Untouchable

di Vale11
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Untouchable part 1 ***
Capitolo 2: *** Untouchable part 2 ***
Capitolo 3: *** Cover Me ***
Capitolo 4: *** Nowhere freeway ***
Capitolo 5: *** The last to die ***
Capitolo 6: *** We are alive ***
Capitolo 7: *** Unchained ***
Capitolo 8: *** Hell broke luce ***
Capitolo 9: *** Slip away ***
Capitolo 10: *** Be still and know ***



Capitolo 1
*** 1 - Untouchable part 1 ***


La prima volta che lo rivede, Bucky è sul tetto di fronte alla sua finestra, jeans e felpa blu e un cappello calato sugli occhi. Quando si affaccia al davanzale per raggiungerlo, è già sparito.




La prima volta che riesce a parlargli è anche la prima volta che riesce a invitarlo ad entrare. Bucky entra, si guarda intorno e se ne sta fermo in mezzo alla stanza come se aspettasse un ordine da parte di qualcuno. Steve si rende conto che forse aspetta davvero un ordine da parte di qualcuno. Una direttiva. Un'indicazione. Ha vissuto come un'arma per decenni, fra una capatina al frigorifero e l'altra, e ora non sa più come muoversi autonomamente. Il solo pensiero fa venire voglia a Steve di cercare uno per uno tutti gli agenti sovietici prima, e dell'Hydra poi che hanno messo le mani addosso al suo migliore amico e chiudere loro le dita intorno al collo. Poterli guardare negli occhi finchè la vita non se ne va via con l'ultimo rantolo di una gola chiusa. Ma non lo fa, perchè Steve è buono e i buoni non fanno queste cose. 

Bucky reagisce come un gatto selvatico ad ogni rumore, ad ogni parola, ad ogni tentativo di avvicinamento, tanto che Steve inizia a chiedersi per quale motivo abbia deciso di accettare il suo invito.  Il Soldato d'inverno lo fissa da sotto il cappello, che Steve inizia a pensare gli si sia incollato in testa, apre bocca per dire qualcosa, la chiude, scuote la testa e fa per andarsene. Quando Steve gli prende il polso per fermarlo lo sguardo che riceve è così carico di paura e violenza che lo lascia andare.




Bucky torna. Dopo mesi, ma torna. 




Steve l'ha cercato in lungo e in largo, ma se c'è una cosa che Bucky sa fare, evidentemente, è sparire. E' inverno quando lo rivede, gli alberi sono spogli da un pezzo e fa un freddo cane.  I viali del parco non hanno più nemmeno una foglia secca a decorarli, tanto è stato il vento gelido degli ultimi giorni, ed è a correre con Sam quando se ne accorge. Una chiazza di blu scuro su una panchina, un cappello calato sulla testa, capelli più lunghi che mai che ormai hanno passato le spalle. Non vede le gambe, ma immagina siano rannicchiate contro il petto per ripararsi dal freddo. Gli da le spalle. Ha addosso la solita felpa blu, i soliti jeans e Dio, si congela e quell'uomo non ha nemmeno una giacca addosso. Steve dice a Sam che si ferma qui, che per oggi ha finito. Si salutano, e aspetta che si sia allontanato prima di correre verso la panchina dove quella macchia blu somiglia così tanto a Bucky. 




Quando lo raggiunge non sa se toccarlo o meno. Il viso è nascosto fra le braccia, ma è Bucky. Deve essere Bucky. Se è qualche senzatetto potrà indirizzarlo verso il riparo più vicino, da bravo posterboy americano, se è Bucky probabilmente si ritroverà con un occhio nero. Non si sveglia una macchina assassina senza aspettarsi niente. 




Ha ragione.




Appena gli appoggia una mano sulla spalla, Bucky scatta in avanti, il braccio metallico proteso verso lo sterno del suo obiettivo, il destro tenuto incollato protettivamente sull'addome. Ma non lo colpisce, non ci arriva. Perde lo slancio e cade sul viottolo che Steve ha usato per arrivare alla panchina, sfinito, mezzo congelato e, se sa ancora prendere le misure giuste, Steve valuta sia anche mezzo morto di fame. Chissà se gli davano da mangiare o se lo mandavano avanti a flebo, in quel posto dove gli hanno piazzato un braccio meccanico stellato al posto del suo vero arto. Chissà se si ricorda ancora che deve mangiare, chissà se si ricorda ancora come si mangia. Steve immagina di si, se è ancora vivo dopo tutto questo tempo. Poi si rende conto che Bucky non si è più mosso dal vialetto che sembra aver eletto come nuovo domicilio e si china verso di lui.




E' andato. Svenuto. Con cerchi neri sotto gli occhi che farebbero invidia a quelli che gli aveva visto dipinti in faccia quando aveva sparato a Fury e un respiro rantolante che gli esce dai polmoni come se avesse inghiottito ghiaia e si divertisse a farla rotolare dentro e fuori dalla trachea. Se il suo aspetto lo preoccupa, è quel rumore a spaventarlo a morte. 




Considerando quante azioni avventate ha già compiuto, Steve lo raccoglie da terra come fosse fatto di vetro e si avvia verso casa, stringendosi addosso quello che pare restare di un mondo che è finito settant'anni prima, e che è grato di riavere. Lo ripara dal vento col suo corpo, in un modo che gli viene talmente naturale da terrorizzarlo. Un'azione fuori di testa in più non dovrebbe cambiare niente.




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eeeee uno. parlo di sovietici oltre che di Hydra, perchè mi riferisco ai fumetti più che al film. però se avessi tolto del tutto l'hydra dall'equazione non sarebbe più tornato un accidente col film. ergo, ok. 




a breve il prossimo pezzo! 

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Capitolo 2
*** Untouchable part 2 ***


Steve non si ricordava che Bucky fosse così leggero, probabilmente perchè non era mai stato così leggero. E' dimagrito in un modo inverosimile, il braccio bionico un peso morto sul petto. Quando raggiunge il letto e lo distende non muove un muscolo, non apre nemmeno gli occhi, e questa immobilità estrema spaventa Steve più dell'idea che si svegli e gli pianti un coltello in gola. 
Levargli la felpa dovrebbe essere la parte più facile, ma quando Steve muove il braccio destro per farlo uscire dalla manica dalla gola di Bucky esce un suono talmente estraneo alla sua concezione di "Soldato d'inverno" che li per li non lo riconosce per ciò che è: gli ha fatto male. 
Gli viene quasi da ridere, ripensando alla frase. Gli ha fatto male. E' una frase che dicono i bambini, non gli adulti. Gli adulti sono più specifici. Dicono: l'ha ferito. Dicono: gli ha sparato. Non dicono mai "gli ha fatto male". Eppure Steve sente che la frase è la più corretta, non solo perchè è cresciuto con l'uomo che ha appena raccolto letteralmente da terra, e quindi riferirsi a lui con le frasi che usavano da bambini non gli sembra poi così strano, ma anche perchè non può essere più specifico senza sapere cos'è successo al braccio di Bucky. Spera che non sia la spalla che gli ha lussato sull' Helicarrier, spera che in qualche modo l'abbia rimessa a posto, spera che non sia stato costretto a soffrire anche per quello per tutti i mesi in cui l'aveva dato per disperso, ma lo riuscirà a scoprire solo quando la felpa e 
speriamoabbiaalmenounamaglialasotto
se ne andrà.
Ha bisogno delle forbici per togliergli quei vestiti di dosso, e di bende, forse, e quasi sicuramente di acqua calda e medicinali e qualcosa da mettergli addosso e sarebbe meglio se riuscisse a fargli fare una doccia calda perchè Bucky è così freddo, è così freddo e la testa di Steve gli sta urlando troppe cose tutte insieme e non ne vuole sapere di smettere ma deve smettere.
Per Bucky.
Steve deve riuscire a stare calmo per Bucky, e per se stesso.
Gli viene quasi da ridere a pensare quanto sia ridicolo aver avuto un semi-attacco di panico solo per aver pensato di dover lasciare Bucky da solo per quella manciata di secondi che gli servono per andare a prendere il kit di pronto soccorso e dell'acqua calda in cucina. Si alza, si obbliga a farlo. Si obbliga a non prendere nemmeno in considerazione la possibilità che Bucky sparisca appena smette di fissarlo.


Non sa bene quando ha deciso che avvicinarsi a Bucky con un paio di forbici in mano sarebbe stata una buona idea, ma adesso solo il fatto di avvicinarglisi con un paio di lame appuntite in mano gli sembra una grossa, enorme cavolata. Bucky però non si stira nemmeno quando Steve taglia via la felpa
chemioDioèdicotoneefuorifafreddocosìfreddochenoncapiscocomeabbiafattoanoncongelare
e poi gli viene in mente la fotografia di Bucky effettivamente congelato, rinchiuso nella sua bara con oblò annesso, e non riesce a smettere di tremare per dieci secondi buoni. Quella foto, quel blu, ormai sono tatuati dietro le sue palpebre.
Sotto la felpa Bucky ha solo una maglia leggera, che le forbici fanno a pezzi senza tanti problemi di sorta, e sotto la maglia Bucky ha una collezione di cicatrici tutte nuove che Steve doveva ancora vedere.  Ci sono ferite da arma da taglio, e quelle le riconosci perchè di solito sono abbastanza lineari,
amenochelalamanonscivolisull'ossoemiodioglihannomancatoilcuorediduecentimetri
Smettila, Steve. Smettila.
Ci sono ferite da arma da fuoco, bruciature da impatto e poi ci sono ustioni piccole e circolari, che Steve immagina siano legate a qualche esperimento che gli scienziati che ci giocavano (Hydra? Russia?) si sono divertiti a fare. Paiono reiterate. Steve deve ricordarsi di respirare. 
La spalla sinistra è un mosaico di cicatrici bianche dove si collega col braccio bionico, la spalla destra invece è un acquerello di neri, blu, gialli, rossi e verdi. L'osso sembra al suo posto, ma Steve scommetterebbe l'anima che Bucky l'abbia sistemata da solo, e che continui a far male. Non può non far male, nello stato in cui si trova.
E' quando Steve si accorge che Bucky ha ancora addosso i guanti che si decide a lasciarlo solo per un'altra manciata di secondi, decidendo di aprire l'acqua calda nella vasca invece che aspettare che si svegli per fargli fare una doccia. Non li aveva notati, preso com'era dal groviglio di linee più o meno regolari incise addosso al suo migliore amico, intento a immaginare cosa non avesse sulla schiena, sulle gambe. Poi ci fa caso, e paradossalmente pensa a un cartone animato che gli ha fatto vedere Tony qualche tempo prima, in cui una bambina coi capelli bianchi che poteva creare il ghiaccio con le mani è obbligata a portarli per non congelare praticamente tutto. Gli rimbalzano in testa le parole "Celare, non mostrare", e pensa di non aver mai visto un cartone animato più triste di quello, in un certo senso. Bucky deve aver messo quei guanti per nascondere la mano metallica, più che per proteggersi dal freddo, perchè la punta delle sue dita è scolorita, quasi blu, e Steve sa come funzionano i principi di congelamento, e sa che deve scaldarlo subito se non vuole rischiare di perderlo di nuovo. 
Quindi si, apre l'acqua calda nella vasca e, mentre aspetta che sia piena fino a metà decide contro tutti i suoi istinti di orgoglio e autopreservazione di infilarsi quel costume ridicolo di Capitan America che gli ha regalato Tony, ghignando come lo schizzato che è quando ha visto la faccia che il primo vendicatore ha fatto. Ma il fatto è che ha un solo costume da bagno, e che il solo costume da bagno che ha è quello. E che sarebbe poco positivo se Bucky si svegliasse e si ritrovasse in una situazione imbarazzante come prima cosa. Sempre che si ricordi di cosa sia, in effetti, una situazione imbarazzante.
Mentre aspetta che l'acqua raggiunga il livello desiderato Steve prende la ciotola d'acqua calda, ormai quasi tiepida, e ci immerge la mano di Bucky. Lo vede stringere gli occhi, sa che fa male, ma a parte qualche riflesso muscolare probabilmente dovuto al dolore Bucky non si sveglia.
E il fatto che sembri praticamente in un coma senziente, oltre all'immobilità feroce in cui è chiuso, è terrorizzante.
Gli prende le dita fra le sue, cercando di aggiungere il calore della sua mano a quello dell'acqua, e pare funzionare. Dopo qualche minuto le dita di Bucky sono tornate quasi del colore giusto. E' che, al momento, è tutto Bucky ad essere del colore sbagliato. Steve gli lascia addosso solo i boxer, cercando di non fare caso alla tavolozza di cicatrici che sono le sue gambe e al livido enorme che ha dietro al ginocchio destro, e lo prende in braccio come farebbe con un bambino, con un'attenzione quasi maniacale. E' spaventato dalla possibilità che si svegli e reagisca male. E' spaventato dalla possibilità che si svegli e non reagisca. Ed è spaventato dalla possibilità che non si svegli. La temperatura di Bucky basta a obbligarlo a sopprimere qualche imprecazione. E' freddo. E' troppo freddo.


Quando si siede nella vasca, tenendo Bucky appoggiato contro il suo petto, sostenuto dalle sue gambe, non sa bene cosa aspettarsi. Decide che potrebbe anche non aspettarsi niente, mente la testa del Soldato d'Inverno ciondola contro le sue spalle, e si limita ad aspettare e basta. Dopo una decina di minuti Bucky inizia a tremare, e Steve sa che è un buon segno. Il suo corpo reagisce, si sta accorgendo che stava entrando in uno stato di letargia da cui difficilmente sarebbe uscito, e si impegna per fare qualcosa al riguardo. Ma il fatto che sia un buon segno non lo rende più confortevole: i denti di Bucky battono a una velocità da telegrafista, e si vede che la mano continua a fargli male perchè gli scappa di bocca un rantolo doloroso che fa perdere a Steve un paio di battiti. Lo stringe un po' di più, solo per assicurarsi che non scivoli, per essere sicuro che non si faccia male. Solo finchè non smette di tremare, si ripete. Solo finchè non smette di tremare. E poi eccolo, il respiro umido che gli esce dalla gola, quello che sembrava ghiaia intrappolata nella trachea. Riappare, e tutto quello che Steve può fare, finchè è bella vasca con lui, è tenerlo al caldo e bagnagli il petto con l'acqua tiepida in cui sono immersi, sperando che respirare il vapore gli faccia bene. Lo sente iniziare a tossire e lo vede aprire gli occhi. Si sente attraversare per pochi secondi da uno sguardo azzurro che non vedeva da una vita e poi Bucky si spegne di nuovo, lascia cadere la testa sulla sua spalla e se ne sta li, col braccio meccanico fuori dall'acqua (Steve immagina sia impermeabile, ma che ne sa lui?), gli occhi chiusi e quel respiro rumoroso in gola e nei polmoni. Atri due anni di vita persi per Steve Rogers, che decide in quel momento che potrebbe approfittare della situazione per dare una ripulita all'uomo che sta cercando di tenere in vita, lavargli i capelli, togliergli di dosso lo sporco di una città che è andata troppo avanti per lui.
Quando gli fa scivolare in testa la prima passata di acqua calda Bucky va a incastrare la fronte sotto il mento di Steve, e gli scappa di bocca una parola in russo impastata di sonno, stanchezza, freddo e chissà cos'altro.
"Я устал" Ya ustal.
Sono stanco. 
E Steve decide che può continuare a stringerlo un altro po', anche se ormai ha quasi smesso di tremare.


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E due!
Sto panicando. I fumetti e i film sono due cose simili ma per certi versi non c'entrano nulla l'uno con l'altro e, anche se ho deciso di seguire gli eventi dei film per non complicare l'anima a nessuno al momento il mio cervello ha un conflitto interno di un certo spessore. Nei fumetti Bucky "muore" in un incidente aereo (o meglio, su un drone che praticamente gli esplode in faccia per aria dopo che non era riuscito a disattivarlo); lui perde un braccio e viene ritrovato dai russi, che approfittano della sua amnesia dovuta al botto clamoroso per farlo diventare il soldato d'inverno, mentre Steve cade  nel ghiaccio e diventa un calippo.
nel film succede tutta un'altra cosa.
E io panicheggio.

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Capitolo 3
*** Cover Me ***


Quando si sveglia, il Soldato d'Inverno non ha paura. Non sente niente. E' abituato a uscire dalla sua tomba criostatica e a ricevere ordini, a eseguirli e a lasciarsi seppellire di nuovo. Aprire gli occhi al buio, però, è una novità. Aprire gli occhi al buio, al caldo e con un mal di testa feroce lo è ancora di più. Aprire gli occhi al buio, al caldo, con un mal di testa feroce e una fame assassina, il tutto contornato dalla sensazione di non essere solo e di non conoscere chi ha vicino è una novità assoluta.
Ed è li che arriva, la paura. 
Lo colpisce come un pugno allo stomaco e lo lascia senza fiato per i primi cinque secondi, poi lo obbliga a cercare di respirare in qualche modo.
Sta andando in iperventilazione.  Ed è li che si rende conto che i suoi polmoni fanno un rumore strano, e gli viene voglia di aprirsi per controllare cos'è che lo fa respirare come se avesse ingoiato una maracas. Ma non lo fa. Piuttosto, si rende conto di avere qualcosa di caldo sul petto, e gli arriva al naso un profumo di pulito che il suo cervello non registra subito, ma poi gli fornisce una definizione che non sa bene come ricollegare.
Semi di lino. Sua madre usava sempre quegli impacchi caldi quando uno di loro stava male. Steve era quello che ci finiva sotto più spesso.
Gli torna in mente un viso scavato, capelli biondi e occhi azzurri. Un ragazzino più basso di lui di tutta una testa che non capiva mai quando era il caso di tirarsi indietro. 
Steve.
Fa per passarsi la mano destra sugli occhi, ma si rende conto che non può alzare il braccio più di una manciata di centimetri. Qualcuno glielo ha immobilizzato contro la cassa toracica. A parte la sensazione sgradevole di essere praticamente immobilizzato, fa molto meno male di prima. Finchè non inizia a tossire. E Dio, la schiena gli fa malissimo, i polmoni si aggiungono al coro e anche la spalla non è esattamente felice di essere maltrattata così. 
Una volta c'era finito lui a letto con una bronchite che lo lasciava senza fiato ogni volta che cercava di riempirsi i polmoni. Aveva praticamente obbligato Steve a infilarsi la sua giacca per evitare che prendesse una broncopolmonite, cosa che comunque riusciva a fare spesso, e se n'era andato in giro per l'inverno newyorkese con addosso solo un maglione di lana, perchè lui era Bucky Barnes, e figuriamoci se Bucky Barnes si ammalava.
Lui era Bucky Barnes.
E Steve era stato con lui tutto il tempo, proprio come succedeva quando i ruoli si invertivano, a preparargli impacchi caldi di semi di lino da appoggiargli sul petto e costringerlo a bere brodo di pollo fatto con tanto affetto ma nessuna esperienza, perchè il sapore aveva qualcosa di decisamente sbagliato, ma non gliel'aveva mai detto. 
Lui era Bucky Barnes.
E comunque, quel brodo era caldo. Si ricordava di mani magre sulla schiena ogni volta che tossiva in quel modo, perchè Steve ci era passato decine di volte e sapeva quanto faceva male. E anche quando gli diceva di allontanarsi per non attaccargli la febbre, la tosse o qualsiasi altra cosa, Steve rimaneva li a guardarlo come fosse un cretino per aver anche solo pensato che potesse lasciarlo solo in un momento simile. Non gli dava mai retta. Ma, d'altronde, lui faceva esattamente la stessa cosa.
Lui era Bucky Barnes.
Lui è Bucky Barnes.
E i capelli gli si stanno incollando alla fronte, e sta tossendo come un dannato, e la porta della stanza che non sa nemmeno che stanza sia e Dio, il panico che rischia di esplodere di nuovo, si apre per far entrare una lama di luce che neanche a farlo a posta lo colpisce in pieno nell'occhio sinistro. Stinge le palpebre. Ha un mal di testa furioso. Ma chiudere gli occhi ora significa essere impreparato a cosa sta per succedere, quindi li riapre per paura di essere riportato via, di avere di nuovo il cervello ripulito da cima a fondo, e non vuole, non vuole nemmeno pensarci, e Dio, il panico che sta per fargli esplodere la testa e…
"Bucky"
Steve.
L'ombra che gli si avvicina cauta è più grossa dello Steve che si ricorda, ma le mani che aspettano il permesso di poterglisi posare sulla schiena mentre tossisce sono decisamente le stesse. Annuisce tendendo i muscoli, preparandosi a una carezza come a un colpo violento, ed è piacevolmente sorpreso di sentire la prima e non il secondo. Non è più abituato a considerare il tocco di un essere umano come qualcosa da ricercare piuttosto che da rifuggire. Steve dev'essersene accorto, perchè inizia a rassicurarlo sottovoce.
Va tutto bene, Buck. E' tutto a posto. Va tutto bene. Ci sono io. Sei al sicuro. Va tutto bene. Mi sei mancato, Buck. 
E Bucky cerca ancora di capire perchè Steve sia così grosso, com'è che lo è diventato, perchè questa stanza è così diversa da quella di Brooklyn dove sono cresciuti, dov'è che si trova, perchè il tavolo su cui è sdraiato è così morbido, e…
Non è un tavolo, è un letto.
E il tavolo è quello dei russi, che gli riempiono la testa di cose che non capisce ma che è obbligato a credere. E il tavolo è quello dell'Hydra, con aghi, elettricità e fibbie che lo costringono a stare fermo, e un coso di gomma da mordere per non staccarsi la lingua mentre gli passano volt su volt nel cervello. E Steve è così grosso per il siero di Erskine, che lo ha trasformato da ragazzino gracile a immagine perfetta del soldato americano. Ma l'eroismo no, quello ce l'aveva già di suo.
E cade. Cade, sta cadendo. E sente qualcosa che si strappa. Quando guarda giù si rende conto che il suo braccio sinistro non c'è più. Ed è di nuovo su un tavolo, e gli stanno attaccando addosso qualcosa fatto di metallo, e fa male. 
Urla il suo nome, ma più lo urla più lo obbligano a dimenticare, gli infilano in testa quel casco e gli ripuliscono il cervello dalle poche cose che riesce a ricordare ogni tanto.
E le mani di Steve ora lo stanno stringendo di più, mentre si rende conto che le urla che sente sono le sue.


Quando Steve l'aveva sentito tossire si era costretto ad avvicinarsi il più lentamente possibile. non sapeva se quello fosse Bucky o il Soldato D'Inverno; non voleva spaventare il primo ne prendersi un pugno in bocca dall'altro. Meglio essere cauti, in ogni caso.
La penombra fitta l'aveva costretto a muoversi lentamente, e invece di appoggiargli subito le mani sulla schiena aveva aspettato che glielo permettesse. La schiena di Bucky era calda,  fin troppo calda, e sudata: super soldato o meno, l'inverno di Washington non era pietoso con qualcuno che dorme per strada con addosso solo una felpa di cotone e una maglietta raccattata chissà dove. Stava iniziando a pensare di cercare di fargli prendere qualche medicinale oltre agli impacchi caldi quando lo sentì tendersi sotto le dita. 
E, dopo pochi secondi, Bucky aveva iniziato a urlare.
Dopo uno shock iniziale di una certa importanza, Steve si trovò con entrambe le mani piene di Bucky Barnes, che gli si era lanciato addosso agganciando dita in carne e ossa e dita metalliche al maglione, appoggiando la testa contro il suo stomaco. Un tremore continuo si era sostituito alle urla e, quando Steve aveva fatto per passargli le mani dietro la schiena, Bucky aveva cercato di respingerlo col braccio metallico.
La resistenza era debole, troppo debole. Steve si chiese se lo facesse di proposito o se davvero non avesse la forza di allontanarsi. 


Faceva caldo, troppo caldo. L'impressione era che il caldo gli venisse da dentro, ma era impossibile: non era caldo, lui. Era gelido, freddo, fatto di ghiaccio. Era talmente abituato al gelo che tutto quel caldo rischiava di soffocarlo, di non lasciarlo respirare. E poi c'era quel rantolo continuo a confonderlo. Si rese conto solo fino a un certo punto che si era lanciato fra le braccia di Steve, ma non gli interessava: l'aver smesso di urlare non lo faceva sentire meglio, ora alla carrellata di immagini che gli passavano per il cervello si era aggiunto un tremore fastidioso. La sua memoria passava senza soluzione di continuità dalle strade di Brooklyn a un omicidio, da un vecchio negozio di alimentari dove cercava sempre di tirare sul prezzo alla sua mano metallica stretta intorno alla gola di qualcuno, da un tramonto visto di straforo camminando sul ponte a un'esplosione che gli aveva fatto avvampare il viso. E, di nuovo, il panico che saliva, e il respiro che si strozzava ma, soprattutto, la certezza che Bucky Barnes e il Soldato D'Inverno fossero la stessa persona. Che le sue mani avevano fatto cose grandiose e cose terrificanti, e che il numero delle cose terrificanti superava di gran lunga quello delle cose grandiose. D'un tratto, si vergognò di se stesso. E decise che non si meritava l'affetto di nessuno, tantomeno quello di Steve. Non aveva mai odiato qualcuno come odiò se stesso in quel momento. Non si meritava quell'abbraccio, ne quelle mani fra i capelli appiccicati di sudore che cercavano di calmarlo. Non si meritava qualcuno che si prendesse cura di lui. Non si meritava di essere vivo, in sintesi. 
"Oi, oi. Bucky. Lascia stare, va tutto bene"
Non si era nemmeno reso conto che stava respingendo Steve col braccio metallico, l'unico che poteva usare. Ne che Steve non avesse la minima intenzione di lasciarlo andare.
Si rese conto di aver aperto bocca ed ha parlato inglese per la prima volta in decenni solo dopo averlo già fatto, e il sorriso che ricevette bastava e avanzava.
"Non mi hai mai lasciato andare nemmeno quando te lo chiedevo".


Steve resta incantato a guardare quegli occhi confusi coperti da una cortina di capelli che avrebbero avuto bisogno di una seconda lavata a breve. Ma dopo che la febbre gli fosse passata, solo quando fosse guarito. Quando gli sorride, Bucky scoppia a piangere come se aspettasse di poterlo fare da sempre.
Lo stringe. C'è una discreta possibilità che non lo lasci più andare.

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Capitolo 4
*** Nowhere freeway ***


Bucky parlava poco,dormiva parecchio, mangiava pochissimo; Steve cercava di far abbassare la febbre con una sollecitudine encomiabile, ma i metodi degli anni '40 potevano anche non funzionare su un'infezione ai polmoni di quella portata. Il fatto era che non era facile convincere Bucky a prendere qualcosa.
Come lavori con una persona che non si è potuta fidare di nessuno per decenni? Come convinci qualcuno che è stato drogato, avvelenato, usato come cavia da laboratorio per settant'anni che un antibiotico non serve ad addormentarlo e fargli chissà cosa, ma semplicemente a farlo stare meglio? La telefonata a Banner era stata decisamente utile, i consigli erano perfetti, ma il paziente aveva avuto quasi un attacco di panico quando Steve si era avvicinato con la confezione di pasticche da fargli prendere. Ci aveva perso quasi un'ora, e ancora non aveva avuto successo: se non fosse stato per l'effettivo bisogno di far prendere a Bucky quelle medicine Steve avrebbe rinunciato; anche solo per non vedere più il viso terrorizzato del suo migliore amico. 
"Buck"
Niente. Nientenienteniente. Nemmeno uno sguardo.
"Bucky"
La spalla di Bucky, quella su cui ha appoggiato la mano, continuava a tremare. Ma lui niente, teneva gli occhi chiusi, le labbra serrate, e restava li.
"James, per favore"
Sua madre lo chiamava James, Steve non l'ha mai chiamato così. Solo in caso di emergenza lo chiama così. Quando lo porta via dalla base tedesca lo chiama così. Quando non riusciva a dormire senza vedere il volto da roditore del medico svizzero col nome da scrittore francese, quando si svegliava urlando il suo numero di matricola, ripetendolo come un ossesso, per paura che fossero davvero riusciti a cancellargli la memoria. Quando aveva bisogno di Steve ma non aveva il coraggio di dirlo, perchè Steve ormai era Capitan America, e tutta l'America aveva bisogno di lui. Cos'erano i bisogni di un singolo soldato davanti a quelli di tutta una nazione? Non aveva detto niente, ed aveva continuato a non dormire per giorni e a svegliarsi urlando quelle poche volte che riusciva ad addormentarsi. Finchè qualcuno aveva avvertito Steve. Ed era Steve quello che era arrivato, non Capitan America: se Capitan America era troppo occupato per curarsi di lui, Steve non lo era mai. Era stato Steve a prendersi cura di Bucky, a promettergli che l'avrebbe svegliato dagli incubi, a obbligarlo a dormire chiamandolo James.
"James, non dormi da troppo tempo. Chiudi gli occhi, ci sono io qui".
E vedere quella versione enorme di Steve che gli prometteva protezione lo fece ridere di gusto, prima di ritrovarsi affogato con un mattone in gola che non ne voleva sapere di scendere. Non aveva pianto, si era limitato a svenire sulla branda per quasi due giorni. Quando si era svegliato, Steve era li. Perchè Bucky sapeva che se Steve lo chiamava James significava che diceva sul serio.
"James, avanti"
Steve lo vide spostare la testa verso la fonte della sua voce, solo un po'.
"Per favore"


Bucky non aveva mai saputo resistere ai "per favore" di Steve, ne quando li elargiva dal basso del suo metro e sessanta, ne quando gli scappavano di bocca quando ormai era un armadio muscoloso di quasi due metri che cercava di convincerlo a comportarsi in un modo più assennato. A cercare di restare vivo. Tipo in quel momento, in effetti. E un "James" seguito da un "per favore" era l'inizio della capitolazione. Aprì gli occhi , cercando di non cedere alla minaccia spaventosa rappresentata da quelle due pillole bianche, decidendo di fissare Steve al loro posto. Se Steve diceva che l'avrebbero aiutato, forse l'avrebbero aiutato. Si fidava si Steve. 


Steve approfittò dell'apertura nella postura di Bucky per passargli un braccio dietro le spalle e tirarlo su a sedere, mettergli in mano le pasticche e tenere a portata di mano un bicchiere di carta pieno d'acqua. Non voleva ficcargliele in bocca, avrebbe significato perdere tutta la fiducia che Bucky riponeva in lui. Bucky alzò gli occhi per fissarli nei suoi, e Steve sentì morire in bocca tutte le rassicurazioni che gli erano venute in mente. Bucky era terrorizzato dall'idea di prendere quella roba, ma pareva aver deciso di fidarsi perchè pochi secondi dopo se le era ficcate in bocca e aveva allungato il braccio sinistro verso il bicchiere. Steve aspettò che bevesse , poi glielo tolse di mano e lo appoggiò sul comodino. Rimuginò sulla possibilità o meno di fargli prendere anche un antidolorifico per la spalla, ma preferì chiedere prima.
"Bucky, riesci a tirare giù qualcos'altro?"


Bucky sputò fuori tutta l'aria che aveva nei polmoni prima di rispondere, spostando gli occhi su qualsiasi cosa nella stanza tranne che su Steve.
"Qualcos'altro cosa?"
"Antidolorifici, Buck. Te la senti?"
Lo fissò da sotto in su, il sopracciglio destro inarcato.
"Funzionano?"
"Direi"
Vide Steve sorridergli, non se la sentì di deluderlo.
"Ok"
Steve si alzò dal letto per avviarsi in cucina, appena uscito il suo migliore amico, Bucky si permise di stringere gli occhi. Le mani gli tremavano.


Steve rimase in cucina più di quanto avesse voluto: la confezione degli antidolorifici aveva deciso di offrire resistenza e, tanto per complicare le cose, era riuscito ad aprirla dalla parte del bugiardino. Ogni tanto si chiedeva se quei foglietti che comunque nessuno leggeva si spostassero a spregio da una parte all'altra della scatola ogni volta che cercava di aprirne una. Si ricordò all'ultimo minuto di riempire di nuovo il bicchiere con l'acqua del rubinetto
che era buona comunque, e poi che senso ha comprare l'acqua, diritto umano fondamentale a cui tutti dovrebbero avere accesso? - evitò di pensare al fatto che pagare la bolletta dell'acqua era comunque comprarla
e si avviò di nuovo verso la camera da letto. 


Bucky sentì i passi di Steve avvicinarsi, si sforzò di aprire gli occhi. Si sforzò di far passare il panico che gli stava salendo nella gola. Si sforzò di apparire il più normale possibile.


Quando Steve si affacciò alla porta si rese subito conto che qualcosa non andava, ma non riusciva a intensificare il problema: Bucky sembrava tranquillo, e nella stanza tutto era rimasto come prima. Si sedette di nuovo sul letto accanto a lui, e solo in quel momento si rese conto che le pupille di Bucky erano dilatate come due piatti.  Gli occhi di Bucky erano due buchi neri.
"Buck?"


Bucky sentì la mano di Steve appoggiarsi sulla sua spalla, quella libera dalle bende che gli tenevano fermo il braccio destro,  e si voltò verso di lui. Dovette sopprimere la voglia di mettersi a urlare quando vide le due pillole azzurre in mano del Capitano. 
Nononononononono
Non riusciva a staccare gli occhi da quegli aggeggini che aveva davanti al naso. Non avrebbe mai creduto possibile che due cose così piccole gli avrebbero scatenato una paura così grande.
"Buck, cosa c'è?"
Gli occhi di Steve erano pie i di qualcosa che non riusciva a identificare, probabilmente perchè non vedeva qualcuno preoccupato per lui da un bel pezzo. Quando se ne rese conto si sentì quasi in colpa.
"Sto bene"
Gli uscì di bocca come carta vetrata. Deglutì.
"Sono gli antidolorifici? Quelli che funzionano?"
Steve annuì senza smettere di fissarlo, quando gli appoggiò una mano sulla fronte senza preavviso dovette resistere all'impulso di schizzare all'indietro di quaranta centimetri e sferrare un pugno col braccio metallico. Non riuscì ad evitare di sobbalzare, in ogni caso. Steve tenne la mano sulla sua spalla. Gliene fu immensamente grato. Dopo pochi secondi si rese conto che la mano del suo migliore amico aveva iniziato a scivolare verso il collo e tornare indietro, verso il collo e tornare indietro, in un movimento ripetitivo che trovò insieme miracoloso, rassicurante e rilassante. Era talmente disabituato a ricevere un minimo di rassicurazione fisica che bastava pochissimo a destabilizzarlo. Quando Steve gli passò le pillole sotto il naso, reagì ficcandosele in bocca senza darsi il tempo di ripensarci e appallottolandosi sul letto, schiena al muro, viso rivolto verso il suo migliore amico. Il panico gli saliva in bocca mentre le pillole gli cadevano in uno stomaco anche troppo vuoto. 


Steve si rese conto che Bucky aveva iniziato a respirare più velocemente del solito, il rumore che facevano i suoi polmoni diventò un rantolo continuo. Passò un fazzoletto in una bacinella d'acqua fresca e iniziò a passarglielo sul collo e sulle spalle, cercando di riuscire a farlo sdraiare di nuovo per sistemargli di nuovo un impacco caldo sul petto. Non sapeva se Buck respirava in quel modo per via dell'infezione o se lo sforzo psicologico di tirare giù i medicinali l'avesse smontato fino a quel punto. La risposta gli arrivò quando si accorse che le mani del suo migliore amico tremavano quasi disperatamente.
Prese la mano metallica di Bucky fra le sue, senza sapere se il braccio bionico fosse sensibile al tatto o meno. Che tremasse non era così strano, considerando che era collegata ai suoi nervi, ma non aveva la certezza che potesse davvero sentire qualcosa.  
"Ehi. Ehi. Buck. Guardami. Buck, guardami"
Si stupì quando Bucky si voltò subito verso di lui, appoggiandosi al gomito del braccio libero per sollevarsi dal materasso. Non sembrava paventato, solo teso, e dispiaciuto. Parecchio dispiaciuto.
"Scusami Steve, mi dispiace"
"E di cosa?"
Bucky fece per passarsi una mano fra i capelli che avevano deciso di crollargli sulla fronte in una non meglio definita frana castana, prima di rinunciare per non andare a sbattere di faccia sul materasso: aveva passato cose peggiori, ma non sarebbe stato dignitoso.
"Mi fido di te. Ti giuro, mi fido di te. Non potrei fidarmi di nessun altro…non posso fidarmi di nessun altro. E' che ogni volta che mi hanno fatto prendere qualcosa non è finita bene"
Quando Steve gli tolse i capelli dalla fronte si zittì, non sapeva se aveva voglia di continuare a parlare o se preferiva inghiottire parole e ricordi come un gigantesco, doloroso sasso. Si sentiva la gola secca, gettò uno sguardo al bicchiere.
"C'è ancora un po' d'acqua li dentro?"
Steve annuì e gli mise il bicchiere in mano. Bevve.
"Ogni pasticca era una sorpresa, Steve. Potevano usarla per farmi addormentare e lasciarmi svegliare decenni dopo, se andava bene. Potevano usarla per sperimentare qualcosa che non sapevo nemmeno cosa fosse".
Il panico saliva, insieme alla voglia di vomitare. Si sforzò di tenere tutta l'acqua nello stomaco.
"Una volta mi ficcarono in bocca qualcosa per farmi dormire, quando mi svegliai ero legato a un tavolo d'acciaio e quattro persone stavano giocando coi nervi della mia spalla. Li sentivo parlare di un possibile miglioramento del braccio meccanico, di armi da aggiungere."
Steve lo vide fermarsi, deglutire, continuare.
"Mi avevano aperto una spalla, Steve, e vedevo fili e nervi attaccati insieme, e ti giuro Steve, ti giuro. Ho capito di non essere più umano. Sono pieno di cavi, Steve. Quella gente legava i miei nervi ai cavi come fosse stoffa."
Smise di parlare, si piazzò una mano sulla bocca.
"Lo facevano senza anestesia".
Steve dovette ricordarsi di nuovo come si faceva a respirare. 
"Quindi scusami se ti ho fatto perdere tempo. Scusami se hai pensato che non mi fidassi di te. Mi dispiace, Steve. "
MidispiaceStevemidispiaceStevemidispiaceSteve


Steve rimase in silenzio, senza sapere cosa dire. Senza sapere se parlare. Senza sapere nemmeno se parlare sarebbe stata una buona idea. Poi gli venne in mente qualcosa che sperava avrebbe aiutato il suo migliore amico a superare il momento.


Quando Bucky vide Steve alzarsi e uscire pensò di averlo perso definitivamente: aver ammesso di non sentirsi del tutto umano l'aveva completamente svuotato, e evidentemente aveva fatto decidere a Steve che non valeva la pena cercare di aiutarlo. Non che se lo meritasse. Quando però sentì il profumo di cioccolato arrivargli alle narici scattò a sedere senza nemmeno pensare alla spalla dislocata.


Steve dovette spostare la tazza per evitare una collisione con la testa di Bucky e un lenzuolo irrimediabilmente macchiato di cioccolato. 
"Oi, piano. Non vorrei ti aprissi la testa sbattendola contro la tua colazione"
L'espressione di Bucky era impagabile: un misto non meglio identificabile di sollievo e ohmmioddiononvedolacioccolatadalsecoloscorso. Riuscì a mettersi a sedere senza staccare gli occhi da Steve, allungandosi per appoggiarsi alla testiera del letto.
"E' per me?"
"E' per te"
"E' cioccolato?"
Steve sorrise.
"E' cioccolato".
Bucky tirò giù un sorso di cioccolata calda, chiuse gli occhi e azzardò a tirare su un angolo della bocca. Poi tornò serio.
"Sei tornato"
Steve lo fissò.
"E dove avrei dovuto andare?"
Bucky non ebbe il coraggio di dirgli che aveva avuto paura che Steve se ne fosse andato, che avesse deciso di non volerne più sapere o che lo trovasse disgustoso, ora che gli aveva confidato di sentirsi più macchina che uomo. ma non disse nulla. Affogò di buon grado nella cioccolata calda scuotendo la testa.


Steve non riuscì a resistere, quando Bucky tirò su la testa dalla tazza con un paio di baffi di cioccolato stampati in faccia  non poté fare a meno di sorridergli e sedersi di nuovo accanto a lui. 
"ti donano i baffi, Buck"
"Sono troppo occupato a godermi la cioccolata per far finta che quello che hai appena detto mi interessi, Steve"
La bocca sotto i baffi di cioccolato si sollevò in un ghigno.

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Capitolo 5
*** The last to die ***


Dopo un paio di giorni il siero del supersoldato che gli è stato così generosamente elargito dall'Hydra si decide a funzionare, e il rumore che fanno i polmoni di Bucky inizia a diminuire, portandosi via anche un po' di febbre. Stava meglio, a Steve pareva addirittura che il suo umore fosse nettamente migliorato. Mangiava qualcosa in più, dormiva qualche ora in meno, spiccicava qualche parola più del solito.
Ma sembrava teso, mai rilassato, sempre col bisogno di tenersi sotto controllo e con un sorriso che non arrivava mai agli occhi; Steve immaginò che il fatto che il sorriso almeno apparisse qualche volta fosse un passo avanti rispetto a quando non riusciva nemmeno a far sollevare tutti e due gli angoli della bocca, ma c'era sempre qualcosa che non andava, che percepiva ma non riusciva a capire, non poteva afferrare. Bucky prendeva regolarmente i medicinali, faceva molta meno fatica a buttare giù le pillole ora che pareva essersi reso conto in prima persona che quella roba lo aiutava sul serio. Si sforzava di mangiare almeno a metà di quello che Steve gli metteva nel piatto, aveva anche iniziato a girare per casa senza dover temere di crollare a terra esausto, fosse per un eccesso di tosse o un attacco di vertigini improvvise. Ogni volta che Steve lo vedeva apparire in salotto col pigiama improvvisato, una tuta che gli scivolava continuamente dalle spalle che gli aveva trovato, non riusciva a fermare il sorriso spaccafaccia che gli si stampava in visto. 
Era Buck.
Era vivo.
Era li. 
E probabilmente stava meglio, sembrava che facesse di tutto per convincerlo che fosse così. E forse proprio questo tentativo di far credere a Steve che si, ok, aveva ancora un po' di febbre ma niente di che, che si sentiva meglio, che fra qualche tempo si sarebbe sentito pronto per uscire di casa, convinse Steve che magari non era proprio così. Da quando conosceva Bucky aveva applicato alla definizione "bastardo cocciuto" la fotografia di James Buchanan Barnes: sapeva che cosa era in grado di fare pur di non chiedere aiuto, e sapeva che rischiava di chiedere aiuto solo all'ultimo momento, quando ormai era troppo tardi e ogni possibilità era persa, finita, sparita. Non voleva che succedesse, non voleva vederlo di nuovo ridursi come l'aveva visto nella campagna militare del 1944, con gli occhi di chi non si fida a raccontare niente, perchè che senso avrebbe aprire bocca per far uscire cose a cui comunque nessuno crederebbe? Fatica sprecata.
E in quel momento, proprio adesso, Bucky aveva quegli occhi li: quelli di chi vuole convincerti che sta bene, ma gli occhi lo fottono e restano vuoti, vitrei e spaventati.
Non poteva dirgli niente, in ogni caso: finchè Buck non si fosse deciso a dire qualcosa di quello che gli passava per il cervello Steve sapeva che non gli avrebbe cavato una singola parola di bocca. Era un bastardo cocciuto, in fin dei conti. Lo era sempre stato.


"Buck, hai fame?"
Annuisci, Bucky. Sorridi e di di si. Mangia qualcosa, e vedi di non vomitare almeno a questo giro.
Bucky assecondò il suo cervello, fece tutto ciò che gli diceva e si sedette davanti a un piatto di brodo di pollo che Steve aveva finalmente imparato a cucinare decentemente, in cui galleggiavano due fette di pane arrostito. Non era male. Anzi
Era decisamente buono. Ottimo.
Il fatto che la sua esperienza col cibo decente si fermasse al 1944 non influiva sul suo giudizio, sul serio. E' che decenni di criostasi e chili di barrette energetiche, vitamine in pasticca e poche altre cose tendevano a rendere i termini di paragone oggettivamente vaghi. 
Comunque si, era buono. Davvero. La sua gola infiammata ringraziò il calore del brodo, e il suo stomaco quasi eternamente vuoto ringraziò la consistenza del pane che gli scivolava giù dalla bocca. Era la quarta volta contata che qualcuno si premurava di mettergli nel piatto qualcosa di caldo dal 1944. Il solo pensiero lo fece rabbrividire, mascherò il tremito delle mani dentro un colpo di tosse.
Non far preoccupare Steve, sai che non si merita il disturbo. E tu non ti meriti il suo aiuto. Non dopo quello che hai fatto. Non dopo quello che sei. Mai, in futuro.
Di nuovo, Bucky si spalmò in faccia la sua maschera sorridente e si ficcò in bocca la seconda cucchiaiata. 
"Finalmente hai imparato come spremere decentemente le galline"
Steve lo fissò ghignando.
"E' brodo in scatola, l'ho comprato già pronto"
Bucky restò col cucchiaio a mezz'aria fra il piatto e la bocca a fissarlo come una lepre davanti a un tir. 
"Questo è barare, Steve. Capitan America non bara: è patriottico, gentile e rispettoso delle regole. E non bara."
"Certo. E non saprebbe cucinare nemmeno per salvarsi la vita. Eri tu quello che capiva qualcosa di fornelli"
Già, ora che ci pensa Bucky se lo ricorda: si ricorda la vecchia cucina del loro appartamento, la poca roba da mangiare che c'era, il freddo boia nelle ossa, la razione doppia che rifilava regolarmente a Steve fingendo di aver già mangiato, perchè avrebbe tanto voluto vederlo mettere su qualcosa su quel mucchietto d'ossa che si ostinava a coprire di vestiti tutti i giorni. 
Ma non riusciva a ricordarsi la manualità, come si cucinava, cosa utilizzava, cosa preferiva mangiare. Era finito sepolto sotto anni di programmazione, barrette energetiche, vitamine in pasticche e istruzioni su come montare e smontare qualsiasi tipo di arma, come lanciare una granata, come uscire comunque vittorioso da un corpo a corpo a mani nude. Non ricordava niente che non rientrasse in quei parametri, niente che lo riportasse a una vita civile. Aveva solo il suo carattere, il suo spirito e il suo sarcasmo. E lo spirito stava evaporando, lentamente ma inesorabilmente. Aveva paura di restare vuoto.


Ogni tanto Bucky si bloccava, Steve se ne accorgeva bene: era successo anche lui, dopo essersi svegliato. Ogni tanto si fermava a fissare qualcosa che vedeva solo lui, qualcosa che ricordava, poi si riprendeva e tornava fra i vivi. Ma ogni volta che Bucky tornava fra i vivi, un pezzo dei suoi occhi restava indietro. 


"Tutto ok?"
Certo che è tutto ok, Bucky. Digli di si, alzati anche se ti senti le gambe molli, porta il piatto in cucina, dagli una sciacquata, rimettilo al suo posto. Rimetti tutto al suo posto. Fagli pensare che stai bene, Bucky. 
Bucky sorrise e annuì, si alzò, sciacquò il piatto e lo mise a posto, si appoggiò col fianco destro al bancone della cucina e poi pensò che non poteva riuscire a rimettere tutto a posto. Non avrebbe mai rimesso tutto a posto. Non poteva riuscirci, non poteva dare retta al suo cervello. E quando non riesci a dare retta al tuo cervello le cose iniziano a farsi gravi.
"Tutto ok, Cap. Programma per stasera?"


Steve non se la sentiva di proporgli di uscire: un film e una secchiata di pop corn gli parevano una buona idea. Era attento a scegliere sempre film che non contenessero tematiche che potevano disturbare Bucky, che non contenessero troppa violenza o che potessero ricordagli chissà cosa. Ma chissà come, Bucky aveva messo le mani su un vecchio dvd che gli aveva regalato Sam, un film italiano uscito u bel po' di tempo fa che si chiamava "Uomini contro". Prima guerra mondiale, Alpi, neve, freddo: avrebbe dovuto essere un cocktail micidiale per la testa del suo migliore amico, e invece Bucky se ne era innamorato. Amava la figura del protagonista, così amante della vita e del suo paese da riuscire ad agire in quel modo, da riuscire a vedere un essere umano nella trincea opposta, e non solo un nido di fucili ed elmetti diversi dai suoi. L'avevano visto già due volte in due giorni, e quando Bucky aveva scoperto che quel film era preso da un libro chiamato "Un anno sull'altipiano", di Emilio Lussu, Steve era riuscito a trovarlo a tempo di record e gliel'aveva fatto trovare sul cuscino la sera stessa. Bucky lo stava letteralmente divorando. Quindi Steve non si stupì di vedere gli occhi di Bucky andare subito allo scaffale dove Steve teneva proprio quel dvd quando gli propose una serata a base di film e pop corn. Bucky gli propose il film sentendosi quasi in colpa, capendo che stava costringendo Steve a vedere per la terza volta la stessa cosa, e riconoscendo che non aveva alcun diritto di fare una richiesta del genere, ma Steve gli sorrise e si limitò a infilare il dvd nel lettore, invitandolo a sedersi con una coperta sulle spalle mentre andava a recuperare i pop corn in cucina.


Il film era finito, Bucky si era infilato nella camera degli ospiti di Steve pochi minuti dopo scusandosi per il mal di testa improvviso, ma non si sentiva bene, si? Non riusciva a considerarla camera sua, non si sentiva in diritto, si sentiva una macchia che rubava spazio e tempo a un essere umano spaventosamente più meritevole di essere vivo di lui. E quel film glielo ricordava continuamente. Cos'era l'indottrinamento cui erano sottoposti quei soldati se non un lavaggio del cervello cronico, come quello che avevano fatto a lui? Certo, più blando, ma comunque. E quell'uomo, il tenente Ottolenghi, era andato avanti come un treno a fare ciò che riteneva giusto, ciò che sapeva essere giusto. E quel libro gli stava letteralmente mangiando il cervello. Come aveva potuto fare ciò che aveva fatto, come aveva potuto eseguire gli ordini che gli avevano dato senza ribellarsi, sottostare alle loro direttive. Perchè non aveva avuto la forza del tenente Ottolenghi su quelle montagne maledette. Srebbe stata dura, quasi impossibile, ma avrebbe dovuto farlo. 
Avresti dovuto farlo, e devi vergognarti per non esserci riuscito.
Si allungò sul letto, infilando le mani sotto il cuscino, cercando qualcosa da stringere fra le dita per rilasciare un minimo di tensione. Sentì le mani iniziare a tremare, e presto i brividi gli arrivarono ai gomiti, al petto e alle gambe. 
Non riusciva più a farlo, non riusciva più a recitare, ma l'avrebbe fatto per il bene di Steve. Non voleva farlo preoccupare, non si meritava la sua attenzione. Strinse le labbra, cucì le palpebre insieme talmente bene che non passò nemmeno un filo della luce della lampada da tavolo che si ostinava a tenere accesa tutta la notte. Non avrebbe mai ammesso che dormire al buio completo lo terrorizzasse: poteva muoversi al buio, sfruttare il buio, vedere meglio di chiunque altro al buio, ma l'idea di chiudere gli occhi e restare alla mercé del mondo nella più completa oscurità lo spaventava a morte. Si addormentò dopo il quarto d'ora più lungo della sua vita.


Steve aveva imparato a dormire con un occhio solo: la guerra prima e il suo lavoro come vendicatore poi lo obbligavano a una vigilanza costante. 
Schizzò in piedi come se qualcosa l'avesse morso quando sentì Bucky urlare, nella stanza accanto alla sua. 

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Capitolo 6
*** We are alive ***


Quando Steve vide Bucky si rese conto che forse una cioccolata calda non sarebbe bastata: anche lui aveva avuto, e continuava ad avere, la sua buona parte di incubi, ma non aveva mai visto niente del genere e, in realtà, ne avrebbe fatto volentieri a meno. La stanza era illuminata dalla lampada da tavolo che Bucky teneva accesa tutta la notte, le pareti dipinte di luce gialla che allungava le ombre verso il letto. Strano che avesse guardato prima le ombre, e poi Bucky.
Bucky urlava.
Non erano i lamenti a mezza voce di chi fa un brutto sogno, erano le urla di chi è in guerra e si ritrova con una scheggia di granata nello stomaco, di chi è obbligato a osservare mentre la gente gli muore intorno. Di chi si è reso conto che esistono cose che non dovrebbero esistere, che non hanno il diritto di succedere, ed è stato forzato a farle succedere. Quando la memoria gli era tornata tutta insieme, come un treno in corsa nel cervello, aveva urlato. Ma non così. Nemmeno lontanamente.
Steve si rese conto dell'effettiva velocità del peniero, stupendosi per mezzo secondo di quante cose gli fossero venute in mente nel tragitto di pochi passi dalla porta al letto, gettando le braccia intorno alla forma raggomitolata del suo migliore amico e guadagnandoci una gomitata di metallo in piena faccia. Aveva sopportato di peggio. Lasciò le braccia li dove stavano.
"Bucky, Buck, svegliati!"


Li avevano avvertiti che i panzer tedeschi fossero l'incarnazione in metallo, cingolati e cannone della definizione "macchina da guerra", ma una cosa è sentirselo dire, l'altra è vederlo coi propri occhi. Erano fermi da mesi nella boscaglia, con il freddo nelle ossa e le razioni C che faticavano sempre più a raggiungere la linea. Non erano male: cioccolato, pane, scatolette. Se solo fossero arrivate con un minimo di regolarità. Si combatte male a stomaco vuoto e con tre giorni senza chiudere occhio sulle spalle.


La luce della lampada non bastava a illuminare il viso di Bucky, nascosto com'era fra lenzuola fradice di sudore e un braccio meccanico che cercava alternativamente di nasconderlo e allontanare qualsiasi possibile minaccia. Steve si scansò, evitando un'altra gomitata, e riuscì a passare una mano dietro la nuca dell'uomo che tremava sul letto. Il calore della pelle di Bucky fu tale da strappargli una smorfia: la febbre stava salendo di nuovo, quello era evidentemente un sogno terrificante e lui non riusciva a svegliarlo.  Si portò la testa di Bucky al petto con una mano, cercando di stringerlo a se con l'altro braccio e ringraziando per l'ennesima volta il siero del dottor Erskine: se fosse stato ancora il vecchio, gracile Steve, Bucky avrebbe potuto lanciarlo contro il muro dall'altra parte della stanza senza nessuno sforzo. Gli tenne la testa con una presa decisa ma gentile, passandogli le dita sulla nuca, mentre cercava di tenerlo fermo: l'ultima cosa di cui c'era bisogno era che la spalla dislocata decidesse di nuovo che aveva voglia di farsi un giro.


Di notte i bengala illuminavano il cielo, lasciandoli completamente allo scoperto per pochi, pericolosissimi minuti. L'impressione era che un qualche dio malefico gli puntasse addosso un riflettore per dire ai tedeschi: "Oi, gente. Gli americani sono li".
A volte riuscivano a nascondersi in tempo, quando il bengala era appena partito e ancora la luce non era così forte, ma altre volte si trovavano a scappare come lepri in uno spazio aperto, senza riparo, e non erano mai riusciti a sopravvivere tutti a quelle gare di velocità coi proiettili. Quella era una di quelle volte.


Chiamarlo non dava risultati, urlare il suo nome nemmeno. Il fatto che avergli fatto cambiare completamente posizione non lo svegliasse spaventò Steve, seduto sul letto con le braccia strette attorno al suo migliore amico. E Bucky non smetteva di urlare. Il pensiero dei vicini lo attraversò per pochi secondi, cadendo subito dopo nella categoria chissenefrega della nottata.
Era Bucky. 
Era li.
Era vivo.
Ed era spaventato a morte, febbricitante e tremante fra le braccia dell'uomo che avrebbe potuto salvarlo da tutto ciò che gli era successo se solo gli fosse venuto in mente di andarlo a cercare dopo la caduta, se solo l'avesse preso. Se non l'avesse lasciato cadere.
Gli veniva da piangere.


Quando il bengala li sorprese, illuminandoli come un lampo al magnesio, erano in mezzo a una radura. L'unica maledetta radura che avevano incontrato, e i tedeschi avevano lanciato un bengala proprio allora. Iniziarono a correre come dannati verso gli alberi a poche centinaia di metri, trascinandosi dietro i fucili. Non si mollavano le armi, restare disarmati significava morire. Furono i trecento metri più lunghi della sua vita, come quelli che i suoi commilitoni dovevano aver attraversato a Omaha Beach. Il fuoco delle mitragliatrici tedesche corse loro incontro come un muro di ferro. Ci rimbalzarono contro in parecchi. Si rialzarono in pochissimi. Lui continuò a correre, obbligandosi a pensare ai morti solo quando avesse raggiunto gli alberi. Solo allora. Era puro istinto. Era follia pura. 


Steve se lo strinse addosso, iniziando a muoversi inconsciamente avanti e indietro: se pochi giorni prima gli avessero detto che si sarebbe ritrovato a cullare Bucky nella sua stanza degli ospiti avrebbe prima riso, e poi mandato a quel paese chiunque se ne fosse uscito fuori con un'idea del genere. Con delicatezza e gentilezza, ma l'avrebbe mandato a quel paese. Ed ora era li, con le mani piene di James Buchanan Barnes, il cervello in overdrive e la sensazione che gli stessero cavando via il cuore con un cucchiaino da dessert. 
"Shhh, Buck. Va tutto bene. Sei a casa. Sei con me. Ti prego, va tutto bene. Svegliati, Bucky".
Si lanciò in una nenia disperata.


A pochi metri dall'inizio del bosco furono costretti a lasciarsi scivolare a terra e strisciare, i proiettili che passavano sopra la testa rendevano l'aria densa come fango. Lanciò un'occhiata alla sua destra, tirando un respiro di sollievo quando si accorse che il suo compagno di branda era vivo, ed era a pochi passi da lui. L'aria gli si strozzò in gola quando lo vide volare letteralmente via, colpito da un proiettile che gli distrusse una spalla, e lo lanciò all'indietro, a mezzo metro di distanza. Atterrò in ginocchio e rimase li.
"Stai giù, Cristo! Stai giù"
Bucky gesticolava come un ossesso, cercando di attrarre l'attenzione di quel ragazzino di diciannove anni completamente rintronato dal colpo di mitraglia. Niente.
"Stai giù, accidenti a te!"
Iniziò a voltarsi per tornare indietro e costringere l'altro soldato a sdraiarsi per ripararsi dai proiettili. Era solo ferito a una spalla, poteva salvarsi tranquillamente.
Il rumore che venne dal bosco, però, gli fece capire che non c'era più nulla da fare. La mitragliata colpì il suo compagno in pieno ventre, tagliandolo letteralmente in due.


Le urla di Bucky si erano trasformate da ammassi di vocali senza senso a un avvertimento ripetuto, uno "stai giù" urlato fino allo sfinimento. 
"Buck, Bucky. Sei a casa. Ci sei."
Bucky allungò il braccio destro verso il nulla, cercando di convincere qualcuno che non c'era a distendersi. Poi smise praticamente di respirare.


Bucky si trovò il viso inondato di sangue. Rosse le mani, rossa l'uniforme, rossa l'erba del prato sotto di lui. L'odore del metallo nelle narici, e il sapore sulla lingua. Non si era accorto che il sangue gli fosse entrato in bocca. Non si era nemmeno accorto di essersi messo a urlare prima che un suo superiore lo portasse via strattonandolo.
Aveva visto un uomo cadere, spezzato in due, davanti ai suoi occhi.
Fece per passarsi la mano sul viso per togliersi il sangue dalla faccia, ma dove avrebbe dovuto esserci la pelle trovò una maschera nera, e si ritrovò a fissare il mondo attraverso le lenti scure del Soldato d'inverno.
Urlò.


"Buck, respira! Devi respirare!"
Con grande sollievo di Steve, Bucky risucchiò tutta insieme l'aria che aveva perso negli ultimi secondi con un rantolo rumoroso, aprì gli occhi e lo fissò.
"Steve"


Gli uscì di bocca in un modo talmente patetico che si vergognò quasi di aver parlato, sarebbe stato meglio tenere la bocca chiusa. Ma le parole avevano deciso di avere vita propria, e lui aveva bisogno di dirlo. Deglutì, spostando gli occhi sulla mano che lo teneva stretto al petto di Capitan America. Steve lo fissava senza dire una parola, senza allentare la stretta.
"Non credo di stare molto bene".
Subito dopo si ritrovò avvolto in un abbraccio talmente confortevole e rassicurante da convincerlo a rilassare i muscoli, mentre Steve gli ripeteva che nessuno si aspettava che dopo tutto quello che aveva passato reagisse subito e tornasse quello che era. Poteva essere cambiato, forse lo era, ma non importava. Lui era James Buchanan Barnes, era il suo migliore amico, e avrebbero dovuto passare sul suo cadavere anche solo per sfiorarlo con un dito. 
"Ho ucciso della gente, Steve"
"Non è colpa tua"
"In ogni caso"
Deglutì, gli sembrava che le corde vocali fossero diventate carta vetrata.
"Ho ucciso della gente, Steve. Brava gente, persone innocenti, famiglie intere, persino bambini."
Sentì le mani che gli passavano fra i capelli fermarsi per qualche millesimo di secondo prima di ricominciare a muoversi.
"Il controllo mentale non ti cancella del tutto. Ci sei, sei dentro la tua testa, e allo stesso tempo non ci sei. Vedi il tuo corpo muoversi e fare quello che fa, e nello stesso momento sei tu e non sei tu a dirgli cosa fare."
Gli veniva da vomitare. Sperò di riuscire ad evitarlo.
"Ho visto le mie mani ammazzare tutta quella gente, Steve. Non sono più il tuo migliore amico. Non sono degno di esserlo. Non mi sento nemmeno umano."
Se possibile, la stretta di Steve aumentò.
"Non è stata colpa tua, Buck. Ti hanno obbligato a fare cose terrificanti, e ne sei uscito vivo. Ne sei uscito te stesso, anche se con la testa incasinata e incubi da Guinness dei primati."
Sentì un bacio appoggiarsi sulla fronte. Chiuse gli occhi.
"Non ti ritengo responsabile di quello che ti hanno fatto fare. Non lo sei."
E Bucky ci credette. Credette che Steve lo ritenesse davvero non colpevole, anche se lui continuava a sentirsi tale. Credette a tutto, anche quando gli disse che non era più solo, che non lo sarebbe più stato. Anche quando gli disse che le cose sarebbero migliorate.
Riuscì a riaddormentarsi due ore dopo, con la schiena ancora premuta contro il petto del capitano. 

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Capitolo 7
*** Unchained ***


"Latte e miele, Steve?"
Bucky non lo dice, ma lo pensa: sul serio?
Ma evidentemente è sul serio, perchè Steve gli piazza la tazza davanti al naso, che si eleva di pochi centimetri dalle braccia sulle quali ha appoggiato il mento, mezzo seduto sullo sgabello di cucina e mezzo sbracato sul bancone.
Ha sonno, ma non è che la cosa lo sorprenda più di tanto: è dal 1944 che non dorme più di tre, quattro ore per notte. Dopo un po' la cosa diventa spossante. 
La tazza di ceramica colorata è li davanti al suo naso, Steve lo fissa da dietro le braccia incrociate e gli viene in mente che non vede il latte caldo col miele da decenni.
Pierce una volta gli ha offerto del latte freddo, ma il Soldato d'inverno non aveva nemmeno risposto. Un'arma non aveva bisogno di latte, e lui era un'arma. 
Chiude gli occhi, e il profumo del latte caldo gli arriva alle narici. Si ricorda vagamente della soddisfazione che lui e Steve provavano quando riuscivano a portare a casa un litro di latte, a Brooklyn, ma non si ricorda più il sapore del latte. Era un peccato a cui poteva porre rimedio.


Raddrizzò la schiena, prendendo la tazza con due mani e godendosi il calore che gli entrava sotto la pelle della mano destra, finalmente libera dal tutore. Si cacciò la prima sorsata di latte in bocca. Il liquido gli scaldò la gola infiammata, bruciando via almeno per un po' il dolore sordo che si portava dietro dall'incubo della notte prima.
Sua madre che gli puliva un paio di baffi bianchi di schiuma dalla faccia prima di spedirlo a scuola.
Steve che appoggiava la bottiglia di latte sul tavolo con una reverenza religiosa.
Un commilitone che era riuscito a mungere una mucca durante la campagna militare d'Italia, raccogliere il latte in un elmetto e portarlo al campo. Quando glielo avevano raccontato non ci aveva creduto, gli era sembrato ridicolo. Ma quel latte era la cosa più buona che avesse mai bevuto.
Pierce che gli chiedeva se voleva del latte freddo.
Basta pensare a Pierce per rabbrividire, ha l'impressione che non riuscirà più a tirare giù latte freddo per un po'.
Il calore del latte gli si assestò nello stomaco, ruscì a cancellare la faccia di Pierce per qualche minuto. E poi, Steve gli aveva promesso che Pierce era morto. E lui si fidava di Steve.
Se non si fosse fidato di Steve, non avrebbe avuto nessun altro.


Steve lo guardò, muto, sentendosi quasi un intruso in casa sua che osservava il ritrovarsi fra Bucky e il latte caldo col miele. Faceva bene alla gola, era buono, era caldo e, insomma era latte caldo col miele. Chi dice di no al latte caldo col miele? Non Bucky, evidentemente. Mentre lo studiava tirare giù la prima sorsata si accorse dell'espressione spaventata che gli si disegnò in volto per pochi secondi, subito rimpiazzata da quella che sembrava pura soddisfazione. A occhi chiusi in quel modo, Bucky sembrava totalmente perso nella tazza.
Gli vennero in mente una serie di cose che Bucky si era sicuramente perso. La tv a colori. Il cinema a colori. Starbucks, perchè no. Tony lo aveva chiamato così al telefono, prima. Ci aveva messo un po' per capire che aveva coniato un soprannome solo per due persone. I Beatles, David Bowie. Quando Sam gli aveva prestato Ziggy Stardust, Steve si era innamorato. Bruce Springsteen.  Jurassic park. Doveva fargli vedere Jurassic park. A Bucky piacevano i dinosauri. La pizza. Avrebbe ordinato una pizza, quella sera. Si ricordava che lui e Buck ne avevano mangiata una insieme, a Little Italy. Nessuno faceva la pizza come gli italiani di Little Italy degli anni '40. A Buck sarebbe piaciuta. Star Wars, indiana Jones. Un archeologo americano che le suona ai nazisti era un'idea magnifica di per se. Voleva portarlo al museo della musica di Seattle, e sullo Space Needle: c'era stato pochi mesi prima con Natasha e Clint, e gli erano sembrati posti fantastici. Non capiva ancora bene cosa ci fosse di bello nella musica fracassona che Clint e Tony sembravano adorare in quel modo, ma doveva ammettere che avesse il suo perché. Batman, voleva fargli vedere i film di Batman. Voleva fargli vedere tutto quello che si era perso. E questo gli era venuto in mente guardando il suo migliore amico rientrare nelle grazie del latte col miele.
Gli avevano fatto dimenticare il latte col miele. Dio. Gli avevano fatto dimenticare il latte col miele. E il suo nome, e quello di Steve, e la guerra, e il suo paese, e la sua famiglia. 
Gli avevano fatto dimenticare il latte col miele.
Bastò quella piccola cosa a far venire a Steve le lacrime agli occhi, non sapeva se di rabbia o di che cos'altro.
Gli avevano tolto tutto.
Anche il latte caldo col miele. O la sensazione di avere qualcuno che si prenda cura di te quando non ti senti bene. Il diritto di stare male quando stai male. L'idea di non essere una mera occupazione di spazio, ma una persona che ha il diritto di stare dove sta.
E il latte caldo col miele.
"Oi, Steve?"


Bucky lo osservava da un po', con gli occhi appena fuori dal bordo della tazza. Il latte col miele era buonissimo, fu decisamente felice di potersene ricordare, quindi separarsene era difficile. Decise di continuare a bere osservando Steve, cercando di non rovesciarsi mezza tazza sulla felpa. Non era facile, ma nemmeno impossibile. 
Non capiva se Steve si fosse lanciato nell'imitazione di una statua o se fosse semplicemente preso da qualcosa. Era fermo, immobile. Fissava un punto a caso fra il pavimento e il bordo del bancone. E non gli sembrava che ciò a cui stava pensando lo rendesse particolarmente felice.
Si schiarì la gola, sperando di non riaccendere il falò che ci sentiva dentro dal giorno prima e attirare l'attenzione del capitano.
Niente.
Appoggiò la tazza.
"Oi, Steve?"


Steve spostò subito lo sguardo su Bucky. Ogni volta che lo vedeva doveva ricordarsi che non era un miraggio.
Bucky è qui.
Bucky è vivo.
Bucky aveva appoggiato la tazza sul bancone della cucina, e lo guardava con quella che sembrava una sana dose di preoccupazione. Non facevano altro che farsi preoccupare a vicenda. Bel paio di problemi ambulanti che erano.
"Buck, ti va una pizza stasera?"
Lo vide alzare il sopracciglio destro.


Pizza. Aveva il vago sentore di averne sentito parlare, di questa cosa di nome pizza, ma non riusciva davvero a collegare. Gli sembrava che fosse roba da mangiare, ma non ne era sicuro.
"Pizza?"
Steve annuì, se il fatto che non sapesse di cosa stesse parlando gli pesava non lo diede a vedere.
"Pizza. Una specie di pane sottile con mozzarella, pomodoro e quello che ci vuoi mettere sopra. Ho un menù da qualche parte in casa, se vuoi vado a cercarlo".
Terminò la frase passandosi la mano sinistra sulla nuca. A Bucky sembrava quasi imbarazzato.


Lui, il suo disordine e il non sapere dove avesse ficcato quel benedetto menù. Visualizzò mentalmente mezza casa, gli venne in mente il cassetto della cucina. Ecco dove stava.
"No, Steve, non importa. Prendo quello che prendi tu."
Gli sembrò una risposta triste, non sapeva perchè. Forse perchè Bucky non sapeva di cosa stessero parlando, forse perchè non si ricordava più di una cosa semplice come la pizza, forse perchè non riusciva a ricordarsi quale fosse la sua preferita prima di andarsene in guerra. Steve si ricordava di aver visto Bucky tirare giù una margherita con pomodori secchi enorme nel giro di cinque minuti netti, seduto a un tavolaccio di legno di una pizzeria napoletana di Little Italy che si procurava i pomodori secchi dal negozio dei siciliani all'angolo. Era come avere tutto un paese in una via sola, in una cucina sola. Gli mancava, quella New York. 
"Scelgo io per te, se ti va bene".
Lo vide annuire.
Gli avevano tolto la pizza, il latte caldo col miele. L'odore di Brooklyn, i rumori di casa loro. E Steve decise in quel preciso momento che gli avrebbe restituito tutto ciò che era in suo potere restituirgli.


Più tardi, Bucky si trovò davanti un'enorme margherita con pomodori secchi che Steve aveva pregato di aggiungere solo a fine cottura per cinque minuti buoni. La fissò per qualche secondo. Si infilò in bocca la prima fetta. E la faccia che fece fu un ohmioDio non verbale.
"Steve, questa cosa è meravigliosa"
"Lo so, Buck. Era la tua preferita"
Alzò lo sguardo sul capitano. Era un'ancora, letteralmente. Ricordava per lui, soffiava via la polvere dalla sua memoria. Gli restituiva bolle di passato cristallizzato. Non riusciva a esprimere la sua gratitudine, non abbastanza.
"Non è niente, Buck. Non pensarci"
E, evidentemente, leggeva pure nel pensiero.

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Capitolo 8
*** Hell broke luce ***


Illustrare a Bucky i miracoli del cinema moderno è più divertente del previsto: quando gli fa vedere Snowpiercer (Steve, Dio santo, quel tizio ti somiglia tantissimo!), Buck non gli da pace finchè non gli spiega come accidenti hanno fatto a far venire giù una valanga proprio al momento giusto: la spiegazione "sono effetti speciali, Buck" non lo lascia molto convinto. Quando è il turno di Jurassic Park, Steve si gode le espressioni di Bucky ogni volta che appare un dinosauro: si ricordava di quanto gli piacessero, c'erano stati un paio di film dedicati a quei lucertoloni negli anni '40, ma non erano niente in confronto a questi. Sembravano veri, erano fatti benissimo, e Bucky strabuzzava gli occhi ogni cinque minuti. Steve era sicuro di averlo visto saltare sul divano quando il t-rex iniziò a rincorrere la jeep dei protagonisti, e quando i velociraptor si misero a rincorrere i sue ragazzini in giro per la cucina avrebbe giurato di averlo sentito trattenere il fiato più di una volta. Si ricordava di quanto a Bucky piacesse il cinema, ma non che vi partecipasse così. Non che ci tenesse a farglielo notare: avrebbe negato tutto, ed era troppo divertente da guardare per interrompere uno spettacolo simile. Pacific Rim ha un effetto simile (Steve, giuro che so tutto quello che c'è da sapere sulle armi. Giuro. Ma quei robot esistono sul serio?) e Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato lo lascia talmente perplesso (Steve…Steve. Umpa Lumpa? Sul serio?) che Steve non può fare a meno di scoppiargli a ridere in faccia. Non è colpa sua, è che gli occhi di Bucky sono talmente sconvolti che gli sembra di leggerci dentro: Hai la possibilità di creare qualsiasi cosa e crei gli Umpa Lumpa? Scherzi?
Non si metterà certo a discutere di Umpa Lumpa con Buck, anche se deve ammettere che quegli ometti tascabili sono tanto inquietanti quanto divertenti.


Bucky ha di nuovo qualche linea di febbre quando Steve lo obbliga a stendersi sul divano appallottolato in una coperta, pronto per scoprire l'immensa meraviglia che è Star Wars. Steve preferisce la trilogia più vecchia, e inizia da quella anche se il pensiero di confondere le idee a Bucky con sbalzi cronologici fuori fase gli attraversa il cervello. Mentre il lettore dvd gli ruba di mano Una nuova speranza, Steve lancia un'occhiata a Bucky.
Sembra stare un po' meglio, anche se ha ancora gli occhi lucidi di febbre, le mani decisamente troppo fredde e il respiro affannoso; segue i suoi movimenti con una curiosità quasi infantile, e Steve si rende conto per la prima volta che, probabilmente, tutto ciò che il suo migliore amico conosce del mondo moderno sono le armi. L'idea non gli piace. Non gli piace per niente.
Si lancia sul divano, atterrando accanto a Bucky e scuotendolo anche più del dovuto. Si stava addormentando. Non ci si addormenta durante Star Wars.


Bucky deve ammettere che questo Star Wars non è male. Luke gli pare un po' troppo all'acqua di rose, ma Han Solo è un personaggio decisamente interessante. Potrebbe eleggerlo a suo personaggio preferito se anche nel secondo film continuerà a tenere così alto il suo standard. E il terzo? E' una trilogia? Perchè c'è anche un terzo film, giusto?
Può darsi.
Seguire la storia con attenzione si dimostra una sfida, col mal di testa martellante che si ritrova, e spesso si deve costringere a tenere gli occhi aperti. Certo, vuole vedere questi film perchè Steve sembra un loro fan accanito, ma anche perchè ormai la trama l'ha definitivamente risucchiato. Le spade laser lo lasciano un po' basito
spade laser, spade laser…esistono le spade laser? Ne ho mai usate, di spade laser? Mi pare di no.
ma l'idea generale non è male, ed è sempre più curioso di sapere che faccia abbia Darth Vader. E di capire per quale motivo si ostini ad andare in giro con un paralume nero in testa, ma ha l'impressione che chiedere una cosa del genere sia blasfemia, e ci rinuncia: Steve guarda quel film come fosse una Bibbia. Ci dev'essere qualcosa che non sa, ma che spera di scoprire. Che il suo migliore amico fosse decisamente nerd non lo stupiva, ma il fatto che avesse accolto così velocemente le fittonate del ventunesimo secolo oltre a quelle del ventesimo lo lasciava di stucco. Non voleva provocarlo, però: una volta aveva fatto l'errore di fare una domanda su un libro, e Steve gli aveva attaccato una pezza di due ore su un racconto che aveva letto su Astounding Science Fiction. Non voleva rischiare di nuovo una cosa del genere.
Boia, però. Quel tizio respirava peggio di lui. Cos'aveva nella maschera, ciottoli?  


Steve era ormai letteralmente dentro Star Wars, gli succedeva ogni volta che infilava quei dvd nel lettore. Non ci poteva fare niente: da quando Bruce glieli aveva regalati, un paio di natali prima, erano diventati il suo tesoro personale. La prima trilogia era in assoluto la sua preferita, anche se doveva ammettere che la seconda non era poi così male: troppo infantile, forse. Anche se Darth Maul faceva il suo effetto, certo. Gettò l'occhiata numero N a Bucky, appallottolato nella coperta e seduto con le ginocchia vicino al petto nell'angolo del divano. Sembrava la posizione migliore per mantenere quel po' di calore corporeo che gli rimaneva. Di calore ne produceva anche troppo, con la febbre e tutto, ma a vederlo sembrava uno che stava morendo di freddo. Lasciò scivolare via l'inizio de L'impero colpisce ancora
Tanto lo so a memoria, no?
e sparì in cucina, tornando con una tazza di te per se e una tazza di latte caldo col miele per Buck. Era diventato un rito quotidiano: Bucky non sta bene? Latte e miele. Bucky sembra triste? Latte e miele. Quando glielo mise fra le mani, fu ricompensato da un sorriso tanto stanco quanto sincero. Si risedette soddisfatto. Il film continuò tranquillo dalle lande ghiacciate di Hoth alla fuga dei ribelli dal pianeta, strappando a Bucky un paio di risate soffocate da colpi di tosse ogni volta che Yoda appariva sullo schermo. Non era colpa sua, lo metteva di buon umore l'idea che quel piccoletto riuscisse a suonarle così bene a un tizio biondo altro tre volte lui. Gli ricordava Steve. Ficcò il naso nella tazza per non scoppiare a ridere di nuovo. L'enorme lumaca dentata che stava per mangiarsi Han, Leila e Chewbacca lo lasciò stupito e anche un po' schifato, e non è che la palude di Yoda gli sembrasse poi tanto più carina. E' quando Luke venne spinto da Yoda a combattere contro se stesso che la nausea iniziò a salire. Colpiva un po' troppo vicino casa, gli ricordava un po' troppo se stesso, e la cosa non lo lasciava indifferente. Nemmeno il fatto che Luke si fosse ammazzato letteralmente da solo lo lasciò indifferente, e ancor meno l'idea che l'aspirante jedi avesse fallito la prova. Se non ci era riuscito Luke Skywalker, che speranza aveva lui di uscire vittorioso da un confronto armato con la propria testa? L'ansia che iniziò a salire gli fece sorvolare il fatto che i jedi non esistessero, gli fece persino dimenticare di essere umano, soggetto a paura e fallimento. Quando era il Soldato D'Inverno non poteva fallire. Non aveva diritto di aver paura. Si strinse un po' di più nella coperta, grato di avere qualcosa da stringere fra le mani. Lo aiutava sempre, quando la sua testa iniziava a rivoltarglisi contro. Se Steve se ne rese conto, non diede prova di essersene accorto.


Steve teneva d'occhio Bucky da qualche minuto, cercando di non farsi notare. Si era accorto dell'aumentare dell'inquietudine, di quanto i suoi occhi fossero improvvisamente diventati più scuri, quasi completamente occupati dalle pupille, di come Bucky non riuscisse a staccare gli occhi dallo schermo. Decise di lasciarlo in pace, di non stargli addosso, ma da qual momento in poi si trovò a fissare Bucky più di quanto fissasse lo schermo. Si rese conto di quanto stesse irrigidendo la schiena, si accorse quando smise definitivamente di appoggiarsi allo schienale del divano. 


Han Solo, sullo schermo, era finito congelato nella grafite. Non sapeva se congelato e grafite fossero termini che andavano d'accordo. Non sapeva nemmeno se fosse effettivamente possibile rinchiudere qualcuno in un guscio di grafite, ma era successo, e ora Bucky sentiva freddo, così freddo. Non sapeva se la febbre c'entrasse qualcosa, anche se il poco di razionalità che riusciva a conservare in quel preludio di attacco di panico gli suggeriva che si, forse qualcosina povera entrarci, ma non poi così tanto. Gli sembrò di vedere attorno a se la sua bara di metallo, tanto che fu tentato di allargare le braccia per dimostrare a se stesso che no, non era nella trappola di ghiaccio in cui l'avevano tenuto per tutto quel tempo. Non c'era. Non c'era.
Nonc'eranonc'eranonc'era
Poi, tutto quello che sentì furono un paio di braccia strette intorno alle spalle, una mano fra i capelli e una voce che gli ripeteva cose in inglese. Ma lui non parlava inglese, parlava russo. E quindi come mai capiva l'inglese così bene? Questo, sommato a un momentaneo ohmiodiononcapiscodovesono non fece altro che aumentare la confusione che già provava. Strinse gli occhi. Strinse le dita sulla coperta. Strinse le labbra così forte da trasformare la bocca in una linea bianca. Poi iniziò a capire.
Scusa, Buck, non ci avevo pensato. Perdonami. Mi dispiace. Va tutto bene, sei a casa. 
"не ваша вина"
Cercò di rassicurare Steve, senza riuscire a tirare fuori la testa dal viluppo protettivo che lo circondava. Si rese conto di aver parlato in russo. Si ficcò il pugno in bocca per non urlare, perchè poteva credere di star bene quanto voleva, il Soldato D'Inverno era sempre pronto a dimostrargli che aveva torto. Non si era nemmeno accorto di Darth Vader che diceva a Luke di essere suo padre.


Sentire Bucky parlare in russo fu come un pugno nello stomaco. Steve allentò la presa delle braccia per una manciata di secondi, per poi stringere di nuovo a se il suo migliore amico quando si rese conto che lasciarlo sarebbe stato un errore. L'aveva ritrovato dopo decenni. Avrebbero dovuto strapparglielo via con la forza. Iniziò di nuovo a salmodiare rassicurazioni.
"Va tutto bene, Buck. Sei a casa. Sei seduto sul divano, e il profumo che senti è quello del latte caldo col miele. Stiamo guardando Star Wars, e io sono un cretino di dimensioni elefantiache. Scusami Buck, non ci avevo pensato. Scusami. Mi dispiace."
Non lo lasciò andare nemmeno quando, dal quel groviglio di braccia e capelli castani, gli arrivò una risposta quasi strozzata.
"Devo avere un attacco di panico per farti ammettere di essere un cretino?"
Steve non rise, si limitò a stringere Bucky senza lasciarlo andare finchè non ebbe la certezza che avesse smesso di respirare troppo veloce, e che il cuore non gli battesse più a velocità olimpioniche. Continuò a tenerlo stretto fino alla fine del film, e lo lasciò andare solo per telefonare a un ristorante cinese per farsi spedire a casa un paio di spaghetti di soia con verdure e gamberetti e pollo alla cantonese. Gli sembrava stanco il triplo, dopo ogni attacco di panico. Certo, dovevano essere stancanti, lo sfibravano, ma non si sarebbe mai abituato a vedere Buck con gli occhi così distratti, quasi che concentrarsi su qualcosa fosse una fatica che non era in grado di sostenere. Si sedette di nuovo accanto a lui, sistemandogli la coperta e appoggiandogli una mano sulla fronte, obbligandolo ad appoggiare la testa sulla sua spalla. Non sapeva se parlarne, se non parlarne. Era una frana, in un certo senso. Buck lo tolse d'impiccio schiarendosi la gola.
"Steve, ma poi lo scongelano?"
Steve si trovò suo malgrado a sorridere.
"Vuoi vedere il terzo film?"


Bucky annuì, spostando la testa dalla spalla di Steve per permettergli di alzarsi dal divano. Dovette ammettere che vedere Han Solo uscire da quel mattone di grafite fu un bel sollievo, e anche che gli autori erano stato piuttosto precisi nel descrivere quello che succedeva una volta fuori. Gli occhi funzionano male, all'inizio. Non ha coordinazione. Hai voglia di vomitare, a volte è la prima cosa che fai. Non riesci a mangiare. Non riesci nemmeno a bere. Strinse gli occhi di nuovo. Steve lo obbligò di nuovo ad usarlo come schienale. Fortunatamente il siero di Erskine aveva avuto effetto, altrimenti non avrebbe saputo dove trovare lo spazio per appoggiare la testa. 


Bucky era diventato taciturno tutto d'un tratto, forse stroppo stanco per parlare. Sembrava contento di starsene mezzo sdraiato sul divano e mezzo sdraiato su Steve, guardando l'ultimo capitolo della prima trilogia. Finchè, alla fine, non gli scappò di bocca un Cristo, Steve. Ho capito perchè Darth Vader va in giro conciato in quel modo. E' davvero brutto.
Si accorse dell'errore troppo tardi, ormai Steve era lanciato in una spiegazione del perchè Darth Vader fosse così brutto. Ma il film era finito, a quel punto. Se avesse chiuso gli occhi non si sarebbe perso niente. E poi, Steve gli stava raccontando il finale di un film che doveva ancora vedere?


Steve si bloccò a metà racconto, rendendosi conto che si, Bucky era un bravo ascoltatore, ma non fino a quel punto. Non emetteva suono da cinque minuti, nemmeno l'occasionale a-ha di circostanza. Non lo svegliò, rassegnandosi al torcicollo che avrebbe avuto la mattina dopo, dopo una notte passata a dormire sul divano.

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Capitolo 9
*** Slip away ***


Dopo aver praticamente avuto un crollo di nervi guardando Star Wars (e pensarci lo imbarazzava ancora, anche se sapeva che vergognarsi di una cosa del genere era decisamente stupido) Bucky si era volontariamente rassegnato a passare almeno sei mesi chiuso in casa, alla ricerca di ciò che poteva farlo crollare in un attacco di panico e dei metodi per uscirne. Non si aspettava che Steve lo invitasse a mangiare una pizza fuori dopo appena tre giorni dal suo ultimo crollo psichico, e due dalla fine di quella che gli era sembrata una febbre praticamente infinita. L'idea della pizza, però, lo attraeva parecchio (soprattutto dopo che Steve si premurò di spiegargli che ce n'erano di tutti i gusti, tipi, grandezze eccetera ad libitum sfumando), Washington era una città tutta nuova per lui, e quindi in teoria non ci sarebbero stati momenti di "ohmiodioquelpostomeloricordo" e aveva Steve a controllare che andasse tutto bene. L'idea di uscire di casa lo terrorizzava e lo galvanizzava nello stesso momento: aveva una paura folle di tornare ad essere il Soldato d'inverno, di fare del male a qualcuno, di essere riconosciuto, ma allo stesso tempo aveva fisicamente bisogno di uscire: altri due giorni chiuso in casa e sarebbe impazzito sul serio. Si trattenne dal ricordare a Steve che non aveva più tre anni e che il suo braccio funzionava bene, anche se non era esattamente biologico, e lasciò che il suo migliore amico gli chiudesse la zip della giacca di pelle e gli infilasse i lembi della sciarpa dentro il maglione per tenerlo più al caldo. Non era esattamente preparato ai rumori che gli arrivarono addosso tutti insieme, e se ne rese conto troppo tardi. In un modo talmente istintivo da essere quasi infantile, si strinse a Steve nel momento in cui la prima moto di grossa cilindrata gli passò vicino. Amava le moto, aveva invidiato quella che avevano dato a Steve fin dal primo momento. Quando era il Soldato d'Inverno aveva guidato qualsiasi cosa, ed ora era spaventato dal loro rumore. Si chiese se anche questo facesse parte del suo processo di riumanizzazione, come lo chiamava Steve, o se si stesse semplicemente rincoglionendo. La verità però era un'altra, e lo sapeva. Ogni rumore troppo forte o improvviso lo mandava nel panico, viveva in uno stato di quasi costante agitazione e paura, era convinto che in qualsiasi momento un agente dell'Hydra sarebbe sbucato da un angolo per trascinarlo di nuovo nelle grinfie dell'organizzazione che l'aveva ridotto a un pupazzo di carne, i flashback che gli scoppiavano nel cervello erano a volte positivi, ma il più delle volte terrificanti, e faceva incubi da record. Non ricordava di aver dormito più di tre ore filate da quando stava da Steve, e tre ore era un record personale. Tre ore erano una benedizione. Spesso si svegliava urlando, piangendo o senza nemmeno respirare, e ogni volta Steve era li, con in faccia un'espressione mista fra la preoccupazione e quella di un fratello maggiore terrorizzato. Non sapeva come fare a tornare ad essere il Bucky Barnes di prima, quello che si lanciava a testa bassa in qualsiasi cosa, quello che le ragazze facevano a gara ad accaparrarsi per un ballo. Non ricordava più come si ballasse, non sapeva più in cosa avrebbe potuto gettarsi. Inconsciamente, si avvicinò a Steve ancora di più. Pochi centimetri e gli sarebbe praticamente salito in collo.


Quella che a Bucky arrivò come una sorpresa era in realtà frutto di patemi d'animo e meditazione da parte di Steve: aveva paura di portarlo fuori, per lui e per gli altri, ma si rendeva sempre più conto che stare chiuso in casa l'avrebbe fatto uscire di testa più del dovuto. Aspettò che la febbre gli fosse passata da almeno un paio di giorni prima di proporgli di uscire, e fu piacevolmente sorpreso quando Bucky gli disse di si senza pensarci troppo. Sospettò che la pizza fosse stata la causa principale del fatto che ora erano in strada insieme, imbacuccati fino al naso per non essere riconosciuti, a guardare con un certo interesse le luci di Natale che iniziavano ad apparire per le strade e nelle vetrine dei negozi. Era già dicembre. Non sapeva dove fosse andato a finire novembre. Da quando avevano iniziato a camminare, Bucky gli si era gradualmente avvicinato, fino a camminare con la spalla praticamente attaccata alla sua, il braccio metallico affondato nella tasca della giacca quasi fino al gomito. Gli sembrava teso, forse lo era. Tolse la mano sinistra dalla tasca e la passò sulle spalle del suo migliore amico, lasciandolo entrare senza problemi nel suo spazio personale. Gli sorrise, indicandogli con la testa l'ingresso della pizzeria.


Bucky si fermò davanti all'entrata del locale, coi piedi piantati sul tappetino che diceva "welcome". Non era una novità, ogni tappetino diceva la stessa cosa, ma Bucky si chiese se quel tappetino avesse detto la stessa cosa se avesse saputo chi aveva sopra. Non era più tanto convinto che uscire fosse stata una buona idea, che vedere altra gente fosse stata una buona idea. Aveva paura di un tappetino, figuriamoci del resto del mondo. Il braccio di Steve, ancora appoggiato sulla sua spalla, lo strinse un po' di più.
"Tutto bene, Buck? Se vuoi torniamo indietro".
Si voltò verso il so migliore amico, che stava iniziando ad esibire la sua migliore espressione preoccupata, e fissò di nuovo il locale. Scosse la testa, la sciarpa tirata su fin sopra il naso.
"No, entriamo. Hai prenotato. Entriamo"
"Possiamo disdire"
Bucky scosse la testa di nuovo e staccò i piedi dal tappetino gravido di minacce, facendo il passo avanti più incerto della sua vita.


Steve sorrise alla schiena di Bucky e alla cameriera che si avvicinava per chiedere se avevano prenotato. L'avevano fatto? Molto bene, perchè quella sera erano davvero pieni. C'era il football in tv, sperava non desse loro fastidio. Gli avrebbe portato dei menù a breve, intanto volevano ordinare qualcosa da bere?
Steve rispose che dell'acqua naturale sarebbe andata bene. Lei sorrise e se ne andò. Bucky rimase imbambolato, sepolto sotto una valanga di parole sparate alla velocità della luce. Erano secoli che non parlava pacificamente con qualcuno che non conosceva. E quel qualcuno parlava a raffica. E lui si era sentito un po' disorientato, ecco. Si sentiva la mano sudata.
Steve lo precedette verso il tavolo e si sedette, aspettando che anche lui facesse altrettanto prima di passargli un menù da studiare. Bucky si sorprese a controllare il perimetro, a registrare la posizione di tutte le uscite, a cercare eventuali minacce che giustificassero la sua paranoia. Quando non ne trovò, non sapeva se essere sollevato della loro assenza o se mettersi a piangere per lo stato in cui si trovava. Era un rottame. Steve non avrebbe dovuto essere obbligato a portarsi dietro un relitto come lui. 


Bucky era a disagio, si vedeva. Gli occhi gli schizzavano da un lato all'altro del locale, avrebbe scommesso che aveva già memorizzato e analizzato ogni faccia, ogni corporatura delle persone li attorno. Gli prese la mano destra, lasciò la sinistra attorno al menù, ancora dentro al guanto che nascondeva le dita metalliche. La strinse e sorrise quando gli occhi di Buck si sollevarono dalla lista e si fissarono nei suoi. Erano enormi.
"Stai facendo la lista delle uscite e quella delle minacce. Stai controllando che non ci sia niente di pericoloso intorno, e stai pure calcolando quali percorsi sarebbe meglio utilizzare in caso di fuga d'emergenza da qui".
L'espressione che si stampò in faccia a Bucky gli spezzò il cuore in due. Di netto.


Bucky si sentì perso. Steve l'aveva letto perfettamente, e ora avrebbe finalmente realizzato che razza di crepe aveva il suo cervello. Gli avrebbe detto che era pazzo, che non era razionale fare così, e avrebbe avuto ragione. Aveva voglia di scappare, o di mettersi a piangere sotto il tavolo. Magari sarebbe scappato sotto un tavolo, e poi avrebbe iniziato a piangere. Invece, Steve gli sorrise. Strinse le sue dita un po' di più, e gli sorrise.


Steve vide tutta la paura di Bucky arrivargli in faccia in pochi millesimi di secondo. Gli sorrise, cercando di calmarlo, e lasciò che le sue dita stringessero quelle del suo migliore amico. Erano fredde. Bucky era sempre troppo freddo.
"E' normale, Buck, lo facevo anch'io dopo essere tornato. Ho continuato a farlo per tanto tempo, a volte lo faccio anche adesso." 
Continuò a tenere le dita di Buck fra le sue anche mentre gli versava un bicchiere d'acqua, glielo spinse davanti.
"Si chiama sindrome da stress post-traumatico, Buck. Non c'è niente di male, non devi vergognarti di niente. E' normale che la tua mente, o la mia se è per questo, reagiscano in un certo modo dopo essere state sottoposte a quello a cui sono state sottoposte. Ci sono tanti modi per controllare la cosa, o anche per eliminarla completamente."
Gli indicò il bicchiere con un cenno della testa, Bucky non diede segno di voler bere.
"Io la controllo al meglio che posso, ma non sono mai riuscito a eliminare del tutto certi pensieri o un buon numero di fobie, Buck. Non preoccuparti, ne verremo a capo insieme. E, se vorrai, posso sempre sentire se Sam ha tempo per darti una mano. Non credo che si rifiuterà"
Il nome di Sam sembrò scongelare qualcosa in Bucky, gli angoli della bocca scesero considerevolmente.
"Sam - ripetè - Sam, ovvero il tuo amico con le ali? Quello che ho praticamente fatto cadere da una fortezza volante dello Shield? Quello che ho provato a fare fuori? Oh si, credo che avrà proprio voglia di vedermi, quel Sam."
Finalmente strinse le dita attorno al bicchiere e tirò giù una sorsata d'acqua. Gli bruciò la gola. Steve scosse la testa.
"Sam lavora coi veterani, Buck. Aiuta le persone a tenere la paura sotto controllo, a distinguere la realtà da ciò che non è vero. E sa che non è colpa tua. Sa cosa ti hanno fatto. E lo so anch'io. La domanda, Buck - gli disse, toccandogli il polso sinistro quando si accorse che le dita metalliche di Bucky stavano stringendo il bicchiere troppo forte, Bucky allentò subito la presa - la domanda è se lo sai tu".
Bucky lo fissò come se gli avesse dato un pugno. 


Se lo sapeva lui. Come faceva a saperlo, lui? Non si ricordava il cinquanta percento della sua vita, e quello che si ricordava era diviso in bene e male con un accidente di pennarello nero. Non c'erano grigi. Come poteva assolversi da ciò che aveva fatto? Intellettualmente sapeva di essere stato condizionato, usato, forzato, ma le mani che avevano fatto quelle cose erano le sue. Sapeva ancora come spezzare un collo a mani nude, quali vene recidere per dare una morte veloce piuttosto che indurre una lenta agonia. Sapeva come chiudere la bocca di un bambino perchè non urlasse. Sottrasse la mano alla stretta di Steve, cercando di ignorare come le sue dita sembrassero più fredde, appoggiando i gomiti al tavolo e piantandosi i palmi delle mani negli occhi. Non sapeva cosa dire. Non ci riusciva. Non voleva dire niente.  


Steve ringraziò l'intuito che gli aveva suggerito di chiedere un tavolo particolarmente appartato: fra le piante e quell'acquario (seriamente, che razza di pesci erano?) erano praticamente invisibili. La mano gli rimase a mezz'aria quando Bucky rischiò di collassare sul tavolo, con gli occhi coperti dalle mani e le spalle che tremavano. Si era alzato e l'aveva raggiunto ancora prima di gettarsi un'occhiata intorno. Fu sollevato nel vedere che nessuno li guardava. Non c'era niente da osservare, li, per loro. Si accovacciò accanto a Bucky e iniziò a passargli le mani sulle braccia.
"Buck, Buck. Ascoltami. Ehi - gli mise i capelli dietro le orecchie, appoggiò le mani ai polsi del suo migliore amico e iniziò a disegnare cerchietti col pollice sulla pelle fredda. E sul guanto di pelle marrone - Scusami, Buck. E' colpa mia, non dovevo chiedertelo. E' solo che voglio che tu ti renda conto che non devi vergognarti. Non devi pensare che sia tutto sulle tue spalle. Mi senti?"
Si chinò per cercare di entrare nel suo campo visivo, Bucky tolse le mani dagli occhi e appoggiò la fronte sul taglio della mano destra, creando un effettivo scudo dal mondo esterno che gli permetteva comunque di vedere Steve. Annuì. Gli scappò un sorriso quando vide Steve appollaiato così sulle sue ginocchia. Per un qualche motivo sconosciuto, gli ricordò terribilmente un gatto troppo curioso. Quando lo vide sorridere, Steve gli sorrise di rimando.


Vide Bucky srotolarsi letteralmente, ruotando le spalle e gettando la schiena contro lo schienale della sedia. Lo vide sbuffare, far uscire la tensione con l'aria. Restò accovacciato accanto a lui finchè gli disse: 
"Guarda, puoi stare piegato li finchè vuoi, ma io un pezzo della mia pizza non te lo do"
Scoppiò a ridere.


Steve rideva. Aveva fatto ridere Steve. Allora qualcosa di buono era ancora in grado di farlo. Sorrise mentre lo guardò alzarsi e riguadagnare la sua sedia.
"E io che pensavo di offrirti la cena"
"Dovrai, biondo. Non ho un soldo in tasca"
Steve annuì, diventando serio tutto d'un colpo.
"Bene, mi ripagherai stasera. E' da una vita che non ti disegno, Buck."
Oddio, no. Essere disegnati da Steve significava dover rimanere immobili per un sacco di tempo, ed era noioso, e non ne aveva voglia, e poi ora aveva un sacco di cicatrici che non ci teneva davvero a veder immortalate, e si sarebbe annoiato e…oddio. Anche Steve magari aveva un sacco di cicatrici,adesso. E comunque, quando l'aveva letteralmente raccattato in quel parco l'aveva infilato in vasca. Non è che non le avesse mai viste.
Ma comunque, l'idea di dover stare fermo immobile per ore lo deprimeva a tal punto che gli uscì di bocca un grugnito malamente mascherato da parola di senso compiuto.
"Oddio, sul serio?"
Steve gli scoppiò a ridere in faccia per la seconda volta.


Era dagli anni '40 che non sentiva Bucky lamentarsi dopo avergli chiesto di fargli da modello. E si lamentava esattamente nello stesso modo. Dio, quanto gli era mancato.
"Un disegno per una pizza. E contando anche la pizza di qualche giorno fa, me ne devi due. Di disegni."
Bucky sbarrò gli occhi. La cameriera che si era avvicinata in quel momento per prendere le ordinazioni lo guardò come se avesse visto un alieno, poi gli chiese come mai aveva la faccia di una lepre davanti a un tir.
Steve dovette ammettere che quella ragazza non avesse un filtro dal cervello alla bocca, ma che fosse stata assolutamente divertente.
Bucky spostò gli occhi sulla cameriera e boccheggiò per qualche secondo, prima di sputare un "No, è che la mia faccia è così", nascondendo il viso nel menù e ordinando in tutta fretta una quattro stagioni. Steve chiese la stessa pizza, pensando che gli sarebbe venuto un infarto. 


Fu quando stavano rientrando a casa, camminando per le vie quasi deserte di un martedì sera di Washington, che Bucky gli rispose.
"Non lo so"
Steve lo fissò con un sopracciglio alzato, perplesso.
"Non lo sai, cosa?"
Gli occhi di Bucky si spostavano ovunque tranne che sulla faccia del capitano.


"Non lo so se ho capito che non è colpa mia, Steve. Devo ancora pensarci. Devo capire."
Steve annuì, riprendendo a fissare il marciapiede, le mani affondate nelle tasche. Poi, miracolosamente, disse quello che Bucky aveva bisogno di sentirsi dire.
"Sappi che, a qualunque decisione arriverai, non mi perderai, Buck"
Bucky pensò di aver ricominciato a respirare solo in quell'istante.

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Capitolo 10
*** Be still and know ***


Ogni volta che ne aveva bisogno, Steve c’era. Anche senza bisogno di chiedere, di aprire bocca, Steve era li: che fosse un momento di panico da “oh-mio-dio-come-accidenti-si.faceva-a-far-venire-l’acqua-calda-in-doccia” o un attacco di panico vero, con tutti i crismi, Steve era li. 
E Bucky si sentiva tremendamente in colpa per questo.
Era abituato ad essere lui quello su cui fare affidamento, quello che da una mano, quello che risolve i problemi: essere costretto ad appoggiarsi (a volte anche fisicamente) ad un’altra persona lo destabilizzava, e lo metteva in imbarazzo. Steve gli aveva detto un milione di volte, ormai, di non preoccuparsi: saperlo li, vivo anche se un po’ malandato, era una felicità che lo ripagava di ogni notte insonne che era costretto a passare. Era il suo migliore amico, lo sapeva, si? 
Quindi, Buck, smettila di preoccuparti. Farei di tutto per te, lo sai.
Lo sapeva, ma non è che la cosa lo facesse sentire meglio: gli sembrava di rubare tempo e spazio, in un tempo che non gli apparteneva e uno spazio che non era suo. Ogni rumore troppo forte rischiava di farlo trasalire, ogni cosa che non capiva era una lotta continua di immagazzinazione dati e istruzioni: poteva smontare e rimontare qualsiasi arma a tempo di record, ma ogni tanto i telefonini continuavano a mandarlo in confusone. A cosa serviva una macchina da guerra in tempo di pace? Avrebbero fatto meglio a spegnerlo, e lasciarlo da qualche parte.
Non gli sfuggiva il fatto che riferirsi a se stesso come qualcosa da spegnere piuttosto che come qualcuno da lasciar riposare fosse totalmente fuori di testa, ma è così che si sentiva: totalmente fuori di testa. Ogni passo avanti ne contemplava almeno un paio indietro, e non capiva come avrebbe potuto ottenere qualsiasi risultato, in quel modo.


Steve lo sapeva: lo vedeva illuminarsi per le piccole cose, e crollare ogni notte sotto il peso di ricordi frammentati e incubi da film. Non sapeva come rimettere insieme tutti i pezzi, non era il suo mestiere. Aveva fatto una telefonata, ne aveva parlato con Bucky, ed erano arrivati a una soluzione: quando gli aveva detto che avrebbe dovuto parlare con qualcuno, con un professionista, Buck era diventato bianco come un cencio e non era riuscito a spiccicare nemmeno una parola; a Steve ci era voluto un po’ prima di capire come mai, e aveva compreso troppo tardi che per Bucky la psichiatria si era fermata agli anni ’40, dove la cura più in voga era l’elettroshock. Prima di riuscire a spiegargli che quella roba non si faceva più, il suo migliore amico aveva avuto un attacco di panico in pieno stile, con il ricordo dell’elettricità, dolorosa elettricità, che gli passava attraverso il cervello e gli cancellava la memoria a piacimento. 
No Bucky, non funziona più così. Nessuno usa più l’elettroshock adesso. Respira, Buck, dammi le mani, guardami.
Respira, Buck, respira. Senti come faccio io? Copiami.
Sei a casa, sei con me, nessuno ti farà più del male. Ci sono io. 
Respira.
Ci sono io, promesso.
Respira.
Andrà tutto bene, Buck, ti faccio una tazza di latte e miele. Tu riposati.
Shhh. Buck, respira.
Ci sono io.
Promesso.


Da quel momento in poi Bucky aveva accettato di vedere Sam, fosse anche solo per il bene di Steve. Non si ricordava chi fosse, però: Steve gli aveva detto che si conoscevano, ma non gli veniva in mente niente. Quando il campanello suonò e Steve andò ad aprire, si trovò davanti un viso decisamente conosciuto. Fece un paio di passi indietro istintivamente, e Sam alzò le mani, i palmi verso di lui, per dimostrargli che non aveva cattive intenzioni.
Come poteva non averne? 
“Ti ho quasi ucciso - fu la prima cosa che gli uscì di bocca, con la gola secca e la sabbia nei polmoni - ti ho lanciato giù da un trasporto dello Shield e ti ho quasi ucciso”
Sam aveva tenuto ferme le mani e gli aveva sorriso.
“Beh, si. Piacere, Sam”
Gli insegnava tecniche di grunding, esercizi per respirare e calmarsi. Gli diceva che reagire in quel modo era del tutto normale, che soffriva di una cosa che si chiamava sindrome da stress post-traumatico, e che se non ne avesse sofferto affatto sarebbe stato ben più preoccupante. Gli diceva che non era solo, che ci era passato anche Steve, che ci era passato anche lui quando aveva visto il suo gregario cadere dal cielo come un sasso, e aveva solo potuto stare a guardare. Lo guidava fuori dagli attacchi di panico che gli arrivano puntualmente quando gli faceva ricordare ciò che gli avevano fatto, e ciò che aveva fatto. 
Soprattutto, cercava di fargli accettare che lui e il Soldato d’Inverno erano si la stessa persona, ma due personalità completamente opposte: la differenza c’era, eccome. Per un bel pezzo, Buck aveva ospitato nel suo cervello qualcuno, qualcosa che non era lui: non poteva far finta di niente e seppellire tutto se non voleva impazzire, doveva prendere tutti i pezzi, studiarli, ripulirli e ricomporre il puzzle. 
L’aveva avvertito che sarebbe stato un lavoro lungo e doloroso, che all’inizio gli sarebbe sembrato di regredire più che di progredire, ma Bucky si fidava. Continuò a fidarsi anche dopo che i suoi incubi raddoppiarono, in quantità, intensità e volume, al punto che Steve decise che finché non fosse passato tutto avrebbe dormito in camera sua: trascinò il letto di Buck accanto al suo, ci buttò sopra un piumone a due piazze e lo costrinse a cercare di dormire almeno un paio d’ore per notte.
A Bucky non piaceva, dormire.
O meglio: gli piaceva da impazzire, ma era terrorizzato da quello che avrebbe visto.


La vide correre fra la gente in linea retta, urlando a tutti di andarsene e diventando un bersaglio facile pur di proteggere i civili. Troppo facile. Il suo proiettile le attraversò una spalla senza sforzo.
Lui la conosceva, l’aveva già vista.
Capelli, rossi, bellissima.
Natalia.
Schizzò a sedere sudato fradicio, con un urlo che gli si strozzò in gola e il cuore che minacciava di scappargli di bocca: Steve era li, santo Steve, con una mano sulla sua schiena e una sul petto a cercare di capire se doveva applicare le tecniche gli gli aveva insegnato Sam per calmarlo oppure no. Lo fissò con gli occhi sgranati.
“Ho ucciso Natalia? Dimmi che non ho ucciso Natalia”
“Natalia? - Fu il turno di Steve di guardarlo con gli occhi che gli uscivano dalle orbite: come faceva Bucky a conoscere Natasha? - Natasha Romanov, la Vedova Nera?”
Natasha Romanov? Bucky la conosceva come Natalia Romanova, ma il titolo di Vedova Nera era necessariamente il suo. Annuì.
“Non l’ho uccisa, vero Steve? - gli chiese con le mani sulla faccia - ti prego, dimmi che non l’ho uccisa.”
“Buck, stai scherzando?”
“No, Steve! - lo prese per le spalle, doveva saperlo, doveva saperlo per forza - non sto scherzando. So di averle sparato, ma ti prego, ti prego…”
Steve si trovò di nuovo con le braccia piene di un James Buchanan Barnes in pieno crollo emotivo: lo tenne su come faceva sempre, spostandosi avanti e indietro con una mano nei suoi capelli e una sotto un braccio, finché non vide il suo cellulare sul comodino: lo prese al volo e mandò un messaggio a Nat, sperando fosse sveglia. Aveva bisogno che lo fosse.


Sono sveglia, Steve. Di cosa hai bisogno?
Solo che tu risponda al cellulare, Nat.


Aveva composto il numero, atteso un paio di squilli e poi la voce assonnata di Natasha aveva risposto all’altro capo della linea.
“Steve, che accidenti succede - aveva mugugnato - per una notte che riesco a dormire più di tre ore mi butti giù dal letto tu?”
Poi si era zittita, sentendo la voce di qualcun altro con lui, restando in ascolto.
“James? James è li con te, Steve?”
E a quel punto l’unica cosa che Steve aveva potuto collegare era che Buck e Nat si conoscessero, che Nat non gli aveva detto niente per tutto il tempo, e che era il caso di appoggiare il telefono all’orecchio del suo migliore amico, non fosse altro che per vedere se avesse ripreso a respirare normalmente.


“James?”
Bucky spalancò gli occhi quando sentì uscire la voce di Natalia dalla cornetta: prese il cellulare dalle mani di Steve come fosse la cosa più preziosa del mondo e, a quel punto, iniziò a piangere sul serio. Era strano però, lo faceva con un sorriso spaccafaccia sul viso.
“Natalia. Natalia. Ty zhiv.”
“Parla inglese, James”
“Mne zhal’, Natalia. Mne zhal’, mne ochen’ zhal’”
“Shhh, James, ya znayu. Parlami in inglese, James.”
Dovette fare un sforzo per ricordarsi di essere negli Stati Uniti e non in Russia. Prese fiato, appoggiando la fronte alla spalla di Steve e rafforzando la presa sul telefono che minacciava di scivolare.
“Stai bene, Natalia?”


Steve riprese fiato, sentirlo parlare in russo lo spaventava sempre. Continuò a tenerlo su quando gli appoggiò la fronte su una spalla.


“Sto bene, James. Stai tranquillo.”
“Ti ho colpito”
“Lo so”
“Era grave?”
“Solo una ferita leggera”
“Non mentirmi, Natalia”
Lo sentì deglutire, anche dall’altro capo della cornetta: sapere che James era con Steve, che era vivo e si ricordava di lei le stava facendo esplodere la testa. Era felice, ed era terrorizzata.
“Non mento, James. Non hai colpito niente di importante.”
“Mne zhal’, Natalia”
“Lo so. Shhhh, lo so. Va tutto bene. Potresti passarmi un attimo Steve?”


Steve vide Buck allontanare il telefono dall’orecchio e passarglielo, poi gli si appoggiò di nuovo addosso stringendo gli occhi. Lo strinse con un braccio dietro la schiena mentre parlava con Natasha.
“Nat, che sta succedendo?”
Dall’altra parte seguirono un paio di battiti di silenzio, poi la voce di Natasha lo sorprese.
“Ho un po’ di cose da dirti, se non te le dice prima James - rispose - se non ti dispiace, verrei a trovarvi”
La linea cadde prima che Steve potesse rispondere, scrisse un messaggio a Nat per dirle che non c’erano problemi, a parte quelli che c’erano già ed erano già evidenti, e spostò l’attenzione sul suo migliore amico.
Buck non si era ancora calmato, con la fonte contro la sua spalla e la mano metallica sul viso. Gli infilò le dita di una mano fra i capelli, lasciando cadere il telefono sul piumone e sdraiandosi, tirando giù Buck con sé. Se doveva vedere Nat era meglio che lo facesse quando era più tranquillo, ma tranquillizzarlo sembrava un’impresa titanica.
“Ehi, ehi - gli disse tirandoselo addosso - ti sei ricordato qualcosa?”
Bucky annuì, togliendosi la mano dalla faccia e alzando gli occhi su di lui.
“Ci sono delle cose che credo di doverti dire”.





Allora, Ty zhiv vuol dire “sei viva”
Mne zhal’ significa “mi dispiace”, e mne ochen’ zhal’ significa “mi dispiace tanto”
Ya znayu significa “lo so”, il tutto in russo.


Poi, intanto chiedo scusa per essere scomparsa e riapparsa così, alla io boia come si dice in Toscana. Se non capite cosa sta succedendo, sappiate che mi sto riallacciando ai fumetti e non al film (in cui Natasha pare abbia una relazione con Bruce Banner, cosa che per ora, nei fumetti, mi è un po’ sfuggita). Nel prossimo capitolo vi fo capire meglio, se invece già leggete i fumetti sapete da soli che sta succedendo. Si?
Si.
Olè.

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