Adore you

di itsonlyme
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nightmare. ***
Capitolo 2: *** Last hope. ***
Capitolo 3: *** Demons; Feel again. ***
Capitolo 4: *** Mirrors. ***
Capitolo 5: *** Disconnected. ***
Capitolo 6: *** Se saprai starmi vicino. ***
Capitolo 7: *** A sky full of stars. ***
Capitolo 8: *** All of the stars. ***
Capitolo 9: *** Apologize. ***



Capitolo 1
*** Nightmare. ***


 
Can’t wake up in sweat
'Cause it ain’t over yet
Still dancin' with your demons

 
 
 
 
 
 Ottobre.
 


Freddo nelle ossa.
Passi veloci.
“Che femminuccia!”
“Vai dalla mamma, Payne?”
“Dov’è Andy?”
Risate confuse.
“O vai dal tuo fidanzatino, Liam?”
“Già, perché non ce lo presenti?”
“Mamma, mamma, mi hanno fatto la bua. Gne gne gne”
Risate malefiche, false, fastidiose, striscianti.
“Liamuccio, non scappare, dai.”
“Rendi le cose più difficili, le peggiori.”
“Sai quanto è inutile scappare, finocchio.”
Mani pesanti sulle spalle. Dolore.
Ha paura, poverino.”
Derisione.
Rispondi, feccia.”
Occhi chiusi.
Fai schifo, Payne.”
Dolore.
Non ti rendi conto di quanto tu sia sbagliato? Guarda, noi siamo tutti uguali, tu sei così diverso. A te piacciono i maschi ed è contro natura, sai?
Dolore.
Sei un errore.”
Sapore metallico in bocca.
Vedi che tutti ti odiano?
Calore fra le labbra.
Sempre solo come un cane.”
Dolore.
Crack.
Dolore.
Respiro irregolare.
Ciao, Payne, ci si vede in giro.”
Risate cattive, ancora.
Occhi aperti.
Vista offuscata.
Suoni offuscati.
Dolore.
Estrema voglia d’aiuto.
Paura.
Dolore.
Morte.
Buio.
 
 
Sbarrai gli occhi e mi misi a sedere. Ansimi, battiti irregolari, caldo.
Mi toccai la fronte grondante di sudore. Mi guardai in giro, ero nella mia stanza, a casa mia, Chelsea.
 Al sicuro.
Calmati, Liam, stai bene.
La mia camera asettica dalle pareti bianche era quasi completamente immersa nell’oscurità. L'unica luce, proveniva dal lampione dall'altro lato della strada. Illuminava la mia stanza di un pallido colore bluastro. Ero completamente scoperto. Il piumone e le lenzuola, bianchi e blu, per terra.
Io, stretto nel mio pigiama pesante, venni percorso da un brivido di freddo.
Ero ancora scosso dal sogno.
Nonostante non fosse la prima volta che quelle immagini tormentavano il mio sonno, ogni
volta accadeva lo stesso. Mi turbavano, loro e le voci, colmandomi sempre delle stesse pessime sensazioni. Paura e ansia continue.
Sapevo che era questione di tempo e che quegli incubi sarebbero spariti, ma violavano spesso la mia mente e mi disturbavano continuamente, facendomi convincere d’essere davvero un errore.
 
Mi alzai dal letto, raccolsi le coperte e le risistemai. A piedi nudi, camminai per il corridoio buio, facendomi luce col cellulare. Raggiunsi la cucina, accesi la luce, illuminando una delle stanze più grandi dell’appartamento. Mi versai dell’acqua e bevvi tutto d’un sorso.
Il respiro era ancora irregolare, la paura la sentivo sulla pelle.
Finirà?
Sì, Liam, finirà.
 









Ciao a tutti, bellissimi!
Ed eccomi qui, a pubblicare il prologo di un mio esperimento.

Avevo già pubblicato delle cose, ma ho preferito cancellare tutto quanto, non mi piacevano per niente.
Proverò a portare avanti questa fanfic, con la mia ispirazione e, spero, col vostro sostegno.
Ringrazio Fabiana che si è offerta per farmi da beta e dovrà leggere e sopportarmi.
Un saluto.
-Chiara.


 

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Capitolo 2
*** Last hope. ***


But the salt in my wounds, 
Isn't burning anymore than it used to. 
It's not that I don't feel the pain, 
It's that it just I'm not afraid of hurting anymore. 
 
 
 
 
Novembre.
 
Mi rigirai fra le coperte calde del mio letto matrimoniale, cercando instancabilmente di riprendere sonno.
Non trovavo una posizione adatta per dormire; quando mi svegliavo da un incubo era sempre la stessa storia.
Dopo due anni, ormai, il ricordo iniziava a sbiadirsi nella mia mente ma, nonostante ciò, gli incubi mi tormentavano durante la notte. Non riuscivo più a dormire completamente sereno da tempo. Mi arresi, allungai il braccio sul comodino ed afferrai il cellulare per controllare l’orario. Erano quasi le 6:00. Il sole era ancora nascosto e, probabilmente, sarebbe rimasto coperto tutto il giorno. Decisi di rimanere qualche altro minuto sotto le coperte, a gustarmi il loro calore e la loro protezione. Da piccolo, anche in estate, mi ostinavo a coprirmi fin sopra la testa, credendole una sorta di protezione, perché avevo paura che qualcuno entrasse dalla finestra e mi portasse via o mi mangiasse vivo.
Le mie sorelle ridevano di me perché lo facevo ma non mi importava e, crescendo, la mia idea era cambiata di poco. Non credevo più che qualche mostro venisse a mangiarmi, ero solo convinto che venissero a farmi del male. Dopo mezz’ora, decisi di alzarmi e prepararmi la colazione e poi uscire a correre.
Uscendo da casa, mi tirai dietro la porta in legno massiccio del mio appartamento.
Era ancora presto, non c’era nessuno in giro. Il sole, non del tutto sorto, illuminava le strade ma non riscaldava. L’aria fredda e pungente mi costrinse a stringermi nella felpa grigia. Settai il cronometro, indossai gli auricolari ed iniziai la mia corsa appena dopo aver fatto partire la musica.
Mi ero abituato a quella corsa mattutina da quando abitavo lì. E mi ero reso conto di quanto mi facesse bene. Mi schiarivo le idee, mi rilassavo e faceva bene alla mia salute.
Nato a Wolverhampton, trasferitomi a Londra, Chelsea, per scappare, per lo più.
Circa due ore di distanza da casa mia mi avevano dato la possibilità di ricominciare da zero. Mettere un punto e ripartire da capo, per ritrovare la parte di me che amavo ma che qualcun altro, al posto mio, aveva sotterrato tempo prima.
Naturalmente mi era costato la lontananza dai miei genitori e le mie sorelle, ma avrei potuto vederli quando volevo; non mi ero mai pentito della mia scelta di cambiare aria, cambiare vita.
Se ti ritrovi a correre a perdifiato in un tunnel di cui non vedi neanche uno spiraglio di luce ad indicarti che stai per arrivare all’uscita ma trovi una scorciatoia che ti conduce ad un posto nuovo, però, cosa fai?
Io avevo fatto la scelta più ovvia. Fuggire forse era stato da codardi, ma poco mi importava.
Continuare a correre al buio non mi avrebbe mai portato a niente, tranne che al continuare a crogiolarmi nel dolore che sopportavo sulla pelle da troppo, troppo tempo, ma questo lo capii solo dopo arrivato a Londra.
A Wolverhampton, negli ultimi tempi, giravano voci strane e parecchio infondate sul mio conto, la cosa peggiore è che la gente ci credeva davvero, ma non me ne curai completamente, piuttosto, ci ridevo su. Pochi conoscevano la verità, ed era meglio in quel modo. Per quanto mi riguardava, avrebbero potuto continuare a pensare fossi morto o sparito nel nulla o che mi fossi suicidato.
Anche se avevo valutato davvero l’idea di farlo, non ne sarei mai stato capace.
Nella mia debolezza, nella mia fragilità, sapevo d’essere abbastanza forte da sapere che avrei potuto trovare una via d’uscita dall’oblio in cui ero sprofondato. Come nelle sabbie mobili. Mi ritrovavo coperto fino al collo ma sentivo che avrei potuto farcela e che qualcuno avrebbe teso la mano e afferrato la mia, tirandomi fuori, e non mi sbagliavo. Quindi, un po’ grazie all’aiuto di Harry, un po’ grazie a me stesso, mi ero risollevato e avevo dato inizio ad un nuovo Liam.
Avevo smesso di mettere la virgola, continuando all’infinito, ma avevo messo un punto fermo. Avevo acceso la miccia e avevo fatto saltare tutto ciò che avevo intorno, tutti gli schemi, tutti i ritmi, rotto tutto ciò che apparteneva al vecchio Liam, rimanendo con ciò che mi era strettamente necessario: la mia famiglia, nonostante la distanza, Harry e una nuova strada da seguire, quella giusta.
Poco tempo ci misi ad ambientarmi a Chelsea. Il mio appartamento si trovava in una zona tranquilla, era forse un po’ troppo grande per me da solo ma, grazie ai miei risparmi e al mio lavoro all’Heaven, uno dei pub migliori della zona, potevo permettermi l’affitto.
 
Ma perché scappare? Ero fuggito dalla mia città natale perché il mio vivere lì si era storpiato in sopravvivere e nessuno poteva solo “sopravvivere” per sempre. Avevo deciso di fare le valigie e fuggire via a distanza di due anni dal diploma.
 
Prima, tutto andava bene. Andavo abbastanza d’accordo coi miei genitori, a scuola me la cavavo, e c’era Andy.
Lui era il mio migliore amico, un fratello per me. Ma lui stesso era stato fra quelli che avevano contribuito per causarmi del male. Quando tutti erano venuti a conoscenza della mia sessualità, all’ultimo anno di liceo, avevano cominciato a prendermi in giro. Io ero il diverso; la scuola era diventata una vera tortura. Avevo iniziato ad assentarmi sempre più spesso, il mio rendimento finì con il calare, la mia bontà anche.
Le prese in giro potevo sopportarle, le dicerie, le cattiverie, i risolini sotto il naso, i sussurri, quelli sì. Per sopportarli, avevo cercato di inculcarmi in testa il fatto che, speravo presto, lo avrebbero dimenticato tutti, poiché il pallino di “Liam Payne il gay” sarebbe stato sostituito da qualche altro "evento". Ero stato bravo, ma avevo fatto male.
Non fu proprio come speravo, mi illusi miseramente, provocandomi il triplo del dolore quando tutto iniziò.
Oltre alle prese in giro da parte di tutti, i bulli cominciarono a prendermi di mira.
Si passò dalle prese in giro a voce, alle spallate, alle scritte insultanti nell’armadietto, ai libri sparsi per il corridoio, alla violenza fisica. Non passava un giorno senza che tornassi a casa con qualche livido violaceo che cercavo a tutti i costi di nascondere. Avevo paura anche a uscire dalla classe per andare in bagno, avevo paura di camminare per i corridoi.
Spesso mi prendevano di peso e mi portavano sul retro della scuola, in quel giardinetto abbandonato e non curato da anni, dove l’erbaccia, giallastra e pungente al contatto con la pelle, era altissima e favoriva i loro attacchi a persone indifese, piccole e fragili in confronto a loro. Persone proprio come me. Io ero una delle loro vittime, innocente come un bimbo.
Quelli che erano genericamente chiamati bulli erano quattro ragazzi, alti e larghi quanto dei tir. Chiunque aveva paura di loro, chiunque ne era terrorizzato e non poteva farne a meno, anche se nessuno riusciva ad ammetterlo. Erano proprio i mostri dei miei sogni. Gli “amici” di quei quattro preferivano farsi trattare da tappetino dei piedi, piuttosto che ammettere, anche a se stessi, la verità. Loro lo sapevano, sapevano di incutere paura e giocavano sporco con quelli che sapevano non ne avrebbero mai parlato con nessuno e che mai avrebbero potuto difendersi.
Avevo accantonato da un pezzo quella parte della mia vita, i cui ricordi, nonostante la continua guerra col cassetto dei miei ricordi continuasse, non sarebbero mai scomparsi. Era una ferita che avrei sempre portato dentro, che avrebbe sempre fatto male al minimo contatto.
Non riuscii a fare a meno di ripensare a quando, per la prima volta, in corridoio, mentre raggiungevo la mia classe dopo essere stato in bagno, li avevo trovati a discutere di come giustificare il prossimo loro attacco a chissà chi, forse proprio a me. Quando mi avevano notato alla fine del corridoio, li avevo osservati per circa tre secondi. E quei tre secondi mi erano bastati per farmi amaramente pentire di aver messo piede fuori da quella porta e di aver anche solo respirato. Si erano sorrisi complici, tutti e quattro, e in pochi passi me li ero ritrovati davanti, ad oscurarmi la vista e farmi diventare un insetto ai loro occhi, facile da pestare e da far scomparire senza essere notato. O uno stupido giocattolo inutile che non ti piace affatto e che quindi ti senti libero di rompere, di distruggere, sapendo che nessuno si curerà di ripararlo. Così mi avevano trattato e da quella volta mi avevano dipinto in viso una maschera che non si sarebbe lavata via solo con dell’acqua. Mi avevano portato in quel luogo del tutto isolato. La paura mi corrodeva dall’interno, mi mangiava vivo, mi impediva anche di difendermi con le parole. Mi provocavano e stavo zitto, neanche respiravo. Il nodo che mi stringeva la gola sembrava non volere sparire, deglutivo costantemente, avevo bisogno d’acqua e ciò che, invece, avevo ricevuto era stato un pugno assestato nello stomaco. Il primo di una lunga serie. Avevo ricevuto, poi, anche calci e insulti che neanche avevo ascoltato poiché coperti dall’estremo dolore fisico che stavo provando. Quella volta mi fratturai due costole e mi lussai una spalla per il forte impatto con il terreno duro sotto di me.
Decisi di non ribellarmi a quella violenza, poiché mi avevano convinto d’essere sbagliato e meritare tutto quello. A mia madre raccontai che avevo per sbaglio messo un piede male nella scala ed ero caduto e la stessa storia riferì lei ai dottori quando mi ricoverarono. Mancai molti giorni da scuola. Fui costretto da mia madre a tornarci, che, naturalmente, non sapeva il vero motivo per cui mi rifiutavo di mettere di nuovo piede tra quelle lugubre mura. Quando tornai in quella sottospecie di carcere minorile, la sensazione di essere fuori dal mondo mi assalì, speravo che qualcosa nell’animo di quei ragazzi fosse cambiata, che si fossero almeno un po’ pentiti, ma nel mio inconscio sapevo che niente in loro era cambiato. La loro cattiveria, la loro voglia di sentirsi padroni di tutto, la loro stessa paura d’esser sottomessi a qualcuno, la loro finta apatia; nulla era cambiato.
Così come decisi di non ribellarmi, decisi di non farne parola mai con nessuno, perché l’unica persona a cui ne avrei mai voluto parlare, per sentire anche una parola di conforto, era proprio la stessa che mi aveva tradito.
Sotto gli occhi attenti e cattivi di tutta la scuola, lui mi aveva umiliato.
Inveire contro di me senza alcun ragionevole motivo; dichiarare la mia omosessualità al mio posto senza alcun mio permesso; ferire i miei sentimenti, tradendomi.
Andy, quello che consideravo il mio migliore amico, era stato lui. Era riuscito a spegnere la parte di me che più amavo, quella buona e sempre gentile con tutti.
Potevo ancora sentire il dolore del suo tradimento sulla mia pelle.
Lo sentivo addosso a marchiarmi, come una pietra a scalfire la carne tenera del petto. Come il sangue che sgorga da una ferita e ti rimane addosso, scuro e fastidioso, quando coagula.
 
Mi accorsi delle lacrime fredde che scorrevano sulle mie gote solo dopo un po’. Avevo raggiunto il parco a circa due km da casa mia, impiegandoci poco meno di un quarto d’ora.
Asciugai le gocce d’acqua salata sul mio volto col palmo destro.
Continuai a correre e, per evitare di pensare, finsi di provare un qualche interesse per le nuvolette di vapore che emanavano le mie labbra quando espiravo. Naturalmente, non ci riuscii. E ripensai ancora ad Andy.
Fingere che non mi mancasse, anche a me stesso, era un’assurdità. Non conoscevo ancora del tutto la ragione della sua sfuriata che avevo cercato a tutti i costi di rimuovere dai miei ricordi. Ricordavo, però, che il giorno prima avevo provato a baciarlo. Non mi piaceva Andy, non ne ero innamorato, ma ero convinto che lui, pur essendo etero, non mi avrebbe respinto, essendo il mio migliore amico da anni.
Come un bimbo, mi ero convinto che baciare per primo il mio migliore amico sarebbe stato più sicuro. Ero stato ingenuo a pensarlo. Anzi, neanche ci avevo pensato e avevo agito impulsivamente, sbagliando tutto. Infatti, ad un centimetro dalle sue labbra, mi aveva spintonato e mi aveva lasciato solo in camera mia, senza più farsi vivo per due giorni interi. Quando aveva rimesso piede a scuola, mi aveva ignorato e aveva dato inizio alla mia fine.
Mi ero sentito come messo al rogo da lui. Lui mi aveva legato al palo, lui mi aveva cosparso di liquido incendiario e lui aveva gettato ai miei piedi i fiammiferi, mettendo inizio al mio dolore, incendiando la parte migliore della mia anima pura.
Dopo Andy, però, avevo conosciuto Harry. Un po’ come il mio arcobaleno dopo la tempesta. Pelle chiara, castano e riccio, occhi grandi e verdi. Ci avevo messo un po’ di tempo a fidarmi di lui del tutto, ma alla fine ci ero riuscito. Lo avevo incontrato in panetteria, il giorno dopo il mio arrivo a Londra. Era stato carino con me, aveva subito capito che ero nuovo in città e mi aveva promesso di aiutarmi ad ambientarmi, facendolo veramente. Mi aveva mostrato i posti per lui più belli e raccontato un po’ di lui, mostrandomi come ricominciare a fidarmi delle persone.
 
Perso nei miei pensieri finii la mia corsa e tornai a casa leggermente sudato, anche se faceva parecchio freddo.
Entrai in casa e mi cullai del calore di quelle mura ormai tanto familiari e in cui mi sentivo al sicuro. Mi spogliai e osservai il mio riflesso allo specchio.
La pelle olivastra, capelli corti e scuri, occhi castano chiaro, quasi il colore del miele d’acacia, profondi, a nascondere qualcosa di troppo grande anche solo per me stesso.
Non mi trovavo brutto ma ero indifferente a ciò che riguardasse il mio aspetto esteriore.
Entrai in doccia e mi rilassai a contatto con l’acqua bollente e il vapore che contribuiva a rendere l’aria calda. Mi lavai per bene e uscii indossando l’accappatoio bianco.
Dopo aver asciugato i miei capelli, mi vestii per casa indossando una tuta semplice e iniziai a sistemare l’appartamento. Fare l’uomo di casa non mi era mai piaciuto, ma da quando vivevo solo ero costretto. Il mio appartamento era moderno, quasi completamente in bianco e nero. Quando mi guardavo in giro mi sentivo come in un film antico e recitavo scherzosamente le parti di qualche film che avevo visto con mio nonno.
Quando finii di sistemare, controllai l’orologio. Era quasi ora di pranzo.
Decisi di chiamare mia madre mentre mi preparavo del pollo e patatine, sentire la sua voce mi fece stare bene.
Dopo quei pensieri che mi avevano attanagliato la mente per tutta la mattinata, mi aveva sollevato. Durante il pomeriggio decisi di rilassarmi, chiamai Harry che era a Holmes Chapel da sua madre. Fu un piacere sentirlo. Era lì da una settimana e mi mancava come se non ci vedessimo da un anno.
Quando l’orologio sulla parete segnò le otto, dopo aver cenato con un sandwich, cominciai a prepararmi per il mio turno serale all’Heaven.
Era venerdì sera, il sabato molti studenti non avevano lezioni quindi si dividevano nei pub per bere, ballare e divertirsi, o solo per rilassarsi e allontanare lo stress da scuola.
Arrivato al locale, Louis era già lì, dietro il bancone, con la solita pezza sudicia fra le mani. Lo salutai e indossai il grembiule nero mettendomi anch’io al banco, pronto a servire quei ragazzi scalmanati che sembravano non vedere l’ora di ubriacarsi, facendo finta di non sapere cosa comportasse una sbornia.
A mezzanotte il locale brulicava di ragazzi e io e Lou eravamo praticamente circondati da nostri coetanei urlanti che si spintonavano per avere prima qualcosa da bere. Persi il conto dei cocktail serviti neanche a metà serata, da Mojito a Bloody Mary, da Margarita a Pina Colada e Daiquiri. Io avevo bevuto solo due bicchieri d’acqua e la gola, infatti, mi bruciava per la secchezza.
La confusione si calmò solo verso l’una, quando il locale era pieno di ragazzi ma tutti abbastanza soddisfatti. Dopo aver bevuto, feci un giro del locale con lo sguardo. La pista era piena, le luci psichedeliche illuminavano il locale quel poco che bastava per vedere dove mettere i piedi e riuscivano a confonderti se mischiate all’alcol nello stomaco che saliva facilmente in testa.
Molti si strusciavano, qualcuno aveva bisogno di una camera, ragazze fintamente timide nei divanetti con un cocktail in mano che aspettavano il prossimo invito a ballare in mezzo ai tanti altri corpi caldi e sudati, i cui cervelli erano pieni di musica e alcol e tanta, tantissima, confusione.
Una ragazza bionda si avvicinò al bancone e, dopo avermi chiesto un Angelo Azzurro, si accomodò in uno degli sgabelli. Quando glielo servii mi guardò con occhi provocanti. Feci finta di stare al gioco quando iniziò a giocare con la cannuccia nera che le avevo appena messo nel bicchiere, stringendo le labbra o passandoci sopra la lingua.
Iniziò a flirtare spudoratamente con me dopo pochi secondi. Era bella ma, naturalmente, non mi attraeva. La cascata di capelli biondi che le scendeva sulle spalle le rendeva il viso, da ragazza, come quello di una bambina. Le sorrisi.
Dopo averci provato con me e vedendo che non riusciva ad andare al punto, o meglio, al suo obiettivo, passò alla schiettezza, senza più girarci in torno.
«Come ti chiami?»
«Liam, tu?»
«Maya».
Sorrisi, smettendo definitivamente di giocare poiché, dopo mezz’ora, non ne avevo più voglia. Illuderla non mi avrebbe portato da nessuna parte, almeno non le avrei fatto perdere ancora tempo.
Storsi le labbra in una smorfia e, per la prima volta, dissi quelle parole ad alta voce.
«Senti, Maya, sei molto bella ma io non sono etero».
Lei prima sbarrò gli occhi per la sorpresa, poi si alzò stizzita.
«Sei molto bravo a fingere, Liam, ma potevi evitare di farmi perdere tempo» urlò, per farsi sentire.
Io sorrisi innocentemente. «Scusa» le risposi.
Lei alzò le spalle. «Va be’, fa niente. Sei davvero carino e simpatico, fortunato colui che ti avrà. Ci si vede in giro».
Se ne uscì con quella frase che mi spiazzò.
Lo pensava davvero?
 
Quando io e Louis finimmo il nostro turno, erano ormai quasi le quattro. Ogni fine settimana, di routine, succedeva questo. Uscivamo stremati dal locale e riuscivamo a stento ad arrivare a casa tutti interi.
Uscimmo, come di consueto, dalla porta del retro che dava su una stradina buia e maleodorante.
Arrivammo alle nostre auto. «Ciao Lee, buonanotte» mi salutò, con il solito abbraccio.
«Buonanotte amico, ci si vede domani» ricambiai la stretta e gli sorrisi.
Salii in macchina e sfrecciai verso casa, avevo voglia di dormire.
Arrivato a casa, mi trascinai dentro con tutta la forza di volontà che possedevo in corpo.
Entrai e gettai per terra la mia tracolla, mi spogliai e, esausto, mi gettai fra le morbide coperte del mio letto a due piazze. Prima di addormentarmi ripensai alle parole di quella ragazza, Maya, e scoprii di esserne rimasto così colpito perché nessuno me lo aveva mai detto e, nessuno, probabilmente, lo aveva mai pensato.
 
 
 
It's just a spark, 
But it's enough, to keep be going. 
And when it's dark out, no-ones around, 
It keeps glowing 

 
 
 
 
Quando mi svegliai, la sveglia segnava le 9:30. Non mi premurai di alzarmi, i residui di stanchezza li sentivo ancora nelle ossa, anche perché mi ero svegliato durante la notte, come sempre. Avevo dormito poco più di quattro ore.
Rimasi coperto fino in testa per una buona mezz’ora, poi decisi di andare a correre comunque.
Mi preparai, indossai la tuta ed uscii di casa aspettandomi il sole alto a riscaldarmi. Ovviamente, mi sbagliavo. Il sole era coperto da quelli che sembravano enormi batuffoli di zucchero filato.
La mia corsa fino al parco fu rilassante e, invece di tornare immediatamente indietro, decisi di entrare, non avevo nulla di più interessante da fare.
Non c’era molta gente. La maggior parte, col freddo, preferiva stare al caldo di casa.
Una ragazza col cane, un ragazzo che correva, una coppia di anziani che camminava mano per mano e un ragazzo seduto su una delle panche assorto nella lettura di un libro. Rimasi ad osservarlo nella sua spontanea bellezza.
Studiai il suo profilo e ne rimasi incantato. Era bellissimo.
Capelli corvini, coperti dal cappuccio di una felpa grigia da cui fuoriusciva un lungo ciuffo sistemato all’indietro. Un filo di barba a coprire la mascella. Occhi attenti sul libro, semi chiusi, di cui non riuscivo a distinguere bene il colore, e lunghe ciglia a contornarli. Era minuto, teneva le gambe vicine al petto e, sopra queste, il libro.
Fremetti alla vista di tanta bellezza. Mi attraeva ma non riuscivo a muovere i piedi da terra per avvicinarmi a lui. La mia solita timidezza.
Forza Payne, puoi farcela.
Feci qualche passo, facendo scricchiolare i residui di foglie secche sull’erba.
Camminai con finta indifferenza, altri pochi passi e mi sedetti al suo fianco, su quella secolare panchina in legno scuro. Mossi l’aria che ci circondava. Il suo profumo mi entrò nelle narici, forte e dolce contemporaneamente.
Lui, sentendo la mia presenza, si girò a guardarmi per due secondi.
In quei due secondi mi rivolse un accenno di sorriso che mi fece perdere un battito, mancare la terra da sotto i piedi, poi tornò alla lettura, senza nemmeno darmi il tempo di ricambiare.
Mi imposi di non osservarlo, chiedendo a me stesso la ragione di tanta voglia di studiare i tratti di quel ragazzo di cui non conoscevo neppure il nome e sbiascicare qualche parola per costringerlo a parlarmi.
Dovevo trovare il coraggio e soprattutto una scusa per attaccare bottone.
Probabilmente, dall’esterno, apparivo come una tredicenne che vede un bel ragazzo e gli sbava dietro senza rendersene conto.
Aveva un’aria misteriosa, e, forse, era proprio quella ad attrarmi. La sua tranquillità, la sua completa quiete, il suo respiro regolare, la sua bellezza. Forse era quello a spingermi a volerlo conoscere.
Nell’attesa che qualcosa mi illuminasse, tirai fuori il mio cellulare dalla tasca della mia giacca. Decisi di mandare un sms a Harry.
-Amico, mi manchi. Ho bisogno delle tue illuminazioni.-
La risposta non arrivò, come immaginavo. Il mio amico di sicuro era ancora dormiente, reduce da una serata fuori coi vecchi amici.
Osservai la copertina del libro che teneva in mano. Riconobbi “Assassinio sull'Orient Express”, Agatha Christie. Avevo letto quel libro tempo prima e mi era piaciuto moltissimo.
Poi, senza fare due più due, parlai. Senza pensare, senza usare il filtro cervello-bocca.
«Che scrittrice, la Christie!» non potevo iniziare con frase peggiore.
Voltò la testa verso di me e mi osservò, serio, battendo le lunghe ciglia.
Liam, sei un vero disastro.
«Lo penso anch’io. Hai letto questo?» domandò, chiudendo il libro, per mostrarmi la copertina, infilandoci dentro due dita per non perdere il segno.
«Sì, l’anno scorso» risposi, imbarazzato.
«Ti è piaciuto?»
«Sì, e a te?»
«Sono solo a metà, troppo presto per pronunciarmi» alzò l’angolo delle labbra in un timido sorriso.
Annuii, dandogli ragione.
Bene, avevo già finito gli argomenti di conversazione.
Ma bravo, Payne, davvero.
Mi sorprese, parlando lui.
«Vieni spesso qui? Non ti ho mai visto.»
«In realtà, no. Tutte le mattine corro e, arrivato davanti il cancello, giro e me ne torno a casa. Sono poche le volte in cui entro. Tu?»
«Vengo praticamente ogni mattina a leggere. Mi rilassa. È un posto così tranquillo».
Annuii, chiedendomi perché mai non ci fossi entrato ogni giorno.
«Sei di Londra?» domandai.
«No, vengo da Bradford, nello Yorkshire. Tu?»
«Wolverhampton» risposi, laconico. Quella parte della mia vita faceva ormai parte del passato. Perché spolverare ricordi che non si vogliono far riemergere?
«Vivi da solo?» chiese, curioso.
«Sì, vivo qui da due anni. Perché me lo chiedi?»
Rispose semplicemente sollevando le spalle e mi cullai nel pensiero che davvero gli importasse perché voleva conoscere qualcosa di me.
«E cosa sei venuto a fare qui, tutto solo?» la sua domanda mi spiazzò, non me la aspettavo.
Cosa avrei dovuto rispondergli?
La verità, Liam.
E lo feci davvero. «Scappavo» sentenziai. Lui stiracchiò le labbra rosee in un sorriso.
«Sei un ricercato? Se è così dimmelo, almeno ti guardo le spalle» disse, suscitandomi una sincera risata.
«Magari. No, non scappavo dalla polizia, ragazzo sconosciuto» risposi, allargando le labbra in un sorriso sincero.
«E da cosa scappavi?» chiese interessato, chiudendo il libro e posandolo di fianco a lui, dall’altro lato della panchina.
«Beh, un giorno te lo dirò» celai una piccola promessa dietro quelle parole, una piccola speranza. Come una luce flebile nell’oscurità.
«E come sai che ci rivedremo e potrai dirmelo, ragazzo sconosciuto?» mi sfidò, usando le mie stesse parole.
«Non lo so e basta».
Sorridemmo e ci guardammo in silenzio per qualche minuto, senza alcun imbarazzo. Studiammo i nostri, anche impercettibili movimenti, i nostri respiri, i battiti dei nostri cuori, le nostre anime che si sfioravano appena.
«Purtroppo devo andare, il lavoro mi aspetta».
«Io vado a casa a togliermi questi vestiti di dosso» sorrisi. Ci alzammo dalla panchina che scricchiolò appena. Raccolse il suo libro e lo gettò dentro lo zainetto nero che teneva in spalla e che non avevo notato prima.
«Bene, allora, ci vediamo…» ricordò di non conoscere ancora il mio nome.
«Liam» completai la frase al posto suo. Lui annuì. «Io sono Zayn».
Zayn. Mi piaceva anche il suono del suo nome.
Allungò la mano verso di me, la strinsi. Il calore della sua mano con la mia, mi fece capovolgere lo stomaco. Era morbida, liscia, come la pelle di un bambino. Guardai la mia mano stretta nella sua e notai una rondine d’inchiostro indelebile nella sua. Fra il pollice e l’indice. Mi piacque da morire. Poi alzai lo sguardo nei suoi occhi e ci guardai dentro. Notai le piccole striature d’oro nel mare di cioccolato. Sorridemmo ancora, lasciandoci le mani.
Possibile innamorarsi in pochi istanti?
Attimi di sensazioni diverse, tutte confuse in testa, scanditi dal tempo.
«Allora , ciao Liam».
«Spero di rivederti presto» dissi, forse un po’ troppo piano perché mi sentisse, quando si era già allontanato da me.
Nella mia testa frullavano mille domande e perplessità, mille come e mille perché. Non avrei potuto mai rispondere a nessuna di queste, non ne sarei stato capace, tranne ad una.
Lo ha capito, Liam?
Sì, lo ha capito, ha capito tutto.
Nella strada verso casa, ripensai solo ai suoi occhi ammalianti e alla sua mano calda stretta nella mia.
Ma che ti succede, Lee?
Arrivato a casa, lavai via il sudore ma la strana sensazione rimase attanagliata nel mio stomaco. Un tornado stava trasportando via tutto, incurante. Sapevo quando e dove fosse iniziato ma non se, e dove, sarebbe finito. E sapevo anche che quel violento vortice dentro il mio stomaco portava il suo nome.
Zayn.
 
Cercai di continuare la giornata come l’avevo iniziata: normalmente. Mi riuscì parecchio difficile, poiché avevo un solo pensiero a ronzarmi in testa, mille domande ma tutte riguardanti lo stesso argomento. Riuscii a distrarmi solo durante il mio turno all’Heaven. Il locale, nonostante l’ampiezza, era stracolmo di gente. La puzza di sudore e di alcol era diventata fastidiosa, impregnava i muri. Troppi respiri chiusi nello stesso posto creavano una condensa umida e il bancone era stato preso d’assalto. Il sabato era, naturalmente, il giorno peggiore. La musica rimbombava nelle teste di tutti, la pista gremita di gente che si muoveva a tempo fra urla, risate e bicchieri rotti. Io e Louis neanche avevamo potuto scambiarci due parole, solo sguardi stanchi di chi ha voglia di buttarsi a terra e dormire perché non ce la fa più. Il proprietario, come al solito, sarebbe stato soddisfatto dei ricavi di quella serata senza preoccuparsi della nostra salute fisica e mentale.
Uscimmo dal locale, come sempre, poco prima delle cinque. L’aria pungente della notte ci costrinse a stringerci nei nostri giubbotti pesanti. Il sonno si faceva sentire.
«Che incubo stasera» commentò Louis, appoggiandosi alla sua macchina.
«Già. Tutti i sabati è così, dovremmo cominciare a farci l’abitudine. Tanto quello spilorcio di Cooper non prenderà mai qualcun altro» sentenziai, sbuffando.
«Lo so, ma noi non arriveremo alla fine dell’anno così» disse lui, sorridendo.
Il suo sorriso brillò nella notte.
Louis era bello. Ma bello per davvero.
Magro, non altissimo, vispi e piccoli occhi azzurri, labbra sottili e rosee, capelli sempre perennemente disordinati, pelle chiara, macchiata da tatuaggi per lo più sulle braccia.
«Lou, ho incontrato un ragazzo stamattina» sorrisi, al solo pensiero di lui.
«Davvero? Come si chiama?»
Sorrisi alla sua curiosità che, ormai, ben conoscevo. «Zayn».
«Racconta, ti si sono illuminati gli occhi, LeeLee» scherzò. Lo spintonai scherzosamente e gli raccontai del nostro incontro.
«E il suo numero?» domandò curioso.
«Non ce l’ho, è scappato via prima che potessi dire altro» dissi, imbarazzato.
Pensavo m’avrebbe preso in giro, ridendo di me e della mia inesperienza coi ragazzi. Mi dimostrò che mi sbagliavo. «Fa niente amico, se è destino vi rincontrerete».
«Il destino, sì..» mi interruppi, pensieroso. «Ho come paura che non lo rincontrerò più».
Parlai a lui come non avevo mai fatto e lui fece lo stesso, sorprendendomi. «Liam, senti, sono tuo amico, quindi non me la sento di dirti cazzate del tipo “vi rincontrerete sicuramente”, perché questo non lo so, ma se succederà e non gli chiederai il numero, sappi che ti ucciderò».
Risi alla sua sincerità e schiettezza. Louis era sempre stato bravo a mettermi di buon umore.
«Grazie, Lou.» dissi. Lui mi posò una mano sulla spalla. «LeeLee, così mi emoziono, basta» scherzò, ancora, tirando su il naso e asciugandosi lacrime immaginarie dal viso.
Si beccò una gomitata nelle costole che mi restituì immediatamente.
«Dovremmo andare a casa, muoio dal sonno» dissi io, sbadigliando sonoramente.
«Già, credo dormirò in macchina. Spero di non trovare nessun semaforo rosso».
Io risi. «Stai attento, torna a casa sano e salvo».
«Certo, mammina».
Gli diedi una spallata e lo salutai col nostro abbraccio di sempre.
Salii in macchina e partii verso casa, ripensando a quella frase che avevo detto, quella che il nuovo Liam si sarebbe sognato di pronunciare. 








La canzone è ''last hope'' dei Paramore.


 
 
Ciao fanciulli/e.
Ho preferito aggiornare ora, non so perché.
Allora, in questo capitolo, capiamo ciò che è successo a Liam. E' stato vittima di bullismo al suo ultimo anno di liceo e anche dopo la fine della scuola. Quei quattro ci andavano giù pesante con lui, fragile com'era. Inizialmente, neanche voleva dirlo a nessuno, perché lui stesso si era convinto di meritare tutto quel male. Circa due anni dopo, scappa dalla sua città, perché non ne può più.
Ma i demoni del suo (recente) passato non lo mollano, lui ci pensa insistentemente, nonostante non vorrebbe e lotta con la sua mente che lo obbliga, lo costringe a rimuginarci sopra e in qualche modo a farsi del male.
Lo fa ogni mattina, quando va a correre, solo che questa volta, incontra Zay, che gli sconvolge il mondo.
Pensa a lui, ma il suo passato lo tormenta, e ora non sa nemmeno se lo rivedrà più.(?)
Nel prossimo capitolo scopriremo come hanno vissuto i 'cari' di Liam, a cui lui comincia a pensare solo quando li rivede.
E poooi.. vedrete.
Ora vi lascio, augurandovi un sereno anno nuovo, sperando che porti buone cose a tutti.
Spero di aggiornare con regolarità, ma non ne sono sicura perché devo ancora studiare.
E spero anche in un vostro piccolo parere, ve ne sarei estremamente grata.
Un abbraccio.
-Chiara.









 

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Capitolo 3
*** Demons; Feel again. ***


When you feel my heat
Look into my eyes
It’s where my demons hide
It’s where my demons hide
Don’t get too close
It’s dark inside
It’s where my demons hide
It’s where my demons hide
 
 
 
Quella domenica decisi di andare a trovare i miei genitori a Wolverhampton; erano due anni che non ci mettevo piede, erano sempre venuti loro a trovare me. Mi ero sempre rifiutato, nonostante l’insistenza di mia mamma che, alla fine, però, mi aveva fatto cedere.
Arrivai lì per ora di pranzo, la giornata era nuvolosa e fresca. La tavola era apparecchiata per un esercito, come sempre. Mia mamma non badava a spese quando l’uomo di casa –dopo papà, naturalmente- tornava a casa.
Salutai i miei genitori e le mie sorelle con un abbraccio, il loro affetto mi era mancato.
Le chiacchierate con loro erano infinite, nonostante si evitasse di parlare di ciò che mi era successo.
Dopo un sostanzioso pranzo, Ruth mi propose di andare a fare una passeggiata per le stradine poco affollate della città in cui avevo abitato fino ai vent’anni. Accettai, anche se riluttante.
Wolverhampton contava poco più di 250 mila abitanti, fra i quali quattro che mi stavano poco a cuore.
Non avevo più avuto loro notizie, mi ero estraniato da quel mondo, li avevo cancellati dalla mia vita, anche se era rimasto l’alone nella mia mente. Come quando si cancella il gesso dalla lavagna con le dita.
Mi parve strano passeggiare per quelle stradine dove ero cresciuto ma che non facevano più parte di me. Le classificai nel passato, casa mia ormai era Chelsea. Naturalmente riconobbi ogni cosa, ma mi sentivo strano, tutto quello non mi apparteneva più. 
Passai davanti al parco giochi dove mio padre mi portava sempre quando andavamo a fare la spesa, alla scuola elementare, alla biblioteca dove mi ero rinchiuso per ore e ore e calai la testa quando arrivammo davanti al liceo. Non avevo fiatato, né Ruth aveva fatto domande. Lei sapeva, anche se non capiva, cosa stava scatenando dentro me quella semplice passeggiata.
 Rabbrividii quando notai quell’edificio dalle mura bianco sporco, circondato sempre dal solito giardino. Mi sorpresi nel trovarlo un po’ più curato, con qualche margherita selvatica qui e lì. Mia sorella seguì il mio sguardo e sorrise amaramente.
«E’ così da quando sei via. Il nuovo preside ha fatto sistemare il giardino e ha messo nuovi sistemi di sicurezza, ci sono anche le telecamere» spiegò, indicandomi uno degli aggeggi elettronici piazzato in alto del cancello d’entrata. Annuii e abbassai il capo, fissandomi i piedi e calciando qualche sassolino. Continuai a rimuginare in silenzio, incapace di proferir parola.
«Liam, tu stai bene?» domandò. Non sollevai lo sguardo.
«Non ti dirò una bugia. Non so come sto. Sto e basta».
«Avrei voluto fare qualcosa per te, Liam. Ma non sapevo cosa. Sapevo che c’era qualcosa che non andava. Sono stata la prima a scoprire ciò che ti facevano, avevo una paura marcia».
Il mio silenzio la incitò a continuare.
«Me ne accorsi un giorno, quando entrai in camera tua per dirti di scendere a mangiare. Eri a torso nudo e notai subito i lividi violacei all’altezza delle costole e il terrore mi frenò tanto da non farmi parlare. Non parlavi più, non uscivi più. Stavi sempre per conto tuo nella tua stanza, sembravi inesistente in casa. E per questo mi sento in colpa, se io avessi fatto qualcosa prima forse t..»
«Ruth, basta, basta. Non devi sentirti in colpa per qualcosa che è passato. È successo, nessuno può farci più niente. Stop. Chiuso il discorso» la interruppi e la mia voce dura la spaventò.
«Liam..» la sua voce era spezzata da un nascente singhiozzo.
Non volevo succedesse, non volevo vederla piangere.
Ci fermammo di botto e la abbracciai, spingendole la testa sul mio petto per soffocare i suoi singhiozzi. «Liam, mi dispiace così tanto» sbiascicò.
La incitai a stare in silenzio, per stabilizzare la frequenza dei suoi battiti cardiaci e del suo respiro già vistosamente accelerati.
 «Dispiace a me, di averti risposto male».
Avevo voglia di una sigaretta, per rilassare i nervi. Ero troppo agitato, quell’aria non mi faceva bene.
Ancora con Ruth fra le braccia, alzai lo sguardo triste verso la scuola.
L’angoscia prese possesso del mio cuore, gli occhi cominciavano a pizzicarmi e tirai su col naso.
Forte, Liam, devi essere forte. Anche per loro.
Ero forte, ma come potevo dimenticare tutto quello?
Solitamente i brutti ricordi vengono accantonati solo quando vi si sovrappongono nuovi ricordi, più belli. E l’unico ricordo che potessi associare a quelli piacevoli era l’incontro con quel ragazzo coi grandi occhi color cioccolato.
Ricordai ancora una volta gli innumerevoli calci ricevuti e mi mancò il fiato; mi sentii come rinchiuso in una stanza le cui mura, fatte di ricordi, si stringevano, mi venivano incontro per schiacciarmi, sopraffarmi, togliermi l’aria.
Poi pensai che avevo risparmiato dolore a qualche altro ragazzo. Il vecchio preside, grazie ai ricorsi di mia madre, era stato licenziato, poiché non aveva fatto nulla dopo esser venuto a conoscenza della presenza di atti di bullismo fra le mura della sua scuola. Il nuovo preside aveva provveduto a mettere sistemi di sicurezza, aggiungere qualche punto al regolamento d’istituto e a curare le zone che favorivano le violenze.
Il conflitto nella mia mente si placò solo quando la testa bionda di mia sorella si sollevò dal mio petto.
Mi guardò con una strana espressione stampata in viso, sembrava che stesse per esplodere. Mi asciugò le lacrime con due dita.
Sulla strada del ritorno la lasciai parlare, aveva bisogno di sfogarsi e mi chiese ancora scusa, per tutto: per non aver agito subito, per non avermi capito all’inizio, per non essermi stata accanto come avrebbe dovuto, anche per il pianto e per avermi portato lì. Tacqui mentre parlava, nel frattempo riflettevo sul fatto che quello a dover chiedere scusa fossi anche io.
Quando arrivammo a casa, tutti notarono la tensione nei nostri sguardi ma nessuno fece domande.
E fu in quel momento che mi arresi al pensiero che il mio passato, il dolore fisico e psicologico subito, mi avrebbero marchiato per sempre. Non avrei mai potuto scrollarmeli di dosso.
Mi sarei sempre guardato allo specchio con indifferenza, leggendo nei miei occhi la paura.
Avrei sempre camminato svelto, più vicino possibile al muro, per non farmi notare e controllandomi sempre le spalle.
Terrore.
Quella brutta sensazione che avverti sulla pelle, che non ti molla neanche un secondo.
Avrei potuto per sempre vivere in quel modo, con l’ansia addosso, con la sensazione di un pericolo reale anche se ormai lontano?
 
 
Tornato a casa, mi stesi sul letto. Stanco fisicamente per il viaggio ma soprattutto stanco di pensare, cercai di dormire ma l’unica cosa a cui andai in contro fu altro caos nella mia mente. Di certo non avevo scordato Zayn, ma altri pensieri prepotenti lo sovrastavano.
Avevo bisogno di una pausa, ero stanco di tutto: della solita vita monotona, stanco persino di essere stanco. Avrei voluto tirare la spina e farla finita, ma non ci riuscii e rimuginai ancora e ancora.
Capii che il pianto di Ruth era stato causato dal troppo nervosismo accumulato negli ultimi anni, dal suo senso di colpa e, per ultimo, come goccia a far traboccare il vaso, dalla mia risposta tagliente. Ero stato profondamente egoista.
Egoista non solo con lei ma con tutta la mia famiglia.
Avevo pensato solo a me stesso, a ciò che quell’ultimo anno di liceo aveva provocato in me, non avevo mai guardato la situazione dall’esterno.
Ero profondamente cambiato, il ragazzo debole e sempre gentile e disposto a tutto si era nascosto del tutto per lasciar emergere la parte  più determinata e forte di me, che mi aveva portato a non accorgermi di ciò che mi circondava, bendandomi.
Eravamo rimasti io e il mio dolore, che non mi permetteva di guardare in faccia nessuno, che non mi permetteva di essere gentile e meno scorbutico, che mi imponeva di odiare, di provare sempre terrore, di allontanare tutti, di avere una mente quasi malsana. Avevo dovuto sopportare troppo, in un anno. Ma gli altri, cosa e quanto avevano dovuto sopportare per me?
Gli occhi dolci di mia madre, pensai a quelli. Karen. La rividi davanti a me con lo sguardo vitreo quando, per la prima volta, venne a sapere dell’accaduto. Le pupille dilatate, gli occhi colmi di lacrime trattenute per troppo tempo. Era successo quasi a fine anno, quando per la seconda -e ultima- volta, quei quattro ragazzi dai pantaloni a vita bassa, con le mani conficcate dentro,  in compagnia del freddo di una lama tra le dita, mi avevano fatto finire in ospedale. Mi avevano aspettato all’uscita da scuola, scortato fino al retro, dentro un magazzino puzzolente e inutilizzato, vicino scuola. Mi avevano spintonato, avevo sbattuto violentemente la testa su una cassetta degli attrezzi arrugginita. La lama del coltellino che si portavano sempre dietro mi aveva scalfito la pelle delle braccia e del viso e quando avevo perso i sensi per la commozione cerebrale, mi avevano lasciato lì dentro steso senza forze, forse anche loro un po’ spaventati, forse si erano resi conto di aver perso il controllo, di avere esagerato, di essersi spinti davvero troppo oltre.
La porta di quel ripostiglio era rimasta aperta, come l’avevano lasciata quei quattro codardi.
Dopo avermi cercato per circa un’ora, mio padre, preoccupatissimo, mi aveva trovato ancora senza sensi e mi aveva portato all’ospedale più vicino. Mi aveva raccolto come un gattino ferito sul ciglio della strada e non mi aveva più lasciato, stringendomi forte la mano. Era quello uno dei motivi per cui io non avevo mollato: l’affetto che avevo percepito negli occhi e nei gesti dei miei genitori, anche dopo aver saputo la verità. Le innumerevoli ferite e i numerosi esami ed accertamenti mi avevano costretto in ospedale per qualche giorno e, naturalmente, quando mi ero ripreso avevo dovuto raccontare tutto a mia madre e mio padre.
 Gli avevo raccontato ogni cosa dal principio, partendo da quando avevo scoperto che ad attrarmi erano gli uomini. La cosa non li aveva scossi, mia madre si era avvicinata a me e mi aveva stretto la mano, con mio padre al suo fianco. Da quella dichiarazione avevano intuito cosa, poi, mi era successo, ma io avevo già deciso di aver tenuto per troppo tempo tutto dentro e che loro dovessero sapere ogni cosa.
E lì avevo conosciuto mia madre veramente, in tutte le sue sfumature: la paura, la debolezza, la rabbia, l’impotenza, furono ciò che lessi nel suo sguardo, nei suoi movimenti, nei suoi passi, nei suoi gesti, nella sua inappetenza e nel morboso affetto nei miei confronti.
Egoista Liam, sei un egoista.
La testa mi doleva, pesante. Me la presi fra le mani sperando di attutire i rumori, mi rigirai fra le coperte muovendo nervosamente le gambe sul materasso, sfregando i talloni sul lenzuolo per coprire quella voce fastidiosa insidiatasi nella mia mente.
L’imposta della finestra dello studio sbatté violentemente, facendomi sussultare.
Il mio cellulare si illuminò.
Afferrai il cellulare dal comodino, aprii la casella dei messaggi ricevuti.
-Mi manchi. Domani di nuovo insieme. Ah, verrai a prendermi in aeroporto, alle dieci.
E se te lo stai chiedendo, no. Non è una domanda. Ti voglio bene. H-
Tirai un forte sospiro, deciso a dormire.
Quella notte, sognai di pianti, tante lacrime, rumori, dolore e un paio di mani che riuscii a collegare solo a Zayn.
 
 
                                                                                                                                                                                              But with you
(I’m feeling better since you know me)
I feel again
(I was a lonely soul but that’s the old me)
Yeah with you
(I’m feeling better since you know me)
I can feel again
(I was a lonely soul)
 
 
 
 
Quel lunedì mattina dovetti rinunciare alla mia corsa perché dovevo andare a prendere Harry.
Uscii di casa alle nove, controllai la cassetta della posta trovandoci una busta bianca col mio nome sopra, la misi in tasca ripromettendomi di aprirla nell’attesa dell’arrivo del volo.
L’aeroporto di London City distava poco più di mezz’ora da casa mia, ma la pioggia era sempre causa di traffico quindi avevo preferito anticipare. L’imponente struttura dai muri chiari e dalle innumerevoli vetrate blu si presentò sotto ai miei occhi giusto quaranta minuti dopo e l’insegna che indicava ‘LondonCityAirport’ mi diede conferma che ero arrivato. Dopo aver trovato parcheggio mi spostai all’interno, dove numerose persone aspettavano i propri cari davanti le porte scorrevoli che lasciavano vedere poco, tanto per aumentare l’ansia. Fremevo, ero impaziente e, per occupare il tempo, osservai il tabellone dei voli in arrivo con le rispettive provenienze e gli orari previsti.
Gli aeroporti mi erano sempre piaciuti, quasi mi appassionavano.
Quando ero piccolo fremevo all’idea di andarci anche solo per andare a prendere qualcuno di cui neanche mi importava; avevo sempre amato vedere gli aerei volare.
 Ad ali spiegate, alla libertà, a colori, ad aquiloni, alla felicità, a quello pensavo quando ne vedevo uno risaltarmi all’occhio fra le nuvole.
Ricordai quando, all’età di sei anni, mano nella mano con mia madre, ero sfuggito alla sua presa ed ero corso ad appiccicare il naso sulla vetrata che si affacciava alla pista, solo per vederne uno decollare da più vicino.
Il lento spostarsi dell’aereo sulla pista, il rumore forte generato dal motore e la corsa per il decollo, con le ruote a stridere sull’asfalto. Quello mi era sempre piaciuto, e mi era sempre piaciuto fotografarlo. Tenevo la mia Nikon in fondo all’ultimo cassetto del mio comodino, non la prendevo in mano da troppo tempo, ma ciò che mi era successo mi aveva fatto accantonare tutto ciò che prima ritenevo importante.
 Ma quella volta collegai il tremore alle mani con l’ansia che avevo nel rivedere il mio migliore amico dopo settimane. Ricordai che tenevo ancora la busta bianca nella tasca destra del giubbotto.
Infilai la mano in tasca e la tirai fuori. La aprii, notando immediatamente la semplicità del foglio di carta che tirai fuori. Due cuori uniti in cima e subito sotto la stampa nera, senza sbavature, in corsivo, che riportava due nomi, uno dei quali apparteneva a Luke, il figlio del mio principale, nonché mio collega e amico, il secondo era quello di una donna, Rose, anche lei un’amica. Un invito al loro imminente matrimonio.
Sorrisi. Leggendo il resto dell’invito, scoprii che fosse solo una settimana dopo –era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che avevo aperto la cassetta delle lettere- e che si sarebbe tenuto nella chiesa di Our Lady of the Holy Souls, non molto lontano da casa mia.
Mi distrassi solo quando una mano, che conoscevo fin troppo bene, mi toccò la spalla facendomi sussultare.
«Voglio venirci anch’io a questo matrimonio».
Mi voltai verso quel viso che avevo sperato di vedere da un po’. Riconobbi immediatamente i suoi grandi occhi smeraldo, le sue labbra rosse e i suoi ricci ribelli. Stesi le braccia verso di lui e lo abbracciai. Harry, il fratello che non avevo mai avuto, mi era mancato parecchio.
Non mi importò della gente che ci fissava, era tornato ed ero felice.
«Carenza d’affetto, Payne?» domandò, quando ci fummo staccati.
«Nah, mi mancavi e basta, ho tante cose da raccontarti, andiamo» dissi, riponendo la busta nella mia tasca e circondandogli le spalle con un braccio, dopo avergli tolto uno dei due trolley dalle mani.
In macchina lasciò parlare me tutto il tempo.
Quello che più mi piaceva di lui era che mi permetteva di parlare a ruota libera, fermandomi solo quando aveva da pormi qualche domanda. Mi dimostrava davvero d’essere interessato a me, mi ispirava fiducia, e non potevo che concedergliela. Gli raccontai dell’incontro con Zayn, della ragazza dell’Heaven e di quella frase che era rimasta impressa nella mia mente, delle mie continue ansie e pensieri, della passeggiata a Wolverhampton con mia sorella, del suo pianto e di tutto ciò che mi aveva turbato nelle ore seguenti.
«Ecco perché quelle occhiaie, Liam. Almeno la notte dovresti dormire invece di rimuginare» sentenziò.
Annuii, tenendo lo sguardo sulla strada. «Non è vero che sei egoista. Ti crei anche problemi che non esistono, non credo che i tuoi genitori pensino questo di te; per cui, non dovresti pensarlo neanche tu».
Forse aveva ragione, mi stavo addossando certi problemi inutili quando ne avevo già troppi da superare.
I miei genitori mi avevano consigliato uno psicologo ma io avevo rifiutato, Harry mi bastava. In meno di un ora mi aveva già tolto un peso dalla bocca dello stomaco.
Lo lasciai a casa con la promessa che ci saremmo rivisti il giorno dopo, nel pomeriggio. Lui aveva bisogno di riposare dopo il viaggio e io avevo bisogno di rilassare i miei nervi, lasciare entrare Zayn fra i miei pensieri e, magari, spolverare la macchina fotografica che era rimasta per troppo tempo sotterrata fra i miei indumenti.
 
 
Il resto della settimana trascorse normalmente, solo con qualche indumento in più addosso poiché l’inverno alle porte si faceva sentire.
Ogni tanto mi lasciavo trasportare dai soliti brutti pensieri, gli incubi cominciavano a lasciarmi un po’ di pace per dormire, anche se facevano spesso capolino durante il mio sonno.
Non vidi Zayn durante quella settimana; ero entrato tutti i giorni al parco nella speranza di intravedere il suo ciuffo e incontrare quegli occhi bellissimi, ma non successe. Immaginai che avessimo orari diversi per andare al parco, e mi preoccupai soprattutto del fatto che avrei potuto non rivederlo più.
 
Era ormai venerdì sera, fortunatamente non avevo il turno serale all’Heaven quindi avevo invitato Harry a casa mia per passare un po’ di tempo insieme.
Passammo la maggior parte del tempo a divertirci con Fifa, a lanciarci popcorn e caramelle gommose e a ridere fra le chiacchiere. Naturalmente mi domandò di Zayn, sorprendendomi dato che avevo creduto che fosse passato sopra quell’argomento, sottovalutandolo. Mi ritrovai imbarazzato, ma felice: il mio migliore amico era tornato, la mia quotidianità era tornata.
Il giorno dopo, sabato, mi alzai verso le 9:30, dopo la mia corsa feci una doccia ed uscii di per andare dal barbiere per un taglio di capelli e passare a prendere il mio completo nero in tintoria.
Uscii di casa per le 15:30, la cerimonia sarebbe iniziata per le quattro e, nonostante il fatto che per arrivare ci avrei messo meno di un quarto d’ora, preferivo sempre essere puntuale.
Come previsto, arrivai circa con quindici minuti d’anticipo. Parcheggiai non molto lontano dalla chiesa, scesi dalla macchina e chiusi lo sportello. Osservai il mio riflesso nel vetro dell’auto, aggiustai la mia cravatta e iniziai a camminare verso l’imponente struttura. Salii le scale che mi separavano dall’ingresso, quando entrai rimasi sorpreso. L’ampio spazio era quadrato, con numerose panche in legno scuro divise in due file ai cui margini erano stati legati dei piccoli bouquet con ortensie bianche e spighe, legati con tessuti d'organza. Il tappeto rosso lungo la navata centrale era ricoperto da petali bianchi, l’aria sapeva di fiori, e mi faceva pensare alla primavera. L’abside era decorata con gli stessi bouquet delle panche: era tutto molto elegante. Gli invitati erano già numerosi. Preferii sedermi in una delle ultime panche per aspettare Louis, che sarebbe dovuto arrivare. Continuai a guardarmi in torno; c’era gente in piedi che chiacchierava, donne che osservavano e indicavano estasiate le decorazioni suntuose. Qualche minuto dopo arrivò Louis, che si sedette al mio fianco, e, subito dopo, arrivò lo sposo seguito dalla madre. Luke era visibilmente nervoso, io e Louis lo salutammo e gli porgemmo i nostri auguri, suggerendogli di respirare. La sposa, come sempre, era in ritardo. Arrivò una decina di minuti dopo l’orario previsto. Il chiacchiericcio si affievolì solo quando davanti l’enorme porta d’ingresso spalancata, fecero capolino i fotografi e i loro immancabili flash.
La sposa fece il suo trionfale ingresso a braccetto col padre, preceduta dalla damigella e dal paggetto con in mano il bouquet e le fedi nuziali. Quando la marcia nuziale partì, la donna che Luke aspettava all’altare attraversò la navata sotto gli sguardi dolci, attenti e curiosi di tutti. Rose era molto bella, anche lei visibilmente tesa. Le sorrisi quando passò vicino a noi e lei ricambiò affettuosamente.
 
La cerimonia stava per volgere al termine, quando la porta d’ingresso della chiesa si spalancò e fece capolino un ragazzo esile e ansante. Non se ne accorse quasi nessuno dei presenti, mi girai io e qualche altro nelle ultime file. Indossava il completo nero con la giacca sbottonata e la solita camicia bianca, i capelli castano scuro erano tirati indietro col gel e qualche ciuffo cadeva sui lati e aveva il papillon slegato sul collo. Era più che bello. Poi osservai il suo volto e il mio cuore balzò nella cassa toracica.
Non avevo visto qualcuno di così bello tranne… Zayn.
Era lui, era lì, a pochi metri da me.
Istintivamente afferrai e strinsi il braccio di Louis al mio fianco, che armeggiava con la sua digitale. Si girò di scatto e mi osservò. Io non avevo staccato gli occhi da Zayn che cercava disperatamente di non fare rumore e di farsi notare da meno gente possibile. «Liam, che ti prende?» mi domandò in un sussurro.
Seguì istintivamente il mio sguardo e inizialmente non capì, aggrottando le sopracciglia. Poi notò il ragazzo e, grazie alle mie innumerevoli descrizioni, intuì e sorrise maliziosamente.
«Zayn, vero?»
Annuii furiosamente.
«Forse dovrei.. uhm..», Louis mi interruppe.
«Smettere di fissarlo?» completò la frase per me. Mi costrinsi a non guardarlo. Louis rise ancora.
«Liam innamorato, oh che carino!» scherzò.
Gli lanciai uno sguardo truce.
«Non sono innamorato, so a malapena il suo nome».
«Cerca un posto, il ragazzo. Può sedersi qui. Ora ci penso io» disse, spingendomi con un fianco.
«No, Louis, no. Sta’ fermo» dissi, afferrandogli un braccio inutilmente.
Il mio migliore amico, piuttosto che ascoltarmi, si sporse fuori dalla panca verso Zayn, che stava un paio di metri dietro di noi.
«Amico» attirò la sua attenzione, «se cerchi posto, puoi sederti qui».
Avrei voluto prendere una pala, scavarmi una fossa e saltarci dentro per evitare l’imbarazzante momento.
Evitai di voltarmi verso Zayn e non sentii alcuna risposta, mi limitai a sussurrare a Louis una minaccia.
La coppia di signori alla nostra destra si voltò a guardarci e io arrossii ancora di più, se fosse stato possibile.
Pochi secondi dopo Zayn era accanto a Louis, ancora col fiatone e il papillon slegato sul collo.
Non sapevo se fingere di non vederlo, lui probabilmente neanche si ricordava più di me.
Finsi di provare interesse per gli sposi che firmavano il registro, mentre combattevo con tutte le mie forze per non guardarlo.
«Liam».
Voltai la testa in un semplice e rapido movimento, e trovai i suoi occhi vicini, solo Louis ci divideva.
«Zayn» sussurrai, a corto di fiato e parole.
Avrei voluto dirgli che lo trovavo bellissimo, che avevo pensato che non mi avesse riconosciuto e che non ci saremmo più rivisti e chiedergli cosa ci faceva lì,  ma le mie corde vocali e il mio cervello stavano complottando per non farmi fiatare.
Allargò le labbra in un sorriso e non potei fare a meno di ricambiare, sperando che il rossore sulle mie gote fosse sparito. Louis ci fissava con un ghigno. «Uh, ehm.. lui è Louis» dissi, indicando il mio amico che istintivamente gli porse la mano. Il moro gliela strinse, poi tornò con gli occhi su di me.
«Parliamo fuori di qui» disse, cercando di sistemarsi disperatamente i capelli. Io annuii, incapace di aggiungere altro.
Da quel giorno tutto potevo aspettarmi, tranne che quell’incontro.
Il mio cuore sembrava impazzito, dovevo decisamente darmi una calmata. Louis ghignava ancora e non sapevo se ringraziarlo o prenderlo a calci.
La cerimonia terminò, ci spostammo tutti all’esterno della cappella e aspettammo che gli sposi andassero via.
Avevo perso di vista Zayn, così proposi a Louis, che era venuto a piedi da casa, di andare in sala con la mia auto.
«Io ti aspetto qui, c’è Calvin, devo dirgli se può cambiarmi il turno di domani, voglio fare il turno con te» spiegò, io annuii e cominciai a camminare verso la macchina.
Arrivato davanti il mio BMW osservai il mio riflesso, per vedere in che stato ero. Il mio colorito era tornato normale, fortunatamente. Alzai una mano a toccare il filo di barba sulla mascella.
«Ti sta bene la barba» disse qualcuno alle mie spalle. Zayn.
«Tu si che sai come sorprendermi» dissi, trovando una dose infinita di coraggio.
Sorrise, alzando un angolo delle labbra.
«Vieni qui, ti aggiusto quell’affare» dissi, riferendomi al papillon.
Pensai immediatamente d’aver dimenticato di aver staccato la spina al filtro cervello-bocca.
Si avvicinò, così tanto che potei sentire il suo profumo; era proprio come lo ricordavo.
Lo superavo in altezza di qualche centimetro, sentivo il suo respiro caldo sul viso.
Allacciai l’ultimo bottone della sua camicia, e feci il nodo con mani tremanti. Lui sorrideva.
Quando finii, lo raddrizzai e feci un passo indietro.
«Grazie» disse, specchiandosi.
«Come stai?» mi domandò.
Nella mia testa frullavano tante di quelle cose che, per dirgli che stavo bene, persi qualche secondo.
«Sto bene, e tu?»
«Bene. Ho creduto che non ci saremmo più rivisti» fu sincero.
«Anche io. Sono entrato tutti i giorni al parco, ma non ti ho visto» fui sincero anch’io, volevo esserlo.
Di’ sempre quello che pensi, Liam.
Lui annuì.
«Liam, credi nel destino?» domandò di getto, cambiando argomento.
Non ci avevo mai pensato, ci credevo?
«Io.. forse. Tu?»
«Non lo so neppure io, ma destino o meno, siamo qui e sono contento di esserci».
Il mio cuore balzò, ero visibilmente contento anche io.
«Già, anch’io».
Lui annuì e sorrise ancora una volta. Giurai sentire il mio cuore sprofondare, il suo sorriso era bellissimo. Lui lo era e mi stava parlando, era a due spanne da me. «Zayn, sei bellissimo».
Lo dissi senza pensarci, senza fare due più due, senza pensare alle conseguenze che avrebbero potuto farlo scappare. Impiegò qualche secondo a rispondere, in quel lasso di tempo che ai miei occhi apparve una vita. Un nodo mi strinse la gola; forse avevo esagerato.
Sei il solito paranoico.
«Anche tu sei bellissimo» rispose, alla fine.
Provai un fremito, un brivido, un qualcosa di piccolo ma forte. Risposi con un semplice sorriso.
Poi ricordai che Louis mi aspettava davanti la cappella e che probabilmente mi avrebbe ucciso.
«Bene, Louis mi aspetta. Ci vediamo dopo, in sala?» domandai, celando la speranza nel mio quasi naturale tono di voce.
 «Certo, a dopo».
 
Louis salì in macchina sbuffando.
«Avrei potuto vedere un’altra messa, nel frattempo» scherzò.
«Sta’ zitto, ho parlato con Zayn» spiegai.
«Oh, i piccioncini. Che vi siete detti?» mi punzecchiò.
«Non sono affari tuoi» scherzai io.
«Ah si? Ok, Lee, ok» si finse offeso.
Pochi secondi dopo iniziai a raccontargli della chiacchierata.
Rise quando gli raccontai del ‘sei bellissimo’ che avevo detto senza pensarci.
«Sei stato molto coraggioso. Mi sorprendi, Payne e questo mi piace» disse, dandomi una pacca sulla coscia.
Sorrisi, tenendo ancora lo sguardo sulla strada. Mi sorprendevo da solo.
Nei piccoli momenti di silenzio, durante la strada in macchina, mi concessi di lasciare entrare Zayn fra i miei pensieri.
Zayn che, dopo Harry e Louis, nonostante conoscessi pochissimo di lui, sembrava così vicino a me più di chiunque altro e mi chiedevo come fosse successo.
Dovevo andarci piano, dovevo tenere i piedi saldi per terra e non assicurarmi un decollo che sarebbe terminato, poco dopo, con un brusco atterraggio.
 
Quando arrivammo al locale, c’era già qualcuno degli invitati. Io e Lou, scesi dall’auto, ci concedemmo di osservare il panorama oltre la ringhiera in legno. Sotto i nostri occhi si estendeva un tramonto di fuoco, di un arancio sgargiante, mischiato col giallo. Il sole stava lentamente calando dietro le rocce e illuminava e riscaldava flebilmente tutto lo spazio circostante. Sulla nostra sinistra, non molto distante, c’era una piccola isola rocciosa dove i gabbiani si posavano per riposarsi. Era splendido. Istintivamente estrassi la mia macchina fotografica dalla custodia, e scattai una foto a quella meraviglia.
Mi piaceva immortalare attimi di paradiso.
Mi voltai, ancora con la digitale fra le mani, quando sentii delle ruote stridere sull’asfalto.
Riconobbi Calvin al volante dell’Audi A4 con accanto la sua fidanzata. Mi salutarono con un cenno che ricambiai e, quando ci raggiunsero, entrammo all’interno del locale.
Venimmo accolti dai soliti uomini stretti nella formale divisa in bianco e nero, che ci indicarono i nostri posti.
Entrammo in una sala di forma esagonale, prevalentemente bianca. Il corridoio centrale era libero e i tavoli sparsi sui due lati della sala erano rotondi; ognuno aveva al centro una boccia in vetro con due bellissime ed eleganti ortensie bianche, contornata da petali di rosa che rendevano l’aria profumata.
Io e Louis stavamo al tavolo con Calvin, la sua ragazza e altre due colleghe.
Quando iniziarono a servire, non ero ancora riuscito a beccare Zayn.
Pensandoci, non sapevo neppure cosa ci faceva lì.
 
Quando finimmo di mangiare il secondo, parlammo fra noi del più e del meno.
Improvvisamente, Louis mi diede un calcio sotto il tavolo. La mia espressione cambiò repentinamente e mi voltai verso di lui con uno sguardo truce. Se voleva farmi notare qualcosa non c’era bisogno di amputarmi una gamba.
«Ahia, mi hai fatto male» sussurrai a labbra strette, lui rise e capii con gli occhi che avrebbe voluto dirmi ‘poi mi ringrazierai’. Una mano si posò sulla mia spalla. Mi voltai e stiracchiai le labbra in un sorriso; sapevo a chi apparteneva. Alzai gli occhi sul suo viso.
«Ti va se usciamo a fare due chiacchiere?» domandò, spostando la mano dalla mia giacca. Io annuii senza voltarmi, sapevo che tutti ci stavano fissando e mi alzai, iniziando a camminare verso l’uscita della sala.
Rispetto all’interno, fuori la temperatura era molto bassa. Soffiava un vento freddo che entrava nelle ossa. Mi strinsi nella mia giacca che mi parve improvvisamente troppo leggera.
Ci fermammo in uno stretto cortile, con dei divanetti semplici in vimini. Mi sedetti su uno di quelli e lui di fronte a me. Estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette e un accendino, si mise una sigaretta fra le labbra e velocemente la accese.
«Come mai sei qui?» domandai.
«E’ un matrimonio, sono stato invitato, come te» scherzò.
«Intendo..» iniziai.
«Lo so che intendevi» mi interruppe. «Rose. E’ una mia amica d’infanzia, anche se ultimamente ci eravamo un po’ persi di vista, mi ha invitato.» spiegò. Io annuii.
Iniziammo a chiacchierare, facevo domande a lui e lui a me. Mi sentivo a mio agio, stavo bene.
Mi sentivo sollevato da tutti i miei pensieri e dalle mie ansie. Passammo circa mezz’ora insieme, fuori, e riuscimmo a parlare di moltissime cose.
Certo, Zayn era un ragazzo parecchio misterioso e anche complicato.
Da certe sue frasi e allusioni, avevo intuito che anche il suo passato non era stato dei migliori, ma non ci eravamo spinti fino a raccontarci ciò che in quel momento ci aveva resi ciò che eravamo. E sperai che potessimo avere altro tempo per conoscerci meglio.
In quel poco tempo che avevamo passato insieme mi ero reso conto di adorare le sue labbra, il suo modo di parlare, di sbiascicare le parole, il suo accento.
Quando rientrammo ci separammo di nuovo. Dovetti sopportare le frasi provocatorie di Louis, ripromettendomi di fargliela pagare. La serata finì e fra dolci, balli e cocktail mi sentivo sfinito e volevo andare a casa.
Quando uscimmo la notte era ormai calata portandosi dietro il gelo. Prima di salire in macchina, fermai Zayn per salutarlo.
«Bé, io vado, Zayn».
«Anch’io sto andando a casa. Ci sentiamo Liam, no?»
Avrei voluto rispondergli di sì ma mi chiedevo come avremmo fatto. Avevo ormai la mente offuscata, la stanchezza e l’alcool avevano fatto il loro lavoro, ma la serata non sarebbe potuta andare meglio.
«Facciamo così, lasciami il tuo numero» disse, io annuii e gli passai il mio cellulare in modo che memorizzasse il suo numero e si annotasse il mio.
Neanche mi rendevo conto di ciò che stava accadendo. Forse perché non ero più abituato a persone che mi facessero sentire così bene a primo impatto e ne ero davvero sorpreso.
«Zayn, ti va se scattiamo una foto insieme?» domandai, ancora una volta sfacciato.
Annuì sorridente. Velocemente scattai la foto, e ne scattai una solo a lui, senza che se ne accorgesse.
Ci salutammo con un sorriso e un semplice ‘buonanotte’.
Dopo aver lasciato Louis a casa, arrivai al mio appartamento.
Indossai il pigiama, senza curarmi d’aver lasciato tutti i vestiti in giro per casa. Mi gettai sul letto, esausto.
Esausto, sì, ma mai abbastanza da non pensare.
Mi resi conto, incredulamente, che ciò che era successo in poche ore stava facendo emergere una minuscola, ma visibile, parte della mia persona: quella che avevo sotterrato.
Prima di scivolare nel sonno, presi in mano la mia Nikon. Fra le numerose foto del giorno, c’era naturalmente anche quella di Zayn. La aprii: alla luce dei lampioni della strada i suoi occhi luccicavano e, forse, anche per l’alcool. In quel momento, capii che mi piaceva davvero immortalare attimi di paradiso.











Le canzoni sono 'demons' degli Imagine Dragons e 'feel again' degli OneRepublic.



Ciao belli/e. (si, mi illudo ci siano anche ragazzi)

In questo capitolo troviamo un Liam che torna a Wolverhampton, l'immergersi nel suo passato gli mette addosso altri dubbi e lo turba ancora di più, lo fa star male tanto che decide di non tornarci davvero più. Poi, fortunatamente, Harry torna e gli mette un po' la testa a posto, santo ragazzo.
Col matrimonio (idea strana) rincontra Zayn, e Louis fa un po' da cupido. E lo farà ancora (lol).
Nel prossimo capitolo, troveremo delle novità per quanto riguarda la vita di Liam, naturalmente per gli ziam e per i larry *coff coff*....... 

Ora vado a dormire, rischio d'essere uccisa da mio padre.
Non ho riletto quindi, se ci sono errori, fatemelo notare, per favore.

Ringrazio chi ha recensito, messo fra le seguite e fra i preferiti. Se mi lasciate un parere qui, non mi dispiace, ewew.
Spero a presto, 
-Chiara. 
:*





 

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Capitolo 4
*** Mirrors. ***


Baby you’re the inspiration for this precious song
And I just wanna see your face light up since you put me on
So now I say goodbye to the old me, it’s already gone
 
 
 
 
 
 
 
Il giorno dopo il matrimonio –domenica- lo avevo passato perlopiù a dormire, mangiare e dormire ancora. La mezza sbornia mi aveva causato un leggero mal di testa, e avevo deciso così di oziare tutto il giorno, alzandomi solo per andare in bagno, prendere qualcosa da mangiare, e andare ad aprire la porta al riccio che aveva fatto irruzione in casa mia per sentire tutti i dettagli del matrimonio.
 
La notte fra domenica e lunedì, la trascorsi parzialmente bene, insieme al solito incubo insistente, avevo sognato il calore degli occhi di Zayn, e mi ero svegliato quasi di buon umore.
Rimandai la mia corsa al tardo pomeriggio.
Intenzionato a pulire casa e fare colazione fuori, accesi lo stereo e la casa si riempì delle note di “Talk Dirty”, di Jason Derulo. Iniziai a cantare, mentre mi muovevo velocemente per casa. Usavo il bastone della scopa per cantare, e come palo da lap dance e, quando la canzone finì, risi, credendo che se qualcuno mi avesse visto mi avrebbe preso in giro a vita.
 
 
Uscii di casa con indosso un paio di jeans stretti, una felpa grigia e il giubbotto pesante. La giornata era fredda, come ogni normale giornata invernale. Il cielo era semi coperto da nuvole grigiastre, che prospettavano pioggia.
Camminai verso il bar più vicino casa, quello dove andavo di solito. Un locale piccolo e molto intimo sempre con poca gente. Spinsi la porta, entrando, mi sedetti nel tavolo all’angolo, quello più appartato. L’aria era impregnata dell’odore di caffè. Quando la cameriera rossa, con delle carinissime lentiggini sul viso, mi raggiunse per chiedermi cosa prendevo, ordinai dei pancake e un cappuccino, avevo voglia di dolci.
Mi persi ad osservare la strada, aspettando la mia ordinazione, e tornai a guardare il locale solo quando il mio cellulare vibrò nella tasca destra dei jeans. Lo presi in mano, aprendo la casella dei messaggi.
-Buongiorno LeeLee, stasera turno insieme!-
Louis.
Risposi digitando velocemente i tasti sullo schermo.
-Buongiorno! Non vedo l’ora di fartela pagare per sabato ♥ -
Sorrisi rileggendo il testo del messaggio. La cameriera tornò al tavolo con il mio cappuccino e i pancake, e, dopo averla ringraziata, iniziai a mangiare. Il cellulare –che avevo posato sul tavolo- vibrò di nuovo.
-AHAHAHAH, non aspetto altro! L+Z forever!!! ♥♥ -
Risi, scuotendo la testa; Louis riusciva a farmi ridere e mettermi in imbarazzo anche tramite sms.
-Smettila, tappo.- risposi, bevendo un sorso di cappuccino.
Mi leccai la schiuma dal labbro superiore, e il telefono vibrò ancora.
-Non sono io basso, sei tu che sei troppo alto.
PS: mi hai ferito Risi ancora. Alzai lo sguardo per assicurarmi che nessuno mi osservasse. Un'altra volta la vibrazione mi distrasse, aprii il messaggio e mangiai un boccone dei miei pancake al caramello.
-Buongiorno :)-
Zayn.
Quasi mi strozzai con l’impasto. Fissai lo schermo per alcuni secondi, poi risposi con le dita tremanti.
-Buongiorno, Zayn!-
Prima di inviare provai mille soluzioni, cancellando altrettante volte.
 
Quando finii la colazione, dopo aver pagato il conto, lasciai il locale.
C’era anche vento freddo, mi strinsi nel giubbotto nero, pentendomi di non aver portato con me un cappello e una sciarpa.
Risposi al messaggio di Louis, che avevo dimenticato. –Scusa Lou, Zayn mi ha mandato un sms e stavo per strozzarmi. Dovrei smetterla di comportarmi come una tredicenne in piena crisi ormonale L-
Passò al mio fianco un ragazzo biondo ed esile e mi fermò. Doveva avere circa la mia età. «Posso parlarti un secondo?» mi domandò.
«Certo» annuii, lasciandolo parlare.
Visibilmente nervoso, iniziò a parlarmi del Chelsea Arts College, una sorta di università, che comprendeva tantissimi corsi di specializzazione.
Mi consegnò un volantino che guardai di striscio, mentre mi parlava. Mi disse che c’erano numerosi corsi, fra i quali quello di design, fotografia, musica e arte; che i corsi iniziavano la settimana dopo e che se mi fossi iscritto non me ne sarei pentito. Prima di lasciarmi, mi disse che sperava di rincontrarmi fra i corridoi del college.
Chissà come, chissà perché, aveva smosso qualcosa in me, nel mio cervello; mi aveva quasi convinto.
Forse quella era l’opportunità che cercavo, ma che non ero ancora riuscito a trovare.
Dopo aver ringraziato il ragazzo, mi incamminai verso casa, ripromettendomi di informarmi meglio e pensarci su ancora.
Arrivato al mio appartamento, presi il mio pc e mi tuffai fra i morbidi cuscini del mio divano. Entrai sul sito del college, sulla lista dei corsi, cliccai sul link che indirizzava alla pagina del corso di fotografia.
 
 
 
Pranzai solo con della frutta. Nel primo pomeriggio chiamai Harry.
«Buongiorno Lee.» esordì, con la voce più roca del solito. «Buongiorno? Sono quasi le quattro di pomeriggio e mi dici buongiorno? Hai il fuso orario, per caso?»
«Amico, frena. Troppe domande in una volta, ho ancora bisogno di dormire» disse, in un sonoro sbadiglio.
Ridacchiai. «Che hai combinato per dormire ancora a quest’ora?» chiesi. «Stamattina mi sono svegliato presto, ho ripreso il lavoro, ti ricordo. Quindi quando sono tornato a casa mi sono riaddormentato, idiota.» spiegò, sottolineando l’ultima parola. «Hey!» protestai.
La sua risata arrivò al mio orecchio, «Facciamo una cosa, più tardi passo a trovarti all’Heaven, ora torno a dormire, a dopo.» sbiascicò. Poi, senza darmi il tempo di replicare, riattaccò.
 
Tornato dalla mia corsa, feci una doccia e mi preparai per andare al locale. Essendo un lunedì sera, sarebbe stato quasi completamente deserto, quindi la serata piuttosto tranquilla. Fissai i capelli col gel, indossai le mie Nike e quando fui pronto uscii.
Arrivato al pub, mi guardai in giro, c’era poca gente e Louis non era ancora arrivato.
 
 
-LOUIS-
 
Suonai il clacson insistentemente un’altra volta. L’ennesima. Il mio turno iniziava alle 19:00 e l’orologio sul cruscotto della mia auto segnava le 19:07 e io ero ancora bloccato nel traffico serale di Chelsea. Mi ritrovavo in una stradina piuttosto stretta a senso unico, con un’unica corsia. Le auto fiancheggiavano il marciapiede ambo i lati. Senza quelle passare sarebbe stato più facile.
 Afferrai il cellulare che avevo malamente abbandonato sul sedile del passeggero, e mandai un sms a Liam.
-Bloccato in mezzo al traffico. Se Cooper rompe, coprimi. Grazie x-
Lanciai di nuovo il cellulare sul sedile al mio fianco. Sbuffai, poggiando il gomito sinistro sulla sporgenza della portiera e la mano destra sul volante. Abbassai ancora il finestrino di qualche centimetro, e mi passai nervosamente una mano fra i capelli. Non che mi fosse mai importato di arrivare in ritardo, ma dovevo andare a lavoro, e di perderlo non ne avevo proprio la voglia, ne l’intenzione.
Premetti ancora una volta il palmo della mano sul volante, riempiendo l’abitacolo di quel suono fastidioso quanto inutile. «Volete muovervi?» urlai, sporgendomi fuori dal finestrino. Sbuffai ancora sonoramente, abbandonandomi definitivamente con la schiena sul sedile.
Il semaforo a qualche metro di distanza diventò verde, ma le macchine davanti alla mia, non accennavano a muoversi. Il rosso durava una vita, il verde solo il tempo di un respiro. Non ce l’avrei fatta.
«Il tè prendetelo a casa, non in macchina, Cristo!» strepitai ancora, in preda alla disperazione.
19:16. Ci eravamo mossi di qualche centimetro. Il semaforo era rosso, ancora una volta. «Qualcuno qui rischia di perdere il lavoro. Vi date una mossa!?» insistei ancora, quando scattò il verde. Sentii arrivare alle mie orecchie qualche parolaccia, naturalmente, non me ne curai, anzi ridacchiai. Il clacson della mia auto, nonostante fosse fastidioso, mi divertiva. Anche se nel mio ritardo di venti minuti non c’era proprio niente di divertente.
Mi resi conto che quando ero nervoso piangevo o ridevo istericamente. In quel momento ridevo, senza un valido motivo. Controllai il mio riflesso allo specchietto retrovisore,  i capelli erano a posto.
Riuscii a liberarmi da lì –finalmente- circa cinque minuti dopo.
Nei successivi cinque, stavo già parcheggiando a pochi metri dal locale. Alzai gli occhi sullo specchietto, pronto a fare manovra per stringere la macchina al marciapiede di fronte l’Heaven, quando un tonfo più rumoroso e vicino del dovuto mi scosse. Nell’impatto, anche se non fortissimo, balzai avanti in uno scatto, riuscendo a non sbattere la testa contro il vetro. Alzai lo sguardo –assassino- sullo specchietto retrovisore, notai un Range Rover nero e enorme. Proprio quello che aveva appena urtato la mia mini, e il mio sistema nervoso. Spensi la macchina senza curarmi di non aver posteggiato bene come avrei dovuto, sganciai velocemente la cintura di sicurezza, scesi dall’auto sbattendo nervosamente e, forse, esageratamente forte la portiera che si chiuse in un tonfo sordo. Da quel suv scese un ragazzo: alto, magro, ricci disordinati, bandana sulla testa, fasciato in semplici jeans neri strappati sulle ginocchia e un largo maglione beige.
 Lo studiai per un paio di secondi con sguardo truce e lo riconobbi. Harry Styles. «Ma che cazzo fai?» sputai. Scattò verso di me in imbarazzo, passandosi una mano sulla nuca. «Oddio.» lo sentii mormorare, fermandosi fra la mia macchina e la sua. Alzò lo sguardo su di me, che avevo fatto qualche passo avanti e mi ero avvicinato per calarmi ad osservare il danno. Solo una piccola ammaccatura sul paraurti.
«Ti sei fatto male?» mi domandò, scrutando nel mio sguardo. «No.» dissi, atono.
«Io.. davvero, scusami, non l’ho fatto di proposito.» tentò di spiegare, si arrampicava sugli specchi, era quasi buffo. «Ci mancherebbe, a quest’ora ti avrei spaccato la faccia.» dissi schietto. Forse avevo esagerato con quella risposta tagliente, ma ero troppo nervoso. E la mia mezz’ora di ritardo al lavoro probabilmente Cooper me l’avrebbe fatta pagare. Lui non si fece intimidire dal mio tono di voce, che sembrò, piuttosto, far sparire il suo sguardo di scuse e il suo imbarazzo.  «E tu credi che te lo avrei lasciato fare, magari?» chiese, spavaldo.
Boccheggiai. Si avvicinò a me. La luce del lampione era ancora spenta, quindi non potei studiare i tratti del suo viso come avrei voluto.  «Ma sei coglione? Stavo per spaccarmi la testa nel vetro dal momento che neanche sai guidare.» gli urlai contro, prendendolo in giro.
«So guidare e di sicuro meglio di te, nano da giardino.»
«Porca miseria, Styles, stavi per distruggermi la macchina!» e la testa, aggiunsi mentalmente. Mi stavo infuriando davvero, ma la mia voglia di giocare e schernirlo non fece che essere alimentata. «E, per la cronaca, tu somigli ad una colonna greca con un cespuglio in testa.» dissi, nascondendo un sorriso.
Ignorò il mio insulto. «Ma se non ti ho neanche visto!»
«Non solo sei un coglione, ma sei pure cieco! Ma chi te l’ha data la patente?» risposi, infine, schernendolo ancora. Mi guardò con un finto sguardo serio.
«Senti, la tua macchinina è praticamente intatta, ti ho chiesto scusa, che altro vuoi, Tomlinson?»
«Risarcimento» sorrisi, sincero. Naturalmente scherzavo, ma lui evidentemente non afferrò.
«Ti offro una birra, ti basta?» disse, indicandomi con il pollice il locale alle nostre spalle.
L’insegna luminosa si accese giusto in quell’istante. Alzai gli occhi al cielo; la notte stava calando, e io iniziavo a sentire freddo.
«Io ci lavoro lì, e lo sai, e sarei pure in ritardo. La birra posso offrirmela da solo, grazie.» risi.
 Qualche secondo dopo, «Scherzo, entriamo, coglione».
 
 
 
-HARRY-
 
Quel ragazzo dagli occhi vispi a cui avevo urtato la macchina, mi si era piazzato minacciosamente davanti. Lo avevo riconosciuto immediatamente, Louis Tomlinson, l’amico stretto e collega di Liam. Lo avevo conosciuto all’Heaven, neanche ricordavo più quanto tempo prima, e lo avevo incontrato poi una sola volta, dal momento che i pub non mi piacevano completamente.
Era molti centimetri più basso di me. E quando era sceso dalla macchina imprecandomi contro, mi ero trattenuto per non ridere.
Quando mi piazzai fra le nostre auto, pronunciai quell’“oddio” che lo fece andare fuori di testa, facendogli temere il peggio, quando invece stavo solo scherzando. La sua auto era intatta, a parte una minuscola ammaccatura che neanche si notava. O almeno così credevo. La poca luce ci permetteva di vedere poco e niente. Ma, nonostante la semi oscurità, riuscii a scorgere l’azzurro dei suoi occhi. Erano piccoli, ma belli.
Gli domandai se si era fatto male, innocentemente e imbarazzato, ma quando iniziò a darmi contro, l’imbarazzo che mi ero dipinto addosso mi era scivolato via com’era arrivato.
I suoi occhi lo tradivano, mentre mi insultava, sembravano sorridere, e quell’espressione seria che, probabilmente, si era costretto a mettere su, non era tagliata per lui.
Lo osservavo mentre ci insultavamo, mi aveva chiamato “colonna greca con un cespuglio in testa”, nessuno mi aveva mai chiamato in quel modo, e non nascosi a me stesso che la cosa mi aveva divertito. Lo osservavo ancora mentre si mordeva nervosamente le labbra alla ricerca della risposta più adatta –e pungente- da darmi. E lo avevo trovato davvero bello.
Quando mi aveva chiesto –scherzosamente- il risarcimento avevo afferrato la palla al volo e gli avevo proposto di andare insieme a bere qualcosa, dimenticando che il locale che gli avevo indicato era quello dove lavorava. Nonostante ciò, entrammo insieme. Louis, pochi passi davanti a me, spinse la porta del locale. Lo spazio era ben illuminato. Si voltò verso di me e con un gesto veloce mi suggerì di seguirlo.
«So dove devo andare, cretino.» gli dissi.
Ghignò. «Sta’ zitto, idiota, vado a cercare Liam.» mi rispose a tono, sparendo dietro la porta dello sgabuzzino. Da quella stessa porta, pochi attimi dopo uscì un Liam tutto sorridente, che mi veniva incontro con un ridicolo grembiule nero.
«Ciao, Haz.» mi salutò col solito abbraccio veloce. «Il tuo amico è schizzato, Lee.» dissi, alludendo, naturalmente, a Louis. Lui rise, «Mi è parso leggermente nervoso. Che è successo?» domandò.
«Siamo arrivati insieme, stavamo posteggiando e non lo avevo visto, così per sbaglio l’ho urtato, la sua macchina non ha praticamente niente, ma ci siamo insultati comunque.» spiegai, con un mezzo sorriso stampato in viso, alzando le spalle. «Scherzava, era nervoso per il traffico, di certo. Non è un tipo così irascibile, Harry» lo giustificò, e io annuii, facendo spallucce.
«Tanto lo so che mi state sparlando, fate pure voi due.» scherzò Louis alle nostre spalle. Scoppiai a ridere, Liam mi seguì. Anche lui era stretto in quell’osceno grembiule, che lo rendeva ancora più basso di quel che era.
«Gli stavo solo raccontando quello che è successo, tappo.»
«Liam tienimi, potrei saltargli addosso e..» cominciò, ma lo interruppi. «Lo so che sono un figo da paura, che tutti vorrebbero saltarmi addosso, ma contieniti, siamo in pubblico.» dissi, lisciando le maniche del mio maglione. La mia frase suscitò la risata di Liam che non riuscì a trattenersi e che si piegò in due dalle risate dopo aver visto il visino di Louis, e le sue labbra a formare una perfetta ‘o’, per lo stupore. La risata del mio migliore amico mi costrinse a ridere di rimando, guardando un Louis fintamente offeso da me e dal castano al mio fianco.
«Liam, hai, anche tu, ferito me e il mio ego. Per quanto riguarda te, rimani un coglione, Styles.»
Risi ancora, non riuscendo a trattenermi. Nascose un sorriso, e girando sui tacchi andò dietro al bancone, giusto in tempo, perché qualche attimo dopo, una ciurma di ragazzi con dei borsoni in spalla fece capolino.
«Vado ad aiutarlo, questi qui ci distruggono il locale e poi Cooper distrugge noi. Siediti dove vuoi.» disse Liam, camminando frettolosamente verso il suo amico.
Mi guardai in torno. Il locale era abbastanza spazioso, la pista da ballo era deserta e la musica che diffondevano gli altoparlanti non era poi così alta e fastidiosa. C’erano diversi tavolini sparsi in sala, solo un paio erano occupati. In quello più in fondo ci stava un gruppetto di quattro ragazze tutte rigorosamente bionde e con la stessa divisa. Mi domandai se facessero parte di qualche strana setta, o gruppo di pazzi maniaci di ragazze bionde.
Risi di me stesso. Mi accorsi che ero rimasto diversi minuti impalato a pochi metri dall’entrata.
Quella mandria di ragazzi era stata calmata progressivamente. Doveva essere una squadra di calcio che aveva appena finito un allenamento e che si riversava sull’alcol per scaricare la stanchezza.
Mi accomodai nello sgabello all’estremità del bancone. Il sedile era in pelle rossa, con la spalliera in legno nero e il poggiapiedi, che non esitai a sfruttare.
Osservai come quei due lavoravano in sintonia. Si suggerivano cose a vicenda, e chi finiva per primo alleggeriva il lavoro all’altro.
Dopo aver scrutato nello sguardo del mio migliore amico, ed avendoci trovato tranquillità, mi concentrai solo su Louis.
 
 
 
 
-LIAM-
 
 
Notai lo sguardo attento di Harry a scrutare il mio amico, proprio alla mia sinistra, sorrisi. Lui e Harry avevano iniziato col piede sbagliato, ma come coppia ce li avrei proprio visti insieme, sarebbe stato divertente. Sarebbero stati una scintilla, una miccia pronta a far saltare tutto in qualsiasi momento, situazione e a qualsiasi passo falso.
Per un attimo il riccio tornò a guardare me, e dopo avergli fatto l’occhiolino –di cui lui aveva colto il significato-, ero tornato a pulire i bicchieri dentro il lavabo.
Harry aveva deciso di aspettare che finissi il turno. Cooper, notando il locale deserto, ci aveva dato –stranamente- il permesso di finire poco dopo mezzanotte.
Io, Louis ed Harry, una volta fuori, ci eravamo ritrovati al parcheggio in un’imbarazzante situazione: non avevamo idea di che fare.
«Dato che abbiamo finito presto che si fa?» domandai.
Il più piccolo, anche se il più alto, aveva squadrato Louis per tutta la sera, e sapevo che quegli sguardi erano stati dettati da un suo particolare interesse nei confronti del mio cupido personale.
Alla mia domanda avevano risposto tutti e due con un’alzata di spalle. «Molto d’aiuto entrambi.» mormorai.
«Allora, coglione, che si fa?» domandò Louis, non aspettandosi una vera risposta. «Potresti tipo andartene a casa e sparire dalla mia vista dato che per oggi hai fatto abbastanza» continuò, appunto.
Risi, era palese che stesse scherzando, ed Harry, da bravo osservatore, lo aveva già capito.
Mi chiedevo continuamente come facesse quel ragazzo. Gli bastava osservare gli occhi, le espressioni del viso e i gesti delle persone, per capire un po’ del loro carattere, dei loro pensieri. Mi stupiva, ogni giorno, anche se avrei già dovuto essermi abituato.
«Perché non te ne vai tu? E a che ci sei passa dalla discarica e restaci, faresti un favore a me e all’intera umanità.» lo punzecchiò il riccio. Il più basso, per tutta risposta, alzò il medio in sua direzione. Poi, scoppiammo a ridere tutti e tre insieme. «Andiamo a casa mia, cretini.» sentenziai.
«Liam, pensavo mi avresti difeso.» disse Louis, con un finto broncio, accoccolandosi al mio petto. Gli cinsi le spalle con un braccio, ridendo. «Guarda che Liam a malapena ti sopporta, figurati se ti difende.» disse Harry.
Louis si scostò dal mio petto e gli puntò un dito contro il petto, «Senti, Mr. Styles sono figo e so tutto io, Liam vuole più bene a me che a te.» gli rispose Louis, allargando le labbra in un sorriso a labbra strette.
Quella era la solita espressione che io definivo ‘da schiaffi’. Risi, ascoltando il loro acceso scambio di battute.
Si conoscevano appena, e si punzecchiavano già a tale modo. Ne avrei viste delle belle.
«Puffo, dovresti scendere dal trono. Quanti anni hai, due?» lo beffeggiò, ancora, il più piccolo. «Aggiungi un secondo due.» disse Lou. «Quattro?» scherzò Harry, strabuzzando gli occhi. Louis si portò le mani alle tempie.  «Smettetela, basta. Andiamo a casa mia.» dissi, frapponendomi fra i due, afferrandoli per i loro rispettivi colletti.
Durante il viaggio in macchina risi ancora, non avevano smesso un attimo di pizzicarsi, e lo stesso avevano fatto a casa mia, sul divano del mio soggiorno, mentre giocavamo alla Play.
Louis aveva cominciato a tirargli popcorn e qualsiasi cosa gli capitasse per mano, ed Harry rispondeva allo stesso modo.
Altro che scintilla, quei due erano paragonabili ad una bomba nucleare.
 
 
 
I giorni a seguire furono parecchio noiosi. Fra il lavoro, Louis, le corse, Harry e qualche messaggio con Zayn –che mi faceva arrossire ed essere melenso come una scolaretta-, avevo dimenticato che la settimana successiva sarebbe iniziato il corso di fotografia e che mi ero riproposto di andare a vedere la struttura e a chiedere ulteriori informazioni per chiarire ogni mio tipo di dubbio.
Così, la mattina del primo giorno del freddo Dicembre, uscii per recarmi al college.
Quando arrivai notai immediatamente un atrio enorme, col pavimento a scacchiera. Alzando lo sguardo notai che era a cielo aperto e che al secondo piano c’erano dei balconi che si affacciavano sull’atrio. Tutto il perimetro di entrambi i piani ospitava delle stanze di diverse dimensioni. Io entrai nella stanza che riportava il cartellino ‘segreteria’. Una donna bassa e robusta con un paio di occhiali a mezzaluna mi accolse con un sorriso. «Buongiorno signora.» la salutai. «Buongiorno caro. Come posso aiutarti?» mi domandò, premurosa, mettendo da parte una carpetta che straripava di fogli.
«Uh.. ehm.. l’altro giorno un ragazzo mi ha detto che questa settimana iniziano dei corsi. E a me interesserebbe il corso di fotografia.» dissi di getto, e in imbarazzo. Mi grattai la nuca.
«Ohh, si si, certo.» rispose. Iniziò, poi, a parlarmi del corso. Ascoltò le mie numerose domande e mi convinsi definitivamente. Era ciò che volevo. Mi disse che a quel corso potevo imparare le tecniche e i principi che mi avrebbero permesso di usare bene la mia fotocamera, sfruttandone appieno le funzioni e selezionando le corrette impostazioni per ciascuna situazione, riuscendo a catturare ciò che volevo, al meglio.
Attraversai la porta della segreteria con in mano il foglio dell’iscrizione, che avrei dovuto compilare e consegnare con la tassa, e con l’elenco del materiale per il corso. Mentre osservavo il foglio fra le mie mani, inciampai quasi nei piedi di un ragazzo, e per un soffio, non caddi, facendo ruzzolare anche lui.
«Oh, scusami, scusami.» si affrettò a dire. «No, scusami tu, avrei dovuto guardare dove metto i piedi» dissi, ridacchiando. Lui alzò le spalle. «Vado di fretta, ci si vede in giro.» disse, entrando dalla porta che io avevo appena varcato. “già, ci si vede in giro” dissi, nella mia testa. Per un secondo avevo rivissuto il momento in cui uno di quei quattro bulli mi era finito addosso di proposito, facendomi rovinare a terra insieme ai miei libri. Cacciai via quei pensieri e infilai tutto nella mia tracolla, uscii in strada, afferrai il telefono e decisi di mandare un sms a Zayn.
-Buongiorno :)-
Rispose poco dopo. –Buongiorno. Come stai oggi? :)-
-Bene, bene. E tu?-
-Anche. Ehm.. Liam, quando ci vediamo?-  quando lessi il testo di quel messaggio mi salì il cuore in gola. Avrei voluto domandarglielo io, volevo vederlo. Erano ormai passate quasi tre settimane dal matrimonio, quindi dall’ultima volta che ci eravamo visti. “Subito” avrei voluto rispondergli.
-Quando vuoi. :)- risposi, invece.
-Facciamo così, siccome sono al lavoro, quando finisco il turno ti chiamo e ci mettiamo d’accordo. Okay?-
Probabilmente mi erano spuntati due cuoricini negli occhi, ed ero arrossito. Salii in macchina, prima di decidermi a rispondere.
-Certo. A dopo, allora-
Scolaretta alla sua prima cotta.
 
Ero arrivato a casa, agitato. Avevo tenuto la suoneria al massimo tutta la mattinata. Mentre pranzavo, il mio telefono squillò, riempiendomi le orecchie delle note di “love somebody” dei Maroon Five. Ingoiai a fatica il boccone che stavo masticando, per rispondere subito dopo senza guardare chi era il mittente.
«Pronto?» risposi, asciugandomi le labbra con un fazzoletto.
«Lee! Ciao! Come stai?» Ruth.
«Ciao Ruth! Sto bene e tu?»
«Bene, bene.»
«Senti, Ruth, siccome sto mangiando, ti chiamo dopo. Ok?» trovai una scusa plausibile. Riattaccai immediatamente e poggiai di nuovo il cellulare accanto al mio piatto. Neanche il tempo di riprendere in mano la forchetta che il mio cellulare si illuminò e il nome di Zayn lampeggiava sullo schermo.
Presi un profondo respiro.
Liam, smettila di fare l’idiota.
Annuii a me stesso e premetti il tasto verde per rispondere.
«Pronto?»
«Ciao, Liam. Sono Z..» cominciò.
«Lo so chi sei, scemo.» lo interruppi.
«Hey, io ho chiamato per uscire con te, non per essere insultato da te!» disse ridacchiando.
Risi di rimando. «Hai finito al lavoro?» gli chiesi. Ricordai di quando mi aveva raccontato di quanto gli piacesse lavorare al caffè letterario, e di quanto lo aiutasse a distrarsi dal peso dell’università.
«Per oggi si, sono appena arrivato a casa, mi sa che ora studio un po’.» spiegò.
«Bene, sei stanco?» domandai, innocentemente.
«A che scopo mi hai fatto questa domanda?» arrossii.
«Io.. qual..eh?» risposi imbarazzato. «Liam, scherzo, tranquillo.» disse fra le risate.
«Ti odio, Zayn.»
«Non è vero. Comunque, ho un po’ di tempo libero stasera.»
«Quindi…?» lo incitai a continuare.
Lo sentii mormorare un ‘piccolo bastardo’, «Vuoi.. uscire?» domandò, forse con un pizzico di imbarazzo. Saltai sul posto.
«Uhm, si, perché no?» risposi, fingendo tranquillità, quando invece il mio cuore scalpitava. «Bene, dove andiamo?» domandò.
Mi resi conto d’amare la sua voce.
«Facciamo che ti porto in un posto bello.» dissi.
«Ci sto, va bene.»
«Ovviamente.» ridacchiai.
«Liam, ehm.. è un.. appuntamento?» domandò imbarazzato. Me lo immaginai con le guance imporporate, proprio come le mie. «Un che? Scherzi?» piuttosto, scherzai io.  «Io.. oh.. scusami, pensavo..» balbettò.
«Un appuntamento con te? No, che non sia mai.» lo presi in giro. Sentii solo il suo respiro, nessuna parola. In realtà non aspettavo altro.
«Zayn?» lo chiamai.
«Si?» rispose con voce tremante.
«Guarda che scherzo.» dissi. Giurai d’aver sentito un suo sospiro.
«Sei un cretino.» mi disse. «Si, è un appuntamento.» dissi, alzandomi definitivamente dalla sedia, cominciando a gironzolare nervosamente per casa.
«Va bene, Liam.» amavo il suo nome pronunciato da lui. «Passo a prenderti alle sette. Mandami il tuo indirizzo per sms.» mi passai una mano sulla nuca, sentendo i capelli corti pungermi il palmo.
«Va bene, Liam.» ripeté ancora una volta.
«Mi prendi in giro?»
«Va bene, Liam».
Inarcai un sopracciglio, poi la sua risata mi arrivò alle orecchie, facendo strimpellare al mio cuore le più belle note mai sentite.
«Ci vediamo dopo. Ciao, Zayn.» chiusi la chiamata in un sospiro.
 
 
 
 
Aren’t you somethin’ to admire,
 cause your shine is somethin’ like a mirror
And I can’t help but notice, you reflect in this heart of mine
If you ever feel alone and the glare makes me hard to find
Just know that I’m always peering out on the other side
 
 
 
 
 
 
 
 
Dire che il resto del pomeriggio lo avevo passato tranquillamente era sciocco, e anche una bella e grossa bugia. Avevo sviluppato le fotografie del matrimonio, beandomi della vista di quegli occhi che avrei rivisto dopo poco e mi ero preparato, non con facilità, poiché ci avevo impiegato più di un’ora.
 Avevo riversato tutto l’armadio nel letto per trovare l’abbinamento giusto, e mi ero sentito ancora una volta come una ragazzina, quando mi ero nervosamente sistemato davanti allo specchio, fino a raggiungere l’impeccabilità.
Presi le chiavi della mia auto, indossai il mio cappotto e salii in macchina, con le dita quasi tremanti.
Avevo ricevuto il messaggio contenente l’indirizzo solo poco dopo aver riattaccato. Quando mi accostai davanti alla presunta casa del moro, afferrai il cellulare e lo controllai di nuovo, per assicurarmi di non aver sbagliato come un cretino. Controllai anche l’orario sul cruscotto. Le 19:02. Puntualissimo.
Cosa avrei dovuto fare? Suonare il clacson? Mandargli un sms? Scendere e suonare al campanello? Fargli uno squillo?
Mentre fissavo lo schermo del cellulare, indeciso, un’ombra mi spinse a voltarmi. E me lo ritrovai lì, appoggiato elegantemente coi gomiti alla portiera del mio BMW, dal finestrino abbassato. Il suo sorriso era bello come mai era stato, i capelli dal nuovo taglio, un filo di barba a coprirgli la mascella. E l’unica cosa che riuscii a fare fu aprirmi in un sorriso, senza fiato.
«Ciao.» mi salutò, poi.
La sua figura era ancora nella penombra, avrei voluto avvicinarmi a lui, osservarlo meglio da vicino e sfiorargli il viso per poi sussurrargli quanto lo trovavo bello, ancora una volta. Ciò che feci invece fu semplicemente ricambiare il saluto con lo stesso sorriso ebete stampato sulle labbra.
«Sali, dai.» lo incitai. E così fece. In pochi secondi me lo ritrovai accanto.
«Dove mi porti?» domandò.
Rimasi qualche secondo in silenzio, poi ridacchiai. «Sai, Zay, mi sento in uno di quei film dove il ragazzo porta la ragazza fuori al primo appuntamento e quando lei chiede dove la porterà lui risponde ‘sorpresa’.» dissi. Sorrise anche lui. «Quindi?» mi chiese, aspettandosi che aggiungessi qualcosa. «Quindi… sorpresa.» risi. «Come? No dai, Liam!» strabuzzò gli occhi. Io, per tutta risposta, mi voltai e misi in moto la macchina e partii. Mi prese il braccio cominciando a strattonarmi. «Se continui così, l’unico posto dove andremo sarà l’ospedale dopo aver sbandato ed essere finiti contro quel muro.» dissi, ridendo ancora. Lui fece lo stesso, lasciandomi il braccio dopo quella che mi era parsa una leggera carezza.
Cominciammo a chiacchierare tranquillamente e rimanemmo in silenzio solo quando, circa mezz’ora dopo, posteggiai in un vialetto ghiaioso che conoscevo bene.
Sganciai la cintura di sicurezza e feci lo stesso con la sua. Quando fummo tutti e due fuori dalla macchina lo affiancai e, poggiandogli una mano dietro la schiena, iniziammo a camminare verso la piccola struttura antica, illuminata solo da due faretti ai lati della porta d’entrata, rigorosamente in legno scuro.
Aprii la porta, facendolo passare prima di me. E finalmente potei osservarlo bene, alla luce chiara. E lo trovai, ancora una volta, più che bello.
Come poteva tanta meraviglia essere lì con me, per me? Non ci credevo neppure, nonostante fosse tutto vero.
Mi permisi di perdere qualche secondo a guardarlo, mentre lui si guardava in giro. Indossava un giubbotto in pelle nero aperto, che mostrava una semplicissima maglia grigia abbinata a dei jeans neri e stivali neri. I capelli erano molto più corti dai lati, sopra sempre lunghi, fissati col gel, proprio come il ciuffo.
«Liam?» smisi di contemplarlo.
Sorrise, ed io con lui. Guardai dentro i suoi occhi e un brivido mi percorse la schiena.
Ti sta consumando il cervello.
«Sei molto bello stasera.» disse lui.
«Siamo in vena di complimenti, eh.» ridacchiai. Lui fece spallucce, annuendo.
«Anche tu, Zayn.» sussurrai, allungandomi verso di lui, vicino al suo orecchio, facendo arrossire entrambi.











La canzone è "mirrors" di Justin Timberlake.



Non ci credo, ce l'ho fatta, aaaaaaah.
Ciao belle/i!
Come prima cosa, volevo ringraziare chi ha recensito, messo fra le seguite, preferite e ricordate. Siete MOLTO importanti per me.
Poi.. passando al capitolo. Forse sono stata stronza a farlo finire così, ma buona parte del prossimo capitolo sarà dedicata al loro fatidico primo appuntamento.
Qui, abbiamo, i lilo che sono adorabili, Louis cupido è il top. Poi Louis incazzato in mezzo al traffico >>>>
I larry che mi fanno morire. Mentre scrivevo ridevo sola, ma ok...
Poi c'è Liam che incontra quel ragazzo che gli parla di quel corso e infine la signora che lo convince del tutto (?).. e questo incontro con Zayn.
Certo, a fare riassunti faccio proprio schifo, lo so.
Mi dileguo che è meglio. Spero di non avervi delusi, di non farvi aspettare così tanto per il prossimo capitolo e se trovate errori non esitate a segnalarmelo.
Ah, se per caso fosse disposti a farmi un banner per questa storia (?) e conoscete qualcuno che li fa, contattatemi :)
Un grande bacio a tutti.
-Chiara.

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Capitolo 5
*** Disconnected. ***


 
I admit
I’m a bit of a victim in the worldwide system too

But I find my sweet escape
when I’m alone with you.

 


 
 
 
 
Quando entrammo il calore della stanza, profuso dal camino, ci avvolse e lo sbalzo di temperatura mi provocò un brivido. L’ingresso del locale era piccolo e vuoto.
Le pareti di pietra ospitavano dei vasi di fiori dai mille colori. Il caminetto, aveva di fronte due divanetti tappezzati con stoffa color pesca. Zayn, al mio fianco, aveva gli occhi illuminati, probabilmente dalla curiosità. Vedevo le fiamme del caminetto riflettere nelle sue iridi. Mossi un solo passo, poi una ragazza ci raggiunse.
«Buonasera ragazzi.» ci salutò, molto educatamente. Poi, «Oh, ciao Liam!» aggiunse, sorpresa.
«Ciao Helena, quanto tempo! Lui è Zayn.» spiegai, indicando il moro, giusto un passo dietro di me. La ragazza gli porse la mano e lui la strinse, per poi lasciargliela giusto un paio di secondi dopo. Sapevo che era sorpresa dal vedermi in compagnia e non solo, come sempre. Dopo le solite domande di routine, le domandai della prenotazione.
«Ricordo ancora qual è il tuo posto preferito, ho segnato quello.» gracchiò, quella. Io annuii e le sorrisi. «Per cui, sai già dove andare, quando sarete pronti per mangiare vi raggiungerò.» continuò, essendo a conoscenza dei miei gusti.
«Certo, grazie.» risposi io.
In pochi passi raggiungemmo l’ingresso dell’ampio e suggestivo giardino illuminato, ricco di odori e colori, ben curato e abbellito da qualche statua e ruscello naturale. L’aria era piuttosto fresca e profumata di fiori che rendevano tutto più bello, il venticello ci scompigliava leggermente i capelli. Scesi sull’erba morbida ci regalammo qualche momento per osservare il posto. Davanti a noi, in mezzo al prato ben curato, un vialetto in pietra grezza, ci conduceva alla riva del lago.
Sussurrai un ‘vieni’ a Zayn, che mi seguì senza esitare, e lo scortai proprio fino a lì. Lo trovai uguale, proprio come sempre: circondato da erba, roveti, cespugli con fiori di vario tipo e alberi alti. Era una zona parecchio riservata, ottima per rilassarsi, per staccare la spina.
Il moro continuava ad essere silenzioso. «Zayn, tutto ok?» domandai. Lui annuì. «Perché non parli, allora? Se c’è qualcosa che non va basta dirlo, possiamo pure and-» cominciai. «Smettila di blaterare, è tutto bellissimo, Liam.» disse, in un tono dolce, sorridendo.
Non potevo dichiarare di conoscerlo molto bene, ma sapevo quanto era riservato, che preferiva ascoltare piuttosto che parlare solo che averlo così vicino, solo con me per la prima volta, mi metteva una certa ansia, che mi spingeva ad essere tanto agitato da pretendere l’impeccabilità di tutto, facendomi finire nel ridicolo.
«Ci sediamo qui?» mi domandò lui, indicandomi l’erba morbida e fresca ai nostri piedi. «Certo.»
Rimanemmo parecchi minuti in silenzio, a contemplare la bellezza e la calma di quel posto che colpiva chiunque. «Sai, la prima volta che sono venuto qui, era a pochi giorni dalla mia fuga da Wolverhampton.» iniziai. Lui non si voltò, ma sapevo che mi stava ascoltando. Sorrise alla parola “fuga”, probabilmente perché gli aveva riportato in mente il nostro primo incontro, proprio come a me. «Mi ero addormentato sul divano di casa, dopo non aver chiuso occhio tutta la notte, ma quel sonnellino fu pure peggio dell’insonnia. Sognai una delle prime volte.» raccontai, sospirando piano. Volevo metterlo a conoscenza di ciò che mi era successo, ma dovevo pesare le parole, sia per me che per lui. Non volevo che si angosciasse o che provasse pena per me, in alcun modo. Abbassai lo sguardo sulle mie mani, che stavo torturando. Un brivido mi percosse la schiena, il freddo cominciava a farsi sentire. «Quel giorno, Jonathan e Marcus, due dei quattro, erano assenti. Credevo che, almeno per un giorno, avrei potuto scansarmela. Ma mi ero illuso. Così, invece di andare a pranzare dentro la cabina angusta e puzzolente del bagno, come facevo ogni giorno, andai a pranzare sotto un albero, poco distante dalla mensa.» continuai, scandendo bene ogni parola. Sollevai lo sguardo avanti a me, e osservai il cielo blu scuro della sera. Zayn voltò la testa per guardarmi, in un movimento lento, voleva solo studiarmi, capire come stavo. «Ero sereno, mangiavo una sottospecie di polpette e purea di patate e insalata di cose a caso, ed ero talmente concentrato a scartare da quella poltiglia ciò che mi faceva più ribrezzo, che non mi accorsi che i rimanenti due, mi avevano raggiunto, per farmi digerire quel poco che avevo appena ingoiato.» sollevai l’angolo sinistro delle labbra in un sorriso amaro. E, poi, rimasi in silenzio, per far scivolare su di me quelle parole che io stesso avevo pronunciato, per assorbirle, per evitare di mettermi a singhiozzare sotto gli occhi di uno Zayn, probabilmente già turbato.
«Quando avevo quattordici anni, mi invitarono ad una festa.» parlò lui, sorprendendomi.
Stavo per aprire bocca per dirgli che non era obbligato a raccontarmi qualcosa di lui, ma lui mi bloccò immediatamente con un gesto, intuendo le mie intenzioni. «Avevo insistito tanto per andarci, perché c’era il ragazzino per cui avevo una stupida cotta.» sorrise, io di rimando. «E ci andai davvero. Solitamente i miei genitori, severi per come sono, non mi accontentavano quasi in niente, ma quella volta ero riuscito a convincerli. La festa fu carina, avevo passato la maggior parte del tempo appiccicato a quel ragazzino, che pareva ricambiare i miei sentimenti. Mio padre mi aveva detto che sarebbe venuto a riprendermi alle undici, e conoscendo la sua puntualità, qualche minuto prima mi ero fatto accompagnare in giardino proprio da Anthony per aspettarlo.» raccontò. Lo ascoltavo, completamente assopito. «Ci scambiammo qualche innocente bacetto. Ero così felice…»
«Ma quella felicità fu così effimera, che neanche ebbi il tempo di rendermene davvero conto» spiegò ancora.
«Mio padre era arrivato solo qualche secondo dopo di noi e mi aveva visto baciare Anthony. Un paio di minuti dopo suonò il clacson, e io, ignaro di tutto, salii in macchina come se nulla fosse successo. I giorni successivi furono un completo incubo.» il suo tono di voce era calmo, il suo modo dolce di sbiascicare le parole mi ammaliava completamente, dandomi  modo di assorbire ciò che mi stava raccontando.
«Zayn, che ne dici se andiamo a mangiare qualcosa? Poi possiamo tornare, abbiamo tutto il tempo che vuoi. Possiamo stare quanto ci va.» proposi, per smorzare la tensione creatasi. Lui annuì, così mi alzai e gli porsi una mano per aiutarlo, la accettò con un sorriso e si sollevò facilmente dal prato. Gli lasciai la mano, forse imbarazzato, anche se avrei voluto tenergliela giusto ancora un po’. La morbidezza delle sue dita mi faceva già fantasticare su quanto sarebbe stato bello poter sfiorare la pelle delle sue braccia e del suo viso. Mi riscossi, quando lui mi chiamò. Ruotai la testa e fissai gli occhi nei suoi, mentre camminavamo accanto. Alzai semplicemente un angolo delle labbra, e quello mi bastò per far schiudere le sue in uno di quei suoi sorrisi che riscaldavano il cuore.
Entrammo di nuovo all’interno della struttura, lo scortai in una stanzetta con un unico tavolo al centro, apparecchiato per due; sapevo fosse quella per noi riservata. Ciò che amavo soprattutto di quel posto era la privacy. C’erano dieci stanze di diverse dimensioni, ogni stanza conteneva un unico tavolo, anche quello variava di dimensioni.
Il caldo del camino in fondo alla stanza, ci travolse immediatamente, ancora una volta.
Ci togliemmo i giubbotti e ci accomodammo uno di fronte all’altro. Helena, la ragazza che ci aveva accolti, ci raggiunse, consultammo velocemente i nostri menu e ordinammo le pietanze che più ci aggradavano, per poi rimanere soli, ancora una volta.
«E’ molto bello qui.» prese lui la parola, cominciando a giocare col tovagliolo rosso. Io annuii, «Sembra di esser separati dal resto del mondo» dissi, «E’ per questo che mi sono rifugiato qui, quella volta, e le successive» aggiunsi, sospirando piano.
Lui alzò gli occhi su di me, e li fissò nei miei. Sentii il sangue fluire alle mie gote. «Parlamene ancora, se vuoi.» disse, poi. E mi aprii a lui, come con nessuno avevo fatto. Oltre ad avergli raccontato i fatti, gli avevo descritto le mie emozioni, finché lui, con gli occhi lucidi come i miei, non mi aveva fermato, pensandomi di avermi fatto del male, a farmi parlare del mio passato. Le mani mi tremavano quasi, «Mi dispiace, non volevo farti stare male, Liam.» si scusò, anche se non aveva nessun motivo di farlo, per cui lo incitai al silenzio e parlai. «Mi piace quando dici il mio nome.» sorrisi. Lo vidi arrossire allora, forse per la mia affermazione, forse per il calore all’interno della stanza. La ragazza dolce dai capelli neri, ci portò i nostri primi piatti, e fra le chiacchiere iniziammo a mangiare. Ridevamo, giocavamo, raccontandoci aneddoti della nostra infanzia, anche dettagli imbarazzanti. Ci eravamo allontanati dalle nostre ansie e tormenti. Con lui riuscivo ad aprirmi, ci riflettei in un attimo di silenzio, così facilmente che neanche mi rendevo conto di parlare a ruota libera. «Fermami se ti annoio, anzi, so di essere logorroico.» dissi, mettendo in bocca una patatina subito dopo. Lui rise, «Sei scemo, non logorroico» rispose, poi, masticando anche lui. Gli tirai una patatina e lui rise.
Il resto della cena trascorse quasi normalmente e serenamente. Non sembravamo, di certo, una di quelle sdolcinate o formali coppie ordinarie. Dopo il dessert, fu lui stesso a propormi di tornare in giardino.
Dopo esserci accomodati di nuovo sul prato alla riva del laghetto, avevamo ripreso a parlare un po’ di noi.
Mi resi conto che ciò che aveva vissuto lui, il dolore che aveva sopportato poteva essere equiparato a quello che avevo provato io.
«Dopo la settimana infernale in cui mi aveva rivolto parola solo per riempirmi di insulti e accuse, raccontò tutto ai miei familiari.» continuò con il suo racconto, con la sua solita e dolce cadenza del tono di voce.
«Io ero diventato quello sbagliato della mia famiglia. Nessuno mi guardava più con gli stessi occhi di prima. Le mie sorelle mi evitavano, mia madre non faceva altro che lanciarmi sguardi pieni di pena per me. La sua pena era l’ultima cosa che mi serviva, avevo solo bisogno di qualcuno capace di accettare la mia verità e continuare a starmi accanto.» proseguì. «Credevo che col passare del tempo le cose sarebbero cambiate, in meglio, ma niente è cambiato mai di una virgola, anzi, le cose sono peggiorate.» io annuii, con un nodo in gola. «Mio padre mi lasciò del tempo, mi punì in tutti i modi che conosceva, anche tenendomi chiuso in camera per ore infinite, credendo che qualcosa sarebbe cambiato, voleva inculcarmi in testa il fatto che io ero sbagliato, ma quel tempo trascorso in solitudine, capii che l’unica cosa sbagliata era il suo pensiero.» annuii.
«E adesso?» chiesi. «Adesso, lui non lo sento da molto tempo. Mia madre raramente. Waliyha è l’unica che mi chiama spesso, e cerca di passarmi sempre Safaa.» sorrise, come sconfitto. Ci raccontammo altro di noi, durante il resto della serata. Cominciavo a sentire, nella mente, nel cuore, i pezzi del puzzle che iniziavano a unirsi, a combaciare, creando una tela perfetta, rappresentante la mia e la sua vita intrecciate, le nostre anime a coincidere, le nostre mani strette, le nostre vite legate.
Fra strette di mano, sguardi intensi tanto da bruciare, e occhi lucidi, eravamo arrivati davanti casa sua.
Mi sentivo in imbarazzo proprio come succedeva nei film d’amore.
Lì, giusto in quel momento, mi chiesi se si trattava di una mera fantasia, se fosse tutto frutto della mia mente. E mentre la mia mente si lasciava andare a quei frivoli e futili pensieri, ci eravamo ritrovati accanto alla porta d’ingresso. Lui poggiato con le spalle al muro, a fianco della porta, io di fronte a lui.
Il cuore mi batteva forte, fortissimo, lo sentivo nelle orecchie.
«Sei molto nervoso, e in imbarazzo.» constatò. «Rilassati, non ti farò alcun male. Ok?» scherzò.
Arrossii. Con lui, fingere era praticamente impossibile. Mi leggeva tanto facilmente quanto i suoi romanzi preferiti. Aveva capito soprattutto la ragione del mio eccessivo nervosismo. Ormai da anni non mi avvicinavo più così a qualcuno, avevo avuto paura che anche il più piccolo contatto avrebbe potuto scottarmi la pelle.
«Sei carino quando arrossisci.» aggiunse, con un sorriso divertito. Chiuse la mano quasi a pugno e poggiò le falangi sulla mia guancia imporporata, a mo’ di carezza. Velocemente mossi la testa verso la sua mano per approfondire il contatto e poggiai la mia mano sulla sua.
«Sono stato molto bene, stasera.» cominciò, «E anche se questa sembra molto una frase fatta, da film melensi o da libri, è davvero ciò che penso».
Spostai la sua mano dalla mia guancia e intrecciai le nostre dita. Nel farlo, mi resi conto di quanto con lui riuscivo ad essere spontaneo, a seguire il mio istinto, a lasciarmi accompagnare solo dal battito del mio cuore. Stava lentamente dissolvendo la mia maschera, abbattendo il mio muro, con molta, molta pazienza.
Poi sorrisi. «Anch’io sono stato bene, con te.» dissi.
«Magari questa volta non aspetteremo così tanto per vederci.» ammiccò. «Esatto, proprio per questo domani mattina andiamo a fare colazione insieme.» risposi, con tranquillità. Mi lasciò la mano per prendere il cellulare, e controllare –probabilmente- i turni di lavoro. «Domani mattina lavoro.» disse, con un pizzico di dispiacere. «A che ora inizi il turno?» chiesi. «Alle dieci.»
«Bene, alle nove passo a prenderti, facciamo colazione e poi ti accompagno a lavoro.» spiegai il mio “piano” sorridendo, lui provò ad aprir bocca. «Non provare a ribattere, non era una domanda ma un obbligo.» continuai. Lui rise di cuore. «Liam, sei insopportabile.» scherzò, con un tono quasi infantile. «Ti odio» «Chissà perché non ti credo, caro». Mi fece una linguaccia. «La convinzione è quella che frega.» mi punzecchiò, «Buonanotte, Liam.» disse, poi, staccandosi dal muro e poggiandomi le mani sui fianchi.
Sorrisi, quando sentii le sue labbra poggiarsi sulla mia guancia. Il contatto e l’eccessiva vicinanza, mandarono il mio cervello in tilt. «Buonanotte Zayn.» sussurrai al suo orecchio, prima di lasciargli un bacio nella tempia.
Ci lasciammo con un sorriso sulle labbra.
Io probabilmente mi stavo autodistruggendo la mascella, ma poco m’importava.
Un secondo prima di salire in macchina, mi girai di nuovo verso di lui che stava per entrare in casa dopo aver fatto girare la chiave nella toppa, e il mio cuore perse un battito quando mi schiacciò l’occhio e mi mandò un piccolo bacio.
Era folle, assolutamente folle. Avevo perso la testa. Completamente. Una tredicenne e io eravamo praticamente la stessa, identica cosa. Assurdo. Nella mia testa non vedevo altro che lui.
Cosa mi hai fatto?
Quando, dopo una giornata sfiancante, ma stupenda, poggiai la testa sul cuscino dalla federa blu, sorrisi un’altra volta. Come se non ne avessi avuto mai abbastanza.  «Sono un vero deficiente, un vero deficiente.» mi dissi, ad alta voce.
Dopo qualche minuto speso a sentire nella mia mente la sua voce, mi addormentai con la speranza che avrei dormito serenamente.
Evidentemente mi sbagliavo.
Mi svegliai di soprassalto alle 2:36, avevo controllato la sveglia, precedentemente puntata per le 8:15, sul comodino. Accesi la luce dell’abatjour, poggiai la mano sul petto e sentii il cuore scalpitante sotto le mie dita.
Mi scostai le coperte di dosso, erano diventate troppo calde, soffocanti. Nell’arrivare in cucina, accesi tutte le luci che mi capitavano, proprio come fanno i bambini che hanno paura che qualche mostro salti fuori e li mangi. Bevvi acqua fresca, dissetandomi, e bagnando le mie labbra completamente arse dalla paura, dai respiri affannati. Poi, una volta entrato in bagno, mi sciacquai il viso con l’acqua ghiacciata. Alzai gli occhi sullo specchio, la mia figura mi fece quasi ribrezzo.
Le occhiaie violacee, le labbra screpolate e rosse, troppo spesso torturate dai denti, gli occhi vuoti, spauriti. Poggiai le mani sul bordo del lavabo.
Il nervosismo si prese possesso di me, mi stavo rovinando da solo. Cercavo di combattere contro i mostri del mio stesso passato, cercavo di mostrarmi indifferente a loro, con la speranza di allontanarli del tutto, in modo da pulire la mia mente.
 Ma quei bui ricordi assalirono ancora una volta la mia testa. Avevo paura anche di chiudere gli occhi, terrificato all’idea di rivedere un altro di loro venirmi in contro. La cosa stata diventando troppo pesante da sopportare, più grande di me, mi stava trascinando giù ancora una volta. Urlai, e senza pensarci, staccai le mani dal lavabo, mi strofinai il viso, ne chiusi una a pugno e colpii il vetro dello specchio con una tale violenza da farlo frantumare in tanti pezzi. Un unico rumore sordo. Un dolore lancinante che si diffondeva dalle dita al polso. Liquido rosso scuro a macchiare la mia pelle e la maglia del pigiama. Il vetro sparso ovunque.
Ebbi paura, ancora una volta. Per istinto, sciacquai la mano sotto l’acqua fredda, la avvolsi in una tovaglia e corsi a prendere il mio cellulare.
Scorrendo la rubrica mi resi conto che la persona giusta da chiamare in quel momento era solo Louis. Mi rispose dopo parecchi squilli. La voce impastata dal sonno.
«Pronto?» lo sentii sbiascicare, con la voce roca. Un mio singhiozzo.
«Liam? Che succede?» domandò, con un tono di voce più alto. «Io..» la voce spezzata dall’ennesimo singhiozzo nascente. «Respira, sto arrivando.» chiuse. Mollai il telefono sul materasso e scivolai ai piedi del letto, respirando ancora affannosamente. Mi presi la testa fra le mani, e rimasi in quella posizione per diversi minuti, finché delle mani fredde staccarono le mie dal mio volto. Louis.
Ricominciai a piangere, farfugliando. Mi strinse forte, fino a far quietare il mio pianto disperato e i miei respiri strozzati.
Mi sussurrava all’orecchio che tutto andava bene, e anche se non ci credevo, stavo riuscendo a calmarmi.
Non era la prima volta che Louis mi vedeva in quello stato. Mi sentivo talmente fragile che avrei potuto spezzarmi come un grissino.
Non sopportavo me stesso.
Vedevo la mia forza scemare gradualmente, fino a lasciarmi del tutto, a lasciare dentro me il vuoto che porta la debolezza.
Crisi. Così l’avevano chiamata i dottori la prima volta che mi era successo. Mi capitava spesso di star male durante la notte a causa degli incubi, ma quella volta avevo proprio esagerato.
La gioia, l’illusione, la rabbia, il dolore. Questi, sentimenti così forti se mischiati insieme mi avevano portato a toccare il culmine. Era stato come ingerire un cocktail di alcool potenti. E boom, ero esploso.
Louis si prese cura di me, come sempre.
Disinfettò la mia ferita, fasciandola e mi tranquillizzò fino a quando non mi riaddormentai -come un bambino bisognoso d’affetto-, sognando solo il buio.
 
 I like the summer rain
I like the sounds you make
We put the world away
We get so disconnected
You are my getaway
You are my favourite place
We put the world away
Yeah we’re so disconnected
 
 
 
 
 

 
 
La sveglia disturbò il mio sonno, facendomi aprire gli occhi alle 8:15. Ricordai l’accaduto di poche ore prima a causa del dolore alla mano. Voltai, poi, la testa, trovando Louis addormentato dall’altra parte del letto. Sembrava sereno, le palpebre posate dolcemente sugli occhi, labbra distese, segno di un sonno completamente tranquillo. I capelli completamente scompigliati mi fecero sorridere.
Immediatamente ricordai che avevo promesso a Zayn di portarlo a colazione. Sentivo la stanchezza pesarmi addosso come un macigno. Scesi dal letto e, a piedi nudi, mi trascinai in bagno, sciacquai il viso con l’acqua fredda; neanche quello servì a farmi svegliare.
Quando finii di prepararmi, lasciai un biglietto a Louis –per ringraziarlo, soprattutto- e uscii di casa.
Puntualissimo mi ritrovai davanti casa del moro, che mi raggiunse solo un paio di minuti dopo.
Salì in macchina, con quella sua aria rilassata di sempre, e la trasmesse anche a me. «Buongiorno.» mi salutò, aprendosi in un sorriso, ancora assonnato, che mi affrettai a ricambiare.
 «Buongiorno.»
Misi in moto, «Dormito bene?» chiese, mettendosi comodo sul sedile e osservando la fasciatura nella mia mano destra. «Domanda di riserva?» ironizzai.
«Niente domanda di riserva. Perché no?»
«Ho avuto una crisi» spiegai, tenendo lo sguardo sulla strada. «Immagino quella fasciatura spieghi qualcosa.» disse. «Vuoi parlarne?» domandò.
Arrivammo, e non ebbi il tempo di rispondergli, ma lo feci quando fummo seduti al nostro tavolo.
Cominciai a raccontargli della notte trascorsa, eludendo i particolari.
Ordinammo la nostra colazione e cambiammo discorso più volte, toccando altrettante volte l’argomento crisi.
 
Con lui non era mai noioso. Con Zayn la parola noia veniva eliminata dal mio vocabolario.
Lui era tante emozioni per me, tutte insieme, un’influenza positiva.
Il mio umore era visibilmente cambiato.
Con lui scordavo ogni cosa.
Con lui anche un silenzio valeva un mondo. Le nostre anime si toccavano, e facevano rumore al posto delle nostre voci. I nostri occhi si scontravano, bruciando ed eliminando ogni cosa a noi vicina.
La notte appena passata era stata un mix di sentimenti mai paragonabili a quelli che stavo provando con lui, in quel momento.
Poi cominciò a blaterare sul fatto che avrebbe voluto aiutarmi, facendomi tornare sulla terra.
«Avrei potuto aiutarti io, perché non mi hai chiamato?»
«Zayn, Louis sapeva come aiutarmi e non avrei voluto spaventarti.» quasi mi giustificai.
«Dovevi chiamarmi lo stesso, anche se dormivo e mi sarei preso uno spavento; parliamo di te Liam, non di uno qualunque!» mi rimbeccò. Arrossii per la sua ultima affermazione.
Conto davvero qualcosa per lui?
Il cuore mi batteva nelle orecchie. E lui stava lì, davanti a me, con la sua tazza di cioccolata calda –dello stesso meraviglioso colore dei suoi occhi- fra le mani, a scrutare dentro i miei occhi a spogliarmi di tutti i miei sentimenti e a scoprirmi passo per passo, in ogni più impercettibile sfumatura.
Ci riflettei per circa due secondi, poi mi sporsi sul tavolo con velocità, facendo leva al mio corpo coi gomiti sul tavolo. E, stando attento a non urtare tazze e piatti, poggiai le labbra sulle sue.
E il mondo, attorno a noi, diventò bello.
Meraviglioso.
Chiuse gli occhi, lo imitai.
Il suo buon profumo distese i miei sensi. Il sapore di cioccolata sulle labbra mi deliziò, proprio come la morbidezza delle sue labbra rosee.
Non avev0 idea di cosa stessi facendo. Non sapevo come sarebbe andata a finire. La  sua mano lasciò la tazza e si posò sulla mia guancia, approfondendo il contatto, io non mi tirai indietro. Era come se stessimo ancora parlando. Ogni minuscolo contatto con la sua pelle, con le sue labbra, era come un’altra parola, un altro pensiero. Tutto racchiuso in un piccolo sfioro di labbra, concluso con uno schiocco quasi silenzioso.






La canzone è 'disconnected' dei 5 seconds of summer.







Salvee.
Ho delle cose da dirvi (y)
Prima di tutto, grazie per aver atteso il mio assurdo ritardo. Ringraziate la scuola che mi ruba giornate intere (SE VI IMPORTAVA LOL). Mercoledì parto (yeeeee, can't wait), vado a Strasburgo :') 
Poi, so che questo capitolo fa cagare MAAAAAAAAA per farmi perdonare, anche se non era nei miei piani, ho messo un dolcissimo (credo) primo bacio. Ogni tanto penso d'avere qualche difficoltà ad esprimere ciò che penso e i sentimenti di ogni singolo personaggio. Fatemi sapere ogni cosa. Se notate errori o cavolate o cose simili non esitate a scrivermi anche in un messaggio privato.
Del capitolo ho poco da dire, a parte che non mi convince molto. Abbiamo un primo appuntamento Ziam, che ho descritto proprio penosamente; una delle crisi di Liam, che spacca lo specchio con un pugno, wowowow; Louis cucciolo che lo coccola e, infine,  la colazione e il bacio.
Nel prossimo un po' di larry, i swear. 
Ora vado a dormire. 
Mi auguro di non avervi deluso e di non avervi invogliato a mollarmi qui da sola.
Spero di trovare il tempo e l'ispirazione per scrivere il prossimo capitolo al più presto possibile.
Un bacione, 
Chiara.

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Capitolo 6
*** Se saprai starmi vicino. ***





Se saprai starmi vicino.









Chiusi il libro abbandonato sulla scrivania della mia stanza mezz’ora dopo averlo aperto.
Avevo riletto lo stesso rigo all’incirca sessanta volte, e avrei potuto rileggerlo per un altro giorno intero senza capirci niente. Trecentosessanta pagine di libro, in un altro momento avrei potuto leggerle in davvero poco tempo, ma in quel giorno, quel momento no.
Avevo il ricordo del bacio a rimbombarmi nella mente, fra le pareti del cervello. Era tutto una tal confusione.
Era stato solo un incontro di labbra tremule, un primo incontro, innocente, casto, purissimo, ma che era bastato a destabilizzarmi, a farmi appannare la vista quasi.
Spostai il libro e sbuffai, alzandomi, facendo strisciare la sedia e abbandonandomi alla morbidezza del mio letto e alla costrizione della mia mente ad un unico e solo pensiero.
Un giorno che non lo vedevo e già mi mancava.
E sapevo che quando lo avrei rivisto, non avrei saputo come comportarmi.
Ho esagerato?
No, lui ha ricambiato.
La suoneria del mio telefono mi distrasse, finalmente, dai miei ossessivi pensieri. La foto di Harry e il suo sorrisone comparirono davanti ai miei occhi. «Pronto?» mi affrettai a rispondere.
«Pronto? Pronto un corno. Si può sapere che fine hai fatto, dannato Liam Payne?» urlò, costringendomi ad allontanare l’apparecchiò dall’orecchio. Sorrisi.
«Scusa mamma, possiamo vederci e ti racconto tutto?» dissi sconfitto.
«Tanto questa me la paghi. Sono a casa tua fra quindici minuti.»
 
Se avessi cercato la parola “puntualità” su google ero certo che avrei letto “forse cercavi: Harry Styles”.
Quindici minuti dopo, era attaccato al campanello di casa mia. Quando gli aprii la porta, era pronto a scagliarsi come una furia su di me ma quando notò il mio sguardo si bloccò.
«Liam?» mi chiamò, domandando altro in una tacita richiesta.
«Entra, ti racconto tutto.» sorrisi.
Nel raccontargli tutto, ogni minimo particolare, come sempre avevo fatto, mi accesi.
Continuavo a camminare, gironzolare per la camera, spostando oggetti, toccandomi i capelli, e sorridendo anche troppo. Di certo la parte in cui avevo rotto lo specchio non gli era piaciuta, ma sapeva cosa comportava per me avere una crisi. Era molto preoccupato e i suoi meravigliosi occhi verdi me lo lasciavano percepire.
Quando gli raccontai del bacio del giorno prima, sembrò rilassarsi. Si era accorto del fatto che stavo bene, dopo tutto.
Passammo un paio d’ore insieme, a scherzare, come sempre, a guardare la tv tirandoci pop corn e a giocare a fifa, prendendoci in giro.
Nel momento in cui stavamo discutendo animatamente su chi avesse giocato meglio, e sul fatto che io avevo ancora la mano fasciata, il campanello di casa mia ci fece ammutolire.
Harry mi guardò con sguardo interrogativo, domandandomi indirettamente se aspettassi qualcuno, risposi con un’alzata di spalle e un “no” appena accennato.
Mi alzai svogliatamente dal divano e aprii la porta ritrovandomi davanti un Louis Tomlinson con un’espressione infuriata in viso.
«Ti avevo chiesto di farmi avere notizie e sei sparito dalla circolazione, è normale?» urlò, irritato. «Ciao mamma due.»
Scoppiai in una risata rumorosa che spinse Harry a venire a vedere cosa succedeva.
«Ma che ci ridi, cretino?»
«Liam, chi è?»
Parlarono contemporaneamente.
Il sorriso di Harry si allargò. Louis sembrò sbiancare.
«Ciao piccolo Lou.» lo salutò Harry, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Liam, cosa ci fa qui questo coso?»
Neanche ebbi il tempo d’aprire la bocca che Harry rispose per me . «Perché tutto questo astio, Lou? Ti sto forse antipatico?»
Trattenni a stento una risata, coprendomi la bocca con una mano e godendomi lo spettacolo che erano quei due. «Tu, starmi antipatico? No, caro Harry Styles, perché dovresti?» ironizzò.
Harry sorrise, ammaliando probabilmente anche Louis che rimase muto a fissarlo, distendendo quel cipiglio rabbioso sulla fronte.
«Invece di stare tutti e tre davanti la porta, entriamo magari?»
Senza fiatare, ci spostammo tutti e tre in salotto.
Louis tornò a guardare me ed Harry in cagnesco. Io sorrisi.
«Comunque, per la cronaca, non sono piccolo. Ho pure qualche anno in più di te. E un po’ di intelligenza in più»
Quella fu la frase che scatenò la guerra che proseguì per il resto del pomeriggio.
Li invitai a cenare con me, e accettarono. Seduti a tavola, davanti in nostri tranci di pizza, quei due non smettevano di punzecchiarsi, come due bambini. Harry era visibilmente attratto da Louis che probabilmente provava lo stesso anche se non sembrava rendersene conto.
Questo, morse il suo pezzo di pizza, lasciando cadere del pomodoro sul piatto. «Louis, ma sai mangiare?»
«Infilati quella pizza in bocca e stai zitto.» ribatté quello.
«Lo sai, che anche mio cugino sa mangiare più ordinatamente di te?» chiese Harry, addentando poi un pezzo della sua quattro formaggi.
«Quale cugino, Harry?» domandai, io, curioso.
«Non è ancora nato.» rispose lui.
Scoppiai in una risata anche troppo rumorosa; Louis che cercava di rimanere serio mi seguì, accompagnato da un Harry alquanto soddisfatto dalla battuta che aveva fatto.
«Liam, ci fosse una volta che mi difendi!» piagnucolò il più grande.
«Oh, gioia, ha bisogno della mamma che lo difende.» lo prese in giro l’altro. Io, nel frattempo, li osservavo con un sopracciglio alzato.
«Styles, sei tu quello che a diciannove anni prende ancora il latte nel biberon e che per attraversare si fa dare la manina della mamma.»
«Vorresti darmela tu, magari?»
A quella frase Louis diventò prima bianco, poi di un rosso scarlatto. Io iniziai a ridere, senza poter smettere, loro due si fissavano come se avessero voluto picchiarsi ma baciarsi comunque. La tensione sessuale in quella stanza, a causa loro, si poteva tagliare col coltello. Ed io ero spettatore di tutto quel casino.
«Che non sia mai, piuttosto, stai ad una certa distanza da me. Ho paura d..»
«Di cosa? Di non resistere dalla voglia di baciarmi? Lo so, piccolo Lou, lo so.» lo interruppe, Harry.
«Baciare te? Preferirei baciare piuttosto un lama. Ad ogni modo, la modestia l’hai lasciata a casa? No perché dovresti passare a prenderla» rispose quello, sbattendo teatralmente le ciglia.
«Domani mattina allora ti accompagno allo zoo.» sorrise, spavaldo e ignorando l’appunto di Louis.
Louis stava per saltare dalla sedia, ma lo fermai.
«Farò di tutto perché non capiti ancora, la prossima volta giuro che vi prendo una camera, così vi sfogate in un altro modo!» urlai.
In risposta, ricevetti due sguardi assassini, anche se poco convinti. Piuttosto, io, ero convinto, che a quei due non sarebbe affatto dispiaciuto.
Il loro battibecco riprese, ma io mi allontanai quando la suoneria del mio telefono di casa riempì la stanza. Harry e Louis completamente assenti.
Senza far caso a chi fosse, risposi «Pronto?» risposi, in uno sbadiglio.
«Neanche ci siamo salutati e già sei annoiato, mi sorprendi Payne.» esordì.
«Oh, Zayn.» sospirai, contento di sentirlo.
Lui rise, «Ciao Liam.» e lì, in quel momento, un sorriso affiorò nelle mie labbra e ci rimase a lungo.
Un sorriso ebete.
«Come stai?» domandai.
«Bene, davvero, e tu?»
«Ora bene» risposi, lasciandogli intendere il motivo. E lo immaginai a sorridere, spontaneo come sempre.
«Che facevi prima che questo rompiscatole ti chiamasse?»
«Assistevo allo spettacolo che Louis ed Harry mi stavano offrendo, si punzecchiano da tutto il pomeriggio.»
La sua risata dolce arrivò alle mie orecchie.
«Zayn, ascolterei il suono della tua risata per sempre.»
«Mi imbarazzi, Liam, smettila» rise ancora. «Scusa.» gracchiai.
«Da quanto tempo ci conosciamo?» chiese, sorprendendomi un po’. «Quasi due mesi.» e mi sorpresi io stesso.
Sentivo il sentimento farsi largo nel mio cuore, a cercare di cancellare ogni traccia di nero, di sangue sporco, per tornare a farlo vivere. Avevo bisogno di quello. Amore di quello vero però.
Senza rendermene conto stavo davvero iniziando a provare per Zayn qualcosa di spropositatamente grande. Qualcosa che sentivo espandersi nel petto. Grande tanto da sorprendere anche me stesso, che credevo di non esser neanche più capace di provare alcun sentimento positivo.
«Ci vediamo domani?» mi chiese.
«Domani di mattina ho lezione, poi sono libero.» anche se avrei voluto vederlo subito.
«Io lavoro di mattina, quindi..»
«Quindi vengo a prenderti al lavoro e stiamo un po’ insieme, se ti va naturalmente»
«Ovviamente, scemo»
Un’esplosione di sentimenti, questo lui era per me.
Un rumore di vetro in frantumi mi fece correre verso la cucina, dove trovai i due in piedi. Ai lati opposti della stanza. Li guardai sbigottito. «Oddio.»
Il vetro che avevo sentito rompere era la bottiglia d’acqua che era prima sul tavolo. «Ma quanto siete stupidi voi due?» urlai.
Zayn rise ma «Liam? Che succede?»
«Niente, tranquillo» gli risposi serio. «Possibile mai che per sfogare la vostra tensione sessuale dovete distruggere casa mia?» continuai. «Scusa Zayn.»
Harry aveva una bandana in testa, presa da chissà dove, e una paletta fra le mani, Louis invece aveva una pezza in mano, che aveva trovato sul lavabo, pronto ad asciugare il danno fatto.
«Appena chiudo me la pagate tutti e due. Vi conviene sparire.» e tornai di nuovo all’ingresso, dove sentii ancora le accuse che si lanciavano i due.
«Scusami Zay, quei due sono peggio dei bambini.»
«Tranquillo» rise.
«Una di queste sere te li faccio conoscere, almeno non rimango solo con loro due» aggiunsi.
«Uhm, okay.»
«Adesso ti lascio Liam, vai a vedere cosa hanno combinato i tuoi bimbi» disse, quasi con dispiacere.
«Okay, grazie. A domani.»
Sentii solo lo scocco di un bacio fugace, e il “tu tu tu” della chiamata chiusa.
Arrossii.
 
 
Dopo aver chiuso la chiamata, avevo aiutato quei due a raccogliere i cocci di vetro sparsi per la stanza anche se avrei voluto vederli volentieri lavorare sotto i miei occhi.
Poi li avevo buttati fuori di casa, proponendogli davvero di andare a casa di uno dei due per affievolire i loro bollenti animi.
E, prima di addormentarmi, avevo scritto a Zayn, ringraziandolo per il bacio che mi aveva mandato e che avrei voluto dargli.
 
La lezione in accademia fu leggermente noiosa, ma l’avevo trascorsa quasi tutta a pensare a chi avrei visto da lì a poco. La teoria non mi piaceva molto, anche se era essenziale per la pratica. Sapevo che se avessi speso la lezione ad ascoltare il professore avrei avuto la metà del lavoro da fare a casa ma proprio non ce la facevo a connettere.
Il professore, un uomo corpulento sulla cinquantina, mi aveva richiamato più volte, sorprendendomi a fissare il nulla, probabilmente con gli occhi che –nei cartoni animati-  sarebbero stati a cuoricino.
Ogni attimo, secondo, minuto, lo spendevo a chiedere a me stesso come tutto quello che mi stava succedendo fosse vero.
Sbuffai, a pochi secondi dalla fine dell’ora.
A lezione conclusa, senza fermarmi a salutare il prof, ne i miei colleghi, raccolsi le mie cose e uscii velocemente fuori dall’aula, e dall’accademia. Quando stavo per varcare la porta d’uscita, sentii toccarmi la spalla. Mi voltai istintivamente trovandomi davanti due occhi azzurri che mi pareva di conoscere. Anzi, ne ero certo.
«Noi ci conosciamo.» iniziai io.
«Si! Ci siamo incontrati qualche settimana fa per strada e io ti ho parlato dei corsi dell’accademia.» spiegò lui. «Si, si, ora mi ricordo!» sorrisi, lui fece lo stesso.
«Sono contento che tu abbia deciso di iscriverti» spiegò.
«E’ tutto merito tuo» gli concessi. Le sue guance si colorarono di rosa, «Mi chiamo Niall, comunque» si presentò. Lì ricordai che non lo avevamo ancora fatto e risi. «Giusto. Liam» sorrisi, allungandogli la mano destra. Si affrettò a stringerla; la sua mano era esile, ma morbida e fredda.
Guardai l’orologio, segnava le 12:04, Zayn era già uscito da lavoro, e non avrei voluto farlo aspettare. «Niall, ho un impegno, ti va se ci vediamo domani e prendiamo una birra insieme, così abbiamo più tempo per parlare?» chiesi. Annuì, forse un po’ imbarazzato, poi «Si» aggiunse.
«Perfetto. Allora domani ci si vede in giro e ci mettiamo d’accordo».
 
Con qualche minuto di ritardo arrivai davanti l’enorme libreria di Chelsea dove lavorava Zayn.
Neanche ebbi bisogno di afferrare il cellulare per avvisarlo che ero arrivato, che lo vidi uscire dalla porta principale, con la tracolla in spalla, il ciuffo morbido sulla fronte e gli occhi luminosi.
Gli sorrisi istintivamente, e rimasi a fissarlo, a seguirlo con lo sguardo, perché non avrei voluto fare altro in quel momento.
Aprì lo sportello e salì, e guardandomi sorrise, riscaldando l’abitacolo freddo.
«Ciao» mi salutò, con un tono dolce.
Lo salutai, allungandomi verso di lui e stampandogli un timido bacio all’angolo delle labbra.
«Allora, abbiamo mezza giornata da passare insieme, dove mi porti?»
«A casa, dove vuoi che ti porti?» scherzai. Lui fece spallucce, «Per me va bene anche quello, mi basta stare con te». Mi spiazzò del tutto. Sorrisi e poi, velocemente, mi sporsi avanti e gli cinsi le spalle con un braccio, avvicinandolo a me per stringerlo. Si lasciò abbracciare, poggiando la testa sul mio petto. E io non persi tempo per aspirare bene il profumo della sua pelle. Albicocca. Gli lasciai un piccolo bacio, proprio vicino l’attaccatura dei capelli, poi un leggerissimo bacio all’altezza della mascella perfettamente scolpita, e uno fugace sulle labbra.
A piccoli passi, così dovevamo procedere. Correre non sarebbe servito a nulla.
«Starei anche tutto il giorno qui in macchina, basta che ci sei tu, mi basta stare con te.» ripetei solo le sue parole, poi mi staccai da lui, che aveva le guance arrossate. Lo trovai adorabile, come sempre.
Decisi di portarlo a Brighton, la piccola città costiera vicina ad Hove, nell’East Sussex.
Una giornata lì, sarebbe stata perfetta.
Guidai per circa un’ora e mezza; il viaggio non fu pesante, lunghi tratti di silenzio ci accompagnavano, un silenzio che non è davvero silenzioso, perché carico di tante voci. Voci provenienti dal cuore, dalla testa che ti suggeriscono tante cose, troppe, contemporaneamente.
Quando la solita scritta di benvenuto svettò sotto i nostri occhi, sorrisi, contento di esser arrivato a destinazione senza alcun imprevisto e all’orario che speravo; per passare più tempo con il moro che al mio fianco, era ancora a labbra serrate.
Rallentai al rosso del semaforo a pochi metri da noi, aprii il finestrino e l’aria fresca entrò nell’abitacolo, poi mi voltai verso di lui, che teneva lo sguardo fisso verso le case bianche alla nostra destra. Mi allungai verso di lui, solo per sentire un po’ il suo odore, e gli baciai una guancia, cedendo alla deliziosa tentazione che erano le sue guance.
«Ladro di baci.» mi rimproverò.
Risi di cuore.
«Non sono un ladro.» mi lamentai, con voce fanciullesca.
Lo fissai ancora negli occhi, la luce del sole li rendeva ancora più chiari e luminosi.
«Liam, è verde.» mi fece notare,  «Oh, beh, si» mi destai, imbarazzato, per esser stato colto con le mani nel sacco.
Forse ero davvero un ladro, sorrisi, pensandoci.
Non molto lontano, trovammo parcheggio.
Scesi dalla macchina, presi la tracolla, e stretti nei nostri giubbotti, ci avviammo verso il lungo mare della bella cittadina.
Lui mi affiancò, e io –timidamente- feci scivolare le dita fra le sue, intrecciandole teneramente.
Lui, immediatamente, aveva alzato lo sguardo su di me e mi aveva sorriso, facendo sparire quel pizzico di insicurezza che mi frenava sempre.
Gennaio era, naturalmente, un mese freddo.
Il termometro enorme dall’altra parte della strada, indicava 11° che per il Regno Unito, in quel mese, era davvero caldo.
Essendo una giornata lavorativa, non c’era molta gente per strada. Era quasi ora di pranzo, e il sole, nonostante fosse alto, si nascondeva –a tratti- dietro delle nuvole bianche, bianchissime, che -se avessi potuto- avrei toccato.
Parlammo del più e del meno, tenendoci ancora le mani strette e ci fermammo quando uno scivolo diretto in spiaggia ci invitava a scendere.
L’odore di salsedine invase i nostri sensi, respirai l’aria pulita a fondo.
Aprii la mia borsa e ne estrassi un telo, uno arancio e giallo in spugna, che mia sorella mi aveva regalato anni prima per il mio compleanno.
Lo stesi sulla sabbia e invitai Zayn a sedersi con me. La sabbia era fredda sotto di noi.
Cominciammo a chiacchierare, e a parlare scioltamente di tutto. Poi mentre stavamo discutendo su chi potesse cucinare meglio il pollo al forno, si avvicinò a me e con un gesto veloce mi afferrò il viso e mi baciò, facendomi zittire, e sorprendendomi.
Avrebbe dovuto farlo più spesso.
Passammo alcuni minuti a sfiorarci le labbra umide e a giocare.
Leccò il mio labbro inferiore, facendo triplicare in me la voglia di baciarlo finché la notte non sarebbe calata sulle nostre teste. Lo baciai ancora, approfondendo il contatto, facendo collidere le nostre lingue, le nostre bocche, in una silenziosa danza di piacere e di profumi, di umori. I nostri, che si mischiarono. E non furono più quelli di Liam o quelli di Zayn, ma solo un’unica cosa: noi.
Presto scoprii che raccontarci di noi, non solo con le parole, era una delle cose che entrambi preferivamo.
Poi si staccò dalle mie labbra, per permettere ad entrambi di riprendere il fiato, di cui io avevo dimenticato d’aver bisogno. Poggiò la fronte sulla mia, i nostri nasi vicini, quasi a contatto. «Il mio pollo tanto è più buono del tuo» disse, poi, premendo di nuovo le mani ai lati del mio viso.
Poi risi e «Non è vero» protestai, allungandomi verso di lui e premendo ancora le labbra –naturalmente rosse e umide- sulle sue.
Circa un’ora dopo dal nostro arrivo, completamente in fibrillazione, entrammo in un ristorantino sul lungo mare, a pochi passi dal molo, il Brighton Pier.
Mangiammo un primo delizioso e un dolce, altrettanto favoloso, ma mai paragonabile all’unico dolce che avrei potuto assaggiare anche per sempre.
“Per sempre” mi ripetevo in testa.
Che ero diventato terribilmente melenso, di quello mi ero accorto.
Non mi ero accorto però, che quello, faceva parte del vecchio Liam.
Il Liam che era andato perduto, probabilmente non del tutto.
Camminando fra le stradine delle Lanes, e osservando i negozietti lì presenti, mano nella mano con Zayn pensavo di sentirmi un po’ come Ugo Foscolo.
Lui, scrittore prettamente neoclassico, credeva di poter riportare indietro le bellezze del mondo antico, contrapposte al tempo oscuro del suo presente solamente attraverso la poesia. In cui riponeva molta fiducia.
E se Zayn fosse stato un po’ la mia poesia?
 
 
 
Se saprai starmi vicino,
e potremo essere diversi,
se il sole illuminerà entrambi
senza che le nostre ombre si sovrappongano,
se riusciremo ad essere “noi” in mezzo al mondo
e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.
Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo
e non il ricordo di come eravamo,
se sapremo darci l’un l’altro
senza sapere chi sarà il primo e chi l’ultimo
se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia…
Allora sarà amore
e non sarà stato vano aspettarsi tanto.
 
 
Perché si, ritrovando le sue labbra sulle mie, avevo capito d’aver aspettato lui da sempre.
Chiusi le mani quasi a pugno per poter carezzare la sua pelle, spostandomi fino alla base del collo e ai capelli profumati di shampoo.
 
Quando ci staccammo, mi sembrò davvero irreale.
Ogni secondo passato con lui mi isolavo, e diventavo il vecchio me, perché lui ci riusciva.
Solo lui poteva. Solo lui era così paziente. Solo lui aveva il coraggio e la forza di afferrare il mio braccio e tirarmi su, nonostante di forza ne avesse bisogno anche forse più di me. Solo lui mi aveva afferrato, e aveva lavato via lo sporco che c’era in me.
Mi sentivo come un bambino, un bambino che guarda i fuochi d’artificio.
Perché si, ad ognuno di loro piace davvero tanto, quell’esplosione di colori, ma ha anche paura.
Vana o meno che sia, prova paura.
In quel momento, avrei potuto dire che lui rappresentava un tutto e un niente per me. Un po’ come l’infinito.
L’infinito, che giusto lì, profumava di noi.
E mi faceva scalpitare il cuore, sorridere.
Lui era il punto di partenza o d’arrivo?
Questo, ancora, dovevo scoprirlo, insieme a lui, e ne avevo ogni intenzione.
Ogni cellula presente in corpo mi sussurrava di andare davvero a fondo perché non mi sarei pentito.
E sapevo già che lo avrei fatto, anche a costo di perdere. 



Un messaggio fece vibrare il mio cellulare mentre io e Zayn camminavamo mano nella mano verso la ruota panoramica.
Louis.
-LIAM JAMES PAYNE, CHI TI HA DATO L'AUTORIZZAZIONE DI DARE IL MIO NUMERO AD HARRY???????-
Sul momento risi, facendo leggere il messaggio al moro, poi tornai serio..
io non avevo dato il numero di Louis proprio a nessuno.








Il titolo del capitolo questa volta non è una canzone ma una meravigliosa poesia di Pablo Neruda, che adoro e che mi ha ispirata parecchio: "se saprai starmi vicino".



Ciaaao.
IM ALIIIIIIVE
Si, lo so, sono in ritardissimo......
la scuola mi mangia tutto il tempo. Tra studio e esami delf e tutto il resto mi rimaneva davvero poco tempo per scrivere.
Per colpa dell'ansia sono finita pure dalla dottoressa, shit.
Neanche ora -sai che novità- ho molto tempo, per cui.. spero il capitolo vi sia parso quantomeno decente perché io lo trovo, a parte corto, osceno.
Il fluff ziam è l'unica cosa che lo salva un po'.
Ok, basta, vado.
Provvederò a correggere il capitolo, se trovate errori non esitate a segnalarmelo.
(potete anche segnalarmi non solo gli errori? lol)
Un grosso bacio, scusatemi ancora.
-Chiara.

 

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Capitolo 7
*** A sky full of stars. ***


 
Salve a tuttiii.
So di aver tenuto un prolungato silenzio ma ho avuto una sorta di assurdo blocco. Sarà stato quello che chiamano "blocco dello scrittore". Ero depressa perché non riuscivo a buttare già qualcosa che mi piacesse.
Ieri sera ho trovato l'ispirazione, non so da dove. Questa sera, ho terminato il capitolo. 
Vi suggerisco di ascoltare questa http://www.youtube.com/watch?v=-whS3PD53qE in sottofondo, mi è stata molto d'aiuto. Questa come tutte le altre meraviglie di Ludovico Einaudi.
Ad ogni modo, perdonatemi. Se continuo a mantenere questo ritmo, vorrei provare ad aggiornare prima di lunedì, dato che parto e manco un mese.
Vado a Londra e sono super emozionata ma btw, ce la metterò tutta.
Grazie mille a chi segue questa piccola mia creazione, chi l'ha messa fra i preferiti e chi fra le ricordate. Ed un grazie speciale va anche a chi recensice, senza di voi, cestinerei tutto quanto.
Perdonatemi se vi ho annoiati. Vi lascio al capitolo, spero vi piacciano le novità, era il momento di qualche svolta.
UNA COSA IMPORTANTE: NON HO RILETTO, MA LO FARO' AL PIU' PRESTO, SE TROVATE ERRORI, NON ESITATE A DIRMELO.
Un grande abbraccio, 
Chiara.

cuorecuore.
 
 


‘Cause you get lighter the more it gets dark
I’m gonna give you my heart
 
 
 
 
LOUIS
 
 
Seduto alla mia scrivania, mi rigiravo la matita fra le dita, le unghie corte e mangiucchiate per il nervosismo. Sentivo nella mia testa di dover scrivere, scrivere qualcosa che sapevo conoscere già ma che era talmente confusa e disordinata che non riuscivo a tradurla in parole. La linea dei miei pensieri era tutt’altro che dritta, tutte le mie emozioni sembravano concentrate in un solo punto, tutte aggrovigliate, impossibili da districare.
 Sbuffai per l’ennesima volta, mordicchiando la matita gialla fra i denti e sentendo il sapore amaro sulla lingua.
Ruotai su me stesso spingendomi sulla sedia girevole.
“Scrivere di non saper come scrivere qualcosa è malsano?” scarabocchiai quelle parole sul mio quadernetto e risi stupidamente di me stesso.
Il mio cellulare vibrò, e un nuovo numero comparse sullo schermo sottile del mio cellulare.
Aprii il messaggio, leggendone il contenuto.
 
-Ciao LouLou x-
 
Il messaggio non riportava alcun mittente, ma capii immediatamente chi era.
Una sola persona mi chiamava con quel soprannome ridicolo.
Harry.
La prima cosa che mi venne da fare spontaneamente fu mandare un sms a Liam.
-LIAM JAMES PAYNE, CHI TI HA DATO L'AUTORIZZAZIONE DI DARE IL MIO NUMERO AD HARRY???????- digitai velocemente le lettere sullo schermo.
Appena premetti il pulsante “invio” mi pentii immediatamente, poiché sicuramente era ancora a Brighton con Zayn e interrompere, magari, un bel loro momento non mi andava.
Rispose poco dopo.
-Io non ho dato il tuo numero a nessuno guarda o.o-
Risi.
Poi tornai al messaggio di Harry, a cui risposi frettolosamente.
Cancellai più e più volte, tenendomi il labbro inferiore fra i denti.
Digitai velocemente, infine.
 
-Caro piccolo Styles, chi ti ha dato il mio numero?-
 
-Diciamo che ti lascio il beneficio del dubbio xx-
 
-HARRY STYLES, ti conviene dirmelo, prima che io venga a strapparti quel cespuglio dalla testa con una motosega-
 
-Affascinante. Ti aspetto.-
 
Quel piccolo bastardo riusciva sempre ad avere la meglio, l’ultima parola su di me. Riusciva a spiazzarmi; mi teneva testa. E mi faceva parecchio paura. Mai nessuno, uomo o donna, era mai stato capace di farlo. Ero sempre stato etichettato come quello che “deve avere l’ultima parola” e ora lui stava distruggendo la convinzione che avevo di me stesso.
Che non fossi stato davvero come tutti dicevano?
Uno spavaldo, sempre col sorriso sornione sulle labbra, come senza sentimenti, senza un cuore a battere nella gabbia toracica.
Cosa rappresentava quello? Il vero me o una stupida etichetta?
Mi ritrovai lì, in quel freddo pomeriggio di gennaio a riflettere su chi fossi io veramente, su chi mi conoscesse per davvero. E non riuscii a trovarne una vera risposta. La cercai per fino sui muri e fra i miei scritti, ma non la trovai, abbandonandomi all’idea di non conoscermi davvero neanche io; d’aver, al lungo andare, aver perso la mia identità.
 
 
 
 
 
 
 
 
Marzo.
 
LIAM
 
 
Se avessi dovuto collegare il tempo ad un qualche oggetto, l’avrei di sicuro associato all’acqua.
Strano da dire e strano come pensiero.
Avere dell’acqua in mano, credere sia tanta, ma il tempo di chiudere e riaprire le palpebre in un battito di ciglia, in mano non avere più nulla. Solo la sua scia. La stessa cosa col tempo. Quando credere d’averne tantissimo, in un batter d’occhio non averne più, e ritrovarsi solamente coi segni del suo passaggio; le orme, le ferite. L’esperienza.
 
Conoscevo Zayn praticamente da quattro mesi, e, conoscendomi, le cose fra noi andavano pure fin troppo bene.
Non era difficile ammettere a me stesso che mi stavo innamorando di lui, anzi, forse, lo ero già completamente.  E nonostante ancora non avessimo stabilito il tipo di relazione, per me era a tutti gli effetti il mio ragazzo. E ripromisi a me stesso di chiederglielo.
Crederlo, mi faceva sentire su di giri. Dopo tutto ciò che mi era accaduto, credevo di non aver mai potuto più rivedere la luce. Quindi lui, alla fine, era la mia luce.
Risi di me stesso.
Steso sul letto della mia camera con lui dormiente al mio fianco, pensavo.
Lo osservavo, e lo trovavo ogni volta più bello.
Che i suoi capelli fossero calati sulla fronte o alzati in un ciuffo perfetto, quello non mi importava.
Che la sua barba fosse più lunga, quello non mi importava.
Piuttosto, mi importava di vedere i suoi occhi luccicare, quando con un piccolo schiocco le nostre labbra si separavano.
Lui aveva la testa poggiata sul mio cuscino, rannicchiato in posizione fetale appariva un fanciullo fragile, che ha bisogno di coccole. Ma in realtà lui era forte. Magari non lo era fisicamente, poiché era davvero magro, ma la forza la conservava nel cuore. I suoi gesti la dettavano.
Non è detto che chi è forte però non abbia paura.
Perché continuavo a chiedermi dove fosse quel fatidico “ma” in mezzo a tanta bellezza.
Non volevo che il “noi” che ci eravamo costruiti andasse perduto, perché io sarei andato perduto con lui.
Alzai il busto, cercando di non scuoterlo troppo, e mi avvicinai al suo viso disteso, rilassato. Le sue labbra erano leggermente schiuse e rosee, dal colorito naturale. Allungai una mano verso la sua mascella e iniziai a tracciare il profilo del suo viso. Poi gli baciai la fronte, il naso, la mascella, tutto con studiata lentezza.
Lui, che sembrava continuava a dormire beatamente, non si mosse.
Lo fece solo interi minuti dopo, quando, ancora non avevo sfiorato le sue labbra e lui aprì gli occhi imponendomi di farlo, afferrando la mia faccia con entrambe le mani, in un rapido movimento.
Avevo sorriso sulle sue labbra.
«Ciao» sussurrò, staccandosi da me.
«Ciao» risposi, stampandogli un ultimo rapido bacio a stampo.
 
 
 
La luna era già alta in cielo, in quel giorno primaverile, quando ricevetti il messaggio che sapevo, prima o poi, sarebbe arrivato.
Ed insieme a quello ne era arrivato un altro, quello di Niall, a cui avevo dato il mio numero qualche settimana prima.
Quello del biondo conteneva una riga, una frase molto sintetica.
-Vediamoci al bar di fronte l’accademia, 16:30-
Non conteneva domande, sapeva che non sarebbe stato necessario.
Nonostante io faticassi a fidarmi di qualcuno, ormai, quel ragazzo stava provando a dimostrarmi il netto contrario. Aveva lo sguardo fanciullesco, mi metteva sempre di buon umore, e lo avevo già presentato ad Harry, con cui era subito andato d’accordo.
Avevo finto di non aver letto il messaggio da parte di Zayn, confessai a me stesso d’aver paura di scoprire quella verità, che ero certo, mi avrebbe fatto del male.
Mi preparai per uscire con Niall, che come sempre, sarebbe stato puntuale come un orologio svizzero; quello sempre in ritardo era il mio ragazzo.
E quel “mi sa che dobbiamo parlare” mi ronzava in testa, rendendomi nervoso.
 
«Ciao, Lee!» mi salutò il biondo, accorgendosi della mia presenza a pochi passi dal tavolo riservato per noi. Usò quel soprannome che usava mia mamma quando ero piccolo, e sorrisi.
Lo salutai con un breve ma stretto abbraccio. Avevo sentito dire che gli abbracci facevano bene, quindi ne approfittavo.
Dopo aver ordinato uno spuntino per entrambi, ci concedemmo delle chiacchiere, prima che io gli raccontassi del messaggio che avevo ricevuto da Zayn. E avevo ammesso di averlo ignorato di proposito, poiché avevo una paura marcia.
«La favoletta è finita, Niall.» dissi, nascondendo la mia espressione triste dietro la mia tazza di tè caldo.
«Smettila, non è vero. Non sai di cosa si tratta, ma lo avresti saputo se gli avresti risposto.»
A quelle sue parole, il cellulare vibrò sotto i miei occhi, lo afferrai e un nuovo messaggio di Zayn illuminò la home del mio cellulare. «Non lo leggo tanto.» affermai, bloccando il telefono. «Liam Payne!» mi rimproverò il mio amico. «Non comportarti come un poppante, sblocca questo telefono e leggi e rispondi a quel messaggio.» continuò. «No!» protestai. «Ah, no? Allora lo farò io per te.» esclamò, con un ghigno sulle labbra, mentre si sporgeva sulla mia parte di tavolo e afferrava il mio cellulare.
Niall a me ci teneva. Ed io a lui. Ma in quel momento lo avrei picchiato, se non fosse stato che aveva assolutamente ragione.
«Okay, okay, lo faccio.» mi arresi.
Aprii la casella dei messaggi con le dita tremanti.
-Liam, forse ho sbagliato parole, so quanto incutono terrore quelle due in particolare. Ho solo bisogno di parlare con te. Col mio ragazzo. E’ importante. So che hai volontariamente ignorato il mio sms; ho paura quanto te. Vediamoci, ti prego-
Parole sconnesse vorticavano nella mia testa che in quel momento era come una scatola chiusa a chiave e piena di api che sbattevano frettolosamente le ali.
Ero confuso ma Zayn aveva detto di avere paura, che era importante, che ero il suo ragazzo e che voleva vedermi, e dovevo farlo.
Senza pensarci due volte digitai il messaggio di risposta, dicendogli di venire a casa mia per cena.
 
Niall provò a distrarmi per il resto del tempo che passammo in quel bar, il solito dei nostri incontri. Quando ci salutammo mi strinse più possibile per darmi anche un po’ del suo coraggio, della sua forza.
Piccolo, esile. Un fratello per me. «Grazie» gli sussurrai, prima di salire in macchina.
 
Arrivai a casa per le 18:30, sapevo che Zayn sarebbe arrivato per le 19:30, quindi per occupare il tempo che ci separava, decisi di preparare io la cena. A caso, scelsi il pollo fritto, accompagnato da diverse salse.
Mentre preparavo la rosa, il suono del campanello sciolse la mia concentrazione. Mi rizzai, asciugai le mani col panno che tenevo sul banco da cucina e con ancora indosso il grembiule aprii la porta, cercando di comportarmi normalmente.
Una rosa rossa vidi apparire, prima dei suoi grandi e luminosi occhi marroni.
Dimenticai di ogni ansia quando aprì le labbra in un sorriso.
Notai subito la tensione nel suo volto e nei suoi movimenti; era nervoso quanto me. E lo conoscevo, ormai, abbastanza bene per confermarlo.
Indossava un paio di stretti jeans neri, con sopra una maglia nera, giubbotto di pelle nero con la cerniera slacciata e anfibi rigorosamente neri. Il total black gli donava. Il mio ragazzo era davvero sexy.
«Ciao Liam.» mi salutò, porgendomi la rosa che mi affrettai ad osservare. Dividevo il mio sguardo fra i petali rossi, gli occhi di Zayn e le sue labbra asciutte.
Feci un passo avanti con la mano destra afferrai il fiore fresco, l’altra mano la appoggiai sulla spalla del mio ragazzo e mi sporsi per baciarlo, ancora sul ciglio della porta. Fuori era freddo e buio, i lampioni ancora spenti. Quando ci separammo dissi una sola parola, «Tranquillo».
Sospirammo entrambi. Poi presi la sua mano e la rosa e lo tirai dentro casa.
Nella prima mezz’ora della serata avevamo parlato del mio pollo, lui sosteneva ancora che il suo fosse migliore del mio nonostante il mio fosse pure buono. Sapevo che stava, anzi, stavamo, cercando di evitare arrivare all’argomento che ci aveva spinti a trascorrere quella serata insieme. «Zayn, prima che parliamo sul serio.. vorrei chiederti una cosa.» dissi, tornando serio.
«Certo, dimmi.» gracchiò, torturandosi le dita.
«Noi due.. io.. tu.. stiamo insieme? Cioè..»
La sua espressione mutò.
«Sì, Liam.» disse, in tono sicuro.
Si sporse sul tavolo per baciarmi, in uno schiocco di labbra dolce.
«Sparecchiamo e andiamo di lì a parlare.» disse, con tono grave.
Annuii. Avrei voluto andare di lì per baciarlo ancora e ancora. Ore a consumare quella perfezione di labbra, quei candidi petali di rosa che sapevano sempre di qualcosa di diverso.
 
 
 
 
I don’t care, go on and tear me apart
I don’t care if you do
‘Cause in a sky, ’cause in a sky full of stars
I think I see you
 
 
 
 
 
Quando ci spostammo in soggiorno, sentii davvero l’ansia montare dentro me.
Mi sentivo come col respiro bloccato in gola, come se stessi precipitando.
Pensavo tante di quelle cose che non riuscivo davvero a concentrarmi su un unico pensiero.
Cosa voleva dirmi?
«Siediti sul divano, porto qualcosa da bere.» dissi, accendendo la luce, lasciando che si accomodasse e si mettesse a suo agio.
Le mie ansie, il mio nervosismo, le mie paure, quelle che lui aveva allontanato, stavano tornando, lo sentivo.
Avevo una brutta sensazione.
Sapevo che quella sera avrei dormito coperto fino all’ultimo capello, con la luce dell’abatjour accesa.
I miei mostri del passato che tornavano a prendermi.
E no, non ero un fifone o un codardo. Avevo solo paura perché ero consapevole che, ancora una volta, ero troppo debole per sconfiggerli, non da solo.
Chiusi l’anta del frigo con due birre in una mano, e due bicchieri in vetro blu nell’altra. Tornato in soggiorno osservai il mio uomo seduto sul mio divano in pelle. Stringeva con forza un cuscino fra le mani.
Io dovevo essere forte abbastanza per entrambi.
Lasciai le birre e i bicchieri sul tavolinetto ai nostri piedi, e mi sedetti giusto accanto a lui, e presi ad osservarlo. Studiavo i tratti del suo viso: ciò che mi avevano reso irrevocabilmente innamorato di lui a prima vista.
Non era mai stato un gioco per me.
Mi chiedevo come fosse possibile fidarsi di una persona solo guardandola una volta negli occhi.
Io ci avevo scorto la tranquillità, dentro quel mare di cioccolato, e mi ci ero fiondato dentro, perché, di quiete, ne avevo bisogno anche io.
«E’ meglio che io inizi a parlare prima che scappi senza dirti nulla.» iniziò.
Annuii. Il magone che avevo in gola non dava segni di cedimento.
Ti prego.
«Allora, ecco.. un paio di giorni fa ho ricevuto una lettera. Quando ho letto chi fosse il mittente avrei avuto voglia di strapparla e bruciarla senza leggerla, ma non ce l’ho fatta.» spiegò. Annuii ancora.
«Era mio padre. Non ho idea di come abbia fatto a trovare il mio indirizzo preciso, dato che non lo conosce nessuno dei miei familiari, ne che razza di strana idea gli sia saltata in mente.» disse, molto velocemente.
Deglutii a vuoto, respirai quasi a fatica.
Ti prego.
«Dice che vuole vedermi. Forse pensa che sia cambiata qualcosa e io non lo so, Liam. Non so che fare.» continuò, con la voce spezzata dal singhiozzo nascente.
«Per favore, non piangere.» dissi, in tono grave. La mia voce mi tradiva, trapelava quasi dolore.
Inspirò e annuì. «Vuole vedermi, dopo tutto quello che mi ha fatto. Capisci? E io non ho idea di che fare. Nella lettera dava accenno ad un suo ritorno nella mia vita e non credo abbia cambiato il suo pensiero, lui pensa me cambiato. E se lui si imponesse, le cose fra noi dovrebbero irrimediabilmente cambiare e io non voglio farti soffrire, Liam; non voglio.»
Le sue parole furono come un pugno nel petto, nello stomaco.
Ecco, tutto stava tornando.
Salvami.
Voci nella mia testa, urla. Di dolore, strazio.
Non dovevo piangere.
Non mossi un muscolo.
«Io vorrei vederlo, vorrei sapere cos’ha da dirmi ma se lui mi facesse di nuovo quello che ha fatto? Se dovessi lasciarti? Io ne morirei. Non riesco a starti lontano per più di un giorno immagina per una vita intera.» a quel punto piangeva. Le lacrime fredde e salate solcavano le sue guance come gocce di pioggia sui vetri.
Abbassai la testa, guardavo le mie dita lunghe, torturarsi fra loro.
La luce gialla e bassa nella stanza mi dava tranquillità, il suo respiro affannato, potevo sentirlo, mi metteva agitazione.
Stava cercando di controllarsi. E anche io. Nessuno dei due ci riuscì.
Io gli credevo, gli credevo con tutto il cuore. Tanto quanto lo amavo. Sapevo che non stava scappando da me, che non stava cercando di nascondersi, di nascondere il sentimento che lo legava a me.
Chiusi gli occhi, un cielo pieno di stelle e il suo viso fra di loro.
Sentivo un dolore sordo all’altezza del petto. Un peso.
Un singhiozzo.
E le mie lacrime.
Prendimi la mano.
«Io non p-posso. Non posso lasciarti andare. Tornano da me, e mi fanno paura da morire» dissi, stringendo le mani a pugno. Mi sentivo un bambino bisognoso di cure, affetto e protezione.
«Io non voglio! Liam, capisci? Ma io devo vederlo, è pur sempre mio padre. Per colpa sua ho perso la mia famiglia e se potessi ritrovarla per me sarebbe stupendo!»
«Ti capisco, Zayn, davvero. Ma come faccio a lasciarti andare?»
«Non giungere a conclusioni affrettate, aspetta che io lo veda, che parli con lui, poi si vede.» poi si era avvicinato a me, bruscamente, mi aveva preso il viso fra le mani e mi aveva sussurrato un “non piangere”.
«Okay, Liam?»
Annuii.
«Ora vado, ti lascio un po’ solo a riflettere. Devo farlo anch’io. Domani lo incontro, ci vediamo subito dopo.»
Ci alzammo dal divano. Le mie gambe erano instabili, come la mia mente in quel momento.
Allargò le braccia e mi rifugiai in lui come con una coperta calda.
«Non lasciarmi» sussurrai sulle sue labbra.
Lui scosse la testa piano, socchiudendo gli occhi tristi.
Poi un’altra volta mi prese la testa fra le mani e le nostre bocche si unirono in un bacio casto, di sole labbra.
Un piccolo incontro da brividi, come ogni nostro incontro.
Come il primo.
Lo ricordai, quasi cinque mesi prima, seduto su quella panchina ormai andata con un libro fra le mani e la speranza che solo un lettore può avere negli occhi.
Forse ero precipitoso, ma in quel momento pensavo davvero di non poter vivere senza lui per molto.
Ore, giorni, senza lui, sarebbero stati una lenta tortura.
Sarebbe stato tornare ai miei incubi.
Se lui mi avesse lasciato la mano, io non l’avrei presa a nessun altro.
Quando ci separammo lo accompagnai sull’uscio.
«Buonanotte» lo salutai, col sapore dell’acqua salata sulle labbra.
«Buonanotte, Liam, fai bei sogni.» sorrisi e dopo aver chiuso la porta, mi rifugiai sotto le coperte, come se non avessi più scampo.
 
Erano passate quattro ore da quando casa mia era rimasta vuota se non con me dentro.
L’orologio sul mio comodino segnava le 3:53, era tardi, ma avevo bisogno di parlare con l’unica persona che chiamavo sempre quando avevo bisogno di ridere un po’. Chi se non Louis?
Ma avevo anche bisogno di Harry.
Quei due non facevano altro che bisticciare ma sapevo che mi avrebbero aiutato.
Chiamai entrambi, a Louis bastò sentire un mio singhiozzo per dirmi “sto arrivando”; lo faceva sempre.
Harry mi chiese spiegazioni, cercando di calmarmi, dicendomi che non sempre tutto deve andare per il peggio. Che certe volte le cose appaiono disastrose mentre non sono altro che piccolezze e io avevo provato a crederci ma l’unica cosa che riuscivo a pensare era che amavo Zayn irrimediabilmente e che se suo padre me lo avesse portato via io avrei fatto di tutto per riprendermelo, solo col suo consenso.
Louis ed Harry si ritrovarono entrambi sull’uscio della porta di casa mia. Li sentii arrivare, ero seduto per terra con le spalle alla porta, a piangere silenziosamente. Si erano limitati a dirsi qualche parola di scherno, ma sapevano che avrebbero dovuto mettere ogni tipo di sentimento da parte per me, e per quello li avrei eternamente ringraziati.
Quando suonarono il campanello mi sollevai da terra e aprii la porta.
Li osservai, serio.
Ero contento di vederli.
«Che ti ha fatto quello scemo? Io gli spacco la faccia!» disse Louis superandomi.
Harry rimase in silenzio, trattenendo la battutina che stava spontaneamente scappando dalle sue labbra, e mi abbracciò, dandomi un po’ del calore che avevo bisogno.
Spostatici in camera da letto tornai sotto le coperte con loro ai miei lati.
Gli raccontai tutto, dai messaggi all’ansia, alle nostre lacrime, della lettera, e del nostro probabile addio.
«Non era un addio.» disse, Harry.
«Per una volta devo essere d’accordo con lui, Liam, non era un addio, lui ci tiene a te quanto tu tieni a lui.»
Alzai le spalle, non convinto.
Piansi ancora. Mi addormentai quasi un’ora dopo il loro arrivo.
I miei mostri mi disturbarono solo per chiedermi se era necessario tornare.
Tienimi con te.
 
 
 
 
LOUIS
 
«Dorme?» domandai ad Harry, che era seduto nel lato del letto in cui Liam aveva preso sonno.
«Si, finalmente.» risposi.
«Andiamo di lì, lasciamolo riposare.»
Ci spostammo in cucina più cautamente possibile. Liam sembrava proprio il nostro bimbo anche se sapevo che certe volte dimostrava molta più maturità di me che avevo qualche anno più di lui.
Sedutomi su uno degli sgabelli in pelle della cucina, appoggiai stancamente i gomiti sul bancone in legno laccato bianco. Lui nel frattempo verso dell’acqua nel bollitore per farsi –probabilmente- un tè.
«Prendi dell’acqua» dissi.
«Mammina non ti ha fatto gambe e braccia? Prenditela da solo» mi rimbeccò.
«Non essere scorbutico, fai il bravo, cespuglietto.»
«Dobbiamo proprio parlare dei nostri capelli? Perché avrei una lista di insulti pronti per i tuoi» ridacchiò.
Era adorabile.
Mi pizzicai il braccio solo per averlo pensato.
«Harry, su, prendimi un bicchiere d’acqua, ho sonno.» mi lamentai.
«Primo: ricordati che sei qui per Liam, proprio come me. Secondo: anche io ho sonno. Terzo: perché dovrei prendertela io?»
«Perché sei l’unico che può farlo..? Mica posso chiedere a Payno.»
«Ripeto, puoi pure prendertela da solo»
«No invece. Me la prenderai tu. Per favore.» dissi con tono supplicante. Lui annuì e mi porse davvero il bicchiere d’acqua pieno.
«Mi stupisco.»
Nel frattempo si era avvicinato al bancone, e si era tolto la maglietta.
«Mi sono trattenuto dal versarti l’acqua in testa.» sorrise, aprendo gli occhi, mostrandomi quel verde prato che finiva all’orizzonte.
«Ma tu hai una riserva di battutine pronte?» chiesi, scherzando.
«Può darsi.» ridacchiò. «In realtà le ho tutte appuntate in un diario e ogni tanto vado a ripassarle.»
«Idiota» borbottai. Tornò di fronte a me dietro il bancone e i diede le spalle per versare l’acqua bollente nella tazza. «Ne vuoi un po’?» mi domandò, sorprendendomi ancora.
Annuii, nonostante non potesse vedermi. Poi «Si, grazie.» aggiunsi.
«Visto, anche noi sappiamo essere civili? Non dobbiamo continuamente romperci bottiglie intesta o riempirci di insulti.»
«Che filosofo» lo presi in giro.
«Louis, quando devi sparare cavolate di questo tipo preferisco tu tenga quella fogna chiusa.» disse, passandomi la tazza e sorseggiando il suo tè fumante.
«Io non puzzo, tu si. La mia bocca è sempre profumata»
«Mi stai provocando, Tomlinson?» mi domandò.
Alzai le spalle, con un sorriso malizioso disegnato sulle labbra.
«Sei intelligente, Harold!» osservò.
«Odio quel soprannome, e lo sai, cretino.» borbottai, ringraziandolo mentalmente per il complimento.
«Dovresti imparare a tenere la boccuccia chiusa.» lo rimbeccai. «Perché non mi fai vedere come si fa?» in realtà era lui, era sempre stato lui a tenere il gioco in mano. Ma per una volta toccò a me avere le redini, toccava a me stabilire tutto. Ogni singola mossa.
E quella che feci subito dopo quella frase sorprese pure me.
Senza rifletterci, posai la tazza sul bancone -alla mia destra-, allungai le gambe verso lui e le strinsi all’altezza del suo bacino avvicinandolo bruscamente al mio viso.
Potevo sentire il suo respiro caldo sulle labbra. Sapeva di tè e di rose.
Allacciai braccia e gambe a lui e costrinsi le nostre bocche ad incontrarsi.
Fu un bacio lento e veloce contemporaneamente.
Eravamo presi dal vortice.
Tutto in torno a noi era sfocato. Un mix di bianco nero e rosso fuoco.
Lui poggiò istintivamente ai lati del bancone, a chiuderci in un’unica cosa, un groviglio di corpi, respiri.
Quando ci separammo, lui si toccò la bocca calda e rossa con un dito. Quasi incredulo.
E poi fu lui a baciarmi.
Continuammo a farlo fino a che il sole non fu sorto, ormai sul divano. Fino a che Liam non si era svegliato ed era corso in bagno, sbattendosi la porta alle spalle.
Aveva spezzato il filo che teneva legati me ed Harry. Quello che ci aveva spinti a rimanere uniti per quasi due ore, senza imbarazzo.
Il riccio si alzò di getto, a piedi nudi e corse verso la camera da letto di Liam.
«Ha preso il cellulare.» disse, uscendo di nuovo, e fissandomi con aria seria.
La preoccupazione tornò a farsi strada nei volti di entrambi; Zayn lo aveva chiamato.
E qualcosa in bagno si era rotto, la mia testa non riuscì a capire se fosse stato qualcosa di materiale, o il cuore del mio migliore amico.
 

 


 

La canzone, che tutti conosceranno, è "A sky full of stars" dei miei adoratissimi Coldplay.
 

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Capitolo 8
*** All of the stars. ***


And I thought of us
Back to the time,
You were lying next to me
I looked across and fell in love
So I took your hand
Back through Londons streets I knew
Everything led back to you
So can you see the stars?



 

LIAM
 
 
 
Morfeo mi aveva stretto fra le sue braccia non molto dopo da quando erano arrivati i miei migliori amici.
Avevano cercato di tranquillizzarmi in ogni modo possibile, e , a quanto pare, avevano avuto successo, perché ero crollato, anche se con le lacrime secche sulle gote.
Avevo dormito un sonno agitato, come quasi ogni notte, ma non avevo visto niente. Era tutto buio. Una lotta a luci spente, confusione.
Mi svegliai di soprassalto, la fine di uno dei miei incubi. Quando tornai a respirare regolarmente mi guardai in torno, la mia stanza era poco illuminata; ero coperto fino al collo ed ero sudato. Harry e Louis erano spariti. Mi voltai per guardare l’ora sulla sveglia che segnava le 6:37.
Presi il mio cellulare dal comodino in legno laccato nero alla mia sinistra e scoprii d’avere un messaggio ricevuto, era Zayn.
Il mio cuore accelerò vistosamente.
Lo aprii senza esitare un attimo in più.
-Scusami tanto.-
Senza conoscere la vera ragione delle sue scuse, provai un forte dolore all’altezza del petto, quasi come se il cuore mi si fosse lacerato. Sentivo di sapere la verità, quasi come una previsione. Un avviso.
Mi alzai di corsa e schizzai verso la porta del bagno, chiudendomi dentro a chiave.
Respiravo a fatica; avevo urgente bisogno di parlare con lui, di sentire la sua voce, nonostante la causa del mio dolore fosse lui stesso.
Lo chiamai, non curandomi dell’ora.
Quattro squilli, e la sua voce dolce e strascicata arrivò alle mie orecchie, preoccupata.
«Liam, hey»
«Zayn, tu.. stai bene?» domandai con voce tremolante.
«Si, per adesso. Tra qualche ora vedrò mio padre.» spiegò.
«E quel messaggio?» domandai ansioso.
Sospirò. «Mi stavo scusando per tutto. Per il passato e anche per il futuro.»
«Perché pensi che ci sia necessità di scusarti per il futuro? Cosa hai intenzione di fare, Zayn?» chiesi, ancora, incalzando.
«Ti ho già spiegato che no..»
«Non lo sai, si, ho capito» lo interruppi, «Non preoccuparti adesso. Pensa ad ascoltare tuo padre e poi passa subito da me, ti prego, ho bisogno di te. Ho bisogno del mio ragazzo.» mi accorsi di aver ripetuto involontariamente le stesse parole da li usate nell’sms del giorno prima solo quando me lo fece notare.
«Voglio baciarti.» aggiunse.
Sospirai affranto. «Anche io,» dissi, «vorrei che tu fossi qui, ora e sempre. Così da poter farlo quando mi va e non quando abbiamo un po’ di tempo».
«Liam, è meglio che chiudiamo prima che faccia qualche scelta sbagliata.» ridacchiò, sollevandomi l’umore.
Quando mi salutò il mio cuore sprofondò, però, di nuovo in un mare d’ansia. Ci affogò dentro, dopo poco, annaspando in cerca d’aria; in cerca di una mano ad afferrarlo.
 
 
 
Passai probabilmente una buona mezz’ora chiuso in bagno, a fissare il pavimento lucido.
Il bussare insistente mi distrasse, e «Liam!» mi chiamò Louis.
«Sono vivo.» mormorai.
«Pensavo ti stesse scappando e fossi corso in bagno per non farla addosso, ma dopo mezz’ora inizio a preoccuparmi che tu sia caduto nella tazza».
Eccolo, Louis, l’unico che sapeva farmi ridere, far distendere le mie labbra in un sorriso anche quando avrei voluto davvero sparire. Sparire e non tornare.
Mi alzai da terra, aprii la porta con un gesto veloce e gli gettai le braccia al collo. «Ti ho mai detto di volerti bene?» chiesi io, affettuosamente.
Una volta che ci fummo separati dall’abbraccio, «Ti ho mai detto che puzzi?» ribatté lui, con un sorriso furbo sulle labbra. Non potei fare a meno che ridacchiare, anche se con gli occhi gonfi di pianto era un po’ buffo.
Prima che potessi chiudermi di nuovo in bagno per fare una doccia, lo sentii dire a bassa voce un “ti voglio bene”, che mi scaldò un po’ il cuore.
 
 
 
 
Trascorsi forse un’ora sotto la doccia. Non avevo di meglio da fare che pensare a ciò che sarebbe presto accaduto.
Poteva un incontro rovinare tutto?
Poteva un incontro distruggere qualcosa di seminato e coltivato con cura, per giorni interi?
Mi rifiutai di piangere ancora, non sarebbe servito ad altro che a peggiorare la condizione dei miei occhi.
Ancora in accappatoio e a piedi nudi, aprii la porta del bagno, trovando Louis ed Harry a farsi gli occhi dolci sul mio divano.
Finsi di non notarlo, sorrisi dentro me però. Non mi andava di parlare di questioni sentimentali di qualcun altro se la mia relazione era in bilico, sul filo di un rasoio, pronta a cadere e sgretolarsi.
«Avete fame?» domandai.
«Certo che ne abbiamo e dovresti mangiare anche tu; cucino qualcosa?» rispose prontamente il riccio, scattando in piedi. Mi avvicinai con passo cadenzato a lui, e poggiandogli le mani sulle spalle lo spinsi di nuovo sul divano. «Harry, non sono un malato terminale, posso ancora ragionare e quindi anche cucinare qualcosa per colazione.» ribattei.
Louis ridacchiò, «Effettivamente lo stai trattando come un idiota.» mi difese.
«Tu stai zitto.»
 
 
Trascorsi l’intero pomeriggio con loro due.
Dietro i pochi sorrisi che riuscivano a strapparmi c’era una lacrima salata, e paura.
Mentre loro mi parlavano, io non facevo altro che pensare che in quello stesso momento il mio ragazzo stava discutendo con un importante pezzo mancante della sua vita. Un pezzo che poteva riavere indietro.
Io non conoscevo il signor Malik, non sapevo cosa sarebbe stato disposto a chiedere al figlio pur di riaverlo indietro. Non sapevo se sarebbe stato disposto a scendere a patti con lui, se gli avrebbe chiesto di tornare nella vita uno dell’altro dimenticando tutto e ricominciando da zero, o se gli avrebbe dato un ultimatum imponendogli di tagliare ogni legame con me.
Tutta la mia vita nelle mani di un uomo che neanche conoscevo.
Non c’era niente che mi distraeva dal pensare al peggio. Avevo voglia di Zayn fra le mie braccia, fra le mie gambe, tutto intorno a me, e non potevo averlo.
Non avevamo ancora condiviso il momento intimo e profondo dell’amore vero e proprio, e perdermelo sarebbe stato, forse, ancora più straziante.
Sentirmi completamente suo e lui mio, era ciò che più desideravo. Bruciavo di desiderio, ma in quel momento il desiderio era tutt’altro che solo bisogno carnale, avevo solo bisogno della sua presenza, delle sue mani e del suo respiro regolare accanto a me, della sua presenza viva.
 
 
ZAYN
 
L’appuntamento era al parco a dieci minuti da casa mia. Non riuscivo ad alzarmi dalla sedia, sentivo il cuore tamburellarmi nel petto. Un dolore quasi costante.
Le mura di casa mia sembravano restringersi, volermi soffocare; così, mi alzai, respirando a fondo e a lungo.
Mi passai una mano fra i capelli decisamente scombinati, e afferrando la giacca di pelle uscii fuori all’aria aperta. Iniziai ad incamminarmi verso il giardinetto.
Strisciavo i piedi sull’asfalto, le gambe pesavano, come la testa. Mille pensieri la affollavano: andavo ad affrontare un grande cambiamento per me, per la mia vita; quello definitivo.
Mi chiedevo come sarebbe andata, cosa mi avrebbe chiesto mio padre, come si sarebbe comportato con me. ma non avevo alcuna risposta, solo il tempo me lo avrebbe rivelato.
Arrivai qualche minuti in anticipo sul luogo dell’appuntamento ma lui era già lì.
E quando lo vidi il fiato mi si mozzò in gola, mi bloccai, i piedi fissi sul terreno fresco dopo la pioggia, l’aria fredda a sferzarmi il viso, a scombinarmi i capelli.
Alzò il viso e mi rivolse uno sguardo serio, duro. Non era per niente come mi aspettavo.
Certo non mi aspettavo abbracci di riconciliazione, ma almeno un sorriso, quello forse lo pretendevo.
Qualche passo, ed eccomi davanti al tassello mancante della mia vita. Mi somigliava molto.
Si alzò in piedi quando fui a due metri da lui e mi salutò porgendomi la mano. Esitai a stringergliela, ma lo feci. E in quella stretta rividi me stesso, uno Zayn quattordicenne, la sera della festa. Fu come uno schiaffo in pieno viso. Era la sera in cui tutto era iniziato, o finito.
Tutte le mie sofferenze, racchiuse in una stretta di mano, la stessa che mi aveva percosso, mi aveva procurato dolore.
«Ciao, Zayn.»
«Ciao» dissi, freddo più del ghiaccio.
«Come stai?» domandò. Non lo conoscevo, non più, non avevo idea di ciò che stesse pensando in quel momento.
«Non mi lamento per niente.»
«Raccontami un po’ come va la tua vita per ora. Che fai? Lavori? Studi?» chiese ancora. Abbassai il capo.
«Sediamoci» dissi, indicando la panchina dietro lui. Annuì impercettibilmente.
«In questo momento lavoro come commesso in una libreria ma ho intenzione di iniziare a riprendere gli studi.» iniziai. Avevo deciso che sin da subito avrebbe saputo di Liam.
«Il mio ragazzo mi ha detto che nella sua scuola ci sono anche corsi di disegno, e vorrei partecipare.»
Quando sentì quelle parole, la sua espressione mutò.
«Il tuo…?», «Ragazzo, sì.» conclusi la frase per lui. «Le cose non sono cambiate, vedo.» osservò, «Me ne sono andato per essere me stesso, non per essere ciò che non sono per piacere al mio stesso genitore, alla mia famiglia.» sputai, tutto d’un fiato. Come si fanno le cose che si devono affrontare con coraggio.
Un minuto di silenzio seguì la mia frase. «Perché mi hai cercato?» domandai, «Perché pensavi che le cose sarebbero state come volevi tu?» incalzai.
«Ti ho cercato perché ti rivoglio indietro. Sono malato, Zayn» disse piano,  «E avevo voglia di passare un po’ di tempo con mio figlio, il mio unico figlio maschio.» decretò.
Farsi investire da un carro armato sarebbe stato meno doloroso di sentirsi dire una cosa come questa.
Non era poi una brutta idea.
Liam, dove sei?
«Sei.. malato?» domandai, con la voce rotta. «Si, ho un linfoma, non si sa se è curabile ma è grave.» rispose, cauto.
«Tornerai da me?»
«Mi accetterai così come sono?» replicai. Forse era cattivo chiederlo in quel momento, ma almeno avrei sofferto a metà. Liam avrebbe lenito le mie ferite, come faceva da mesi ormai, e avrei pianto con un solo occhio se lo avessi avuto al mio fianco.
«Zayn..» iniziò. Quello era un pessimo inizio. «Mi sei mancato molto, figliolo» continuò. «Ma? C’è un ma, lo so» dissi. «Non cambierò idea» disse, freddamente.
«Quindi mi vuoi con te, ma non per come sono davvero? Dovrò lasciare Liam. Mi stai chiedendo questo, no?»
«Non..»
«Si invece. Stai domandando a tuo figlio di vivere ancora col pensiero di essere un errore, di essere diverso, di vivere nella sofferenza, solo per puro egoismo!» dissi, interrompendolo. Boccheggiò. «Il mio uomo è coraggioso. Fino a due anni fa veniva picchiato a sangue dai bulli perché è come me, perché siamo così, come ci vedi tu. Ti farebbe schifo tuo figlio se lo vedessi baciare un ragazzo?» incalzai, esplodendo. Tutto il dolore si stava sprigionando, lo sentivo nelle vene, la parte cattiva di me stava emergendo, la parte che pochi conoscevano.
Boccheggiò ancora, lo stavo sorprendendo. Ero cambiato. Le sue punizioni avevano fatto effetto, ma non quello che sperava lui.
«Zayn..»
«Zayn, Zayn, Zayn! Dimmi la verità. Solo un si o un no» dissi.
«Credo di si» una risposta che speravo di non sentire. «Torna da me» mi implorò. «Torna a casa da me, mamma e le tue sorelle» aggiunse. «Ma se non ho neanche più idea di come siano fatte le mie sorelle!» urlai.
I pochi passanti e presenti al parco si voltarono, ero stato un po’ brusco ma non potevo farne a meno.
«Manchi a tutti»
«Manco a tutti? Come puoi solo pensare di inventarti una cosa simile? Se fossi mancato a tutti mi avreste cercato prima» sospirai rumorosamente. La testa implorava tregua. I ricordi, prima impolverati, erano tornati tutti a galla e sentivo gli schiaffi e i colpi di cintura ancora bruciare rosso vivo sulla pelle.
«Torna.»
«Devo pensarci.» dichiarai. «Ti richiamo io» disse. Mi alzai in piedi, scalciando i sassolini sotto i miei piedi. «Zayn, voglio che torni. Lascia quel ragazzo, è uno come tanti, la famiglia è ciò che conta di più. La famiglia ti fa felice, non il tuo fidanzato» disse. Sentivo il suo sguardo addosso, non lo guardavo.
Dopo quella sua frase, «Ciao» fu l’unica cosa che riuscii a dire. E mi allontanai velocemente, senza nemmeno pensare di aspettare una sua risposta, senza un sorriso, senza un abbraccio. Senza niente.
 
 
 
Quella era stata la peggiore discussione della mia vita.
Era in ballo il mio tutto.
Entrai in casa sbattendo la porta, e tirai le chiavi di casa contro il muro. Mi sentivo in una barca, dentro una tempesta, solo. Avrei voluto correre da Liam e stringerlo forte, ma non potevo. Non potevo, perché stavo davvero valutando l’idea di metterlo da parte per tornare dalla mia famiglia inconsciamente.
Lui momentaneamente era la parte migliore di me. Aveva cominciato a migliorare le mie giornate sin da quel giorno in cui si era seduto su quella panchina scricchiolante accanto a me, e accanto a me c’era ancora. E lui era ciò che mi rendeva felice.
Ma se non fosse durata? Se lui si fosse stancato di me? L’idea di perderlo era lacerante, ma era qualcosa di possibile, anche se io ero perdutamente innamorato di lui.
Me n’ero reso conto giorni prima, quando, mentre cucinava per entrambi, mi chiedeva cosa preferivo. E avevo fissato lo sguardo nel suo, gli occhi luminosi.
In quel momento avevo riflettuto a quanto quell’uomo potesse essere importante per me. Liam era coraggioso, e forte. Forte e bello. Lui era l’uomo che ogni donna desidera, e anche se io non lo ero, lo amavo e desideravo comunque, e desideravo donargli più amore di quanto qualsiasi donna sarebbe stata disposta a dargli.
Mi tuffai sul divano, esausto. Avevo bisogno di dormire, ma non ci sarei riuscito senza sentirlo.
Mi alzai, per poi stendermi sul letto col cellulare fra le mani. Digitai velocemente sullo schermo.
-Ciao Lee.-
La risposta fu immediata. Lo immaginai a dondolarsi sull’amaca nel giardino di casa sua, a stringere il cellulare fra le mani, aspettando un mio messaggio.
Sì, lo amavo decisamente.
-Ciao..-
-Non chiedermi com’è andata-
-Ti chiamo.-
Due secondi dopo, senza neanche darmi il tempo di replicare, la sua foto e il suo nome comparvero sul mio schermo.
Risposi non prima dei due squilli. «Hey» mi salutò. Io risposi sospirando.
«Non ti chiederò nulla.» disse.
«Grazie.» risposi semplicemente. «Però parlami lo stesso, leggimi qualcosa, adoro la tua voce».
Iniziò a leggere dal terzo rigo di pagina 47 di un libro a me sconosciuto.
Il suono così dolce della sua voce, mi cullò fino a quando il sonno non mi raccolse con se, rendendomi più vulnerabile possibile.
 
 
 
LIAM
 
 
Pagina 49.
Sentivo il suo respiro regolare, sapevo che dormiva, avrei dovuto chiudere ma non ci riuscivo.
Quando lo avevo chiamato mi aveva risposto con un sospiro pesante, non era niente di buono.
Il mio cuore non era pronto per la botta, non ero decisamente pronto ad un addio.
Terminai la chiamata circa trenta minuti dopo. E rimasi sveglio per i successivi quaranta, ripensando al “ti amo” che gli avevo sussurrato quando avevo chiuso; poi crollai anche io.
 
 
ZAYN
 
Il mio umore il giorno successivo riprendeva i colori del cielo: grigio.
Senza fare colazione, mi ero spostato dal letto al divano. La casa era fredda, io ero freddo. Tutto era freddo senza Liam. E io stavo pensando di lasciarlo.
Mi presi la testa fra le mani, cercando di riordinare tutti i pensieri, di separarli.
La famiglia: tassello fondamentale nella vita di un essere vivente.
 
Non avevo ricordi felici della mia famiglia, se non quelli fino al mio quattordicesimo compleanno. Ne erano passati altri otto, e non ricordavo neanche più cosa significasse trascorrere una ricorrenza con i parenti, coi regali, le tavole imbandite per cento anche se si era la metà, la musica in sottofondo alle mille chiacchiere. Non ricordavo neanche più le espressioni sul viso di mia sorella Doniya quando le rubavo un regalo e lo scartavo per lei, o quando andavo a svegliare Waliyha saltando sul suo letto ripetutamente, ma la cosa peggiore era che neppure ricordavo il colore degli occhi della piccola Safaa.
Avevo rinunciato alla mia famiglia da ormai cinque anni. E dire che non ne sentivo la mancanza, era una grossa bugia. Della mia famiglia mi mancava tutto, tutto prima della festa.
Mi chiedevo che cosa sarebbe successo se le cose quella sera non fossero andate in quel modo. Mio padre lo avrebbe saputo? Se glielo avessi confessato, come avrebbe reagito? E mia madre?
La mamma, l’ancora di ogni figlio. Tranne che la mia. Trisha, una donna bella, e forte, ma poco determinata. La ricordavo come la donna sempre sorridente che dopo aver scoperto della mia omosessualità aveva iniziato a rivolgermi sguardi pieni di dolore. Lei sapeva che avrebbe perso un figlio, ma sapeva anche che non avrebbe fatto niente, sottomessa alle decisioni del marito.
Ma in assenza della famiglia, avevo avuto gli amici. Niall, in particolare, un bellissimo biondo finto e irlandese che era la mia ricarica di ogni mattina e ogni mio sorriso da anni.
E poi era arrivato Liam, a sconvolgere la mia vita.
Scombinai ulteriormente i miei capelli. Non avevo più voglia di pensare. Ero stanco anche di stressare la mia mente con la solita nenia.
Stavo delirando.
Perché era sempre tutto difficile?
 
Nel pomeriggio andai a lavoro, provai a distrarmi ma fra un consiglio, un libro e uno scaffale da sistemare –purtroppo- avevo trovato il tempo per pensare. Avevo anche sfogliato alcuni libri che parlavano di famiglia. Della differenza dell’amore della famiglia e l’amore fra amanti.
A conclusione di giornata, senza neanche aver sentito Liam per tutto il giorno, avevo preso la mia decisione.
Avevo bisogno di parlare con lui.
 
 
Mi accorsi giusto da appena sveglio, che la casella di messaggi e chiamate del mio cellulare era incasinata. Liam mi cercava da ore ormai. Ero un grande codardo.
Gli mandai un messaggio.
-Vengo a casa tua per le quattro.-
E non ricevetti alcuna risposta.
 
 
LIAM
 
Fissavo le lancette dell’orologio da ore.
Louis ed Harry continuavano a tempestarmi di chiamate, che rifiutavo senza pensarci due volte. Non avevo voglia di sentire nessuno. Nemmeno i miei migliori amici.
Mancavano tre minuti alle quattro. E sapevo che Zayn sarebbe stato puntuale, come sempre.
Avevo una brutta sensazione addosso. E avevo freddo. Ogni cosa attorno a me era congelata, compreso il mio cuore.
16:oo sull’orologio.
 Sospirai profondamente, senza riuscire a recuperare ossigeno. L’ansia mi stava divorando con tutti i vestiti.
L’ansia è cattiva, ti corrode l’anima.
Quindici minuti dopo ero ancora lì, senza Zayn.
Mi decisi a staccare gli occhi da quell’apparecchio malefico solo quando non ne potevo più. Mi alzai e con violenza aprii la porta. Trovando Zayn, seduto su uno dei gradini dell’ingresso, a tremare.
«Che diavolo stai facendo lì?» chiesi.
«Non avevo il coraggio di suonare il campanello» disse guardandomi un attimo e abbassando di nuovo lo sguardo sui suoi anfibi neri. «Sono uno stronzo e codardo.» Lo ignorai.
«Entra» un ordine.
Si alzò, e tremante entrò in casa superandomi, sfiorandomi il braccio.
«Preparo una tazza di tè, okay?»
Ero freddo, si. Lui lo era.
Avevo paura.
L’uomo che mi stava salvando stava per farmi affondare di nuovo. Ricominciando da zero la salita, ogni volta peggiore.
«Vengo con te» asserì. Mi spaventò il tono di voce che usò. Ero un fascio di nervi, di sentimenti ma nonostante fossi così pieno di tutte quelle cose continuavo a sentirmi vuoto, perché si, ero irrimediabilmente innamorato, e non potevo urlarlo al mondo; al mio mondo: Zayn.
«Liam, devo parlare ora. Subito» disse, entrando subito dopo di me nella stanza.
Un brivido mi percosse la schiena. Era un inizio o una fine, quella tortura?
«Ti ascolto» dissi, vacillando «Ma aspetta» aggiunsi, «Se hai intenzione di spezzarmi il cuore fallo, per favore. Fallo senza pietà, in modo che possa smettere di amarti e soffrire meno» dissi tutto d’un fiato, perché a corto di fiato, di coraggio, di voglia di stare lì vicino ma lontano un oceano da lui.
Una preghiera.
La sua espressione mutò, non volevo ferirlo. Serrò i denti, era un fascio d’ansia anche lui. I suoi occhi erano velati da tristezza, e forza. I miei solo da lacrime pronte a rigarmi le guance. Così, quando lui iniziò a parlare, mi voltai per mette l’acqua a bollire.
«Sono arrivato al parco in anticipo, sperando avere ancora tempo per stare da solo, ma non ne ho avuto affatto, perché lui era già lì. Era seduto su una panchina, come quella dove ci siamo conosciuti io e te, Liam. Vecchia, con pezzi mancanti.» iniziò. A quelle parole il mio cuore sussultò.
Sospirò. «Abbiamo iniziato a parlare immediatamente, mi ha chiesto circa la mia vita e non gli ho mentito, gli ho subito detto di te. Che ci sei, vivo e forte in me.» continuò. Annuii. «Ha iniziato a dirmi che mancavo a tutti e che mi rivolevano a casa, e niente in quel momento avrebbe potuto convincermi» deglutì a vuoto, «se non fosse stato che mi ha detto che è malato».
Quelle parole furono come un calcio nello stomaco, uno di quelli che non molti anni prima avevo ricevuto da quei ragazzi. Non ebbi neanche la forza di annuire: mi doleva il cuore.
«Mi mancava il fiato, non sapevo che dirgli, Liam, te lo giuro. Mi ha pregato di tornare da loro, dicendomi di lasciarti, per sempre. E io mi odio per tanti motivi. Non so se farei di nuovo le stesse scelte se avessi la possibilità di tornare indietro, ma tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata, e sono felice di averti conosciuto e di essere entrato nella tua vita, come tu lo hai fatto con la mia.» gesticolava, per evitare di torturarsi le dita. la sua voce aveva un tono di disperazione e non mi dava nessuna speranza.
«Ma torni da loro» conclusi io, piano. La voce rotta dal singhiozzo.
Abbassò la testa.
E a quel puntò non sentii più niente, neanche il mio cuore che andava in mille pezzi. Perché forse era già spezzato. Le mani mi tremavano. Stringevo la tazza con una mano, per tenerla saldamente, come per tenere insieme i pezzi di me stesso, temendo di crollare insieme a lei.
La testa sembrava vorticare furiosamente, mentre stavo fermo, a fissare la testa calata di Zayn. Mi impedii di piangere, ancora. Anche se lo avrei fatto fino a farmi gonfiare ed arrossare gli occhi, a farmi arrossare la gola e ad esaurire le lacrime.
 Sin dall’inizio mi ero ripromesso di essere forte per entrambi.
E fra l’altro gli credevo. Credevo al fatto che aveva pensato a lungo alla sua decisione, ma, con una malattia di mezzo, non si hanno seconde scelte. La famiglia è la famiglia. E provai a capirlo, con tutta l’anima, e probabilmente ci riuscii ma il sentimento mi scoppiava nel cuore e io dovevo dirglielo.
«Io ti amo» dissi, dando voce ai miei pensieri, a ciò per cui –ormai- vivevo. E la tazza scivolò via dalle sue mani, rompendosi, in tanti cocci blu, e spargendo il rimanente del della sua bevanda marrone, ormai fredda, per terra. «Sì, fanculo. Sono innamorato di te, Zayn».
E, continuando ad osservare i suoi capelli corvini, e non i suoi occhi, piansi del dolore più acuto mai provato. Sarei corso comunque da lui per abbracciarlo, se non fosse stato che forse, per la prima volta, i miei mostri erano venuti a farmi visita anche durante il giorno.







La canzone è "All of the stars" del meraviglioso Ed Sheeran. Il titolo naturalmente è ispirato proprio alla canzone.








 

Ciao a tutti!
Inizio col dire che ho pochissimo tempo perché devo andare assolutamente a dormire.
Questo capitolo è stato un parto. Provvederò presto a correggere eventuali errori che se mi faceste notare.. non sarebbe male.
Poi, un favore, potreste recensire? Avrei bisogno davvero di un parere, mi sento sconsolata hahah.
Che dire, in questo capitolo troviamo i pov di Zayn e ovviamente di Liam. I due ragazzi sono disperati e innamorati e Zayn fa la sua scelta. Nonostante quella, (Liam che dovrebbe essere incazzato o boh) il cucciolino gli confessa che è innamorato di lui, che reagisce in modo strano.
Spero davvero stavolta di poter scrivere durante le vacanze di Natale e pubblicare prima. Il quinto anno mi sta dissanguando.
Ultima cosa: mercoledì è il mio compleanno, sarò maggiorenne... *finge di essere felice*
Ora sparisco.
Dedico questo capitolo alla mia piccola Cri, che lo ha tanto aspettato.
Infine, ringrazio tutti i lettori, siete tutti belli. 
Adios, 

Chiara.

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Capitolo 9
*** Apologize. ***


                                                        
    






 
I'm hangin' on your rope,
Got me ten feet off the ground.
And I'm hearin' what you say,
But I just can't make a sound.
You tell me that you need me,
Then you go and cut me down
But wait,
You tell me that you're sorry..
 
 
 



 LIAM



 
 
 
Sentivo freddo, era una strana sensazione. Era sempre la stessa stanza, sempre io e lui. Ma non eravamo soli.
Mi alzai in piedi, combattendo contro di loro. Ombre scure.
Li vedevo quasi, vivi, erano vicini a me, volevano prendermi, ma io dovevo arrivare da Zayn.
Mi chiedevo se lui li vedesse, se avesse paura come me, o se volesse solo andarsene.
Lo sapevo lì vicino. Io dovevo andare ad abbracciarlo, magari per un’ultima volta. A ringraziarlo per aver tenuto quelle ombre lontane da me per qualche tempo, per avermi regalato la parte migliore della mia vita e avermi permesso di riscoprire la parte migliore di me.
«Zayn» chiamai, ma non sentii il tono della mia voce. Non sapevo se mi aveva sentito.
Lo ripetei, più forte, o forse più piano.
Però, ebbi solo il tempo di strizzare gli occhi che mi sentii chiudere in calde braccia, al riparo.
Piansi ancora, stanco di tutto, principalmente della mia debolezza, della mia fragilità spirituale.
Non so quanto tempo rimasi nascosto in quel nido, eravamo seduti a terra, io accoccolato fra le sue gambe e lui che mi circondava le spalle con un braccio e con l’altro mi carezzava la schiena, cercando di quietare il mio pianto spontaneo e il mio respiro affannato. Sentivo il suo cuore battere velocemente, ad un ritmo troppo elevato per essere normale, contro il mio orecchio. Avrei voluto stringerlo, ma non ne avevo la forza. Gli stavo permettendo di leccarmi le ferite, per un ultima volta. Avrei voluto baciarlo, prendere l’iniziativa, ma non ne avevo il coraggio. Avrei voluto parlargli, sentire la sua voce, la mia salvezza, ma non avevo neanche il fiato per farlo. Avrei voluto chiedergli di rimanere, di essere egoista nei confronti di se stesso, ma non lo feci. E avrei anche voluto fare l’amore con lui, per imprimere in me il ricordo di lui, bello come mai, ma non feci neppure quello. L’unica cosa che feci fu sussurrargli all’orecchio «Baciami, solo per un’ultima volta. Una sola, per favore». Esitò, giusto quell’attimo che fu utile ad entrambi per imprimere il momento nelle nostre menti.
Un addio non si cancella, soprattutto se quello della persona che ami con tutto il cuore, con tutta l’anima.
Quel bacio fu pieno. Pieno delle nostre lacrime, di parole ricche di significati e valore, parole che non ci saremmo mai più detti. E non mi pentii mai di avergli detto “ti amo”, quello mai, e neanche di avergli consegnato il mio cuore. Lui ne avrebbe avuto cura per sempre.
Mi staccai da lui per riprendere fiato da tanta dolcezza.
«Non ti chiedo di rimanere, solo di tenermi per sempre con te.» gli sussurrai ancora, poggiando la testa sulla sua spalla. Non rispose se non dopo qualche minuto: le lacrime avevano preso il sopravvento. Faceva tutto così male. Con la voce rotta dai singhiozzi mi disse «Ti terrò sempre con me, Liam. Te lo giuro. E anche se non volessi farlo» sospirò, «rimarresti comunque qui». si portò una mano al cuore. Portando la mia sopra la sua.
Non mi aspettavo che gli addii fossero tanto dolorosi. Nei film prendevo, spesso, in giro chi piangeva. Ora, mi sentivo anche io in un film, uno di quelli che però non hanno il lieto fine, uno di quelli che non hanno il “vissero per sempre felici e contenti” che tanto desideravo. «Dovresti andare a casa, Liam.» mi disse, piano, come se anche parlare, o respirare gli facesse male. Io confuso, «Sono già a casa, Zayn.» risposi. E mi riferivo non a casa mia, quelle quattro mura di Chelsea. Mi riferivo a nient’altro che le sue braccia; e lui lo capì.
Immersi gli occhi nei suoi: mi abbandonai al freddo calore delle sue iridi che sembravano parlarmi, chiedere perdono per tanto dolore. Ma io lo avevo già perdonato. Anzi, non aveva niente da farsi perdonare. Lui doveva perdonare me, di essermi innamorato così di lui, senza alcuna riserva.
Quando ci alzammo silenziosamente da terra, andai in cucina per preparare un altro tè, come se fosse la risposta a tutto, la soluzione. In fondo, mia nonna diceva sempre così. Quando tornavo a casa piangendo per qualche litigio con i compagni, piuttosto che chiedermi cosa era successo me ne preparava uno, aggiungendoci solo un po’ di miele, e mi riscaldavo dentro, come non ci fosse nulla di meglio al mondo.
Armeggiai col bollitore che in meno di un paio di minuti aveva riscaldato l’acqua, che aveva iniziato a bollire. Versai l’acqua nelle due tazze, aspettai che l’infuso la insaporisse e la colorasse, e senza chiedere, gliene passai una.
«Vieni a Wolverhampton con me» sospirai, prendendone un sorso.
«Come?» domandò per la sorpresa, riscaldandosi le mani.
«Vieni con me» ripetei. «Ma, Liam..» iniziò, «No, voglio ricordarti per sempre come quello che mi ha salvato.» dissi, guardando verso il basso e allontanandomi da lui di qualche passo.
«Liam, sai tanto di felicità, tu.» risponde di getto.
«Non dirmi queste cose, ci stiamo lasciando. E la ferita brucia» risposi serio.
Il silenzio fra di noi calò. Non eravamo in imbarazzo a stare vicini nella stessa stanza, non ci sentivamo estranei, non volevamo separarci. E io lo sentivo. Quando due persone si lasciano, non è mai così.
Il nostro era stato un lasciarci doloroso, più che arrabbiato. Niente urla, ma solo sussurri come artigli affilati a scalfire la pelle tenera del petto.
Tornò a casa circa mezz’ora dopo, avevamo bisogno di tempo da soli, entrambi. O forse nessuno dei due.
Io, anzi, no. Io volevo tutt’altro che rimanere solo, a leccarmi le ferite, col fianco destro freddo, per la sua assenza, e il cuore gelato, in silenzio. Un cuore vivo, che pompa il sangue, fa il suo dovere, ma che non ha più niente da dire, se non “addio” a qualcosa a cui era irrimediabilmente legato, che non ha più nulla neppure da sentire, perché stanco di troppe parole inutili, o solo tristi, parole che non sono dei “ti amo” sussurrati e neppure dei “rimango con te per sempre”.
Chiusi gli occhi stanchi, accasciato per terra, con la testa poggiata sulla seduta del divano.
Immaginai una vita accanto a lui. Lui essenza dei miei giorni, lui che era sorrisi anche da appena sveglio, dolci melodie nelle tarde ore della notte, albe che non tardano ad arrivare e tramonti che sembrano volersi allungare, parole sussurrate al vento e baci rubati contro le mura della notte. Mi chiesi come avrei fatto a superarlo.
E se un giorno lo avessi incontrato, dieci anni dopo? Cosa gli avrei detto?
“Ciao, come stai?”
E quando lui mi avrebbe risposto, mi sarei lasciato cullare dalla sua voce sempre così melodiosa come ninna nanne cantate a bimbi che non riescono a dormire. E in quello stesso momento avrei deciso se mentire o dirgli la verità.
E rimani.
Rimani.
Rimani.
Rimani perché senza di te niente più ha un senso. Rimani perché il caffè al mattino non sarà lo stesso, perché cercherò i tuoi occhi meravigliosi negli occhi di chiunque altro, nonostante io sappia di non poterli più trovare;  rimani perché avrò sete a vita, senza la mia sorgente; rimani, perché se le mie lenzuola non profumeranno più di te, i miei mostri torneranno e non ci sarà nessuno a proteggermi.
Rimani perché ti ho mostrato come nuotare nel mare che ho dentro.
Ti chiedo egoisticamente di rimanere, di farlo per me, che ti consegno le chiavi del mio cuore in mano,
ma te lo chiedo solo nel mio cuore,
perché non sono così egoista da farlo veramente.
Ho bisogno di te, ma non sono l’unico.
E sceglimi.
Anzi no, non farlo. Non farlo, mi sentirei in colpa a vita.
Un respiro, un singhiozzo, una lacrima, un ricordo che scivola via come granelli di sabbia al vento.
Un pensiero, che rimane chiuso nella mente, che rimane solo un pensiero.
 
 
 
Le strade di Wolverhampton erano sempre le stesse. Mai un albero tagliato o un nuovo edificio. E così lo erano le persone. Sempre gli stessi volti, forse solo un po’ invecchiati.
Zayn era al mio fianco, il destro, come piaceva sempre a lui. Stavamo vicini ma non abbastanza da toccarci, le nostre anime però si tenevano per mano e ci facevano compagnia coi piedi penzolanti giù da una terrazza immersa nel buio tranne che per qualche raggio nascente.
Qualche parola scambiata, qualche sguardo rubato, qualche sussurro nascosto.
Arrivati davanti la fatidica scuola, fu lui per primo ad alzare la testa.
Fissai gli occhi nei suoi, un attimo dopo aver guardato le mura rovinate dal tempo della mia vecchia scuola: risplendevano della luce che portava nel cuore.
Gli sorrisi alzando un angolo delle labbra. Sorrisi perché era lui. Perché era con me, e non c’era nessun ragazzino che mi picchiava, nessun graffio, livido, ferita, lenzuola bianche di ospedale, dottori, pianti, e figure nere che mi facevano visita a qualunque ora. Eravamo io e lui, davanti l’edificio che era stato palcoscenico della mia violenza fisica e psicologica ma anche della mia crescita. Mi resi conto che era “grazie” a ciò che mi era successo che mi ero formato, che ero diventato un uomo nuovo, coraggioso, capace di combattere, anche se un po’ intimidito dalla velocità con cui passano il tempo e le persone e dalla frequenza con cui i “mostri” tornavano a prendermi. Ma si sa che chi cade si rialza più forte di prima, se ne ha la volontà. Era grazie alle mie ferite, ai calci, pugni e prese in giro che in quel momento stringevo la mano dell’uomo che amavo e a cui ero irrimediabilmente legato, anche se quella era probabilmente l’ultima volta in cui lo avrei visto. Il calore della sua mano si propagava nelle mie vene, mi infondeva sicurezza, presenza viva, e avrei avuto altroché un bel ricordo di lui.
Perché non mi sarei mai dimenticato di lui. Mai, probabilmente, avrei smesso di amarlo. Mai avrei lasciato che chiunque altro al mondo si facesse spazio nel mio cuore tanto velocemente come aveva fatto lui.
E ancora una volta, rividi noi due al nostro primo incontro.
 
 
Con la macchina fotografica al collo, una mano sull’obiettivo e un’altra a carezzare le dita di Zayn, camminavo, godendomi la calma del mattino e la sensazione di dolcezza che il ragazzo accanto a me mi infondeva. Gli stavo raccontando qualche avventura della mia infanzia, per non perdermi in ricordi troppo brutti o per non pensare al nostro imminente “arrivederci”, se non un completo “addio”.
Faceva e fa paura dire “addio”, certe volte lo si dice per scherzo. Ma quando questa parola sfiora la tua lingua e non c’è ombra di sorriso sulle tue labbra, allora è tutto vero. E mette i brividi.
Un addio non è mai semplice.
E allora non dirlo.
Sorrisi leggeri apparivano sulle sue labbra, e avrei voluto dirgli di smetterla, perché lasciarlo sarebbe stato più difficile; tanto quanto era difficile tenere la bocca chiusa e non dirgli ancora che lo amavo, che con lui stavo bene, e che avrei voluto tenerlo per quanto più tempo possibile.
Era entrato nella mia vita come un raggio di sole in una giornata che non prospetta niente di buono. Era banale da dire, ma ciò che aveva fatto per me non lo era affatto. Come probabilmente nessun altro avrebbe fatto, mi aveva preso con se, pur sapendo del buco nero che era la mia anima, così sporca e piena di demoni da far paura a chiunque. E mi aveva stretto a se, dividendo per due le mie ansie, i miei mali, i miei dolori; mettendosi davanti a me a farmi da scudo nei momenti peggiori. Ecco quando, ai miei occhi, la matematica diventava una bella materia.
Stavamo passeggiando lentamente per le stradine che solo un cittadino di Wolverhampton conosce, e ridevamo del gelato che avevo fatto cadere sui piedi di mia sorella quando avevo 7 anni e un cono era pure troppo grande per la mia mano, quando vidi un viso a me conosciuto. Lo inquadrai subito, nonostante non guardasse verso noi, ma stesse squadrando il fondoschiena della ragazza davanti a se sul fondo del marciapiede dove io e Zayn stavamo passeggiando, lui: capelli biondo cenere, occhi piccoli e espressione spavalda. Mi irrigidii e il moro lo percepì quando allontanai le dita dalle sue bruscamente, per stringerle a pugno e trasformare la mia espressione in viso in una maschera vitrea e cupa.
«Liam, che succede?» domandò, frettolosamente.
Non lo vedevo da circa tre anni: Andy era lì a pochi metri da me.
E mi notò subito, poiché di persone in strada ce n’erano veramente poche.
Esitò nel vedermi, e sussultò. Una ruga gli si formò fra le sopracciglia. Ci osservavamo da lontano, camminando a rallentatore, perché una volta accanto, fermarsi e scambiare due parole sarebbe stato inevitabile.
Avrei avuto poemi interi da dirgli, parole da urlargli, dargli la colpa di tutto, soprattutto di essere andato via dalla mia vita e averla rovinata incurante, ma sapevo già che una volta davanti a lui non avrei proferito parola. «Liam? Hey.» disse Zayn, afferrandomi il braccio per scuoterlo. Seguì il mio sguardo incontrando quello di Andy che non esitò a ricambiare. «Vi conoscete?» domandò, curioso e preoccupato.
«Certo» dissi fra i denti. Pochi passi e fummo vicini a tal punto da poterci stringere la mano. Lui, appunto, la allungò, ma io non la strinsi. Non avevo voglia di toccarlo neanche per una stretta di mano. Dopo qualche secondo con la mano sospesa a mezz’aria, chiuse le dita a pugno e la abbassò, portandola al fianco. A quel punto guardandomi «Liam» disse. «Ti ricordi come mi chiamo, che piacere» risposi, chiaramente ironico.
Lui non sorrise, Zayn fece scivolare le dita dal mio gomito al mio polso.
«Come stai?» mi domandò. «Bene» risposi secco. Annuì. Volse lo sguardo verso Zayn, le cui dita erano scivolate nella mia mano e io avevo stretto. «E tu sei?» gli domandò. Il moro boccheggiò, incapace di –ormai- definirci. «Il mio ragazzo: Zayn.» lo anticipai, allora. Stavolta fu Andy a boccheggiare. «E Zay, lui è Andy» spiegai. Il ragazzo al mio fianco sussultò impercettibilmente e mi strinse la mano forte come mai prima. «Piacere di conoscerti, Andy» disse allora, senza allungare la mano, sottolineando il suo nome.
«Liam, ora ho un impegno, ma ti va se ci scambiamo i numeri e ci sentiamo di tanto in tanto?» disse.
Sussultai: non mi aspettavo queste sue parole, ma non ci pensai due volte alla risposta, e sapevo pure che non me ne sarei pentito.
«Andy, io posso perdonare, ma non dimenticare ciò che hai fatto. Credo tu sappia cosa mi sia successo da quando sei andato via. Dopo il diploma ho messo fine al mio incubo e mi sono trasferito e la mia vita e le relazioni di qui sono rimaste qui, a parte la mia famiglia. Tu non sei più parte della mia vita. Ho degli amici che mi hanno fatto scoprire la vera essenza dell’amicizia, il supportarsi nel bene e nel male, il correggersi gli sbagli a vicenda e imparare insieme a crescere. E’ ciò che avevo progettato di fare con te ma tu non me lo hai permesso, hai detto no.» parlai, un discorso piuttosto chiaro in mente. Lui aprì bocca per ribattere ma Zayn –più veloce di me- «Non fiatare» gli disse. Lo ringraziai con una carezza rapida e tornai a fissare il mio ex migliore amico. «Io ammetto di aver sbagliato a voler provare quel bacio con te, ma di te avevo piena fiducia, e credevo che nonostante sapessi che di gay non avessi nulla, mi avresti lasciato provare. Con la maturità di ora, non lo avrei di sicuro fatto, ma ero piccolo. A 17 anni si è ancora immaturi. Non ti incolpo per ciò che mi è successo, oserei dire che grazie a te vivo una vita quasi tranquilla con persone che amo», diedi un’occhiata a Zayn che piegò il labbro superiore per sorridere impercettibilmente, «e che non avrei mai conosciuto. Quindi, quasi quasi ti ringrazio, Andy. E vorrei dire che è stato un piacere vederti, ma non è così. Per cui, ciao Samuels» conclusi, tirando un sospiro di sollievo. Zayn fece un cenno col capo e si lasciò trascinare da me verso qualunque posto avessi in mente.
 
Alla fine della giornata eravamo andati a trovare la mia famiglia, a loro lo avevo presentato come un mio amico, ma probabilmente nessuno se l’era anche solo bevuta. Sulla strada del ritorno era stato il silenzio ad accompagnarci. Quando accostai davanti casa sua, una nota di imbarazzo si intrufolò fra noi e sorridere fu inevitabile. «Allora tornerai a casa» dissi, lui annuì. «Vado a Bradford per un po’, a stare con la mia famiglia. Le mie sorelle mi mancano, sarà difficile convivere con mio padre in casa sapendo ciò che pensa di me, ma lo farò. Anche per mia mamma» disse; questa volta fui io ad annuire.
«Mi mancherai» dissi io in un sospiro, «Non dirlo neppure, Liam. Devo andare, per favore.» disse, rabbuiandosi.
E di nuovo, la ferita riprese bruciare intensamente, strinsi gli occhi in due fessure.
 «Si, certo» aprii lo sportello e scesi. Lui fece lo stesso. Ci abbracciammo velocemente e quando si chiuse la porta alle spalle capii che quello era davvero un addio.
 
Tornai a casa, non avevo neppure una lacrima da versare, il dolore era tanto intenso che il silenzio era il modo che usava per esprimersi. Louis ed Harry non facevano altro che chiamarmi e mandare sms, non avevo voglia di rispondere. L’unica cosa che feci fu rispolverare la macchina fotografica, rinchiudermi nel mio studio e sviluppare le fotografie del matrimonio che era stato palcoscenico dell’inizio del mio amore per lui.
Tra gli scatti trovai una foto che di sicuro non avevo scattato io, ma Louis. Ritraeva me e Zayn mentre ci facevamo gli occhi dolci al tavolo. Sorrisi, quello non era il momento adatto per vedere le foto.
Allora, dopo aver finito, le lasciai nello studio e tornai nel soggiorno, dove abbandonai il mio corpo stanco sul divano.
Quando mi addormentai, le ombre tornarono ad abbracciarmi, e dato che non ero riuscito a sfogare le mie lacrime da sveglio, piansi nel sonno.
Aprii gli occhi al buio, avevo freddo e mi sentivo solo. Avevo le lacrime secche sulle gote e il naso gocciolava, come se avessi pianto per ore.
Dopo essermi fatto una doccia, decisi che chiamare Niall era la cosa giusta da fare, avevo bisogno di una buona dose della sua allegria. Composi il suo numero e la sua voce dall’accento incredibilmente irlandese arrivò presto alle mie orecchie. Gli raccontai velocemente della mia passeggiata con Zayn a Wolverhampton e del nostro addio, neanche ci fu bisogno di chiedere perché riattaccò dicendo “Porto qualche schifezza e qualche birra, sono da te in 15 minuti”. Occupai quei quindici minuti per rimettere a posto la stanza e sistemare i libri del corso di cui stavo saltando le lezioni e sapevo che il biondo –se ci avesse pensato- me lo avrebbe rimproverato. Fra la libreria strapiena e le scartoffie riuscii a riflettere un po’ in pace, capendo che forse lasciare Zayn era la cosa giusta per entrambi. Non ne ero sicuro, ma credevo che lui non provasse per me gli stessi sentimenti che provavo io, perché a qualcosa di così forte non si può rinunciare. Se lui avesse davvero voluto stare con me avrebbe potuto propormi di stare insieme lo stesso, di provarci, anche se suo padre non era affatto d’accordo. Una piccola bugia a fin di bene che avrebbe fatto felici probabilmente tutti, tutti forse tranne lui. L’amore continuava ad essere un tasto difficile anche solo da sfiorare per me, e la mia prima vera relazione, quella con lui, si era conclusa davvero male. Avrei dovuto prendere la mia vita in mano, non lasciarmi cadere, e andare avanti, affrontare il futuro senza lui, ma coi miei migliori amici.
Avevo chiuso con Andy, un pezzo importante del mio passato, ma causa di moltissimi dei miei dolori, e quello era stato un passo fondamentale. Conoscere Zayn e chiudere poco tempo dopo essermi innamorato di lui non era nei miei piani.
Niall mi distolse dai miei intrinseci pensieri suonando al campanello ripetutamente. Il suo modo caratteristico di suonare che permetteva a chiunque di riconoscerlo e forse avrei dovuto smettere di aprire la porta senza prima chiedere “ chi è?”.
Una ventata d’aria fresca e una testa bionda si fiondarono in casa mia non appena aprii la porta.
«Liam Payne, niente brutti pensieri oggi, altrimenti ti picchio. Oggi ci divertiamo e basta!» disse, agitando il sacchettino pieno di patatine, caramelle di tutti i tipi e pop corn in una mano e un sacco pieno di birre in un’altra.
«Niall, sei fantastico» e mi gettai al suo fianco, dopo aver chiuso la porta.
Senza pensieri, due ragazzi e quattro risate.
Zayn non mi mancava poi così tanto.
Poi ci pensai,
stavo raccontando una bugia anche a me stesso.
 
Niall passò tutta la giornata a casa mia, per ora di cena invitai Louis ed Harry, che continuavano a fingere che fra loro non fosse successo nulla. Le frecciatine di Louis erano terribili, tanto quanto i silenzi imbarazzanti dopo una risposta tagliente del riccio che se la rideva sotto i baffi. Fosse stato per lui sarebbe saltato addosso a Louis senza pensarci due volte.
Cuore pesante ma testa leggera; chi prevale?
Quando rimasi solo sistemai casa, mandai un messaggio a mia madre e le mie sorelle e mi preparai la tracolla per la lezione del mercoledì mattina.
Ricordai di aver proposto il corso di disegno a Zayn, probabilmente non ci sarebbe mai andato.
 
 
Trascorsero un paio di mesi dalla mia fine della storia con Zayn, non ci eravamo mai sentiti, e anche se qualche volta avevo preso il cellulare e fatto scorrere la rubrica fino al suo nome non avevo mai avuto il coraggio di premere il tasto di chiamata.
Ormai mi ero rassegnato all’idea che lui non mi amasse, non lo avevo dimenticato, ma qualcosa dentro me si era attutito. O almeno così credevo.
Occupavo le mie giornate fra le corse mattutine, corso di fotografia, esami e lavoro al bar.
Ogni tanto mi concedevo un’uscita con Louis alle prime luci del mattino, rincorrevamo l’alba dopo essere stati circondati praticamente dal buio per parecchie ore. Niall continuava a presentarsi a casa mia con quel bianchissimo sorriso che faceva proprio venir voglia di vivere. Certe volte lo invidiavo. Harry continuavo a vederlo praticamente tutti i giorni. Pranzava quasi sempre a casa mia, aveva una copia delle mie chiavi di casa e adorava farmi trovare il pranzo pronto a tavola. Anche lui era impegnato, si divideva fra lo studio, le prove di canto con la sua band che per me era davvero strana, il lavoro in panetteria e sua mamma che lo avrebbe voluto sempre ad Holmes Chapel.
Ogni tanto qualche ragazzo o ragazza ci aveva provato con me al bar, ma non ero mai andato oltre qualche bacio, trovavo nelle labbra di tutti il nulla in confronto alle labbra quasi setose di Zayn. Faceva davvero male ammetterlo, mi mancava, mi bruciava il cuore al solo pensiero.
Forse avrei dovuto trovare una scusa per chiamarlo, o anche solo mandargli un messaggio.
Non aveva potuto dimenticarsi di me in tre mesi. Certe cose, ami o meno, non si dimenticano.
Il suo sguardo alle prime luci del mattino, posato su quel libro che sapeva più cose di lui di quante ne sapesse lui stesso, lo ricordavo ancora benissimo.
Certe cose non si dimenticano.
Lunghe passeggiate, sorrisi spontanei, baci e carezze rubati, fotografie nascoste, papillon slacciati e respiro pesante, questo eravamo stati io e lui. E forse non avevo più niente senza lui.
E forse era meglio iniziare a lavorare sodo ed impegnarmi in qualcosa per rendere il suo ricordo più lontano possibile dalla vita reale. Allontanandomi da questo forse avrebbe potuto fare meno male.
Forse sarei tornato a ridere, come quando lui mi faceva scoppiare il cuore.





La canzone del titolo è "Apologize", dei OneRepublic. 
(che amo)

 









Ciao a tutti....
vi ricordate ancora di me? di adore you?
io si e ricordo pure di essere in un assurdo ritardo. diciamo che ho delle giustificazioni, anche se sono comunque imperdonabile.
nel mese di settembre/ottobre sono stata a Londra, da quando sono tornata a casa ho iniziato il quinto anno sudando per recuperare il mese perso, e da lì non ho più mollato lo studio. lo studio mi ruba tutto il tempo, quel poco di tempo libero che ho lo uso per uscire con i miei amici o per scrivere la tesina. e fra l'altro dopo i "recenti" avvenimenti, e il brusco allontanamento da zayn (cosa ne pensate, piuttosto?) mi hanno un po' fatto passare la voglia di scrivere, nonostante io continui ad amare gli ziam come prima. 
passando al capitolo, non odiatemi, anche se è molto deprimente. se avete suggerimenti, volete chiarimenti, critiche, qualunque cosa, contattatemi in privato o lasciate una recensione. ringrazio sempre e comunque chi è rimasto, chi segue e tutto.
gnaw, love u

-chiara

 
PS: per il banner ringrazio infinitamente la mia amorina Cris. 
quando avrò tempo lo metterò in tutti i capitoli. 
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