturale ed estremamente familiare gli fece accapponare la pelle. Il fischio di un potente vento attraverso una piccola fessura, e un sonoro crack di legno che si spezza.
Barbataus cadde in avanti per contraccolpo.
Un vigoroso vortice d’aria aveva scosso uno degli enormi tronchi del giardino del Grande Daicao, lo stesso cui aveva preso riparo Barbataus. Ora era inclinato da un lato, con una grossa spaccatura a croce dal lato opposto.
Generare un vento talmente potente richiedeva precisione e tanta, tanta energia. Da dove l’aveva tratta Elios che volteggiava senza preoccupazioni sopra la tana del daicao, brandendo con fermezza e avidità la Lancia dell’Oblio?
Le movenze di Elios erano inquietanti: saltava da una parte all’altra del cielo, senza ordine o apparente motivo di farlo; il suo capo e il suo sguardo guizzavano come fulmini ad ogni lato, carpendo ogni dettaglio dell’ambiente.
Ancora più preoccupanti erano i bestiali e selvaggi versi gracchianti che emetteva dal suo becco, spalancandolo ogni volta al massimo delle capacità.
Barbataus fu ancora più sconvolto quando gli fu chiaro che non era più mimetizzato e che Elios, imbizzarrito, lo stava puntando.
Come un rapace che ha stanato l’ambita preda, come il più selvatico degli animali pervaso dalla frenesia del pasto imminente, Elios scattò in avanti e si avventò su Barbataus a velocità mai raggiunte prima. Barbataus non aveva tempo di difendersi né di pensare a come farlo: Elios l’avrebbe travolto.
Ma l’imbestialito Signore dell’Aria si trovò la strada sbarrata da un audace Noctis.
Comparso dal nullo e messosi tra predatore e preda con estrema rapidità, arrestò l’avanzata di Elios con un lungo e spesso bastone che abbandonò immediatamente, per afferrare i polsi del suo vecchio compagno.
“Sbrigati! - gridò Noctis rivolto al Signore della Foresta, ansimante - Ci penso io a lui, va’ via!”
Barbataus apprezzò enormemente l’entrata in scena del capo dei ribelli a salvarlo, ma non gli piaceva l’idea di abbandonarlo insieme a Elios. Prima di fuggire, avrebbe fatto il possibile per capire cosa, in nome di Patmut e Praconrem, stava succedendo.
Elios doveva essere fermato, e il suo nuovo acquisto bellico sequestrato: Barbataus tolse dalla propria cintura il suo corno ramato e suonò ripetutamente un segnale: tre brevi colpi intervallati da pochi secondi di silenzio, ripetuti per due volte. Nel contempo, cercava un modo per aiutare Noctis in quel preciso momento.
Noctis non potè respingere Elios in volo ancora a lungo: le sue ali, membrane attaccate alle braccia, non gli permettevano scontro e volo allo stesso tempo. Non dovette faticare molto. Lo strano Elios notò che le mani di Noctis lasciavano i suoi polsi e scivolavano sull’arma, non per respingerlo, come Noctis intendeva fare, ma per appropriarsene, come pensava invece Elios…e non l’avrebbe permesso.
Beccò più volte la faccia e gli occhi di Noctis che rapidamente si portò le mani al viso con un grido straziante. Non potè nemmeno cadere a terra normalmente che Elios lo calciò con forza.
Elios gracchiò nuovamente e puntò dove Noctis era caduto, proprio sopra a Barbataus, disorientandoli entrambi.
Ancora una volta a Elios fu precluso portare a termine le sue intenzioni.
Uno strano verso, come un richiamo tribale, si udì provenire dalla Foresta nelle vicinanze.
Uccelli, insetti e altri animali strariparono dagli alberi, in grandi sciami e stormi, svolazzando in direzione del Signore dell’Aria mentre rumori di passi sempre più vicini e pesanti echeggiavano sotto la coperta frondosa.
Gli animali intralciarono nella loro fuga Elios, che si ritrovò bloccato a mezz’aria sopra la sua preda dimenante in modo sregolato e animalesco lancia, gambe e braccia per toglierseli di dosso.
Approfittando del temporaneo impegno di Elios, Barbataus si tolse con grazia Noctis dalla propria schiena.
In un’occasione diversa, Barbataus sarebbe stato quello più urtato e indebolito in qualità di gormita anziano, ma in quel momento Noctis era in una situazione ben peggiore.
Perdeva sangue dal viso, macchiandosi le mani con cui si copriva e si lamentava sommessamente del dolore.
Barbataus si piombò subito per aiutarlo, lo adagiò delicatamente steso a terra con la schiena, accertandosi che Elios non fosse ancora un pericolo per loro.
Il caso era grave: l’occhio sinistro di Noctis, nonché altre rade zone del suo volto, era stato lacerato profondamente e ripetutamente dal becco di Elios. Poteva ritenersi fortunato che le ferite all’occhio non fossero penetrate più a fondo, danneggiandogli il cervello e con ogni probabilità uccidendolo.
Barbataus fece quello che era in suo potere, in quel momento. Rapidi incantesimi che avrebbero attenuato il dolore e arrestato la perdita di sangue, ma Noctis sarebbe stato orbo da quel giorno a venire.
Non appena, grazie alle improvvisate cure di Barbataus, smise di perdere sangue, Noctis sibilò un grazie e scostò da sé il Signore della Foresta, rialzandosi subito.
“Dobbiamo…scacciare Elios, e - e presto.” diceva, agitando le braccia per avviare il volo. Nutriva un profondo rancore per il suo vecchio apprendista. Non tanto per il suo accordo con lo Stregone di Fuoco e i Vulcano quanto per averlo esiliato, e costretto la sua famiglia a seguirlo in esilio.
Barbataus comprese, ma lo fermò ugualmente.
“Non sei in condizione di combattere, Noctis. - gli disse premuroso, ma anche imperioso - Va’ a curarti e poi combatti al Rifugio, se sei davvero sicuro di farcela.”
Noctis si strattonò dalla presa del verde Signore.
“Sono davvero sicuro di stare bene, e voglio combattere Elios.”
“Io sono davvero sicuro che voi dobbiate curarvi, Noctis! - disse con tono ed espressione bruschi Barbataus - Sono il Signore della Foresta, e tu un esiliato ospite nel mio dominio. Obbediscimi.”
Noctis acconsentì, riluttante ma senza esitazione. Essendo stato anche lui Signore, e avendo anche lui dato simili ordini ai suoi tempi, non gli sembrava corretto disobbedire.
“Se dovete uccidere Elios, mio Signore. - lo avvisò un attimo prima di fuggire tra gli alberi - Portatelo prima da me, ve ne prego.”
“Farò ciò che posso, te lo prometto.” gli disse annuendo. Noctis sparì.
Elios si era, intanto, dopo una strenuante e disordinata lotta a mezz’aria contro nemici non più grossi di una pera, liberato dei fastidiosi sciami mandatigli contro dalle forze di Barbataus nei dintorni, che ora emergevano –in piccoli numeri a dir la verità - dai grossi rami del giardino.
Elios non aveva smesso di agire in maniera sregolata e selvaggia. Continuava a gracchiare, e non aveva proferito parola dopo aver stretto tra le mani la Lancia dell’Oblio.
Alla vista di altri nemici farglisi fronte, stridette più forte del solito. Sembrava però contento in quella misteriosa pazzia di cui era vittima.
Alzò la Lancia al cielo. Dalle punte vorticava dell’aria. I vortici si ingrossavano e si incontravano, diventando un solo, grande uragano, sempre più grande: sopra di esso le nuvole si ammucchiavano e diventavano nere come la pece.
***
Fuoco e fiamme regnavano sovrani attorno al Rifugio della Rugiada, protetto – per quanto ancora? - da ogni danno dalla barriera magica.
Sotto lo scellerato comando dei gormiti del Vulcano il fuoco divorava insaziabile alberi su alberi, radici, foglie, erba. Un serpente diretto alla sua preda, il fuoco strisciava per i sentieri erbosi, incendiando ogni cosa sul suo cammino obliquo e sinuoso. Più avanzava, più erano gli alberi che cadevano sotto la sua incandescente morsa, come mura sotto i colpi dell’ariete.
Spirali di fumo salivano da ogni brace formatasi su nel cielo, annebbiando la vista dei combattenti e arrivando a oscurare la luce del sole.
Il Rifugio della Rugiada si ergeva incolume tra tanta distruzione, un vaso di metallo in mezzo a tanti vasi di coccio che, dopo innumerevoli scossoni, avevano ceduto mentre lui rimaneva rigido al suo posto.
Ma il Rifugio della Rugiada non poteva ancora a lungo sopportare cotanta devastazione: tutti, con l’avanzare dell’ingordigia infuocata, ne sarebbero usciti perdenti.
L’esercito di Orrore Profondo era stato capace di attirare gli occupanti del Rifugio fuori dalle difese magiche, per aiutare i temerari a lottare contro gli invadenti avversari e spegnere le letali fiamme, minacciose e assassine, distruttrici di case.
Ogni individuo dotato di senno era però consapevole che la perdita di una così vasta porzione della Foresta Silente non avrebbe arrecato nulla di buono. A lungo andare, le fiamme si sarebbero espanse ovunque, e arrestarle sarebbe stato sempre più difficoltoso.
L’esito si prospettava essere il polmone di Gorm enormemente impoverito, di abili soldati e servitori e di ricchezze tipiche che il Vulcano agognava, non potendo appropriarsene a causa dell’inimicizia. Questo dal punto di vista del Popolo del Vulcano e dell’Aria. Da parte del Popolo della Foresta, significava perdere la propria casa, senza contare gli inquantificabili danni ambientali.
Il Signore Orrore ne era perfettamente cosciente, così come era cosciente che non tutti i suoi guerrieri, infiammati dalla sua dura imposizione iniziale che non voleva venisse presa alla lettera, comprendevano appieno le conseguenze della loro strage.
Dello stesso era al corrente il comandante in seconda dell’esercito, giunto via mare a dar man forte alle forze già presenti, portando con sé lungo tutto il tragitto la lotta furiosa cominciata ore fa presso Garsomor.
Seppur un guerriero privo di scrupoli, estremamente freddo e crudele, che provava un certo piacere nel compiere esecuzioni di propria mano, capiva la ricchezza, non solo materiale, che derivava dalla Foresta Silente e un simile incendio l’avrebbe ristretta di molto.
Kolossus, dal canto suo, non poteva lasciarsi prendere dallo sconforto: era sua precisa intenzione sconfiggere il misterioso cavaliere – ora appiedato - , verso cui aveva cominciato a provare un odio profondo.
Lo scontro che era infuriato tra i due nel deserto non aveva mai smesso di bruciare. Quando entrambe le schiere si ritirarono per imbarcarsi alla volta di Dalarlànd, si erano bersagliati a distanza con lapilli, sassi e frecce.
Una volta sulle navi, vi era stato un enorme uso di cannoni ma nessuna delle due parti riuscì a far colare a picco la nave ammiraglia nemica. Quando misero ex novo piede sulla terraferma, le loro armi si incrociarono nuovamente, e con più ferocia che mai.
Tanta la ferocia che in diversi, da entrambe le fazioni, arrestavano per brevi momenti il loro combattimento per unirsi in cerchio attorno ai due sfidanti, individui di notevole importanza, per osservare con relativa calma quello scontro che non sembrava mai terminare, mai sbilanciarsi del tutto a favore di uno o dell’altro.
Orrore Profondo non aveva tempo per impegnarsi troppo a lungo in scontri con singoli soldati: doveva ordinare a tutti i suoi uomini di limitare la devastazione, di concentrare il loro fuoco più sui nemici che sugli alberi. Chiunque gli volesse fare fronte veniva investito da un attacco di forza magica o elementale di grandi dimensioni, che serviva meramente a distrarlo mentre Orrore fuggiva da lui.
Carrapax gli aveva dato parecchio filo da torcere. Quando il Signore del Mare, il Principe di Gorm, lo aveva puntato, non pareva esserci nulla capace di distogliere la sua attenzione da lui.
Il Signore di Poivronopoli sembrava deciso a vendicarsi di quel lontano pomeriggio d’eclissi in cui Orrore Profondo aveva tentato di prendere la sua vita e usurpare il titolo che non meritava.
Nei suoi metodi e nei suoi toni non vi era una maggiorata crudeltà o rabbia: era tutto abilmente nascosto sotto una generale pacatezza a tranquillità. Ma, come mai lo aveva visto, Carrapax faceva molta più leva sui colpi di forza magica che si mostravano essere decisamente precisi e potenti, più di quanto si fosse mai aspettato. Come se non bastasse, di tanto in tanto, quando Orrore Profondo si trovava suo malgrado troppo vicino a Carrapax, questi lo vessava con forti pressioni mentali, molto più potenti del normale, sebbene nessuna riuscì a far breccia in Orrore.
Ciò nonostante, non era lecito per il Signore del Vulcano pensare che Carrapax fosse indifeso sotto il punto di vista del corpo a corpo. La corazzatura aggiuntiva di una delle sue chele la rendeva estremamente tagliente e potente, che Orrore si promise di tenersi il più lontano possibile da lui, in volo, molestandolo a distanza con il fuoco.
Certo era che Orrore Profondo covava eccome una tenace avversione nei confronti di Carrapax. Lui era davvero convinto che si fosse appropriato del titolo di Principe di Gorm ingiustamente, che egli avesse il diritto di lottare per averlo e, avendo sconfitto Carrapax, che spettasse a lui nonostante fosse palese che la sua partecipazione e i suoi metodi erano scorretti.
Ma Orrore Profondo non poteva perdere tempo con lui, non poteva lasciare che i suoi rancori lo guidassero. Aveva un esercito, un Popolo, un ideale da rappresentare e portare alla vittoria; doveva mantenersi fresco per l’attacco decisivo al Rifugio della Rugiada che, decimati i difensori attirati fuori dagli incendi, doveva sbrigarsi in pochi colpi, non appena la portentosa barriera avrebbe ceduto.
Se avrebbe ceduto. Elios se ne era scomparso in fretta e furia, diretto a recuperare la chiave per rompere le difese sotto ordine di Magor, ma tardava ad arrivare o a quantomeno dare sue notizie. Magor stesso, che certamente teneva sott’occhio, ai limiti delle sue possibilità, sia il campo di battaglia che qualsiasi fosse il luogo in cui era impegnato Elios, non parlava a nessuno da quando le forze vulcaniche erano giunte a porre assedio.
Le preoccupazioni di Orrore Profondo furono parzialmente alleviate quando, respingendo un getto di Carrapax con il suo fuoco, una voce proveniente da molto lontano gli parlò.
“Orrore Profondo.” lo chiamò, facendosi riconoscere immediatamente.
“Sommo Magor. - lo salutò brevemente, allontanandosi ancora da Carrapax - Avete qualche buona notizia da darmi? Lo scontro procede senza successi, e lo vedete bene.”
“Sì e no. - rispose enigmatico - E dissento: hai condotto bene i tuoi uomini, finora. Ma presto la vittoria sarà assicurata, te lo prometto. Prima, però, c’è un ultimo problema da risolvere.”
“Vi ascolto.” si offrì Orrore, dopo qualche attimo di silenzio.
“Elios ha recuperato la Lancia dell’Oblio, come da mia ingiunzione. Ha fatto un lavoro pulito e veloce, glielo devo concedere. Tuttavia…”
“Tuttavia…?” lo spronò a finire presto di parlare Orrore
“Elios è giovane. Debole, di corpo e di mente. Non è stato capace di piegare a sé la Lancia dell’Oblio. In poche parole, è uscito di senno.”
“Non mi rammarico per averlo mandato a recuperare il manufatto. Una decisione ben peggiore sarebbe stata inviare te e lasciare a lui il comando totale. - continuò - Ma ora è necessario affidarlo a qualcun altro. Il tempo necessario di raggiungere Elios, privarlo della Lancia, prenderla e rompere definitivamente quella barriera. Fa’ quel che vuoi in seguito dell’arma.”
“Credete davvero che riuscirò a controllarla? Perché io e non lui?” chiese con velata preoccupazione Orrore Profondo.
“Infatti. Io non credo che tu riuscirai a controllarla.” affermò lo Stregone di Fuoco, spiazzando il suo interlocutore - Io so che riuscirai a controllarla.” decretò poi, riempiendo Orrore Profondo di orgoglio, tale l’intensità di quelle parole.
“Ora andate, Signore del Vulcano, e non deludetemi. Non deludere la tua, la nostra gente.”
“Ai vostri ordini.” esclamò Orrore Profondo, sorridendo.
 
Il Signore del Vulcano non faceva grande uso delle sue piccole ali scheletriche per il volo. Aveva una discreta conoscenza e abilità nell’uso della forza magica, ed era capace di librarsi in aria, anche a molti piedoni da terra, senza muovere un muscolo, con la sola forza di volontà.
Non poteva sapere per esperienza quale tra il volo tradizionale e il tipo di volo a lui concesso fosse il più stancante; del resto, le sue ali parevano spuntare dalla sua schiena per mera bellezza e non avevano alcuna funzione pratica, nemmeno quella di planare.
Le sue riflessioni sul volo e sulle proprie ali passarono in secondo piano alla vista, all’orizzonte, di un enorme pericolo che avrebbe potuto ribaltare le sorti di tutto il conflitto.
Nei pressi del Rifugio della Rugiada, il cielo pomeridiano era limpido e blu come il basso fondale. Avevano fatto capolino da più angoli rade e paffute nuvolette bianche e grigie ma per il resto il sole splendeva con tutta la sua forza senza intralci, se non il fumo generato dagli incendi.
Davanti a lui, e in maniera piuttosto innaturale e spaventosa, il cielo si faceva improvvisamente cupo e tempestoso. Le nubi basse, scure e temporalesche erano tutte concentrate in un punto, presso il quale aveva preso vita una prodigiosa arma della natura: un uragano.
Se solo quell’uragano, spinto dalla propria stessa corrente, avesse preso lo sbuzzo di dirigersi verso il Rifugio, nessuno avrebbe trovato una sicura salvezza, se non i gormiti alleati all’interno della barriera, che certamente li avrebbe difesi anche da quello.
Che il tornado si fosse spinto di propria iniziativa a destra e a manca era però improbabile: il suo stazionamento in quel punto fisso, quelle nuvole così anormalmente ammassate e scure, mentre tutt’intorno era limpido e soleggiato facevano presagire tutt’altro che un fenomeno atmosferico spontaneo.
Allo stesso tempo, però, Orrore non era al corrente della gravità della perdita della ragione di Elios e per quanto ne sapeva avrebbe potuto egli stesso assaltare i suoi uomini con l’uragano sotto il suo controllo.
La paura del fallimento quando era sicuro di essere così vicino alla vittoria risolutiva fece ribollire il sangue di Orrore Profondo di un misto di rabbia, depressione, frustrazione, impotenza.
Non sapeva se la sua scorta, sotto di lui – non era stato sprovveduto come Elios - era al corrente della catastrofe più avanti ma, come se ne stava accorgendo sulla propria pelle il Signore, presto anche i suoi accompagnatori l’avrebbero fatto, se non fossero scappati prima alla vista degli alberi che venivano tirati dal vento.
La presenza di Magor pareva averlo abbandonato nuovamente.
Orrore Profondo, mosso sia dal desiderio di non perdere che dalla intensa attrazione dell’uragano, si trovava di fronte a una difficile situazione. Rischiare la propria vita, insieme a quella del Signore dell’Aria per recuperare la Lancia dell’Oblio e dare ai suoi soldati un degno motivo per aver posto sotto assedio l’inespugnabile Rifugio e la sua barriera.
Che discorsi! Lui era un gormita del Vulcano, il Signore del Vulcano, oltretutto, un modello e un simbolo per i suoi simili. Poco fa lo Stregone di Fuoco era stato fin troppo dolce con lui, dove un buon padre vulcanico gli avrebbe menato quattro schiaffoni e ordinatogli di rendere onore a sé stesso e alla sua famiglia.
Senza pensarci più, si diresse alla volta dell’uragano, sempre più vicino all’occhio del ciclone, impegnandosi come mai prima con la forza magica.
La scena in prossimità della tromba d’aria era davvero catastrofica. Alberi, cespugli, rocce venivano strappati con grande forza dal terreno, e per quanto ancorati fossero a quest’ultimo, prima o poi cedevano e venivano sospinti in cielo, unendosi a decine di altri sassi e tronchi in una tumultuosa e caotica danza a mezz’aria. La sfortuna non risparmiò nemmeno gli animali, grandi e piccoli, incapaci di rendersi conto del pericolo e di correre lontano. I gormiti, pur con le loro magie, i loro poteri di corpo e mente, non furono baciati da alcuna fortuna e anch’essi si aggregavano nel letale ballo del ciclone. Ogni gormita che si trovasse nelle immediate vicinanze veniva attratto senza possibilità di scampo dal turbine d’aria e polvere, e occorreva una grande disponibilità di energia e ottima destrezza con le arti magiche per rimanere il più possibile saldi, come stava tentando Orrore.
In mezzo a tutto questo, il Signore dell’Aria Elios, con in mano la brillante Lancia dell’Oblio da cui generava il tornado, che teneva in pugno con avidità, come una gazza con un gioiello di oro e diamanti appena trafugato. La sua eleganza, in quell’atto di follia, non era scomparsa.
Ma non era la bellezza di un gormita, di una persona. Era lo splendore, il fascino che suscita un animale, fiero nel suo portamento e inconsciamente magnifico, ma pur sempre un animale, privo di identità, di consapevolezza, di intelligenza.
Orrore Profondo dava prova di tutto se stesso, e ora doveva decidere il da farsi. Elios impazzava, svolazzando con la Lancia in mano in un percorso circolare, gracchiava fortissimo, con un’intensità tale da essere udita pure in mezzo a tutto il baccano del turbine; non aveva notato la presenza di Orrore Profondo. Nonostante questo, i suoi movimenti erano piuttosto lenti, e stringeva l’arma tra gli artigli molto saldamente.
Con una buona mira e una decente dose di favore degli dèi, Orrore poteva togliergli la Lancia dalle grinfie – e non era dir poco, a così poche decine di piedi dal tifone. Sperava vivamente che l’uragano smettesse di vorticare, una volta terminato il controllo di Elios su di esso. Normalmente era così: l’aria generata si sarebbe calmata in un baleno, ma chi poteva dirlo con certezza in quel momento? Il vortice aveva assunto dimensioni e forza tali da sottrarsi alle normali regole.
Orrore non poteva aspettare ancora a lungo: ora o mai più.
Prima di cominciare a vorticare anche lui, aguzzò gli occhi, prendendo a fuoco il punto in cui la mano di Eliso teneva l’arma.
Pose il pugno chiuso davanti a se. Alzò il pollice. Puntò l’indice. Una piccola sfera rossa infuocata comparve, immobile, davanti a esso.
Con uno scatto e un suono come di dardo scagliato, Orrore dimenò il braccio e la minuscola sfera sfrecciò verso la sua destinazione con una forza strepitosa, quasi immune a quella esercitata dal tornado. Era l’ultima speranza di Orrore Profondo.
La sfera colpì esattamente la mano di Elios, rilasciando una piccola ma gravemente grande per le dimensioni del dardo di fionda.
I risultati furono tra i migliori che si potessero sperare. Dolore, bruciore e ferite fecero sì che Elios, con uno schiamazzo rapace, staccasse la propria saldissima presa sulla Lancia dell’Oblio.
Essa cadde, insieme al Signore dell’Aria, insieme a tutto ciò che l’uragano, ormai privo di una fonte di energia con la quale continuare a vorticare, si dissipò in una sottile nebbia per poi scomparire, in pochissimi secondi. A decine furono i corpi già morti che caddero dal cielo. Sfortunatamente, Elios non era tra questi, riuscito in quei pochi secondi di agonia a coordinare il proprio volo per accasciarsi salvo al suolo.
Chissà se era tornato in sé, o se la sua ragione era persa per sempre. Continuava a gracchiare, ma di estremo dolore, mentre si teneva con la mano sinistra il braccio destro, la cui mano era un amalgama rosso di carne e sangue, di cui solo un dito rimaneva.
Orrore Profondo, vittorioso infine, scese poco distante da lui. La Lancia dell’Oblio, lunga, cremisi, di una inquietante lucentezza e, soprattutto, intatta, era conficcata nel suolo davanti a lui.
Elios lo guardò, con la bocca spalancata e il braccio sanguinante sollevato, come ad accusarlo di ciò che era successo.
“Hai fatto un ottimo lavoro. - si congratulò Orrore, con un curioso e spaventoso sorriso, apprestandosi a raccogliere l’arma - Il migliore…e l’ultimo della tua carriera, voglio sperare.”
Con un gesto secco, strinse la Lancia e la sfilò dal suolo. Strani pensieri percorsero la sua mente in quel momento. Magor non aveva rivelato cosa sarebbe stato della Lancia una volta usata, né come esattamente doveva essere usata o da chi, ne se avesse davvero funzionato…se avesse subito la stessa sorte di Elios? No, Orrore era più forte di Elios, la sua mente e il suo corpo avrebbero resistito.
Brandì la Lancia dell’Oblio. Sentì una strana sensazione pervadergli la mente, inebriarlo, e una voglia assoluta di stringere l’arma con tutta la sua forza e usufruire del suo enorme potere per divertimento, usarla semplicemente…per usarla. Lo poteva fare, perché rifiutare? Perché non rendere le proprie forze quelle della Lancia, e quelle della Lancia le proprie? Insieme si sarebbero dati al delirio più sfrenato, distruggendo ogni cosa, e nulla li avrebbe fermati.
Ma Elios era stato fermato. Questa certezza, combinata all’incapacità delle strane vibrazioni emanate nella sua testa dalla Lancia di offuscare pienamente i suoi sensi, fu il segno della vittoria di Orrore Profondo sulla presa dell’arma magica.
I pensieri di Orrore Profondo erano ora più chiari che mai. Sapeva perfettamente ciò che doveva fare e che aveva le potenzialità per farlo subito e bene.
Con immensa forza e velocità si alzò in volo, fu in men che non si dica davanti alla barriera, superando incolume, rapido come il suono, ogni attacco nemico. Tese il suo braccio, la sua schiena, tutto se stesso, e la Lancia dell’Oblio sfilò dalla sua mano.
Un sonoro crac echeggiò per il Rifugio. La barriera si rese visibile, di un brillante arancione, ma piena di crepe. Proprio come un vetro infranto, si ruppe in migliaia di pezzi, che svanirono nell’aria.
La Lancia dell’Oblio si ruppe anch’essa, in tre pezzi, e cadde.
***
Un nuovo impetuoso furore scuoteva gli animi dei gormiti che guerreggiavano presso il Rifugio della Rugiada, nonché il suolo stesso sul quale esso si ergeva.
La barriera magica del Vecchio Saggio, l’impenetrabile difesa incantata, l’invalicabile limite tra Rifugio e mondo esterno, aveva ceduto sotto un suolo implacabile colpo della prodigiosa Lancia dell’Oblio, ora persa sotto i passi scatenati dei combattenti.
All’unanime, tutti i guerrieri di Foresta, Terra e Mare abbandonarono repentinamente sebbene sconvolti dall’episodio che mai si sarebbero aspettati di vedere, ciò in cui erano impegnati in quell’istante, compreso lo spegnimento dei fuochi che per altro erano stati grossomodo domati, per gettarsi a capofitto all’entrata del Rifugio, al fine di un ultima disperata difesa.
Da parte loro, gli assedianti non fecero diversamente. Interruppero ogni lotta individuale, ogni tattica di terra bruciata in atto, non appena videro la luce della barriera infrangersi e corsero con furia animalesca per partecipare all’assedio definitivo.
I gormiti alleati si trovarono immediatamente in una situazione svantaggiosa: dal punto di vista psicologico, perché convinti che nulla avesse potuto abbattere la barriera magica e che, una volta convintosi di questo anche i nemici, la lotta si sarebbe risoluta in poco tempo; dal punto di vista fisico, poiché nessuno rivaleggiava i vulcanici quanto a impeto e carica, e serrare le file per bloccare la loro avanzata che si erano sparpagliate poc’anzi sarebbe stato problematico.
Vulcano e Aria, in tutta risposta, non erano in una situazione decisamente migliore. Gli alleati non erano stati sprovveduti, e intorno al Rifugio della Rugiada, prima della barriera magica, avevano eretto una cinta muraria.
A causa della conformazione del territorio, non si era potuti portare con sé macchine ossidionali, nemmeno le più semplici scale arpionate, e il mero fuoco non sarebbe bastato a far saltare le mura di dura e fredda pietra. Del resto, però, l’esercito dello Stregone di Fuoco poteva ora contare il più gran numero di guerrieri alati di tutta Gorm.
Capeggiati da Orrore Profondo, ora libero dalle tentazioni della Lancia dell’Oblio e da qualsiasi preoccupazione a suo riguardo, i soldati volanti dell’Aria, accompagnati dai pochi del Vulcano tra cui il veterano Angelo, sorvolavano la fortificazione di pietra e il Rifugio della Rugiada stesso, eliminando ogni guardia incontrassero e cercando una via d’entrata sicura per l’esercito, incontrastati a causa dell’esiguo numero di alati di cui disponevano gli alleati.
Questi ultimi non sarebbero certo rimasti con le mani in mano, né avrebbero lasciato che lo scoraggiamento avesse compromesso l’esito dello scontro. Il Rifugio della Rugiada reggeva, così come le mura e loro stessi. Gli assedi della Grande Guerra di Gorm erano stati combattuti senza barriere magiche, e vinti: questo dava loro forza e speranza.
Tra le grigie pareti della fortificazione, dunque, e su ogni ciclopico ramo del Rifugio della Rugiada, in ognuno dei suoi anfratti i valenti guerrieri e guardiani rimasti colpivano con frecce e dardi ognuno dei combattenti alati che entrava nelle loro mire, e oltre le mura i gormiti uniti in compatti battaglioni di Terra, Foresta e Mare non avrebbero permesso a nessun vulcanico di entrare.
Una luminosa e inaspettata apparizione tra le ringhiere del bastione diede ulteriore speranza ai cuori dei difensori, ma allo stesso tempo convinceva altri della disperazione che aleggiava, per far sì che egli stesso uscisse allo scoperto in battaglia.
Ricoperto del suo candido manto, una luce tra le ombre, su cui erano stati adagiati e legati pezzi di corazza brillante come il platino, il Vecchio Saggio in persona, l’anziano e dottissimo stregone prendeva parte alle difese. Il suo cerchietto dorato, regalatogli anni fa da un gormita ormai dimenticato, splendeva fortissimo nella sua figura, in risalto nel chiaro grigiore dei suoi abiti e della sua armatura. Lo smeraldo del suo bordone non era da meno, per niente confondendosi col verde che dominava nella zona.
Scagliava fatture e prodigiosi incantesimi a non finire, e non mancava mai un colpo. Al contrario, i colpi diretti a lui parevano non raggiungerlo mai, rimbalzando altrove, protetto da un arcano incantesimo. Ben presto, stupiti della sua figura e del suo enorme talento, gli assedianti cessarono di indirizzare a lui i loro attacchi, focalizzandosi su altri. Il Vecchio Saggio non poté che esserne lieto, mentre lui continuava tranquillamente a tempestare di letali magie chiunque li capitasse a portata di tiro.
Nella corsa verso le mura del Rifugio della Rugiada, Kolossus e il misterioso cavaliere, capo in seconda dell’orda vulcanica, avevano incrociato sguardi e armi ancora una volta. Anzi, non si erano mai persi di vista.
“Il tuo desiderio di continuare a lottare è lodevole, Signore di Roscamar. - si complimentava con tono distaccato il cavaliere corazzato, tra un fendente e l’altro, cercando di togliere di mezzo Kolossus, che non gli dava tregua per impedire che guidasse i suoi uomini a un assalto strategico - La barriera è stata spezzata. Non c’è più nulla che possa contrastare la nostra avanzata, ora. Sarai sicuramente ricordato come un eroe per aver combattuto fino alla fine, convinto di avere ancora speranze. O come un pazzo.”
“Nulla che vi possa contrastare? Ah!” ironizzò per nulla turbato Kolossus, menandogli un colpo molto pesante con la sua ascia, che avrebbe sicuramente disarmato qualsiasi altro guerriero, ma lo spadone del cavaliere era molto resistente nonché di grandi dimensioni, ed egli aveva una presa molto salda.
“C’è un’intera fortificazione, che copre tutto il Rifugio! Uno stuolo di soldati ancora validi e pronti a tutto…e non hai forse visto il Vecchio Saggio? Di cosa è capace?”
“Sì, ho visto il vostro Vecchio Saggio. - annuì il soldato d’alto grado - Ha un grande potere, proprio come ci aveva detto lo Stregone di Fuoco, e la sua partecipazione ha spaventato diversi tra i miei. Ma come tutti noi è mortale, ed è destinato a cadere se si spinge troppo in avanti. Non sarà certo a causa di un solo uomo che ci vedrete sconfitti, e nemmeno per quelle fragili mura. Di costruzione recente e affrettata: non reggeranno più di un’ora.”
“Balle. - gridò Kolossus, ma non con frustrazione o sfrenata rabbia bensì con fermezza e spietatezza - Hai troppa fiducia nel valore delle tue truppe: i tempi sono cambiati, il Vulcano non fa più paura come una volta. E non riuscirai a rompere le mura senza delle macchine.”
“Il Rifugio della Rugiada non cadrà! - continuò, convinto - Non cadrà! Non ve lo lasceremo fare.”
“L’assenza di macchine è un problema risolvibile. Il Vulcano ha diverse ricchezze, presto lo vedrai.” dichiarò il cavaliere, con una fredda e pacata risatina.
“Sono anch’io dell’idea che il Rifugio non cadrà, te lo confesso”
“Come…?” chiese di spiegare Kolossus, confuso e stupito.
“L’Occhio della Vita è nascosto nel Rifugio. Non siamo così stupidi da radere al suolo tutto e rischiare di danneggiarlo. E poi, non siamo così scellerati come tutti pensano: il Rifugio è di grande importanza, una grande risorsa, e io lo so bene, ci sono stato e so come orientarmi. Inoltre, è un simbolo. Il Popolo della Foresta non ci perdonerebbe mai per averlo distrutto, e dei sudditi scontenti sono sudditi poco efficienti.”
“Sei di troppo larghe vedute.” lo criticò Kolossus, ma furono le sue ultime parole di arroganza in quello scontro, mentre un’ombra – che il Signore della Terra non poteva pienamente cogliere - accompagnata da un fruscio poco promettente alla sua sinistra si avvicinavano al campo di battaglia.
Con un attacco preciso e netto, lo spadone del vulcanico spezzò l’asta di legno dell’ascia di Kolossus, già rosa da innumerevoli colpi, che avendola tenuta a due mani, si ritrovò con due poco pratici e scomodi bastoni in due delle sue quattro braccia.
Approfittando di quell’attimo disorientamento, prima che Kolossus potesse lasciare i due pezzi d’ascia ed estrasse la mazza dal suo cinturone, generò una fiammella nel suo palmo e, indirizzatola al viso del nemico se la diede poi a gambe per guidare gli uomini di terra nell’assalto al bastione.
Con gridolini e disordinati schiaffi al proprio volto, Kolossus riuscì a liberarsi delle fiamme, ma non prima che il cavaliere, correndo a gambe levate, non si trovasse ormai a una discreta distanza da lui.
La distanza non era l’unico problema, si rese conto Kolossus mentre estraeva la sua mazza di legno bordata di placche di metallo e chiodi, correndo anch’egli.
Senza perdere di vista –metaforicamente, in un certo senso - il proprio bersaglio, Kolossus si avventò in avanti, fracassando il cranio a uno dei due vulcanici che gli venivano incontro con la mazza, e accecando l’altro con della sabbia. Il cavaliere era ancora fuori portata, mentre il vero problema, una delle ‘diverse ricchezze’ del Vulcano, era ormai vicino e visibile a chiunque alzasse lo sguardo.
Provò a fermarlo con il potere degli elementi: piantò entrambi i palmi destri al suolo, chiamando a sé le pietre e le rocce del sottosuolo. Davanti a lui emerse dal terreno una catena di stalagmiti di mediocri dimensioni. Si capacitò che una di esse andò a segno, e proprio sul cavaliere misterioso. Un Piggstrad ben riuscito. Il guerriero, colpito alle gambe dalla tecnica della terra, si sollevò di pochi piedi in aria e cadde piroettando. Ma non era finito. Voltandosi, puntò con tutta la propria rabbia Kolossus. Attirò a sé quanta energia avesse rimasta, con ampi movimenti di entrambe le braccia e, una volta disegnato un semicerchio e congiunti i palmi di fronte a sé, un enorme muro di fuoco fu sparato con grande forza.
La parete infernale investì e diede fuoco a tutti gli sventurati sul suo cammino, tra cui Kolossus e anche alcuni stessi vulcanici. Kolossus bruciava, invaso dalle fiamme che non riusciva a spegnere e con la corazza che scottava sempre più. La salvezza venne per mano di un marino lì vicino che generò una parete d’acqua di portata non minore a quella infuocata del cavaliere, giungendo infine a cessare i bruciori di Kolossus, che però rimase con numerose ustioni su tutto il corpo fino alla fine dei suoi giorni.
Cercando di ignorare il dolore, il Signore della Terra si rimise in cammino verso il comandante avversario, seppur a passo meno cadenzato. Questo non solo per le ustioni e per la cotta di maglia ancora per niente fredda, ma anche per lo stato in cui si trovava il cavaliere.
Egli infatti, ferito dal Piggstrad e stremato da quell’ultimo getto di fuoco, faticava a rialzarsi e non pareva esserci nessuno a dargli soccorso. Un’occasione che Kolossus non poteva farsi sfuggire, ma anche lui doveva fare i conti con la crescente stanchezza: lui come il misterioso cavaliere non aveva mai smesso di menare botte a destra e a manca e gli attimi di riposo e di ricreazione erano stati scarsi e rapidi.
La stanchezza fu l’ultimo dei suoi problemi quando si ritrovò buttato a terra da un gormita avventatoglisi contro dall’alto, con tutta la sua corazza e uno scudo.
Lui non poteva vederlo ma quelli intorno a lui – e io - sì, e diversi lo riconobbero, seppur nascosto in una pesante e sporca corazza bronzea. Ali di un arancio scuro, lunga coda, diverse placche dure, appuntite e violetto sul capo, volto simile a quello di un dragone, pelle azzurro scuro.
Era Dragon, o per meglio dire Dragon II, il figlio rinnegato e mezzosangue di Dragon I l’amico di Elios.
Spingeva e premeva forte su di Kolossus con i suoi muscoli e il suo scudo. Il Signore non lo poteva vedere con i propri occhi, ma lo poteva percepire, e in qualche modo sapeva che stava succedendo qualcosa di pericoloso. Difatti, Dragon aveva spalancato la bocca ed era in procinto di sputare fuoco, incendiando – di nuovo! - Kolossus.
Questi, con un azione combinata di tutte e quattro le braccia e delle gambe, si tolse Dragon di dosso, per focalizzarsi di nuovo sul suo bersaglio predefinito. Tuttavia, non lo potè più percepire ove l’aveva lasciato. Al contrario, poco più in là, poteva vedere, sentire, qualcosa di molto più grosso e temibile.
Un poderoso torace di quasi dieci piedi, amaranto, di squame come di diamante; una lunga coda, di tre piedi e mezzo, muscolosa ma flessibile, di uguali qualità. Il collo di circa due piedi, possente e rigido, non meno sanguigno e protetto da un’impenetrabile corazza naturale. Il maestoso corpo terminava all’estremità opposta alla coda con un regalo capo simile a quello di un coccodrillo, ma decisamente più corto e molto elegante. Una doppia corona di piccole corna dorate gli cingeva la testa dalla base della mascella fin sopra le orecchie, re dei rettili.
A concludere tale magnifica e terribile mole, sorretta da quattro robuste e corte zampe, sopra le spalle si apriva una meravigliosa coppia di ali che non ha paragoni nel mondo animale: sono semplicemente le ali di un dragone.
Come se non fosse sufficiente la sua armatura di scaglie, placche di metallo spesse e numerose erano state poste in svariate parti del suo corpo, in modo particolare sul ventre e sul collo, le zone più vulnerabili. A renderlo ancora più inattaccabile, sulla sella sul suo dorso era adagiato un gormita stregone, che molti dei combattenti più giovani sicuramente non riconobbero, ma i veterani senz’altro. Maginiu Strappapensieri, che, con le braccia tese rivolte verso l’esterno, manteneva una sorta di scudo magico per difendere il dragone dagli attacchi durante il suo atterraggio.
Il soffio infuocato della bestia riuscì a liberare uno spazio sufficiente tra i guerreggianti per adagiarsi al suolo, e il cavaliere misterioso fu subito sulla sua groppa.
***
Carrapax continuava a combattere, a difendere il Rifugio, schierato a molti piedi di fronte ad esso, per terminare ogni gormita nemico che osasse avvicinarglisi.
Ma dal momento in cui la barriera magica fu infranta un grande sconforto, pronto a sbocciare sin dall’inizio del conflitto, generato da una costante ansia, prese possesso del Principe di Gorm, a cui però cercava di far fronte continuando a lottare imperterrito senza far trasparire alcuna debolezza, alcun sentimento, come suo solito.
Di recente, molto prima del tradimento dell’Aria e dell’assalto al Rifugio della Rugiada, come per altro ho già accennato, il giovane e glorioso Principe di Gorm e Signore del Mare aveva avuto dubbi riguardo il suo diritto di disporre di un simile titolo, di un simile potere. Credeva di non aver fatto nulla di tanto eclatante per meritarsi tale rispetto e devozione dai suoi sudditi e dai gormiti di tutta l’Isola. Gli sembrava scorretto, ecco. Non si riteneva di un simile valore. Eppure il suo valore era palese: pochi marini hanno saputo vincere il Torneo di Astreg, pochi marini possono competere con la sua forza e resistenza fuori dall’acqua e decisamente pochi sono stati capaci di fronteggiare e vincere avversari del calibro di Kolossus. Il valore della mera carne non sembrava però bastargli: doveva dimostrare tutto il suo potenziale in un episodio che l’avrebbe davvero reso meritevole alla riverenza che gli tributavano, anche a costo della vita.
Era alla ricerca di un’occasione, qualcosa di grande, in cui potesse finalmente sentirsi realizzato e al seguito della quale esser fiero della carica conferitagli.
La Battaglia del Rifugio sembrava essere quel ‘qualcosa di grande’, ricco di occasioni per Carrapax da sfruttare e dare il meglio di sé. Tuttavia, non sembravano essercene di realmente valide o importanti per quello che il Principe desiderava, e se c’erano accadevano ben lontano da lui, irraggiungibili e destinate ad essere perse.
Con la caduta della loro difesa primaria –ma non certo l’ultima - Carrapax si convinse che lo scontro sarebbe terminato di lì a poco, e si era rassegnato semplicemente e guidare l’ultima decisiva resistenza, cosa che, lo sentiva, non avrebbe pacificato il suo animo.
Ma che cosa stupida! - intraprese a ripetersi nella testa - Perché crucciarsi così tanto?
E’ qualcosa che tu solo puoi sapere, nemmeno io sono in grado di risponderti. gli rispose del tutto inaspettato e con tono solenne Atellos, il suo Spirito.
Carrapax storse il naso.
Era una domanda retorica. sbuffò leggermente irritato. Non gli piaceva essere interrotto nei suoi pensieri, non gli era mai piaciuto portarsi dietro quella presenza informe da cui non poteva nascondere nulla, sia che lo pensasse che lo vedesse. A volte lo disgustava, specie quando voleva stare da solo con la sua amata Astix: anche in quei momenti Atellos era lì, e non poteva fare nulla per far sì che fosse altrove. Si chiedeva spesso come facevano gli altri ospiti di Spiriti a sopportare tutto ciò, e faceva del suo meglio per nascondere ad Atellos domande del genere.
C’erano ovviamente degli aspetti positivi, che non sto a ripetere. Ma quello che Carrapax apprezzava di più era senza dubbio quello scoperto da poco: il potere esclusivo di Atellos, amplificare potenza e controllo della forza magica, tornatogli utile più di una volta.
Guarda, la Lancia… disse ad un tratto Atellos, mentre Carrapax era avanzato di qualche passo.
Come? borbottò Carrapax confuso.
La Lancia dell’Oblio, sotto di te. affermò tremolante, come fosse meravigliato ma anche preoccupato.
Il Signore blu gettò uno sguardo ai suoi piedi. Sotto di essi, quasi sprofondati nel suolo erboso, ignorati e macchiati di sangue, fango dai passi di mille guerrieri giacevano tre fredde barre di metallo color della carne, spezzate.
Sebbene l’avesse vista solo da lontano, quando Orrore Profondo l’aveva scagliata, la riconobbe subito come l’arma che ruppe la barriera.
La guardò sprezzante e però anche con sollievo, vedendola ormai distrutta e incapace di fare altro male. Non si chiese il perché di quel nome mistico, o di come Atellos la conosceva.
La richiesta di quest’ultimo lo lasciò interdetto.
Prendila. - emanò freddo e rigido - Prendila, ricomponila. Usala.
Carrapax, basito, ci pensò due volte prima di obbedirgli. Ma in fin dei conti non si sentiva di disattenderlo, anzi, era curioso di sapere che cosa ne avrebbe guadagnato.
Afferrò infine i tre pezzi con le chele. Seguì il corso delle due spirali e analizzò vagamente la forma delle rotture, per poterla riassemblare il più precisamente possibile, non che si aspettasse che tornasse tutta d’un pezzo.
Invece, contrariamente ad ogni sua previsione, la Lancia dell’Oblio ritornò integra accompagnata da un sonoro tac metallico, e quasi contro la sua volontà, si ritrovò a stringerla con immensa forza con le chele.
Ti aiuterò a gestirla, segui il tuo istinto. gli annunciò Atellos.
Carrapax era in visibilio. Non sapeva come, non sapeva perché, ma si sentiva improvvisamente potentissimo, capace e pronto a tutto. Con la Lancia tra le mani, non c’era nessuna difesa che poteva resistergli.
La tua mente è già forte, non hai bisogno di me. - si contraddisse poco dopo lo Spirito - Vinci la battaglia, ma fa attenzione.
Le voci di Atellos erano come sussurri, voleva ignorarli. Qualcosa sembrava ordinargli di ignorarli. Ma il loro messaggio lo raggiunse ugualmente: doveva essere cauto.
Allo stesso tempo, il pensiero che lo dominava era uno solo: vincere. Sbaragliare l’assalto nemico, privarlo dei loro assi e spingerli lontano. E anche se era da solo, solo con un’arma recuperata per terra, era cosciente di esserne completamente in grado.
Un getto d’acqua sparato dalle punte della lancia neutralizzò del tutto un vulcanico che tentò di saltargli addosso, e insieme a lui altri due furono sbattuti a terra.
Acrobazie con le chele e la lancia gli risultavano facilissime, e i nemici cadevano a destra e a sinistra, ad ogni angolo, travolti da mulinelli per i quali Carrapax si sforzava esiguamente, ma la cui forza la Lancia accresceva di molte unità.
L’aumento della potenza non era limitato alle tecniche elementali: la sua stessa forza magica, già ad alti livelli grazie ad Atellos, veniva amplificata oltre misura, e gli avversari lontani anche piedoni da lui cadevano travolti in volto da pugni invisibili.
Non c’era tempo per divertirsi, anche se la Lancia dell’Oblio voleva fargli gustare ogni vittima e trascorrere insieme a lui più tempo possibile. La sua tempra ebbe la meglio sulle inebrianti vibrazioni dell’arma magica, e Carrapax si rese conto di dover porre fine all’assedio una volta per tutte.
Con una maestria impareggiabile senza la Lancia, saltò e fluttuò sopra le teste di alleati e nemici insieme con la semplice forza di volontà, senza mancare di incassare qualche colpo qua e là, mentre tutti lo guardavano meravigliati, gli uni ravvivati, gli altri spaventati.
Volando grazie alla forza magica meglio del Sommo Signore di Karmil, si dirigeva verso i mastodontici rami del Rifugio della Rugiada, dove ancora Orrore Profondo guidava il meglio della fanteria alata aerea e vulcanica alla ricerca –o alla creazione - di una breccia.
A nulla sembravano servire i riflessi migliorati dal veleno di Magor: i più dei guerrieri di Elios perdevano l’equilibrio e affondavano scagliati giù da grandi masse d’acqua.
Orrore Profondo, il temibile Signore del Vulcano, era a due piedi. Ogni paura che Carrapax avesse mai provato per lui pareva ora svanita, come mai esistita, mentre questi, accortosi della dispersione del suo seguito, si voltava.
Era ora nel suo sguardo che si leggeva la paura, di fronte a quel massiccio guerriero che decollava accompagnato da flutti d’acqua, impugnando un’arma che lui stesso aveva portato sul campo.
Si può dire che Orrore fu l’artefice della propria rovina.
Con un equilibrio e un controllo degno dei più rinomati maestri di magia, Carrapax riuscì a mantenersi in volo e allo stesso tempo, stringendo in una chela la lancia e l’altra vuota, generare due grandi masse d’acqua ai lati del Signore del fuoco.
Le braccia, divaricate, si riunirono con uno schiocco, e insieme le due pareti d’acqua schiacciarono Orrore tra di esse: le Mura del Mar Rosso.
Carrapax era colto dalla fretta, e non ebbe il tempo per vantarsi della vittoria sull’acerrimo nemico né accertarsi se fosse vivo o morto, mentre cadeva giù. C’era un altro, ultimo obiettivo, prima di potersi liberare di quell’arma nefasta e dichiarare vittoria.
Il dragone cavalcato dal misterioso cavaliere incendiava e raspava con le unghie una parete della cinta muraria, e ai suoi lati i vulcanici cercavano di aiutarlo nell’abbattere le mura o di salirgli sopra per saltare oltre il muro, non pochi con successo.
Le dimensione e la furia del dragone –che era oltretutto un raro sputafuoco - non gli facevano paura, e anche se ne avessero mandati altri, la paura non l’avrebbe toccato purché avesse con sé la Lancia dell’Oblio.
Tornato coi piedi per terra, si fece strada incontrastato verso il dragone, seminando acqua ovunque.
Con la chela corazzata strinse per bene la punta della sua coda. Questo, in risposta, smise di soffiare fuoco sulla roccia e alzò il collo verso il cielo, ululando un tremendo ruggito.
Quando infine si voltò, Carrapax era già sulla sua groppa, e stava lottando contro il misterioso cavaliere.
Penso io al dragone, tu occupati del cavaliere. gli promise Atellos
Difatti, mentre Carrapax evitava i colpi del comandante del Vulcano o li subiva senza soffrirne, la mente del dragone veniva vessata dai grandi poteri psichici dello Spirito, e reso del tutto inoffensivo per i vulcanici.
Disarcionato il cavaliere con poco impegno, Carrapax –o la Lancia attraverso Carrapax - pensò bene di approfittare di quella cavalcatura. Atellos comprese.
Il Signore del Mare si mise sulla sella al posto del vero proprietario, raccolse le redini, deciso a guidarlo contro i suoi stessi padroni. Il dragone ruggiva sofferente, incapace di difendersi dagli attacchi mentali dello Spirito.
A un certo punto cessò di gridare, limitandosi a dei gemiti e a ruggiti molto sommessi.
Fa’ in fretta. - gli impose - Atellos Le menti dei dragoni sono potenti, non rimarrà innocuo a lungo.
Ciò compreso, si mise subito all’azione. Sotto gli occhi del tutto terrorizzati dei vulcanici e degli aerei, il loro stesso dragone ora soffiava fuoco e investiva con le zampe e gli artigli su di loro.
Era incredibile, ai loro occhi, come Carrapax fosse riuscito a fargli voltare fiducia in così pochi secondi. Le grandi capacità mostrate dal Principe di Gorm in quegli ultimi istanti avevano acceso negli assedianti un grande timore nei suoi confronti.
E ciò che venne dopo fu ancora peggio: non potendo più sottometterlo a sé, il dragone si ribellò ad Atellos e a Carrapax, rovinando di proposito al suolo facendo cadere l’indesiderato cavaliere.
Ma la sua ribellione terminò lì. Carrapax raccolse una spada da un’elsa legata alla sella, risalì il collo della bestia e lì, senza mai abbandonare la presa sulla Lancia dell’Oblio, trafisse più e più volte il cranio della bestia. O per meglio dire, prima lo scalfì e lo tagliò, creando una ferita tra le dure scaglie nella quale infilare la lama per uccidere il mostro alato. Furono lunghi attimi di agonia per il dragone e altrettanti per i combattenti, costretti a sopportare i suoi ruggiti morenti fino alla fine. Carrapax non gli diede il colpo di grazia, sicuro che ormai non fosse un pericolo.
Non era ancora finita. Nonostante quelle strepitose e intrepide vittorie, nonostante la paura che ora dominava i cuori di molti dei nemici, c’era ancora un corposo esercito di fronte al Rifugio.
Carrapax si avvicinò a due suoi sudditi del Mare.
“Preparatevi. - ordinò loro - Eseguirò il Maelstrom.
“Il - il Maelstrom?” balbettò uno dei due, visibilmente stupefatto dalle azioni di Carrapax, ora anche in modo negativo. “Siete sicuro?”
“Sicuro come è solida la pietra delle mura di Poivronopoli.” enunciò lui.
Cosa stava facendo? Il Maelstrom? Stava giocando con il fuoco. Nonostante la Lancia dell’Oblio gli facesse pesare meno la fatica, era indubbio che il suo corpo e la mente costantemente in contrasto con le vibrazioni inebrianti della Lancia erano spossati. Poteva non resistere a quella tecnica, anche se aiutato –mai Maelstrom sarebbe stato eseguito da solo. Senza contare i possibili, e quasi certi danni collaterali alla Foresta. Oltretutto, non poteva essere sicuro di non colpire anche gli stessi alleati.
Chi glielo stava facendo fare? Era la Lancia che lo spingeva ad eseguire quella mossa mostruosa, o era lui di propria volontà?
Qualsiasi fosse, di una cosa Carrapax era sicuro: non si sarebbe tirato indietro. Non riusciva. Doveva farlo. E Atellos non lo fermava.
I tre marini avanzarono come poterono; i due subordinati posero le proprie mani sulla schiena del loro condottiero, condividendo con lui la loro energia, indispensabile per generare l’imponente Maelstrom.
Concentrò tutta la propria forza nella Lancia e tra le chele, e chiuse gli occhi. Dovette aspettare di sentirsi riempito di energia, e di più, cosciente che il Maelstrom gliel’avrebbe succhiata quasi tutta.
Per la prima volta da quando impugnò l’arma di Buferios, si sentì preoccupato. Segno evidente che l’esecuzione della mossa finale del Mare era una sua consapevole iniziativa. Non rinunciò ugualmente a metterla in atto.
Quando si sentì pronto, gettò le proprie braccia in avanti.
Un colossale muro d’acqua, come un maremoto, un’onda anomala di gigantesche proporzioni proruppe dalle sue mani e dalla Lancia dell’Oblio, investendo senza pietà e senza criterio quanto avesse di fronte a lui: nemici, alberi, alleati.
Con un ultimo sforzo, diradò le proprie braccia, in modo che il Maelstrom si espandesse anche lateralmente.
La forza distruttrice dell’acqua non fu mai così palese come allora.
Carrapax oramai non ce la faceva più, e pareva nemmeno la Lancia dell’Oblio. Con un gemito, ricadde all’indietro, abbandonando la stretta sull’arma infernale.

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Capitolo 31
*** Capitolo 13.3 ***


“Svegliatevi, Signore!” si gridava.
Nessuna risposta.
“Principe, svegliati!” si udivano le suppliche.
Un sussulto scosse il corpo senza sensi del Principe, su cui, per mantenerlo in salute e farlo riprendere, erano state versate grandi quantità di acqua.
Il Signore acquatico aprì, molto lentamente e sbattendoli di continuo i propri occhi, e cominciò a prendere grossi respiri con la bocca, come se fosse rimasto in apnea per un tempo superiore al sopportabile.
Non gli riuscì di spalancare gli occhi. C’era troppa luce attorno a lui, molta più di quella che ricordava esserci.
Il suo respiro prese a rompersi in possenti colpi di tosse, che fecero sobbalzare il petto e tutto il corpo del Signore, e portare le chele alla bocca per il fastidio.
Attorno a lui, i suoi soccorritori, per così dire, furono inondati dal sollievo, nonostante il loro uomo non fosse del tutto in salute; ma era vivo.
Vivo. Carrapax non si aspettava certo di riuscire a sopravvivere.
La mente dominata da uno Spirito che spingeva il suo dominio della forza magica oltre i normali limiti, la volontà oppressa e a fatica difesa da una forza esterna che annichiliva la sua sensibilità alla fatica e il suo senso della misura. Un veleno che scorreva nel suo sangue, che nutriva le branchie e corroborava i polmoni.
Un attacco definitivo che era certo lo avrebbe privato di ogni energia residua.
Aspettava la morte, e negli istanti immediatamente precedenti era giunto a non temerla affatto: aveva la garanzia di aver fatto qualcosa di grande, di imponente, e il suo diritto a detenere la carica di Principe era stata infine comprovata.
Scoprire di essere sopravvissuto a tutto quanto lo riempì di un’infinità di nuovi propositi, di nuovi progetti, di una voglia di vivere e di fare che non aveva nulla a che vedere con il modo in cui agiva prima d’ora.
Adesso, non aveva più nulla da dimostrare. Non c’era più niente per cui sentirsi indegni o semplicemente fortunati.
Ignorava le voci attorno a lui, sentite gratitudini per la salvezza del proprio Signore e premurose richieste di conferma del suo stato di salute. Adattatosi alla luce improvvisa e calmatasi la tosse, si alzò con una certa fatica da terra e si guardò davanti e ai lati, dove scoprì presto la causa di così tanta luce.
Centinaia di alberi erano stati abbattuti, riempiendo il suolo erboso di una luminosità che mai l’aveva toccato. Abbattuti non dalla scelleratezza dei vulcanici, non tutti, ma dal Maelstrom di Carrapax. Pozzanghere e grandi porzioni di acqua stagnante erano ovunque.
Sentì un improvviso peso sulla coscienza, soppiantato ben presto da un’altra certezza: nessuna traccia di gormiti del Vulcano, di Orrore Profondo, di dragoni, di aerei, o tantomeno di incendi.
Ogni nemico era stato domato e costretto alla ritirata di fronte all’impressionante onda anomala scatenata dal Signore del Mare.
“Abbiamo vinto…” mormorò Carrapax, soddisfatto e incredulo.
“Potete dirlo forte, mio Signore!” esclamò un gormita presentatoglisi di fianco, il cui tono solare e felice Carrapax non poté ignorare.
Era Cavarex, uno dei sergenti del battaglione, il primo avversario di Elios ai primordi della Battaglia al Rifugio della Rugiada. Respirava a fatica, e aveva perso gran parte della sua corazza. Si teneva una mano sulla spalla, sanguinante. Ma non pareva sofferente.
“Quello che avete fatto è stato straordinario.” continuò egli, accennando un inchino con il capo. Nonostante la stanchezza, gli si leggeva negli occhi ancora la meraviglia per ciò a cui aveva assistito e una riverenza più che mai accesa per il suo capo.
“Intoneranno versi sul vostro intervento già da domani, e i nipoti dei nostri nipoti li canteranno ancora, e dopo di loro ancora e ancora”
Carrapax si sentì estasiato nell’immaginarsi una simile possibilità. L’immortalità ai posteri era la cosa a cui ognuno ambiva, su Gorm.
Ma il lungo, interminabile corso della Storia e la caducità della vita delle persone, insieme, non possono immortalare tutti allo stesso modo. Carrapax era da ritenersi fortunato.
“Carrapax! CARRAPAX!” urlò alle sue spalle una voce grossa e furiosa. Passi rumorosi e pesanti e il cozzare del metallo accompagnavano le sue parole.
Si volse, leggermente intimidito.
A grandi falcate, quasi di corsa, avanzava verso di lui il possente Signore della Terra. Camminava in modo un po’ disordinato, come un cieco non ancora abituato a vivere senza occhi, e nel suo passo volgeva a scatti la testa a destra e sinistra e tentava l’aria con le mani, a volte quasi fermandosi.
La stanchezza, che si faceva sentire ora in tutta la sua forza a battaglia finita, lo rendeva in qualche modo meno capace di orientarsi.
Riuscì ad ogni modo a raggiungere Carrapax. Si fissarono per lunghi istanti. Il Signore del Mare rimase muto: non sapeva cosa dire, di cosa parlare. Che cosa voleva Kolossus?
Lui pareva rabbioso, con le labbra contorte in un broncio. Immediatamente queste si rilassarono in un sorriso, e Kolossus si gettò su Carrapax, abbracciandolo forte con tutte e quattro le braccia.
“Razza di idiota, stupido…eroe!” lo rimproverò ancora stretto nell’abbraccio, e ancora sorridente.
“In che guaio ti sei cacciato! Non ti avrei mai perdonato se fossi morto!”
Carrapax sorrise a sua volta commosso, e chiuse gli occhi ricambiando l’abbraccio con la stessa energia.
“Nemmeno io, Kolossus, nemmeno io. Brutto bestione, non morirmi mai sotto gli occhi, o piscerò sulla tua tomba!”
“Ah, ah! - rise l’altro, staccandosi dall’abbraccio e dandogli una vigorosa pacca sulla spalla - Vedo che hai imparato a parlare come un vero uomo!”
“Andiamo, Carrapax.” sussurrò poi il terricolo, prendendolo per il collo e portandoselo vicino, come per farsi dire un segreto.
“Come, davvero…come…come? - biascicò, non trovando le parole - Come diamine hai fatto que…quello che hai fatto?”
“E’…complicato. - rise Carrapax, lui stesso incapace di spiegarlo con i termini giusti - Ma…sappi che non avrei potuto nulla se non fosse stato per…per…”
Carrapax si fece visibilmente inquieto e tetro, tutto a un tratto. I suoi occhi caddero al suolo dove, nei suoi ultimi attimi di conflitto e con gli ultimi residui di coscienza aveva gettato la diavoleria di Buferios, vero artefice della vittoria finale.
La Lancia dell’Oblio era lì, a pochi piedi, intatta e tremendamente attraente, pericolosamente potente.
Carrapax la indicò, tremante, senza proferir parola. Ora che non era più sotto la pressione delle sue sensuali vibrazioni e che sapeva dell’immenso potere di cui disponeva, ne provava una grande paura.
“Quella? Hai usato quella? Non è l’arma che ha rotto la barriera?” si domandava Kolossus confuso. Si accinse a raccoglierla. Carrapax lo bloccò ferreo con una chela
“No! - gridò, terrorizzato. - Non prenderla! Ti…ti rode il cervello.”
Kolossus obbedì, impaurito dal tono del suo amico.
“Fai bene ad obbedirgli, Kolossus.” proruppe una terza figura.
Camminava a passo svelto. Era palese che, per la sua età, non fosse più abituato a marciare a quella velocità. Pertanto, il suo avanzare era in verità lento, a volte con inciampi, e faticoso per lui. A questo v’era da aggiungere la sua partecipazione più o meno diretta al conflitto, che gli aveva tolto molte energie.
Di fianco a lui procedevano due gormiti dall’esile corporatura, stregoni come lui, si presume.
Il suo bordone di legno con smeraldo incastonato batteva sul terreno rimbombando, sebbene l’erba dovesse attutire il suono. La corazza leggera di cui si era rivestito per proteggersi era del tutto sparita, e rimaneva solo la veste bianca, sporca e sudata.
“Vecchio Saggio, abbiamo vinto! L’Occhio della Vita è ancora nostro!” esclamò festoso Kolossus, quasi saltellando, e quasi abbracciò lo stregone elfo, ripensandoci subito.
“Anche grazie a voi, in questo giorno il Vulcano è stato sconfitto!”
“Io ho fatto ben poco. Semmai ho causato tutto questo. E il Vulcano è ancora potente e pronto a tutto, e l’Aria nostra amica ora è irraggiungibile.” avrebbe voluto dire il Vecchio.
Mascherò le sue paure e i suoi veri pensieri con un vistoso sorriso in cui brillavano – forse è esagerato - ancora tutti i denti o quasi, nonostante gli anni.
“E’ un giorno memorabile. - acconsentì - Il Popolo del Vulcano è stato vinto in una battaglia campale, anche con l’aiuto del Popolo dell’Aria. Spero in future vittorie, vittorie più risolutive che possano finalmente portare la pace in questa terra”
“La Lancia dell’Oblio.” disse poi, guardando severo l’arma scarlatta distesa sull’erba.
“Ho letto numerosi libri, una volta l’ho addirittura cercata. E’ un miracolo che sia finita in mano tua, Principe, e che sia riuscito ad adoperarla per il bene.” si complimentava.
“In mani nemiche, avrebbe segnato la fine della nostra resistenza. Avete visto come ha rotto la barriera magica. Se solo Orrore Profondo non l’avesse abbandonata, il Rifugio sarebbe caduto in meno di un’ora.”
“Dev’essere distrutta, o nascosta.” propose il Principe. Forse era più un comando, a giudicare dal tono e dall’espressione: d’altronde nessuno avrebbe disobbedito al Principe di Gorm.
“Io l’ho provata. L’ho usata. So di cosa è capace. E’ troppo pericolosa”
“E’ anche per questo che sono qui. - affermò il Vecchio Saggio - La porterò via. Per ora la conserveremo nel Rifugio, chiusa per bene come o meglio dell’Occhio della Vita, e sorvegliata.”
Detto questo, puntò l’arma con il suo bordone ligneo sempre lucido. Diede un segnale ai suoi due accompagnatori che, in contemporanea a lui, sollevarono con la forza magica la Lancia dal suolo e l’avvicinarono.
“Che cosa faremo ora, Vecchio Saggio? - chiese Carrapax giustamente curioso - Il Vulcano è ancora capace di attaccare, e l’Aria lo seguirà ovunque. Dove nasconderemo l’Occhio della Vita?”
“Ci penseremo più tardi. - liquidò in fretta l’argomento - Nascondere l’Occhio è un affare complicato. Per quanto riguarda i progetti per il Vulcano, discutetene con Barbataus e Noctis quando avremo messo un po’ a posto questo posto. Se avrete bisogno di consiglio, sarò pronto ad assistervi.”
Volse loro le spalle senza ulteriori parole, con la Lancia dell’Oblio che fluttuava sotto il controllo dei tre stregoni.
Barbataus. Il pensiero dei due Signori si rivolse al loro collega, che non avevano mai incrociato durante il conflitto. Era a guardia di alcuni rifugi civili più a sud, e a fidarsi dei suoi sottoposti non avrebbe partecipato attivamente allo scontro. Che cosa aspettava ad incontrarli al Rifugio, allora, adesso che la battaglia era terminata?
Si sarebbero messi alla ricerca del loro compagno repentinamente, sondando il campo di battaglia alla ricerca di soldati caduti, feriti da salvare e nemici da catturare, se l’obiettivo della loro ricerca non si fosse presentato presso di loro.
Troncannone, il fidato amico del Signore della Foresta e suo più vicino sostenitore, comparve correndo da un folto mucchio di alberi della selva meno colpito dal Maelstrom.
Il suo avanzare era affannoso, rallentato da un enorme peso che portava tra le braccia. Un veramente enorme peso, che pareva impossibile per Troncannone, minuto e con delle braccia piccole, da portare. Egli però lo trasportava ugualmente, e con foga, diretto al Rifugio della Rugiada.
Troppa foga. Inciampando nella corsa, il bagaglio più grande di lui gli sfuggì dalle mani, cadendo innanzi.
“No!” urlò disperato il forestale, gettandosi a sua volta in avanti, non volendo che quel carico urtasse.
La sua mossa fu di poco successo: rovinò a terra, con le mani schiacciate sotto il gravoso fardello.
Se si fosse fatto male, non lo diede a vedere. Invece, tolse le mani da sotto il peso e, singhiozzando, prese ad accarezzarlo e a coccolarlo, versando lacrime su di esso.
Carrapax, che vide da lontano scena, ebbe il presentimento che quel fardello fosse tutt’altro che un semplice pacco fragile o prezioso.
Avanzò preoccupato verso Troncannone, sperando che i suoi timori si rivelassero errati, facendo segno a Kolossus di seguirlo.
Non dovettero avere il forestale ai propri piedi per capire di cosa si trattava il carico caduto: un altro forestale, privo di movimenti, di cui si vedevano le spalle per i due Signori ma che riconobbero anche da quel punto di vista.
“No, no, no!” sbraitò Kolossus, non volendo credere a ciò che vedeva.
Cadde dal lato opposto del cadavere, non freddo ma senza il calore di una persona viva.
Rabbrividendo per la desolazione, volse il torso del gormita verso il cielo, e con esso il suo viso.
I sensi di Kolossus riconobbero il volto del Signore della Foresta, Barbataus.
“No, Barbataus…” supplicava Kolossus, pregando che non fosse vero, e agitava invano il corpo esanime dell’anziano Signore della Foresta.
“Dimmi che non è vero! Dimmelo, dannazione!” e continuava a scuotere le sue spoglie, anche in modo aggressivo.
“Smettila! - lo sgridò Troncannone, picchiandogli le mani - Lascialo stare! Non possiamo fare più nulla…”
Kolossus non poteva piangere, ma la sua sofferenza era da lacrime, e più; se solo avesse avuto degli occhi come altri gormiti, il corpo di Barbataus sarebbe già immerso nell’acqua.
“Com’è potuto succedere?” si chiedeva Kolossus, senza pace.
In effetti, la sua salma non presentava tagli, ferite, segni di strangolamento, o sintomi da avvelenamento. Solo numerosi lividi su tutto il corpo. Però, non erano lividi da percosse o da armi bianche.
“Io…io lo so.”
Sopraggiunse un ennesimo gormita, che si fece strada prepotentemente tra Kolossus e Troncannone, per abbracciare piangente da un unico occhio le membra senza calore di Barbataus.
“E’…è morto per salvare me… - proferì con la voce rotta Noctis - D-da Elios…aveva la Lancia, mi ha preso un occhio. Aveva scatenato un ciclone…Barbataus mi ha curato e…e…”
Strinse becco e occhio sano, singhiozzando, volendo che le cose fossero andate diversamente.
“Mi ha ordinato di sc - scappare…è morto, per - per salvarmi!”
La salma del defunto Signore della Foresta fu ora vittima di una cascata di lacrime, di abbracci.
Carrapax piangeva in silenzio, da lontano. Non aveva il coraggio di avvicinarsi e mormorava, ad occhi chiusi, alcune preghiere.
Una scena toccante e tristemente meravigliosa. Tre grandi maestri della guerra, potenti Signori di Gorm, tutti fatti a pezzi dal pianto, incapaci di sfuggire alla sofferenza della fugacità della vita.
“B-basta piangere,” gemette Troncannone con un ultimo singhiozzo, asciugandosi il volto con il braccio.
“Non è l’unico a-ad essere caduto, oggi. Risparmiamo le lacrime anche per i nostri fratelli. Lui avrebbe certo voluto questo…”
Come ogni guerra su questa terra e su ogni terra, non importa chi dichiara di aver vinto, chi crede di aver sterminato il nemico.
In verità, entrambe le fazioni perdono, sempre e comunque. Da ambo – o più, chi può dirlo - i lati, le perdite non mancano, mai. Chi vince e chi è vinto, alla fine, ha sempre perso. Perso valorose vite, valenti cittadini e prima ancora persone, amici e fratelli.
Con loro, tutti i loro sogni, i loro desideri, il benessere dei loro familiari sono infranti, e non vi è vittoria che possa sanarli o attenuare il dolore.
La piana del Rifugio della Rugiada era stata travolta dal passaggio degli eserciti, dagli incendi e dal Maelstrom, e sarebbe dovuto passare molto tempo perché potesse tornare alla rigogliosità di giusto un giorno prima.
E i forestali, solerti e in quella circostanza operosi come i terricoli, non mancarono di mettersi immediatamente al lavoro, riparando gli alberi salvabili, piantandone di nuovi e sradicando gli irrecuperabili, e in generale raccogliendo quanta più legna in buone condizioni fosse presente sul campo, per lavorarla e venderla in futuro.
La priorità era però rivolta ai caduti e ai feriti. Dal Rifugio, piombò fuori un’enormità di gormiti, militari e civili, che si occuparono di medicare ogni soldato, di rastrellare il campo di battaglia in cerca dei morti, identificarli per portare poi la triste notizia a chi di dovere.
Il bastione a difesa del Rifugio della Rugiada era sì scalfito e rovinato, ma nulla che poche ore di lavoro non avrebbero riassestato. Questo perché abbatterlo sarebbe stato poco conveniente e una perdita di tempo; si era infatti deciso di mantenerlo attorno alla base del Rifugio, di modo che potesse ancora proteggere la pianta del ciclopico albero da attacchi negli anni a venire.
L’unica rottura di un certo rilievo era la breccia del resto superficiale aperta dall’impeto del dragone.
Di sera, all’interno del salone principale del Rifugio della Rugiada, una sala davvero immensa, fu tenuto un gigantesco e fastoso banchetto funebre in onore dei caduti della Battaglia del Rifugio a cui si presentarono gormiti di ogni Popolo.
Non tutti i soldati o i civili ospitati nel Rifugio parteciparono; alcuni decisero di ritornare alle proprie case una volta congedati dai loro Signori.
Non fu nulla di spassoso o di dilettevole, e a mantenere il silenzio generale e la sensazione di angoscia fu l’enorme pira funebre in cui erano stati deposti tutti i gormiti della Foresta –quelli che desiderarono la crematura - morti nella lotta, con il Signore Barbataus in cima.
Barbataus, da rigoroso fedele dei semidéi e delle Somme Forze, fu generosamente bagnato di vino bianco, la bevanda sacra a Fendril e ad Asili. Ogni coppia di divinità ha infatti un animale e un liquore sacro, che i priori e gli altri cultori delle Somme Forze sacrificano e bevono in una ricca varietà di riti.
Tutti gli altri defunti erano stati opportunamente imbalsamati e conservati in sale apposite, con le loro corazze e armi, in attesa di venire condotti dai loro familiari.
Era infatti tradizione tipica del Popolo della Foresta la crematura, opposta alla sepoltura degli altri Popoli; ma non erano rari i casi in cui un forestale esprimeva il desiderio di essere sepolto o, al contrario, un marino, ad esempio, di essere cremato.
La presenza dei defunti in mezzo al salone –che, ovviamente, era ben regolato perché non prendesse fuoco - e dei continui pianti sommessi fece sì che i ricchi piatti del banchetto –straordinariamente ricchi per essere cucinati da dei forestali - fossero poco toccati. Tutti avevano fame, ma essa venne meno di fronte alla pira.
Quando poi, a convivio terminato, questa fu data alle fiamme, si levò un coro funebre tra le centinaia di banchettanti.
 
Là si erge sul campo di battaglia
A terra cade sul campo di battaglia
Tutto finisce sul campo di battaglia

Ha resistito alla fatica
E alla mano e alla spada nemica
Anche contro la morte ha lottato
Il suo nome non verrà dimenticato
Là lo ricordano sul campo di battaglia
A terra vive ancora sul campo di battaglia

Tutto ricomincia sul campo di battaglia
 
Il Vecchio Saggio, Carrapax, Kolossus e il consigliere di Barbataus, ora Signore, si riunirono a notte fonda presso la chiesa di Erocol, dove ancora resisteva il tempietto dell’Occhio della Vita.
Il vecchio stregone aveva con sé il triplo forziere in cui era conservato l’Occhio. Dichiarò che ci voleva ancora tempo perché potesse essere definitivamente e sicuramente distrutto.
I tre Signori non furono molto contenti di questa conferma, dopo tutto ciò che quella sfera aveva recato loro. Ma riconobbero gli sforzi del Vecchio Saggio per aiutarlo, e accettarono di conservarlo ancora.
Discussero a lungo sul prossimo nascondiglio dell’Occhio della Vita. Nessun luogo era davvero sicuro quando lo Stregone di Fuoco poteva osservare ogni angolo dell’Isola, e le precauzioni e le difese anche solo per spostarlo potevano non essere mai sufficienti.
Si decise per un nascondiglio in cui il Vulcano certo non si sarebbe aspettato di trovarlo, in cui mai avrebbe pensato fosse stato riposto.
I tre Signori e Noctis si accordarono dunque sul covo. Diedero le loro preghiere per una pace prossima di Gorm, supplicarono il Vecchio Saggio che trovasse presto una soluzione, e si congedarono da lui, che diede a sé e a loro la sua benedizione.
Prima di recarsi al nascondiglio, il Vecchio Saggio fece una passeggiata per la Foresta Silente, buia.
Camminò fino alla Piana di Astreg, salì la lunga scalinata.
Dalla cima dell’altopiano aveva una visuale perfetta di quasi tutta Dalarlànd. La sterminata distesa della Foresta Silente ad ogni lato, il Rifugio della Rugiada che si stagliava poco più lontano, il fosco e altissimo Picco Aquila, sfocato nel distante nord. La riva sabbiosa e il mare, indefinito, verso sud.
Era uno scempio che quella landa così incontaminata e mirabile dovesse sottostare alle continue vessazioni del Popolo del Vulcano e, ora, della magia e dell’ambizione di un pericoloso Popolo dell’Aria come mai prima, che forse mai sarebbe ritornato al suo posto nell’Isola.
I gormiti erano di coccio: decisi fino in fondo a non dichiarare mai guerra al loro acerrimo nemico, tergiversare e temporeggiare continuamente, affidandosi alle loro finora impeccabili capacità di resistenza. Questo, agli occhi del Vecchio Saggio, prolungava solamente l’agonia di Gorm, e voleva che anche i suoi discepoli se ne accorgessero.
La vittoria presso il Rifugio era stata grandiosa: i vulcanici erano stati costretti alla resa, per mano di un solo gormita, anche se questi era il Principe di Gorm.
Mise fuori combattimento il loro Signore Orrore Profondo con rapidità e maestria, gestiva acqua e forza magica con potenza e precisione devastanti, uccise un dragone con le proprie mani e con l’aiuto di nessuno. La paura che il mirabolante Principe scatenò fu tale da convincerli a cessare l’assedio, che per altro non procedeva nel migliore dei modi.
Una vittoria grandiosa, ma tutt’altro che decisiva. La battaglia era durata un solo giorno, e il Popolo del Vulcano aveva molti altri uomini di cui disporre. Tutto poteva ancora succedere.
Bisognava fare leva sulla paura che era stata instillata, approfittare di quell’occasione per assaltare il Vulcano. Non per conquistarlo o annientarlo, semplicemente dargli una lezione una volta per tutte, una lezione che l’avrebbe tenuto a bada il tempo necessario per poter distruggere l’Occhio della Vita.
Volse lo sguardo verso ovest. L’ignoto ovest. Bene o male, ad est sapeva cosa ci fosse, che terre e che abitanti. Al di là di Lacedimora e della Setturnia, la Zoah e le cupe Terre Selvagge, note solo agli zoari.
Ad ovest, oltre all’Isola di Gorm conosciuta solo da lui –e da Magor - , il buio più totale. Si diceva esserci un oceano sterminato popolato da dragoni marini che nessuna imbarcazione poteva solcare.
Ad ovest, ne era convinto, lì il Vecchio Saggio poteva trovare un aiuto, qualcuno che lo appoggiasse nella sua missione di convincere i gormiti ad attaccare il Vulcano, e a sconfiggerlo.
E ad ovest si recò, a metà dell’anno 857.>>

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Capitolo 32
*** Capitolo 14.1 ***


Lafivias: “Quella visione di Buferios…dei ‘tre cerchi e uno’, molto curiosa…come fai a saperlo?”
Il Cronista, un poco beffardo: “L’ho chiesto a Buferios stesso, ovviamente. È ancora vivo e in salute presso Orsol.”
Lafivias, interdetta e imbarazzata: “Ah. Sì, capisco. Ma…come avete capito in primo luogo del collegamento tra Magor, la Lancia dell’Oblio e Buferios? Insomma, come sapete cosa sapeva Magor?”
Il maestro, a metà tra il riso e l’orgoglio: “Non lo sapevo. Queste sono ricostruzioni, ti ricordo, e lo ricordo anche a te. Quando narro, non sono quasi mai i fatti veri e schietti che state ascoltando.”
“Oh…è vero.”
Questa fu l’unica discussione di un certo rilievo e abbastanza corposa che, al termine della lezione nel giorno successivo, alle diciottesima ora, fu tenuta tra maestro e alunni. Sin da quando entrarono nell’aula – in leggero ritardo, cosa assai particolare per Lafivias – il Cronista notò che non sembravano, né l’uno né l’altra, nella solita, normale – diversa tra i due – attitudine all’ascolto e all’attenzione. Sembravano davvero distratti, svogliati, come stanchi in seguito a un non ben noto impegno che, per spiegare il ritardo, nessuno dei due osò definire.
Il che era davvero motivo di sconforto per l’anziano mentore, che in quella lezione aveva esposto una parte estremamente affascinante ed avvincente della storia di Gorm del tempo di Razael e di Magor, il primo conflitto aperto tra Terra, Mare, Foresta e Aria, Vulcano, gli scontri memorabili, i personaggi simbolo della battaglia tra le nuove fazioni, la fine devastante della lotta.
Tra intrighi magici di primo livello, dispiegamento di forze e di mezzi – il dragone, l’entrata in scena del Vecchio Saggio – completamente nuovo, antichi manufatti gormitici riportati alla luce, dimostrazioni di potenza magica ed elementale senza pari, c’erano tutti gli ingredienti per un racconto epico da tenere gli occhi incollati alle labbra dell’oratore.
Così non era stato. Osmaniu e Lafivias sembravano davvero avere la testa da qualche altra parte, e questo, perdonabile per il figlio, si poteva tollerare di meno per Lafivias, che voleva fare della ricerca storica la sua vita – a suo dire. A malapena mise mano alla penna e al suo quaderno, e si vedeva benissimo che non ci metteva impegno, non ci metteva la solita energia, che anzi faticava per tenersi a tempo con i dati che elencava il Cronista, era per lei uno sforzo maggiore di quanto lo era mai stato. Ciò non poteva affatto essere colpa di un cambiato metodo o ritmo del maestro che, benché il timore gli fosse venuto, sentiva di stare insegnando come aveva sempre fatto con lei.
Un minimo di attenzione e di fascino maggiore e soddisfacente per il Cronista venne da parte di Osmaniu che, come del resto il Cronista si aspettava, fu esaltato dal resoconto delle lotte, dalle tattiche brutali di Orrore Profondo, la spietatezza del misterioso cavaliere, un’agitazione però episodica e che non sopravviveva alla fine del racconto della lotta in questione. Notò infine che erano decisamente più…appiccicati l’uno all’altro del normale; in più di un’occasione, anzi, Lafivias si abbandonò su Osmaniu: una dimostrazione pubblica di affetto inusitata, giacché il Cronista – e presumibilmente anche Atarros – non li aveva visti nemmeno baciarsi davanti a qualcun altro. Un tentativo di approccio professionale al suo percorso scolastico, forse. Questo però valeva unicamente per il Cronista ed esclusivamente quando si trovavano in quell’aula. Perché trattenersi in altre occasioni, e di colpo darsi in una tale dimostrazione proprio quando il trattenersi era più richiesto – se pur non dal Cronista, che non se ne faceva un problema – ?
Vista l’attuale condizione delle cose, il maestro non trovò utile proseguire la lezioni richiedendo altri chiarimenti dai due distratti pupilli, e li congedò.
“Per oggi abbiamo finito. – disse, sistemandosi enigmaticamente gli occhiali – Lafivias, ricordati di aggiornare la linea del tempo, domani la voglio vedere. Domani…alla stessa ora?”
“Va bene domani alla diciottesima ora, sì. – rispose quella alzandosi insieme ad Osmaniu, entrambi già sull’uscio in pochi secondi – Arrivederci, maestro. A presto, anzi.”
“Sì, ci vedremo a cena tra poche ore. Osmaniu, tu resta, devo parlarti un attimo.”
“Oh, d’accordo, padre. A dopo, Lafivias.”
I due si separarono molto lentamente, lasciando andare le mani fino ad allora intrecciate con un pathos abbastanza ridicolo, dito per dito. Quando Lafivias fu infine oltre la porta chiusa, il Cronista si avvicinò al figlio adottivo. Lo squadrò con espressione vuota per qualche istante. Quello non sapeva bene cosa pensare, si trovò un poco a disagio, e quando aprì la bocca per esprimere la sua preoccupazione, il padre lo anticipò, accennando uno strano sorriso che però non aveva nulla di malizioso o di irriverente.
“Com’è stato, Osmaniu?”
“Come…come è stato cosa?” chiese perplesso l’altro.
“Il tuo tempo con Lafivias.” Dall’aria che assunse nello sguardo e nel portamento, era chiaro a cosa si riferisse, cosa avesse compreso.
“Ah…ah, sì, bello. – si fermò, trovando imbarazzante e sminutivo quell’aggettivo – Come può non esserlo?”
“Concordo, concordo. Sono contento per te.”
“Non…non è la prima volta, comunque. Né con lei, né in assoluto. Volevo…precisarlo.”
“Ti ho sempre visto molto precoce. E per lei?”
“Non l’ho chiesto.”
“Be’, ha poca importanza, figliolo. L’importante è stare bene con se stessi e con gli altri. Vai, ci ritroviamo a cena, o in giro.”
 
Gli interni del Tempio di Roccia erano di una ricca rusticità. Non c’è altro modo più efficiente ed esplicativo per descriverlo. La ricercatezza nella struttura e nella decorazione degli ambienti del palazzo del Signore era di una semplicità accecante, ciononostante gli arazzi che pendevano dai pioli sulle pareti, vasi e anfore monocromatici poggiati su piedistalli prismatici davano all’intero Tempio un aspetto ricco e sofisticato, di signore di campagna, ma pur sempre di signore. E che signore! Il padrone incontrastato e quasi al di sopra della legge, che tutto poteva, di un Popolo di fabbri magici di terra e pietra. Questo fino allo scadere dei cinque anni. C’era qualcosa di molto strano e curioso nel metodo governativo dei gormiti, il Cronista non lo nascondeva.
Mentre il Signore Atarros e gli altri ospiti della cena attendevano in piedi, servitori esclusivamente terricoli preparavano ogni cosa per il pasto. Piegarono il pavimento: immisero all’interno di cavità due ante di esso, e sotto altri due pannelli, dopodiché fecero elevare un ampio e lindo tavolo rettangolare insieme a un gruppo di dodici sedie, già accomodate con dei cuscini foderati.
Atarros si sedette sul suo seggio distinto a capotavola, e non appena diede il consenso formale, un gesto allungato con la mano, tutti presero i loro posti, scelti a loro discrezione, eccezion fatta per Lafivias e il consigliere di Atarros, l’una alla destra e l’altro alla sinistra.
Dall’altro capo della tavola, sedeva un ambasciatore elfo e due sue guardie del corpo o accompagnatori che fossero, una donna e un uomo. Il Cronista non ricordava di che occasione si trattasse, ma era certo che sarebbe stata rievocata durante il pasto.
Gli elfi indossavano tuniche decisamente simili tra di loro, se non proprio omologate, distinte soltanto per i colori – di un identico uniforme grigio per le due guardie, azzurro e arancione per l’ambasciatore –  e per un mantello con spalline, un curioso copricapo – ora riposto sul tavolo di pietra; una sorta di panno bianco panna riavvolto su se stesso che culminava in una piuma verde – del messo e per una serie di spille colorate sull’estremità in alto a sinistra della divisa dello stesso.
L’ambasciatore portava una folta capigliatura riccia e bruna, quasi caotica; un viso appuntito e squadrato, dalla mascella forte, decisa ma al contempo gentile. Recava numerosi orecchini. La donna che lo accompagnava era pelata e anch’essa addobbata di un buon numero di gioielli. L’uomo era invece biondo – e ovviamente dai capelli lunghi.
Pur essendo rimasto confinato a Gorm da diversi anni, comprendeva dal loro abbigliamento con le braccia scoperte per metà e i calzoni curiosamene gonfi alle estremità, le babbucce dalle punte estremamente lunghe ed arricciate, l’esuberanza di monili e dalla carnagione ramata che non erano della stirpe di Magor e di Razael, non erano uomini di Lacedimora.
“Signore di Roscamar. – esordì inaspettatamente l’ambasciatore – Se permettete, trovo che questa non sia l’occasione più adatta per trattare dei nostri affari.”
“Silenzio, per favore, sir Leppelin. – lo interruppe un poco infastidito Atarros – I pasti sono alla stregua di una celebrazione presso la nostra gente, e sono l’occasione adatta per ogni cosa, fidatevi, ve ne prego. Se temete per la segretezza di ciò che avete da dirmi, potete stare sicuro che nulla uscirà da queste mura, queste sono persone fidate, e che, se lo riterrete necessario, adopererò rimedi magici per garantire il silenzio. Ve ne prego, accettate le nostre pietanze. Potremo parlare tranquillamente mangiando.”
Detto questo batté le mani, e da una porticina nascosto entrarono i camerieri con la prima portata. Mentre questi servivano con cura e sveltezza i ricchi piatti del pasto serale, iniziando da stuzzichini come antipasto – e anche un pastone leggero per il Cronista, che gli ospiti elfi osservarono con curiosità – l’attenzione del maestro forestale fu catturata dalla possente figura del Signore Atarros a capotavola, illuminata dalla luce dell’imminente crepuscolo che filtrava da una finestra lontana, alla sua destra. E che pareva dargli fastidio, tant’è che ordinò a un cameriere, prima che tornasse in cucina, che fosse chiusa. Alto, molto alto sopra il suo seggio, quasi quanto il Signore della Terra Thorg, sovrano negli ultimi anni della permanenza del Vecchio Saggio sull’Isola, estremamente massiccio nella sua muscolatura bruna come terra riarsa, dall’ampio capo cornuto – corna piccole e grigie, coniche sopra le tempie – di vaga forma equina – curioso questo elemento, vista l’assenza di cavalli su Gorm, com’è curioso del resto descrivere come felini alcuni gormiti quando non esistono gatti su Gorm… – fino ai gonfi avambracci ricoperti di bracciali dorati e ai grandi zoccoli argentei e duri che terminavano le tozze gambe, tozze ma ben idonee a una corsa invidiabile. Una figura di tutto rispetto, temibile per potenza e massa muscolare. Eppure, non era la sua abilità nella lotta il suo tratto saliente – che, per quanto indiscutibile, non era stata dimostrata in molte occasioni –; forse i tempi mutati, forse proprio l’inclinazione naturale di Atarros, egli era un gormita assai poco attivo e molto più sedentario, dedito alla burocrazia, alla diplomazia, a lunghe letture e a lunghe scritture sulla sua personale scrivania signorile, come anche nel tempo libero. Raramente, ma con frequenza programmata, si dedicava ad esercizio fisico, in genere la corsa e la scherma.
Con un gesto secco della mano, impose a tutti il silenzio e l’immobilità. Raccolse per primo la propria forchetta e addentò un cubetto di salmone affumicato dell’antipasto. Lo masticò ripetutamente prima di inghiottirlo e, con un cenno sorridente, dire: “Potete mangiare.”
Antica tradizione presso gli individui altolocati per garantire che il cibo che l’anfitrione offriva agli ospiti non era avvelenato.
Col passare delle portate e tra il viavai dei camerieri, il Cronista si accorse di aver concentrato il suo interesse inutilmente verso una figura ben nota, e di essersi lasciato scappare un dettaglio decisamente singolare nei riguardi delle persone che aveva intorno.
Infatti, cinque camerieri non erano gormiti: erano elfi, e nel portare e ritirare i piatti e nel versare le bevande ai tre elfi in ambasciata tradivano un certo disagio. Ben presto tutti i misteri di quella cena furono sfittiti.
Disse infatti Atarros: “Sir Zed Leppelin, parlate pure. O se volete attendere la fine della cena, ben venga. Sappiate che potreste dover aspettare molto, però.”
“Non sarà un problema destreggiarmi al contempo con la lingua e con i denti. – ribatté l’elfo riccio dai molti orecchini – Atarros Signore di Roscamar, sapete già per cosa siamo qui. Avete ospitato presso di voi dei fuggiaschi dalla città di Erian, ne avete fatto i vostri lavoratori personali. Sapete già anche che questi cinque elfi che lavorano tra le vostre mura sono dei criminali che sono fuggiti dalla giustizia della nazione a cui legalmente appartengono. La camera alta di Erian capeggiata dal ministro Atislaf esige che voi spediate questi uomini da dove sono venuti.”
“Sì, sono perfettamente al corrente della situazione degli elfi che ho preso con me. – fece Atarros pazientemente, posando la forchetta e pulendosi le labbra con un tovagliolo. – Tuttavia, qui su Gorm si trovano sotto la mia legislazione e sotto quella del Consiglio dei Signori e non sono macchiati di nessun reato penale. Delle colpe che hanno, dovranno farne i conti con se stessi, e badare di non commetterne sul mio territorio poiché, come esiliati e come non-gormiti, non possiedono gli stessi diritti degli altri miei cittadini, e la mia magnanimità nei loro confronti può da un momento all’altro mutare aspetto.”
“Voi non comprendete appieno il concetto, Signore. – si impuntò, giustamente, pensava il Cronista, l’ambasciatore – Prima di essere vostri cittadini (con che procedura siano realmente diventati vostri cittadini, inoltre, il ministro Atislaf vuole esserne messo al corrente) essi sono cittadini di Erian colpevoli di furto, di incendio doloso e altri reati minori che non mi prendo la briga di elencare. Sta di fatto che anche se come cittadini di Garsomor sono onesti e puliti, per la giurisdizione di Erian sono colpevoli. Hanno danneggiato delle persone, e queste persone reclamano a buon diritto giustizia. Si tratti la questione moralmente, Signore Atarros: davvero vorreste che i crimini da loro commessi rimangano impuniti e le famiglie derubate da costoro non vedano questi ladri nelle condizioni che meritano?”
“Da un punto di vista morale, è opportuno chiedersi perché queste famiglie vogliano così ardentemente vedere i miei elfi dietro le sbarre o ai lavori forzati. Sembra quasi un desiderio morboso, e tutto ciò che è morboso non porta mai bene. Se a queste famiglie sono già state consegnate le risorse rubate, non credo ci sia altro che debbano richiedere. Ditemi, vige la pena di morte presso la vostra nazione di Erian?”
“Non per i reati da loro commessi.”
“Dunque, in tal caso, gli elfi criminali rimarranno miei ospiti e cittadini di Roscamar. Se il Signore dopo di me deciderà altrimenti, vi avviserà. Sono pronto a soddisfare con il denaro, anche personalmente, la brama di giustizia di queste vostre famiglie. Dichiaro la questione chiusa, prego, continuiamo il nostro pasto. Vi sono ancora numerose portate prima del dolce.”
Riprese in mano la forchetta e si impegnò nel suo piatto di vermicelli di pasta di farina in sugo di cinghiale ignorando gli sguardi dei tre dalla parte opposta.
Zed, al contrario, rimase a fissare Atarros malignamente per lungo tempo, quasi volesse schiacciarlo con le palpebre compresse a quel modo. Chissà cosa faceva Atarros così ostinato nel mantenere presso sé quei cinque disgraziati, si chiedevano il Cronista e probabilmente anche Zed.
“Il ministro Atislaf ne vorrà senz’altro riparlare, Signore di Roscamar. La questione non è chiusa.” E seguitò anche lui nella cena.
 
<< Bianche erano le rive sabbiose: una sabbia fine, soffice come i petali di margherita e lucente come polvere di quarzo. Per la spiaggia e lungo il sentiero che conduceva in città crescevano forti alberi dalla dura corteccia mai visti in altro luogo del Grande Golfo.
Il tronco procedeva in alzato lineare, leggermente obliquo e senza ramificazioni; all’estremità superiore vi era un amalgama di grandi e lunghe foglie color smeraldo, a triangolo ricurvo.
Tra le foglie, in alcuni alberi che accostavano la strada vi crescevano dei frutti: a volte grossi ovali bruni, quasi di pietra, ricoperti da una grezza peluria, oppure grandi grappoli come d’uva ma di una tonalità marroncino e decisamente più corposi, oppure ancora dei mazzetti di gonfie e gialle lame curve.
Come la spiaggia, lo stesso suolo dove si coltivava, su cui si camminava e si costruivano le abitazioni era di un colore anomalo, almeno per ciò a cui era abituato il Vecchio Saggio: un’ocra pallido e sfocato, quasi sabbia ma con la durezza e la densità della terra da pascolo.
Le strade principali erano lastricate con innumerevoli, piccoli, pressoché di ugual misura quadrati bianchi, puliti nonostante il passaggio degli abitanti.
In bivi e incroci le solite tessere color avorio erano accompagnate da quadri di numerosi altri colori che si mescolavano e alternavano per dare vita a una varietà di piacevoli disegni astratti.
Per tutte le strade, tra tutte le case, persino in prossimità della spiaggia aleggiava un gradevole profumo di spezie e balsami, aromi proveniente da ben oltre i paesi noti al Vecchio Saggio a qualsiasi elfo.
Poteva riconoscere solamente alcune delle tante fragranze che si mescolavano. Rosmarino, cannella, aloe, origano, limone, ad esempio. Tutti gli altri aromi giungevano non familiari al naso dello stregone.
Da dove si originassero tali effluvi, non si riusciva a raccapezzarcisi. Non vi erano mercati, dai camini delle cucine non fuoriuscivano fumi; men che meno vi erano persone che sventolavano rametti di salvia al vento o che gettavano oli profumati agli angoli delle strade.
Semplicemente, era l’odore degli abitanti, i profumi della loro patria che si erano portati con sé.
Le abitazioni, gli edifici religiosi, i ponti e l fontane erano a primo impatto molto simili a quelli del Popolo dell’Aria, raffinati, eleganti, equilibrati, ma lo stile era profondamente divergente.
Dove gli aerei, basandosi su forme geometriche regolari e su regole fisse, realizzavano opere in perfetta simmetria ed equilibrio, gli abitanti qui erano più proni a improvvisare e ad utilizzare forme più complesse ed elucubrate.
Per ogni monumento architettonico, gli artisti prendevano una figura geometrica e la modificavano rendendola più curva e alterandola il più possibile, ripetendo le curve in tutto l’edificio o cambiandole sempre lungo le facciate, nell’interno e sul tetto o cupola.
In questo modo le case erano tutti un insieme di archi di cerchio, sinusoidi, ellissi, spirali, colonne a torciglione, piante ricurve e complicate.
Gli abitanti, rari a vedersi fuori dalle mura familiari, camminavano flemmi con curiosi sandali, nascosti in lunghe vesti semplici e dai colori chiari, con solamente il capo, le mani e i piedi di sette dita scoperti.
All’infuori delle guardie armate che lo accolsero –nel modo delle guardie - nell’isola, nessuno gli rivolse la parola. Il silenzio era tiranno, e solo i rari melodici canti di qualche uccello esotico gli si ribellavano.
Tutto era rimasto com’era durante l’ultimo soggiorno dello stregone, così com’era durante il primo.
La meta dello stregone, il palazzo del regnante nella capitale, adorno di statue degli antenati e di drappi con gli ideogrammi della loro lingua, non faceva eccezione.
Lì come nel resto del paese il tempo pareva essersi fermato, ma non per il Vecchio Saggio e gli abitanti, invecchiati a – quasi - ugual modo.
Alcune guardie all’entrata lo fermarono, richiedendo identità e scopo della visita. Il Vecchio Saggio confermò di essere lo stregone elfo di Gorm amico dell’attuale sovrano giunto per un dialogo con il Sommo Signore.
Dopo brevi attimi di silenzio e scarse parole, lo lasciarono passare senza tante storie.
Dopo alcuni gradini, il Vecchio Saggio rimosse le proprie babbucce e le ripose su uno dei due tappeti laterali, che già ospitavano diverse calzature, sandali in gran parte, e procedette scalzo come d’usanza per la prossima stanza.
Un ampio salone si aprì di fronte a lui, diviso in tre da due colonnati. Le pareti erano intervallate da bassorilievi e pendoni appesi, e porte. Al centro delle due file di colonne, sul fondo della sala, si ergeva un trono al convogliare di tre modeste gradinate, due laterali sulla stessa retta e una perpendicolare centrale. Quattro guardie, ad ogni angolo, sorvegliavano la stanza quadrata.
“Cordiali saluti, Sommo Signore.” Il Vecchio Saggio lo salutò, schietto come volevano quelli del luogo e senza inchini. Da quelle parti la venerazione del sovrano era molto meno accentuata che in altre società note al Vecchio Saggio.
Il Sommo Signore, seduto al suo trono, spalancò le braccia e si alzò. Il suo vestito, dalle ampie maniche e il lungo strascico, era leggermente più sfarzoso della solita veste. Il volto era coperto dal tradizionale elmo - corona bianco, un prisma regolare con una fessura a bivio in corrispondenza di bocca e occhi, e i cinque spuntoni all’estremità, simbolo della sovranità.
“Benvenuto, anzi, bentornato, Vecchio Saggio.” esclamò solenne. La sua voce, altrimenti limpida e matura, pareva accompagnato da un leggero brusio, come fosse raffreddato –lo stesso valse per tutti coloro con cui parlò.
“Bentornato in questo nostro grande tempio di meditazione e serenità.”
I due si avvicinarono l’un l’altro e fecero baciare le loro mani, come dicono nel posto, facendo toccare i palmi aperti. Il tradizionale saluto.
“Lunghi anni sono trascorsi dalla vostra ultima visita. Pensavamo la morte vi avesse colto. Sapervi ancora in vita ci rasserena.” disse sotto il suo elmo. Il suo tono non era però esattamente caloroso: era quasi distaccato, disinteressato. Dovuto, come sapeva bene il Vecchio, ad alcune loro particolari abitudini di vita.
“Me ne rendo conto, Sommo Luminescente III. - si scusò cordiale lo stregone - E me ne dispiaccio. Purtroppo ho avuto i miei impegni sull’Isola di Gorm.”
“Io e noi tutti ci auguriamo che la vostra serenità non sia stata compromessa.” annunciò, voltandosi di spalle e facendosi seguire dallo stregone.
“Ah. Vi ho recato dei doni.” disse poi il Vecchio Saggio, facendo segno al suo interlocutore di attendere un momento, mentre, da una borsa a tracolla bruna, estraeva un paio di bottiglie.
“Per quanto piccoli, spero siano di vostro gradimento. Agromanto.” annunciò fiero il Vecchio Saggio
“Prodotto da me, tre anni fa. Una delle ultime bottiglie, purtroppo. Ho sempre meno tempo da dedicare ai miei piaceri.”
“Il tradizionale liquore gormitico. Avevo quasi dimenticato il suo sapore. Lo accetto ben volentieri. - disse il Sommo Luminescente - Cosa c’è nell’altra bottiglia?”
“Vino. - rispose - Nella ricetta della mia vecchia città a est. I vigneti però non sono gli stessi, e non può dirsi lo stesso vino.”
“Apprezzo i vostri doni. - affermò il Sommo Signore, prendendo tra le sue dita dure e grinzose anche quella bottiglia. Poi, dalla fessura della corona, il suo volto finora apatico si fece leggermente rattristato - E’ gradevole avere qualcosa che mi ricordi dell’oriente.” sospirò, in un tono che per la prima volta lasciava trasparire un’emozione.
Lasciò infine la presa sulle due bottiglie. Con lenti gesti della mano, le fece muovere, vibranti a mezz’aria, fino a farle poggiare sul bracciolo del suo trono.
“Dubito che siate giunto qui, dopo tanto tempo, solo per rendermi omaggio.” osservò, liberatosi delle due bocce.
“Infatti. - confermò lo stregone - Vorrei parlarvi…in privato.”
“Certamente.” acconsentì lui, con un cenno.
Batté le mani una volta, ed ordinò: “Guardie, lasciateci soli.”
Obbedienti, i quattro uomini armati, procedendo compostamente, abbandonarono la stanza, stanziandosi al di fuori della porta d’ingresso della stanza.
“Finalmente. - sospirò di sollievo il Vecchio Saggio, chinandosi leggero sul suo bordone, come liberato da un grande peso - Non riuscivo più a dare del voi a un amico, El’issam.”
“Era regola. - si scusò lui - Come Sommo Signore, devo mantenere un tono professionale in pubblico. Ora non me ne devo più preoccupare.”
Passarono diverso tempo a dialogare del più e del meno, sorseggiando l’agromanto che tanto piaceva a El’issam, e discutendo serenamente di argomenti disimpegnati. Per quanto entrambi volessero semplicemente rilassarsi e chiacchierare da buoni amici, il Vecchio Saggio era lì per uno scopo preciso, ed El’issam sentiva che la sua non era una mera visita di piacere.
Lo stregone si asciugò la barba, e ripose il bicchierino di cristallo sul bracciolo.
“In verità, sono qui per chiederti un favore. - sostenne, grave - Prima, però, devo rivelarti alcune informazioni su…l’Occhio della Vita.” mormorò, a voce bassa, guardando con fare sospetto l’amico sovrano dal basso in alto. Non perché fosse più alto, ma per scorgere la sua reazione.
“Ah, l’Occhio della Vita. - esclamò liberamente, tranquillo, El’issam - Ho sentito diversi dei gormiti giunti qui in meditazione accennare a quest’artefatto. Credo di ricordare sia un oggetto sacro.”
“Lo era. - annuì il Vecchio Saggio - Lo è ancora, per alcuni. Ma è molto più di quanto tu possa credere, di quanto i gormiti stessi credevano fosse, fino ad alcuni anni fa.”
“L’Occhio della Vita… - iniziò lo stregone, tremante - E’ molto, molto pericoloso. E’ un’immensa fonte di energia, energia di natura ignota e dalle innumerevoli capacità. L’involucro stesso ha le sue abilità. Credimi, le ho provate entrambe, anche se non tutte, temo.”
“Che genere di abilità?” domandò incuriosito El’issam, ma impassibile e non si leggeva nel suo volto scuro lo stesso cupido lume che aveva scorto negli occhi di Magor, anni e anni or sono.
“Può generare visioni, entrare nelle menti delle persone.” rispose prontamente il Vecchio Saggio, libero da qualsiasi timore ma sempre attento al modo in cui El’issam reagiva.
“L’energia che può sprigionare è capace di trasformare gli uomini, o così mi hanno riferito alcuni gormiti, e può riempire le pietre preziose di calore.”
Il Sommo Luminescente tacque, rigido. Senza sentore di ulteriori domande, il Vecchio Saggio proseguì.
“Da quando scoprii le sue potenzialità, fu mia ferma intenzione distruggerlo per la pericolosità che rappresentava. Nonostante anni di studi, non sono ancora riuscito a trovare un metodo per estinguerlo in modo sicuro, senza effetti collaterali. I gormiti sanno di ciò, e mi appoggiano, come ringraziamento per i favori che ho offerto loro.”
“Forse ricordi quando ti parlai dello Stregone di Fuoco.” mutò apparentemente e improvvisamente discorso, lievemente irritato dalla freddezza del suo ascoltatore.
“Lo ricordo…per merito dei lugubri racconti dei centinaia di rifugiati a seguito di quello che chiamano Grande Sacrificio. - affermò - In anni di meditazione, qui turbati gormiti hanno imparato a reprimere la paura generata dal ricordo di quell’orrore.”
“E’ la guida del Popolo del Vulcano, fautore del Grande Sacrificio.”
“La guida che vuole il controllo dell’Occhio della Vita e del suo potere per sottomettere i popoli. - continuò a voce alta e severa - La ragione per cui l’Occhio deve essere distrutto, la causa del mio ritardo nel farlo.”
“Fermati, fermati, Vecchio Saggio. - lo fermò effettivamente, turbato alla lontana dalla veemenza dell’anziano amico, il Sommo Signore - Ho bisogno di chiarimenti.”
“Tu, Vecchio Saggio, Razael (quella gente non conosceva nulla del Grande Golfo, e per questo Razael si era sentito sicuro nel rivelare il suo nome, ma non abbastanza per dire la sua storia), sei pienamente, totalmente sicuro della natura dell’Occhio della Vita, della sua pericolosità, della necessità di eliminarlo? Hai accennato a poteri sulla mente: hai mai preso in considerazione l’idea che l’Occhio della Vita possa aver avuto presa sulla tua, ti abbia annebbiato la visione delle cose, “o che ti stia usando?”
Il Vecchio Saggio si irrigidì, strinse i pugni, corrugò la fronte. Era un grande affronto, quello. La tranquillità con cui El’issam poneva la domanda, con cadenza tutt’altro che provocatoria, lo irritava ancora di più. Stava mettendo in dubbio le fatiche, i sacrifici di una vita prolungatasi ben oltre i normali limiti.
“Sono cosciente - riprese El’issam - della tendenziosità di tale domanda. Per questo ti chiedo di stare calmo, di non andare in escandescenze. Non voglio incolparti di nulla, è una mera precauzione, nonché una domanda che anche tu, al mio posto, avresti fatto.”
Il Vecchio Saggio prestò fedele attenzione ai suggerimenti dell’amico.
Chiuse gli occhi per un istante, cercò di trattenersi, di mantenere la compostezza, proprio come El’issam e gli altri abitanti.
“Sì, l’ho presa in considerazione. - affermò, ancora con gli occhi chiusi - E mi sono chiesto: perché l’Occhio della Vita mi influenzerebbe, mi convincerebbe che devo annientarlo? Non ha senso, e quindi sono andato avanti per la mia strada.”
“Ha una sua logica. - ponderò El’issam - Non metterò più in dubbio la tua sanità mentale, per ora. Un’ultima domanda. Hai una tua idea sull’artefice dell’Occhio della Vita? Credi sia opera dei Precursori?”
“I…Precursori? - ripetè interrogativo Razael, grattandosi la barba - Non capisco cosa intendi.”
“I Precursori. - ripetè a sua volta El’issam, come fosse una cosa ovvia - Mi riferisco alla razza primordiale, gli inventori della magia.”
“Oh! - gridò il Vecchio Saggio - Sì, capisco ora. Coloro di eoni or sono che ci hanno lasciato i loro archivi di conoscenza, con i graffiti e le incisioni. A oriente e a Gorm li chiamiamo Aborigeni.”
“Ebbene, ritieni sia opera loro?” riformulò la domanda precedente.
Il Vecchio Saggio non sapeva che dire. Non ricordava se effettivamente ci avesse mai riflettuto. Si grattava nuca, barba, mento, balbettava.
“Be’, …uh, non  on ho mai visto un archivio degli Aborigeni e…di quelli dei gormiti, almeno, e, uh.” borbottava. El’issam lo guardava vagamente divertito.
“Anzi, sì, cioè…tavolette sparse. Ho-ho lavorato su alcune insieme ad altri, e l’esperimento è stato quello…quello che mi ha reso famoso. E-e poi so di un altro archivio, e di un altro esperimento passato, andato non proprio bene…però, boh.”
“Per quel che so, gli archivi sono solo incisioni sulle pareti e pitture esemplificative. Gli Aborigeni non ci ha lasciato nulla di concreto. - concluse - I gormiti, alcuni, parlano di una civiltà che viene dalle stelle, gli Osservatori, che usa l’Occhio per-per osservarli, appunto. Forse sono la stessa cosa, forse la verità è da tutt’altra parte. Non so cosa dirti più.”
“Siamo al punto di partenza. - osservò El’issam - Poco male. Hai fatto del tuo meglio ad argomentare, e hai dimostrato buone doti oratorie, sebbene balbettassi.”
“Comprendo il tuo enorme impegno, e l’importanza dei tuoi esiti.” asserì poi il Sommo Signore. Del resto, si parla di dominio del mondo, e Karmil, fino a prova contraria, ricadeva in esso e Magor sapeva della sua esistenza e ubicazione. Ma le possibilità nefaste generate dalla sconfitta del Vecchio Saggio parevano non disturbare la serenità del Sommo Signore dei ka’nhili.
“Comprendo anche la segretezza. La tua fiducia in me è ben riposta, te lo prometto. Tuttavia, non capisco che favore io possa darti. Confido che la mia gente possa vivere in pace con l’eventuale regno dell’Occhio della Vita, che da esso possa scaturire qualcosa di buono nonostante i tuoi timori.”
“Mi auguro che sarà così, se fallisco.” brontolò il Vecchio Saggio, convinto del contrario.
Poi sbiancò.
Per la prima volta in anni del calendario del Grande Golfo che non riusciva a contare, il piccolo e anziano stregone sentiva nella maniera più totale il massiccio peso che gravava sulle sue spalle.
Fino ad allora, pensava che la conquista o meno dell’Occhio della Vita avesse ricadute solo su Gorm e i gormiti, straordinaria razza di mostri padroni degli elementi. Ora le cose erano cambiate, sebbene in verità fossero sempre state così. In che caos si era cacciato!
Non lo consolò sapere che il marchingegno per estrarre l’energia denominata neozon e convertirla in termica fosse abbandonato, perduto e roso dal tempo, che la civiltà che lo costruì era lontana chissà quanto, forse irraggiungibile, né che senza queste cose l’Occhio della Vita era pressoché inutile, agendo solo di propria iniziativa.
Sapere che il probabile destino di quel mondo che i ka’nhili chiamano Mitera dipendeva da lui lo fece sentire male, come mai prima d’ora.
E come mai prima d’ora, voleva mettere fine a tutto ciò, mettere a posto ogni cosa e andarsene, scappare per vivere in pace gli ultimi anni e morire in un posto tranquillo dove nessuno si sarebbe curato di lui o della sua identità.
Oramai il ritorno a Lacedimora era un sogno lontano e dimenticato; sicuramente Nadia –era quello il suo nome? - , il compagno e il loro figlio Fabian non lo ricordavano più, il sindaco Asdurges poteva essere morto. Magor, il suo più fedele amico, lo aveva perduto da tempo ed era irrecuperabile. La fama di più grande stregone del suo tempo non lo importava più…che cos’era in confronto a quella di anonimo salvatore del mondo? Cosa ancora lo spingeva a combattere, a vivere? Solo distruggere l’Occhio della Vita, porre fine alla minaccia che rappresentava in qualsiasi modo, ora che ne era al corrente; era questa la sua missione, e abbandonare poi ogni cosa, poiché ogni cosa a cui teneva davvero lo aveva abbandonato, strappatagli dal destino o dagli déi avversi.
Ed ecco che, per realizzare i suoi sogni, aveva bisogno di aiuto.
“Comunque, lo Stregone di Fuoco, dicevo.” riprese, col volto di nuovo colorato. Dopotutto, aveva già fatto grandi cose in passato, superato ostacoli insormontabili. Doveva essere convinto di poterci riuscire.
“Se non fosse per lui e per i suoi costanti tentativi di conquistare i gormiti e…di uccidermi, saprei molte più cose sull’Occhio della Vita di lui stesso. Sarei forse già giunto a una soluzione, e avrei sicuramente più tempo per rispettare ciò che i gormiti si aspettano da me.”
“Ora più che mai non sono in grado di concentrarmi perché M…lo Stregone di Fuoco ha corrotto una delle tribù di Gorm che prima seguiva me. Le genti alleate sono sempre state pacifiche, restie a mostrare i denti al loro nemico, limitandosi a mordere quando molestati. Ma non si può andare avanti così, il Vulcano non ci darà mai pace.”
“Non voglio scatenare un altro Grande Sacrificio, beninteso. E all’attuale parità di forze, un assalto a Monte Vulcano è rischioso. Quello che desidero è convincere i gormiti della verità, condurli a dare una lezione al Vulcano, fargli capire di che pasta sono fatti i miei gormiti, i miei figli…e in questo modo, tenerlo a bada, per darmi il tempo necessario per terminare questa missione.”
Il Vecchio Saggio parlava spedito, ininterrotto, camminando avanti e indietro, con continui gesti delle mani e del bordone, alternando intonazioni severe ad amorevoli a rabbiose e così via, da perfetto oratore. El’issam ascoltava in silenzio, imperturbabile e attentissimo.
“Come ho già detto, però, le forze si annullano. Per vincere, ho bisogno di qualcosa di cui il nemico non dispone, qualcosa che non può eguagliare.”
“Voi di Karmil siete celebri per la vostra esperienza nella magia e soprattutto nella forza magica. Non esigo un vostro intervento diretto nella campagna, il favore che ti chiedo è solo un vostro insegnamento della via della luce ai gormiti. Non raggiungeranno certo i vostri livelli, ma conosco bene i gormiti: imparano in fretta e sapranno mettere a buon frutto pochi mesi di insegnamento. Non è poco, me ne rendo conto. - e qui abbassò lo sguardo, umile, come un mendicante esigente al cospetto del re - è questo di cui ho bisogno.”
Il Sommo Signore non meditò a lungo la sua risposta, che però fu tutt’altro che risolutiva.
“E’ una richiesta di un certo peso. Chiederò udienza alla Consulta: non posso decidere nulla senza approvazione.”
Il Vecchio Saggio fu stupito. Non si aspettava un’apertura così…aperta e così rapida nei confronti della sua pretesa.
“Credimi.” disse poi, stringendo la mano di Razael tra le sue, ma era difficile capire cosa provasse El’issam.
“Sarei giunto in tuo aiuto durante il Grande Sacrificio, ma non conoscevamo ancora i gormiti, e tutt’ora non li conosciamo. La Consulta non poteva rischiare.”
“Anche oggi non può rischiare. Dovrà prendere in considerazione moltissime variabili, le conseguenze di rimanere invischiati in un conflitto non nostro, decidere se credere alle tue supposizioni.”
“Mi hai salvato la vita anni fa, e te ne sarò per sempre grato. Questo conterà qualcosa nell’udienza, ma finchè non sarà terminata non ti posso dare altre garanzie.”
“Se non questa. - esclamò, dopo una breve pausa, poggiando entrambe le mani bruno-verdi sulle sue spalle - Io non ti negherò il mio aiuto, dovessi insegnare la via della luce da solo a tutta l’Isola di Gorm.”
“Gr – grazie.” riuscì a dire, a stento trattenendo le lacrime per la commozione, il Vecchio Saggio.
“Se ciò che temi è vero, saremo noi a ringraziare te.”
***
Iustinsula non era più la stessa, da qualche anno.
Non era mai stata frequentatissima, e non lo sarebbe mai stata. Ma da qualche anno, dopo la grande celebrazione del Principe di Gorm, la sua antica rocca era stata rispolverata e ristrutturata, riempita con opere d’arte, teche con preziosi documenti e continuamente tenuta in ordine da volontari.
Come ormai accadeva dalla fine della Grande Guerra di Gorm –e anche prima: si ricordi l’incontro tra Gheos e Tasarau - , era il territorio neutrale dell’Isola, dove gormiti di ogni Popolo potevano riunirsi per discutere in modo pacifico e senza dover correre alcun tipo di pericolo.
Più che altro, però, era sede di importanti consigli politici le cui decisioni erano solite avere ricadute insulari.
Il Vulcano, come ci si poteva aspettare, non era visto di frequente sull’atollo. Orrore Profondo stesso aveva firmato, decisamente controvoglia e quasi certamente senza davvero accettare quanto scritto, il trattato con il quale veniva riconosciuta l’autorità del Principe Carrapax senza mettere piede sull’isolotto.
Del resto, tuttavia, i gormiti di Foresta, Terra, Aria e Mare non facevano nulla per far sì che la presenza vulcanica a Iustinsula fosse più consistente. Qualche rada volta, però, c’erano alcuni gormiti del Vulcano che approdavano all’isola in cerca di tranquillità. Pochi sono stati disturbati.
Ad aggiungersi al Popolo del Vulcano, da qualche mese ormai, anche il Popolo dell’Aria aveva cessato di calpestare il suolo di Iustinsula.
Il tradimento di Elios, la corruzione della quasi totalità del Popolo dell’Aria per merito suo, una lotta che ancora una volta vedeva facce amiche tra le fila nemiche.
Era tutto così recente, ancora così profondamente sentito da tutti, e sarebbero trascorsi anni prima che i Popoli alleati potessero accettare la realtà e combattere l’Aria come un avversario della stessa pasta del Vulcano.
Quel giorno, su Iustinsula, si sarebbe tenuta la prima riunione signorile in cui era assente il Signore dell’Aria, e la prima, del corrente mandato, che non avrebbe visto la figura di Barbataus come rappresentante della tribù di Dalarlànd.
Le sorprese non finivano lì, però, e sia gli invitati alla consulta che il responsabile avrebbero visto –e sentito - cose che non si aspettavano di vedere –o sentire.
Gli stessi curatori della rocca –che non erano mai più di due o tre - rimasero a bocca aperta, quando il Vecchio Saggio si presentò alle porte del piccolo forte, diretto, con largo anticipo rispetto ai Signori, alla sala delle riunioni, accompagnato da un eccezionale personaggio, che in ben pochi potevano riconoscere e i cui simili nessuno che fosse ancora vivo aveva mai visto fuori dalla loro meditativa, idilliaca e serena casa ad occidente.
La sala delle riunioni, qualora non l’avessi descritta a dovere, era una stanza emisferica verso il retro della rocca. Una discreta porzione del salone, al centro, all’imbocco dell’ingresso, era sgombra, con solo un piccolo ripiano di pietra su cui sedersi; ma gli oratori parlavano in piedi, e quella panchina, se così la si può chiamare, era raramente utilizzata.
A tre quarti intorno al semicerchio, in progressiva sopraelevazione, quattro file di spalti marmorei con aggiunte lignee paragonabili a scrivanie, per appoggiare fogli e strumenti utili all’argomento della riunione.
Perché proprio quattro, e perché gli spalti erano talmente spaziosi e grandi, rimane un mistero. Il numero dei gormiti in riunione non superava mai i dodici occupanti. Tre, quattro volte tanti potevano prendere posizione tra gli spalti e avere ancora ampio spazio per muoversi liberamente.
Partendo dai bordi del mezzo disco centrale vuoto, adiacenti alle pareti e riposte sul diametro immaginario del semicerchio, lo stesso sul quale si trovava la porta d’ingresso, salivano due piuttosto strette gradinate con le quali gli invitati alla consulta prendevano i propri posti negli spalti.
Il Vecchio Saggio, attendendo l’arrivo degli altri Signori, si sedette sulla panchina. Il suo insolito accompagnatore rimase rigido, in piedi.
Non fu molto loquace sin dal suo arrivo a Gorm. Il Vecchio si trovava nella Foresta Silente quando ebbe la notizia da certi forestali che un karmiliano era sbarcato a Dalarlànd e cercava proprio lui.
Dopo il suo breve soggiorno a Karmil, infatti, il Vecchio Saggio era ritornato su Gorm, prima che l’udienza del Sommo Signore fosse terminata, o tantomeno cominciata. I gormiti avevano bisogno di lui, in quegli anni difficili sotto diversi punti di vista.
Il messaggero ka’nhili era stato di poche parole, precise e rapide: voleva che si tenesse subito un incontro tra i rappresentanti dei Popoli alleati ai quali avrebbe pronunciato l’esito dell’udienza della Consulta ka’nhili, esito che per altro non aveva mai rivelato al Vecchio Saggio.
La cosa per lo stregone gli parve problematica all’inizio ma, riflettendo, capì che, anche se El’issam non avesse potuto recare l’aiuto richiesto, avrebbe comunque dovuto comunicare ai Signori lo stato attuale delle cose e la necessità di disporre di un periodo di pace prolungato.
Seduto, appoggiato al suo bordone, con milioni di pensieri che gli frullavano per la testa, il Vecchio aspettava.
Il messo del Sommo Signore rimaneva impassibile e immobile nell’attesa, rigido, sui suoi piedi di sette dita in quel momento ricoperti di stivali corazzati.
Così solido, come un tronco di sequoia, fermo nel mezzo del salone, silenzioso come il mare piatto, ma vivo, con gli occhi fissi in un punto indeterminato del soffitto, aveva una certa aria mistica che metteva in leggera soggezione il Vecchio Saggio.
“Eh–ehm.” tossì l’uomo, cercando di catturare la sua attenzione, che fino ad allora batteva continuamente il pavimento con la punta del suo bordone, impaziente. Il ka’nhili rimase saldato al suolo.
“Se posso… - iniziò, incurante che quello sembrasse ignorarlo - Forse se sapessi in anticipo cosa ha deciso la Consulta di Karmil, potrei articolare meglio il mio discorso davanti ai Signori, e…”
“Mi dispiace. - lo interruppe brusco, senza spezzare la sua mancanza di dinamicità. Solo le larghe labbra color nocciola, aprendosi e chiudendosi sottilmente e quasi impercettibilmente come le valve di una cozza, si muovevano - Mi è stato dato l’ordine di comunicare l’esito ai rappresentanti riuniti dei ‘Popoli alleati’.”
Il Vecchio Saggio abbassò la testa accondiscendente, e ormai rassegnato. Non era la prima volta che domandava di sapere, seppur in modi e toni sempre diversi, e ormai quello doveva essersi più che seccato di ripetere sempre la stessa cosa, anche se lo nascondeva alla perfezione, in quel viso che pareva aver dimenticato cosa fosse il sorriso o il pianto.
Era un volto che pareva elfo, a prima vista, o zoaro se si dimenticavano le corna, almeno da dietro. Ma uno sguardo più attento e più vicino lo rendeva molto diverso.
La pelle era un duro esoscheletro color sabbia scura, che presentava macchie uniche, uno dei mezzi con cui i ka’nhili si riconoscevano. Le orecchie, se di orecchie si può parlare, erano una sorta di insieme di tre piccole antenne appuntite ai lati del viso. Il naso, che svolgeva solo il ruolo di percezione degli odori, era una coppia di fessure rotonde, in un setto inclinato verso l’alto che poi ondeggiava di nuovo verso il basso. Ai lati della bocca molto sottile e ampia, sotto le orecchie - antenne, un paio di mandibole addizionali come tenaglie di una formica che servivano da ausilio per la comunicazione e il nutrimento.
Se qualcuno fosse ancora incerto, i quattro occhi fatti di sola iride, gialli come l’alba, disposti in coppie parallele separate dal setto nasale non lasciavano dubbi sul fatto che non fosse né elfo, né zoaro o altro.
Il Vecchio Saggio sapeva già bene come erano fatti i ka’nhili, con le loro gambe arcuate, la suddivisione in tre parti di torace e addome molto accentuata, specie nelle donne, i loro arti secondari corti, con solo tre dita negli uomini e poco mobili, che sono soliti tenere nascosti nelle vesti. La sua attenzione quindi ricadde dunque sull’armatura del messo, a cui era meno familiare.
Uno spesso tessuto di materiale flessibile e non rigido, non metallico, color platino, lo ricopriva da cima a fondo, rispettando le linee della sua figura e lasciando spazi scoperti in diversi punti del corpo, mai casuali o disordinati, che però erano protetti da una veste celeste leggera, ad eccezione del capo e delle mani.
Il metodo di respirazione di quella specie – che il Vecchio Saggio non aveva tuttavia avuto modo di studiare, solo supporre - non gli permetteva di foderare interamente il proprio esoscheletro, se non con vesti traspiranti. Per quanto riguarda le mani, chi meglio di loro sapeva che esse, quasi al pari della forza di volontà, sono il ‘motore’ della forza magica? Nasconderle sotto spessi guanti o cose simili equivale a promettersi di non manipolare la forza magica. Per una società che aveva l’uso e l’insegnamento della via della luce alle sue radici ciò era inammissibile.
Su questo tessuto protettivo, ad ogni modo, erano applicate piccole tessere di pianta rettangolare, di rigido, freddo e duro metallo dipinto di bianco. Ne risultava che il ka’nhili aveva un’armatura fatta da un mosaico di tasselli metallici e di ugual colore. In corrispondenza delle giunture delle braccia superiori e delle gambe e sul torace, tuttavia, le tessere candide erano state ‘dimenticate’ e al loro posto erano stati collocati anelli dorati, concentrici agli arti nel primo caso e saldato parallelamente al petto nel secondo. All’interno di quest’ultimo più ampio anello alcune tessere erano placcate in oro e insieme componevano un articolato ideogramma dal fosco significato.
Ai bordi del bacino rigonfio e a punta, sui fianchi e davanti ad esso, sotto la schiena, erano state forgiate tre placche rettangolari lievemente curve verso l’interno di un materiale più duro e rigido, argentate. Anche qui v’erano tessere bianche, ma notevolmente più grandi di quelle sul resto dell’armatura. Uguali placche con tessere ridimensionate erano state poste a rinforzare le spalle.
La spessa cintura dorata attorno alla vita recava, sul lato destro, una lunga spada completa della sua guaina, bianca con rifinimenti platinati. Era una lama come mai ne erano state forgiate su Gorm, da quanto si poteva dedurre dal fodero. Rettilinea, sottile, allungata, con una sola piccola curvatura all’estremità. La stessa impugnatura era straordinariamente lunga – forse per la maggior parte dei gormiti: per i ka’nhili dalle sette dita era la dimensione media con cui poter maneggiare comodamente un’arma - , di un materiale indefinito giallo, forse dipinto. Un lungo e intrecciato nastro bianco avvolgeva l’elsa e terminava in un lungo filo libero, non annodato.
Il Vecchio Saggio era seduto sulla panchina posta proprio davanti all’entrata, ma l’ambasciatore armato, in piedi, non dava direttamente né le spalle né il volto all’uomo: era inclinato con un’angolazione che permetteva allo stregone di osservare con attenzione ogni dettaglio del suo corpo, sia il viso che le ali che emergevano da un’apposita e volontaria apertura nel retro della corazza –e della veste azzurra. Ali che, se si dovesse cercare un loro corrispondente negli insetti più piccoli, potevano definirsi ali di zanzara ridimensionate su ampia scala: lunghe, decisamente poco larghe e non, come accadeva in vespe o mosche, con un’apertura convessa che le allontanava l’una dall’altra, bensì rivolte piuttosto verso l’interno e una sovrastante all’altra; nel suo caso la sinistra sulla destra.
L’attesa del Vecchio Saggio – il ka’nhili non soffriva il passare del tempo - giunse finalmente a termine.
Dalla porta aperta del salone delle riunione vide avanzare i tre Signori dei Popoli alleati, senza apparente compagnia –forse avevano guardie del corpo lasciate all’esterno, la sicurezza non era mai troppa - e lo stregone si alzò per dar loro il benvenuto. Il messo si volse, ruppe per la prima volta la sua immobilità per piegarsi in un leggero e compostissimo inchino.
Uno dopo l’altro, raggiungendo l’ingresso, i tre governanti spalancarono gli occhi, la bocca, sbiancarono, o tutte e tre le cose insieme.
Il primo a farsi avanti fu il Signore del Mare e Principe di Gorm, Carrapax. Giovane e forte nella sua carne azzurra, ora macchiata da diverse ferite. Le chele erano piuttosto rovinate. Il Vecchio Saggio lo salutò con riverenza e passione, quasi rivedesse un amico lontano.
Carrapax, dopo la vittoria presso il Rifugio della Rugiada, era rimasto inattivo per alcune settimane. La sua mossa definitiva lo aveva sfiancato più di quanto egli stesso potesse comprendere. Dopo il periodo di riposo, riprese come in precedenza la sua azione di fratellanza nei confronti degli altri Popoli, ora un po’ meno sentitamente, sia perché, ahimè, non aveva più da visitare Picco Aquila, sia perché si riteneva pienamente degno del suo oneroso titolo, sia perché prima che Principe era Signore e la sua priorità doveva andare alla propria tribù sottomarina, o ne avrebbe pagato le conseguenze.
Nonostante i suoi grandissimi impegni e il fisico sconvolto dall’ultimo Maelstrom, era ancora pimpante e pronto ad agire. La preoccupazione e il dubbio che si leggevano in tutti loro era in lui meno palese.
“Salute, Vecchio Saggio. - disse a gran voce, accennando un sorriso, con i grandi occhi neri che sprizzavano di serenità - Sono curioso di sapere cos’avrai da dirci.” e, procedendo verso la scalinata sulla sinistra, fece con la chela un gesto nascosto rivolto all’eccezionale ospite.
“Avrai presto risposte.” replicò il Vecchio gioioso, contagiato dalla tranquillità del Principe, ma ancora un po’ preoccupato per la sua ignoranza in merito all’esito dell’udienza di poco tempo fa.
“I miei saluti. Mi auguro che questa riunione valga il viaggio e il tempo che sono costati.” disse sbrigativo Palmits della Foresta. Non c’era niente di irrispettoso nei confronti del Vecchio Saggio nel suo tono e nelle sue parole, solo profonda preoccupazione per la pienissima agenda da Signore - surrogato sconvolta da quell’invito repentino a Iustinsula.
Scelto come consigliere da Barbataus circa quattro anni fa, doveva ora, morto il Campione della Foresta, adempiere alle responsabilità di un Signore. Molti consiglieri, anche se dispongono per legge di minor potere, non aspettano altro che questo, per prendere il controllo di un Popolo e arricchirsi quanto più possibile prima che la carica venga a termine o il Popolo o il Consiglio faccia un’elezione straordinaria per un nuovo Signore a pieno titolo. La storia gormitica è piena di consiglieri che hanno assassinato, di mano loro ma più frequentemente tramite sicari, il Signore cui erano sottoposti per farne quello che desideravano del Popolo soggetto.
In verità, la gestione di un Popolo attraverso i poteri e le risorse ristrette del consigliere che si è sostituito al Signore era ampiamente problematica e quasi mai se ne poteva trarre un effettivo guadagno.
Palmits soffriva di questa ristrettezza di potere ed era sempre in corsa da un estremo all’altro di Dalarlànd, ma ostinato a tener duro fino allo scadere del mandato. A questo andava ad aggiungersi la grande simpatia che Barbataus riusciva ad ottenere dai suoi sudditi, che Palmits non riusciva a pareggiare. Era un gormita vegetale dal corpo di fattura e colore verde pallido piuttosto uniforme, intervallato da viticci duri bruni. Il volto, che pareva una foglia di fico che avesse ottenuto consistenza e mobilità, ricordava con una somiglianza innaturale al Vecchio Saggio Florus, il primo Signore della Foresta che incontrò. Tale somiglianza faceva sì che lo stregone si mostrasse molto amichevole e disponibile nei suoi confronti, sebbene si fossero incontrati ben poche volte in un arco di tempo molto inferiore a un anno. Tuttavia, gli faceva una grande pena per la sua impreparazione nel governare in rapporto a Barbataus e a Florus, nonostante si impegnasse vivamente.
“Che cosa ci fa uno di loro qui su Gorm? - chiese poi urlando, e imbarazzandosene subito per paura che il messaggero armato si indispettisse - Voglio dire, l’ultima volta che ci sono stati non hanno portato molto di buono.” farfugliò a bassa voce, appoggiandosi al mago bianco, con un piede già sul gradino.
“Non ti preoccupare, spiegherò tutto. E vedrai, non sarà tempo perso.” lo rassicurò, mentre quello andava a prendere posto vicino a Carrapax.
“Buona giornata, Vecchio Saggio.” lo salutò la voce pungente del Signore della Terra.
Questa volta fu lo stregone a rimanere spiazzato. Non ricordava Kolossus essere così come gli si presentava ora. Molto meno massiccio, di solo qualche spanna più alto di lui. Dov’erano le quattro braccia? E il lungo naso ocra quando gli era cresciuto? E gli occhi, piccoli, neri e penetranti come un ago? No, quello non era Kolossus.
“Gravitus?” domandò scosso il Vecchio Saggio.
“Signore della Terra, prego.” lo corresse ad occhi chiusi lui, spolverando il proprio gonnellino nero. Sentirsi finalmente chiamare con l’appellativo di Signore del suo Popolo lo riempiva d’orgoglio da capo a piedi. Il traguardo che si era assegnato da quasi dieci anni era finalmente stato tagliato.
“Cosa significa, dov’è Kolossus?” al Vecchio la cosa non piaceva.
“Colpo di stato. Ne hai mai sentito parlare?” domandò Gravitus sarcastico. Da qualche anno a quella parte, forse da quando Kolossus divenne Signore al posto suo, era diventato parecchio odioso. Non era più il valente guerriero, il vincitore del primo Torneo di Astreg che aveva Gheos come modello a cui ispirarsi.
“Che cosa è successo, di preciso?” chiese di contro il Vecchio Saggio, ancora non contento.
“Il buon Kolossus ha promesso molte cose, e ben poche ne ha mantenute. - spiegò - Il suo entusiasmo nei confronti della magia non era molto ben accolto. Sommato alla sua attenzione più rivolta fuori dal Deserto di Roscamar che dentro, il seme per un cambio di programma erano proprio lì, e cosa potevo fare io se non raccoglierlo, piantarlo e crescerlo? Ho attirato degli uomini dalla mia parte, convinto il Consiglio che Kolossus se ne doveva andare, ed eccomi qui, scelto dal Popolo.”
“Per solo pochi mesi di carica? Dovevi davvero tenerci molto a questo titolo, e per cosa? Creare discordie?” lo criticò pesantemente il Vecchio Saggio. Una spaccatura in uno dei suoi Popoli, un cambiamento così improvviso e il carattere sempre più arrogante di una figura che non conosceva come conosceva Kolossus mal si combinavano con i suoi piani.
“Non devo rispondere a voi, Vecchio Saggio, né il mio Popolo. - si difese offeso Gravitus - E’ stato fatto ciò che era meglio per la mia gente. O non sarebbe successo.”
Lo stregone bianco dubitava seriamente della verità di quelle ultime parole.
“Spero ci sia una buona spiegazione per questa riunione. - si augurò Gravitus, procedendo verso lo spalto prefissato - e per farvi accompagnare da uno del Popolo della Luce.”
“Possiamo cominciare, Vecchio Saggio? - lo affrettò Palmits, una volta che Gravitus si era messo al proprio posto - Il sole è già alto nel cielo e devo essere lontano da qui prima che scompaia”
“Sarò breve.” affermò il Vecchio Saggio. Si avvicinò dunque al messo di El’issam, tornato statuario, che già si preparava a parlare, e gli sussurrò nell’orecchio.
“Potresti darmi un po’ di tempo per due parole?” gli chiese. Quello fece un cenno con la testa.
“Signori di Gorm, come sapete c’è un conflitto che infuria su quest’isola da diversi anni ormai. Un conflitto che si prospetta senza fine se non facciamo qualcosa per portare la situazione a nostro vantaggio. L’Occhio della Vita è il fuoco di questo conflitto. Esso dev’essere annientato, eliminato dalla faccia di questa terra. Ma non dispongo delle conoscenze necessarie per farlo.”
“Il Popolo del Vulcano e il Popolo dell’Aria, corrotto, sono in perenne agguato e le maggiori forze di cui dispone ora lo Stregone di Fuoco sono una minaccia che dev’essere tenuta sotto controllo. Rimanere inerti e attendere il prossimo attacco non ci gioverà. Un assalto congiunto e ovviamente vittorioso a Monte Vulcano potrebbe tenere il nemico sotto controllo per il tempo necessario di cui ho bisogno per far sì che esso non rappresenti più una minaccia.”
Un Gravitus dal volto corrucciato e dal braccio teso pronto a ribattere minacciò di guastare il buon discorso improvvisato del Vecchio Saggio. Questi fu più veloce della sua lingua, e lo fermò puntandogli contro la propria mano e alzando imperioso la voce.
“Non interrompetemi. - ordinò - Per favore. Il Signore della Foresta non ha tempo da perdere.”
Gravitus tacque, rivolgendo uno sguardo contrariato a Palmits, che si sentì imbarazzato e colpevole, per aver indirettamente causato lo zittire del suo compagno Signore.
“Come siamo ora, fronteggiare il nemico così apertamente potrebbe non portare la vittoria. Abbiamo bisogno di certezze, certezze che possiamo trovare in armi che lo Stregone di Fuoco non può pareggiare. Per questo motivo ho chiesto al Sommo Signore di Karmil, il mio amico El’issam, che ci aiutasse con l’esperienza della sua gente in questa campagna.”
Gravitus ne aveva…il naso pieno. Sbatté irritato entrambi i pugni sulla scrivania di legno.
“Questo supera tutti i limiti! - sbraitò - Avete stretto un accordo riguardante noi con il Sommo…senza il nostro permesso? Non vi abbiamo mai dato una simile libertà!”
Il Vecchio Saggio si sentì profondamente offeso, e rattristito. Un tempo la sua figura era rispettata, ammirata, le sue azioni non venivano mai messe in discussione, perché quello che aveva donato ai gormiti non aveva prezzo. E ora, perché tutti gli sembravano così improvvisamente ostinati?
“Io ho agito per il vostro bene, solo per il vostro bene!” urlò quasi piangente lo stregone, agitando il bordone con lo smeraldo.
“Avete preso decisioni senza averne l’autorità, per Celeles! Ve ne rendete conto?!” gli fece osservare Gravitus
“Mi dispiace, Vecchio Saggio. - pronunziò Palmits, che pareva vergognarsi al dire la sua - Il Signore Gravitus ha ragione, dovevate confrontarvi con noi prima.”
“Davvero avete stretto collaborazione con il Sommo senza il consenso dei Signori?” domandò stupito un uomo da cui mai si sarebbe aspettato di udire una domanda, in un simile tono sorpreso.
Si rivelò, con grande meraviglia da parte del Vecchio, essere stato l’ambasciatore a parlare.
“E’ stato un atto…miserevole.”
Sentirsi criticato e offeso da una persona che non lo conosceva, che doveva solo stare zitta come lo era stata fino ad ora, era qualcosa che andava oltre la sopportazione del mago.
L’opinione forte di Carrapax impedì, per fortuna, allo stregone di andare in escandescenze.
“Non avrebbe dovuto farlo, è vero. Se fosse un mio suddito, meriterebbe una punizione; - disse mantenendo la calma e senza essere troppo pesante - ma ha agito in buona fede, per una buona ragione. Non possiamo continuare a scappare dalle api: dobbiamo bruciare l’alveare.”
“Un attacco diretto a Monte Vulcano va contro tutto ciò in cui abbiamo creduto.” si ostinò Gravitus.
“Troppi impegni, troppi incarichi, e ora allestire un esercito? - rifletté incredulo Palmits - Sarà impegnativo come non mai. Ma, mio malgrado, deve essere fatto. Sì, il Vecchio Saggio ha ragione, in fondo.”
“Preparare i soldati è il problema minore, Palmits. - chiarì Carrapax - Ci eravamo preparati per mesi e dall’ultimo e unico scontro presso il Rifugio poco è cambiato. Ma capisco che il tuo Popolo ha sofferto più degli altri.”
“Unico scontro? C’è stata una lotta sanguinosa a Garsomor! - gli ricordò infastidito Gravitus - Degli uomini hanno dato la loro vita solo per una finzione!”
“Scusami, Gravitus, è vero. - si dispiacque il Principe - Tutti abbiamo perso delle vite, ma ricordiamoci che sono stati scontri durati un giorno, e poi niente, mentre ci eravamo organizzati per campagne di interi mesi.”
Carrapax aveva capito tutto. Il Vecchio Saggio si sentì risollevato nel vedere che c’era qualcuno che vedeva le cose come stanno e che sapeva quando approfittare della situazione propizia. Nel profondo però era turbato. Se i gormiti stavano perdendo fiducia in lui, avrebbe perso ogni ragione di vita, e il mondo intero poteva bruciare sotto Magor, per quanto gliene importava.
“Capisco, capisco… - rimuginò Gravitus, calmatosi - In effetti, è fattibile organizzare un esercito di nuovo pronto in fretta, anche se congedato da poco. I civili accetteranno, però?”
“E quest’aiuto da Karmil, in cosa consiste?” volle sapere Palmits.
“Qui sorge un problema. - balbettò il Vecchio Saggio, che non si era accorto di dover intervenire ancora - L’ambasciatore ha l’ordine di rivelare l’esito dell’udienza solo ai rappresentanti riuniti, e non ai singoli. Quindi, non so se Karmil ci darà o no un aiuto.”
Tutti e tre i Signori guardarono sbigottiti la loro guida spirituale, con cipiglio confuso. Perché era tutto così frenetico e caotico? Il Vecchio Saggio agiva ancora secondo gli ideali che perseguiva da una vita, ma cominciava a comportarsi in modo alquanto strano. Che l’età lo avesse reso pazzo? Avrebbe dovuto avere più certezze, prima di convocare la riunione.
Finalmente interpellato, comunque, l’ambasciatore aprì la bocca per dare la notizia che tutti aspettavano.
“La Consulta e il Sommo Luminescente III di Karmil hanno scelto di accettare la richiesta di soccorso avanzata dal Vecchio Saggio di Gorm, in tutte le condizioni da lui proposte.
All’insegnamento estensivo della via della luce agli abitanti di Gorm voluto dal richiedente, inoltre, vanno ad aggiungersi una partecipazione diretta nello scontro e una collaborazione con gli abitanti insieme a un uso limitato delle risorse dei vostri possedimenti per la costruzione di armi speciali. Non chiedono finanziamenti in caso di vittoria. Data e luogo di collocazione delle forze di Karmil verranno pattuiti in comunione. Non sono tenuto a svelare le ragioni di tali scelte.”
 
Partecipazione diretta! Collaborazione! Armi speciali! Era molto, molto più di quanto il Vecchio Saggio poteva sperare. E naturalmente, le ragioni di un aiuto così generoso verso di lui stuzzicavano la sua curiosità, ma a quelle avrebbe pensato dopo.
I tre attuali Signori di Gorm avevano preso il loro accordo, persuasi dall’ostinato, irremovibile ma amorevole stregone bianco e tentati dalle offerte di coesione con il mistico ‘Popolo della Luce’.
L’unico palese ostacolo all’avvio di una grande strategia di guerra era la reazione del popolo di Gorm, civile e militare. La vittoriosa lotta presso il Rifugio e la repentina fuga dei nemici, vecchi e nuovi, aveva convinto maggior parte dei gormiti che il peggio era passato; un’altra tempesta che minacciava il crescere rigoglioso dei raccolti era terminata e il carro di Nejema avrebbe percorso molte altre migliaia di piedoni attorno a Gorm prima che nuvole dense di pioggia, vento e morte tornassero a oscurare il suo caldo e vitale brillare.
I civili rifugiati erano tornati alle loro case, risvegliati da un letargo i cui sogni erano incubi, i soldati sopravvissuti avevano portato la gioia presso le famiglie che tanto avevano temuto e pregato per la loro sopravvivenza. In men che non si dica, la vita era tornata quella di prima del tradimento di Elios.
Così non era, e un altro grande ostacolo era l’impossibilità di prevedere la prossima mossa del nemico. Erano stati sconfitti, era vero, ma le miniere del Vulcano fiorivano di preziose risorse come gli alberi di bacche e frutti quando la stagione era buona; instancabili e duttili formiche lavoravano giorno e notte per i cunicoli del Monte di Fuoco e lungo tutta la Valle del Vulcano; freddi ingranaggi ruotavano senza sosta nel labirinto dello Stregone di Fuoco, dando vita a macchinosi meccanismi atti a portare la rovina ai Popoli alleati.
Se a tutto questo si aggiungevano le portentose menti e le grandi ricchezze di Picco Aquila, era chiaro che la pace non sarebbe mai potuto durare più di pochi anni.
I turni di vedetta a nord di Darth Kuun erano non più praticabili: non vi erano sufficienti soldati alati per pattugliare l’area, e il Vulcano non doveva più rispondere all’armistizio pattuito dopo la Grande Eclissi. A sorvegliare in volo il monte innevato dell’Isola nessun accenno. Equivaleva a morte certa: una rondine non può competere con l’aquila.
Ora che il pericolo poteva giungere da più di una direzione, era necessario fortificare le frontiere della Foresta Silente, e in un modo o nell’altro i soldati di Palmits tornati nel torpore di incessanti chiacchiere e viaggi per Dalarlànd dovevano rispondere al loro dovere e far fronte alla realtà.
La fretta c’era eccome, ma mai come ora il Vecchio Saggio e gli altri Signori, Palmits e Carrapax in particolare, si sentivano di citare l’amico perduto Barbataus: ‘la fretta porta cattivi consigli’.
Le trattative per la collaborazione, i progetti congiunti, le strategie da utilizzare e la scelta del futuro accampamento dei ka’nhili furono oggetto di infinite discussioni, che si tenevano per lo più tramite ambasciatori o messaggi mandati con corvi e piccioni.
Nel frattempo, un’attesa attiva. I Signori e il Consiglio si sarebbero impegnati a mantenere i loro sudditi in uno stato di pace e sicurezza e allo stesso tempo a un graduale rafforzamento delle difese e una costante preparazione di rifugi, provviste e uomini, dicendo loro che si stavano preparando a un conflitto definitivo ma che potevano stare più che tranquilli prima del suo avvio. La notizia di una nuova guerra in arrivo, anche se annunciata con moderazione, non fu vista granché bene.
Tuttavia la maggior parte degli abitanti sapeva che quella pace era una mera illusione, che il Vulcano e quei traditori dell’Aria non si sarebbero limitati a una battaglia di un giorno: piogge devastanti erano in arrivo.
L’azione vera e propria da parte degli alleati sarebbe cominciata meno di un mese dopo le future elezioni. Servivano volti nuovi, nuove idee: il Popolo le richiedeva. L’unico che forse era ancora desiderato era, ovviamente, il mirabile Carrapax. Tuttavia, egli non si sarebbe ricandidato. La libertà e la gloria conferitagli a vita dal titolo di Principe gli era più che sufficiente, senza contare che aveva passato brutti momenti con la poca ma disordinata burocrazia di governo, tra ufficiali e Saggi.
***
Era un celeldie soleggiato, soleggiato ma ventoso, nella città delle paludi salmastre del Bazaar.
Gli alberi tutt’intorno e le imponenti case squadrate non impedivano al vento di rinfrescare la secca atmosfera della città.
Nel primo pomeriggio di quel 27 celeldie di Greemeralse del 859, sotto la potente luce del sole con una pallida Redrubin come un neo nel suo volto, che di notte avrebbe spodestato il grande disco  e dettato lucente legge nel buio delle stelle, numerose anime dalle spoglie blu e azzurre erano riunite nella piazza principale del centro mercantile.
Tutte erano ammassate, dietro, davanti e attorno alla splendida Fontana del Pantheon, ricca e ampia ellisse in muratura dipinta di sabbia che ospitava al suo centro l’arcano e perfettamente modellato gruppo scultoreo del Pantheon, i dieci semidei della fede classica.
Sulla stessa linea della Fontana, poco più in là, sottostante e adiacente a un alto palazzo, vi era posizionato un ripiano, con due scalinate ai lati e davanti un frontone triangolare con scolpito un bassorilievo la cui pittura era sbiadita e trascurata. Esso raffigurava la Grande Murena, recante sul suo capo l’insegna del Mare.
Non è tuttavia sulle opere artistiche della piazza cui bisogna prestare attenzione. La folla di marini non era ivi per osservare e contemplare la Fontana del Pantheon o il frontone scolpito, bensì gli occupanti del piano sopraelevato sui gradini, e uno in particolare.
Si ergevano fieri e composti, severi, temprati dagli anni e dalle esperienze, i Saggi del Consiglio, non tutti, ovviamente, sul retro del rilievo. Davanti a loro, il personaggio più amato e rispettato degli ultimi cinque anni: il Principe di Gorm Carrapax. E infine, di spalle, che dava il proprio sguardo a Carrapax e a Carrapax solo, il prossimo Signore del Mare.
Un cambiamento che non era stato apprezzato da tutti. No, non mi riferisco all’elezione in sé: le elezioni precedenti – due sole - si erano tenute in mare, di cui una a Poivronopoli presso la Torre del Kraken, che si era reputata da quel momento in poi la sede unica e indiscutibile di ogni elezione. I Saggi avevano opinioni diverse, e quell’anno, l’859, si stava tenendo al Bazaar.
La poco comodità della nuova sede fu presto rimpiazzata dall’emozione dell’ascesa del nuovo sovrano. La febbrile attesa della scelta del Consiglio, la solenne nomina, il sacro rituale di passaggio. Tutti momenti che animavano i cuori dei gormiti di un’ansia, un’agitazione, meraviglia e stupore, come poco altro riusciva a fare, malgrado le continue lotte e i segreti dell’Isola che non smettevano mai di essere rivelati, tanto da parere infiniti. Chissà per quanto ancora l’elezione avrebbe scatenato quel singolare vortice di emozioni nei gormiti. Per anni che nessuno sarebbe in grado di contare i gormiti avevano vissuto senza elezioni, senza Signori veri e propri. Forse l’entusiasmo del momento si sarebbe perso da sé, fra qualche decennio.
“Nobilmantis Iconossi.” chiamò Carrapax a gran voce, un richiamo grave e limpido che rimbalzò per ogni muro della piazza, trasportato forte dal vento anche alle orecchie più deboli e lontane.
Nobilmantis era inginocchiato ai suoi piedi, con la mano destra che toccava terra e la mano sinistra sul petto, il volto rivolto al suolo, secondo il costume dei gormiti.
Carrapax, il Signore che cedeva il posto, gli si avvicinò, posandogli entrambe le braccia sulle spalle.
“Sei tu Nobilmantis Iconossi, candidato a Signore?” chiese, secondo manuale, Carrapax.
“Si, lo sono.” fu la risposta meccanica della giovane voce di Nobilmantis.
“Sei tu a conoscenza delle responsabilità di un Signore?”
“Si, lo sono.”
“Sei tu pronto a offrire tutto te stesso per il tuo Popolo come Signore?”
“Sì, - disse più deciso, alzando il capo e incontrando lo sguardo di Carrapax - lo sono.”
“Per la decisione del Popolo del Mare e per la mediazione mia e del Consiglio dei Saggi, qui e oggi tu, Nobilmantis Iconossi, assumi il titolo di Signore del Mare. A voi tutti i membri del Popolo del Mare dovranno il massimo rispetto e obbedienza, e io, Signore prima di voi, mi inchinerò per primo.”
Detto ciò, Carrapax, tolte definitivamente le spoglie di Signore del Mare, si inchinò umilmente, fino a toccare terra con la fronte.
Ogni singolo gormita nella piazza, da quelli proprio sotto il ripiano ai più lontani presso l’entrata, donna, uomo e bambino che fosse, come un solo obbediente gormita, piegò le gambe, chiuse gli occhi, abbassò il capo.
L’ossequio fece presto spazio all’esaltazione e al fervore, e l’intera folla scoppiò in un’ovazione di grida e complimenti, in uno scroscio senza fine di applausi.
Nobilmantis, emozionato ma composto, fece un breve inchino tra gli inchini e gli applausi della folla presente, e fece poi alzare Carrapax. Gli tese il pugno, solidale. Il Principe lo colpì con ardore con la sua chela.
***
Il Signore della Foresta percorreva la densa macchia che separava la selva più folta dalla Piana di Astreg, quasi brulla d’alberi.
Non era da solo nell’avanzare a piedi per il sentiero terroso delimitato da cespugli, avvicinandosi sempre di più alle frontiere della Foresta Silente vera e propria. Gli alberi si facevano via via più radi, i labirinti di rami e foglie divenivano gradualmente più lineari a tal punto che nessuno vi si sarebbe più potuto perdere.
I tronchi grossi e nodosi lasciavano spazio ad arbusti levigati e teneri, e una luce sempre più forte penetrava le fronde meno fitte. I confini tra bosco e sentiero si confondevano fino ad essere inestricabili, distinguibili solo perché la foresta non era una giungla e mai lo sarebbe stata, ed era quindi impossibile che cespugli e alberi crescessero laddove i gormiti pestavano i piedi.
Si poteva però dire che due alberi, se non alti belli spessi, vigorosi e pronti a sopportare più fuoco di quanto ne potesse generare un vulcanico erano altresì presenti lungo il cammino confuso dalle erbacce e dalle radici che, assetate di luce, si aprivano una via per la superficie.
Non alberi comuni, alberi che camminavano e che parlavano.
Uno, ovviamente, era il Signore della Foresta, fresco di nomina, accaduta solo alcuni giorni fa.
L’altro, era un Saggio del Consiglio, e non un Saggio qualunque. Un gormita la cui età rivaleggiava quella del Vecchio Saggio, la cui tempra fisica non aveva da invidiare i terricoli, il cui odio per i vulcanici non aveva eguali nel dominio del Signore della Foresta, che molte cose aveva visto e molte cose sapeva, più di chiunque altro tra la sua gente, rimaste segrete da sempre.
“Immagino siate stato all’Arena di recente, Grandalbero…in pochi si erano persi il particolare torneo di sei anni fa…” disse Paludis sereno, passeggiando a fianco del suo Signore, ancora immersi nelle fronde dove regnava una luce resa verde dai raggi sulle foglie. Poco più avanti si apriva un grande varco luminoso, in cui si intravedeva la radura spoglia di ogni tronco più alto di quattro piedi.
“Sì, ci sono stato… - rispose Grandalbero, con una voce profonda, che sembrava accomunare tutti i Signori della Foresta - E, desidero ammetterlo, mi ero atterrito quando Orrore Profondo stese Carrapax al suolo. Ma sono cambiato da allora.”
“Lo credo bene. - replicò Paludis, annuendo, e voltandosi entusiasta verso di lui - Guardatevi! Siete Signore, e di sicuro non per nulla…quasi tutti i gormiti avevano favorito per voi!”
“Non deluderò le loro aspettative.” affermò Grandalbero, quieto, accennando un sorriso.
Il cancello, aperto e mai chiuso, di arbusti giovani avvolti in edere forti come fil di ferro era infine stato raggiunto. Il confine tra la sterminata distesa della Foresta Silente e la Piana di Astreg era stato raggiunto, e i due forestali calpestavano ora la brughiera aperta e incontaminata sul cui eponimo altopiano si ergeva la secolare Arena.
Pochi uccelli, gabbiani e fregate in gran parte, volteggiavano piano su nei cieli di un blu terso, incorniciato da soffici e bonarie nuvole.
Non vi era anima all’infuori di loro due, o così pareva. Solo durante gli immancabili Tornei di Astreg quella pianura e quella bassa collina si riempivano di folla agitata e tumultuosa, ansiosa di osservare i più grandi campioni dell’Isola combattere per la gloria; nel resto dell’anno, occasionali gormiti stranieri ci passavano solo per caso. I forestali preferivano non inoltrarsi in essa, prediligendo il clima umido e la luce soffusa del sottobosco.
La piana presentava davvero pochissimi alberi. Il terreno, allontanandosi dai confini silvani, si faceva sempre più sgombro persino di erba e fiori, e aride pietre piatte prendevano il loro posto nell’adornare la superficie. Tutt’intorno alla radura, invece, una fila sconfinata di ebano rivestito di smeraldo. La Piana di Astreg era senza dubbio un paesaggio singolare e misterioso, una fetta di deserto pietroso in mezzo – quasi - alla rigogliosa Dalarlànd, verde come Greemerald.
Il mare piatto e calmo dello Stretto di Gorm poteva scorgersi senza troppo sforzo di occhi, al di là della collinetta: a metà corso dello stretto, si poteva vedere Iustinsula, un punto giallo sfumato nel ceruleo sfondo. Il minaccioso e cupo Monte Vulcano non era che un rilievo bluastro nel lontano nord - est. La terribile luce di occhi e bocca di fuoco scavati sulla sua parete non riusciva a giungere alla vista di Paludis e Grandalbero.
I due camminavano ora spediti, diretti alla scalinata che portava all’Arena, sicuri che ivi, presso i primi gradini, avrebbero trovato qualcuno e ancor più sicuri che, in alto nell’Arena stessa c’era qualcuno di importante che aspettava.
Grandalbero era un nome molto comune presso i gormiti della Foresta. Oso dire, il più diffuso nome che si dà a un gormita vegetale, per quanto sia il primo con tale nome di cui parli in questo romanzo.
Il suo corpo non si poteva dire fosse comune, così come quello di Paludis o di chiunque altro.
Era un alto gormita, non giovanissimo, non senile come Barbataus, ma la sua austerità, il suo linguaggio, la sua voce lo facevano credere molto più anziano.
Aveva una pelle molto spessa, color delle olive non ancora mature, segnata da particolari rughe rettilinee. I piedi e i polpacci erano ben formati e muscolosi, massicci. Grosse unghie marroni terminavano le quattro tozze dita di ogni piede, così come quelle della mano sinistra, seppur più allungate – le dita, non le unghie: queste assumevano una singolare struttura a uncino.
Il suo petto e il suo addome non erano da giudicare al massimo della forma o della snellezza, l’uno del solito verde marcio, l’altro di una tonalità più opaca e tenue, pera, ma ugualmente rugosi. Della stessa differente sfumatura erano braccia superiori e cosce, nonché volto. Il suo viso era leggermente allungato in avanti, pressappoco ovale, con una larga bocca che pareva sdentata.
Le sue sopracciglia erano folte e direi più grandi degli occhi stessi, profondi e brillantemente gialli.
Di entrambi questi, che si ergevano sopra entrambi, erano però ben più grandi le due corna legnose che procedevano oblique, prima sollevandosi all’indietro per poi piegarsi in una curva in direzione opposta e con inclinazione verso il basso, in maniera vagamente simile a quella di un caprone.
Il tocco finale, un grosso bastone terra bruciata e puntuto in due estremi al posto del braccio destro.
Indossava una blanda conchiglia color solidago a coprire il bacino e una molto più sofisticata giubbetta di cuoio sbracciata al petto. Era, dipinta in gommagutta, costituita da numerosi strati di cuoio i quali a loro volta erano fili più minuti di pelle intrecciati a spirale.
Procedevano in silenzio e passo svelto verso l’orrenda – era davvero un inferno, voglio ricordare, arrivare in cima, folla o non folla - scalinata dell’Arena: potevano scorgere alcune figure, immerse nel bianco dei loro indumenti, agli inizi della gradinata.
Un’altra figura, molto più preponderante – accompagnata da una decisamente meno grossa - , colse la loro attenzione.
Correva, proveniente da est, dallo stretto, e ad ogni suo passo zoccoluto si sentivano tremori nel suolo.
Si fece più vicina, e la sua compagna a stento riusciva a seguirla. Era chiaro che il suo intento, fino a poco fa, probabilmente lo stesso di Grandalbero, fosse ora quello di andargli incontro.
Un terricolo altissimo, imponente. Si stagliava due piedi in più della comune media gormitica, ed era sufficiente perché Grandalbero e Paludis fossero inghiottiti dall’ombra che il sole proiettava da lui, anche a diversi piedi di distanza.
La sua pelle, nerboruta e piena di setole sottili, bianco di titanio, ma numerose, era dello stesso colore della sabbia sulle spiagge. Dal suo volto traspariva giovinezza, e le sopracciglia irsute e la barbetta bianca di capra che circondava le sue grandi labbra non inquinavano di vecchiume il suo fisico ancora fresco e scattante. Un fisico che, ad essere sincero, non era muscoloso come quello di altri terricoli che Grandalbero vide in vita sua. Ma era comunque invidiabile.
Sugli avambracci, sugli stinchi, schiena, spalle e su tutti i muscoli pettorali e addominali alcune squame della sua pelle, con tratti di pelle gialla a separarle con precisione le une dalle altre, rettangolari e di dimensioni regolari in maggioranza, ma con presenza di alcune più minute e altre ben più ampie – sul petto, ad esempio - si facevano più spesse, più dure e più scure, di numerose sfumature di grigio, dal fumo all’oliva. Una portentosa corazza naturale; sulle spalle e sul dorso, alcune di queste squame si sviluppavano in rialzato, divenendo dei veri e propri spunzoni che rendevano le sue cariche micidiali.
Come Grandalbero, anche il nuovo arrivato aveva un paio di corna che, al contrario del verde Signore, erano molto più simili a quelle di un ariete, bianche come la cima di Picco Aquila.
Il suo accompagnatore, o accompagnatrice per meglio dire, era una gormita i cui colori poco differivano dal suo Signore. Una particolare terricola ben vestita, con una placca grigia liscia sulla testa, da fronte a nuca, che fu ospite e allieva presso gli stregoni dell’Aria quando i tempi erano migliori, e che da loro apprese mirabolanti conoscenze magiche, affinate ed insegnate ai più durante la signoria di Kolossus. Evera, la strega di Roscamar –l’ho già presentata, lo ricordo bene.
“I miei saluti, Grandalbero della Foresta.” lo salutò, con il pugno teso, non appena gli fu a poche spanne.
“I miei a te…Thorg, Signore della Terra, immagino.” ricambiò lui, facendo cozzare nocche su nocche.
“Precisamente. Ho fatto parlare di me ancora poco.” Che strana cosa da dire. Grandalbero non mancò di farglielo notare, cercando di capire dove volesse andare a parare.
“Sei Signore da solo cinquanta giorni, Thorg. Il tempo per le cose memorabili è una strada ancora spianata, e le occasioni fioccheranno come neve sul Picco, temo.”
“Lo so, lo so. - mormorò scuotendo il capo, ma con gli occhi grigi fissi in quelli di Grandalbero - Non voglio passare nell’anonimato. Voglio essere ricordato come i grandi Signori, come Umaren o Possens, o il Principe. Sono dei modelli, per me. Valorosi e portatori dei veri ideali.”
Grandalbero si chiese il motivo di quel discorso e di quelle rivelazioni. Da quanto detto, quel Thorg pareva essere un gormita davvero giovane, rapito dai miti di guerrieri del passato e desideroso fino all’osso di emulare le loro gesta e seguire gli ideali storici di Gorm, nonché di farlo sapere a chiunque.
“I Sommi di Karmil sono stati anche loro sovrani degni di stima. - riprese Thorg, guardando sognante verso la Piana - Voglio apprendere da Luminescente III tutto ciò che sa, sull’arte, sul regno, sulla guerra.”
“Presto detto. - interloquì Grandalbero - E’ il motivo per cui ci siamo recati qui: incontrare il Sommo, e stabilire le nostre strategie. E accogliere gli insegnamenti e i consigli della sua gente.”
“Giusto!” esclamò, battendo i propri pugni, proprio come faceva Arriut, grande Signore anche lui.
“Hai per caso visto il Signore del Mare?”
“Nobilmantis? No, suppongo sia già nell’Arena.” rispose Grandalbero.
“Siamo in ritardo, quindi?” gridò Thorg, improvvisamente preoccupato. La puntualità era obbligatoria, se voleva fare i conti con i grandi dell’antichità.
“Non erano stati decisi orari precisi, stai tranquillo, e incamminiamoci.” lo rasserenò, e quello parve assecondarlo, ma il suo passo era enormemente più svelto di quello di Grandalbero, e non solo perché aveva gambe più lunghe.
I loro piedi erano spinti in direzione della Piana, finalmente, e più si avvicinavano più facilmente potevano scorgere e descrivere le tre figure –quattro, a dire il vero, di cui una azzurra di spalle - che aspettavano l’arrivo dei Signori di Terra e Foresta.
Paludis e Evera li seguivano ligi e in silenzio. Non si parlavano. D’altronde non si conoscevano –anche se forse Evera aveva sentito parlare del ‘Saggio guerriero’ - e non avevano nulla da dirsi.
Avvicinandosi alle tre guardie ka’nhili, la prima cosa che saltò loro all’occhio, anzi, al naso, era il loro profumo. Un misto di fragranze esotiche, di cui poche riuscivano a distinguere e riconoscere. Erano odori di alberi, fiori e frutti cresciuti in vallate lontane, in alti monti le cui vette innevate nessun occhio può scorgere da Gorm, in spiagge lambite da altri mari, prati irrorati da altre piogge, brucati da animali non illuminati dalla stessa luce.
Dovunque i ka’nhili andassero, sostassero anche solo per poche ore, il profumo della loro casa dimenticata se lo portavano sempre con sé e poteva sentirsi anche da molto lontano.
Loro, Grandalbero, Thorg e i loro accompagnatori, non lo potevano sapere, ma i tre ka’nhili appostati all’avvio delle scale non erano armati pesantemente come l’ambasciatore incontrato dal Vecchio Saggio e dai loro predecessori.
Recavano, tutti e tre, squadrate placche dorate di corazza a tessere saldate su strisce di pelle grigia opportunamente forate per farci passare dei lacci con cui legarle ad avambracci, spalle, torso e gambe; ma erano decisamente leggere.
Gli stessi vestiti bianchi, e anche questo Thorg e compagnia non lo potevano sapere, più preminenti della corazza, non erano gli indumenti larghi e con gonne e strascichi con cui i ka’nhili erano soliti passare le loro giornate nella serenità di Karmil.
Erano stretti e aderenti panni lucidi, di un tessuto indefinibile, che ricoprivano per intero le lunghe braccia e gambe. Il capo dai quattro occhi, con le sue macchie, le dita e le ali erano le uniche cose libere al vento e alla luce. Immancabili, alla loro vita, le lunghe spade diritte, nel loro fodero di nuvole.
Il gormita – perché di gormita si trattava - del Mare insieme a loro non sembrava essersi accorto del loro arrivo, e aveva occhi che studiavano la cima della piana.
“Sei per caso il Signore del Mare?” gli chiese Thorg, prima di dialogare con i tre guardiani.
“Eh? No. No, no, sono Squalis.” farfugliò, a malapena voltandosi per sapere con chi aveva l’onore di parlare, e senza un inchino o una riverenza.
La spontaneità con cui rispose sembrava far presupporre che i presenti dovessero conoscere questo ‘Squalis’. Così non era. La presenza di un gormita marino qualunque, non un Signore, un Saggio, lì, il giorno dell’incontro segreto, da solo, senza la minima preoccupazione a turbare il suo animo…era quasi inquietante.
Grandalbero, che aveva ascoltato, decise di rivolgersi immediatamente ai ka’nhili. Tuttavia, non sapeva se loro parlassero il vicio, e avrebbe senza dubbio dovuto ricorrere alla magia.
Se non fosse che furono loro a prendere la parola, e parlarono con una pronuncia così perfetta che non poteva dire se avessero lanciato loro l’incantesimo, o avessero imparato la lingua.
 “Signore della Foresta e Signore della Terra. Siete attesi. Salite pure.” disse una guardia, dagli occhi arancioni, meccanicamente e speditamente, scostandosi per lasciarli passare. Non che ce ne fosse bisogno, i gradini erano immensi.
Non erano il tipo di persone che avevano voglia di parlare, pareva. Senza ulteriori indugi o parole, Grandalbero e compagni passarono, stupiti dalla fretta e dalla freddezza.
Non appena Thorg, al seguito di Grandalbero, fu alle spalle delle altre guardie, la precedente ritornò al suo posto con uno scatto fulmineo. Tese la propria mano in avanti.
“Non potete passare. Solo i Signori possono prendere parte alla riunione.” annunciò a Evera e Paludis. E quindi capirono, immaginarono almeno, chi fosse Squalis.
“Che storia è questa? - lagnò Paludis, contrariato - Sono il suo accompagnatore e la sua guardia, devo passare.”
“Lasciate stare, Paludis, è a posto così.” gli assicurò il Signore dai gradini, con una delle tre guardie che si era staccate dalle altre e procedeva a seguirli lungo la scalata.
Paludis era ancora contrariato, ma obbedì ugualmente, e attese.
Thorg e Grandalbero, con la guardia ka’nhili che li succedeva silenziosa e a diversi gradini più in basso, salirono la lunghissima scalinata, formulando le più strampalate ipotesi su ciò che Luminescente III e il Vecchio Saggio avevano da proporre, che però tenevano per sé.
“Io, al tuo posto, non saprei come agire. - diceva Thorg - Succedere a un grande come Barbataus: era amatissimo dal Popolo, e faticherei come un animale a cercare di eguagliarne anche una minima parte.”
Thorg, di questo ne era certo, non gli aveva fatto una buona prima impressione. Da dove prendeva tutta quella voglia di attaccar bottone, di parlare del più e del meno? Senza contare che parlava solo di sé e del suo impegno nel modellarsi come un antico sovrano, e diversi nomi Grandalbero ritenne se li fosse inventati. Si sarebbe ricreduto sul suo valore di guerriero.
In seguito alla faticosa scalata delle scale – salire una montagna sarebbe stato decisamente più facile - , varcarono la porta dell’Arena di Astreg, pattugliata ai lati da altre due guardie, sempre ka’nhili, sempre con nient’altro che le spade allungate.
Il suolo sabbioso era sempre lo stesso; gli spalti e i seggi, seppur con qualche crepa, non erano cambiati e le grate che davano alle camere interne e sotterranee avevano solo qualche tocco di ruggine in più.
Non c’era traccia visibile di altri ka’nhili nell’arena, se non del Sommo Luminescente III. Accanto a lui, leggermente più alto, la sagoma ingobbita sul bordone e ammantata di bianco del Vecchio Saggio. Davanti, il Signore del Mare Nobilmantis.
Era un nobile gormita, fascinoso ed elegante nell’aspetto. Una fluente seta lucente come acqua di mare erano le sue spoglie, che qua e là si facevano più scure, dell’indaco del cielo nel tardo pomeriggio. Piccoli e lisci erano i suoi piedi, aggraziate le movenze della sua mano, la destra, a tre dita palmate, leggeri e sinuosi, in tempi di tranquillità, i movimenti dello spuntone come un arpione color zaffiro che portava all’estremità del braccio destro che, molti lo avrebbero constatato, si rendeva letale e scattante nella lotta. Il suo corpo era in generale esile, molto magro, ma le enormi ali lucenti, simili alle ampie pinne della manta, facevano della sua figura una vista da temere e rispettare.
Pietra sul bordone (è un modo di dire: un tocco, un’aggiunta di classe, significa), un elmo spartano dal perimetro ricurvo e ondeggiante, di azzurro metallico, che rendeva oscuro il suo viso e il suo sguardo.
Proprio come l’elmo - corona dei Sommi di Karmil, lo stesso che recava lì e in quel momento Luminescente III. La sua armatura era di gran lunga maggiormente sontuosa e magnifica di quella di chiunque altro ka’nhili che avesse posato piede su Gorm.
Un amalgama di lastre e placche ricurve dorate, argentate, bianche come il ghiaccio più freddo e gialle come il disco di Nejema a mezzogiorno. Non si sarebbe mai detta essere della stessa fattura: era uno stile tipico dei gormiti dell’Aria; si poteva ben indovinare però che non potevano averlo fatto loro.
“Infine, siete giunti, Signore della Terra e Signore della Foresta.” annunciò solenne Luminescente III. Una pronuncia del vicio esemplare anche nel suo caso.
I due Signori si radunarono vicino a Nobilmantis e si piegarono in un profondo inchino, Thorg in quello d’onore della Terra.
“I nostri più sentiti omaggi e ringraziamenti, Sommo Signore di Karmil.” gli diedero un appropriato saluto. Nobilmantis rimase fermo: lo aveva già salutato.
Egli, consapevole di alcuni usi del popolo dei gormiti, ritornò l’inchino d’onore a Thorg, che a stento trattenne l’eccitazione.
“Ve ne prego, il Sommo Signore non necessita di inchini.” fece sapere il Sommo, con una frase che avrebbe dovuto esprimere imbarazzo, ma che risuonò pacata e fredda.
“Sappiamo tutti perché siamo qui, ma ritengo alcune presentazioni siano d’obbligo. Il qui presente, Nobilmantis, mi ha già parlato di sé.”
“Signore della Foresta Grandalbero. - si presentò per primo - Pronto a seguire i vostri consigli. Devo confessare, però, che non ritengo la strada della guerra sia quella giusta, ma comprendo perché è stata intrapresa.”
“La guerra non è mai bella da vivere.” lo assecondò. Tuttavia, il suo tono era talmente distaccato da far sembrare che la guerra, per lui, non significasse niente, buono o cattivo che fosse.
“Thorg, Signore della Terra. - seguitò l’alto gormita, battendo il pugno sul petto - Non vedo l’ora di sapere tutto su di voi, e di fare di me un sovrano migliore grazie a voi. Ho sentito che le vostre corazze sono impenetrabili, e che le spade possono perforarle solo al quarto colpo! Poi, avete combattuto una battaglia senza mai sfoderare le armi, schiacciando i nemici sotto fasci di luce! Desidero esserne capace anch’io, molto presto.”
“E’ un grande interesse che riservate per noi, Signore della Terra.” notò lui
“Per voi, per tutti. Per chiunque abbia fatto grandi cose.” lo corresse, e lo interruppe, sicché non aveva finito.
“Me ne compiaccio. Come siete venuto a sapere quanto sapete su di noi?” domandò.
“Libri, e parenti che sono stati ospiti ai vostri templi.”
“Signore della Terra! - parlò per la prima volta Nobilmantis, con tono critico, ma moderato, al che tutti si volsero verso di lui, senza però poter incrociare il suo sguardo - Capisco il tuo entusiasmo: anch’io ho voglia di conoscere come piegare la via della luce, ma siamo qui per discutere di affari più seri e più grandi che le tue aspirazioni.”
“Sì, è vero. - mugugnò Thorg, abbassando il capo e non del tutto contento dell’intromissione di Nobilmantis – Scusatemi.”
“Ebbene, Signori di Gorm.” iniziò il Sommo, saldo sui suoi piedi, con le braccia rigide ai fianchi che non aveva mosso altro fuorché il capo e gli occhi, i due che si potevano scorgere dalla corona bianca.
“Sappiamo tutti la situazione su Gorm, e le cose che ci hanno spinto a incontrarci qui. Con questo incontro, ritengo sia unanime la volontà dei Popoli alleati, o della loro maggioranza, di ‘dare una lezione’, ‘tenere a bada’ il Popolo del Vulcano e il Popolo dell’Aria, vostri nemici.”
“La Consulta, il corpo governativo della mia terra, ha accolto le vostre richieste e, per la pericolosità di questo Occhio della Vita e svariati altri motivi, abbiamo deciso di appoggiarvi quanto più possiamo nei vostri sforzi.”
“Questo include lo schieramento delle forze armate di Karmil al fianco degli eserciti di Foresta –fissò Grandalbero – Terra – scrutò Thorg – e Mare.” per ultimo, pose il suo sguardo su Nobilmantis.
“Il dispiegamento e lo sviluppo di armi e attrezzature speciali. Abbiamo in produzione una serie di armature magiche, che dovrebbero aumentare le prestazioni di combattimento e offrire numerosi vantaggi. La costruzione, tuttavia, richiede lavoratori e materiali del luogo”
“Le miniere della Città Sotterranea saranno aperte a tutti i ka’nhili, ve lo prometto.” si precipitò Thorg.
“Non negherò le mie risorse ai miei alleati.” fu la replica di Grandalbero.
“Darò mani e manufatti per poter vincere.” disse, non molto preso in verità, Nobilmantis.
“Ottimo. - si compiacque il Sommo - La mia gente non deluderà le vostre aspettative.”
Il Vecchio Saggio ascoltava in silenzio, e si segnava tutto in mente, ondeggiando il bordone.
“In ultimo, l’insegnamento della manipolazione della forza magica, l’unica cosa che di fatto il Vecchio Saggio ci ha chiesto. Guerrieri e maestri sono pronti ad un addestramento intensivo della via della luce, la sola che ci è permesso perseguire, e sono pronti ad eseguirlo in qualsiasi luogo. Come e dove preferite venga fatto?”
“Credo…credo che concentrare la ‘scuola’ in unica sede sia svantaggioso. - riflettè Grandalbero - I soldati devono poter raggiungere i luoghi del conflitto e i loro battaglioni in tempi decenti.”
“Sono d’accordo. - si unì il Signore del Mare - Propongo che gruppi di maestri insegnino le vie della luce in centri differenti, diversi per Popolo.”
“Se la cosa è fattibile…” aggiunse, non troppo tardi.
“E’ fattibile, ed è una buona scelta. Tuttavia, sorge un problema, per voi, Signore del Mare. - lo fece preoccupare, benché la sua voce fosse tranquilla - I miei uomini non possono immergersi, nemmeno con l’ausilio della magia.”
“Si insegnerà al Bazaar. Non è un grande problema.” affermò facendo spallucce, non vedendo davvero alcun tipo di problema.
“Se per voi è a posto, proseguo.”
Proseguì: “Decideremo più tardi le allocazioni delle scuole. Prima, ho altro di cui parlarvi. Innanzitutto, il mio esercito necessita di un accampamento stabile e sicuro, e qui vi lascio carta bianca: i miei uomini saranno posti dovunque lo desideriate.”
“Non vicino a Roscamar. - li avvertì turbato Thorg - Troppo vicino al Vulcano, e il viaggio è troppo lungo.”
“Dalarlànd sembrerebbe un luogo ideale, tuttavia… - sopraggiunse, pensoso, il Signore della Foresta - Le sentinelle aeree potrebbero scorgervi durante il tragitto, e addio sorpresa. E questa piana, è fuori discussione: troppo all’aperto.”
“La Grande Murena è deceduta da anni, ormai. - osservò Nobilmantis - Le imbarcazioni karmiliane possono percorrere un tratto di mare verso sud e poi virare ad est, e un ultimo tratto verso nord, e sbarcheranno senza essere avvistate nella Foresta, il nascondiglio migliore. Il viaggio non sarà molto lungo. Dopodiché Grandalbero condurrà gli uomini al luogo prestabilito.”
“Per me si può fare. - annuì Grandalbero, con la mano sotto il mento - Avrò bisogno di tempo, però, e di dati precisi, per poter scegliere il luogo adatto.”
“Ottime strategie. - si complimentò il Sommo - Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, è vero. Ma sono convinto che si possa fare senza troppi intoppi.”
“Un’ultima cosa, miei Signori, dopodiché potremo stabilire in miglior modo i nostri piani e i nostri luoghi. Ascoltatemi bene: che cavalcature usate nelle vostre lotte?”
La domanda colse in disappunto i tre gormiti. Thorg rispose subito disinvolto “Be’, usiamo le salamandre…buone creature, amabili, facili da ammaestrare...con ovvia eccezione di quelle selvagge o quelle giganti…dei veri scorfani!”
“Vero, le salamandre sono buone cavalcature, migliori dei cavalli. Tuttavia, su quest’Isola si trovano altre bestie che possono essere ammaestrate e spiegate in battaglia, in scontri diretti o per spionaggio. Un esempio?”
“Io! Io! - gridò Thorg eccitato - I bisonti rocciosi! Docili, ma di una carica portentosa. Kolossus ne aveva salvato uno, intrappolato nelle gallerie…Roscalion.”
“Io avrei pensato ai dragoni, per primi.” bisbigliò Grandalbero. Un sussurro che Nobilmantis captò.
“I dragoni sono tutti stretti nella Valle del Vulcano, e i gormiti di Magor si guardano bene dal fargli scappare a Dalarlànd o oltre il Deserto.”
“I bisonti rocciosi sono una delle bestie che io e il Vecchio Saggio avevamo messo in lista. - ammise il Sommo - Roscalion, se è già amico della vostra gente, renderà le cose più facili, ma uno da solo non arrecherà grandi vantaggi.”
“Delle bestie?” chiese Nobilmantis per nulla convinto.
“Non semplici bestie. - disse la voce del Vecchio Saggio da dietro al Sommo Luminescente III - Sono molto più intelligenti di tanti altri animali, e se riuscirete a domarli si riveleranno alleati formidabili.”
Nobilmantis annuì con uno strano verso, ancora incerto.
Il Sommo continuò il discorso: “Non sappiamo per certo quanti ce ne siano qui nell’Isola, ma sappiamo quali possono esserci d’aiuto: bisognerà cercarli, e ottenere la loro fiducia.”
“Avete già avuto qualche situazione con simili bestie?” chiese Nobilmantis nuovamente.
“Nella nostra isola vivono i grifoni…creature forti e orgogliose, che conoscete anche voi. Uno di loro è qui…Lux’al, che mi fu dato quando eravamo entrambi cuccioli.” Quest’ultima frase, che avrebbe generato una fitta di nostalgia e serenità a chiunque, non diede alcun segnale sul volto o sul tono del Sommo Signore.
“Ecco.” disse infine, facendo volteggiare nelle mani di tutti e tre i Signori delle pergamene che furono subito aperte per rivelare nomi e informazioni sulle bestie che dovevano essere cercate.
Nobilmantis non aprì la sua, limitandosi a stringerla in mano: “Il Popolo del Vulcano non potrebbe adoperare già queste bestie?”
Luminescente III sembrò irritato da questa domanda, forse più per essere l’ennesima questione posta dal Signore del Mare più che per il suo contenuto.
“Questo non lo posso sapere con certezza. Hanno i dragoni di cui, per quanto pericolosi, solo la razza sputafuoco è davvero problematica. Tuttavia credo la loro concentrazione sia rivolta ad altro.”
“Magari a qualche arma migliore.” sussurrò a se stesso, ma abbastanza orecchiabile, Nobilmantis.
Il Sommo volle ignorare quest’ultima sua affermazione.

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Capitolo 33
*** Capitolo 14.2 ***


La grande capanna improvvisata, di paglia e canne, era affollata di gormiti verdi, bruni, e gialli, di corteccia e di carne insieme.
Non fosse per lo spazio che aveva i suoi limiti e l’impossibilità di controllarne un numero maggiore, ne sarebbero giunti numerosi altri.
Le azioni che stavano per svolgersi in quella capanna avrebbero presto richiesto che ogni gormita si distanziasse di una certa misura dagli altri, onde evitare danni involuti.
A ciò si aggiungeva il fatto che quei gormiti non erano gormiti qualunque: erano soldati, ricognitori, cavalieri, sentinelle, accaniti difensori della Foresta Silente e di Gorm. Nessuno si recava lì senza una buona dose di effetti personali, corazze, armamenti, pietre preziose. Non un guerriero degno di questo nome, in tempi di burrasca come quelli, osava vagare per casa sua senza almeno un’arma, e bisognava riconoscere che erano soldati tutti d’un pezzo, abili ed educati. Tuttavia, lì armi e armature non erano previste, erano inutili.
E dunque, tutto il metallo tagliente e più spesso di mezzo pollice veniva accatastato quanto più ordinatamente possibile in un’anticamera più improvvisata della capanna stessa, e lo spazio scarseggiava.
Non vi erano finestre in quella capanna, ogni cosa era illuminata da decine di pietre di luce, né porte adatte a simile nomenclatura.
In effetti, la capanna non era illuminata dalla luce del sole. Non perché fosse notte, e non è nemmeno un’esagerazione artistica dovuta, ad esempio, a una copertura naturale di grossi alberi o formazioni rocciose.
La capanna, delimitata da fili di paglia incollati e canne gialle legate tra loro, era stata scavata sotto terra ai limiti occidentali di Dalarlànd, vicino alla spiaggia, e l’unico collegamento con la superficie infiammata dalla vera luce e rinfrescata dalla brezza del vento e del mare era un piccolo pertugio ostruito da una botola di bastoni, mascherato, nel lato sulla superficie, come nient’altro che una zolla di terra erbosa. Un nascondiglio perfetto che, trovandosi in un luogo mai visitato dallo Stregone di Fuoco, non poteva essere scoperto da alcuna sfera veggente, sicuramente non dalla sua.
Oltre alle pietre di luce incastonate nel soffitto e tra una canna e l’altra, lo spazio si poteva dire quasi sgombro. Vi erano, di fronte alla masnada, disparati sgabelli a tre e quattro gambe, diversi vuoti, altri occupati da sacconi di tela scura, e a grossi chiodi fissati nei muri erano appesi altri sacchi e borse. Sul fondo – anche se si presupponeva la capanna continuasse per il lungo ancora per diversi piedi - una tendina acquamarina era stata distesa, appesa a pioli sul soffitto.
La botola fu infine chiusa: per quel giorno, in quella capanna, non sarebbero stati ammessi altri gormiti della Foresta.
Gli occhi di tutti i forestali erano fissi sul ka’nhili che era appena emerso dal suddetto mare sinuoso, sospeso. Ne avevano visti solo altri due di guardia all’entrata, e decine di operai venire ed andare dal loro accampamento nel cuore della Foresta Silente durante lo scavo, ma senza dubbio ve n’erano altri dall’altra parte della tenda.
Non aveva, coerente con l’esigenza dei due soldati a guardia della botola, armi o placche protettive con sé. Il suo corpo magro e dalle forme ben definite, del colore delle foglie secche, con macchie cremisi tondeggianti sul capo, era ricoperto per intero da una tuta attillata dorata, stretta alla vita da una cintura candida. Ricoperto per intero, ovviamente, con le solite eccezioni di testa, ali e mani.
I suoi quattro occhi d’ambra brillavano di una misteriosa luce nell’ombra della cava e sembravano squadrare uno per uno, con infinita attenzione, ognuno dei forestali presenti e, allo stesso tempo, erano fissi e immobili.
“Ben arrivati, sudditi di Grandalbero Signore della Foresta.” parlò solenne, con movimenti quasi impercettibili delle sue labbra e delle mandibole laterali. Statuario e freddo rimaneva, come bloccato in quella posizione eretta; le sue palpebre parevano non chiudersi mai.
“Se siete qui, sapete che cosa studierete e in cosa vi eserciterete, e a quale scopo: apprendere la via della luce ed adoperarla per sopraffare i vostri nemici, oscuri a questa arte.”
Prese a camminare lentamente, stringendo le mani dietro la schiena, sopra le ali, avanti e indietro, osservando i suoi alunni come un generale militare esamina le sue reclute prima di schierarle sul campo.
“Non perderò tempo: abbiamo poco tempo a disposizione. Il mio nome è Pri’sum, e sono il coordinatore di questa squadra. I vostri nomi verranno segnati al termine di questa lezione, e vi ripresenterete qui a cadenza tridecimanale, nei giorni di pracondie, asildie e fendrie, stesse ore di oggi. Grandalbero e i vostri superiori sono già stati informati di questo schema.”
“Incominciamo subito. Di norma, prima di passare all’esercizio vero e proprio, si è soliti studiare le origini dell’arte della via della luce. La situazione non ce lo concede.”
“Prestate bene attenzione a queste parole, poiché non le ripeterò. Vi è una forza che permea tutto ciò che esiste, tutto ciò che possiamo vedere e anche ciò che ai nostri occhi sfugge. E’ presente così come nei boschi, nei fiumi, così nel cielo, nelle stelle, nel sole Nejema. E’ una forza ordinatrice, ma anche distruttrice, che mantiene il carro del sole nel suo tragitto ma che è anche origine dei terremoti, delle eruzioni, delle tempeste.”
“Agli esseri superiori, coloro che per intelletto e abilità si distinguono dagli animali schiavi della fame e del sonno, è data la possibilità di piegare questa forza alle loro necessità. Essa si chiama forza magica. Con essa, possiamo strappare gli oggetti dall’attrazione che li fa cadere, e insieme distruggere i legami che tengono le loro parti più piccole unite tra loro.”
E, di fronte ai gormiti rigidi, muti e attenti, diede dimostrazione di questa capacità dell’essere superiore. Uno degli sgabelli fu sollevato da terra, senza che Pri’sum lo toccasse, e addirittura senza guardarlo, semplicemente sollevando uno tra le dita in direzione della sedia. Muovendo il dito, lo sgabello, a cinque piedi da terra, fu portato dal ka’nhili davanti al ka’nhili e, infine, con intricati movimenti di tre delle sette dita, le quattro gambe dello sgabello furono strappate dal sedile in pochi secondi. Le fece poi cadere rumorosamente.
“Ma nessuna mente nasce con la capacità di piegare questa forza: essa dev’essere stimolata. Se tra di voi vi è qualche stregone di livello intermedio, potrà capire se paragono questa stimolazione all’ingerimento di macinato di pipalia per sbloccare i poteri della mente o alla bevuta del succo di linfa viola per divenire capaci di trasmettere e prendere energia dai corpi e dalle pietre.”
“Per stimolare questa capacità, è necessario, una volta nella vita, raramente due, respirare il trito di erba incantata, seguendo una precisa ricetta.”
***
La cavalcatura il cui compito era potenziare le fila dell’esercito terricolo faceva nome di bisonte roccioso, e viveva nella Valle dei Canyon, il grande labirinto rossiccio ai confini nord - orientali dei domini di Thorg.
Più precisamente, faceva nome di Roscalion, ‘guardiano della Caverna di Roscamar’. Ma quello era solo un individuo della possente razza di bufali che aveva nei canyon la sua dimora.
C’era la convinzione che con quel Roscalion si avrebbe faticato ben poco per portarlo a lottare insieme ai Popoli alleati. Difficoltoso era sicuramente trovarlo, riconoscerlo.
Tuttavia, come ben aveva detto il Sommo, Roscalion da solo non era capace di fare dell’esercito della Terra un’inarrestabile macchina da guerra. Altri bisonti rocciosi dovevano essere persuasi a farsi cavalcare e caricare in battaglia.
La facilità prevista cominciò ben presto a sfocare, quando sorsero alcuni terribili interrogativi: era Roscalion ancora vivo? Aveva memoria di essere stato salvato dai terricoli? Bastava quella a convincerlo? E se si fosse dovuti passare alla costrizione?
La violenza contro gli animali era l’ultima cosa che la gente del deserto voleva attuare. Vi era un legame strettissimo tra loro e la terra, tra i suoi frutti e ogni suo abitante, un legame che avrebbe condotto a grandi ricchezze solo quando le necessità di ciascuna parte venivano rispettate.
Si tratti male un cane, ringhierà e morderà quando gli ci si avvicina; si carichi di troppo peso una salamandra, non vorrà più essere cavalcata; si maltratti e non si curi un orto o un albero di bacche, non offrirà più i suoi frutti.
Volevano credere, i terricoli, che con le buone maniere i bisonti potessero essere portati dalla loro parte e che la memoria di Roscalion fosse buona abbastanza, e che non fosse morto ovviamente. Quindi, dovevano mandare, almeno per cercare Roscalion, qualcuno che egli potesse riconoscere.
Kolossus, seppur non esiliato né chiuso in prigione, non era in condizione di poter essere inviato alla ricerca della bestia.
Il paesaggio che si stagliava di fronte a Mangiaterra e a Evera ‘Opale Nero’, sua compagna in quel viaggio, e alle loro salamandre, era dunque questo: un pericoloso groviglio di giganti rossi che si stagliavano per piedi e piedi sopra le loro teste, nello sconfinato blu del cielo privo di macchie bianche, su un suolo di sabbia rossa non avvezza alla vista di una grandiosa vegetazione; a tratti più che rari, l’instancabile opera della natura, del vento e dell’erosione aveva divorato la terra e la polvere di roccia, e scavato bui crepacci non meno profondi di quanto le rosse fiancate erano alte.
Dopo una lunga marcia avviata prima dell’alba e conclusa nella tarda mattinata nel Deserto di Roscamar, le due salamandre, una verde l’altra grigia, procedevano a passo più lento, rilassate dall’essere giunte alla loro destinazione, anche se del loro obiettivo non c’era traccia.
Ierir e Evera avevano con sé un buon carico di provviste, che portavano legate alla vita o in sacchi sulle spalle, o strette ai fianchi delle salamandre. Il viaggio in sé non era lunghissimo, ma richiedeva una certa dose di scorte d’acqua difficili da reperire nel deserto. Nondimeno le scorte di cibo dovevano essere cospicue, poiché la cattura dei bisonti avrebbe potuto dilungarsi parecchio. Oltretutto, si era pensato di usare cibo e altri sotterfugi per attirare i bisonti rocciosi, che si portavano sul dorso in gran quantità.
Evera scostò il cappuccio della sua veste bluastra, che le era servito per difendersi dal clima sfavorevole del deserto, mostrando le sue cornina e il suo lucido e levigato capo nero che rifletteva tutta la luce che riusciva a catturare. Nonostante il sole fosse ormai alto nel cielo, tra un canyon e l’altro il calore si faceva sentire di meno che nell’aperta distesa sabbiosa.
Mangiaterra rimaneva imbacuccato nella sua tunica verde oliva, con i curiosi e piccoli occhietti che guizzavano da lato a lato dall’apertura del cappuccio.
Opale Nero non era un soldato. Era ancora troppo giovane. In caso contrario, ella non avrebbe potuto accompagnare Ierir, impegnatissima a seguire le lezioni dei ka’nhili.
Lei, tuttavia, aveva già un’ampia esperienza in campo, sebbene non fosse in grado di manifestare la forza magica sotto forma di luce. La sua nomea di strega della Terra le sarebbe comunque valsa un’importante posizione nel conflitto che sarebbe scoppiato di lì a poco.
Il caldo umido della Valle era troppo per lei. Si tolse con uno scatto della mano l’intera veste e, con rapidi movimenti delle dita, la piegò e la ridusse a un quadrato di tessuto, che infilò nella sua cintura. Dopodiché, dalla stessa cintura estrasse la sua borraccia, la stappò e trasse un lungo sorso d’acqua. Si dissetò con un forte respiro, e si sistemò i guanti bianchi arzigogolati, gli stessi senza dita e con il foro nei palmi, prima di riporre la borraccia al suo posto.
Mangiaterra continuava a guardarsi intorno incuriosito e vivace, chiuso nella sua tuta, mormorando qualcosa di incomprensibile, che giungeva storpiato alle orecchie di Evera a causa del panno che copriva la larga bocca del minatore. Procedeva a rilento, ed era piuttosto indietro rispetto a Opale Nero, forse perché era più pesante o la sua salamandra più vecchia.
“Bene. - concluse (concluse?) Mangiaterra, come se stesse parlando da un’eternità - Siamo qui! Non sei contenta? Non sono mai stato nei canyon prima d’ora!” espresse con aria sognante, immaginando chissà che avventure in quel luogo.
Dopo la breve peripezia con lo spodestato Kolossus, Mangiaterra era ritornato a lavorare nelle miniere e nei cunicoli della Città Sotterranea con la stessa operosità e lo stesso lunatismo di prima.
Tutti tra i suoi colleghi gli chiedevano della sua avventura con il gigante cieco, ma lui non prestava grande attenzione a queste domande, a cui rispondeva con poche parole e dati spesso contrastanti.
Di una cosa non smetteva mai di parlare: del suo ritorno nella Città non con il carico di gemme del vigore, ma in groppa a Roscalion, il fosco bisonte roccioso persosi negli oscuri tunnel da lui salvato. Per lui, l’aver trovato e riportato tra i suoi simili quel povero animale era l’episodio più importante ed eroico della sua vita. Delle gemme di Muscor, o dell’intricata storia dello stesso fantasma, non gli importava granché.
Evera aveva avuto una vita piuttosto serena, come Ierir. Non perché lo volesse lei, al contrario di Mangiaterra. Vivere un pericolo, correre grossi rischi per la salvezza della patria insieme al proprio Signore era la sua massima ambizione, ma fin dal termine del Torneo dell’Eclissi era sempre stata impegnata ad aiutare con la magia nella ricostruzione ed insegnarla ai pochi che, sollecitati dal governo di Kolossus, ella riusciva a convincere a divenire suoi apprendisti.
Il tradimento del Popolo dell’Aria e la conseguente impossibilità di raggiungere Picco Aquila fu per lei un grosso colpo: non poteva più frequentare i suoi vecchi maestri –pochissimi suoi conoscenti avevano seguito Noctis -  né le ricche biblioteche e scuole di magia di Orsol o i colti eremiti della montagna.
Nonostante l’interesse per la magia dei terricoli ebbe un picco dopo che Gravitus prese il posto di Kolossus, Evera manteneva una certa posizione di rilievo e di rispetto.
I due procedevano sui loro destrieri nel silenzio del rosso deserto, disturbato solamente dal fischio dell’aria nelle fessure tra le rocce. Pareva non esserci davvero gormita vivo, né tantomeno animali.
Pochissimi gormiti solitari abitavano nella Valle dei Canyon, lontano da Garsomor, che infatti era molto distante dal luogo in cui erano arrivati Mangiaterra e Opale Nero.
Non vi erano tunnel sotterranei che connettevano quella zona meridionale della Valle con Roscamar e la Città Sotterranea. L’unica grande galleria con la sua unica apertura procedeva spedita per Garsomor. I contati gormiti che abitavano lì erano dei veri e propri eremiti, che avevano scelto una vita appartata e che non sempre erano al corrente di ciò che decideva il loro Signore, o chi fosse questi. Circolavano le voci più assurde su dove simili eremiti collocassero le proprie case.
L’atmosfera di silenzio tombale cominciava a farsi quasi lugubre, sebbene fosse pieno giorno e afoso. Pochi erano i grossi uccellacci che sorvolavano in cerchi il cielo sopra i canyon, belve odiose che si cibavano di carogne. Nessuno di quelli si posava sopra di una roccia o di uno degli alberi bassi, e forse era un bene. Ma ciò aumentava solamente la sensazione di disagio.
Noia e tensione incombevano su Opale Nero, mentre Mangiaterra, proprio come nel labirinto insieme a Kolossus, sembrava divertirsi in quella non confortevole situazione.
“Mangiaterra.” disse Evera, volendo porre fine a quel nervoso silenzio. Pensò un attimo a cosa dire, ma nessuna parola le fuoriuscì di bocca.
Invece un crepitio come di roccia che si sfrega ruppe il silenzio alla loro destra.
Il primo timore di Evera fu quello di un masso rotolante che sarebbe potuto venir loro addosso. Puntuale, fece fare uno scatto alla propria salamandra, che si trovò con lo sguardo fisso dove prima la sua coda puntava il suolo. Ierir, che si trovava indietro, si limitò a fermarsi.
Su di una fiancata, quella che sembrava una pietra rossa come tutte le altre rivelò una fessura verticale nel mezzo che la divideva in due. Si aprì: una porta! Una porta molto strana: non era perpendicolare al suolo né parallela al muro, ma obliqua.
Ne uscì un gormita, della Terra: lunghe braccia giallastre con mani inspessito di un grigio spento munite di quattro paia di artigli, una testa sottile dal lungo naso e lunghe orecchie, un’armatura di un grigio più scuro decorata a righe. I suoi occhi erano piccoli e neri, ed era piuttosto basso.
Appena uscito da quella sua tana si parò la faccia con le larghe, larghissime mani, quasi dovesse abituarsi alla luce del pieno giorno, troppo forte per lui che passava molto del suo tempo nella sua profonda e buia tana.
Abituatosi, uscì completamente dalla porta a braccia penzoloni. Il suo andamento curvo e gobbo non sembrava naturale, e i suoi artigli non avevano riflessi e parevano smussati e poco affilati.
Doveva essere abbastanza vecchio a giudicare da questi attributi.
“Compopolano!” lo chiamò a gran voce Evera che, pensando di chiedere indicazioni a lui, scese tosta dalla salamandra e, guidandola con la briglia, si pose davanti al gormita. Mangiaterra, poco lontano, li raggiunse presto ma senza scendere.
Questi parve alquanto sorpreso della presenza dei due sconosciuti, e diede il via a uno strano lavoro di naso, che sorprese non meno i due terricoli, anche se Mangiaterra ne era più divertito che stupito.
“Salve, noi…” cominciò Evera, ma il gormita innominato: “Chi siete?”
Opale Nero rispose prontamente: “Siamo Evera Dimetri e Ierir Alagari…”
“Evera? - riflettè lo sconosciuto, grattandosi il mento con gli artigli un tempo lame temute - Evera Opale Nero, la strega?”
“Proprio io.” rispose la maga.
“Sì, sì…si è sentito parlare di te.” continuava a riflettere l’altro facendo di sì col capo. Cosa piuttosto buffa. Non si riteneva così famosa da essere nota anche a quel vecchio isolato, che non pareva aver messo piede a Roscamar da parecchio tempo.
“Bene. Vogliamo sapere se - ” fu di nuovo interrotta.
“Venite dalla città, nevvero? - chiese, conoscendo tuttavia la risposta - Lo sento dal vostro odore.”
Questa affermazione stuzzicò l’interesse di Mangiaterra.
“Sì, veniamo dalla Città Sotterranea.” rispose Opale Nero.
“Ebbene, che posso fare per voi?”
“Vogliamo…” interrotta di nuovo.
“Non vengono molti dalla città qui. Anche se di recente ne ho visti diversi…si dice che vogliano costruire un tempio…non mi sembra una buona idea; dicevi?” 
“Vorremmo sapere se di recente hai visto una mandria di bisonti rocciosi passare qua vicino, e se sì sapere dove si è diretta.”
Il gormita rimase silenzioso per qualche attimo.
“Visto che siete del mio Popolo e che non ho niente da perdere ve lo dirò. - fu la risposta - Anche se sono lontano dal capire le vostre intenzioni. Se vi volete far ammazzare basta aspettare che un masso vi cada in testa.”
I due tralasciarono quest’ultima affermazione – che aumentò tuttavia la simpatia di Mangiaterra verso di lui - e divennero tutt’orecchi. Evera fu più confusa del suo compagno. Sapeva chi era lei, della sua abilità, ma non sapeva della caccia ai bisonti per la guerra?
“A vivere qui per anni si impara a capire come e dove si spostano le mandrie, e quando.” spiegò
Allargò il braccio puntando a destra. “Oltrepassate il canyon là in fondo e girate a sinistra. Ve li troverete davanti più o meno tra…meno di un’ora.”
“Grazie, compopolano.” disse Evera, annuendo e mettendosi subito in marcia, senza tornare in sella. “Andiamo, Mangiaterra.”
Ma Mangiaterra aveva tutt’altre intenzioni che partire, se non dopo aver posto la seguente domanda al loro anonimo aiutante:
“Chi sei tu?” che chiese con la sua solita espressione sognante, aspettandosi che quel gormita fosse un epico personaggio dei miti.
“Mangiaterra, muoviamoci!” ripetè Opale Nero, che si fermò tuttavia per ascoltare la risposta dell’aiutante.
Questo parve compiaciuto della domanda.
“Sono un vecchio gormita della Terra. - se avesse finito così li avrebbe lasciati interdetti - Un vecchio amico di Gheos, vecchio scavatore…Sono vecchio. Ho scavato, da solo o con aiuti, molti dei cunicoli che si dipartono dalla Città Sotterranea per tutta Gorm. Grazie a me è stato evitato un attacco sorpresa dei vulcanici durante la Grande Guerra. Mi chiamo Talps.”
Mangiaterra espresse un ‘oooh!’ di meraviglia mentre Opale Nero ne fu quasi sconvolta.
“Talps?” disse incerta, camminando barcollante verso di esso. “Talps? Sei…siete proprio voi?”
Talps annuì.
“Oh! - si piegò nell’inchino d’onore - Scusatemi, se…se vi ho mancato di rispetto…”
“Non farti, anzi, non fatevi troppi problemi. - rise Talps dandole pacche sulla spalla - Non ho certo scavato quei tunnel per essere osannato. Era la guerra, e…in un modo o nell’altro, i tunnel si ricorderanno di me, e con essi chiunque vi passerà.”
Opale Nero abbassò la testa. “Non merito il voi.”
“Oh, sono sicuro che farete parlare di voi quanto e più di me! - le diede altre pacche - Andate ora, qualunque sia la vostra missione.”
Così i due abbandonarono il vecchio Talps, procederono diritti per poi svoltare a destra, aspettando i bisonti davanti a loro.
Si appoggiarono alle rosse mura, nell’attesa delle bestie che non tardarono.
Uno scalpitio lontano di decine e decine di zoccoli, che reggevano un grande peso. Ben presto una rossiccia nube si alzò in lontananza, nella quale si scorgevano diverse imponenti ombre…
Le figure erano ormai ben visibili – e udibili - anche se ancora lontane nella loro stazza e potenza: grosse zampe giallastre dai grossi piedoni con grosse paia di zoccoli grigi che tamburellavano e scuotevano il suolo. Tozzi corpi muscolosi ricoperti di gialla e fine peluria, una coda spessa e  mediamente lunga munita di una pesante arma ossea all’estremità. Una dura e marrone corazza ossea sulla parte anteriore del dorso e sulla testa armata di due più o meno lunghi corni smussati.
Opale Nero provò timore di quella massa impetuosa e fu travolto con ferite minori diverse volte, mentre Mangiaterra schivava ogni bisonte con piccoli e agili movimenti e procedeva come guidato da qualche mistica visione o spirito. Opale Nero dovette ricorrere a uno scudo magico per poter camminare e assicurarsi della coscienza delle azioni di Mangiaterra. Questi lo trovò intento a ‘parlare’ con un bisonte roccioso che si era fermato e aveva lasciato la sua mandria.
Parlava e lo accarezzava, con gesti e versi dolci, che Opale Nero si sarebbe sconvolto se Roscalion avesse declinato la loro richiesta di aiuto. Ad un certo punto Roscalion emise un forte e prolungato grugnito e Mangiaterra gli balzò addosso. Si mise dunque in movimento e galoppò incontro a Opale Nero che ebbe un attimo di confusione nel vedere la bestia trottare contro di lui, ma il braccio di Mangiaterra che lo sollevò su Roscalion gli fece rendere conto del successo della missione.
Roscalion, guidato dalle parole –come i due si capivano, chissà - di Mangiaterra, procedeva il cammino che aveva portato i due terricoli sul luogo e che li avrebbe ricondotti a Roscamar. Con grande sorpresa di Evera, altri due bisonti rocciosi, di stazza più piccole, si separavano dalla mandria e seguivano i due terricoli in groppa a Roscalion.
Ma da dietro a un oscuro angolo si celava una orrida creatura dai cremisi riflessi, guidata da un’altra creatura ancora più orrida per essere riuscita a rendersi amico un tale mostro.
Si avventò su Roscalion con tutta la furia delle sue lunghe e appuntite zampe, disarcionando Mangiaterra e Opale Nero. Il bisonte roccioso, affiancato dai compari giovani, scosse di dosso la rossa creatura con un colpo di corni, pronto ad una lotta.
Per capire cosa fosse questa nuova mostruosa bestia e la sua guida è necessario fare un piccolo, molto piccolo balzo indietro…ma non subito.
***
“Continua così, così.” incitava freddo Pri’sum, osservando a braccia distese lungo i fianchi, una gamba piegata, il gormita della Foresta che, palmo aperto e braccio proteso, sollevava da terra il cubo di pietra grigia.
“Reprimi le tue emozioni. Controlla i tuoi istinti. Dai forza alla tua volontà.”
A tutti i forestali nel campo celato era stato somministrato il trito di erba incantata, preparato con l’uso di tutte e quattro le braccia da due ka’nhili emersi da dietro la tenda – e a dire il vero, non si aspettavano che facesse davvero effetto: non lo avevano mai provato su forme di vita vegetali, almeno non loro, che forse non erano soliti meditare insieme ai diversi rifugiati su Karmil.
I gormiti impegnati, di qualsiasi tipo fossero, sembravano faticare leggermente. C’era chi sudava, chi doveva prendersi delle pause –e dei severi ammonimenti da Pri’sum - , chi digrignava più o meno rumorosamente, ma nessuno che non riuscisse a tenere sollevato il blocchetto roccioso. Poteva reputarsi un successo.
“Tieni quella mano bene aperta. La chela, spalancala più che puoi. Ben disteso il braccio, o non serve a niente.” diceva rigido Pri’sum, passando tra i diversi iniziati che si allenavano, e mettendo le proprie mani e le proprie braccia per correggere gli eventuali errori, le ombreggiature scarlatte sul volto che rilucevano come macchie di sangue alla luce delle pietre magiche.
Si posizionò con sguardo truce davanti a un gormita, che pareva non aver voglia di fare il suo lavoro.
“Spiegami cosa pensi di star facendo.” lo rimproverò, guardandolo con i suoi occhi di fuoco.
“Avrei una domanda.” esclamò lui disinvolto.
“Anch’io ho molte domande, e pare che qualcuno non voglia rispondermi.” replicò Pri’sum autoritario.
“Avete parlato di macinato di pipalia per i poteri della mente. Io non l’ho mai mangiato, ma posso parlare e leggere la mente comunque. E come spiegate quello che accade con i marini?” proseguì lui senza paura.
La questione sembrò interessare il karmiliano, abbastanza da ignorare per un istante il fatto che quel gormita se ne stesse in panciolle.
“Errore mio. Ho considerato solo esperienze con ka’nhili, elfi e altre genti.” si scusò, ma per nulla imbarazzato
“Tuttavia, è una domanda consona ad un tuo simile, non a me. Per quanto sappia, la natura è stata generosa con la vostra razza. Vi ha fornito armi naturali in quantità, abilità innate prodigiose, poteri senza eguali. Tra questi, pare esserci una predisposizione naturale alla comunicazione mentale.”
“Hm. Grazie!” esclamò sorridente dopo aver meditato un attimo. Si alzò da terra e procedette anche lui, come gli altri, al suo addestramento, ancora agli inizi.
***
Il lungo corso del fiume Cornolmo procedeva a zig-zag per l’estremità sud - occidentale di Dalarlànd, arricchendo il suolo di acqua e minerali preziosi per la fiorente vegetazione, fonte del nome dell’isola, fornendo rinfresco per i gormiti e gli animali assetati di quella parte dell’isola, garantendo abitazione a innumerevoli pesci e altre piccole bestiole che si difendevano dalle intemperie e dai pericoli costruendo le proprie case mobili in conchiglie multiformi e variopinte.
Era un fiume di modeste dimensioni, comparato a molti altri, ma, come tutti, tranne i piccoli emissari del grande Lago Gemair in prossimità del Bazaar, erano originati dalle inestinguibili sorgenti ghiacciate di Picco Aquila.
Al contrario della vetta innevata, però, Cornolmo, e gli altri fiumi come lui, non avevano nulla che facesse pensare al freddo, alla neve, al gelo e alle poco sopportabili condizioni della casa dell’Aria.
Cornolmo tuttavia non era celebre per la sua lunghezza, per il suo percorso, per la ricchezza delle sue acque. Un tempo, agli anni della Grande Guerra di Gorm, lungo le sue rive si ergeva la magnifica, ricchissima, unica e inimitabile Biblioteca Silente. La più grande enciclopedia di ogni branca della cultura che esisteva sul suolo di Gorm.
E lì, ancora si ergeva. Quello che ne rimaneva: una confusa catasta di travi e pareti di legno nero e corroso dalle fiamme di un antico odio, acceso dall’iniquità dello Stregone di Fuoco e spento solo con l’intervento del Vecchio Saggio. Ma quest’ultima parte ai gormiti non era nota.
L’incendio provocato dal Popolo del Mare di Poivrons era stato perdonato, ma non si poteva dimenticare quanta cultura era andata inevitabilmente persa, nonostante numerosi volumi, più di quanti si potesse sperare, fossero stati salvati.
C’era chi poi vedeva l’incendio come una vendetta per la presa del Museo della Ricerca Storica, e si rasserenava nella convinzione che tutto fosse in armonia e, a quasi sette anni dall’episodio, definitivamente a posto.
Una nuova Biblioteca Silente, più grandiosa e più solida della precedente, era stata costruita in altra locazione, anche con l’aiuto dei marini; ma mai sarebbe stata la stessa della vera Biblioteca Silente.
Ed era vicino a questa che, sul finire del Tealse del 859, due gormiti della Foresta procedevano guardinghi, sondando con attenzione le sponde del fiume e il limitare del bosco immediatamente vicino.
“Perché camminiamo lungo il fiume?” chiese confuso uno dei due, il più corpulento.
“I cervi muschiati risiedono lungo il fiume.” rispose rapido l’altro, più smilzo e armato d’arco e frecce.
“Perché proprio Cornolmo?”
“E’ il fiume che ci è stato assegnato, Champius.”
“Chiamami Battiquercia. - lo corresse, senza mostrare però alcun fastidio - Perché proprio questo tratto?” continuò, pedante, a chiedere, non soddisfatto.
“E’ qui che è stato avvistato un cervo muschiato di recente.” rispose senza voltarsi l’altro, tradendo una leggera secchezza sotto il tono tranquillo e scattante.
“Hai idea di come trattarli dopo averli presi, Sporius?” domandò ulteriormente Battiquercia.
“Siamo qui per catturarli. L’addestramento spetta ad altri.” disse risoluto il cacciatore.
Champius era un gormita vegetale di una certa stazza, seppur non molto alto. Il suo corpo di un uniforme verde trifoglio era singolarmente triangolare, con increspature appuntite che diventavano via via più larghe fino ad arrivare alle spalle. Le ginocchia erano curiosamente sottili e lineari, e dalle ginocchia in giù spesse incrostazioni a forma di gemme rafforzavano le gambe con un verde smeraldo più cupo.
Menzione a parte meritano le sue nodose e massicce mani color del fango, cosa che hanno in comune solo con il volto. Grossi rastrelli bitorzoluti con quattro corposi denti, fuori proporzione se paragonati alle braccia o al resto del corpo.
Il volto era anch’esso dello stesso bruno, triangolare e appuntito, sebbene un po’ appiattito, come il torace e due voluminose pepite gialle gli facevano da occhi.
Non era un soldato né aveva particolari capacità combattive –se si escludono i macigni che aveva come mani - , era un semplice allevatore di bestiame, un lavoro molto raro presso i forestali più periti nel giardinaggio, nella cura delle piante, capaci di levare giardini fioriti o rigogliose colture in qualsiasi terreno e in breve tempo. Un individuo che in un modo o nell’altro ci sapeva fare con gli animali, e che Grandalbero aveva mandato alla ricerca e alla cattura dei cervi muschiati, forse tra le bestie più tipiche e più aggraziate di Dalarlànd.
Sporius, da quando abbatté il Grande Daicao del perfetto mimetismo sotto la guida del maggiore Dachiel, non era cambiato di molto. Aveva continuato a cacciare, a esplorare, nascondendo lo sguardo e le proprie emozioni sotto il suo ampio copricapo naturale, ammaliando chiunque riuscisse a scorgerlo tra i rami con la sua prodezza con l’arco. E anche lui, come Battiquercia, era un ottimo candidato per quella missione.
Per ore avevano proceduto seguendo un percorso irregolare, balzando diagonalmente dalla sponda del fiume a dove il bosco cominciava a infittirsi e divenire buio per la preponderanza di foglie affamate, senza trovare l’ombra della loro preda, né api o vespe solitarie, che spesso erano il segno di un cervo nelle vicinanze.
Champius Battiquercia ritenette fosse opportuno prendersi una pausa dopo tutto quel tempo trascorso a girovagare senza sosta e senza soddisfazioni.
Diede così voce ai propri pensieri: “Senti, cacciatore, io mi voglio prendere una pausa.” e tosto si sedette, incurante delle prossime obiezioni di Sporius, su di un masso scuro ricoperto di muschio.
“Non possiamo fermarci. - obiettò come prevedibile Sporius - Grandalbero si aspetta che ne prendiamo almeno uno, e non mi aspetto di trovarli stando seduto.”
Champius fu caparbio. “Non ti conosco, cacciatore, e tu non conosci me. - disse stringendo le dure sopracciglia - Non darmi ordini, e lasciami riposare un momento.”
“Non si tratta di conoscerci, Champius.” spiegò Sporius severo ma con tono pacato, chiamandolo di proposito con il vero nome, al che Battiquercia si accigliò.
“Siamo in missione per il nostro Signore. - affermò - Se non te la sentivi di andare, potevi non accettare.”
“Melis, quanto la fai pesante! - si alterò Battiquercia - Mi sono solo seduto un attimo. Ecco, guarda, ora mi alzo, contento?”
Sporius vide sì il suo compare alzarsi, ma non ne fu affatto contento. E quando anche Champius si accorse di ergersi insolitamente più alto sul terreno, si incupì anche lui.
La roccia su cui era posato un attimo prima si era essa stessa alzata, portando Battiquercia a tre piedi dal suolo, mentre un ronzio cominciava a fischiargli nelle orecchie.
Un attimo dopo, Battiquercia si ritrovò con il mento e tutto il resto per terra, imprecando ‘Uoh, Fendril!’.
Fu un lampo, uno scatto: in brevissimi istanti il cervo muschiato, perfettamente mimetizzato, si era levato dal suo nascondiglio, mal sopportando il peso di Battiquercia, e con ampi balzi, tanto fulminei che a malapena lo stesso Sporius riuscì a cogliere i movimenti, si gettò nel folto della selva retrostante.
Il cacciatore non si fece preda della sorpresa, e anche lui, benchè l’animale fosse già scomparso alla vista, si buttò nel bosco all’inseguimento.
“Non perdiamo tempo, Battiquercia!” lo incitava, correndo e aguzzando gli occhi alla ricerca di un movimento qualsiasi.
Ma Battiquercia aveva ben altro a cui pensare: correva in cerchio come un pazzo, agitando alla cieca i suoi enormi palmi che sferzavano l’aria generando paurosamente intensi fruscii.
“Ah, che cada il cielo e tutti i semidei! Levatemele di dosso!” strillava, invaso dallo sciame di vespe che il cervo muschiato ospitava su di sé. Che il corpo fosse fatto di carne od erba, le punture d’insetto fanno male a chiunque su Gorm, l’assicuro io.
Non gli davano tregua, e Sporius aveva smesso di curarsi di lui, scomparso tra le fronde.
“Che brucino nel Vulcano, dannate canaglie!” seguitava a inveire. Il volto e il collo erano già pieni di bozzi grossi come una nocca, e le sue mani erano sporche e unte dei resti di vespe travolte dalla mole di queste, ma gli insettacci gialli non cessavano di tormentarlo.
Con la vista un tantino offuscata, si diresse arrancando verso l’unica apparente via di salvezza da quell’inferno. Con un salto ridicolo per la sua stazza, si lanciò nelle acque per nulla impetuose del fiume Cornolmo.
Un potente spruzzo, e i suoni e le sensazioni di colpo si fecero confusi e indistinti attorno a lui. Tutti tranne il prurito del veleno delle vespe, che l’acqua fredda pareva non fare altro che rendere ancora più insopportabile.
Non era un grande nuotatore – chi lo era su Dalarlànd, tra tronchi parlanti e gormiti pennuti? - , e quindi per un certo periodo annaspò alla cieca sotto la superficie dell’acqua, cercando al contempo un appiglio per non essere trascinato troppo lontano dalla corrente, che era sì lenta, ma inarrestabile, e di non affiorare all’aperto troppo presto per ritrovarsi nuovamente con la faccia nel nugolo furioso.
Aprì gli occhi, quelle due lanterne dorate, e la cosa gli arrecò non poco fastidio. Fu capace di vedere alcune vespe morte nell’acqua, che avevano avuto il coraggio e la sprovvedutezza di inseguirlo fin lì. Osservò il fondale fangoso muoversi sotto di lui, pieno d’alghe e di tranquille chiocciole fluviali e altri molluschi, che procedevano flemmi per il loro cammino e non si curavano minimamente dei crucci dei grandi abitanti della terra.
Si aggrappò a una radice sporgente dalla parete del fiume, mentre volse lo sguardo sopra di lui. Lo sciamo lo vedeva e lo seguiva anche in quella situazione, ronzando in cerchio sovra il rifugio subacqueo di Battiquercia.
I gormiti vegetali possono resistere sott’acqua per tempi più lunghi degli animali, grazie al loro diverso modo di respirare, ma erano comunque limitati. Battiquercia non aveva le conoscenze magiche per prolungare il suo soggiorno sotto il fiume, né però aveva intenzione di riemergere prima che le vespe se ne fossero andate.
L’attesa fu lunga, e Battiquercia quasi si sentì scoppiare. Le vespe continuavano a osservarlo, predatori inflessibili che aspettavano che il loro bersaglio si rassegnasse o morisse nella sua tana. Con grande sollievo del forestale, infine il vago ammasso di puntini neri scomparve da sopra l’acqua, e Battiquercia repentinamente abbandonò la presa sulla radice, riaffiorando pesantemente e tra mille spruzzi come fosse un pallone, sputando l’acqua che aveva ingerito nella cavità orale.
Quell’esperienza, per quanto breve, sembrava averlo reso alquanto rabbioso e determinato a portare a termine la sua missione. Non tanto per responsabilità, quanto per vendicarsi delle vespe.
Fece delle scattanti bracciate, fatte però male, che lo facevano faticare come trasportasse un macigno e avanzare di poco nell’acqua. Raggiunse la riva e ritornò a camminare.
Si fece poi subito immobile e silenzioso. C’erano ancora vespe, di fronte a lui. Erano dirette verso la foresta, e parevano averlo fortunatamente dimenticato.
Battiquercia però non era dell’idea di verificare se lo davano davvero per morto o no, cosa che nella migliore delle ipotesi lo avrebbe riportato a pregare sott’acqua con lo sciame sopra di lui. E così, rimase fermo e muto come una statua. Cosa che trovò di una difficoltà indicibile, con le punture che ribollivano di pizzicore.
Studiò le vespe, che avevano cessato di spostarsi in folla, e ora volavano dentro il bosco quasi in fila. Battiquercia ebbe un’illuminazione.
Stanno tornando dal cervo muschiato! si disse, sgranando gli occhi e abbozzando un ghigno Se le seguo, mi porteranno da lui, e lo potrò catturare
La sua euforia si trasformò subito in dubbio Ma mi vedranno, e mi attaccheranno di nuovo. Come faccio? E dov’è quel dannato cacciatore?
Si ricordò all’improvviso di qualcosa. Qualcosa che gli era davvero accaduta molto di recente, ma di cui aveva usufruito talmente poco che era come se non la possedesse. Del resto, non la doveva possedere: non era un soldato lui. Ma suo cugino sì, e aveva optato per condividere con il proprio familiare il dente del daicao, contenente una minuscola goccia color del sole morente.
Non ci pensò più di una volta, e si concentrò, come gli era stato insegnato.
Lui era un modesto contadino, con una forza considerevole e un’amicizia per gli animali singolare, che sul grande piano contava davvero poco ma che, insieme a tante piccole altre cose, era ciò che manteneva saldo e fiorente il popolo di Grandalbero, che gli permetteva di mandarlo in guerra e di affidare ai suoi uomini incarichi anche pericolosi.
Lui, un semplice uomo di campagna –se di campagna si può parlare - , che di magia e forze della mente sapeva ben poco, che utilizzava i propri poteri solo per l’immediato e l’utile, trovò discretamente faticoso innescare il mimetismo perfetto.
Riuscì a rendersi invisibile agli occhi delle vespe, e di chiunque altro, ad ogni modo. E prese a seguire quanto più silenziosamente possibile le vespe disposte in fila, evitando di andare a sbattere contro qualcuna.
Le vespe procedevano a tratti lente, a tratti tanto veloci che Battiquercia dovette affrettare il passo per star loro dietro, e una volta imboccata la selva avanzare veloci implicava essere rumorosi, e mimetizzarsi aiutava ben poco.
Mentre pedinava il gruppo di insetti alati, si gongolava tra sé e sé per le sue idee geniali e per la sua grande fortuna, quasi dimenticando il pericolo delle vespe e del loro veleno.
Siamo in missione e non mi aspetto di trovarli stando seduto, ah! - canzonava Sporius - Voglio proprio sentire cos’avrai da dire, cacciatore! Se non mi avessi lasciato sedere, staremmo ancora camminando senza aver visto l’ombra d’un’ape o d’un corno di cervo! E seguire le vespe: che idea, che idea!
Dopo alcuni piedoni nella selva incontaminata, priva di qualsivoglia tipo di sentiero, naturale e gormitico, Battiquercia fu spronato a fermarsi, mentre le vespe ritornavano alla loro casa.
Zoccoli spessi e lucidi, quasi dorati; un manto sottile e setoso di un marrone tenue, tendente al grigio; ciuffi sparsi di un pelo che aveva colore e parvenza di vero e proprio muschio e anche licheni; gambe forti, solide, un po’ scarne come per ogni cervo ma giustamente muscolose; la coda corta e paffuta tipica della famiglia di animali; il muso curioso, con un naso sempre in movimento e attento ad ogni odore sospetto, che nulla aveva di diverso da quello di un comune cervo; corna oblique, levigate e lucenti, per nulla ramificate, che non ricordano altro presente in natura, se non quelle di un toro o bisonte. Bacca sul pasticcio dolce, un amalgama color della cera, nidi di vespe, sul collo e le spalle.
Tutto riunito in una possente ed elegante creatura, il vero Signore della Foresta.
Era insolitamente calmo e tranquillo, mentre gli insetti tornavano ronzando al sicuro del loro alveare e attorno al loro generoso sovrano.
Battiquercia decise di non attendere oltre: non poteva rischiare che lo sentisse, con le orecchie o con il naso. Programmò una mossa, per la quale in realtà c’era ben poco da programmare, che non era una chiara dimostrazione della sua facilità d’approccio con gli animali. Poco importava, lo doveva acciuffare.
Caricò il salto, e si avventò a braccia protese sulla bestia. Fallì, rovinando con il muso a terra. Il cervo muschiato lo udì gettarsi su di lui, e scattò in avanti.
La fuga dell’animale ebbe però vita breve: inciampò in qualcosa di invisibile, legato alla base di due tronchi, e una corda meticolosamente nascosta tra l’erba gli attanagliò le gambe. Infine, un ben architettato e rudimentale marchingegno tirò in alto la bestia, che si ritrovò sottosopra appesa ai rami.
Sporius comparve con un balzo da un cespuglio, puntando la freccia nell’arco teso verso Battiquercia che non vedeva.
Questo era enormemente colpito. In così poco tempo, quel cacciatore aveva avvistato il cervo muschiato, lo aveva tenuto sott’occhio e aveva messo in funzione quella elementare ma ingegnosa trappola. Talmente colpito che si dimenticò che Sporius gli stava puntando contro un’arma, sospettoso dell’invisibile presenza.
“Oh, oh, calma cacciatore!” cercò di rasserenarlo, ancora invisibile, sforzandosi di tornare normale.
La missione poteva reputarsi un successo, ma i due dovevano impegnarsi per catturare quanti più cervi possibili.
***
Il marino camminava frenetico e impaziente, scavando solchi e sollevando deboli nuvole di sabbia, grondando gocce anche a sei piedi di distanza dal suo ristretto percorso, tanta era la sua fretta.
Davanti a lui, si sviluppava con crescente dimensione e complessità, come un labirinto le cui vie si facevano più confuse mano a mano che si avanzava, l’immensa Foresta Silente. Un largo sentiero sgombro e livellato si scavava la sua strada nella boscaglia, sulla stessa linea del gormita, che conduceva alla città delle paludi del Bazaar.
Dietro di lui, si protendeva l’ampia spiaggia e l’infinita distesa del Mare di Gorm; la marea era bassa, e anche da quella distanza la sagoma cinerea di Poivrons il Protettore, l’imponente scultura all’apice di Poivronopoli, poteva essere scorta.
Il gormita in questione era piuttosto magro, ma le sue membra avevano un lucido riflesso scattante e resistente; una carne color del fiordaliso rivestiva ventre, petto, collo, viso.
Sulla schiena e sulla nuca e nella parte esterna dei suoi arti, il blu floreale della sua pelle sfumava in un più cupo acciaio. Strane, sottili sporgenze come cicatrici, curve a mezzaluna, del colore del corallo, gli cingevano gli stinchi, i fianchi e i dorsi della mano destra.
Il suo capo era del tutto simile a quello di uno squalo, completo di pinna, fine e poco alta, pur avendo perso la rozzezza e la bestialità dell’animale, che lo avrebbero altrimenti reso spettrale e spaventoso. I suoi occhi erano profondi e quasi neri.
Il braccio sinistro, poco oltre il gomito, si deformava e si induriva in ciò che, tra le altre cose che rievocava con la sua forma, più tra tutte rassomigliava a un martello blu scuro, ma non con la stessa forma di quello portato da Gheos.
L’ansia del marino si spense in sollievo quando dalle foglie dello stradone per il Bazaar comparve a passo spedito un secondo marino. Era più massiccio del paziente sulla spiaggia, seppur non di molto. Aveva una carnagione più accesa ma più chiara del suo compagno, azzurra. In più punti, sulle spalle, sugli stinchi e sul bacino, le squame si inspessivano in un arcobaleno verde mare e blu notte, sul quale crescevano bozzi irregolari e piccoli color Nejema al tramonto.
I suoi piedi erano gonfi, le cinque dita grosse ma affusolate.
Mentre il braccio destro terminava in tre dita corte, il sinistro si rigonfiava – esattamente come quello dell’altro marino - in una sorta di spuntone, solcato da righe come una spirale, scuro come il cielo notturno.
Dalla nuca e lungo tutto il setto nasale, correva una membrana arancione che ospitava, nel punto in cui si aprivano le narici, una punta cornea simile al corno del narvalo.
Non appena vide il suo compare agitare la mano per salutarlo dall’altra parte del sentiero, cominciò a correre con un ghigno sul volto.
Uno di fronte all’altro, si tesero le braccia a pugno chiuso. Dopo averlo battuto, aprirono i palmi, si diedero come uno schiaffo l’un l’altro sulle proprie mani; successivamente se le strinsero con forza, poi, liberata la stretta, fecero qualche passo indietro e cozzarono i propri petti l’uno contro l’altro.
“Era ora! - proruppe il gormita squalo - Dove stavi, Narvalion?”
“Volevo fare una visita a Patmut Iun prima di partire.” spiegò lui.
L’altro rise sonoramente: “Non ci credo! Tu al Museo?”
Narvalion poggiò la mano sul fianco, sogghignando.
“La cosa ti sorprende così tanto, Squalis?”
“Eh, un po’. - ammise - E che cosa sei andato a vedere?”
“Profezie circa questi…questi ka’nhili.”
“E che cos’hai scoperto? Anzi, no, non lo voglio sapere.” borbottò Squalis facendo un gesto con la mano.
“Partiamo subito?” chiese poi.
“Pronto quando sei pronto tu.”
“Allora andiamo.”
I due marini si avviarono verso il mare, senza fretta, immergendo prima i piedi, poi le ginocchia, e infine la vita. Quando l’acqua arrivò loro al collo, si immersero e cominciarono a nuotare, veloci ed eleganti, come solo chi è nato nel Mare di Gorm può fare: con semplici flessioni dei piedi e delle gambe, le braccia dritte lungo i fianchi.
Non mancò molto prima che il fondale sotto di loro sprofondasse, in un mostruoso dislivello che faceva saltare la profondità da due volte a dieci volte un gormita, e aumentava a vista d’occhio.
Una delle ragioni per cui le giornate in riva al mare e le abluzioni sono un passatempo poco praticato dai gormiti, mescolata alla scarsa considerazione del nuoto come attività sia dilettevole che utile.
Sfrecciando tra le acque tiepide, le prime rare case piramidali dei figli di Semal cominciarono ad affacciarsi nel fondale sotto di loro. Per la maggior parte erano grigie, pochissime dipinte, altre variopinte dei colori delle loro rocce di costruzione, rosse, blu e verdi.
Pochi gormiti solitari si affaccendavano fuori dalle proprie abitazioni isolate; ognuna era ben separata dalle altre da ampi spazi coltivati.
Le colture includevano numerose varietà di alghe, da mangiare, per nutrire i pesci e per essere lavorate e trasformate in creme per il corpo e le ferite; l’onnipresente trefoliea, il balsamo naturale dei fondali su cui poggiava gran parte dell’economia marina; distese di spugne per la pulizia personale e per la realizzazione di tessuti; campi di coralli per impreziosire i colli, i polsi e le dita di opulenti gormiti, e per forgiare per gli stessi fastose armature da collezione.
Alcuni marini, a diverse altezze, facevano pascolare grassi salmoni e corpose anguille, aiutandosi con animali pastore e bastoni dalle molte forme.
Lontano verso est, nei pressi della grande altura su cui si ergeva Poivronopoli, si potevano scorgere branchi di grossi animali, i quali altri non erano che i guerrieri di Nobilmantis che si esercitavano e facevano di guardia.
Di fronte a Squalis e Narvalion, ben visibile, un grande vuoto un tempo occupato, presso un largo, lungo e profondo solco in cui la sabbia aveva assunto un colore diverso, più povero.
Tu hai assistito al risveglio, vero? domandò Narvalion, benché sapesse già la risposta.
Squalis parve esitare, digrignando i denti come sciabole in un ringhio flebile che non giunse alle orecchie del suo amico.
Ero solo un ragazzo, allora. - spiegò per l’ennesima volta, e i ricordi lo turbarono - La mia casa, la mia campagna erano tutto quello che avevo. Quando ho visto la Grande Murena spazzare via gli anni di lavoro della mia famiglia, il luogo dove avevo passato tutti i miei giorni…mi sono sentito…molto, molto  male. Ero convinto di non avere più un futuro.
Non pensiamoci più. - disse poi scrollando la testa - Siamo in tempi più bui, adesso, e dobbiamo, noi due, ritenerci fortunati.
Già… Narvalion pensò di esporre un commento riguardo quanti avevano e avrebbero perso la vita e la fortuna nei tempi recenti e prossimi, ma preferì evitare, e concentrarsi sulla missione assegnata: scovare e catturare un nautilo gigante.
Dopo aver evitato un poco promettente branco di giovani squali, i due si appostarono di fronte a un picco roccioso con una profonda e buia spaccatura nel mezzo.
Come ci muoviamo? domandò Squalis, incerto sul da farsi.
Lo staniamo fu la proposta risoluta del compare.
Agitando l’acqua intorno con i suoi poteri, sollevò un ciottolo piatto dal fondale sabbioso. Di seguito, lo prese tra le dita e, facendo ancora leva sui propri poteri, lo gettò con notevole spinta all’interno della spaccatura, casa del nautilo gigante.
Il sasso ovale scomparve nell’apertura nera come il carbone, senza fare un suono. I minuti seguirono, minuti pieni di silenzio e privi di alcun rumore.
Riproviamo. diceva, non contento, e attirava verso di sé un'altra pietra, più grande, questa volta.
E se il mostrone non è qui? ipotizzò Squalis, dubbioso riguardo quella tattica.
Andrò lì dentro di persona a vedere se è davvero vuoto, o ci sta solo ignorando. ripromise Narvalion, preparando a scagliare il sasso. Ripensando a quanto detto, volette non aver proferito quei pensieri: la prospettiva di avventurarsi in quel buco nero era tutt’altro che fonte di tranquillità.
Squalis non colse i pensieri contrastanti del suo amico, né però cercò di distoglierlo dall’iniziativa: sapeva perfettamente quanto fosse testardo, esattamente come lui. Era questa la fonte della loro grandissima intesa, nonché dei loro per niente rari guai.
Il sasso ricadde nell’apertura come la notte senza rimbombare. Però, quando, così pensarono loro, toccò il fondo della buca, qualcosa da dentro la roccia emise un gorgoglio che ondeggiò fino alle loro orecchie.
Che ti dicevo, eh? disse divertito Narvalion, pronto al terzo lancio.
Questo non giunse a destinazione. Un tentacolo grigio - azzurro spesso e viscido emerse dalla fessura, assorbendo l’urto del masso, che quasi sprofondava nella pelle inconsistente dell’animale.
L’apice del tentacolo afferrò la pietra, e la riscagliò all’attaccante, troppo lentamente però perché quest’ultimo si curasse di spostarsi per evitarla.
Uno dopo l’altro, altre sette braccia gommose e scivolose della stessa dimensione del primo affiorarono dalla buca, agitate. Vennero presto alla luce, tra gli otto tentacoli maggiori, numerose altre mosce appendici, di dimensioni estremamente più piccole.
Dal taglio del guscio a spirale che riluceva di una vaga sfumatura dorata, comparvero, poc’anzi nascosti e protetti sotto la spessa corazza di calce, due enormi occhi laterali, opachi e ricoperti d’una patina che pareva renderli molli e fluidi, simili agli occhi di un cieco. L’iride dell’animale – non aveva cornea - erano di un giallo cupo e spento, come sabbia antichissima. Le pupille avevano una forma strana e singolare: due cerchi neri uniti tra loro da una breve ma spessa striscia, anch’essa scura.
L’avevano stanato, era uscito dalla sua casa. Ma Squalis e Narvalion non avevano idea di come procedere, e le sue dimensioni erano sufficientemente diverse dal previsto perché fossero un problema per i due.
La bestia marina, del resto, non aveva intenzione di aspettare che trovassero una soluzione, né di perdere tempo a scacciarli con manovre complicate. Fremendo i tentacoli più piccoli attorno a quella che doveva essere la bocca, fece schioccare un fiotto di liquido nero, penetrante e maleodorante, che annebbiò la vista dei due inattesi ospiti, lasciandoli ad agitarsi sopra la sua casa, con le braccia a coprire gli occhi.
Quando poterono infine riaprirli – e un po’ di inchiostro aleggiava ancora intorno a loro - , la bestia era ritornata nella sua cuccia.
Questo è un problema. si disse Narvalion, scacciando le ultime tracce di inchiostro dall’occhio sinistro con la punta delle dita.
Sapevamo che sarebbe successo. O no? Squalis era stato avvertito delle capacità del nautilo gigante, così come, credeva, anche Narvalion. Però, nessuno dei due si era preso la briga di pensare a come agire a seconda delle reazioni e delle situazioni. Erano, in tutti i modi, in mare aperto.
Narvalion si grattò il mento, pensieroso, gli occhi ridotti a fessure. Macchinò qualcosa di astuto, complicato e ardito nella sua mente, Squalis lo poteva sentire. Tuttavia, non riuscì a comprendere il piano per intero: forse era troppo confuso per lo stesso Narvalion. Dovette aspettare che quello glielo rivelasse.
Mi è venuta un’idea. ruppe infine il silenzio, ma non recò risposta ai dubbi di Squalis.
Estraendo il pugnale legato alla gamba, si limitò a dirgli: Seguimi.
Squalis non era dell’idea di abbandonare la tana del nautilo: poteva dileguarsi mentre loro erano lontani. Tuttavia, non avendo formulato un altro piano, qualunque fosse quello di Narvalion, non poteva che seguirlo. E così fece.
L’amico - narvalo procedeva in fretta, tenendo ben stretta la lama tra i denti; Squalis fece fatica a tenergli testa, benchè fosse più magro e leggiadro. Ripercorsero un tratto della stessa strada che avevano seguito per arrivare alla tana del nautilo. A un certo punto, Narvalion si fermò, si guardò attorno e subito dopo, il tempo che Squalis lo raggiungesse, deviò dal percorso originale per spostarsi altrove. E infine si fermò una seconda e ultima volta.
Squalis lo raggiunse trafelato, e la sua stanchezza aumentò a dismisura quando vide ciò che Narvalion stava contemplando. Il suo piano si fece più chiaro agli occhi di Squalis.
Non completamente, ma abbastanza perché fosse in grado di dirgli: Non mi piace per niente, Narvalion.
Prova a farmi cambiare idea. lo sfidò lui, ammiccando. Con il pugnale che aveva in mano, si creò un taglio sulla gamba sinistra. Il rivolo rosso di sangue uscì compatto e acceso, per poi dissiparsi nell’acqua di mare e diventare come fumo.
Non si disperse abbastanza, né smise di uscire dalla ferita, perché agli squali appostati in cerchio a pochi piedi da Narvalion sfuggisse il suo aroma, inconfondibile e appetitoso.
Gli occhi del branco affamato si fecero uno solo, bramoso della carne del gormita così impavido.
Presero presto ad andargli dietro.
Squalis gemette alla prospettiva di correre in mare ancora, non tanto per sé quanto per l’incolumità del compagno: la perdita di sangue, mista alla fatica del nuoto –che grazie agli squali affamati alle calcagna doveva essere più veloce di prima - , avrebbe potuto neutralizzarlo facilmente, e rendere la sua fuga dagli squali decisamente breve.
Non preoccuparti per me, ce la farò. - lo rassicurò Narvalion, avvertendo la sua preoccupazione, già in testa - Ricorda che sono Narvalion il Testardo!
Squalis sorrise dell’ottimismo del compagno, mostrando tutte le bianche zanne, senza però nascondere il suo turbamento, ora più rivoltò a se stesso che all’altro, dal momento che quello aveva già distanziato sia lui che gli squali.
I timori di Squalis si rivelarono infondati, una volta ritornati alla tana del nautilo: gli squali non riuscirono a toccare nemmeno con la punta del naso il corpo di Narvalion, che si mantenne in testa della corsa per tutta la durata della fuga, superato solo due volte dal compare. Gli squali erano piuttosto lontani dai due, ma non li avevano persi di vista.
Ora Squalis era davvero curioso di scoprire tutte le pieghe del piano di Narvalion. Questi, notando con grande sollievo la distanza che lo separava dagli squali, si curò con velocità degna di uno stregone provetto la ferita, per altro già parzialmente sanata dall’acqua marina.
Con egual velocità, sollevò altri due massi di discrete dimensioni dal fondale e li spinse insieme dentro la tana. Qualcosa rimbombò fortemente.
La fatica della corsa, la perdita di sangue, la magia curativa e i poteri utilizzati sulle pietre lo avevano quasi stremato. Squalis lo percepì, e seduta stante si precipitò ad aiutarlo, conducendolo al sicuro dietro la tana, prima che gli squali o il nautilo gigante sopraggiungessero.
Il gruppo di pesci cartilaginei non era certo tanto ingenuo da non notare i due gormiti ripararsi dietro il picco roccioso, ma quando di fronte a loro, eruttato dalla tana come vapori da un geyser, comparve il nautilo gigante si impietrirono e rimasero disorientati.
Lo stesso valeva per la grande bestia, infastidita dalle pietre lanciate contro di lei per ben due volte. Credeva di essersi liberata dai due bipedi di prima, e che ora fossero tornati per avere il colpo di grazia. Non si aspettava certo che a lanciare quelle ultime rocce fosse un branco di squali famelici.
Dopo l’iniziale stordimento, gli squali dimenticarono i due gormiti: erano in forze, erano veloci e, soprattutto, avevano tanta fame. Il nautilo gigante era una preda perfetta.
Subito si agitarono tutt’intorno ad esso, aggirandolo per impedirgli di ritornare nella tana. Presero a morderlo, o a tentare di morderlo, su più lati. Quello si destreggiava come poteva, agitando i tentacoli maggiori per scacciarli, scrollando il guscio e facendo addentare loro la dura e insapore calce. L’inchiostro sputato non fu d’aiuto in quell’occasione.
I suoi arti senz’ossa erano tutt’altro che mollicci e deboli: aveva infatti già strozzato due squali in rapida successione, e ne teneva stretto uno per la coda.
Se non sapesse nemmeno difendersi dai predatori, il Sommo non ci avrebbe chiesto di catturarlo. osservò Squalis, attendendo con impazienza il momento per intervenire.
Questo non mancò d’arrivare: le ferite subite dal nautilo erano ora in gran numero, e non potevano rischiare che si indebolisse troppo; gli squali erano calati in numero sufficiente perché i due marini potessero intromettersi senza correre troppi pericoli. E Narvalion si era ripreso. Dovevano solo sperare che la bestia fosse loro riconoscente.
Così, balzarono belluini da dietro la tana, e si immischiarono nella lotta.
Stettero ben attenti a ingaggiare uno squalo per volta e a tenersi lontani dalle bianche tenaglie delle loro fauci, adoperando più i poteri che la forza fisica o le poche armi che si erano portati dietro. In ugual modo tennero le loro distanze dalla parte inferiore dell’estremità dei tentacoli maggiori, che scoprirono essere urticante come i bracci acquosi della medusa.
La lotta durò meno del previsto: gli squali rimasti, quattro dalla dozzina che erano in precedenza, furono messi in fuga.
Con loro grande sollievo, quando gli squali scomparvero alla vista, il nautilo gigante non si ritrasse da loro, né riversò su di loro il soffocante inchiostro. Rimase fermo, a contemplarli. Squalis pensò in un primo momento che stesse considerando l’idea di cibarsi di loro.
Smise di pensarci e si mosse a cauta lentezza verso l’animale, che non dava nemmeno ora segni di paura – o di avversione - nei loro confronti.
Lascia fare a me. diceva a Narvalion. Non sapeva cosa aveva pensato di fare Narvalion una volta arrivati fin lì, ma sapeva cosa voleva e doveva fare: aveva numerose ferite lungo i tentacoli, e dovevano essere curate.
Facendo ricorso a quanto sapeva di magie curative, prese ad accarezzare le parti sicure dei tentacoli e a cantilenare nella sua testa le formule magiche appropriate. Mentre queste facevano effetto, immetteva qua e là testi di canzoni lente e rilassanti.
Il nautilo sicuramente non capiva, o meglio, carpiva, le parole, o meglio, i pensieri. Tuttavia al loro effetto su di lui sembrò acquietarsi ulteriormente, e cominciò a ondeggiare dolcemente il guscio e i tentacoli della bocca.
Chissà come avrebbe reagito quando avrebbe capito che doveva essere usato in guerra.
***
“Non voglio udire lamentele. Non crediate che questa meditazione sia inutile: essa è la base della manipolazione della forza” diceva rigido Pri’sum, con le mani dietro la schiena, mentre osservava i suoi eccezionali discepoli piegarsi, molti borbottando la propria obiezione, nella corretta posizione per la meditazione.”
“La meditazione è il primo passo che insegniamo a tutti coloro che ospitiamo nella nostra casa, Karmil. Tuttavia, per voi, che avete necessità diverse e tempi non generosi, abbiamo dovuto agire diversamente.”
“Ciò non toglie!” gridò poi, la prima volta che alzava la voce per imporsi sugli altri, facendo scattare la mano sinistra con l’indice teso di fronte alla bocca.
A quel tono tutti quanti, che avevano chiuso gli occhi come da manuale, gli fecero scattare aperti dalla sorpresa.
“Che per poter sperare di manifestare la vostra luce interiore, dovete imparare a meditare. Non c’è altra via.”
“Non dovete mai, mai bramare, struggervi all’interno nel desiderio di creare la luce della forza magica. Non dovete ardere nella passione per la lotta che state per intraprendere. E’ l’errore più colossale che possiate mai commettere in questa arte.” e ciò dicendo, sottolineando con forza la parola colossale, la sua voce diede segno di impazienza e di intolleranza, e Pri’sum se ne accorse; continuò poi con la solita calma.
“Sebbene voi dobbiate imparare, e in fretta, per poter vincere, dovete comprendere la verità nella manipolazione nella via della luce. Il segreto è essere in pace con la vostra mente e con ciò che vi circonda: entrare in uno stato di tranquillità con cui possiate analizzare ogni evento della vostra vita, anche il più improvviso, con assoluta calma e razionalità.”
“Il vostro desiderio dev’essere controllato. I vostri stimoli non devono compromettere le vostre azioni. Le emozioni non devono controllarvi: voi dovete controllare le emozioni. Capite questo, e avrete la strada spianata di fronte a voi.”
“Ora concentratevi.” terminò, tornando con entrambe le mani sotto le ali.
Con suo dispiacere, perfettamente celato sotto la sua maschera di indifferenza, vide un gormita alzare una mano a cinque dita per chiedere spiegazioni ulteriori, o così credeva.
Gli diede la parola con un cenno del viso.
“La via della luce è la via migliore? E’ la via giusta?” domandò.
Pri’sum chiuse gli occhi, e sospirò spalancando le mandibole laterali: si doveva aspettare una domanda simile.
“Io, che sono stato iniziato alla via della luce per tutta la vita sin da bambino per le regole della mia gente, ti dico che sì, è la via giusta.”
“Tuttavia, per le stesse regole, io non ho mai intrapreso la via delle tenebre, né potrò mai. Inoltre, ‘giusto’ e ‘migliore’ sono opinioni; quindi, non posso riempire i tuoi vuoti.”
“Tu, però, puoi. - osservò Pri’sum, aprendo gli occhi dopo alcuni minuti - Se ne avrai la possibilità, recati a Tato Yami, segui il loro percorso di addestramento. Una volta completato, potrai giudicare da te quale via è la più completa, la più giusta, la più confacente a te.”
“Credo…credo che un giorno proverò, se sarò ancora vivo.” gli rivelò il gormita, molto sicuro di sé.
“In tal caso, ti auguro buona fortuna.”
***
Picco Aquila è un mondo meraviglioso, colmo di attrazioni e di vita, sia gormitica che no.
Solo un occhio attento è però capace di scorgere ogni forma di vita che riempie l’ambiente montano nelle sue più impensate componenti: in buche nel terreno ruvido, in grotte naturali oscurate da rocce o fronde, nei tronchi e sui rami degli alberi, persino nei paesaggi più gelidi e perennemente innevati della grande vetta, fino ai Rifugi Parlanac dove Noctis nascose sé e i suoi durante la Grande Guerra, sotto il grande becco del dio Praconrem, scolpito nella roccia dalle abili mani dei terricoli e dall’esperienza magica degli aerei.
L’imponente monte nevoso non è tuttavia povero di luoghi più piacevoli e vivaci, meno aspri delle distese bianche e delle pareti pietrose, dove rare famiglie scavano la terra e la plasmano con l’arte della magia in abitazioni non meno maestose di quelle della grande capitale Orsol.
Ampi boschi selvaggi e lunghi fiumi dominano la montagna insieme al gelo e alla terra.
Fiumi come Tempesta, sulla fiancata settentrionale di Picco Aquila, che si disperde in una magnifica cascata presso l’omonimo collina, Colle Tempesta, dove sorge la chiesa in cui è custodito il cristallo Volvorot.
E come non parlare dei Fiumi Gemelli, lungo la parete sud - orientale, Elenfim ed Elenmis,
Dall’alto il loro corso, una volta separato dall’unica sorgente, sembra avanzare parallelamente, con le stesse increspature e le medesime inclinazioni, fin quasi ai piedi del monte, dove i fiumi prendono ognuno una strada differente, irrorando la casa di Asili e Fendril e dividendosi in innumerevoli rami.
Vedute spettacolari, sia da terra che dal cielo di Picco Aquila. Panorami che Alos non poteva più condividere da quasi tre anni.
Alos, il lottatore del primo Torneo di Astreg dal ritorno a Gorm, ridotto a nascondersi dalla vista dei suoi fratelli corrotti, compiere missioni segrete in una casa sempre più pericolosa, senza poter mettere piede nella dimora dei suoi padri, né solcare le sue nubi senza il pericolo di essere freddato da letali sentinelle nascoste fedeli al nuovo regime, più mortali dei forestali con il veleno del mimetismo, celati tra le fronde ai confini con il Picco Aquila, confini sondati in quel momento con estrema cautela da Alos e Galila, la Magica Vedetta.
Ella era all’aspetto grosso modo una possente e massiccia ape, con un petto gonfio e ricoperto di pelo azzurro, così come il bacino, rivestito di strisce di piume a intervalli nere e gialle. Due lunghe dita dorate ai piedi, tre bianche alle mani. Il suo volto era pieno e gli occhi violetto sottili e penetranti, ma capaci di vedere più lontano e più precisamente di molti altri di maggiori dimensioni, cosa che le garantì il suo soprannome.
Attorno alle orecchie, i padiglioni auricolari sottili, lunghi e triangolari erano messi in risalto da delle piume color del sole che le rendevano estremamente simili alle antenne delle api.
Le ali, però, trasparenti e luminose, erano più conciliabili per forma con quelle delle vespe.
Molte centinaia di volte Nejema aveva compiuto il suo percorso nella volta celeste attorno a Mitera da quell’infausto giorno, e Alos, così come tutti gli esiliati, non si erano mai dati pace.
La lunga agonia dell’esilio sembrava non essere destinata a concludersi presto, e sempre più tormenti si infilavano come coltelli in una ferita sempre più larga.
Alos non era nato per vivere nella Foresta Silente. Era buio e umido, troppo caldo sotto i rami frondosi. Non c’era lo spazio e le condizioni sufficienti per permettere il volo come Alos era abituato a farlo; un problema che i compagni alati sotto Grandalbero non sembravano condividere.
Il Bazaar, unico centro marino aperto a un soggiorno di gormiti di altri Popoli, era anch’esso umido, per non dire bagnato, l’aria salmastra e pesante che lo faceva continuamente tossire e gli arruffava le piume.
A Darth Kuun non c’era ambiente che Alos trovasse favorevole. La Valle dei Canyon era troppo spigolosa e irregolare, e Garsomor in essa era una città sovraffollata e piena di polvere; Roscamar era calda ed esageratamente pianeggiante, il volo non era piacevole su quella distesa lineare; infine, la Città Sotterranea era, appunto, sotterranea: mai un aereo avrebbe potuto abitare in un ambiente così chiuso e scuro.
No, Alos e i gormiti dell’Aria non potevano che vivere per natura su Picco Aquila. Ma le leggi della natura furono messe in secondo piano dalle idee e dai decreti di Elios, soppiantate dalle leggi dei gormiti.
Benchè in teoria l’esilio non costringesse gli interessati ad abbandonare la casa del proprio Popolo, di fatto, con Noctis e i suoi seguaci, quegli esiliati dovevano guardarsi con attenzione dal perfino guardare Picco Aquila. Del resto, essi non avevano intenzione di mettervi piede o ala finchè l’alleanza con il Vulcano non fosse terminata. Ma, per quanto Alos si sforzasse di nasconderlo, ne avevano bisogno. Quell’atto contro natura doveva essere corretto.
Come poteva essere successo? Non era possibile, pensava Alos, che l’intero Popolo dell’Aria, civili e guerrieri insieme, persino i politici, si fossero fatti abbindolare, che accettassero di buon grado di operare fianco a fianco con i gormiti del Vulcano, qualsiasi fossero le loro promesse.
Soprattutto, non poteva ritenere possibile che solo uno sparuto gruppo di aerei, poche dozzine, avesse avuto il coraggio di opporsi alla collaborazione con lo Stregone di Fuoco.
Non era possibile, non lo era affatto. Alos si ostinava a credere –e aveva ragione - che diversi furono guidati dalla paura dell’esilio e di perdere le proprie proprietà o i propri stessi familiari, o che semplicemente e forse più tragicamente non si curassero di chi comandava né di chi erano i suoi amici purché costui garantisse loro casa e beni.
Anche con questa indotta convinzione, però, Alos non poteva perdonare questi gormiti, impauriti o disinteressati che fossero. E di certo non poteva perdonare quelli che credevano davvero nelle promesse di Elios e dello Stregone di Fuoco. Fosse dipeso da lui, avrebbe marciato su Picco Aquila con un esercito dei Popoli alleati e punito tutti quelli che si mostravano favorevoli alle ideologie vulcaniche. Tuttavia, sapeva perfettamente che ciò non era possibile, e che, se lo fosse stato, avrebbe sicuramente arrecato più male che bene.
“Gli ultimi Tornei sono stati noiosi.” disse Galila tutt’un tratto, mentre camminava di fianco a lui nel bosco al limitare del dominio di Grandalbero con quello del nuovo Signore dell’Aria.
Alos non si aspettava parole da lei - era stata silenziosa da quando Noctis e il Vecchio Saggio li mandarono in quella missione - e sicuramente non qualcosa di apparentemente così futile come gli ultimi Tornei di Astreg. Alos apprezzò però quell’argomento: lo distoglieva dai problemi e dal futuro incerto dell’Isola, e certo anche per Magica Vedetta era così.
“Sì, proprio noiosi. - concordò dopo alcuni attimi di silenzio - Non c’è più lo stesso…entusiasmo.”
“Vorrei ben vedere. - si accigliò lei - I gormiti combattono ogni giorno, ormai. Farlo per divertimento sembra quasi…ingiusto”
Alos sperava di non dover tornare su quei dilemmi così presto.
“Sai cosa mancava, anche? - riprese parola Galila - Guerrieri dell’Aria. Sarebbe stato molto più avvincente, e molto più completo.”
Sospirò.
“I migliori sono rimasti a Picco Aquila, e si sono chiusi a noi come tutti gli altri.” spiegò Alos con rammarico.
“Forse se avessi partecipato tu sarebbe stato un Torneo migliore.” disse Galila poi, mostrandogli un sorriso.
Alos sorrise a sua volta, divertito. “Sono un po’ vecchio per il Torneo.”
“Però sei venuto in questa missione.” osservò la donna, incuriosita.
“Qui posso contare su di te.” e le prese la mano, stringendola nella sua.
Per fortuna, il tradimento di Elios e l’esilio da lui ordinato non lo aveva strappato dalla cosa più importante che aveva in quella vita, più vitale della casa: l’amata Galila.
Desiderò parlare del più e del meno con la sua compagna di vita, degli amici, della famiglia, del lavoro…ma la situazione non gli permise di potersi svagare a quel modo. Era qualcosa di ingiusto, pensò, non poter essere spontaneo con la propria amata per la situazione di crisi esterna.
Si ritrovò a parlare nuovamente della situazione del Popolo dell’Aria.
“I seguaci di Noctis non sono tutti guerrieri. - diceva - Non tutti possono aiutare nella lotta i nostri amici. Molti sono solo semplici contadini, contadini coraggiosi che hanno avuto il coraggio di ribellarsi. Ci sono anche vecchi, e bambini. Come possono vivere? Noctis non può farli combattere, e molti non possono riprendere il loro lavoro fuori da Picco Aquila…”
“Elios la pagherà per questo. - ringhiava Galila, piuttosto accanita - Non possiamo perdonarlo, anche se dovesse pentirsi e tornare in ginocchio dal Vecchio Saggio con le ali spezzate.”
All’improvviso Magica Vedetta si impietrì, e si abbassò, sciogliendo la stretta di mano: i suoi fini sensi avevano percepito qualcosa prima di Alos – e non aveva preso i veleni di alcun daicao.
Alos non impiegò molto per capire la causa di quella reazione.
Poche decine di piedi sopra le loro teste, si levava nel cielo con la sua mostruosa apertura alare la figura di un grifone dal piumaggio castagno e lavanda. L’obiettivo della loro missione.
Era un animale magnifico, e tremendamente potente.
Delle dimensioni di una salamandra, il corpo era longilineo e rigonfiato in corrispondenza del petto e le spalle, più stretto alla vita. Il capo d’aquila, con il suo acuminato becco rosso, torreggiava di alcuni piedi sul resto del corpo proprio come il collo di un dragone.
Due paia di arti esili e possenti al tempo stesso, glabri e rossi in egual misura al becco con aguzzi artigli, sorreggevano il suo peso quando al suolo.
In volo, grandiose ali di dodici piedi d’apertura, che si sviluppavano da sopra le spalle, lo portavano fin sopra le nuvole alla velocità del vento.
Alos era abituato alla vista dei grifoni, ma avvistarne uno era sempre un’esperienza mozzafiato. Erano creature nobili, uniche e straordinarie. Potenti quasi come un dragone, ma molto più eleganti e aggraziate. Ben pochi gormiti potevano vantarsi di averne catturato uno, ancora meno di averne ammaestrato alcuno. Alos era preparato, però, così come anche Magica Vedetta; se i loro metodi non avessero funzionato, i ka’nhili del mistico Sommo Luminescente III, che avevano proposto la caccia ai grifoni in primo luogo, avrebbero senza dubbio saputo come renderlo accondiscendente ai loro fini.
Il grifone non si allontanò molto dalla loro posizione; da dovunque fosse arrivato, sembrava non aver grande interesse a tornarci, e cominciò a volteggiare in cerchi concentrici alternati a spirali sopra le loro teste, probabilmente cercando qualche preda nel sottobosco.
Alos era pronto per entrare in azione secondo il programma. Dopo essersi acquattato insieme a Galila, si alzò e cominciò ad agitare le ali candide per sollevarsi in aria, e così fece anche Galila.
Non appena però i piedi della donna si alzarono dal suolo, ricadde immediatamente, con un’espressione preoccupata sul volto.
“Stai giù!” intimò all’amato, in un sussurro. I suoi sensi avevano captato qualcosa di nuovo.
Alos non questionò: si fidava ciecamente delle sue abilità, e obbedì.
Ancor prima di capire cosa stava succedendo, Galila evocò mormorando un incantesimo su di sé e Alos.
Celatus oculi.” disse, due volte. Prima rese invisibile se stessa, poi, sebbene Alos ne fosse capace –era uno degli incantesimi più elementari del mondo - anche sul compagno.
Per quanto elementare e semplice, e privo di controindicazioni, come ad esempio l’Hic et ibi del trasporto rapido, l’invisibilità della magia era sempre un po’ disorientante. Non trovarsi più le braccia, i piedi, niente, era qualcosa che lasciava Alos leggermente impacciato e insicuro.
Alternando gli occhi da Galila, o dove riteneva si trovasse, al grifone su nel cielo, Alos tentò di comprendere che tipo di pericolo avesse sentito Magica Vedetta.
Non appena vide due figure alate, più minute del grifone, sfrecciare verso l’animale smise di alternare lo sguardo, e si focalizzò sui due nuovi arrivati, sicuro fossero loro il pericolo.
Erano due gormiti dell’Aria, su questo Alos non aveva alcun dubbio. Due aerei del Popolo dell’Aria ‘ordinario’, quindi dei nemici.
Riconobbe uno di essi, mentre si appostavano intorno al grifone con intenzioni poco piacevoli.
Era Falcosilente, il fratello maggiore e più raffinato del traditore Elios.
Una figura controversa e combattuta dentro: troppo legato a suo fratello per opporglisi, troppo lontano dalle idee dello Stregone di Fuoco per assecondarle e abbandonare il Vecchio Saggio.
Più di una volta aveva sfidato la fortuna informando i Popoli alleati dei movimenti e dei piani di Elios, garantendo spesso la vittoria e annullando l’effetto sorpresa che gli aerei speravano di esercitare. Ora che il Signore era cambiato, che non era più consigliere, la sua libertà di movimento e il suo poter ottenere le informazioni prima di chiunque altro tra il suo Popolo erano diminuite, e con esse l’aiuto che poteva offrire al Vecchio Saggio e i suoi fedeli.
Ciò nonostante ardeva del bisogno di aiutare i vecchi e non abbandonati compagni, e quando poteva li incontrava sempre per portare loro tutte i dati che riteneva utili, anche se in realtà erano banali.
Alos, che era piuttosto vicino a Noctis, lo aveva incontrato spesso quando era con il suo Signore.
E non aveva letto altro che una profonda malinconia negli occhi di Falcosilente. Di tutti gli aerei che conosceva ancora al seguito dell’effettivo Signore dell’Aria, Falcosilente era quello che rispettava di più, e l’unico per cui provava compassione.
L’altro gli era del tutto nuovo. Massiccio, compatto, più di qualsiasi altro aereo avesse mai visto, più addirittura di se stesso, che nonostante le dimensioni ridotte era noto per la sua singolare forza e muscolatura.
Aveva la pelle azzurra con numerosi bozzi violacei sulle spalle e sulla lunga coda. Un paio di ali, di dimensioni a dirla tutta leggermente sproporzionate, rosse come il mattone e di fattura simile a quella dei dragoni sovrastavano il suo dorso. Vagamente rassomigliante a quello di un drago era anche il muso, allungato e con una strana corona di creste viola sopra gli occhi.
Senza tante riflessioni, mentre Falcosilente distraeva l’animale, il gormita non familiare si appostò dietro al grifone e lo picchiò senza mostrare pietà, almeno da quanto Alos riusciva a vedere.
Continuava a tempestarlo di pugni e calci, e gli parve di vedere anche morsi, senza dargli tregua.
Il grifone se ne accorgeva eccome e abbandonava Falcosilente, che pareva meno desideroso di battersi, e agguantava l’altro. O almeno ci provava. I movimenti del compagno di Falcosilente erano estremamente reattivi e rapidi, troppo per la sua massa. Alos ritenne che avesse preso il veleno del senso di colibrì.
Il pensiero lo disgustò. Era stato contrario all’idea di potenziarsi con dei veleni sin da quando Elios lo propose, e non gli piacque affatto che il Vecchio Saggio condividesse; Alos non ne aveva preso alcuno.
Gli pareva contro natura, contro il normale ordine delle cose farsi più potenti in un batter d’occhio, senza esercizio né fatica. Alos era diventato il lottatore per eccellenza dell’Aria con il sudore e le ferite, senza uso di sostanze. Niente poteva battere la sua potenza, perché era naturale, o così credeva.
Lo scontro tra il grifone e i due aerei proseguiva senza esclusione di colpi, e senza che Galila o Alos osassero intromettersi. L’aereo muscoloso sembrò usufruire anche della magia contro la bestia, come si poteva dedurre dalle luci multicolori, le mani protese in avanti o sopra la testa e dalle grida strazianti del grifone che riempivano l’aria, grida che non potevano essere generate da ferite normali. Falcosilente continuava ad agire da palo, estraneo alla lotta vera e propria.
Alos strinse i pugni. Voleva immischiarsi, salvare il grifone da quell’abominio. Non tanto nella speranza di facilitare la missione, ma perché quella violenza immoderata e il dolore del grifone gli facevano accapponare la pelle. Nessun gormita dell’Aria combatteva con tanta foga e tanta aggressività. Quell’aereo gli fece paura, e questa lo trattenne dall’intromettersi. Non sapeva cosa Galila provasse, perché invisibile, e non gli apriva le mente.
Il grifone aveva tentato più volte di sfuggire, ma Falcosilente e il suo socio non permettevano che scappasse. Ciò facendo, lo scontro si era portato più in basso, più vicino ai due aerei celati dalla magia, dove potevano osservare meglio.
Il gormita misterioso fece sprofondare il pugno sinistro, illuminato di una poco promettente luce rossastra, nel petto del grifone. Un urlo da spaccare i vetri proruppe dal becco rosato del grifone, tanto che Alos dovette tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi per non assistere al successivo massacro.
L’urlo fu spezzato quasi subito: Falcosilente salì sul dorso del grifone, tra le grandi ali. Mormorò delle parole, sicuramente magia, alle quali il grifone parve calmarsi, e Alos giurò che gli stesse annebbiando il dolore e lo stesse costringendo ad obbedire loro. Ma a quale motivo? Alos si era dimenticato di chiederselo. Perché il nuovo Signore dell’Aria voleva il grifone? Che avessero scoperto le intenzioni dei Popoli alleati e stessero catturando grifoni per ostacolarli, o li volevano usare loro stessi in battaglia?
Qualunque fosse lo scopo, Alos comprese che il grifone era ormai caduto: guarito, probabilmente sì, ma ora pendeva dagli ordini di Falcosilente, che sedeva comodo e tranquillo sul suo dorso. Aveva smesso di agitarsi, l’animale, e l’altro gormita aveva cessato la lotta e sorrideva di gusto, sputando parole confuse al suo amico.
Ai comandi dell’aereo, il grifone virò e si diresse verso la montagna, con l’altro gormita al seguito.
Alos aveva visto e permesso fin troppo: doveva intervenire, un’occasione simile non si sarebbe ripetuta.
Ancora invisibile, si alzò in volo, per cogliere di sorpresa i due gormiti dell’Aria, e impedire che tornassero dal loro Signore con il prezioso bottino.
Nessuna sorpresa, non da parte loro. Bensì, da parte di Alos –e sicuramente anche Galila.
Mentre questi si avvicinava, il gormita corpulento arrestò il suo volo, lasciando che il grifone con Falcosilente in groppa andasse per la sua strada. Si voltò, guardando Alos dritto negli occhi con pupille infuocate. Non poteva vederlo, eppure era sicura lo stesse fissando. Cosa significava?
Perché stava avanzando verso di lui? Alos si gettò in basso, temendo per la propria vita.
Con suo terribile stupore, il gormita misterioso riversò su di lui e su Galila un mare di fuoco emesso dalle sue fauci.
Alos evitò di essere avvolto dalle fiamme per un soffio, ma non poteva dirsi lo stesso per gli alberi più vicini. Cercò in qualsiasi modo di mettersi in salvo, di trovare Galila e mettere in salvo anche lei.
Ma non aveva di che aver paura: il gormita si era limitato a minacciarli, ed ora proseguiva il suo volo diretto a casa.
Quando fu un punto azzurro stampato sul fianco di Picco Aquila, mentre le fiamme divoravano ancora legno intorno a loro, solo allora Galila si sentì sicura di annullare l’incantesimo e di dare voce alle proprie preoccupazioni.
“Alos, Alos! Stai bene?” domandò preoccupatissima, gettandosi su Alos, e abbracciandolo.
“Tutto bene, cara…tutto bene.” la rassicurò lui, anche lui spaventato.
Sciolse sbrigativo l’abbraccio.
“Ma la missione è stata un fallimento.” dichiarò, scontento.
“Chi diamine era quel brutto ceffo? Perché volevano il grifone? E noi dove ne troviamo un altro?” lo tempestò di domande Magica Vedetta.
“Non lo so…non lo so.” fu tutto ciò che Alos potè dire.
Aveva, in verità, un’idea in mente, ma era riluttante a rivelarla. Quel brutto ceffo, quell’aereo così violento e forzuto…era forse il frutto di un folle accoppiamento.
Un ibrido, un mezzosangue di Aria e Vulcano: avrebbe spiegato il suo modo di combattere così aggressivo e la sua capacità di controllare il fuoco.
Quell’idea era però ripugnante oltre ogni limite di sopportazione.
Non poteva concepire che qualcuno del suo Popolo potesse innamorarsi ed avere un figlio insieme a quei mostri che abitano la parte nord di Darth Kuun. Doveva per forza essere stato costretto, ma la cosa non lo rassicurava molto. Non era tuttavia concepibile, ai suoi occhi, nemmeno che gli immondi gormiti del Vulcano fossero capaci di amare un gormita fuori dal loro Popolo, o di amare in primo luogo.
La cosa che più lo turbava, però, era la certezza che quel mostro era stato generato molto prima del tradimento di Elios: un cucciolo di tre anni non poteva essere così grosso e così brutale.
“Noctis ci aveva avvisato che sarebbe stato pericoloso. - ricordò poi, cercando di dimenticarsi quello spiacevole incontro - Spegniamo questo fuoco, e poi ce ne andiamo. Non possiamo rischiare una seconda volta.”
Galila corrugò la fronte e fece una smorfia: non sembrava essere molto d’accordo. Se aveva un difetto, era di essere testarda.
Se al posto di Alos, e lui lo sapeva bene, ci fosse stato qualsiasi altro gormita, anche lo stesso Noctis, avrebbe insistito fino allo sfinimento per portare a termine ciò che avevano intrapreso.
Ma la presenza dell’amato Alos faceva prevalere la ragione sull’orgoglio, e quindi Galila non protestò, limitandosi a bofonchiare qualcosa mentre spegneva le fiamme con rapidi guizzi di magia.
Improvvisamente Galila si fece tesa e spalancò gli occhi, guardandosi attorno con veloci scatti della testa. Alos si aspettò il peggio. Con una giravolta si volse dalla parte opposta, coi pugni pronti a dare dei buoni cazzotti.
“Eccovi qua!” disse entusiasta il nuovo arrivato, emerso dal fogliame, trafelato nel tono della voce.
“Ehi, ma cos’è successo?” domandò subito dopo, notando gli alberi corrosi dal calore e il terreno annerito.
“Te lo spiegheremo un’altra volta, Livaz” liquidò in fretta l’argomento Alos, guardando sgomento e incuriosito Livaz Aquila Solitaria, il figlio di Noctis, e il suo insolito e corposo ‘bagaglio’.
“Che cosa ci fai qui, piuttosto? E dove hai preso quello?” gli chiese Galila, trasmettendo la stessa curiosità e incredulità di Alos.
Con il dito sottile e allungato indicava tremante l’animale tenuto al guinzaglio da Livaz. Un animale che non si erano aspettati di vedere, non nelle mani del loro compare esiliato; nelle mani di nessuno, effettivamente.
Era un grifone bianco e grigio fumo che, disinvolto, si puliva le penne dell’ala sinistra, agitando il collo e il becco giallo.
“E’ una lunga storia. - spiegò Livaz, sorridendo al ricordo dell’episodio - Era solo un uovo quando l’ho salvato con…alcuni miei amici, un po’ di anni fa. Ora è cresciuto, e l’ho allevato io. Anche se è giovane e non tanto grande, è pronto a mettere a rischio le penne per la nostra causa, ve lo posso assicurare.”
Disse il tutto orgogliosamente, sottolineando le parole ‘l’ho allevato io’, e accarezzando come un padre fa con il figlio il capo pennuto dell’animale alato.
“Be’… - iniziò Alos, strofinandosi le mani tutto soddisfatto - Queste…queste sono ottime notizie! Ma perché non ce ne hai parlato prima?”
Livaz non rispose.>>

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Capitolo 34
*** Capitolo 15 ***


“Livaz Aquila Solitaria! L’uovo salvato da Livaz e Mimeticus e gli altri nella ricerca per il Cuore dello Scudo!” strepitò Lafivias, battendo rapidamente ed entusiasticamente la punta della penna sul suo taccuino. Quel giorno era presente solo lei alla lezione, Osmaniu lavorava.
Tanto meglio. – si trovò a pensare il mentore – Una distrazione in meno per lei, un po’ di soddisfazione in più per me.
“Adoro come tutto si ricollega…così. È fantastico.” Seguitò la ragazza, terminando infine i suoi appunti – cosa del resto tutta strana, considerando che le orazioni verosimili del Cronista avvenivano a fine lezione parlavano di fatti già descritti analiticamente in precedenza, ed erano quelli i dati su cui prendere appunti. Chissà.
“Be’, è la storia, cara mia. – disse il Cronista compiaciuto – Ogni cosa che accade ha una ricaduta sul futuro, anche la più piccola. E se poi sembrano dettagli insignificanti quelli che vi racconto, state pur certi che un senso c’è, tutto ritorna alla fine.”
“Sì, sì, avete ragione. Ne avevamo anche già parlato. Eppure è tutto così inaspettato…chi se lo ricordava Livaz? E quell’uovo?”
“Suvvia, non concentriamoci troppo su questo particolare. C’è molto altro di cui parlare in quanto ho narrato.”
“Sicuro…mi è piaciuta un sacco la descrizione delle spiagge di Karmil e del posto…sembrava di trovarmi lì. Voi ci siete stato?”
Il Cronista trasalì un istante; il suo corpo subì i singolari singulti che corrispondo alla tosse per i gormiti animali. Si schiarì la gola leggermente. Lafivias notò quella strana reazione con sopracciglio sospettoso e incuriosito.
“Maestro, state bene?” chiese infatti, principiandosi ad alzarsi.
“Sì, sto bene…è la vecchiaia, Lafivias. – si scusò grossolanamente, guardando altrove – No, no, stai pure seduta. È tutto a posto. Comunque, sì, ci sono stato. Per diverso tempo, anche.”
“D’accordo. Quindi…quanto sapete della storia di Karmil e del Popolo della Luce?”
“Abbastanza, ritengo di poter dire. Molto di più di quanto molti sanno o credono di sapere, se perdoni la mia modestia. Tuttavia, credo che sia ancora presto per parlarne a fondo. Un’altra volta, quando avremo finito questa fase della storia gormitica.”
“Uff. – si lagnò Lafivias, che, come Osmaniu, detestava essere lasciata sulle spine e non avere tutto chiaro subito (e il Cronista invece si compiaceva come un bambino di mantenere vivo l’interesse in quel modo!) – È proprio necessario? Un’anteprima?”
“Eh, eh. D’accordo, un’anteprima. Uhm, be’, la regione di Mitera che conosciamo è che riteniamo tutto il nostro mondo è in verità abbastanza ristretta. Esistono vaste regione per noi inesplorate, oltre i confini della Zoah abitate dai dragoni e dagli elefanti, verso le cosiddette Terre Selvagge, così come dall’altra parte del Mare dei Serpenti. È qui in queste estensioni che vi è la culla della civiltà dei ka’nhili, di cui è parte quella…‘categoria’ che chiamiamo Popolo della luce, stabile fino a poco tempo fa a Karmil. E non vi ha risieduto per sua volontà.”
Lafivias si ostentava in avanti sulla sua seggiola, la mano poggiata sui palmi delle mani e le braccia sorrette sulle ginocchia, con gli occhi sgranati e le orecchie frementi in attesa di sapere di più.
“Non dirò altro, Lafivias. Dovrai aspettare.” La deluse il Cronista, ridacchiando un poco. Quella sbuffò.
“Coraggio, chiedimi altro.” La spronò dunque.
“Uhm…le cacce per queste bestie sono, sì, accattivanti. Anche per Roscalion, non pensavo di rivederlo. La tattica per catturare il nautilo gigante ha un che di folle…Narvalion, o Squalis, non mi ricordo di preciso chi dei due, era proprio un matto.”
“Sono entrambi dei matti. – la corresse e rise il Cronista – Erano. Buon Fendril, forse sono ancora vivi, per quanto attempati a dovere, ma si sono dati una calmata, presumo. Ai loro tempi, e da giovani, anche se la realtà storica del Grande Tradimento e delle continue guerre sembra escludere una simile possibilità, erano davvero scalmanati, pieni di vita e di pazze idee per la testa che realizzavano sempre insieme. Erano quasi un modello di vita, un’ispirazione per gli altri, giovani e vecchi insieme. Vedere qualcuno così gioioso in tempi bui come quelli in cui hanno vissuto. Qualsiasi gormita del Mare sa chi sono e ne parla…se fosse facile come una volta avvicinare un marino.”
“Sì, ho sentito. – aggiunse Lafivias – Si stanno chiudendo sempre di più a Poivronopoli. Da mio padre ho anche sentito che si stanno sollevando trattative per una cessione del Bazaar al Popolo della Foresta.”
“È una brutta condizione, la loro.”
“Comunque…tornando alle bestie, mi direte di no, vero, se vi chiedo che cosa hanno incontrato Opale Nero e Mangiaterra nella Valle?”
“Ovviamente. – sorrise beffardo quello – Ho detto narrando che l’avrei spiegato un’altra volta, e così sarà.”
“Mmm…ah, un’ultima cosa. Qui avete parlato più…dettagliatamente della stirpe degli Aborigeni, o dei Precursori come li chiamavano i karmiliani. Sono gli stessi Aborigeni che ‘conosciamo’ noi, no? Quelli citati da Buferios nel ricordo di Magor, nell’altra lezione.”
“Certo che sono loro, e mi pare di averlo messo in bocca a Razael nel racconto.”
“Ecco, allora, credete sia possibile fare una visita alle cave di Picco Aquila dove sono conservate le loro tavole?” domandò esigente e speranzosa.
“Oh, stai chiedendo le stelle, Lafivias. Sai quanto sono riservati gli aerei, è da quelle tavole che deriva la loro imbattuta supremazia magica. Non mi pare che siano oggetto di turismo, purtroppo. Pensa che diverse tavole sono ancora oggi studiate e non del tutto decifrate e anche ora che non si parla più di Popoli come una volta, sono solo gli aerei che le studiano. Quindi mi dispiace, nessuna visita. Tuttavia, anche a Patmut Iun sono conservate delle tavole. Sono sicuro che quelle possono essere guardate da chiunque.”
“Davvero? E pensare che una volta per entrare a Patmut Iun dovevi essere un membro segreto, e che la sua collocazione era nascosta. È tutto molto diverso.” Osservò Lafivias, a metà tra il basito e una sorta di positivo, rassegnato sentimento del tipo ‘be’, meglio così’.
“Per fortuna si cambia. Non esisterebbe storia, progresso senza cambiamento.”
 
Il Cronista passeggiò con tutta la calma del mondo per la lunga scalinata che conduceva al Tempio di Roccia, vetta della parete di canyon su cui era stata costruita la città capitale di Garsomor, quasi fermandosi ad ogni esteso gradino, o a uno sì e uno no, per godere come la prospettiva della visione della metropoli che si distendeva ai suoi piedi cambiava man mano che discendeva: la lontana e luminosa volta del cielo si faceva un tetto sempre più lontano, mentre le sterminate distese del Deserto di Roscamar pian piano diventavano invisibili, rimpiazzate dapprima dalle mura di canyon vicine e lontane, poi dalle possenti mura della città e infine dai cocuzzoli delle popolose abitazioni dei gormiti della città di Darth Kuun Sud. Abbandonati i fasti e gli spazi aperti del Tempio di Roccia, messo piede nel cuore pubblico ed industrioso di Garsomor, nelle stradine, nei vicoli, nelle grandi gallerie dove carri trasportati da salamandre e da bisonti rocciosi, il cielo era visibile solo alzando il capo, e l’orizzonte era ora rappresentato dalle mura della capitale, ed entro di esso il confusionario, rumoroso, vivo affaccendarsi di tutti i suoi abitanti.
Dirigendosi verso la bottega in cui lavorava Osmaniu e compiacendosi della bellezza della città che era diventata casa sua, ritornò con la mente agli episodi del giorno precedente. Invero, Osmaniu ne era stato protagonista, sul finire della cena d’ambasciata.
Il pasto era proseguito con una tranquillità e una serenità a dir poco sorprendenti, considerando le diverse e totalmente opposte posizioni, senza alcun apparente possibilità di compromesso, del messo Leppelin di Erian e del Signore Atarros. Quest’ultimo aveva messo la parola fine – per il momento – alla questione del gruppo di elfi che aveva preso sotto di sé, e l’altro si era messo il cuore in pace, capendo che il Signore terricolo non avrebbe mutato la propria idea quel giorno.
Le palesi possibilità che la faccenda potesse farsi…accesa, calda, se non proprio incendiaria, furono accantonate in un angolo e per il resto della serata si parlò del più e del meno, della situazione di Garsomor, delle attrazioni di Erian e della sua storia, reciproci inviti a visitare le diverse città d’appartenenza. Sul finire, mentre fu servito il dolce, l’ambasciatore acconsentì al desiderio di Atarros di poter soddisfare una richiesta dei suoi ospiti: e quella fu di poter assistere ad uno ‘spettacolo’, una dimostrazione dei poteri elementali dei gormiti. Nello specifico, i poteri del Vulcano di Osmaniu. Il Cronista non trovò nulla da obiettare, Osmaniu era divenuto abbastanza capace nel dominio del suo elemento da non fare danni e da stupire più di un ospite non familiare con quella arte naturale; ma, come era successo le altre poche volte – fu chiesto il permesso del Cronista per pura formalità, essendo il suo genitore: se la domanda fosse stata rivolta direttamente ad Osmaniu non si sarebbe di certo offeso – lasciò decidere il figlioletto. Non sempre Osmaniu accettava, per diversi timori, e anzi erano più i rifiuti che le indulgenze, ma non fu il caso di quella sera. Meravigliò, o per meglio dire intrigò, in modo quasi morboso a giudicare dal luccichio degli occhi di Leppelin e dallo strano angolo in cui si incurvarono le sue labbra, gli ospiti elfi creando e comandando sottili e molteplici lingue di fuoco che curvò in un grande numero di onde e piegò anche a formare delle figure, abbastanza elementari e di basso livello ma pur sempre riconoscibili e notevoli, per un gormita come per un elfo. Non si poteva dire che gli elfi si fossero congedati con soddisfazione dalla seduta, ma se non altro divertiti e con la pancia piena.
Ora il Cronista sfrecciava – per modo di dire – tra i vicoli più stretti di Garsomor, una scorciatoia per la bottega di Osmaniu, seppur non proprio consigliabile se si vogliono evitare incontri spiacevoli – facendosi molto spesso strada con il proprio bastone tra gli ostacoli viventi, e facendo la carità ai poveri e i miserabili che popolavano quelle sporche stradine di seconda categoria, gormiti che avevano perso tutto e che ora si prostravano su lembi di tessuto in mezzo alla strada, rimanendo rigidi e a capo chino con un contenitore per sale nero tra le mani tremanti. I più erano così, umili e rassegnati; poi c’erano quelli odiosi, che, pur rimanendo accovacciati a terra, afferravano i talloni dei passanti incitandoli a sborsare per la loro povertà o lamentandosi per i pochi granelli versati. Con uno particolarmente fastidioso il Cronista dovette ricorrere a percuotergli la mano col bastone.
Per fortuna il tragitto era concluso, o quel mendicante avrebbe persino potuto alzare le mani in risposta alla – giusta – percossa del Cronista, come era già successo alcune volte. La fama del Cronista non era estesa come a Dalarlànd a Garsomor, ma in quei vicoli era ben conosciuto, se non come un grande maestro di storia che ha compiuto viaggi oltremare almeno come l’insegnante privato della figlia del Signore: quindi una persona ricca, e le sue costanti elargizioni lo ribadivano. Ciò che tuttavia non sapevano – e che nessuno che non fosse un suo amico di vecchia data poteva sapere – era che, pur essendo vecchio, aveva ormai 76 anni, sapeva ancora difendersi bene. Pertanto i più arditi tentavano di dargli addosso, finendo sempre col volto nella sabbia, e nonostante numerose dimostrazioni delle sue abilità, anche della sua tecnica di controllo, qualcuno di tanto in tanto si ostinava ancora, segno che le voci per quelle strade non circolavano, oppure non le si credeva o non le si voleva credere.
L’insegna ‘Maestro vasaio Otlom’ era la più appariscente tra quelle di tutte le botteghe, officine e quant’altro della grande strada che si affacciava ora all’uscita dell’intrico di vicoli secondari da cui arrivava il Cronista; non per una scelta singolare di colori quanto perché non era scritta convenzionalmente: ogni lettere era infatti rappresentata da un vaso, ben fissato alla parete con intonaco e, a ricordarsi e a credere a quello che diceva Otlom, anche da incantesimi.
Otlom di per sé non era un vasaio. Forse lo era stato in passato, ma Osmaniu raccontava al padre che da tempo non metteva mano al tornio o all’argilla. Sicuramente aveva anche lui realizzato, altrimenti non sarebbe potuto essere d’insegnante ad Osmaniu. Di fatto, Otlom non costruiva vasi: si limitava a comprare la materia prima, a gestire la bottega, a cuocere la ceramica, e a decorare gli stessi vasi, con una maestria nel pennello invidiabile. Anziano quanto il Cronista, la sua non-attività come vero e proprio vasaio Osmaniu, nei dialoghi col padre, la attribuiva alle mani che gli tremavano, sebbene, se ciò fosse vero, anche il lavoro come decoratore dovrebbe essergli precluso.
Al Cronista non interessava granché. Gli era grato e lo ammirava per aver accettato Osmaniu come apprendista, avere visto in lui un certo talento in quell’arte, e averne fatto il motore della bottega nel giro di due anni, dopo che il precedente lavoratore sotto Otlom si era trasferito da qualche parte nelle regioni del Grande Golfo. Avergli dato un’occupazione e un futuro, un senso di autonomia, in vista della dipartita prossima del vecchio padre adottivo.
 
< Viaggiare nel Deserto, anche in percorsi di breve lunghezza e durata, necessitava una buona scorta di acqua – o, all’occorrenza, un energico gormita del Mare - , viveri per sé e per le cavalcature, qualsiasi fossero, e teli e panni con cui difendersi dal sole e dal calore.
Per questo motivo il lavoro di sentinelle della Terra di Roscamar e di Garsomor, benché nella Valle dei Canyon il clima fosse più sopportabile, era un incarico niente affatto invidiabile: controllare le frontiere giorno e notte, tutto attorno alla propria città, nelle temperature infernali quando splendeva Nejema e in quelle glaciali quando le lune e le stelle prendevano il suo posto.
La tremenda escursione termica quasi faceva fremere chiunque, guardie e viandanti, nell’attesa che la fredda notte terminasse presto per dare spazio al giorno, e viceversa.
Ma i terricoli erano gormiti forti, che dopo secoli di vita nei difficili climi del meridione di Darth Kuun e con le costanti minacce provenienti dal nord, si erano adattati e sapevano come gestire ogni problema di temperatura e di suolo.
Cionondimeno, come ho già detto, le sentinelle della capitale della Terra non vivevano una vita facile; i loro Signori erano consci degli inconvenienti, e per questo le paghe per suddetti guardiani erano piuttosto elevate. Questo però era ancora lontano dal fare della sentinella una carriera piacevole. Ma era un lavoro necessario: la difesa di Roscamar, e della Città Sotterranea insieme ad essa, dipendeva dall’occhio acuto e dai piedi svelti delle guardie.
Fu grazie a loro infatti che Gorm fu avvisata, secoli fa, dell’arrivo dei dragoni da est con un giorno di distanza dal loro effettivo sbarco sull’Isola, beffando la Grande Piovra che nulla poteva contro quei dominatori del cielo.
La lingua assetata della salamandra mogano fece piazza pulita dell’acqua tenuta al fresco nel grosso otre grigio, che, svuotato, fu riposto legato sul fianco sinistro dell’animale.
La sentinella, a cavalcioni sulla salamandra, non fu soddisfatta: erano lontani dalle fortificazioni attorno a Roscamar, e sperò che quell’acqua le sarebbe durata per tutto il tempo residuo alla fine del suo turno di guardia. Sperò anche di non dover ricorrere al cibo, che preferiva conservare per situazioni più critiche.
Un cencio del suo turbante gli ricadde sugli occhi, oscurandogli la vista. Lo rimise tosto al suo posto, incastrandolo tra le curvature dello straccio che gli proteggeva il capo dall’arsura.
Non si poteva decifrare nulla del suo aspetto fisico, del suo sguardo, del suo stato d’animo, imbottito com’era di lunghi stracci che gli lasciavano scoperti solo le mani e una fessura per gli occhi. Ai piedi portava una varietà di sandali. Ed oltre a questo, un equipaggiamento corposo di borse e sacchi, e uno spadone e un cannocchiale, e altri strumenti, sporgenti da un sacco mal chiuso che sembravano più idonei a uno scalpellino che a una guardia militare.
V’è da aggiungere che la ricognizione era un lavoro oltre che spossante nelle membra anche nella psiche, poiché monotono e noioso. Sebbene i rischi di un attacco a sorpresa del Vulcano, o dell’Aria, o la venuta di qualche dragone sfuggito –o aizzato volontariamente - dalla zona di contenimento erano incombenti e mai lontani, in generale le sentinelle avevano ben poco di cui discorrere ai loro superiori al ritorno dai loro turni.
Ed era un bene che fosse così.
E tutti pregavano che continuasse ad esserlo, per sempre anche.
Le stesse sentinelle lo desideravano, in modo da poter abbandonare quel lavoro e sostituirlo con uno più a contatto con altre persone e più creativo, possibilmente.
Quella in questione non era da meno.
La monotonia l’aveva spinta qualche centinaio di piedi più al largo del solito. La monotonia, sì, unita a una viva curiosità: da parecchi giorni non erano arrivati alla capitale rapporti fino ad allora regolari da Garsomor. A una mente superficiale ciò poteva significare tranquillità, che al confine non accadeva nulla di sospetto o di pericoloso. Ma ad altre menti più suscettibili era il possibile segno di un ostacolo che impediva agli abitanti della città nella Valle di mettersi in contatto con Roscamar.
Non che la guardia in questione avesse intenzione di viaggiare a cavallo della salamandra lungo tutto il deserto: non poteva per il suo incarico, e anche se ne avesse la possibilità da sola e con quelle poche provviste non avrebbe percorso nemmeno metà della distanza.
Sperava solamente che, distanziandosi più del normale, avrebbe potuto avvistare qualcosa che dai limiti tradizionali della sua guardia non poteva mettere a fuoco.
Un’idea strampalata e traballante. Era impossibile che Garsomor fosse stata chiusa dai nemici senza che trapelasse la minima notizia e senza un solo fuggitivo.
Quando si decise con una smorfia a tornare indietro sulla sua strada, vide con la coda dell’occhio una sfumatura lontana e grigiastra nell’aria tremolante.
Si fermò, la salamandra bloccata in obliquo, ad osservare meglio quella curiosa e colorata curvatura. In un primo momento pensò a qualche illusione ottica, o addirittura un miraggio dovuto all’afa e alla spossatezza –non sarebbe la prima volta.
Deciso ad andare a fondo a quel mistero, estrasse il cannocchiale dalla tunica, lo allungò e lo puntò dritto davanti a sé. Avvicinò l’occhio sinistro, chiudendo il destro con un guizzo.
Mai in tutti i suoi turni di guardia attorno a Roscamar aveva visto un simile, terribile panorama.
Un grosso pericolo, una minaccia che, lo sapeva perfettamente, avrebbe fatto saltare in aria tutti i piani del Vecchio Saggio e di Sommo Luminescente III.
Non c’era tempo da perdere, né poteva aspettare che si accorgessero di lui. Fremendo e sudando freddo nonostante l’atmosfera bollente, fece fare con uno scatto dietrofront alla sua cavalcatura.
La spronò con grida e sferzate a correre più veloce del vento per portare il più in fretta possibile ahimè pessime notizie al suo Signore Thorg.
***
L’apprensione nella sala del trono della Terra era palpabile. Di fronte a Thorg, seduto ma inarcato in avanti, con le mani salde ai bordi dei braccioli, sul suo trono di marmo, cinque figure in piedi erano disposte in semicerchio attorno a una sesta figura, da cui traspariva una forte trepidazione.
Più che comprensibile: la forza delle sue notizie era immensa, e quelle figure così attente e ansiose di scoprire la loro esatta portata non erano persone qualunque: il Vecchio Saggio, il Signore del Mare Nobilmantis, il consigliere di Grandalbero, un tale che si faceva chiamare Becco d’acciaio, secondo dei ribelli di Noctis e il Sommo Signore dei ka’nhili di Karmil, Sommo Luminescente III.
Ogni tanto Thorg gettava lo sguardo con una smorfia su Nobilmantis, che annacquava il pavimento di barili d’acqua ogni volta che soltanto fremeva le sue grandi ali.
La sentinella di poco prima ritornò sana e salva entro le mura di Roscamar, e richiese immediatamente di avere udienza con il Signore. I suoi superiori, al sentire ciò che aveva visto, non esitarono un attimo per permetterle di incontrare Thorg.
Un rapido passaparola tra soldati e funzionari, e il Signore della Terra si ritrovò presto di fronte alla guardia e alle cupe novità ch’essa recava seco.
Come già detto, la portata del suo avvistamento era esagerata: Thorg dovette repentinamente mandare a chiamare i suoi messaggeri e inviare piccioni a tutte le personalità di dovere; quelle erano notizie che necessitavano del consiglio di tutti i capi dell’Isola.
L’attesa di diverse ore per il recapito dei messaggi, durante la quale il sole fu capace di compiere quasi tutto il suo percorso nel cielo e si avvicinava il momento del crepuscolo, fu tesa e insopportabile.
A nulla sembrarono servire le chiacchierate tra Thorg e la sentinella di argomenti disimpegnati, il banchetto piuttosto sobrio del pranzo e la chiamata di diversi paggi a recitare poemi per passare il tempo.
Thorg tentennava, osservando con apprensione e curiosa attesa gli occupanti singolari della sua sala. Era turbato per la povertà della stanza. Non era mai stata uno spazio ricco e sfarzoso, già dai tempi di Gheos, e ai suoi occhi non degna di un Signore.
Kolossus non approfondì il problema, e del resto era spesso lontano da casa e di rado metteva piede nella sala del trono. Gravitus non ebbe tempo sufficiente per occuparsi di abbellire la camera, e forse nemmeno se ne curò. Thorg la pensò diversamente, e sin da subito si impegnò per portarvi molte dozzine di libri, una grandiosa arpa dorata per approfondire l’arte della musica, da sempre poco coltivata dai terricoli, e lustrate armi da esposizione, un elemento classico della cultura gormitica che si poteva trovare nella villa di qualsiasi gormita ricco di qualsiasi Popolo.
Voleva dare l’idea di un Popolo alla pari degli altri, meno rozzo e contadino come tradizionalmente concepito, e più elevato. L’obiettivo primario era suscitare il rispetto e l’ammirazione da parte del Sommo Signore, che però non degnava Thorg o la stanza di grande interesse.
E a buona ragione: non era il momento per pensare alla bellezza e alle decorazioni, Thorg se ne rese conto e se ne vergognò in silenzio.
“Spero che ci sia una più che buona ragione per aver convocato questa riunione, e temo allo stesso tempo che un’adunata sì straordinaria non significhi nulla di buono.” esordì Nobilmantis.
Eloquente e intransigente come sempre. Thorg non tollerava ottimamente il suo trattare chiunque con modesta sufficienza, e apprezzava di lui solo il parlare forbito.
Né ascoltava di buon grado le sue critiche e lamentele che, seppur eleganti nella forma e nella sintassi, erano comunque pungenti.
“Le risposte giungeranno presto, e non sono buone notizie. - replicò - Spiegherò in fretta e in modo completo, e lascerò poi la parola a chi di dovere.”
“La qui presente sentinella di Roscamar, Pachidermiu, durante il suo turno di guardia, si è allontanata dalla sua area di controllo e ha avvistato…un esercito, in apparente movimento nel Deserto di Roscamar.”
Tali parole suscitarono un clamore per nulla trattenuto tra tutti i presenti, tranne che per l’inflessibile Sommo Luminescente III, abbagliante nella sua armatura e cupo sotto il suo elmo-corona, dal quale non si separava mai e, con grande sorpresa di Thorg, il Vecchio Saggio, che si limitò a sussultare per un attimo.
Era diventato misteriosamente silenzioso da quando i ka’nhili del Sommo Signore avevano stabilito i loro accampamenti nella Foresta Silente, e si palesava assai di rado.
Thorg fece segno a Pachidermiu di proseguire, quando il vociare spaventato dei presenti si fece più attutito.
“Pensavo fosse solo un miraggio, o qualche scherzo di luci.” spiegò, con le esatte parole che aveva detto a Thorg durante il primo discorso, ma con maggiore tranquillità.
“Poi ho preso il mio cannocchiale, e non ho più avuto dubbi. C’era un grosso esercito proveniente dal Vulcano, con vulcanici e aerei in grande quantità, e anche…anche degli altri, che non sapevo riconoscere.”
“E’ catastrofico.” enunciò solenne e terribile il Vecchio Saggio, dopo un lungo e riflessivo silenzio. Poi rimase muto, catturato dai propri misteriosi pensieri.
“Non scendiamo a conclusioni affrettate: tutto può ancora essere deciso.” disse più tranquillo Sommo Luminescente III, che mai avrebbe mostrato paura né al contrario gioia.
“E’ indubbio però che questo inconveniente stravolge i nostri piani. Cambiarli o adattarli?”
“Inconveniente? E’ così che lo chiamate?” proruppe contrariato Nobilmantis, che da sempre e più di altri aveva mostrato insofferenza verso la presunta superiorità dei ka’nhili.
“E’ molto di più che un inconveniente, se ci raccapezziamo che tale esercito ha messo a tacere Garsomor e impedito che anche la minima notizia del suo movimento sfuggisse.”
“Sentinella, di quante unità era composto l’esercito?” domandò il consigliere della Foresta, estraneo al dibattito tra Nobilmantis e il sovrano di Karmil.
“Uh, difficile da dire. - rispose, grattandosi la nuca - La visuale e la definizione non erano ottimali. Se devo azzardare, credo sui centomila uomini.”
“Centomila!” esclamò turbato il Vecchio Saggio, uscendo ancora una volta dal suo mutismo.
“E’ un numero che possiamo affrontare.” lo rassicurò Thorg. Era vero?
“Dimmi, sentinella, a che distanza si trovavano dalla città?” chiese, ancora il consigliere.
“Anche questa è una domanda complicata…considerando la mia posizione, la superficie del deserto e il fuoco del cannocchiale…posso desumere che si trovassero nei pressi della Valle di Teunor.”
“Sono a una distanza preoccupante. - osservò Nobilmantis, calcolatore - Tuttavia, traversare il deserto non è opera di poco conto. Devono disporre di provviste in quantità, e non possono fare razzie; inoltre, devono riposarsi e accamparsi spesso per non crollare per il clima. Entro un paio di giorni, possiamo organizzare un esercito e andargli contro prima che si avvicinino ancora alle mura di Roscamar.”
“Prima dobbiamo pensare a come agire, e scegliere cosa fare dei nostri piani e calcolare tutte le incognite generate da questa avanzata imprevista.” gli si accostò il Sommo, calcolatore come lui ma meno avventato.
“Un’ultima cosa. Hai parlato di ‘altri’, sentinella. Che cosa intendi?”
La domanda fatidica, pensò Thorg. Quella rivelazione avrebbe riversato sulle forze alleate, e sul Sommo Signore e i suoi prima di tutti, una cascata infinita di problematiche e questioni che sarebbero rimaste irrisolte fino all’inizio del conflitto.
“Non so come dire, Sommo Signore. - si scusò lui - Erano…erano…bassi, blu… e uguali tra loro. E’ tutto ciò che posso dire.”
“Posso sondare la tua mente?” domandò il karmiliano. Thorg era stupito dal fatto che i presenti non l’avessero fatto sin da subito, uno per uno. Giusto per verificare che stesse dicendo la verità.
“Come desiderate.” disse.
Il sovrano di Karmil procedette, maestoso e più massiccio di un vulcanico nella sua lucente e pesante corazza d’oro e argento. Senza nemmeno toccare la sentinella, senza nemmeno chiudere gli occhi, mentre quella lo fece per concentrarsi meglio, entrò nella sua mente.
Thorg e gli altri presenti osservarono con attenzione.
Quando il contatto finì, segnato dalla sentinella che aprì gli occhi, il Sommo rimase in silenzio.
Di spalle a Thorg, egli non potè decifrare le emozioni dal suo sguardo, ma era pronto a scommettere che avrebbe potuto leggere disturbo nei suoi occhi.
“Che cosa avete visto, Sommo?” domandò Becco d’acciaio, impaziente.
Il Sommo attese qualche minuto prima di rispondere. Si allontanò dalla guardia, che era tutta tremante per il contatto con la mente incredibilmente più potente del ka’nhili.
Fissò gli occupanti della sala del trono uno per uno, Thorg per ultimo: il suo sguardo era vuoto, e il Signore della Terra avrebbe perso la scommessa, se l’avesse lanciata. Tuttavia, la sua voce tradì insicurezza.
“I gargoyle. I gargoyle di Tato Yami.”
***
La folla ammutolita ma trepidante si ammucchiava ordinata nella piazza della fortezza di Orsol, in fremente ma paziente attesa per l’imminente discorso del loro Signore.
Il nuovo Signore dopo Elios, il grande traditore. Il primo Signore sorto sotto la lega Aria - Vulcano, primo di quelli che si speravano esser tanti.
Tanto aveva faticato, si era impegnato, aveva speso e perduto quell’aereo, mentre si affacciava all’alto balcone, sfoggiando un delicato e maestoso abito dai colori sgargianti, rosso, bianco e blu, sopra le piume multicolori.
Tanto e di tanto aveva parlato, molto aveva promesso e garantito, solo per arrivare alla sua meta.
Una vista affascinante e ammaliante si stagliava sotto di lui. Un Popolo pronto a obbedire ai suoi ordini, desideroso al più di gettarsi tra le braccia del nemico fosse servito per conquistare i suoi obiettivi, che avrebbe colmato la sua esistenza di ricchezze e lussi, di potere e fama.
“Grandioso Popolo dell’Aria, miei fratelli.” iniziò, spalancando le braccia, riempiendo l’intera piazza di una voce decisa, matura ma non troppo, e solo un po’ squillante.
Che cos’avrebbe detto loro? Non certo la verità, i pensieri di arricchimento ed egoismo che affollavano la sua mente.
Aveva raggiunto il suo obiettivo. Ora nulla di tutte le cose di cui aveva parlato aveva alcun valore per lui, se non per garantirsi la fedeltà del suo Popolo in quei cinque anni, e magari anche nei successivi, e nei prossimi ancora.
Avevano forse mai avuto valore? Era solo una finzione, e puramente per caso lui, nel divulgarle e nel ripeterle nei suoi discorsi, si era forse convinto della loro correttezza.
“La vostra decisione ha posto sul secolare trono d’argento di Yagu un Signore forte, colto e valoroso, lo posso assicurare e dimostrare. Essa sarà rispettata. Voi tutti sarete rispettati: nessuno sotto il mio regno sarà disonorato, e tutte le vostre richieste, presto o tardi, io le realizzerò.”
Tutte balle. Com’era facile illudere quei gormiti innocenti e poveri, che tanto si erano lasciati incantare dal fascino del loro nuovo Signore.
Egli non avrebbe rispettato nessuno: solo lui era importante, adesso. Avrebbe onorato i suoi adorati fratelli e sorelle solo quando gli avrebbe fatto comodo e quando era sicuro di ottenere un corposo guadagno.
Li avrebbe usati, si sarebbe approfittato di tutti loro, uno per uno e tutti insieme. Nulla gli avrebbe impedito di crearsi il suo paradiso personale, nella fortezza della capitale, circondandosi di artisti e musicisti tra i più valenti e famosi che celebrassero la sua figura con opere e sculture, accumulando ricchezze spropositate tra pietre preziose della Città Sotterranea, sale nero, servi, agromanto e liquori di antiche annate, trefoliea del Mare e preziosi balsami con cui riempire la sua sontuosa sala da bagno, i più succulenti salmoni e caviale da Poivronopoli con cui riempire metà delle sue dispense private, pregiati mobili del legno più costoso e sfumele e i frutti più dolci e saporiti dalla Foresta Silente, un dragone da compagnia dalla Valle del Vulcano, latte d’asina della Valle del Vulcano e di Roscamar con cui dissetare le proprie piume in sontuosi bagni, e le più aggraziate concubine di Picco Aquila e dintorni –era moda riunire attorno a sé uomini e o donne di grande bellezza anche se le pratiche sessuali erano poco diffuse.
“Il Popolo dell’Aria è un Popolo che merita di più! Una gente nobile, di forti tradizioni e di grandi abilità. Nessuno è superiore a noi per l’esperienza nella magia, nessuno per l’arte: il Popolo dell’Aria è superiore, e gli altri Popoli devono rispettarci, e impareranno a temerci se si oppongono a noi!”
Qualcosa, finalmente, in cui credeva davvero. In verità, riteneva che il Popolo di Picco Aquila fosse superiore in tutto e per tutto persino al suo attuale più grande ed unico alleato: il Popolo del Vulcano. Tuttavia condividere certi pensieri avrebbe potuto rivelarsi pericoloso.
Era però davvero un peccato che l’Aria si fosse resa conto del suo status solo grazie all’intervento dello Stregone di Fuoco: secoli, da quando le signorie governavano i cinque angoli di Gorm, erano stati sprecati nell’isolamento e nell’esercizio per puro appagamento personale.
“E’ un peccato, per un Popolo così potente ed grandioso, che si sia reso necessario consultarsi con colui che erroneamente avevamo considerato nostro nemico, per comprendere le nostre possibilità e le nostre vere ambizioni, la nostra missione.”
Dopotutto, non era una cosa così pericolosa da dire. E sembrò accattivare numerosi dei presenti in piazza. Tanto meglio.
“Gli anni che abbiamo trascorso al chiuso della nostra grande madre, la montagna Picco Aquila, non si sono rivelati inutili, per quanto possa sembrare. Ora, siamo di fronte a una nuova alba per il nostro Popolo: mai più il tempo e le occasioni saranno sprecate in vani affari. Il Popolo dell’Aria si sta espandendo, dominerà tutto ciò che è conosciuto e anche più. Picco Aquila non ci basterà più. Già da tempo, per volontà vostra e approvazione del mio onorevole predecessore, colui che ci ha aperto gli occhi, Elios, architetti, stregoni, scienziati del grande monte si impegnano per portare a termine la costruzione di una nuova casa per i figli di Melis e Praconrem. Il prestigioso progetto delle Fortezze Volanti, ve lo prometto, verrà completato entro la fine del mio mandato.”
A queste parole, un mare di applausi si riversò per tutta la piazza, e l’eco delle sue onde riverberò con potenza fenomenale fino all’alto del terrazzo su cui parlava, diritto e curato, addobbato di una delicata veste di velluto bianco e rosso, impreziosito con penne verde limone, il Signore dell’Aria Devilfenix.
Non condivideva l’idea di costruire una città fluttuante, orbitante attorno a Picco Aquila; tuttavia, lo nascondeva alla perfezione, sotto il capo ricoperto di piume blu violacee, gli occhi rosati, il becco corto e adunco di un arido arancione incurvato in un falso sorriso.
Soffrivano il freddo, dicevano i popolani. Per quale motivo? Dagli albori della civiltà gli aerei hanno sempre vissuto nell’ostilità di Picco Aquila, nei suoi venti freddi, nella neve dei punti più alti, nelle buie grotte naturali rielaborate come abitazioni.
Rifletteva su queste cose, mentre salutava il ricco pubblico con movimenti della mano viola coriacea e glabra, all’estremità di un braccio vellutato di piume di ugual azzurro del capo, fremendo le tre paia di ali minute ma lunghe rossicce ad ogni movimento.
Si convinse che qualcosa doveva essere accaduto, prima che il Vecchio Saggio mettesse in atto la ripopolazione dalle misteriose implicazioni di Gorm, qualcosa che avesse in qualche modo indebolito gli aerei e resi meno tolleranti al freddo.
Erano dei rammolliti, agli occhi di Devilfenix. Lui stesso, nel tempo libero, da giovane, quando aveva ancora la mente sgombra da problemi e ambizioni, scarpinava di sua volontà fino agli innevati Rifugi Parlanac e sedeva sulla punta del becco scolpito di Praconrem a contemplare l’aurora.
Certo, erano dei rammolliti. E lui era superiore a tutti loro. Aveva ottenuto il potere che agognava, in barba all’ignoranza della quasi totalità del Popolo riguardo il come l’aveva ottenuto e come l’avrebbe mantenuto.
Per almeno cinque anni, sarebbe stato un burattinaio, e il Popolo le sue marionette.
***
Un grande tavolo imbandito si spianava di fronte a lui, unico attendente di quel magnifico banchetto in celebrazione dell’elezione del nuovo Signore dopo Orrore Profondo. E lui non era altri che questo nuovo Signore.
Piatti prelibati, cotti nei grandi forni del Vulcano, con il fuoco di uno schiocco di dita e padelle di pietra lavica limata e ben modellata. Tutto, o quasi, era frutto della laboriosità del Popolo del Vulcano. Il suo Popolo del Vulcano.
Con grande voracità, la voracità tipica di qualsiasi gormita, di qualsiasi Popolo, addentava succosi e spessi cosciotti di montone, uno per mano – ne aveva due, ma se ne avesse avute quattro scommetto questo stesso mio scialle che sarebbero state tutte impegnate a reggere cibi.
Il tavolo era, effettivamente, oltre che sporco per il sugo che schizzava dalle fauci del gormita, già vuoto più che per metà.
Non se ne faceva un dramma, l’affamato Signore: i cuochi avrebbero cucinato altro se lo avesse chiesto.
Nonostante i vulcanici non si facessero molti problemi in ambito gastronomico, e mangiavano tutto ciò che avesse un buon sapore e si masticasse bene, il Signore in questione non poté fare a meno di notare la preziosità del suo pasto serale.
Lunghi filoni di pane abbrustolito e profumato all’aglio e al rosmarino, ritagliati e pronti ad essere imbottiti a piacere di vasetti di miele, formaggio morbido proveniente da Picco Aquila, filetti di carne di agnello, di pollo, di manzo e di morbidi e saporiti salumi di maiale; funghi fumanti grossi come una mano ripieni di carne macinata, pane grattugiato e verdure tritate, che il Signore del Vulcano portava alla bocca interi, senza tagliarli – non che i vulcanici seguano l’etichetta di usare le posate.
La sua attenzione si posò in particolare su un piatto inconsueto, che, dopo un piccolo assaggio, decise di lasciare per ultimo proprio per la sua particolarità.
Corposi filetti di tonno rosa cotti in olio d’oliva e insaporiti con aglio, pepe nero, prezzemolo e limone.
Di per sé non era la portata più prelibata della cena, ma Armageddon, il Signore del Vulcano, era ben consapevole della fatica e dei pericoli corsi da chiunque l’avesse pescato – a meno che non fosse merce rubata, cosa che glielo avrebbe fatto andare di traverso - , poiché i tonni non si trovano nello Stretto di Gorm né nelle coste orientali, per altro troppo pericolose a causa della Grande Piovra per potervi pescare in sicurezza. No, si trovano solo a sud, e sono una prerogativa del Popolo del Mare e di chiunque commerciasse liberamente con esso. Cosa che, naturalmente, il Vulcano non era in grado di fare. Quindi, quello era un piatto prezioso da gustare con calma, perché pochi se lo possono permettere. Magari un piatto da condividere con qualcuno, ma non c’era nessuno, al momento.
Solo il consigliere, che del resto non era lì per mangiare. Era stato convocato da Armageddon stesso e lo consultava Armageddon in merito ad alcune questioni politiche.
Nonostante non fosse in grado di vederlo, solo di percepirlo per motivi che presto renderò ovvi, capiva benissimo come fosse disgustato nel vederlo mangiare. E non certo perché mangiava male, rumorosamente o con la bocca aperta – un vulcanico che si impressiona di fronte a certe cose non può chiamarsi vulcanico – ma per la forma e la natura stessa della bocca di Armageddon.
“E i minatori a Sangor?” domandò quello, smorzando una smorfia.
“Doppia razione per tutti i lavoratori, anche gli schiavi. Anche quelli degli altri Popoli. A chiunque faccia almeno due ore di straordinari voglio che sia dato una, due bottiglie di agromanto e pane all’olio, di quello spesso.”
“Ma, mio Signore, le scorte per…”
“Le scorte sono abbondanti. - lo interruppe brusco Armageddon - Se non lo sono, fai in modo che banchetti speciali come questo non vengano più fatti. Le miniere di Sangor sono troppo importanti, e i lavoratori non bastano: se li facciamo lavorare troppo, abbandoneranno le miniere, o peggio, e rimaniamo senza pietre preziose. Facciamoli lavorare, e diamo loro quel che spetta. Devono essere motivati.”
“E a proposito. - aggiunse, staccando un ultimo brandello dall’osso di montone e buttando sonoramente quest’ultimo sul piatto - Voglio che a tutti i soldati sia fatto lo stesso trattamento, o quasi. Penserai tu ai dettagli.”
“Sarà…sarà fatto, mio Signore.” obbedì quello, non vedendo altra via.
Le enormi voraci fauci cremisi scuro di Armageddon inghiottirono quasi due intere portate di torta di carote come dolce e un’intera bottiglia di agromanto, che avrebbe fatto perdere la ragione a qualsiasi gormita. Ma Armageddon aveva i nervi forti, e reggeva molto bene l’alcool.
Terminato il pasto, sbatté con forza entrambe le braccia alizarina sul tavolo, facendo tintinnare piatti mezzi svuotati e bicchieri.
“Chiama il Mastodontico, voglio buttare già un po’ di peso.” ordinò, rizzandosi sulle slanciate gambe nude, dello stesso colore delle braccia e del resto del corpo fuorché la testa, con gli stinchi aventi i medesimi strani fori presenti sui possenti avambracci.
“Chi?” domandò l’altro.
“Il Mastodontico. Burbent, lo schiavo della Terra.” chiarì Armageddon, irritato dall’ignoranza del consigliere.
“Ah, il lottatore. Certo, vado subito, Signore.”
“Mandalo subito giù all’arena.”
E il consigliere, ben più smilzo del suo superiore e massimo sovrano, si dileguò in tutta fretta.
Intanto, Armageddon si ritirò con passo lento nell’anticamera della sua stanza privata, dove un tempo sedeva Sogres Magmadoni e Magmion Magmadoni dopo di lui, tappezzata di quadri rappresentanti scorci dell’indomabile paesaggio della valle del Vulcano e del Monte di Fuoco e addobbata grossolanamente con armi di vari genere e dimensione.
Dopo Orrore Profondo, il nuovo unico Signore, l’altra stanza signorile, in cui alloggiarono Fercanio e Lavion, tra gli altri, non fu quasi più frequentata, e l’attuale era ora la sola sala del trono di Monte Vulcano.
Ora era lui a governare l’incontenibile forza dei guerrieri di fuoco di Vorcan, e ponderava sui rischi e sulle opportunità offerte da tale posizione, mentre accarezzava il massiccio trono metallico, e poggiava sopra il suo roseo cuscino la copertura nera e puntuta che portava sul petto e sulle spalle, che non gli sarebbe servita nella lotta libera con il Mastodontico.
Non avrebbe deluso le aspettative dei suoi simili, fratelli e sorelle, né avrebbe disobbedito al potente Stregone di Fuoco. Avrebbe conciliato le sue visionarie mire di potenziamento militare e anche culturale, tra le altre cose, con gli ideali ormai cristallizzati della superiorità della razza vulcanica, del diritto dei gormiti e dei vulcanici sopra gli altri di dominare le genti inferiori.
Il confronto con il Popolo dell’Aria, in teoria pari del Popolo del Vulcano, lo turbava, gli faceva tremare le membrane scorzate appuntite all’estremità che si univano per formare la bocca, come tanti spigoli di una piramide che, aprendosi al vertice, si faceva prisma vuoto e famelico.
Non aveva affatto intenzione di fare del suo Popolo il mero esercito dell’impero gormitico, un’orda incontrastabile di temibili e spietati guerrieri. I suoi fratelli dovevano essere molto di più che semplici soldati da temere. Dovevano essere rispettati, anche.
Abbandonò quei pensieri, consapevole che cinque anni non sarebbero stati sufficienti per mutare la situazione, ma che le sue azioni e i suoi discorsi, ai quali avrebbe pensato meglio in seguito, sarebbero stati il primo passo per costruire un futuro migliore per la sua gente.
Corse rapidamente fuori dalla stanza, e giù alla già citata arena, all’esterno della fortezza.
Era buio. Il tramonto era trascorso da un pezzo, e il cielo era scuro e nuvoloso. Le sole luci erano i numerosi bagliori fiammeggianti e fiochi che provenivano dalle case di tutta Valle del Vulcano.
Voltandosi verso dove era venuto e alzando lo sguardo, le stesse fiammelle si intravedevano nelle abitazioni scavate sui fianchi della montagna.
In più, la gola e lo sguardo del Monte di Fuoco brillavano di una luce rossa cupa e nefasta, quasi assorbissero luce invece che sprigionarla.
L’arena in questione non era altro che un piccolo spiazzo sabbioso dove il Signore o qualche suo amico o altra autorità con il permesso si recava per passare il tempo a suon di ‘tozze amichevoli’, da solo – c’erano ancora gli attrezzi di un recente allenamento – o in compagnia, come nel caso di Armageddon.
In attesa del suo avversario, accese con schiocchi della mano a tre dita uncinate le sei torce che circondavano il campo di gioco. Non cambiò molto. Del resto, Armageddon non aveva bisogno di luce per vedere.
Il suo capo, il suo volto, se si può definire tale tanto è l’orrore scatenato da essa, tale la sua innaturalezza, non era altro che una voragine spigolosa e cilindrica dalle pareti color del sangue, che emergeva dal petto e inglobava il collo; dietro la schiena, alcune delle membrane che componevano quell’antro infuocato prolungavano il loro corso in linea curva, riunendosi fino al coccige.
Non c’erano occhi, vedeva come vedeva Kolossus. Il naso e le orecchie erano delle fessure indistinguibili in quel rosso e duro amalgama.
Il Mastodontico giunse infine, presentandosi al portone che collegava l’arena col resto della reggia.
Era un gormita di certe dimensioni, corpulento, dalla pelle robusta, rigata e color ruggine. I grossi pugni e il capo ovale, dal mento pronunciato e un’espressione che da anni si era mantenuta fredda, vuota, le labbra increspate verso il basso e gli occhi sempre corrucciati, erano invece grigi.
Quattro spunzoni come corna spuntavano in prossimità delle spalle, due davanti e due dietro, di un grigio più chiaro del volto.
Era un terricolo, schiavo di vecchia data, acquistato da tempo immemore durante chissà quale conflitto, che soggiornava presso la casa signorile del Vulcano da anni che nessuno si era preso la briga di numerare.
Operò in vita sua in molteplici e laboriose mansioni, nessuna di facile tolleranza, ma si era infine ‘guadagnato’ il posto come lottatore e passatempo dei Signori quando questi avevano voglia di menare le mani ma erano privi di un bersaglio. Portava sul corpo nudo numerose cicatrici, discendenza di ferite inferte da nemici che non sempre si curavano della sua salute.
Doveva il nome alla sua da pochi pareggiabile mole.
“Ah, eccoti, Mastodontico. - esclamò Armageddon - Forza, non perdere tempo e fammi vedere di cosa sei capace.”
“Burbent obbedisce.” sussurrò avanzando, in quel suo inspiegabile modo di parlare senza mai rivolgersi a se stesso con la prima persona.
“Non avere paura di farmi male. E dopo ci riprenderemo insieme della fatica con un buon pasto.”
“Burbent sarà contento.”
***
Grande movimento aveva agitato quella sera la rustica camera dello Stregone di Fuoco, sulla sommità di Monte Vulcano. Armageddon e Devilfenix già da un mese erano saliti al potere, e insieme alla loro guida Magor avevano da tempo iniziato a complottare per il controllo dell’Isola di Gorm e la conquista definitiva dell’Occhio della Vita, all’oscuro dei Popoli alleati del Vecchio Saggio, che agivano nel più totale silenzio
L’incontro che si sarebbe tenuto quella sera nella stanza personale di Magor avrebbe potuto determinare la prossima vittoria del Vulcano e dell’Aria sui Popoli alleati.
Nessuno sul fronte opposto sapeva di ciò che stava accadendo quel giorno; al contrario, lo Stregone di Fuoco e i suoi Signori, grazie alle loro spie, sapevano dei Popoli alleati più di quanto loro temessero.
Durante il giorno Magor aveva osservato un viavai di gente che portava nella sua stanza grandi blocchi di pietra, piatti di ceramica, posate d’argento, plasmava sul posto un secondo trono di pietra, ben più largo e decorato di quello su cui Magor soleva adagiarsi, si consigliava con lui riguardo ricette da far gustare all’ospite di quella sera, sull’ordine delle portate e su cosa fare per intrattenerlo.
Colui che stava per cenare e discutere con il sommo Stregone si sapeva appartenere a una ‘famiglia’ notoriamente volubile. Meglio l’avrebbe trattato, meglio si sarebbe mostrato nei suoi confronti, più facilmente e rapidamente avrebbe ottenuto il suo sostegno.
Tutto era preparato a dovere. Un lungo tavolo color caffè, con ricamato il simbolo del Vulcano, si apriva partendo dal trono di Magor, ricoperto di una ricca tovaglia cremisi posta in obliquo con gli spigoli ornati da nappe dorate che ricadevano fin quasi al pavimento.
Magor era fiducioso delle proprie capacità oratorie e dell’ospitalità che avrebbe recato. Il rango e l’autorità dell’ospite non lo turbavano, era sicuro che alle sue offerte non avrebbe potuto rifiutare.
Lui era lo Stregone di Fuoco! Non aveva da temere nulla da nessuno, finché il Vulcano lo appoggiava.
La sua vita non aveva fine, e con essa la sua autorità sui Popoli del Vulcano e dell’Aria.
Il tempo non era che uno strumento nelle sue mani, con cui mettersi alla prova e migliorarsi, giorno dopo giorno. Al sicuro della sua camera nella cima del Monte di Fuoco, nulla poteva vincerlo.
Se non poteva farlo oggi, l’avrebbe fatto domani, e se non domani il giorno dopo ancora; uno dopo l’altro, i Signori del Vulcano, e ora anche quelli dell’Aria, si sarebbero succeduti sui regali seggi di Gorm e avrebbero giurato fedeltà alla sua figura, fino al giorno in cui tutta Gorm avrebbe riconosciuto il suo potere, in cui ogni Signore si sarebbe piegato alla sua autorità.
E dopo i gormiti, gli elfi della Setturnia, i vici del Venturgio e gli zoari divisi nella vasta Zoah e nelle Terre Selvagge.
E il regno dell’Occhio della Vita non si sarebbe fermato al Grande Golfo: si sarebbe spinto anche oltre, fino al dominio di tutto il mondo. E dopo di quello, l’obiettivo più grande: le stelle.
Ma il tempo in questo era una seccatura: non poteva ottenere tutto e subito, e presto o tardi, lo sapeva, avrebbe dovuto ritirarsi e lasciare al suo posto una persona di fiducia che potesse continuare la sua conquista al posto suo. Non aveva la minima intenzione di vivere in eterno in quel guscio di fuoco, e una volta uscito l’inflessibile avanzata della vecchiaia avrebbe ripreso il suo corso.
In quel giorno, un passo importante per il glorioso futuro dei gormiti sarebbe stato compiuto: la prima razza esterna a Gorm, ai gormiti, si univa ad essi per il controllo e la condivisione del potere dell’Occhio della Vita.
O così sperava Magor.
L’ampia stella era stata tracciata sul pavimento duro, le sue linee cosparse delle speciali polveri, impregnate di magia.
L’incantesimo finale fu acceso, e le coordinate, ignote a chiunque tra i Popoli alleati, inserite con estrema accuratezza.
L’oblio si spalancò, parallelo al pavimento, di fronte a Magor. Un vortice di vuoto nero privo di luce, che in altre occasioni sarebbe stato capace di risucchiare qualsiasi cosa e ricondurla in un mondo sconosciuto, probabilmente invivibile.
Gli Aborigeni tuttavia furono previdenti, ed insegnarono attraverso i loro misteriosi resti come tenere sotto controllo i pericolosi varchi spaziali, vere e proprie rotture delle tre dimensioni dello spazio.
Il re di Tato Yami ne fuoriuscì subito dopo la sua attivazione. Magor non vedeva da tempo un gargoyle con i propri occhi. Uno strano odore, proprio del re e probabilmente di tutta la sua gente, giunse alle narici dello Stregone. Profumo di pelo di lupo, di freddi fiori di montagna, di selvaggio e delicato insieme. Ma Magor non poteva godere di quel profumo, giungendo esso distorto ai suoi sensi a causa del corpo di fuoco. Sarebbe stata solo la prima delle ingiustizie che avrebbe dovuto sopportare.
Il re dei gargoyle era vestito molto leggermente. Portava una semplice clamide verde mare, lucida e piuttosto rustica nell’insieme, che gli copriva il petto fino alla sommità delle ginocchia.
Schinieri e sandali grigi alle gambe, un lungo mantello viola montato sulle spalle e ricadeva fino in terra. Al braccio destro recava un semplice bracciale nero dai bordi argentati, con gemme bianche sferiche incastonate lungo il corpo nero. Nel braccio sinistro, Magor notò uno strano esempio di ingegneria gargoyle: un amalgama come un’impalcatura in miniatura, longilineo, di legno, parti in pietra e metallo, e chiodi, agganciato al braccio in una maniera che allo stregone non pareva affatto chiara. All’estremità, subito dopo quella che pareva una manovella, c’era una mazza chiodata.
“Benvenuto nella mia dimora, e nell’Isola di Gorm, Re Obskurios.” lo salutò Magor, inchinandosi notando con stupore che egli si era inchinato per primo.
“Vi ringrazio immensamente per aver accettato la mia richiesta. Potete stare certo che non sarà tempo perso.”
“Prego, prendete posto.” e lo invitò a sedersi sul trono preparato per lui. Quello, muto, obbedì senza esitare. Si diresse verso il seggio apposito; rimosse il lungo mantello, facendovi passare le ampie ali senza troppi problemi, e riponendolo su uno sgabello posto di fianco. Infine, molto comodamente e forse non molto da manuale per l’occasione, appoggiò il gomito del braccio destro sul bracciolo, e la testa sul braccio, come in impaziente attesa.
“Vorrei potervi mostrare tutto ciò che Gorm ha da offrire - diceva Magor - prima di dirvi ciò per cui vi ho convocato, ma non ve n’è possibilità. Posso comunque servirvi con i migliori manicaretti della tradizione di quest’isola. Se è di vostro gradimento.”
Obskurios, che non aveva ancora preso parola, lo scrutò per qualche istante con i suoi occhi rossi di quella testa piccola, prima di rispondere. Magor vi leggeva un certo timore nei suoi confronti, ma anche sufficienza e, forse, fastidio.
“Accetto, ovviamente. Come rifiutare?” disse, guardandolo storto per la posizione del capo.
“Vogliate perdonare la povertà di questa sala. Noi del Vulcano siamo molto rustici.”
“Non è un problema. Noi stessi non amiamo la ricchezza esagerata. - lo scusò - E datemi del tu, Stregone di Fuoco. Io dovrei dare del voi a un personaggio del vostro calibro.” la sua voce era stranamente dolce, era la voce di un felino, elegante e sinuoso ma efferato predatore.
“Come?” chiese allibito Magor.
“La vostra persona è molto conosciuta e rispettata presso il mio Popolo.” spiegò Obskurios, ancora senza spostare il capo dal polso.
“Merito dei suoi gormiti. Sappiamo molto della vostra storia, almeno dalla sua venuta sull’Isola. All’inizio credevamo fosse soltanto una figura dei loro miti, ma la parte che includeva lo sterminio di quasi tutti gli altri gormiti ci ha messo in dubbio.”
“A tal proposito. - e qui alzò il capo, chinandosi in avanti - Sono davvero curioso di scoprire molto di più su di voi. Chi siete? Non siete un gormita del Vulcano, anche se dite ‘noi del Vulcano’. Da dove venite? E quel corpo di fuoco, sono sicuro è causa di una maledizione.”
Magor sussulto.
“Non è così?” sorrise Obskurios, lisciandosi il pizzo nero.
Quel tono indagatore non piaceva a Magor. Il suo passato doveva rimanere segreto, e l’insistenza di Obskurios lo irritava.
“Sono sicuro - disse - che presto avremo occasione di poter parlare di questo e molto altro. Ma fino ad allora, ricordati, re Obskurios, che non sei mio nemico…né mio amico. Non ti devo nulla; la mia identità è lo Stregone di Fuoco, e che questo ti basti. Forse un giorno giungeremo a fidarci l’uno dell’altro e ti spiegherò tutto quello che desideri sapere. Ma non è questo il giorno. E ora. se desideri desinare, farò accorrere i servitori.”
“Come volete…” mormorò Obskurios soffocando un ringhio, probabilmente infastidito da quell’insolenza, sebbene velata sotto parole ben ponderate e toni tutt’altro che istintivi.
Detto questo, mentre Magor chiamava mentalmente i camerieri con i grandi piatti, Obskurios si mise più comodo, e si rimosse dal braccio sinistro lo strano apparecchio con la mazza, e lo appoggiò con forza sul tavolo.
Al suo posto, un moncherino, azzurro scuro come il resto della pelle del gargoyle cornuto.
Ecco qualcosa che Magor avrebbe voluto sapere del suo regale ospite; ma dopo quello che aveva appena detto riguardo la fiducia, trattenne la sua curiosità.
Sotto il naso del mago passarono grandi portate profumate, pietanze succose e liquori saporiti.
Che agonia! Assaporare il loro aroma distorto, osservare il gargoyle divorarli con voracità non minore di quella dei gormiti proprio di fronte ai suoi occhi, e non poter addentarli egli stesso.
In quei momenti era vicino alla perdita della ragione, ma rimaneva in sé ricordandosi della sua missione. Quello era uno dei motivi per cui risiedeva in solitaria, lontano dalla comunità: guardare i gormiti vivere la propria vita in serenità, godersi tutto ciò che essa ha da offrire senza limitazioni, lo avrebbe certo portato alla pazzia, che il dolore provocato dal Flammae corpus era solito donare a pochi minuti dopo essere stato evocato.
Il pasto durò poco, ma comunque troppo per Magor, costretto a guardare senza godere. Era giunto il momento di passare agli affari.
La figura di fuoco di Magor, che viste le sue origini era alquanto più piccola di quella di un gormita ma alla pari di un gargoyle, suscitava l’interesse del re delle Tenebre, che non la seguiva con occhi spenti come al suo arrivo ma con accesi occhi rossi che la seguivano in ogni movimento.
“Vi ho chiamato, a te come al tuo Popolo, per porvi una proposta…sì, anche di futura alleanza, per le vostre, e nostre, conquiste. Vedrai, e dovrai ammettere che il Popolo del Vulcano dispone di una grande potenza.”
“Continuate.” disse Obskurios, ruotando le corna oblique di un verde luminoso nel seguire Magor mentre discorreva.
“Di recente ho avuto notizia dell’arrivo di un nuovo nemico qui sull’Isola di Gorm…nuovo per me, vecchio e conosciuto per te. Accettando la mia proposta avrai l’occasione di pugnare sui territori dell’Isola con il consenso forzato dei suoi abitanti, avere dei nuovi preziosi alleati dalla tua parte, sconfiggere le minute schiere del tuo avversario e invadere finalmente la sua terra madre.”
“Allettante!” esclamò il re, poggiando entrambe le braccia blu muscolose sui braccioli. Aveva capito perfettamente di chi stesse parlando.
Magor fu compiaciuto.
“Oltre a questo, conosco la vostra curiosità e vi darò un dono in più.” Magor si avvicinò fluttuando, sfiorando pericolosamente il mento di Obskurios col suo indice di fuoco. Era così vicino al suo viso che il gargoyle cominciava a sudare.
“Avrete la possibilità di mettere le mani sui segreti di quest’Isola da me scoperti, e di condividere con me il potere di uno degli oggetti più potenti di questo mondo, l’oggetto che regge quest’Isola e che ha donato ai gormiti il loro potere, ora nelle avide mani del mio antagonista che vuole sfruttare il suo potere per se o, peggio, distruggerlo.”
Si allontanò di scatto da Obskurios, voltandosi di spalle, guardando l’entrata della sua caverna. “Questa è la mia proposta. Posso offrire maggiori dettagli da subito.” disse infine senza voltarsi.
Udì Obskurios sollevarsi dal trono, alzarsi in volo con le piccole ali che spuntavano da sopra le spalle e lo vide piombare di fronte a lui, con un grosso, crudele sorriso.
“Accetto.”
***
“Prendete quest’erba incantata e fumatevela per bene: non c’è tempo da perdere e non voglio storie. Se non vi piace, la porta è da quella parte.”
Il gargoyle, nudo, che presiedeva all’addestramento dei vulcanici nell’arte della via delle tenebre nell’arena sotto la fortezza di Armageddon non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno.
Era decisamente tracagnotto, basso anche per i canoni dei gargoyle che erano leggermente più bassi degli elfi ma decisamente più massicci – anche se i vulcanici questo non lo potevano supporre, avendo solo il Vecchio Saggio come termine di paragone –; le ali membranose e per nulla rigide, che non erano mai molto grandi, si innalzavano da sopra le spalle e davano nell’insieme al gargoyle un aspetto più grandioso e lo faceva sembrare più alto di quanto fosse in realtà.
Ma le ali da pipistrello dei gargoyle non erano di dimensioni fissate, così come le corna. Lo yamense in questione aveva delle ali ridicole, che non gli sarebbero state utili nemmeno per alleggerire una caduta di pochi piedi, e le corna limone erano poco più che dei bozzi ossei in prossimità delle tempie.
Ciononostante, nessuno – forse – si sarebbe sognato di prendersi gioco o di alzare le mani contro di lui: vantava una muscolatura, dalle sfumature azzurre sulla pelle profondamente scura, anche per un gargoyle, e ricoperta di rada peluria rossiccia, da far fronte alla maggior parte dei vulcanici lì presenti. Il volto, che ricordava vagamente quello di un puma, meno le vibrisse le orecchie, era increspato in un’espressione da far tacere anche il più temerario dei fannulloni: occhi dalle iridi smeraldo piegati e assottigliati, per mettere letteralmente a fuoco i suoi bersagli, le labbra violacee che parevano reprimere disgusto.
Del resto, i gormiti, denudati anch’essi, di fronte a lui, sapevano che non era un gargoyle qualunque, un semplice soldato o stregone.
“Io sono Pantiavros, figlio di Heunemelaos, secondo del Re delle Tenebre Obskurios figlio di Tereneos, e insegnerò a voi merdacce come schiacciare i nemici con l’oscurità.” disse infatti.
“Alcuni di voi sono stati mandati a dare la caccia a dragoni e grifoni; a voi tocca starmi qui a sentire e fare come dico io. Ma non temete. - ghignò - Arriverà il momento anche per i vostri compari.”
“Imparerete che la nostra via è la via migliore. Con essa, sarete capaci di essere voi stessi. I ka’nhili ci criticano, dicono che la nostra via è la più facile, che è sbagliata, che ci rende irascibili. Balle!” e dicendo ciò accompagnava le sue aspre parole con gesti sprezzanti.
“Guardate i ka’nhili: la loro via li ha resi delle statue, incapaci di soffrire, di amare, di odiare. E’ vita questa? No, non lo è. Grazie a me diverrete degli strumenti del vostro vero io, delle vostre emozioni: rabbia, odio, passione, paura…tutte insieme convergeranno attraverso di voi, e scateneranno l’inferno per chi è abbastanza idiota da mettersi in mezzo alle palle!”
“Scusa, Pantiavros…” chiese un vulcanico dei presenti.
“Che cosa vuoi, merdaccia?” sibilò subito in risposta il chiamato in causa, irritato dall’essere interrotto. Il gormita trattenne a stento il ringhio.
“Questa merdaccia ha una domanda.” spiegò. I gormiti intorno a lui risero.
“E io do alla merdaccia il permesso di farmela, questa domanda.” acconsentì Pantiavros, sorridendo di gusto pure lui.
“Perché siamo nudi? E unti di olio?”
“La cosa ti turba? E’ come noi ci alleniamo. Ma voi gormiti andate in giro nudi quasi tutto il tempo: non avete nulla da nascondere.”
“Ma tu sì. - e indicò sfacciato il membro tra le cosce del gargoyle - Non hai…vergogna?”
“La vergogna non è che un’emozione. - spiegò - E tutte le emozioni sono fonte di energia. Guarda cosa me ne faccio, della vergogna.”
Pantiavros emise un urlo bellicoso, sfrenato e prolungato. Chiuse gli occhi, portò le braccia verso il petto e poi, alzandosi magicamente in volo, le spalancò vigorosamente, gettandole a lati opposti.
Quando i suoi piedi toccarono nuovamente terra – era successo tutto in un secondo – un’onda si generò dal suolo. Nera come la notte, assenza di luce. L’aria attorno a Pantiavros divenne tale, affamata come non mai di raggi luminosi.
L’onda si espanse in dimensione e si propagò in cerchio tutt’attorno a lui, scaraventando a terra, scottati e in preda a un formicolio incessante, tutti i gormiti più vicini, prima di scomparire.
“Visto? - si pavoneggiò, mentre i vulcanici, sconvolti e meravigliati, si alzavano, desiderosi di apprendere d’imitarlo - Tutti voi, o vi picchierò uno ad uno - e li indicò - dovrete entro una decimana riuscire a farlo, e senza dover mangiare un vasetto di miele dopo.”
“Vi farò apprezzare i balli più sfrenati, i viaggi più pericolosi, i giochi più difficili. Quando avremo finito, se ci sarà tempo, vi farò partecipare alla gara di atletica del Terklaton, altro che quel vostro primitivo Torneo di Astreg. E anche all’Ajapivlon, e ovviamente agli spettacoli pirotecnici dell’Ignime Naron: sono sicuro che, con le vostre abilità sarete in grado di stupire più di un gargoyle.”
“E’ così che sfoghiamo la nostra passione. - esplicò - Non come quei ka’nhili, che si ‘divertono’ a dipingere e a costruire case tutte piene di curve.”
“Che è l’Ajapivlon?” domandò uno grattandosi la nuca, notando che non aveva spiegato cosa fosse, al contrario degli altri due eventi.
“Riti orgiastici.” disse, per nulla imbarazzato. I vulcanici invece furono piuttosto scossi
“Li facciamo due volte al mese. E il nostro anno ha dieci mesi. Sì, so bene che voi avete strani…strane idee, in merito. Ma sono sicuro che vi divertirete lo stesso, se vi avrò insegnato bene.”
“Un’ultima cosa.” interloquì un altro, una donna. Aveva un tono decisamente polemico.
“Hai parlato di viaggi…ma mi risulta che voi state sempre su Tato Yami, non viaggiate mai da nessuna parte. Come fai allora a dire… a dire di amare viaggiare, e di farcelo amare pure a noi, eh?”
Pantiavros si fece serio. Molto serio. Per un attimo, la vulcanica ne fu turbata, e pensò di rimangiarsi la domanda e rimanere col dubbio, pur di non entrare nelle ire del suo insegnante.
Invece quello rispose, e c’era una nota di tristezza nella sua voce.
“Forze più potenti di noi ci hanno dato questo castigo, per una colpa commessa anni e anni or sono. Ci hanno confinato a Tato Yami, senza possibilità di metter più piede dove i nostri padri erano nati posandolo. Si parla di parecchio tempo fa; molti di noi hanno dimenticato com’era la nostra terra natia, i più giovani non l’hanno mai vista. Tuttavia, la punizione rimane, e rimarrà per ancora molti anni.”
***
Aumatot Darn. La zona di contenimento dei dragoni. Una vasta regione nel sud - ovest della Valle del Vulcano, vicina ai confini con il Deserto di Roscamar, adibita alla proliferazione dei pericolosi dragoni secondo confini prestabiliti e dove i dragoni vengono costantemente tenuti in un numero moderato, onde evitare sovrappopolamento e una loro necessità di espandersi oltre questa zona.
Ogni drago che sfugge da questa zona senza essere controllato viene rispedito al suo interno con la forza, o soppresso se si oppone troppo ostinatamente o ritenta più volte la fuga. Infatti, i vulcanici marchiano tutti i dragoni, e li sanno riconoscere. Un lavoro faticoso e pericoloso, ma necessario, visti i benefici prodotti dai possenti rettili.
Durante il più volte citato assalto dei dragoni, prima di allora sconosciuti, nei territori della Terra pochi secoli fa e dopo che questi furono respinti a nord verso il Vulcano, dove sarebbero stati i suoi abitanti a occuparsi di loro e se fossero periti tutti tanto meglio, l’idea che più infiammava i vulcanici era usarli come destrieri da usare in battaglia, vista la loro forza e possanza.
Un’idea perseguita, e messa in pratica, fino a quel giorno e anche oggi, dove i dragoni sono notevolmente calati di numero rispetto al loro arrivo.
Ma l’uso militare dei dragoni è solo una delle buone cose che i vulcanici hanno ottenuto da loro.
Come prima cosa, il loro letame ha un enorme potere fertilizzante, grazie al quale il Popolo del Vulcano è riuscito ad ottenere la tanto necessaria autosufficienza in ambito agricolo, in quanto i loro territori erano un tempo generalmente aridi, interamente rossicci e ricoperti ovunque di formazioni rocciose nere – da qui il nome della parte orientale di Gorm: Darth Kuun, rocce nere –, ora rivestiti in più punti di ampie distese boschive ed erbose.
In secondo luogo, le loro uova hanno un ottimo sapore, e hanno fatto enorme fortuna grazie ad esse con gli altri Popoli di Gorm, in tempi migliori, e con i gargoyle che più di tutti sembrano apprezzarle. Accaparrarsi le uova è comunque un lavoro rischioso, giacché i genitori abbandonano raramente i loro nidi, spesso ben nascosti e posti al centro del territorio del capobranco. Un’altra problematica è rappresentata dalla necessità di enormi padelle per sbatterle e cuocerle, essendo le uova particolarmente grandi e pesanti.
Le loro scaglie dure e resistenti agli urti e alle scalfitture sono ottime, una volta opportunamente lavorate, per costruire una larga varietà di utensili e strumenti; borse, accessori di vestiario, rivestimento per armature…Anche questo è un lavoro che comporta alcuni rischi, essendo un dragone non certo facile da abbattere. Per questo motivo i vulcanici non attaccano dragoni vivi per le loro scaglie, ma scuoiano invece carogne, oppure assalgono dragoni anziani e deboli o malati.
In ultimo ma non meno importante è il loro contributo nel preservare i raccolti dei vulcanici. Non fornendo concime, bensì cacciando i gemnachular, o draghi di palude.
Essi sono rettili volanti, ritenuti cugini dei dragoni seppur presenti su Gorm da sempre, di media taglia. Erbivori e sfuggenti, devastano, spesso in gruppo, i campi di ortaggi o di frutta più svariati, annichilendo le fatiche di decimane e decimane. La loro velocità d’azione è tale che i vulcanici hanno difficoltà ad occuparsi di loro con le proprie mani o il proprio fuoco, ma non è la stessa cosa per i dragoni, i quali sono ghiotti di gemnachular e non impiegano più di un minuto a ficcarsene uno tra le zanne, una volta bersagliato.
La carne di dragone non è molto amata, anzi è dai più ritenuta davvero cattiva. La difficoltà di abbattere un dragone per mangiarlo, ancor di più i dragoni giovani che non si trovano mai in assenza della madre, ha evitato per anni che qualche gormita arrivasse a sostenere il contrario, cioè che i dragoni siano un buon piatto.
Tuttavia Navus, insieme al suo compagno Skorpios, non era entrato nella zona di contenimento per rubare uova, nemmeno per portarsi a casa una carogna né fare il carico di letame.
I due vulcanici dovevano eccellere nell’incarico più tentato, più temuto e più prono a fallire che riguardasse i dragoni: catturarne uno, addomesticarlo, convincerlo a combattere in guerra con il Popolo del Vulcano.
Non che non ne avessero già diversi da poter dispiegare in una battaglia campale, ma era meglio abbondare, in vista degli ambiziosi progetti avanzati dallo Stregone di Fuoco in comunione con Obskurios, re di Tato Yami; e in vista specialmente dell’uccisione di uno dei dragoni di proprietà del Vulcano, all’incirca un anno fa, durante la Battaglia al Rifugio della Rugiada per mano di un solo gormita, il Principe di Gorm. Come ho già puntualizzato al tempo, l’abbattimento di un dragone corazzato da parte di un unico individuo aveva profondamente scosso i vulcanici, e in misura minore gli aerei, ma ancora di più li aveva umiliati e innervositi: era una dimostrazione di debolezza dei vulcanici.
Motivo per il quale i gormiti erano stati inviati in gruppi di due da Armageddon nell’Aumatot Darn.
A Navus la cosa non piaceva affatto: era oltremodo pericoloso, e le probabilità di fallire, e di fallire morendo cruentamente o ricevendo ferite mostruose, erano più di quante se ne potessero immaginare. Un manipolo, anche discreto, di cinque o sette gormiti, avrebbe avuto molto più successo, sarebbe stato capace di catturare anche due dragoni. Armageddon era rimasto sulle sue idee.
Un’altra problematica era doverlo cavalcare, questo dragone, poiché senza guida una bestia simile non sarebbe stata capace di distinguere amici dai nemici, a meno che non si trattasse di un dragone preso dai suoi simili in tenera età, ma si sa che questi dragoni strappati dai nidi crescono più deboli delle loro controparti selvatiche – pur essendo ugualmente tremendamente potenti.
Ciò che turbava Navus era però altro: non essendo tutti i gormiti omologati, v’era chi trovava più scomodo salire in groppa a un’animale, chi la stimava una cosa da nulla, chi era addirittura impossibilitato, e a poco servivano accessori e selle artificiose per rendere la cavalcatura più comoda.
Così nei gruppi di due mandati a caccia, Armageddon si era curato che almeno uno della coppia fosse adatto a cavalcare, quindi non troppo robusto, ma abbastanza forzuto da non soccombere immediatamente a un colpo qualunque di un dragone.
Skorpios, pensava Navus, era una bizzarra scelta, tuttavia, vista la sua coda e il suo pungiglione velenoso, che avrebbero causato non pochi problemi a un dragone.
I due procedevano in ostentato silenzio, aguzzando lo sguardo tutt’intorno a loro, nella desolata pianura rocciosa dell’Aumatot Darn, salvo rari cespugli e piccoli boschi, per la maggior parte piantati dai vulcanici stessi.
Di dragoni, fino ad’ora, solo l’ombra: non più di una decina sorvolavano, ben alti nel cielo, tanto da non poterne distinguere i colori, le loro case, e nessuno sembrava avere intenzione di scendere a riposare.
I due oltrepassarono in quel momento i resti scarni di un gemnachular, con pochissima della belle azzurrognola ancora attaccata alle ossa. Una vista curiosa: da quel che ne sapeva Navus, i dragoni mangiano interi i gemnachular e tutte le altre loro prede – che non raramente includono anche gormiti. Forse una madre generosa l’aveva catturato e dato in pasto ai propri cuccioli.
“Come facciamo a sceglierne uno invece che un altro?” disse all’improvviso Skorpios, visibilmente turbato.
“Dovrei farla io questa domanda. - obiettò Navus - Sei tu l’esperto di animali, io sono i muscoli del gruppo.”
“Ah sì?” reiterò l’altro, forse un po’ infastidito. Poi tacque, e Navus sorrise soddisfatto: non poteva certo dimostrare il contrario. Il suo compagno era, a causa della costituzione mingherlina, molto più  intimorito, volgendo il capo sottile dalle misere corna acuminate, dominato da due enormi laterali tenaglie nere davanti alla bocca che fremeva ad ogni movimento, sia esso un sasso che rotola o il crepitio di un insetto. Il suo corpo dal colorito giallognolo era estremamente secco, gambe e braccia erano sottilissime, mentre la corazza dai grossi artigli che proteggeva gli stinchi era di contro molto ampia, così come l’armatura sulle braccia che terminavano in due ricurve chele scure, e Navus era sicuro faticasse a trasportarla. Fiore all’occhiello, una lunga, e sottile, coda con un pungiglione come un bozzo al suo termine. Navus non era al corrente delle capacità di tale coda, o se fosse effettivamente velenoso. Di qualunque cosa fosse in grado, non sarebbe stata certo una puntura a mettere Navus fuori combattimento. Era ben più massiccio di Skorpios.
Gli avambracci erano gialli e molto più larghi dei bicipiti e delle spalle, coperte tra l’altro da nere spalliere acuminate, e curiosamente appiattiti: da quattro paia di protuberanze emergevano grossi e lunghi aculei vermigli, i cui poteri vedremo più avanti. Le gambe erano protette da placche metalliche coniche che riprendevano la composizione e la forma delle protezioni, naturali, della testa: quattro creste grigie e rosse spinose che lasciavano scoperti lembi di pelle forte e focosa.
“Vediamo di fare in fretta, allora. - riprese Skorpios - Ne troviamo uno, ne prendiamo uno e…”
“E..?” lo incitò a concludere Navus.
“E ce lo portiamo a casa. No?” rispose irritato Skorpios. Cercava in modo fallace di dimostrarsi capace di quello per cui era stato spedito alla zona di contenimento, e Navus fu convinto più che mai che non sarebbero ritornati a casa senza perdere almeno un braccio.
L’attenzione di Navus, benchè poco disposto a dilungarsi in frase articolate, era ormai sul dialogo.
Fu con enorme e a stento trattenuto spavento che balzò all’indietro facendo dietrofront.
Un’enorme mole di dragone era discesa dal cielo e avanzava, facendo pericolose giravolte, verso i due ospiti speciali. Ancora qualche piede nell’aria, e il dragone sarebbe stato loro addosso.
Il cuore di Navus palpitava furiosamente, e quello se ne rese conto con disapprovazione.
Tutta colpa di Skorpios! Se fosse stato affiancato da un gormita valido, non starebbe provando tutta quella indecorosa paura, le gambe che minacciavano di non reggere più il suo peso.
Non aveva occhi per Skorpios, che si era accorto gridando dell’inatteso arrivo, ma lo sentiva tremare. Ma non scappava. Per fortuna.
Navus era pronto ad ignorare il terrore e a dare man forte, ma la tensione sua e di Skorpios fu del tutto inutile: il dragone ignorò completamente i due gormiti, e si posò volteggiando, sbattendo lentamente le grandi ali nella fase di atterraggio, su un piano rialzato, sagomato a forma di animale per le lunghe e ripetute dormite fatte dal dragone su di esso.
Si appollaiò sul bordo del suo giaciglio, rosso come il sangue. Era davvero immenso; Navus si chiese cosa aveva spinto, nei secoli precedenti e in quegli stessi anni, i suoi fratelli e sorelle ad essere così attirati dalla bestia e desiderosi di fare propria la sua ferocia. E ovviamente come erano riusciti i terricoli di un tempo, ben più deboli e indifesi di allora, a resistere a un’orda di centinaia di quei possenti dominatori del cielo e del fuoco, e come erano poi riusciti i suoi antenati a relegarli nei confini della regione d’allora in poi nota come Aumatot Darn.
Per quanto riguarda il primo dubbio, dovette riconoscere che era un animale davvero splendido e non solo feroce e distruttivo. Le scaglie rilucevano come rubini, e gli occhi erano invece degli zaffiri, che nel bel mezzo di quel mare di fuoco erano davvero l’elemento più spettacolare del panorama. Diamanti argentati erano gli artigli di ogni zampa, che si accingeva a pulire con la lingua ruvida in quel momento. Non si poteva dire lo stesso dei denti, unti e macchiati dei secreti della sua ultima preda. Il paragone più azzeccato era indubbiamente quello di un topazio poco prezioso, sporcato di tracce nere. Le corna non erano di grande rilevanza, come bellezza, e nemmeno molto lunghe.
Rimase appollaiato a pulirsi le unghie e le ali per alcuni minuti, durante i quali Skorpios e Navus, muti, non si mossero d’una frazione di piede.
Successivamente, davvero incurante dei piccoli invasori, fece qualche giretto attorno al suo nido, come sono soliti fare anche i gatti quando trovano un posto comodo e vogliono trovare la posizione più comoda nella comodità; dopodiché si distese pancia a terra, acciambellato, con la testa che toccava i piedi posteriori, le grandi ali membranose che coprivano gli arti.
Il suo occhio d’oceano rimase ad osservare i due gormiti per diversi istanti. Poi si chiuse di scatto.
Non c’era un attimo da perdere.
“Andiamo, Navus.” sussurrò Skorpios, che se ne era accorto prima di lui e teneva la coda sollevata, per non fare rumore. Navus fu stupito: chissà dove aveva trovato quel coraggio, quando un attimo prima si parava con il corpo del compagno. Navus, comunque, non perse tempo e fu subito davanti a lui, diretto silenziosamente al dragone dormiente. O così pareva.
Un possente ruggito fece barcollare i due gormiti, e pentire di essere stati così audaci.
Il dragone appena messosi a dormire si alzò con uno slancio dal suo giaciglio, spalancando le ali in un secondo e sollevando una potente folata di vento, e scendendo con un salto dal nido, facendo sgretolarne i bordi con gli artigli posteriori.
Skorpios era totalmente atterrito: si era acquattato a terra, gli occhi chiusi. Che idiota! Si stava fingendo morto?
Navus rimproverò Armageddon per averli mandati insieme; ma dal canto suo non poteva dire di non essere terrorizzato.
Un nuovo ruggito fece tremare la terra, e Skorpios. Un getto infuocato piombò loro addosso, che scansarono all’ultimo momento, gettandosi a terra. O almeno Navus si gettò, Skorpios era già a stretto contatto col suolo, e si mosse frenetico come un insetto per evitare la bruciatura.
Erano davvero fortunati: aveva incrociato per caso una variante sputafuoco, proprio come quella persa per mano di Carrapax: infatti, sono rari i dragoni capaci di rigettare dal loro stomaco un potente liquido che si infiamma a contatto con l’aria; di norma, quando un dragone si scopre essere uno sputafuoco, e ciò accade solo una volta raggiunta l’età matura, esso diviene subito il capobranco. Il capo attuale può decidere se sfidarlo per mantenere il controllo, ma se non è anch’esso uno sputafuoco, ha ben poche speranze.
La pesante massa del rosso dragone crollò sulla superficie rocciosa che tremolò.
L’ennesimo ruggito fu emanato dalla lunga bocca munita di luccicanti denti bianchi, corrosi qua e là da sanguigni resti di cibo.
Si avventò su Navus a fauci aperte.
Terrore, sudore, istinto: rapido e impulsivo, gli scagliò una scarica elettrica dai suoi artigli in piena bocca, e questo ritirò la testa ululando.
Il dragone non approvò questa mossa, e scagliò un graffio a Navus, che si difese con gli avambracci.
Un grido di dolore lacerò l’aria e il cielo, mentre gocce di sangue scarlatto gocciolavano dagli avambracci lesi di Navus, che cadde a terra dolorante.
Era da ritenersi fortunato che i suoi avambracci avessero una durezza superiore al normale: in caso contrario, avrebbe perso l’uso di entrambe le braccia.
Ciononostante non poté reprimere un’eruzione di bestemmie e ingiurie rivolte più agli dei che al dragone, né ignorare la convinzione che era stato un debole ad agire così d’istinto: parare un colpo d’artigli di dragone con le braccia! Un errore imperdonabile, e non sarebbe stato capace di ripeterlo e sopravvivere di nuovo.
Il dolore e la paura per la possente bestia lasciarono spazio a una furente rabbia, mentre Navus si alzava.
Il dragone soffiò fuoco su di lui. Questa volta, anche se sarebbe stata un’ottima cauterizzazione delle ferite grondanti, non mise gli stessi avambracci dinnanzi.
Al contrario, con una prontezza di riflessi e una resistenza al dolore invidiabile, li tirò indietro per spingerli poi avanti. Il risultato: il torrente infuocato si bloccò a poco più di due piedi da Navus.
Con un ulteriore spinta, il fuoco del dragone fu tolto dal suo controllo e gettato contro di lui, obbligandolo a cessare l’attacco e scuotere la testa per scacciare le fiamme.
Navus cadde sulle ginocchia, ansante. La perdita di sangue lo indeboliva, e aveva già resistito parecchio, molto più di quanto altri gormiti erano in grado di sopportare. Ma non poteva continuare così: la rabbia non gli sarebbe bastata a vincere il nemico e le ferite. E lui non aveva affatto intenzione di perire.
“Skorpios! - gridò - Fa’ qualcosa! Aiutami!”
Skorpios, scomparso alla vista del mostro ma non così vigliacco da fuggire, strisciò dietro al dragone e morse la coda con le tenaglie e le chele. Questi sembrò non sentire affatto il dolore, se non un pizzicorìo, e con un lieve grugnito frustò la coda togliendo Skorpios di mezzo.
Navus, con enorme forza di volontà e reprimendo in grugniti acutissimi le grida d’agonia, aveva usato il proprio fuoco per cicatrizzare le ferite alle braccia. Il rinnovato dolore gli diede nuova vita e nuovo furore, una nuova fonte di energia con cui far fronte al nemico; colse l’occasione per sparare un getto di fuoco sulla spalla della bestia, che sembrò ferirla più della mossa di Skorpios. Si alzò sulle zampe posteriori per piombare con gli artigli su Navus, se non che il vulcanico rotolò di lato evitando un’immane ferita dalla quale il fuoco non l’avrebbe salvato.
Il dragone prese a pestare colle zampe sul suolo nel tentativo di schiacciare Navus, in vano.
Navus si alzò con una mossa atletica e, stando con un ginocchio a terra, l’altro piegato, caricò una potente scossa che colpì il dragone laddove finiva il collo e iniziava il dorso. Questi si dimenò un attimo, e cercò di alzarsi in volo, ma all’improvviso emise un ululato di dolore.
Navus pensò che fosse l’effetto della scossa, ma non poteva perdurare così a lungo. Quando il dragone riuscì a librarsi in aria, scoprì la causa: Skorpios si era attaccato al suo ventre, le chele e le tenaglie ben conficcate nel petto roseo.
Skorpios era davvero un individuo ambiguo: alternava attimi di codardia insuperabile a lodevoli dimostrazioni di coraggio e spirito d’iniziativa.
Skorpios, impercettibile e invisibile agli occhi della bestia, attenta solo a Navus, aveva colpito con le sue chele il punto debole del dragone. Alla base del collo e fino a un certo punto della coda, infatti, non vi erano scaglie dure, ma una pelle più morbida e più sensibile, rosata nel caso di quel dragone.
Ora doveva semplicemente colpire lì con forza, quando sarebbe venuto giù – stava volando. E sperare di non ammazzarlo, o sarebbe stato tutto inutile
Il drago rimosse Skorpios dal suo petto con i denti e, scrollandolo prima ben bene tra le fauci – qui Navus pensò al peggio - lo scagliò lontano.
Dopo ciò che era successo e che aveva visto, Navus non poté accettare di buon grado la morte di Skorpios. Diede un pugno al terreno, rabbioso. “Feccia d’un drago! Sta’ a vedere se aspetto che tu torni qua. Vengo io a prenderti!”
***
“Ahi…ahi ahi…ahi!”
Lampi rossi e violetti sprizzarono nei suoi occhi mentre tentava di aprirli e scoprire dove fosse.
Non riusciva. Il dolore era troppo forte. Dolore alle braccia, alla coda, alla testa, alla schiena, allo stomaco, a ogni organo possibile e immaginabile. Si sentiva essere stato trafitto, ed essere ancora trafitto, da migliaia di sottilissimi e lunghi rovi velenosi e roventi.
“Iu Vorcan! Oberei Menumia e Travor!” gridava furibondo nella sua lingua naturale, scoprendo con sorpresa che la gola e la lingua, almeno, non erano ferite.
“Vodriate dengo enuc o Ivi Isasmun, Magor ekke adievi ai Gorm! Fe tore no adiererei, eme no eveo lac, snadr!”
Un’imprecazione piuttosto colorita: pregava, in sostanza, che gli déi della tradizione vulcanica facessero in modo che il Vecchio Saggio e Magor non fossero mai arrivati su Gorm.
Prima del loro arrivo, si stava così bene! E non ha tutti i torti.
Continuava nell’impresa di aprire lo sguardo e sapere qualcosa di ciò che lo circondava. Tutto inutile: le palpebre gli dolevano in maniera spropositata, e non riusciva a vedere altro che nero attorno a lui.
Nel formicolio generale e fastidiosissimo che dominava le sue membra capiva soltanto che la sua coda era piegata in una posizione poco confortevole. Non aveva idea di dove si trovassero le sue mani – chele – né se si trovasse supino o prono. Pensò per un attimo di accendere del fuoco ma, oltre all’impedimento di non riuscire a coordinarsi, gli mancavano le forze per governare il suo elemento.
Attese, calmandosi e interrompendo il torrente di ingiurie. Prima o poi si sarebbe ripreso, avrebbe riacquistato sensibilità e forza di reggersi in piedi.
Non mancò molto prima che si accorse che gli occhi erano aperti eccome. Eppure, continuava a vedere buio. Dove diavolo si trovava?
Ricordava solamente di essere stato azzannato da un dragone e poi scaraventato vigorosamente come una preda inerme da qualche parte dell’Aumatot Darn. Come era potuto finire in quel buco oscuro?
Dopo gli occhi, anche il resto della carne riacquisì sensibilità, e il prurito svanì poco a poco.
Potè dire con certezza di sentire qualcosa di freddo, spesso e appiccicoso avvolgergli il corpo in più punti. L’essenza di quel materiale, del quale non riusciva a cogliere nulla fuorché la freddezza e la viscosità, gli fece accapponare la pelle.
Cosa l’aveva prodotto? Dove si trovava, esattamente? Dubbi terribili cominciavano a divorarlo dall’interno. E se fosse rimasto intrappolato lì in eterno?
Non volle pensarci: cercò di scuotersi. L’intero piano su cui si trovava cominciò a vacillare, come fosse un gigantesco filo appeso e pronto a strapparsi da un attimo all’altro.
Immediatamente dopo, un gorgoglio pungente, irriconoscibile e gutturale, che non fece sentire meglio Skorpios.
Cosa che lo fece tremare ancora di più, sentiva numerosi passettini rimbombare attraverso il tessuto viscoso che lo teneva relegato, e farsi sempre più vicini…
Non sarebbe rimasto inerme ad aspettare di trovarsi faccia a faccia con chissà quale terribile mostro ed essere poi divorato intero.
Si scosse più fortemente e freneticamente che poté. Liberò nell’oscurità la coda, per prima, poi una gamba, un braccio e metà del torace insieme al collo. Con la mano libera, creò una palla di fuoco per illuminare l’area circostante e colpire il misterioso mostro che l’aveva catturato.
Lo vide. Non dove si aspettava di trovarlo. Infatti, come aveva già ipotizzato, il luogo su cui si trovava era davvero sospeso. Una titanica tela di ragno.
Sotto di lui, il mostruoso e gigantesco aracnide che l’aveva tessuto.
Era raccapricciante. Mole impressionante, peluria castana irregolare lungo il corpo e l’addome vivi come il sangue, lungo le articolate e frenetiche otto zampe, grosse quanto la corazza sulle braccia di Skorpios; lungo il capo orrido e abnorme, munito di quattro occhi vitrei e denti come un accozzaglia di migliaia di spade e pugnali, pronte a triturare in un attimo vittime delle dimensioni di un gormita.
Il suo primo impulso verso quel mostro, che si trovava sotto di lui attaccato alla sua tela, fu di attaccarlo e renderlo inoffensivo. Così, fece scattare il proprio pungiglione, saturo di veleno, proprio mentre il mostro risaliva al livello di Skorpios attraverso un buco nella ragnatela. Andò a segno, tra gli occhi, un attimo prima che questo gli fu addosso. Si bloccò agonizzante, schiumando in gorgoglii assordanti, che stridevano peggio del metallo sul metallo.
“Che - che diamine sei?!” riuscì a dire Skorpios, analizzando la creatura, ancora intento a districarsi dalla tela.
“Un utnievorkra è.” rispose prontamente una voce, che fece impallidire Skorpios dalla paura più della vista del mostro.
“Chiamato aracnorosso, anche.”
Skorpios si voltò su se stesso, puntando la palla di fuoco verso la sorgente del rumore. La trovò: era un gormita, giù in basso, alla base di quella caverna che serviva da tana, per l’aracnorosso. Non un gormita qualunque: un oracolo, un oracolo del Vulcano.
“Tu! Tu, chi sei?” domandò.
“Mandragoriu il mio nome è.”
Skorpios non aveva affatto le idee chiare.
“Come fai a stare qui dentro? Come sei entrato, e quando?”
“Oracolo divenni, numerosi anni trascorsi. Oracolo fui prima di venuta dell’aracnorosso, prima che caverna, tana esisteva.”
“Ah…ca - capisco…”
“E questo aracnorosso, cos’è?” domandò poi, senza distogliere lo sguardo dall’animale in questione. Poteva balzare ed attaccarlo da un momento all’altro; per il momento, continuava ad osservarlo senza agire, preda del suo veleno.
“Bestia pericolosa, antica, rara e volubile. Minaccia per primissimi gormiti. Grande caccia in anni che furono. Loro numero diminuito tantissimo, più di dragoni dalla battaglia dei dragoni.”
“Volubile? In che senso?”
“Capace di essere addomesticata, se si impara a capire. - spiegò l’oracolo - Primissimi gormiti non comprendevano: attaccavano e basta. Paura per propria vita, essi avevano. Aracnorosso molto potente è, utile in tanti modi può essere, anche.”
“Dimmi come.”
“Dimostrare di essere più forte di lui, tu devi. Tu già completato questo passo hai. Ora provare tua benevolenza verso di lui, devi. Cura dal tuo veleno l’aracnorosso, e riconoscente ti sarà.”
Skorpios non era affatto sicuro. Certo, le voci degli oracoli dicevano sempre la verità, e ogni loro parola era oro colato. Eppure, il gormita non poteva fidarsi così ciecamente dell’indole di un animale. Riconoscente, fino a quando? Se un giorno decidesse di voltargli le spalle e mangiarlo, magari anche subito dopo essere usciti da quello grotta buia?
Tuttavia, tentar non nuoce: era sopravvissuto alle zanne di un dragone e a una caduta di chissà quanti piedi, in altezza e lunghezza. Decise di dare infine ascolto alle parole di Mandragoriu. Chissà le facce dei suoi compari, che sicuramente lo credevano morto – era sicuro Navus fosse sopravvissuto, e con il dragone – quando l’avrebbero visto tornare a cavallo di quel mostro! Lo Stregone di Fuoco e Armageddon sarebbero stati oltremodo soddisfatti, e l’avrebbero graziato enormemente.
Skorpios quindi azionò il pungiglione in modo da iniettare l’antidoto. Gli bastava volerlo: aveva infatti nella sua coda ghiandole sia per produrre un veleno, dal quale non era immune, sia la sua specifica cura.
L’aracnorosso tremò e urlò ancora alla vista del pungiglione, e Skorpios dovette fare attenzione a evitare le lame della sua bocca. Per fortuna gli effetti sia del veleno che dell’antidoto erano immediati.
L’aracnorosso riprese vitalità, ma non attaccò Skorpios, con suo enorme sollievo: invece, si abbassò, in quello che era paragonabile a un rozzo inchino. Tentando la sorte e in un ennesimo suo raptus di coraggio, gli saltò addosso, essendosi completamente liberato dalla tela. Quello non obiettò, e lasciò che il gormita prendesse un posto comodo sopra di lui, tenendosi a dei ciuffi di pelo del corpo centrale. Guidandolo con parole dolci nella lingua gormitica originale – gli sembravano più adatte – e con movimenti impercettibili delle chele sui ciuffi, lo guidò su e giù per la tela costruita da lui, ammansito con una facilità…mostruosa, proprio come lui.
“Fantastico!” esultava Skorpios, non più disgustato dalle fattezze del gigantesco ragno e che anzi lo accarezzava.
“Ti ringrazio, oracolo. Per quanto mi darà ascolto?”
“Finchè torto non gli farai, e i suoi spazi gli concederai.”
“Ottimo. Ora, Akarion, portami fuori di qui: appena a Vulcano, ti farò mangiare tutto quello che vuoi.”
“Aspettate, gormita e aracnorosso. - disse ancora Mandragoriu - Due terricoli, e tre bisonti rocciosi, poco distanti da qui si trovano: andranno il loro esercito a rafforzare. Fermarli ancora potete.”
“Terricoli…bisonti? Siamo così vicini a Garsomor?” chiese Skorpios incredulo. Al cenno affermativo dell’oracolo, chiese ulteriormente: “Come sai di questi due?”
“Scorre nella linfa la conoscenza. La linfa sotto la superficie scorre. Di linfa mi nutro, di conoscenza.”>>

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Capitolo 35
*** Capitolo 16.1 ***


“Mmm…la visione dell’esercito di centomila, centomila uomini mi ha davvero messo i brividi…papà, sei imbattibile.”
Esclamò divertito Osmaniu, battendo piano i piedi per terra.
“Non dovrebbe divertirti, Osmaniu. – reiterò Lafivias d’opinione contraria – Dovrebbe terrorizzarti, al massimo. Quelli sono guerrieri, che portano, hanno portato, paura e morte.”
“Lo…lo so. Ma…ragiona, anche i ‘buoni’ di questa occasione hanno portato paura e morte per i ‘cattivi’. Che è anche la mia gente.”
Il Cronista tacque e li fissò apatico, dopo l’iniziale appagamento per i complimenti del figliolo. Incrociò le braccia, trovando vivo interesse nella conversazione dai toni molto maturi che i due stavano intraprendendo. Si stupiva particolarmente per Osmaniu, che in genere, quando la sua compagna, dotata di innegabile migliore eloquenza del trovatello vulcanico, era abbastanza arrendevole e non riusciva a costruire un buon impianto argomentativo per esprimere e difendere le sue opinioni.
Questo me lo scordavo con i bimbetti, alla mia vecchia radura. Osservò compiaciuto – ma in apparenza sempre inespressivo – il Cronista, entusiasmandosi una volta in più dei vantaggi che il sofferto trasferimento a Garsomor gli aveva recato.
“Capisco, sì, che è la tua gente. Ma c’è qualcosa di sbagliato nel, nell’esaltarsi, entusiasmarsi alla vista o all’immaginazione della lotta, e della guerra. La guerra è sofferenza.” Si notava chiaramente, nel come giocava con la penna e si mordeva il labbro, che Lafivias trovava difficoltà nel mantenere salda la propria posizione, forse anche lei sorpresa della buona inattesa oratoria del fidanzato.
“Be’…forse dico balle, ma la letteratura, queste lezioni di storia raccontate, hanno proprio lo scopo di far imparare attraverso le emozioni. Se non provassimo qualcosa, tanto vale fare soltanto le lezioni normali.”
“Sì, hai ragione. Ma esaltarsi per la guerra? Sento che c’è qualcosa di sbagliato in questo.”
“Non so che dire…è naturale, soprattutto per noi gormiti. E poi anche tu ti esaltavi quando c’erano le lotte, lo so.”
“Lo so anch’io, cosa credi? Ma non lo faccio senza pensarci.”
La discussione a quel punto non sembrava dover proseguire oltre, e il Cronista si intromise per introdurre nuovi argomenti di chiacchiera: “Sì, devo ammettere, modestamente, che un po’ di paura come anche di esaltazione l’ho provata anch’io, immaginandomi quella parte. Forse, anzi, quasi sicuramente c’è ancora qualcuno in vita che potrebbe dirvi cosa ha provato lui, o lei, che l’ha vissuta. Anche se probabilmente non vorrebbe rievocarlo, temo. Altro?”
“Devilfenix è un grande stronzo.” Se ne uscì Osmaniu, invero, quel giorno particolarmente loquace. Si vergognò per un attimo dell’uso improvviso e indesiderato della parolaccia, e scese in un vergognoso silenzio. Lafivias lo tirò fuori da quella situazione.
“Lo credo anch’io, e per ora abbiamo solo ‘letto’ i suoi pensieri, non ha ancora fatto nulla. Ma era davvero così?”
“Come fosse davvero non lo può sapere nessuno fuorché lui stesso. Come narratore, devo saper creare personaggi che il lettore, voglio dire, l’ascoltatore possa odiare, oltre che amare. Ma non lo faccio mai per capriccio, a caso. Di certo Devilfenix era, o forse è ancora, una personalità ambigua, da due e più facce, con una notevole abilità di persuasione.”
“Armageddon è quasi più…lo si può apprezzare più di Devilfenix, ecco. – sostenne poi Osmaniu; poi guardò storto Lafivias, e fece una piccola smorfia – Anche se, come vulcanico, il mio, ehm giudizio, sì?, è influenzato.”
“Armageddon era un ottimo Signore, fedele e con il suo Popolo nel cuore, lontano dalla brama di potere e di lusso di Devilfenix. – lo supportò il padre – Direi che tutti i Signori possono dirsi migliori di Devilfenix, forse persino Elios. Ma è meglio non portare questa discussione oltre, o la situazione potrebbe farsi bollente. Comunque, Armageddon era bravo, molto umano e cordiale, anche se è durato poco. Con i suoi sudditi, s’intende. Forse si sarebbe dimostrato anche aperto al dialogo, ma i tempi erano quelli che erano.”
“Quindi…la bestia che ha fatto l’imboscata a Opale Nero e Mangiaterra era quel…quel ragno gigante, l’aracnorosso, con Skorpios alla guida.” rifletté Lafivias.
“Ebbene sì. Che ne dici, è valsa l’attesa?”
“Insomma. – proruppe l’altro, sbuffando a braccia conserte – Si è solo capito che era lui e che li avrebbe attaccati, ma non si è vista la lotta.”
“Non volevo dilungarmi. – si giustificò con spallucce il maestro – E poi, in certi casi è meglio lasciare spazio all’immaginazione, non trovi? Basta sapere che tutti e tre, nonché le bestie ritrovate, sono tornati sani e salvi alle rispettive case. La loro lotta è stata interrotta dall’arrivo della mandria di bisonti rocciosi. Ma poi scusa, Osmaniu, tu non c’eri l’altra volta. Come fai a sapere del loro scontro?”
Imitando il padre, quello fece spallucce: “Lafivias mi ha fatto un riassunto.” E le accarezzò il capo in prossimità dell’orecchio, sorridendo.
“Oh be’, mi fa piacere.”
“E con i dragoni com’è finita?” domandò il figlio.
“Navus è riuscito nella sua missione, come anche molti altri che erano stati mandati ad Aumatot Darn. Non tutti, però. Diversi non sono affatto ritornati.”
Lafivias si raccolse le spalle tra le mani: “Non riesco proprio ad immaginare un gormita, uno qualsiasi, riuscire a vincere un dragone, neanche con tutti gli incantesimi dell’universo. Sono così grandi e feroci…”
“Noi gormiti siamo molto potenti. Troppo potenti. – disse Osmaniu seguendo la scia del discorso, per poi accompagnarlo verso un’altra direzione – Pensiamo anche a Skorpios, e al suo veleno, e alla cura per il veleno, che ha entrambi dentro di sé. Siamo così strani, diversi e…pericolosi. Le altre razze non ci temono?”
“Non esiste nessuno che non ci teme. – disse drammatico, quasi glorioso, il Cronista – Abbiamo mostrato al nuovo mondo il nostro profilo migliore: un popolo industrioso e capace, sincero e ricco, e il mondo ci ha accettato come tale. Tuttavia, non credo siamo davvero pericolosi come credi, Osmaniu, non come una volta, se non altro. Se dovessimo diventare un vero pericolo per il mondo, toglierci di mezzo non sarebbe un grande problema. Siamo in pochi, anche se potenti, in confronto agli imperi degli elfi, dei vici e degli zoari.”
 
Un gong risuonò per i corridoi vuoti delle stanze sotterranee. Risuonò nel vuoto stadio sabbioso mentre la grata metallica veniva issata al richiamo del suo nome per il combattimento. Risuonò tra le migliaia di gormiti che, non appena i due sfidanti varcarono i rispettivi cancelli e le grate furono chiuse dietro di loro, si animavano, gridavano, esultavano tra gli spalti rocciosi della secolare costruzione nei pressi della costa sud-orientale di Dalarlànd, dove gli alberi altrettanto secolari si specchiavano nelle limpide, temperate e poco profonde acqua dello Stretto di Gorm.
Alla definitiva chiusura delle grate e al rimbombo del secondo gong, che sancì la discesa del silenzio tra il pubblico, non esistevano null’altro che loro due, adesso. Lui e il suo sfidante vulcanico. Vulcanico. Era singolare ritrovare dopo circa un secolo dei gormiti del Vulcano partecipare, come sfidanti o semplice pubblico, al Torneo di Astreg. Specie considerando che, ancora una volta, nonostante le mancanze, il Popolo del Vulcano aveva chiuso tutti i ponti con le altre tribù e la minaccia di guerra era, ancora una volta, imminente. Tuttavia questa volta diversi vulcanici, in virtù di ciò che era accaduto, ciò che era cambiato per sempre nel 860, avevano avuto l’accortezza e il coraggio di dire no e mettersi da parte. E gli alti dirigenti del loro Popolo li misero da parte, costringendoli a rifugiarsi presso gli altri Popoli.
Era un miracolo che quel Torneo si fosse tenuto, e ancora più sorprendente era il fatto che, con un Vulcano rabbioso e frustrato alle porte, politici e civili insieme ritenevano possibile e anche divertente allestire l’annuale tradizionale gara di lotta. A cui fu reso possibile agli stessi vulcanici rifugiati partecipare.
Si trattava del suo primo Torneo, e non tutto il male – se di male si può parlare – vien per nuocere. Era la notte del 64 Greemeralse. La luna primaria era come un sole verde nel nero cielo stellato, tanto che le torce e le pietre di luce che illuminavano l’arena erano ben poche. Lui era appena adulto, aveva appena 19 anni, ma adesso si stava giocando la finale, e il titolo di Campione del Torneo di Astreg del 873 dalla nascita della civiltà. Contro nientemeno che un vulcanico. Ne aveva già affrontati – e sconfitti – alcuni, ma se costui era giunto a contendersi il titolo, doveva essere ben più preparato degli altri e molto più difficile da battere. Se gli era stato concesso arrivare fin lì a una così giovane età lo doveva unicamente a suo padre, al suo insegnamento sin dall’infanzia a numerosi stili di lotta, alle vie sia della luce che delle tenebre, e, principalmente, all’allenamento, sotto incitamento del padre, del particolare potere innato della Foresta che lui aveva e molti altri no, o che semplicemente ignoravano di avere o preferivano non usufruirne.
Doveva tutto a suo padre, se fino ad ora era riuscito a vivere in serenità, lontano dalle terribili vicissitudini che avevano sconvolto Gorm – e che tenevano il genitore lontano da casa metà del tempo – ed era stato capace di maturare la sua tecnica di lotta che l’avrebbe portato lontano. Lottava per suo padre, in fondo, passato a miglior vita due anni prima, prima di poter vedere il figlio combattere – e vincere – il prestigioso Torneo. Suo padre aveva allenato molti guerrieri, sia semplici ambiziosi della gloria di Astreg come anche soldati dell’esercito, pure se per quasi l’interezza della sua vita era stato un Saggio della Foresta. E non a caso: le ultime parole che disse rivelarono verità nascoste ai gormiti da molto tempo.
L’energumeno del Vulcano, un bestione rosso che non sembrava avere altri talenti se non quello di un’imponente forza fisica, avanzò la prima mossa, saettando contro di lui fasci di fiamme e fuoco nello stile del Respiro del drago. Egli tentò come gli fu possibile di evitare quei flussi ardenti, ma il loro principale obiettivo fu comunque raggiunto: impedirgli di vedere l’avversario che, offuscato dalle fiamme, stava caricando contro di lui e, con le lingue di fuoco che gli danzavano intorno, assestò una poderosa spallata al leggero forestale, scaraventandolo a terra con la faccia nella sabbia.
Non significava nulla, per lui. Il dolore era sopportabile, e aveva una perfetta conoscenza dello spazio intorno a sé – dopo più di venti combattimenti in quell’arena, il tempo lo aveva avuto eccome! Senza togliersi subito da quella situazione svantaggiosa, spalancò le lunghe braccia, più gonfie e muscolose negli avambracci che nei bicipiti, e allargò le fila di sette dita, chiamando a sé i tronchi conservati al limitare dell’arena per uso nei combattimenti da parte dei gormiti come lui – sì, perché privati del potere di creare gli elementi, utilizzare materiale preesistente era l’unica alternativa per garantire a tutti l’equità, anche in virtù del fatto che, per la ricchezza dei materiali necessari per infiammare l’aria nell’aria stessa, i vulcanici non necessitavano del fuoco vivo per generarne di proprio. Non vide quanti ne andarono a segno, ancora infossato, ma udì i botti del legno contro la carne morbida, per quanto muscolosa, del suo avversario, nonché il crepitio del legno che va a fuoco. Quando infine si rialzò con una mossa acrobatica, non badò alla situazione del suo assalto sorpresa, se fosse andata a buon fine e quanto a buon fine: si mise scattante saldo con i piedi sulla sabbia e con eleganti e decisi movimenti delle braccia evocò un ultimo tronco, da dietro di sé, proiettandolo veloce come il vento contro il nemico. L’allungato pezzo di legno schizzò come un fulmine e affondò nel ventre del vulcanico, affondando quest’ultimo nella sabbia.
Poi schizzò egli stesso contro di lui, rapido e feroce come il tuono, e non appena quello si rialzò, gli sferrò un calcio dritto nella mascella, e poi un altro, e un altro e un altro ancora, sollevandosi in aria nel farlo. La tecnica del Katring sparke eseguita in modo perfetto. Quando furono entrambi nuovamente a terra, il forestale si appiattì, piegando all’estremo un ginocchio e estendendo l’altra gamba. Utilizzando il piede a terra come perno, ruotò su se stesso, slanciando la gamba estesa contro le due tozze dell’avversario, rimandandolo a baciare la sabbia. Eccezionale, la tecnica del Skeringtoppen, eseguita per di più su un terreno non stabile come quello dell’arena! Il pubblico non mancò di notare con uno scroscio di schiamazzi.
Il forestali gli s’avventò sopra, e prese a tempestarlo di pugni, tenendolo fermo con una larga mano stretta al collo. Quello parve non dover avvertire nulla, nemmeno quando il sangue cominciò a gocciolargli dal naso, e il forestale dovette fermarsi quando gli occhi del vulcanico si fecero luminosi come Redrubin e il proprio petto prese fuoco sotto i colpi dello Sguardo del Sole.
Sollevò un po’ di sabbia e le pericolose fiamme furono spente, ma il gormita del Vulcano era ancora acceso. Corse e lo picchiò duro con un pugno in pieno petto, esattamente laddove le fiamme erano state appena fermate, e poi un altro. Ma il forestale rimaneva saldo, non indietreggiava. Parò il terzo pugno…ma non deviandolo fisicamente. Sfruttò il potere della Foresta sulla materia organica, e, come un floscio ramo mosso dal vento, il braccio del vulcanico fu sospinto lateralmente, lasciandogli spazio libero per attaccare. Non era la prima volta che utilizzava il suo potere durante il torneo, e da alcuni era stato malvisto inizialmente. Fu anche motivo, la prima volta che lo fece, di disguidi e diatribe per i patrocinatori e gli arbitri del Torneo. Tuttavia, poiché era un potere elementale come un altro, verificato, e non uso della forza magica, non c’erano problemi.
Disorientato il vulcanico, benché sicuramente questi sospettasse avrebbe usato quel ‘trucco’ presto o tardi, il forestale lo assalì con rapidissimi e scattanti pugni al petto, all’addome, al mento, calci rotanti in pancia e in faccia, e quand’anche il vulcanico aveva opportunità di contrattaccare, sempre il gormita della Foresta esercitava il proprio dominio sui suoi pugni per bloccarli o deviarli, e così seguitava a massacrarlo.
Durò un’infinità di tempo e il vulcanico sembrava instancabile, insensibili alla fatica o al dolore. Arrivò dunque un istante in cui il periodo tra un attacco del forestale e il secondo fu più lungo e il vulcanico poté caricare un colpo più intenso…che il forestale non riuscì a fermare al solito modo. Fece uso del proprio potere, sì, ma semplicemente il pugno non si fermò né fu spostato. Rallentò solamente: a quanto pareva non solo il corpo del vulcanico era potente, anche la sua mente, capace di resistere al dominio organico del forestale, tanto da far perdere la concentrazione a quest’ultimo che fu abbattuto da quell’ennesimo pugno. Il gigante del Vulcano lo sollevò in aria e lo sbatté a terra come un rifiuto. Lo prese per le braccia, lo strizzò ben bene e rigurgitò un’intensa fiammata sulla sua faccia. Quello reagì scalciando violentemente la faccia avversaria, e anche quando il respiro infuocato cessò, la stretta del vulcanico non seguì, e seguirono invece le piedate dritte sul muso, terminate, dopo essersi liberato, da un calcio in aria sullo sterno che fece cadere il vulcanico indietro. Ritentò il dominio organico per una mossa definitiva, ma quello riuscì ancora una volta a resistere, e con la mano non mantenuta in stallo tra il potere del forestale e la potente mente del proprietario scagliò una raffica di sfere infuocate. La situazione proseguì in tal modo per lunghi minuti, finché il forestale non diede apparente segno di stanchezza. Sicuro di vincere, ormai, il vulcanico gli corse in contro furente, se non che quella debolezza dimostrata dall’avversario non era che un inganno: nel bel mezzo della corsa le ossa delle sue gambe furono piegate fino a fargli eseguire una perfetta spaccata, per la quale ululò di dolore. Con calma, dunque, il forestale gli si avvicinò e gli sferrò due ultimi calci. Dopodiché, il vulcanico era allo stremo – e il forestale pure.
Si arrese. Il gong risuonò per l’ultima volta.
“E il vincitore è….”
 
Il Cronista si svegliò di soprassalto all’udire il suo nome, da tanto, da tutti mai più pronunciato, in sogno. Si ritrovò a ridere. Non si sarebbe mai aspettato di rivivere il ricordo della sua prima ed unica volta come lottatore – e come vincitore – del Torneo di Astreg, l’evento che per primo lo rese famoso  in tutta l’Isola, più per il come della vittoria che per la vittoria in sé. Di quello se non altro poteva andare fiero. Del secondo fatto che fu la causa della sua notorietà, del titolo di ‘eroe’ seguito al suo nome, non lo era per niente. Ma il Cronista non era famoso per nessuna di quelle due cose. La vittoria al Torneo e il suo atto di eroismo non avevano spazio nella sua identità come Cronista.
Lavandosi e preparando la colazione, gettò via questi pensieri su se stesso per riflettere, visto che l’argomento del suo flusso di coscienza era quello, sul Torneo di Astreg.
Cambiato radicalmente, a partire dagli eventi del 860 che misero la parola fine a diversi di quelli che per la società gormitica erano ormai dei punti fermi, e che impedirono per sempre la creazione degli elementi. Questo fatto incideva intensamente sulle modalità di combattimento del Torneo: eccezion fatta per Vulcano, per i motivi detti prima, e per Aria, che aveva disponibilità quasi infinita del proprio elemento, creazione o meno, per Foresta, Terra e Mare i problemi erano palesi. Si optò inizialmente per ospitare nell’Arena ‘magazzini’ di acqua, legna e vari tipi di rocce da utilizzare nella lotta, ma ben presto si rivelò scomodo nonché costoso. I gormiti del Mare erano senz’altro i più indisposti: non avendo acqua gratuita e sempre disponibile con cui costantemente mantenere umido il proprio corpo, la loro situazione di debolezza nei confronti degli altri Popoli era evidente e irrecuperabile, cosa che portò al loro crescente abbandono del Torneo…e della comunità gormitica in generale.
Da qualche decina di anni, ormai, il Torneo di Astreg vedeva unicamente la lotta corpo a corpo senza poteri di genere, e solo gormiti di Aria, Vulcano e Terra partecipavano. Anche i gormiti della Foresta, sia animali che vegetali, progressivamente diventavano latenti in quelle occasioni, per motivi che il Cronista non riusciva a capire.
 
<<92 Redrubise 859.
Il Deserto di Roscamar non è solamente un’immensa distesa di sabbia. Sicuramente più di metà della sua sterminata espansione, che copre gran parte di Darth Kuun, dalle pianure relativamente fertili e miti e le spiagge frastagliate del meridione fino alla prossimità della Valle dei Canyon, dove cominciano a spuntare le eponime rocce nere, esso non è altro che un arido oceano di polvere dorata.
Al suo interno, tuttavia, pur mantenendo ognuno un clima ostile, si presentano paesaggi, grandi e piccoli, anche molto diversi tra loro.
La Valle della Disperazione è un esempio: una profonda conca rocciosa, rada di vegetazione fuorché licheni e felci che penetrano il ruvido suolo, delimitata da enormi pareti pietrose scoscese e impraticabili – eccetto alcune strette entrate in discesa - , riempita all’interno da formazioni di roccia basse e tozze. Il grigio domina l’intera valle. Deve il suo nome al terribile e insopportabile riverbero delle voci che rimbalzano tra le mura indistruttibili, scavate dal vento e da piogge che in un’epoca lontana avevano irrorato quel deserto di pietra e sabbia. Un’iperbole, senza dubbio.
Senza dubbio, se fosse vero, nessuno avrebbe badato all’eco in mezzo al frastuono della guerra, il marciare impetuoso dei piedi sulla nuda terra, il tintinnare e il cozzare del metallo e delle armi, i lamenti delle bestie e degli uomini, fiaccati dall’avanzata militare e dal sole, tesi per l’imminente collisione.
Una lunga e forzata marcia, una volta riuniti i Popoli alleati a nord di Roscamar, la Foresta e i ka’nhili di Karmil da Dalarlànd con navi, il Mare dallo stretto e la Terra dalla sua capitale, alleggerita da una speciale pozione corroborante di fattura karmiliana, aveva condotto l’esercito del Vecchio Saggio – nome simbolico, il Vecchio Saggio non era presente né ebbe mai il controllo sulle truppe – nella Valle della Disperazione, discretamente più a nord della Valle di Teunor dove l’esercito nemico si riteneva essere stanziato al momento dell’avvistamento.
I loro numeri non erano largamente diseguali, né si poteva definire di quanto differissero; era chiaro però che l’esercito di Magor aveva il vantaggio aereo, che nessuno credeva potesse mai essere pareggiato o recuperato nel vicino futuro. Ancora una volta, per quanto ormai radicata sembrasse la nuova idea - guida del Popolo dell’Aria, le due fazioni in lotta su Gorm vedevano visi un tempo amici dichiararsi morte a vicenda.
Oltre all’ovvia composizione di gormiti – diversissimi tra loro, allora come sempre – di Popoli diversi, i due eserciti differivano per un diverso tipo e un diverso numero di nuove cavalcature.
La fazione dello Stregone di Fuoco presentava un pericoloso contingente di dragoni, circa cinque, un paio di grifoni e una creatura mostruosa dai riflessi infuocati che i gormiti alleati con il Sommo Signore non avevano mai avuto il dispiacere di incontrare fino a quel momento, talmente orribile a vedersi che persino coloro che l’adoperavano parevano da essa disgustati. Il peggio e il meglio dell’aracnorosso, però, dovevano ancora conoscerli.
E naturalmente, i nuovi arrivi su Gorm, abitanti di terre così vicine e così inesplorate, in realtà originari di lande di cui i gormiti non avevano mai immaginato l’esistenza, la quale gli stessi Stregone di Fuoco e Vecchio Saggio ignoravano.
Così diversi, così sconosciuti, così opposti.
I gargoyle furono sempre una conoscenza esclusiva ai gormiti del Vulcano, e probabilmente, da qualche anno, a quelli dell’Aria: le conoscenze segrete per raggiungere la loro isola, Tato Yami, furono da sempre note solo ai più alti gerarchi del Popolo del Vulcano.
Più bassi di un comune gormita si alzavano da terra, più, anche se di poco, del Vecchio Saggio, ma si vedeva nei loro sguardi felini dalle venature rosse, verdi o brune, nei loro muscoli tonici tinti di blu la forza ammirabile di cui disponevano e la ferocia che potevano scatenare nella lotta.
Trattenevano a stento la loro sete per l’adrenalina del combattimento, fremendo tutti insieme come un campo di grano mosso dal vento. Indossavano elmi ovali rinforzati e con apposite fessure in cui alloggiare le corna, inesistenti per alcuni, grandiose per altri. La loro armatura, forata sul retro per permettere il passaggio delle ali, anch’esse di dimensioni variabili, si componeva di schinieri, stivali, guanti, pettorali e addominali bronzei separati, che non parevano in realtà molto resistenti, o utili. Molto interesse catturò nei gormiti la particolare gonnella di tessuto rinforzato che copriva i loro bacini e la parte superiore delle cosce.
Il loro corredo da combattimento si componeva di una batteria di armi fissa e nel contempo varia: una spada corda ricurva, appesa alla cintola se non stretta in mano, una lunga lancia, impugnata o legata a un appiglio sulla schiena, che non era il solito giavellotto di legno con la punta metallica appuntita, bensì una vera e propria barra di metallo, ricoperta di cuoio per nullificare il riverbero degli urti, assottigliata e affilata all’estremità, estremità forgiata non unicamente nella tradizionale punta triangolare o romboidale, ma modellata in una varietà indefinibile di lame seghettate e ricurve; alcuni portavano un arco, e tutti avevano con sé larghi scudi circolari, di struttura interna lignea, rivestita di pelle nella parte dell’impugnatura e di un disco di metallo dalla porta opposta. Inoltre, questa stessa porzione di scudo era dipinta, anch’essa senza schemi fissi, ma di temi ricorrenti: dragoni, serpenti, squali, calamari giganti, bisonti, e bestie forse mitologiche che i gormiti non riconoscevano.
Dall’altra parte, i ka’nhili, come un sol uomo, silenziosi, rigidi, freddi. Tutti completamente nascosti sotto le loro intricate armature, una uguale all’altra, di tessuto flessibile e tessere di metallo, dipinte d’oro e d’argento e recanti a più riprese svariati ideogrammi il cui significato sfuggiva alla comprensione gormitica.
Non portavano elmi, mostrando ai propri amici e nemici l’interezza dei loro crani coriacei, completi delle loro macchie caratteristiche e i quattro occhi allineati a due a due. Le uniche loro armi erano le lunghe spade ricurve all’estremità e i loro grandi scudi rettangoli e tesserati, anch’essi decorati da un ideogramma, più vistoso e ampio di quelli sulle spalle e sul petto, l’unica fonte di varietà nel loro equipaggiamento. I gormiti ritenevano simboleggiasse la famiglia di appartenenza.
Mi è difficile descrivere a parole le sensazioni di quei momenti, sebbene non sia certo la prima battaglia di tempi andati che mi accingo a narrare, e purtroppo nemmeno l’ultima.
Le parole, tramandate di figlio in figlio, di coloro che sopravvissero e che io raccolsi non possono essere immesse in questo racconto, non renderebbero. Le parole da sole, uscite dalle bocche di quelle persone, mancano del tono e della gestualità con cui esse furono dette, rievocando i ricordi dei propri genitori. Toni e gestualità che non posso inserire qui dentro a caso. E comunque non è mia intenzione ricopiare le parole di chi ricorda questi eventi. Quei verbi cambiano, mutano, oserei dire si contraddicono, di racconto in racconto. Io invece voglio che queste parole rimangano ferme, fisse, che non mutino mai e ricostruiscano nel modo migliore ciò che è davvero successo.
Si respirava un’aria satura di tensione, di paura, quasi, nelle pareti grigie e sterili della conca.
Si fronteggiava un nuovo nemico, da entrambe le parti, ed entrambe le parti non sapevano del tutto cosa aspettarsi.
La voglia di scoprire, anche a costo della propria salute, i modi e le mosse del nuovo avversario era un sentimento condiviso dai più dal lato dello Stregone di Fuoco, forse non sempre genuino e sostenuto da un desiderio di mascherare la propria ansia.
La mancanza di comprensione dei veri motivi di quella guerra turbava i cuori di molti gormiti.
Gli alleati di Sommo Luminescente III sapevano perfettamente che lottavano per la difesa del pericoloso Occhio della Vita, oltre che per impedire l’alba di un regno dominato dai vulcanici, idea che terrorizzava parecchi. Tuttavia, sapevano ben poco dei ka’nhili. Cosa li spingeva davvero a combattere fianco a fianco con quella razza che forse da secoli era vissuta poche miglia dalle loro spiagge, ma di cui ancora sapevano ben poco? Cosa nascondevano nei loro accampamenti portatili?
Era noto che tra gargoyle e ka’nhili non corresse buon sangue, e che usarono in un tempo non troppo lontano Gorm come campo di battaglia. Negli impassibili sguardi dei soldati ka’nhili non si vedeva rabbia, odio sfrenato; alcuni karmiliani meno ortodossi alle regole mostravano in verità un briciolo di emozione, ma nella maggior parte di loro si scopriva solamente una spassionata volontà di vincere il proprio nemico, senza piacere per la lotta, senza diletto per la competizione, un lavoro, un compito da assolvere e da cui trarre nessuna soddisfazione.
Tutto il contrario, per quello che ancora erano in grado di vedere i gormiti alleati, dalla parte opposta, nei gargoyle, che parevano scoppiare nell’attesa dell’inizio dello scontro.
Anche per il loro caso, e non solo per i gargoyle, i dubbi erano sovrani. Volendo pure da mettere da parte la misteriosa via con cui le truppe degli yamensi erano giunte su Gorm – era impraticabile spostare un esercito attraverso un varco, così come percorrere la distanza in volo e anche il viaggio per mare: come avevano eluso la Grande Piovra? Certo, era già successo in passato che qualcuno sfuggisse, ma per far approdare quegli uomini e le loro vettovaglie si necessitava di parecchie navi, e grosse, che la Grande Piovra non poteva non vedere – rimaneva da scoprire perché si erano messi in marcia. Il nuovo rifugio dell’Occhio della Vita era un segreto noto a ben pochi ufficiali dei tre Popoli, era improbabile che i nemici l’avessero scoperto. Era però sicuro che Garsomor era stata invasa e occupata. Che lo Stregone di Fuoco avesse messo da parte, temporaneamente, la ricerca dell’Occhio della Vita per iniziare la conquista dell’Isola? Tutto era possibile.
La Valle della Disperazione presentava, come già detto, delle entrate in discesa, nessuna molto larga. Una verso nord e due verso sud. Entrare nella Valle aveva completamente rivoltato le fila, con i ka’nhili ai lati, assunte dai gormiti del Vecchio Saggio, che ebbero ben poco tempo per riorganizzare le posizioni. I gormiti dello Stregone di Fuoco, al contrario, che avevano posto gli accampamenti in prossimità, una volta avvistati i nemici ebbero tutto il tempo per impostare le truppe secondo i piani; anche se la Valle della Disperazione lasciava per entrambi gli eserciti poco spazio di manovra, ed ambedue si videro costretti a non miseri cambiamenti (di cui per altro i gormiti non si preoccupavano parecchio, come era loro solito, vista la loro potente natura che rende diverse strategie militari piuttosto futili). Se non altro, il perimetro della Valle offriva un buon nascondiglio per legioni nascoste, preferibilmente di arcieri scelti; ciò non era un vero e proprio vantaggio, dal momento che ne potevano usufruire sia un esercito che l’altro.
L’avvio della battaglia prese tutti di sprovvista. Nessun messo inviato a trattare, nessun suono di corni, nulla. Solo uno scatenato grido di furore e i gargoyle blu che avanzavano correndo come scalmanati, seguiti poco dopo da soldati rossi e azzurri/bianchi.
La carica dei gargoyle di Tato Yami era uno spettacolo magnifico e terribile insieme.
Come scatenati da una lunga, insopportabile prigionia, si dimenavano e scalpitavano quasi impazziti, accompagnando la corsa ed ogni singolo colpo percosso con bestiali urla di sfogo, liberati all’improvviso da un peso opprimente.
I ranghi degli yamensi furono rotti immediatamente, da loro stessi, con le loro movenze elastiche, snodate, sregolate e per nulla virtuose, si buttavano nella mischia contraendo ogni singolo muscolo del loro corpo, con denti digrignati all’inverosimile e con un’apparente mancanza di preoccupazione per la propria sicurezza. Un ardore e una gioia indescrivibili muovevano il loro animo, sostenevano la loro carica ed accrescevano ad ogni ferita subita e inferta. Una passione per la lotta, per la competizione che li rendeva irrequieti ed esplosivi; paura, ansia, terrore, desiderio ardente di vedere il sangue e gli sconfitti, ira, tutto si mescolava nel loro spirito e diveniva il vero e proprio motore del loro corpo, guidandolo verso la vittoria e bruciandolo negli oscuri artifizi della via delle tenebre.
Assalivano il nemico con la foga di lepri nel periodo dell’accoppiamento, si battevano con la decisione di uno sciame di vespe che difende il proprio nido violato.
Paragonare, dall’altra parte, i karmiliani a un qualsiasi animale sarebbe completamente indegno, elevati com’erano questi ka’nhili separati dalla loro patria di fronte a tutte le forme di vita senzienti e non senzienti, superiori ai comuni struggimenti per sentimenti ed emozioni, che appresero a reprimere e rendere succubi al loro volere. Uno, tuttavia, è quantomeno azzeccato: formiche. Formiche soldato, forti e corazzate, ognuna valida come l’altra, maestre delle proprie abilità, senza alcun risentimento né rimorso a ostacolare il loro cammino, ligie al loro inoppugnabile dovere di difendere il formicaio e la regina.
I loro attacchi erano rapidi e impercettibili, netti come la ghigliottina, dotati della precisione di chi programma da mesi la prossima mossa, freddi e rigidi, statue in un involucro di metallo dipinto.
E poi arrivavano i gormiti. Forti di nuove dosi di veleni mythos e delle preziose tecniche di entrambe le vie della forza magica, non erano forse eleganti e inflessibili come i ka’nhili o spericolati come i gargoyle, ma in guerra nessuna vista era migliore di quella offerta da loro.
Fidatevi di me, ho osservato numerose specie impegnate in battaglia e in allenamenti o scontri agonistici, chi possente come una roccia chi agile come un pesce nel suo elemento, chi con un’insuperabile conoscenza della magia chi fornito di una tecnologia tale da portare con sé armi di morte assicurata, chi adoperando le più spettacolari strategie belliche chi facendo leva unicamente sul numero e la potenza di fuoco.
Eppure, nulla di ciò che visto e di ciò che vedrò può mai raggiungere in magnificenza un manipolo di gormiti indaffarati nel loro impegno prediletto per natura: la lotta.
 
“Coraggio! Non abbiate paura della morte! L’immortalità sarà di ogni caduto!”
Queste le urla galvanizzanti del Signore della Terra, Thorg. Nessuno sotto il suo comando, nessuno che combattesse di fianco a lui impietriva di fronte al nemico, i visi furenti di guerrieri del fuoco e i volti un tempo amici dei soldati alati non indebolivano il valore dei terricoli e degli altri uomini che, alzando lo sguardo, trovavano il capo cornuto e barbuto del Signore della Terra a sovrastarli.
Glorioso e abbagliante nella sua nuova armatura nera lucida, argentata e dipinta in più parti di uno sfolgorante arancione, armatura che metteva in risalto ed ingigantiva grazie al metallo modellato con precisione i muscoli più prorompenti del suo corpo e quelli che sembravano quasi corni sul suo dorso, che ora erano delle vere e proprie letali punte di giavellotto di freddo acciaio.
Thorg riteneva di non combattere solo per la salvezza della propria gente e per la missione dell’Occhio della Vita: come i grandi condottieri di anni lontani, come la tradizione gormitica insegnava a chiunque, lottava per la gloria, per il ricordo che lui e le sue azioni avrebbero lasciato nella storia, l’unica libertà dalla prigionia che era l’ineluttabile ciclo della vita.
Desiderava che tutti, dal più umile dei contadini al più ricco Signore, agognassero a questo sublime obiettivo, che fossero da esso mossi ad agire nel più esemplare ed eroico dei modi.
Ma non lo pretendeva. Sapeva che i suoi uomini combattevano per la maggior parte per mero senso del dovere e che la foga con cui lo seguivano e lo imitavano in battaglia era dovuta alla sua grande forza e alla sua imponente altezza, ispiratrici di sicurezza e fiducia.
A Thorg ciò era sufficiente.
Un bisonte roccioso gli passò di fianco, travolgendo due vulcanici e un gargoyle, mentre lui spezzava il collo a uno yamense con un colpo secco alla nuca con una roccia.
Paragonati ai gormiti e ai ka’nhili con cui ebbe l’opportunità di allenarsi trovo i gargoyle piuttosto…soffici.
Certo, prima era necessario evitare gli assalti di forza magica oscura e poi acchiapparli, cosa non affatto facile visti i loro movimenti,
Il nemico che Thorg si apprestava ad affrontare non era affatto soffice.
Librandosi sopra le lance dei gargoyle e gli elmi dei gormiti del Vulcano, generando forti correnti d’aria con il battito lento e ritmico delle grandi ali, un dragone vermiglio e il suo cavaliere, a pochi piedoni da Thorg, avanzavano riversando torrenti infuocati ai loro lati…diretti proprio verso Thorg!
“Mettetevi al riparo! Al riparo!” urlò a quelli più vicini a lui, mentre il dragone sferzava l’aria sempre più velocemente.
Spruzzi di fuoco, schegge di pietra, clangore metallico e gormiti che saltava e si buttavano alla cieca per sfuggire alla furia del dragone che anneriva il suolo grigio e arido con il suo soffio infernale.
Thorg si salvò per un pelo, aderendo con la pancia a terra e coprendosi il capo con un sasso: il dragone gli era passato proprio sopra, senza ferirlo!
Il Signore della Terra aveva già ideato una tattica per impedire al nemico di rappresentare una così robusta minaccia alle forze amiche, rifacendosi a una cronaca della prima guerra di Gorm.
Non era una strategia vera e propria: la sua riuscita dipendeva più che per metà dalla fortuna.
Ma Thorg aveva fiducia nei miti del passato, e non esitò a metterla in atto.
Si gettò alla carica del dragone in una corsa sfrenata, una corsa anche a ostacoli, saltando sui nemici e sugli amici, per evitare di far del male a loro o di inciampare e distruggersi a terra, rovinando tutto.
Il rettile alato era avanzato di circa un piedone e si accingeva in quell’istante a fare dietrofront per un’altra pioggia di fuoco, di sicuro più torrenziale ed efficace della precedente.
Thorg fu più rapido di lui: con un balzo che gli tolse il respiro, nonostante il vapore delle gemme del vigore, si aggrappò alla coda dell’animale con entrambe le mani.
Il dragone non mancò di accorgersene, e subito frustò la coda nel tentativo di scacciare l’intruso,
Thorg rimase aggrappato con estrema fatica, e quando il dragone, che tra l’altro stava planando verso l’alto aumentando il rischio nel piano del Signore della Terra, faceva delle pause, Thorg si arrampicava per la coda verso il cavaliere, apparentemente ignaro di lui.
Apparentemente,
A intermittenza, quello a un certo puntò inizio a voltarsi e a scagliare una pioggia di lapilli infuocati – e di bestemmie – di cui Thorg ne schivò quasi nessuna, uscendone con numerose ustioni sul viso e sulle mani,
Non poteva lasciare la presa o si sarebbe schiantato di netto: poteva solo andare avanti.
Gli fu impossibile in un certo momento continuare la scalata delle scaglie nel modo tradizionale. Dovette ricorrere a quel poco di conoscenza magica di cui disponeva.
“Hic et ibi!” gridò, e in un istante si ritrovò aggrappato al bordo della sella.
Ma Thorg pendeva da un lato, ed era in equilibrio profondamente precario.
Il suo enorme peso trascinò la sella da una parte. Tutte le cinghie e le corde dell’attrezzatura furono strattonate, stringendo la pelle del petto del dragone, che urlò di dolore.
Il cavaliere, un gormita di una certa stazza, protetto da una corazza nera dai riflessi sanguigni e decorazioni di un verde inquietante, non riuscì a rimanere ancora a lungo a dorso del dragone. Insieme a tutta la sella, su cui Thorg non avrebbe lasciato la presa per nulla al mondo, fu scaraventato da un lato per la perdita di equilibrio. Nella caduta pestò il viso di Thorg, che schiamazzò per il naso rotto.
Prima di essere spacciato definitivamente, il cavaliere del Vulcano si assicurò al piede del Signore della Terra.
Il volo del dragone era ora completamente compromesso.
Quella mole tutta concentrata su un solo fianco non gli permise più di volare diritto…o di volare affatto.
Disperatamente sbilanciato, si curvò sul fianco invalidato, perdendo quota a velocità frenetica. Le fila di uomini armati si facevano via via più distinte sotto di loro, le loro espressioni di terrore di fronte a quella vista sempre più esplicite e mal contenute.
La collisione era imminente.
“Disgraziato figlio di puttana! - bestemmiava il vulcanico - Bel modo di morire!”
***
Sopra gli altri belligeranti, tra i nuovi destrieri, i guerrieri delle due isole a ovest e est, nel mezzo dei numerosi soldati che lottavano in volo, due figure furono presto di spicco, e la loro maestosità e potenza, nonché il calibro dei loro cavalieri, quasi interruppe il corso della battaglia, i cui combattenti alzarono a più riprese gli sguardi per osservare l’esito della lotta celeste tra i due giganti.
Liberato dalla sua gabbia, l’infernale mostro tenebroso domandava azione, caccia, carne fresca…che trovò ben presto in quegli inetti che tentavano di tenerlo sotto controllo e che gli stavano non proprio a genio. Alzando una delle grosse zampe anteriori e poggiandola giù con uno scatto pestava con facilità ogni incapace e se lo portava alla bocca…una delle due.
Trattenuta dalle catene da oscuri più forti e tenaci degli altri, fu portato all’aperto del campo di battaglia. L’ululato delle due demoniache fauci fece tremare ogni gormita nelle immediate vicinanze, e oltre, riecheggiando tra le rocce della valle.
La vista, poi, fece impietrire i più deboli di spirito, non solo tra le file del Vecchio Saggio ma anche tra le moltitudini di Magor.
Un orrido apparente ibrido tra un cane, anzi due cani e un pipistrello. Tutto il suo corpo era ricoperto di una leggera peluria, quasi setole, di un grigio buio tendente al bruno. I palmi erano simili a quelli di un canide, solo molto più grandi. Le zampe anteriori erano, come in un pipistrello, più grandi e ampie di quelle posteriori, brevi e di utilità limitata allo spostamento sulla superficie.
Attaccate agli arti superiori e a metà schiena lunghe membrane di pelle ricoperte di pelame più rado, ripiegate. Dall’estremità del piccolo dorso si dipartivano due cervici abbastanza estesi con rispettivi capi di cani dal muso allungato, dentatura massiccia e sottile, e due paia di fini, appuntiti padiglioni auricolari, che ricordavano quelli del pipistrello. I suoi occhi erano verdi e dalle pupille insolitamente feline, scattanti qua e là alla ricerca di prede.
La furia di questa bestia si aspettavano i gormiti presenti: distruttrice e dannosa per i gormiti di Terra, Foresta e Mare, prodigiosa e vantaggiosa per i gormiti di Aria e Vulcano.
Ma l’impeto di questo mostro artificiale di Tato Yami aveva una scopo ben preciso.
Obskurios, liberatosi dai nemici che aveva incontrato, si apprestava a cavalcarla in guerra, contro un preciso avversario. Subito diede mostra di essere quello al comando, calmando Cerberios e rimuovendogli le catene. Fu portata l’armatura da combattimento del mannaro alato, che portava i colori simbolo e gli emblemi del Popolo delle Tenebre. Sulle zampe, sulle teste, sul dorso, la sella…
Cerberios era pronto. Fece una breve corsa, scuotendo le zampe superiori e spiegando le membrane e alzandosi in volo.
Se il suolo era un vero putiferio, si poteva dire quasi lo stesso del cielo. Svariati gormiti sfrecciavano inseguiti o inseguenti, altri attaccavano dall’alto come i cavalieri dei dragoni e dei grifoni. Le fauci sbranavano, acchiappavano e laceravano, si cibavano, colpirono con i globi qualsiasi gormita saettasse troppo vicino, e anche Obskurios attaccava chi intralciava il suo cammino verso il suo obiettivo.
Un magico e possente grifone dalla candida peluria, o meglio dire piumaggio, oppure entrambi – si sono tenuti centinaia di dialoghi riguardo l’essenza del pelo dei grifoni - bianca sfavillante, una criniera di penne maestosa ma non di diversa tinta. Grandi ali piumate, sopra le spalle, sbattevano per mantenerlo in posizione. Tutto era bianco, eccetto per gli occhi di un ceruleo blu. Corazzato dalla tipica armatura argentea e dorata del Popolo della Luce, aveva un aspetto molto più austero e temibile e raffinato al contempo, meno bestiale.
Obskurios raggiunse presto Lux’al, il cucciolo di Sommo Luminescente III e governato al momento, come sempre del resto, da lui, il suo unico vero padrone. La battaglia tra i giganti stava per cominciare.
 
“El’issam - pronunciò scandendo solennemente ogni sillaba Obskurios, un ampio ghigno verdognolo stampato sul volto - …mio genero.”
“Per te non sono El’issam, e nemmeno tuo genero. - lo corresse rigido il Sommo - I vostri matrimoni non hanno valore per noi.”
“Puoi bandire tutti i tuoi familiari e rifiutare ogni costume che non sia tuo, ma non puoi negare il sangue!” gli rinfacciò rabbioso e provocatorio il Re delle Tenebre.
“Non nego il sangue. - affermò infatti El’issam - La mia famiglia e tutta la mia gente si porteranno seco quest’onta, per fare in modo che nessuno ripeta quest’abominio.”
“Siete senza cuore!”
“Dai a noi dei senza cuore…guardati, guarda il tuo destriero. E’ un mostro che non ha diritto di esistere, un’aberrazione della natura. Ogni secondo della sua vita è un’agonia per lui, un orrore incommensurabile per tutte le altre forme di vita.”
“Taci!” urlò Obskurios, azionando la mazza che aveva legata al braccio destro, scagliandola a tutta velocità contro il nemico. El’issam la parò prontamente con il grande scudo rettangolare, che lui aveva stretto al braccio. Infatti non disponeva di una sola spada lunga, bensì di due.
Le due bestie capirono che era giunto il momento e si scagliarono l’una sull’altra.
Il grifone albino mordeva e graffiava, e su questo era avvantaggiato, poiché Cerberios possedeva delle membrane di volo e non vere e proprie ali, cosa che non gli permetteva di usare gli artigli, se non quelli posteriori, ma per usufruirne avrebbe dovuto fare acrobazie in aria e rendere vulnerabile il suo ventre. Ma il mannaro alato possedeva due bocche. Poteva addentare e trattenere con una e scagliare vapore infuocato con l’altra, mentre Lux’al non disponeva di nulla di simile, solo di una corazza di fattura migliore, così riteneva il Sommo Luminescente III.
Mannaro alato e grifone si graffiavano e si morsicavano e facendo della loro frazione di cielo un putiferio di piume e sangue, mentre Obskurios e Sommo Signore combattevano sui loro dorsi, troppo lontani e squilibrati per poter usare le loro lame, proiettando però raggi o sfere di luce e tenebre. Obskurios giocò sporco sin da subito, e con la mazza ferrata colpì Lux’al sul capo, e poi la fece arrotolare sul collo, nel tentativo di strozzarlo. Lux’al si dovette sentire talmente in pericolo che abbandonò le zanne e gli artigli da Cerberios, portando questi ultimi più vicino possibile alla nuca, nel tentativo di rimuovere quella dolorosa morsa soffocante.
Sommo Luminescente II soffocò un grido. Preoccupato per la sua cavalcatura con un’insolita intensità, caricò un fascio di luce molto potente, riversandolo su Obskurios e Cerberios, di cui quest’ultimo ne fu particolarmente accecato e si gettò indietro. La catena della mazza ferrata tirava, e si sarebbe strappata procurando a Obskurios una ferita non proprio lieve. Fu obbligato a ritirarla, lasciando Lux’al in vita.
Cerberios non rimase a lungo fuori gioco e irato si avventò sul collo e sulla spalla di Lux’al, mordendo entrambe, e smuovendo pericolosamente il grifone bianco. In contrattacco, Lux’al morse uno dei due colli e colpì con una zampata il dorso del mannaro e anche Obskurios, senza però riuscire a disarcionarlo. Ottenne però il risultato che ora i due sovrani potevano scambiarsi fendenti.
Cerberios lottò duramente per fare in modo che quella situazione perdurasse il più a lungo possibile, non dando modo all’avversario di mutarla, mantenendo lui e se stesso stretti in quella morsa di zanne e artigli.
Obskurios fu il più veloce: mentre il Sommo Luminescente, senza nemmeno toccarle con le dita, estraeva le sue due lame dal fodero, il re di Tato Yami lo devastò con un’onda oscura.
Il Sommo Signore si ritrovò a sbattere con la schiena contro la sella corazzata, ma con estrema perizia non perse il controllo sulle due spade ricurve, che rimasero, sospese, immobili ai suoi fianchi. Tuttavia, lui stesso rimase immobile: l’onda magia generata da Obskurios non svaniva, mantenendolo ancorato in quella posizione.
Obskurios sogghignava paurosamente, estraendo da dietro di sé una lunga e spessa lancia.
“Tu mi hai tolto un braccio, El’issam. - diceva rabbioso - Fu un attimo, ma il dolore è durato molto di più. Non mi importa di pareggiare i conti e toglierlo anche a te. E nemmeno ti darò la soddisfazione di una morte rapida.”
“La vedi questa lancia?” domandava sghignazzando, armeggiando l’asta metallica, pronta ad essere scagliata, mentre il Sommo ancora si dimenava per liberarsi dalla stretta magica di Obskurios.
“E’ intrisa di un veleno così potente che non ti darà via di scampo, un veleno fatto apposta per quelli della tua razza. Ma non subito: ti brucerà le viscere finché di te non rimarrà che un guscio vuoto, e durerà ore, giorni. E’ finita!”
Con un guaito tremendo e una carica fenomenale, l’asta avvelenata fu catapultata come un letale lapillo infuocato sparato dalla più tremenda delle eruzioni, diretta al corpo bloccato come in una ragnatela del Sommo Luminescente III.
Non si poteva dire lo stesso di Lux’al. Trattenuto fino ad allora dai denti d’acciaio di Cerberios, non appena fu consapevole del pericolo di morte per il suo padrone, non ebbe più a cuore nulla che non la sua salvezza.
In una frazione di secondo, tese tutti i muscoli che poté per sfuggire dalle zanne e le unghie del mostruoso frutto dell’alchimia, procurandosi tagli ampi e profondi grazie a Cerberios che non allentava la presa per nulla al mondo.
Si gettò in avanti, verso l’alto. Un grido talmente acuto che pareva il cielo stesso dovesse spezzarsi per la sua intensità e non accettare più la luce del sole, una notte perenne.
La lancia avvelenata trafisse Lux’al invece che El’issam, e la sua piaga fu indescrivibile.
“Non posso crederc.i” esclamava Obskurios, rabbioso per il fallimento, ugualmente soddisfatto per il dolore arrecato all’avversario e con un mare di altri pensieri che gli frullavano per il cervello senza pace.
“Che cosa questa bestia ha trovato di così buono in te, traditore della famiglia, da difenderti con la sua stessa vita? Che cosa gli hai fatto per renderlo così fedele?”
El’issam, non più sotto il giogo della forza del re oscuro, era libero di contrattaccare. Ma non fece nulla, nemmeno rispose. Lux’al stava cadendo, battendo le ali sempre più lentamente, continuando a lacerare l’aria con i suoi strilli.
“Ti vuole bene, non è così? E tu, gli vuoi bene? Hai il coraggio di mostrare il tuo affetto, o il tuo codice di impedisce anche questo?”
“Senti le sue grida!” urlava furibondo e gioioso al contempo, mentre si apprestava a compiere un atto di una crudeltà senza paragoni. Manipolando la forza magica con l’unica mano, controllò la lancia conficcata nel petto del grifone albino e impresse su di essa una seconda pressione che la fece penetrare ancor di più nella carne. Le urla sofferenti di Lux’al non avevano fine.
“Senti le sue dannate grida! Sentile e dimmi cosa provi! Non provi nulla? Nulla?!”
Una terza pressione sulla lancia. Era quasi tutta dentro.
“Sii un vero uomo, El’issam, e piangi! Piangi per il suo dolore!”
Le provocazioni di Obskurios terminarono in quel momento.
Non so dire se El’issam si lasciò andare alla sofferenza e all’ira, o fece leva su di esse e le represse per ottenere il loro potere. Ma ciò che fece lo fece senza dubbio perché soffriva per il dolore e la morte imminente di Lux’al, compagno di vita.
Riponendo con la forza della mente le due spade al loro posto, mentre Lux’al cadeva inesorabilmente e Obskurios sul mannaro rimaneva fermo a guardare, Sommo Luminescente III alzò il capo verso il nemico per la prima volta.
Nella mano destra concentrò tanta di quella forza magica lucente da accecare per sempre l’intero esercito nemico e alleato. Un globo di dimensioni colossali si dipartì dal suo corpo, devastando il re delle Tenebre e il suo orrido destriero alato, che furono scaraventati verso il basso dalla parte opposta.
Gli ultimi respiri stavano per abbandonare l’abbagliante grifone albino di Karmil. Senza una parola, in caduta libera, El’issam diede sollievo alla sua miseria con le sue forze nei suoi conclusivi istanti.
***
“Ricordatevi di non ritenervi invincibili: non lo siete per niente.” fu l’ammonimento di El’eter ai tre guerrieri dorati, abbagliante nella sua veste candida sotto il sole cocente del Deserto di Roscamar, mentre applicava su Bli’set l’ultima placca della corazza speciale.
“Sapete come funzionano: gli impulsi che i sistemi aurei inviano ai vostri nervi vi renderanno meno succubi alla fatica e al dolore, rinforzeranno i vostri muscoli, l’acido lattico sarà meno fastidioso, vi sentirete capaci di sollevare pesi dieci volte voi. Tuttavia, non osate farlo.”
Era molto severo. Legittimo, del resto: si trattava di un’arma sperimentale, e per quanto i ka’nhili, Bli’set lo sapeva bene, sembrassero così freddi e distaccati, le vite altrui avevano valore anche per loro.
Lui era abituato, suo malgrado, fin dall’infanzia all’austerità, agli obblighi, alle privazioni. I moniti rigidi del rinomato ingegnere di Karmil non lo muovevano affatto; in qualità di soldato, era abituato più dei suoi confratelli anche a ricevere ordini.
Ruotando appena gli occhi verdastri per osservare gli altri due prescelti per usufruire del frutto della conoscenza magica e meccanica di Karmil, un gormita del Mare e lo stesso Signore della Foresta Grandalbero, notò che il tono feroce e al tempo stesso composto dei moniti dell’onorevole El’eter li avevano scossi alquanto.
“Non provate in alcun modo possibile a tentare imprese al di fuori delle vostre capacità. Siate coscienti dei vostri limiti, parsimoniosi della vostra energia, combattete come se aveste indosso un’armatura come un’altra. Sono stato chiaro?”
“Sissignore” obbedì immediatamente Bli’set, piegando volto e torso in un leggerissimo inchino, le gambe ben rigide e dritte, secondo il costume karmiliano. Anche se El’eter non era parte della milizia, gli sembrò giusto rispondere a quel modo.
Grandalbero e il marino obbedirono in ritardo, insicuri su come procedere e su come appellare l’ingegnere. L’uso della parola signore era limitato ai soli Signori, e parve fuori luogo in quell’occasione. Dissero infatti: “Agli ordini, sir.”, imitando come poterono l’inchino di Bli’set e utilizzando l’appellativo generico con cui si era soliti chiamare qualcuno senza dargli né troppa importanza né troppo poca.
“Ottimo.” El’eter si rilassò, massaggiandosi fiaccamente il capo in prossimità delle macchie verdi a mezzaluna, coprendo con l’ampio palmo i due occhi mancanti. La sua movenza e la sua espressione agli occhi di Bli’set erano troppo emotive, troppo rilassate, in contrasto con il codice di Karmil e con la severità di appena un attimo prima.
“E’ tempo di andare. - osservò - La vittoria sarà nostra anche per merito delle Armature Dorate, per merito delle mie ricerche e del mio lavoro. Andate!”
Il suo tono si fece rigoroso e rigido come in precedenza, da vero generale, e gettò la mano in avanti per spronare i tre guerrieri d’oro a lasciare l’accampamento.
“As’nut iara’fei ka’ilarankat, Alshata Bli’set.” augurò rivolto al suo fratello di razza “Che i semidei vi assistano, Grandalbero e Gorgous, e possano le vostre anime trovare la via più breve per riunirsi con le Somme Forze, doveste cadere eroicamente in battaglia.”
La pomposità e l’eroismo di cui erano intrisi gli auguri, le preghiere, le invocazioni dei gormiti erano davvero eccessive per Bli’set, così come credeva lo fossero per chiunque altro ka’nhili di Karmil.
Riflettè silenziosamente sulla religione gormitica mentre saliva sulla salamandra comandata da un gormita – e gli altri due facevano lo stesso – che l’avrebbe portato lontano dall’accampamento all’interno delle rovine di Teunor, nella battaglia che infuriava nella Valle della Disperazione.
Fece numerosi parallelismi tra i culti dei semidei e le credenze e il pantheon dei gargoyle acerrimi nemici della sua razza. Si chiese se in un futuro questi rituali così simili a quelli del genere che ripudiarono tempo fa potesse compromettere la nuova amicizia tra gormiti e ka’nhili di Karmil.
Pensandoci bene, gli sembrò un’evenienza piuttosto improbabile: se mai gormiti e karmiliani, stretti da Sommo Luminescente III in un’alleanza che li avrebbe lasciati legati per molti anni, fossero passati alle armi gli uni contro gli altri non sarebbe stato per la religione.
I gormiti, ad eccezione di quelli cosiddetti del Vulcano, che Bli’set per altro non aveva ancora visto dal vivo, erano pacifici e tolleranti.
C’erano dei contrasti nella società gormitica: se erano davvero comprensivi come si mostravano agli occhi dei ka’nhili, come si giustificava la diatriba decennale tra Vulcano e gli altri Popoli?
Come potevano vivere in maniera così pacifica e tranquilla nel loro piccolo, quando disponevano di potenzialità che avrebbero potuto piegare intere nazioni con scarso impiego di forze? Perché la consapevolezza di ciò, se mai ci fu e c’era al momento, non li ha spinti ad espandersi oltre la loro Isola?
Le sue congetture sui gormiti e sul futuro di quell’alleanza lo tennero occupato lungo tutto il tragitto nell’arida distesa granulosa. Grandalbero e il marino non gli rivolgevano parola – sebbene li potesse sentir parlare tra di loro –  e del resto Bli’set non aveva intenzione di chiacchierare con loro: aveva un compito serio da assolvere, e si sarebbe mantenuto concentrato e con la mente fresca e pura.
“Qui ci separiamo dagli altri.” annunciò forte il gormita alla guida della salamandra.
Bli’set annuì, mentre si allontanava verso sinistra da Grandalbero e Gorgous, e le loro salamandre procedevano una dritta, l’altra a destra.
Esattamente come programmato: la conca rocciosa e cinerea della Valle della Disperazione appariva alla vista, e i tre guerrieri dorati si separavano per unirsi allo scontro in posizioni differenti, per aiutare la loro fazione in più fronti, come era stato deciso dal Sommo.
Superò le forze di retroguardia appostate dietro l’entrata in discesa alla Valle che aveva imboccato, e l’odore del fumo, del sangue e del metallo caldo lo pervase.
Lo scontro lo attendeva, finalmente: anche lui avrebbe dato tutto se stesso per la serenità della propria gente, come ci si aspettava da tutti, soldati e non.
Era completamente calmo e calcolatore, ripetendo le avvertenze di El’eter: le abilità dei suoi nemici, le loro portentose cavalcature solcatrici dei cieli, cose che aveva affrontato rare volte o mai, non lo spaventavano.
E la sua sicurezza non derivava dall’Armatura Dorata che indossava: come l’ingegnere gli aveva raccomandato, doveva credere di essere protetto da una comune corazza, o solo dalla cotta di maglia sottostante, con le sue debolezze e i suoi passaggi che avrebbero potuto costargli la vita.
E’ sbagliato in verità dire che era sicuro di sé: non aveva affatto la certezza di vincere, di terminare la lotta ancora vivo; era semplicemente rilassato. L’addestramento alla via della luce della sua gente lo rendeva…sereno, una parola tanto amata dai ka’nhili di Karmil – e tanto da me ripetuta in queste ultime lezioni – quasi apatico.
Il fatto che le truppe del Vecchio Saggio e di Luminescente III sembrassero in svantaggio, spinte sempre di più verso le due discese - salite dietro di loro, non turbò la sua tranquillità.
“Scendi, soldato!” gli ordinò la guida, la salamandra ormai a un passo dal cozzare delle armi.
Difatti, le salamandre che li avevano condotti lì, lui e gli altri due, e le loro guide dovevano solo scortarli, e non erano autorizzati né effettivamente preparati a entrare nella battaglia vera e propria.
Bli’set rimosse il proprio appoggio sulla salamandra e si librò in aria gettando forza magica fuori dai palmi aperti, e senza usare le proprie ali, secondo la tradizione che imponeva ai karmiliani di sfruttare i poteri della mente e della magia anche per le azioni più mondane, ed utilizzare le parti del proprio corpo il meno possibile.
Non appena il gormita alla guida si vide Bli’set lasciare la salamandra e sollevarsi immobile, quasi trasportato dal vento, fece un’improvvisa inversione di marcia che la cavalcatura non apprezzò di buon gusto, e scomparve a rotta di collo su per la salita.
Tornato coi piedi per terra dopo alcuni secondi di volo, il ka’nhili dorato fu immediatamente benvenuto da un gormita della Foresta che stava lottando poco più avanti e, liberatosi momentaneamente dei nemici, si diede un po’ di tempo per discutere con Bli’set.
“Sei uno dei tre con l’Armatura Dorata?” domandò subito il forestale, preoccupato.
“Sì. Grandalbero e Gorgous, gli altri due, si sono diretti altrove.” rispose Bli’set senza condividere il suo turbamento né il suo sollievo immediatamente successivo.
“Grandioso! Il tuo aiuto ci sarà utilissimo! - esclamò, speranzoso e allietato - Forse sarò troppo ottimista, ma sono convinto che questa battaglia potrà volgere a nostro vantaggio, ora che tu e gli altri sono qui.”
Prima che Bli’set potesse replicare e avvisarlo di non affidarsi troppo sull’invenzione di El’eter, il gormita, di cui ignorava la posizione nella gerarchia militare ma era sicuro fosse piuttosto in alto, riprese a parlare.
“Sono al corrente delle abilità dell’Armatura. - spiegò - Ci servi sul fronte con - ”
Il forestale non potè terminare il suo comando che un dardo gli trapassò il collo scoperto, da dietro.
Mentre quello cadeva con gli occhi spiritati e il sangue alla bocca, cercando di tenersi in piedi appoggiandosi a Bli’set per impedire alla vita di sfuggirgli via, il ka’nhili fu pervaso da una decisa fitta di insoddisfazione e di rincrescimento, la cosa più vicina alla rabbia che poteva toccare il cuore di un karmiliano fedele al codice.
Era giunto lì per aiutare, l’Armatura Dorata avrebbe dovuto risollevare le sorti dello scontro, e invece la prima cosa che il suo arrivo produce non è altro che un’ulteriore perdita. Era insopportabile.
Non per vendetta, non per rancore, ma per senso del dovere localizzò con estrema precisione il balestriere che aveva scagliato il colpo, si gettò nella mischia dello scontro, deciso a terminarlo.
Circondato da soldati alleati ad ogni lato e da soldati avversari davanti, non potendo avanzare ulteriormente verso il suo obiettivo, attinse dalla propria energia interna e la convertì in un fascio di luce che colpì il nemico, un vulcanico, dritto in faccia, e lo mandò a terra. Che fosse morto o ancora vivo, non lo poteva dire: subito dopo il vuoto lasciato dal suo corpo caduto fu riempito da altri nemici, e Bli’set non fu in grado di accertarsi della sua morte, dovendo ora affrontare altri vulcanici e gargoyle che gli si paravano di fronte.
Su una cosa la sua mente rimase focalizzata per un lasso di tempo secondo lui pericoloso: la potenza e la grandezza del fascio di luce. Fortunatamente si ricordò presto della capacità primaria dell’Armatura Dorata: facilitare l’uso della forza magica nella via della luce e amplificarne la portata.
Lottare senza scudo, che non aveva appresso, e senza spada, che non aveva avuto il tempo di estrarre, gli dava una strana sensazione.
Ancora più strano era constatare la mancanza di dolore con cui incassava alcuni colpi e la facilità con cui i soli pugni, talvolta potenziati con la forza magica, riuscivano a stendere gli avversari e senza fargli male: infatti i guanti erano completamente rivestiti della lega dorata, e Bli’set si chiese in che modo poteva far fluire la forza magica senza aperture. Forse c’erano, molto piccole.
Fu presto tutt’uno con lo scontro.
Con uno scarso dispendio di energie, riusciva a creare grandi sfere di luce che accecavano e sbaragliavano gli avversari in un lampo, resisteva a continue e caldissime fiammate dei gormiti del Vulcano, sentendone il bruciore quasi letale ma senza il dolore che era solito accompagnarlo, sollevava massicci nemici resi inoffensivi dalla sua luce e dalla sua potenza e li usava come scudi e come massi con i quali farsi strada tra le fila nemiche.
Recava diverse ferite lungo tutto il corpo, che El’eter aveva raccomandato di curare nonostante l’Armatura annichilisse il dolore, ma del resto non poteva sprecare il suo tempo e distogliere la sua attenzione nel bel mezzo dello scontro, né in tutta sincerità, dopo alcuni minuti di lotta, gli importava più di tanto.
La sua sopportazione, già ampliata all’ennesima potenza dal codice karmiliano, era ancora più straordinaria ora che indossava l’Armatura Dorata.
Cominciava ad abituarsi. Cominciava ad amare la lotta, a sentirsi soddisfatto ogni volta che spezzava il collo o la schiena all’ennesimo nemico.
Convinto della propria invulnerabilità, un nuovo sentimento, nascosto nel profondo più buio del suo animo, lì spinto dal freddo codice di soppressione di Karmil, poco a poco riaffiorava, si faceva strada prepotentemente tra le altre sensazioni, e lo permeava nella sua interezza.
La passione.
I nemici cadevano di fronte a lui, gli amici gioivano e lo esaltavano ai suoi lati, e si tenevano sempre più stretti a lui.
Infine giunse un avversario che non era affatto facile da convincere della supremazia di Bli’set.
Una spessa corazza, senza spiragli, senza fessure, quasi un blocco di metallo sagomato e rigido, irta di spuntoni grossi come dita sulle spalle e sul pettorale, e anche sugli avambracci, uno dei quali, mano compresa, sembrava di dimensioni maggiori rispetto all’altro.
Nera come la notte senza lune, quel metallo sembrava attirare a sé tutta la luce per non rifletterne nemmeno un minuscolo raggio indietro. Non corretto: rifletteva un po’ di luce, ma luce rossa.
Immettendosi e togliendosi dal fascio diretto della luce del sole, un luccichio rosso fuoco illuminava a scatti quel cupo armamento. Rosso sangue. Come se una volta forgiata, quella corazza fosse stata raffreddata in un mare di sangue, ed esattamente come faceva con la luce, avesse assorbito da esso tutto il suo colore, e anche la forza e il coraggio insiti nel liquido vitale di coloro che erano stati uccisi per rendere reale quell’incubo.
L’elmo…no, non era un elmo. Il volto mostruoso del Signore del Vulcano era lasciato completamente allo scoperto, ma completamente verniciato di una pittura verde fosforescente che rendeva quell’antro divoratore e trituratore ancora più spettrale e terribile. Portava solo una mazza con sé.
“Ho sentito che un tale con un’armatura d’oro sta facendo una strage, da queste parti.” disse Armageddon.
“Probabile.” rispose Bli’set, impassibile. Nonostante la sua condotta in battaglia lo aveva accomunato più a un gargoyle che a un ka’nhili, il suo modo di parlare non era stato corroso dalla nuova passione. “Siamo in tre ad indossare quest’arma speciale.”
“Ottimo. Fra poco sarete in due.”
Armageddon raccolse la sua mazza e si avventò contro Bli’set. Questi rimase fermo e con un rapido gesto della mano scagliò un globo di luce, che Armageddon però deviò altrettanto rapidamente con la mazza.
Bli’set non evitò la collisione.
La mole di Armageddon unita a quella della sua possente corazza era impressionante, tuttavia non ne fu gettato a terra, ma nemmeno fu capace di respingerla con la sola forza fisica potenziata.
Il Signore del Vulcano non lo spinse indietro ancora per molto. Con grande foga, tempestò Bli’set e la sua preziosa armatura di colpi di mazza, pugni e sbracciate dalla parte degli spuntoni.
Nonostante l’enorme peso di quella protezione, Armageddon si agitava con una rapidità impressionante.
A un certo punto sembrò dare segno di stanchezza, e opportunità a Bli’set di contrattaccare. Niente di tutto questo.
I suoi avambracci presero fuoco, un fuoco verde come la pittura sul viso, e dunque riprese a colpire il ka’nhili ancora più forte e più velocemente di prima.
Le nocche rinforzate e gli artigli sull’armatura delle braccia strideva terribilmente a contatto con l’Armatura Dorata, il fetore inspiegabile di quelle fiamme verdi raggiungeva il suo naso con prepotenza e quasi lo indeboliva più degli urti stessi, dei quali cominciava a risentire. Al contrario di Armageddon, straordinariamente. Doveva disporre di un carico di pietre preziose riempite di energia da cui attingeva continuamente, per perpetuare quel metodo di combattimento senza dimostrazioni di fatica.
Davvero incurante questa volta della propria salute, spalancò le braccia, aprendo il proprio corpo alle mazzate di Armageddon, e scatenò una tempesta di luce che finalmente tolse il Signore del Vulcano in mezzo ai piedi, gettato qualche piede più avanti, supino, e gli diede tempo per una mossa più elaborata e potente. Tempo che Armageddon non aveva affatto intenzione di dargli.
Infatti, rialzandosi subito, agitò freneticamente le mani in direzione di Bli’set con strani e intricati movimenti. Un anello di fuoco racchiuse il ka’nhili al suo interno.
“Fai tanto il gradasso, ka’nhili di merda, il duro, sotto quell’armatura” lo sfotté “Ma cosa sei senza? Senza la magia, senza la forza magica, non siete niente. Siete solo degli insetti, fragili e indifesi”
Bli’set non rispose alla provocazione, e il pericolo di quel cerchio infuocato fu reso vano semplicemente camminandone fuori, senza interesse per le ali indifese, cosa che imbestialì Armageddon.
“Dannazione! Ma chi ti credi di essere?! - urlò, non potendo sopportare che i suoi attacchi non gli facessero alcun danno - Prima Thorg quasi ammazza me e il mio dragone da solo, poi arrivi tu che ti credi invincibile e niente ti fa male…ma cadrai, e cadrai sul serio, come farò presto anche con Thorg.”
“Guarda qua, piuttosto.” gli intimò subito dopo, con un tono decisamente meno rabbioso, divertito oserei dire. Sollevò da terra una spada lunga, sottile, ricurva a un estremità, e dalla parte dell’elsa pendevano dei lacci bianchi.
Bli’set osservò con sorpresa quella lama in mano sua, e gettò un rapido sguardo al fodero che penzolava, vuoto, al suo fianco sinistro.
Quando era successo? Come e perché? Queste le domande che si fece tra sé e sé nel giro di un secondo. Ad ogni modo, quel furto non gli piacque affatto. Non tanto per il fatto in sé, quanto per non essersene accorto.
“Rendimela.” ordinò severo.
“Vieni a prenderla, se ti interessa. E’ bottino di guerra, e me lo tengo.”
“Non sono idiota.”
“E nemmeno io, per ridartela.” e intanto avanzava lento verso il ka’nhili.
C’era qualcosa di estremamente infantile in quel discorso di poche parole.
“Vuoi la spada, ti è cara? - chiedeva tra un ghigno e l’altro, continuando ad avvicinarsi - Ecco, tienila!” e gliela scagliò addosso come un giavellotto. Bli’set se lo era aspettato, e fece un mero balzo laterale per evitarla.
Non si era però aspettato che Armageddon utilizzasse l’hic et ibi per spostarsi in un lampo da dov’era ad addosso a Bli’set in tutto il suo peso.
Il ka’nhili così sicuro di sé si ritrovò bloccato sotto l’imponente Signore del Vulcano, incapace di sollevarlo, a differenza sua.
E infatti Armageddon, dando dimostrazione di una forza da incubo, trattenendolo bene per le braccia, lo issò e lo schiacciò al suolo due volte, facendolo anche capovolgere.
Non soddisfatto, si sedette sulle gambe di Bli’set, prono, e prese tra le mani le ali protendenti del ka’nhili.
Bli’set si sentì gelare dentro. Impotente, bloccato, schiacciato. Nulla di tutto questo si era aspettato. Le mani di Armageddon stropicciavano le ali traslucide di Bli’set come marchi roventi, e le strapparono con un colpo secco come un tizzone gelido conficcato nel cuore.
Era ancora vivo, però. Non si sarebbe dato per vinto solo perché aveva commesso un errore e ora ne pagava le conseguenze. Se doveva morire, sarebbe morto in piedi, combattendo.
Armageddon sembrava ora davvero soddisfatto, rialzandosi da Bli’set. Rideva della grossa, sgretolando tra le grosse dita le ali del ka’nhili, e quasi senza curarsi di quello che si rialzava, ancora combattivo.
Il suo pugno andò a vuoto. Armageddon gli sembrava straordinariamente veloce, rapido, dai riflessi spettacolari. Non aveva più tra le mani le povere membra recise di Bli’set, ma la sua mazza ferrata e la spada rubata.
Con rapide sferzate della prima, strappò alcuni anelli della cotta di maglia sull’addome, che l’Armatura Dorata non copriva del tutto.
Rallentato come in un sogno, non poté evitare la seconda, la sua spada lunga, fare breccia nel buco appena aperto.
Bloccandogli il respiro, penetrò il primo strato di esoscheletro, risuonando come la pietra che si scheggia sulla pietra. Affondò dolcemente nei morbidi e molli muscoli all’interno, e un prolungato sospiro gli uscì dalla bocca. Abbandonò il suo stomaco senza perforare l’esoscheletro posteriore.
Bli’set rimase lì, rigido, con le labbra spalancate, incapace di muoversi. Il freddo a cui sempre era stato abituato, che gli era stato insegnato sin dalla nascita, lo riempiva in modo esagerato. Non c’era nessun sollievo in quell’apatia, nessuna dell’agognata serenità.
Una spinta dalla mano di Armageddon. Bli’set cadde boccheggiante.
“Cadrai, - gli rammentò il Signore del Vulcano, trionfante - ho detto. E sei caduto. E ora…”
“Cavagli gli occhi! Cavagli gli occhi e lascialo vivere!” strillò qualcuno che Bli’set non riusciva a vedere. Era sicuramente un gargoyle. Nessun gormita poteva conoscere quel dettaglio della cultura karmiliana, nessun gormita poteva essere così crudele.
“Per quale motivo?” domandò Armageddon, più propenso a togliergli la vita.
“Fallo e basta! Non avrà mai più pace, nemmeno da morto.”
“E sia.”
Immobilizzato al suolo, Bli’set si vide Armageddon scendere su di lui, rimuovergli l’elmo. Le sue dita così vicine ai suoi quattro occhi…
Un dolore che mai nessun ka’nhili aveva provato, grida agonizzanti che nessun ka’nhili nato su Karmil aveva mai lasciato andare.
Il buio dominava tutto. Niente più luce, niente colori. Freddo e sofferenza. Abbandono. Un errore, una mancanza: la giusta punizione.
Le mani che lo alzavano da terra, il suolo che si allontanava e gambe e braccia che penzolavano inermi nel vuoto.
“Chi…chi è?” domandò con un fil di voce.
“Sei vivo?! Praconrem, che…che…sei ridotto a uno straccio. Ti cureremo, resisti!”
“Lasciami…lasciami giù” lo pregò Bli’set “Sono morto, non c’è più salvezza per me”
“Non dire idiozie. Possiamo ancora salvarti, e poi non possiamo abbandonare l’Armatura Dorata”
“Non…non capisci! Lasciami! Toglimi l’Armatura e vattene!”
“Basta parlare. Non abbandonare la speranza!”
“Tu non…non capisci…non…capisci…puoi capire…”
“Resisti!”
Svenne.
Non comprese quando e se fu davvero sveglio. Vedeva solo il nero, non c’era differenza tra il sonno e la veglia. Qualcuno confabulava, lì vicino.
“Non ha più le ali, e ha lo stomaco trafitto.” Era lo stesso gormita che lo aveva salvato.
“Non ci sono molte possibilità. Possiamo provare a tenerlo in vita e a far ricrescere i muscoli, ma sarà impegnativo.” La voce di Luminescente III! Si sentì stranamente sollevato nell’udirla.
“Sommo Luminescente III, mio…Sommo.” sussurrò.
“Sereno, Bli’set. Hai svolto un ottimo lavoro.”
“No, Sommo, no. Ho disobbedito, Sommo. Non dovevo affidare la mia vita all’Armatura Dorata, e l’ho fatto ugualmente. Sono stato punito per questo. Osservate, guardate…i miei occhi.”
Luminescente III si ammutolì.
“Oh, mi dispiace. - disse il gormita - Mi ero…dimenticato. Armageddon gli ha…tolto gli occhi. Immagino che per quelli ci sia davvero poco da fare.”
“Per Bli’set non c’è più nulla da fare. Non puoi capire. Possiamo solo essergli vicini nei suoi ultimi giorni, se sopravvive alla guerra.”
“Che cosa significa?” domandò irrequieto e innervosito “Voglio capire, Luminescente III. Cos’ha di così grave?”
“Non ha più gli occhi.”
“E quindi?”
“La sua anima non può più riunirsi con Aru Ra’vima, il grande spirito.”
“Perché?”
“I nostri spiriti sono intrappolati negli occhi. Privati degli occhi, i nostri spiriti sono condannati a un’eternità su questo mondo, senza mai raggiungere la serenità di Aru Ra’vima.”
“Ma - ma…e se raccogliessimo i suoi occhi?”
“Non dire sciocchezze, soldato. Anche se li trovassimo, non possiamo fare nulla.”
“E farli ricrescere?”
“Non è la stessa cosa. Dobbiamo rassegnarci: la sua anima è perduta, e non si può far altro che consolarlo finché in vita.”
***
“Che cosa mi hai fatto, strega?” piagnucolava il misero gormita del Vulcano che si divincolava a terra, si toglieva i pezzi dell’armatura e si grattava come un folle.
“E’ esattamente quello che sembra. - spiegò sadica la suddetta strega - Prurito. Tanto, tanto prurito. Insopportabile, dovunque. Può ucciderti, e potresti ucciderti da solo, scorticandoti per farlo smettere. Ma non sarà così.”
Alzando la mano vellutata di una leggera protezione argentea, che lasciava scoperti le dita e il palmo, evocò un mulinello di sabbia che indirizzò verso il volto del nemico.
Ai lamenti per il prurito si aggiunsero le urla per l’accecamento da sabbia. Poi tutto tacque, e rimasero solo i gorgoglii derivanti dalla polvere dorata in gola, finchè non cessarono anche quelli.
Nonostante la zona fosse quasi spoglia, essendosi la strega della Terra spostata dall’altro lato del fulcro dello scontro, Evera, meglio nota come Opale Nero e anche la Strega di Roscamar, non aveva di che gioire né opportunità per riposarsi, non ancora.
Infatti tre gormiti dell’Aria volteggiavano in alto sopra di lei, e si abbassavano pericolosamente.
Con loro non poteva ancora competere con la magia: sarebbe dovuta passare alle maniere forti.
Ma senza rinunciare alle tecniche elaborate classiche di chi segue la magia da molto tempo.
Repentinamente, si focalizzò sul suolo, una porzione di terreno grigio e duro poco lontano da lei. Creò una spaccatura, dalla quale fece risalire molto in alto la sabbia che regnava al di sotto, a cui aggiunse un po’ della propria.
Agitando elegantemente come in una danza entrambe le braccia, mosse su se stessa la sabbia retta, che ben presto si fece vorticosa e attirava a sé i tre aerei.
Continuava incessantemente a muovere gli arti superiori.
Quando fu sicura che i tre non potevano sfuggirle, e il vortice aveva raggiunto velocità pericolose anche per lei, si arrestò di colpo, e batté sonoramente le mani.
La sabbia lungo tutto il vortice subì come un’esplosione, e fu scaraventata ad ogni lato, investendo i tre in essa catturati e portandoli lontano.
Prontamente Opale Nero eresse una tavola di pietra dal suolo con cui difendersi, e quando la sabbia infine ricadde per terra Evera, adornata da una protezione poco pesante degli stessi colori di quella di Thorg, non aveva subito danni.
Al contrario dei suoi nemici, travolti dalle sue magie e la sua arte elementale.
Si era mostrata sadica per una pura intenzione intimidatoria. Osservando il vulcanico morto, sballottolato dalla tempesta sabbiosa, messo fuori gioco da un semplice ma alquanto brutale prurito, non poteva non sentirsi male.
Non era per questo che voleva usare la magia.
La magia doveva essere un aiuto, un’ultima risorsa, un’arte da elogiare e insegnare, e conservare.
Eppure ecco che lì, come in molte altre guerre prima di quella, la magia non era vista come altro che un ulteriore modo per versare il sangue altrui e sperare di ottenere la pace con vite troncate.
Era solamente un’arma più potente e pericolosa delle altre, senza lama, senza impugnatura, senza fodero né munizioni.
Su quel campo si erano visti alcuni terribili frutti della magia in guerra: il mostruoso Cerberios, la cavalcatura personale di Obskurios, le Armature Dorate che annullavano la fatica, e non sarebbe finita qui, Evera se lo sentiva.
Chissà cos’avevano in mente gli Aborigeni, come insegnava il Vecchio Saggio, o gli Osservatori, come sostenevano coloro che credevano in questa razza superiore al contempo scopritrice della magia e inventrice dell’Occhio della Vita, o gli stessi Semidéi, quando consegnarono nelle mani dei gormiti, tra tanti altri, quel curioso sortilegio. A che scopo? Erano forse tanto folli dal voler fare del male agli altri in mille modi diversi e da insegnarlo, pure?
Cercò di giungere a una conclusione più sensata, mentre sgranocchiava una mistura energetica di miele, formaggio e cuore d’agnello, una valida e ben più saporita seppure meno immediata alternativa all’energia conservata nelle pietre preziose, che non tutti potevano permettersi, prima di unirsi di nuovo allo scontro.
 
Non appena si volse per tornare sul campo, percepì una misteriosa forza tirarla da dietro.
Non era una mano, un tentacolo, men che meno un arpione che la strattonava, era qualcosa di ben più forte, inarrestabile, la cui forza veniva esercitata su di lei senza toccarla.
Si sforzava di procedere in avanti, mentre quel misterioso risucchio la attraeva a sé sempre più forte e sebbene muovesse le gambe per camminare rimaneva in realtà ferma, anzi andava all’indietro.
Osservando impaurita i sassi e la polvere a terra venire aspirati con molta meno resistenza da qualsiasi cosa si trovasse dietro di lei, credette di comprendere di cosa si trattasse.
Si lasciò andare. Il suolo cessò di tenerla ancorata ad esso, e l’unica attrazione fu ora quella del sortilegio, che conosceva discretamente bene, attivato dietro di lei.
Sollevata da terra e spinta all’indietro, girò su se stessa per avere la certezza di quello a cui stava andando incontro.
Eccolo, un globo di luce nera densissimo e pesantissimo, sospeso in aria che attirava ogni cosa a sé.
Il fatto che fosse nero indicava che se avesse dovuto avere contatti con esso si sarebbe fatta davvero molto male.
Evera, ad ogni modo, sapeva come disfarsi di quell’impiccio: due fasci di forza magica ben assestati diretti al centro di quella sfera magica; togliere di mezzo l’artefice di quell’incantesimo sarebbe stato tutt’altro affare.
Caduta una volta distrutti il globo nero e il suo campo d’attrazione fatale, il fautore di quell’attacco nei suoi confronti si rivelò agli occhi di Opale Nero, che si rialzò cautamente e subito.
Un mantello grigio dai riflessi violacei, lacerato, sfilacciato alle estremità, un evanescente fantasma di stoffa che nascondeva al suo interno un misterioso e potente stregone, muto e immobile. Non un respiro, un raggio di luce, un alito fuoriusciva dallo stretto cappuccio che terminava il panno spettrale. Un nero senza forma e senza odore, che non produceva alcun rumore, sussurro o grido, era il volto di quella demoniaca apparizione.
Opale Nero fu impietrita da quella visione. Una veste sospesa in aria, macchiata del sangue di una marea vermiglia di delitti perpetuati senza che essa toccasse mai le sue impotenti vittime, uccise dai fili invisibili, crudelmente piegati ai suoi insani desideri, della trama benevola e distruttrice al contempo che permeava ogni cosa: la magia.
Non c’era ombra di un corpo solido sotto quella maschera di oscurità, di una mente capace di ragionare, assimilabile alla sua o a quella di un altro gormita o un gargoyle.
Poteva essere sicura si trattasse davvero di un abitante di Gorm o di Tato Yami, e che non fosse effettivamente uno spettro, un evaso dalla morte, che perse ogni briciolo di raziocinio a causa dell’insopportabile circostanza con cui gli fu tolta la vita o dei folli esperimenti di alchimia degli yamensi, per i quali commetteva i suoi biechi sortilegi, l’unica sua ragione per continuare ad esistere?
Era forse lo Stregone di Fuoco che aveva preso una forma con cui raggelare il cuore e immobilizzare le membra a Evera? E come poteva avere la certezza che lo Stregone di Fuoco, il celebre Magor, non fosse in realtà proprio quello: un misero fantasma che i gormiti del Vulcano avevano sottoposto al proprio volere e al quale e per il quale riponevano la responsabilità delle loro azioni e dicevano di lottare?
Non potendo giungere a una soluzione con le proprie sole forze, sebbene alquanto spaventata, alzò la voce e parlò.
“E tu chi sei?”
“Fasonis. Spiritonero per i miei nemici.”
La risposta, pronunciata da labbra che non erano e che risuonava alle orecchie di Evera con la sonorità del vetro che si scheggia e la profondità della pietra che si scontra con altra pietra, non migliorò né peggiorò l’umore della strega. Non sapeva ancora se fosse un gormita o altro, ma di certo non era lo Stregone di Fuoco. Per questa cosa si allietò leggermente.
“Fasonis di quale Popolo?” domandò timorosa e senza aspettarsi una risposta Opale Nero, preparandosi a un eventuale assalto di quello Spiritonero.
“Fasonis figlio di Anempodistos, suddito di Re Obskurios di Tato Yami.”
Opale Nero fu enormemente sollevata da quella risposta. La certezza di stare combattendo con una creatura terrena, reale, non evanescente e aliena alla mondana comprensione, le conferì una ben più grande fiducia in sé. Tuttavia mantenne una particolare paura per quel nemico di cui ancora non poteva realizzare la forma e la consistenza del corpo, più specialmente il livello della sua esperienza nella magia.
Tale Spiritonero sembrava non avere intenzione di prendere subito l’iniziativa di continuare lo scontro avviato con quell’attacco sorpresa di poco prima.
“La mia famiglia è da secoli la proprietaria della regione di Lexedria, nel grande continente ad occidente. - riprese a parlare - Sono io l’unico vero Re Stregone di Lexedria.”
Opale Nero, che aveva riacquisito sicurezza, replicò a tono a quelle affermazioni.
“Se sei un gargoyle…la tua gente non è forse stata bandita dalla patria, e da parecchio tempo, se non ho capito male? Hai mai messo piede su questa Lexedria di cui parli?”
“No. - negò come previsto da Evera; nessuna ira nel suo tono - Non sono mai stato graziato dalla vista della terra dei miei antenati. Tuttavia, questa guerra ci permetterà di ritornare da vincitori e da dominatori nella nostra lontana patria.”
“Scaccerò chiunque abbia avuto il coraggio di prendere come sua la mia regione.” annunciò con decisione, mostrando per la prima volta una parte del suo corpo: un pugno a quattro dita, interamente coperto da un guanto di metallo, che strinse drammaticamente di fronte a sé “Ristabilirò la grande dinastia dei Re Stregoni, e nessuno oserà più parlare a me e ai miei discendenti con il tuo ardire.”
Un gesto impercettibile del polso oscurato dal guanto e dallo spettrale mantello.
Opale Nero sentì i suoi sensi offuscarsi di colpo, il suo corpo rispondere ai comandi in modo lento, troppo lento…
Cominciò a battere i denti, sempre più veloce e forte. Si strinse nelle braccia, le dita tremanti, la pelle tanto scossa dai brividi che non se la sentiva più sotto le mani, rese insensibili da quell’improvviso gelo che l’aveva stretta.
Il freddo che la dominava era davvero immenso, quasi il respiro le si brinava sulle labbra, ma ciò nonostante sorrise.
“E’ tutto qui, Re Stregone? - lo provocò - Da uno del tuo calibro mi sarei aspettata qualcosa di molto meglio.”
E prima che quello potesse reagire, nonostante la sensazione di ghiaccio che la attanagliava, lo assalì a distanza con un altro incantesimo evocato con la stessa rapidità del primo.
Il colpo andò a segno, e i suoi effetti si videro subito.
Il corpo invisibile di Fasonis si scosse e si contorse senza controllo all’improvviso sotto il panno grigio; perdeva anche quota, non più in grado di mantenersi sospeso, privato della padronanza sulle proprie membra.
Infatti i muscoli e i nervi di Spiritonero erano stati sfigurati da quella magia, costruita appositamente per privare temporaneamente il bersaglio del controllo sul proprio coordinamento.
Ogni muscolo volontario e involontario, o quasi, che costituiva l’anatomia di Fasonis si agitava, contraendosi e rilassandosi, stimolato da impulsi inesistenti.
Le stesse bocca e lingua erano cadute vittima della fattura, e ciò si dimostrava nei contorti versi che uscivano dalle sue labbra. La potenza e la profondità della sua voce non erano scomparse, ma combinate con l’assenza di senso e di contenuto del suo borbottare assumevano un carattere quasi comico.
Se l’incantesimo avesse dovuto colpire con sufficiente intensità anche il cuore, esso si poteva si dimostrare un valido metodo di uccisione istantanea e sicura.
Il caso non fu favorevole a Opale Nero: difatti un attimo prima che Fasonis, sforzandosi di mantenere il controllo, cadesse al suolo, il suo corpo tornò rigido e fluttuò fino alla quota prediletta.
Tuttavia, qualcosa non quadrava. Nel tornare in volo come in precedenza, Fasonis lasciò sotto di sé una scia di numerose copie dello stesso gargoyle, stessi colori, stesse dimensioni, senza sfumature dovute alle comuni illusioni ottiche.
Erano sette in totale, disposti lungo una colonna. Si mossero tutti insieme contro Opale Nero: i loro movimenti erano tali e quali, uguali, senza un briciolo di differenza l’uno dagli altri, nessun segno con cui definire chi fosse il vero Spiritonero.
Tutti insieme dominarono la forza magica nella via dell’ombra, e sette differenti grossi lapilli oscuri furono scagliati dalle sette mani dei sette gargoyle.
Nessuno colpì Evera, che evitò atleticamente di essere catturata nella loro traiettoria. O meglio, di essere catturata nella traiettoria dell’unico vero bolide ardente, l’unico che toccando il suolo lo intaccò. Ma Opale Nero non poteva dire di quale dei sette si trattasse; non era un grande problema, ad ogni modo.
“Mi deludi un’altra volta, Re Stregone. - esclamò - Magie come queste sono tra le prime che ci vengono insegnate, e non sono di alcun impedimento per chi domina la natura.”
Detto ciò, puntando il palmo aperto verso la colonna di gargoyle, eseguì una serie di rapidi movimenti con le dita e infine battè il piede a terra.
Un masso bruno grande la metà di lei si formò presso la fila verticale di finti nemici, sospinto in alto da un pilastro di sabbia e ghiaia. Il suo corso fu arrestato quasi subito, quando esso si scontrò con il secondo gargoyle in colonna, e all’impatto tutte le sei ombre si dissolsero.
Non ci fu il tempo per Fasonis di contrattaccare, che immediatamente dopo la collisione Opale Nero gridò: “Retardo motus!”
Lo recitò a voce in quanto non era ancora ferrata con quell’incantesimo, e avrebbe potuto incorrere in qualche errore affidandosi al potere del solo pensiero.
Comunque, recitò le parole nel modo giusto, e la magia fece l’effetto desiderato.
Pantiavros, con i piedi finalmente a terra, fu rallentato. Un movimento del suo capo incappucciato durava un eternità; alzare una mano per scagliare un getto di oscurità o un controincantesimo pareva impossibile come se il braccio fosse dotato di un peso enorme.
L’intenzione di Opale Nero era una sola: farla finita con quel misterioso e ambizioso stregone, abbatterlo con la forza impareggiabile, per un gargoyle, dei muscoli e dell’elemento di un gormita della Terra, prima che le provocazioni da lei offerte avessero inevitabilmente sfociato nella rabbia incontenibili tipica dei gargoyle, e prima di dover fare i conti con i terribili incantesimi che ne sarebbero scaturiti.
La sua veloce corsa, merito della corporatura femminile meno massiccia, non fu però d’aiuto a Evera, né l’incantesimo con cui aveva frenato Fasonis. Nella sua incredibile lentezza, Spiritonero era ugualmente riuscito a colpire Opale Nero con una magia, questa volta davvero terribile.
Guardandosi indietro, infatti, Evera fu costretta a fermarsi, il respiro mozzato in gola.
I suoi piedi…non erano al loro posto. Una scia di carne e armatura molle, calda, gommosa separava il corpo dai piedi, misteriosamente e terribilmente rimasti ancorati al suolo poco più indietro, dove aveva iniziato a correre.
“Ah! Aaaaah!” le sue grida sconvolte. Tutto ciò non aveva senso. Come era possibile? Perché era così reale?
Un calore insopportabile, come il gelo della magia di poco prima, la serrava, e i suoi effetti erano ben più palesi e mostruosi dell’incantesimo precedente. Il suo corpo si stava sciogliendo!
Muoveva le proprie gambe, le sentiva muovere, e allo stesso tempo sentiva le ossa piegarsi e le membra squagliarsi insieme all’armatura e annaffiare il duro terreno.
“No! Non può essere vero, no! Fallo smettere! - urlava terrorizzata, portandosi le mani alla testa, impazzita - Fallo…fa…AH!”
Le stesse braccia e mani si liquefacevano di fronte ai suoi occhi, come uno sporco e multicolore miele appiccicoso.
“Sei delusa, adesso? - la scherniva Spiritonero, ridendo nel buio del suo cappuccio, ripresosi dall’incantesimo di rallentamento - Sai fare di meglio? Dimostramelo, sono curioso.”
“No! So che non è vero! E’ solo un’illusione!”
“L’importante è crederci. Quando sarai ridotta in poltiglia per nutrire i campi, mi chiedo se ne sarai ancora convinta.”
“Balle! Non…non può essere vero!”
La volontà di Opale Nero di non credere alla menzogna che stava vivendo sulla propria pelle fu più forte dell’orrore scatenato in lei dalla vista della propria essenza che si riduceva in quella melma informe.
Così, quando Fasonis stette per risollevarsi in volo, non si curò della propria mano che pareva staccarsi dal braccio, mentre la gettava in avanti per bloccare una volta per tutte Spiritonero.
Lo spettrale gargoyle incappucciato fu tirato a terra come un chiodo da un grosso magnete, e una volta ancorato non fu più in grado di alzarsi sui propri piedi.
Opale Nero aveva vinto l’illusione, e le sue membra tornavano al proprio posto. Sassi pronti in mano, riprese la sua corsa assassina verso il gargoyle.
“Non mi finirai così!” urlava Fasonis, dimenandosi invano per sfuggire all’attrazione magica del suolo sui di lui e lui soltanto, facendosi del male da solo dando gomitate involontarie alla roccia.
Riuscì a sollevare la metà superiore del busto e guardare in volto Opale Nero.
“Come farai senza i tuoi poteri, e senza la magia?”
Senza che Evera riuscisse a notare i movimenti della mano di Pantiavros e vedendo solo di sfuggita due anelli luminose andarle incontro velocemente, si ritrovò con i polsi attorniati dai bracciali dorati luminescenti, gli anelli di blocco, che impedivano il fluire della forza magica, della magia e dei poteri elementali.
“Non conosci davvero noi gormiti, scommetto.”
Opale Nero si posizionò, ginocchia a terra e gambe a cavalcioni, su di Pantiavros. Rimosse celere il cappuccio di Fasonis, per guardare almeno una volta il volto del proprio pericoloso nemico.
Era un piccolo capo azzurrognolo di gargoyle, pelato e raggrinzito dall’età, senza alcun pelo facciale al di fuori delle sopracciglia rese verdi dalla vecchiaia, e con il più piccolo paio di corna che Evera avesse mai visto su di un gargoyle.
“E tu saresti il potente Spiritonero? Il sovrano di Lexedria, il restauratore della dinastia dei Re Stregoni? Sei solo un vecchiaccio!”
Senza alcuna pietà, avviò un’esecuzione rapida e dolorosissima di pugni diretti dritti in volto al misero gargoyle, che sembravano non cessare più.
A nulla giovò alla vittima sfuggire all’incantesimo che la teneva incatenata a terra. Opale Nero rimase aggrappata al nemico che aveva giurato di uccidere, e i feroci colpi di oscurità gettati alla cieca lungo tutto il suo corpo non la fecero cambiare d’opinione.
Le mani strette attorno all’esile collo. A mezz’aria. La spinta di entrambe le mani in direzioni opposte. Uno spezzacollo plateale.

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Capitolo 36
*** Capitolo 16.2 ***


Come aveva sospettato Opale Nero, le più orribili e nefande magie con il preciso scopo di uccidere e distruggere non si sarebbero fermate alle Armature Dorate e nemmeno allo spettacolo privato di Opale Nero e Fasonis il Re Stregone.
La battaglia della Valle della Disperazione era stata avviata con un’iniziale svantaggio da parte delle truppe di Luminescente III e del Vecchio Saggio, costrette alle marce forzate nel deserto, nonostante gli aiuti rinfrescanti del popolo di Karmil.
E’ pur vero che le Armature Dorate avevano apportato un generoso contributo all’avanzamento della campagna a favore della fazione del Vecchio Saggio, sufficiente per portarla alla parità con l’esercito dello Stregone di Fuoco, ma non abbastanza per generare un cospicuo vantaggio.
Nulla sarebbe stato d’aiuto ora che l’esercito di Obskurios si era deciso in quella tattica. La Valle della Disperazione doveva essere abbandonata.
Una magia prodigiosa e mostruosa, e altrettanto impegnativa e piena di sofferenza sia per il bersaglio che per il mandante.
Akarion, il nome affibbiato alla nefandezza aracnide recuperata da Skorpios, era la vittima di quell’incantesimo e l’artefice della ribalta vulcanica e yamense.
Sotto gli occhi increduli delle decine di migliaia di soldati di entrambi i fronti, accompagnati dalle grida imbizzarrite delle salamandre, dei grifoni e dei cervi muschiati, il ciclopico ragno rosso stava subendo una trasformazione immonda.
Gradualmente ma dolorosamente ed estremamente rapidamente, l’aracnorosso stava crescendo in dimensioni ululando per l’agonia dei muscoli che accrescevano il loro volume, a tal punto da poter inghiottire gli interi eserciti in conflitto con una sola tela espulsa dal suo addome.
Fu il delirio più assurdo e totale, un abominio grottesco e apocalittico.
L’aracnorosso avanzò a furia cieca, spinto dalla follia e dal tormento che quell’incantesimo gli aveva impartito.
La sua fazione fu più gioiosa che atterrita, e si diede a una carica ancora più sfrenata e spericolata che mai, convinti della vittoria e di non poter più essere respinti.
Il fronte opposto al contrario fu solamente e nella maniera più assoluta invaso dal terrore al suo stato più autentico e potente. Una fuga scatenata senza precedenti nelle campagne belliche di Gorm.
L’abbandono della Valle della Disperazione fu un evento dettato dalla necessità di aver salva la pelle a tutti i costi, non c’era bisogno di alcun ordine. L’intera massa dell’esercito si spostò all’unisono, risalendo quanto più rapidamente le loro gambe stanche gli permettevano, e ancor di più per la paura, le due entrate alla conca desertica, e scorrazzando disordinatamente per il deserto sabbioso che si apriva al di sopra, con l’esercito nemico alle calcagna, per nulla infiacchito e rinvigorito fino al midollo da quell’improvvisa svolta degli eventi.
I plotoni del Sommo e del Vecchio Saggio non cessarono l’evasione nemmeno quando Akarion, esaurita la durata dell’incantesimo, tornò rapidamente al suo stato originale, espandendo nell’area circostante un calore insostenibile che arrivò fino agli accampamenti nella Valle di Teunor, la meta prescritta dell’esercito che voleva distrutto l’Occhio della Vita.
La Valle di Teunor.
Un ammasso caotico di rovine della natura più svariata e dell’età di centinaia d’anni, lasciate a bruciare nell’arsura dello sconfinato Deserto di Roscamar, invase da forti licheni.
Un’antica città, fiorente in tempi antichi quando si narrava che il Deserto fosse più ospitale al punto da offrire un ricco lago all’interno della sua distesa.
Questo in tempi antichi, i tempi della leggenda di cui nemmeno le profezie e le tavole di Patmut Iun parlano. Nessuna traccia degli abitanti di quella città, nessuna reliquia che possa dare informazioni sul loro stile di vita, su cosa li costrinse ad abbandonarla.
Solo alte colonne semidistrutte, pilastri crepati, muraglie diroccate la cui pittura era andata svanendo velocemente nel corso degli anni, rosa dal clima arido, lasciando ai posteri che vagavano occasionalmente tra i suoi resti mere bianche ossa di marmo e creta.
La carica folle di Akarion era stata devastante anche per lo stesso esercito che l’aveva scatenata.
Fu stipulata una tregua di ben pochi giorni, per dedicarsi allo stabilimento – o al rinsaldamento – degli accampamenti, il rifornimento, la sepoltura dei morti – qualora era possibile, tranne per i ka’nhili che valorizzavano solo gli occhi dei defunti – la cura dei feriti, il riposo delle truppe prima di una nuova esplosioni.
In questo clima, gli ingegneri e gli stregoni di Karmil non persero tempo a progettare e fabbricare altre di quelle speciali armi che avevano promesso ai gormiti; lo stesso fecero i gargoyle.
Tuttavia ciò che avevano in serbo richiedeva ulteriore tempo prima di poter essere dispiegato, e si decise di sfruttare la tregua per scoprire che cosa di preciso stessero macchinando gli avversari e, magari, derubarli dei loro progetti.
***
I due drappi che chiudevano la tenda del re furono sollevati dalle due guardie all’esterno – una era vulcanica – lasciando Skonissas libera di entrare.
Si scostò il cappuccio della veste grigio - verde che la ricopriva, chinando il capo e facendo oscillare la treccia di capelli neri, piegandosi nel leggero inchino con la mano sinistra sul cuore.
“Mio re.” ossequiò.
L’obiettivo dei suoi ossequi e il suo motivo di trovarsi in quella tenda era ovviamente il re Obskurios, comodamente sdraiato su un improvvisato trono di legno rialzato su tre ampi gradoni e decorato all’estremità dei braccioli con teschi di varia origine, come del resto anche il vero trono a Tato Yami. Non indossava la corazza, appesa a un palo lì dietro, solo la clamide azzurra. L’attrezzatura con la mazza ferrata era appoggiata per terra, la catena ben arrotolata al suo interno, lasciando libero il moncherino del re.
Pantiavros, il secondo di Obskurios, era in piedi al fianco sinistro del seggio regale. Diversamente dalle altre volte che Skonissas lo vide, non era nudo, solo parzialmente dalla cintola in su. Aveva un braccio fasciato.
“Skonissas figlia di Emoghenes, sapevo che le tue doti non ti avrebbero lasciata morire, nella Valle della Disperazione. - si congratulò inizialmente Obskurios - Queste tue doti ci servono ancora.”
“Ditemi in che modo, e obbedirò.”
“Sono sicuro che lo farai.” commentò il re, poi si diede alla spiegazione della sua missione.
“Nostre spie alate hanno confermato che i ka’nhili stanno cooperando ancora una volta con i gormiti per la costruzione di un'altra arma speciale, un’ennesima armatura il cui nome pare essere…Neor’gani.”
“L’ingegnere a capo di questo progetto sembra essere di nuovo El’eter. Non sappiamo se siano già pronte, quante ne siano in costruzione né che cosa di speciale abbiano. Ma i nostri SSX-47 non sono ancora pronti, e voglio che i nostri uomini sappiano che cosa li aspetta e reagire come si deve a questa nuova minaccia.”
“Mio re, volete che io corra per la terra di nessuno, mi infiltri nell’accampamento avversario e mi impossessi di una di queste Neor’gani?” chiese Skonissas, volendo arrivare subito al sodo senza tanti sproloqui.
“Esattamente.” confermò Obskurios. Chiamò a sé Pantiavros con un gesto della mano: quello, muto e obbediente come rare volte, entrò in una stanza secondaria della grande tenda. Ne uscì subito dopo, con in mano un panno che nascondeva un oggetto lungo e affilato. Un pugnale particolare?
“Tieni, Skonissas. - intimò Pantiavros porgendoglielo - Questo è un dente di un grande daicao, insieme a una cartina per arrivare da El’eter. Sicuramente non te ne frega da dove viene, e nemmeno a me frega di dirtelo. Comunque, contiene un veleno, che dovrai iniettarti e ti darà il potere del mimetismo perfetto. Ne avrai sentito parlare, spero.”
“Certo, Pantiavros.” gli garantì lei, stringendo a dire il vero un po’ insicura il panno bianco.
“Dovrai usare quel potere per passare inosservata nella terra di nessuno e nel territorio nemico. - riprese Obskurios - Molto più valido dell’incantesimo dell’invisibilità. Quando ti sarai presa il veleno, attivarlo ti verrà spontaneo. Ricordati che renderà invisibile con te tutto ciò che hai addosso al momento in cui lo attivi. Quindi se prendi qualcosa quando lo hai già attivato, dovrai disattivarlo e riattivarlo per nasconderti a dovere. E se lasci qualcosa che si era mimetizzato con te, perderà l’invisibilità.”
“E ricordati - si intromise Pantiavros - che dovrai essere molto scrupolosa. Se fosse così facile infilarsi e nascondersi tra i nemici con la magia, a quest’ora traboccheremo di intrusi.”
“E non lo siamo, decisamente no.” assicurò nervoso Obskurios.
“La tua ombra non sarà nascosta. - continuò sempre il re - Dovrai partire questa notte stessa, o una delle prossime, ma preferisco oggi. Non possiamo farti uscire dalla porta dell’accampamento, dovrai volare, o potrebbero accorgersi di qualcosa. Nella terra di nessuno, ti consiglio di usare la muraglia per nascondere meglio i tuoi movimenti. Sei autorizzata ad attaccare e uccidere solo quando hai preso l’armatura, se c’è. Tutto chiaro?”
“Ho compreso tutto, mio re. Sono pronta a partire stanotte.” garantì lei senza esitazione, portandosi una seconda volta la mano sul cuore.
“Il tuo successo sarà premiato come si deve, Skonissas. - gli promise Pantiavros - Avrai a disposizione gli schiavi da letto che preferisci, o le schiave, o entrambi, se hai gusti particolari. Fallisci, e la tua punizione sarà esemplare.”
“Non fallirò, lo giuro.”
“Lo spero per te. - mormorò Obskurios poco convinto - Lascia questa stanza, ora.”
 
Come aveva promesso, Skonissas volò all’esterno dell’accampamento illuminato dalla torce quella notte di menumdie 32 Redrubise 859, secondo il calendario gormitico.
Era particolarmente freddo il deserto notturno: l’escursione termica in simili ambienti era cosa risaputa da chiunque, anche da chi come Skonissas – o come tutti i gormiti – non avevano messo piede in altro deserto che in quello di Roscamar.
La coscienza del funzionamento della natura in quel paesaggio non fu di grande utilità per scacciare quel gelo che Skonissas soffriva, contrapposto all’afa più sopportabile per lei del giorno precedente.
I suoi vestiti non la aiutavano: una veste uniforme, grigia e verde, dotata di cappuccio che al momento le copriva il volto e la cupa chioma, dandole inoltre un aspetto temibile e misterioso, degno di un’assassina qual era. Non aveva maniche per coprirsi le braccia nude, e terminava in una sorta di corta gonnella che lasciava scoperte quasi tutte le gambe, dotate di una grandiosa femminilità, perfettamente depilate e con le generose curve al posto giusto.
L’intera veste era piena di tasche e aperture, in cui era sapientemente contenuta una dose letale di armi da taglio delle più svariate misure e forme.
Degli stivali anch’essi corti occupavano i piedi e la parte inferiore di tali gambe, foderati com’era solito di uno speciale panno che attutiva i suoni emessi dai passi. Cosa che non arrecava chissà quale guadagno, su suolo sabbioso.
Lo stesso si poteva dire del fossato e dei pali anneriti e appuntiti conficcati nel profondo della sabbia per intralciare l’avanzata nemica. Quando sicuramente metà dei propri nemici sono capaci di librarsi in volo o come minimo superare tale ostacolo con magia, forza magica, o ali naturali, quel tipo di precauzioni erano obsolete, alla vista di Skonissas.
Una vista riempita da un panorama amabile, per chi sa riconoscere le bellezze costruite dalla natura.
La sabbia era polvere di diamante alla luce delle due lune Redrubin e Greemerald visibili nel cielo stellato, straordinariamente luminoso e privo di qualsiasi nuvola ad ostacolare l’approdo dei cupi raggi di luce delle stelle e delle lune, così invidiose di Nejema e desiderose di imitare e superare la sua brillantezza, ma destinate per sempre ad essere pallide copie del grande astro diurno.
Le rovine marmoree che fuoriuscivano candide dalla sabbia come fossili portati alla luce dallo scalpello del vento accrescevano la spettacolarità di quel panorama, conferendogli un aspetto più romantico, quasi a rammentare i viventi dell’ineluttabilità dello scorrere del tempo e del suo porre fine incontrastabile ad ogni civiltà.
Le torce luminose di fuoco e di pietre di luce che accendevano l’orizzonte riportavano Skonissas alla realtà, e alla consapevolezza della propria missione e che la fine della sua, di civiltà, era ancora lontana.
Nascondendosi cautamente nonostante il mimetismo magico nella roccia dei resti di Teunor, come le era stato consigliato, il suo pensiero vagò per un attimo sulle tre lune di Mitera.
Chelreba, Reshuanra e Azratua le chiamavano i gargoyle di Tato Yami e coloro che non erano stati cacciati dalla madrepatria. Anch’essi, come i ka’nhili e i gormiti, chiamavano il sole Nejema. Questo perché quel nome non era di origine gormitica e fu l’influenza che un tempo quei due popoli adiacenti ebbero sui gormiti ad introdurlo nel loro dizionario.
Davvero strano. - si disse Skonissas - Pensare alle lune, proprio adesso e proprio qui. Mah.
Terminate tutte le possibili riflessioni su i tre dischi maggiori della volta notturna, Skonissas si concentrò sui gormiti. Una specie affascinante e potenzialmente pericolosa. Per fortuna o per destino, la loro potenza combattiva non devastò mai Tato Yami. Quando l’avo di Magmion Magmadoni approdò alle coste nere della loro isola, la paura fu ciò che provarono prima di tutto i gargoyle di quel tempo. E paura continuarono a provare le volte seguenti che i vulcanici scendevano tra di loro per trafficare merci. Una paura superiore a quella che saggiarono i guerrieri delle Tenebre quando si videro arrivare a frotte gormiti di ogni colore e forma, al tempo dello scontro con i karmiliani su Gorm.
Quando però, nonostante la loro indole furente, i gormiti del Vulcano dimostrarono di voler semplicemente mercanteggiare, e disponendo inoltre di numerose materie prime e lavorate che i gargoyle fecero la fila per comprare, gli yamensi abbandonarono gradualmente il timore nei loro confronti, ma non il loro interesse.
L’argomento di maggiore interesse per Skonissas in quel momento fu come riuscivano i gormiti a sostenere quello stato di belligeranza, di guerra e guerriglia che continuava ormai da diversi anni.
Da quel che sapeva, i gormiti erano assai numerosi, nonostante lo strano modo di concepire l’atto della riproduzione, e godevano, sia i civili che i soldati, di un benessere generale invidiabile.
Di quali inesauribili risorse disponeva l’Isola di Gorm oltre al famigerato Occhio della Vita che per altro mai fu usato per ottenere qualcosa, solo riverito e temuto?
Tali dubbi dovettero rimanere senza risposta, giacché Skonissas era ormai giunta in prossimità dell’accampamento di Sommo Luminescente III.
Il fossato e la barriera di giavellotti era presente anche da quella parte. Non dubitava che probabilmente sarebbe servito a qualcosa, ma pensò comunque che fosse una cosa stupida. Oltrepassarlo senza farsi male era un gioco da ragazzi. Oltrepassarlo senza farsi sentire, a quell’ora della notte, era un altro paio di maniche.
Le sentinelle oltre il fossato c’erano, e usare la forza magica, sia secondo la via della luce o dell’ombra o anche senza manifestarla, creava notoriamente un disturbo sonoro – niente di particolare, ma durante la notte poteva essere udito maggiormente – nonché visivo, simile a quello provocato dal calore (l’aria che tremola, per intenderci).
Con la massima attenzione, sorvolò la fila mobile di guardiani e la palizzata e atterrò parecchio dietro di loro, attenta a non fare troppo rumore e a non smuovere troppa sabbia.
L’ombra generata dalle torce e dalla pietre luminose appese intorno alle tende era trascurabile. Non lo era affatto la sabbia schiacciata e scossa sotto il suo peso. Dovette procedere con estrema precisione e lentezza, appoggiando il più dolcemente possibile i piedi a terra, onde evitare che i suoi passi tradissero la sua presenza.
Camminare lentamente era però allo stesso tempo controproducente, a causa delle sentinelle e dei gormiti svegli che passavano per la sua strada, che lenti non andavano, e doveva lottare per non urtare con essi.
Tuttavia, lei era preparata a tutto questo. Erano le sue doti che l’avevano fatta scegliere da Obskurios per quella missione. Non era la prima volta che la sua vita era messa in pericolo da una simile situazione ostile: non sarebbe stata l’ultima.
Tutto procedette per il meglio fino a destinazione, la tenda con il laboratorio dell’ingegnere El’eter, straordinariamente non molto lontana dal confine con il deserto aperto.
Fu costretta a impararsi a memoria il sentiero da percorrere, e ad andare alle volte a caso. Questo perché la mappa datale, mimetizzata insieme a lei, non la poteva vedere!
Alla tenda cominciavano però problemi più seri. Il lato positivo fu che non vi si entrava attraverso una porta solida in legno, e nemmeno con le porte scorrevoli tipiche dei ka’nhili, era un drappo come tutti gli altri. Il lato negativo era rappresentato da due guardiani ka’nhili, appostati a un piede dall’entrata.
Non sarebbe potuta accedere senza urtarli.
Niente di troppo complicato. - pensò poi, vergognandosi per aver avuto timore di fallire di fronte a quella sciocchezza - Una distrazione, una distrazione qualunque.
Cauta a non farsi scoprire, raccolse un ciottolo da terra, e lo lanciò. Si impegnò per fare in modo che facesse più rumore possibile, scagliato contro una tenda vicina e sollevando molta polvere.
“Cosa è stato?” domandò la guarda più vicina.
“Va’ a controllare.”
La guardia si allontanò. Skonissas entrò in azione. Facendo attenzione a non sollevare troppo il lembo di tela che chiudeva la tenda, a far sì che non toccasse la guardia restante, entrò.
Ora entrava in gioco la parte più pericolosa e difficile della missione: recuperare l’armatura Neor’gani o suoi progetti, uscire e tornare dal re.
L’armatura era senza dubbio realtà: El’eter, spogliato di tutto tranne che di un paio di calzoni, stava lavorando a un completo metallico nero, nel buio della stanza che si allargava più avanti, illuminando il piano di lavoro con la luce che emetteva dal palmo del braccio sinistro minore.
Skonissas avanzò sicura di sé. Poi l’improvviso e l’inaspettato. Forse perché presa dalla convinzione di non poter fallire, forse perché non ancora abituata al non vedersi del mimetismo perfetto, andò a sbattere contro un ripiano, facendo rovesciare un vaso di terracotta.
“Chi è là?” gridò El’eter, puntando il suo fascio luminoso sul vaso che cadeva…e che poi, in un lampo, rimaneva sospeso da una forma invisibile e lanciato a tutta forza verso il volto mezzo cecato dell’ingegnere ka’nhili. Non appena il colpo andò a segno, Skonissas saltò fino a ritrovarsi alle spalle di El’eter.
Gli tappò la bocca. Estrasse dal guanto che copriva la mano un pugnale nascosto. Lo conficcò nella gola del ka’nhili.
Quando fu certa della sua morte, trascinò il corpo a un angolo della tenda, per poi voltarsi con una certa preoccupazione alle quattro corazze nere come la notte appese ai loro sostegni nel bel mezzo della sala.
Le guardie dovevano aver sicuramente sentito i rumori all’interno. Non sarebbe mancato molto prima che il loro sospetto le avrebbe fatte entrare e scoprire il misfatto.
Non c’era tempo per cercare progetti, e nemmeno poteva trascinare una di quelle armature fino all’accampamento opposto. Doveva trovarne in fretta una che facesse al caso suo e indossarla.
Inforcò quella più sottile e più piccola che trovò, constatando che, eccezion fatta per la schiena, le calzava a pennello. Notò con curiosità uno strano bracciale, sul braccio sinistro, parecchio pesante e ingombrante, che presentava quelli che sembravano tre ingranaggi con le punte colorate in modo diversamente.
Tuttavia aveva prodotto un frastuono immane, facendo cozzare le varie parti – era anch’essa a placche.
“Ingegnere El’eter, tutto bene? - domandò una guardia all’esterno - Abbiamo sentito del rumore. Ingegnere, rispondete.”
La sabbia della clessidra era agli sgoccioli. Skonissas doveva uscire, e non certo per la porta.
“Ingegnere, sto entrando. Ingegnere, dove siete? Ingegnere!”
“El’eter è morto! E’ scomparsa un’armatura Neor’gani!”
“I suoi occhi sono a posto?”
“Sì, tutti e due.”
“Bene. Lascialo andare. Guardie, abbiamo un intruso dotato di protezioni magiche. Ha rubato una delle armature Neor’gani. Sondate il perimetro, non può essere andato lontano.”
Skonissas, dopo aver attivato nuovamente il mimetismo perfetto, uscì completamente invisibile sollevando un lembo di tenda, diretta a rotta di collo fuori da lì.
Dovette fare i conti con le precauzioni prese dalle sentinelle. Tre guardiani, due ka’nhili e un marino, portavano due dita a contatto con la tempia. I loro occhi brillavano di verde, e cercavano ovunque tracce dell’intruso.
Uno dei ka’nhili posò lo sguardo magico e luminescente sul punto in cui si era fermata Skonissas. Non sul punto, proprio su di lei. Quell’incantesimo permetteva di vedere attraverso la maggior parte delle protezioni magiche, e il mimetismo perfetto sembrava non fare eccezione.
“Intercettato l’intruso. - gridò - Gargoyle femmina, ha indosso l’armatura Neor’gani.”
Portò alla tempia opposta due dita dell’altra mano: un fascio di luce verde proruppe dai suoi quattro occhi, andando a colpire la celata Skonissas. Quel colpo non le fece male, ma fece di peggio. Annullò il mimetismo che aveva attivato su di sé. Ora potevano vederla.
“Fermate l’intruso, fermate l’intruso.” ordinava meccanicamente il ka’nhili, spegnendo gli occhi magici e traendo con la forza del pensiero la sua spada lunga. La tenne saldamente nella mano, e con una decisa sciabolata produsse un tagliente getto rettilineo di luce diretto a lei. Lo stesso fece l’altro ka’nhili; il gormita mise in moto una rapida Zanna del demone marino.
Senza credere a quello che faceva, Skonissas, abbassandosi, saltando, scattando lateralmente a velocità impressionante, maggiore di quella a cui era abituata, riuscì a schivare tutti i tre colpi iniziali, e tutti quelli che seguirono, che quasi non la toccarono.
Sorprendente. - pensò Skonissas - Possibile che l’Armatura Dorata potenzi la forza, e questa Neor’gani l’agilità? Mi pare un po’ una copia del senso di colibrì e del vigore delle gemme, però…
Sebbene i tre avversari non fossero molto basiti di quella dimostrazione di prontezza di riflessi – ad eccezione del marino – Skonissas scelse di ignorare ulteriori attacchi per far fuori quei tre guardiani.
Sollevandosi graziosamente in aria con una giravolta, estrasse inosservata tre dardi da una tasca e con la forza magica li lanciò con precisione fenomenale ai colli dei tre.
Quelli si immobilizzarono subito. Versi di soffocamento proruppero copiosi dalle loro bocche, mentre si portavano invano le mani alla gola avvelenata.
Skonissas si era già dileguata.
“Mostrami cosa sai fare, Neor’gani.” gridò Skonissas fuggendo. Quello strano bracciale doveva pur servire a qualcosa. Quei tre strani ingranaggi sembravano essere in grado di muoversi. Verificatolo, ruotò il primo dei tre, con i dentelli colorati di pittura argentea.
Traendo energia sia dal suo corpo che dalla riserva stessa della corazza, Skonissas e tutto ciò che aveva indosso si fecero trasparenti.
“Davvero interessante, ma alquanto inutile per me.” commentò leggermente delusa, un attimo prima di andare a sbattere contro un terricolo. Che l’armatura fosse non ancora ultimata, che forse non fosse costruita per lei, l’urto annullò l’invisibilità appena evocata. E cosa ancora peggiore, c’erano due terricoli insieme a quello. Non si fece cogliere impreparata.
Balzò immediatamente dietro al terricolo in questione, di fronte agli altri due. Quasi come accadde con El’eter, tenne fermo il corpo del gormita, un pugnale pronto a dissanguarlo pericolosamente vicino al collo.
“State fermi! Fermi, o l’ammazzo! Lasciatemi andare e non succederà nulla.” intimò a quei due, solo vagamente sicura che fosse una buona idea.
I gormiti della Terra ringhiavano rabbiosi, ma a parte questo sembravano restii a salvare il loro amico così come a impedire a Skonissas di farla franca.
“Idioti! - gridò il gormita in ostaggio - Non pensate a me! Che aspettate, fermatela!”
“Taci, tu!” urlò Skonissas, avvicinando la lama al gozzo.
“Tocca fare tutto a me!”
Senza aspettarsi un’azione simile, il terricolo spostò con decisione con la sua forza superiore il braccio che minacciava il suo collo, facendo cadere il pugnale, e con l’altro diede una gomitata dritto in volto a Skonissas. Si voltò repentinamente e diede uno schiaffo al furtivo gargoyle.
“Ti pentirai per questo.” ringhiò Skonissas facendo qualche passo indietro, davvero contrariata per quel ceffone – del resto, chi ama riceverli?
Si alzò in aria, e abbassandosi con uno schianto sollevò un’onda nera di forza magica, che travolse i tre terricoli il tempo necessario perché lei potesse continuare la sua fuga.
Azionò il secondo ingranaggio, quello dentellato di blu. Nulla cambiò.
“Che scherzo è questo. - digrignò i denti, battendo furiosamente la mano su quel bracciale mal funzionante - Una cosa simile non aiuterà per niente il Sommo o il mio re.”
“Di sicuro non aiuterà il tuo re, ladra.”
La voce profonda e severa che pronunciò quelle parole provenne da un’imponente figura dalla pelle rugosa e verde, di fronte a lei. Un volto segnato dagli anni, allungato in avanti e pieno, ma ancora carico di forza da scatenare in battaglia, sormontato da un paio di lignee lucide corna. Un grosso e bitorzoluto bastone componeva il suo braccio destro, una mano grande e forte da spezzare le pietre nella sua stretta e dita uncinate erano il sinistro.
Tutto questo rivestito di una sfolgorante e massiccia corazza d’oro, riccamente decorata. Le spalliere richiamavano la forma di maschere tribali, triangolari, con occhi, naso e bocca scolpiti in quella lega incantata. Grandalbero il Signore della Foresta.
“Non riuscirai a fermarmi.” sibilò Skonissas, piroettando di lato per sfuggire alla prestanza superiore di quel bestione di legno.
Grandalbero si spostò rapidamente al punto di arrivo della gargoyle, nonostante l’impedimento del peso maggiorato e i riflessi migliorati di cui doveva disporre Skonissas.
Con il ciclopico bastone sferrò una potente vergata alla spalla della yamense, che per poco non si capovolse. In seguito fu il turno del pugno, ma che mancò il suo bersaglio.
Infatti fu deviato da una pronta flessione dell’avambraccio di Skonissas. Repentinamente si piegò con il busto all’indietro per assestare un calcio in volto al Signore della Foresta.
Volteggiando subito dopo il calcio, si gettò con il braccio in avanti caricando un colpo d’ombra diretto al petto dell’avversario.
Grandalbero indietreggiò solo di mezzo passo.
“E’ inutile resistere. - gli fece notare, tutt’altro però che tronfio - Non puoi competere contro un gormita con questa corazza. Anche se dovessi sfuggirmi, sei in territorio nemico, da sola. Non la farai franca.”
“Questo lo credi tu.” lo sfidò. Scelse di mettere in azione la sua mossa preferita con la forza magica.
Concentrò la tenebra attorno al suo braccio: lunghi filamenti di cupa e bruciante oscurità si avvolsero attorno al polso, e da lì si prolungarono in una punitiva e impietosa frusta.
Schioccandola senza far rumore, la fece stringere al braccio di Grandalbero e, nonostante la sua massa imponente, lo sollevò e lo scagliò via.
Ora doveva correre, correre e correre fino anche a morire, purché la Neor’gani arrivasse da re Obskurios.
Fu vano. Un assalto di luce la travolse come una meteora. Grandalbero, tutt’altro che fuori gioco, caricò verso di lei, sballottolata a terra da quell’improvviso e furioso attacco.
Il Signore della Foresta fu su di lei, e ben preso radici forti come catene d’acciaio la costrinsero al suolo.
“Come ti avevo detto, gargoyle: non potevi competere. La tua missione è fallita. Ora sei un prigioniero di guerra, e non tornerai al tuo accampamento, né con il bottino, né a mani vuote.”
***
Sessantacinque anni. Tredici lustri. Poco meno di un secolo. L’anno del calendario elfo non differiva molto da quello gormitico.
Questo il tempo che il Vecchio Saggio aveva passato lontano dalla sua culla e casa, la sua madre amorevole, fonte della sua vita e del suo successo come persona, come stregone più potente del suo tempo.
Sessantacinque anni fattivi, compiuti. In realtà ne erano trascorsi di meno, all’incirca cinquanta. La permanenza saltuaria all’interno del Dachezhanyù era origine di numerose problematiche temporali.
Come si chiamava la sua città? A stento lo ricordava, ormai. No, era lui che si ostinava a dimenticare il suo passato, a far crollare nel buio tutti gli anni trascorsi a Lacedimora. Gli anni migliori? Chi può dirlo.
Centotredici anni. Aveva raggiunto quella straordinaria età, e senza troppe complicazioni fisiche, grazie a un oceano di intrugli di lunga vita e al suo smanioso attaccamento all’Occhio della Vita e al senso di responsabilità per la sua necessaria distruzione.
Molto più di metà di quegli anni li aveva trascorsi in quell’isola abbandonata e misteriosa, mai solcata da più di un abitante delle terre orientali in una volta sola. Ventiquattro per la precisione. Quarantotto a Lacedimora e nel Grande Golfo.
La sua mente cominciava a fare cilecca. Aveva passato su Gorm proprio metà degli anni passati in patria. I restanti anni li aveva trascorsi a ricostruire il popolo gormitico nel suo appezzamento di territorio privato, di cui non ricordava il nome.
Forse non aveva davvero centotredici anni. Era vecchio, il Vecchio Saggio. Vecchio oltre ogni modo e misura possibile per le persone normali. A ben guardare poteva essere definito immortale dai vici, che hanno una speranza media di vita assai breve.
Vici. Non ne vedeva da una vita. Chissà se la faida tra i rivoluzionari di Inverrith e i fedeli alla Triade del Venturgio era stata risolta. Poteva essere successo di tutto in quegli anni lontano da casa. Poteva essere stato dimenticato da tutti, e forse era meglio così.
Ciò che contava per lui era la gloria e il bene che aveva portato su Gorm. Sull’Isola, lui non sarebbe mai stato dimenticato.
Era il Vecchio Saggio, il grandioso stregone che aveva compiuto un lungo viaggio per approdare sull’Isola di Gorm, il prodigioso inventore ed educatore che insegnò ai gormiti una conoscenza assai più specifica dei meccanismi della natura e i metodi per piegarla ai propri scopi, il salvatore la cui venuta era stata profetizzata dalle incisioni a Patmut Iun.
Salvatore, già. Così poco sapevano i gormiti delle vie con cui Aria, Terra, Mare e Foresta erano stato ricreati dal nulla. Così poco sapeva lui stesso di come riuscì a realizzare un simile progetto stringendo alleanze con genti di mondi arcani e lontanissimi.
Più di ogni altra cosa, era colui che li avrebbe salvati dal più pericoloso degli oggetti e il più vicino ai gormiti: l’Occhio della Vita.
La sua ragione di vita, il suo unico scopo. Lo tenne lontano dagli insaziabili gormiti del Vulcano e dalle fauci dello Stregone di Fuoco, che ormai non riconosceva più come un tempo suo simile, suo amico e apprendista. Lo nascose e lo studiò con tutte le sue forze. Aiutato dai gormiti che tanto in gratitudine erano con lui da seguirlo persino nel pozzo incandescente di un vulcano, nei tentacoli instancabili e inarrestabili della Grande Piovra.
Disegnava curiosi e precisi cerchi nel terreno polveroso di quella grotta buia, pensando senza nascondere un po’ di divertimento a come fu azzardato e al tempo stesso azzeccato nascondere l’Occhio della Vita dove Magor e il Vulcano non avrebbe mai pensato potesse trovarsi: nella Caverna di Roscamar, nei labirintici cunicoli sotto la pianura della capitale, non lontano dal precedente rifugio.
Ma continuare a nascondere e studiare l’Occhio non arrecava alcun guadagno. Nonostante tutti i suoi sforzi, quel manufatto, la sua misteriosa correlazione con i gormiti – era giunto a credere che fosse in qualche modo responsabile della loro stessa esistenza - continuavano a rimanere un segreto.
E il sangue e la linfa continuavano ad essere sparsi in scontri eterni che avrebbero portato Gorm al collasso, presto o tardi. L’intromissione di ka’nhili e gargoyle portava il conflitto a un livello di importanza esageratamente più alto: l’intero mondo sarebbe dipeso dall’esistenza o la distruzione dell’Occhio della Vita, se le cose avessero proceduto a quel modo.
Il Vecchio Saggio si era ripromesso di impedire che la situazione fosse degenerata nella via che temeva, divenendo un eroe solitario commemorato unicamente dai gormiti.
Ho esaurito le mie risorse, non posso fare nient’altro -  i pensieri drammatici del Vecchio Saggio, a dire il vero piuttosto tranquillo - Bisogna porre fine a tutto questo, adesso. Serve una soluzione finale…
Il suono della pietra che crepita riempì la grotta. All’inizio fu flebile come il passo di una formica, un ticchettio continuo e inconsistente, spaventoso a lungo andare se non ne si conosce la causa, una bazzecola di cui non aver motivo di preoccupazione in caso contrario, e un fastidio crescente se incessante.
Il crepitio non accennava ad arrestarsi e in più accresceva la sua potenza sonora e la sua frequenza.
Il misterioso picchiettio continuava e continuava, divenendo pari a una cascata di diamanti su una superficie solida e rigida, e più esso si poteva definire frastuono, più un preoccupante calore colmava la sala naturale.
“E’ finita, Razael.”
L’annuncio altisonante di chi sa di avere la vittoria in pugno, il nemico nella propria stretta, riecheggiò per le pareti rocciose della caverna come un incontestabile verdetto di punizione.
“E’ davvero finita, lo so bene.” sospirò il Vecchio Saggio, alzandosi dalla umile sedia di pietra e reggendosi tremante al bordone di legno e di smeraldo, inseparabile compagno di vita.
Fiamme fragorose avviarono la loro lenta e inflessibile invasione del rifugio da ogni fessura e frattura che trovavano, imperlando della loro elevata temperatura la fronte del povero vecchio.
“Hai spezzato le mie difese in silenzio, vedo. Dopo così tanti anni, i miei insegnamenti non sono andati perduti.”
“E’ ormai inutile pararsi dietro questa maschera di arroganza e superiorità, Razael.” dichiarò indiscutibile, celato agli occhi del Vecchio, lo stregone che pregustava il suo trionfo, e al contempo si manteneva composto e austero come di fronte a un figlio maleducato e impertinente.
“Questa non è un’illusione: è la realtà. Io sono qui, maestro. La tua resistenza decennale è giunta al tramonto, e con essa porrai fine al maleficio che hai imposto su di me, e su quest’isola e i suoi poveri abitanti.”
“Non sono dello stesso giudizio, Magor. - eccepì l’anziano stregone . La tua punizione è stata più che giusta, e non ci sarà fine ad essa. Per quanto riguarda l’Isola…hai ragione, Magor.”
“Parla chiaro, maestro. La mia esitazione a colpirti sta per cedere.”
“Sono stato uno sciocco a credere di poter aiutare i gormiti distruggendo l’Occhio della Vita. A giocare a fare l’eroe, studiando un metodo per annientare questo pericolo forgiato dagli déi. Io non posso. Non so distruggerlo.”
Il fuoco di Magor cresceva sempre più, e il fumo prodotto dalla collisione di esso contro le pietre cominciò a divenire soffocante.
“Temo che mi abbia…fatto qualcosa. - svelò, a capo chino, vergognandosi per essersene accorto solo ora - Sono diventato il suo schiavo. Se io non posso distruggerlo, sarà qualcun altro, qualcuno di cui mi possa fidare, a farlo per me, o a buttarlo via lontano, come l’immondizia che è, dove non possa più nuocere a nessuno.”
“Non ti permetterò di farlo. - tuonò Magor - Non hai possibilità per farlo.”
“Il mio tempo qui è finito, Magor. Ho ancora della vita davanti a me, ho ancora la possibilità di aiutare, di ripagare vecchi debiti…e lo farò.”
Incurante del fuoco che gli arricciava la barba e aveva fatto del suo volto un oceano di sudore, si precipitò zoppicante verso il tumulo su cui l’Occhio della Vita fluttuava innocuo.
Lo prese tra le mani.
“Cosa stai facendo? Fermati!” ringhiò tempestoso Magor.
Un grido muto delle labbra screpolate del vecchio stregone, e l’Occhio sollevato in alto scomparve, un bolide spinto veloce come il mare in tempesta. Scavò la sua strada verso la sua meta, precedentemente collegata a quell’incantesimo di trasporto, attraverso un foro nella roccia, e da lì diretto verso luoghi ignoti.
“Addio, Magor. Abbi cura di te…per sempre.”
“NO!”
Le fiamme si unirono in un solo grande incendio sotto sembianze elfe. Un artiglio incandescente prese forma, affamato del Vecchio Saggio. Ma quello era anch’esso scomparso.
Un tocco della punta del bordone al suolo: la stella del varco spaziale, disegnata e riempita delle magiche polveri nel pavimento ruvido, si era illuminata, e la rottura dimensionale ebbe luogo.
In un istante, il Vecchio Saggio vi passò attraverso, scomparve da Gorm, dal Grande Golfo, da Mitera, e richiuse il passaggio dietro di sé.
“No! No, no! NO!”
Magor non aveva più contegno. La sua rabbia, la sua frustrazione, ribollivano prive di limiti. Lacrime di fuoco scorrevano per le guance d’incendio, bagnavano le labbra roventi e si asciugavano sui denti infiammati, stretti, digrignati fino a spezzarsi.
“Sei un mostro, un mostro! UN MOSTRO!”
Incantesimi e forza magica scagliate senza controllo rimbalzarono per le pareti rocciose, ruppero le stalattiti, distrussero i barattoli ivi conservati, bruciarono il prezioso sale nero guadagnato dal Vecchio Saggio nella sua vita su Gorm, rovesciarono la ricca sfera veggente.
Ma mai il frastuono provocato dalla distruzione della grotta poteva smorzare le urla di disperazione di Magor, lo Stregone di Fuoco.
***
Lo scontro aveva ripreso a infuriare presso le antiche rovine di Teunor, sotto gli occhi guardinghi e preoccupati di Sommo Luminescente III, che osservava il proseguimento dello scontro dall’alto.
L’Occhio della Vita era nella sua mano. L’avanzare delle ostilità gli sembrò un affare privo di importanza, ora che teneva stretta tra le sette dita la vera fonte di quel conflitto.
Così piccolo, così pericoloso…a detta del Vecchio Saggio.
Aveva sospettato di dover prendersi quella responsabilità. Era parte del piano, il Vecchio Saggio lo aveva informato in segreto che la probabilità che si sarebbe dovuti giungere a questo era elevatissima.
Non aveva idea di dove si trovasse al momento il Vecchio Saggio, del suo stato di salute, o altro. Sapeva solo che le condizioni si erano mostrate ostili, e non aveva avuto altra scelta che consegnare l’Occhio nella persona più fidata ancora in vita che Razael possedeva come amico.
Ora spettava a lui. La chiave per far eclissare ogni scontro era nelle sue mani, e la porta si sarebbe aperta senza indugi.
Si chiese se era davvero quella la scelta migliore da fare.
Esaminò per qualche secondo la superficie levigata e vitrea di quel dono dalle stelle, come lo rappresentava un graffito dei cultori degli Osservatori, la strana materia ora liquido, ora come fumo che scorreva al suo interno.
Ritrasse immediatamente lo sguardo: non poteva esitare, non poteva deludere il suo amico e le migliaia di gormiti che erano morti per fari sì che quel giorno divenisse realtà.
In più, temette che, come aveva fatto al Vecchio Saggio – così diceva lui – l’Occhio potesse mostrargli visioni, allucinazioni, corrompere la sua mente e piegarla a compiere azioni che gli sarebbero parse ovvie e naturali, ma che con l’attuale consapevolezza sapeva essere l’esatto contrario di ciò che era la sua missione.
Non c’era da indugiare oltre.
Si innalzò sempre più avanti nel cielo, scattando via via più velocemente e più lontano con l’incantesimo di trasporto rapido, librandosi con una scia di luce e usufruendo delle sue ali come non aveva mai fatto prima.
Salì dove nessun altro gormita aveva mai sbattuto le sue ali, dove nessun ka’nhili o gargoyle era giunto con l’arte della forza magica, dove persino gli uccelli rapaci più robusti evitavano di andare.
La battaglia, un quadrilatero scomposto e multicolore nell’immensità del deserto, sembrava davvero così futile e poco importante, vista da lassù.
Il vigore delle gemme e le pietre preziose di cui era carico lo avrebbero salvato. Però il suo respiro diveniva faticoso, e le ali parevano essersi appesantite e congelate. Ora o mai più.
Pronunciò un incantesimo sull’Occhio, quasi baciandolo, e con forza lo lanciò in altitudine, dove si precipitò tanto spedito da creare una scia, nel cielo più freddo e insondato…
El’issam si lasciò cadere giù.
***
Freddo. Gelo e vuoto incolmabili riempivano il suo cuore, il profondo dell’animo di tutti.
Una tempestosa e dominante sensazione di freddo, di mancanza, di inaspettata e mai provata vuotezza.
Una spada arroventata tra fiamme di ghiaccio, che aveva trapassato il cuore e lo spirito di ogni combattente, e abbandonato il costato privo di ferite ma svuotato di tutta la voglia di fare che scorreva nel corpo, di ogni desiderio al di fuori di quello di riempire lo spazio freddo e arido che occupava quella nicchia protetta dai muscoli e dalle costole così perfettamente e costantemente contro gli urti e le armi.
Nulla poteva però difenderla dai moti dell’animo, da quel mistico e malinconico gelo che l’aveva colpita, privo di una lama che le ossa potevano trattenere, di una forza che il petto poteva respingere.
All’unanime, ogni gormita in lotta presso l’antica e distrutta città di Teunor, riarsa e splendente alla bieca luce del deserto, aveva cessato ogni ostilità.
Non appena quel freddo glaciale toccò senza più abbandonarli i cuori dei gormiti, guerrieri da entrambi i fronti, la loro passione bellicosa si spense come le stelle quando sorge il Sole.
Chi caricava rabbioso, arrestava il suo cammino; chi alzava la propria spada per dare il colpo di grazia all’avversario, lasciava cadere giù il braccio, e il nemico in questione non faceva nulla per fuggire o per contrattaccare, sconvolto anch’esso come il suo carnefice; chi tendeva l’arco per scoccare temibili e precisi dardi, rilassava fulmineo la corda.
Tutti loro percepivano il mutamento improvviso scatenatosi dentro di loro: debolmente portavano la mano al petto, sperando vanamente che il conforto del calore del proprio palmo potesse addolcire l’agghiacciato cuore.
Rendersi consapevoli in un istante di aver sempre posseduto qualcosa, un’abilità innata, un occhio, un dito, di averne sempre usufruito con spontaneità, solo quando questa viene tolta prepotentemente da una forza nascosta, senza possibilità di trattenerla o di riaverla indietro. E capacitarsi in quello stesso attimo di come la vita sarà dura, indiscutibilmente diversa, impoveriti di tal elemento.
La voce tonante e stremata di El’issam Luminescente III portò all’intero campo una notizia che scosse ulteriormente tutti i guerrieri.
L’Occhio della Vita non era più su Gorm. Consegnato con la magia dal Vecchio Saggio nelle mani del Sommo Signore di Karmil, gettato con ribrezzo e odio a centinaia di piedoni d’altezza, proiettato per decine di leghe di mare lontano verso sud, destinato a sgretolarsi ed estinguersi una volta per tutte prima di poter toccare la superficie del mare, o di qualunque terra si trovasse nell’estremo meridione.
Il principio e la fine di tutto. Ciò per cui Gorm è stata stremata dalla guerra sin dall’efferato Grande Sacrificio, per cui anche le relativamente pacifiche civiltà di Karmil e Tato Yami erano state attanagliate in nuove ostilità, per cui il Vecchio Saggio, il magnifico stregone d’oriente, aveva lottato una vita intera.
Mai più. Mai più un crimine imperdonabile come il Grande Sacrificio sarebbe stato commesso in nome del maledetto artefatto; mai più l’ossessione del suo possesso avrebbe portato allo scoppio di un conflitto micidiale quale la Grande Guerra di Gorm; mai più l’avidità di potere e di dominio avrebbe guidato genti amiche a uccidersi tra di loro; mai più.
La convinzione che il conflitto eterno fosse giunto alla sua tanto attesa eclissi riempì parzialmente di gioia il vuoto nei cuori dei gormiti. Da quel momento in poi, nessuno avrebbe più dovuto abbandonare i suoi compagni e familiari, il suo lavoro e le sue ambizioni, per arruolarsi e morire in battaglia, per quanto eroicamente.
Un altro avvenimento, di cui alcuni scelti furono resi consapevoli in oscure e sconosciute maniere, fu riferito e riportò nei gormiti parte dell’inquietudine colmata dalla felicità di un attimo prima.
Il Vecchio Saggio era scomparso. Non vi era più alcuna traccia di lui. La grotta in cui era nascosto anzitempo insieme all’Occhio della Vita era divenuta muta immediatamente dopo il lancio dell’Occhio, e nessun messaggio da parte dell’elfo aveva più raggiunto i suoi guardiani della Terra.
Era morto per l’incredibile età raggiunta? Era scappato rattristito dalle condizioni in cui Gorm si era ridotta, anche per causa sua?
I gormiti non sapevano quale delle due opzioni preferire: entrambe erano terribili. Ben presto avrebbero scoperto che il suo corpo non si trovava tra le macerie del suo rifugio, ma già prima di averne la certezza dicevano a se stessi che era fuggito. Fuggito per un buon motivo, senza dubbio, vivere la sua vita, quel poco che sicuramente gli rimaneva, nella pace e nella tranquillità di un luogo ameno. Tornato nella sua dimora, a est.
Tali convinzioni non confortavano del tutto i gormiti. Dovunque fosse, era irraggiungibile. Non avrebbero più avuto in lui una guida solida e fedele, di cui non temere mai nessun inganno. Il naufrago che scelse di vivere gli anni più vivi della sua esistenza a favore del progresso gormitico, che li aveva aiutati più di quanto essi stesse credevano possibile, non era più al loro fianco a consigliarli e guidarli, ad insegnar loro il funzionamento della natura e delle macchine con cui migliorare la vita.
L’abbandono così repentino di quell’uomo che era da sempre stato il loro faro, senza preavviso, il vuoto lasciato da lui e dall’Occhio della Vita – era chiaro che dipendesse dalla sua mancata presenza, ormai – rendeva gli abitanti dell’Isola assai tristi.
Ma guardavano avanti, a un futuro migliore, privo della minaccia dell’Occhio della Vita, e il loro umore si risollevava.
Disorganizzate e sbandate erano le truppe, scosse e trionfanti, rassegnate e disturbate. Non c’era più motivo di continuare la lotta: alcuni da entrambe le fazioni seguitarono ugualmente a mietere vittime, presi dalla follia della sconfitta, dalla vuotezza per diversi insostenibile del loro spirito, dalla convinzione della vittoria, ma poi tutte le armi brandite dai gormiti si fecero mute e sorde.
Solo i ka’nhili e i gargoyle procedevano a combattere, non invasi dalla sensazione gelida che aveva accomunato i gormiti, poiché nulla avevano loro a che fare con l’Occhio della Vita.
Tuttavia anche loro dovettero mettere da parte i reciproci odi razziali e abbandonarsi alla realtà: la battaglia era conclusa.
Grandalbero era di diversa opinione. La lotta era sì terminata, ma lo stesso valeva per la civiltà gormitica. Lui più di altri, così come i gormiti affini che aveva raccolto innanzi a lui, sentiva di più l’assenza dell’Occhio della Vita e il vuoto da esso scavato dentro i gormiti.
“Ci siamo scavati la tomba da soli!” gridava quasi furibondo, nell’Armatura Dorata ammaccata e impolverata.
“Non era questa la soluzione che dovevamo cercare, e il Vecchio Saggio è fuggito proprio perché non l’ha saputa trovare.”
Ora che la loro mistica guida era sparita, anche se solo da meno di un giorno, Grandalbero ed altri si sentivano più liberi nel criticare alcuni aspetti della sua condotta. Ovviamente non tutti accettavano di buon grado che si parlasse di lui a quel modo, presente o non presente su Gorm.
“Non dobbiamo biasimarlo per le sue azioni” si rifece repentinamente per l’azzardo delle parole precedenti, notando i cipigli contrariati di alcuni “Ha agito per il nostro bene, dobbiamo tutti essergli grati per ciò che ha fatto. E se n’è andato per evitare di farci del male, e lo ringrazieremo anche per questo.”
“E’ noi stessi che dobbiamo incolpare!” e additò uno ad uno i presenti, e poi indicò se stesso con un pugno al petto.
“Non abbiamo capito il profondo collegamento che esiste tra noi e l’Occhio della Vita. Lo abbiamo gettato via senza comprenderlo, questo dono degli Osservatori. Lo abbiamo rifiutato, ed è questa la giusta punizione che dobbiamo soffrire.”
Non c’era più alcun motivo per nascondere la sua fede, così contraria agli ideali condivisi da più di metà dei Popoli alleati e del Vecchio Saggio. Poteva tranquillamente sbandierarla come un vessillo senza temere nulla. Inoltre, la sua fede negli Osservatori era anche differente dal canone per certi elementi.
“Questo vuoto dentro di noi, questo freddo…Dovremo sopportarlo fino alla fine dei nostri giorni, e tutti i nostri figli, e i figli dei nostri figli, la nostra discendenza ne soffrirà fino all’apocalisse.”
Perseguiva nel colpirsi malinconicamente il torace corazzato con la verga al braccio destro, lo sguardo abbassato e crucciato nella consapevolezza di dover vivere con quel senso di freddo.
I suoi seguaci davanti a lui, sorpresi della verità e della potenza del suo verbo, non erano di diverso umore, rassegnati. Il trionfo definitivo pareva quasi non avesse alcun significato per loro.
“Non è finita qui, oh, no che non è finita.” riprese Grandalbero. Levò la mano e forgiò, combinando spirali su spirali di legno, un tozzo e corto paletto, duro di corteccia. Contrariato, fece no con la testa e lasciò cadere il rametto per terra. I suoi compari non sembravano capire.
“Lo sapete anche voi, lo avete provato. I nostri poteri si sono indeboliti, ci fiacchiamo prima. Ce lo meritiamo.” spiegò, e anche questa volta i forestali in piedi di fronte a lui dovettero dargli ragione.
Un cambiamento improvviso nei visi e negli occhi di quei abitanti della Foresta sorprese Grandalbero.
Il loro interesse verté all’unanime, uno dopo l’altro, verso un oggetto non ben definito che prendeva forma in alto, dove i loro occhi lo fissavano pervasi da emozioni contrastanti.
Chi tremante e impaurito, chi invece decisamente più tranquillo e affascinato da quella visione.
Quando i primi cominciarono ad additare confabulanti lo straordinario fenomeno che si stava scatenando nel cielo, prossimo sempre più al suolo, Grandalbero si voltò, e fissò anche lui.
Alto nel brillante e sereno cielo diurno del deserto, più abbagliante di Nejema, stava avendo luogo un fantasioso gioco di luci: violetto, magenta, verde mare, indaco, una nube luminosa grossomodo circolare orbitante un nucleo pallido e accecante.
L’eccezionale fenomeno atmosferico lasciava una scia di fuoco bianco dietro di sé, e avvicinandosi sempre di più a Gorm le inquietanti vibrazioni da esso emesse crescevano in intensità.
“E’ proprio come è stato profetizzato. - concluse Grandalbero, sicuro di sé, sicuro della fine imminente - Ricordo perfettamente la profezia che ci avvisava di questo futuro. Abbiamo tradito le parole e l’offerta degli Osservatori, e dalle stelle, la loro casa, discende ora l’astro fautore della nostra meritata distruzione. Fratelli e sorelle, questa è l’apocalisse.”
***
Thorg sovrastava trionfale con lo sguardo l’intera Valle di Teunor. Stanco, sereno, soddisfatto, vittorioso, ferito, felice.
Osservava con piacere le truppe da entrambi i lati ritirarsi nelle proprie file, i pochi soldati che ancora lottavano fermare la loro avanzata e gettare, vinti e vincitori, le armi per riunirsi con i fratelli sopravvissuti.
La lotta decennale si era conclusa, e Thorg il Signore della Terra aveva preso attiva parte alla battaglia, al progetto che ne aveva decretato la sua definitiva fine.
La missione di grandiosi condottieri prima di lui si era incarnata in Thorg ed era lui ad averla portata a termine, riunendo in sé i giuramenti fatti in vita da quegli onorabili Signori e capi militari che avevano dovuto portarseli oltre la tomba.
I loro sogni erano stati rispettati e conquistati e le loro preghiere in letto di morte per il trionfo dei loro discendenti erano state ascoltate.
Thorg, insieme ad altri valorosi e molti morti, aveva reso finalmente reale la fine della guerra, e si era così facendo ricavato un posto d’onore tra gli immortali eroi del suo Popolo e di tutta Gorm.
Poteva dire di poter morire felice e senza rimorsi: il suo ricordo dopo la morte non sarebbe mai svanito.
Il vuoto e il freddo che lo rodevano piano da dentro erano trascurabili, la fuga o la morte del Vecchio Saggio era un evento sì mesto ma che non doveva oscurare la certezza della vittoria decisiva.
Assorto nei suoi pensieri, racchiuso nell’armatura nera e arancio ampiamente rovinata, specie dopo la caduta con il dragone, notò solo con la coda dell’occhio alcuni ciottoli pietrosi al suolo che si levavano dalla sabbia, mossi da un leggero quanto anomalo mulinello di vento.
Si rese appieno conto di ciò che stava accadendo e della sua anormalità quando quei sassolini raggiunsero la sua altezza e con deboli ma fastidiosi urti andassero a colpire, uno dopo l’altro, la fronte cornuta del Signore della Terra.
Più incuriosito che preoccupato dall’anomalia, gettò svogliatamente lo sguardo a destra e a sinistra, in basso e in alto, alla ricerca di cosa poteva aver prodotto quel singolare accadimento.
Alzando gli occhi, la vista lo disgustò alquanto.
Un guerriero piumato, il peggiore con cui avesse avuto l’opportunità di incrociare sguardo, parole e armi. Scarsamente armato, quasi per niente, con il piumaggio violaceo e pervinca scuro, a tratti ceruleo e addirittura rossiccio, libero da qualsiasi sorta e forma di abito o corazza ingombrante e grave.
Portava al contrario una specie di piccola bisaccia bruna a tracolla, e una cintura di pelle piena di tasche e piccoli sacchi di tela.
Devilfenix, il Signore dell’Aria.
“Salve, Thorg. ‘Antico’ Thorg.” Lo salutò fingendo amicizia e salacemente.
“Antico? Come mai questo soprannome?” domandò alquanto infastidito e per nulla turbato dalla sua presenza il Signore della Terra.
Se vuole fare quattro inutili chiacchiere - si diceva il terricolo - non sarò io a non dargli corda. Ha perso.
“Sei vecchio dentro, Thorg. - spiegò sfacciato ma serio il Signore dell’Aria - Così legato ai tuoi eroi del passato e alle loro ambizioni…anacronistiche.”
“Non c’è nulla di vecchio, o di sbagliato, nel rifarsi ai classici. E i loro ideali sono seguiti da tutti ancora oggi.” replicò offeso Thorg. Poteva fargli di tutto, Devilfenix o chiunque altro, ma non toccare i suoi modelli del passato e offenderlo per la sua emulazione di quelli.
“Certo, certo…da tutti. L’importante è crederci, dico bene?” lo schernì per nulla convinto l’aereo.
“Che sei venuto a fare, Devilfenix? - gli chiese innervosito - A farmi perdere tempo, o a chiedere la mia pietà? E’ legittimo, dopotutto. Il tuo Popolo è sconfitto, Devilfenix. Se solo avessi usato la tua posizione per riportarlo alle sue radici, potresti essere anche dalla parte dei vittoriosi.”
“Non mi interessa del mio Popolo o di avere perso. - osò Devilfenix - Quello che conta è che sono vivo.”
“E cosa vorresti con la vita che ti sei tenuto?”
“Quest’Isola è ingiusta, e pericolosa. Ho deciso di andarmene, abbandonare questo mucchio di sassi.” queste le drammatiche e concise parole, che racchiudevano in esse tutta la detestabile personalità materialista e sfruttatrice di Devilfenix.
Pur essendo consone al personaggio, Thorg non riuscì a nascondere la sua sorpresa.
“Andartene? Andartene dove?”
“A Tato Yami. O più in là, se devo. Ovunque tranne che qui. In un posto dove possa arricchirmi, e diventare potente e famoso. Qui non c’è più strada sicura che possa prendere. Guerra e responsabilità da ogni parte, e poi tutti possono dominare gli elementi.”
Levò le mani al cielo, sognante e sorridente. Disse rapito: “Pensa. Pensa a cosa potrei fare io, con i miei potere dell’aria e la mia forza e il mio aspetto, dove nessuno può eguagliarmi. Diventerei un dio tra gli elfi, o tra le altre genti di questo mondo.”
“Questa è follia. - lo rimproverò Thorg, contrariatissimo e sconvolto da quelle parole - Saresti disposto ad abbandonare il tuo Popolo solo per diventare più ricco?”
“Certo che sì.” affermò schietto Devilfenix. Un pugno al cuore per il Signore della Terra.
“Niente mi lega a questa gente, che non può più offrirmi nulla. Se non il sangue, o le leggi. Ma le leggi sono fatte per essere infrante, è così che dicono.” riprese disinvolto.
“Tu…tu sei… - Thorg a stento tratteneva la sua rabbia - Sei il peggiore gormita che abbia mai incontrato. Il peggiore esempio di gormita dell’Aria. Con te il tuo Popolo ha davvero toccato il fondo. Non hai un briciolo di rispetto per i tuoi valorosi antenati, carichi di veri ideali e onore, che ti hanno permesso tutto ciò che hai adesso?”
“Basta! Finitela tutti quanti con questa storia dell’onore e degli antenati!” gridò esasperato e rabbioso il Signore dell’Aria. Non c’era davvero nulla di aereo in lui, oltre alla natura fisica. Era più un vulcanico, ormai.
“Non me ne frega niente, lo capite? Voi non avete ancora capito che quello che conta in vita è sopravvivere anche sfruttando gli altri, viverla al meglio che si può. Non c’è nessuno che vi giudicherà quando sarete polvere. Dimmi, Antico Thorg, i tuoi straordinari eroi e i loro straordinari valori, che fine hanno fatto? Dimmelo, coraggio. Sono morti, i loro sogni non li hanno salvati. Sono tornati polvere alla pari di tutti gli altri, compresi i criminali e i più immeritevoli gormiti che sono esistiti.”
No, almeno un vulcanico aveva un senso dell’onore e rispettava i propri simili e i personaggi del passato. Lui no.
“Vedi? Sei rimasto senza parole. - continuò Devilfenix - Non puoi negare la verità”
“Ho già perso troppo tempo con te, Thorg. Divertiti con i tuoi eroi.” parlò ancora.
Si volse, lanciando uno sguardo che il Signore della Terra non poteva decifrare alla distesa della Valle di Teunor e del Deserto di Roscamar.
“Addio, mucchio di sassi.” e volò via celere, senza più guardarsi indietro.
Thorg dimenticò presto quanto il tempo che impiegò Devilfenix a scomparire quella conversazione. Non aveva mai avuto luogo. Balle, scempiaggini, idiozie e blasfemie erano le uniche cosa che Devilfenix aveva vomitato dal suo becco indecente.
Non sfuggirono agli occhi ora più che mai attenti del Signore della Terra le luci multicolori che si formavano nel firmamento lindo di nuvole, e il fragore prima un mero tremore poi sempre più forte che accompagnava quel globo luminoso misterioso che discendeva su Gorm. Ma non gli diede molto peso.
***
La mazza ferrata dipinta di rosso colpì nuovamente la schiena di El’issam, che fu scaraventato su una roccia.
Il suo avversario gli camminava incontro, lento e sicuro di sé. Le sue ali da pipistrello erano comodamente ripiegate, sul volto un sorriso malefico, reso più oscuro dalla sinistra luce prodotta dalle sue corna verde veleno.
Il Sommo si rizzò più rapidamente che poté, scostando la polvere dalla sua armatura argento e oro, e mettendosi a posto l’elmo - corona pallido. Quasi non sentiva più le ali e la schiena, tanti i colpi subiti.
“Dovresti riconsiderare la tua opinione di colpo potente.” proferì altezzoso. Sebbene, in realtà, soffriva eccome di quell’attacco.
Obskurios spalancò la bocca divertito.
“Non l’avrei mai detto, ma non ti passa proprio la voglia di scherzare!”
Mentre la catena della mazza ferrata si riavvolgeva nell’attrezzatura del braccio monco, Obskurios schioccò la sua frusta personale, il Nero Artiglio, in direzione del volto del Sommo.
Il re di Tato Yami, contrariamente ai suoi sudditi in battaglia, non lottava mai con lo scudo circolare dipinto, la lancia lunga e arzigogolata nella parte della lama. Le uniche armi tradizionali che aveva con sé erano la spada corta, solo di rado delle lance particolari come l’asta avvelenata che uccise Lux’al.
Il suo armamento era composto quindi dal gladiolo, in quell’occasione perso in combattimento contro El’issam, la mazza ferrata agganciata all’arto reciso, e il Nero Artiglio, una frusta uncinata molto speciale e pericolosa.
Il corpo, nero lucido, era quello di cuoio di qualsiasi altra frusta, ma rinforzato senza perdere in flessibilità e con l’aggiunta di letali spini penetranti. Occorrevano anni di esperienza per ottenere la maestria nell’uso di quell’arma: ogni negligenza avrebbe potuto portare alla perdita di un occhio o a profonde cicatrici.
Obskurios era discretamente pieno di tali cicatrici, sul collo, una lunga che gli correva per attraverso l’occhio sinistro, poche nel corpo delle ali, altre che non potevano essere viste al momento; ma alla fine era riuscito a domare quello spiacevole strumento.
Difatti, la punta uncinata della frusta catturò l’elmo - corona di Luminescente III, togliendoglielo dal capo.
Per una frazione di secondo il volto e il cranio dell’attuale Sommo Signore di Karmil furono visibili alla luce del giorno. I quattro occhi, le singolari macchie, le tenaglie ai lati delle larghe labbra, la forma del viso si mostravano a Obskurios per una delle rare volte. E come sempre, per un periodo troppo minuto per poterne trarre delle conclusioni. Il Sommo riacquistò con la forza magica il proprio elmo con la stessa rapidità con la quale gli fu rimosso, e se lo ripose in capo, nascondendo di nuovo e per sempre il suo viso al pubblico.
“Tsk. - borbottò seccato Obskurios - Voi ka’nhili dite di essere così indifferenti, insofferenti rispetto a tutto; dite di estraniarvi da ogni cosa. Eppure, sei così legato a questo elmo-corona da non volertene mai separare. Questo simbolo di quello che chiami potere, ma tu non vali niente. E’ la Consulta a dominare la tua gente.”
“Non giudicare le nostre usanze senza conoscerle.” lo ammonì rigido il Sommo.
Con uguale rigidità e meccanicità, e con impareggiabile velocità, ondeggiò le due spade lunghe innanzi a sé. Ritagliò una porzione d’aria di fronte a sé dall’interno verso l’esterno con le lame tenute in linea con l’orizzonte, generando due archi di luce diretti verso il re dei gargoyle.
Ritirando le spade indietro e spingendole con forza in avanti un fascio luminoso concentrato fu sparato rapido, contro lo stesso bersaglio.
Deviando i due tagli lucenti con agili movimenti del braccio monco e sollevando un tronco d’ombra con un calcio per parare l’altro attacco, Obskurios uscì indenne dall’assalto del suo rivale.
Non si aspettava che non fosse ancora finito: la vista ostacolata dall’ombra da lui stesso generata, non vide El’issam caricare velocemente in volo contro di lui, le letali lame protese in avanti.
Con enorme fortuna, un ennesimo movimento del braccio più corazzato lo difese dal doppio affondo di Luminescente III, e non solo. Strattonando il solito arto, una delle due spade rimase conficcata nel legno che costituiva parte dell’attrezzatura per la mazza.
Fece indietreggiare il Sommo, tornato coi piedi per terra, con un calcio all’addome. Estrasse la spada incastrata, la tenne sospesa per il lungo di fronte a sé.
Pressandola alle due estremità con la forza magica, la spezzò sonoramente e nettamente come non sarebbe stato altrimenti possibili. Scagliò a ugual modo le due parti, entrambe pericolose, contro il Sommo.
Questi respinse il lancio ostile con una scia lucente dal suo pugno libero. Commise però lo stesso errore di Obskurios di un attimo prima, ostacolandosi la vista con la forza magica.
La luce si dissolse abbastanza velocemente per El’issam per vedere Obskurios avanzare volando per collidere con lui. Esattamente come aveva fatto il Sommo.
Quest’ultimo si dimostrò più accorto: si librò in aria, alzandosi verso l’alto, sfuggendo per un soffio all’impatto con le corna del re, che andò a rovinare clamorosamente nella sabbia.
“Obskurios, a che pro continuiamo a combattere? L’Occhio della Vita non è più.” domandò esausto il Sommo, approfittando finché poteva dell’antagonista temporaneamente fuori gioco.
Il gargoyle vangava furibondo nella sabbia con le braccia, tentando alla rinfusa di tirar fuori la testa e la parte superiore del dorso, intrappolate nella caduta.
Un’onda buia e ampia fu espansa dal suo corpo con un largo movimento del braccio, mentre quello finalmente riusciva a evadere. Tuttavia l’attacco fu dato alla cieca, ed El’issam non dovette nemmeno spostarsi per non essere colpito.
“La guerra per l’Occhio della Vita è finita. - concordò, sputando della polvere impastata in bocca, il re nero - Questa è una guerra tra noi due, e non finirà finchè non ne rimarrà solo uno. E sarò io.”
Obskurios fu zittito una seconda volta. Mentre quello si rialzava e parlava, Luminescente III aveva caricato due sfere di luce parecchio ampie da entrambe le mani, e spintole in avanti. Procedettero obliquamente per la loro strada, attirate dal loro unico obiettivo come chiodi a un magnete, che non mancarono di abbattere.
Ecco che di fronte al sovrano di Karmil si apriva l’opportunità per uccidere una volta per tutte il suo antagonista per eccellenza. Una lama nel suo cuore, o attraverso il suo collo, e la lotta che infuriava tra le due genti esiliate, scoppiata anni e anni or sono per motivi che a nessuno erano chiari come un tempo, sarebbe potuta finire. Precisamente come la discordia interna a Gorm per il dominio o l’abbandono dell’Occhio della Vita.
Qualcosa di nuovo, una sorgente luminosa proveniente da sopra di lui, catturò la sua attenzione, distogliendolo dalle intenzioni assassine per il suo nemico mortale.
Un oceano di colori attorno a un corpo centrale di luce bianca che si spandeva e spandeva nel cielo blu turchese del pieno giorno, e più scendeva più il suo perimetro perdeva definizione e si confondeva nell’azzurro limpido della volta celeste.
Non accese in lui alcun fascino, alcun interesse, né paura. L’unica cosa che lo infiammò fu la volontà di scoprire di cosa si trattava, capirne il funzionamento, la natura, cosa lo aveva generato.
In pochi secondi di analisi di quello spettacolo celeste, El’issam giunse a una tremenda conclusione, proferita nel vuoto di quello spiazzo desertico con spontaneità e senza terrore.
“Gorm è in pericolo di essere distrutta. Da un mesh’ag.”
“Che cosa stai dicendo? Parla chiaro, una buona volta.” scoppiò a gridare Obskurios, stremato, avendo udito le parole di El’issam.
“Un mesh’ag. Una meteora, un corpo roccioso vagante per il vuoto in cui viaggiano Mitera fissa e tutte le stelle e le lune e Nejema in cerchio. Diventa un dardo infuocato quando entra nel cielo di un astro più grande, e i suoi effetti quando tocca il suolo sono devastanti.”
“Staremo a vedere, se sarà devastante come me quando ti strapperò la testa a morsi.” ringhiò Obskurios.
“Non avrai opportunità di paragone. - obiettò il Sommo, confidente e freddo - Volerò verso l’alto, un’altra volta, e fermerò questo mesh’ag. Devierò il suo corso, non so bene cosa farò, ma non cadrà qui.”
“Tsk! E vorresti farlo tu? - lo derise, a dire il vero stupefatto sotto il suo sorriso di scherno, Obskurios - Non hai la forza nemmeno per sollevare un sasso con le tue sole mani, figuriamoci fermare una stella cadente.”
“Non è una stella cadente. Le stelle non cadono.”
“Qualsiasi cosa sia, morirai e i tuoi sforzi saranno vani.”
“E’ probabile. - concordò - Tuttavia, non rimarrò qui ad attendere la fine. Se è questa l’occasione in cui mi riunirò ad Aru Ra’vima, sia. Ma lo farò salvando coloro a cui ho giurato alleanza.”
El’issam se ne volò via senza ulteriori parole, ponendo una drastica fine all’ultimo degli scontri nella Valle di Teunor.
Obskurios osservava basito il Sommo allontanarsi e dirigersi verso quel globo luminoso, immerso nei suoi pensieri.
Si rialzò, massaggiandosi la schiena e il fianco doloranti. Possibile? Era davvero un mesh’ag, come lo chiamava El’issam, diretto verso Gorm a portare l’annientamento totale?
Perché proprio ora? Non era curioso, inquietante che il giudizio finale arrivasse proprio nei momenti successivi al rifiuto, alla distruzione dell’Occhio della Vita?
Obskurios non voleva crederci: doveva essere qualcos’altro. La sua esistenza non poteva terminare così, lontano dalla propria casa, dalla propria consorte, nel bel mezzo di una battaglia interrotta contro la sua volontà. La sua esistenza non poteva affatto finire, e se era vero che quella era una meteora portatrice di morte, se El’issam fosse stato miracolosamente in grado di fermarla, l’idea di essere salvato proprio da lui lo riempiva di disgusto. Un coraggio sbalorditivo, non c’è che dire, che Obskurios non sapeva se avrebbe mai potuto pareggiare, quel giorno come i futuri. Se ce n’erano ancora.
Una mano silenziosa gli si appoggiò sulla spalla, facendolo trasalire.
“Ah, Pantiavros. - si rilassò Obskurios, riconoscendolo - Mi hai spaventato. E’ tutto a posto tra le mie fila? Quanti ka’nhili hai sgozzato?”
“Avete poco da scherzare.” lo rimproverò Pantiavros, leggendo in quella parole divertite un tentativo di evasione dal dubbio della realtà. E poteva farlo anche duramente, essendo stato il suo tutore e maestro da piccolo, il consigliere di suo padre e il suo attuale.
“Avete visto o no quel dannato…coso? - e lo indicò preoccupato e seccato dalla mancanza di interesse del suo re - Una meteora, dicono. I gormiti parlano di una punizione divina. Nessuno, e dico nessuno sta facendo qualcosa per capire che cazzo succede.”
“E allora? - domandò innervosito Obskurios - Che cosa credi possa fare se è davvero una meteora? Dovrei sfracellarmi su di esso?”
“El’issam ci sta almeno provando, per aiutare anche noi.” gli fece notare Pantiavros.
“El’issam è un pazzo.” obiettò borbottando il re, rifuggendo dallo sguardo del suo secondo e voltandosi a braccia incrociate.
“Un pazzo con del coraggio, lo dovete ammettere.”
Pantanera gli si avvicinò, mentre il re rimaneva muto, e gli sussurrò: “Andate con Luminescente III.”
Obscurio non era per niente sicuro. Strabuzzò gli occhi, pensando a se stesso che si schiantava contro quel bolide infuocato, e a tutte le cose che si sarebbe perso morendo così giovane. Tuttavia, se era davvero quello che si temeva fossa, il suo destino era sempre lo stesso.
“Dimostrategli che avete la forza e il coraggio di affrontare qualcosa di superiore! - continuava con più violenza Pantiavros - Anche se Sommo morrà, verrà ricordate per sempre per aver compiuto quest'impresa eroica. Sì, perché nessuna meteora ha mai distrutto un’intera città: ci saranno sopravvissuti.” spiegò.
“Voi invece, rimanendo qui con le mani in mano, verrete dimenticato, anche vivendo per milioni di anni!”
Lo guardò negli occhi, tenendolo stretto per le spalle tra le tue forzute e nude braccia nere. Pantiavros e la sua austerità penetrarono violentemente negli occhi incupiti e spaventati di Obskurios, e quelli si persero nello sguardo del viceré, sprofondando nel mare di rigore che si muoveva tempestoso in essi
“Volete questo, re?”
Per un momento Obskurios sospettò che lo stesse mandando al macello per prendere il suo posto come sovrano. Ma no, non era possibile: era una persona fidata, quasi di famiglia, e durante il regno di suo padre aveva avuto più di una possibilità per spodestarlo. Ed era sempre rimasto fedele al fianco della famiglia reale.
“Volete questo?! Rispondetemi!” lo scuoteva con tutta la sua forza.
“NO!” urlò Obscurio con tutta la sua rabbia. In meno di un secondo Pantiavros lo ritrovò alto nel cielo, che gli parlava.
“Se non dovessi tornare, riporta a TatoYami il mio...il nostro popolo, e di’ a Karmilla che per lei ci sarò sempre!” E con questo volò via, verso il Sommo e verso la meteora.
Nessuna esitazione lo fermò e lo fece dubitare delle sue intenzione da quando abbandonò la precaria sicurezza della superficie per volare con la magia e le grandi ali nella totale assenza di sicurezza del cielo aperto, diretto a velocità sorprendente e spinta contro la stella cadente.
Non avrebbe smesso di chiamarla così. Un corpo roccioso che vagava nel vuoto? Non aveva nulla di roccioso, abbagliante, sfuggente e variopinta com’era.
Le stelle non cadono? Eppure ruotano nella grande volta, si muovono ciclicamente all’interno della sfera cava e buia che trattiene Mitera e gli altri astri maggiori, separata e chiusa a tutti gli altri mondi, il cui unico modo per accedervi era con i varchi spaziali.
Chi può dire che qualcosa o qualcuno non sia stato in grado di raggiungere la stella e smuoverla dalla sua traiettoria, abbatterla e spingerla verso il mondo del Grande Golfo?
Avvicinandosi in tempi record al Sommo e al nocciolo abbacinante fu ancora più sicuro di prima che si trattasse di una stella strappata dalla sua giusta sede da una forza ostile.
“Tu!” gli parlò enormemente sorpreso il Sommo Signore, mentre quello, caricatosi di un coraggio superiore alla sua voglia di vivere, viaggiava con maggiore fluidità di El’issam e lo aveva superato nella corsa alla stella - meteora.
“Che ci fai qui?!”
“Non permetterò a questa stella di distruggere l’Isola...e nemmeno che distrugga te: sarò io a ucciderti!"”
Insieme, si diressero, mani in avanti, contro l’astro morente cercando di respingerlo. C’era qualcosa di strano, di anomalo e quasi di sbagliato in quel fenomeno, lo intuirono entrambi.
Non andava per niente veloce, nonostante da terra sembrasse ingigantirsi spropositatamente, apparentemente per la velocità incredibile a cui stava viaggiando, quasi esso stesso volesse andare piano. Il cuore candido centrale era anche piuttosto piccolo, molto piccolo rispetto a come sembrava.
Impalpabile era alle mani dei due sovrani, sfuggiva dalle loro dita come fumo e lasciava di esse una sensazione di umido come fosse acqua. A nulla sembravano servire i poteri della luce e dell’ombra: nulla lo arrestava.
Un calore soffocante li intrappolò. Entrambi cominciarono a espellere una pioggia di sudore incontrollabile, e ad ansimare per uno sforzo che non stavano compiendo, mentre nei loro occhi si imprimeva una strana immagine, una visione contorta: tre cerchi e uno.
I loro muscoli si agitavano da soli: Obskurios percepiva le sue ossa ingrandirsi da dentro di lui e fare breccia nella pelle, riversando fiumi di sangue.
Il contrario per El’issam: il suo esoscheletro si crepava e si spezzava, mentre muscoli e organi mutavano sotto di esso e chiedevano più spazio di quanto ne fosse disponibile.
L’anomala trasformazione che stavano subendo raggiunse l’apice con un estremo dolore che soffocarono entrambi con urla strazianti e gesti che nessuno dei due si era mai sognato di fare.
Insopportabile il calore e la pienezza che provava. Obskurios si strappò gridando tutti i pezzi dell’armatura, facendola a brandelli con feroci attacchi di ombra e agitando come una bestia in trappola ogni arto. Lo stesso valeva per El’issam, i cui precetti ka’nhili non potevano confortarlo dalla micidiale straordinarietà di quello che stava succedendo al suo corpo.
Fu il turno della mente. Una forza incontrastabile e dolorosamente perforante originata dal nucleo rotondo bianco della meteora penetrò con una facilità impressionante le difese mentali per altro stremate di Obskurios e di Luminescente III.
Parole di una lingua arcana e sconosciuta, proferite senza emettere alcun suono ma che rimbombavano come campane nella testa dei due sovrani.
SONO L’OCCHIO DELLA VITA. ABBRACCIATE LA TERZA ONDATA.
La mutazione stava raggiungendo il suo termine: sotto gli occhi increduli di Obskurios, l’attrezzatura al moncherino si spezzava da sola. Il braccio…il braccio gli stava ricrescendo! Un arto nuovo, uniformemente robusto, di una lucida scorza verde veleno uguale alla lucentezza delle corna, con quattro dita uncinate. Le corna in questione anch’esse mutavano, assumendo una forma a spirale e trasportando la punta aguzza rivolta in avanti, quasi all’altezza della mandibola.
La sua pelle si faceva nera come la notte senza stelle, e le sue ali cambiavano fattura, divenendo bianche avorio, più larghe e spesse, dentellate all’estremità.
Il Sommo El’issam non si capacitava delle due braccia piccole e ausiliarie, scoperte dalla corazza recisa, ridursi fino a scomparire, mentre gli avambracci degli arti superiori maggiori accrescevano la loro durezza e la loro dimensione. Tutto il suo esoscheletro si ricomponeva dalle fratture immediatamente precedenti, assumendo un nuovo e agghiacciante colorito violaceo. Per compensare la perdita delle braccia, nonostante non le utilizzasse mai, un secondo paio di ali crebbe al di sotto delle già presenti, ed entrambe le coppie cambiavano di forma e colore, ora ambra e più allungate e sottili, per permettergli un volo senza problemi.
La trasformazione era conclusa. L’onda di energia li travolse senza più toccarli, e andò ad adagiarsi dolcemente, senza alcun impatto distruttore, solo un’accecante esplosione di luce che si propagò per tutta l’Isola, al largo della Valle di Teunor, vicino allo Stretto.
Sei frammenti di cristallo, nel fulcro dell’impatto. L’energia li invase in modo diverso: crebbero in dimensioni e spessore, e mutarono di colore, ognuno differente, attribuendo forme sferiche.
Una sfera vermiglia, una scarlatta, una turchese, una ambra scuro, una smeraldo, una zaffiro.
La loro unica influenza sugli esseri viventi si fece immediatamente sentire, sebbene l’onda di luce annebbiasse la vista di qualsiasi creatura, non ancora dissipata.
Gruppi di insetti, di lucertole e topi del deserto, di corvi e avvoltoi che si cibavano di cadaveri, tutti quelli che si trovavano nelle immediate vicinanze, accorsero attirati dall’irresistibile richiamo al luogo dove presero forma i sei nuovi cristalli sferici, incapaci di muoversi di moto proprio, e si lasciarono dagli animali raccolti trasportare verso i cuori di ogni Popolo.>>

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Capitolo 37
*** Capitolo 17.1 ***


“Uhm, devo darmi una regolata. Mi lascio proprio andare, dilungo troppo e faccio dei sermoni pesantissimi.” Disse il Cronista, dando un’occhiata al proprio orologio, le cui lancette dall’inizio della lezione avevano viaggiato fin troppo. I due studenti erano di altro indirizzo.
“Be’, è stato intenso.” Fece Osmaniu ghignando, le mani sulle ginocchia, agitato e a stento rimanendo fermo in quella posizione con la schiena piegata in avanti.
Il padre immaginava sicuramente l’intensità fosse per lo più dovuta ai racconti delle lotte e alle mirabolanti capacità militari dei gormiti, singoli e in comunità. Presagiva opinioni negative al proposito da parte di Lafivias, ancora intenta a scribacchiare rapidissimamente sul suo blocco note, provocando una continuazione di un discorso iniziato e interrotto alcune lezioni prima, ma di certo non concluso.
Invece, questa volta, la figlia di Atarros era tutta dalla parte del fidanzato, incredibilmente.
“Intenso a dir poco. – soggiunse raggiante – È…meraviglioso rivivere questi episodi della nostra storia, anche se non certo felici, rivivere le imprese dei nostri avi, le loro emozioni di fronte alle novità dei gargoyle e dei ka’nhili. Siete davvero incredibile, maestro.”
Il Cronista arrossì per davvero e in maniera molto visibile, cosa assai difficile da raggiungere per un gormita vegetale. Come un bimbo a cui fanno un meritato e atteso complimento per una bella cosa che ha appena fatto, si ritrovò a grattarsi la nuca sorridendo in un atteggiamento davvero molto innocente, dicendo: “Be’, grazie. Grazie…grazie davvero.”
Non riusciva a dire altro, in quel momento. Il complimento della terricola lo aveva colpito molto.
“La scienza dietro quelle armature dev’essere…uah. – fece Osmaniu. Si alzò e si portò le mani alla testa, immaginando se stesso all’interno di un’armatura dorata, probabilmente – Sono state utilizzate ancora, dopo, vero?”
Il Cronista annuì: “Vedrete.”
“Fa anche un po’ paura. – replicò Lafivias, al che l’entusiasmo del compagno si spense un poco in un sospiro; si immaginava qualche assurda riflessione sulla correttezza etica o chissà che cosa da parte di lei riguardo quelle armature, uccidendo l’enfasi della loro inequivocabile potenza – Voglio dire, sono state realizzate dai ka’nhili, alieni per noi, per i gormiti. E funzionavano! La loro conoscenza del nostro corpo, che è in gran parte sconosciuto anche a noi, non può non spaventare. Almeno un pochino.”
Osmaniu sollevò il capo interessato. Contrariamente alle sue aspettative, il discorso di Lafivias lo interessava. Fu lì lì per aggiungere la sua opinione, quando la più che amica riattaccò, con un altro argomento.
“Le riflessioni che avete messo in bocca a Opale Nero, poi, le ho davvero apprezzate molto. Non sempre gli stregoni pensano davvero a quello che fanno quando operano con la magia. Che stanno sfruttando qualcosa che non comprendono davvero, che qualcuno di superiore ha compreso e ci ha dato il potere di utilizzare, per chissà quale motivo. – fece una pausa e si guardò intorno un po’ imbarazzata dal tono e dall’indirizzo delle sue parole – È-È un discorso che si può…estendere un po’ a tutto, credo.”
“Molto profonda come cosa. – dovette ammetterle (al che sorrise) il Cronista – Sì, è proprio vero che gli uomini molto spesso, o quasi sempre, e soprattutto noi gormiti, credono di avere il mondo sotto il loro controllo, senza leggere dietro le righe, e capire che tutto quello che possiamo oggi lo dobbiamo a chi, prima di noi, si è veramente impegnato per capirlo, il mondo.”
“Gli Aborigeni…” dissero in coro il Cronista e suo figlio Osmaniu. Entrambi si interruppero e scese un disagevole silenzio nell’aula.
“Vai, vai, papà.” Lo invitò il figlio, con un gesto della mano.
“No, no. Di’ pure quello che hai da dire.”
“Maaa, non è niente di che.”
“Parla.”
“Be’, voglio solo dire che gli Aborigeni sono sempre stati un mistero per noi (e non solo noi) ma con la loro magia ci abbiamo conviv…convissuto? Suona male…insomma, ci conviviamo e ci siamo migliorati, e adesso il mondo, questa parte di mondo, almeno, è unita, grazie anche alla magia. Non ci siamo mai fatti troppi problemi al riguardo di chi siano veramente e di cosa vogliono, non penso sia un bene farcene ora, che si sta così bene.”
Scese nuovamente un insolito, irrequieto e nervoso silenzio che non piacque a nessuno dei tre, dei quali nessuno, per un certo tempo, riuscì a trovare la forza di romperlo. Non continuando il discorso, almeno, che sembrava condurre a ragionamenti fin troppo complicati e ‘caldi’. Giacché Lafivias, alla fine, disse: “Devilfenix, comunque, si dimostra di nuovo un vero e proprio…hm, non vorrei dire parolacce. Anche se non si tratta di quello vero, mi dà davvero fastidio quello che fa e quello che dice. Anzi, come lo dice. Perché la sua filosofia di vita…c’è della verità, nelle parole che ha detto a Thorg. Secondo me, eh.”
“Lo credo anch’io. – assentì Osmaniu facendo di sì con la testa – Recuperare il passato è bello, cioè, fa bene, è utile. Ma Thorg, almeno a parole, lo ha portato all’esagerazione. È davvero un vecchio, ‘Antico Thorg’, da questo punto di vista. Anche se ha fatto comunque grandi cose.”
Lafivias fu un pelo contrariata. Pensò il Cronista che il suo parlare di Devilfenix non era tanto riferito alle accuse rivolte all’anacronismo dell’ex-Signore della Terra, quanto alla sua dichiarazione: Voi non avete ancora capito che quello che conta in vita è sopravvivere anche sfruttando gli altri, viverla al meglio che si può. Non c’è nessuno che vi giudicherà quando sarete polvere. Dimmi, Antico Thorg, i tuoi straordinari eroi e i loro straordinari valori, che fine hanno fatto? Dimmelo, coraggio. Sono morti, i loro sogni non li hanno salvati. Sono tornati polvere alla pari di tutti gli altri, compresi i criminali e i più immeritevoli gormiti che sono esistiti.
Tuttavia ella non si impose il discorso si chiuse lì. Definitivamente quando Osmaniu attaccò dicendo: “Ma poi, vogliamo parlare degli scontri tra il Sommo e re Obskurios? I loro attacchi di parole e di spada…la lotta sulle bestie, e quel mostro di Tato Yami, e il loro volo per fermare la meteora. E Karmilla. Chi è Karmilla?”
“Di questo ne parleremo la prossima volta. Forse non avrete nemmeno bisogno di chiederlo. Pazientate. – il Cronista diede un’ulteriore fugace occhiata all’orologio – Credo, comunque, che…”
“E quella visione dei tre cerchi e uno? – si aggiunse Lafivias – Esattamente come quella avuta da Magor, e da Buferios, e quelle incisioni nella Fossa. Le inserite apposta o qualcuno le ha viste davvero?”
“Qualcuno le ha viste davvero, e il loro mistero ha colpito anche me, ma io sono uno storico, non un cacciatore di leggende. Stavo dicendo…”
“Quando ci direte della vera storia dei ka’nhili e dei gargoyle?” fece ancora la terricola, invero piuttosto insistente.
“Un’altra volta, per favore. È davvero tardi. – tagliò corto il Cronista, senza, però, si accorse, un valido motivo; lui del resto non doveva scappare da nessuna parte – So che ci sono molte altre cose di cui parlare. Magor ed il Vecchio Saggio, ad esempio, quello sì che è importante. Ma ormai ci stiamo avvicinando alla fine, ragazzi. La fine di Magor e del Vecchio Saggio, e dell’Occhio della Vita. Alla prossima lezione molti segreti non saranno più tali. Anche prima, magari, se vi informate in qualche biblioteca. Non sono certo cose che non conosco solo io. E ora, su, andate e divertitevi, Atarros non vuole che ti trattenga troppo, Lafivias.”
“D’accordo, maestro. – accettò quella – Domani è asildie. La prossima lezione è di menumdie…alla decima ora? O all’undicesima.”
“Così presto? Be’, come vuoi tu. All’undicesima va bene.”
“Va bene. Allora, ci vediamo, maestro.”
Non appena i due stettero per varcare la porta della sala, il Cronista ebbe in un lampo una rivelazione, si dette uno schiaffo e li fermò, urlando: “Fermi, aspettate! Lafivias, non ho dimenticato la tua richiesta di qualche giorno fa. Sono riuscito ad ottenere una visita a Patmut Iun, tutti e tre, per domani. Ci state?”
Lafivias gli si gettò letteralmente al collo.
“Oh, maestro! Siete davvero…un asso!”
“Ehi, ehi, piano! Ah, ah! – rise il mentore, scostandola delicatamente – Piano con questi ringraziamenti. Dovresti prima farti dare il permesso da tuo padre. Poi puoi abbracciarmi quanto vuoi.”
 
Si trattava della seconda volta che il Cronista tornava nella casa della sua gente dopo il suo ritiro nella fiorente Garsomor – la prima, una fugace comparsa per mezzo di un varco spaziale costatogli molto caro, ma il sale nero non gli mancava, per ottenere il permesso per la visita. In entrambi i casi, la sua presenza si era limitata e si stava limitando a un luogo particolare, e nessun ritrovo con le solite facce che fino a due anni prima era solito incontrare, sorridere loro e salutare, mentre ora, se le avesse per un caso o per un altro incrociate – e vista la tradizione nomade, ciò era improbabile – le avrebbe sicuramente ignorate. Tranne forse Ederus. Lui, sì, l’enigmatico Ederus l’avrebbe incontrato volentieri, si sarebbe fermato da lui per un chiacchierata, sarebbero andati a far baldoria, perché no, il Cronista era vecchio ma non debole, in qualche locale, come due giovani amici.
Tuttavia non era quello il momento per un simile incontro. Non era quello il giorno. Quando si sarebbe preso delle ferie, magari, al termine delle lezioni di storia per Lafivias – e chissà con quale scusa Atarros gli avrebbe permesso di soggiornare nel suo palazzo, a quel punto?
Ritornare in quell’ambiente che era stato la sua dimora per lunghi anni, il rifugio d’amore di lui e della sua unica compagna di vita, non gli aveva procurato alcun sentimento insolito. Non si poteva però nemmeno dire che era come se si sentisse a ‘casa’, a Garsomor. Nel palazzo signorile respirava un’aria salubre, amichevole, familiare, sicura e rassicurante. Nulla di questo lì, nei pressi dell’entrata a Patmut Iun. In soli due anni di vita altrove – e ne aveva vissuti di anni fuori da Gorm, in luoghi che ben pochi gormiti hanno calpestato –  Dalarlànd aveva perso la connotazione di casa per lui. Nemmeno, comunque, era lecito dire che si sentisse in un luogo a lui sconosciuto e diverso.
Era una strana sensazione, non completamente di disagio ma nemmeno di apatia.
Il passaggio non più segreto per il sotterraneo Museo della Ricerca Storica era ben diverso da quello descritto nei suoi racconti ai giovani della sua vecchia radura e a Lafivias e ad Osmaniu nelle addobbate sale del Tempio di Roccia. Un semplice, grosso masso ricoperto d’edera e muschio e licheni, anonimo e senza pretese, nel mezzo della Foresta, che alla melodia di parole d’ordine periodicamente modificate si apriva come si apre un cancello per condurre ai piani sotterranei. Questo in precedenza. Nell’odierno 931, e già da diversi decenni, solerti gormiti della Foresta – probabilmente con l’aiuto di terricoli – avevano preso la roccia dal suolo e dalle cave della Città Sotterranea e di Picco Aquila, l’avevano modellata e ne avevano fatto un imponente arco di marmo, decorato con altri minerali preziosi, sobrio nella forma e nella composizione ma comunque grandioso, sormontato da una scultura a dimensioni ridotte di Patmut, colui che insegnò ai gormiti a leggere i segni del cielo, del mare e della terra, il dio dalla maschera di piovra.
I semidei della tradizione, nell’iconografia tradizionale, avevano davvero un aspetto e degli addobbi, se così si può dire, quanto meno singolari, se non addirittura alieni. All’interno del tempio di Patmut, il Cronista poté notarlo – o meglio, rammentarsene – con maggior dettaglio. Difatti, tra le pareti finemente incise di date, di nomi di personaggi, di figure stilizzate, di frasi criptiche e cariche di misticismo, tra gli archivi di tavoli e di libri, prima della sala che ospitava il grande telescopio e, alle sue spalle, l’immensa muraglia che elencava le costellazioni, i loro titoli e i nomi delle stelle e gli altri corpi celesti, vi erano sculture a grandezza naturale dei Semidei.
Grandezza naturale? Certo, e io sono un cavallo. Che cosa assurda.
Era curioso come i gormiti tra loro dissimili avessero immaginato figure di divinità che, al contrario, erano tutte uguali tra di loro, fisicamente, tranne per le diversità di genere. Esseri alti, dalla carnagione rosa acceso priva di pelo – anche se nelle grigie sculture questo particolare non era realizzato – con una lunga coda, quattro dita per mano e per piede, piedi che avevano tutto l’aspetto di mani con le dita pareggiate e il pollice spostato più indietro e lateralmente, e gambe arcuate come quelle dei mammiferi di montagna; gonnelle di pizzo per le donne e ciripà per gli uomini a coprire le nudità e un ombelico, entrambi elementi assai ‘sospetti’ per divinità di una civiltà di rettili che non avevano motivo alcuno di nascondere i propri attributi; strane spalliere rotondeggianti naturali, tanto simili a quelle di Magmion, e ali piumate bianche meglio descritte dall’aggettivo ‘improbabile’, per forma e dimensioni e per un effettiva possibilità di volo. Infine, i loro volti, dalle labbra in su, erano un mistero. Nessuno, in nessun mito o libro sacro, li aveva mai raffigurati o anche solo pensati con i loro visi sprovvisti di quei peculiari copricapo, o meglio, quelle maschere, che erano il loro unico segno di riconoscimento: di piovra per Patmut, di squalo per Davon, di lupa per Asili, di cervo per Fendril, di formica per Celeles, di ariete per Krut, di pipistrello per Melis, di falco per Praconrem, di serpente per Menumia, di cinghiale per Travor. Le maschere, e le armi, o utensili, che essi portavano, diverse per ogni semidio, su cui il Cronista non si concentrò, erano ciò che li differenziava l’uno dall’altro. Oltre a tatuaggi dei colori dell’elemento e monili vari quali bracciali, orecchini, anelli, collane, collari, e molto altro, di questo o quel materiale, di quella forma, disposti in tal modo e in tal numero, su cui però la tradizione non dava fissità.
“Ehi, papà.” Lo chiamò Osmaniu, ripetutamente. Stava indicando tremante un manufatto conservato nel tempio.
“È davvero…davvero quella?” continuò, estasiato.
“Sì. – affermò, bastandogli una sola occhiata dell’allungata arma a due punte – È proprio la Lancia dell’Oblio.”
“Uah. È stata sempre tenuta qui?”
“È stata utilizzata nelle Guerre di Riconciliazione. Ti consiglio di non avvicinarti troppo.”
“Perché?”
“Tu non farlo.” Gli consigliò ancora, freddamente, il genitore. Osmaniu acconsentì spaventato, e continuò ad osservare ammaliato la tremenda arma di lucido metallo dalla raffinata fattura da lontano, le mani dietro la schiena.
Passarono all’incirca un’ora, in genere nel più completo silenzio, osservati dalle – poche – gelide guardie del luogo, guerrieri mystica forti di allenamenti in tutte le arti del fare del male a qualcuno, e per lo più ignorati dai curatori delle profezie e degli annali, che parlavano loro, con gentilezza anche, solo quando si facevano loro delle domande. Osmaniu si perdeva tra la Lancia dell’Oblio, un’armatura Neor’gani danneggiata e altri manufatti magici; Lafivias, da storica per passione, aveva occhio solo per gli annali di Gorm, e non dava peso alle migliaia di profezie. Il Cronista, dal canto suo, leggeva queste ultime con misto di interesse mistico e scettico divertimento, insicuro se credere o meno, e quanto, alla verità scientifica di quelle previsioni. Non riteneva la storia come ciclica, e la tecnica delle profezie, in parte, lo ammetteva.
Mentre rileggeva la profezia relativa al Vecchio Saggio, di come si era collegata la posizione della costellazione della Falce a metà tra Greemerald in fase di piena e Tealoo nascente, ripresentatasi in concomitanza con scosse di terremoto sia per il ritorno della prima spedizione vulcanica a Tato Yami che per l’arrivo di Razael, un improvviso e intenso rumore colse l’attenzione di tutti.
“Sì!” gridò un curatore addetto al telescopio, quasi cadendo dalla sua postazione e creando un caos immane. Si appiccicò a una parete e prese a incidere delle scritte. No, erano dei disegni.
“Le stelle distanti si sono allineate con le tre lune! – vociò – La costellazione del Cappio e l’ammasso di Farcuan…tutto collegato, significa che il tempo è giunto! Ci sarà un grande terremoto! Il cielo si squarcerà, come una pergamena quando è aperta, ed ogni montagna ed ogni isola saranno rimosse dai loro luoghi. Tutti gli abitanti, allora, ogni libero come ogni schiavo, si ritireranno nelle caverne della terra, e grideranno alle montagne: ‘Crollateci addosso, e nascondeteci dalla presenza dei quattro, i Signori della Natura dall’Altro Mondo, e della loro Rovina.’ E non è finita! Il ribelle antico solleverà il suo capo, si ergerà tra gli abitanti, annienterà gli altri antichi e combatterà contro i quattro e la Rovina con gli abitanti a cui svelerà il loro destino. Poiché i padri degli antichi verranno, e il loro destino per noi, gli abitanti, è buio come la notte. Colui che registra le cose che sono state, saprà le cose che saranno. A lui apparirà il ribelle antico prima che venga il giorno della sua ascesa, e le sue parole saranno profezie.”
Bah. C’era da aspettarselo che usassero l’oppio per questo nonsenso.
 
<< All’avvicinarsi della sera, un vento insolitamente freddo aveva cominciato a soffiare sul Deserto in prossimità delle mura, ancora lontane, che circondavano la capitale del Popolo della Terra.
Cumuli di sabbia volteggiavano fantasiosi sovra gli accampamenti ristabiliti delle forze stanche, affascinate, spaventate, cambiate capitanate da Obskurios il re di Tato Yami e il Sommo Signore Luminescente III di Karmil, cumuli che andavano ad adagiarsi su e ad appesantire i teli che coprivano le tende e ad irritare gli occhi delle guardie appostate fuori e dei soldati svegli che girovagavano fuori dai padiglioni.
Il disco ambrato di Nejema scompariva sempre di più dietro il mare ad ovest, nascondendosi tra le verdi colline di Dalarlànd, e donava la sua luce alle tre lune per illuminare la notte in vece sua.
Il gelido clima della tarda serata desertica, seppur più mite grazie alla vicinanza con un ambiente meno ostile, stava prepotentemente prendendo il posto dell’arsura diurna.
El’issam, nudo sul suo giaciglio dentro la tenda riscaldata, a gambe incrociate e con un’unica mano tesa in avanti, aperta, non soffriva del cambiamento della temperatura né delle deboli raffiche sabbiose. Le pareti della sua tenda che ondeggiavano ripetutamente erano l’unico segnale delle condizioni atmosferiche non del tutto pacifiche che imperversavano all’esterno.
Accendeva e spegneva a intermittenza il fuoco nella sua mano. Un fuoco vermiglio come il sole che stava tramontando in quel preciso momento, un fuoco che non lo bruciava, nonostante sorgesse direttamente dal suo palmo violaceo.
L’Occhio della Vita era ritornato su Gorm, si era separato in sei pezzi tutti ugualmente pericolosi, e aveva rilasciato un’ondata di un’essenza di natura aliena e dalle molteplici capacità.
Aveva cambiato i gormiti. Non tutti, solo alcuni casualmente scelti dall’energia neozon scoppiata quando l’Occhio si era distrutto, e non solo nella regione dove si era appena svolta la battaglia. L’ondata si era espansa praticamente a tutta l’Isola, a tutte le altezze: aveva ricevuto notizie che trasformazioni si erano verificate lungo ogni area di Gorm, sopra e sotto la superficie del mare.
Di gargoyle e ka’nhili mutati come il re nero e lui nemmeno l’ombra. Solamente loro due erano stati cambiati.
Luminescente III si sentiva diverso, solo. I suoi sudditi e la Consulta gli avevano garantito obbedienza come in precedenza, ma ciononostante continuava a sentirsi turbato, nella modalità tipica degli apatici karmiliani.
Non gli importava che anche ai gormiti fosse successa una cosa simile, che non tutti loro si trovassero a loro agio con i nuovi corpi e le nuove abilità donategli dall’Occhio della Vita. Erano abituati, avevano detto alcuni, era già successo che l’Occhio fosse origine di fenomeni come quello, anche se nessuno che fosse in vita potesse ricordarlo, dicevano.
Lui, al contrario, non era avvezzo a tutto questo. Trasformazioni – basta ricordare la mystica, ancora irrisolta – poteri dalle grandi potenzialità distruttive che si comandano col pensiero e che succhiano una quantità davvero esigua delle proprie riserve di energia.
Il fuoco ardeva senza produrre fumo dalle sue dita. Gli riusciva estremamente facile, spontaneo, bruciare le proprie forze a quel modo, come se nel profondo avesse sempre avuto quell’abilità.
Spense le fiamme. Perché l’Occhio della Vita gli aveva dato quel potere? Il fuoco. Il potere del nemico. Non era forse scorretto utilizzare la stessa arma che i giurati nemici adoperavano per razziare e per uccidere? Peggio ancora, poteva essere visto come una dichiarazione indiretta della superiorità delle armi del nemico, della necessità di usufruirne, l’unico modo possibile per vincerlo.
Che intenzioni aveva quel maledetto oggetto incantato? Che fosse una tentazione, una prova da superare? Ma l’Occhio, gli Occhi della Vita, adesso, qual era il loro segreto? Perché facevano quel che facevano? Un meccanismo insito completamente naturale, un’azione e una reazione. Oppure esso aveva una sua identità, una coscienza e una personalità e agiva puramente in base ai propri capricci. Gli aveva parlato, dopotutto, così come al Vecchio Saggio. Così gli aveva detto.
Il drappo all’entrata fu scostata di scatto e rapidamente un ka’nhili si posizionò dentro, richiudendo l’uscio.
El’issam sussultò, più contrariato che spaventato. Non tanto perché fosse nudo – reprimere l’imbarazzo e la vergogna per la propria nudità è tra le primissime cose che insegnano a Karmil – ma perché privo del suo elmo-corona, simbolo del suo potere e carica, appoggiato su un comodino basso di fianco.
Fortunatamente era qualcuno di fidato a cui poteva mostrarsi anche senza il regale copricapo.
Ra’lam, il cancelliere militare. Un ka’nhili straordinariamente grasso per i precetti del codice, con una vistosa pancia e un largo collo. Occhi verdi spenti e apparentemente stanchi, porte verso una personalità più attiva e scattante di quanto il suo corpo facesse presagire. Delle macchie a imitazione, per forma e colore, di una foglia di quercia erano il suo segno di riconoscimento peculiare.
“I Signori dei gormiti arriveranno a breve, Sommo Signore.” lo informò con la sua voce bassa e meccanica.
“Eccellente, cancelliere. Grazie dell’informazione.” lo ringraziò a dovere, prendendo con i suoi comodi l’elmo-corona e posandoselo in testa. Fortunatamente i suoi abiti poteva metterseli e toglierseli anche con la corona addosso, tuttavia non li aveva ancora.
“Dovreste prepararvi.” gli consigliò Ra’lam, accennando alla sua nudità. Era facile per lui parlare così: il suo corpo era rimasto quello di sempre, e non c’era stato bisogno di rivedere tutti i vestiti e le corazze perché potessero essere adatte alla nuova forma. Aveva solo un completo pronto, che giudicò però non consono a un consiglio tra sovrani.
“Ra’lam, cancelliere, vorrei porti un quesito.” parlò poi non potendo trattenersi, alzatosi per studiare l’unico abito di cui poteva servirsi.
“A vostra disposizione, Sommo Signore.”
“Sono ancora un ka’nhili?” la drammatica domanda.
La risposta di Ra’lam fu concisa ma eloquente: “Siete ancora uno di noi. Il vostro corpo è cambiato, ma rimanete comunque Luminescente III.”
“Vale lo stesso per Car’milah?”
A questa domanda Ra’lam esitò per un istante. Ponderò bene la sua risposta, senza distogliere lo sguardo dal suo re, cercando una possibile soluzione tra gli occhi azzurri di lui che spuntavano dalla fessura dell’elmo.
“Car’milah rimane un ka’nhili anche se cambiata, punita nel corpo.” Si conformò poi ai dubbi di El’issam, almeno apparentemente. Il Sommo fu sorpreso e quasi deluso da quella risposta
“Tuttavia, non è una karmiliana, non più. Non è una di noi.” riprese esplicando la sua tesi. El’issam fu soddisfatto, questo turno.
“Ti ringrazio per il tuo tempo e le tue parole, cancelliere Ra’lam. Potete uscire, ora.”
Puntualmente, Ra’lam uscì.
Rientrò immediatamente dopo, spuntando dall’apertura della tenda solo con la testa.
“Sommo Signore. - disse - I Signori sono qui.”
“Pregali di aspettare un momento, devo essere presentabile…Ho finito, ora possono entrare.”
El’issam fu scosso da preoccupazione e dall’impulso di mettersi al sicuro quando si vide entrare nella tenda le tre imponenti figure dei Signori, una dopo l’altra.
Stupidità. - si rimproverò tornando rilassato - Devo abituarmi alle loro nuove forme.
I Signori Thorg, Nobilmantis e Grandalbero non erano stati risparmiati dal rivoluzionario fenomeno scatenato dall’Occhio della Vita, che molti già avevano denominato ‘la Grande Caduta’ – sebbene in futuro, col senno di poi, l’avrebbero ricordata in un altro modo, a cui El’issam già si rifaceva, in parte.
Si erano presentati più volte dopo la Grande Caduta, sospettosi, inquieti, conquistati e anche vanitosi dei loro nuovi aspetti e poteri, e Luminescente III quasi mai riusciva a reprimere del tutto la sua continua sorpresa nel vederli cambiati e nel constatare le nuove abilità che piegavano al loro dominio.
Thorg era stato ripulito della sua rozzezza animalesca e reso più fascinoso ed aggraziato, elevato all’eleganza austera dei ka’nhili – questo agli occhi del Sommo – ma manteneva tutta la sua possanza e indiscutibile superiorità muscolare.
La sua postura leggermente gobba si era raddrizzata, e i grossi e irregolari spunzoni squamosi sulla schiena erano stati livellati, così come quelli su tutto il corpo. Tuttavia, non persero la loro pericolosità, assumendo una durezza ancora più considerevole che in precedenza, come dimostrava il loro nuovo colorito nero come il carbone.
I duri zoccoli ai piedi erano stati rimpiazzati da quattro dita, e se questo si fosse rivelato un beneficio o uno svantaggio non lo si poteva dire al momento; lo avrebbe scoperto Thorg vivendo.
La sua pelle, di un brillante e pulito mais scuro, aveva perso molto del suo pelo che si nascondeva bene tra la carne e sullo stesso viso la peculiare barbetta caprina che gli era molto cara era scomparsa, e solo le folte sopracciglia, ora color castagna, erano sopravvissute.
Il cambiamento più radicale e vistoso era senza dubbio l’evoluzione delle corna. Prima delle comuni e non troppo grandiose corna d’avorio bianco, che si sviluppavano all’indietro per poi curvarsi e spingere le punte in avanti. Tutto diverso, adesso: di ben maggiori dimensioni e spessore, lucide, levigate ed argentee, che si dipartivano dai lati del capo per poi quasi riunirsi dietro la nuca.
Non si poteva dire lo stesso di Nobilmantis che, sebbene dimostratosi apertamente ostile a diversi modi di fare dei karmiliani sin dalla proposta di cacciare nuove bestie da usare come cavalcature – mossa che in fin dei conti non aveva rappresentato il grande vantaggio sperato – aveva sempre esibito la delicata altezzosità tipica dei ka’nhili, e cosa ancora più sorprendente, non si separava mai dal suo elmo acquamarina quasi fosse una sua imitazione dell’elmo-corona del Sommo Signore. Un segno della sua nascosta ammirazione verso i ka’nhili e le loro tradizioni che aveva imparato ad ammirare, o forse una sfacciata presa in giro.
Laddove la sua carnagione aveva in precedenza mostrato lucide e leggere gradazioni di azzurro e acquamarina, in contrasto con tratti di caldo arancione, ora essa presentava unicamente colori forti e freddi, blu notte e blu acciaio, accompagnati da ancor più rigidi verde mare scuro e bianco. Colori che rispecchiavano il suo nuovo potere, ribadito ancor di più dal cannone a braccio, geometricamente perfetto, bianco, due tronchi di piramide sovrapposti che condividevano una base.
Non erano getti d’acqua – anche quelli in verità, ma non era la sua specialità – che uscivano a fiotti da esso, men che meno improbabili zampilli sabbiosi o infuocati.
Neve, ghiaccio, espulsi a getto continuo a temperature tremendamente basse. Era questo l’elemento che, in concordanza con l’acqua, tutti i gormiti del Mare graziati – o dannati – dall’Occhio della Vita potevano ora dominare a loro piacimento. In eterno, si sperava, al contrario delle abilità potenziate solo temporaneamente dell’evoluzione mystica.
L’altro mutamento degno di nota del Signore del Mare erano le ali: non più due grandi uniformi lembi di pelle, ma multiple e discretamente ampie paia di membrane accavallate l’una sull’altra, quattro a destra e quattro a sinistra, alternamente azzurre e verde acqua.
La componente legnosa più dura e più scura del corpo di Grandalbero aveva preso il sopravvento su quella più morbida e verde, verde chiaro e luminoso. Spessi e voluminosi viticci terra bruciata, che sfumavano in una gradazione più dolce nelle parti più interne e meno resistenti, parevano comporre le sue membra strato per strato, lungo gli stinchi e i polpacci, per il torace e i bitorzoluti avambracci.
Una singolare trasformazione aveva colpito il suo volto: il legno robusto delle corna, ora rivolte all’indietro come quelle di Thorg ma meno angolate rispetto al viso e decisamente non lisce, si era propagato per gran parte del capo, coprendolo come una maschera, un elmo naturale, che lasciava scoperto solo la parte inferiore della bocca e il resto del collo – oltre che a fessure per occhi e naso.
Il suo peculiare braccio-bastone era divenuto più forte di prima ma forse più scomodo, grazie e a causa di due escrescenze come lame di falce color ambra che si erano sviluppate dove prima c’erano solo due spini bruni.
Nessuno di loro era in tenuta da battaglia – a meno che l’elmo di Nobilmantis non lo si considerasse segno di uno stato di guerra – e anzi per lo più erano nudi, come era tipico dei gormiti; nessuno di loro diede mostra di sorpresa nell’aspetto mutato di Luminescente III, che già avevano veduto in quella forma.
La sorpresa e la preoccupazione, se c’erano, per le proprie, di nuove forme, furono lasciate immediatamente da parte per discutere di argomenti più seri e importanti, tralasciando del tutto i saluti e i convenevoli, limitati a semplicistici cenni del capo.
“Contro ogni aspettativa, l’Occhio della Vita è tornato su Gorm.” constatò banalmente Thorg, visibilmente teso.
“Ci ha dato corpi e poteri nuovi, ma ha rinnovato il conflitto che credevamo finalmente concluso. - riprese - Quel che è peggio, l’Occhio della Vita non è più uno solo: sono sei pezzi, e dovremmo distruggerli tutti.”
“Distruggerli? - domandò offeso Grandalbero - Non hai sentito il vuoto e il freddo quando l’Occhio è scomparso? Vorresti provare di nuovo quelle sensazioni, anche dopo i doni che ti ha fatto?”
Thorg strabuzzò incredulo gli occhi.
“Cosa sento! - esclamò spaventato - Credi che solo perché la sua assenza ci ha fatto male non dovremmo sbarazzarcene? Ha fatto molto più male restando qui per secoli che svanendo per nemmeno un giorno, non puoi negarlo. O sei forse un altro traditore, come Elios?”
“Non ti permetto di parlarmi a questo modo. - si alterò Grandalbero - Solo perché non voglio la distruzione dell’Occhio non significa che sia dalla parte dello Stregone di Fuoco. Sono solo convinto che ci dev’essere un’altra via. Tu non puoi negare, del resto, che l’Occhio ci ha resi più forti.”
“O sei con noi o sei contro di noi, Grandalbero. - lo ammonì Thorg - L’Occhio ci ha potenziati, è vero, ma anche i gormiti di Aria e Vulcano lo sono stati. E finché l’Occhio favorirà entrambi, non può esserci affatto d’aiuto. Dev’essere distrutto, come diceva il Vecchio Saggio: non c’è altro modo.”
“Ci deve essere! Non hai idea di quello che non solo io, ma tanti altro hanno provato quando non c’era più!”
“Finiscila, dici tutto questo solo per la tua religione!”
“Calmatevi ora, entrambi.” si intromise ferreo il Signore del Mare, puntando alternamente il suo cannone di ghiaccio prima all’imponente terricolo e poi al Signore degli alberi. Puramente a scopo intimidatorio, sapeva che se avesse aperto il fuoco avrebbe scatenato un mare di guai.
“Sia il Signore della Terra che il Signore della Foresta hanno ragione. enunciò, guardando a turno Grandalbero e Thorg, in sequenza, e rivolgendo per ultimo uno sguardo di approvazione verso il Sommo Signore.
“Da una parte, Thorg: la guerra di Gorm ricomincerà presto, poiché lo Stregone di Fuoco non sarà soddisfatto di solo tre Occhi, e non potremo decretarne la fine finché non riavremo di nuovo l’Occhio nelle nostre mani. Dall’altra, Grandalbero: abbiamo una comprensione migliore, anche se di poco, dell’Occhio della Vita e del suo collegamento con noi, e cancellarlo da Gorm non appare più ovvio come una volta. Prima di decidere cosa farne, però, dobbiamo riprendercelo.”
“Se posso dire la mia, Signori di Gorm - interloquì Luminescente III, rimasto in sereno e muto ascolto - Non otterremo mai la vittoria se vi contrastate e vi oltraggiate tra di voi, specie ora che siamo così nuovamente vicini alla conclusione. Divisioni interne in questo momento si rivelerebbero assai letali per la riuscita della missione.”
“Sagge parole, Sommo Signore.” concordò il Signore del Mare, cessando il suo fare minaccioso e tornando al suo posto.
“Io non comprometterò mai l’alleanza tra il Popolo della Terra e il Popolo della Foresta a causa della fede del mio compagno Signore. - giurò Thorg con la mano sul nero petto - Ma non possiamo tirarci indietro ora, solo perché non c’è più il Vecchio Saggio ad metterci in guardia: non appena avremo gli Occhi della Vita, nessuno potrà impedirmi di distruggerli a modo mio.”
“Questo è tutto da vedere, Signore della Terra: temo che non troverai solo me ad opporsi a te.” lo avvisò Grandalbero, guardandolo storto.
“Ad ogni modo, - seguitò - dico a nome mio e a nome del mio fratello di Roscamar che il nostro diverbio rimarrà tra noi, e non toccherà in alcun modo i nostri sudditi. Ora, Signore del Mare, le vostre parole si sono rivelate molto sagge. Forse ne avete altre da offrirci, in merito a come agiremo una volta conclusa questa riunione?”
“Sì.” rispose Nobilmantis fiero. Estrasse dalla sua borsa di tessuto impermeabile un foglio ripiegato e avvolto in una pellicola trasparente.
Dispiegò la mappa su un tavolino prontamente disposto da Luminescente III al centro del gruppo con la forza magica.
“I nostri accampamenti sono qui, nella Pianura delle Nebbie, – e indicò col dito il punto esatto, una regione in pericolosa prossimità con la capitale della Terra – quelli del nemico precisamente all’estremità opposta della pianura. Potrebbero disfarli per riorganizzarsi o per mirare altrove, molto probabilmente per agguantare gli Occhi della Vita sparsi per Gorm. Oppure, dopo la conquista di Garsomor, potrebbero perfettamente tentare un’invasione di Roscamar, per il solo atto di catturarla o per prendere l’Occhio della Terra. Improbabile, però. Tuttavia, possiamo concludere questa lotta con il nostro trionfo, ma dobbiamo evitare che i nemici abbandonino questo posto.”
“Perché? Dove vuoi arrivare?” domandò incuriosito e non del tutto convinto Thorg.
“I sei Occhi della Vita – continuò, apparentemente ignorando il dubbio del Signore della Terra – si sono fatti trasportare qui, a Poivronopoli, dietro di noi a Roscamar e qui presso il Rifugio della Rugiada. Per quanto ne sappiamo, gli altri tre si trovano uno in un nascondiglio imprecisato su Picco Aquila, gli altri due insieme all’interno di Monte Vulcano.” e ad ogni luogo che nominava additava la sua collocazione sulla cartina.
“Abbiamo forze nascoste disposte al largo dello Stretto di Gorm. – continuava imperterrito, passo per passo, facendo riflettere i tre sovrani in modo che arrivassero da soli alla conclusione – Non c’è stata la possibilità di ordinare loro l’attacco, ed è stato un bene, sperando che non si siano disorganizzate o siano state scoperte. Dobbiamo trasportare tutti gli Occhi nelle nostre mani e riunirli qui, a Roscamar, e fare in modo che i nemici sappiano che li stiamo raccogliendo. In questo modo, saranno inevitabilmente attirati qui e non penseranno minimamente a ritirare le truppe adesso. Gli sguardi di tutto il Vulcano e del Vulcano stesso saranno fissi verso Roscamar, e nessuno si aspetterebbe un assalto nelle città del Vulcano, a cui daremo avvio appena l’esercito nemico ci attacca.”
“Questo è il mio piano.” concluse soddisfatto.
“Geniale, Nobilmantis, geniale…” disse stupito Thorg, strofinandosi il mento. Un’abitudine legata alla barbetta che, sebbene non l’avesse più, non l’aveva ancora abbandonata.
“Può risultare rischioso – rifletté il più giudizioso Sommo – o inutile. Obskurios e lo Stregone di Fuoco potrebbe fiutare la trappola, e non attaccarci mai nella pianura.”
“E’ un’occasione troppo ghiotta per loro. – spiegò Nobilmantis ottimista – Tre Occhi in un colpo solo, con gli uomini già pronti e a poche centinaia di piedoni dalla meta. In più, fino ad ora siamo stati sempre passivi, difensivi. Tutti saranno stupefatti quando scoprono che, per la prima volta, siamo ad agire per primi. Come del resto avevamo programmato di fare, ma ci hanno anticipato.”
“Un piano che può riuscire. – concordò Grandalbero – Il Vulcano è grossomodo indifeso, con centomila uomini qui nella pianura. Invierò quanti più soldati possibile a rinforzare le truppe nascoste, così il Vulcano non avrà scampo.”
“E io farò lo stesso, dall’accampamento nascosto nella Foresta. – promise il Sommo – Per motivi di sicurezza, sono quasi tutti uomini del Mare, ma con i nostri metodi di occultamento, potremmo inviarci chiunque.”
“Però, ho un dubbio: l’Occhio dell’Aria è a Picco Aquila, giusto? – questionò Grandalbero - Se l’assalto a Monte Vulcano dovesse riuscire, rimarremo comunque senza.”
“Se il più potente esercito di Gorm dovesse cadere, l’Aria non esiterebbe ad arrendersi. – spiegò Nobilmantis – Se dovessero mostrarsi ostinati, non avrebbero comunque via di fuga. In più, anche se era un inganno, Gheos ha già guidato con successo i suoi uomini negli angoli più freddi di Picco Aquila.”
“E’ stata una campagna sensazionale.” affermò Thorg, sentitosi chiamato in causa e onorato in qualità di portavoce della Terra per gli elogi dati a un suo suddito e passato Signore.
“Non è possibile inviare uno dei ribelli, che conoscono bene i segreti della loro casa, a derubare il Popolo dell’Aria dell’Occhio? Falcosilente, mi pare, vi invia ancora informazioni riservate, anche se con più riserbo di un tempo.” propose il Sommo.
“Picco Aquila è pressoché interdetto. – disse Nobilmantis con sicurezza – Infiltrarsi nella montagna potrebbe risultare più pericoloso che assalire il Vulcano. Faremo a meno del loro Occhio.”
“Io sono con il Signore del Mare. – esclamò Grandalbero, alzando il pugno – Termineremo questa lotta, una volta per tutte.”
“E distruggeremo l’Occhio della Vita, una volta per tutte!” aggiunse Thorg.
***
Il silenzio divorava l’immensità della Foresta Silente notturna: superiore, soffocante.
Pallide e tenui erano le luci riflesse delle lune Greemerald e Redrubise alte nel cielo, con la luna rossa al massimo del suo splendore, tuttavia lontana dall’eguagliare la potenza del sole e inguaribilmente debole quale luna che era.
Al cielo, l’intera Dalarlànd appariva come un’infinita, impenetrabile e rettilinea massa erbosa di freddo verde palude, dalla quale si potevano scorgere, con la dovuta attenzione, inconsistenti fuochi e colonne di fumo che donavano sfumature più vive al grigiore della selva. Ma per il resto, era completamente buia, ferma. L’imponente Rifugio della Rugiada non faceva eccezioni.
Sotto le foglie che tutto nascondevano, quasi a creare una barriera tra il mondo all’ombra degli alberi e quello che si apriva al di sopra delle chiome frondose, il chiasso delle migliaia di forme di vita, pressoché di dimensioni minori di un pugno, alla ricerca di un pasto o di un compagno, era intenso.
Tuttavia, proprio come la luce bianca è la comunione dei numerosi colori – una scoperta relativamente recente, per i gormiti – insieme, tutti quei rumori naturali si affastellavano, si attaccavano, si sovrapponevano l’uno sull’altro, e il risultato era il silenzio.
Il silenzio tipico della Foresta Silente: nessuno, che abitasse da sempre tra le foglie o che fosse nella sua prima visita al regno di Grandalbero, avrebbe mai giudicato ciò che udiva come confusione. Tutto era perfettamente equilibrato, armonioso e sereno.
Persino i secolari abitanti della Foresta Silente, con i loro passi, affrettati o tranquilli che fossero, e il loro parlottio non disturbavano la quiete boschiva. Erano sempre vissuti al di sotto delle sue rigogliose foglie, abituati sin da quando ruppero il guscio ai suoi ritmi e rumori: erano parte integrante di essa, e qualunque fosse la loro mole, il loro umore e l’importanza del loro compito, i suoni da essi prodotti si univano al coro della natura con discrezione ed eleganza. Quasi sempre.
I due spediti ma prudenti gormiti della Foresta che con destrezza e rapidità percorrevano l’impervio cammino verso la sponda a sud - est dello Stretto di Gorm non facevano eccezione.
Meglio di altri conoscevano come orientarsi nei tratti più selvaggi della foresta dove non esistevano sentieri, e ugualmente sapevano riconoscere i segni naturali, anche senza le stelle a guidarli, per comprendere la retta via da seguire e accertarsi di essere sulla strada giusta.
La mutazione subita per merito del ritorno dell’Occhio della Vita non aveva aggravato la loro scioltezza nei movimenti e nell’orientamento né la loro discrezione in quegli stessi movimenti.
Che fossero più grandi e pesanti, più alti, che disponessero di armi naturali in più, non erano stati indeboliti da essi e procedevano con la stessa prontezza con cui solevano prima della Grande Caduta. Il fardello che gravava sulle loro spalle – fisicamente solo su uno di loro - li preoccupava, giustamente, ma non abbastanza da suscitare in loro esitazione o paura.
“Potresti andare più piano?” sbuffò il più corpulento tra i due, lo stesso che, in una sacca di foglie a tracolla, trasportava il globo di smeraldo che era l’Occhio della Foresta.
“Shh.” lo zittì il compagno, più alto ma più esile, senza guardarlo e procedendo con la stessa andatura.
“Ma...” protestò il primo.
“Shh!”
Senza fermarsi si voltò e sussurrò: “I nemici possono essere ovunque, e sentirci.”
“Certo, come no, i nemici… - borbottò, infastidito dall’esagerazione dell’amico – Vabbe’, ma potresti andare più piano? Non sono esile come te, io!” lagnò nuovamente.
“Non c'è tempo per andare piano!” spiegò irremovibile l’altro.
“Si che c'è, invece!”
“Shh!”
Champius ‘Battiquercia’ soffocò in un ringhio una sonora imprecazione, che avrebbe certamente destato i sospetti di qualcuno.
Non aveva mai pienamente sopportato Sporius. Sin dal primo momento, dalla prima missione insieme, quando unendo le loro forze in un modo che nessuno dei due avrebbe mai potuto programmare riuscirono ad acciuffare il primo dei cervi muschiati che servivano ora il volere di Grandalbero e del Popolo della Foresta.
Continuava a detestarlo, e a dare dimostrazione della sua avversione nei suoi confronti. Ciò nonostante, la loro era una coppia perfetta: furono inviati in altre missioni dopo di quella, tutte culminate con un successo o parziale successo, e con una rassegnazione sempre meno evidente di Champius che preferiva rimanere nella sua fattoria e i sospiri di entrambi nel constatare di dover tollerare un’ennesima volta il comportamento reciprocamente sgradevole dell’altro.
E nonostante le corrisposte prove di tutto il contrario di affetto – anche se non sfociavano mai in odio aperto – una salda amicizia, o fratellanza che dir si voglia si era formata tra i due.
Come non aveva cambiato altre cose, la trasformazione non aveva mutato il loro legame e il successo delle loro missioni congiunte. Quest’ultima affermazione, lettori, è per voi ancora da confermare, poiché quella che racconto in questo momento è il primo incarico dopo la Grande Caduta.
Battiquercia, come amava chiamarsi ed essere chiamato, aveva mantenuto tutta la sua prestanza fisica, pur rimanendo piccolo di statura. Le mani erano grandi e capaci come un tempo, ora rese ancor più micidiali dai cannoni che si erano sviluppati nelle braccia, anch’esse ora massicce e in modo quasi sproporzionato.
La sua corteccia aveva subito un cambiamento parecchio radicale: non c’era quasi più traccia di verde, marroni e bruni di tonalità scure e con sfumature arancioni e rossastre lo avevano ricoperto tutto. Le possenti braccia presentavano delle incrostazioni dure e spesse di terra bruciata intervallate da lembi di pelle più morbida e dal colorito corallo. Parevano in tutto e per tutto, fuorché la consistenza e la temperatura, magma incandescente preda del freddo e dell’aria degli spazi aperti, che ne avevano indurito e inscurito a tratti la superficie.
Sporius il cacciatore, che a causa del clima rovente degli ultimi tempi esercitava la sua professione sempre più raramente, era meno cambiato all’aspetto rispetto a prima.
I suoi colori non erano mutati di molto: i verdi erano ancora presenti, seppur non dominanti, e a dare un netto contrasto tra la vivacità tipica dello smeraldo e il freddo della castagna si erano aggiunti piccoli particolari di un giallo ocra brillante.
Il cappello naturale non gli aveva affatto scoperto il viso; in compenso, nell’estremità posteriore esso si era biforcato, e terminava in un paio di punte brune non molto lunghe o sottili.
L’unico altro cambiamento particolare, l’unico degno di nota agli occhi di Battiquercia, era la crescita di due artigli legnosi retrattili, color carota, nel braccio sinistro, che alla massima estensione raggiungevano la lunghezza di mezza gamba di Battiquercia – e solo perché Champius è basso non è da giudicare poco.
“Quanto ti detesto! - brontolò silenzioso Champius - Non poteva scegliere qualcun altro, Grandalbero?”
“Avresti fatto meglio a stare zitto, invece di dichiararti volontario. - replicò con aria seccata Sporius - A quest'ora saresti bello comodo nella tua bella capanna, a coltivare il tuo bell’orto.”
Si fermò di colpo, levando un braccio per fermare anche il suo forte compagno.
La disapprovazione e il desiderio di rispondere a tono alle sue ironiche affermazioni si fecero piccole piccole: di fronte a quell’improvviso cambiamento d’umore e a quell’ancora più repentino e preoccupante arresto, Battiquercia si fece assai serio.
Sporius non sbagliava mai quando c’erano di mezzo i sensi, e se si era fermato, era chiaro che avesse visto o udito qualcosa di pericoloso.
“Cosa c'è? Cos'hai sentito?” chiese frenetico l'ora turbato Battiquercia, con voce ancor più bassa.
“Passi, - rispose tagliente e sbrigativo Sporius, alzando il capo e annusando l'aria - passi pesanti.”
Battiquercia, di orecchie meno fini, si concentrò per udire anche lui quei misteriosi e così spaventosi, per Sporius, passi pesanti.
Rimase in impaziente ascolto per alcuni lunghissimi secondi, senza che il minimo eco di passi raggiungesse i suoi timpani, con la fretta che cresceva e, sebbene avesse poc’anzi chiesto di rallentare l’andatura, con la richiesta di riprendere il cammino che gli formicolava sulla lingua, pronta a balzare fuori dalle labbra.
Era vero che Sporius era infallibile, ma Battiquercia, non avendo la conferma di ciò che temeva il compagno, si convinse che molto probabilmente i passi che aveva udito non appartenevano a nessuno che potesse rappresentare un pericolo o un ostacolo per la loro missione.
Ormai sul punto di aprire la bocca e parlare, spazientito dell’attesa, Battiquercia si bloccò.
I passi. Eccoli, li sentiva anche lui, adesso. Passi lenti, lenti e incessanti, una malinconica marcia.
Lenti e davvero molto pesanti. Il riverbero da essi prodotti sul suolo, di cui si accorse con ritardo anche Champius, era impressionante.
Il suo viso si fece preoccupato, mentre quello di Sporius, immobile e in ascolto, non dava visibili segni di turbamento.
Cosa poteva provocare un eco così profondo? Meccanicamente i piedi dell’imperscrutabile toccavano il suolo, uno dopo l’altro, senza mai fermarsi, con cadenza ritmica, e ad ogni passo il terreno rimbombava sotto l’enorme peso dell’intruso.
Perché rimanevano fermi? Era evidentemente qualcosa di davvero grande, grande e diretto indiscutibilmente verso di loro, come si poteva dedurre dai suoni che si facevano sempre più intensi.
Dovevano agire, nascondersi, cercare un altro passaggio per la costa. Sporius rimaneva però bloccato, e Champius non aveva la forza o le conoscenze per separarsi da lui e proseguire da solo.
Altri rumori si aggiunsero ai gravi passi dell’oscuro avversario, accompagnandoli con meno ritmicità, quasi egli non avesse il controllo sopra di loro come ne aveva sui piedi.
Il lampante tintinnio e il cozzare su se stessa di una grande superficie metallica si unì al coro di passi, risvegliando l’immaginazione di Champius per dare forma a quell’indecifrabile e invisibile pericolo.
Sembra come se un mostro fatto di catene avesse preso a camminare. - immaginò, rabbrividendo vedendoselo prender forma nella sua testa - Un mostro gigantesco, tutto di metallo…
I suoni erano ora vicinissimi, eppure nessuno dei due si muoveva. Colpiti da qualche incantesimo che li confondeva, o tanto audaci da voler scoprire cosa si celasse dietro tutto ciò?
Non appena ai passi pesanti e metallici se ne aggiunsero di altri, ben più scattanti e felpati, una voce, cupa e terribile, ordinò dall’oscuro delle foglie: “Prendeteli.”
Correndo con affiatato ardore e producendo un terremoto di rumori, schiacciando radici, rametti e vario fogliame rinsecchito, tale da destare l’intera Foresta Silente, due gormiti del Vulcano comparvero dal buio davanti ai due forestali.
Erano due gormiti nuovi, nel senso di quei gormiti del Vulcano toccati dall’energia rilasciata dall’Occhio della Vita quando ritornò su Gorm. Lucenti, e freddi nel loro fuoco, ridipinti dalla ‘natura’ di tinte di rosso, arancione, giallo e nero molto forti e in accecante contrasto tra di loro.
Corpo scheletrico e muscoloso al contempo, gommagutta, falce grigio metallica e un volto anch’esso grigio che pareva un teschio spellato, assai simile a quello di Orrore Profondo; un corpo cremisi tinteggiato di aculei gialli, potenziato nei muscoli, un viso crudele rinforzato in basso da un paio di nere tenaglie, una possente chela a un braccio e uno spuntone osseo simile a una trivella nell’altro, coda con letale pungiglione all’estremità.
Siffatti erano i due vulcanici che avanzavano bellicosi contro Battiquercia e il cacciatore. Anche se non lo potevano sapere, uno di essi era Skorpios, trasformato, lo scopritore e il padrone di Akarion l’aracnorosso. Nessun segno del gormita – o di chissà cosa – che aveva dato loro l’ordine e che aveva spaventato i forestali.
“Preparate le vostre teste!” guaiva con espressione folle il vulcanico con il teschio come capo, agitando al vento la sua falce e pregustando una vittoria facile e molto dolorosa per i due avversari.
Battiquercia e Sporius non si fecero cogliere impreparati. Nemici lungo il cammino era una possibilità riguardo alla quale il consigliere di Grandalbero li aveva ben preparati, sebbene tutti e tre, Battiquercia più fieramente degli altri, sapevano che era molto improbabile.
In tale improbabile occasione che era ora realtà, i due forestali avevano organizzato un gustoso stratagemma.
Si guardarono vicendevolmente, e si scambiarono un sorriso.
“Pronto, cacciatore?” domandò Champius.
“Al tuo segnale, Battiquercia.” disse tranquillo Sporius, indietreggiando piano mano a mano che i vulcanici avanzavano.
“D’accordo…ora!”
Con uno scatto davvero sorprendente per la sua stazza, Battiquercia diede le spalle ai due focosi avversari, e lo stesso fece Sporius, entrambi procedendo per traiettorie diverse.
Sotto gli occhi inizialmente confusi poi più che mai attenti di Skorpios e compagno, nella fuga Battiquercia estrasse dalla sua sacca il pacchetto di foglie che tratteneva l’Occhio della Foresta.
Senza alcuna discrezione, lo lanciò in direzione di Sporius, che lo agguantò con presa sicura.
Come un branco di lupi attirati da una capretta solitaria, i due vulcanici si gettarono sbavanti verso il cacciatore, ignorando del tutto Battiquercia.
Una mossa inutile: non appena gli furono a un passo, Sporius, che tra l’altro non scappava in linea retta ma zigzagando disordinatamente, saltando in lungo e di lato, addirittura appendendosi ai rami e salendo sugli alberi – Battiquercia non era da meno, nonostante trovasse un po’ più di difficoltà nel farlo – passò nuovamente l’Occhio in mano a Champius.
Il passaggio del fardello continuò in tal modo, infuriando all’inverosimile Skorpios e l’altro, finché questi due non misero in moto il cervello e invece di seguire solo un forestale alla volta, quello che aveva in mano l’Occhio, decisero di seguirli entrambi, Sporius da Skorpios e Battiquercia dallo scheletrico.
Anche questa mossa si rivelò inutile, e del tutto presa in considerazione dai due forestali come segnale della fine del loro inganno.
Champius, che tratteneva il fagotto al momento, arrestò la sua fuga repentinamente. Si volse all’indietro celere e si mise a roteare tranquillamente, tenendolo per il nodo del pacchetto, l’Occhio della Foresta, come se non fosse di alcun valore per lui.
“Lo vuoi così tanto? Tienilo!” urlò, e lo buttò addosso al gormita scheletrico che, vedendoselo arrivare addosso, fermò atterrito la sua corsa e lo raccolse, riuscendoci piuttosto grossolanamente e rischiando di farlo cadere, passandoselo di mano in per la parte più piatta della falce come se scottasse.
Fu in visibilio quando si rese conto di avere davvero tra le mani l’Occhio della Vita della Foresta, e lo alzò trionfante al cielo, gongolando.
Avido, scartò furiosamente le foglie accartocciate che lo racchiudevano. La sua espressione di sconcerto quando vide cosa c’era davvero all’interno del fagotto fu spettacolarmente drammatica.
Un sasso grigiastro dalla forma irregolare, con vari fori da cui fuoriusciva una luce rossiccia: una bomba, di quelle fabbricate e utilizzate dal Vulcano stesso, solo in dimensioni minori.
L’esplosione innescata dal fascio di linfa infuocata dal cannone di Battiquercia non fu massiccia come quella delle bombe di dimensioni normali, ma fu abbastanza fragorosa da ustionare e scorticare il braccio, il petto e il volto del vulcanico, e ad ucciderlo.
Era questa la nuova abilità dei gormiti della Foresta. Dopo secoli di incessante paura del fuoco, il loro più grande avversario e il pericolo più significativo per la loro casa e le loro membra, l’Occhio della Vita aveva donato ad alcuni di loro la possibilità di dominarlo.
Non era vero e proprio fuoco, in più potevano creare solo getti e fasci più o meno ampi di quella sostanza, non sfere o barriere. In più, pareva non trovarsi in natura e creare il fuoco, questa volta fuoco genuino, quando bruciava il bersaglio, quindi non c’era la possibilità di controllare la linfa già presente.
Io l’ho definito qui così, linfa, ma è un nome puramente ipotetico. C’è chi crede sia una mistura di sostanze velenose che si manifestava sotto forma di un getto bruciante e rovente più del fuoco; in tal modo, poteva collegarsi al controllo della materia organica dei forestali.
Ad ogni modo, Skorpios fu palesemente spaventato ma ancor di più irritato nel vedere il suo compare morire così, per uno sciocco inganno di cui anche lui era caduta vittima, e quella sorte sarebbe potuta toccare a lui se le cose fossero andate in modo leggermente diverso.
“Razza di incapaci.” proferì fredda come il ghiaccio la voce del capo di quella missione, che ora appariva in tutta la sua maestosità e terribilità, emergendo dallo scuro fogliame della notte.
Un gormita senza nome, senza pietà e senza misericordia, gelido e ligio al dovere, il più patriottico di tutto Monte Vulcano, un vero vulcanico che credeva fino in fondo allo Stregone di Fuoco e al radioso futuro di dominatore del mondo del Popolo del Vulcano, pronto a tutti i sacrifici per raggiungerlo.
Racchiuso in un’impenetrabile e nerissima armatura tutta di metallo, come aveva compreso Champius e anche Sporius, con rifiniture rosso sangue, un ampio spadone stretto nella forte mano, un elmo irremovibile a difesa e rifugio dell’indecifrabile sguardo. Il misterioso cavaliere.
Nessun segno che fosse stato anche lui trasformato, e divenuto ancora più potente e pericoloso che mai.
“Skorpios, tutti e due potrebbero avere l’Occhio. – lo informò, avanzando temerario, notando come entrambi avessero del bagaglio con sé – Io mi occupo di quello alto, tu pensa al grosso.”
Senza confermare gli ordini, Skorpios si diresse a capofitto contro Battiquercia, mentre il misterioso cavaliere camminava lento e sicuro di sé verso Sporius, che aveva estratto i due lunghi artigli ambrati e preparato l’arco.
Sporius non era messo affatto bene, ma Battiquercia non poteva occuparsi di aiutarlo, impegnato com’era a difendersi da Skorpios.
Gli attacchi dell’agile vulcanico erano velocissimi e sicuramente davvero dolorosi, a tal punto che Battiquercia non aveva possibilità di contrattaccare, ed era costretto a indietreggiare e a schivare come meglio riusciva i letali montanti dell’avversario.
Ogni parte del corpo di Skorpios poteva dimostrarsi un ottimo modo di finire la propria vita: le mandibole laterali, ampie e aguzze, scattanti e forti, all’altezza giusta per recidere il collo di Battiquercia; la robusta e tagliente chela che minacciava di dilaniargli la pancia ad ogni movimento; il duro spunzone attorcigliato che sembrava capace di perforare persino la roccia e che, irregolare com’era, non doveva essere affatto piacevole da sentire conficcato e rigirato nell’addome; il pungiglione acuminato e dal bruciante veleno, scrollato a destra e a sinistra nel tentativo di pungergli le gambe.
Ciò che più Battiquercia temeva accadesse, balzando di lato, abbassandosi e divaricando le gambe per evitare colpi bassi, alla fine accadde.
Il pungiglione si conficcò come una freccia nella coscia sinistra di Champius, immobilizzandolo.
“Hng.” mugolò, quando questo gli fu rimosso, e Skorpios avanzò su di lui, cercando di mettere le mani sul suo equipaggiamento.
Con grande stupore di Battiquercia stesso, non c’era alcun dolore dentro di lui. L’unico fu rappresentato dalla punta aguzza che lo penetrava per poi lasciarlo, e nient’altro.
Se ne accorse spaventato anche Skorpios infine, quando Champius gli strinse una larga mano attorno al collo. Il suo veleno non aveva effetto sui vegetali!
Un sonoro pestone sulla coda ora inerte di Skorpios, e quello, trattenuto ancora per il collo prese a saltellare e divincolarsi come se avesse messo i piedi sui carboni ardenti.
Battiquercia, trionfante e sorridente, lo gettò a terra, e prima che potesse rialzarsi, ora sicuro che non poteva essergli di alcun danno, lo afferrò per la coda.
Esattamente come fece poc’anzi con il finto Occhio della Foresta, Battiquercia roteò Skorpios fuori gioco, sollevandolo sempre di più sopra di sé e facendolo vorticare sempre più velocemente.
Quando fu soddisfatto, lo lasciò andare a sfasciarsi come una catapulta contro un tronco.
“Fuori due!” esclamò, indirizzandosi con sicurezza verso l’ultimo nemico ancora in piedi.
Sporius era alle strette: il misterioso cavaliere, benché con la corazza piena di frecce incastrate, premeva con tutto il suo peso un piede sul petto del cacciatore, che quasi sprofondava tale era la massa del gormita.
Con un urlo di sfogo, Battiquercia caricò con tutto se stesso contro di lui, si gettò a tutta forza sul corazzato corpo del vulcanico.
Il colpo sembrò non avere molto effetto, ma fu sufficiente a distogliere il cavaliere, muto, dal suo intento di schiacciare Sporius, e puntare il suo spadone contro Battiquercia.
Il suono di rami che si spezzano all’unisono, una folata di vento multicolore e velocissima, e in un istante le intenzioni omicide del misterioso cavaliere furono irreparabilmente interrotte.
Un guerriero alato, alto di statura, estremamente elegante, dotato di un paio di ali candide come la neve che l’aveva cullato e ampie come il cielo che solcava con maestria, dalle forme e i contorni confusi per l’estrema rapidità dei suoi movimenti, ma chiaramente un gormita di una bellezza esemplare.
Il misterioso cavaliere, afferrato da quelle svelte braccia, fu sbattuto contro un tronco che all’impatto perse quasi tutte le foglie. Non gli fu data possibilità di reagire o di contrattaccare, sebbene fu abbastanza incredibilmente svelto da rialzarsi e stringere la spada contro il nuovo inatteso nemico.
Con uno schiocco delle dita uncinate del grazioso guerriero in volo, un incanto dalla luce violacea immobilizzò del tutto il cavaliere.
Raffinate e precise torsioni della mano e delle dita riversarono su di lui prima un torrente infuocato, e in seguito una pioggia di fulmini che grazie alla sua armatura tutta di metallo lo arrostì per bene.
Gettando in alto le braccia come stesse sollevando un carico pesante, impose all’aria sottostante il cavaliere i suoi irrevocabili comandi, e il vulcanico fu sospinto verso l’alto con un minuscolo dispiego di forze.
Mentre egli cadeva, ancora immobilizzato, il gormita dell’Aria fece dei magneti per il vento delle sue mani, protese in verticale e con le dita che, stringendosi e rilassandosi, chiamavano a sé quanta più aria fosse possibile. Quando arrivò il momento esatto, ritrasse le mani e le braccia e con uno scatto le tese in avanti, ben rigide, con le mani aperte a triangolo: la tecnica del Mektigvind.
Un vento impetuoso e impietoso stravolse il corpo inerme del misterioso cavaliere, investendolo, storcendolo, scaraventandolo al di fuori, e ce ne sarebbe voluto prima che avrebbe di nuovo toccato terra, della copertura di foglie.
Più di un albero e parecchi rami furono completamente devastati da quella tecnica; un sacrificio accettabile: il misterioso cavaliere non intralciava più il cammino e la missione di Champius e Sporius, che ora si apprestavano a ringraziare a dovere il loro salvatore, esausto e a terra piegato su di un ginocchio, prima di proseguire.
“Ehi, ehi, tu. – incominciò a parlare Battiquercia, solare, dopo aver aiutato Sporius a rialzarsi – Non so chi tu sia, ma ti saremo per sempre debitori per il tuo aiuto.”
Avanzavano trionfanti, a rilento per la fatica, verso il loro sconosciuto redentore, affaticato quanto loro, se non di più.
“E’…stato un piacere aiutarvi dopo tutto questo tempo.” gracchiò a fatica, criptico ma beato, con una voce assai meno fine del suo aspetto.
Il guerriero rimaneva a terra, di tergo, e né Champius né il cacciatore erano riusciti a riconoscerlo, sempre che lo avessero già visto in precedenza.
Quell’affermazione aveva dell’inspiegabile: dopo tutto questo tempo? Cosa voleva significare, chi era?
Non assomigliava a nessuno dei ribelli di Noctis che Battiquercia avesse incontrato. Noctis non era così alto e slanciato, e le ali non combaciavano affatto. C’era una certa somiglianza con Livaz, ma nemmeno lui era longilineo né aggraziato quanto quell’aereo.
Che fosse Falcosilente era una possibilità da scartare immediatamente: non c’era alcun modo per cui un gormita così vicino al suo Popolo e soprattutto ai dirigenti della sua gente, per quanto combattuto dentro, osasse combattere apertamente contro coloro che lo ritenevano un alleato.
Un dubbio iniziò a divorare Battiquercia con foga e drammaticità crescenti.
Quella bellezza giovanile e stupefacente, quelle piume azzurre così lucenti, la voce roca e stridula al contempo, quelle ali di neve tanto grandi e tanto luminose, specchio del suo umore…
“Non ve l’aspettavate, vero? Nemmeno io me lo sarei aspettato, fossi stato in voi.” riuscì pure a scherzare, l’aereo! Alzandosi e voltandosi, con grazia avvicinandosi ai due, non ci fu più alcun dubbio.
Il loro ultimo salvatore, il loro impensabile alleato in quella lotta imprevista, altri non era che Elios, il Grande Traditore.
Battiquercia e Sporius si misero sulla difensiva: è vero, li aveva ‘salvati’ dal misterioso cavaliere, ma non ci si può mai fidare di un traditore, specialmente se quel traditore è tra i gormiti più odiati sull’Isola, il fautore di una delle spaccature più profonde degli ultimi anni.
Era impensabile che di punto in bianco Elios, dopo mesi di silenzio, il seguito di due anni spesi totalmente alla conquista di Gorm e dell’Occhio della Vita al prezzo di una personalità importante e un tempo a lui cara come quella di Barbataus, tra le tante altre vittime che il suo voltare le spalle aveva mietuto, tornasse sui propri passi e decidesse di soccorrere gli amici di una volta.
Elios era ormai a un piede da loro.
“Sta lontano!” sbraitò Sporius tendendo l’arco, che non la pensava differentemente da Battiquercia.
L'espressione di Elios, prima sorridente, ora pareva depressa.
“Ma come. – singhiozzò rattristito, al punto che parve scoppiare a piangere - Vi ho salvato e vi comportate così?”
“Non ci hai salvato. – ringhiò ostinato Battiquercia - C'è sicuramente qualcos'altro sotto." e gli puntò un cannone contro. Poi anche l’altro.
“Credereste alla mia sincerità se vi mostrasti questo?”
Da una sacca nascosta tra le ali luminose estrasse una pietra sferica e cristallina, illuminata di una luce propria, celeste.
Sporius abbassò l’arco, senza rilassare però la corda, e si avvicinò sbalordito. Battiquercia lo imitò, ancora ringhiante e rabbioso, calando un braccio ma tenendo ben fisso l’altro sull’impensabile soccorritore, guardando alternamente Elios e la sua offerta.
“L’Occhio dell’Aria?” mormorò incredulo Sporius.
“Come…cosa significa?” domandò il compagno, che, testardo com’era, non si sarebbe mai immaginato un episodio simile divenire realtà.
Era forse il segno che il Popolo dell’Aria non era del tutto corrotto e irrecuperabile: c’era ancora del buono, del ragionevole in loro, se il primo dei traditori ritornava supplichevole dagli antichi compagni.
Prima però bisognava stare a sentire le sue motivazioni, se c’erano.
“Falcosilente… - mormorò ad occhi chiusi – Devo tutto a lui, a mio fratello, al mio caro…caro fratello. Mi ha aperto gli occhi, in un modo che Magor non ha potuto fare. Anzi, Magor me li aveva chiusi, e mi ha fatto vedere solo ciò che voleva che vedessi, nascondendomi tutto il resto. Tutto il male, tutto sbagliato…”
Elios scoppiò a piangere come un cucciolo, senza controlli. Un pianto che pareva autentico, spontaneo, sincero. Soprattutto, una dimostrazione di sofferenza talmente tragica e compassionevole che Battiquercia ne fu scosso al punto da abbassare anche l’ultimo cannone, ed abbandonare ogni ostilità verso di lui. Fu quasi spinto dal desiderio di abbracciarlo e confortarlo, ma si trattenne. Sì, sembrava genuinamente colpevole, ma era giusto che soffrisse per il dolore che le sue scelte errate avevano arrecato agli altri.
“Magor aveva visto giusto. – continuò tra i singhiozzi – L’Occhio della Vita è potente, molto potente, può davvero portarci fino alle stelle, renderci i conquistatori dei mondi.”
A quest’affermazione Battiquercia riprese parte della sua avversione. Non era, allora, davvero pentito, se la pensava ancora a quel modo!
“Il fine giustifica i mezzi, così si dice. – seguitò – Ma fino a che punto? I mezzi del Vulcano sono terribili, abominevoli, disumani. Non posso credere a quello che ho visto, non posso credere di essere riuscito a sopportarlo così a lungo…non…non posso credere di essermi alleato con simili mostri!”
“Voglio dimenticare, dimenticare quello che ho visto, quello che ho fatto…ma non posso, come non posso dimenticare, mettere da parte il Grande Sacrificio. Ma voglio provare a rimediare, finché ancora posso, e non essere più ricordato come un traditore e un mostro come loro. Non voglio!”
Sia Sporius che Battiquercia erano estremamente colpiti e impietositi da quelle parole, da quelle dichiarazioni. Era una svolta storica, e la speranza di poter riappacificarsi con il Popolo dell’Aria diveniva più forte. Tuttavia, al tempo stesso, la possibilità di una pace definitiva con il Popolo del Vulcano scemava dopo quelle stesse parole di Elios riguardo i suoi modi di fare.
I due volevano replicare, promettere e far promettere qualcosa ad Elios, dichiarargli la loro benevolenza per le sue ultime azioni e anche ricordargli della malevolenza di altre.
Nulla di questo fu possibile, che Elios riprese a parlare, di un argomento assai diverso.
“Prendete quest’Occhio e fuggite. – intimò loro, gli occhi asciutti e le parole dure – Devilfenix è sulle mie tracce da quando ho lasciato Picco Aquila. Devo scappare, e non posso permettere che vi trovi. Devo…”
Le sue parole furono interrotte dal suono orribile della vita che si deforma e perde la sua essenza per merito di una forte scossa, e il rumore detestabile della stessa corrente elettrica, un fulmine concentrato in un piccolo spazio, raggiunse minaccioso le orecchie dei tre gormiti, mentre foglie e rami rinsecchiti dall’elettricità cadevano sordi su di loro e sul suolo erboso.
E all’improvviso, una sfera bianca cosparsa di fulmini saettanti e tempestosi, diretta come i fulmini di cui era composta, si precipitò da un’apertura tra le foglie sopra di loro tra i tre. La Bomba elettrica. Era infatti l’elettricità il nuovo potere del Popolo dell’Aria.
Quando la Bomba elettrica toccò il suolo, riversò su quell’intera porzione di foresta una scarica continua e tremenda di elettricità che immobilizzò e devastò i tre, portandoli tutti sulle proprie ginocchia e con le mani alla testa, quando la scarica terminò.
In seguito, dalla stessa apertura tra le fronde, scese volando una figura nota e nuova, carica di sadismo, odio e di desiderio di mettere alla prova il suo nuovo dominio sui fulmini.
L’onda di energia dell’Occhio della Vita aveva completamente bruciato le sue piume e anche la sua pelle, lasciandosi dietro un corpo di soli muscoli blu notte e porpora e ossa, rinforzato come non mai.
I muscoli bluastri delle braccia erano più possenti, gli artigli lunghi di mani e piedi erano percorsi da una scarica elettrica al suo comando, il torace coperto da una forte ma leggera corazza ossea.
Le tre paia d’ali erano le ali della morte, agghiaccianti falci sostenuta da nient’altro che ossa, bianche come il ghiaccio e rosse come il sangue appena versato.
Devilfenix. Battiquercia tremò di fronte a lui. Aveva saputo, in particolare dal Signore della Terra Thorg, che il Signore dell’Aria avesse abbandonato il suo Popolo e Gorm stessa molto prima dell’arrivo dell’Occhio della Vita. Evidentemente si era sbagliato, o Devilfenix aveva avuto dei ripensamenti.
“Andate, ora! Portate via gli Occhi!” ordinò Elios ai due, rialzandosi. Subito questi obbedirono, e cominciarono a correre senza guardarsi indietro.
Devilfenix si alzò in volo, pronto a fermarli, o peggio; ma Elios gli si parò davanti, a braccia aperte.
“No, Devilfenix. Il tuo scontro è con me!” affermò grave.
“E’ vero, ti sei preso l’Occhio.”
Scoppiò a ridere: “Sei soltanto un traditore, debole, doppiamente traditore. Lasciami andare, ingrato, e poi farò come vuoi tu e ti strapperò le piume una ad una!”
“No! - lo fermò – Combatti adesso! Vendicati ora per ciò che ho fatto!”
“Eh! - sorrise Devilfenix - Se proprio ci tieni, combatti allora! Ci metterò un attimo a sbarazzarmi di un pollo come te, e poi sarà il turno di quei tronchi buoni a nulla!”
I due tronchi buoni a nulla adoperarono quanto forza avevano ancora in corpo per lasciarsi alle spalle lo scontro che infuriava tra Signore ed ex - Signore dell’Aria, diretti verso la costa dove si sarebbero separati e dove li attendeva il marino con l’Occhio del Mare che con una barca, un grifone, qualsiasi cosa, avrebbe condotto i non due, ma tre Occhi nella capitale del Popolo della Terra!
Sapevano entrambi che Elios avrebbe potuto non ritornare per combattere nuovamente fianco a fianco con i Popoli amici, ma, mettendo coraggiosamente da parte il male che aveva fatto, avrebbero informato tutti della sua scelta decisiva, e di come meritava di essere ricordato.
***
Tutto il giorno e tutta la notte precedenti il 2 Tealse 860 l’accampamento dell’esercito capeggiato da re Obskurios non conobbe pace, fu in costante movimento.
Rimossi dalle stive delle grandi carrozze trainate da quattro o sei salamandre, che avevano compiuto uno sforzo immane trasportandole lungo tutto il Deserto di Roscamar, davanti agli occhi dei gormiti alleati prendevano forma imponenti macchine d’assedio: catapulte, arieti, baliste, torri arpionate tirate e spinte dagli stessi uomini, oltre che dalle bestie.
Per quanto assurdo possa sembrare, i gormiti sotto la guida di Luminescente III furono estremamente sollevati, quasi gioiosi, ma giustamente cauti a mostrare il proprio stato d’animo, nel constatare la decisione dell’esercito dello Stregone di Fuoco di continuare la lotta, dirigersi a Roscamar come del resto avevano fatto finora e cingerla d’assedio per conquistare gli Occhi della Vita di Terra, Foresta, Mare e anche Aria raccolti nel cuore di pietra e d’oscurità del millenario labirinto della Caverna di Roscamar, dove, incuranti del sangue che irrorava il paesaggio baciato dal sole, instancabili gocce d’acqua avevano scolpito muraglie di granito e calcare sotto forma di denti che avvolgevano il soffitto e il suolo delle grotte.
Era il segnale che il Vulcano e il Popolo delle Tenebre, o dell’Ombra o Oscurità che dir si voglia, avevano indirizzato tutta la loro attenzione sul covo dei preziosi di cristalli. Erano sull’orlo del precipizio della trappola progettata dai Signori di Gorm.
I gormiti dalla parte della Pianura più vicina alla capitale attendevano con impazienza che l’esercito dal lato opposto desse una volta per tutte il segnale dell’assalto, che iniziasse il conflitto finale.
Volevano farla finita, una volta e per sempre, ed essere come quelle gocce d’acqua nei tunnel sotterranei: scultori senza preoccupazioni e senza sofferenza capaci di costruire in pace un futuro sempre migliore per i propri figli, senza cruenti scossoni a interrompere continuamente il corso dell’acqua da stalattite a stalagmite.
Per attimi che ricordavano come così ristretti e insignificanti i gormiti del Vecchio Saggio – tranne poche eccezioni – avevano pregustato la fine risolutiva delle ostilità e dei mali che vessavano l’Isola, che avrebbe determinato il loro ritorno definitivo tra le braccia della famiglia e della casa, e nessun gormita avrebbe più dovuto vivere dieci e più anni della sua vita vivendo la paura della guerra, o la guerra stessa. Speranza e convinzione che li abbandonarono quasi subito, lasciando in loro un retrogusto amaro di desolazione e frustrazione, e di una risolutezza ancora più ferma di prima.
L’Occhio della Vita, non importava di quali grandi prodigi fosse capace, finché esisteva la guerra non si sarebbe mai conclusa.
La vittoria in quella pianura, la conquista con successo di Monte Vulcano potevano rallegrare i gormiti del trionfo sui bellicosi vulcanici, ma lasciava aperti ancora numerosi discussioni e dubbi, e la distruzione dell’Occhio della Vita era ancora un mistero; ma erano passi importanti da compiere nel raggiungimento del fine ultimo.
Dall’altra parte, anche il Popolo del Vulcano era sfinito e stanco di quel conflitto, freddo e caldo, protrattosi per quasi un ventennio e che, sebbene in costante piede di guerra e apparentemente dotati di risorse illimitate, li aveva estremamente indeboliti e impoveriti. Anche per loro quella lotta doveva essere terminata il prima possibile, o il Vulcano avrebbe rischiato il collasso, anche con gli aiuti dell’Aria, e di Tato Yami.
I nuovi poteri donati loro dall’Occhio della Vita e la presenza stessa di parti di esso nei loro territori dopo quasi mezzo secolo da quando il sacro rituale del passaggio dell’Occhio era stato cancellato li aveva riempiti di nuova forza e rinnovata volontà di divenire i conquistatori di Gorm e del mondo, con potenzialità distruttrici senza limiti. Il fatto che gli Occhi si fossero diretti nelle loro case di propria ‘volontà’ li rendeva tronfi e convinti che l’Occhio li avesse scelti per la loro grandezza, e che gli altri tre fossero stati catturati con le oscure magie del Vecchio Saggio e piegati al suo volere. Il fatto che egli fosse scomparso non li toccava. Anzi, faceva di loro una forza ancora più inarrestabile e convinta della propria supremazia, ora che il suo nemico era privo della fiamma che li aveva guidati nel buio per decenni, sicura della disorganizzazione generata dalla sua scomparsa.
In più, gli Occhi di Vulcano e Aria, prima che furono reclusi con le ricercate motivazioni dallo Stregone di Fuoco – e ben in pochi si opposero a lui – avevano già dato prova del loro potere che necessitava di essere controllato, mostrando a chiunque si avvicinasse visioni di un mondo futuro dove essi dominavano da sovrani e anticipazioni dell’imminente vittoria. In più, esattamente come narravano i miti contenuti negli Annali di Gorm e citati più di una volta da gormiti di ogni dove, le pietre preziose poste attorno agli Occhi furono riempite di energie, le meno capaci al punto da rompersi. Nessuna ulteriore trasformazione dei gormiti, però.
Avere avuto tra le mani l’ambito Occhio della Vita, seppur diviso, e sapere che le parti mancanti erano state riunite in un unico luogo non lontano da dove era stanziato l’esercito era un’attrazione troppo potente per sfuggirle.
Inoltre, essersene lasciate scappare uno, di Occhio, sotto il naso e per merito di traditori li aveva ancora più animati: riacquistare il maltolto e riunirlo con i suoi fratelli.
Che fosse stato il Popolo dell’Aria a consegnare più o meno indirettamente l’Occhio del suo elemento nelle mani nemiche fu un avvenimento decisamente malvisto e alquanto arduo da tollerare. La lega tra Aria e Vulcano era proceduta grossomodo con successo, ognuno cercava di rispettare i modi e gli usi dell’altro, spinto da un’unica missione. Tuttavia, tutti si ricordavano di essere stati nemici in un tempo assai poco lontano, e quel tradimento non scoperto, da parte poi dello stesso primo traditore, infiammò nei vulcanici l’idea dell’inaffidabilità del Popolo dell’Aria da cui esso non riuscì a difendersi con successo, merito della testardaggine dei vulcanici.
Dopo che il silenzio tornò a regnare nell’attendamento di Obskurios e le torce furono spente, lasciando solo piccoli scarsi fuochi di sorveglianza, nessun movimento sospetto fu più intercettato dalle sentinelle con la vista più acuta – o con i cannocchiali più precisi – nel lato opposto.
Fino al mattino seguente, quando l’eponima foschia già da alcune ore dominava la regione pianeggiante.
La Pianura delle Nebbie è, come già detto, una vasta regione piana antistante la ancor più ampia zona fertile e mite di Darth Kuun meridionale.
Il clima non lo si può definire desertico ma nemmeno dolce: le temperature sono comunque ostili, solo più sopportabili.
La sabbia ricopre solo superficialmente il suolo della pianura, e a un quarto di dito in profondità appare la terra dura, morbida se paragonata alla terra di Picco Aquila o della Valle del Vulcano, ma dura se messa a confronto con il terreno instabile e in cui è facile inciampare del pieno Deserto.
La pianura è ricca di oasi, piccole zone erbose con gruppi di mezza dozzina di corti alberi che circondano pozze d’acqua di dimensioni ridicole, ma molto preziose per quegli animali che evitano la città di Roscamar e navigano per natura attraverso l’inospitale e arido deserto, le uniche fonti d’acqua prima della Valle dei Canyon, fatta eccezione per rare oasi e falde molto profonde, diverse rese pozzi dai viaggianti terricoli per loro uso e consumo negli ordinari traffici tra Roscamar e Garsomor.
La prossimità con l’ambiente parecchio più ospitale, verde e quasi umido della feconda valle di Roscamar, il contrasto con l’aridità del deserto poco più in là rende la Pianura preda di frequenti invasioni di nebbia, specie al mattino e al crepuscolo.
La nebbia di quella mattina, come quella delle mattine e delle sere precedenti, quando c’erano, furono assai poco gradite. Impedivano la vista alle sentinelle, e nascondevano i movimenti del nemico. Anche salendo sulle torri più alte e volando a centinaia di piedoni nel cielo, l’esercito ostile era invisibile, fuorché con la magia, ma gli incantesimi non potevano scacciare l’intero muro di nebbia, né per sempre. Bisognava attendere che si diradasse, anche perché muovere contro un nemico che non si vedeva, si supponeva soltanto fosse davanti, era sconveniente e azzardato. Inoltre, i piani richiedevano che fosse l’avversario ad attaccare per primo.
Gli stessi svantaggi avevano valore per le truppe dalla parte opposta, quindi si aspettava.
Si attendeva con impazienza. I soldati erano in fila, ogni classe di guerriero disposta nei suoi ranghi; le macchine belliche di cui anche loro erano armati, diverse ordinate dalla vicina capitale della Terra, sistemate secondo il programma.
Contro ogni aspettativa, ma forse no, accadde che l’attesa fu anticipatamente interrotta.
Il suono del lento marciare, passi corazzati di ogni uomo e bestia su un terreno molto più sonoro, le ruote delle grandi catapulte che stridevano nel loro avanzare; le cime, ben guarnite, delle torri d’assedio che sovrastavano il campo di nebbia.
E infine i volti ricoperti a tratti di elmi e le sciabole che luccicavano opache apparvero affamati dalla fitta foschia.
Il tempo dell’attesa non era ancora finito. Difatti, non appena le fila iniziali dell’armata dello Stregone di Fuoco si resero visibili ai capi dei battaglioni alleati, la loro marcia fu arrestata.
Le catapulte furono fatte avanzare, spietate macchine di ingranaggi e inneschi piegate per lor natura alla devastazione. Gli alleati sperarono vivamente non fossero armate con le letali bombe che minacciarono pochi anni fa la distruzione della Città Sotterranea. Era inoltre improbabile che, nel caso in cui si fossero fatti trasportare carichi di costosi ordigni esplosivi dal Monte di Fuoco, armassero le catapulte solo per assalire le fila avversarie, invece che risparmiarle per l’assedio alle mura. I massi poco minacciosi che posero nei robusti sacchi delle catapulte diedero sollievo ai gormiti alleati, ma solo per poco: una pioggia di macigni non è affatto uno spettacolo piacevole, e non era ancora sicuro che non avessero a disposizione le famigerate bombe.
Quando poi a molti dei massi in vista fu appiccato fuoco il sollievo nei cuori dei gormiti fu completamente rimosso. Non erano esplosive, ma terribilmente dolorose.
Come un'unica grande forbice, chele, falci e pugnali dei vulcanici ruppero all’unanime tutte le corde che tenevano tese le catapulte, e con un sobbalzo tremendo centinaia di enormi sassi e lapilli che tagliavano il cielo con scie di fuoco furono sollevati in aria. Scomparvero nella nebbia e poi riapparivano più veloci e carichi di morte di prima, e si schiantavano al suolo con possenti tremori e numerose vittime.
La battaglia era finalmente iniziata.
La risposta degli alleati fu repentina e ugualmente mortale: armarono le proprie catapulte, in numero minore e nessuna infuocata, e a i macigni in caduta libera accompagnarono più precise, penetranti e meno intercettabili frecce, scagliate da archi e balestre, in particolare dei ka’nhili.
Uno sciame assassino di vespe oscure, senza veleno ma con un pungiglione molto più pericoloso, che dipinse il cielo ingrigito di un lugubre nero, che abbandonando la volta dominata dalla nebbia macchiò di rosso la sabbia e i corpi ora inerti di coloro che furono colpiti.
Agli attacchi a lontananza si aggiunsero fino a rimpiazzarli totalmente le cariche più o meno ordinate della cavalleria, seguita a distanza dalla fanteria. Possenti dragoni e graziosi grifoni solcavano il cielo nebbioso e stampavano la loro sagoma nella densa foschia, mentre le salamandre si scontravano e si abbattevano follemente, vicendevolmente squarciate dalle lunghe lance dei loro cavalieri, qualora essi mancavano il loro bersaglio.
La risolutezza nel porre fine a quella battaglia era ancora più salda che nella battaglia alla Valle della Disperazione, gli stessi infallibili guerrieri ka’nhili sembravano aver abbandonato la loro rigidità e compostezza per dare libero, ma ancora controllato, sfogo al loro desiderio di eliminare la loro nemesi oscura, un desiderio e una necessità, come se la stirpe di Tato Yami fosse un male incurabile da debellare al più presto e senza pietà.
Lo stesso si poteva dire per i gargoyle, più folli e spietati che mai, che spingevano e premevano con i loro cupi poteri scatenando terribili perdite.
Una vera e propria furia degli elementi, ora che nuovi poteri si erano aggiunti alla straordinaria lista delle abilità dei sovrumani gormiti. Pieni poteri, li chiamavano: il culmine insuperabile del dominio delle forze della natura.
Al vulcano si era aggiunta con fatica la lava che brucia tutto, persino i metalli più duri, ai liquidi e all’acqua impetuosa il ghiaccio più freddo della cima di Picco Aquila, al vento e alle correnti il dominio dei fulmini e delle scariche più forti, alla terra e a alla sabbia e alle pietre il diamante indistruttibile ma con un alto prezzo di energia, e l’inquietante potere sulla materia organica si accompagnano fasci luminosi che ardevano come il fuoco.
Luce e ombra che illuminavano di gelo tagliente e accecavano di veleno bruciante; fiumi di fuoco generati con la semplice flessione delle mani, che bruciavano senza legna e senza paglia, vivi dell’energia interna dei vulcanici, una forza che pareva inesauribile; turbini e saette, spesso uniti in un unico devastante temporale piegato al volere di un solo gormita, più apocalittico di qualsiasi catastrofe naturale; Blomstervegg, le mura di legno o osso, alti come il fiume Cornolmo era lungo eretti dal terreno e a cui i guerrieri della Foresta attingevano grossi lastroni taglienti con cui impalare gli avversari.
Una tremenda e tutt’altro che gradevole dimostrazione del potere degli elementi, che molto altro che portare morte possono fare.
V’era, a dirla tutta, poca dimostrazione della forza devastante dell’acqua, sin dall’inizio della campagna nella Valle della Disperazione. Gormiti del Mare erano rari, questo perché erano in gran parte adoperati per l’assalto a Monte Vulcano, una campagna memorabile il cui avvio stava per partire in quel momento. Non certo – ma sotto sotto anche per quello, forse – perché il Deserto era l’ambiente più inospitale per i marini.
La cosa doveva dare da pensare ai nemici. Eppure non si vede alcun dubbio in loro, nessuna preoccupazione. Dritti e decisi alla meta, non temevano nulla. Troppo decisi e sicuri, forse; non potevano in fin dei conti davvero pensare di poter assediare Roscamar con solo quell’esercito, contro uno di pari numero che poteva rimpolparsi ad ogni momento dalla vicina città, mentre i rinforzi nemici dovevano percorrere lunghissime leghe, e all’arrivo non sarebbero stati affatto capaci di combattere al pieno delle forze.
Che stessero nascondendo qualcosa? Che avessero fiutato l’inganno, e stessero a loro modo ingannando, facendo credere di essere caduti nella trappola? Non lo si poteva dire.
Ritornando alla funesta furia degli elementi, e al problema dell’acqua: c’era in verità qualcuno che dimostrava al gran completo il micidiale carattere distruttore dell’elemento del Mare, oltre al Signore Nobilmantis e ai suoi pochi guerrieri.
Obskurios re di Tato Yami, splendido e feroce, alto nel cielo sorretto dalle spettrali ali pallide che da sole avrebbero potuto condurlo sulla vetta di Picco Aquila e ancora più su; con una mano, quando non stringeva lo straziante Nero Artiglio, l’unica, inseparabile arma che riteneva necessario usare, ingiungeva tremendi comandi ai suoi uomini; con l’altra mano, la mano del lugubre braccio robusto come un giavellotto, dono dell’inesauribile e benevolo Occhio della Vita, comandava a possenti masse d’acqua che in quel deserto nessun’altra fonte all’infuori di lui e dei marini poteva generare, piegate a lui e unicamente a lui senza possibilità di sottrarglisi, di spargersi con impetuosità nella calda estensione e travolgere i nemici con la forza che solo la natura poteva imprimere loro.
Per lui, e per molti gargoyle sotto di lui che lo invidiavano per la fortuna propizia, la caccia agli Occhi della Vita era divenuta un motivo di lotta molto più acceso dell’odio verso i ka’nhili.
Esso aveva infuso in lui la proprietà unica dei gormiti del Mare di creare e controllare l’acqua, dotata di usi e potenzialità con cui la mera forza dell’oscurità non poteva competere, ma soprattutto gli aveva regalato un nuovo braccio.
Tutto aveva fallito: le cure più lunghe, le pozioni e le erbe curative e rigeneranti più rare e costose, gli esperimenti d’alchimia e magia più spericolati. Da quando gli fu tolto dall’odiato El’issam, da quando nulla sembrò poterlo riportare indietro, Obskurios si era rassegnato a vivere senza un braccio, senza una parte di lui. L’esperienza spirituale della via dell’ombra portava a simili conseguenza, lo struggimento per la perdita di un proprio possesso.
Nonostante tutto, l’Occhio della Vita, manufatto antico e misterioso e soprattutto ignoto agli occhi di Obskurios che mai lo aveva visto prima della Grande Caduta, lo aveva graziato con un corpo nuovo e un braccio ancora più forte di prima, con cui poteva trafiggere gli avversari come fosse una lancia e che necessitava di molto più che una toccata di spada per cessare di esistere un’ennesima volta. Un potere simile, il potere dell’Occhio della Vita, doveva essere suo.
I suoi sudditi, come ho del resto già accennato, provavano invidia, meraviglia e ammirazione per ciò che gli era toccato. Loro, esperti e audaci alchimisti, erano avvezzi a mutazioni e a esperimenti applicati su se stessi, spesso con risultati poco gradevoli; perciò, che il loro re avesse perso le sue sembianze da gargoyle per una forma più potente li preoccupava poco. Li preoccupava di più mettere le mani sugli Occhi della Vita e ottenere anch’essi quelle straordinarie abilità.
Obskurios, da parte sua, temeva che per l’eccessiva invidia di alcuni individui si fossero sollevate insurrezioni basate sulle convinzioni più disparate per cacciarlo dal trono, ritenuto davvero troppo potente e troppo pericoloso, al punto da far credere di non aver affatto bisogno di un popolo al suo servizio e di conseguenza che i bisogni del popolo non lo toccavano più come una volta.
Così non era, e Obskurios avrebbe lottato fino all’ultimo per bruciare ogni credenza simile sul nascere e mantenere la sua famiglia sul nero trono di Tato Yami; ma allo stesso tempo non si sarebbe risparmiato in spaventose esibizioni di supremazia dell’acqua.
All’altezza in cui si trovava non c’era molta azione: l’esercito avversario non poteva dispiegare un egual numero di guerrieri alati quanti il suo, e i soldati capeggiati da Devilfenix, consci di ciò, volavano a bassa quota e assalivano i gormiti ostili a portata di tiro, volteggiando da una parte all’altra della pianura, senza un obiettivo preciso nella maggior parte dei casi.
L’attacco dall’alto quando il nemico può solo contrattaccare terra - aria non era appagante, dilettevole, adrenalinico come la lotta in mezzo alla folla belligerante, con schegge, percosse e lame che ferivano da ogni parte, avversari ligi al dovere della guerra pronti a tagliare la testa ad ogni lato, da cui era necessario difendersi con prontezza di riflessi, o immensa fortuna.
A tale quota Obskurios non era nemmeno nella possibilità di sfoggiare appieno il potere del Mare, e questa era forse la cosa che più lo infastidiva.
Poco gli importava di essere il sovrano che combatteva in prima linea sotto il fuoco di tutti i nemici: era tradizione, era solito che il re lottasse come e insieme agli altri gargoyle. Del resto, non era la prima occasione in cui lo faceva, nemmeno la prima contro i sorprendenti gormiti, che rendevano necessario guardarsi doppiamente le spalle. Ora però non era più lo stesso di prima: era più forte, era migliore.
Con grande teatralità flesse le ampie ali acuminate e si tuffò con una capriola verso il basso, entrambe le braccia protese in avanti in direzione del suolo. La velocità con cui cadeva s’accresceva pericolosamente tanto più il secco suolo si faceva più grande e vicino al suo sanguigno sguardo.
In un attimo un’enorme blocco d’acqua si materializzò nel punto d’impatto del re dei gargoyle, attutendo la sua caduta e inglobandolo in esso. Non appena la sua figura tenebrosa, tetramente illuminata da una precisamente sagomata corazza mirto cupo, scomparve nella massa d’acqua questa, magicamente trattenuta in una forma di parallelepipedo, si sformò repentinamente e scoppiò frammentandosi in una serie di potenti onde che avvolsero gli avversari più vicini.
Ed ecco che, assorbita l’acqua dall’assetato marrone sotto i loro piedi, la figura di Obskurios riapparve, sana, forte, eretta ed energica come non mai, già impegnata a sferzare l’aria a sinistra e a destra con onde d’acqua e di oscurità.
Il Nero Artiglio sfigurava e disarmava trucemente, lo scudo rotondo con l’immagine di un drago a due teste lo difendeva dagli attacchi frontali e incanalava i poteri del re in misure e dimensioni meglio contenibili.
Incurante dei dardi diretti contro di lui e liberandosi non senza ricevere danno di coloro che si abbattevano con furia su di lui, esercitava al meglio della sua portata le tecniche elementali dell’acqua.
Nel poco tempo che aveva separato la battaglia in corso dalla Grande Caduta Obskurios si era fissato particolarmente con l’acqueo potenziale donategli dal divino cristallo e si era allenato quasi l’intero tempo a dominare tutte le tecniche del Mare più impegnative e distruttive.
Il Maelstrom lo affascinava come poco altro in quella vita: un maremoto scaturito dalla sola energia del suo cuore e delle sue ossa; ma non c’era stato il tempo, lo spazio, l’occasione e la forza necessari per poter eseguire con successo, nemmeno dare avvio a una tecnica così complessa e rovinosa.
Le Mura del Mar Rosso erano la sua mossa prediletta, la più cruenta e piacevole alla vista di Obskurios, sempre alla ricerca di spettacoli improbabili e carichi di violenza, e si sprecava nell’attuarla tutte le volte che poteva durante quella battaglia.
Richiedeva tuttavia una certa dose di precisione ed entrambe le mani, e la combinazione delle due cose lo lasciava rischiosamente esposto ad attacchi ostili.
Per la maggior parte riuscì a sopportarli senza crollare, ad evitarli o a respingerli e portare a termine le Mura del Mar Rosso; ad un certo momento, però, mentre pregustava di schiacciare tra le due masse liquide un misero gormita gambizzato, un gelido getto di luce lo accecò e lo deconcentrò.
L’acqua scrosciò rumorosamente a terra, liberata dal controllo del re, che barcollò indietro e agitava la mano davanti ai propri occhi feriti.
Riacquistò in tempo la vista, ancora con la mano armata di scudo a parargli il viso, per riconoscere il suo assalitore e schivare uno squarcio luminoso della sua lunga spada.
“Ancora convinto che tu debba usare solo la forza della luce, El’issam?” gli domandò con vena sarcastica e sprezzante, ritornandogli indietro una zampata di tenebra che non andò a segno.
Sommo Luminescente III, abbagliante al sole del primo mattino che con i suoi raggi dissipava la nebbia, osservava dall’alto del suo volo magico, le quattro ali ambrate ben ferme e salde, il suo nemico con boria e sufficienza che trapelavano facilmente dalla sottile fessura del suo elmo-corona.
Addobbato in una tradizionale armatura karmiliana a tessere, bianca con oro e argento, le ampie spalliere e le robuste placche della cintura ai lati delle gambe, se non fosse stato per la carnagione violetta – oltre che alle già citate ali e alla mancanza di rigonfiamento in prossimità dei fianchi, merito delle braccia ausiliari scomparse – era tale e quale a prima dell’evoluzione, e quasi non un sovrano ma un soldato di Karmil qualunque. L’elmo - corona era l’unica cosa che faceva di lui un ka’nhili speciale, prendendo in considerazione solo l’armamentario.
“Non vedo perché dovrei aver cambiato il mio atteggiamento.” replicò glaciale e vago El’issam, sfoderando l’altra spada.
“Sai cosa intendo. So che puoi controllare il fuoco, non negarlo. Ma non lo vuoi fare.” Gli rinfacciò con tono di rimprovero il sovrano yamense, cominciando a sbattere lentamente le ali per salire.
“Questo potere è sbagliato. Se lo usassi, dichiarerei la mia dipendenza da esso, e dall’Occhio della Vita, sua fonte, che ho giurato di distruggere”
Un letale fascio di luce concentrato da entrambe le lame accompagnò la sua spiegazione.
“Stronzate. – sbuffò Obskurios, accelerando la sua salita per evitare l’attacco – Sei un folle, El’issam. Hai sempre agito come tale, e sempre lo farai. Non c’è cura per questa tua follia, se non la morte.”
“So dove vuoi arrivare. Mi dispiace porti questa notizia, ma non sarai tu a darmi la morte.”
Esausto delle chiacchiere, Obskurios portò le mani indietro per poi ricacciarle in avanti, grondando un torrente d’acqua che lanciò su El’issam.
Il Sommo si difese con facilità impressionante, rimanendo fermo ma spostandosi da un alto con la forza magica.
Obskurios optò stavolta per una più lenta ma più forte Zanna del Demone Marino.
Con indifferenza e flemmaticità insopportabili, quasi senza agitare le dita, si spostò, levitando lentamente e con leggiadria, ed evitò anche quest’attacco, che si disperse in una fitta pioggia dietro di lui.
Non potendoselo affatto aspettare, non riuscì ad eludere anche lo stesso scudo dipinto, scagliato in un impeto d’ira, che gli si ficcò in pieno addome ammaccandogli diverse tessere.
La sua reazione sarebbe stata devastante, se Obskurios non gli avesse impedito qualsiasi mossa all’infuori di quelle difensive, precipitandosi contro El’issam, deciso a trapassarlo da parte a parte con gli spiacevoli uncini verde acido del nuovo braccio.
Tre volte, coadiuvato dai prodigi della forza magica per maggiore potenza nonché per sicurezza, fece scattare in avanti il robusto e perforante arto come una freccia in un arco teso, e tre volte Obskurios fallì, fendendo l’aria con riverbero inquietante e rabbia crescente.
Esasperato per le continue facili elusioni del Sommo – anche se ultime gli erano costate parecchio sudore e fortuna – cacciò un urlo selvaggio e alzò omicida la frusta uncinata.
Il Nero Artiglio fu bloccato nel suo sfuggente tragitto verso El’issam…dalla sua mano.
Gli uncini perforarono i guanti e la coriacea carne, bagnandosi di lucido sangue, ma non ci furono sospiri di dolore per quelle ferite, né ci furono quando Obskurios strattonò la frusta per rimuoverla dalla presa nemica lacerando ulteriormente i palmi e le dita, che però non abbandonarono la presa.
Segnali di dolore mancarono addirittura quando, con forza superiore a quella con cui il re yamense tirava dalla sua parte, Luminescente III trascinò il Nero Artiglio verso di sé e se ne appropriò.
Obskurios spalancò la bocca rabbioso e indignato. Quella frusta valeva per lui come l’elmo - corna valeva per El’issam. Non era affatto alcun simbolo di potere, non ufficialmente, tuttavia non poteva comunque permettere che gli fosse sequestrata.
El’issam sembrò rendersene conto – forse lo sapeva sin dall’inizio – e infatti, aiutandosi sorprendentemente con le due paia d’ali, che sbattevano per la prima volta dalla loro nascita, iniziò una fuga precipitosa da Obskurios con il preciso intento di farsi inseguire, provocando il derubato con globi di luce.
Obskurios non era per niente interessato al suo uso delle ali, né aveva bisogno di ulteriori provocazioni: doveva riprendersi il Nero Artiglio.
Rispondendo ferocemente alle provocazioni con ingiurie e sferzate ombrose e d’acqua, inseguì furente El’issam, senza la minima cura della sua destinazione.
Il suo attaccamento alla frusta e la sua sconsiderata corsa per riprendersela fu la sua rovina.
Luminescente III la fece repentinamente cadere, dopo che almeno mille teste per uno si erano susseguite sotto di loro, e Obskurios incosciente si gettò a capofitto verso di essa. Non tanto incosciente da non sparare una Zanna verso El’issam per precauzione.
Fu però un colpo alla cieca, che non centrò mai il bersaglio.
Appena le mani di Obskurios serrarono la lucida e ricamata impugnatura del Nero Artiglio, un abbraccio a un amico che non si vedeva da lungo tempo, un bolide fulgente lo investì con una spinta di centinaia di libbre.
Una spinta ineludibile, tanto intensa da impedirgli qualsiasi movimento, che l’avrebbe portato a sfracellarsi al suolo, ed El’issam con esso. Una piccola soddisfazione: morire insieme a lui e saperlo ucciso dalla sua stessa follia, dalla rabbia nei suoi confronti che non era più riuscito a contenere. Essere consapevole di aver fatto perdere la ragione all’acerrimo nemico, di avergli fatto tradire i suoi tanto cari rigidi codici e di averlo portato in tal modo alla morte lo riempì di compiacimento, e di gioia. Forse quelle due passioni sarebbero riuscite a salvarlo.
Le cose andarono diversamente.
La caduta e lo schianto inevitabili di Obskurios furono inaspettatamente arrestati da qualcosa di secco e freddo che strinse con presa ferrea i polsi e le caviglie di carbone di Obskurios e, se anche lo salvarono dalla morte o quanto meno dal rompersi la schiena e il collo, non gli risparmiarono il dolore nello strattonarlo violentemente a terra, e ad ancorarlo lì.
Immobilizzato da mere radici, ingannato da un trucco infantile, reso impotente, lontano dal campo di battaglia…non poteva essere vero.
Attorno a lui vide Grandalbero, il sovrano dietro quelle liane, e due gormiti dell’Aria che, con i palmi aperti e rivolti in avanti, luminescenti, lo tenevano ulteriormente fermo con qualche magia.
“Fai buona guardia, Signore della Foresta” enunciò trionfante El’issam, una sagoma scura e indistinta, in pieno contrasto con Nejema che si stava levando. Grandalbero annuì tacitamente.
“Argh! - urlò di collera Obskurios - Maledetto!”

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Capitolo 38
*** Capitolo 17.2 ***


“Sapevo che mi avresti cercato - espresse a sangue freddo il Signore della Terra – Abbiamo un conto in sospeso.”
“Non c'è bisogno di ricordarmelo.” replicò freddamente come il metallo in cui si era rinchiuso Armageddon.
Thorg, in una splendente armatura cromata, osservava con fare intimidatorio e di sfida il suo arcinemico, abbassando il capo e mostrando fiero e pronto alla rissa le argentee corna, scalciando beffardamente il terreno con un piede come un toro imbufalito.
Il Signore del Vulcano era assai meno altero e divertito di lui, ma non si potevano definire con certezza i suoi moti dell’animo, ora meno che mai.
Una gabbia di acciaio gelida come il ghiaccio e ardente di mille incendi nascondeva la sua carne, i suoi tremori e il suo terrificante volto famelico. Spalliere squadrate del peso di cento uomini, bordate del brillante colore della morte, trafitte da dozzine di tessere acuminate color del corallo gli gravavano e gli sostenevano le forti braccia. Della stessa fattura era composto il pettorale e la protezione dell’addome. Alle braccia e alle gambe, una autentica corazza di centinaia e centinaia di catene avvolte e sovrapposte, gravose e sopprimenti come un’intera montagna, strappate alle prigioni e ai prigionieri che relegavano un tempo per riproporre la sofferenza di quegli schiavi sui guerrieri liberi.
Un guanto bronzeo, massiccio, dagli uncini dorati sulla punta delle dita, stringente e pressante, a una mano.
Nell’altra mano, sempre che ancora ci fosse una mano, le catene dell’avambraccio perdevano il loro carattere decorativo e minatorio per concorrere all’impiego di una grossa palla puntuta di giallo, dal funzionamento simile alla vecchia e abbandonata attrezzatura di re Obskurios.
Unicamente i possenti bicipiti, rossi come la ruggine più ostile e insistente, rimanevano scoperti. Nessun tangibile e certo segno dell’evoluzione della Grande Caduta. Forse però, la grande e minacciosa maschera di ferro grigio, come tante tenaglie aguzze impilate, dichiarava un cambiamento nel suo viso. I denti ferrei della maschera procedevano secondo due linee rette parallele mentre, se i ricordi di Thorg non lo ingannavano, la sua bocca era circolare e i denti naturali seguivano il suo corso.
“Non abbiamo più avuto occasione di finire il nostro duello, dopo la caduta del mio dragone.” esordì Armageddon.
A un movimento fulmineo nonostante il peso della sua mano, una boccia di lava acida, ardente e corrosiva fu sparata in direzione di Thorg. Sì, era mutato.
Quest’ultimo sbiancò, come sempre aveva fatto ogni volta che, dal recente scoppio della battaglia nella pianura, uno dei vulcanici nuovi lo assaliva con il letale magma fuso.
Lava e magma. Un materiale incandescente, pericolosissimo e ingovernabile con i mezzi della tecnologia, che tutto poteva smantellare e sciogliere, aprire la strada verso qualsiasi obiettivo concreto.
Era spaventoso, e ingiusto, che un simile potere potesse essere piegato ai capricci dei già aggressivi gormiti del Vulcano, a cui era stato porto un ulteriore mezzo di annichilimento dopo il temibile fuoco.
Anche a Thorg e ad altri gormiti della Terra, tuttavia, fu donato un immane potenziale, forse più utile della lava. Se non altro, e per fortuna, erano in pochi nel Vulcano a godere di quel portento, e, come valeva anche per il diamante della Terra, era assai impegnativo produrre dal nulla il fuoco liquido.
Il Signore della Terra fu terrorizzato a quella vista, ma non si paralizzò né si dimostrò impaurito: sollevò una sagoma di terra per difendersi, e per sicurezza balzò anche di lato.
“Hai proprio ragione, – proferì poi – ci siamo persi di vista. Ma ora possiamo continuare.”
“Che ne dici di procedere da dove ci eravamo fermati? – propose sogghignando il Signore del fuoco – Tu a terra, e io che ti sto per colpire.”
“Non ci tengo. E poi, ti ricordo che avevi una spada con te, e adesso non ne hai nessuna.”
“Giusta osservazione. – concordò – Sarò benevolo, e ti farò riprendere come desideri. Cominciamo?”
Tra Armageddon e Thorg si era sviluppata, in quel solo incontro, una grande intesa, un profondo e intenso rapporto di giusta inimicizia. Si rispettavano tra di loro, combattevano con giustizia e valore.
Tutto merito del genuino senso dell’onore di Armageddon, che, nonostante tutte le parole al riguardo di molti capi militari nonché dei singoli sudditi, anche quei pochi che non combattono, era interpretato diversamente e malamente e solo il suo era degno di stima per il Signore della Terra.
Armageddon scagliò con uno scatto la mazza ferrata al suolo, nel tentativo di colpire Thorg.
“Mi dispiace ma la potenza non basta – lo informò provocatorio Thorg - ti serve la velocità!"
“Non mi dire - continuò pacato Armageddon dirigendosi lentamente verso di lui, raccogliendo la mazza - E ce l'avresti tu?”
Spiccò un balzo poderoso, e atterrò in tutta la sua mole su Thorg, che, sconvolto da tale salto non,ebbe il tempo di muoversi.
“Questa come la chiami, hm?” disse orgoglioso il Signore di Monte di Fuoco.
“M-magia.” rispose respirando a fatica Thorg. La sua massa era davvero immane, insostenibile. Si sentì soffocare, quasi non sentiva più lo stomaco e i muscoli addominali tesi fino allo sfinimento per sopportare quello straordinario peso.
Percepiva la cotta di maglia graffiargli e conficcarglisi nella pancia, e sentiva i contorni della corazza che perforavano la protezione più interna. Se non avesse agito, il suo peso da solo sarebbe bastato per ucciderlo.
Armageddon gli sferrò un pugno. E poi un altro, e un altro.
Alzò poi entrambe le braccia per colpire più fortemente Thorg, ma questi, sfondato ma indistruttibile, gliele afferrò e, avvicinandolo a se, gli inferì una massiccia testata, che fu sufficiente a smuovere Armageddon dal corpo del Signore della Terra.
Tastandosi un poco il capo, quasi per nulla danneggiato, Armageddon non si diede per vinto, e caricò contro il suo nemico.
Thorg, seppur dolorante, era pronto al contrattacco e alla carica di Armageddon; ma quando questi gli fu vicino, fece qualcosa di inaspettato: aprì e allargò la sua bocca, talmente tanto da riuscire a contenere l'intero capo di Thorg. E continuava ad allargarsi, e se non si faceva venire qualcosa in mente, Thorg diverrebbe il pasto più succulento di Armageddon.
Thorg si sentì genuinamente in pericolo di vita. Le pinze della maschera di ferro e i denti d’avorio premevano con forza bestiale sull’elmo e sulla nuca del Signore di Roscamar, piegandogli all’inverosimile le corna e colandogli addosso calda e raccapricciante saliva.
Thorg urlò disperato.
Non era mai successa una cosa simile; persino durante il Grande Sacrificio i vulcanici si erano ritratti dal cibarsi dei milioni di gormiti a cui avevano tolto la vita in un solo giorno con il furore accumulato in anni di sevizie.
Ora, in quel duello, gli incubi più tenebrosi che colpivano i cuccioli di gormita, a cui venivano spesso raccontate falsità sul conto del Popolo del Vulcano, diventavano realtà.
Disperato, furioso, sconvolto per quella morte tanto tragica e inumana, fece di tutto per impedire ad Armageddon di serrare la presa e congiungere i sanguinari denti.
Plasmò del diamante sulle proprie mani, e con esso, accompagnando la sua lotta per la sopravvivenza con grida di agonia che nulla avevano da invidiare alle grida di battaglia dei gargoyle, tempestò di pugni l’elmo di Armageddon, ammaccandolo ma facendosi anche male per la durezza del carbonio puro.
Non intravedendo speranza in quella tattica, e risoluto ad aver salva la pelle, Thorg allora posizionò le mani ai lati dell'immensa bocca di Armageddon, e si liberò con enorme sforzo dalla morsa. Sarebbe stato in grado di spaccargliela, se solo questi non gli avesse inferto un calcio nello stomaco, che lo obbligò ad abbandonare la presa e a ritrarsi indietro; tuttavia si riprese subito, pronto a ritornare la sofferenza e la paura subita con un assalto demolitore.
Rabbrividì. Si era salvato, nonostante l’orrore e la disperazione; a sangue freddo, sull’orlo del baratro tra la vita e la morte, aveva optato per la mossa migliore ed era ancora vivo, e pieno di desiderio di vendetta.
Scorse Armageddon, nient’affatto riluttante ad ulteriori dimostrazioni della sua empietà, e caricò contro di lui senz’un ma. Ma il suo avversario non fu colto alla sprovvista e anzi, gli afferrò le corna e dopo averlo roteato per bene, lo lasciò per andare a catafascio su una delle vicine catapulte, ormai abbandonate.
Approfittando del tempo con cui Thorg si liberava dalla legna, Armageddon avanzò pronto a sferrare un ultimo colpo.
Se non che sotto ai suoi piedi improvvisamente il suolo divenne mollo, e Armageddon sprofondò rapidamente.
Thorg fu enormemente soddisfatto da quella piega degli eventi: qualcuno giungeva in suo aiuto nel momento del bisogno, e sapeva benissimo di chi si trattava. Sabis, potente stregone cresciuto durante gli anni in cui Kolossus promuoveva la magia, succoso frutto di quel periodo insieme a Evera Opale Nero. Sabis era specializzato nella trasmutazione, l’arte magica di mutare il proprio corpo e le proprie sembianze e farle divenire un unico materiale della natura: acqua, fuoco, ghiaccio, sabbia.
Con grande gioia, anche se non era affatto onorevole terminare un duello a quel modo, osservò il corpo di Armageddon discendere muto nelle sabbie mobili.
E poi scomparve del tutto, immerso e sovrastato nell’impalpabile e soffocante suolo sabbioso.
No, Armageddon non poteva essere sconfitto così. Una mazza ferrata a fatica estratta dal vortice irresistibile di polvere giallastra, e Armageddon la lanciò contro Thorg, legandogliela attorno al piede, mentre con la mano si aggrappava al terreno solido.
“Se cadrò, Thorg, tu cadrai con me!” bofonchiava Armageddon esasperato, inghiottendo sabbia e faticosamente trattenendo capo e braccio fuori dal gorgo granuloso.
Thorg, saldo coi piedi a terra, con le mani che trafiggevano la brulla terra, cercava di allontanare ancora una volta il fatto avverso. Perché Sabis, se di lui si trattava, non stava facendo niente per tirarlo fuori da quella situazione? Se doveva ucciderli entrambi tanto valeva che non venisse in suo soccorso.
Con una mano armata di diamante, che lo aveva ulteriormente impoverito di energia, tentava frenetico di spezzare la catena della mazza che lo teneva legato ad Armageddon; non poteva permettersi di cadere anche lui nelle sabbie mobili, se Sabis non aveva intenzione di fermarsi.
Ad un certo punto sentì la mazza scivolargli via dal polpaccio celermente.
Armageddon era caduto? Era davvero andato? O si era salvato?
Sicuro della sua momentanea salvezza, Thorg si voltò, per vedere il nulla. Nemmeno le sabbie mobili, nemmeno Sabis che ritornava nella sua forma per accertarlo delle sue condizione, di quelle di Armageddon e offrirgli le necessarie spiegazioni per averlo quasi ammazzato.
Le sue domande rimanevano senza risposta.
Probabilmente ad Armageddon non piacque che Sabis si sia intromesso nella loro sfida, e l’abbandonò con qualche arcana magia. Tuttavia, la scomparsa di Sabis, sempre che fosse stato davvero il suo suddito a venirgli contro - incontro, rimase un mistero.
Che ci fosse forse qualche altra forza in lotta insieme ai gormiti? I semidei erano tornati su Gorm dopo aver viaggiato in altri mondi, e combattevano tra di loro per la salvezza dei Popoli prediletti, scatenando fenomeni naturali che nemmeno i gormiti potevano tenere sotto il loro controllo.
Non c’era tempo ulteriore da perdere in cupe osservazione: la battaglia proseguiva.
L’assenza di Obskurios, così come quella di Armageddon, non fu notata immediatamente. Del resto, in una battaglia campale dove si scontravano quasi duecentomila soldati è facile perdere di vista compagni e nemici, darli per morti, per poi ritrovarseli improvvisamente di nuovo alle proprie spalle, a difenderle o a colpirle.
Anche nel caso in cui il Signore del Vulcano o Obskurios fossero davvero passati a miglior vita, la campagna avrebbe continuato. Non era lui il massimo capo della guerra: c’erano ancora Devilfenix, il secondo Pantiavros e numerosi altri capi militari a guidare gli uomini del Monte di Fuoco, di Picco Aquila e dell’Oscuro orizzonte, l’antico appellativo con cui il Vecchio Saggio aveva denominato la casa dei gargoyle, alla conquista di Roscamar e dei quattro Occhi.
In più, lo Stregone di Fuoco era ancora vivo e presente, attivissimo e pericolosissimo dal silenzio e dall’ombra del suo trono di pietra in cima al Vulcano. Finchè lui c’era, proprio come l’Occhio della Vita, il Vulcano non avrebbe mai cessato di guerreggiare, e di tramare loschi piani insieme alle migliori menti di Tato Yami ai danni dei Popoli alleati.
I piani per quella battaglia in direzione della capitale della Terra non erano limitati alla sola marcia e al combattimento frontale. Un’arma speciale era stata studiata, progettata e costruita secondo schemi complessi e preziosi nelle miniere e nelle segrete della Valle del Vulcano. Un’arma oramai terminata e che instancabile e pronta ad obbedire a comandi di morte aveva attraversato tutta la Valle e il Deserto.
Ora, i plotoni al seguito dello Stregone di Fuoco e di Obskurios compresero l’arrivo tanto atteso del loro asso nella manica, la loro soluzione per una vittoria rapida e conclusiva e la chiave per le porte di Roscamar e per gli scrigni di roccia che custodivano i divini Occhi. L’esercito del vento e del fuoco, più o meno ordinatamente, si divise in due, lasciando libero spazio all’ultimo prodigio della magia di Magor e della scienza di Tato Yami.
Dei soldati scuri, senza armi e senza corazza, dagli sguardi vuoti e dalla totale insensibilità, muti e tutti uguali come le stelle della notte, marciavano all’unisono nella Pianura della Nebbie.
Uno si appropinquava flemme e irrefrenabile verso Thorg.
 
L’inquinato mare di uomini neri apparso dal nulla si fece strada, dividendosi in decine di fiumi, tra la folla di guerreggianti, recando sorrisi spaventosi e rinnovata speranza di vittoria tra le fila di gargoyle e seguaci dello Stregone di Fuoco, e inquietudine e sospettosi cipigli nelle schiere del Vecchio Saggio, presto sincere espressioni di terrore.
Nulla di tutto ciò era visibile nell’allarmante orda corvina che già combatteva fianco a fianco di vulcanici e yamensi e dava dimostrazione a loro stessi e ai nemici delle loro inumane abilità: sembrava non esserci alcun moto nei loro sguardi, né piacere né dolore, nessun sintomo di emozione.
Vuote erano le loro espressioni mentre, separandosi dal nucleo dell’armata – a prima vista, pensò Thorg, dalla sua posizione sembravano essere qualche centinaio – ogni fiume di soldati scuri si scindeva ulteriormente per scegliere un avversario nelle legioni avverse.
Uno di essi pose il suo sguardo vitreo e vacuo su Thorg, e la sua marcia lenta verté su di lui, priva di ostacoli rappresentati da altri combattenti.
Il Signore della Terra, colmo di dubbi e di timori, si mise in posa da combattimento, di certo non dubbioso sul voler salvarsi la pelle, o venderla al più alto prezzo possibile.
Una gamba piegata all’indietro, il tallone sollevato, un braccio in avanti e l’altro poco più indietro, entrambi tesi come molle per gettare poderosi pugni, l’intero corpo solido e rigido come un blocco di diamante.
Il soldato scuro si avvicinava pericolosamente, ma lentamente, e lentamente il battito del cuore del Signore della Terra aumentava per l’imminente collisione con un nemico nuovo e sconosciuto, senza fermarsi.
Gli occhi di topazio del soldato lo osservavano fisso, le spesse braccia di bornite e ossidiana ondeggiavano come corde ai suoi passi. Non aveva sotto controllo alcun tipo di potere degli elementi o della forza magica, Thorg lo sentiva. E sentiva anche come ciò fosse davvero fuori luogo e sospetto, su Gorm, dove tutti sono in grado di colpire a distanza con elementi o magie.
Corna di topazio come le sfere del viso, seppur più pallide, gli coronavano la fronte e le tempie, arcuandosi all’indietro fino a coprire del tutto le orecchie piatte e tetraedriche.
Niente labbra a coprire gli ingialliti denti.
Di bornite, come la volta celeste nelle giornate di pioggia, era la sua pelle, opaca e ruvida all’apparenza, ricolma di rughe che Thorg percepiva non essere affatto frutto della vecchiaia.
Era nudo, spoglio di qualsiasi armamento o corazza. Una sorta di protezione naturale di consistenza visibilmente più densa, dall’aspetto e il colore che ricordava l’ossidiana, nera e rigata, ricopriva gli avambracci, il dorso delle mani dalle tre turgide dita, il petto – probabilmente anche la schiena – e gli stinchi.
La sua fattura era misteriosa e completamente non familiare per il Signore della Terra. Più basso di un gormita ma più alto di un gargoyle, leggermente gobbo, petto gonfio, spalle larghe, addome piatto e gambe ben piazzate ma strette, che nel complesso gli davano la forma di un triangolo rovesciato. Non c’era l’ombelico, il che rimuoveva dalla rosa delle possibilità quella che fosse qualche variante anomala di gargoyle senza ali. Inoltre, il suo inguine…era vuoto. Non c’era assolutamente niente, nessuna fessura o muscoli che pendono, come ci si poteva aspettare da un gargoyle, ma anche da un ka’nhili o uno stesso gormita.
Di che natura era? Scoprirlo avrebbe sicuramente giovato alla sua situazione: conoscere il suo nemico lo avrebbe in qualche modo rilassato, e poteva anche fornirgli la natura e la posizione di possibile debolezze – i ka’nhili, ad esempio, non possono immergersi e l’acqua può far loro del male ma, tralasciando il fatto che era improbabile o addirittura impossibile che il nemico fosse un ka’nhili, Thorg non aveva comunque accesso all’acqua.
Non potendo però risolvere i suoi quesiti in alcun modo, il Signore della Terra, con l’ansia che cresceva e il soldato che non accennava ad accelerare il passo, decise di farla finita.
Sbuffando e scalciando il terreno con il piede arretrato, chinò la testa e caricò contro di lui.
Il contrasto andò a buon segno, il soldato cupo non si tolse di mezzo in tempo e fu gettato all’indietro, senza però cadere. Nemmeno mugugnò il dolore per aver cozzato il capo contro le corna di Thorg.
Non soddisfatto, il Signore della Terra gli si avvicinò e gli sferrò potenti pugni dritti in faccia, di lato, sotto il mento.
Quello incassò ognuno di quei colpi senza mormorare un solo lamento né reagire. Le guance si gonfiavano per i lividi e per l’urto, il sangue colava tra i denti e dal naso già schiacciato e deforme di suo, ora pure rotto. Eppure, era come se gli attacchi non gli arrecassero alcun fastidio, ancor meno la sofferenza.
Thorg non riusciva a raccapezzarsi di come ciò era possibile. Cos’era? Perché non sentiva il dolore?
Il terrore cominciò a scorrergli nelle vene. L’ultima frontiera: un nemico insensibile e senza sentimenti, legato solo agli ordini datigli e dagli impulsi naturali di nutrirsi e purgarsi dei pasti. E forse nemmeno quelli. Solo lo Stregone di Fuoco poteva aver creato qualcosa di simile, solo lui era tanto efferato da immaginarsi una cosa simile e permetterle di divenire realtà e camminare tra le altre genti.
Il soldato scuro attaccò per la prima volta: una serie di pugni ben assestati, da entrambe le braccia, sul petto, l’addome e il volto. Nonostante la sua protezione, Thorg riuscì a sentire ugualmente l’immensa forza dei suoi colpi.
Il conflitto con la corazza argentea di Thorg gli lasciò delle belle ferite sulle nocche e sulle dita, a dispetto della copertura nera, ma nemmeno quelle gli fecero male. I suoi occhi rimanevano fissi sulla preda e i denti serrati.
Thorg indietreggiò spaventato, ma non ancora fuori combattimento o del tutto deprivato della speranza e costretto alla fuga. Doveva esserci un modo per finirlo. Non era una creatura forgiata dalle mani della natura, di questo era sicuro: ma era vivo ed esisteva, e come era giunto sulla terra c’era anche un modo per farlo sparire da essa.
Battè forte il piede sinistro al suolo, sollevando con i suoi poteri un masso di roccia.
“Dimmi se questo ti fa male, razza di demone.” gridò, e spinse il macigno sospeso dinanzi a lui verso l’immonda creatura nera.
L’impatto fu sonoro e Thorg udì perfettamente il suono in quell’occasione così gradevole delle ossa che si spezzano e il sangue che schizza su una superficie solida.
Sospirò di sollievo: quel demone era mortale come tutti loro, e poteva ignorare quanto voleva il dolore, ma il suo corpo non poteva resistere a un simile scontro.
Thorg fu immediatamente costretto a ricredere delle sue convinzioni.
Sotto i suoi occhi sconvolti, il masso fermatosi sul soldato prese a scricchiolare, e a salire verso l’alto.
Il mostruoso guerriero, orribilmente tumefatto in volto e sulle ginocchia, era ancora vivo!
E ancora in forze, infatti sollevò alla massima altezza delle sue braccio la grossa pietra, e la ritornò al mandante. Senza grandi successi però, abbattendosi a diversi piedi da Thorg.
Il Signore della Terra era ora infuriato, oltre che spaventato. Quella cosa orribile doveva morire, non poteva continuare a vivere. Fino a dove la sua insensibilità al dolore l’avrebbe condotta, per quanto ancora avrebbe stordito della sua diabolicità la mente turbata di Thorg?
Una grossa punta di diamante alla testa o al cuore doveva per forza metterlo fuori combattimento, e Thorg provò subito. Se non ché il micidiale combattente, con un singolare scatto, si era avvicinato a lui ed era pronto a tormentarlo di pugni fino a spezzare la corazza di Thorg e a fare delle proprie mani dei moncherini sanguinanti.
Il Signore della Terra, cuore e fiato a mille, estrasse rapidamente la sua lama, conservata per situazioni pericolose fino ad ora. Quella era la definizione di tale situazione.
Con il soldato scuro già su di lui a ammaccargli le placche metalliche e ostacolargli la vista ei movimenti, oscillò la spada corta alla cieca in un primo momento.
Poi, la conficcò dritta dritta nel collo del demone di burnite e ossidiana. Lo trapassò del tutto.
Una frana di sangue, e i suoi definitivi ultimi respiri, si riversarono sul pettorale di Thorg dalla sua bocca immonda, mentre sfilava la lama dalla carne sporca.
***
Alcuni giorni prima, nelle oscure e afose segrete caverne sotto Monte Vulcano.
Fruscii e scrosci inquietanti e guaiti selvaggi rimbombavano da dentro la sacca di pelle giallastra traslucida, una larga ragnatela gelatinosa e appiccicosa del colore del miele, inchiodata all’interno di un’ampia cavità scavata all’interno di un tronco nero.
Ruvido, spoglio, incrostato di macchie rosse e brune, senza rami né foglie era il rozzo pilastro ligneo dalla forma conica.
Fumo dalla raccapricciante varietà di sfumature e dal lezzo invidiabile fuoriusciva dalla cima del fusto, ritagliato e coronato da intrecci di pali appuntiti dalla curiosa utilità.
Un gormita del Vulcano a un lato del tronco soffiava ininterrottamente fuoco dal suo palmo, dirigendolo attraverso una fessura nel fusto dritto sulla membrana mielosa, che s’agitava e ribolliva, come una pentola per un gustoso piatto che, da crudo e freddo, era disgustoso alla vista e al palato, ma una volta cotto a dovere ed assimilati i suoi numerosi ingredienti era una portata degna del tavolo di un re. Il mucoso involucro non si bruciava, né il l’abbondante ceppo a contatto con le fiamme.
Dalla parte opposta, usufruendo di un’opposta fenditura nel legno, un forzuto gargoyle, grondante di sudore e completamente nudo, fuorché per un succinto perizoma, a causa della fatica e del calore, scaldava, massaggiava e stimolava con la forza dell’oscurità la sacca membranosa, apportando succulenti miglioramenti alla regale pietanza, che il fuoco da solo non era in grado di generare.
Altre undici alte strutture di legno e fiamme riempivano la stanza dalle rosse pareti come malevole spine di una rosa. Una rosa velenosa.
Non tutte presentavano gormiti e gargoyle al lavoro, lo stesso fumo, la stessa sacca appiccicosa, gli stessi movimenti e rumori provenienti da essa. In alcuni tronchi la sacca, vuota e bagnata di colorati succhi, veniva recisa e strappata, per poi essere sostituita da una nuova membrana; in altri la pellicola, riempita, indugiava immobile e silenziosa all’interno del suo buco.
Tre figure di alta autorità osservavano con trepidazione il lavoro in corso, tollerando grazie ad essa con facilità il miasma, i vapori e l’arsura di quel laboratorio sotterraneo. Solo alcune aperture nel soffitto davano possibilità di fuga ai fumi maleodoranti e possibilità d’accesso all’aria pulita e profumata. La porta dietro i tre era chiusa e nessuno vi sarebbe passato per diverso tempo; il grande cancello sulla sinistra si apriva solo in determinate situazioni.
Una di loro, a dire il vero, era minimamente toccata dal calore che sopportava a livelli esponenziali ogni giorno e ogni notte della sua vita da parecchi anni oramai, dal fetore e dalle esalazioni che i suoi polmoni avvelenati dalla magia non riconoscevano più come un tempo.
Non era invero così trepidante e ansioso come le altre due figure assieme a lui, maestri dietro quello straordinario progetto. Da diversi giorni ormai, nonostante l’Occhio della Vita fosse praticamente nelle sue mani, nonostante egli stesso avesse tradito il più grande stregone del suo tempo ed El’issam di Karmil, era rattristito da un’unica tragica convinzione: la sua vita sarebbe stato un inferno senza fine, e lo stesso momento della morte avrebbe significato un dolore ineguagliabile da qualsiasi ferita fisica o mentale.
Cotanta trepidazione era inoltre esagerata e innecessaria, pensava lui: tutti quanti in quella sala, tutti quelli che si erano dati il cambio negli sfiancanti turni di lavoro sapevano cosa sarebbe uscito da quei forni.
D’altra parte, però, il frutto di quello spericolato esperimento di cucina aveva dello straordinario ed ogni piatto che veniva estratto, che si fosse formato alla perfezione o con qualche difetto, era un trofeo di magia e alchimia, il simbolo lampante e tangibile della grandiosa, quasi completa, conoscenza della vita e della natura degli esseri plasmati da essa stessa e donati di intelligenza superiore.
“Osservate, Stregone di Fuoco, – strillò il mago gargoyle, entusiasta e instabile sui propri piedi tanto era agitato, puntando l’affusolato dito verso il tronco fumante più vicino – sta nascendo!”
Qualcosa stava prendendo forma all’interno della sacca viscosa: arti e membra apparentemente snodati e senz’ordine, che si agitavano caoticamente all’interno della bolla giallastra, accompagnando i loro movimenti sregolati con grida di dolore mentre ossa, muscoli e tendini si configuravano e si legavano tra di loro. Mentre la creatura prendeva vita.
Le urla del sintetico nascituro erano diminuite in frequenza e intensità, e le braccia ora ben conformate e integre, complete di vene, cartilagine, muscolatura, premevano contro l’inspessita tasca giallognola chiedendo luce e aria vere. I suoi mugugni illetterati e privi di senso erano essi stessi suppliche per poter uscire e adempiere al destino scritto per lui dai suoi fabbri.
“Presto, Aracniu!” comandò lo stesso gargoyle. Il vulcanico al fianco di Magor, un gormita piuttosto smilzo, rossiccio, e dall’aspetto viscido, con quattro sottili braccia e un capo grigio e rigonfio nella parte superiore, dorato nella sezione della bocca.
Estrasse un coltello, già macchiato di precedenti recisioni, e tagliò la sacca del suddetto tronco, stando bene attento a non urtare il soldato scuro all’interno, mentre i due lavoratori ai suoi lati cessavano i loro respiri di fuoco e di notte.
Una pozzanghera gialliccia e viscosa si formò ai piedi di Aracniu, e un omone cornuto, azzurro e nero, cadde bocconi di fronte a lui. Boccheggiò al suolo per qualche secondo; poi, senza alcuno sprono da parte di Aracniu, come se in quei pochi secondi avesse appreso a camminare, a respirare, a vivere come un adulto dopo poche ore all’interno di una vasca che era una mera imitazione di un ventre materno, si alzò, ben saldo sui propri piedi con il giusto appoggio delle mani, e rimase, di una spanna più alto di Aracniu, immobile innanzi a lui. Non accennò la minima reazione mentre il vulcanico, con una delle quattro sudice mani, gli strinse bene il mento slabbrato e gli mosse con tale presa il capo, analizzando ogni parte del suo corpo dal capo in giù.
“Sir Seilniakos e Stregone di Fuoco, all’aspetto è a posto.” proclamò dopo scarsi minuti di studio del guerriero artificiale, rigirandosi per guardare negli occhi i suoi due interlocutori.
“Eccellente! – esclamò fiero sfregandosi le mani blu lo yamense – conducilo nella sala dei test, e fa verificare che sia accettabile.”
Aracniu obbedì senza proferir parola, e si diresse al cancello citato poco prima ordinando a voce al soldato scuro di fare altrettanto. Quello obbedì con un grugnito e con nessuna discussione o esitazione.
“Stregone di Fuoco, questa nuova variante di soldati scuri è davvero un successo” annunciò con fare trionfante il gargoyle che per un esperimento su se stesso si era incollato le ali alle braccia, dandogli ancora di più l’aspetto di un pipistrello.
“Me l’avete già detto, Seilniakos.”
“Lo ripeterò fino allo sfinimento. – disse quello – Voglio che vi entri bene in testa, che entri bene in testa a chiunque. Ed entrerà bene in testa anche ai ka’nhili e ai vostri nemici, Stregone. Ne sono convinto.”
“Sono stato il progettista di numerosi SS, Stregone di Fuoco. – seguitò a parlare, avviandosi a camminare in tondo davanti a Magor, rievocando esperienze passate e ricordi – Gli SSX-41 e
X-44, tutta la serie completamente fallimentare degli SSV, e da tutti i nostri archivi so per certo che è mai stato creato un soldato scuro così potente come questo, l’X-47…così perfetto. Sarà un’arma fondamentale per i nostri piani di conquista.”
“Non porre lo sguardo troppo oltre il tuo orizzonte, Seilniakos. – lo ammonì Magor – Non è stato ancora testato su un vero campo di battaglia.”
“Ho osservato e compiuto numerosi esperimenti, Stregone di Fuoco, – si ostinò lui – so quando qualcosa può funzionare. E gli SSX-47 funzioneranno. Totale obbedienza al vostro Popolo e al mio…certo, se qualcuno dovesse dare a uno stesso degli ordini diversi potrebbe crearsi qualche incidente, ma i nostri studi sugli odori dovrebbero porre rimedio a questo inconveniente. L’ignoranza del dolore è il più grande traguardo raggiunto nella storia dei Soldati Scuri: possono continuare a combattere anche con tutti gli arti strappati; la stessa vista indebolirà l’esercito nemico ancor prima dell’attacco.”
Aracniu ricomparve dal cancello, con il soldato scuro assente, lasciato alle cure e agli studi dei vulcanici e degli aerei nella sala dei test e dove erano stati raccolti tutti gli SSX adatti.
Chiamò a sé due altri operai e, raccolti alcuni strumenti da una larga dispensa sul fondo della sala, tra cui un ampio telo tenuto per dei lacci e ricolmo di acqua colorata e una tinozza dal misterioso contenuto, si diresse al tronco appena svuotato. Fece fissare per bene la sacca agli appigli dentro e attorno alla cavità nel legno. In seguito, salì fino alla cima aperta del tronco, che aveva smesso di fumare, grazie ad una scala a gradini scavata sul retro e da lì, vasetto alla mano, cominciò a far discendere, goccia per goccia, gli strani ingredienti della ricetta del soldato scuro, per poi rovesciare l’intero impasto tutto insieme. Ridiscese, e si avvicinò muto a Magor e a Seilniakos. Incrociò le braccia dietro la schiena, e attese il completamento di un altro SSX.
“Quanti soldati scuri sono pronti?” domandò Magor al gargoyle.
“Dei trecento secondo programma ne abbiamo duecentosettantasette, più ventuno imperfetti, e solo tre dei totali fallimenti. – rispose esaustivamente – Nessun progetto è mai stato un tale successo. Continuando così, entro oggi dovremmo aver finito, Stregone di Fuoco. Gli SSX-47 saranno pronti allo schieramento.”
“I vostri uomini lavorano egregiamente. – disse poi, imitando la posa di Aracniu e osservando gargoyle e vulcanici cooperare e faticare insieme per quel programma bellico senza precedenti – Il vostro motore…come si chiama? Maschera della Morte, ecco. E’ stata una risorsa preziosa.”
“Spero di non doverlo adoperare mai più – eccepì con tono nervoso Magor, crucciando lo sguardo nel porlo su un globo nero, pulsante e fiammeggiante, al centro della sala, collegato tramite dei solchi a tutti i dodici tronchi – E’ una sciocca, pericolosa operazione blasfema. Non abbastanza da essere distrutta, però. Quando avremo finito, lo nasconderò, e spero per sempre.”
“Non vi capisco, Stregone di Fuoco, ma accetto la vostra decisione. Potete fare quel che volete dei mezzi e dei piani che hanno forgiato quest’esercito. Quest’armata del futuro è merito vostro.”
“E anche tuo, mio Aracniu, – seguitò, sorridendo e dando una pacca sulla spalla al silenzioso vulcanico – il tuo servizio è stato impeccabile e prezioso.”
Aracniu lo ringraziò con un cenno, volgendo lo sguardo al fondo della sala, verso la fine della stanza e oltre, al di fuori di essa, lungo il sentiero di conquiste e dominio a cui lui aveva aggiunto un importante mattone.
***
Soldati Scuri tipo X variante 47. SSX-47. Quei mostri atroci avevano quindi un nome, avevano un’origine, un inizio. Nulla però che i gormiti alleati avessero opportunità di conoscere, né sarebbe stato loro di conforto alcuno.
La loro unica speranza era continuare a picchiare duro e sperare che il trauma fisico, le brutali ferite inferte agli SS e il dissanguamento li avessero finiti prima che i loro sguardi d’oro pallido e freddo fossero su di essi e le loro gelide mani capaci solo di stringere e spezzare li avessero tra sé.
Raramente ciò accadeva: la sopportabilità dei soldati scuri erano oltre ogni limite umanamente possibile, e non si sarebbero fermati nella terminazione del loro bersaglio prescritto nemmeno dopo aver perso l’uso di tutti e quattro gli arti e costretti ad aprirsi la strada a morsi, nemmeno con lo stomaco aperto e le budella tranciate e penzolanti.
Il macello totale del loro corpo o un accurata decapitazione, oppure la testa irreparabilmente sfasciata erano le uniche vie sicure per porre fine a quegli agghiaccianti mietitori, svuotati e mai riempiti di pietà, rimorso ed esitazione che animano ogni creatura vivente, anche le più ligie e severe api e formiche, nel loro piccolo.
Non importava che non potessero piegare al loro comando alcun tipo di fenomeno naturale, che la strada della magia fosse per loro eternamente oscura e inaccessibile, facendo di essi dei nemici di poco conto per gli eccezionali gormiti. La semplice vista dei soldati scuri marciare nel campo di battaglia, lo spettacolare scempio di cui riempivano la pianura e se stessi senza soffrirne erano sufficienti per instillare il panico più puro nei petti dei gormiti, che mai prima avevano dovuto assistere a una rovina simile.
Nemmeno il Popolo del Vulcano, fautore del più grandioso e imperdonabile eccidio nella storia di Mitera nota ai gormiti, reggeva il confronto con quelle glaciali e sanguinarie macchine naturalmente votate all’attacco dei Popoli nemici e alla difesa di quelli alleati.
Se solo i gormiti sapessero, se solo avessero allora potuto sapere cosa si celava dietro quell’esercito di insensibili mietitori, dietro la nascita di loro stessi tanto simile a quella dei soldati scuri che con la scomparsa del Vecchio Saggio era forse destinata a rimanere un eterno mistero…chi può dire come avrebbero reagito, come la battaglia avrebbe proseguito?
Il dubbio e lo sconforto li avrebbero forse scoraggiati e dannati alla sconfitta, oppure sarebbero stati subissati dal’iracondia e dal desiderio di redimersi da quello stato dell’esistenza e avrebbero portato al trionfo più epocale nella storia di Gorm?
Il segreto era ancora un segreto, e i gormiti e i ka’nhili spingevano con quanta speranza era rimasta a pulsare in loro per debellare quell’abominio.
Tarpati di uno o più arti continuavano incessanti a camminare e a strisciare; dati alle fiamme e corrosi seguitavano ugualmente ad avanzare e combattere con bracciate infuocate; legamenti lussati ed ossa rotte non li arrestavano ed agitavano i loro arti slogati come nulla fosse; anche se colpiti dalle più tremende fatture che ostacolavano la coordinazione e il movimento adoperavano le loro membra nel miglior modo possibile. Solo la fame, bisogno naturale a cui nemmeno loro erano immuni, era capace di fermare la loro marcia mortifera: ma anche cibandosi, dilaniando un gormita cavaliere e il suo cervo muschiato abbattuto, offrivano una raccapricciante esibizione di aggressività.
Non sembrava esserci fine a quella mostra degli orrori, né ai soldati scuri nel loro insieme, che pure erano, o sembravano, in numero finito.
Fossil del Popolo della Terra dava del suo meglio per difendersi dall’assalto combinato di vulcanici e soldati scuri, sfornando prodigi magici per finirli in fretta, mentre nel profondo della sua mente si impegnava e si spremeva alla ricerca di una chiave per annientare in modo definitivo quella minaccia che sarebbe costata loro la città di Roscamar, e a nulla sarebbe servito l’attacco sorpresa a Monte Vulcano, il primo in molti secoli.
Lui sapeva, era certo di nascondere nell’intimo della sua essenza un’arma, una conoscenza, un potere speciale con cui avrebbe potuto porre fine alla minaccia dei Soldati Scuri.
Una fiammata proveniente da uno spazientito vulcanico di fronte a lui gli fu sparata innanzi, e una grave ustione che avrebbe potuto esigergli la vita era il minimo che gli aspettava, ora.
Invece, come era già accaduto diverse volte nel corso di quella campagna, dalla Valle della Disperazione alla Pianura delle Nebbie, l’ardente lapillo non lambì mai la sua pelle o la sua leggera corazza. Scomparve del tutto, sotto gli occhi sconvolti del vulcanico, e quelli meno sconvolti ma non del tutto apatici di Fossil.
Il terricolo cedette all’istinto di gettare in avanti il braccio destro, e la scia infuocata generata dal gormita ostile ricomparve prodotta dal suo palmo, diretta al volto del nemico, sfregiandolo per sempre e portando la vittoria a Fossil.
“Quello mi era nuovo…non finisci mai di stupirmi.” Osservò Fossil, respirando pesantemente e tastandosi la mano, temendo che quel fuoco l’avesse bruciato.
Fossil non era affatto il tipico forzuto gormita della Terra. Molto magro, quasi scarno, gli si potevano vedere le ossa se si fosse tolto l’armatura. Il suo viso frumento era emaciato come se non avesse mangiato da mesi.
Una corazza a mezzaluna grigio cenere, tutta seghettata e con aculei sporgenti d’argento ai lati dei trapezi, ricopriva spalle e torace. I gambali erano conici e argentati con fessure alla base da cui spuntavano, per comodità e maggiore agilità, i lunghi piedi rivestiti di brillante cotta di maglia. Bracciali dello stesso stile dell’armatura del petto proteggevano le mani, delle quali solo le sabbiose dita erano visibili. La muscolatura, come si poteva ben notare dalla stazza e dalle dimensioni, non era definita e rigorosa come negli altri terricoli e anzi nel complesso pareva piuttosto delicato e innocuo.
La sua grandezza – tutta discutibile – in battaglia derivava non da particolari tecniche di combattimento, né, come pare ovvio, dalla sua forza bruta e nemmeno da una singolare esperienza nell’arte magica come Evera o Sabis, lo stregone citato da Thorg.
Il suo essere speciale, la vera potenza di Fossil, questo sconosciuto così bruscamente immesso nel racconto, era generata da un’entità altra, insita dentro di lui sin dal momento in cui ruppe il guscio dell’uovo e fu toccato dalla luce del sole per la prima volta, e la quale fu immediatamente gestita secondo arcani progetti di magia che l’avevano condannata a vivere e morire con Fossil, senza più possibilità di dominarlo e uscirne a suo capriccio come aveva agito per anni e anni.
“Seriamente, potresti avvisarmi quando…quando succede, insomma.”
Il tono seccato della richiesta non era per niente severo e nonostante la scelta delle parole non era affatto un ordine. Era quasi una gentile supplica, a cui Fossil sapeva non avrebbe ottenuto l’attesa risposta.
Ma da parte di chi? Certamente non stava parlando da solo, e nemmeno con qualche amico nascosto, occultato dalla magia, da un’armatura Neor’gani o dai veleni mythos.
Non essere idiota, Fossil. - rimbombò feroce una voce nella sua testa - Ti distrarrei se ti informassi di tutto ciò che succede fuori e dentro di te, e rischierei di ucciderti.
“Giusto…hai ragione.” concordò, avendo errato, Fossil.
Attento, stanno arrivando due di quei guerrieri dietro di te.
“Dove?!” gridò Fossil preso dal panico. Si volse improvvisamente, le mani in avanti. Ecco i due sanguinari soldati scuri marciare a passo incredibilmente spedito verso di lui.
Uno di quelli, rallentando il suo passo e mettendo piede in una determinata area attorno a Fossil, fu improvvisamente scosso da una scarica elettrice che lo immobilizzò completamente, per poi afflosciarsi al suolo, sussultante e inabile a coordinare i propri movimenti.
Fuori gioco. L’altro, al contrario, non fu preda di alcun attacco misterioso e continuò imperterrito la sua lenta carica contro Fossil. Il terricolo dovette arrangiarsi: facendo leva sulla terra su cui stava lui e il nemico, la fece sua e la foggiò a forma di un pilastro appuntito che conficcò nel petto del soldato, impalandolo e destinandolo a una morte lunga, ma certa. Sospeso su quel troncone di pietra, scrollava casualmente le braccia e non sembrava in suo potere usarle per liberarsi e continuare a combattere anche con un foro sanguinolento nel busto. Cosa che era perfettamente in grado di fare, in altre circostanze. Fossil si era ancora salvato per il rotto della cuffia, e solo in parte con l’aiuto del suo Spirito. Tuttavia, non si sentiva affatto soddisfatto.
Finiscili, tutti e due. L’altro è vivo. Gli intimò prudente il severo Spirito, indesiderato compagno di vita.
Con un grugnito seccato obbedì, e schiacciò le teste di entrambi i soldati scuri facendo cadere su di esse pesanti massi rocciosi.
L’area sembra sicura. Dovresti riunirti agli altri.
Fossil ignorò quel consiglio, pur involontariamente incamminandosi verso la folla guerreggiante e infuocata.
Non era un valido guerriero: era questa la sua convinzione da molto tempo, ormai. Non era un valido terricolo, non un valido gormita, addirittura.
Tutte le grandi cose che aveva fatto, ogni grandezza di cui sarebbe capace, le doveva unicamente allo Spirito che lo accompagnava dal giorno della nascita. Era solo immensamente fortunato, per poter usufruire dei grandiosi poteri di cui era dotato lo Spirito ospite, che gli avevano salvato la vita in più di un’occasione, e in più della metà di quelle occasioni senza neppure accorgersi del pericolo incombente.
Era anche incredibilmente sfortunato, per la stessa ragione a cui doveva la fortuna. Il suo Spirito lo aveva colpito quando era appena un cucciolo, quando doveva ancora svilupparsi, non aveva ancora i denti, non sapeva parlare né controllare gli elementi, e sempre le parole e i pensieri dell’insonne Spirito lo tormentavano, giorno e notte. Era colpa sua, del suo arrivo e della costrizione che lo relegava per sempre a lui, che gli aveva storpiato la crescita impedendogli di evolvere la forza e i muscoli che fanno di un terricolo un vero terricolo. Il peggio era rappresentato dall’identità di quello Spirito.
Non dare la colpa a me. Dalla al Vecchio Saggio, che ti ha obbligato a cullarmi fino alla fine dei tuoi giorni.
Forse questo era peggio: l’impossibilità di nascondergli i propri pensieri, l’obbligo irreprensibile di condividere con lui ogni esperienza, ogni segreto e passione, ed ascoltarlo quando riteneva di avere ragione!, e per molti più decenni del normale: lo Spirito e le magie che lo avevano incatenato a lui erano così forti da allungargli la vita.
Si tastò mesto l’addome, dove indugiava l’orribile a vedersi marchio dello Spirito ospite. Anche sotto lo strato di maglia ferrata, era ben evidente.
Perché era toccato a lui? I compagni d’infanzia e di maturità lo evitavano e lo denigravano per il temibile fardello che era costretto a portare, e poteva contare ben pochi amici in tutto il Popolo della Terra. Sapere che il Divoratore sarebbe definitivamente scomparso una volta che la sua vita avrebbe terminato il suo corso, risparmiando i suoi tormenti ai posteri, era di ben poco conforto. Così come lo era l’enorme dispensa di poteri speciali di cui godeva il Divoratore, e Fossil attraverso di lui, frutto di decine di Spiriti che il ribelle Divoratore aveva assorbito – questo il suo vero unico potere – facendo sue le loro singolarità e le loro esperienze, annichilendo totalmente le loro identità sotto il peso di una forza mentale superiore.
Sei patetico, Fossil. - lo criticò sprezzante il Divoratore - Ti perdi in lamentele inutili, quando potresti sfruttarmi per portare alla vittoria la tua gente, diventare il Signore della Terra, guidare l’assedio a Monte Vulcano…e tante altre cose straordinarie che la tua mente ristretta non immagine e non vuole immaginare.
“Non ha senso, Larcon. – replicò sbuffando Fossil, dando un nome che la cerchia degli Spiriti e i gormiti tutti avevano da sempre evitato di pronunciare alla minaccia ormai svanita del Divoratore – Non posso controllare questi poteri, si attivano da soli…e poi, che gloria avrò se tutto questo è possibile grazie a te? Tu verresti ricordato, non io.”
Che sciocchezze. - Borbottò Larcon - Io sono inviso a tutta l’Isola. Verrò ricordato solo per le mie tragedie e gli orrori che ho commesso, tutti mi vedranno come un mostro senza corpo e senz’anima, e nessuno saprà mai che cosa mi ha mosso sin dal principio. Tu, invece, verrai ricordato come il padrone del Divoratore, e le tue gesta saranno raccontate ai figli dei tuoi figli per incitarli a grandi cose.
“Balle. Larcon, tu mi hai preso a caso tra tanti altri gormiti per salvarti: io non ho nulla di speciale. Sono solo uno strumento.”
Dovevi essere il mio strumento, ma ora le cose sono cambiate. Sono io il tuo strumento, la tua arma. Usami.
“Perché hai così voglia di gloria per me?”
Le tue proteste…sono nauseanti. - Gli rinfacciò disdegnoso - Sempre così malinconico e preoccupato per il futuro, triste per il brutto passato che hai trascorso a causa mia, alla costante e sempre fallimentare ricerca di un’occasione per farti grande. Io mi devo sorbire tutte le tue lagne, e non è affatto piacevole. Voglio che finisca.
“Che cos’hai da proporre, allora?” gli domandò incrociando le braccia, offeso per quelle confessioni. Era un’ingiustizia. Non c’era nulla di giusto in ciò che gli era capitato.
Posso portarti nel grosso dell’esercito degli SSX-47.
“Dei cosa?” chiese perplesso Fossil. Il nome gli suonava assai male, così come la proposta nel suo insieme, di cui non coglieva appieno il senso.
I soldati scuri… loro insomma. E inviò nella mente di Fossil un’immagine degli SSX.
Il terricolo rabbrividì alla vista così ravvicinata e approfondita di quel mostro.
Ho sondato la mente di un gormita del Vulcano, e ho trovato questo nome.
“E tu vorresti portarmi nel bel mezzo di questi S…qualcosa. – sbottò contrariato e ulteriormente perplesso – Per fare cosa? Mi vuoi morto, per caso?”
Ah, Fossil. sospirò lo Spirito Da trenta anni ti accompagno e ancora non capisci. E’ stupido pensare che io voglia la tua morte. Se muori tu, muoio io. Non posso scappare dal tuo corpo. E voglio godermi tutti gli anni della tua vita naturale.
“Sì, è vero – si raccapezzò Fossil, grattandosi la nuca, ancora turbato – però continuo a non capire. Cosa devo fare in mezzo agli SS? E come fai a portarmi?”
I miei poteri hanno ben pochi limiti, e trasportarti là è tra essi. In più, sai bene che non sono del tutto fuori dal tuo controllo. Devi solo volerlo.
“Quando sarò lì, che cosa dovrei fare…non ho capito…”
Posso sconfiggerli tutti, Fossil. O quasi. Tutti i soldati scuri. Posso distruggerli con un solo colpo.
“Dici davvero?! Ma…ma…è incredibile! – esclamò con le mani alla testa Fossil – Perché me lo dici solo ora?”
Non è facile trovare una strada attraverso tutti gli Spiriti che ho fatto miei. Le loro menti sono state soppresse, ma esistono ancora, e non tutte mi sono conosciute.
Fossil non comprendeva appieno quando Larcon gli rivelava. Forse aveva appositamente celato alla sua mente l’informazione riguardante quel sorprendente potere di cui parlava di fermare in una sola volta i terribili soldati scuri per tormentarlo, come aggradava a lui. Forse ancora era una menzogna, preparata per ingannare e uccidere Fossil. Questo presupponeva che Larcon fosse esausto di convivere con Fossil e Fossil solamente, e che preferisse la morte ad ulteriore tempo con il debole terricolo.
L’idea di distruggerli, e la gloria e l’immortalità che ne sarebbero derivate, anche se avesse perso la vita, lo avevano tuttavia attanagliato: era un’opportunità troppo allettante. Dopotutto, Larcon era potente, poteva difenderlo. I rischi erano minimi.
Vedo che la proposta ti attrae. Osservò con malizia Larcon.
“Vedi bene. Dimmi cosa devo fare.”
 
Era bastato un sacrificio di forza di volontà e il desiderio fortissimo di ritrovarsi tra gli SSX-47 perché gli immensi poteri di Larcon il Divoratore lo conducessero dove la sua brama li guidava.
Tuttavia, ora che dieci, venti, trenta soldati scuri lo squadravano a destra e a sinistra, ad ogni lato, lo trafiggevano con i loro aguzzi occhi di topazio e flettevano i loro muscoli azzurri per la morte di Fossil, gli mancavano le energie.
Era l’unico delfino in un mare di squali: ognuno di quei tremendi squali senza misericordia aveva gli occhi e la mente puntati su di lui, le pesanti pinne battevano all’unisono l’acqua e li incanalavano verso lui, il solo obiettivo, un nemico e un pasto che gli efferati predatori si sarebbero divisi tutt’altro che equamente, dilaniando il suo corpo finché i singoli brandelli sarebbero stati irriconoscibili pezzi di carne e metallo maciullati rabbiosamente.
I poteri che in autonomia si mettevano in moto per la salvezza di Fossil non potevano tenere a bada tutti i soldati scuri e tutti insieme, e la radura terrosa che divideva il gormita della Terra dai soldati si faceva sempre più stretta e soffocante.
Le difese degli Spiriti cominciavano a cedere mentre la paura aumentava, e Fossil perdeva la concezione del tempo e dello spazio, incapace di reagire.
Fossil, dannazione! strepitò Larcon con un urlo lacerante che dolse e ridestò il gormita dal suo torpore anticipatore della morte.
Non ti ho portato qui per farti uccidere; agisci, imbecille! Concentrati, e desidera la fine!
“Larcon!” urlò esasperato. Il cerchio si restringeva sempre più, e i soldati si leccavano i denti scoperti, pregustando glaciali la morte di Fossil
“Voglio eliminare questi...SSX-47 e ho bisogno del tuo aiuto!”
Si sentiva estremamente ridicolo e disperato, benché non ci fosse nessuno dotato di senno ad osservare quell’insolito e folle recita: parlare da solo, supplicare uno Spirito con tutto il suo animo con la falce della morte ormai sul collo.
Chiuse gli occhi, strinse i pugni. Digrignò i denti fino quasi a spaccargli gli uni sugli altri, e si aggrappò al desiderio di vita che lo animava da sempre, al desiderio di immortalità che lo aveva mosso a quella pazza impresa.
“Larcon, eliminali! – gridò – Ti supplico, Larcon! Io voglio eliminarli! Devono essere eliminati!”
Un’invisibile energia si scaturì dall’urlo di Fossil, avvolgendo in essa tutto il blocco più prossimo di soldati scuri, penetrando in essi. Raggiunse le più piccole componenti della materia che si univano per formare i tragici guerrieri di gelo. L’energia le trasformò in un modo che esse non si aspettavano, che nessuno si aspettava. Ogni particella in movimento, ogni carica elettrica che naturalmente scorre nei corpi, tutte le gocce di sangue, acqua, sudore e saliva nei soldati scuri…si fermarono.
***
Il cielo aperto e vagamente nuvoloso, sconfinato, si era da tempo liberato delle catene della nebbia, e ora riluceva sciolto di un acceso fiordaliso. Le tre lune erano pallide, anonime e opache sfere offuscate dalla lucentezza della volta celeste, più chiare e indistinte delle stesse nuvole.
Per un periodo di tempo incalcolabile di struggente impazienza e frustrazione, imbottito da rabbiosi lamenti e vani movimenti delle membra così tenacemente fissate sulla ruvida terra, la distesa infinita del firmamento era l’unica cosa che i suoi occhi potevano vedere.
L’aveva vista inondata del cupo e malinconico grigiore delle nebbie dell’eponima vallata, farsi forte dei raggi luminosi di Nejema e scrollarsi di dosso l’umido grave, invano poiché i vapori si dimostrarono più forti e tenaci della luce; aveva osservato l’empireo aprirsi definitivamente davanti a lui, mutare dalle più smorte e spente tonalità d’azzurro macchiato a un’estremità del rosso dell’alba a un acceso e incontaminato blu, e le nuvole evolversi insieme ad esso, da rosa - violetto a bianco candido.
A non finire aveva seguito il corso incessante delle nubi: soffici e al contempo impalpabili lenzuola celesti, amorfe e multiformi insieme. Scorrevano innocue trasportate dal vento, disgregandosi in decine di brillanti batuffoli o riunendosi in ciclopiche distese di sublime e solenne cotone, tanto maestose e tanto fragili, prone a spezzarsi e a disfarsi nuovamente in tante innocue sfere d’aria sospese nel vuoto.
Nel loro scorrere perpetuo le aveva viste mutare ed assumere centinaia di forme, tutte diverse, tutte improbabili e tutte che gli ricordavano eventi o personaggi poco graditi.
Il suo silenzio contemplativo era durato fin troppo. Come riuscivano i ka’nhili a sopportare quella calma e quella noia, e a trarre forza da quello stato di cosiddetta serenità, in cui lui aveva fatto tutto tranne che placato la sua rabbia e il suo senso di impotenza?
Doveva agire, doveva sentire l’adrenalina, l’azione e la passione. Tutte cose che in quella condizione gli erano lontane come erano distanti quelle plurime nuvole, o come le stesse lune, e le stelle nascoste dalla luce del sole.
Non poteva riposare, assopirsi, approfittare indegnamente di quello stato delle cose. Il riposo, l’interruzione dell’ardore e della foga, doveva essere meritato. E non c’era nulla di meritevole nell’essere stato attirato con l’inganno di cui era incresciosamente caduto preda in quella trappola che lo tratteneva lontano dal fuoco degli eventi, dove si stava decidendo il futuro dell’Isola e di Mitera stessa.
Ogni volta che le radici attorno ai polsi e alle caviglie sembravano allentarsi e Obskurios spingeva tentando di spezzarle, Grandalbero se ne accorgeva e le stringeva più di prima, e la pressione esercitata dalla magia degli invisibili stregoni dell’aria lo premeva ancor maggiormente al suolo.
“Sia maledetta la tua gente, Grandalbero!” inveì sputando, e scrollando violentemente il capo a destra e a manca, cozzando con le corna sul suolo granuloso, duro sotto la sabbia.
Il silenzio dei suoi aguzzini era la cosa più insopportabile in assoluto. Non reagivano a nessun suo capriccio che non fosse un tentativo di fuga, nessun insulto o provocazione; anche quando Obskurios, nei momenti di massima rassegnazione, tentò un discorso spassionato, quelli erano rimasti muti, immobili e invisibili.
“Tutto questo non ha senso! – continuò imbestialito, stringendo e strattonando vanamente le braccia – Chissà che onore quando, alla fine di tutto, tornerai dai tuoi e annuncerai che tutto il tempo sei rimasto a sorvegliare me! Sarai ricordato per sempre, per questo, ne sono più che sicuro.”
“Magari gli Osservatori saranno così stupiti della tua fermezza e del tuo valore da venirti a prendere.” Riprese sarcastico le sue provocazioni, puntando su un argomento che sapeva più a cuore al Signore della Foresta.
Zero reazioni a quel meschino insulto. Se non una replica fisica: i lacci nodosi si fecero più vigorosi, talmente tanto che Obskurios arrivò per un momento a non sentirsi più il sangue nelle mani, e a provare un fastidioso freddo formicolio alle dita.
Davvero non aveva nessun senso. A che scopo portare il re dei gargoyle lontano dal fulcro della battaglia? Che guadagno c’era nel tenerlo imprigionato all’aperto e solamente con la magia e con il potere degli elementi, destinati prima o poi ad esaurire le energie dei suoi improvvisati carcerieri?
Soprattutto, cosa speravano di ottenere da lui? Non aveva alcun tipo di informazione riservata di chissà quale utilità per il nemico. Le sue armi speciali? Ormai era questione di tempo che fossero dispiegate in campo, e forse lo erano già. Segreti riguardanti l’alleanza con lo Stregone di Fuoco, lo Stregone di Fuoco stesso o, più probabilmente e sollevando maggiormente il timore del re, lo scopo della sua cattura era far crollare Tato Yami, porre fine alla lunga faida tra ka’nhili e gargoyle con la conquista di Oscuro Orizzonte e la fine della sua dinastia che da tanto, sin da prima dell’esilio, governava quella corrente di gargoyle.
Rimanere all’oscuro di tutto, non solo dei motivi della sua curiosa prigionia ma anche di perdersi tutto l’esito della battaglia, di non essere nel mezzo tra il sangue e il doloro a guidare e incitare i suoi guerrieri non lo poteva sopportare.
Ira, frustrazione, impotenza, paura…tutte emozioni forti che andavano ad affastellarsi, ad accumularsi, pronte a scoppiare. Ma non bastavano per renderlo libero.
Sì, poteva liberarsi: lasciare scorrere libere tutte le sue passioni e i suoi impulsi, fare di sé un’arma, uno strumento nelle mani dei suoi sentimenti…più del normale.
La sua mente, le memorie e la concentrazione, si convogliarono su una sola figura, un solo uomo, sorgente di numerose sofferenze, problemi, rabbia: El’issam di Karmil, Sommo Luminescente III Signore della Luce.
Il solo nome, la visione anche confusa del suo viso celato dal mistico elmo furono sufficienti a fargli ribollire il sangue nelle vene.
El’issam aveva varcato i confini della sopportazione molto, molto tempo fa. Gli aveva amputato un braccio, lo aveva privato di una parte di sé che non sarebbe mai più tornata; ma se si trattasse solo di questo, Obskurios si sarebbe dimostrato un uomo davvero riprovevole e superficiale, per scatenare una nuova ondata di guerra e guerriglia tra popoli con la sola motivazione del torto fisico.
L’odio e l’avversione avevano radici più profonde e ben più speciali e intime, sia a livello del re come singolo che al livello generale della sua intera gente.
Il destino dei due sovrani, e con essi il futuro dei loro seguaci, si era intrecciato in un modo che nessuno avrebbe mai potuto sospettare o immaginare. Obskurios e Karmilla, sua moglie e compagna al trono, avevano dimostrato a tutta Tato Yami e tutta Karmil che l’odio razziale e culturale tra le due genti, radicato da anni e incessantemente perseguito sin dall’esilio, non aveva più ragione di esistere, che le due tribù potevano convivere insieme. Già da diverso tempo prima che Obskurios e Karmilla si incontrassero per la prima volta gli attacchi dei gargoyle ai ka’nhili e viceversa erano calati di frequenza e di intensità, prospettando un periodo di sospensione e possibile ma unanimemente ritenuta improbabile pace.
Luminescente III aveva la possibilità di accettare l’amore tra Karmilla e Obskurios e cambiare per sempre le sorti dei due popoli e dare una svolta alla loro condizione di confino; ma le tradizioni e la morale rigide dei ka’nhili, l’intolleranza di El’issam e dei suoi sudditi di fronte al terribile e disgustoso peccato di cui si era macchiata Car’milah, la sorella di El’issam, si misero in mezzo e condussero a un’ostilità ancora più sentita che in precedenza.
Car’milah fu bandita da Karmil per aver consumato amore con un gargoyle, un atto increscioso e vergognoso che andava contro ogni varietà di morale e di etica, e per aver tradito i costumi dei padri perseguendo la via delle tenebre, cosa per il quale all’espulsione si aggiunse una temibile punizione fisica che lasciò il suo corpo irrimediabilmente sfregiato per il resto della vita.
Car’milah lasciò Karmil e si ritirò a Tato Yami, più aperto nei suoi confronti, dall’amato Obskurios. Non c’era più nulla che la legava ancora alla sua casa e alla sua famiglia, così chiuse nel passato e in anacronistici codici, se non un’avversione fatale per ciò che le avevano fatto. Non voleva più avere a che fare con loro, né mai essere riferita come una ka’nhili o la sorella disgraziata del Sommo Signore. Cambiò nome in Karmilla, di gusto affine allo stile gargoyle, e si prestò a delle operazioni chirurgiche atte a trasformare il suo corpo e a renderlo più simile a quello di un gargoyle che di un ka’nhili.
L’amore che Obskurios provava per lei, l’ira per ciò che aveva passato, il desiderio di proteggerla e di vendicarla per l’ingiusta punizione, la furia per l’incapacità dei ka’nhili di cambiare e comprendere, lo spinsero a riprendere con la stessa forza di un tempo le ostilità tra i due popoli.
E il tempo in cui il loro confino sarebbe stato revocato si allontanava sempre di più.
La violenza e la sete di vendetta nei confronti di El’issam, il grande e colmo di passione amore per Karmilla, un amore che in migliaia, anche tra i suoi stessi sudditi, reputavano impossibile e malevolo, furono un’iniezione di adrenalina e di energia pura nel corpo intrappolato del re di Tato Yami…che intrappolato non fu più.
Con un urlo tanto possente da spezzare i legami celesti che tenevano ancorate le lune alle nere cerchie e farle affondare su Mitera, trasformò l’energia accumulata in un’onda di ardente e denso oblio che si propagò come un’esplosione attorno a lui, spezzando definitivamente le catene arboree di Grandalbero, che non ebbe più possibilità di rinsaldare.
Il Signore della Foresta fu sbalzato a piedi all’aria, e la stessa sorte subirono gli stregoni aerei, travolti dall’ondata di oscurità e dalla concentrata massa d’acqua che il re spruzzò dalle mani e dai piedi per catapultarsi verso l’alto.
Niente più manette di legno, né ignote magie a tenerlo fermo e impotente a terra, distante dal combattimento e fuori dal suo posto a guida dell’esercito: Obskurios era ora libero, e ricolmo di pulsioni infuocate e prorompenti.

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Capitolo 39
*** Capitolo 17.3 ***


Il suo ritorno sul campo di battaglia sarebbe stato spettacolare e la sua strategia decisiva: era ora di cessare una volta per tutte, nella più tremenda via, quella lotta e avrebbe usato tutte le sue forze a stento condensate dentro di lui, odio e amore, per dare origine a un colpo finale e terribile.
Volò rapido sostenuto dalle lugubri ali color delle ossa, spinto dall’ardente desiderio di lottare e uccidere, di prendere la vita di El’issam. Per amore di Karmilla e per la volontà vendicativa di entrambi.
“E che significa quello? Maledizione!” gridò, sorvolando una distesa di guerrieri omologhi ‘pattugliati’ da un gormita della Terra, Nobilmantis e altri che non riconosceva.
Erano i suoi soldati scuri, gli SSX-47, la sua arma speciale in quella campagna. C’era qualcosa che non quadrava, che non andava bene. Non andava bene affatto. Gli SSX…erano fermi, immobili, bloccati come statue in pose e atti improbabili, freddati da una magia grande e sconosciuta. Non era la maledizione della pietra, lo si vedeva bene.
Non sono grigi…no, decisamente non sono di pietra. rifletté il re nero E nessuno sarebbe in grado di maledire così tanti soldati in così poco tempo, e dei soldati come questi per di più. Diamine, da quel che so i gormiti non conoscono nemmeno le Tre Maledizioni! Ma allora cosa è successo?
La situazione aveva indiscutibilmente dell’inspiegabile, e alla frustrazione di aver perso la migliore fonte di vittoria si aggiunse la frustrazione, ancora una volta, di non poter comprendere cosa ci fosse dietro a tutto quello, come e perché era stato fatto. In più, il Signore del Mare, quel gormita della Terra così singolare e dall’aspetto parecchio esausto e tutti gli altri gormiti attorno al battaglione di SS sembravano avere del tutto l’intenzione di stare difendendo quei soldati bloccati nel tempo e nello spazio. Non poteva andare peggio di così: i nemici che mettevano le loro mani sui suoi segreti e che, con il dovuto tempo e studio, avrebbero fabbricato la stessa arma e usatala contro di lui. Forse era anche giusto: del resto, i primissimi progetti che diedero vita ai soldati scuri non erano di fattura yamense o gargoyle, ma derubati.
Per fortuna, c’erano ancora parecchi SSX-47 a piede libero a seminare terrore e perdite nell’avverso esercito.
La spinta conferita dallo schieramento dei soldati scuri di Seilniakos, dovuta molto più alla paura che incutevano nel loro silenzio e nel loro muto dolore, quasi fossero il sentimento stesso della paura che aveva preso carne, che alle loro effettive abilità combattive, aveva comunque dato i suoi sperati frutti.
Tutto procede secondo i piani. Procede bene. Si compiacque Obskurios, calando di quota e pronto a riprendere del tutto la guida e la lotta.
Le mura centenarie di Roscamar, erette secoli addietro quasi esclusivamente con i poteri dei gormiti, erano in vista e sempre più vicine. Sovrastavano i due eserciti grandiose e infallibili, ma trasudavano paura dalle loro varie e a prima vista irrilevanti crepe.
Gli uomini di Vulcano, Aria e oscurità si appropinquavano con foga alle forti pareti, pronti a farle a pezzi per la prima volta in quasi mille anni e a derubarle dei loro preziosi, mentre Terra, Foresta, i pochi del Mare e gli uomini di El’issam a faticava sopprimevano l’avanzata nemica e resistevano all’essere schiacciati.
Le macchine d’assedio erano pericolose chiavi di legno, fuoco e metallo pronte a dischiudere con poco sforzo il roccioso forziere di Roscamar.
Gli arieti venivano trainati di fretta e con forza attraverso la Pianura delle Nebbie; dagli accampamenti venivano prese le letali bombe e trasportate dall’altra parte insieme alle catapulte, abbandonate dopo la schermaglia iniziale, per fare fuoco contro le mura.
Alcuni audaci e presuntuosi guerrieri alati già tentavano la sorvolata delle mura e l’attacco interno, molti fallendo miserabilmente ancor prima di arrivare all’altezza massima dei bastioni, gli altri comunque destinati a perire perché in numeri nient’affatto sufficienti. Alla difesa delle mura prendevano attivamente parte le guardie e i civili della città, appostati sui bastioni con archi, cannoni, balestre, dardi di roccia generati dalle loro mani e ulteriori catapulte pronte a colpire qualora il nemico si facesse troppo vicino.
Può procedere ancora meglio.
Obskurios fu di nuovo tra le fila dei propri e dei nemici, a travolgere e a difendere con la sua nuova supremazia dell’acqua e la classica potenza delle ombre. Il suo obiettivo, però, non era più quello di guidare un assedio: il suo scopo era cessarlo ora e aprirsi immediatamente la strada dentro la capitale, e sapeva perfettamente come farlo. Ma da solo non ne era capace.
Richiamò a sé tutti i soldati, di qualsiasi etnia, che poté, scegliendo tra quelli più energici quando li riconosceva, e riunendoli in una zona sicura, resa ancora più tutelata posizionando alcuni di quegli stessi soldati a difesa del suo gruppo.
“Voi, tutti voi! – gridò, portando le spalle contro la città e rivolgendosi agli uomini che aveva raccolto – Dovete prestarmi le vostre energie. Se avete con voi cristalli o cibo, approfittatene, perché avremo bisogno di tutta l’energia possibile.”
“Daremo origine a una forza così devastante da eliminare tutto l’esercito, far crollare le mura…e poi, conquistare la città e gli Occhi sarà il passo più facile di tutta la guerra.” spiegò, puntando rabbiosamente l’indice verdastro contro le possenti pareti, prima che qualcuno potesse domandare e dissetando tutti, o quasi, i dubbi dei soldati davanti a lui.
“Ma dovete fidarvi di me, e darmi le vostre energie. Se non potete farlo, proteggete me e gli altri: nessuno deve fermarci quando avremo iniziato! – ordinò – Allora, siete con me?”
Non ci fu nemmeno bisogno di annuire, di gridare sì, di obbedire all’ordine secondo le regole tradizionali: un urlo e i pugni portati al cielo furono l’unanime dichiarazione di assenso dei soldati, che prontamente, invasi dall’inebriante prospettiva di facile vittoria, presero i propri posti in collocazioni comode e convenienti.
Quattro gormiti, due con le mani sulle braccia di Obskurios, davanti, gli altri dietro sulle sue ali, erano a diretto contatto con il corpo e l’energia del re di Tato Yami. Altri sei, tre per uno, toccavano da dietro i due gormiti sul retro del gargoyle, infondendo le loro forze nei due e, attraverso di loro, in Obskurios. Nove ultimi gormiti e gargoyle, quattro a terra e cinque in volo, facevano da guardia e da protezione al re e ai suoi aiutanti.
“Pronti? Andiamo!”
Obskurios levò le mani innanzi a lui, facendo leva sulle proprie sole energie. Il freddo cominciò a dominarlo via via che dalle sue braccia si manifestò l’oscurità: riscaldò ed incendiò celermente tutta l’aria nei suoi paraggi, e ogni altra particella che si trovasse in essa, polvere, sudore, vapore, fuoco. Tutto divenne nero, vorace e possessivo della luce del sole, si fece come fuoco, rovente, e come veleno, corrosivo. E quando le ultime forze sembravano lasciarlo e il gelo conquistargli il cuore, il calore si riappropriò di lui, passatogli dai valorosi e vigorosi gormiti e yamensi che aveva chiamato a sé, come carboni ardenti che riscaldano l’acqua di una vasca e sempre impediscono all’aria, al vento e alle stesse condizioni dell’acqua di perdere il suo calore.
Il sangue di Obskurios riprese a scorrere caldo e fluido, corroborandolo e rinforzandolo, e sempre maggiore era l’oscurità che si espandeva dalle sue mani.
Una voce lo contattò dal profondo del suo rifugio a nord, gli rimbombò cautela e monito nelle orecchie, e che anche i suoi uomini udirono.
“Re Obskurios, ti trovo di nuovo! Dove eri finito?” gli domandò preoccupato e ansante per misteriosi turbamenti.
“Stregone di Fuoco!” lo salutò sbrigativamente Obskurios, anche se più che un saluto era un’esclamazione sorpresa per quella visita inaspettata. E forse indesiderata.
“Non importa, – sibilò Magor dalla sua sfera veggente - conta che adesso tu sia di nuovo qui. Forse però era meglio che tu continuassi a rimanere nascosto, perché pare che ti sia bevuto il cervello e abbia intenzione di mettere a rischio tutti quanti. Spiegami immediatamente cosa hai in mente di fare.”
“Mi sembra chiaro. – replicò Obskurios, visibilmente seccato da quella fonte di distrazione, che tra l’altro appariva contraria alle sue intenzioni – Voglio creare un’immensa oscurità. Un mare di tenebre; una stella nera, un’eclissi suprema!”
“Senti come parli! – lo schernì Magor – Ti sei davvero bevuto il cervello. Finiscila ora, prima che sia troppo tardi. Non pensi alle perdite alleate?”
Obskurios ne aveva avuto abbastanza. Non rispose al comando né alla domanda dello Stregone, suscitando pensieri contrastanti tra i gormiti che gli prestavano supporto: dovevano più rispetto e obbedienza a Magor che al re yamense.
Questi si accorse del calo di attenzione, di energia e di sicurezza in quel piano, ed ordinò: “Continuate così, forza! Presto la vittoria e gli Occhi della Vita saranno nostri!”
I soldati gormiti decisero di ignorare per una volta la saggezza dello Stregone di Fuoco, e continuarono ad aiutare il re gargoyle.
“Hai davvero perso la testa, Obskurios. – lo ammonì irato Magor – Mi auguro che tu sappia a cosa vai incontro, e di cosa succede quando una mole tanto grande di ombra incontra anche solo una pallina di luce: esplosioni…o peggio.”
Obskurios sogghignò.
“Il peggio è proprio quello che voglio fare.” Dichiarò audace.
“Questa è follia! Non riuscirai a controllarlo, e farai morire tutti quanti!”
“Dimostrerò che sono più potente di quanto credi, e che un vero condottiero è pronto a correre dei rischi…e che guida la sua gente in battaglia, non nascosto in una grotta!”
Magor s’ammutolì. Obskurios lo aveva ferito nell’orgoglio e lo aveva accusato di una cattiva, di una pessima condotta: la sua rappresaglia sarebbe stata funesta.
Al re non importava. Quando avrebbero vinto, lo Stregone di Fuoco stesso si sarebbe inchinato di fronte alla sua supremazia e alla sua potenza.
“Molto bene, re Obskurios. – Parlò nuovamente lo Stregone, con rinnovata calma e tono sereno, ma tagliente – Procedi pure per la tua strada. Ma non aspettarti la mia benevolenza. E voi, miei gormiti…mi ricorderò della vostra decisione.”
E tacque definitivamente.
Il sole nero tratto dalle mani dell’ardito re aveva raggiunto dimensioni macroscopiche, tali da poter seriamente oscurare per intero la luce di Nejema se sublimato, sprofondando Isola di Gorm e i suoi due satelliti in una perenne eclissi.
Erano le dimensioni giuste; il tempo di distruggere definitivamente l’opposizione alla conquista dell’Occhio della Vita era alfine arrivato, e con esso si sarebbe ugualmente concluso il lungo periodo di esilio e di conflitto per i popoli di Tato Yami e Karmil, gli uni vittoriosi gli altri da vinti e sottomessi. Il passo compiuto quel giorno segnava uno strepitoso traguardo nella storia mondiale: i gargoyle di Tato Yami sarebbero tornati da vincitori e conquistatori nella loro madrepatria, il loro confino sarebbe stato abolito e da allora in avanti sarebbero stati loro a dettare legge. E, affiancati dai prodigiosi gormiti, la conquista dell’intero Mitera, e oltre, era un traguardo non più distante ed utopico.
La gioia e l’eccitazione che infervorarono Obskurios, intento a quelle gloriose riflessioni, contribuirono ad accrescere ulteriormente misure e potenza della ciclopica massa d’ombra. Ma non lo distrassero dalla sua intenzione né indebolirono la sua presa sul colpo finale. Per una delle poche volte nella sua vita vissuta secondo l’aggressiva via delle tenebre, doveva mantenere la concentrazione ed essere pienamente consapevole delle sue azioni, e abbandonare la presa solo nel momento giusto.
Che era adesso.
Il globo nero e impalpabile, denso, doloroso, tenuto come ancorato da catene invisibili alle dita aguzze di Obskurios, fu sprigionato, lasciato libero.
Segnando il suo passaggio con ustionanti onde di calore e un inquietante riverbero di sottofondo, tracciò un percorso rettilineo verso l’alto per pochissimi secondi, osservato con occhi sbarrati e atti di terrore e di codardia dai gormiti e i ka’nhili.
Ben presto avrebbero assistito a un prodigio ancor più spaventoso, da cui la paura e l’istinto alla fuga non li avrebbe potuti proteggere.
Obskurios, ancora sostenuto dai sudditi e dai gormiti dietro di lui, chiuse gli occhi. Si rilassò, portando il suo corpo in continuo fermento a un unico e incredibile stato di calma, trasse dei respiri profondi e lenti. Il bolide nero continuava flemme la sua marcia.
Come Karmilla aveva padroneggiato, sia con differente maestria, entrambe le vie della forza, anche Obskurios si era dato da fare per apprendere le basi della via della serenità e della luce. Gli era estremamente impegnativo, difficoltoso, faticoso oltre ogni immaginazione; come del resto lo era per chiunque si trovasse meglio con la via delle tenebre o, peggio ancora, avesse sempre seguito ed esercitato l’ombra. Era tuttavia necessario: non poteva aspettarsi che i soldati nemici fossero così sprovveduti da gettare di loro iniziativa una sfera o un fascio di luce contro la sua oscurità.
Non posso fidarmi nemmeno dei vulcanici e dell’Aria. - si disse - Hanno paura. E devo fare le cose per bene, nel miglior modo…
Estraniarsi dal mondo esterno, abbandonare gli impulsi e le emozioni, lasciar sfuggire ogni passione in silenzio e senza essere tentati dalla loro influenza. Nulla di più complicato e insopportabile per il re dei gargoyle, ripeto. Tuttavia nulla che potesse evitare di fare; e infine, ebbe la meglio.
La fiamma di luce bianca schizzò via dalle mani di Obskurios dritta nell’immenso oblio. Subito il sovrano gargoyle riprese la via delle tenebre, riempiendosi di rabbia, odio, amore e paura. Pensò con tutte le sue forze ad El’issam, concentrandosi sull’odio e sulla rabbia spropositati che il suo volto nascosto accendeva in lui; portò alla memoria tutti i bei – e i brutti – momenti trascorsi con la sua compagna di vita Karmilla, infiammandolo di un amore tanto grande da sovrastare persino l’avversione per il Sommo, facendolo tremare per la paura di perderla; di perdere il trono e l’onore.
Il mare d’oscurità doveva rimanere sotto il suo controllo.
Quando la scintilla luminosa aveva colpito la cupa luna in terra, era stata immediatamente inglobata da essa; scomparve nel nero assoluto come se non fosse mai esistita.
Una traccia della sua passata presenza tuttavia era rimasta, e rimaneva: come la goccia di pioggia spandeva l’onda sulla superficie di una pozzanghera, ugualmente il lapillo di luce, ora annientato dalla supremazia ombrosa, stava tracciando un flusso circolare grigio che dal punto d’impatto si espandeva lungo tutta la gigantesca sfera, fino a richiudersi dalla parte opposta.
Quando l’onda sparì, l’intera palla si fermò.
Panico e scalpore, eccitazione ma anche preoccupazione tra i due eserciti.
Piano piano, e aumentando progressivamente di velocità tra uno spettro e l’altro, la sfera nera nera non fu più: con onde circolari di stessa struttura e movimento dell’originale, il sole d’ombra s’illuminò di lampi colorati. Gradazioni scure di rosso, poi arancione, giallo, verde, blu e viola.
A seguire un’altra sequenza di arcobaleni, con sfumature via via più intense e luminose, tendenti sempre più al bianco. Arrivò il punto in cui il passaggio da un colore all’altro non fu più riconoscibile, e l’immane sfera divenne candida e pura.
Un vento impetuoso senza correnti e senza sostanza esplose dalla stella bianca, facendo barcollare e rovinare tutti i gormiti, i guerrieri e le bestie nelle immediate vicinanze.
Vuoto alle orecchie, una sensazione insostenibile di sordità; e un silenzio fragoroso dominò per impercettibili istanti la totalità della Pianura delle Nebbie.
Nulla provocava alcun suono: il fuoco bruciava muto, le spade cozzavano senza stridere o tintinnare, le ossa si spezzavano e il sangue fiottava come se in realtà non stesse succedendo niente. Nemmeno i respiri, i battiti del cuore erano udibili, solo i propri pensieri.
E intanto il mondo di tenebra bianca aveva avviato una sequenza di annichilimento: dal momento in cui il silenzio si dipartì e conquistò il campo di battaglia, la sfera della vittoria di Obskurios aveva iniziato a rimpicciolirsi, sempre di più e sempre più rapidamente. Da sole si fece luna, da luna stella, da stella una palla, da palla una minuscola bacca, e infine tanto piccola da non potersi più vedere. Il silenzio ancora dominava.
Il fragore di un milione di temporali, il fracasso di mille terremoti, il frastuono di cento eruzioni ruppero l’insostenibile vuoto con la potenza di centinaia di maremoti. D’improvviso ogni suono che aveva cessato di esistere riprese a vibrare con intensità irreale e distruttiva, principiando l’apocalisse con la serenata mortale e il ruggito della voragine nera che aveva tirannicamente rimpiazzato il minuscolo granello bianco.
Divorava la realtà stessa, una breccia tonante e che spezzava il cielo e la terra ampliando i suoi irregolari confini cibandosi della materia, animata da un vento irresistibile che non spingeva, ma tirava, attirava verso di sé e verso l’ignoto dalla parte opposta del nero.
La terra stessa cominciò a tremare, e l’attrazione di essa sui suoi abitanti cominciò a cedere, mentre gormiti, ka’nhili e gargoyle venivano sospinti in alto e trascinati nel buio.
***
Ilabukh, la città occidentale, era caduta. Strenuamente civili e soldati del porto sulle coste dello Stretto di Gorm avevano resistito e combattuto per la difesa della loro casa, e ancora strenuamente si ribellavano all’eccezionale occupazione della città; ma, per la prima volta nella storia del Popolo del Vulcano, la città era crollata sotto il ferro dei nemici. L’indiscutibilmente più grande e potente e temuta forza militare di Gorm e dintorni aveva subito una sconfitta…entro i suoi confini.
La minaccia che la gente del Monte di Fuoco aveva temuto maggiormente nel corso dei secoli, e che tanto stupidamente e audacemente aveva ignorato, giudicata come un distante incubo, era divenuta realtà quel giorno. I gormiti alleati da anni vessati da uno stato di costante guerriglia, rimasti passivi e sulla difensiva fino ad allora, si erano infine svegliati: era l’ora del contrattacco.
Intollerabile, inaccettabile; la dimostrazione della troppa sicurezza del Popolo del Vulcano e della appena accennata debolezza interna che tuttavia cominciava a compromettere la solidità dell’intera nazione.
Dal nulla guerrieri del Popolo del Mare, affiancati da ben pochi altri gormiti, emersero marciando a nuoto e a piedi in direzione della fortificata città portuale.
Pescherecci e piccole navi da guerra ormeggiate furono abbordate, distrutte e trascinate nel basso fondale da un misterioso mostro prima ancora che potessero tentare la fuga o la resistenza.
Non ci fu il minimo bisogno di gormiti della Terra o di impressionanti macchine d’assedio per far crollare le mura di Ilabukh. Gli uomini di Nobilmantis ricorsero con maestria fenomenale al loro elemento naturale, di cui disponevano in quantità tali da riempire ogni cavità di Monte Vulcano, giudicato troppo spesso e troppo incautamente delicato, debole dal punto di vista del combattimento e di misera portata distruttiva. Avevano sbadatamente dimenticato il Maelstrom e la risoluzione miracolosa di Carrapax durante la battaglia del Rifugio della Rugiada; in più, sebbene potenziato dalla Lancia dell’Oblio, sorretto da suoi sudditi e da chissà quali altri macchinosi portenti, aveva inondato una larga porzione di foresta senza attingere da fonti d’acqua, che erano assenti.
Se lui ‘da solo’ e in mezzo a un bosco asciutto poteva dare vita a tal maremoto, e i sorprendenti assedianti erano in elevato numero e con lo Stretto di Gorm alle spalle, i vulcanici a Ilabukh capirono ben presto di non avere alcuna speranza di resistere all’assalto, che avrebbe loro ricordato allora e per sempre di quali spaventosi prodigi sono capaci l’acqua e i gormiti che la dominano.
Lo Stretto di Gorm prendeva vita grazie alle abili mani dei marini: una forma di vita di dimensioni smisurate, di forza incontenibile, ma soprattutto intrinsecamente avversa, senza alcuna traccia di pietà o misura, al Popolo del Vulcano e a tutto ciò che fosse legato ad esso.
Maelstrom su Maelstrom si abbatterono inarrestabili e irresistibili sulle mura  principali di roccia lavica – e leghe di essa: per quanto la pietra che possono modellare i gormiti del Vulcano sia più fragile di altri tipi di rocce, contro avversari potenti di piegare a loro piacimento grossomodo ogni terra fuorché la pietra lavica, utilizzarla per le fortificazioni fu la scelta più accettata – della città occidentale, sgretolandole e mandandole in pezzi con quasi la stessa facilità con cui un passo distratto manda a catafascio un castello di sabbia.
L’irruzione nella città vide numerosi altri Maelstrom, esercitati sulle costruzioni così come sulle persone, in dimostrazioni di odio e rabbia da far rabbrividire i tenaci vulcanici. L’impulsiva distruzione fu ben presto tenuta sotto controllo, e ad essa seguì una occupazione a tutti gli effetti, comunque feroce. E ugualmente feroce fu l’opposizione degli abitanti della città, pronti a fare di Ilabukh una città fantasma e di dipingere del rosso del loro sangue le grigiastre pareti cittadini pur di non arrendersi o scappare. Una scelta davvero onorevole e in un certo senso gloriosa, tipicamente vulcanica, ma pur sempre stupida: era ovvio che quegli uomini non erano lì semplicemente per catturare la a dire il vero piuttosto modesta città di Ilabukh. Il loro obiettivo era senz’altro Monte Vulcano stesso, pericolosamente indifeso con l’esercito impegnato nella Pianura delle Nebbie, e un corposo battaglione a occupare la città di Garsomor. Per una campagna di tal portata i soldati dovevano essere in un numero assai più elevato di quello che si vedeva sulla riva e irrompere in città, ancora nascosti sotto le onde. Per quel che ne sapevano, l’intero Popolo del Mare, tra acqua e terraferma, poteva essere in armi contro Ilabukh verso il Vulcano.
E i soldati del Mare non erano gli unici a partecipare a quell’assalto: dalle nuvole che coprivano la vicina distesa della Foresta Silente apparve un eccezionale esercito, in una singolare forma di flotta, l’ultima che Monte Vulcano si sarebbe aspettato e una da cui non avevano idea di come difendersi.
Navi volanti.
Capienti recipienti di legno e metallo simili a barche, sorretti in alto da enormi palloni cavi di tela, bianchi e con intessuti a caratteri cubitali gli allora più che mai sgraditi ideogrammi della gente di Karmil. Grandi fiamme dai colori vivaci ardevano al centro di questi incredibili cacciatori del cielo, riempiendo e scaldando con il loro fumo gli ampi teloni che permettevano a quei velieri di solcare l’aere. Ka’nhili equipaggiati con avanzate armi fabbricate al nascosto della loro Karmil, in compagnia di alcuni gormiti, assalivano dall’alto la città e i suoi abitanti, alternando getti di luce ai curiosi longilinei proiettili dei loro strumenti di guerra.
Come era stato possibile costruire un veicolo del genere, e dotarlo persino di armi così potenti? Soprattutto, in che oscura maniera si era riuscito a nascondere quell’armata celeste, così come l’esercito in generale, agli occhi delle sentinelle della città? Come e seguendo quale percorso l’avevano trasportata fin lì, perché sembrava essere sfuggita persino a Picco Aquila, da cui si richiedeva supporto immediato, rimasero un mistero, e nel fresco rapporto inviato al Saggio del Vulcano chiunque l’avesse scritto aveva avuto il buonsenso di non inserire inutili speculazioni.
Un’altra informazione degna di interesse fu una discreta presenza di terricoli – il che portava nuovamente all’enigma del nascondiglio: non potevano essere rimasti immersi così a lungo come i marini – maggiore di quanto si potesse prevedere, sufficiente perché, concatenando impegnativi, larghi e abbastanza profondi Squarci del Behemoth, potesse in poco tempo dare origine a un fiume artificiale in cui immettere l’acqua dello Stretto e da cui poter attingere senza troppa fatica per attacchi d’acqua; oltre che per permettere il passaggio della curiosa e tremenda bestia tentacolata.
La breccia nel terreno fu fatta proseguire oltre i confini di Ilabukh: volevano portare il fiume fino a Monte Vulcano. Un’impresa impensabile, ma pericolosa per il Popolo del Vulcano.
Il gormita in corsa verso la cima del Monte di Fuoco sudò freddo alla possibilità di avere il peggior nemico del Vulcano – dopotutto l’acqua è l’opposto del fuoco – alle porte di casa.
Cercò di rilassarsi, stringendo il foglio fino ad accartocciarlo: la nazione del Popolo del Vulcano era forte.
Poteva vincere ancora, trionfare sul nemico e dimostrare ancora una volta la sua superiorità, almeno dentro i suoi limiti. Non c’era ragione di pensare che il grande Vulcano, il destinato conquistatore di Mitera e oltre, se avesse agito giustamente e in fretta, potesse fallire del tutto solo perché una piccola città scarsamente difesa sulla riva del mare veniva occupata.
Il fuoco del rischio, ad ogni modo, c’era e bisognava arginarlo e spegnerlo prima che si propagasse troppo. Non era forse così grave come quel rapporto faceva sembrare, ma c’era. La notizia che più lo scoraggiò, comunque, fu l’accertata morte di uno dei più abili generali della storia del Vulcano dopo il Grande Sacrificio, il più emblematico, colui a cui durante il suo tempo da Signore affidò più di un incarico, tutti importanti, tra cui il comando di parte delle forze tripartite che avevano marciato nei tunnel mentre lui, l’ex - Signore, era occupato ad Astreg. E sebbene questa campagna, così come in parte quella alla volta di Roscamar quando Kolossus ancora regnava, fu fallimentare, Orrore Profondo continuava comunque ad ammirarlo e a offrirlo come modello agli altri militanti. Armageddon, dopo di lui, gli assegnò minori missioni e anche missioni minori. E ora, l’uomo che agli spaventati avversari era noto solo come misterioso cavaliere, era caduto in battaglia. Nel modo che più lo assecondava, molto probabilmente.
Aveva combattuto da sempre, per tutta la sua vita. Orrore sapeva che nei primi anni dopo il Grande Sacrificio fu uno dei comandanti militari più impegnati, e con più successo, a imporre il pugno di ferro del Vulcano sui pochi gormiti che, per un motivo o per un altro, erano stati risparmiati dall’eccidio e su cui il popolo del Monte di Fuoco governò, finché le condizioni di indigenza in cui gli assoggettati vivevano divennero talmente estreme che lo Stregone di Fuoco giudicò non aver più senso governare un numero così esiguo di gormiti.
In fin dei conti, la presa di Ilabukh non lo turbava così tanto, nella sua scalata. Era necessario riportare un esercito pronto per difendere il Vulcano, questo sì. Ilabukh poteva essere ricostruita, o ricollocata altrove.
I militari erano tuttavia in pericolo. Non quelli di Garsomor, ma quelli della Pianura delle Nebbia.
Stava succedendo qualcosa di strano, laggiù, qualcosa di pauroso: una buia voragine, di piccole dimensioni per la distanza, era visibile persino da lì, e tutti nella Valle del Vulcano avevano udito con i brividi lungo la schiena l’eco del terribile verso che aveva accompagnato la rottura dello spazio e del tempo.
Non era giunta notizia dalla Pianura, ma era chiaro a tutti che la situazione stava andando a loro svantaggio: se quel varco aggressivo avesse in qualche modo risparmiato i guerrieri, e avessero avuto successo nella conquista di Roscamar, sarebbe stata una misera vittoria, perché Monte Vulcano sarebbe stato anch’esso preso.
La capitale della nazione del fuoco, ospite tra l’altro dello Stregone di Fuoco, era ben più importante che Roscamar, anche con gli Occhi della Vita: la campagna la si poteva riprendere in un secondo momento. C’era forse la possibilità di poter salvare l’esercito e portarlo in tempo ai cancelli del Monte di Fuoco per impedire l’avanzata della flotta volante e dei bellicosi marini.
Orrore Profondo doveva agire in qualche modo, ed era al riguardo di questo modo che avrebbe chiesto consiglio allo Stregone di Fuoco, che sembrava starsi preoccupando assai poco per ciò che stava succedendo.
La larga e perfettamente livellata parete di roccia che separava lo Stregone di Fuoco dal resto di Monte Vulcano si parò di fronte a Orrore. Senza badare alle normali regole di richiamare l’attenzione di Magor e attendere che fosse lui ad aprire la porta con la magia, sollevò da sé la lastra rocciosa con la padronanza che aveva della pietra lavica – Orrore Profondo, voglio notare, non è stato trasformato dall’Occhio della Vita – e malgrado il peso e il non troppo debole incantesimo che sovrastava la lastra riuscì a tenerla in alto il tempo necessario per dirigersi con risoluta intenzione verso lo Stregone di Fuoco. Del resto, dato il suo immenso potere, Magor si era sicuramente già accorto della presenza di Orrore Profondo e appurato di non essere affatto in pericolo.
Orrore lo trovò, di spalle a lui e al tavolo centrale, per nulla turbato, dallo stato delle cose o dalla sua irruzione nella stanza, impegnato casualmente in un ‘pasto’: era famelicamente intento, accompagnando movimenti della bocca a quelli delle dita, come a simulare un pasto vero e proprio, a succhiare tutta l’energia contenuta in un diamante che teneva sospeso all’altezza del petto. Questo fece ricordare a Orrore un dettaglio di non poca importanza: l’ammontare delle pietre preziose il cui uso era esclusivo a Magor era elevato, le Miniere di Sargon continuavano ad estrarre rubini e altri minerali quasi unicamente per lui.
Non era per niente un’ingiustizia, agli occhi di Orrore Profondo, ciononostante non poté non constatare quanta ricchezza veniva consumata unicamente dallo Stregone di Fuoco in rapporto a ciò che lui aveva dato al Vulcano – e all’Aria.
La sfera veggente giaceva dalla stessa parte di Magor, oltre il tavolo centrale, offuscata dalle fiamme dello Stregone; i due Occhi del Vulcano, solo nominalmente distinti in Occhio del Fuoco e Occhio della Roccia lavica, fluttuavano inerti su un ripiano roccioso sulla sinistra.
L’ex-Signore del Vulcano, e il primo Signore unico dopo una lunga serie di consoli a coppie, passò subito al sodo.
“Ilabukh è stata conquistata da un esercito di marini e di ka’nhili, o Stregone.” Lo informò, con un tono che faceva sembrare il suo ragguaglio un rimprovero.
“Ne sono perfettamente al corrente, Saggio Orrore.” Replicò sereno e distaccato Magor, riponendo a terra il diamante ormai arido.
“Rimaniamo con le mani in mano, o Stregone? Dobbiamo prepararci e respingere l’avanzata!” lo incitò, quasi inferocito per la sua mancanza di preoccupazione.
“Non sono uno sprovveduto, Orrore – gli fece notare Magor, ancora di tergo – L’occupazione di Garsomor è stata richiamata dal consigliere Porfidion, e l’esercito della città si sta muovendo qui insieme a quello di Rabukh. Non abbiamo nulla da temere. Se non hai altri motivi per disturbarmi, esci da questa stanza, e la prossima volta segui la norma.”
Orrore si ritrovò costretto a tacere, e ad ammettere che le sue paure erano davvero infondate. Tutto era davvero sotto controllo, e il Vulcano non stava correndo più rischi di quanti ne avesse corsi in passato. Come era giusto per la grande potenza del Vulcano: era infallibile.
Paure infondate…tranne una.
“Che cosa sta succedendo alla Pianura delle Nebbie?” domandò, sudando dalla fronte grigia e dura per l’impazienza.
“Il potentissimo re di Tato Yami Obskurios ha scatenato un varco casuale aggressivo che credeva bislaccamente di controllare, nonostante i miei richiami. Molti guerrieri da entrambi i lati sono persi oltre l’apertura.”
La tranquillità speziata di sarcasmo con cui aveva rivelato che i timori di Orrore Profondo, e di grossomodo tutta la comunità del Vulcano, erano veri lo spiazzò come ben poco altro era riuscito a fare nella sua vita e nella sua carriera. Che cosa gli frullava per la testa, a Magor? Lasciare i suoi uomini perire in quel modo…assurdo.
“Ma…ma dobbiamo fare qualcosa, dobbiamo salvarli! O sarà tutto per niente! – sbottò balbettando Orrore – Non…non li salverete?”
“Certamente. Non abbandonerei mai i miei seguaci. Ma prima di salvarli voglio punirli per la loro esagerata sfrontatezza. Le perdite di questo giorno peseranno tutte su Obskurios e sulla sua follia.” Spiegò con eloquenza e severità.
Eccessiva severità. Come poteva così deliberatamente permettere che i suoi uomini morissero, catapultati al di fuori del loro mondo nell’ignoto, solo e unicamente per rappresaglia e castigo.
Orrore Profondo non poteva consentire una cosa simile. Che bruciassero gli Occhi della Vita e Roscamar, persino i gargoyle: la sua gente e i suoi uomini dovevano salvarsi.
“Devo disobbedirvi, grande Magor – annunciò altezzoso, gli occhi violacei e la fronte corrugati, i denti digrignati – Io salverò, in qualche modo, i miei uomini. Non posso lasciarli a morire solo per punire Obskurios. Omaggi, o Stregone di Fuoco.”
Ciò detto, girò di scatto i tacchi, diretto fuori dalla stanza con la stessa risolutezza con cui vi era rientrato; alzò con certa foga la porta rocciosa, richiusasi automaticamente, che sbatté sonoramente sul soffitto. Stette per uscire.
“Non riuscirai da solo a salvare tutti i soldati.” Lo avvisò Magor, sempre sereno. Qualcosa simile alla malizia e alla persuasione pareva però essersi infilato nell’apatia della sua voce. Orrore si bloccò, pronto a ribattere, anche volgarmente.
“Nemmeno riunendo sotto di te tutti gli uomini di Monte Vulcano, forse, riusciresti ad evitare la morte di tutti i guerrieri prima che il varco si richiuda – seguitò, e Orrore non aveva idea di dove volesse andare a parare; forse gli stava semplicemente facendo perdere tempo o voleva convincerlo che il salvataggio non era fattibile – Rischieresti non solo di lasciarti sfuggire l’esercito, ma anche i gormiti che hai preso con te, e te stesso. Non c’è possibilità di raggiungere in tempo la Pianura prima di perdere almeno un terzo di tutta l’armata, e aprire un altro varco per far passare tutti i tuoi compagni richiederebbe tempo ed energia, e vite perdute. Hai bisogno di aiuto per aiutare, un aiuto che non può venire che da me.”
Ora si offriva di aiutare. Magor lo Stregone di Fuoco era davvero un mistero sotto tutti i punti di vista: non si può mai sapere cosa aspettarsi da lui, o anticipare con successo le sue decisioni e le sue mosse.
“Ti ricordi della cosiddetta ‘evoluzione mystica’?” gli chiese tutt’un tratto, un argomento del tutto impertinente e fuori luogo, mentre abbandonava la sua postazione presso la sfera veggente per dirigersi a uno degli ampi scaffali situati nella camera, precisamente quello alla sinistra di Magor. Scaffali fatti interamente di pietra lavica, ma anche altre rocce, raramente di metallo e con zero tracce di legno. Di carta, però, tra un ripiano e l’altro, ce n’era eccome.
Tenendole ben distanti dalla libreria, stipata di infinite varietà e genere di oggetti, da mappe del Mare di Gorm subacqueo a fiori tenuti dentro barattoli, e come non citare i preziosissimi cristalli, scorreva e indicava con le dita infuocate alla ricerca di un qualche cosa tra la mensola.
“Sì – rispose con sopracciglio inarcato Orrore dopo diversi attimi di sospetto e silenziosa osservazione – Ero stato toccato, quella notte con le stelle cadenti…poi, come tutti, ho perso quello che avevo acquisito. Perché me lo chiedete, e adesso?”
“Vorresti provare di nuovo la sensazione di onnipotenza, di pienezza, di rinnovata sicurezza in sé dell’evoluzione, ma dieci, venti volte più forte?” domandò imperterrito, seguitando a scorrere lungo le assi dello scaffale senza distogliere lo sguardo da esse.
“Potrebbe…dimostrarsi utile – ponderò Orrore Profondo sempre più confuso – Che intenzioni avete, Stregone di Fuoco?”
Trovò ciò che faceva al caso suo – ma cos’era? – lo estrasse con la forza magica dal suo cantuccio e tenendolo sospeso nella stessa maniera lo condusse, avvicinandosi lui stesso, alla portata di Orrore Profondo.
“Io posso dare soddisfazione a questo tuo desiderio. Accetta questa pozione, e disporrai per un periodo di tempo limitato del potere mystica decuplicato. Potrai viaggiare in un attimo fino alla Pianura delle Nebbie e avere ancora energie per salvare la tua gente. Non è mai stato provato prima, ti avverto, e non so cosa accadrà quando l’effetto svanirà, ma posso essere sicuro che funzionerà come ti ho appena detto. Tuttavia, un suggerimento: da solo avresti comunque una portata piuttosto piccola per sperare di salvare l’esercito. Devi condividere l’energia con qualcun altro.”
Orrore Profondo non sapeva cosa pensare, o cosa dire, o fare. Titubava, balbettava, senza arrivare a una conclusione. La successione di eventi era stato troppo brusca. Come sarebbe riuscito Magor a fargli davvero provare di nuovo l’evoluzione mystica, e più forte di prima per di più? Che aveva a che vedere lui con le stelle cadenti?
Lo Stregone di Fuoco lo metteva alle strette: “Sbrigati a decidere, prima che cambi idea. E ti avverto ancora, potrebbe essere rischioso. Vuoi accettare oppure no? Dammi una risposta.”
“Sì, accetto, accetto!” sgolò Orrore Profondo, scosso da quella piega degli eventi e da tutto ciò che ne conseguiva, e turbato dalla fretta che gli ingiungeva la sua guida. Forse si sarebbe pentito di quelle parole, forse sarebbe stata la scelta migliore della sua vita. Ma in quel momento tremava come una foglia secca al vento.
“Molto bene. Ora stai tranquillo… - lo rassicurò lo Stregone, sorridendo, e mutando la sua voce giovane ma austera in una melodia suadente e incoraggiante come solo lui sapeva fare – stai bene in piedi, dritto. Chiudi gli occhi.”
Orrore obbedì, per quanto riluttante e non del tutto convinto dei toni dello Stregone di Fuoco.
Non vide cosa stava succedendo, ma poteva ancora sentire, con il naso e gli orecchi: udiva il barattolo, perché di barattolo si trattava, venire stappato, e la misteriosa, al timpano appiccicosa e alla narice maleodorante, sostanza al suo interno fatta fuoriuscire e ondeggiare, sotto il controllo della magia.
Il silenzio. Sicuramente magie pronunciate con la mente. E poi una sensazione indescrivibile che gli pervase di colpo tutto il corpo.
Aprì gli occhi. Il suo corpo sembrava riempito da una forza divina, la sua pelle sembrava esplodere, che si illuminava a intermittenza di rosso e rosa, mentre un’aura infuocata lo avvolgeva dalle ali ai piedi. Provava nel suo petto la combustione di centinaia di prodigiosi cuori che pompavano sangue ed energia a velocità e frequenze allucinanti.
Sentiva nella sua forte mano, nel letale cannone lavico, nel profondo delle sue viscere e in ognuno dei suoi muscoli la potenza e il fuoco di mille soli.
Niente turbamento, solo viva eccitazioni. Non più insicurezza e paura, ma audacia e desiderio di eroica gloria.
“Sbrigati, ora - lo incitò calorosamente entusiasta di quel risultato Magor - Questo potere è limitato, ricordalo. Usalo per ciò che è necessario.”
E mentre Orrore Profondo schizzava come un fulmine infuocato al suo ardito salvataggio, lo Stregone di Fuoco si preparava alla fine. Come questa fine si sarebbe dimostrata, se la fine come l’aveva sempre sperata e immaginata, se la sua fine, non poteva ancora dirlo con chiarezza. Sapeva però che la fine si stava avvicinando, che il tempo di grandi cambiamenti e di rivelazioni era dietro l’angolo. Lui avrebbe giocato la sua parte, in quelle rivelazioni. Come aveva accennato al giovane Saggio, sull’evoluzione mystica Magor sapeva qualcosa, per non dire tutto; ma non si sarebbe limitato a quella dichiarazione. Prese una sfera magica, e registrò in essa informazioni che nessun gormita conosceva, talvolta neppure il Vecchio Saggio.
***
Così tanto dolore aveva vissuto quell’Isola sin dal suo arrivo lì. Un dolore che non meritava, un’agonia che lui sapeva essere in parte…ma che in parte, completamente causa sua, diretta e indiretta, e dei cambiamenti che la sua venuta su Gorm aveva provocato, in una reazione a catena senza fine. Più di una volta aveva avuto la possibilità di rimediare agli errori commessi, di rassegnarsi all’inevitabile e tornare sconfitto e colpevole, ma giustamente punito, alla vita di un tempo.
Invece no, aveva tentato e ritentato incessantemente di voler porre rimedio alla sua maniera e di continuare testardamente con il suo nuovo stile di vita, sorprendendo se stesso per l’enormità e la grandezza dei veri e propri miracoli di cui era stato capace, ma alla fine costretto a rinunciare al suo ruolo chiave in quelle vicende, e ad ammettere di essere stato solo uno schiavo e uno strumento.
E ancora continuava a rimanere suo schiavo: la sua fuga non aveva completamente tagliato i ponti con l’Isola di Gorm e la crisi che stava vivendo. Un’inspiegabile e imprevedibile serie di eventi, negli anni passati, lo aveva portato a mettere piede sulla remota isola, un tempo una lontana terra con due cime montuose nel vetro di un cannocchiale, ancora una volta dopo il suo giuramento di non volerne avere più a che fare, di aver fatto fin troppo per essa. Di aver fatto fin troppo male. Le innovazioni e le conoscenza che lui aveva portato sarebbero col tempo comparse da sole, come era successo per gli elfi, i vici, e gli zoari. Lo stesso valeva per i mistici gargoyle e ka’nhili.
Lo aveva da sempre saputo: le inquietanti profezie, la presenza delle poderose bestie marine a guardia di quello scrigno terroso, la Grande Piovra e la Grande Murena, erano tutte un segno che l’Isola di Gorm era stata chiusa al resto del mondo per un motivo. Da chi è perché, non lo poteva comprendere; ma poteva comprendere che le cose stavano davvero così. Purtroppo se ne era reso conto fin troppo tardi. La sua comparsa, il suo miracoloso salvataggio dalla nave, il suo folle desiderio di conoscenza e di possesso, avevano rotto l’equilibrio che da sempre era retto su Gorm, e a lungo andare la stavano gettando sull’orlo del collasso.
Tutto per causa sua, di ciò che si era lasciato alle spalle, della sua insana voglia di onniscienza. I vecchi concittadini di un tempo, ognuno a Lacedimora lo aveva avvisato, e da sempre non solo la lontana Città dell’Anno 1468, ma l’intero Grande Golfo era avverso all’esplorazione per mare, all’avventurarsi oltre i sicuri confini montagnosi – che per altro nessuno aveva davvero mai visto con i propri occhi – del suddetto golfo. La disfatta e la morte aspettavano chiunque osasse, o peggio.
E il peggio lui sapeva benissimo cosa fosse: portarsi sulle spalle e sulla coscienza il peso di aver condannato un’intera civiltà a una guerra civile per una sconsiderata ambizione di conquista del mondo, e di perpetua astrazione dal mondo.
Ripensò alla profezia che quella curatrice, Vega, lo ricordava ancora bene, aveva scoperto e scritto ai suoi riguardi: Dalle coste dello sconosciuto est giungerà un araldo portatore di novità. Le sue rivelazioni e i suoi ammonimenti cambieranno per sempre la vita come la conosciamo, e il mondo intero non sarà più lo stesso. Ripensò a quanto epica, misticheggiante, fomentatrice, e al contempo ridicola era stata sulle prime quella proposizione così enigmatica, ma, oh, alla fine così incredibilmente, impossibilmente vera! Razael non lo avrebbe mai immaginato, scettico e assolutamente contrario a quelle insulse pseudoscienze. Eppure, il mondo non era più lo stesso. Gorm non era più la stessa, e, lo prevedeva, presto i gormiti non avrebbero più avuto le coste dell’Isola come loro ultimo orizzonte, e anche il resto del mondo sarebbe cambiato.
Anche se ancora una volta avrebbe dovuto intromettersi negli affari di Gorm, se ancora una volta avrebbe dimostrato di essere uno schiavo dell’Occhio della Vita, non avrebbe abbandonato i suoi gormiti, nemmeno i gormiti del Vulcano, a una fine così straziante.
Forse l’Occhio della Vita era la fonte di equilibrio di Gorm. Ma era fin troppo convinto del contrario, e non c’era alcuna prova a dimostrare che potesse portare del bene ai gormiti, sebbene per anni fossero vissuti in una discreta pace insieme ad esso.
Se non poteva distruggerlo con mezzi convenzionali, se nemmeno gettarlo via, dove mani indiscrete non potessero raggiungerlo, aveva funzionato, avrebbe tentato un’ultima alternativa, e l’apocalisse che stava scoppiando nella Pianura delle Nebbie gli dava un’occasione irripetibile per porre fine a tutto, definitivamente. I mondi e le civiltà che avrebbe incontrato, e dannato così facendo? Era irrilevante: avrebbe tentato e ritentato, come aveva del resto fatto fino adesso, allungando smisuratamente la sua vita, fino a trovare un mondo dove il pericolo fosse stato pari o di poco maggiore a zero. Gli Occhi del Vulcano da soli non sarebbero stati di alcun guadagno.
E infine avrebbe provato la pace. Chi se ne frega dell’immortalità e della gloria.
Nonostante il delirio omicida della voragine nella Pianura, che la vedeva appiattirsi e diminuire di dimensioni, ma a ritmi troppo lenti per essere intollerabili, Razael Akkars era rincuorato da ciò che vedeva.
I gormiti stavano lavorando assieme per salvarsi. Alcuni dovevano necessariamente sacrificarsi, e tra questi riconobbe valorosi come Carrapax e Tasarau, ma anche Obskurios ed El’issam, e tanti altri che meriterebbero di essere nominati, e farsi catturare dal varco, ma il loro sacrificio sarebbe stato ricordato per sempre. E poi, c’era una remota, ma c’era comunque, possibilità che potessero ritornare.
Tutti si stavano dando da fare: portentose magie attivate e tenute in vita da folti gruppi di eroici gormiti, ka’nhili e gargoyle, atte o a creare delle invincibili barriere attorno ai propri guerrieri in modo da impedire all’apertura di catturarli, oppure dei bracci con cui stringere i guerrieri e portarli lontano dal raggio d’azione della voragine spaziale.
Questa seconda opzione era quella a cui erano ricorsi i vulcanici; tuttavia, nel soccorso del Popolo del Vulcano stava succedendo qualcosa di diverso, di anomalo.
Il Vecchio Saggio aveva visto Orrore Profondo, il primo Signore unico del Vulcano dal Grande Sacrificio, infuocato, sfrecciare come un fulmine dalla cima del Monte di Fuoco fin lì, e con la sua sola forza, gestita in condivisione con i fratelli Magmadoni Lavion e Magmion. Chissà perché aveva scelto proprio loro, forse aveva stretto una solida amicizia, o erano casualmente i primi che incrociò. Loro tre erano gli unici, o quasi, che sgobbavano per portare un futuro alla milizia vulcanica. Quelli più in vista, indubbiamente.
Mentre si avvicinava sempre più pericolosamente alla spaccatura nello spazio, Occhi della Vita al seguito, osservò con maggior soddisfazione i salvatori del Popolo dell’Aria, tra cui riconobbe anche Elios. Il grande traditore era alfine tornato nel nido. Lui e gli altri eroi aerei non facevano distinzioni tra gormiti dell’Aria ‘amici’ e ‘nemici’: erano tutti un solo Popolo dell’Aria, avevano solo case e ideali diversi, me entrambe le parti meritevoli di continuare a vivere sul suolo e sul monte alto di Gorm. Dal canto loro i gormiti salvati si lasciavano difendere e trasportare, quasi inerti, ma la maggior parte straripanti in lacrime e guaiti: gli avversari, i gormiti che essi stessi avevano esiliato e con cui avevano combattuto senza pietà, ne mostravano verso di loro per fare in modo che potessero continuare a vivere. Non potevano tradire un simile gesto di misericordia, l’avrebbero covato in fondo al cuore per molto tempo, e presto o tardi un uovo si sarebbe dischiuso e avrebbe portato a cambiamenti nel Popolo dell’Aria.
Una distinzione, un gormita non meritevole sembrava esserci: Devilfenix, l’attuale Signore dell’Aria.
Si dibatteva con tutte le sei ali e i quattro arti nella furia del vento, invano, gracchiando e gridando a vuoto in direzione di Elios e gli altri vicini a lui che, vicendevolmente bloccati con gli incantesimi, seppur non del tutto, e temporaneamente al sicuro dalla spaccatura, si impegnavano per trasportare in sicurezza ogni aereo. Meno che Devilfenix. Anche da lì, il Vecchio Saggio poteva udire alcune parole.
“Elios...Alos, Elios! - invano gracchiava mentre veniva risucchiato Devilfenix, porgendo supplichevole le mani uncinate verso di loro - Prendetemi!”
Elios e gli altri gormiti nel gruppo non risposero. Lo ignorarono come, in quel putiferio, ignoravano un insignificante granello di polvere o piccolo insetto che veniva risucchiato insieme a loro.
Rimanevano concentrati e fissi sul loro obiettivo, gesticolando periodicamente per mantenere in piedi, con enorme fatica, la macchinosa magia che stavano evocando.
“Vi prego, vi prego…perdonatemi, salvatemi! – ululava piangente il misero Signore dell’Aria – Lasciate che vi aiuti anch’io…voglio salvare il mio Popolo!”
“Non ti sarà concesso un simile diritto.” Tuonò bieco Elios, voltandosi per un attimo verso di lui, un’espressione terribile sul volto e sul becco.
“Non meriti di essere salvato, sei solo feccia. Non sei uno di noi, e non lo sei mai stato – continuò aspro – Non dopo ciò che mi ha fatto.”
Il Vecchio Saggio non capì a che cosa potesse starsi riferendo. Del resto era stato lontano per un buon mese – e un mese gormitico è assai lungo – non si aspettava di trovare tutto come lo aveva lasciato. E nemmeno io l’ho capito, pur studiando e chiedendo ovunque.
Capì ad ogni modo che la condotta di Devilfenix quale Signore dell’Aria, e come semplice gormita di Picco Aquila, era stata disdicevole, riprovevole, intollerabile, e altri aggettivi di sdegno e rigetto.
Devilfenix era rimasto solo. Solo e condannato a rimanere solo nel mondo, ostile o non ostile che fosse, che si apriva oltre il nero.
Razael parlò troppo presto. Qualcuno si fece strada verso di lui, eludendo le barriere e i bracci magici, rifiutando di propria volontà! di farsi salvare.
Posso elencare dei nomi di questi nuovi ribelli, arditi seguaci di Devilfenix: Dragon II, Beccoduro, Refolus, Magufiu, una tale che passa per Mistica Falena, Crudelion, Magicorvo, uno smanioso stregone che si fa chiamare Mangiamente, Aduncus, vari altri.
“Devilfenix! - gridava Dragon, che guidava gli altri - Non ci lasceremo nelle mani dei nostri nemici!”
“La nostra fedeltà va solo a te, che sei il nostro unico Signore.” continuava Crudelion
“Non importa dove andrai, noi ti seguiremo. Non andremo dietro a questi stolti infedeli: il Popolo dell’Aria è cambiato.”
Devilfenix si commosse come mai prima d’ora di fronte alla loro lealtà e fedeltà, e le sue lacrime di disdetta e sofferenza divennero calde perle di gioia e soddisfazione.
Nonostante il suo pessimo carattere, la sua morale così corrotta e la sua scalata al potere senza cura di coloro che venivano feriti nel processo, qualcuno alla fine era davvero tanto folle e tanto fiducioso da credere in lui e nelle sue idee. A tal punto che lui stesso cominciò a credervi.
Si volse verso il centro del varco, indicandolo col dito.
“Andiamo, miei fedeli, miei compagni. Quest’isola non fa più per noi…verso nuovi orizzonti!”
Uno dopo l'altro scomparivano, diretti verso chissà quali mondi, nell’oscurità della porta dimensionale.
Il Vecchio Saggio non passava certo inosservato nella sua volontaria ascesa al centro della nera e ancora ampia e affamata apertura, nonostante mettere al sicuro la propria pelle fosse oramai l’unico obiettivo nel mirino dei gormiti, qualsiasi gormita.
Ma era una vista singolare e che attirava l’interesse, ne era più che sicuro, e ai suoi occhi arrivavano gli sguardi attoniti dei gormiti che lo fissavano: l’anziano stregone naufrago, insegnante, inventore, ‘profeta’, che non aveva mai abbandonato Gorm da quando vi aveva messo piede – escludendo i viaggi a Tato Yami, Karmil e il pellegrinaggio dopo il Grande Sacrificio - senza dire una parola, senza che nessuno potesse vederlo e confermarlo, era fuggito per chissà quale luogo lasciando i gormiti a risolvere da soli i propri problemi. E ora era ritornato, portandosi con sé gli Occhi della Vita, nel momento più buio del conflitto di Gorm, non semplicemente per porgli fine, ma per porre fine al suo principio.
Occhi colmi di lacrime di speranza e gioia, di esultanza mista a genuina e legittima curiosità; torve espressioni di rimprovero che però trasudavano un grande sollievo per la conferma che non aveva completamente voltato loro le spalle; non mancavano sguardi interamente intrisi di rabbia, avversione e rancore, che non lasciavano spazio ad altro.
Il Vecchio Saggio non li biasimava. Avevano completamente ragione, tra tutti coloro che si erano accorti della sua improvvisa e inaspettata presenza erano quelli che si erano ‘comportati meglio’, offrendo a lui quello che si meritava davvero: colpa.
Si sarebbe redento dei suoi sbagli, una volta per tutte: avrebbe salvato Gorm per la prima e ultima volta.
Immediatamente dopo una visione ancora più sorprendente e decisamente più inquietante catturò l’attenzione di tutti i guerreggianti con abbastanza coraggio o sufficiente stupidità da abbandonare la concentrazione nel salvarsi per gettare lo sguardo in direzione di una cupa e al tempo stesso luminosa fiamma che sfrecciava nel cielo, per nulla intaccata dalla paura del mostruoso varco spaziale. Non era Orrore Profondo, né un altro gormita potenziato come lui: si dirigeva dritto in direzione della breccia, dritto verso di lui, il Vecchio Saggio, e pareva non aver il minimo interesse per le vite che rischiavano di cambiare per sempre sotto di essa, e tutt’intorno.
Due vitrei globi rossi come il sangue seguivano la fiamma rosseggiante allo stesso modo in cui gli Occhi della Vita di Foresta, Aria, Terra e Mare rimanevano ancorati a un invisibile campo d’attrazione nelle ristrette vicinanze del Vecchio Saggio.
Il canuto mago, il malinconico intellettuale spalancò gli occhi in una disperata dimostrazione di incredulità e anche spavento.
Per oltre quaranta anni il profeta opposto al Vecchio Saggio si era nascosto agli sguardi degli abitanti di Dalarlànd e anche di Darth Kuun, ad eccezioni di quelli della regione più a nord, e anche nei loro riguardi preferiva il suo alto rifugio che apparire in pubblico, agendo nell’ombra, manipolando popoli, strumenti e poteri secondo progetti macchinosi volti alla rivolta, alla guerra, la conquista di terra e potere, e per quanto essi si dimostrassero sempre parzialmente fallimentari, era capace di far vedere negli occhi dei suoi seguaci una vittoria in ognuno di essi, a renderli sempre più orgogliosi delle loro potenzialità, più patriottici che mai.
Il lungo esilio nel dominio di Razael Akkars fu vissuto istruendo il timore di questa figura, tanto mistica e pericolosa che per molti gormiti e molti anni, anche dopo la ripopolazione di Gorm, rimase sempre un personaggio fittizio, inventato come controparte del Vecchio Saggio. Questo periodo fu quello in cui egli fu più che mai assente dal suo rifugio, ma erano troppo poche e troppo spaventate le persone che potevano vederlo all’esterno della sua tana, nella sua vera forma e nelle sue debolezze.
Nel momento più buio della guerra di Gorm ecco infine Magor, lo Stregone di Fuoco, il maestro dietro la rivoluzione, uscire allo scoperto per la prima volta in quasi cinque decenni e dimostrare ad ogni scettico ancora presente la sua effettiva e dannosa esistenza. Il fautore dell’increscioso genocidio di trent’anni e più fa era vero, reale. Il suo arrivo nel campo di battaglia riempì di puro terrore i cuori di tutti i gormiti e persino quelli dei ka’nhili: poteva dare vita a un orrore capace di superare in nefandezza persino il Grande Sacrificio.
Non c’era bisogno di conferme, benché non l’avessero mai visto prima, né descritto né dipinto, per comprendere che si trattava del terribile Stregone di Fuoco, un nome che non era metaforico come i gormiti avevano pensato fino ad ora.
Gli occhi arrossati dalla fatica, dall’età e dalla preoccupazione di Razael incrociarono quelli rossi, gialli, arancioni, in continuo mutamento ma fissi e severi, infuocati per un incantesimo che non aveva mai smesso di tormentarlo, di Magor.
Il varco spaziale dietro di loro aveva accelerato la sua chiusura, e diminuiva vertiginosamente di dimensioni, riportando la realtà al suo stato originale; ma c’era ancora tempo prima che sarebbe davvero finito.
Momenti di estrema tensione: due feroci avvoltoi, uno giovane e forte e avventato, l’altro vecchio ma astuto, che si contendono la stessa carogna e per niente al mondo disposti a cederla o a condividerla. Impietose beccate e zampate sarebbero presto scattate con il termine della loro silenziosa e reciproca osservazione, del loro biunivoco studio. La resa dei conti.
“E’ davvero molto stupido da parte tua, Magor, recarti qui nell’attuale stato delle cose, e portare con te gli Occhi. Rendi il mio piano più completo e più facile.” La prima artigliata del Vecchio, sferrata con il classico e intramontabile sarcasmo dell’anziano scienziato.
“Devo darti ragione – fu la replica piuttosto insolitamente fredda e accondiscendente di Magor – Non è stato del tutto saggio: non so nemmeno io quanti sono i rischi che corro. Ma sono azzardi che mi compenseranno bene, eccome.”
“E’ tutto da vedere. Ma ribadisco che portare qui gli Occhi del Vulcano è stata la scelta peggiore che tu abbia mai preso, persino di quella di voler ribellarti a me, quel giorno di tanti anni fa…”
“Tu non capisci. E’ il volere degli Occhi essere qui. Loro mi hanno parlato, mi hanno detto delle cose… - illustrò, e il suo tono e il suo sguardo si fecero follemente sognanti – Mi hanno mostrato il futuro, il mio futuro. E quando ho scoperto della tua riapparizione, mi hanno detto che essi volevano essere riuniti da me, e che mi avrebbero protetto nel mio viaggio qui.”
“Alla fine la pazzia ti ha colpito! – lo ammonì severo ed esclamò trionfante – Come c’era da aspettarsi: nessuno può resistere così tanto al Flammae corpus. Ma forse tu sei sempre stato pazzo, ed ecco perché sei ancora vivo.”
“Il discorso è sempre quello, maestro: l’unico pazzo, qui, sei tu!”
“Sì, io sono pazzo. L’Occhio della Vita mi ha ingannato sin dal primo sguardo. Ma ho conservato e conservo ancora un briciolo di ragione…e tu, tu invece, ora ho capito, sei stato tradito subito e senza via di scampo quando ti ritrovasti con i due Occhi. L’Occhio ti ha nelle sue mani, sta giocando con te, per questo ti ha portato qui!”
“Facciamola finita.”
“No, io la farò finita!”
Gettò in avanti, saldamente stretto tra le rugose e villose mani, l’inseparabile bordone con smeraldo sfaccettato, e con foga scagliò un incantesimo che ruppe ogni protezione di cui disponesse Magor.
Il suo corpo infuocato, effettivamente privo di difese particolari, fu di scatto trascinato in avanti contro la voragine sempre più piccola, e lo stesso fece Razael, gettandosi di propria iniziativa all’indietro per non dare speranza.
“Non rivedrai più Gorm, Magor! Né tu né questo Occhio della Vita!” boccheggiava vorticando follemente su se stesso, intrappolato dalla forza del buco nero.
“Non finisce così, maestro! - urlò lui in risposta, rabbioso come il Monte di Fuoco nella sua prima eruzione, ma profondamente sicuro di sé – Dovunque questo varco mi porti, porterà anche te e gli Occhi insieme a me! E, finalmente, avrò l’unico Occhio della Vita tutto per me, riuscirò a tornare su Gorm…e avrò te, oh, sì, e spegnerai per sempre queste fiamme.”
La paura per l’apertura nera e il mondo a cui avrebbe condotto, la malinconia di lasciare per sempre la sua casa, il suo mondo, la culla della sua civiltà, il luogo di tanti esperimenti, esperienze, conoscenze…non lo toccavano più. Tutto stava per concludersi, dopo anni e anni di tormenti, rammarichi e rimorsi. Stava per concludersi al meglio.
Magor vaneggiava. Era tutto fuori dalla sua portata, dalla portata di chiunque. Non l’avrebbe avuta vinta, mai, men che meno ora che la fine era così prossima.
Un ultimo incantesimo, prima di lasciare per sempre Mitera e la calda luce del sole Nejema, mutò lo Stregone di Fuoco. Al posto del misero e fragile elfo maledetto crebbe un mostro di fuoco e lava, gigantesco e grottesco, tale da poter divorare la stessa breccia nello spazio, volto alla tortura e alla sconfitta della sua nemesi.
Mentre l’apertura verso l’oblio si rimpicciolì fino a chiudersi una volta e per sempre, lo Stregone di Fuoco e il Vecchio Saggio, le due guide di Gorm, intrapresero un’ultima sanguinosa lotta per la vittoria finale. Infine, sparirono oltre il punto di non ritorno, e i sei Occhi della Vita con loro.>>

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Capitolo 40
*** Capitolo 18 ***


Era completato. La storia del tempo dell’Occhio della Vita era conclusa, e con essa anche il periodo in cui i due misteriosi raminghi, profeti dall’est, stregoni di incalcolabile esperienza e potenza, portatori di una cultura e di una sapienza aliene al circoscritto mondo di Gorm, membri di una razza altra, indissolubilmente legati da impenetrabili legami che tali rimasero fino al giorno della loro scomparsa, della loro morte, impressero il loro marchio e il loro dominio sulla società agli occhi del mondo da cui provenivano ancora più aliena dei gormiti. Una storia descritta con vividezza di particolari e intensità di pathos, tale da rendere quelle gesta già epiche di loro ancor più straordinarie a chi le conoscesse poco, o non lo conoscesse affatto, solo per grandi linee, come Naamiki, la vicia, una vicia dall’atteggiamento, dalle ambizioni e dall’occupazione, per così dire, particolari. Il fatto che fosse sposata con un gormita dell’Aria, Limacus, il fatto che nei suoi viaggi senza fine avesse fatto tappa persino nella lontana Gorm – e più di una volta, visto il suo amante di lunga data – e avesse richiesto di poter partecipare a un’orazione del rinomato maestro il Cronista lo sottolineavano.
Per Lafivias e Osmaniu, immancabili ascoltatori nonché, ufficialmente, almeno per quanto riguardava la ragazza, alunni, la presenza fisica di un vicio presso Gorm, per di più di fianco a loro, era una novità e un motivo di interesse che poteva deviarli dall’attenzione verso la lezione di storia.
Per Atarros, sempre sul posto quando agli insegnamenti del Cronista partecipavano esterni, gormiti o altri che fossero, decisamente meno. Ma quando l’ospite era un’ospite d’eccezione come Naamiki la viaggiatrice e la filosofa, l’anticonformista e la deliziosamente scandalosa Naamiki, persino il Signore di Darth Kuun Sud si lasciava attrarre dal fascino esotico e proibito della vicia e si perdeva parti di racconto, o comunque era meno attento – alla lezione o semplicemente a sbrigare compiti burocratici mentre il racconto proseguiva, come faceva di solito.
La bellezza di Naamiki, anche da un punto di vista gormitico, era certamente…fuorviante. Particolarmente per il suo pelo multicolore e selvaggio, color crema dal bacino lungo tutto il busto fin sotto il mento, come anche sulle mani e alle estremità delle affusolate e agili braccia e gambe. Altrove, era di un deciso marrone ordinatamente macchiato di strisce nere. La coda era interamente nera con anelli di quel luminoso crema. Gli unici vestiti, come la maggior parte dei vici d’ogni dove, del resto, erano unicamente dei semplici e prosaici panni ricuciti a coprirle l’inguine e il seno; tuttavia, ricca era nei gioielli che portava su di sé: numerosi orecchini, due paia di collari, uno dei quali con un lungo ciondolo che si perdeva nel seno e una curiosa cintura dorata molto sottile, alla vita. Anche il suo compagno Limacus era, per lo standard gormitico – e probabilmente anche per quello delle altre specie, a quanto pareva, forse per il suo aspetto poco bestiale, ‘pulito’ – affascinante. Molto simile al giovane Elios, ma senza le grandi ali che lo avevano reso davvero grande, prima del tradimento, e pure lui, forse per influenza della cultura vicia, ben adornato di monili. Motivo di disattenzione, quando Naamiki e Limacus erano nelle vicinanze, dovunque si trovassero, era proprio il loro essere coppia. Tutti, nessuno escluso, si immaginavano dettagli della loro vita privata che, per la diversità biologica dei due, provocavano una mistura di sentimenti contrastanti, ma sopra tutti una malata curiosità.
Il Cronista dal canto suo era abbastanza lontano dalla questione, pur essendo anche lui intimamente incuriosito da loro. Tuttavia aveva ben altro a cui pensare: conosceva di fama Naamiki e sapeva della sua conoscenza eclettica, la sentiva in qualche modo vicina a sé e voleva dimostrare la sua sapienza e la sua abilità oratoria, in modo che non se ne andasse via da Gorm delusa. Se non altro, mentre lui raccontava, era stata ben attenta alle sue parole e non aveva interrotto il maestro, in questo modo non dando agli altri presenti altri motivi di allontanare dal racconto il loro interesse.
Era stato senza dubbio fortunato che la filosofa fosse venuta a fargli visita proprio quando doveva descrivere degli ultimi, violenti momenti del conflitto gormitico per l’Occhio della Vita. Era un periodo cruciale, in cui molti segreti furono svelati, in cui altri dovevano essere rivelati a posteriori, e dove altri ancora rimasero tali, aperti all’interpretazione.
“Entusiasmante. I miei complimenti, Cronista.” Fece, piuttosto freddamente, ma sentitamente eccitata, Naamiki. Per quanto le sue azioni lasciassero pensare il contrario, era una persona abbastanza posata, che non dava in escandescenze e analizzava tutto con serenità.
“Entusiasmante a dir poco! – esclamò di tutt’altra indole Osmaniu – Papà…la storia non finisce qui! C’è ancora molto altro che ci devi dire, e non ci puoi far aspettare la prossima lezione, questa volta.”
“Vostro figlio ha ragione, Cronista. – ammiccò Atarros – Io, personalmente, sono molto curioso di sapere i fatti dietro le popolazioni di ka’nhili e gargoyle limitrofe. Sono cose di cui non mi sono mai potuto veramente interessare.”
Lafivias annuì concorde.
“Be’, innanzitutto grazie. – sorrise beffardo il maestro, aggiustandosi gli occhiali – In secondo luogo, pazientate, pazientate! Ogni cosa a suo tempo, ci sono tante altre cose, come ha giustamente detto Osmaniu, di cui si dovrà parlare, prima.”
“Permettete, maestro? – sollevò un dito Naamiki – Vorrei esprimere la mia opinione.”
“Certamente.”
“Grazie. Come sapete, il mio credo è realista ed ateo.” Infatti, prima che il racconto avesse luogo, Naamiki si era presentata e aveva dato una ristretta descrizione del suo pensiero filosofico, completamente privo di interventi divini e interamente materialista, dove l’universo si presentava molto diverso da come le religioni rivelate delle numerose culture del Grande Golfo, da comprendere e conoscere con lo studio attento e non con il cieco asservimento a rituali e filosofie di vita immutabili perché così di tradizione. Il Cronista non avrebbe mai dimenticato la sua, sebbene leggermente fuori luogo, denuncia alla religione organizzata e alla chiusura mentale che implicitamente, all’inizio, consapevolmente poi, imponeva e la paura di cui si serviva per ottenere potere.
“Nella creazione così ordinata del mondo tutto ciò che avviene avviene sì, per caso, ma è una conseguenza di una causa. Nulla è senza che qualcos’altro sia prima di esso, eccezion fatta per il principio primo. L’universo non è infinito e nemmeno il suo contenuto, che si mantiene sempre costante. Non c’è creazione o distruzione, ma trasformazione e spostamento. Ecco, da quando il vostro mondo si è aperto al nostro, le vostre abilità sono state per me…devastanti. Non riuscivo a comprendere come poteste creare, dal nulla. Nulla viene dal nulla. Ora che, grazie a voi, Cronista, conosco meglio la vostra storia, credo di capire. È esattamente come accade per la magia: evocazione. Voi non avete mai creato, ma avete evocato. L’Occhio della Vita, finché su Gorm (queste mie teorie fatte sul momento, beninteso), manteneva aperti alla vostra volontà dei collegamenti, collegamenti a fonti del vostro elemento da cui potevate attingere a vostro piacere. Scomparso o distrutto l’Occhio, scomparsi sono questi collegamenti.”
Si sedette nuovamente – si era alzata e aveva gesticolato per riuscirsi ad esprimere meglio – e accavallò le gambe, puntellò il ginocchio con il gomito e appoggiò il capo dalle grandi orecchie sul palmo della mano, fiera e sicura di sé, delle conclusioni a cui era giunta e dell’impossibilità dei presenti di contraddirla.
“È una teoria interessante, davvero. – ponderò Atarros – È un peccato non poterla verificare. Se avessimo l’Occhio con noi…ma è meglio che non ci sia più.”
“Papà, che ci dici di quella magia che ha fatto Magor su Orrore Profondo? E cosa sa davvero Magor sulla mystica?” domandò Osmaniu agitato.
“Osmaniu, figliolo, un po’ di educazione! – gridò il Cronista – Stavamo parlando d’altro, qualcosa di molto profondo ed interessante. Lasciamo spazio al nostro ospite.”
“Non vi preoccupate di nulla, maestro. – lo scusò Naamiki, sorridendo in modo…suggestivo – Ho detto tutto quello che dovevo dire, e non c’è nulla che io, o voi, possiamo aggiungere sull’argomento.”
Un bel modo di dire ‘ho ragione io, come sempre’. È davvero straordinaria.
“D’accordo. Ebbene, l’evoluzione mystica non era altro che un esperimento magico dello Stregone di Fuoco Magor. Forse vi aspettavate, tutti se lo erano aspettato e per decenni l’avevano creduto, che si trattasse veramente di un intervento divino, di un evento soprannaturale. La verità è molto più…squallida, per così dire. Magor ricevette un’altra di quelle visioni, quei ricordi non suoi, e da essa ottenne le informazioni per potenziare i gormiti. L’incantesimo eseguito su Orrore Profondo non fu altro che il medesimo dell’evoluzione mystica, ma più concentrato.”
“Ma, maestro, voi come sapete queste cose? – domandò incerta Lafivias – Come fate ad esserne sicuro, a raccontarcelo come se fosse un fatto?”
“Perché è un fatto. Vi ho raccontato di Magor che, prima di uscire per la prima volta dalla sua stanza e mostrarsi agli eserciti allo sbaraglio, vuole rivelare i suoi segreti e i suoi progetti? Lo ha fatto. Ha registrato un messaggio su una sfera magica, in cui parlava dell’evoluzione mystica e di molte altre cose. Tra cui, sopra tutte, la sua vera identità, come elfo di Lacedimora e apprendista di Razael Akkars il Vecchio Saggio. Un elfo colpito da una maledizione. Quando il Popolo del Vulcano vide il messaggio, non voleva credere a tutto ciò che vi era stato inserito, e diversi tacquero sulle rivelazioni, anche se ci furono delle soffiate. Inoltre…”
“A proposito delle maledizioni… - lo interruppe Osmaniu – Sono Tre Maledizioni, giusto? I gormiti non le conoscevano e sia Razael che Magor non le fecero conoscere per tutto il tempo che si trovarono qui. Quali sono?”
“Osmaniu! Che razza di domande! Vorresti forse maledire qualcuno? Non mi piace quello che hai chiesto.”
“Ma…era solo per sapere, papà! – si alterò un poco – Non maledirai mai nessuno, e poi so che serve grande concentrazione e molta esperienza per farle, e non conosco i gesti.”
“La prima maledizione è il Lapidis corpus. – prese parola Naamiki – Trasforma il tuo nemico in una statua, come morto, ma vive ancora, e tornerà a vivere solo quando ripeterai su di lui la maledizione. È anche un buon modo per arrestare l’invecchiamento. La seconda è il Flammae corpus, e già la conosci. Anche qui si continua a vivere senza invecchiare, pure se in genere si muore dal dolore o perché…ci si spegne, in poche parole. La terza è il Morbidus corpus. Lascia il corpo del tuo avversario afflitto da una febbre molto intensa, emicrania, nausea e debolezza. Ma non può mai morire per questi mali, finché la maledizione permane.”
Tutti i presenti – meno il perennemente muto e assente Limacus, che sedeva a fianco di Naamiki senza fare o dire nulla – voltarono i loro visi attoniti e incuriositi verso la vicia. Non che la conoscenza delle Tre Maledizioni fosse chissà quale scandalo o motivo di scalpore, per lo meno non sulle labbra di un abitante del Grande Golfo. Solamente…c’era qualcosa di sbagliato, quasi di proibito, in ciò che la donna aveva appena fatto. Elencare quegli incantesimi così pericolosi e per molti pure immorali, davanti a un giovane gormita la cui richiesta di saperne di più al riguardo era stata redarguita dal genitore. Sul viso di Naamiki, però, non c’era alcuna espressione di pentimento o di vergogna per essersi accorta dello sbaglio – perché se ne era accorta – nemmeno dopo alcuni minuti di pesante silenzio. Era serena come prima di aprire bocca. Pareva, anzi, quasi soddisfatta.
“Maestro, queste visioni…questi ricordi non suoi che rivive Magor, perché li vive? E come lo sappiamo noi?” domandò dunque Lafivias, cogliendo l’occasione opportuna.
Il Cronista si riprese subito dallo sconcerto e dal silenzio precedenti: “Rispondo prima alla seconda domanda. Magor parlò anche di questo, nel suo messaggio nella sfera magica. E i contenuti di quella sfera sono stati resi pubblici, dopo le Guerre di Riconciliazione. Sul perché, ancora non è ben chiaro. Riferisce però che cominciò a vedere questi ricordi pochi anni dopo il Grande Sacrificio, durante il periodo in cui il Divoratore Larcon ha fatto una strage di vulcanici. Non so se ricordate…”
“Io sì. – rispose Osmaniu, ridendo (anche se visto l’argomento era forse opportuno non ridere) – Ho ascoltato due volte quella lezione.”
Prese nuovamente parola l’enigmatica filosofa: “Trovo l’abilità dei gargoyle di Tato Yami di creare (anche se non è il termine giusto) la vita…affascinante, come anche mostruosa e agghiacciante, visto l’uso che ne hanno fatto. – prese qualche secondo per riflettere, ricordare – Cerberios, primo fra tutti, anche se forse non sono partiti da zero per lui, e infine i Soldati Scuri. E scopro che ne hanno prodotti un’infinità, infiniti modelli, in passato. Una simile conoscenza sarebbe da riscoprire…comunque, a proposito del Divoratore, anche la sua abilità, le abilità e l’esistenza stessa degli Spiriti, sono un argomento che mi preoccupa. Quello che volevo chiedere, maestro, che fine hanno fatto gli SSX-47 bloccati da Larcon e Fossil?”
“Se chiedi dove si trovano e in che condizione in questo momento, Naamiki, – rispose – ti dirò che sono morti da tempo e fatti a pezzi. Anche se non fossero stati fatti a pezzi sarebbero morti comunque, dopo tutti questi anni. Non se l’incantesimo del Divoratore non fosse stato annullato, in tal caso, sarebbero ancora vivi. Ma forse tu chiedevi dove sono stati nascosti dopo la battaglia nella Pianura, giusto?”
“Giusto.”
“Fu un’idea che sul momento sembrò geniale ai politici, convinti che il Vulcano, anche senza Magor e Occhio, non avrebbe cessato le ostilità, e avevano ragione, e avrebbe potuto volere di nuovo gli SS. Non volendo abbandonarli ma studiarli, per poterli magari utilizzare o crearne di propri, idea folle, li nascosero dove credevano che il Vulcano non li avrebbe mai cercati. Cioè nel suo territorio. Non so l’ubicazione precisa, ma il Vulcano li trovò e li utilizzò di nuovo, nelle Guerre di Riconciliazione.”
“Papà, un commento…così, a caldo, prima che me ne dimentichi. – azzardò Osmaniu, alzando un dito incerto – Il misterioso cavaliere, il vulcanico che ha guidato parte della spedizione contro la Città Sotterranea, contro Roscamar nel deserto e poi per catturare gli altri Occhi della Vita…era un bel personaggio. Carismatico, patriottico, anche se un po’…perverso.”
“ ‘Un po’’, dici?” rise Lafivias, a bassa voce.
“Insomma, la sua morte è stata annunciata così…potevi dargli più spazio. – continuò Osmaniu – Mia opinione, eh.”
“So bene che, anche nella sua indiscutibile crudeltà, il misterioso cavaliere è un personaggio molto caro a tutti i vulcanici, per il suo alto senso dell’onore. – concesse il Cronista – Se gli ho dato poco spazio nei suoi ultimi momenti è perché le circostanze della sua morte non sono chiare, allora come adesso.”
“Sono passata per Ilabukh, giorni fa, prima di entrare a Garsomor. – si introdusse Naamiki – La statua veramente minacciosa di questo ‘misterioso cavaliere’ si erge grandiosa, guardando verso il porto. Mi ha colpito. Come mi ha colpito il fatto che fosse stato scolpito con l’elmo e la corazza con cui appare nei vostri racconti. È come se non avesse identità, allo stesso modo in cui sembra non avere nome…”
“Basta parlare di questi ‘eroi’ del Popolo del Vulcano, per favore.” s’intromise dunque Atarros, vagamente innervosito.
“Cosa vi disturba, Signore di Darth Kuun Sud? – domandò Naamiki, con tono ed intensità di chi voleva cercar guai per il semplice gusto di sollevare polemica – Volete negare il ricordo che merita questo personaggio, come ogni altro gormita che ha lasciato il segno nella vostra storia? Per il Popolo del Vulcano, anche se non esiste più, è memorabile.”
Atarros sembrava allora davvero infastidito. Non si alzò bruscamente né strinse i pugni, ma fissò per lunghi istanti l’aitante vicia con ferocia.
“Non ha lasciato il segno solo nella storia, mia ospite. – ed evidenziò con decisione il termine ospite: lei era in una posizione subordinata a chiunque, finché su Gorm, e avrebbe dovuto mostrare il rispetto degno dell’ospitalità dei gormiti e della corte del Signore – Anche nella mia famiglia. Io sono il figlio del figlio di Lacamos, la sentinella della città sotterranea uccisa dal misterioso cavaliere…per semplice capriccio. Vi è sufficiente come giustificazione per non volerne sentir parlare, tantomeno come ‘eroe’?”
Naamiki spalancò la bocca, per la prima volta seriamente interdetta, colma di vergogna e colta di sorpresa. Anche Lafivias reagì potentemente a quella rivelazione, portandosi una mano alle labbra, soffocando un gemito. Probabilmente nemmeno lei ne era a conoscenza. La vicia abbassò vergognosamente il capo e gli occhi.
“Perdonatemi, Signore di Darth Kuun Sud.” disse piano.
“Perdono concesso. – parlò rapidamente Atarros – Ora, una buona volta, Cronista, parlateci dei gargoyle e dei ka’nhili, perché si trovavano confinati ad est e ad ovest di Gorm, da chi, e le loro origini.”
“Sì, c-certamente. – balbettò il Cronista, un poco spaesato dagli ultimi scambi di battute – Penso che sia l’occasione migliore per svelare questo mistero non proprio noto a tutti. Dunque, sì, il Popolo della luce e il Popolo delle tenebre, come eravamo abituati a chiamarli, non sono nativi delle isole note come Karmil e Tato Yami, che il Vecchio Saggio chiamò anche Oscuro Orizzonte…ma non c’entra. Probabilmente nemmeno le isole esistevano prima della loro venuta nei pressi del nostro mare: vi sono alcuni passi molto oscuri a questo riguardo, negli Annali. Dovete sapere che il mondo conosciuto, quella porzione di Mitera compresa tra il Mare dei Serpenti e le Terre Selvagge, o Ast Nederr, come le chiamano gli zoari che abitano sul confine, questa porzione che chiamiamo Grande Golfo, e che conosciamo (poco) solo da pochi decenni, ebbene, è una piccola parte dell’intera Mitera. Esistono interi continenti oltre l’oceano, oltre le montagne e verso sud, dove non abita alcun elfo, vicio o zoaro. Nel grande continente ad est abita la civiltà originaria dei ka’nhili, nel continente ad ovest, la civiltà dei gargoyle. Queste due razze sono native di questi luoghi a noi sconosciuti, e raramente si mescolano con le genti del Grande Golfo, parlando poco e lasciando grande mistero su di loro, pure se ormai hanno accettato la loro saltuaria, sospetta ma innocua presenza. – fece una pausa; tossì, abbastanza rumorosamente; tossire per un gormita vegetale non era un buon segno, il Cronista sembrava proprio stare male. Tuttavia, fece segno di stare bene, e dopo poco si riprese; si bagnò le labbra e continuò il lungo discorso che nessuno osava interrompere – Dunque, è da questi continenti che, alcuni secoli fa, le grandi comunità di gargoyle e ka’nhili, di comune accordo, bandirono questi gruppi che conosciamo noi, ‘fissati’, per così dire, con la via delle tenebre e la via della luce e della supremazia dell’una sull’altra. Gruppi di estremisti, non erano altro che questo, e oltre alla supremazia della via della forza magica, acclamavano anche una supremazia razziale. Creavano scompiglio, dando luogo a scorribande e atti di guerriglia, persino. I dirigenti delle grandi comunità volevano vivere insieme, non lottare tra di loro per diversità di razza. Quindi, insieme, presero una decisione: dopo una serie di minacce ufficiali, sequestrarono i riottosi più pericolosi e più ostinati, e li costrinsero ad abitare lontano dalla loro casa, in pieno oceano, in due isole tra di loro molto vicine, dove loro e la loro discendenza avrebbero potuto annientarsi a vicenda senza dar danno a nessuno o, se l’avessero voluto, dare dimostrazione di rinunciare alle loro idee di primato razziale così da poter essere riammessi a casa.”
“Be’…è fantastico! Fenomenale!” esclamò Osmaniu tutto esaltato, alzandosi dalla sua sedia agitatissimo.
“Quindi…quindi Mitera…Mitera è davvero enorme, se ospita queste grandi civiltà e noi ne conosciamo pochissimo.” Ponderò Lafivias, con una mano alla fronte. Quell’informazione era invero di grande portata emotiva.
Naamiki era molto più calma – il suo personaggio era davvero un controsenso e un mistero continui – e ascoltò quelle grandi parole con una mantenuta e pacata soddisfazione; Atarros, invece, annuiva soddisfatto e sorpreso, senza però dare in escandescenze, né aggiungere altro alla questione. Aveva un dubbio e il Cronista l’aveva risolto: fine della faccenda.
“Ma aspetta, aspettate un attimo maestro. – trovò da dire Lafivias, occhi sottili – Voi siete stato in questi posti? Se no, come sapete di tutto questo?”
“Purtroppo mi sono limitato al mondo conosciuto, mia cara. – rispose – Se avessi scelto di proseguire il mio viaggio oltre i confini, probabilmente non sarei più tornato a Gorm. Inoltre, da quando gli zoari hanno ripristinato il loro impero, da secoli crollato e suddiviso in sette tribù ostili e arretrate, sono molto poco aperti, e non lasciando andare nessuno oltre le montagne. Ho visto ben poco della Zoah, e quel poco lo ricorderò per sempre. Le rovine dell’antica capitale Sargor, e la costruzione della Nuova Sargor…”
“Non avete risposto…” osservò Lafivias.
“Oh sì, scusami, mi ero un attimo perso. Be’, ho avute queste informazioni da ka’nhili e gargoyle insieme, ovviamente. Sono sempre stati restii a parlare della loro storia (anche perché degli originali che furono banditi non ne è più in vita nessuno), ma negli ultimi tempi sono cambiati, e lo sappiamo tutti.”
“Ancora una cosa. – richiese la figlia del Signore – Come fanno, da questi continenti, a capire se i riottosi sono ancora, be’, riottosi, o se sono cambiati? E poi non capisco…è davvero curioso che abbiano scelto l’est e l’ovest, immediati, di Gorm, come luogo di ‘punizione’.”
“Queste grandi civiltà sono molto più avanzate di noi, da quel poco che so. – spiegò – Le navi volanti dei ka’nhili e gli esperimenti sulle creature viventi dei gargoyle ne sono un esempio lampante.”
“Direi che questo conclude la lezione, Cronista. – eruppe come un tuono Atarros, sollevandosi dalla sua scrivania; - Almeno per me, intendo, non fraintendetemi. – rimescolò alcune scartoffie a cui stava lavorando mentre ascoltava e le raccolse in una borsa a tracolla che si mise in spalla – Credo che non ci sia più nulla di cui poter domandare o altro da chiarire, se non misteri che ieri come oggi non hanno trovato risposta, e su cui non si può che fare speculazione. Maestro Cronista, ineccepibile e originale come al solito, è stata davvero un’ottima scelta come insegnante di mia figlia, non mancherò di ripetervelo.”
“Vi ringrazio, Signore.” disse piano il Cronista, chinando poco il capo.
“Lafivias, non trattenerti troppo, ricordati delle tue altre lezioni. – rammentò Atarros alla figlia, dirigendosi verso la porta; poi si fermò e si rivolse ai suoi ospiti – Naamiki, e sir Limacus, ovviamente, è stato un onore e un piacere potervi ospitare e dialogare con voi.”
Atarros tese una mano, in modo appena percettibile – il Cronista però se ne avvide – insicuro su come congedarsi dagli ospiti d’oltreoceano. Il pugno gormitico o la stretta di mano tipica del Grande Golfo? Prima che il Signore di Garsomor potesse dare visibili segni di incertezza, Naamiki e il suo muto compagno lo precedettero. In piena conoscenza ed osservanza delle tradizioni, si alzarono ed eseguirono l’inchino d’onore del Popolo della Terra, mormorando – solo Naamiki: “Il piacere è nostro, Signore di Darth Kuun Sud.” ed entrambi tesero il pugno, che Atarros batté entusiasta.
“Se volete soggiornare a cena e durante la notte presso la mia corte, siete i benvenuti, fatelo sapere al mio consigliere. – disse – Se desiderate qualsiasi altra informazione, non abbiate paura di chiedere. Arrivederci, mi auguro.” E se ne uscì.
“Mi duole ammetterlo ma il nostro anfitrione ha più che ragione, se conosco abbastanza della vostra storia. – osservò la vicia – Possiamo soltanto speculare sulla vera natura dell’Occhio della Vita, del viaggio dei gormiti oltre il varco, della sorte del Vecchio Saggio e dello Stregone di Fuoco.”
“Dal momento che siete qui… – esordì Lafivias – potremmo parlare della vostra razza, Naamiki, e della sua cultura.”
“Ah, ottima idea! – Naamiki batté le mani – Tuttavia, vorrei che fosse il Cronista a parlare di noi. – e, sotto gli occhi perplessi a quella richiesta, lo indicò, che intanto aveva ripreso a tossire – So che è stato presso la mia patria, e, sì, vorrei testare la sua conoscenza dei vici. State bene, Cronista?”
“Sì, ehm, – diede un ultimo attacco – a posto. Devo aver mangiato qualcosa di troppo. Sì, Naamiki, parlerò volentieri dei vici.”
“Eccellente. Vi correggerò se doveste sbagliare.”
“Dunque, da dove cominciare? Per quanto riguarda il loro aspetto, potete ben vedere da questo…ottimo esemplare della sua razza. – ammiccò (“Cronista, così mi mettete in imbarazzo!”) – Credo di averne già parlato, il pelo ovviamente cambia. Uhm, partoriscono i figli vivi, che da piccoli sono davvero molto simile ai comunissimi gatti.”
“Be’, comunissimi non su Gorm.” lo interruppe Naamiki.
“Sì, certo, era solo…andiamo avanti. Come i gatti e molti altri felini, i vici respirano unicamente dal naso. Per cui per loro il nuoto o l’immersione è quasi un taboo. Una…avversione all’acqua che ha permesso agli elfi di diventare i veri maestri della navigazione, e dell’esplorazione. Se non ricordo male, la stirpe vicia è tradizionalmente originaria di una regione a sud, il confine meridionale (sempre secondo tradizione) del Grande Golfo, un tempo lussureggiante, poi desertica. Come sto andando?”
“Impeccabile, Cronista. Continuate.”
“Grazie. Ecco, da questa regione i vici si sono trasferiti nella vasta area boschiva e fluviale nota come Venturgio, dove hanno stabilito il loro nuovo dominio. I vici, che hanno la vita più breve tra le nostre genti, 40, 50 anni, sono tanto piccoli quanto sono estremamente agili, sfuggenti, e versatili, capaci di adattarsi bene e in fretta a qualsiasi circostanza. Sono maestri nell’arte della lavorazione del legno, nella caccia, nell’orientarsi anche privi di qualsiasi strumento. Le loro grandi città costruite in cima agli alberi, sono quasi invisibili ad occhio nudo. Non dissimili da quelle dei nostri gormiti della Foresta, ma molto, molto più articolate. Un’eccezione è la capitale, sede della triarchia, situata sull’omonima isola di Leo Maxima, una robusta costruzione in pietra degna di un imperatore zoaro.”
“Triarchia?” domandò Osmaniu.
“Triarchia, Osmaniu. Tre re, che si susseguono in rotazione. Ho sempre trovato originalissima quanto…opprimente, non offendetevi, Naamiki, da un certo punto di vista, la politica del regno del Venturgio.
“Non mi offendo, non mi offendo. Capisco, anzi.” Lo rassicurò Naamiki.
Il Cronista annuì: “C’è un re giovane, un re di mezz’età e un re anziano. Il sovrano più giovane è quello più a diretto contatto con il popolo, che ascolta le loro richieste e che si dedica alle questioni sociali più banali, ma le più importanti in una solida politica. Il secondo re è il capo della milizia, delle forze di polizia. Il terzo e il più anziano è colui a cui spettano le decisioni più importanti, il rappresentante dell’intero regno presso le altre nazioni e colui che ha l’ultima parola su tutto. Questi tre re non salgono al potere per via dinastica, sono scelti dal popolo e si susseguono a ruota. Un primo re diverrà sempre secondo re e infine terzo re, purché non muoia prima, ovviamente. In genere viene eletto un primo re ogni volta che muore il terzo ma, per una serie di motivi, possono avvenire delle eccezioni.”
“A questo proposito – prese parola Naamiki – spero non dimentichiate di parlare di Inverrith, e naturalmente di Magor Vasìr, quando era ancora noto con questo nome.”
“Giusto, papà! – esclamò Osmaniu – È da quasi tre anni che sono rimasto sulle spine su questa cosa, ho provato ad informarmi…”
“Poco.” Commentò divertita Lafivias.
“…ho provato, ma non ho capito molto di cosa ha fatto Magor con Inverrith e perché i vici ce l’avevano con lui.”
“Non me ne sarei dimenticato, Naamiki, e Osmaniu, ti avevo detto che era presto per parlarne, allora, e che te l’avrei spiegato a tempo debito. Cioè ora. Ma perché non ne parlate voi, Naamiki?”
“Con piacere e con orgoglio, maestro. – asserì sogghignando la particolare vicia – Pur non essendo una cittadina di Inverrith, non disprezzo ciò che fece Magor a quel tempo. Non significa, questo, che non disprezzi Magor per ciò che fece a quest’isola. Comunque, era successa una disgrazia, a quel tempo: per una serie di sfortunati eventi, era rimasto un solo re a Leo Maxima, il capo dell’esercito. Non era la prima volta, ma quella volta fu fatale. Si rischiò la guerra civile, che per fortuna non arrivò mai, limitandosi a proteste, scioperi, e a un generale stato di disordine. Non si riusciva a trovare una soluzione per sostituire i re, e molti trovarono l’occasione propizia per accusare l’inefficacia del secolare governo triarchico. Fu qui che entrò in gioco Inverrith, e Magor. Già da tempo l’isola di Inverrith era sede di numerose colonie indipendenti di elfi e zoari, ma pochissimi vici. Magor si schierò apertamente dalla parte dei rivoluzionari, da quelli che volevano un nuovo stato vicio, e stimolò presso di noi l’idea di una nazione veramente democratica che riunisse l’intera popolazione del Grande Golfo. Non fu lui il fondatore della Repubblica Indipendente di Inverrith, ma fu in primo piano per quanto riguarda a fomentare le masse, particolarmente quelle vicie, e in minima parte in finanziamenti. Entrambe cose che, a Repubblica fatta, gli giovarono fama e denaro. Ma anche il disprezzo di molti abitanti del Venturgio che, triarchia ristabilita, si ritrovò con circa un quarto di popolazione in meno…maestro! Cosa vi succede?”
Il Cronista aveva seguitato a tossire, mentre Naamiki parlava, questa volta davvero violentemente, e mentre la vicia terminava la sua delucidazione, era improvvisamente crollato dalla sua seggiola. Il bastone rotolava, gli occhiali gli erano caduti dal viso, e il gormita, vessato da un’improbabile e spaventosa tosse che gli distruggeva la voce e lo accecava, si reggeva, tremante come mai prima, sulle ginocchia e sulle larghe mani. Ma sembrava non bastare, le ginocchia e i polsi vibravano assurdamente, stavano per cedere.
Naamiki, Osmaniu, Lafivias e persino il silenzioso Limacus accorsero rapidissimi e incredibilmente preoccupati ad assistere l’anziano insegnante, colto in un momento di improvvisa debolezza. Gli parlavano, gli domandavano cose, ma il Cronista non udiva quello che avevano da dire. Solo vaghi ronzii turbavano le sue orecchie, mentre lentamente anche le immagini sui suoi occhi cominciavano a distorcersi e sfocare. Quando anche la tosse, finalmente, sembrò cessare, non ci fu alcun segno di miglioramento. Non sentiva e vedeva male. La tosse ‘normale’ non era un malanno grave; la ‘tosse’ vera, la tosse dei gormiti vegetali, era invece una sofferenza indicibile. Avvertiva i suoi pori occlusi, bloccati, tappati, incapaci di traspirare aria, tagliati dal resto del mondo. E se non potevano comunicare loro, non poteva comunicare nessun’altra parte del corpo e dell’identità del Cronista, privato della sua prima e indispensabile via per attingere energia.
 
L’ipnotica luce blu ispezionava con attenzione il legnoso corpo rigido, ansante al minimo, nudo, adagiato su uno scomodo lettino che altro non era che una struttura in duro e anche poco lavorato legno rivestita di un misero panno, per di più anche ruvido.
C’era uno sgradevole odore di pino, quasi di agromanto, in quella camera angusta di squallida pietra bianca tutt’intorno, decorata da prosaiche mensole ripiene di vasetti, scatole e sacchetti dai colori più improbabili e dal contenuto ancora più inverosimile. E anche di salsedine, sì.
C’era anche puzza di salsedine, per quanto strano che fosse, non essendoci alcun marino presente né il mare o una qualsiasi altra località acquatica nelle immediate vicinanze; non riusciva a sopportarla.
Forse non aleggiava alcun odore sgradevole, in verità: semplicemente, la sua condizione di malato gli faceva detestare tutto, di quella stanza. A cominciare da quella accecante – quanto incredibilmente attraente – luce blu magica, che sfavillava dai tre occhi del medico terricolo e dalla punta di due dita della sua mano destra, con le quali stava studiando l’interno, dall’esterno, del corpo del Cronista, insistendo particolarmente su petto e gola.
“Dottore! Cos’ha, sta bene?” gridava Osmaniu, per la terza o quarta volta.
L’unico aspetto positivo – oltre ad essere ancora vivo, naturalmente – di quella seduta in quella stanza era la presenza di suo figlio, Lafivias e Naamiki, in prossimità dell’ingresso.
“Ancora un attimo, per favore.” Lo metteva a tacere il medico, sempre con le medesime parole.
Lo rincuorava sapere di quelle persone che tenevano a lui, alla sua salute, a lui, pur senza davvero conoscere chi lui fosse veramente, la sua identità, la sua storia, prima che prendesse il nome di Cronista e divenisse con esso famoso in tutta l’Isola, quasi fosse nato anziano e con un’incredibile esperienza alle spalle.
Da sola, la presenza di quelle tre figure ad attenderlo, anche se privata delle parole o di un reale e tangibile interessamento, dedotto dalle loro espressioni, lo riempiva di una forza tale che avrebbe compiuto qualsiasi impresa pur di meritarsi ancor maggiormente la preoccupazione e la vicinanza affettiva di qualcuno, chiunque fosse. Peccato che quella forza fosse solo una questione mentale – e quel pensiero leggermente cinico – e la debolezza lo governava.
“Allora, dottore?”
“Finito.” Lo accontentò dunque il medico, e quella fastidiosa luce si spense infine. Osmaniu tirò un gigantesco sospiro, sembrava avesse trattenuto il respiro per l’apprensione dall’inizio della seduta.
“Di che cosa si tratta?”
“Non dovete preoccuparvi troppo, nessuno di voi. – li rassicurò – Il vostro amico il famoso Cronista, è solamente anziano. Attacchi come questi sono nella norma alla sua età.”
“Tutto qui?” gridarono, increduli, Osmaniu e Cronista, in coro.
“Tutto qui, devo dire. E anche una cattiva alimentazione. Ha mangiato un po’ troppo nella nostra maniera, e non gli ha fatto bene, ma si rimedierà presto.”
Osmaniu si precipitò, quasi saltando, al lettino del Cronista e lì, quasi piangendo ma sorridendo per la buona risoluzione di ogni cosa, gli strinse energicamente la mano con entrambe le proprie. E la carezzò con affetto filiale senza precedenti.
“Papà… – mormorò – ho davvero avuto paura.”
“Anch’io ne ho avuta, figliolo. – ribattè amorevolmente come era stato unicamente con la sua vera figlia Ceresa e con la passata moglie; poi, come finora aveva ‘osato’ con Ceresa sola, coccolò il viso del figlio con la mano libera – Anch’io. Ho ancora molte cose da dirvi, prima…che sia finita.”
“Perdonatemi, – si intromise il medico senza imbarazzo, al che sia Osmaniu che il Cronista lo fissarono contrariati – vorrei che io e il Cronista rimanessimo in privato, ora. Vorrei eseguire delle analisi più approfondite.”
“Ma certo, dottore. – acconsentì Naamiki, scrollando un poco Lafivias, ancora scossa e ammutolita, e stringendole premurosamente una spalla – Attenderemo fuori. Andiamo, Lafivias. Osmaniu?”
Il quindicenne vulcanico sembrò restio ad allontanarsi, osservando crucciato tutto ciò che lo circondava.
“Su, Osmaniu. – lo invitò dunque il padre – Vai.”
Attese che fossero tutti e tre oltre la porta, fuori dalla loro vista – di sé e del dottore – e loro due lontano dalla loro – dei tre – portata uditiva, per sollevarsi un poco dal lettino e piegarsi in posizione semiseduta. Parlò a bassa voce al medico.
“Avete mentito, non è vero? – lo tacciò, ma era tranquillo nel volto e nel tono, nel comunicare quell’accusa; voleva semplicemente conferma di ciò di cui era già a conoscenza – Non è ‘tutto nella norma’. Non mi manca molto.”
Il medico non fu molto sorpreso: “Sì. Mi dispiace, annunciarvelo così, dovrei essere più…avere più tatto, ma sono un semplice medico, non un dottore d’alta classe, questi casi per me sono rari, e…”
“Non importa. Rispondetemi, per favore.”
“D’accordo…vi resta meno di un anno, temo. Siete molto oltre l’aspettativa di vita media della vostra gente, e senza fare uso di elisir, da quanto ho visto, e prenderne uno ora sarebbe controproducente. Queste tossi improvvise saranno più frequenti, alternate a periodi di buona salute. Non so dirvi con che cadenza, però.”
“Che cosa si può fare?” domandò il Cronista, calmissimo agli occhi del medico. La sua tranquillità non mancò, questa volta, di destare stupore nel terricolo. Il Cronista accettava l’idea della sua morte imminente con incredibile leggerezza, quasi il pensiero di morire gli fosse…sì, di conforto. Dopo Inamia, dopo aver veramente desiderato la morte, la non esistenza, aver scelto l’isolamento – ed aver trovato qualcosa di infinitamente e inaspettatamente meglio – era giunto ad accettare senza eccessive preoccupazioni il poco tempo rimastogli. Ora disponeva solamente di un limite più o meno preciso, e ciò era importante, poiché aveva cose da concludere, informazioni da assolutamente comunicare.
“Prendete queste pastiglie, due al giorno per i prossimi dieci giorni, poi una ogni due giorni. – disse meccanicamente il medico, consegnandogli un sacchetto – Aiuteranno a distendere i pori, leniranno il dolore delle tossi e le renderanno meno violente. Tuttavia non è solo questo il problema. – lo ammonì serio, poggiandogli il palmo sul suo petto – Avete esagerato con il cibo, e ha peggiorato la vostra situazione, rendendovi molto debole, dopo l’attacco di tosse. Per minimo una decimana, in cui prenderete doppia razione di pastiglie, continuerete a sentirvi debole. Dopo, se prenderete come prescritto le pastiglie, vi sentirete meglio. Però non tornerete più attivo come prima di oggi.”
Questa notizia, adesso, provava il Cronista appena appena di più. Forse più che ‘appena appena’. Mai più attivo? Il Cronista era un gormita che stava fermo solo durante le lezioni; amava muoversi, fare lunghe passeggiate, era abituato a darsi da fare…era un vincitore del Torneo, lui!
“Per la decimana che viene – continuò il dottore – vedete di non sforzarvi troppo, né fisicamente né mentalmente. Riposatevi, non agitatevi troppo, soprattutto non mangiate troppo, e mai più per via orale, sia per i prossimi dieci giorni…che per sempre, temo, – altro pugno nello stomaco per il Cronista: la cucina animale da gustare con la lingua, una delle gioie dei sensi che lui più che ogni altro, vista la sua natura, aveva appreso ad amare…avrebbe dovuto abbandonare anche quella, nei suoi ultimi giorni? – non parlate neanche troppo.”
“C’è qualcosa che sono libero di fare?” sbuffò, deciso e disinteressato come lo era stato finora. Solo, tuttavia, all’apparenza. Nel profondo della sua scorza di cellulosa carica di fatica e di esperienze, di dolori ma anche di soddisfazioni, cominciava a soffrire.
“Sì. Bere. Bere molto.”
Devo in qualche modo avvisare Ceresa, prima che sia troppo tardi.
 
Nei giorni che seguirono, a partire da quel giorno stesso – non comunicò al figlio, la fidanzata sua, agli ospiti e nemmeno al Signore la pienezza di ciò che gli aveva rivelato il dottore. Come poteva? Voleva che loro lo sapessero ancora in forze, non prossimo a morire, non lo avrebbe sopportato – il Cronista fu irrequieto internamente, calmo esteriormente. Seguì alla lettera le prescrizioni del medico, facendone menzione agli altri così che non fossero troppo sorpresi, delusi o turbati del suo cambiamento. Non lo fece con tranquillità, nemmeno con disinteresse, ma con cupa rassegnazione, convinto che ciò che gli era stato vietato per una decimana, gli sarebbe stato vietato fino al respiro definitivo. Non sarebbe mai più tornato il Cronista di un tempo.
Benché la limitazione di un anno era in qualche modo confortante, il Cronista tremava ogni volta che si coricava. Chi poteva dirlo che la tosse non lo cogliesse mentre dormiva, lontano dagli occhi di chi avrebbe potuto aiutarlo, invisibile persino a se stesso, che non l’avrebbe potuta avvertire, sprofondando in un sonno che non terminava più? Non poteva permetterselo: doveva completare gli studi di Lafivias a qualsiasi costo, nonché compiere delle rivelazioni non più impronunciabili, ora che la fine era prossima. Se da una parte temeva il sonno, dall’altra, però, non poteva nemmeno permettersi di privarsene, cosa che lo avrebbe danneggiato.
Nei giorni seguenti, il Cronista non volle interrompere in alcun modo le sue lezioni a Lafivias e all’occasionale Osmaniu. Nonostante le iniziali e particolarmente sentite opposizioni da parte della studentessa, il Cronista non ne volle sapere di rimanere bloccato a letto a far nulla. Debole, sì; conveniente che si sforzasse poco, anche; ma nulla al mondo poteva essere così grave da impedirgli di parlare per un paio d’ore. Inoltre, se proprio era desiderato che cessasse ogni attività e poltrisse come un vecchio qualunque, allora non si sarebbe limitato ad interrompere l’insegnamento. Lo avrebbe sospeso per sempre, e si sarebbe trovato un altro alloggio: non poteva tollerare di rimanersene con le mani in mano nella casa del Signore che lo aveva gentilmente ospitato in quei due anni, venendo meno al primario compito e motivo per cui era stato accettato al Tempio di Roccia. Per precauzione personale e sotto invito dei due studenti, ad ogni modo, le lezioni successive si limitarono a lezioni ordinarie senza le articolate e ricostruite narrazioni romanzate che avevano fatto del Cronista il Cronista: spiegazioni di storia analitiche e nulla più, i fatti studiati secondo date, nomi di politici, di leggi, causa-effetto, spiegazioni degli eventi che accaddero dal 862 in avanti, fino al principio delle Guerre di Riconciliazione. Tempi di cambiamenti e dell’avvento di una vera nuova era per la civiltà gormitica.
A partire dalla brusca interruzione della Battaglia nella Pianura delle Nebbie del 862, i gormiti e gli alleati karmiliani e yamensi si sentirono sperduti. Ogni fazione era stata privata delle loro guide: Magor, Razael, Obskurios ed El’issam in primis. Anche all’interno degli stessi Popoli, tuttavia, la rottura del piano spaziale aveva fatto venir meno diverse figure politiche. Dei Signori eletti nel 859, infatti, rimanevano solo Grandalbero e Nobilmantis. Thorg, Armageddon e Devilfenix erano scomparsi oltre il varco, e con loro anche numerosi Saggi, sia per caso che per sacrificio nell’ultimo tentativo di portare in salvo con la forza magica gli eserciti, tra i quali Elios, Poivrons, Gheos.
Il campo di battaglia fu sbrigativamente e con scoramento, un senso di insoddisfazione e incompletezza – non si dimentichi la sensazione di freddo che provocava l’assenza dell’Occhio della Vita – abbandonato da ogni fazione in gioco. La situazione politica e sociale su Gorm si prospettava bollente: Karmil e Tato Yami si dileguarono tempestivamente, con vaghe comunicazioni di addio e promesse di mantenimento delle alleanze. Nessuno tra i gormiti diede grande peso alla loro uscita di scena o al modo in cui uscirono. Si sappia comunque che la scomparsa del Sommo Signore e del re crearono pochi problemi, dal punto di vista politico, risolti quasi nell’immediato. Su Gorm, al contrario, era tutto da ricostruire, da ridisegnare, ora che non si aveva più una strada da seguire. Il Popolo del Vulcano si ritirò nel silenzio, come dopo ogni campagna da esso avviata e conclusa con un nulla di fatto. Solo che questa volta la batosta ricevuta era stata ben più grande: l’invasione e la devastazione della città portuale di Ilabukh era stato un duro colpo per la tribù del fuoco, quasi una dimostrazione di debolezza della quale vergognarsi e per la quale non poter più camminare a testa alta. Nei lunghi anni dal ritorno della genie gormitica – per altro ancora avvolto dal mistero – fino a quel momento, il Vulcano era sempre stato temuto come la più potente forza bellica dell’Isola. Ed era vero, nonostante nel grande gioco avessero sempre riscosso sconfitte. Pure se non è stato raccontato, il Popolo del Vulcano, a partire già dalla Grande Guerra, era stato capace di occupare e mantenere proprie numerose piccole città, come anche isole minori, al largo di e sulle coste nordorientali di Dalarlànd e lungo la sponda ovest dello Stretto, schiavizzandone gli abitanti o costringendoli alla fuga. Molti di questi piccoli centri non furono mai più riconquistati. La vera forza del Popolo del Vulcano, alla fine, consisteva in un economia interna perfetta. Il Vulcano era completamente e assolutamente autonomo, autosufficiente: era capace di allestire e nutrire imponenti eserciti a ritmi annuali incredibili, e sebbene non ottenesse mai le vittorie desiderate, ritornava alla carica più feroce e preparato di prima. Non avendo mai dovuto avere a che fare con attacchi ai propri centri, la vita pubblica, agricola, economica procedeva tranquilla. Al contrario degli altri Popoli, vessati continuamente da un Vulcano in continua rigenerazione e assaliti in ambienti importanti. La crescita economica e sociale degli altri Popoli era sempre stata un passo indietro, basti pensare che la popolazione gormitica in circa quindici anni era aumentata di pochissimo, nonostante le migliorie mediche e magiche, e talvolta la mortalità era persino superiore alla natalità.
Ad ogni modo, il silenzio e l’isolamento del Vulcano dopo l’862 fu ancora più assoluto e indecifrabile. Nel resto dell’Isola, infuriavano malcontenti e grandi, faticosi lavori di ricrescita. I gormiti sono sempre stati molto operosi, e diedero del loro meglio per riprendersi, per migliorarsi insieme. Per Terra, Foresta e Mare – che però cominciava già ora a subire gli svantaggi dell’impossibilità di creare acqua – il cammino verso un nuovo benessere fu intrapreso con buona lena e tranquillità. Diversamente fu la storia del Popolo dell’Aria. Picco Aquila si ritrovò diviso in due, spaccato da una vera e propria guerra civile, una delle poche nell’intera storia di Gorm. Tutti gli esiliati durante e dopo il Grande Tradimento rientrarono con le armi nella loro casa. Con l’effettivo e deliberato abbandono di Devilfenix del suo Popolo, la scomparsa dello Stregone di Fuoco, l’interruzione dei collegamenti con il Vulcano, il voltafaccia inatteso di Elios e il salvataggio dell’esercito dell’Aria da parte di gormiti dell’Aria loro nemici fecero ritornare molti fedeli al nuovo ordinamento all’ideologia precedente. Non mancavano dall’altra parte chi, nonostante tutto, si manteneva ancora fedele alle idee di Magor, disposto a un’alleanza contro gli altri Popoli con il Vulcano, e che ancora vagheggiava sogni di conquista. Non su basi infondate: l’asse Picco Aquila-Monte Vulcano aveva dato i suoi frutti, con la costruzione della Fortezza Volante proseguita in quei pochi anni ben oltre i livelli sperati. A capo della fazione pacifista vi era Falcosilente, fratello di Elios e colui che da sempre aveva agito da talpa per i Popoli alleati. E che, alla fine, uscì vincitore – senza chiedere aiuti dall’esterno – e fu nominato nuovo Signore dell’Aria nel 865. Grazie a lui, il Popolo dell’Aria ritornava a tutti gli effetti – salvo episodi di scontri – a fianco di Terra, Mare e Foresta, e contribuiva insieme ad essi alla costruzione di una nuova Gorm unita come mai prima.
Durante la quasi totalità degli anni dal 863 al 867, i gargoyle non avevano del tutto abbandonato Gorm. Gruppi sbaragliati e apparentemente disorganizzati, indipendenti di yamensi, di tanto in tanto, con frequenza sempre crescente man mano che gli anni passavano, compivano razzie contro i gormiti, contro qualsiasi gormita. Guerriglia a convogli, a carovane di mercanti, a sentinelle in viaggio, assalti aerei in prossimità delle mura. Cosa significassero quelle razzie, i gormiti non osavano indovinarlo, e i gargoyle responsabili non avevano modo di provvedere a chiarire i dubbi degli abitanti, essendo sempre o uccisi o riuscendo a fuggire. Nel 868, con una Gorm di nuovo fiorente e abbastanza serena – Vulcano sempre silenzioso – si decise di porre fine a quelle insensate incursioni. Riagganciando le alleanze con il Popolo della Luce, fu organizzata una grande spedizione bellica sulle imponenti navi volanti di Karmil per attaccare Tato Yami. Si scoprì che ad Oscuro Orizzonte le cose non procedevano ordinatamente come sospettato: l’inaspettata scomparsa del sovrano nel pieno del suo regno gettò l’isola nel caos, in uno stato di guerra civile non diverso da quello toccato a Picco Aquila. Da una parte, vi era Karmilla, la ka’nhili sorella di El’issam e da lui ‘maledetta’ ed esiliata, sposa del fu Obskurios, affiancata dal fedelissimo Pantiavros, che teneva sotto di sé la maggior parte del popolo gargoyle. Dall’altra…non c’era una figura unica, ma numerosi, a volte tre, fino a un massimo di sette personaggi della milizia yamense che agitavano le masse con questa o quella argomentazione, di norma rivendicando il non diritto di Karmilla a governare, e guidavano gli uni contro gli altri e contro la reggente gruppi di popolazione di numeri indefiniti e variabili. Per molti, l’invasione e l’occupazione dell’esercito congiunto gormita e ka’nhili fu una salvezza. Si trattò di una campagna particolarmente rapida e con esiguo spargimento di sangue. Tato Yami era troppo divisa perché una qualsiasi delle fazioni potesse rappresentare un pericolo per le forze di Gorm e Karmil. Fu imposto il blocco militare: l’intera isola fu tappezzata di guardiani e controllori gormiti, e il governo dai vincitori scelto era costantemente sotto la supervisione dei gormiti. I karmiliani, a conti fatti, se ne andarono dall’isola ‘sereni’ della vittoria, non volendo più vedere volto di gargoyle fino alla fine dei loro giorni.
A questo punto, a pacificazione conclusa dell’intero arcipelago – e, dato da annotare, lo spostamento tattico della capitale del Popolo della Terra dall’eterna Roscamar a Garsomor – , fu il momento delle rivelazioni. La vera identità di Magor e del Vecchio Saggio era trapelata dalle registrazioni dello Stregone di Fuoco, prima che il Vulcano si chiudesse del tutto, sebbene molti contestassero la verità di quanto scoperto. Due nomi, due nomi ben noti, Paludis e Carrapax, lasciarono ulteriormente il marchio nella storia di Gorm nel 870.
Nello stesso giorno in cui il calore vitale abbandonò il corpo di Paludis, che nessuno in vita su Gorm sapeva essere un sopravvissuto del Grande Sacrificio fuggito dall’Isola insieme al Vecchio Saggio, egli fu portato dalla sua famiglia al Rifugio della Rugiada e lì, chiamati e raccolti quanti più individui possibili, dichiarò ciò che serbava da interminabili anni. Il salvataggio da parte del Vecchio Saggio di poche coppie di gormiti per ogni Popolo durante lo sterminio più brutale della storia dell’intera Mitera. La fuga attraverso un varco spaziale in una disabitata e sicura regione della Setturnia, Antasfra. La rivelazione delle potenzialità e dei piani di Razael Akkars. La sperimentazione sui ‘sali essenziali’ dei gormiti salvati, sull’Occhio della Vita per trarne energia, con varchi spaziali per cercare aiuto, sulle Camere del Tempo che – Paludis però non lo sapeva – avevano reso famoso il Vecchio Saggio quando ancora era Razael Akkars, maestro di magia di Lacedimora. Dopodiché, Paludis spirò. Ma le sue parole non furono le uniche, come detto poc’anzi. Carrapax, anche lui prossimo alla morte, si aggiunse e confermò i segreti di Paludis. Non per esperienza personale, ovviamente, il Principe di Gorm era infinitamente più giovane di Paludis e tutti sanno che non è un superstite. Tuttavia, suo padre era Delos e, tramite lui che gli rivelò il mistero dietro la rinascita dei gormiti sia in forma orale, con la promessa di non farne parole finché non fosse giunto il momento giusto, che in forma scritta quale testamento, Carrapax era venuto a conoscenza di ciò che altrimenti poteva essere perduto per sempre e, cogliendo l’iniziativa di Paludis, dissipò le infinite ombre che aleggiavano sulla storia dei gormiti tra l’810 circa e l’843.
La reazione iniziale fu di disperazione: i gormiti, chi più chi meno – essendovi stati numerosi superstiti rifugiatisi a Karmil e nella città di palafitte che, ora in rovine, ancora ospitava ciò che rimaneva della gigantesca carcassa della Grande Murena – avevano in sé tratti di individui portati alla luce per la scelta e per la magia di un uomo solo. Se i gormiti di Aria, Terra, Mare e Foresta continuavano a calpestare il suolo di Mitera, lo dovevano unicamente a quello scandaloso esperimento. La loro esistenza era il risultato di un esperimento, la creazione di uno stregone che ora assumeva i connotato di un dio! Come poter vivere con un peso simile? Questioni insormontabili riguardanti la libertà, la loro identità, il destino affiorarono come funghi dopo una pioggia. Questo, tra diversi. Altri, come per quanto riguardava i dati registrati da Magor, contestarono più o meno energicamente queste nuove verità, considerando inaffidabili le fonti da cui venivano. Altri ancora, preferirono addirittura ignorare le rivelazioni e ben presto molti tra quelli che erano stati colti dall’angoscia esistenziale si aggiunsero a loro: non aveva importanza da dove erano venuti, se c’era qualcuno che li aveva creati con un compito preciso in mente per i suoi ‘figli’. I gormiti erano vivi ora ed erano liberi di costruirsi il proprio destino, erano liberi di agire per il bene di se stessi e di compiere scelte in autonomia, come del resto lo erano sempre stati ed ora lo erano ancor di più, non più limitati e persuasi dal binomio Razael-Magor.
Completato il prodigioso progetto della Fortezza Volante, le rivelazioni del punto di partenza per i gormiti sobillarono un altro eccezionale progetto, già ampiamente ponderato, che avrebbe molto probabilmente condotto a un nuovo punto di partenza. Che fosse vero o meno che ad est fosse situata la culla sperimentale dei gormiti, che lì fossero nati Magor e Razael e cresciuti come stregoni in un rapporto di maestro-apprendista, i gormiti non potevano effettivamente saperlo. Ma l’avrebbero saputo, presto: erano a conoscenza che qualcosa ad oriente esisteva, doveva esistere, la patria del Vecchio Saggio e le altre regioni dove vivevano le altre razze di cui spesso il mago raccontava. Era giunto il momento che i gormiti vedessero con i propri occhi queste sconosciute regioni e facessero la conoscenza di queste ricche civiltà e razze. Non in veste di conquistatori come vagheggiato dallo Stregone di Fuoco, ma come esploratori, una razza pacifica in cerca di un ingresso nell’esteso panorama del Grande Golfo, per portare ricchezza a sé e agli altri.
Un problema di rilievo per questa ambizione era rappresentato dalla Grande Piovra, millenaria e attivissima, contrariamente alla sua dormiente e da decenni defunta compagna dalla parte opposta. Tuttavia, l’arrivo dei gormiti alle coste ignote era inevitabile nei loro sogni, una necessità improrogabile. Per il momento, la Grande Piovra fu ignorata e fu dato avvio alla costruzione di grandi velieri e alla preparazione di capaci equipaggi.
All’alba del 873, pur non interrompendo i lavori per il viaggio, la maggior parte delle forze della Gorm unita dovette essere concentrata altrove. Il pericolo che sin dal 862 tutti avevano temuto e sperato che non si verificasse, stava prendendo piede. Il Vulcano ribolliva.
Non ribollì, però, all’unisono e uniformemente come era sempre stato sino ad allora. I segnali dell’imminente scoppio – a cui si stava preparando da molto – arrivarono in forma inaspettata.
Profughi del Popolo del Vulcano. Ci fu un viavai mai immaginato nello Stretto di Gorm verso la Foresta Silente di gormiti del Vulcano spaventati e, più spesso, scocciati, esausti. Richiedevano aiuto, giunsero persino richieste di soccorso chiare e sincere dalla città di Rabukh.
Finito l’epoca sfavillante e colma di maestose ambizioni di Magor lo Stregone di Fuoco, crollati i miti tenuti in piedi dall’Occhio della Vita, i nuovi sommi dirigenti, che presero il nome di Triumviri – Magmion, Lavion e Orrore Profondo, i salvatori dell’esercito vulcanico nel 862 – e assunsero il comando supremo con un colpo di stato, non erano pienamente capaci di mantenere vivi i sogni di conquista maturati dal Vulcano. Il popolo era stanco della guerra, era divenuta insostenibile. Tutto ciò che Magor aveva profetizzato nei riguardi della stirpe vulcanica era ormai morto. Basta odio nei confronti degli altri Popoli, i gormiti erano più forti se uniti. Il Grande Sacrificio, per quanto grande, era un evento lontano e superato, doveva esserlo. Nei confronti di questi fuggiaschi, la maggioranza dei gormiti alleati levò grida di gioia. Una nuova era di vera pace e di unità stava per sorgere. Un’era che però necessitava il tramonto di quella precedente, e l’orizzonte di questo crepuscolo si prefiggeva rosso del sangue di numerose vittime.

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Capitolo 41
*** Capitolo 19.1 ***


Dolci respiri del rinfrescante vento dei primi di Tealse lambivano leggermente il viso e i capelli induriti e lo scialle viola del Cronista, facendo danzare un poco attorno al suo collo le nappe di questi ultimi. Era piena stagione delle piogge. Nell’afoso territorio in prossimità del Deserto, salvo alcune località costiere, la stagione umida si manifestava unicamente in quel modo, con timidi refoli di frescura. Garsomor non era in pieno deserto, e di tanto in tanto le piogge interessavano anche la Valle dei Canyon, ma non quell’anno, a quanto pareva.
Torrenziali e scroscianti, altrove, nella ‘lontana’ ed amata Dalarlànd, come pure a Picco Aquila e nella Valle del Vulcano, le piogge potevano durare giorni interi, e quando prendevano una pausa il cielo era comunque costantemente e quasi interamente coperto da uno spesso materasso di scure nubi, e ci si doveva continuamente strofinare ed asciugare le mani su qualcosa per l’aria umida.
Nonostante il passaggio a una temperatura gradevole e pressoché invariabile nel corso dell’anno – almeno per lui, che aveva un’esperienza lunga una vita di decine di decimane di pioggia, temporali e cielo oscurato incessanti – quei soffi freddi provenienti da ovest, probabilmente passando per le cime ghiacciate di Picco Aquila, erano una goduria per il Cronista.
Non si trattava di chissà quali raffiche refrigeranti che davano una svolta all’attività della capitale – molti degli abitanti probabilmente non le avvertivano nemmeno…più che probabilmente, sicuramente, dal momento che erano quasi tutti a dormire – ma sulla pelle del Cronista, vecchio e appena uscito da una lunga convalescenza rinchiuso nelle calde stanze del Tempio di Roccia, erano incredibilmente fredde.
Alle luci del primo mattino, Nejema rosseggiante e appena levato, nell’orizzonte dove giaceva il popoloso Grande Golfo, e con un clima – vista la vicinanza col deserto – ancora più freddo del solito per l’escursione termica, il Cronista era uscito per la prima passeggiata in dodici giorni di clausura forzata, appoggiandosi con ambo le mani al lungo bastone nel percorrere gli infiniti gradini che tappezzavano le piazze di Garsomor.
Non aveva scelto di provare il suo fisico dopo la malattia così all’improvviso e senza prima consultarsi col medico, col figlio e con Atarros, questo no. Essi e pure Lafivias – il medico da una prospettiva diversa, ma tant’è – erano sinceramente e premurosamente preoccupati per la salute del Cronista, ed egli ne era infinitamente lieto e grato. Tuttavia, dopo tutto quello che aveva passato in vita, non sarebbe mai e poi mai morto con le squallide mura afflitte dall’aria pesante della convalescenza della residenza del Signore che, per quanto adorne e cariche di regalità potessero essere, rimanevano comunque un mucchio di mattoni dipinti. Non se lo sarebbe perdonato; così, decise di uscire, quel giorno che avrebbe anche ripreso a narrare, e sarebbe stata senz’altro la prima di molte uscite. Di mattina o serali, aveva informato i suoi…amici? Coinquilini? È complicato definire in unico termine le persone che tenevano a lui e che abitavano nello stesso palazzo. Ad ogni modo, sarebbe esclusivamente uscito all’alba e al tramonto. Per evitare il sole estremo del mezzogiorno e del pomeriggio, questa la motivazione data a ‘loro’, e a cui un po’, in fondo, credeva anche lui. La reale, prima giustificazione di questa scelta, però, fu semplicemente per la suggestione delle strade e dei panorami cittadini in quelle ore pittoresche. Le vie desolate e libere – almeno la mattina – ma ugualmente e potentemente vive, come era vivo il sole nascente, e come era vivo ciò che lo aspettava sulla superficie quando avrebbe brillato in tutta la sua forza una volta raggiunto lo zenit. Allo stesso modo, evocativo era l’ambiente notturno: il lavoro che si concludeva, i cittadini che sciamavano nelle strade illuminate dalla torce e dalle pietre di luce per divertirsi e sfogarsi mentre il firmamento perdeva le sue ultime fiamme e si spegneva, lasciando solo piccolissime braci a punteggiarlo.
Questo, però, il Cronista non lo stava vivendo in quel momento e ancora non l’aveva vissuto, trattandosi della prima uscita da circa dodici giorni, come già detto.
Rivivendo nella memoria altre uscite serali, il Cronista arrivò a preferire la vuota, placida, tranquilla, fresca mattina di quel 6 Tealse ad ogni panorama notturno di Garsomor: vivo, sì, fin troppo, affollato, caotico, rumoroso. Si sistemò un momento gli occhiali, nel notare le prime figure uscire dalle proprie abitazioni, spalancare porte e finestre, ordinare i propri le proprie salamandre o i propri carri, le primissime bancarelle o che altro.
A un certo istante si fermò, spalancò un attimo gli occhi incredulo, e si risistemò ripetutamente, anche in modo piuttosto stupido, gli occhiali, colpito da una figura di terricolo familiare, come prima cosa, e che lo stava palesemente invitando ad avvicinarsi, in secondo luogo.
Nella sua lunga vita e nelle sue lunghe ricerche attraverso Gorm, prima, e il Grande Golfo, dopo, il Cronista aveva incontrato e stretto rapporti di amicizia con un gran numero di persone, gormiti, elfi, vici, zoari – pochi – e all’età di 76 anni era un miracolo che se ne ricordasse più di poche decine, non potendo del resto comunicare con tutti loro. Tuttavia, aveva anche incrociato personalità di un certo rilievo, già rinomate prima ancora che il Cronista prendesse questo titolo e divenisse con esso famoso. L’uomo che lo stava invitando era un gormita, e non un gormita qualunque, no di certo.
Al tempo temuto ed emarginato, poi osannato come eroe, e infine avvolto da un’aura mistica che incuteva rispetto, timore reverenziale e spaventoso fascino, per il suo stile di vita ramingo e, ovviamente, per i suoi poteri. Fonte inesauribile di dati storici anche molto antichi proprio per questi suoi poteri, era stato compagno di viaggio del Cronista, scomparendo e riapparendogli a fianco spesso senza preavviso. Anziano ormai quanto e più di lui, nonostante quei misteriosi poteri l’avessero mantenuto giovane a lungo, ora presentava indiscutibili segni del passare del tempo, sul viso ovale ed uniforme, privo di particolari dettagli – e questo stesso era un dettaglio unico –  olivastro, tendente più che mai al grigio, , nelle occhiaie che gli appesantivano lo sguardo, sulle scaglie squadrate e geometricamente scanalate degli avambracci, dall’aspetto avvizzito e scolorito. Sul marchio vorace inequivocabile che aveva perso la lucentezza metallica d’un tempo.
Il Cronista non perse tempo una volta riconosciutolo, e si avviò a passo spedito verso il vecchio compare. Non capitava spesso di beccarlo nella tana, o su Gorm in genere.
“Buongiorno, Cronista.” Lo salutò quello sorridente nella caratteristica voce profonda, senza tuttavia mostrare l’entusiasmo che i suoi denti lasciavano presagire.
“Fossil! Fossil caro, che strana sorpresa!” gli fu di fronte e gli batté il pugno amichevolmente; consapevole che entrambi conoscevano tradizioni di altre civiltà, gli strinse la mano con entusiasmo, e poi tutto il braccio, avvertendo il ricambio d’affetto.
“E saluti anche a te, Larcon.” non mancò di dire una volta sciolte le mani.
Salute a te, ‘Cronista’. Il riverbero della possente voce dello Spirito ribelle all’interno della sua mente era tremendo. Se anche avesse voluto, non sarebbe riuscito ad impedire al Divoratore di comunicare telepaticamente. In quelle sole quattro parole urlate con calma direttamente al suo cervello, Larcon riusciva a far tremare. Soprattutto per il modo in cui aveva sottolineato il nome Cronista: lo Spirito conosceva la sua vera identità, tutta la sua storia. In quei pochi istanti, aveva di certo – era in suo potere, quanto meno – sondato tutto ciò che il Cronista aveva passato dall’ultimo loro incontro.
“Come va, vecchio mio? È stato interessante il tuo soggiorno nell’Impero?” gli parlò dunque il Cronista, vivace.
“Interessante è il termine giusto. – assentì quello, incrociando le braccia – Sono molto simili a quello che era un tempo il Popolo della Terra, mi ero sentito molto a casa (una cosa che non pensavo di poter provare di nuovo), e allo stesso tempo alieno e affascinato dalla loro cultura.”
“Ho sempre trovato il loro pantheon…suggestivo. Come anche il loro disprezzo per i dragoni.”
“Sì, predatori naturali degli elefanti, il loro animale sacro e simbolo. – annuì Fossil – Quando erano divisi nelle sette tribù la società zoara doveva essere ancora più pittoresca e genuina. Però, ora che hanno ristabilito l’Impero, non sono diventati meno intriganti, o più corrotti o arroganti. Sono molto nobili, in un modo tutto loro, ovviamente, e non sembra abbiano velleità di conquista.”
“Ricordo. Sono solo molto…preoccupati a mantenere la ritrovata stabilità, e finché non si sono sistemati per bene non vogliono esporre debolezze agli altri. – il Cronista si guardò attorno, come a ricercare tra i ciottoli e il lastricato della via una continuazione del discorso; Fossil non smise di fissarlo, muto, finché il forestale non risollevò lo sguardo e gli domandò – Cosa ti porta allora da queste parti, dopo i frugali sfarzi di Viema?”
“Il tempo, Cronista. – rispose criptico – Larcon avverte che il tempo che sta per terminare. Il tuo tempo, il mio, forse. Non so cosa intenda di preciso, ma ha voluto che ritornassi qui. Desidera te.”
“Me?”
“Sì. Per questa sua idea del tempo che finisce, vuole rivelarti delle cose.”
“Io…davvero non capisco…”
Non essere sciocco, Cronista, o modesto, che è ancor peggio. – tuonò il Divoratore stesso – Il nome che hai scelto per te stesso è il tuo destino. Sei il Cronista, portavoce presso la tua gente della sua storia, custode del passato e del presente di Gorm, profeta del suo futuro. Esistono cose del passato e del futuro dei gormiti che è arrivato il momento di rivelare che tu, prima di ogni altro, devi assolutamente conoscere. A te spetta di diffonderle, come e quando, e di far sì che non vadano perse.
Il bulbo cardiaco del Cronista pompava linfa vitale a velocità estreme, dopo quelle parole. Non andava affatto bene una simile reazione fisica ed emotiva appena dopo la malattia. Eppure, non poteva tirarsi indietro, proprio no. Larcon non era forse affidabilissimo, anche dopo decenni che si era arreso alla sua vita con Fossil, ma se offriva ancora una volta la sua conoscenza per il bene della ricerca storica, che il Cronista aveva abbracciato anni or sono, era suo obbligo stare almeno ad ascoltare. Per un motivo o per un altro, era agitatissimo.
Di che cosa si può trattare? E perché rivelarlo solo ora?Forse sa che sto per morire, magari sa anche quando, di preciso…
“D’accordo. – disse dunque – Sono pronto per ricevere queste informazioni.” Affondò le mani nella sua bisaccia alla ricerca di penna e carta, se c’erano.
Non illuderti, Cronista. – lo freddò Larcon – Non te le rivelerò qui, e non sarò io a rivelartele, non proprio. Si tratta di dati fin troppo importanti perché io possa comunicarteli da solo e tu credervi di buon grado. Hai bisogno, tutti avete bisogno che provengano da una fonte…autorevole, a cui non possiate dire di no. Io, inoltre, ho dei conti in sospeso.
“Dei conti in sospeso? – domandò, incredibilmente, lo stesso Fossil. – Non sono sicuro che mi piaccia questo discorso.”
Presto capirete, fidatevi di me.
“E sia. – accettò il Cronista – Ammetto che tutto questo mi sta spaventando…”
“Sta spaventando anche me, te l’assicuro. E ce ne vuole…” fece Fossil.
“…è molto sospetto, ma ormai mi hai persuaso. Immagino fosse la tua intenzione sin dall’inizio.”
Larcon invase la mente del Cronista con un’ondata di perverso compiacimento. Se lo poteva figurare sogghignare soddisfatto.
Può darsi, caro Cronista, può darsi. Ora andiamo.
“Dove andiamo?” domandò il Cronista.
Nella Fossa degli Spiriti.
Fossil sospirò rammaricato, mentre il Cronista strabuzzava gli occhi e per poco non gli cadeva il bastone.
“Nella Fo…no, aspetta un momento, Larcon. – il Cronista mise una mano avanti – Io non posso, non posso proprio. Rischio, rischio molto. Sono appena uscito da una decimana di convalescenza, e mi rimane poco da vivere, come immagino sai già. Anch’io ho dei conti in sospeso.”
Lo so bene. Non hai di che preoccuparti. Hai forse dimenticato chi sono io, Cronista? Io sono uno Spirito. Io sono Larcon il Divoratore! – la potenza della sua voce  si fece quasi insostenibile; il Cronista avvertiva tutto l’immenso potere immagazzinato da Larcon in decenni di divoramento delle forze altrui. Gli parve addirittura di sentire le grida ululanti degli Spiriti e dei fantasmi che aveva incatenato con il suo potere nel corpo di Fossil, delle anime private barbaramente di vita nel corso dei secoli – Io sono centinaia di Spiriti, gli stessi Spiriti, mia ‘famiglia’, che mi hanno bandito e che hanno tentato di porre fine alla mia ribellione. Una ribellione per la verità! Verità che io offro a te, Cronista. Non avere paura per la tua vita: io e Fossil ti proteggeremo.
 
La verità sugli Spiriti era sempre stata un mistero per i gormiti sin dagli albori, ed incredibilmente essi avevano imparato a convivere con gli Spiriti e con la mancanza di vere e proprie certezze sulla loro tenebrosa origine e i loro incomprensibili motivi già da quegli stessi albori. Speculazioni riguardo a ciò che giaceva dietro gli Spiriti non avevano mai mancato di percorrere il suolo di Gorm: chi sosteneva che si trattasse di fantasmi di una civiltà antica, fantasmi di gormiti primigeni, chi addirittura fossero delle illusioni, gli Spiriti non esistevano e c’era un’altra entità dietro a tutto quanto. Speculazioni che mai trovavano conferme né, d’altra parte, confutazioni certe; speculazioni che non assumevano mai toni importanti. L’esistenza degli Spiriti era semplicemente un dato di fatto e qualsiasi cosa fossero o volessero veramente, non valeva la pena di scoprire: si poteva vivere serenamente anche senza saperlo. Anche le genti del Grande Golfo avevano da subito mostrato interesse per la misteriosa tribù invisibile. Curiosamente, molto spesso gli Spiriti rifiutavano di comunicare con chiunque non fosse un gormita.
Che Larcon, essendo uno Spirito egli stesso, avesse la precisa intenzione – ma perché solo ora? – di svelare l’enigma della sua ‘gente’? Il Cronista non sapeva se sperarci: forse certi segreti era un bene che rimanessero tali.
I poteri acquisiti dal Divoratore in quei lunghi anni erano sbalorditivi: un solo tocco – due, uno per attivare l’incantesimo di sostentamento acqueo – del palmo di Fossil sul petto del Cronista, occhiali, scialle e bastone opportunamente deposti e nascosti, e in un lampo, mentre tutt’intorno i colori si distorcevano, si combinavano e tendevano uniformemente a un accecante bianco, la piazza di Garsomor vuota e illuminata dall’alba cedette improvvisamente il posto alla ciclopica parete di roccia millenaria dell’aliena Fossa degli Spiriti. E l’aria, ovviamente, fu repentinamente sostituita da tonnellate d’acqua che gravarono sul corpo del Cronista con un improvviso peso immane. Tuttavia, il fulmineo cambiamento di condizioni e di pressione, sotto i prodigiosi incantesimi di Larcon – Fossil era al fianco del forestale – non fece subire al Cronista alcun contraccolpo. Si sentiva, tutt’altro, incredibilmente pieno di energia.
Un’energia che, però, non poteva riscaldarlo dell’onnipotente senso di gelo, di insignificanza e di debolezza esistenziale che instillava nel suo cuore, di lui che vi assisteva per la prima volta dal vivo, nel cuore di qualunque gormita, la visione di altri mondi rappresentata dalle immortali sentinelle di pietra, le mani eternamente rivolte in avanti in segno di attenzione, di ammonimento. Gigantesche e circondate da geroglifici dallo spaventoso significato, le statue guardiane con i loro sei occhi ciascuna non perdono mai memoria di chi passa loro dinanzi, chi entra nel rifugio degli spettri, chi riesce ad uscirvi e chi invece ne rimane intrappolato per sempre. Esse vedono tutto, e non dimenticano.
Furono attimi carichi d’ansia quelli in cui, silenziosamente, i due insoliti viaggiatori varcarono la soglia della Fossa sovrastata dalle incisioni mastodontiche e perfettamente geometriche di quei quattro cerchi, ognuno di diverse dimensioni. Il Cronista era inverosimilmente spaventato dall’idea che le sentinelle rocciose prendessero vita ed impedissero loro l’accesso alla Fossa vera e propria…e il ritorno alla superficie. Anche quando Cronista e Fossil furono all’interno, e l’acqua si faceva gradevolmente più tiepida, la paura non l’abbandonò.
La grande stanza ovale, illuminata magicamente; al centro, la tavola con le inesplicabili ossa. Oltre, la porta che custodiva denti di daicai nascosti per volontà del terricolo Muscor e altri sconosciuti artefatti di magia.
Non accettiamo più di un pellegrino, abitanti di Gorm. Tuonò una voce femminile. Rintronante, ma vibrava di solo una frazione dell’autorità che emetteva quella di Larcon.
Che uno di voi due esca. Si aggiunse una seconda, maschile.
Siamo molti più che due, compagni. – vociò Larcon – Mi sorprende che non mi abbiate percepito. Me e coloro che porto in me.
Si sollevò improvvisamente un grande caotico trambusto, voci che si sovrapponevano, mormorii confusi e contrariati. Il Cronista temeva troppo per la propria vita, in quel momento. Non si scherza con gli Spiriti.
Abbandona immediatamente questa camera, ‘Divoratore’. – si levò imperiosa una voce sopra le altre – Non sei il benvenuto qui. Esci prima che ti schiacciamo definitivamente.
Perché non mi ‘schiacciate’ subito, e perché non l’avete fatto in precedenza, se sono un pericolo per voi? – chiese in tono di scherno Larcon – Io so perché: non ne siete capaci, non in queste spoglie. E se lo siete, non ne avete il coraggio. Io, al contrario, posso schiacciarvi tutti, e lo farò, presto o tardi.
Sai di non esserne capace, Larcon, come non lo siamo noi. – ribatté uno – Saprai da tempo che molti dei nostri fratelli che hai in te si sono sacrificati, carichi di incantesimi speciali per indebolire la tua influenza sui gormiti.
Certamente ne sono al corrente. Rispose con voce suadente il Divoratore.
Perché hai condotto il tuo ospite e questo forestale da noi? Domandò la medesima vocia imperiosa di prima.
I tempi stanno cambiando ed altri stanno finendo. – parlò Larcon – Prima che sia troppo tardi, voglio rivelare delle cose che i gormiti devono sapere, davanti a voi come testimoni di verità, e si dà il caso che questo forestale sia il celebre Cronista, massimo storico di Gorm in vita.
La mente del chiamato in causa fu improvvisamente ricolma di ilarità. Gli altri Spiriti non stavano prendendo sul serio le intenzioni di Larcon, anzi, parevano esserne divertiti.
Non essere sciocco, Divoratore. Sai bene che alcune informazioni non possono essere comunicate.
Continuate pure a crederlo, compagni. – li sfidò Larcon – I gormiti sono più avanzati di quanto vi illudiate che non siano.
Gli Spiriti emanarono all’unisono un forte sentimento di sorpresa e di timore.
Cronista. – Larcon si rivolse direttamente alla mente del forestale – Che queste parole rimangano bene impresse nella tua memoria, così che tu possa narrarle e metterle per iscritto esattamente come te le porgo. Inizierò parlando della mia storia, e di quella dei qui presenti compagni.
Larcon, non essere pazzo… lo interruppe uno.
“Taci!” urlò Larcon, all’unisono con Fossil. Crollò il silenzio assoluto. Quella appena udita non sembrava una voce mentale. Cosa significava?
Come iniziare, dunque. La mia gente ha da sempre avuto una passione insana per la scienza, l’alchimia, la magia, mescolanze blasfeme di queste tre arti. Si credeva e si crede capace di tutto, senza alcun limite materiale o morale. Crede l’intero universo è ai suoi piedi, per la padronanza degli schemi che lo regolano che possiede. Le loro sperimentazioni spaziavano ogni tipo di funzione e di soggetto…comprese loro stesse. Noi Spiriti siamo il frutto di uno di questi esperimenti. Fummo privati dei corpi solidi e con essi della capacità di sentire il tatto, l’olfatto, il gusto, anche la capacità di morire! Di guardarci negli occhi, di giacere con i nostri amanti…tutto perduto. Ridotti a consapevolezze vaganti, a un ammasso di radiazioni e frequenze slegate dalla materia, immortali. Per il momento non parlerò della missione degli Spiriti come li conoscete voi. – un brusio fastidioso e infastidito turbò il silenzio della pausa di Larcon dopo quella affermazione – Sta di fatto che io non ero d’accordo con tutto questo. Cercai di far vedere la verità ad altri, li spinsi alla rivolta…ma fu vano. Vedevano tutto questo come un successo, un progresso, tutto per il ‘bene superiore della scienza’, non avevano rispetto per la propria vita e individualità. E non solo per quella, presto capirete.
Allora io mi separai da quel gruppo di pazzi. Volevo riacquistare un corpo, ma dopotutto l’essere Spirito mi garantiva poteri e abilità prima inaccessibili. Volevo quindi studiare meglio me stesso per potermi garantire queste capacità quando avrei riacquistato un corpo. Iniziai allora a infiltrarmi nei gormiti, per persuaderli con speranze di dominio, per poi possederli completamente quando la loro difesa era ormai troppo bassa.
Non ebbi molte vittorie in questo modo, sebbene continuai per lungo tempo. Ogni volta che un mio ospite veniva ucciso, ne uscivo prima che spirasse del tutto. Quando i gormiti scomparvero durante il Grande Sacrificio, dovetti possedere i corpi dei vulcanici, più persuadibili ma anche più suscettibili. Scatenai una bella strage, col risultato che quando gli altri gormiti tornarono il Vulcano era molto inferiore di numero. Entrai anche nella mente di Magor.
Qui si interruppe, ricordando quel momento, e le sofferenze di quell’attimo. Il ricordo del dolore e il dolore del ricordo erano tanto forti che il Cronista vide Fossil vacillare per un istante.
Magor è una strana personalità. Mi ha spaventato. Non riuscivo a sopportare il dolore di un corpo di fuoco, con tutti i sensi offuscati, mentre lui pativa tutto questo con facilità, e per anni!. E l’ho posseduto per pochi secondi! Ho avvertito che in quei pochi secondi la sua mente sia entrata nella mia e aveva carpito pericolose informazioni…del tipo di queste di cui vi sto informando ora, ma anche altre. Ecco spiegate le visioni di Magor, Cronista. I ricordi non suoi, miraggi di altri mondi e conoscenze di esperienze non vissute.
Il Cronista deglutì. Non aveva ancora ‘aperto bocca’ da quando era entrato, ed era sicuro che non l’avrebbe mai fatto. Era troppo concentrato sulla propria paura e sulla voce di Larcon per preoccuparsi d’altro.
I miei progetti sono cambiati, da allora. – continuò – Mi pento di aver ucciso così tanti gormiti. Essere stato confinato a Fossil mi ha aiutato, e ora aiuterà anche i gormiti. Ci ho riflettuto molto, ed ecco perché ora sono qui. È giunto il momento che sappiate cos’è l’Occhio della Vita, e cosa vi legava ad esso.
Larcon, noi te lo impediremo. Esclamò uno Spirito.
Ci fu del silenzio spaventoso, seguito poi da un incomprensibile e tremenda confusione, un amalgama indistinto di rumori tra i più vari, esclusivamente mentale. Fossil ed ogni altra cosa, però, erano immobili. Il Cronista avvertì, mentalmente, anche del dolore. C’era una sorta di lotta in corso.
Fu interrotta quando l’immobilità fu troncata da un brusco movimento di entrambe le mani di Fossil.
“Voi non potete impedirmi nulla. – gridò; di nuovo le voci di Larcon e Fossil erano sovrapposte, come un’unica entità, e il suono non era solo telepatico: Fossil muoveva le labbra, per quanto fosse assurdo, sott’acqua – Sono più potente di quanto crediate. Non per gli Spiriti che ho in me, no, non proprio. Voi avete sempre creduto che io, ribelle, potessi solo tentare, ammaliare, conquistare le menti dei miei ospiti, e non avete previsto una cosa: che il mio ospite fosse dalla mia parte, di sua volontà! Questo significa che tutti i miei poteri non hanno alcun limite.”
Ora continuerò, poi sarà la vostra fine. Fossil, Cronista, vi siete mai chiesti perché voi gormiti siete così straordinariamente diversi gli uni dagli altri, quasi da non potervi riconoscere come un’unica specie? La verità è che voi non siete nati come un’unica specie. Voi non dovreste essere mai nati. Non avreste mai dovuto abbandonare i sogni della nostra gente, che potete chiamare Osservatori. Nei nostri sogni soltanto sareste dovuti appartenere. Poi venne l’Occhio della Vita, e attraverso di esso i nostri sogni di voi poterono essere realizzati. L’energia neozon scossa lungo tutta l’Isola, un’isola scelta appositamente per voi: l’Occhio della Vita raccolse materiale da tutte le forme di vita che vi erano, e le riunì in un’unica civiltà. Il risultato siete voi. Voi, costretti a un’esistenza disgustosa e scomoda per le vostre forme aberranti, spiati costantemente da guardoni ricoperti di velleità divine che vi hanno messo al mondo per i loro capricci, solo per dare una dimostrazione a se stessi delle proprie inumane abilità. Osservati prima solo da Greemerald, poi da vicino nella forma degli Spiriti. Io vi ho odiato. In seguito ho visto il vostro potenziale, e la vostra ingiustizia.
Voi non dovete essere gli schiavi di nessuno!
Il Cronista non resisteva più, stava quasi per piangere, anzi, stava proprio piangendo, di fronte al peso di quelle parole e alla mistura di sovrumano odio, ribrezzo e potente orgoglio con cui Larcon le sparava proprio nel centro della sua mente tormentata. Si sentiva un chiodo conficcato nel cervello, e se avesse potuto, sarebbe immediatamente crollato con le ginocchia a terra, e avrebbe picchiato il suolo fino a farsi sanguinare le mani, pur di dimenticare, di trovare un modo per non credere a ciò che gli veniva detto. Desiderava uscire, subito, e sprofondare al di sotto della Fossa, nell’acqua sempre più buia e fredda, e scomparire. Lo stesso Fossil stentava a tenersi in piedi, ma l’influenza di Larcon lo manteneva stabile.
Voi gormiti non meritate questo! Nessuno dovrebbe meritare di essere il gioco di una razza che si illude di essere divinità!
La tua insolenza ha superato ogni limite, Larcon! Si udirono grida potenti come un’eruzione vulcanica da ogni parte della sala. L’acqua ribolliva, si faceva sempre più calda. Le ossa sull’immenso tavolo improvvisamente si sbriciolarono, e il tavolo stesso si spaccò in due. Correnti di acqua gelida si gettarono a velocità estreme da ognuna delle misteriose entrate della Fossa, raccogliendo strano materiale pulviscolare al centro della stanza. Dalla cima della camera, curiosi luci verdi, rossicce e violette si alternavano con frequenza spaventosa, lasciando presagire il peggio.
Nessuno uscirà vivo! Greemerald saprà e tutto continuerà come da programma, Occhio della Vita o meno.
Le pareti si frantumarono; mattoni squadrati volarono in ogni direzione; la polvere accumulata prese improvvisamente la forma di un gigantesco drago marino costituito d’ombra, e dal nulla comparve una corazza metallica mentre, con rapidità mostruosa, la Fossa degli Spiriti attorno a loro cessava di esistere: le mura si sgretolavano e lasciavano spazio all’acqua scura.
Un braccio del mostruoso essere dominato dagli Spiriti si contorse, divenne una spirale di fuoco di enormi proporzioni che si abbatté su Fossil-Larcon. Questi, con un semplicissimo gesto della mano, bloccò la massa fluida come fosse un pezzo di roccia; con l’altra, un esorbitante fascio di luce elettrica verde fu sparato contro la bestia, disintegrandola in centinaia di blocchi evanescenti ed amorfi…che subito si preparavano a riassemblarsi.
Gli occhi, la bocca e il marchio sull’addome dell’entità singola Spirito-gormita, e l’intero suo corpo erano pervasi e avvolti da una luce bluastra accecante.
“La creatura si ribella sempre al creatore: i gormiti saranno liberi. Io li libererò da voi, sarò il Prometeo di questo mondo! Darò loro una nuova forma, unica e perfetta, e allora la nostra gente imparerà.”
Queste furono le ultime parole che il Cronista udì. Tutto aveva senso, adesso: i tre cerchi e uno, la simbologia degli Osservatori, le visioni…un senso troppo pesante per il Cronista da portare da solo. La sua vita dopo quelle rivelazioni sarebbe durata ancor meno, lo sentiva. Un ultimo, fugace, sguardo di Fossil-Larcon nell’ambiente subacqueo. Se vi era più dello Spirito o del terricolo che era stato suo amico in quelle parole, in quei gesti, era impossibile dirlo. Non era più fattibile, ormai, separare l’uno dall’altro. Sapeva solo che sul viso luminoso del gormita Fossil il Cronista vide un ultimo sorriso, prima di ritrovarsi nuovamente a Garsomor, nel medesimo luogo da cui era partito, ignaro del peso dei segreti che stava per prendere sulle presto morenti spalle.

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Capitolo 42
*** Capitolo 19.2 ***


< Era piena stagione piovosa; se così non fosse stato, Picco Aquila non sarebbe stato tanto invaso dalla neve, nemmeno a quell’altitudine, e la visione dell’immensa vetta scolpita a somiglianza della maschera di Praconrem, sommo protettore del Popolo dell’Aria, non sarebbe stata impedita, ridotta a una cupa ombra gigantesca che si stagliava di fronte a loro, in lontananza, appena in risalto tra il grigiore brillante di ogni cosa.
Radiclon tremò. Tremo per centinaia di motivi diversi, e il gelo sovrano della neve era l’ultimo di questi. Tremò di meraviglia per la neve stessa: non l’aveva mai vista con i propri occhi in precedenza, non l’aveva mai toccata, non aveva mai avuto un diretto contatto con i cambiamenti che essa provocava nel paesaggio. Avendo fino ad allora vissuto unicamente a Karmil, con periodici soggiorni nella Foresta Silente, ed essendo solo di recente, dopo la morte del padre, giunto ad abitare stabilmente a Dalarlànd, la quasi interezza di Gorm era per lui un mistero e una meraviglia continui. Tremò anche di delusione, per non poter assistere, a causa della neve, all’opera monumentale di modellamento della natura da parte di aerei e terricoli, decenni prima. Soprattutto, però, tremò di amarezza, sconforto e un profondo timore: i suoi primi anni su Gorm non erano stati affatto tranquilli, gloriosi per il suo trionfo al Torneo di Astreg, ma fu una serenità che durò poco, ed ora li viveva in guerra. Il motivo per cui i suoi nonni avevano scelto di rifugiarsi su Karmil a tempo indeterminato e non mettere più piede su Gorm, né far correre quel pericolo ai loro figli e nipoti. Non si sarebbe mai immaginato di arruolarsi spontaneamente, e che, per di più, ad appena 21 anni, gli alti dirigenti dell’esercito notassero in lui un potenziale tanto grande da inserirlo in quel gruppo speciale per una missione segreta che avrebbe potuto significare la fine rapida delle Guerre di Riconciliazione.
Il Popolo del Vulcano, silenziosamente, all’inizio del 874, aveva dato avvio a un’imponente campagna militare, conquistando la vetta di Picco Aquila. Sfruttando, per di più, un’abbattuta nave volante karmiliana, e costruendone una propria, dando una spaventosa dimostrazione del loro ingegno. Totalmente inattesi e invisibili – essendo peraltro il Popolo dell’Aria da poco uscito dalla sua guerra civile e ancora turbolento – un piccolo battaglione, sulla nave volante, riuscì a sbarcare indisturbato in prossimità dei Rifugi Parlanac. Una volta lì, fu un gioco da ragazzi aprire varchi spaziali per farvi giungere forze e risorse in gran numero e stabilirvi una base militare. Discendendo dalla cima e non di rado sfruttando valanghe, assalirono molti centri del Popolo dell’Aria, costringendo molti alla fuga ad Orsol, che ancora resisteva, nelle caverne all’interno del monte, o nella Fortezza Volante. La conquista di Picco Aquila non pareva però il loro obiettivo primario: discesero la montagna e invasero la costa lungo lo Stretto di Gorm, invadendo anche la Piana di Astreg. Imposero il blocco navale sullo Stretto e, su Darth Kuun, occuparono tutta la zona costiera ad est e ad ovest del Deserto, tenendo sotto scacco e chiusa al contatto con Aria e Foresta la Terra.
La situazione era tragica ma non troppo, essendo le città di Ilabukh e Rabukh rivolte alla tirannia di Magmion, Lavion e Orrore Profondo; combattendo a fianco di Garsomor, le due città davano filo da torcere dall’interno al Vulcano, ritardando e indebolendo l’afflusso di forze verso Dalarlànd: sembrava infatti che fosse l’invasione della Foresta Silente la priorità dei triumviri, lasciando Roscamar e Garsomor per dopo.
Radiclon tremò ancora, verso la fine del 875, inerpicandosi il più rapidamente possibile in diversi piedi di neve in una zona boschiva nella cima più alta e più fredda di Gorm, in formazione lineare con i quattro commilitoni assassini: un aereo, una vulcanica, e due terricoli. Uno di questi, il capitano della squadra. Tremò per quello che lo aspettava, e per ciò che si lasciava alle spalle.
Non aveva mai ucciso nessuno da un anno a quella parte, e a guerra avviata si rese conto con sgomento di quanto fosse facile bruciare la vita altrui. Non per lui particolarmente, quanto in generale: la morte poteva cogliere chiunque, nel modo più inaspettato, nel tempo più prematuro. Fino ad ora non si era mai pentito di essersi arruolato ma, per Fendril ed Asili, era molto tentato dall’abbandonare la campagna e ritirarsi da tutto.
“Entriamo, l’accampamento si trova oltre questi alberi. – ordinò il capitano terricolo Tremoriu, additando con una delle sue tre quattro dita sottili una zona particolarmente fitta di abeti, all’interno della quale lo strato di neve era decisamente più sottile; anzi, la bufera sembrava starsi calmando: i contorni di Picco Aquila vero e proprio si facevano più nitidi, ma all’interno del bosco Radiclon non poteva sperare di avere una visuale migliore di esso – Stiamo attenti ad eventuali trappole.”
Radiclon si tastò gli indumenti alla ricerca del pacchetto contenente l’impasto di miele, cuore d’agnello, agromanto e uvetta macinata, una riserva di energia altamente calda e calorica, nonché saporita, ben più efficiente del semplice calore conservato in pietre cristalline. Con quel freddo, poi, era un’opzione molto più gradita. Il forestale temeva di averlo perso, non sentendoselo più cozzare sulla cintura – il freddo e la neve gli avevano un poco indebolito la sensibilità. Con la larga mano, sfiorò per caso la spada lunga e sottile appesa con un laccio e ben stretta per fare il minimo rumore dall’altra parte della cintura. La medesima tipologia di spada forgiata ed utilizzata dalla gente di Karmil, e l’unica arma di una certa taglia che tutti i cinque, nessuno escluso, portavano seco.
Altre armi consistevano in coltelli, pugnali, boccette di veleno, bacchette per la magia, archi e frecce – quest’ultimo Radiclon non l’aveva però. Per la loro missione armi erano sconsigliate armi troppo appariscenti e violente, suggerite quelle invece piccole, silenziose e veloci nel trarre l’ultimo respiro da un nemico. L’idea dei Signori alleati nell’ultimo anno di guerra, sulla base di informazioni ottenute da infiltrati vulcanici – ma non solo – in territorio nemico, era infatti l’assassinio sistematico dei capi supremi del Popolo e dell’esercito del Vulcano, i cosiddetti Triumviri. Essi avevano spinto, con le buone e con le cattive, i loro uomini alla guerra. Tolti di mezzo, la guerra si sarebbe conclusa presto. O così speravano.
“Attiviamo il mimetismo, incantesimi di protezione e di visione.” Tuonò Tremoriu, mossi i primi cauti passi all’interno del bosco. Poi la comunicazione si fece esclusivamente mentale.
Procediamo con calma e guardiamoci le spalle l’un l’altro. Siamo vicini, ormai, e non possiamo rischiare di rovinare tutto ora.
Mentre tutti e cinque ruotarono l’ingranaggio nel bracciale della loro armatura Neor’gani, mettendo in funzione l’abilità mimetica, avviando al contempo il potere del mimetismo che si erano iniettati, e si illuminarono i loro occhi di verde per l’incantesimo di vista magica, Radiclon guardò uno per uno i suoi compagni da ben poche decimane, finora di solo allenamento, con cui, sperando che tutto andasse per il meglio, avrebbe lottato e lavorato per almeno metà mese, finché l’ultimo dei Triumviri non fosse morto.
Elasian, la vulcanica. Pressoché uniformemente d’un cremisi chiaro, molto alta e molto muscolosa, per gli standard femminili, ovviamente. Un volto dotato di un occhio solo, giallo ambra, e di forma vagamente pentagonale, allungato e stretto, con la punta in alto. Detta Sparafuoco per le potenti e lunghe fiammate che amava emettere da tutte e otto le dita, quattro per mano.
Picchiavex, l’aereo. Un tipo piuttosto in carne, con un bel gonfio collo, ma non per questo poco agile. Ali candide molto articolate per la sistemazione e la forma delle piume, un piumaggio azzurro tenuissimo che lasciava scoperto il blu notte di spalle, bicipiti, cosce ed addome. Occhi giallo canarino e becco e artigli magenta. L’avambraccio sinistro era costituito da una sorta di arpione grigio di pelle più robusta, con le squame regolate a dare l’impressione che fosse una trivella.
Darnogos, il terricolo. Pelle di scaglie molto grandi senza palese peluria, bruna e dai muscoli possenti, sui bordi dai riflessi dorati e grigi su gambe, petto, braccia. La testa era ovale, insolitamente piatta e allungata nel verso parallelo al suolo. Era, almeno a prima vista, privo di labbra e i denti erano blocchi compatti gialli. Creste brevi e scarsamente massicce bruno scuro sormontavano sopracciglia e fronte. Una piccola coda concludeva il tutto, dall’altra parte.
Infine il capo della squadra Tremoriu, detto Trematerra per la sua maestria dello Squarcio del Behemoth. Carnagione di un cupo marrone, un capo allungato con vistose lunghe orecchie, che ricordava quella di un armadillo, un po’ allungata e ricoperta lungo la fronte fino al naso di una copertura naturale di squame robuste a forma di freccia, ocra, così come sulle braccia – lunghe quasi quanto quelle di Radiclon, che piegandosi leggermente poteva toccare terra con le dita – sull’addome e sulle cosce. Possedeva ambo le mani e in entrambe cinque dita. Tutti e quattro avversari feroci e temibili, i più pericolosi insieme, Radiclon azzardava a dire. Su di sé, invece, non osava esprimersi.
La combinazione dell’invisibilità dell’armatura Neor’gani e del veleno del mimetismo del grande daicao rese l’intera squadra invisibile a se stessa – poi di nuovo visibile per l’uso degli occhi magici –, salvo per il vuoto che lasciavano nella neve e la stessa che ricadeva su di loro. Il potere del mimetismo ben presto risolse anche queste complicazioni, ma con i fiocchi che continuavano a cadere non erano mai totalmente invisibile. Un vero prodigio, quel veleno, con la sola pecca che usarlo per lunghi periodi esauriva rapidamente le energia. Ma la squadra di assassini era ben rifornita.
Una volta all’interno del rado bosco, la neve che cadeva fu immediatamente un problema inesistente. Rimaneva ancora il problema delle impronte sullo strato nevoso che, per quanto ben più lieve che all’esterno, non potevano essere nascoste – finché uno dei gormiti rimaneva fermo, l’impronta non c’era, ma non appena si spostava ecco che appariva.
Incamminandosi tra le disordinate fila di pini ed abeti, mostrando curiosità e forse persino deconcentrandosi per i curiosissimi frutti legnosi che non aveva mai visto, Radiclon notò immediatamente che il fischiare della bufera, rallentata e attutita sì dalla copertura vegetale, non nascondeva il suono dei loro passi che comprimevano i delicati cristalli di ghiaccio. I quali, oltretutto, potevano celare rumorosi rami secchi o altro materiale che avrebbe destato allarme alle orecchie di possibili guardie presenti. Non pensava che qualche animale – non aveva nemmeno idea di che animali vivessero in quell’ambiente – potesse provocare rumori sospetti. Sopraggiunse poi Elasian ad aggiungere la sua osservazione: Attenti a dove mettiamo i piedi. Con questo incantesimo possiamo vedere trappole magiche, ma non quelle tradizionali.
Lo sappiamo bene, Sparafuoco. – si lagnò Picchiavex – Per chi ci hai preso?
Voglio solo essere sicura. Si giustificò, con tono assente.
Elasian ha fatto bene a ricordarcelo. – fu dalla sua parte Trematerra – Ripeto: massima cautela. Nemici od ostacoli potrebbero presentarsi in qualsiasi istante, d’ora in avanti.
Ecco i primi, capitano. Avvisò asciutto Radiclon. Che in realtà, nel profondo, tanto tranquillo non era. Era agitato e tremava – non aveva mai smesso – non solo per il freddo.
Da dietro un tronco più largo degli altri, spuntarono infatti come funghi velenosi cinque di quelle aberrazioni cornute, azzurrognole come i soffocati e nere come la peste che prendevano il nome di Soldati Scuri modello X variante 47. Procedevano ordinatamente in fila, spaventosamente lenti come solo loro potevano essere, in una direzione a sinistra del gruppo di Trematerra, che si era immobilizzato. Non emettevano un rumore, quei mostri senz’anima dallo sguardo vuoto ed orribile, colando saliva dalle loro esagerate fauci slabbrate, costantemente serrate come tagliole.
Trafugati all’avvio della campagna del Vulcano dal nascondiglio che gli alleati avevano scelto dopo che furono bloccati dalle magie di Larcon attraverso Fossil, furono in modi arcani risvegliati o riportati in vita, chi può dirlo, e adoperati sin da subito. Probabilmente il Vulcano ne aveva costruiti di nuovi.
Si fermarono avvicinandosi nel loro tragitto alla squadra arrestata di Trematerra. Improbabile che avessero notato le impronte del gruppo, era risaputo che non fossero particolarmente intelligenti. L’SS alla guida della fila allungò il capo nell’aria e, con grugniti impossibilmente silenziosi, analizzò gli strani odori che permeavano la zona. Presto il suo seguito lo imitò, i due fori al centro delle loro teste immonde che si contraevano disgustosamente.
Che facciamo? Aspettiamo? Domandò irrequieto Radiclon.
Temo che ci abbiano localizzato. Credo che dovremmo sporcarci le mani prima del previsto, non possiamo lasciarceli alle spalle. Disse turbato Trematerra.
Lasciate fare a me. Ghignò dunque Darnogos.
Il terricolo agitò le mani e le dita, per scrollarle dal freddo. Dopodiché le intrecciò e le scrocchiò.
All’unanime, cinque capi cornuti si piegarono meccanicamente in sua direzione, e dieci occhi spenti e terribili, da predatore, fissarono il punto in cui era riunito il gruppo.
Pessima idea, merda. – imprecò Darnogos, cupo in viso – Spostatevi.
I quattro obbedirono, incuranti ormai del rumore dei loro piedi sulla neve, e crearono un varco tra Darnogos e i Soldati Scuri. Con movenze rapide e decise, il terricolo piantò entrambi i palmi a contatto col terreno, ed evocò il Piggstrad. I cinque SS caddero senza rumore a schiena a terra, cozzando gli uni contro gli altri, travolti da improvvise stalattiti che sbucarono da sotto i loro piedi.
Svelti e silenziosi, i cinque assassini balzarono in un lampo sulle loro prede, spade lunghe sfilate, finendo gli SS in un sol colpo, recidendo loro la testa. Per tre di essi fu così; altri due, meno lenti dei compagni a rialzarsi, mostrarono un po’ di pericolosa resistenza, ostinati e imperturbabili pure quando un intero braccio era stato tagliato e sprizzavano sangue a fiotti dalla spalla, tingendo la neve di denso rosso.
Uccidere gli SSX-47, per quanto a volte difficoltoso e un vero e proprio terrore alla vista per la loro insensibilità al dolore, era assai più leggero, più ‘piacevole’ per Radiclon che togliere la vita a qualsiasi altra forma di vita. Nonostante fosse ormai in guerra dall’inizio e avesse ucciso molti nemici, nutriva ancora un senso di disagio nel dare la morte.
Fortunatamente, finché si trovarono nel mezzo dei pini ricoperti di neve, il gruppo capeggiato da Tremoriu Trematerra incontrò unicamente Soldati Scuri. Il che era un enorme vantaggio, vista la loro incapacità di esprimere versi di alcun tipo. Il che era però anche un orrore per gli occhi, e un pericolo fisico ben maggiore di qualsiasi soldato ‘regolare’: sbucando non avvistati dietro i tronchi, talvolta persino saltando giù da grossi rami, emergendo alle loro spalle guidati da un udito e un olfatto sopraffino, regolato per riconoscere gli odori dei nemici, non fu sempre possibile toglierli di mezzo con un semplice movimento della lama sottile alla loro giugulare. Assestavano colpi micidiali con i loro gonfi avambracci neri, testate da capogiro con le loro rocciose, calve fronti cornute. Anche alla cieca, sfruttando solo i sensi secondari, i loro colpi si facevano ricordare e i loro volti incutevano terrore, vuoti e imperturbabili persino quando il loro corpo andava a fuoco o le budella colavano dalla pancia squarciata. A Radiclon mettevano i brividi – ancora un’altra ragione per tremare – e però non preferiva a loro guerrieri gormiti, almeno per ora.
Dopo la lunga traversata del bosco innevato, che costò alla squadra una buona porzione di impasto energetico – o di pietre preziose, chi ne aveva – con un gesto della mano Trematerra impose l’arresto della loro avanzata e il totale silenzio. Nonché un avviso di procedere con cautela ancora maggiore, ineccepibile.
Siamo quasi giunti a destinazione. Indicò dei tronchi tagliati, e guardando in avanti gli alberi mietuti aumentavano di numero, fino quasi a soppiantare la presenza di pini ed abeti in salute, e a un certo punto scomparivano del tutto: ecco la loro meta, l’accampamento di Lavion. Una massiccia costruzione in legno di Picco Aquila. Oltre la trincea ricolma di punte di legno e ferro, si ergeva la edificazione nomade a base quadrata, di alcuni piedoni di lato. Dal soffitto del piano terra si innalzavano altri tre piani di perimetro inferiore, circondati ai vertici da quattro torri di controllo. Tutto rigorosamente in legno, e forse argilla o pietra lavica. Materiali di facile lavorazione.
All’ingresso che si apriva in linea retta di fronte a loro, erano appostate due guardie. Sopra di esse, dipinta su un’asse fissata al soffitto, riluceva nel debole sole del nevoso pomeriggio montano l’insegna dei Triumviri e di quello che definivano ‘rinascita gormitica’. 
Rinascita a tutti gli effetti: infatti, le guardie erano una vulcanica e l’altra terricola. Ancora anni dopo i conflitti con il Popolo dell’Aria aveva dell’incredibile osservare gormiti un tempo alleati cooperare fianco a fianco col nemico di un’era, per Radiclon. Non doveva però scandalizzarsi: membri del ‘nemico di un’era’, del resto, cooperavano fianco a fianco dei gormiti alleati, al suo nella figura di Sparafuoco, e di tutti nella figura di infiltrati e di fuggiaschi, alcuni quegli stessi fuggiaschi senza i quali la guerra sarebbe stata una sorpresa senza via di scampo. Dopotutto, nelle idee dei Signori che avevano definito quelle campagne ‘guerre di riconciliazione’, il termine del conflitto avrebbe dovuto significare proprio questo, la riconciliazione. E i segnali che era possibile si facevano vedere, da ambo le parti. Era comunque demotivante constatare che del marcio nei Popoli un tempo uniti sotto il Vecchio Saggio c’era sempre stato, ed aveva atteso che la figura dello stregone sparisse per palesarsi.
Picchiavex raccolse il suo cannocchiale.
Ci sono solo quelle due guardie a questa entrata. – disse – Oserei dire senza visione magica.
Non si aspettano iniziative del nostro genere. Osservò Trematerra, braccia incrociate.
C’è una sicurezza magica appena prima della trincea, a terra, e una a mezz’aria. Entrarci è fattibile, ma… – l’aereo aggiustò la risoluzione dell’accessorio – C’è un bel tratto prima di arrivarci. Ricoperto di  neve. Bisogna agire in volo fino all’ingresso.
Le sentinelle sulle torri sono un problema in più. Disse Darnogos, cupo.
Il mimetismo magico dovrebbe tenerci occultati a un incantesimo di visione base. Fece notare Radiclon, speranzoso ma insicuro.
È proprio così. – soggiunse il capitano – Statemi ad ascoltare. Tre di noi rimarranno, qui al coperto. Distrarranno le guardie, un diversivo che terrà la loro attenzione altrove. Nulla di esagerato, dovrà essere qualcosa che si possa far attribuire a un animale e allo stesso tempo sia…intenso. Due di noi, invece, procederanno in volo oltre la trincea e le difese e le guardie. Se necessario e possibile, toglieranno di mezzo le guardie.
Mi offro volontario per entrare nell’accampamento. – disse Picchiavex – Lo spazio tra le due difese è sufficiente per le mie ali, e in caso posso sempre usare la forza magica.
Assunto. Verrà Radiclon con te. Comandò Trematerra.
Il nominato si sentì leggermente gelare il cuore.
Io, capitano? – parlò fingendosi incredulo – Permettetemi, non mi sembra una scelta ragionata. Sarei molto più indicato per il diversivo. Potrei controllare gli alberi del bosco e-
Nessuna obiezione, soldato. – lo zittì con un secco gesto della mano il capitano – Sei abile nella forza magica, entrambe le vie, meno in magia applicata, che ci servirà per il diversivo. Inoltre, hai il tuo potere speciale. – fece un sorriso che Radiclon non capì – È il nostro asso nella manica.
 
Radiclon non aveva idea di quale tattica di diversivo stavano attuando Trematerra, Sparafuoco e Darnogos. Si erano diretti ad estremità opposte del bosco e, non appena ricevuto il segnale luminoso, lui e Picchiavex si diressero verso l’accampamento. Udirono strani rumori, simili a muggiti, e videro che sia le guardie che le sentinelle, non avevano gli occhi fissi innanzi a sé come dovrebbero. Tuttavia, i due assassini non persero tempo a guardare cosa stessero effettivamente combinando gli altri tre, e volarono rapidi in direzione della trincea. Sfruttando i tronchi tagliati che spuntavano tra la neve dentro i confini della trincea, Picchiavex e Radiclon alternarono pochi attimi di volo ad alcuni di attesa sopra i tronchi. Così finché questi non finirono e si trovarono ad avanzare veloci come una lumaca, se non meno, in una levitazioni rigidissima e tesa come una molla in direzione dell’ultima difesa magica e delle guardie dietro di essa. Radiclon aveva il battito a mille mentre, in posizione verticale con l’uso della forza magica, lentissimamente e rigido quasi come un cadavere, oltrepassava il sottile spazio che separava le due linee luminose azzurre, una sul terreno l’altra sospesa in aria, che recintavano a cerchio la zona dell’accampamento. Il tutto sotto gli sguardi persi a fissare il bosco che ogni tanto guizzavano a destra e a sinistra per controllare gli strani movimenti generati dal diversivo di Trematerra, delle due guardie, mute, reggendo alabarde allungate dalle lame di strana foggia. Se una sola minuscola particella del suo corpo avesse toccato uno qualsiasi di quei fasci, chissà cosa sarebbe potuto succedere. Forse erano programmate per incendiare l’intruso, elettrizzarlo, far scattare qualche sorta di allarme sonoro. In poche parole, sarebbero stati scoperti e l’intera missione doveva essere rimandata, forse per sempre, di questo Radiclon poteva stare sicuro.
Non lasciando che la fatica parlasse rivelando la loro posizione, sudando freddo superarono infine anche quest’ultimo ostacolo, con le guardie. Passare sotto quegli occhi truci fu da crepacuore, ma alla fine Radiclon e Picchiavex si trovarono a librare dietro la schiena dei due soldati avversari. Indecisi su come procedere. L’ingresso non era immediatamente dietro le guardie, c’era ancora un tratto di strada, al coperto del soffitto di legno e dagli sguardi delle sentinelle sulle alte torri. Vuoto di altri guardiani, con tanto di sollievo per i due. Ricoperto però di rami e foglie secche, atti sicuramente a scoprire potenziali intrusi che le guardie potevano farsi sfuggire, come infatti era successo.
Dannazione, furbo il buon Lavion. Pensò astioso Radiclon, dimentico per un istante che Picchiavex poteva udire i suoi pensieri.
Lascia stare Lavion, per il momento. – lo richiamò l’aereo – Qui non resistiamo più.
Era vero. Lo stress, l’impegnativo volo con la forza magica, tutti quegli incantesimi attivati da una buon’ora. Dovevano assolutamente sbrigarsi e riprendere le energie.
Radiclon estrasse uno dei suoi pugnali. La lama sfilò senza far rumore dalla fodera, per abilità del proprietario come anche per l’uso dell’olio.
Tu pensi al vulcanico, io a questo qui. Le sentinelle non ci vedono, qui, ma dopo rendiamo invisibili i corpi…in qualche modo.
Picchiavex annuì.
Uno…due…tre!
Che Picchiavex avesse agito troppo in fretta o Radiclon troppo lentamente, non si poteva sapere. Il forestale però si portò con sé la colpa di quell’errore – come di molti altri – per il resto della missione…e della vita. Sta di fatto che mentre il vulcanico cadde velocemente, morto, il collo insanguinato, il terricolo se ne avvide prima che Radiclon potesse agire e, immediatamente e istintivamente, agitò convulsamente l’asta dell’alabarda dietro di sé, colpì qualcosa di solido, si voltò e assestò un forte pugno al nemico invisibile, che cadde sui ramoscelli secchi. Prese tosto un corno dalla cintola e soffiò, soffiò come un forsennato, emettendo il maledetto richiamo che avrebbe potuto porre fine ad ogni cosa. Durò poco: Radiclon immediatamente, ancora da disteso, esercitò il proprio controllo sul piede del soldato, facendolo inciampare e mandandolo a schiantarsi col mento a terra. Successivamente lo sbatté alla parete, in modo tale che non potesse muovere le labbra. Picchiavex lo finì con una stilettata. Ormai però il danno era fatto: si sentirono le campanelle delle sentinelle, su nelle torri di guardia.
Mentre Radiclon si alzava con un’espressione da pazzo e si metteva a correre, non notò alcun rimprovero nel tono o nello sguardo dell’aereo: non poteva tutto filare liscio, degli imprevisti sarebbero inevitabilmente successi. Tuttavia, Radiclon si sentiva responsabile…ma coi rimorsi avrebbe fatto i conti più tardi.
Muoviamoci subito. Presto qui sarà pieno di soldati. Dobbiamo entrare prima che ci impediscano di muoverci. A tutti i costi dobbiamo trovare Lavion! – gridò mentalmente, staccando, come anche Radiclon, alcuni morsi dal suo impasto – Il primo che lo trova lo uccide. Poi esce immediatamente, senza pensare ad altro. Tu vai da quella parte, io entro qui.
E si separarono, varcando le due porte distinte, tra loro opposte, all’interno del corridoio dell’ingresso, consci che probabilmente non si sarebbero rivisti. Il lavoro dell’assassino prevedeva anche questo: la consapevolezza che la propria vita era costantemente appesa a un filo, non solo quella dei loro bersagli. Radiclon era a conoscenza di questo rischio sin da prima di entrare a far parte di quel gruppo speciale, entrare nell’esercito equivaleva a mettere la propria esistenza al servizio degli altri, o di altro, spesso non facilmente definibile. Inizialmente l’idea non lo spaventava, si sentiva potente, sicuro di sé, merito degli insegnamenti di suo padre e delle piccole vittorie che lo avevano reso orgoglioso delle proprie potenzialità combattive. Ora era diverso: aveva già commesso un errore, e se Picchiavex non ce l’avesse fatta e lui sì, avrebbe avvertito un peso troppo grande per continuare.
Devo trovare Lavion al più presto. Devo almeno riuscire in questo.
Sfrecciando a passi silenziosi, merito delle capacità d’occultazione dell’armatura Neor’gani e degli insegnamenti ricevuti dal padre e dai precettori ka’nhili a Karmil, Radiclon correva a più non posso per i corridoi strettissimi dell’accampamento, morendo ogni volta che una squadra di soldati nemici accorreva contro di lui, invisibile, imprecando ogni divinità che conosceva alla ricerca di un modo per nascondersi e non urtare contro di essi, rivelando la sua posizione e andando così incontro a morte certa. Non aveva un percorso da seguire, era completamente da solo e allo sbaraglio nel bel mezzo dell’accampamento nemico, colmo fino all’esagerazione di soldati armati fino ai denti e dai visi non certo rassicuranti, tutti in allarme. Un allarme che lui aveva fatto scattare, lui, da solo e senza indicazioni in quel putiferio, l’unico compagno che avesse disperso nella stessa baraonda, e probabilmente nelle stesse condizioni di perdizione. Analizzò con cura ogni stanza, ogni camera, persino ogni sgabuzzino, arrivando al limite di sopportazione per tutte le magie che manteneva attive, appesantite da un’ulteriore incantesimo per migliorare la vista e poter penetrare attraverso le pareti di legno. Nessuna traccia al piano terra…sempre che si trattasse di piano terra: aveva sceso, salito, volato per un milione di scale, e non di rado capitava che si ritrovasse in un luogo già perlustrato. Decisamente, non era l’uomo ideale per quella missione. Non lo era per niente.
Continuò a ripeterselo, a gridare tra sé di voler tornare a casa, quasi convincendosi di essere un guerriero poco di buono, finché, alla fine, scrutando attraverso una porta piuttosto grande di quello che riteneva essere il secondo piano dell’abitazione temporanea, non trovò il suo obiettivo. Vivo. Picchiavex non l’aveva raggiunto prima di lui. Cominciò a temere il peggio e a sentirsi male; tuttavia, dai ka’nhili e dal severo padre aveva imparato un’altra cosa ancora più importante delle arti marziali: la disciplina e il controllo di sé. Aveva un compito da svolgere e l’avrebbe portato a termine, i suoi turbamenti passavano in secondo piano. Lui ora era una macchina senz’anima che obbediva ai comandi imposti dall’alto. Questo ora che si trovava sul campo e aveva perso occasione di contestare: nel ricevere gli ordini era suo diritto esprimere la propria opinione…ma, ancora una volta, stava divagando e perdendo tempo. Non aveva la benché minima idea di come entrare senza farsi notare. Se avesse aperto la porta come se nulla fosse, Lavion, pure se di spalle, seduto e da solo in quel grande stanzone, l’avrebbe notato. La fortuna fu incredibilmente dalla sua parte: un soldato, o un inserviente, insomma un gormita del Vulcano capitò alle spalle di Radiclon, facendolo sobbalzare; il forestale si fece rapidamente da parte, bussò alla porta di Lavion, ed entrò. Nel momento in cui quello stette per chiudere la porta, Radiclon colse l’occasione e sgusciò all’interno. Con un piede toccò la porta, che il vulcanico appena entrato non riuscì a chiudere del tutto immediatamente come desiderava. Radiclon sudò freddo mentre quello guardava sospettoso la porta…e la richiuse, senza rifletterci due volte!
Che razza di incoscienti! Ma lo sanno che c’è un intruso! – esclamò tra sé, al colmo della meraviglia; poi il suo umore cambio in un attimo – Oppure…dèi…forse si aspettano un solo intruso…e l’hanno preso. Deglutì; ascoltò con orecchio attentissimo quello che Lavion aveva da dire al nuovo arrivato. Radiclon non capì una sola parola. Con sua grande sorpresa, parlavano gormitico. Il gormitico antico, non la lingua vicia insegnata ai gormiti dopo il Grande Sacrificio. Radiclon conosceva solo quella e il linguaggio de ka’nhili. Si morse la lingua per l’impazienza.
Notò, mentre quelli parlavano, che Lavion sembrava piuttosto…assente, disinteressato. Sedeva su un modestissimo sgabello, pressoché nudo, non degnando di uno sguardo ma mostrando solo la possente schiena vermiglia, deturpata da un lato dai tentacoli di quella bestia che era il suo braccio destro, all’uomo venuto a informarlo di chissà cosa.
Che c’è stata un’intrusione ma hanno catturato il nemico! – si immaginò furioso Radiclon – Fendril, se è davvero così…
Sedeva su quel modestissimo sgabello, Lavion il triumviro, intentissimo a scarabocchiare su un’enormità di fogli stesi su un’ampia scrivania. L’intera superficie della stanza, invero, era tappezzata di fogli. Fogli colmi di disegni a dir poco bizzarri, stravaganti. Schemi anatomici di quelli che sembravano organi, arti, talvolta interi organismi che tuttavia Radiclon non riconosceva. Riconosceva, però, che in quegli schizzi e nelle parole che li accompagnavano c’era qualcosa di orrendamente disgustoso e spaventoso, per non dire blasfemo. Sbagliato, malvagio.
Finalmente il messaggero fu fuori dalla stanza, e Radiclon si ritrovò con soddisfazione solo con la sua preda. Non si aspettava di certo che sarebbe stato lui il primo a portare al successo la prima delle tre parti del mandato di assassinio, non dopo l’errore iniziale. Avanzò con un’insolita, ritrovata sicurezza, il coltello preferito stretto tra le sette dita. Lavion non sospettava di nulla, essendo Radiclon tuttora invisibile e quieto come da manuale.
La morte si impadronì rapidamente del triumviro. Fu un’esecuzione incredibilmente facile e disinvolta, un banale passaggio della lama affilata sulla gola del tiranno rosso. Radiclon stentava a credere della facilità del compito, osservando senza capire bene quale sentimento fosse predominante tra i tanti che avvertiva scorrergli nelle vene il corpo senza vita dell’anziano vulcanico disteso sulla sua scrivania, i fogli a cui lavorava con tanto ardore imbrattati dal caldo rossore che gli sgorgava dal collo e dalla bocca.
Ottimo. Devo uscire immediatamente, adesso. Potrei usare la finestra.
Si agitò per la stanza senza sapere come proseguire, cercando di non posare gli occhi su quelle carte che lo mettevano curiosamente a disagio e gli instillavano un ancestrale bisogno di fuggire da quel posto; allo stesso tempo, non si sbrigava ad organizzare le idee e formulare un piano di fuga, strappando gli ultimi morsi dell’impasto energetico.
Presa infine la via per la porta, e stette per attivare l’incantesimo per osservare chi ci fosse e cosa accadesse dall’altra parte, quando, in un istante, qualcosa strisciò alle sue spalle con un sibilo pauroso. Non solo strisciò, ma alle sue spalle si avvinghiò pure, aderendo ad esse con ventose viscide e straordinariamente calde. Incandescenti. Radiclon fu colto dallo spavento più totale e si mise a gridare. Si divincolò, barcollò in ogni direzione, dimenò invano le spesse braccia all’indietro cercando di afferrare quella cosa che pareva stesse penetrando nella sua corteccia. In più, un…un’arma, un’appendice, qualsiasi cosa fosse, qualcosa di tagliente ed appuntito attentava al suo collo e ai suoi capelli legnosi, grattando e graffiando. Le spalle volte alla porta nel panico, avvertì dunque una terza presenza, possibilmente amica, che gli strappò quell’affare dalla schiena e lo gettò a terra con violenza. Radiclon si catapultò immediatamente da un lato, per avere una chiara visuale di che cosa stava accadendo. Una gormita ben familiare stava riversando cascate di fiamme su un minuscolo essere grigio, una sorta di testa di piovra munita di una grossa protuberanza a forma e funzione di chela. Un essere che si ostinava a non morire, nemmeno sotto i fiumi di fuoco che Sputafuoco, perché di lei si trattava, faceva ricadere su di esso. Soffiava, gemeva versi indescrivibili di un’acutezza lancinante, bruciato eppure ancora non morto. La sua scorza aliena sembrava non subire danni. Dopo sforzi inumani da parte di Elasian, il braccio-chela di Lavion cominciò a cedere: la pelle grigia mutò colore, facendosi più scura, si rattrappì e stropicciò e le sue urla si fecero via via più leggere fino a scomparire, e con esse la vita di quel mostro misterioso, infame e rivoltante.
 
Radiclon non credeva che lo avrebbero mantenuto per il resto della missione di assassinio. Gli pareva di essere stato abbastanza chiaro, al capitano Trematerra e ad altri alti dirigenti dell’esercito congiunto. Non c’era stato verso, ed ora il forestale si ritrovava in acqua. A diversi piedi di profondità. In groppa a un nautilo gigante, e con lui altri gormiti su altri nautili, compresi i suoi compagni di missione, e il sostituto di Picchiavex, un marino.
Il forestale davvero non ci credeva, non voleva proprio crederci, mentre contemplava la meraviglia della magia di sostentamento acqueo. Percepiva l’acqua, la sensazione del bagnato e del freddo di quelle non troppo modeste profondità; coglieva la salinità del liquido oceanico, tagliente sulla sua pelle di cellulosa, pungente all’olfatto. Ciononostante, i suoi occhi non erano limitati dal contatto con l’acqua, poteva tenerli aperti quanto voleva senza che il mare li ferisse in alcun modo; poteva inalare con quanta potenza poteva chiamare alle sue membra, l’acqua non sarebbe penetrata nelle sue narici. Lo stesso valeva per la bocca, anche se questo creava delle complicazioni per quanto riguarda il dissetarsi. In genere, però, si trattava di un incantesimo riservato per brevi tratti e breve permanenze in ambiente subacqueo. E quello era un caso appartenente al genere.
Eppure quella insolita meraviglia non era sufficiente a soffocare il disappunto. Era stato chiaro al capitano Trematerra e allo stesso Signore della Foresta, o così gli era parso: per causa sua era scattato l’allarme, provocando indirettamente la morte di Picchiavex e la pericolosa entrata in scena di Sparafuoco per avere una chiara idea della situazione – la stessa Sputafuoco che aveva suggerito di dare alle fiamme l’accampamento per facilitare la fuga.
A nulla erano valse le dichiarazioni della sua inquietudine, del suo tormentato stato mentale, della sua ripetuta inadeguatezza al compito. Ripetutamente, e con nessuna violenza, era stato iniquamente e stupidamente ignorato: lo volevano in quella missione e lui ci sarebbe stato. Non riusciva a spiegarselo.
Come, del resto, era difficile spiegarsi l’occupazione da parte del Vulcano di Iustinsula.
È stata una delle prime conquiste dei Triumviri. Enunciava Helico, nuovo assassino della squadra, scintillante nell’armatura dorata, che conduceva il nautilo su cui sedeva Radiclon e, dietro, Darnogos.
Penso che lo sappiano, Helico. mormorò seccato un altro marino, gigantesco, anche lui in armatura dorata.
In più di un anno non si ha ancora idea del perché di questa mossa, generale Eraclion? domandò Tremoriu.
Assolutamente no. – rispose, con una nota di frustrazione – Iustinsula non a praticamente nulla che abbia un reale valore. È una minuscola isola con un vecchio palazzo adibito a museo, e nient’altro. Ritengo che la sua conquista sia stato più un gesto simbolico che altro.
Eraclion il generale discorreva meccanicamente e freddamente, con costanti sfumature di impazienza, guardando fisso nell’acqua innanzi, dove prendeva forma piano piano la sagoma sottomarina di Iustinsula; discorreva senza movimenti di alcun genere, del capo e delle braccia. Nuotava, ‘a piedi’, senza nautilo gigante, con leggeri moti delle large zampe palmate e piccole torsioni delle pericolose chele acquamarina, per controllare l’acqua intorno e spingersi per mezzo di essa in avanti, o in qualsiasi altra direzione volesse. Si trattava di un gormita estremamente massiccio, Radiclon provava un brivido di timore solo a guardarlo, alto quasi quanto Thorg Signore della Terra e spesso altrettanto. L’armatura dorata di fattura ka’nhili lo rendeva ulteriormente minaccioso e, nel modo più semplice ed evidente, grosso e temibile, nascondendo pressoché ogni parte del corpo fuorché le chele, i piedi e la testa: occhi rosa sottili tra delle squame a corona a un’estremità e alcune paia di tentacoli azzurri dall’altra, sotto e agli angoli della bocca, una fessura rigida e severa.
Diversa era la situazione per Helico: anche lui visibilmente robusto, e ancor maggiormente, allo stesso modo, rinforzato dalla corazza di Karmil, merito di una copertura naturale di scaglie più dure che assumevano la forma di conchiglie: di bivalve blu ciano sul capo, chiocciole cristalline su petto e spalle; dagli avambracci si dipartivano due conchiglie a spirale. Tuttavia era straordinariamente più minuto del suo generale, basso sotto la media gormitica.
Sì, è opinione comune. – disse dunque il capitano – Ci potete fornire notizie più precise sulla presenza di Magmion?
La zona nei dintorni dell’isola è stata sempre poco trafficata dall’inizio del conflitto. – illustrò Eraclion – Pochi vulcanici di stanza e ancora meno marini di guardia, e nessuno con l’interesse o l’ordine di riacquistare l’atollo. Poi di recente la presenza di navi si è intensificata, e la rocca dava segni di essere fissamente abitata. Da quando sappiamo di Magmion, strane luci e strani rumori provengono dall’interno. Riteniamo stia conducendo degli esperimenti, ma non sappiamo perché qui o di che genere.
State certo che lo scopriremo, generale. Giurò Tremoriu.
Dopo che l’avrete tolto di mezzo. Appuntò lui.
Ovviamente. La priorità è la sua morte. Come agiremo?
Nella maniera più diretta e semplice. – disse, e finalmente le sue labbra si incresparono in qualcosa che non era un broncio infastidito – Abbiamo mobilitato un battaglione di nautili giganti e di gormiti del Mare. La cavalleria si occuperà delle navi; il resto dei soldati, me compreso, approderà sulla spiaggia e avanzerà verso la rocca, eliminando ogni ostacolo.
Un piano ben diverso dall’infiltrazione tutta mistero, cautela e occultamento nell’accampamento nevoso di Lavion Magmadoni. Radiclon, Trematerra, Eraclion, Helico e gli altri due assassini non erano infatti affatto da soli, né erano solamente due i bestioni cefalopodi su cui cavalcavano i guerrieri, che avanzavano nell’acqua con curiosi e interessanti movimenti dei numerosi tentacoli – Radiclon li vedeva dal vivo per la prima volta: li dispiegavano lateralmente e, letteralmente, li distendevano, li facevano appiattire e si tiravano nella massa fluida adoperandoli come remi.
Oltre a quei due, ve ne era come minimo un’intera dozzina, sparpagliata tra il battaglione comandato da Eraclion, che appariva, fitto com’era, come un vero e proprio banco di pesci, compatto e indivisibile, unito fino alla fine della sua marcia. Un piccolo esercito di tanti nuotatori tinti di tonalità di blu, equipaggiati con le armi tradizionali del popolo più diverso dagli altri: tridenti, arpioni ondulati, ancora tridenti, coppie di spade ricurve, scudi ovali dipinti con forme di animali marini. I gormiti del Mare erano inoltre accompagnati non solo dai nautili giganti, ma da una grande varietà di animali: foche, delfini, con una punta di paura Radiclon notò persino alcuni squali, i quali però erano lì probabilmente in veste di fin troppo curiosi visitatori, attratti dal grande movimento, che di accompagnatori.
Lo Stretto di Gorm non era eccessivamente profondo, anzi, era quasi paragonabile a un lago per quell’aspetto, né era, dall’altra parte, molto ampio. Vedere quell’esercito così allargato pur se contando di pochi uomini rispetto a quelli che il Popolo del Mare poteva offrire per intero, in quelle acque ristrette, era una vista mozzafiato. Allo stesso modo incutevano una certa preoccupazione le ombre sulla superficie dell’acqua e le parti di chiglie che affondavano delle navi da guerra ormeggiate poco più di un piedone d’altezza; per quella stessa limitata profondità, il distacco che potevano accumulare i soldati del Mare dal nemico che – si sperava – non li sospettasse minimamente era discreto.
Tutto questo movimento per coprire la nostra entrata? Domandò inquieto Trematerra.
Tutto questo movimento per coprirvi. – gli rispose infastidito dal tono della richiesta Eraclion – Tutto questo movimento non è tanto quanto sembra. Sufficiente per eliminare le forze che tengono sotto scacco l’isola. Se ti preoccupi per le conseguenze di quest’attacco, rilassati. Il Signore del Mare lo ha fatto passare tra il Popolo e per i nemici come una riconquista simbolica, una riconsegna allo stato di neutralità di Iustinsula. Nessuno sa del vero obiettivo, qui, fuorché me e altri pochi ufficiali, e nessuno là fuori sa che sappiamo che Magmion si trova qui o sospetta che ricerchiamo la morte dei Triumviri, anche se morto Lavion e morto Magmion, un sospetto se lo faranno sicuramente. Ma la strage all’accampamento del secondo fratello Magmadoni è passato solamente come un attacco per indebolire le forze d’assedio ad Orsol. Davvero, non c’è nulla da temere. – lo tranquillizzò infine con uno sguardo e un tono sereni – …tranne gli esperimenti di Magmion, forse.
Per precauzione sono nel battaglione anche gormiti di altri Popoli, come voi. Ci tenne a precisare Helico, titubante.
Siamo con voi, generale Eraclion. – lo rassicurò il capitano, facendo un cenno al sottoposto che aveva appena parlato – Il successo di questa missione lo dovremo a voi e ai vostri uomini, tolti da campagne ben più importanti di questa. Presto sapranno, spero.
Sperate che la missione abbia successo, piuttosto. Non datelo per scontato. Lo ammonì Eraclion, d’un tratto di tutt’altro umore.
La piattaforma della spiaggia era ormai a pochi piedoni di nuoto; si stavano lasciando le navi alle spalle, non avvistati, e presto il livello del mare si sarebbe abbassato fino a portare allo scoperto l’intero plotone, che si risistemava per adeguarsi al fondale sabbioso sempre più convergente con la superficie dell’acqua.
Separatevi dai nautili giganti. – comandò dunque Eraclion – Serviranno a tenere a bada le navi. Non appena usciremo dall’acqua, attaccheremo subito. Helico!
Comandò al nuovo assassino della squadra di far scendere gli uomini di Trematerra dalle bestie del mare, da consegnare e far cavalcare ad altri marini, i quali si sarebbero separati insieme ad altri per ritornare indietro e…
I ragionamenti e le osservazioni di Radiclon furono, in pochi istanti, bruscamente interrotte da potenti sensazioni. Inizialmente, un forte sibilo che si faceva sempre più vicino alle sue orecchie, accompagnato da un misterioso ribollire. Dunque un improvviso bruciore alle spalla, e infine un’atroce rivelazione: erano stati scoperti!
Dalla superficie, in prossimità delle imbarcazioni militari, le ombre dei nemici gettavano giù in acqua arpioni di legno dalla punta metallica e arroventata. Scagliati attraverso il denso liquido con potenti incantesimi, che permettevano alle armi di raggiungere profondità impossibili da toccare con la semplice forza di un braccio. I medesimi arpioni, poi, ritornavano a galleggiare in superficie, a vantaggio dei vulcanici sulle navi che li potevano ripescare e riutilizzare. Alcuni di Eraclion furono feriti, ci fu del sangue di nautilo gigante che si disperse nell’acqua.
Presto! – urlò Eraclion – Squadra Principe, squadra Murena e squadra Kraken, con me! Usciamo!
Il suo grido fu emesso oltre i campi mentali di Radiclon, Helico e dell’immediata vicinanza, per raggiungere i sensi mentali dell’intero esercito; almeno un centinaio di uomini si mosse, separandosi dagli altri e seguendo i comandi del generale. Tutti insieme, nuotarono con grande velocità, abbandonarono l’inferno di arpioni infuocati e muggiti di nautilo, e poco a poco ma rapidamente le teste di ognuno emersero dall’acqua. L’inferno, questa volta, fu scatenato dai marini appena usciti: l’acqua della riva si riversò tutta sui primi nemici in vista, abbattendoli o trascinandoli all’interno, conducendoli a una morte ben più dolorosa, i polmoni che si riempivano pian piano di acqua che non riuscivano ad espellere, l’ossigeno irrecuperabile.
Radiclon avvertì che era umido, fuori dall’acqua, e non lo doveva unicamente al fatto di essere ancora bagnato di mare. Era il tipico clima da stagione piovosa: aria umida e densa, nubi temporalesche violacee di rabbia tuonante e fiammeggianti di folgori sovrastavano il discreto e pacifico isolotto di Iustinsula dalla sabbia biancastra solcata da calzari militari, facendo assumere un aspetto per la prima volta spettrale e minaccioso alla secolare rocca di pietra chiara. Rombi di tuono scuotevano di tanto in tanto le pareti del palazzo e le statue dei due Principi di Gorm all’ingresso, sotto i cui occhi scorrevano vulcanici armati invasori, lingue di fuoco e getti d’acqua.
Farsi strada verso l’ingresso, verso qualsiasi apertura che portasse alla sala centrale della rocca, dove sicuramente Magmion si trovava, non fu affatto facile. Ma non fu nemmeno incredibilmente difficile: gli uomini di stanza sull’atollo, era vero, erano davvero in pochi. Trematerra ne inghiottì contemporaneamente quasi dieci con lo Squarcio del Behemoth; Helico dava tutte le sue energie e spremeva tutto il potenziale dell’armatura dorata per concentrare raggi di luce con cui disfarsi dei nemici e talvolta, lontano ormai dalla riva, attingeva acqua da una bisaccia che portava con sé, generando dardi acquei e circondando la bocca e il naso degli avversari con bolle d’acqua, che richiamava unicamente quando quelli spiravano ‘annegati’; Sparafuoco, con foga vendicativa inusitata, trucidava quanti più vulcanici possibile con il loro stesso potere del fuoco e con impeccabili mosse di arti marziali. Per la sua stessa gente, doveva covare un odio profondo, Radiclon se ne meravigliò e spaventò al contempo. Il forestale esercitava quanto più possibile il controllo della materia organica, spezzando a distanza le braccia dei soldati, facendoli inciampare o perdere la presa sulle proprie armi, e sbarazzandosene con colpi di luce o di ombra – non era ancora riuscito a comprendere quale via fosse la preferita, la più facile ed efficiente per lui. Tutti i presenti più vicini, in modo particolare Trematerra ed Helico, si fermavano nella loro corsa e nella lotta per osservare quel prodigioso quanto orribile potenziale del Popolo della Foresta che in Radiclon si era manifestato con così impetuosa intensità. Per quanto fossero assassini provetti, chi più chi meno, non mancarono ferite, anche gravi, come una freccia in pericolosa prossimità del collo a Darnogos, e un bestione della Foresta traditore della patria che era un vero maestro della forza magica, e sbatacchiò Trematerra con aggressività animale, fin quasi allo stremo se non fossero intervenuti Helico e Radiclon a bloccarlo ed ucciderlo. Erano assassini provetti, e per questo non erano adatti allo scontro in campo aperto: colpi veloci, rallentare o fuggire dagli avversari, evitare di essere attaccati e attaccare poco, perdere poco tempo. Poiché non era nessuno dei soldati fuori dalla rocca il loro obiettivo.
 
“So che ci siete.” Annunciò Magmion Magmadoni in un ringhio tenebroso.
La camera centrale della Rocca di Iustinsula non era affatto come i presenti ricordavano e come Radiclon – che vi entrava per la prima volta – se l’era immaginata dai racconti e dai libri. Gli spalti, le pareti divisorie, il ‘palco’ mezzano circolare, ogni cosa era al suo posto. Ma laddove in genere, per decenni, c’era stato il vuoto, la polvere, e solo di recente dei panni di stoffa decorati ed utilizzati esclusivamente quando Iustinsula era presidiata, ora c’era tutt’altro, nulla che i presenti potevano aspettarsi con esattezza. In un modo non dissimile da come era tappezzata di carte ed appunti la stanza di Lavion all’accampamento – di questo però potevano avvedersene solo Elasian e Radiclon – la stanza che il fratello aveva illegittimamente occupato come sua era ricoperta di ogni genere di fogli, anch’essa. Pareva però che Magmion, oltre alla teoria, si dedicasse anche alla pratica. Così, su ogni spalto, su ogni gradino, per terra, appiccicato ai muri si trovavano non solo scarabocchi impensabili, ma tutte delle varietà di alambicchi, di marchingegni che i Semidéi soltanto potevano indovinare a cosa servissero. Barattoli di vetro ripieni di strani liquidi colorati e maleodoranti, strane pietre dall’aspetto malato, polveri misteriose, strumenti da taglio, da incisione di tutte le forme misure e un gran numero di lenti, ciuffi di erbe sconosciute. Da una scatola chiusa e forata proveniva un ronzio fastidioso e non promettente; su un lettino di legno a rotelle, giaceva persino un cadavere di SSX: fresco, squarciato e con alcuni organi prelevati e riposti chissà dove.
“Bene. Sapete che ci siamo, triumviro. Dopotutto abbiamo aperto la porta e non vi siete voltato a controllare. Sapete anche perché siamo qui?” ribatté sicuro di sé il capitano Trematerra, ancora invisibile.
Dopo le ultime lotte, infatti, la squadra mandata ad assassinare uno dopo l’altro i supremi capi della rinascita gormitica era giunta ai piedi della scultura di Carrapax e del Principe di Gorm prima di lui, giusto un piedone all’ingresso vero e proprio della rocca. Pur essendo riusciti ad arrivare sin lì più o meno integri, non c’era speranza di poter oltrepassare le statue ed entrare in sicurezza. Non se chiunque poteva vederli. Colsero la prima occasione buona per attivare incantesimi ed abilità di occultamento e, non più sotto tiro, riuscirono a varcare l’ingresso. Una volta dentro, si liberarono quando necessario dei soldati a difesa degli interni, e sempre silenziosamente – il gocciolamento di Helico fu un problema passabile, in più i suoi passi non lasciavano impronte bagnate, grazie ai sandali dell’armatura e allo speciale vestiario al di sotto – ed arrivarono in pochi balzi alla camera centrale; osservando magicamente dall’esterno, chiusa la grande porta, vi notarono Magmion di spalle, che camminava e camminava, a vuoto, apparentemente, su uno degli spalti superiori, studiando alcuni di quei suoi strani strumenti. Dovettero aprire il portone per forza di cose, emettendo un gran chiasso, ma Magmion non se ne era curato affatto. Con un lungo mantello nero che gli arrivava a coprire persino la robusta coda grigia e vecchia, e corazzato di tutto punto con una pesante armatura grigio metallico dalle rifiniture ambrate, le uniche parole che rivolse a quelli che dovevano essere inaspettati, invisibili visitatori fu il sapere della loro presenza – dopo aver aperto la porta, del resto, chiunque avrebbe potuto dirlo. Ma l’aveva fatto con serenità…una preoccupante, spaventosa serenità, che nascondeva sicuramente qualcosa di ancor più agghiacciante. Gli esperimenti a cui sembrava lavorare lo lasciavano senz’altro presagire.
“Non ne ho idea, ad essere sincero.” mugolò, voltandosi dunque e mostrando agli ancora trasparenti assassini la sconfortante pienezza della sua corazza, solidissima e luccicante, ricoperta di aguzze punte, soprattutto sulle spalle, dove le naturali spalliere del Signore e Saggio del Vulcano erano state rinforzate da una doppia copertura simile a una sega circolare, in mezzo alle quali scorreva il mantello; in mezzo al quale, a sua volta, emergeva il capo rosso come un tizzone, tremendamente tranquillo, le grosse labbra pesanti ed abbandonate.
“Non ne ho un’idea certa. – continuò a parlare, braccia dietro la schiena, guizzando le pupille affilate a destra e a sinistra – I motivi possono essere molti. Liberare quest’isola. Uccidermi per qualche strana ragione. Impedirmi di portare a compimento il mio progetto. Strano che qualcuno ne sappia, ma d’altronde sapevate che mi trovavo qui. Potete sapere molto più di quanto tema.”
Era incredibilmente convinto che le presenze nella camera fossero più di una. Una soffiata? No, improbabile: semplicemente, Trematerra comandava ai suoi uomini di disporsi nel più completo mutismo in zone diverse della sala, e Magmion avvertiva gli spostamenti d’aria e piccoli suoni.
“Una di quelle tre opzioni è quella giusta. – vociferò infine Trematerra, guardandolo a sua insaputa dritto negli occhi – La morte vi attende, sir Magmadoni.”
“Non ne sono così sicuro, invisibile!” gridò quello. Sollevò l’arpione, lo puntò verso l’alto e mormorò un incantesimo tra le labbra. I cinque dotati di vista magica videro quel che sembrava un soffitto luminoso, d’un abbagliante azzurro, precipitare dal soffitto, reale, di pietra, della sala, e abbattersi sul pavimento e su di loro. Terminata la luce, Magmion scrutò ognuno dei presenti negli occhi: le loro magie erano state annullate.
“Sapete cos’è questo? – esclamò, estraendo anche l’altro braccio e rivelando un oggetto di vetro e legno che vi teneva stretto; dentro vi ardeva una fiamma, rossa di un rosso eccezionale per un fuoco ordinario – Questa…è una fiamma di Magor. Raccolta dal suo corpo, quando era qui su Gorm, maledetto dal Vecchio Saggio! Nascosta qui…sapete cosa significa possederla? Che io posso evocare Magor, dovunque egli si trovi. Farlo comparire qui ed ora, come Spirito Rosso! Posso farlo, ogni cosa è pronta…e lo farò!”
Tutti tremarono a quelle parole, Radiclon compreso che di cosa fosse uno Spirito Rosso non ne aveva la minima idea. Strappare la consapevolezza di un individuo, indipendentemente da dove si trovi, dalla distanza che lo separa dall’evocatore. Renderlo vivo e cosciente in un corpo etereo ed immateriale, portando il suo corpo in uno stato comatoso dal quale, una volta terminato l’incantesimo, ci si risveglia patendo dolori incredibili. Purché si avesse a disposizione un pezzo, una briciola di quell’individuo, un’unghia, un pelo, una goccia di sangue…era possibile richiamare la sua essenza nella forma di uno spettro infuocato, senza alcuna limitazione. Nemmeno quella della morte. Un incantesimo intricatissimo, estremamente potente e solennemente blasfemo, ecco di cosa si trattava e perché tremarono dal terrore.
Nessuno ebbe la velocità sufficiente di balzare sul folle Magmion e impedire quell’ardita impresa che avrebbe arrecato solo guai, che avrebbe potuto significare la fine, sì, la fine della guerra come anche della pace. Il triumviro si voltò, raccolse una polvere, un’acqua giallastra, ruppe il contenitore di vetro. E urlò spaventosi verbi nella lingua della magia.
Dall’oggetto a forma di clessidra si sprigionò dapprima una nube nera, accompagnata da un forte tuono. Poi, un urlo lancinante, che costrinse tutti, fuorché Magmion che fissava stralunato ed estasiato, sorridendo da folle, il risultato della sua magia, a tapparsi le orecchie: la nube nera si fece rossa, di un rosso cupo e sanguigno, e si rapprese. Da informe che era, si raccolse nella sagoma di una figura…una figura che nessuno aveva prima d’ora mai visto. Una figura elfa, nuda, su questo erano sicuri. Longilinea, in forma, leggermente muscolosa, impube come da moda dominante elfa e dai folti riccioli che gli ricadevano fine e oltre le spalle. Non lo Stregone di Fuoco che i presenti si aspettavano o come se lo ricordavano da chi raccontò di averlo visto al tramonto della Battaglia nella Pianura delle Nebbie. Oppure sì?
“Magor! Sommo, potente Magor! – esclamava Magmion, e si inchinava, si prostrava, pareva stesse baciando il suolo – O Stregone di Fuoco Siete di nuovo con noi! Il Vulcano non è morto, senza di voi. Stiamo conquistando Gorm, finalmente.”
L’opaco elfo rosso non replicava, anzi, ignorava Magmion. Il suo sguardo opaco e rosso era uno sguardo colmo d’ira, di frustrazione, di odio incommensurabile erano tinte le sue labbra strette in un arco incredibile che palesava tutti i denti. Questi suoi occhi atroci ed insostenibili erano fissi nel vuoto, non avevano obiettivo. Radiclon, nella confusione e nel gelo paralizzante che dominavano il suo essere, fu grato che quell’ombra sanguigna non stesse fissando nessuno: se solo gli occhi senz’anima di quell’essere spettrale avessero incontrato quelli di Radiclon, sarebbe come minimo fuggito per non ritornare mai più. Solo mantenere lo sguardo gli costava una grande paura e un batticuore sfrenato. Pure in quelle condizioni, raggiunse una conclusione: dovunque fossero stati abbandonati dal varco spaziale i diversi guerrieri nel 861, lì Magor era infine, dopo decenni di tormenti e di sconfitte, riuscito a debellare la maledizione. Aveva riacquistato il suo corpo da elfo, conservato giovane dalla stessa magia.
“O Stregone di Fuoco! Diteci qualcosa! – seguitava a vociare esaltato l’ultimo fratello Magmadoni – Raccontateci! Del Vecchio Saggio e dell’Occhio della Vita! Diteci dove siete…il vostro posto è qui.”
Fu un attimo, un secondo urlo lancinante. La figura di Magor si slanciò contro Magmion, gli trapassò l’armatura e il petto con quelle braccia quasi immateriali, facendo gridare il gormita a sua volta; dopodiché, mantenendo quegli indicibili denti stretti in una rabbia feroce, prese il controllo di Magmion con l’ombra, lo sollevò, lo strinse e lo scagliò contro il muro opposto.
“M-Magor! Non capisco…cosa fate?! – gridava incredulo, Magmion, alle spalle di Trematerra – Abbiamo fatto come avete detto voi! Il messaggio…”
Magor non aveva orecchie per quelle parole. Non aveva orecchie per nulla. Riacquistò la presa su Magmion, e questa volta non la abbandonò. Il povero, folle gormita urlò con quanto fiato aveva, con tutto il fiato che aveva in corpo, finché i suoi polmoni non scoppiarono dalla sforzo e dalla irresistibile stretta dello scatenato Spirito Rosso di Magor. Doveva essere sicuramente ammattito: anni ed anni di elisir di lunga vita avevano avuto la meglio su colui che fu un glorioso e decorato Signore del Vulcano per più volte, membro della stimata famiglia Magmadoni. Non aveva capito – e in quel momento nemmeno Radiclon capiva – che Magor…era morto. Solo così si poteva spiegare l’animalità, la mancanza di controllo, di riconoscimento delle persone e delle parole da parte dello spettro. Richiamato dalla dimensione della morte, da un luogo in cui sarebbe dovuto rimanere, ritornava a vagare tra i vivi per volontà e forza non sue, e solo la rabbia per essere stato strappato dal suo posto governava quello spirito. Il quale disponeva tuttavia di tutta l’esperienza e le conoscenze raccolte in vita, che erano ora succubi della rabbia.
Morta la sua prima vittima, il fantasma di Magor aveva ancora molta rabbia da sfogare. Non si sarebbe mai conclusa. Nessuno sapeva come agire.
 
“Di nuovo a correre in un bosco?” esclamò incredulo Darnogos, adocchiando gli arbusti che erompevano dal suolo e ornavano la pianura della Valle del Vulcano. Esattamente come su Picco Aquila, alcune decimane prima, il loro obiettivo, la loro ultima meta come squadra segreta di assassini esperti in mille e uno modi di uccidere, si trovava oltre – o all’interno – di una selva.
Contrariamente agli alberi che costellavano in comunità gli altopiani e i dirupi della grande montagna di Gorm, e contrariamente persino ad ogni vegetazione legnosa che Radiclon conoscesse, che si trattasse delle palme esotiche di Karmil o della selvaggia e rigogliosa flora di Dalarlànd, il bosco che attraversavano in quel momento instillava strane sensazioni nei cuori di ognuno dei cinque presenti. Che si trattasse degli alberi? Avevano una strana forma e un’assurda configurazione; sembrava come se non appartenessero a quell’ambiente, a nessun ambiente che i gormiti conoscessero. Non avevano un vero e proprio tronco, si strappavano dalla terra direttamente lacerati in tre o quattro poco robusti rami che si protendevano verso l’alto in andamento sinuoso; in cima, si estendevano dunque in orizzontale e solo in questa parte crescevano dei veri rami frondosi, quasi esclusivamente sulla parte superiore. Tantissimi minuscoli rami su cui gemmavano foglie piccolissime di sagome assolutamente non geometriche, irregolari. Per di più, la corteccia di tali misteriosi arbusti era…tendente al nero, ruvida, quasi vetrosa e in certi punti sfibrata e sfilacciata, rivelando il legno più tenero e chiaro all’interno. Somigliava da questo punto di vista a una vite. Per il resto, quegli alberi in quel territorio del Vulcano non avevano metro di paragone, e si poteva dire avessero l’aspetto, collettivamente, di un bosco innaturale, anomalo, deturpato da chissà quale strano fenomeno atmosferico o geologico. O gormitico.
Che si trattasse di trovarsi in pieno territorio vulcanico, al largo della ricostruita città portuale di Ilabukh, soli tra un mare di nemici che poteva emergere e distruggerli e farli sprofondare senza che nessuno sapesse mai della loro esistenza e della loro ardita missione? Di certo, se di questo si trattava, il loro animo agitato non lo era esclusivamente perché poggiavano le piante dei piedi su un terreno instabile, per lo più sconosciuto che poteva rivoltarsi loro contro e su cui ben pochi gormiti fuorché di Vulcano – e di Aria – erano passati nei decenni dal Grande Sacrificio, ma della fattura stessa di quel territorio. Superficialmente sabbioso e secco, bruciante come il potere di chi vi abitava, e al di sotto una piattaforma di terra compatta e solida, che sembrava trattenesse il calore della lava che – si diceva – scorresse senza sosta sotto ogni piede quadrato della Valle del Vulcano che aveva, sempre secondo leggenda e tradizione, un tempo ricoperto quelle vaste pianure, come anche del fuoco che i gormiti del Vulcano avevano evocato ed evocavano sopra di essa. Seppure non dell’infuocata ruggine che domina Garsomor e la Valle dei Canyon, anche quel suolo era di una leggera tinta rossastra; e qua e là, immancabili, spuntavano diversi, seppure finora molto piccoli, di quelle misteriose pietre scure e nere dalla superficie scabrosa che tappezzavano la parte a nord del Deserto di Darth Kuun. Una superficie insolita e incognita su cui camminare, per di più resa ulteriormente inconsueta da un elemento che i presenti, senza davvero spiegarsi perché, dopotutto le stagioni erano le medesime anche lì, non si aspettavano di trovare nella terra della guerra e del fuoco: la pioggia.
Le nuvole minacciose e sfolgoranti di dorati fasci elettrici che avevano incorniciato l’assediata rocca di Iustinsula con il loro roboante grigiore, appena una decimana prima, qui, ad alcune centinaia di piedoni dal centro di Ilabukh e non lontano dalla costa, si erano scatenate e riversavano sul bosco non troppo lontano dalla spiaggia un mare di fitte ed allungate gocce. Tranquillamente: non c’era vento burrascoso, né alcun sussurro di tuono o bagliore di lampo. Pioveva, a dirotto, e nulla più, inzuppando le armature Neor’gani – dorata per Helico, che della pioggia era più che entusiasta, potendo combattere con la sua umidità al pieno delle sue capacità – e trasformando in una farinosa fanghiglia il sottile strato sabbioso del bosco, che certo, sui piedi dei guerrieri, si sarebbe dimostrato un ostacolo una volta raggiunta la sede di Orrore Profondo.
Taci, Darnogos, per cortesia. – vociò mentalmente Trematerra – La copertura del bosco è ottimale. E poi ci siamo dentro da un po’, perché ne parli solo ora?
Pensavo fossero degli alberi isolati. Non sono molto fitti. Si giustificò quello.
Grazie alla pioggia l’analogia con la prima parte della missione su Picco Aquila era ancora più accentuata: marcia silenziosa attraverso una zona silvestre accompagnata da una precipitazione. Nevosa nel primo caso, piovana in questo, l’ultimo. Nella mente di Radiclon ciò creava una strana quanto non del tutto gradevole sensazione di deja vu e di cerchio che si chiude, di eventi che si ripetono. Da una parte sperava che l’assassinio di Orrore Profondo potesse concludersi bene come si era concluso quello di Lavion; dall’altra, sperava che le cose non andassero esattamente come erano andate la prima volta. Non era ancora riuscito a superare la perdita di Picchiavex, per cui si sentiva in minima parte responsabile. “Non era abile come te.”. Questo gli avevano detto. Radiclon non ci credeva: quel ripetuto e ormai sgradito elogiare dei suoi poteri non lo soddisfaceva affatto né lo faceva sentire meglio per quello che era successo.
Fino a qui nessuna trappola. – mormorò Elasian inquieta, facendo vibrare l’unico occhio a destra e a sinistra, in alto e in basso, convintissima che, da qualche parte, ci fosse un indefinito orrore nascosto pronto ad ostacolarli; pareva, quasi, che lo desiderasse – È sospetto.
Potrebbero non aspettarci affatto. Disse il fin troppo ottimista Helico.
Manca ancora un po’ prima di arrivare da Orrore, secondo le nostre informazioni. – soggiunse Trematerra, guardingo – È sospetto anche per me. Non montiamoci la testa e non abbassiamo la guardia. Qualcosa ci aspetta di sicuro più avanti, e l’ultimo triumviro non può di certo essere troppo tranquillo, dopo ciò che abbiamo fatto.
Sappiamo, capitano, – prese parole Radiclon, incerto – se è cambiato qualcosa sui fronti con la morte dei due Magmadoni?
A Picco Aquila l’assedio di Orsol va a rilento. – cominciò ad elencare – In genere, le forze nemiche sembrano non sapere come procedere, si fanno sentire molto poco. Per Iustinsula non c’è stato alcun tentativo di seconda conquista, e le navi del Vulcano rimangono sulla loro parte di riva. Continuano invece…
Fu bruscamente interrotto, e i loro cuori altrettanto bruscamente subirono un tuffo. Si bloccarono impietriti guardandosi attorno, sopra, sotto, dietro, stringendo l’elsa della spade lunghe, pronte a sguainarle contro un nemico invisibile come loro.
Che cosa è stato? Domandò irrequieto Helico.
Credi che se lo sapessi non te lo direi? Non ne ho idea. Replicò inquieto Tremoriu, strofinandosi la fronte bruna.
Un’improvvisa e cupissima onda sonora li aveva investiti, avevo investito l’intero bosco, facendo vibrare come un sisma il terreno e oscillare le fragili minuscole foglie di quei rami inusuali. Non era un comune tuono, su questo ci scommettevano; non era affatto un tuono, fu un rumore totalmente imprevisto e fuori luogo che non seppero descrivere meglio se non così: un corpo estremamente massiccio che affondava dal cielo su di loro, distruggendosi senza lambire il terreno. Eppure, tra i rami e nelle nuvole non si vide alcun bagliore strano. Nulla cambiò nel paesaggio in seguito a quel suono.
Qualcosa è sospetto, vi ripeto. Mugugnò Sparafuoco, continuando a guardarsi in giro circospetta, le mani pronte a bruciare.
Rabbrividendo e cercando di non prendere troppo in considerazione quell’assurdo rumore e i timori di Elasian, Radiclon chiese: Capitano, dicevate…?
Sì…, sì, stavo dicendo… – riprese a parlare Trematerra, dopo alcuni attimi di turbato silenzio, impiegati a scrutare dubbioso il cielo nuvoloso alla sua sinistra, ignorando l’acqua che gli colpiva gli occhi – Nella Piana di Astreg e nei centri della costa settentrionale di Dalarlànd, i soldati del Vulcano ancora…
“Ah!”
Per la seconda volta il discorso fu troncato in maniera imprevista, fastidiosa e spaventosa: un acuto stridio metallico e il grido sofferente di Helico, urlato a pieni polmoni, a piena voce. Si volsero tutti già con le mani alle armi – ad eccezione di Darnogos che era dietro al marino – gli occhi fuori dalle orbite per lo stress che nessuno di loro osava ammettere.
Calmatevi! Non è niente di grave o pericoloso. dichiarò a ‘voce alta’ Darnogos, sottolineando la situazione non di allarme stendendo la mano in avanti, gli occhi e ben presto anche piedi nei pressi della figura di Helico. Stramazzato con la faccia a terra, sputava fango e imprecava tra le labbra per la caduta e per la sozzura che ricopriva la corazza dopo il fattaccio: senza un briciolo di aspettativa, una grossa tagliola legata a un tronco da una fin troppo rumorosa catena arrugginita gli aveva attanagliato la caviglia destra, facendolo inciampare.
Il terricolo tosto lo aiutò a rigirarsi – Anzi, stai fermo e non girarti, per i Semidèi! Fai un casino porco, con questa catena – e a liberarsi di quella spina nel fianco. Per fortuna grazie alle varie placche dell’armatura dorata i denti di metallo non lo avevano ferito. Si intravedeva solo un taglio rossastro, che Darnogos si offrì di medicare immediatamente.
No, no, grazie, non preoccuparti. – lo allontanò il marino, rizzandosi – Non è niente, e non lo dico solo per la magia di questo affare. E si battè la corazza karmiliana sul petto (vi ricordate, vero, che rende meno sensibili alla fatica e al dolore?)
Come vuoi. Però se cola il sangue è un problema. Spiegò il terricolo, rivelandosi più pragmatico che interessato alla salute del compare.
Non colerà, stai tranquillo. E detto questo Helico raccolse della pioggia allargando le braccia e si sciacquò con una certa forza, liberandosi dell’eccessivo fango.
Hai visto, ci sono delle trappole, dopotutto. Riuscì ad ironizzare dopo alcuni istanti, rivolto alla vulcanica sospettosissima. Elasian gli rivolse un unico sguardo bieco e poi procedette a camminare in silenzio. Come tutti.
Radiclon riflettè, ormai disinteressato a sapere della situazione sul fronte aperto di guerra. Forse il loro stress, l’ansia, l’agitazione che nel profondo li faceva vibrare, ben nascosta da un eccellente allenamento di autocontrollo, tutto questo non era dovuto all’ambientazione enigmatica e a tratti spettrale, alla sensazione di ripetizione, né tantomeno del loro essere su suolo nemico senza via fuga se qualcosa fosse andato storto – be’, questo un po’ sì, era evidente – né da una combinazione di questi elementi.
Semplicemente, erano vicini alla fine. Con la sola perdita dell’aereo Picchiavex, la squadra che contava, a detto del suo stesso capitano, i migliori nell’arte di uccidere tra tutta la Gorm alleate, i guerrieri mystica più agili, i più esperti nella discrezione, nella furtività, in tutto ciò che faceva di un killer un killer eccezionale, erano riusciti, solo loro e solo in cinque – eccezion fatta per Iustinsula, ma furono aiutati dall’esercito solo in parte – in incarichi azzardati e dall’esito mai certo, in cui le morti potevano ogni volta ridurre il gruppo a un solo superstiti, se non zero. Si erano infiltrati in accampamenti di soli nemici e ne erano usciti vivi, si erano gettati nella mischia ed erano sopravvissuti, trionfando e mai fallendo. E gli obiettivi dei loro compiti così indiscutibilmente immorali, se decontestualizzati dallo scenario di guerra, non erano certo gormiti qualunque. I Triumviri erano gormiti anziani, e quindi esperti, che avevano avuto tutto il tempo di imparare ed eccellere in ogni arte della lotta che loro cinque – e gli altri che erano stati addestrati ma che non erano stati scelti come i primi, sempre pronti a prendere il posto di chi non ne usciva vivo, come Helico – avevano dovuto apprendere in una vita dalla durata decisamente minore. Due tra essi erano stati scelti per entrare nella cerchia di fedelissimi di Magor, fratelli di una potente e ricca dinastia, la più famosa dell’intera Valle, figli del primo Signore del Vulcano a fare la conoscenza del Vecchio Saggio e, di questi, uno fu l’artefice e la guida militare del Grande Sacrificio. L’altro, l’ultimo, colui che si apprestavano a portare fuori dall’esistenza quel giorno, fu il primo nuovo Signore unico del Vulcano e colui che contribuì a portare Elios e il Popolo dell’Aria intero dalla parte dello Stregone di Fuoco. Individui di calibro e potenza indiscutibili ed elevati, i decisivi salvatori dell’esercito vulcanico bloccato nella Pianura delle Nebbie poco più di dieci anni prima.
Due erano stati eliminati, ne mancava uno solo. Non davano per scontato di trionfare anche questa volta, assolutamente. Ma i pretesti per crederlo c’erano eccome, e, ovviamente, le speranze le coltivavano, i cinque. Se avessero vinto anche quest’ultima volta, avrebbero visto – chi sarebbe rimasto, almeno – se le loro gesta sono avrebbero avuto le conseguenze sperate – e solo allora i loro nomi non sarebbero più stati un segreto. Anche se le cose non dovessero andare esattamente come da programma, era chiaro che le loro rischiose sarebbero passate alla storia.
Per non parlare, poi, di come…
I rami fremettero una seconda volta di un rombo indecifrabile, inspiegabile e inaspettato, interrompendo il filo della coscienza dell’unico gormita vegetale del gruppo. No, non rombo…grida. Grida non animali, non proprio: grida agonizzanti, maschili e femminili, che sembravano generarsi da un impreciso luogo all’esterno del bosco, e allo stesso tempo da tutt’intorno ad esso e da esso stesso. Quelle voci stridule facevano accapponare la pelle indicibilmente. Che cosa significavano, in mezzo al bosco?
Maledizione. Imprecò spaventata Elasian, stringendo i denti.
Che cazzo. – strepitò Darnogos, grattandosi le spalle e i palmi delle mani dal nervosismo – Questo è un bosco del delirio. Vuoi vedere che invece di rallentarci o fermarci con le trappole ci rallentano con questa merda di suoni raccapriccianti? Cazzo! Urlò una seconda volta, dopo uno di quei gridi disumani particolarmente intenso e agghiacciante. Non cessavano, quelle urla isteriche.
Non saranno certo questi giochetti a fermarci. affermò risoluto Helico.
Ben detto! Esclamò Tremoriu, fin troppo convinto. Quel genere di esagerata convinzione che è palesemente falsa, atta a nascondere un ben nascosto timore.
E se… – azzardò incerto Radiclon – Se avessero sguinzagliato altri di quegli spettri, gli Spiriti Rossi?
Sappiamo come sbarazzarcene. – lo rassicurò Darnogos – Anche se sarebbero…problematici. Anche da occultati, possono vederci. Sarebbe un bel casino.
Proprio a questo pensava il forestale poco prima. All’avventura su Iustinsula contro il fantasma delirante del defunto Stregone di Fuoco Magor. Erano paralizzati, quella volta: si scontravano contro niente di meno che l’uomo che ha fomentato più di chiunque altro la guerra di Gorm e la caccia all’Occhio della Vita e alla conquista dell’Isola e del mondo intero. Un mago di altri mondi di un’esperienza incommensurabile, apprendista dello stesso Vecchio Saggio, stregone più potente del suo tempo, e profondo conoscitore dei segreti di Gorm, appresi durante l’assenza di Razael e dei gormiti da casa. Come competere, fisicamente e mentalmente, contro un simile prodigioso individuo, il cui nome gelava i cuori e le cui imprese ancor di più. Per quanto non fosse il vero Magor che avevano di fronte alla rocca, si trattava comunque di un fantasma con le fattezze e tutte le conoscenze dello Stregone di Fuoco, come videro con i propri occhi e saggiarono sulla loro pelle gli assassini. Fu un caos pazzesco quello scatenato dal fantasma infuocato nella rocca, rilasciando onde d’ombra che mandarono all’aria tutti gli strumenti lì riuniti, fecero esplodere quel cadavere di SS, frantumarono e creparono pareti e spalti, e per poco non ruppero diverse ossa dei presenti. L’unica arma che temono gli Spiriti Rossi, viventi senza necessitare di un mago che mantenga concentrazione, che può scacciarli e rimandare la consapevolezza dell’individuo là dove essa appartiene, fu presto scoperta – per caso. La luce. Concentrarono fasci di luce contro la sua figura eterea, e qui l’ausilio di Helico fu sorprendente. Magor svanì come fumo. Spenta la fiamma che l’aveva riportato ‘in vita’, nessuno sarebbe più riuscito a rievocarlo – a meno che, da qualche parte, non fosse conservata un’altra fiammella, o chissà cosa, ma ne dubitavano.
Se, dunque, erano riusciti nell’intento di sconfiggere il temutissimo Stregone di Fuoco, seppure solo un’ombra di ciò che fu, perché non sarebbero stati capaci di affrontare ed uccidere Orrore Profondo, e porre termine una volta per tutte al conflitto di Gorm?
 
L’edificio roccioso non aveva per niente l’aspetto di un accampamento. Non sembrava affatto un edificio militare. Era di roccia, forse persino marmo, come prima cosa. Nessuno per nessun tipo di accampamento spende così tanta pietra così tanto pregiata per una qualsiasi sede militare temporanea. Quindi si trattava di un’abitazione stabile, racchiusa da quel bosco sperduto da chissà quanto tempo, anni. Un palazzo? Non pareva: pure se di marmo, non aveva lo sfarzo o l’eleganza tipici dei palazzi – anche se in questi termini il Vulcano ha una storica di tradizione di arte poco comprensibile per gli altri Popoli. Forse una chiesa del culto delle Somme Forze, seppure decisamente massiccia, oppure un generico tempio di chissà quale sconosciuta fede religiosa; se si trattava di questo, una fede molto antica, sicuramente. Le pareti erano crepate in più punti e talvolta c’erano dei veri e propri solchi, dove il tempo e i Semidèi sanno cos’altro hanno macinato la pietra in tempi lontani. Molto antica, appariva, nel complesso. Antica e per di più disabitata, come seconda cosa. L’enorme parallelepipedo era sormontato da un terrazzo al cui centro si ergeva un secondo poliedro, ai quali si accedeva scalando due imponenti gradinate che si dipartivano, l’una opposta all’altra, ai lati dell’ampio ingresso: un rettangolo alto un gormita e mezzo e largo tre, scavato nel muro, da cui baluginava quella che sembrava illuminazione da torce. Niente porte, portoni o cancelli. Nemmeno delle guardie. Dalle poche finestre non giungeva alcuna luce visibile.
Ve lo ripeto. La cosa è sospetta. Insisteva Sparafuoco, agitata, osservando l’edificio quasi cubico con disprezzo.
Basta, Elasian. È senz’altro sospetta, ma non credo sia il caso di allarmarsi. Ribattè Trematerra infastidito.
Secondo me sì. – soggiunse Helico, aguzzando la vista – L’entrata è priva di protezioni, sembra. Come tutto il resto.
Trematerra si strinse il mento, pensieroso. La pioggia che scorreva sul suo lungo muso disegnava strane righe ricurve.
Siamo sicuri delle informazioni che ci hanno dato? – insistette ancora Elasian – Chi le ha fornite?
Una talpa del Vulcano. rispose Tremoriu.
Potrebbe non essere affidabile. Sostenne la donna. Incurante, almeno all’apparenza, di stare giudicando la sua intera razza, tra cui lei stessa, inattendibile e traditrice.
Secondo me può avere ragione. – osò Radiclon – Se questa talpa facesse il doppio, triplo gioco? Se volesse mandarci in una trappola? Qual è il suo nome?
L’identità delle nostre fonti ci è ignota, e lo sai. Anche se sapessi chi è, non mi sarebbe permesso di dirvelo. E non mi piace quello che pensi.
Tutto è possibile, capitano. – si immise Darnogos – Però, non credo dobbiamo preoccuparci troppo. Fino ad ora gli infiltrati ci hanno dato informazioni attendibili, e abbiamo vinto.
Per Lavion la talpa non era vulcanica. Ci tenne a correggere Trematerra, tuttora pensoso.
Dobbiamo sperare che questa volta vada come le altre. – disse banalmente Helico; poi si rifece – Non possiamo fallire adesso!
Dunque, che facciamo? Domandò Radiclon.
Andiamo.
Uno dopo l’altro, chi più timoroso chi meno ma tutti disciplinati e ligi al compiuto a cui giurarono la vita, uscirono, completamente occultati, dalla scarsa protezione degli strani alberi e, insieme, sotto la pioggia scrosciante, avanzarono come un sol uomo verso l’imponentemente semplice entrata illuminata dal fuoco del grande blocco di marmo scavato e scolpito. Scrutarono magicamente la soglia e i gradini ai loro lati un’ultima volta, e si asciugarono, prima di entrare, e già da lì videro che l’interno era spoglio, se non vuoto. Un immenso corridoio che correva per l’intera lunghezza dell’edificio e si dipanava in due scalinate all’incontro con la parete di fondo. Doppie torce erano appese agli ingressi per lo più chiusi, altri senza porte e bui, di grossi stanzoni, apparentemente a due piani, che davano la loro entrata sul lungo corridoio. Immediatamente prima che cominciassero le fila di stanza, c’erano degli spazi vuoti, alla loro destra e alla loro sinistra, riempiti da quelle che sembravano due fontane, vuote, erette su una serie di piatti ed estesi gradoni circolari.
Niente anche qui. disse Elasian scuotendo la testa.
Questo posto mi mette i brividi sempre di più. Ammise Darnogos.
Non ci fu subito più spazio per i pensieri cupi, che nelle loro menti si fecero strada immagini ben più allarmanti: il suono di una campanella ruppe il silenzio sospetto e angosciante della possente sala, terrorizzandoli e mettendoli tutti sull’attenti. Veniva dalla loro sinistra, ma non videro nulla, nemmeno con lo sguardo magico. Forse una magia di occultamento più avanzata…
Altri sibili vennero da quella direzione, ma non ci fu un sol orecchio che li udì distintamente, o che capì chiaramente di cosa si trattasse, se non quelli del capitano Trematerra. Egli riconobbe quella vibrazione, da abile arciere qual era, gli rimase impresso nella cornea il fugace lampo della punta della freccia che, scoccata, si allontanava dal campo d’azione della magia che nascondeva alla vista.
Radiclon, nel clamore generale, avvertì il capitano mettergli le mani addosso, pararglisi davanti con la schiena. Non lo vide bene, guardava fisso da tutt’altra parte. Una briciola di urlo, il cui significato non sarebbe mai stato chiaro, sgorgò dalle labbra del terricolo. L’urlo fu troncato, e non più voce uscì dalla bocca del capitano Trematerra. Radiclon percepì il calore e l’odore acre di gocce di sangue sulla faccia e sul collo, e una punta di freccia che gli grattava la spalla. Dunque capì, capì la sciagura, mentre Trematerra spirava, la bocca intrisa di sangue e una freccia nel collo, e si accasciava al suolo. I suoi occhi si volsero per l’ultima volta all’uomo che aveva salvato, come anche le sue ultime parole, gorgoglii che non trovarono compimento. Trematerra morì ai piedi di Radiclon, paralizzato e scioccato, non più incantesimi a celarne le spoglie.
“Radiclon, cosa fai lì fermo?!” gli gridavano i compagni, mentre si udivano dei passi, tanti passi provenire dal corridoio.
Radiclon non era più paralizzato: una rabbia e una risolutezza infinite gli scorsero nelle ‘vene’, il corpo del capitano morto per salvare lui che non abbandonava i suoi occhi. Occhi rivolti nel punto esatto da cui era giunta la freccia fatale. E Radiclon rimaneva immobile, pronto a ricevere la freccia che spettava a lui sin dal principio.
Fu una questione di pochi secondi: il sibilo della corda e della freccia, questa che si palesa dall’invisibilità…uno scatto della mano del forestale, e quella si bloccò a mezz’aria. Impercettibili movimenti delle dita, e la punta di selce inverte la propria direzione e l’intera freccia si scaglia contro il suo proprietario, conficcandosi nella carne. Il trauma fisico era troppo, l’incantesimo si dissolve, rivelando una guerriera aerea armata di arco, steso, con una freccia, la sua freccia, nel ginocchio, e con ancora tanta energia, a vedere come tentava di armeggiare con quell’arco. Ben presto, però, Elasian e Darnogos gli furono addosso, e lei più non fu.
Radiclon rimaneva immobile lì dove Trematerra era morto pochi secondi prima. Dopo di lui, due morti pesavano sulle spalle del forestale, per due vite si sentiva responsabile. Desiderava solo andarsene e fuggire, non avere più a che fare con gli assassini, la guerra, la lotta…volle tornare indietro nel tempo e non aver mai, mai accettato di farsi allenare da suo padre, che tanto potenziale vedeva in lui, lo spronava in continuazione ad imparare come si combatte. Volle tornare a quei tempi, dire no a tutto, e vivere in tranquillità i suoi giorni su Karmil, la casa scelta dai suoi nonni.
Perché l’aveva fatto? Perché, Trematerra? Questo gesto così inatteso e sorprendete, e indesiderato.
Radiclon sarebbe rimasto lì inerme ancora a lungo, per sempre in paralisi, se il pericolo che morisse davvero non si palesasse nuovamente. Per tutti loro. I passi che avevano udito dopo il suono della campana cominciarono a farsi più pressanti e rumorosi, quasi insostenibili, e non era difficile vedere a chi appartenessero, visto l’ampiezza del corridoio e le uniche due camere da cui provenivano a fiotti, mai visti così tanti insieme, gli assassini forse non più efficaci e affidabili sul mercato, ma di certo i più risoluti, quelli con meno rimorsi. SSX-47. In numero più grande di quanto potevano aspettare o temere, fin troppi, troppi da contare, troppi per qualsiasi ristretto gruppo di gormiti, anche se si trattava degli assassini richiesti per togliere di mezzo i tre più pericolosi soggetti del Vulcano, da poter eliminare in una sola volta.
I loro occhi giallo acido topazio non conoscevano paura né dolore. Non conoscevano nulla se non gli ordini loro imposti, e l’ordine era, indiscutibilmente, liberarsi dei trasgressori. Che non li vedessero, non era un problema. Presto li videro, poiché furono loro addosso in un lampo e sotto i loro incessanti e infaticabili colpi le magie dovettero essere annullate. Tutte le energie dovevano essere spese per sconfiggere l’orrida armata: loro dovevano sopravvivere, portare a termina la missione. Radiclon doveva, lo sentiva come un obbligo morale oltre che un ordine ricevuto dai suoi superiori; da qualche parte in quell’antico e vuoto palazzo, Orrore Profondo lo attendeva e lui l’avrebbe trovato ad ogni costo: lo doveva per Trematerra, il suo capitano, morto per salvare lui, un giovane ed inesperto gormita con un potere in più. Fu quello il potere di cui usufruì di più in quel tragico e disperato frangente. Non permetteva a quei mostri grotteschi di avvicinarsi a lui, e nemmeno ai suoi compagni, no, non avrebbe tollerato altre perdite. Non metteva mano ad alcuna arma in suo possesso, benché l’unica di una certa utilità fosse solo la spada lunga. Per quella, però, necessitava una certa prossimità col nemico, e lui voleva assolutamente evitare una simile circostanza. Erano troppi da poter avvicinare, doveva liberarsene a distanza. Quando poteva, quando c’era spazio e ne trovava uno isolato, spezzava loro il collo a distanza. Altrimenti, rompeva le ossa delle gambe, impedendo ai mostri di avanzare e scagliandoli lontano, contro altri SS se possibile, con onde di ombra. L’ira lo dominava furiosamente, non sarebbe stato in alcun modo in grado di esercitare la via della luce.
La situazione, però, non volgeva a loro favore. I Soldati Scuri avevano cessato di uscire da quelle infernali porte, ma non cessavano di dare ai quattro rimasti mostra della loro bestialità e della forza nei numeri. Helico aveva dalla sua l’armatura dorata che gli conferiva un impossibile resistenza fisica, oltre che forza, se non pari molto vicina a quella dei maledetti SS, ma si comprese che non sarebbe stata molto d’aiuto. L’ausilio nel controllo della luce non era di utilità; Helico ne reggeva due tra le mani, stringendoli per la gola e tentando di soffocarli o di cozzare le loro teste fino a farne uscire il cervello, o usarli per abbattere gli altri; ma anche così gli SS che stringeva, con le vie respiratorie ostruite, non smettevano di tempestare di pugni le braccia stesse con cui venivano tenuti sospesi, arrivando a farsi sanguinare le nocche e ammaccando le placche dorate. Si rivelò una condizione svantaggiosa: ostacolato nei movimenti, le mani impegnati, tempestivamente altri, numerosi Soldati Scuri gli saltarono sopra, riempirono di bernoccoli e sangue la testa che pure era dura. Lo portarono giù, gli salirono addosso, gli strapparono l’armatura…in pochi minuti, la sua figura non più visibile tra la marmaglia grigiastra e azzurra.
Elasian fu più fortunata…inizialmente. Ne uccise a decine con precisissimi colpi di freccia dritti in fronte, ma i loro numeri non permettevano un ulteriore facile uso dell’arco, come anche una faretra vuota. Comprese in poco tempo che usare le fiammate che l’avevano resa famosa non sarebbe stato di alcun aiuto: gli SS, ricoperti di fuoco da capo a piedi, continuavano la loro marcia infallibile senza difficoltà, morendo definitivamente solo quando le fiamme li bruciavano completamente; ma prima che ciò accadesse, la loro forza brutale era accesa come quelle scintille, e Sparafuoco lo provò sul proprio corpo. Un Soldato Scuro la colpì al ginocchio, facendola cedere per un brevissimo istante, che quello non sprecò rimanendo impassibile, ma sfruttò per sferrare una micidiale testata col capo cornuto. Elasian fu accecata. La sua fine arrivò poco dopo.
“Basta!” urlò al limite della sanità mentale Darnogos, infilzandone un paio con l’ennesimo colpo di Piggstrad. Non ne poteva quasi più. E che dire di Radiclon? Erano rimasti solo loro due, lui era rimasto, lui che per ben due volte sarebbe dovuto crepare, schiattare al posto d’altri, ben più esperti di lui in quel lavoro ignobile. Se era ancora vivo, lo doveva solo alla fortuna. Se non piangeva, lo doveva perché il suo corpo espelleva liquidi in litri di sudore.
“Radiclon, Radiclon, presto! Fai…fai un’onda, un’onda, bella potente con l’ombra. – gli comandò Darnogos, allo stremo – E dammi il tuo pasticcio, e un po’ di energia se ce l’hai ancora.”
Radiclon obbedì immediatamente; le domande le avrebbe poste dopo. Concentrandosi su tutto quanto di orribile, di negativo, di odioso, di terrificante e di frustrante fosse accaduto nella sua vita, fissando l’errore commesso insieme a Picchiavex all’accampamento di Lavion e i cadaveri di Tremoriu, Elasian ed Helico in mente. Raccolse, attinse da tutte le potenti emozioni che queste immagini gli conferivano, e scatenò con un grido che esso stesso sembrava poter distruggere i nemici una devastante ondata ombrosa che mandò i Soldati Scuri rimasti a gambe all’aria. Poi, senza pensarci, estrasse ciò che rimaneva della sua scorta di energia e la consegnò a Darnogos che se ne servì voracemente.
“Cos’hai in mente?” ansimò Radiclon.
“Qualcosa che potrebbe significare la fine per me.” Disse quello tra un morso e un respiro affannoso e l’altro. A quelle parole Radiclon raggelò. No, non sarebbe stato l’unico sopravvissuto, non sarebbe mai riuscito a terminare la missione da solo.
“Ti sostengo.” Disse dunque in un sussurro, e gli mise una mano, entrambi le mani sulla schiena. E gli trasmise energia, il suo calore corporeo. Il terricolo annuì, deglutì l’ultimo morso, e annuì di nuovo. Quel semplice cenno con il capo da solo sembrava costargli infinitamente.
Allargò le braccia, ad angolo quasi piatto. Il fuoco della sua impegnativa concentrazione: le pareti di quelle stanze. Tutte quante. Strapparle, distruggere delle pietra legata, appartenente ad altra pietra, e in così gran quantità: non esiste cosa più difficoltosa che questa, per un gormita della Terra. Lo Squarcio del Behemoth è faticosissimo per questo stesso motivo. Tra mille grugniti, denti lacerati tanto erano stretti e meningi spremute fino al massimo per l’intensissimo sforzo, quelle poche crepe che si formarono sui muri presto divennero delle vere e proprie profonde incisioni, che spaccarono interi lastroni di marmo, sospesi sotto il controllo di Darnogos. Non appena riuscito nel suo intento, fece volare quelle durissime tavole le une contro le altre, con in mezzo il risicato mare di SSX-47 rimasto. Fu un bagno di sangue senza precedenti, ma un bagno di sangue vittorioso, infine. Inghiottirono le lacrime, i due superstiti, raccolsero le energie dalle scorte dei freschi defunti, finirono gli SS ancora in vita con veloci colpi di spada e salirono le scale sulla parte di fonda a incontrare il loro destino.
 
La stanza era spoglia come tutte le altre. Giusto alcuni effetti personali, delle armi; una corazza appesa a un sostegno. Fogli e strumenti – questa volta tutto nell’ordinario – su una scrivania che dava le spalle a una larga finestra senza vetro. Le fiamme delle torce vibravano di tensione, sottilissime ed ondulate. Orrore Profondo, l’ultimo triumviro in vita, l’ultimo capo supremo del popolo e dell’esercito della rinascita gormitica che ancora ostacolava la fine sperata della guerra, sembrava averli aspettati, sembrava sapere che dei sicari fossero venuti da lui. Non era scappato e non si era preparato a una lotta. Forse non si aspettava che qualcuno arrivasse fin lì.
Per qualche strana ragione, era privo delle ali di ossa che avevano fatto di lui una figura orrorifica sin dalla sua prima apparizione ai Popoli alleati. Il suo aspetto terrorizzante, tuttavia, non dipendeva solo da quel paio di ali inverosimili che altrettanto inverosimilmente, ora sembrava essersi tolto come un capo di vestiario. Il suo volto grigio cinereo, e le corna dorate che avevano perso un po’ di colore. Avvizzito dall’età, il suo viso nel complesso era ciononostante efficacemente orribile.
La magrezza impressionante del suo corpo e la muscolatura molto sviluppata, creavano una combinazione da incubo. La potevano vedere chiaramente: era nudo, almeno nella parte superiore del corpo. Sotto, indossava una gonnella di cuoio, una cintura con una spada e degli stivali rinforzati.
“Orrore Profondo. – parlò Darnogos, puntandogli contro la spada lunga – Siete finito.”
“È probabile, sì.” disse quello molto tranquillamente, in una voce cavernosa resa ancora più agghiacciante dall’età avanzata. Le sue labbra erano aride così come il suo respiro, e secche ed acri le sue parole.
“Prima di uccidervi, vogliamo delle risposte.” Prese inaspettatamente parola Radiclon.
“Quello che volete. Del resto, sto per morire.” Replicò Orrore, in tono tutt’altro che canzonatorio. Era genuinamente tranquillo e in pace. Nascondeva senz’altro qualcosa, sotto quegli occhi violacei apparentemente così calmi e rassegnati.
“Che cos’è questo posto? Perché è disabitato? Perché solo voi?”
“Questa è una fabbrica di Soldati Scuri. – rispose, disponibile – Sottoterra, non ai piani che avete visto voi. Lì vengono mantenuti e ci sono le scorte di cibo. O dovrei dire…sarebbero stati.”
“Perché nessuna difesa magica?” domandò Darnogos.
“Perché sì? Doveva essere una sede segreta. Nessuno doveva saperne, ma quanto pare non è stato così. Posso farvi io delle domande, ora? – non attese che i due risposero; prese in mano la spada – Perché tutta questa fatica per uccidere noi, i Triumviri? Credete davvero che serva a qualcosa? Uccideteci pure, non cambierà assolutamente nulla. La guerra è in corso e non finirà perché tre persone muoiono. Picco Aquila è nostro, ormai. Roscamar e Garsomor sono completamente chiuse, e presto anche i passaggi sotterranei verranno occupati. La galleria di Astreg è già chiusa, e quella del Bazaar lo sarà a breve. Non potete fermarci. – levò la spada, indirizzando la punta contro i due avversari di fronte – Sto ancora attendendo la mia morte.”
Radiclon e Darnogos si fissarono di sottecchi per un brevissimo istante. Rapidissimi, imbracciarono le loro spade lunghe fianco a fianco e scattarono in avanti, puntando al petto dell’ultimo uomo.
Non lo toccarono mai: Orrore li abbagliò e li respinse con un getto di luce che disarmò il forestale, dopodiché allontanò ulteriormente col fuoco del suo cannone a braccio il terricolo; Radiclon si riprese presto dalla luce ed evitò il flusso infuocato. Senza pensarci, colmo improvvisamente di una rabbia irrefrenabile, si scagliò in avanti, si abbatté su Orrore Profondo prima con della forza magica, poi con il suo stesso corpo, e buttò se stesso e lui fuori dalla finestra, di nuovo nella pioggia torrenziale che non aveva mai smesso. Era una bella altezza da lì al suolo, e nella caduta Radiclon si mantenne stretto ad Orrore, colpendolo ripetutamente, come fece anche lo stesso vulcanico, con il manico della spada e con la lama stessa, che trovò resistenza nei bracciali della corazza Neor’gani. Se evitarono di sfracellarsi fu solo perché Orrore Profondo si divincolò ed entrambi atterrarono dolcemente tenendosi sospesi con la forza magica per gli ultimi piedi di caduta. Darnogos, intanto, non tanto abile in quell’arte, preparava la sua discesa utilizzando un lastrone di pietra su cui sarebbe giunto a terra ‘planando’.
Orrore Profondo sfidò l’unico sicario presente: “È così che operano questi abilissimi assassini? Gettando gente fuori dalla finestra, e se stessi con i loro avversari? Tsk. – fece ripetutamente di no con la testa, e puntò nuovamente l’estremità della spada contro Radiclon – Mi aspettavo decisamente di meglio.”
Iniziò ad avanzare contro di lui. Radiclon tentennò, sulla difensiva. Non aveva armi con cui competere, ed era completamente allo scoperto. Usare ancora la forza magica lo avvertiva come fuori discussione: Orrore Profondo se lo aspettava di certo. Il controllo organico? Era l’unica opzione, ma Orrore poteva sfuggire od evadere dal campo visivo, essendo le movenze per esso e per la forza magica pressoché identiche. Aspettava, allora. Attendeva il momento opportuno, quando Orrore si fosse fatto troppo vicino per poter scappare. O un intervento tempestivo di Darnogos, che atterrò in quel preciso istante. Il fu Signore del Vulcano scambiava continuamente la spada tra le mano sinistra e la ‘mano’ destra, le corte e poco stabili appendici che culminavano e contornavano il suo cannone lavico. Avanzava lentamente ma con passi scattanti, tra i quali scorrevano lunghi minuti. Ecco! Ecco che correva finalmente, contro di lui, spada stretta tra le appendici destre, lo caricava, si preparava a trapassarlo. E Radiclon si preparava a spezzargli il collo.
Tutt’altro. Radiclon fu buttato a terra da uno scoppio esplosivo che lo buttò a terra e gli rovinò irreparabilmente il pettorale ed altre parti dell’armatura, e fu invaso da un fuoco che non gli dava tregua e minacciava di ucciderlo. Tenendo la spada nella mano più debole, nell’altra Orrore aveva caricato la sua arma più micidiale: la Palla di cannone. Non era certo paragonabile come intensità a quella a cui poteva dare vita sul polpastrello quando ancora i gormiti erano liberi creatori degli elementi, ma ugualmente pericolosa e devastante: Radiclon era fuori combattimento, per ora.
Darnogos fu sul pezzo: attaccò con la spada lunga Orrore Profondo, il quale riuscì a difendersi e a rispondere al colpo. Era uno spadaccino eccezionale, il Triumviro. Si menarono affondi e fendenti, con Darnogos completamente sull’offensiva e Orrore più difensivo, ma tutt’altro che in svantaggio. Darnogos doveva ricorrere ad altri mezzi se voleva vincere. Specie considerando che, approfittando di un secondo in cui la fatica ebbe la meglio sul terricolo, il vulcanico passò all’offensiva e con una potente sciabolata spezzò in due la lama di Karmil. Prevedibile: non erano armi concepite per duelli, ma per trapassare la carne. Con un calcio sul polso Orrore disarmò completamente Darnogos, gli si avvicinò per dargli il colpo di grazia. Caricò la spada all’indietro.
“NO!”
Non sarebbe morto. Non poteva morire. Doveva restare in vita. Radiclon in un solo istante urlò, si liberò dalle fiamme e devastò Orrore Profondo con un rabbioso boato d’ombra. Fu scagliato contro un albero vicino, disarmato, riuscendo, però, nel suo intento, in minima parte: Darnogos era stato ferito alla spalla, e anche piuttosto male, sembrava. Il forestale gli si affiancò, ma lui lo allontanò bruscamente.
“Non pensarci! Inseguilo!”
Orrore Profondo stava fuggendo nel bosco! Radiclon non se lo sarebbe lasciato scappare, non ora. Lui doveva morire, e l’avrebbe ucciso lui. Si mise con rinnovata forza di mille leoni al suo inseguimento, strappandosi di dosso gli ultimi inutili stracci di armatura Neor’gani; Darnogos lo seguiva rabbioso, ma a rilento.
Radiclon non conobbe pietà in quei momenti. Si gettò a capofitto nel mare d’alberi, molto, molto più fitti che quelli del bosco da cui erano partiti, quando erano ancora in cinque. I rami erano fastidiosi, lo graffiavano, potevano conficcarglisi negli occhi, bloccargli l’inseguimento. Orrore Profondo, piccolo nonostante l’invidiabile muscolatura e molto più agile di lui, ne soffriva ugualmente, ma di meno, e gli era ancora molto più avanti. Radiclon attinse ad ogni riserva di energia che il suo corpo stremato e ansante di rabbia omicida avesse ancora disponibili, accelerò la sua corsa impazzita e, come un folle, si liberò di quei innervosenti rami a mani nude, strappandoli, distruggendoli con la sola forza fisica, talvolta quella magica. Fu una strage di alberi, non solo a causa sua ma anche grazie a Orrore Profondo. Forse non troppo convinto di poter seminare il suo follemente irato inseguitore, che vedeva letteralmente radere al suolo gli alberi dietro di lui, in quella fuga forsennata si voltava e con la mano scagliava globi di fuoco, che il più delle volte Radiclon accettava su di sé senza badare a schivarli, avrebbe solo perso tempo, e urti di forza magica che lo rallentavano sentitamente ogni volta che lo colpivano.
Il forestale non era da meno. A qualsiasi costo avrebbe raggiunto Orrore Profondo e lo avrebbe ucciso. Continuando a distruggere rami e tronchi in preda a una rabbia incredibile che fomentava lui stesso con cattivi pensieri e pessime immagini, cercava di abbattere o di stringere il vulcanico fuggitivo con l’ombra. Di quei rami che così pazzamente ne faceva trucioli, diversi ne lanciava a tutta velocità contro la schiena rossa del Triumviro. Non sperava certo di ucciderlo o rallentarlo così: voleva semplicemente ferirlo. Più lo feriva, più si indeboliva e allora lo spazio che li divideva sarebbe diminuito. In un frangente gli riuscì di afferrare la sua caviglia con il potere della Foresta e di fargli distendere la gamba all’indietro: Radiclon gongolò di malsana soddisfazione allora, e il distaccò tra di loro fu notevolmente ridotto, ma non abbastanza perché il forestale potesse raggiungerlo. Orrore continuava a correre imperterrito, e a lanciare fuoco e fiamme alle sue spalle, dove i rami si facevano sempre più radi per l’azione di rabbioso disboscamento di Radiclon. Gli capitò di spezzare un ramo particolarmente massiccio: fu subito tra le gambe di Orrore Profondo, facendogli subire uno straordinario inciampo e facendolo rotolare dolorante per alcuni piedi. Radiclon, come un predatore, sentiva l’odore della preda in pericolo, pronta a morire, e l’odore gli dava forza, corse ancora più velocemente. Poi la luce: la preda non era ancora del tutto fuori combattimento. Radiclon fu momentaneamente accecato da un occhio, ma continuò ad avanzare: Orrore era ancora a terra, e lanciava contro l’inseguitore guizzi di fuoco. Radiclon quasi non li sentiva. Il doppio calcio in faccia e nel petto quando era ormai su di lui lo sentì eccome, invece.
L’inseguimento proseguì, nutrendo la rabbia di Radiclon. Tranciando ancora altri rami, il forestale si concentrò di nuovo sui cadaveri che aveva dovuto vedere con i suoi occhi: Trematerra, Sparafuoco, Helico. Erano morti per causa sua, di Orrore Profondo. Questo pensiero lo riempì di un calore incandescente dalla punta dei piedi fin sopra i capelli: Orrore Profondo doveva morire.
Con uno slancio micidiale, gli riuscì dunque di abbattere il supremo omicida con un grido e un macigno d’ombra che affondò sulla schiena del vulcanico. Corse su di lui, ormai era fatta. La preda era tra le sue grinfie, e non sarebbe più scappata.
Caricò un pugno al suolo. Orrore scartò di lato, schiena a terra. Ne caricò un secondo. Di nuovo fu evitato. Allora senza mezzi termini gli saltò addosso, a cavalcioni. Lo guardò fisso negli occhi, in quegli occhi viola spaventati a morte e stremati. In quegli occhi vide Picchiavex, Tremoriu, Elasian, Helico, Darnogos ferito…Dimentico della disciplina, del suo compito, con la sola rabbia più sfrenata a dominarlo, non pensò a finirlo subito. Lo tempestò di pugni in pieno volto. Ancora e ancora, le enormi mani dalle sette dita del forestale si abbattevano sul cranio cornuto del dannato gormita come un fulmine. Non durò per sempre: pure con la faccia gonfia e tumefatta e ricolma di sangue, Orrore Profondo riuscì ad evadere. Lo Sguardo del Sole infiammò il viso di Radiclon, rischiosamente vicino ad un occhio, minacciandolo seriamente di accecarlo per sempre. Si portò ululante le mani in viso, e Orrore colse il momento per ritornare la sofferenza subita: pugni nello stomaco, nella faccia. Quando riuscì ad alzarsi, un montante sotto il mento e un calcio in pieno petto. Ne preparò un altro…il peggiore sbaglio che poteva commettere. Radiclon gli distorse la gamba, gli ruppe dolorosamente il ginocchio, piegandolo ad angolo retto verso l’interno del bacino.
Radiclon si alzò: aveva la vittoria in pugno, adesso. La gola di Orrore stretta in pugno, la sua schiena sbattuta contro un tronco. Entrambe le mani atte a strangolarlo come non aveva mai strangolato nessuno. Negli ultimi istanti, Orrore Profondo, Triumviro della rinascita gormitica, Saggio del Vulcano e Signore Unico del Vulcano, non si arrese alla morte incombente: mentre i suoi polmoni chiedevano pietà, con le forze residue strinse il gomito sinistro del combattente della Foresta ed evocò il fuoco. Insistette a bruciargli il braccio fino alla fine.
Con un grido impossibile, Radiclon spezzò il collo di Orrore Profondo.
“È stato…intenso…Strapparami. – sopraggiunse Darnogos sfinito – Ora è finita. Abbiamo vinto.”>>

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Capitolo 43
*** Capitolo 20 ***


Il Cronista sollevò un braccio; appoggiato il bastone che reggeva con l’altro, indicò, torcendo un poco il primo braccio, una curiosa marcatura di forma irregolare e ingrigita.
“Qui è dove Orrore Profondo mi ha bruciato. – enunciò, in tutta tranquillità – Fortunatamente è un po’ nascosto e non si nota molto, altrimenti…”
“Basta!” Osmaniu si rizzò in piedi esausto e stravolto. I suoi occhi trasudavano impazienza ed agitazione – di fronte a quelle rivelazioni, gli occhi di chi non avrebbero? – come anche la sua mandibola tremante che non riusciva a tenere serrata e le gambe frenetiche, i piedi in continuo battito sul pavimento. Dal momento in cui di Radiclon, nella narrazione del maestro – e padre – fu accennato di una curiosa specialità, Osmaniu era sempre sull’attenti e quando fu chiarito di che cosa essa si trattasse entrò in una condizione di agitazione irresistibile. Il Cronista se lo immaginava saltare su dalla sedia in qualsiasi momento; sin da prima della metà del racconto, fremeva, doveva parlare, sfogarsi, e il Cronista si vide più volte costretto, con movimenti secchi della mano, più decisi e forti colpi a terra del bastone, e persino a voce, a trattenerlo e imporgli il silenzio, desiderando tutto meno che quella narrazione, una delle più importanti se non addirittura la più importante in assoluto, venisse interrotta, e bruscamente come l’irrequieto e perspicace vulcanico aveva senza dubbio intenzione di fare.
Lafivias, d’altra parte, reagiva a quelle implicite rivelazioni in modo del tutto differente, all’opposto. Nel totale silenzio e nella più completa rigidità del corpo, la mente annebbiata da una tempesta di pensieri e riflessioni che non trovavano espressione materiale. Penna e taccuino giacevano inutilizzati e freddi sulle sue ginocchia da qualche tempo. Per quanto detto così possa sembrare esagerato, Lafivias era comunque più tranquilla di Osmaniu, in virtù del fatto che non era a conoscenza dei poteri del maestro, almeno non direttamente come il figlioletto. Forse gliene aveva parlato? Il Cronista, Radiclon, non lo sapeva.
“Non-non…ah! – esclamava il giovane vulcanico, senza sapere cosa dire o nemmeno come sentirsi: pareva alternare disperazione, frustrazione, e una gioia immensa – Tu, maestro…papà…no. Mio padre a…io sono stato adottato da, da Radiclon Strapparami!”
Si portò le mani alla testa – se avesse avuto dei capelli, corna o qualsiasi altro genere di sporgenze sul capo, vi avrebbe senz’altro infilato le dita e tentato di tirarsele o strapparsele – un sorriso infuocato ed enigmatico per il quale il volto era storpiato, tanto forti e incerte erano le emozioni che lo scatenavano. Il Cronista, dal canto suo, si limitò a ricambiare un sorriso molto più debole come intensità, ma profondo e pieno di serena soddisfazione e di pacifico sollievo. Alla vicinissima fine dei suoi giorni, dunque, l’arcano era stata svelato. L’identità di colui che da decenni, per l’intera popolazione di Gorm, e non solo, tranne poche eccezioni, si faceva passare sotto il nome misterioso e funzionale di Cronista non era più un segreto. E non si trattava certo di un gormita qualunque! Sì, per il momento solo il figlio – era più che giusto che lo sapesse prima di altri – e la fidanzata di lui conoscevano, ma ben presto avrebbe fatto in modo che divenisse una cosa pubblica.
“Mio padre adottivo – continuò Osmaniu, additando l’anziana figura sorniona e seduta – è Radiclon Strapparami, un…” Le vibrazioni della parola ‘eroe’ riverberarono per le labbra socchiuse e all’improvviso incerte del gormita, senza trovare manifestazione in un suono compiuto ed udibile; non un eroe, no: non l’avrebbe definito come tale in sua presenza, e forse mai, non dopo aver udito ciò che era veramente successo, dopo aver rivissuto attraverso la magia della narrazione il rimorso che il Cronista, al tempo un soldato insicuro chiamato in una missione di cui non era convinto, aveva provato sulla sua pelle e visto con i propri occhi, gli unici che potessero ancora ricordare i dettagli di quel momento – Darnogos era ancora vivo? Chissà.
“…un gormita che è passato alla storia. – si risolse a dire, repentinamente calmo, Osmaniu – Che è passato alla storia per due volte! Come Strapparami, e come Cronista…”
“Tre volte, nella mia storia, come mio padre.” Disse infine, in un eccesso di affetto pienamente inaspettato. Come inaspettato fu l’abbraccio che diede al padre, il Cronista, Radiclon.
Sarebbe rimasto congelato in quell’abbraccio per l’eternità, avrebbe persino voluto morire in quel caldo rifugio. La fine delle cose non era come se l’era aspettata: vivere in compagnia, morire da soli, si suol dire. E il Cronista per circa due anni vi aveva creduto ciecamente; ora sapeva che non era vero.
“Ehi, ehi, piano! – riuscì dunque a dire, spingendo dolcemente Osmaniu, ridendo – Sarò anche stato Strapparami, ma ora sono vecchio e fragile, vacci piano!”
Osmaniu si sciolse dal padre accondiscendente e per nulla preoccupato, sapendo bene che le parole del Cronista erano più esagerate che veritiere. Lo fissò negli occhi per alcuni istanti, il caos di emozioni che precedentemente lo dominava risolto e concentrato in una condizione di allegra quiete. Tornò a sedere, tranquillizzato dopo quelle escandescenze. Lafivias gli sorrise e gli strinse una mano quando tornò da lei.
Fu lei la prima a rivolgere delle tremanti parole al ‘nuovo’ gormita che aveva davanti.
“Maestro, – iniziò, imbarazzata – Per-per me è davvero…un onore, un…una gioia poter parlare con un personaggio come voi! Prima eravate solo, ‘solo’, il Cronista, ma ora…ora che so chi siete veramente e cosa avete passato e perché avete fatto quel che avete fatto…mi sento di fronte a una grande persona, davvero. Non lo so spiegare bene nemmeno io e…”
Il Cronista tese una mano in avanti, facendo immediatamente calare il silenzio nell’aula: “Ferma così, Lafivias. Temo tu non sappia quel che stai dicendo. Certo, capisco che ritrovarti davanti, non lo nascondo, una ‘celebrità’ faccia un certo effetto. Ma d’altronde per te il Cronista era già una celebrità, no? E poi, davvero, mi sopravvaluti. Nella mia vita non ho fatto altro che eseguire il mio dovere, quando ne avevo uno, e sopravvivere. Semmai puoi ritenermi fortunato, e null'altro, perché sono riuscito a sopravvivere facendo ciò che mi piace. È una cosa che auguro a tutti.”
Lafivias guardò basso, ancora più imbarazzata, ma paga; mormorò, appena percettibile, così velocemente che sembrava avesse detto un’unica parola: “Voi invece vi sottovalutate. Siete una grande persona, e molto importante per me, per avermi fatto conoscere Osmaniu.”
“Ha ragione Lafivias, papà! – subentrò con rinnovata ferocia Osmaniu, probabilmente per nascondere le vere parole della compagna – Ti sottovaluti molto, ricordi quando ero stato catturato da Grandalbero e da quegli altri pazzi?” Appunto.
Lafivias, dapprima serena, fissò il fidanzato sconcertata. Salvato da Grandalbero? Pazzi?
“Osmaniu…ma di che parli?” domandò dunque.
“Una cosa che non ti ho mai detto, scusami. – disse lui, sentendosi leggermente colpevole per quella mancanza – È che non sapevo se lui sarebbe stato d’accordo…ma lui, quest’uomo – e indicò con orgoglio il Cronista seduto e silenzioso – in una notte di due anni fa, quando ero scappato nel bosco, mi ha salvato da Grandalbero, sì, il Signore della Foresta, e altri pazzi come lui, cultori degli Osservatori che volevano sacrificarmi a loro.”
“Che-che COSA?! – sbraitò Lafivias – Volevano, volevano sacrificarti?! Oh, ma quante ne hai passate?!” Si alzò e, lasciando cadere penna e fogli, si gettò al collo di lui abbracciandolo fortemente. Così stretti, lei staccò un attimo il viso dalla spalla di Osmaniu per scambiare uno sguardo fugace ma pieno al Cronista, comunicandogli una riconoscenza che certo il Cronista non sentiva di meritare. Era stato tutto un caso, dopotutto. Non riuscì però a non sorridere e ad avvertire un potente calore. Fin troppo.
Oggi è decisamente la giornata dei sentimentalismi. – pensò stringendo i denti – Mi sento un sasso.
Avrebbe senz’altro desiderato controbattere alle parole di Osmaniu, che nella sua posizione, che fosse vecchio o meno, chiunque avrebbe agito come aveva agito lui, di fronte a un tentativo malsano di omicidio. Be’, non proprio esattamente come lui, di questo doveva darne atto.
“Maestro! – esclamò vitale la ragazza una volta ricomposti e seduti, attenti a possibili nuove parole – Raccontateci altro! Di come è finita la guerra, ad esempio, se il racconto non prosegue nella prossima lezione, o di voi. Sono sicura che la vostra vita sarà molto interessante.”
“Come volete voi. – acconsentì lui – No, posso dirvi alcuni dettagli anche oggi…anzi, ci ho ripensato. Meglio domani. Quindi volete sapere la mia storia?”
“Sì!” gridò Lafivias.
“Assolutamente.” Osmaniu incrociò le braccia.
“D’accordo. Tuo padre, Lafivias, non sarebbe d’accordo che usassi le ore di lezione così, ma uno strappo alla regola ci sta, se siete così interessati.”
“Be’, anche una biografia fa parte della storia, no?” disse ammiccante la terricola. Trovava sempre un compromesso!
“Ehm, non lo posso negare. Dunque, la mia storia, allora, non comincia con me. – iniziò – Ha inizio nell’anno buio e lontano del Grande Sacrificio. Mio nonno è in fuga dagli spietati guerrieri del Vulcano di allora. Ha perso la moglie per mano loro. Ma di lei possiede ancora qualcosa, qualcosa di molto importante, qualcosa che avrebbe dovuto condividere con lei: un uovo. L’uovo di mia madre, stretto tra le braccia mentre fugge per la Foresta Silente verso la costa occidentale, dove migliaia di gormiti stretti su piccole barche cercano la salvezza nell’eterea Karmil.”
“E pensare che non era una storia interessante, papà!” gridò Osmaniu.
“Osmaniu, un po’ di tatto. Stiamo parlando di suo nonno…tuo bisnonno, in fondo.”
“Karmil è ospitale ed accogliente per i numerosi fuggitivi di Gorm. – continuò imperterrito – I serenissimi ka’nhili hanno aiutato ognuno e ciascuno di essi a vivere bene, integrarsi nella società di Karmil nella quale i gormiti trovarono occupazioni molto stravaganti, e anche a dimenticare gli orrori e le perdite, grazie ai loro insegnamenti. Mio nonno crebbe mia madre quasi da solo, di tanto in tanto si faceva aiutare da balie ka’nhili, ma, se non ricordo male, non apprezzava i loro metodi e preferiva arrangiarsi.”
“Che tipo di metodi?” chiese Lafivias. Sembrava preoccupata.
“Non lo so con esattezza, cara. – rispose – Mia madre è stata cresciuta in parte dai ka’nhili, non io. Io sono stato cresciuto secondo la tradizione e i modi tipici dei gormiti, anche se la vita su Karmil si è fatta sentire in contrasto con la mia cultura pregressa. Nacqui nel 855. C’erano numerosi altri gormiti su Karmil, anche della Foresta come la mamma, ma in nessuno di essi trovò un compagno di vita ideale. D’altra parte però non voleva nemmeno ritornare alla sua vera casa, su Gorm. Non ho mai capito perché. Dopo il ritorno dei gormiti e del Vecchio Saggio, il nonno ci faceva spesso dei viaggi. Fu Gorm a venire da lei. Conobbe Paludis, e fu subito amore.”
“Paludis? Questo nome non mi è nuovo.” Bisbigliò Osmaniu battendosi l’indice sul mento.
“È un nome come un altro. Forse qualche tuo amico. – cercò di farlo tacere Lafivias; poi rifletté: il nome era familiare anche a lei – Però, c’è stato un Paludis importante. Un superstite del Grande Sacrificio, uno di quelli salvati e portati via dal Vecchio Saggio. Poi Saggio della Foresta, mi sembra. E quello che ha rivelato della rinascita. Ma di sicuro è un altro Paludis. No?”
Il Cronista rise sotto i baffi. “Mi dispiace contraddirti, ma sbagli. È proprio lo stesso Paludis. Se ricordate bene il suo personaggio, e se ho reso bene il carattere, mi sembra ovvio che la mia (passata) abilità nella lotta non posso che averla appresa da lui!”
“Non ci credo. – tuonò Osmaniu – Strapparami, Cronista e figlio di Paludis! Quel Paludis! Papà, mi sorprendi sempre di più. E pensare che queste cose le so solo ora…”
“Quindi, maestro, – soggiunse Lafivias – in voi non c’è nulla del materiale dei gormiti ricostruiti dal Vecchio Saggio. Siete puro. Un gormita originale, un vero gormita.”
“Non mi definirei in questi termini, Lafivias, e mi allarma che tu la pensi in questo modo. – disse severo – Siamo tutti gormiti in ugual maniera, ricordalo.”
“Va bene. Continuate.” Tagliò corto.
“Mio padre Paludis scoprì, forse prima di me, il mio potere speciale. Doveva averlo già visto in precedenza, per me era completamente nuovo e ne avevo paura. Lui sosteneva che fosse il vero potere della Foresta, ma in alcuni era più marcato, come in me. Non era sempre su Karmil, dopo un po’ di tempo, e quando c’era, sì, era un buon padre, ma quando eravamo da soli si dedicava quasi esclusivamente ad allenarmi. Lotta generica, magia, forza magica in entrambe le vie…e poteri elementali. Erano allenamenti strazianti, a volte, ma riusciva a motivarmi. E riuscii a strappargli la promessa che, in cambio di farmi plasmare da lui in un guerriero unico, mi avrebbe portato su Gorm. Sì, perché contrariamente a mia madre io ero affascinato da casa.”
“E poi?” domandò Osmaniu, notando che il padre si era interrotto. Da alcuni cambiamenti nella sua espressione, il Cronista avvertì che temeva si sentisse male. Anche se stava benissimo, stava solo prendendo tempo.
“E poi niente, lo sapete. Radiclon arrivò a Gorm dopo quasi vent’anni vissuti a Karmil, si iscrisse al Torneo di Astreg e vinse (Paludis era estremamente felice, considerando che fra tutti coloro che aveva allenato, solo Zetsel il Picchiatore era giunto in finale, e lo aveva deluso consegnando la vittoria a Gravitus), e il suo potere destò sospetti, paure ed interesse. Un interesse che, a guerra avviata e Radiclon arruolato come volontario, spinse diversi capoccioni nell’esercito a richiamarmi per la missione che avrebbe dovuto concludere la guerra e che…vedrete, domani, se la concluse davvero. Vi racconterò anche il resto della mia storia.”
Si alzò dallo sgabello, reggendo con entrambe le mani al bastone – nell’atto alcune sue ossa scricchiolarono, facendo preoccupare lui stesso oltre che i due giovani – si avviò alla porta, facendo alzare nel tragitto anche figlio e fidanzato, e spingendoli piano davanti a sé, indirizzandoli all’uscio dell’aula delle lezioni.
“Su, su. La lezione è finita, è durata anche troppo. – diceva, premendoli leggero ma insistente con colpi di bastone – Andate a divertirvi o, se volete, andate in giro a dire che Radiclon Strapparami è ancora vivo ed è tra noi. Voglio stare un po’ da solo.”
Assentendo silenziosi, i due si diressero, mano nella mano, fuori dalla stanza e giù per il corridoio, e poi oltre il campo visivo, verso l’uscita dal Tempio di Roccia.
Il Cronista si scrollò di dosso la mole di emozioni esuberanti ed anche opprimenti che la recente narrazione gli pesava sulla schiena, sul cuore, sulla mente e sugli occhi. Sì, si sentiva vagamente stanco e anche assonnato. Rimosse ogni goccia di stress e di ogni genere di sentimento dal suo corpo legnoso per pensare a mente pulita ed asciutta, riflettere a sangue freddo e in tranquillità, nella karmiliana serenità, sui fatti recenti e su ciò che lo aspettava ora.
Cosa lo aspettava ora? Se lo chiese ripetutamente, avanzando lentamente per il lungo corridoio, sul cui pavimento i ‘passi’ del prezioso bastone grigio si percuotevano con più intensità dei suoi stessi piedi, dando l’impressione di fatali rintocchi di un gigantesco orologio contenuto nelle pareti stesse del corridoio, sotto la pietra, sotto il tappeto, tra i busti posti sulle colonne ad ornare l’altrimenti vuoto passaggio.
Uno tra quei busti destò particolare attenzione nel Cronista, deviandolo dalla sua intenzione di riflessione, uno su cui si era già soffermato, due anni prima: il suo. Un volto giovane e da lunghi e fluenti capelli nodosi rivolti verso l’alto come potenti radici di un albero capovolto, che anche attraverso la fredda, immortale e immota roccia riuscivano a trasmettere la vitalità e lo slancio che scorrevano in esse al tempo in cui la scultura fu realizzata. Da un uomo che forse era a conoscenza, o indovinava, i sentimenti che aveva dovuto provare Strapparami. Infatti, gli occhi trasmettevano assenza, tormento interiore, e il sorriso appena accennato sulle labbra sottili era evidentemente forzato. Eppure, il piedistallo e la posizione dell’opera in quel corridoio, tra tanti altri gloriosi combattenti del passato, lo definivano come eroe.
Più e più volte, dovendo correre per quel corridoio per raggiungere la sala delle lezioni, aveva poggiato gli occhi su quel busto e in lui si animava una voglia quasi irrefrenabile di prenderlo e scagliarlo giù dalla finestra. Quel giorno non fu così. Sorrise, anzi, nell’osservarlo con fare studioso. Sorrise a se stesso, come in uno specchio. Senza capire come, senza capire perché, quel fendrie del 931, Radiclon Strapparami il Cronista era fiero di essere entrambe le identità, con tutto ciò che questo comportava. La strada dello storico aveva reso giustizia non solo ai fatti, ma alla verità, ai sentimenti di chi la storia l’ha vissuta personalmente. Picchiavex, Trematerra e gli altri assassini del suo gruppo non erano morti invano. Vivevano ancora, grazie a lui. Forse era tutto predestinato, già scritto…
Le lezioni di Lafivias non erano ancora terminate. Ciò che più premeva, con il fiato della morte sul collo, al Cronista di narrare, era stato narrato, e poteva dirsi più che soddisfatto, nonché fortunato che il tempo gli avesse concesso quel dono. Che fare ora? Trovandosi forse troppo ambizioso e perfezionista, aveva ancora un ultimo desiderio. Sarebbe stato giusto interrompere il proprio lavoro per dedicarsi a questo suo sogno, o attendere e rischiare che il tempo, questa volta, non fosse più prodigo di regali? Entrambe le opzioni non lo soddisfavano. Terminare compiutamente le lezioni e poi abbandonare Garsomor era impossibile, lo sentiva. Se non altro c’era un dettaglio del futuro a cui ambiva di arrivare: la rivelazione del tradimento di Ricardo Tarrant. L’amico del Vecchio Saggio e capitano della Mudras. Aveva subito dei ricatti, prima della partenza: Razael Akkars era divenuta una personalità scomoda nella sua città, e certi uomini di politica trovarono i giusti strumenti per toglierlo di mezzo…solo molto dopo la ‘morte’ ‘accertata’ dello stregone e la partenza di Magor questi infidi dettagli vennero alla luce…ma questa era un’altra storia e il Cronista trovò insensato rifletterci proprio allora.
Raggiunse un terrazzo e si appoggiò alla balaustra. Lì, fissò il cielo. Ancora pieno pomeriggio, era caldo e luminoso, nonostante le fosche nubi della stagione piovosa rendessero quel panorama grigio e decadente. Il sole non faceva breccia tra le nuvole, non si vedeva un angolo di blu né le lontane lune. Cercò di localizzare Greemerald, Chelreba per il resto del mondo. Non aveva dimenticato ciò che aveva vissuto, ciò che aveva scoperto quella stessa mattina, all’incognita di tutti. Era quella la causa primaria della sua stanchezza, altro che la lezione impegnativa. La storia e la narrazione erano passioni, le faceva con gusto e senza fatica. Le rivelazioni di Fossil e degli Spiriti, al contrario, non si sopportavano facilmente. Aveva davvero capito tutti quei discorsi enigmatici, giù nella Fossa? Il Cronista titubava. Credendo o non credendo a quelle parole, solo una minima realizzazione di ciò che comportavano, solo il ricordo di averle sentite impresse come chiodi nel suo cervello, lo ponevano in una condizione di instabile equilibrio tra un pianto sfrenato e una risata isterica.
Resisteva. Chiedendosi cosa effettivamente aspettasse, ora, i gormiti sulla luna verde, si precipitò nelle sue stanze, mettendo per iscritto le parole di Fossil, e constatando che quei pensieri, nonostante la stanchezza fisica, non gli permettevano di riposare.
 
<<28 Redrubise 880. Un vento assurdamente fresco, inverosimile per il pieno della stagione secca, spirava dallo sconosciuto oriente, dalle spiagge e dai boschi e dalle montagne oltre la cupa e abbandonata Tato Yami, ormai patria di un popolo spento e rassegnato; un vento che faceva ondeggiare le decine di imponenti ed organizzatissimi galeoni d’esplorazione ormeggiati sulle fatali sponde orientali di Darth Kuun. Alle spalle delle ardite imbarcazioni, dopo una sottile striscia di sabbia fine, oltre una frastagliata, rocciosa ed impervia scogliera, si apriva la desolata Valle dei Canyon, e la sterminata distesa del Deserto di Roscamar. Di fronte ad esse, confine tra Gorm e Oscuro Orizzonte, nelle profondità dell’insondato mare, nuotava incessantemente famelica e vitale l’unica divinità terrena che ancora impediva, distrutti gli esacerbanti odi razziali e di ideali, l’accesso dei gormiti al mondo sconosciuto e colmo di sogni e di progresso che si distendeva oltre l’orizzonte oceanico su cui si stagliava l’ombra di Tato Yami. Un mondo a cui dovevano aprirsi e che sapevano essere proprio laggiù.
Su quella stessa spiaggia, attraverso uno di quegli stessi sentieri che perforavano la muraglia pietrosa che troneggiava sul tenuissimo strato di spiaggia, circa settanta anni prima un uomo, un elfo era tragicamente approdato in quell’isola a lui tanto sconosciuta quanto i nomi delle regioni del Grande Golfo lo erano per i gormiti. Da quel momento, il mondo non era più stato lo stesso per i gormiti. Ora, era il turno delle altre razze a fare la conoscenza della civiltà di Gorm e, soprattutto, essere al corrente delle prodezze compiute da Razael Akkars il Vecchio Saggio e dallo Stregone di Fuoco Magor Vasìr.
Nulla poteva in alcun modo impedire ai gormiti di compiere quell’intrepido viaggio verso le coste sconosciute, mentre il vento faceva vibrare il legno delle navi e la tela delle vele, insieme all’aspettativa e al pericolo i loro cuori. Non la prospettiva di lunghi mesi in mare, lontani da casa, per la prima volta in secoli – eccezione fatta per i gormiti che dovevano l’esistenza al Vecchio Saggio. Non la possibilità di un’accoglienza poco gradevole da parte degli elfi o dei vici, che si vedevano attraccare ai loro cari porti navi armate ricolme di quelli che ai loro occhi non potevano che apparire come mostri. Non il rischio mortale che rappresentava la Grande Piovra. Non le problematiche interne, da alcuni anni messe a tacere definitivamente, o quasi.
Le Guerre di Riconciliazione erano terminate. Si era rivelata significativa come sperato la missione di assassinio nei confronti dei Triumviri da parte del gruppo di soldati capeggiati dal fu Tremoriu Trematerra. I fuggiaschi vulcanici che avevano, nel 873, preavvisato gli alleati della tremenda incombenza, erano una prova schiacciante della situazione critica in cui versava il Popolo del Vulcano: i Triumviri, forti dei meriti e dei riconoscimenti per il salvataggio dell’esercito dieci anni prima, avevano preso il potere prima con i consensi e, mantenutolo, rafforzatolo con il pugno di ferro, con una vera e propria tirannia. Si erano circondati di uomini fidati, audaci e tremendi come loro, fedeli ai loro ideali tramandati dai sogni di Magor, a cui fecero ricoprire con cariche di importanza in modo tale da tenere salda la convinzione presso il popolo che la guerra era giusta e si poteva vincere. Morte le tre teste, i gerarchi rimasti non furono in grado di mantenere stabile la situazione, di tenere alto il morale di soldati e civili insieme. Gli eserciti a poco a poco andarono allo sbaraglio, comandati da persone sì competenti ma che non avevano chiari i progetti di chi li aveva messi in movimenti né avevano l’esperienza per portare a termine quella grande impresa. Si sollevarono rivolte sempre più accese e sempre meno controllate. Gli aerei di Picco Aquila contrastarono l’assedio dei centri e l’occupazione, e scacciarono i vulcanici e i loro alleati, costringendoli a ripiegare da Dalarlànd. Su Darth Kuun l’esercito che bloccava comunicazioni e movimenti al Popolo della Terra riuscì a resistere maggiormente, ma crollò definitivamente con l’arrivo, inaudito, di mercenari gargoyle richiamati da Tato Yami. I guerrieri da più fronti si riunirono e posero sotto assedio Monte Vulcano – un’impresa colossale: circondare un’intera montagna! – marciando nel percorso anche su Rabukh che quasi non pose resistenza, anzi, al passaggio dei soldati sembrò quasi felice. Ci fu la resa, e l’ambita riconciliazione. Il tempo dei conflitti per la razza, per vendicarsi del Grande Sacrificio, per l’Occhio della Vita, per il mondo, erano conclusi. Ora il mondo i gormiti ambivano sì a conquistarlo, ma non con la forza delle armi, e non divisi ma uniti come mai prima. Un primo abbozzo dell’attuale Consiglio dei Signori per governare unitamente l’Isola di Gorm era già stato gettato, così come l’abbattimento delle frontiere etniche e la fine della suddivisione politica per Popoli.
La Grande Piovra era l’unico ostacolo. Programmi per il viaggio erano stati precedentemente stilati da esperti, il naviglio era in costruzione da tempo e di coraggiosi volontari o semplici sognatori con voglia di impegnarsi ce n’erano in quantità inaspettate, tanto che le navi ultimate per l’880 erano insufficienti per tutti i gormiti. Ci sarebbero stati viaggi successivi, se quello avesse avuto successo.
Nessuno temeva il fallimento. Erano tutti pronti, seppure preoccupati, perché danni e perdite ci sarebbero senz’altro stati, ma erano convinti che ne sarebbe valsa la pena. Dopo la grandiosa vittoria sulla Grande Murena, l’ultima frontiera, per quanto incredibilmente più sfuggente, veloce e, forse, non unica, molti credevano, non poteva e non doveva essere invincibile agli sforzi dei gormiti uniti. Insieme anche ai gargoyle, esperti nella forza magica che si sarebbero rivelati utilissimi nell’iniziativa. Gli yamensi erano tuttavia, come detto prima, spenti e rassegnati, intimoriti come gli altri gormiti, ma anche molto, molto più preoccupati per il futuro approdo alle coste – dopotutto erano stati confinati a Tato Yami generazioni prima e non avevano mai tentato un ritorno – come anche incredibilmente delusi e arrendevoli. Questo perché Karmil, sin dal 878, era vuota. I ka’nhili dell’isola, nessuno sa di preciso come e perché, ricevettero un messaggio: erano riammessi in patria. Si volatilizzarono dopo questa comunicazione comunicata a Iustinsula da un singolo messaggero in armatura a piastrelle. Non ne rimase uno su Karmil, o su Gorm, o altrove nelle immediate e conosciute vicinanze. Per i gargoyle yamensi, al contrario, non ci fu nessuna piacevole sorpresa di questo genere. La loro situazione era invero triste, ma i gormiti, e i gargoyle stessi, dovevano guardare avanti. Avanti come la direzione che le imbarcazioni, aperte le grandi vele bianche, avevano intrapreso speranzose e intraprendenti. Grida accompagnarono le navi nei primi piedoni di mare, sui battelli stessi come a riva, esultazioni e urla disperate di chi si augurava, sul molo arrangiato per l’occasione, che tutto procedesse per il meglio e di non dover assistere a una disfatta epocale e a una strage in mare sotto i propri occhi.
Stormi di marini accompagnavano ognuno degli otto galeoni a nuoto, attorno ad esse e a debita distanza dalle fila di remi che, come da tradizione elfa, come Razael aveva insegnato loro, emergevano dallo scafo e coadiuvavano nell’accelerazione e nel mantenimento della velocità in concomitanza – o in assenza o in troppo debole presenza – del vento, che quel giorno si rivelava contrario ma non troppo forte, e delle correnti subacquee. A loro il difficilissimo compito di avvistare la Grande Piovra in arrivo e dare avvio all’operazione per catturarla e renderla innocua.
La bestia che infestava gli abissi nord-orientali di Gorm e gli incubi di numerosi abitanti non si fece attendere molto. Io ero lì: ritirato dall’esercito sin dalla fine della guerra per il senso di colpevolezza, avevo fatto in modo che non si sapesse più nulla di me. Avevo sogni, e ambizioni, che non mi erano ancora del tutto chiari, mentre operavo come un incognito mozzo sul ponte di quella nave. Sapevo però che volevo abbandonare Gorm, che mi aveva ‘aiutato’ a scoprire ed allenare un’inclinazione che mi aveva portato solo morte e rimorso, volevo vivere nuovi ambienti e liberare con essi cose su di me che Gorm non avrebbe potuto sollevare. Io ero lì, e vidi chiaramente l’ombra minacciosa che si stagliava appena appena sotto il pelo dell’acqua, a velocità incredibili. Le urla di coloro vicino a me, l’agitazione dei marini che l’avevano avvistato, la preparazione delle armi. Fu un caos indescrivibile, inizialmente: tutte le imbarcazioni virarono confusamente in ogni direzione, cozzando pure le una contro le altre, a volte minacciando di scontrarsi apertamente e distruggersi irreparabilmente. I remi frustavano l’acqua febbrilmente, gormiti del Mare sciamavano come pazzi nell’acqua sotto di noi. Tentacoli micidiali che non si potevano dire di una piovra, più di un rettile, di un mostro acquatico di altri mondi con la robustezza di un grande predatore terrestre, danzavano la danza della morte davanti agli occhi miei e di tutti gli altri, che a stento ci reggevamo in piedi su quelle costruzioni in legno mosse al limite della loro resistenza. Non si riusciva a dire se quei movimenti della flotta fossero intenzionali a casuali, causati da impeti di pazzia che corrodevano le nostre azioni, ma sembrava che stesse funzionando, qualsiasi fosse il suo fine, se ne aveva uno: la Grande Piovra era disorientata e non si risolveva a quale nave attaccare per prima. I suoi arti inimmaginabili si agitavano paurosamente, ma il cervello dietro quella danza rimaneva oscuro sotto la superficie. Non per molto: i gormiti del Mare entrarono in azione. Con l’aiuto delle tenebre dei gargoyle e di altri stregoni, la Grande Piovra fu strappata dall’acqua. Colonne liquide altissime e pesantissime si separarono dal mare, sollevandosi per piedi e piedi sopra di noi, sopra le imbarcazioni, scoprendo i fondali cedevoli dominati da rocce e alghe, e rivelando, incredibilmente privata della sua invulnerabilità, la bestia infame, che…che….>>
Il saggio maestro interruppe di colpo la narrazione. Bruscamente, si portò la mano libera al petto. Il cuore…il cuore funzionava, lo sentiva. Ma lui sentiva freddo, freddo tutt’intorno a lui. Aprì la bocca per parlare, per continuare a raccontare, ma non un fiato o un suono uscì dalle sue labbra.
Il gelo lo sovrastava, lo riempiva, lo ricopriva come un velo arido e soffocante.
“Papà! Papà!” Osmaniu corse forsennato verso di lui, nello stesso momento in cui il Cronista cercò di alzarsi, ma il risultato fu solo un tremendo ruzzolone giù dalla seggiola, il bastone scivolò dalle dita e rotolò per il pavimento, così come gli occhiali. Il Cronista si reggeva sulle mani tremanti, ma era come se il pavimento stesso lo stesse attirando a terra con più forza del normale, ed ogni minimo tentativo di opposizione veniva respinto con una fatica insormontabile. A nulla sembrava servire l’aiuto di Osmaniu a rimettersi in piedi. Lafivias aveva cacciato un grido e si era portata le mani alla bocca. Di nuovo, stava succedendo. Esattamente come la prima volta. Avvertiva una pesantezza infinita, una debolezza che nemmeno centinaia di diamanti pieni di energia avrebbero saputo risanare. Non respirava, si sentiva scoppiare, esplodere dal freddo e dalla mancanza d’aria. Era come la prima volta, ma c’era qualcosa di diverso, di molto più grave.
Gettò con uno slancio gravoso il suo braccio attorno al collo di Osmaniu, cercando di sollevarsi, di raggiungere l’orecchio del figlio e dirgli qualcosa di importante.
Con un impeto che gli parve di gridare a squarciagola, riuscì a sussurrare al figlio alcune parole: “Chiama…chiama Ceresa. Ceresa! Mia figlia…”
“Papà…cosa…cosa dici?”
“Naamiki…la…conosce, le ho chiesto di lei…lei è qui. Ceresa qui. Chiamala…”
In un conclusivo decisivo scatto, mormorò l’indirizzò di Ceresa. Poi perse i sensi.
 
Si svegliò nel suo letto. La luce gli feriva gli occhi. Lamentò versi incomprensibili, gemiti soffocati e inespressi, che nemmeno alle sue orecchie o alla sua mente risultavano chiaro, mentre cercava di muoversi sotto le coperte. Una prigione di tela pesantissima, che lo premeva come un macigno. Respirava, ma si sentiva soffocare sotto quelle lenzuola. La sensazione di freddo non lo aveva abbandonato e quello strato soffocante di lino non lo aiutava a scaldarsi. Un inerte velo di metallo steso sopra di lui, che non lo proteggeva né lo scaldava. Muovere un muscolo, anche agitare le palpebre, gli costava più di quanto gli fosse costato inseguire Orrore Profondo per il bosco al largo di Ilabukh ed ucciderlo. I suoi ricordi erano offuscati…ma non ciò che vedeva con i propri occhi in quel momento. Si trovava nella sua stanza, e non da solo. Alla porta, preoccupatissimo e sudato, attendeva ordini dagli altri un inserviente elfo, quello che, insieme a suoi simili, quel tale Leppelin voleva ricondurre in patria per essere posto sotto processo. A un lato del letto, vi era Osmaniu, Lafivias dietro di lui. Il suo viso infuocato era reso ancora più rosso da un pianto recentissimo e da un’afflizione immane, ora sanati da un inesplicabile sollievo.
“È sveglio! Papà, sei ancora con noi.” Gridava. Lafivias accorse al suo fianco, timorosa.
Dall’altro lato del letto, Ceresa. La figlia del Cronista, la vera figlia di Radiclon Strapparami e di Inamia.
“Padre mio…sono qui con te.”
Soavi, dolcissime, paradisiache erano per le orecchie del Cronista quelle parole da una voce che non sentiva da anni – salvo per comunicare la morte della madre – melliflui e rilassanti i movimenti di quelle labbra che da tanto, troppo tempo non vedeva rivolgere verbi a lui. Per brevissimi eterni istanti, il gelo che dominava le sue stanche membra fu più tollerabile, quasi piacevole.
Alta, molto alta e slanciata, più del genitore, era sua figlia, di corporatura apparentemente esile ma robusta – Radiclon sapeva bene come allenare, dopotutto – dipinta di una docile gradazione di marrone orlata da venature e bordi di un verde intensissimo, quasi abbagliante quando il sole lo illuminava. Petto massiccio, ampio, ma spalle insolitamente spioventi, al di sotto delle quali si distendevano due paia di braccia allungate, quello interno più corto dell’esterno, che terminavano in tre dita affusolate e sottili per ogni mano. Il suo viso, e non lo diceva solo come padre, era tra i più graziosi e articolati che avesse mai visto osservare con cerulei occhi ingenui, innocenti e curiosi prima, esperti e ricercatori dopo. Delicato, labbra sottili come quelle del padre, dalle guance, dalle tempie e dalla cima del capo prendevano forma, verso l’alto, rilievi esili, ricurvi come artigli ed affusolati come capelli d’elfo, dando nel complesso al suo volto un aspetto di irresistibile armonia.
Come il padre, e con la sua benedizione, la figlia aveva intrapreso viaggi fuori da Gorm. Di cosa si occupasse, ogni volta era diverso, ma vista l’empatia dei gormiti vegetali della Foresta per la flora, la fauna, la conoscenza intrinseca o l’intuizione di proprietà di piante o caratteristiche di animali, l’innato senso di orientamento nelle selve, ne facevano, presso le genti del Grande Golfo, cacciatori ed esploratori molto richiesti – e molto pagati.
La sua caccia si era interrotta, ora. Si era interrotta per lui, suo padre. Suo padre che, provando l’intollerabile e ancor maggiore gelo dell’aria fuori dalle coperte, mosse un braccio verso di lei. Le accarezzò il viso, toccando la cosa più preziosa che gli era rimasta e che avrebbe lasciato come sua eredità. Lisciò quelle ciocche legnose, constatando la loro morbidezza ed elasticità, ancora lontane dalla durezza e dalla rigidità della vecchiaia come era toccato ai suoi capelli. Stretta sulla guancia di Ceresa, la figlia pose la propria sulla mano del padre, poi la prese e la strinse con entrambe.
“Non sei da solo, padre. Resisti, fino alla fine!” gli disse in un gemito.
“Ah…ah! – gemette lui, perdendosi negli occhi azzurri della figlia – O…Osmaniu, vieni qui.” Lo chiamò. Quello fu subito dall’altra parte del letto, Lafivias che lo seguiva a ruota, e al fianco di Ceresa. Osservò con gioia ed afflizione quei due gioielli, luminosi di azzurro e di giallo. Non era una sola cosa la più preziosa che gli era rimasta, ma ben due.
“Mia figlia…Osmaniu, lei è mia figlia Ceresa, lo-lo sai. – disse, cose che probabilmente già sapevano – Ceresa, lui è mio figlio, come te. L’ho adottato…l’ho preso…sotto di me. Non sono riuscito a portarlo fino all’età adulta.”
“Papà!” esclamò il vulcanico, sull’orlo di un altro pianto, stringendo la mano di Radiclon tra le sue e quelle di Ceresa.
“Non dire così. – lo tranquillizzò amorevole Ceresa, accarezzandogli con una delle altre mani la fronte – Sei forte, padre. Ce la farai.”
“No. Non ce la farò. Non ce la posso fare. Ceresa, Osmaniu…questo è il mio ultimo giorno. Lo so.” Annunciò tragico in un filo di voce, le parole disturbate da una sofferenza che non riusciva a nascondere.
Tutti i presenti lo guardarono mesti. Non volevano più illuderlo, o illudersi: le sue condizioni erano irrecuperabili.
“Figli miei…voglio andare a Karmil. – disse dunque –Voglio vedere casa mia un’ultima volta…prima di morire. Se…seppellitemi là. Niente…niente cremazione.”
Alla mestizia dei figli e degli altri si aggiunse un animo allibito. Fissarono stralunati il vecchio in letto di morte.
“Padre…Karmil è lontana…non so se ci arriveremo.” Spiegò dolorosamente Ceresa.
“Non importa. Devo tornare…devo…ricordare. Non dormirò, non mi servirà più. Starò sveglio finché non sarò…a casa.” obiettò, consapevole di essere patetico, volendo conferire a quelle parole la forza della sua intenzione, le quali però non erano altro che i rantoli di un vecchio.
Ceresa, Osmaniu, Lafivias e il servo continuavano a fissarlo increduli, senza dire una parola. Radiclon avvertì un’improvvisa fitta di rabbia.
“Se non mi volete aiutare…ci andrò da solo.” Con fatica inconcepibile per i giovani al suo capezzale, si tolse di dosso le coperte e si voltò per alzarsi dal lato del letto opposto a quello su cui premevano i figli. Fu lento, fu veloce, non riusciva a capirlo. Strisciò sul materasso e cadde pesantemente dall’altra parte, prima che potessero fermarlo o impedirgli la caduta. Furono presto da lui a sollevarlo.
Gocce di lava scivolarono sul suo corpo sempre più freddo dai suoi occhi, lasciandosi alzare e mettere seduto sul letto come un pupazzo o un cadavere dai presenti, che lo osservavano con crescente compassione. Dovevano crederlo un pazzo, nei suoi ultimi momenti. Demenza senile.
“Vi…vi prego. Non sono pazzo. Per favore. – li implorò, senza freno alle lacrime – Per me…è importante. Esaudite l’ultimo desiderio di un vecchio.”
“Va bene, papà. – acconsentì infine Ceresa, occhi lucidi e viso umido, abbracciandolo – Faremo come desideri.”
Lo vestirono. Lo ricoprirono con la mantellina grigia, ben abbottonata e stretta, con cui era solito tenere le lezioni nella Foresta Silente; volle mettersi anche la sciarpa viola. Un prezioso ricordo di Inamia, suo unico vero amore. La moglie del Cronista e la madre di Ceresa viveva ancora in quel tessuto, e l’avrebbe accompagnato verso l’ultimo orizzonte. Gli gravavano sulle spalle e sul collo impossibilmente, ma non si sarebbe separato da quegli abiti. Prese gli occhiali, il bastone, a cui si reggeva stancamente con entrambe le mani, trascinandosi quasi. Ceresa a sinistra e Osmaniu a destra – Lafivias, muta, sempre al fianco – lo sostenevano e stavano al suo passo. Presero per ultimo del sale nero.
Prima di varcare la soglia, si volse verso la sua stanza nel Tempio di Roccia. Un ultimo sguardo prima del viaggio senza ritorno, a quella che era stata casa sua, una dimora stabile e permanente come mai nessun’altra, quando ancora seguiva le anacronistiche tradizioni nomadi del Popolo della Foresta. Quanto poco era vissuto lì! Due miseri anni, giorno più giorno meno, contro una vita, quasi mezzo secolo, tra viaggi nelle ignote selve della Setturnia e del Venturgio, sui monti nevosi di Inverrith, nei meandri sconosciuti di Gorm, poi il nomadismo in ogni angolo della Foresta Silente. Prima ancora, circa vent’anni di permanenza in un’unica casa, nella lontana e luminosa Karmil dalle palme esotiche e dalle spiagge bianche. L’unica vera casa che era significata davvero qualcosa per lui, la dimora in cui desiderava ritornare. Per sempre. Quanto poco era vissuto nello sfarzoso Tempio di Roccia, e quanto a lungo avrebbe ancora voluto viverci! Voleva poter lasciare quel posto con la sensazione che avesse significato per lui qualcosa di veramente importante. In un modo o nell’altro, era così. Lì era riuscito a dare una vita e un futuro ad Osmaniu, aveva riscattato il proprio benessere e la propria identità dopo gli ultimi dolorosi eventi nella Foresta. Gli anni della vecchiaia sono più lunghi e più intensi, ma due sono sempre brevi. Avrebbe voluto passare ancora del tempo con Atarros, vederlo compiere i cinque anni del suo mandato, concludere con soddisfazione le lezioni di Lafivias. Non era possibile, però, e doveva arrendersi a questo fatto. Karmil lo chiamava: doveva guardare avanti, perdersi nello sconosciuto che si apriva di fronte a lui quel giorno.
Atarros fu di poche parole. Non per fretta, non per disinteresse. Lui stesso, uomo duro e fiero, non riusciva a contenere le emozioni di quella separazione. Abbracciò a lungo Radiclon il Cronista, uomo a cui si era affezionato in quegli anni, gormita che non era solamente un dipendente del Signore come insegnante della figlia, ma un amico. Permise a Lafivias di accompagnare la famiglia di Radiclon.
“Non ti voglio lasciare adesso, Osmaniu. – diceva, stringendo le mani al vulcanico – Voglio essere con te.” Si lasciarono andare in un bacio, il primo che Radiclon vedesse sotto i suoi occhi da quando sapeva della loro relazione.
Noleggiarono una carrozza trainata da salamandre di scura scorza viola, diretti al porto di Ilabukh.
Silenzioso fu il tragitto, attraverso la desolata Valle. Le mura inossidabili di Garsomor furono presto alle loro spalle, chiuse per sempre al Cronista. I suoi viali illuminati a festa durante la notte, i pittoreschi e gioviali mercati del giorno…erano già un ricordo. Un ricordo che avrebbe serbato nel cuore, dovunque il viaggio l’avesse condotto. Radiclon non aveva che occhi per il paesaggio. Che ricordi risvegliavano in lui quelle distese rosseggianti e quelle impietose pareti e voragini scavate dal tempo? Sicuramente in numerose occasioni, a piedi, a salamandra, da solo o in compagnia aveva attraversato quei labirinti color ruggine, nel perfezionare la sua ricerca storica e ritrovare i discendenti degli uomini che avevano fatto la storia dell’Isola. Probabilmente non c’era angolo dell’Isola di Gorm che Radiclon non avesse esplorato e studiato.
Presto l’ambiente si fece meno desolato, il terreno meno rosso e fecero capolino le prime caratteristiche rocce scure di Darth Kuun. Entrarono nei domini del fu Popolo del Vulcano, ora suddivisi in Darth Kuun Nord-Est e Darth Kuun Nord-Ovest.
Abituarsi ad attraversare in tranquillità quelle terre un tempo dominate da gormiti bellicosi che distruggevano ogni tentativo di entrata degli altri abitanti era, ancora dopo circa sessant’anni, un’impresa impegnativa. Specialmente per chi era vissuto nei tempi bui quando i conflitti erano ancora accesi, per chi quei conflitti li aveva vissuti, ed esattamente in quello stesso paesaggio.
Non rabbrividì, il Cronista, nel rimettere piede in quella terra sanguinosa e memore. Il passato era passato, ormai se ne era fatto una ragione, e ciò che aveva fatto era parte di esso. Non poteva cambiarlo, anzi, ne doveva essere fiero. Della città stessa di Ilabukh, delle sue mura un tempo distrutte dall’esercito del Popolo del Mare e dei ka’nhili, Radiclon non osservò nulla in particolare. Scomparse le pianure della Valle del Vulcano, il suo sguardo era fisso sul mare, sullo Stretto di Gorm.
Sul porto vero e proprio, discesi dalla carrozza, c’era il caos. Centinaia di gormiti tutti accalcati,  spintoni, grida, prepotenti che saltavano la fila, tentativi di scippo. Pareva proprio che non fosse un buon giorno per morire, ed andare a Karmil. Radiclon scoppiò a ridere, scatenando la preoccupazione dei figli e di Lafivias. Pensò a tutto Ceresa, e Radiclon non aveva idea se il traghetto verso cui si stavano dirigendo avesse circumnavigato tutta Dalarlànd per approdare a Karmil o avesse attraccato in qualche porto a metà tragitto.
Purché fosse arrivato alla sua meta, avrebbe fatto di tutto. Avrebbe rallentato la morte.
Ceresa non ce la faceva più, tra la folla. Osmaniu non era da meno. A un certo punto sbottò: “Largo, fateci passare! Radiclon Strapparami è con noi, ed ha molta fretta!”
Fu provvidenziale. Pure se imbacuccato e invecchiato com’era, disperso da lunghi anni, quel nome non era stato dimenticato né il volto associato: lo riconobbero e fu più facile per Radiclon e compagni raggiungere il molo e acquistare il proprio biglietto per il viaggio finale.
Radiclon rise.
“Ah…non so come abbia potuto funzionare. – disse ad Osmaniu, sorridente, una volta che il traghetto lasciò il porto – Queste persone hanno paura di un vecchio? Non ci credo davvero.”
“Papà, anche se sei un vecchio, sei un gormita rispettato. – replicò lui, stringendogli la mano – Sanno chi sei e cosa hai fatto. Forse non lo sanno come lo sappiamo noi, ma per loro, sei davvero un eroe. E lo sei anche per me.”
“Per…per te, figliolo?” domandò in un fil di voce, incerto. Essere definito come eroe non lo infastidiva più.
“Sì, papà. Per me. Tu sei stato l’unico vero padre per me. Mi hai dato più di quanto avessi mai potuto chiedere. Per questo, sei l’eroe più grande di tutti.”
Radiclon scoppiò a piangere. Si accasciò a terra e abbracciò l’inaspettato figlio che aveva arricchito la sua vita altrimenti vuota e deludente dopo la morte di Inamia. Non c’era davvero altro modo per esprimere ciò che provava. Quella vita lunga ed intensa, colma di rimorsi, di pentimenti, di scelte sbagliate, di sofferenza, e di ingiustizie, continuava a sorprenderlo, persino nelle ultime ore.
La sua esistenza, giunta al termine, ora si mostrava ai suoi occhi nella sua interezza, per quello che era davvero. Di tutto quello che aveva passato, nel bene e nel male, Radiclon non rimpiangeva nulla. Mentre il mare scivolava veloce sotto di loro, sotto il legno dell’affollato traghetto, e le onde si infrangevano morbide sulla chiglia e schizzi lambivano il viso del Cronista, questi si accorse della fortunata esistenza che aveva vissuto su Gorm. Tutte le sue delusioni, tutti i suoi capricci…che stupido era stato! Radiclon aveva avuto molto più di tanti altri, molto più di quanto sperava, molto più di quanto, prima di quel giorno, si era accorto di avere.
Non era un gormita qualunque. Le sue sofferte azioni avevano posto fine a una guerra troppo lunga, era un vero eroe. Paludis sarebbe stato fiero di lui. Trematerra sarebbe stato orgoglioso. Nei suoi viaggi aveva esplorato luoghi esotici, conosciute persone di altre razze e di altre culture amabili e ricche di carattere. Aveva fatto sua una conoscenza che spaziava l’intera estensione del mondo conosciuto, ed aveva messo i suoi segreti a servizio della sua gente. Aveva salvato un innocente orfano del Vulcano, lo aveva fatto suo figlio e gli aveva offerto un’esistenza migliore.
Il cerchio si chiudeva, e Radiclon era felice. La ricchezza che aveva raccolto non poteva essere contata: era nel suo cuore. Essere ricchi era ricordare, rivivere una memoria, fare tesoro delle proprie esperienze, delle piccole cose. La storia della sua vita era stata costellata dalla solitudine, dalla fatica, la libertà di spazi aperti, dalla speranza, da migliaia di piedi da percorrere e da scoprire. Dagli sconosciuti che aveva incontrato sul suo cammino, dai bivi, dalle promesse. Alla fine dei suoi giorni, raccoglieva ciò che aveva seminato, e di fronte a lui si accumulavano frutti dorati, che sarebbero sopravvissuti alla sua partenza da quel mondo.
Capì, allora, quanto era stato egoista, egocentrico, capriccioso in numerose occasioni dei suoi anni, e quanto era stato fortunato, quanto il caso che governa il mondo gli era stato sempre al suo fianco, per poter godere di tutto ciò che ora si lasciava alle spalle, ma con serenità.
Casa sua non era Karmil. Non era Garsomor né Gorm. Casa sua era lì con lui. Ceresa, Osmaniu, Lafivias. Inamia e Paludis e la madre, che presto avrebbe raggiunto.
Invitò Osmaniu farsi più vicino.
“Figlio mio…la tua compagnia è ciò che di più prezioso ho ricevuto in questi ultimi anni. Voglio che tu sappia…che sarò sempre con te. Voglio essere sempre con te, voglio crescerti. Non posso farlo con queste mani – e le mise sulle guance morbide e calde del giovane – ma il lavoro che queste mani hanno fatto, loro possono. Consideralo un testamento, anche tu, Ceresa. – qui si rivolse direttamente alla figlia – Il mio sale nero, le mie proprietà…le consegno a voi, a te. Fa’ in modo che Osmaniu viva bene come hai vissuto bene tu…come ho vissuto bene io. Crescilo come ti ho cresciuto io, crescilo come tuo figlio…non abbandonarlo. Lafivias.”
La ragazza che dall’inizio di quel giorno aveva la parola bloccata dal pianto e dalla tristezza, si fece avanti, asciugandosi il volto.
“Anche tu sei stata importante, perché sei importante per Osmaniu. A te…consegno questo. – estrasse da una tasca interna del suo abito un pacchetto di fogli – Conservalo con cura, te ne prego. Io non ho potuto completare il tuo insegnamento, non ho potuto dirti tutto quello che dovevi sapere. Dovrai continuare senza il mio aiuto. Al Tempio di Roccia troverai altri miei appunti…se la storia è davvero la strada che vuoi intraprendere, leggi con attenzione ciò che è contenuto qui. Non dirò altro, capirai da te. In questi tempi di cambiamenti, il passato di Gorm non può essere dimenticato, ed è importante che i gormiti sappiano cosa attende loro in futuro.”
“Sì, maestro. Sarò la nuova Cronista. Proseguirò la vostra missione.” Esclamò decisa, stringendo con forza e con il sorriso quei fogli.
“Non ti ho chiesto questo…è un compito difficile. Ma sono sicuro che saprai adempirlo. Ora… – si rivolse sia a lei che a Osmaniu – Vedervi felici insieme…è meraviglioso. So che siete giovani, immaturi, ma prendetevi cura di quello che esiste tra voi due, prendetevi cura di voi stessi. Voglio che siate felici insieme per il resto della vita.”
“Ci…ci proveremo, papà.” Singhiozzò Osmaniu.
Radiclon, che tutto il tempo era stato per terra, appoggiato allo scafo, inclinò la testa all’indietro, adagiandola sul bordo. Il gelo aveva aumentato la sua presa, ma il sorriso che gli illuminava il volto morente lo contrastava. Davanti a loro, davanti agli altri occupanti del traghetto, gettò il bastone, si tolse gli occhiali, la sciarpa e la mantellina. Il vento freddo della morte lo invase con tutta la sua forza; si alzò a fatica, e si poggiò coi gomiti al bordo dello scafo. Scrutò con i suoi veri occhi, senza l’ausilio degli occhiali, il lungo nastro cristallino dello Stretto di Gorm, lo osservò perdersi all’orizzonte, confondersi con il blu dell’orizzonte irraggiungibile, mescolarsi con il cielo sconfinato, sfumare con il mondo e l’universo intero.
L’ultima goccia di calore cominciò a filtrare lentamente dalle sue membra, come se le sabbie del tempo scorressero per lui in tempi infinitamente lunghi. In quell’attimo conclusivo, in quel momento che racchiudeva l’eternità dello spazio e del tempo, mentre piano piano la consapevolezza di Radiclon ritornava a far parte della grande anima dell’universo che l’aveva partorito per conoscere se stesso, davanti agli occhi della mente del gormita fluì la verità. I suoi veri occhi fissi sul mare sprofondarono nei suoi abissi e oltre i fondali, raggiungendo il nucleo incandescente e liquido di Mitera dove, lo scopriva ora, avevano origine i moti dei vulcani e dei terremoti che plasmano continuamente i mondi dove vi è vita. Ritornò indietro, ripercorse tutto lo spazio dal centro del mondo ai fondali; volò via dalle profondità marine fino ad arrivare oltre il cielo e raggiunse il sole Nejema. Da qui comprese l’errore delle tradizioni astronomiche dei gormiti. Il mondo non era piatto, non era fissato al centro di una sfera vuota nel nulla, separato da altri mondi accessibili solo con la magia, Nejema e le lune e tutte le stelle non erano dischi piatti trainati da invisibili carri in percorsi regolari. Ogni cosa era un corpo sferico di arcane età soggetto a reciproche attrazioni, e le stelle tanto piccole erano ammassi giganteschi di fuoco lontani distanze incalcolabili. La consapevolezza di Radiclon percorse queste distanze, nello spazio e nel tempo, seguendo le linee infinitamente piccole che si espandevano nel vuoto dall’inizio dell’universo, portando tutta la diversificata materia sempre più lontana da se stessa, conducendo in tempi lontanissimi a un universo morto, buio e freddo.
Contemplò le ramificazioni del tempo: si soffermò sulla distrutta Fossa degli Spiriti, dove Fossil-Larcon ancora vivo e vittorioso sugli Spiriti pianificava il suo progetto di liberazione di Gorm dalla rete degli Osservatori. Vide su Chelreba questi ultimi e ciò che avevano in mente per i gormiti nel lontano futuro, ora che erano stati smascherati e che, presto, tutti avrebbero saputo. Vide i collegamenti nascosti che rimandavano tutto agli Osservatori, e ai tre cerchi e uno. Il marchio sul Cuore dello Scudo, le visioni e i disegni di Lavion, le allucinazioni di Buferios, le parole e le immagini impresse nella mente dei gormiti dall’Occhio durante la Terza ondata, i graffiti dei cultori nella gallerie della Città Sotterranea, i ciclopici geroglifici della Fossa degli Spiriti. Vide il futuro della Gorm unita, governata sotto il Consiglio dei Signori, come i gormiti di Terra, Aria e Vulcano sarebbero stati i più numerosi e si sarebbero mescolati sempre di più, come i gormiti della Foresta e tutti i vegetali, per preservare la loro società di fronte a un mondo in cambiamento, si sarebbero isolati su Karmil e come il Popolo del Mare avrebbe completamente abbandonato la vita terrestre. Vide la verità delle profezie udite durante la sua visita a Patmut Iun, e la minaccia che la Rovina, ciò che rimaneva dell’Occhio della Vita, rappresentava quando i Signori della Natura dall’Altro Mondo l’avrebbero trovata e condotta nuovamente su Gorm.
Vide infine la Rovina stessa, e vide i potenti gormiti e i gargoyle e i ka’nhili d’un tempo e Magor e Razael intrappolati in un mondo di ghiaccio e di luce rossa, l’ultima prigione e l’ultima casa dopo il saluto dato alle alte mura di Roscamar molti anni prima.
Tali visioni rivelatrici, le osservava come uno spettatore esterno, disinteressato ed apatico. Cosa poteva veramente importargli di tutto questo, ora? Moriva di una morte serena: non chiedeva altro.
In un estremo slancio, come se volesse catturarlo per farne un dono ai posteri, sollevò un braccio e distese le dita verso il sole che squarciava le nubi. Radiclon Strapparami il Cronista cadde un’ultima volta, il melidie 7 Tealse 931.

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