Glasses & Superman

di Triz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Good morning, Harold ***
Capitolo 2: *** Il tempo di Harold ***
Capitolo 3: *** Sperare ***
Capitolo 4: *** Nati per morire ***
Capitolo 5: *** Il guardiano notturno ***
Capitolo 6: *** Il gioco dell'imitazione ***
Capitolo 7: *** Sensazioni ***
Capitolo 8: *** Starburst ***
Capitolo 9: *** Un nome comune ***
Capitolo 10: *** Una vita impossibile ***
Capitolo 11: *** Thank you, Harold ***



Capitolo 1
*** Good morning, Harold ***


Good morning, Harold
Prompt: Qualcosa su questa fanart.

I passi di John Reese e l'odore del tè caldo svegliarono Harold Finch di colpo.
Aveva dormito poco e male - il nuovo numero era risultato parecchio impegnativo e una sedia non era un buon letto per uno con la schiena perennemente a pezzi - e il tè era proprio quello che ci voleva per tirarlo un po' su di tono.
Harold si tolse gli occhiali e sbadigliando si stropicciò gli occhi ancora assonnati: fece per indossare di nuovo le lenti, ma John e il suo bacio sulla bocca glielo impedirono per un lungo istante.
«Buongiorno, Harold» gli sussurrò all'orecchio quando si lasciarono.

 
(103 parole)

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Capitolo 2
*** Il tempo di Harold ***


Il tempo di Harold

Prompt: Doctor!Harold/Companion!John. Harold sapeva che prima o poi sarebbe giunto il momento di andare su Trenzalore. Aveva cercato di avvertire John in tutti i modi, di convincerlo a lasciarlo, ma non c'era riuscito. E anche quel giorno, di fronte all'ennesimo avvertimento, aveva semplicemente scrollato le spalle e aveva mormorato, guardandolo negli occhi, "There's no place I'd rather be".

Note: È ispirata allo speciale natalizio Il tempo del Dottore della serie Doctor Who.

Non capiva per quale motivo la Macchina ci stesse mettendo tanto.
Un'ora poteva anche starci, due lo avevano insospettito, ma cinquecento anni stavano diventando decisamente troppi.
Harold sospirò e, appoggiandosi al bastone, si avvicinò alla finestra della biblioteca di Natale, da cui vide uomini e donne riprendersi dall'ultimo, spaventoso attacco dei Cybermen, ma non vide alcuna traccia della Macchina.
Si voltò e vide la crepa nel muro sussurrargli quella domanda tanto temuta: sarebbero bastate due parole - solo il suo nome - e i Signori del Tempo sarebbero tornati, portando con loro l'incubo di una nuova Guerra del Tempo.
I Signori del Tempo, lo stesso popolo che lui aveva creduto distrutto dalla sua mano, dimenticando di averlo messo al sicuro: Harold ricordò la prima volta che aveva parlato di Gallifrey con John Reese, supplicandolo poi di non riprendere più l'argomento. 
John, il suo ultimo compagno.
Aveva costretto la Macchina a riportarlo a casa senza neanche dargli il tempo di dirgli addio, ma in fondo era meglio così: probabilmente aveva imprecato all'inizio e lo aveva insultato, ma poi si era ricostruito la sua vita e, chissà, magari aveva persino dimenticato il quattrocchi che lo aveva quasi investito con il suo TARDIS.
«E così sei vecchio e solo, Finch!».
Solo una razza aliena poteva avere tanto odio mentre con la voce metallica pronunciava il cognome con cui era conosciuto: Harold si voltò e vide due Dalek avanzare minacciosi verso di lui.
«Però, che occhio» mormorò sarcastico, mascherando così la voce che tremava. Fuori dalla biblioteca, la gente di Natale scappava terrorizzata dagli alieni.
«Ti rintani qui, come un codardo?» disse uno dei Dalek: «Preparati a essere sterm...».
Il Dalek esplose e Harold non ebbe il tempo di stupirsene che anche l'altro fece la stessa fine.
«Tempismo perfetto, eh, Harold?» mormorò la voce di un uomo alle sue spalle.

Manovrare la Macchina non era stata una passeggiata, ma in poco più di due ore John Reese l'aveva costretta a rimettersi in moto e a tornare da Harold.
La prima cosa che aveva visto appena uscito era un vecchietto con il bastone che se ne stava di fronte a due Dalek e non aveva esitato a prendere una specie di bazooka nell'arsenale chiuso a chiave e usarlo contro quelle due saliere.
Ci aveva messo un po', però, a riconoscere nel vecchio i tratti familiari dell'uomo con cui aveva viaggiato per tre anni.
«Quale parte della frase "John, resta a casa e non seguirmi" ti risulta difficile da capire, signor Reese?» esclamò Harold non appena lo vide, ma il Signore del Tempo non era mai stato così felice di vedere un volto amato dopo cinquecento anni.
«Oh, prego, Harold, non c'è di che!» borbottò John avvicinandosi alla finestra e fece per prendere la mira con il bazooka, ma la mano rugosa di Harold lo fermò.
«Ti prego, John, prendi la Macchina e torna a casa!».
«Per lasciarti qui in balia di alieni impazziti? Scordatelo, Harold» ribatté John accingendosi a sparare, ma Harold scosse la testa.
«Per l'amor di Dio, io qui morirò, non voglio che quando accadrà tu...».
Si interruppe e John vide gli occhi chiari di Harold diventare lucidi.
Era stanco di rimanere impotente mentre i suoi compagni cadevano l'uno dopo l'altro al suo posto: Zoe era stata intrappolata in un altro universo, Grace lo aveva dimenticato, Nathan e suo figlio Will erano stati uccisi dagli Angeli Piangenti e la lista era ancora molto lunga. John non si sarebbe preso un colpo dal lanciarazzi di un Dalek solo perché lui era vecchio e stava morendo.
Harold pensava a questo e rabbrividiva mentre lo faceva. Abbandonato il bazooka, John abbracciò forte Harold e gli diede un bacio sulla testa calva.
«Harold, non c'è altro posto in cui vorrei essere».
E Harold gliene fu immensamente grato.

(630 parole)

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Capitolo 3
*** Sperare ***


Sperare

Prompt: I mesi vissuti senza vedersi, osservarsi, salvarsi la vita a vicenda sono stati tanti, troppi. E questo tempo è servito a farli maturare, capire. Il problema è: hanno capito entrambi la stessa cosa?
Note: Non ho ancora visto la quarta stagione, pur avendo in programma di farlo. Questo è come io ho immaginato la vita di quelle due patate dopo la terza stagione.

Era veramente impossibile lavorare con uno come Dean Johnson.
Quando non parlava delle rogne quotidiane con la sua ex moglie, si lamentava del capo che era una carogna umana e, quando non sparlava del capo, commentava ogni secondo della partita di baseball a cui aveva assistito via radio.
Quando Dean partiva in quarta con la cantilena, John Reese - o meglio, la guardia giurata John Riggs - andava con la mente altrove e ricordava i giorni passati dietro ai numeri "irrilevanti" e, di conseguenza, al creatore della Macchina.
Era passato un anno da quando lo aveva visto di spalle mentre si allontanava con Bear dalla biblioteca poco prima dell'arrivo degli uomini di Greer: quell'immagine di Harold non era mai stata così insolita - del resto, prima di Samaritan, anche Harold aveva una casa da cui tornare ogni sera con Bear -, ma sapere che dopo quella volta non avrebbe più rivisto l'informatico gli aveva fatto fin troppo male.
Avrebbe volentieri dato a Dean Johnson un calcio dove non batte il sole, se questo fosse servito per poter ritornare nella biblioteca con i suoi libri polverosi, con Bear giocherellone come sempre e, perché no?, con Harold davanti ai suoi computer.
Harold...
Non poteva riavere indietro tutto questo ed era costretto a sorbirsi le chiacchiere futili di Dean ancora per un pezzo. La vita di prima era un capitolo chiuso.
E anche il suo Harold faceva parte di quel capitolo.

Nessuno aveva avuto mai di che lamentarsi del nuovo bibliotecario dell'università.
Puntuale come uno svizzero, Harold Robin conosceva il contenuto di gran parte dei libri a disposizione e sapeva esattamente dove andare a sbattere la testa se i computer decidevano di scioperare.
Del resto, Harold era stato bravo in questo per più di trent'anni.
John Reese, una volta, gli aveva detto che non era da tutti mostrarsi in pieno giorno davanti alle persone che non sapevano la tua vera identità e Harold Finch lo aveva considerato un complimento.
John...
Era un peccato non sapere che fine avesse fatto l'uomo con la giacca, ma Harold sperava sempre che la sua nuova identità avesse un po' di azione - ricordava fin troppo bene quei giorni in cui si era annoiato sulla sedia a rotelle - e che avesse trovato qualcuno in grado di renderlo felice.
Era qualcosa che sperava sempre, quando era costretto a dire addio a qualcuno che amava: che quel qualcuno - fosse Will, Grace oppure John - trovasse altrove la stessa felicità che lui, Harold, gli avrebbe dato con tutto il cuore.
«Ciao, sai se "Grandi speranze" è ancora disponibile?».
Harold c'era cascato, di nuovo: credeva che John sarebbe rimasto con lui per sempre, che magari non subito, ma dopo un po' avrebbe capito ciò che Harold provava per lui.
Aveva commesso di nuovo quello sbaglio e ora...
«Harold, ci sei?» chiamò il ragazzo di fronte a lui sventolandogli la mano davanti alla faccia.
«Cosa? Ah, sì, un attimo solo... Ecco, "Grandi speranze" è disponibile».

 
(494 parole)

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Capitolo 4
*** Nati per morire ***


Nati per morire
Prompt: "Choose your last words | This is the last time | Cause you and I, we were born to die," (Lana del Rey, Born To Die)
Note: Partecipa alla sfida La corsa delle ventiquattro ore indetta su Facebook.

Nessuno dei due aveva chiesto che tra loro nascesse qualcosa, eppure era successo.
Ma Harold Finch era stato chiaro su questo punto fin dall'inizio e John Reese ricordava ancora le sue parole: «Potremmo catturarci, o finire uccisi, per il lavoro che stiamo facendo».
Ma era stato molto prima che John rimanesse affascinato giorno dopo giorno da quel piccolo uomo geniale, al punto che cercava di sopravvivere alle missioni pericolose proprio per poter tornare da Harold.
«John, abbiamo un nuovo numero» mormorò Harold e dopo un bacio veloce si misero al lavoro.
Erano nati per morire: John lo sapeva, ma sperò che quel bacio non fosse anche l'ultimo.

 
(103 parole)

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Capitolo 5
*** Il guardiano notturno ***


Il guardiano notturno
Prompt: Guardiano notturno
Note: Partecipa alla sfida La corsa delle ventiquattro ore indetta su Facebook.

«M-ma tu chi diavolo sei?» balbettò il capo della banda di teppisti cercando di rialzarsi da terra nonostante il dolore.
«Il guardiano notturno, e ora vedi di sparire!».
Il ragazzo e i suoi amici non se lo fecero ripetere due volte e John Reese, rimasto solo, si spazzolò via la polvere dalla giacca.
Il rumore di un'imposta che si apriva lo spinse a nascondersi velocemente dietro a un albero e a tenere d'occhio la facciata di quella casa: vide Harold dare un'occhiata preoccupata alla strada e chiudere la luce di casa con un'alzata di spalle e uno sbadiglio.
John sospirò sollevato, si tirò su il bavero della giacca e scomparve nella notte newyorkese.

 
(109 parole)

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Capitolo 6
*** Il gioco dell'imitazione ***


Il gioco dell'imitazione

Prompt: È soltanto un'impressione di Harold o John sta davvero tentando di farsi piacere le cose che piacciono a lui? Dopo averlo beccato a ordinare un sencha green tea, l'ha visto mentre leggeva Dickens di nascosto. Non sa se essere inquietato o onorato dalla cosa.
Note: Nonostante il titolo, la flash non c'entra niente con il film su Turing.

John Reese era il primo a riconoscere che, sotto alcuni aspetti, lui e Harold Finch erano come il sole e la luna.
Harold probabilmente non avrebbe mai imparato a farsi piacere le armi da fuoco e John, forse, non avrebbe avuto il suo dono di hackerare un sistema informatico in due minuti, ma da quando avevano cominciato a lavorare insieme esisteva un tacito accordo secondo cui ognuno non doveva rinfacciare all'altro le sue mancanze.
O almeno, così fu fino al giorno in cui John pedinò Rebecca Johnson fino a un caffè.
«Tutto bene, signor Reese?».
«Certo» rispose John, convinto che Harold si stesse riferendo alla Johnson.
«Allora mi spieghi come mai avresti ordinato un sencha green tea?».
«Se ti dicessi che avevo voglia di cambiare un po', non mi credi?» sussurrò John ringraziando il cameriere che lo aveva appena servito.
«Se lo dici tu».
John sorrise e, attraverso una telecamera di sorveglianza nel locale, Harold lo vide cominciare a bere il suo tè, per poi mandarlo giù con una smorfia di disgusto puro che fece sogghignare l'informatico.
«Gesù, Harold, come diavolo fai a berti questa roba?» borbottò John e il sorriso di Harold divenne più ampio.

«Harold».
«Sì, che c'è?».
«Per te non è un problema se prendo uno dei libri della biblioteca, vero?».
Harold si voltò verso John alzando un sopracciglio: in due anni non lo aveva mai sentito fargli una domanda del genere. Aguzzò gli occhi e lo vide prendere un libro di... Dickens?
«Tranquillo, Harold, non lo userò per aggiustare il tavolo della cucina, se è questo che stai pensando» aggiunse John soppesando il libro con nonchalance.
«Non ho mai pensato una cosa simile, John, è solo...».
«Sì?».
«Stai cercando di imitarmi, per caso?».
«Perché? Ti preoccupa?».
«A dire il vero, non lo so» ammise Harold, riprendendo a sgombrare la lavagna di vetro da foto e appunti.

Erano passati trent'anni dall'ultima volta in cui Harold aveva mangiato la pizza.
Si convinse che fosse quello il motivo in cui fissava di sottecchi la pizza da asporto che John aveva mangiato a metà prima che la Macchina desse loro il nuovo numero. Non lo faceva mica perché la pizza con le olive era la preferita di John, sia chiaro!
«Come va con Dill Scott, signor Reese?».
«Una noia, ecco come va» si lamentò John, mentre dall'altro capo del telefono Harold allungava una mano verso un trancio di pizza e lo assaggiava.
«Harold, che stai facendo?».
«Uhm, niente, John».
«Non stai mangiando la mia pizza, vero?».
«Assolutamente no».
«...».
«...».
«Harold, sai che non mi offendo, vero?».
«Concentrati su Dill Scott, signor Reese».

 
(433 parole)

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Capitolo 7
*** Sensazioni ***


Sensazioni
Prompt: Novecento!AU, A Reese sembrava che il mondo si fermasse ogni volta che sentiva Harold suonare il pianoforte.

La prima volta che John Reese vide e sentì Harold Finch suonare il pianoforte fu la prima sera in cui era sulla nave.
Era lì, bello carico con la sua tromba e pronto a fare impallidire persino Louis Armstrong, quando prima di attaccare Leon Tao, il direttore della jazz band del Virginian, si avvicinò e sussurrò a Harold: «Senti, Finchy, ti prego, fai delle note normali, okay?».
Note normali? A giudicare dalle gomitate e dalle risatine degli altri musicisti, Reese capì che non era la prima volta che Leon faceva quella strana richiesta e non ne capiva assolutamente la ragione: certo, aveva sentito delle voci di corridoio a proposito della bravura di Finch, insieme ad altre chiacchiere assolutamente insensate che avvolgevano la sua vita in una nebbia misteriosa, ma era anche vero che John aveva già lavorato in altre band e Harold non gli sembrava così diverso dagli altri pianisti con cui aveva avuto il piacere - e a volte il dispiacere - di suonare. Harold annuì con un sorriso professionale a Tao, che non molto convinto diede l'attacco del brano.
Accadde pochi istanti prima dell'inizio dell'assolo di John.
Per il resto dei suoi giorni, John Reese non seppe mai definire cosa accidenti avesse suonato Harold Finch quella sera: seppe solo che era meraviglioso, maledettamente meraviglioso, e che rimase a bocca aperta come uno stoccafisso mentre fissava le dita di Harold che correvano veloci sui tasti bianchi e neri. Non vide o sentì altro, nemmeno le imprecazioni di Tao o la ragazza carina che ridacchiava di fronte alla sua faccia da ebete: il mondo e tutti i casini in cui poteva essersi ficcato quella sera erano scomparsi ed era rimasto solo quello spiraglio di infinite possibilità che era la musica di Harold.

 
*

Quella notte provò di nuovo quella sensazione.
L'oceano era in burrasca, John era diventato verde per il mal di mare e Harold aveva pensato che la migliore cura fosse farlo sedere accanto a lui mentre suonava un Dio sa cosa al pianoforte.
E ovviamente funzionò.
John dimenticò la tempesta, la nausea, il fatto che il pianoforte scivolasse sul parquet del salone sfiorando pericolosamente tavoli e sedie e persino i problemi che si era lasciato alle spalle mentre saliva sulla nave. Il mondo decise, in quel quarto d'ora o forse anche di più, di tacere e di fermarsi per far sì che Harold avesse tutto il silenzio di cui aveva bisogno per tirare fuori la sua musica più bella.
«Va meglio, signor...?» esordì Harold poco prima di sfondare con il pianoforte la vetrata del salone e la porta della cabina del comandante.

*
 
Nulla impedì al comandante Lionel Fusco, incazzato come una bestia, di spedire a spalare carbone quelli che a suo dire erano i due più grandi imbecilli che avessero mai solcato i sette mari.
Sfiniti per il calore della sala macchine e per i quintali di carbone che avevano appena gettato tra le fiamme, John e Harold erano stesi a quattro di spade sul mucchio ancora da spalare a riprendere fiato. Quale migliore occasione, dunque, per fare la conoscenza l'uno dell'altro?
«Suoni da Dio, per la cronaca».
«Già, me lo dicono in tanti».
«Io sono John Reese».
«Piacere, Harold Finch».
E da lì ebbe inizio tutto quanto.

 
(541 parole)

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Capitolo 8
*** Starburst ***


Starburst

Prompt: Doctor!Harold/Companion!John. Il Dottore porta John a vedere la nascita di una stella solo per guardare la luce riflessa sul suo volto.

Evidentemente, John Reese non era destinato a conoscere gente normale.
L'ultima persona che aveva considerato "normale", un multimiliardario genio del computer di nome Harold Finch, si era rivelato essere in realtà un alieno vagabondo con due cuori appartenente a una razza di cui si erano perse le tracce da secoli, quella dei Signori del Tempo: a quanto pareva, infatti, aveva deciso di smettere di viaggiare e, per non farsi venire nuovamente l'idea di tornare sulla sua nave e ripartire per chissà dove, aveva cambiato la propria biologia in quella umana, mettendo i propri ricordi di Signore del Tempo in un orologio da taschino e assumendo l'identità di Harold Finch prima di creare la Macchina. Harold non avrebbe recuperato mai i suoi ricordi e John non avrebbe saputo nulla se, durante una Guerra dei Mondi in piena regola a New York, non avesse trovato il TARDIS in una discarica e non avesse scoperto chi era Finch in realtà: le sue numerose facce, i precedenti compagni dei suoi viaggi nello spazio e nel tempo e le leggende di tutto l'universo che ruotavano intorno alla misteriosa figura del Dottore.
Perché lui - John non aveva avuto più il coraggio di chiamarlo Harold - era conosciuto come il Dottore, la Tempesta Imminente e il Distruttore di Mondi ed era questa versione di lui che tutti quanti - dagli alieni che avevano appena invaso la Terra a Kate Stewart della UNIT - stavano cercando a New York, calpestando le vite di migliaia di persone innocenti: forse a quel misterioso Dottore non sarebbe importato un granché, ma a Harold Finch sì e fu a lui che John Reese schiaffò in mano l'orologio da taschino che aveva trovato nel TARDIS, supplicandolo di aprirlo.
«John, io non sono quello che queste persone credono» esitava Harold rigirandosi nervosamente l'orologio tra le dita: «Ammettilo, me lo ricorderei se fossi un... come lo hanno chiamato? Un Signore del Tempo?».
«Harold, ho visto il TARDIS, ho parlato con i tuoi ex compagni di viaggio e...».
«I suoi compagni, vorrai dire, ma li hai sentiti? Questo Dottore è inaffidabile, mente di continuo e ne parlano come se fosse la Morte in persona!».
«Finch...».
«Io non voglio assolutamente essere come lui» lo aveva interrotto Harold scuotendo la testa e aveva rimesso l'orologio nelle mani di John: «Se quello che hanno descritto sono veramente io, allora non voglio tornare indietro».
«Harold...».
«Ho... ha avuto le sue buone ragioni, se non ha voluto farsi trovare» disse allora Harold, buttandosi esausto a sedere sulla scrivania e togliendosi gli occhiali. John lo guardò strofinarsi gli occhi e sospirare continuando a scuotere la testa e si ricordò di non averlo mai visto così abbattuto e disperato come quella volta.
«Harold, ascolta, se potessi lo farei io al tuo posto, ma con me non funziona» disse aprendo e chiudendo l'orologio per poi fare un mezzo sorriso privo di gioia. Si chinò abbastanza perché Harold, togliendosi la mano dal viso, potesse guardarlo dritto negli occhi e fece una cosa che mai, nei tre anni in cui si erano conosciuti e avevano lavorato insieme, avrebbe pensato di poter fare: gli diede una pacca rassicurante sulla spalla, aprì una sua mano e mise l'orologio al centro del palmo, per poi far chiudere quell'oggetto tra le sue dita. Rimase per qualche secondo con il pugno di Harold stretto nella sua mano, poi disse: «Fa' quello che puoi, Harold, ma fallo per me» e se ne andò senza aggiungere altro per portare tutto il suo arsenale di armi pesanti a Root e Shaw, che lo aspettavano con la Stewart per dare man forte alla UNIT in una missione suicida contro gli alieni.
Finch arrivò più tardi, piombando con la cabina blu davanti ai carri armati della UNIT, e per qualche tempo fu come se non fosse cambiato niente: era solo un altro numero della Macchina, pensò John mentre lo accompagnava con tutti gli altri verso la sala di comando dell'astronave dell'imperatore alieno, un'altra missione in cui Harold avrebbe trovato un espediente al computer con cui avrebbe potuto aiutarlo a risolvere la situazione.
Ma quando, davanti all'imperatore e a decine di soldati armati, lui disse: «Io sono il Dottore e proteggo queste persone» John Reese comprese di aver perso Harold Finch per sempre.
Alla fine tutto andò per il meglio - gli alieni se ne andarono dopo che il Dottore distrusse la loro principale arma di distruzione di massa - e John addirittura sorrise vedendo il Signore del Tempo che non sapeva come reagire all'abbraccio collettivo dei soldati della UNIT, ma dentro si sentì come se quell'orologio, cancellando per sempre Harold Finch, avesse distrutto anche una parte di sé ed era dalla morte di Jessica che non si sentiva così.
Se ne andò in silenzio pochi istanti prima che il Dottore riuscisse a liberarsi dell'abbraccio di Clara.

Si incontrarono di nuovo in un bar nel Colorado diversi giorni dopo.
Ora che le cose erano cambiate in modo così drastico, per Reese era diventato strano, se non addirittura triste, continuare a salvare i numeri della Macchina senza la voce di Harold nell'auricolare che gli dava le ultime informazioni che aveva ottenuto in modo poco legale dal suo computer e per questo aveva lasciato che fossero Root e Shaw a occuparsene. Non passava giorno in cui, almeno una volta, non si chiedesse in quale punto dello spazio e del tempo fosse finito Harold, per poi ricordarsi che non era mai esistito nessun Harold Finch e che sicuramente il Dottore aveva dimenticato tutto di quando era umano, compreso John.
Ma su quest'ultimo punto si sbagliava, come gli disse il Dottore dopo essere uscito dal TARDIS parcheggiato nel bel mezzo del locale sotto gli occhi attoniti di clienti e barista: non aveva dimenticato il giorno in cui si erano conosciuti al Queensboro Bridge, o di quando era stato rapito da Root e John aveva attraversato due Stati per trovarlo e sicuramente ricordava ancora tutte le volte in cui si erano salvati a vicenda. E di questo, anche se non lo disse apertamente, John ne fu molto felice.
«Riprenderai i tuoi viaggi?».
«Purtroppo non ne posso fare a meno, sono fatto così» aveva risposto il Dottore alzando le spalle: «E suppongo che tu non voglia tornare a New York per aiutare i numeri della Macchina».
«Non per il momento, no» ribatté John, poi guardò fuori dalla finestra opaca e aggiunse: «Non credo che tu sia qui solo per chiacchierare, dico bene?».
Il Dottore abbassò gli occhi, colto sul fatto, e si mise una mano in tasca estraendone l'orologio da taschino che aveva dato inizio a tutto quanto: prese una mano dell'altro e la aprì, poi gli diede l'orologio e richiuse le dita su di esso, esitando un po' prima di lasciare il pugno stretto di John Reese.
«Funziona come un normale orologio, ora» spiegò il Dottore mentre, stupito, John si rigirava tra le dita quell'oggetto: «Pensavo che ti sarebbe piaciuto averlo».
Senza lasciare a John il tempo di ringraziarlo, il Dottore si alzò e si diresse zoppicando verso la cabina blu, ma quando aprì la porta parve ripensarci e si voltò: «Ah, e volevo chiederti se ti andava di accompagnarmi alla mia prima destinazione, John».
«E se ti rispondessi di no cosa mi farai? Mi legherai a letto e mi costringerai a sentire urla strazianti?» chiese John ironico e il Dottore sorrise.
«Non questa volta, sei liberissimo di rifiutarti».
John si accigliò e si ricordò di quando, tre anni prima, Harold Finch gli aveva dato la possibilità di fare un passo indietro di fronte alla Macchina e ai suoi numeri: poteva ricominciare una nuova vita altrove, ma quel giorno Reese scelse di rimanere con lui e, pur incontrando una strada piena di alti e bassi, non si era mai pentito di quella decisione. In quel momento John aveva di nuovo la possibilità di vivere una vita normale lontana da un genio dal nome sconosciuto e dalla sua astronave blu, ma se quella volta avesse scelto di non seguirlo - rifletté infilandosi l'orologio in tasca ed estraendo il portafogli - John era sicuro che se ne sarebbe pentito per il resto della propria vita.
Quando la cabina blu scomparve dal bar del Colorado, al tavolo occupato in precedenza da John Reese c'erano solo i soldi per una birra ancora intatta.

«E dove vorresti portarmi, di preciso?» aveva chiesto John senza smettere di rimanere allibito dalla grandezza del TARDIS. Il Dottore si sistemò gli occhiali sul naso e si aggirò zoppicando intorno alla console che faceva quel rumore assordante.
«Lo vedrai quando saremo arrivati, e cioè adesso» rispose il Signore del Tempo e si avvicinò alla porta del TARDIS. Fece cenno a John di avvicinarsi, aggiungendo che doveva fare solo un po' di attenzione una volta aperta la porta, e l'altro esitò solo per un momento prima di aprire la porta e affacciarsi, rischiando subito dopo di prendersi un accidente.
Il TARDIS fluttuava dolcemente nello spazio aperto, mentre davanti agli occhi di Reese una nuvola di polveri circondava una forte luce gialla che pulsava sempre più velocemente, come un cuore ancora vivo: e meno male che il Dottore gli aveva detto di fare attenzione!
«Avevi intenzione di uccidermi?» chiese dopo aver chiuso in fretta e furia la porta del TARDIS.
«Gli scudi del TARDIS ci permettono di respirare anche nello spazio aperto, John» lo rassicurò il Dottore, tranquillo anche di fronte a un'occhiata infuocata del suo compagno. Reese sperò per la salute di entrambi che il Dottore avesse ragione e insieme all'alieno aprì di nuovo le porte del TARDIS: «Non dovrebbe mancare molto» mormorò il Dottore con finta nonchalance dopo qualche minuto di silenzio.
«Mancare molto a cosa?».
La risposta la diede la luce gialla, che esplose in tutta la sua potenza spazzando via la nube di polveri intorno a sé e un frammento grande come un pugno si polverizzò contro lo scudo del TARDIS a pochi centimetri dal viso stupito di John.
«Questa è...».
«La nascita di una stella, esatto».
A bocca aperta, John fissava con tanto d'occhi quella sfera gialla che stava bruciando, senza riuscire a credere di poter assistere realmente a quello che stava accadendo.

Non sarebbero bastate le nascite di cento stelle a cambiare le cose.
Il Dottore lo sapeva fin troppo bene e, mentre con un mezzo sorriso memorizzava nella sua mente ogni piccolo dettaglio del volto stupefatto di John Reese, non riusciva a non sentirsi in colpa nei suoi confronti. Il Dottore mentiva sempre - l'irritante regola numero uno - e John Reese era l'ultimo uomo sulla Terra a meritare le sue sfacciate menzogne: era per questo motivo che, quando era ancora Harold Finch, il Dottore gli aveva promesso che mai e poi mai gli avrebbe mentito, neppure per salvargli la vita. Ma era stato molto prima di scoprire che la sua vera identità, nonché i ricordi legati a essa, erano sigillati in un orologio dentro al TARDIS abbandonato per trent'anni in una discarica, ma secondo il Dottore ciò non sarebbe bastato a giustificare il fatto di aver mentito a John, anche se inconsapevolmente. Se John Reese si fosse rifiutato di seguirlo, il Dottore lo avrebbe capito e, pur essendone dispiaciuto, sarebbe stato convinto di esserselo meritato.
Ma per una qualche strana ragione, John aveva accettato e i suoi occhi chiari che fissavano la stella che bruciava furono il più bel regalo che il Dottore potesse aspettarsi di ricevere.
Il Signore del Tempo indietreggiò di un passo per lasciare che John si godesse da solo la vista della stella neonata e fece per avvicinarsi in punta di piedi alla console del TARDIS: aveva delle riparazioni da fare e, in fondo, trent'anni in stato di abbandono avevano cominciato a pesare sulla sua macchina del tempo.
«Dove credi di andare?» chiese John trattenendo il Dottore per un braccio e si sedette a gambe penzoloni sulla soglia del TARDIS.
«Pensavo che volessi rimanere solo, John».
«Perché, Harold, non vuoi goderti il panorama con me?» disse John con un sorriso, poi si ricordò del lapsus che si era lasciato sfuggire e provò a correggersi: «Dottore».
«Puoi continuare a chiamarmi Harold Finch, se ti fa piacere» mormorò Finch prendendo posto accanto a Reese e insieme rimasero a contemplare la stella.
Il TARDIS aveva aspettato trent'anni per una sistemata, avrebbe potuto benissimo attendere ancora un po'.

 
(2043 parole)













Note dell'Autrice
Questa storia è stata revisionata in occasione del contest Your best - slash - shot indetto da DonnieTZ.
Se avete letto la precedente versione di questa one shot - "leggermente" più breve di questa - ricorderete che la storia è ambientata in un universo alternativo dove Person of interest è inglobata in Doctor Who e dove Harold Finch sarebbe il Tredicesimo Dottore. Ci sono parecchi riferimenti a entrambe le serie tv, in particolare alla 1x01 di Person of interest e agli episodi 3x08 e 3x09 di Doctor Who. Il titolo potrebbe non c'entrare niente con la storia, ma è il nome attribuito al fenomeno astronomico del finale e, a tal proposito, mi scuso se la descrizione non è esatta al 100%.
Concludo le note ringraziando Cracked Actress per il prompt su cui si è basata la one shot, DonnieTZ per aver indetto il concorso e soprattutto voi che avete letto la storia, sperando che vi sia piaciuta almeno un po'.
Alla prossima,
Triz

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Capitolo 9
*** Un nome comune ***


Un nome comune
Prompt: Soulbond!AU qualunque su Harold/John.

«'spetta, John» esclamò Harold rischiando di inciampare nella coperta che John gli aveva dato. Fortunatamente, Reese non se ne era ancora andato dalla biblioteca e poté raccoglierlo prima ancora che toccasse terra, causando a Finch un forte attacco di ridarella: probabilmente non lo avrebbe fatto in condizioni normali, ma una dose di droga messa nel bicchiere da una trafficante di droga rappresentava una situazione del tutto eccezionale.
«Tutto a posto, Harold?».
«Oh, già, alla grandissima. Comunque ti volevo dire che...».
«Sì?».
«Anzi, in realtà ti volevo far vedere una cosa, però shh!, non dirlo a nessuno» sussurrò Harold cercando di sbottonarsi la manica destra della camicia senza far saltare via i gemelli, poi mostrò il proprio polso a Reese: sotto la luce lunare che veniva dalla finestra, l'ex agente della CIA lesse la scritta John impressa nella pelle.
Chiunque fosse abbastanza informato sapeva di cosa si trattava: ogni uomo e ogni donna, alla nascita, aveva un nome scritto su un punto qualsiasi del corpo che, secondo alcuni, era il nome della propria anima gemella. Per John, che invece era un uomo pratico e che non credeva a queste storie, probabilmente si trattava di una strana voglia o del nome che il bambino appena nato avrebbe dovuto avere.
«Finch...».
«Senti, John, ci ho pensato tanto e secondo me questo» e si indicò la scritta sul polso: «Questo qui sei tu» aggiunse, premendo con l'indice il naso di John e sorrise.
«John è un nome molto comune» cercò di spiegare John prendendo le spalle di Finch: «Potrei non essere io, capisci?».
«Dici davvero?» chiese Harold con una punta di delusione nella voce.
«Finch, non sei abbastanza lucido per parlarne. Ne discuteremo di nuovo domani mattina, okay?».
Harold esitò prima di annuire, poi riuscì a mettersi sul divanetto senza inciampare di nuovo nelle coperte e chiuse gli occhi. John gli rimise addosso la coperta e si assicurò che, stavolta, l'informatico dormisse profondamente, poi lasciò la biblioteca.

Harold lo chiamò verso le nove per dirgli del nuovo numero appena arrivato.
Non accennò alla bizzarra conversazione della notte precedente e in fondo, pensò John rasandosi la barba, era meglio così: Harold era un uomo molto riservato e, probabilmente, avrebbe trovato imbarazzante l'idea di aver mostrato qualcosa di così intimo a un ex agente delle forze speciali con cui lavorava sì e no da otto mesi.
Si lavò il viso e se lo asciugò in fretta, poi rimase due minuti a fissare quel Harold che portava scritto sulla clavicola sinistra prima di andare a rivestirsi.

 
(419 parole)

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Capitolo 10
*** Una vita impossibile ***


Una vita impossibile
Prompt: Se solo fossero riusciti a penetrare le corazze che entrambi si erano costruiti per ripararsi dal mondo, se solo avessero detto quella parola in più, avessero condiviso quello sguardo più a lungo. Ma non riuscivano, non potevano.

«Con questo lavoro, signor Reese, è molto probabile che finiremo entrambi uccisi».
Glielo disse con un tono duro, ma era la verità: Harold Finch era perfettamente consapevole di cosa era capace chiunque sapesse della Macchina pur di proteggerla e aveva voluto metterlo in chiaro sin dal primo giorno con John Reese.
E poi, in questo modo, avrebbe garantito il necessario distacco emotivo che serviva a entrambi per questo lavoro: sia lui che John avevano perso tante persone per la Macchina e altrettante li avevano traditi per lo stesso motivo, sarebbe stato superfluo e al tempo stesso troppo doloroso creare un legame tra loro che avrebbe finito inevitabilmente per spezzarsi.
Eppure c'erano momenti in cui Harold avrebbe voluto che le cose, tra lui e Reese, fossero molto diverse: quando, per esempio, alla fine di una missione riordinava le cose sulla scrivania; quando, al mattino, John lo sorprendeva addormentato per l'ennesima nottata passata sulla scrivania e aveva avuto la consueta e discreta gentilezza di portargli il suo tè preferito; o, peggio ancora, quando non riusciva a rimettersi in contatto con John e la paura gli congelava il sangue nelle vene. Era in quei momenti che Harold avrebbe voluto per John e per sé una vita diversa, normale e lontana dai numeri irrilevanti.
Ma erano momenti, pochi secondi che servivano poi a far capire che una vita normale era un privilegio che né a lui né al signor Reese era concesso.
E perciò non gli restava che rammaricarsi di quel sogno impossibile e sperare che quei momenti di debolezza non si riversassero sul lavoro.

 
(261 parole)

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Capitolo 11
*** Thank you, Harold ***


Thank you, Harold

Prompt: Qualcosa di estremamente angst ispirato a questa fanart.
 
Harold Finch non sopportava la vista del sangue.
Persino in quel momento, mentre cercava di tamponare una delle ferite di John, l'unico pensiero che gli impediva di impazzire di fronte al sangue che scorreva tra le dita - l'unico suo pensiero razionale - era quello di prendere John e trascinarlo fuori dalla portata degli agenti di Samaritan il più in fretta possibile.
«Credo di aver fatto un piccolo errore di valutazione, Finch».
«Lascia stare, John, ora ce ne andremo di qui».
«No, ora tu te ne andrai di qui».
Harold alzò gli occhi dalla ferita per incrociare quelli di John e lo guardò come se non avesse capito bene ciò che gli aveva appena detto o come se fosse una battuta di pessimo gusto. Dal canto suo, John non era mai stato così serio.
«Finch, ora tu prendi la Macchina» disse in un sussurro indicando la valigetta caduta accanto a lui: «E te ne vai con Root il più lontano possibile da qui».
«E tu verrai con noi, signor Reese» sbottò Harold guardando di nuovo la ferita e deglutendo nervoso. Aveva perso già abbastanza da quando aveva creato la Macchina e John gli aveva salvato la vita in così tanti modi: lui non sarebbe stata l'ennesima persona che avrebbe dovuto rimpiangere.
«Harold, ti prego...».
«Tieniti forte a me, John».
Provò ad alzarsi e gemette per lo sforzo di sollevare il peso di John insieme al proprio, ma stavolta fu la sua schiena e non il sangue a ricordargli che aveva fallito nel fare tutto il possibile per salvare il suo uomo alto e ben vestito.
«Guardami».
Harold scosse la testa e si ricacciò dentro gli occhi le lacrime: avrebbe ritentato ancora e ancora, se solo quella maledetta schiena non gli facesse così male.
«Ti ho detto di guardarmi» ripeté John duramente.
Harold lo guardò e, se mai poco prima ci fosse stata rabbia su quel viso, ora aveva lasciato il posto a uno strano sorriso sollevato.
«Grazie, Harold» disse con la voce più dolce del mondo e una sua mano fredda afferrò piano l'avambraccio di Harold.
A bocca aperta, Harold vide John prendere fiato come se volesse parlargli ancora e si avvicinò per poterlo ascoltare, ma, di qualunque cosa si trattasse, John Reese non riuscì più a dirla.
 
(378 parole)

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