L'ultimo addio

di Roberto_Yoda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** XIII ***
Capitolo 15: *** XIV ***
Capitolo 16: *** XV ***
Capitolo 17: *** XVI ***
Capitolo 18: *** XVII ***
Capitolo 19: *** XVIII ***
Capitolo 20: *** XIX ***
Capitolo 21: *** XX ***
Capitolo 22: *** XXI ***
Capitolo 23: *** XXII ***
Capitolo 24: *** XXIII ***
Capitolo 25: *** XXIV ***
Capitolo 26: *** XXV ***
Capitolo 27: *** XXVI ***
Capitolo 28: *** XXVII ***
Capitolo 29: *** XXVIII ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


AVVISO AI NAVIGANTI

AVVISO AI NAVIGANTI

 

 

Ovvero, un mucchio di noiosissime note introduttive.

Così vi potrete preparare a quel che vi aspetta, ed eventualmente decidere di spendere più utilmente il vostro tempo altrimenti.

 

Com’è strutturata questa fic?

In linea di massima, non troverete un gran numero di episodi nuovi o diversi da quelli della serie che ben conosciamo. Posso quindi affermare che, sotto moltissimi aspetti, questa è una riscrittura, o meglio ancora rilettura, di certi passaggi che a me personalmente sono molto piaciuti, e che riguardano soprattutto il personaggio di Kikyou in rapporto ad antagonista e protagonista della storia.

 

Questo lo dico, in quanto mi sono interrogato sul senso che poteva avere mettere in scena cose già viste e abbastanza note.

D’altra parte, io non sono certo uno scrittore. Posso, al limite, giocare un po’ negli spazi lasciati da un autore, ma nulla più.

Quindi. Uomo avvisato mezzo salvato. Ci saranno alcune scene nuove, ci saranno idee magari non presenti nella storia originale e che mi sono divertito a “infilare” nella fic, ci sarà un angolo diverso dal quale vedere il racconto. Specialmente all’inizio, noterete molta fedeltà rispetto all’originale soprattutto nei dialoghi (anche se non mancheranno alcune opportune modifiche, allo scopo di andare a parare dove mi interessa).

Poi la vicenda, pur seguendo sempre le “orme” della storia, se ne affrancherà un pochino di più.

E giocherò molto sull’introspezione dei personaggi (che è, in fondo, quel che mi riesce meglio).

 

Secondo punto.

La Kikyou di cui mi accingo a raccontare e dalla quale mi muovo è quella dell’anime, non quella del manga.

Non terrò conto, però, degli episodi riempitivi (i cosiddetti filler), salvo due eccezioni che segnalerò a suo tempo.

Pescherò certamente alcune cose dal manga, e ovviamente mi ricongiungerò alla Kikyou del manga ad anime finito.

 

 

Ora, un po’ di spiegazioni “tecniche”.

La struttura dell’anima per i giapponesi (struttura che la Takahashi usa nel racconto), è il seguente (prendetelo con un minimo di beneficio d’inventario, ma così dovrebbe essere se non ho frainteso qualche punto).

L’anima è divisa in tre parti.

- haku. Il soffio vitale. Questa parte dell’anima, che potrebbe essere definita energia vitale/spirituale, è in sé un’energia inerte.

L’haku è ciò che inizialmente Hakudoushi usa, come ricorderete, per assemblare Mouryoumaru. Privo delle restanti parti di anima, Mouryoumaru è solo un burattino. Hakudoushi (nome significativo) manipola l’haku per muoverlo e farlo agire, finché a Mouryoumaru non viene fornito un ‘cuore’.

In mancanza di informazioni più precise, do per scontato che Kikyou sia dotata di un haku, preso da una parte di quello di Kagome, e che nell’haku risieda sia la forza fisica che i poteri spirituali di cui è dotata.

- tamashii. La parte spirituale, della coscienza di sé e dei sentimenti. Assimilabile a quanto possiamo considerare anche noi anima. Quando si parla della parte di anima propensa all’odio che risiede nel corpo rianimato di Kikyou, la Takahashi si riferisce propriamente a questo: la tamashii di Kikyou è “spezzata” e questa porzione si annida nel corpo fabbricato da Urasue.

Infatti (come vedete, per una volta ho sconfitto la pigrizia e fatto bene i compiti a casa) i capitoli del manga nei quali Kikyou tenta di trascinare all’inferno Inuyasha si intitolano Sukuwarenu Tamashii, tradotto nelle scan inglesi Un’anima al di là della redenzione ma che letteralmente dovrebbe suonare così: una tamashii che non può essere curata.

Tamashii è anche ciò che propriamente estrae Kikyou da Midoriko nel tentativo di contrastare gli effetti del veleno di Naraku.

- shinidama. La parte di anima che muove il corpo fisico. Ovvero, ciò che permette alla tamashii di manipolare l’haku per muoversi e agire. Kikyou è del tutto priva di tale porzione di anima, ed è ciò che i suoi insetti demoniaci, chiamati appunto shinidamachu, raccolgono per lei.

Tuttavia, nella versione giapponese, quando ci si riferisce alle anime raccolte da Kikyou vengono usati in maniera intercambiabile i due termini ‘shinidama’ e ‘tamashii’.

E, propriamente, se è pur vero che Kikyou ha bisogno delle shinidama, è altrettanto vero che raccoglie anime intrise di rimpianto e tristezza (chiaro riferimento alle tamashii).

 

Perciò, ho semplicemente deciso che gli shinidamachu prendono entrambe queste parti dell’anima delle donne morte. Nel racconto userò il vocabolo “anima” per intendere queste due parti dell’anima giapponese.

 

 

Divinità.

Nella religione scintoista, le divinità sono chiamate “Kami”. Il termine divinità è in parte fuorviante, così come quello di demone (youkai). I più potenti tra i Kami sono comunque assimilabili approssimativamente alle divinità greche, ed è in questa accezione che userò il vocabolo.

Ma anche le montagne, le tempeste, gli antenati, gli eroi (e l’imperatore del Giappone) sono o possono essere Kami.

 

 

Aldilà.

Gli spiriti dei morti sono liberi di reincarnarsi 49 giorni dopo la morte. Coloro che non hanno ricevuto un funerale appropriato, o che sono legati al mondo dei vivi da catene di dovere e/o passione, non si possono reincarnare.

Costoro rimangono nel Meidou, l’oscuro regno dei morti (Inferno, diciamo, o Ade che si voglia), ricordando tutto ciò che hanno odiato e amato.

Il Kami che governa il Meidou è conosciuto con il nome di Okuninushi.

 

NOTA: detto questo, io ho intenzione di appropriarmi dei concetti che mi tornano utili, per poi rielaborarli secondo i miei comodi. Non ho certo intenzione di perdermi in un trattato sulla corretta interpretazione di questo corpus mitologico, che ho tratteggiato in maniera molto sbrigativa.

Mischiare e inventare è molto più divertente e meno faticoso che documentarsi troppo ^_^“

 

 

Per finire, un po’ di glossario. E se avete resistito fin qua, forse avete le spalle (spalle, ho detto! Cosa andate subito a pensare, maliziosi!!) per sopportare anche il resto.

 

 

Miko: sacerdotessa scintoista;

Kuro miko: sacerdotessa oscura;

Bou: monaco buddista;

Oni: demone con un occhio solo simile a un orco;

Gumo: ragno;

Naraku: inferno o “abissi infernali”;

Shikon no Tama: la sfera dei 4 spiriti;

Kikyou: il nome di un fiore, la campanella cinese. Ma anche, colei che è eccentrica;

Chihaya: il costume tradizionale della miko indossato da Kikyou;

Hakama: la parte inferiore, rossa, del costume della miko (i pantaloni);

Hitoe: la parte superiore, bianca, del costume della miko (il kimono);

Youkai: demone/creatura sovrannaturale;

Hanyou: mezzodemone;

Youki: energia “demoniaca” di youkai e hanyou;

Juso: maledizione;

Shikigami: creatura artificiale che serve le miko;

Taijiya: sterminatore di demoni;

Daimyo: il capo di un clan, assimilabile al nostro “signore feudale”. La madre di Inuyasha è la figlia di un daimyo;

Ronin: samurai senza daimyo;

Katana: spada del samurai;

Bokken: la spada di legno, letale quasi quanto una katana.

 

–dono e –sama: suffissi di saluto. In giapponese non esiste il lei e il voi (anche se io ho tutta l’intenzione di utilizzarli). Il minore o maggior rispetto, all’interno di una frase, si ottiene rivolgendosi in maniera più o meno formale all’interlocutore. Dono è suffisso molto formale che si usa nei confronti di una persona rispettabile con cui si ha poca o nessuna familiarità. Sama è anch’esso un suffisso di grande rispetto, ma che implica una maggiore vicinanza.

 

Ringraziamenti:

a rosencrantz (aka Lara) per l’apprezzamento e l’incoraggiamento;

a solandia (aka Elena) in quanto questo racconto deve molto anche a tutti i fiumi d’inchiostro versati nei nostri papiri a sostenere (io) le “ragioni” della scelta di Kikyou di rendere umano Inuyasha e l’altra a ribadirne i “torti” e le ombre. Sempre un piacere          ^-^

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Capitolo 2
*** I ***


Una cosa in cui mi diverto, è cercare risposte alle incoerenze o, più semplicemente, alle domande lasciate in sospeso da un au

Una cosa in cui mi diverto, è cercare risposte alle incoerenze o, più semplicemente, alle domande lasciate in sospeso da un autore. In quest’ottica, mi ero posto da tanto alcune domande: perché Naraku non si prese la sfera dei 4 spiriti quando Kikyou morì per la prima volta? Perché Naraku all’inizio è un mutaforma e poi non lo è più (non in senso stretto).

Ecco, tra le altre cose, i tentativi di darmi risposta.

 

Io sono la nota stonata

 

Nell’armoniosa melodia del Fato

 

Io sono la volontà imprevista

 

Io sono Naraku

 

 

Occhi si aprono nella tenebra.

Quel vecchio ricordo. Chissà perché proprio ora.

 

Lui non dorme. Quasi tutte le creature che si aggirano nel mondo dormono. Perfino gli youkai, tranne i più potenti. Perfino i morti che calpestano la terra. Ma non lui.

Al più, scivola in uno stato simile a un trance, nel quale per brevi periodi sogna a occhi aperti. E’ questo tutto il riposo che gli è necessario. La sua mente è sempre desta, come argento vivo.

 

Ha rivissuto la sua prima battaglia, dopo tutto questo tempo. Forse perché da un po’ non riesce a sbarazzarsi di questa strana sensazione, così estranea per lui, che qualcosa gli sfugga, giocando a nascondino in qualche angolo scuro della sua coscienza. Ed è molto che non provava niente di simile.

 

C’è qualcosa … qualcosa che non va.

 

Stacca la schiena dalla parete della caverna e si alza in piedi, seccato. Si concentra.

E’ necessario capire. E’ sempre necessario.

 

Scivola facilmente nel ricordo, nei giorni della sua giovinezza, se così possono essere chiamati, quando poteva cambiare forma a suo piacimento. Gli era sempre piaciuto farlo. Quanto si era indispettito nello scoprire che la sciocca ragazzina, Kagome, facendo a pezzi il suo corpo originario, rimpiazzato dalla stregoneria del Kodoku, lo aveva privato di quella capacità costringendolo nell’aspetto del principe Kakewaki!

 

 

 

Ed eccolo ora, bene in vista ma occultato agli occhi, a suo agio nella forma di uno dei tanti, insignificanti contadini del villaggio, a cui ha spezzato il collo poco prima.

 

Quel giorno di sole sarebbe potuto essere, già allora, quello del suo trionfo, se non fosse stato così inopinatamente ostacolato, dalla miko e dal brigante.

 

Ecco Kikyou, la spalla lacerata quasi fino all’osso dai suoi artigli, la manica dell’hitoe zuppa di sangue, il corpo e l’anima in agonia per il tradimento di cui crede di essere stata vittima, barcollare verso la sfera, cadere infine in ginocchio mentre il fuoco bruciante della volontà e della rabbia che l’ha sostenuta comincia a scemare, spento da quell’ultimo sforzo fatto per sigillare lo stupido Inuyasha.

Vicino, ma non troppo vicino. Naraku si fa accanto per ascoltare le parole della donna. C’è un’altra voce che cerca di imporre la sua presenza, e lo disturba, rendendogli difficile udire. Quella voce maledetta, odiosa, che sussurra non al suo orecchio, ma nella sua testa.

 

Hai promesso. Hai promesso. Lei … lei deve essere mia … nostra.

Sta morendo.

Come può essere nostra, se muore?

 

Scintille d’ira nella voce fantasma. Cerca di blandirla.

 

Ti ho già spiegato, Onigumo. Questo è il momento. Non credi che sia un po’ tardi per diffidare di me? Mi hai permesso di colpirla. Non sei più convinto di quanto ti ho detto? Ora fai silenzio. Lasciami ascoltare.

 

Le parole della donna agonizzante alla sorellina, colpiscono con violenza pari a una tempesta di colpi di bokken sia Onigumo che Naraku; anche se certo, per ragioni assai diverse.

 

Sbalordito, Naraku vede la miko, che sia dannata, irretire la Shikon no Tama, avvilupparla con fili di potere alla propria stessa anima, tessere attorno ad essa un sudario al quale il gioiello non potrà sfuggire. Quale incredibile prova di coraggio! Come avrebbe potuto immaginare mai, che trovasse la forza per costringersi a compiere un tale sacrificio … un sacrificio di cui lui solo, ironia della sorte, può misurare le dimensioni.

Deve impedirlo. Deve fare qualcosa. Ma in quel momento, un grido folle gli investe la mente, sconvolgente come l’onda che segue il terremoto.

 

Hai detto che avrebbe usato la Shikon no Tama!

Hai detto di esserne certo. Che la disperazione del suo cuore e la debolezza del suo corpo non le avrebbero permesso di purificarla. E che usandola per guarirsi dalla ferita … la tenebra del loro reciproco odio, che la aspetta per prenderla, l’avrebbe resa nostra.

L’hai detto! Cosa succede?! Devi impedirlo. Devi fare qualcosa! Lei deve essere mia! Hai promesso. Avete promesso, voi, maledetti, schifosi, bugiardi …

 

Naraku stringe i denti con violenza. Barcolla all’indietro di alcuni passi. Nessuno lo sta guardando. Tutta l’attenzione è puntata sulla miko, sui suoi ultimi morenti sussurri.

 

Taci. Taci, piccolo, stupido, infido uomo. Ma tu hai creduto forse che io davvero volessi avere accanto una kuro miko di tale potere? Credi forse che avrebbe spartito la Shikon no Tama con me? Patetico brigante. Solo tu, che misuri il mondo sul tuo misero metro, e dagli altri ti aspetti solo ciò che gli altri si aspettano da te, potevi credere che Kikyou avrebbe mai fatto una cosa del genere. Sciocco e debole! Ho sempre solo voluto la sua morte. E tu, mi hai permesso di uccidere la donna che brami. Con queste mani le ho strappato la vita. Le tue mani. Ricordalo, Onigumo. Tu mi hai lasciato libero. E ora, taci. Forse non è ancora troppo tardi. Se riesco a prendere la Shikon no Tama prima che brucino il corpo della donna …

 

Poi, un’esplosione nella testa. Il Ragno stende le sue sordide zampette, avvinghiandole tutte attorno alla sua mente. Il suo becco si pianta in profondità, stillando veleno e odio.

Naraku si volta, fugge non visto nel bosco, erigendosi dentro di sé, cupamente deciso a vincere la sua prima, più importante battaglia.

 

 

 

Quattro giorni dopo, sfinito, inginocchiato, ingobbito nella pelle di babbuino, fissa il suo riflesso che a sua volta lo rimira dal corso di un fiume. Solo il mento e la bocca sono visibili.

 

Chi sono io? Chi?

 

Un angolo della bocca si arriccia, mentre ode l’eco della risposta.

 

Io sono la nota stonata

 

Il Ragno è silenzioso, ora. Hanno lottato, stretti in una lotta mortale, ma adesso …

 

Anche l’altro angolo della bocca si piega all’insù.

 

Nell’armoniosa melodia del Fato

 

E’ fuggito, squittendo, sconfitto, rifugiandosi in qualche oscura, profonda caverna della mente. Ha provato a stanarlo ma, astuto quanto vile, scivola via ogni volta che crede di poterlo catturare. Immagina che dovrà rassegnarsi a conviverci. Ma

 

Le sue labbra si separano a mostrare denti bianchi e forti. Sente un’allegria fuori luogo salirgli dal fondo della gola. Barcollando, si alza in piedi.

 

Io sono la volontà imprevista

 

Onigumo non si riprenderà mai più da questa sconfitta. Oh, sa già che proverà a sibilare parole, insidiandolo. Ma la sua voce sarà solo un grugnito incomprensibile, il verso inarticolato di una bestia senza cervello.

 

Il corpo della miko è bruciato. La Shikon no Tama perduta. Nonostante questo, mentre si incammina esitante nel bosco silenzioso, non può né vuole trattenere una risata di trionfo, dapprima debole, ma che presto prende ad alimentare se stessa, facendosi sempre più forte, rimbalzando sulle pareti d’alberi attorno, e vieppiù alzandosi, fino a diventare un grido di trionfo levato a sfidare terra e cieli.

 

Io sono Naraku.

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Capitolo 3
*** II ***


Ripensare a quella prima lotta gli dà sempre soddisfazione

Ripensare a quella prima lotta gli dà sempre soddisfazione.

Certo, per molti anni gli era parso di avere pagato molto a quella vittoria. La Shikon no Tama distrutta. Invece …

 

Naraku prende il negro gioiello dalla manica del vestito. Lo fissa. Un solo piccolo punto di luce che presto svanirà. Un solo piccolo frammento nella schiena del giovane taijiya, che presto avrà.

Dunque, tutti i tuoi sforzi sono stati vani, Kikyou. Infine, ti ho sconfitta.

 

Contemplando il gioiello, lascia scorrere i pensieri. Ora che l’ha uccisa, l’ha battuta e presto trionferà del tutto, prova soddisfazione nel contemplare ciascuna delle battaglie tra lui e la miko, perfino quelle che avevano visto la donna apparentemente trionfare. Certo, perché no? Si conosce bene; e per quanto contorto e bugiardo possa essere nei confronti di chiunque altro, è sempre sincero con se stesso. Il proprio valore si misura sulla grandezza dell’avversario con cui ci si cimenta. Le sconfitte che ha inflitto a Inuyasha e ai suoi compagni, sono poca cosa rispetto al trionfo che può assaporare pensando ora a lei, la sua nemesi, la più temuta e la più odiata.

 

Sotto un certo aspetto, ci assomigliavamo più di quanto io stesso credessi, Kikyou. Due facce della stessa moneta. Fu Okuninushi a permettermi di capirlo.

 

Per questo, per quanto l’abbia odiata e ancora la odi, per quanto possa esultare sapendo che è morta, una parte di lui si sente come orfana della possibilità di affrontarla, un’ultima volta.

 

E questo punto di luce. Ancora, quella sensazione sgradevole che torna prepotente. C’è qualcosa che non va.

 

Come ha potuto pensare che sarebbe caduto in una trappola così … scoperta, banale?

Ha forse creduto che avrebbe avventatamente ricongiunto la Shikon no Tama, lasciandosi scioccamente purificare a morte?

O pensava che gli sarebbe stato impossibile trovare uno stratagemma per superare quest’ultimo ostacolo?

Che, nel momento dell’agonia che precede la morte, Kikyou abbia perduto quella magnifica lucidità che l’ha sempre contraddistinta?

Naraku è scosso da un brivido di delusione; quel punto di luce presto sarà solo un ricordo.

 

E perché allora un sussurro interiore, insiste a ripetergli che sta ignorando qualcosa di fondamentale, di così essenziale che potrebbe determinare, in molti modi, la sua stessa sorte?

 

Assai più che seccato, ora, avanza di alcuni passi nella caverna in penombra. Il suo corpo è di nuovo intatto dopo lo sciagurato contrattempo. Ricorda perfettamente quel che è accaduto, istante per istante. La freccia della ragazzina, Kagome, passa attraverso il corpo della miko, Hitomiko, mandando a pezzi sia lui che il suo piano per sbarazzarsi di lei.

 

E questo non è che l’ultimo di una intollerabile serie di scacchi.

 

C’è …

 

… qualcosa che non va, Naraku?

 

Naraku si pietrifica per un solo istante, poi gira sui tacchi, più rapido di un gatto. Una voce femminile, al tempo stesso uniforme e melodiosa, pacata e beffarda. Non c’è nessuno in questa caverna. Chiunque fosse, ne avvertirebbe la presenza.

 

E certamente non lei; oh no, lei no!

 

Che cosa ti turba, Naraku? Cosa ti impedisce di godere dei tuoi trionfi quanto vorresti? Cosa c’è che non va … mio assassino?

 

Questa è follia. Naraku avverte una sensazione aliena simile a una vertigine, ma molto più violenta, come se fosse stato brutalmente staccato da se stesso e, galleggiando per aria, potesse guardarsi dall’esterno. Poi, rinserra la volontà.

 

Non temere, Naraku; non sono la voce della tua coscienza improvvisamente impazzita. Tu non ne possiedi una, perciò non puoi udirla. No. Sono qui. Sono reale.

 

Naraku scandaglia con lo sguardo ombre che per lui non sono tali. Non c’è nessuno, come lui già sapeva.

 

“Fantasma o illusione dei Kami. Non so cosa tu sia o per quale ragione adesso odo la tua voce. Ma non pensare di potermi intimorire, Kikyou. Ormai non puoi più nulla contro di me. Ti ho uccisa, e questa è una realtà che, stavolta, non può essere cambiata.

 

Come già ti dissi settimane fa – ma tu allora non potesti udirmi – che io abbia perso o meno, Naraku, questo lo vedremo quando la morte verrà a reclamarti.

Ma oggi non sono qui per minacciarti, né maledirti, mio assassino. Ha importanza che sia davvero qui oppure no?

Ha importanza la ragione che mi consente di farmi ascoltare da te un’ultima volta? Che sia la volontà dei Kami piuttosto che il desiderio da te appena sussurrato, oppure il mio bisogno di dirti addio, che cosa cambia? Io posso aiutarti a vedere ciò che ti tormenta e non ti dà pace. Se è davvero questo quello che vuoi, mio assassino.

 

La bocca di Naraku si torce in un ringhio. Poi, ride sommessamente.

 

“Mostrati, dunque, ostinato fantasma, e dimmi – hai intenzione di apparire anche al tuo amato Inuyasha, oppure io solo ho il privilegio di poterti vedere prima che abbandoni per sempre questo mondo, Kikyou?”

 

Io e Inuyasha ci siamo detti tutto quel che era necessario, Naraku. Lui non ha più bisogno di me.

                         

Naraku vede uno scintillio in fondo alla caverna, come se dal nulla una luce si stesse coagulando.

 

Eccola! Non voleva crederci, e invece. Indossa la Chihaya, come sempre. Il suo viso, pallido ovale, bello e distante come la luna, è incorniciato dai capelli sciolti, neri come un cielo notturno che nessuna luna può rischiarare.

E i suoi occhi sono fondi e penetranti e malinconici, ma limpidi. Per quanto intensamente vi cerchi il dolore che ben conosce, non ve n’è apparente traccia.

Ma il suo corpo luminoso è trasparente. Può vedere facilmente, attraverso di esso, la scabra parete di roccia.

 

“Oh, Kikyou. Mia nemesi, è proprio vero, dunque. Neppure questa volta la morte riesce a liberarti di ciò che sei stata? Non sei in grado di apparirmi con una veste diversa da quella di miko?”

 

Così Naraku scoppia a ridere di gusto, mentre Kikyou lo fissa senza un mormorio o un movimento. In un solo momento, spegne la sua risata, tornando serio.

 

“Sei di nuovo prigioniera di Okuninushi, mia nemesi? E’ lui che ti manda? E’, questo, un nuovo tormento che ha congegnato per torturarti?”

 

L’ha forse vista sussultare? E’ forse stupore quel che scorge nel suo sguardo? Sì. Fantasma o qualunque cosa sia, ora si è imbattuta in qualcosa di imprevisto. Naraku prova un brivido mentre, ancora una volta, il piacere della lotta lo cattura quasi suo malgrado.

 

Perché negli occhi di Kikyou ora c’è un ricordo

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Capitolo 4
*** III ***


Qua siamo ai primi episodi dell’anime

Qua siamo ai primi episodi dell’anime. Per l’esattezza, la prima apparizione di Kikyou dopo la sua “rianimazione”. Episodi 22 – 23. Apparizione che ho trasposto papale papale (scusatemi di questo) ma con alcuni dettagli che spero vi possano interessare.

 

 

 

Le grida acute e spensierate dei bambini, mentre giocosamente lottano per conquistarsi anche solo un attimo della sua attenzione. Si accalcano vicino a lei, chiamandola per nome, sfiorandole l’hakama con le manine; le chiedono il nome di erbe medicinali che già conoscono – per il puro piacere di lasciarsi scaldare dal suo sorriso.

 

E lei sorride. Non sa neppure lei come ci riesce.

Il fiume – non quello che sta fissando adesso – l’ha trascinata con la corrente. Poi, ha camminato, confusa, spersa, non sa per quanto. Ore? Giorni?

 

Al villaggio l’hanno accolta subito. Lo avrebbero fatto anche se non fosse una miko. Quando poi ha dimostrato le sue abilità nell’arte della guarigione, l’hanno colmata di attenzione e benedizioni.

Se solo sapessero, per quale ragione può compiere quelle miracolose guarigioni.

Se sapessero, la caccerebbero, le sputerebbero in faccia, cercherebbero di distruggerla.

 

La sua condizione, le permette di vedere i messaggeri dell’aldilà. E i suoi poteri di miko – che non sono mai stati così forti come da quando è prigioniera di questa farsa di corpo – le consentono di distruggerli così facilmente.

Da morta, la sua capacità di curare gli altri è accresciuta a dismisura. Quando se ne è resa conto, l’assurdità della cosa le ha fatto venire una gran voglia di ridere. Così, ha scoperto che anche i morti possono ridere. E che la risata di un morto è talmente amara, da riempire la bocca del sapore del fiele.

 

Il dolore la tormenta. E’ incessante; l’odio la corrode peggio di un veleno.

 

Ma i bambini. Quando sta con loro, a volte riesce a ingannare se stessa per brevissimo tempo. Le pare quasi di essere quella di un tempo.

Se solo potessi restare qua, in questo villaggio, per sempre. Dimenticata dal mondo, da tutti, e soprattutto da …

Un altro rigurgito d’odio le afferra la gola, come cibo indigesto … che lei non può più mangiare. Anche poter assaggiare del cibo andato a male, sarebbe una benedizione per la quale rendere grazie.

 

Kikyou-sama. Quest’erba va bene, vero?”

 

Allontana il dolore. Allontana l’odio. Almeno, provaci, maledizione. Anche a costo di ricorrere a quei vecchi, polverosi insegnamenti che una volta sei stata così stupida da credere di poterti lasciare per sempre alle spalle.

 

“Sì, brava, Sayo. Su, avvicinatevi, lasciatemi vedere cos’avete raccolto.

I sorrisi dei bambini sono un balsamo migliore di qualunque preghiera. Insegnare loro, giocando, l’ha sempre resa così felice …

 

Il sole prosegue il suo viaggio verso ovest.

Inginocchiata in mezzo a loro, spiega l’uso delle erbe; racconta leggende dimenticate, confeziona indovinelli. Un tempo probabilmente avrebbe anche cantato. Ma non canterà mai più.

 

Degli occhi la stanno fissando già da un po’, con stupore e diffidenza. Insistenti.

Il suo sguardo sfiora, per un attimo solamente, le fronde dei ciliegi alle sue spalle, come se potesse esserci qualcuno appollaiato fra i rami.

 

Stupida.

 

Bou-dono, mostratevi pure, vi prego. E’ parecchio che mi state guardando.”

 

Esclamazione stupefatta.

 

Due monaci buddisti, uno vecchio e uno giovane – maestro e allievo – emergono dalla vegetazione. Il vecchio risponde, balbettando un po’.

 

“Oh, ci avevate notato, miko-dono. Perdonatemi. La vostra bellezza mi aveva stregato.”

 

Mentre cammina verso di lei, continua a parlare.

 

“Dovrò essere più attento. Questo è molto imbarazzante, per me …”.

 

Inciampa. Finge di inciampare; lei se ne accorge e la rabbia, sempre avvinghiata alla sua anima, subito le preme addosso, opprimente come un manto ammuffito. Un sutra cade a terra. Una sola occhiata. E’ un sutra di grande potere; qualunque youkai dovesse toccarlo, vedrebbe immediatamente svelata la sua vera natura.

 

“Come sono goffo! Potreste raccoglierlo, miko-dono? Sapete, le mie vecchie ossa …”

 

La mano di Kikyou afferra il rotolo senza esitazioni. La Furia che si nutre di lei e di cui lei stessa, a sua volta, si nutre, ha trovato un bersaglio, finalmente. Con amara soddisfazione, osserva i lineamenti del viso del monaco assumere la forma di una maschera stupefatta, mentre lei stessa maschera i suoi intenti dietro un’espressione premurosa e un delicato sorriso.

 

“Tenete pure.”

 

Cosa può fare, ora? Tremante, non può che riprendere il sutra che gli porge.

Mentre il monaco resta congelato sul posto, e mille e mille aghi invisibili gli trapassano il corpo, Kikyou si alza, i gigli donateli dai bambini stretti al seno, e li richiama.

 

“Torniamo al villaggio. Si è fatto tardi.”

 

Hanno già percorso alcune decine di metri, quando il monaco si riprende a sufficienza per potere di nuovo parlare.

 

Miko-dono! Non so quale rimpianto portiate dentro di voi, ma non potere restare qui! Questo non è il vostro posto! Dovete ritornare al luogo al quale appartenete!”

 

Kikyou resta immobile solo alcuni istanti. Poi riprende a camminare come se nulla fosse.

 

 

I bambini sono tornati ognuno alle proprie case. L’ora è tarda e, ormai, staranno dormendo da un pezzo.

L’ultima a salutarla è stata Sayo, stasera, come tutte le altre sere. Di questo è grata, perché le parole preoccupate e affettuose della bimba sono state capaci di quietare per il momento la Furia che le stava rosicchiando l’anima da quando quel pazzo di un monaco ha cercato di sfidarla.

 

Per poco non si è impappinata, salutandola; e ha rischiato di chiamarla Kaede, invece che Sayo.

 

Inginocchiata davanti al basso tavolo, mentre sminuzza a mani nude il cibo che i contadini le hanno preparato, per poi riporlo nel sacchettino di tela che svuota ogni mattina, ben prima dell’alba, al fiume, rivede nella mente l’immagine della vecchia miko che ha asserito di essere Kaede. Una vecchia che viaggia al suo fianco. Che ha preso le difese di colui che l’ha uccisa.

 

Scrolla la testa, digrigna i denti, rabbrividisce.

 

Trova molto più naturale chiamare ‘Kaede’ Sayo piuttosto che quella vecchia sconosciuta consumata e rattrappita dagli anni e dalle fatiche.

 

Rapida, posa un vaso colmo d’acqua sul tavolino e inizia a mettervi i gigli. Lavora, immersa nella tenebra, senza alcuna esitazione. Ormai può vedere altrettanto bene sia in pieno giorno che nell’oscurità. E così è meglio. Se qualcuno, a quest’ora così tarda, dovesse passare vicino alla capanna che le è stata destinata, la crederebbe immersa nel sonno.

 

Le sue mani sono d’improvviso colte dal tremore. In questi ultimi giorni si è fatto sempre più insistente. Sente il braccio diventare insensibile. Nonostante i suoi sforzi, ricade pesante, urtando il bordo del vaso e facendolo cadere. L’acqua si rovescia, spargendo fiori e cibo su tutta la superficie del tavolo. Con un singulto di frustrazione, fissa il disastro che ha appena combinato. Distrattamente, chiude e riapre più volte la mano a pugno, come per riprendere il pieno controllo del proprio arto.

 

Si interrompe appena si rende conto di quel che sta facendo. Disprezzandosi, comincia a sghignazzare. O sta singhiozzando? Come sono duri a morire – già – certi gesti, certe abitudini insensate. Come se ci fosse ancora del sangue a scorrere nelle sue membra, a darle vitalità.

 

Perché darsi tutta questa pena? Anche se il monaco itinerante decidesse di proseguire il suo viaggio e lasciarla in pace – e sa bene che non lo farà – non potrà restare qui ancora per molto.

 

Come una conferma, ecco di nuovo la Furia farsi sotto, il moto instancabile di un mare che vuole erodere del tutto quel poco che resta di lei.

Con un gesto di stizza, colpisce il vaso, lanciandolo a terra a fracassarsi. Afferra la corolla di uno dei gigli e la chiude nel pugno, stritolandola. Se non può mettere ordine, che distrugga! Che importanza ha, comunque?

Non può più attendere. Ha cercato di resistere fino all’ultimo. Ma quel poco che le resta della shinidama della ragazza la sta abbandonando. Questa notte dovrà spogliarsi di un altro pezzetto della sua umanità. Come se ne avesse molto da spendere.

Lasciando scivolare tra le dita i petali sciupati, si alza ed esce senza esitazioni nella notte.

 

 

A fissare il fiume, di nuovo.

E’ tesa, e istintivamente vorrebbe prendere un respiro profondo, ma facendolo si sentirebbe tanto stupida quanto poco fa.

Così, porta le mani alla nuca e scioglie il nastro bianco, liberando i capelli e lasciandoseli ricadere attorno.

 

Gli shinidamachu si stanno avvicinando in volo, trattenendo ciascuno tra le zampette sottili una sfera azzurrina e luminescente.

Sono già alcuni giorni che volano nei paraggi, preparando il raccolto per lei. Sono deboli youkai; assumerne il controllo è stato la facilità stessa, per una miko dotata dei suoi poteri. Un’altra cosa che non avrebbe mai pensato di essere ridotta a fare.

 

Tsubaki sarebbe orgogliosa di me, pensa con quel cupo umorismo che si è scoperta di avere.

 

Così va bene, Inuyasha? Sono caduta abbastanza in basso? Non sei ancora soddisfatto?

 

Pensare a lui è tormento infinito. Lui l’ha uccisa. Lui vuole che ritorni nel corpo di quella insignificante mocciosa; che muoia di nuovo. Ma allora perché la voleva salvare? Lo diverte saperla imprigionata in questo simulacro? Davvero la odia così tanto? Come ha potuto sbagliare così a giudicarlo? Ma allora perché quella vecchia, Kaede ?

 

Mette ordine nella mente. Se continua così, presto perderà del tutto la ragione. Ora c’è una prova ancora più dura che la attende.

 

Gli shinidamachu le svolazzano pigramente intorno, sfiorandola. La prima anima le si posa sui palmi delle mani. Pian piano, se la sente entrare dentro. Rabbrividisce. E’ anche più gelida di quanto si aspettasse. Ad ogni modo, perfino il freddo è meglio del vuoto che l’accompagna di solito. No. Non è questo che teme.

Mentre la shinidama della donna morta allontana una parte del torpore che le appesantisce il corpo, la tamashii colma di rimpianto prende a sussurrarle nella testa ricordi che non sono i suoi.

 

Ero felice, vivevo in uno stupendo palazzo, tutti mi riverivano. Poi, un giorno il vaiolo mi ha colta. Ho lottato, ma non ho potuto fare nulla …

 

“No. Io sono Kikyou. Sono nata e ho vissuto per quasi tutta la mia vita in una capanna …”

 

… per la prima volta, mi sono trovata a fronteggiare qualcosa a cui non potevo dare ordini …

 

“… Non sono morta di malattia …”

 

… Non è giusto. Non è giusto! Avevo una vita bellissima da vivere. Perché a me? Perché non alla sguattera che rassettava ogni giorno le mie stanze? Lei non aveva nulla da perdere! Perché non a lei? E adesso, lei, viva, e io …

 

“… Ho badato ai malati di vaiolo. Ne ho visti alcuni morire nell’amarezza. Altri in pace.

E tu, taci, taci!”

 

Mentre la voce della prima tamashii si riduce ad un sussurro inudibile, ecco altre due anime entrarle dentro.

Freddo.

Parole, immagini, ricordi, che fanno a pugni dentro di lei, cercando di aggrapparsi alla loro vita amara un’ultima volta.

 

… l’amavo tanto, ma mio fratello mi aveva già destinata ad un altro …

 

“Io sono Kikyou. Kikyou. Non ho fratelli e sono – ero – una miko.

 

… mi ero attardata nei campi; le mie compagne erano già rientrate. Quando quell’uomo a cavallo si fermò cominciando a fissarmi non avrei mai immaginato che …

 

“Non sono una contadina. No. Io … io sono …”

 

… i miei bambini. Li ho amati tutti. Erano così piccoli. Li ho nutriti al mio seno…

 

“I bambini? I … miei …?”

 

 … li ho visti crescere, farsi forti. Ero così orgogliosa di ciascuno di loro …

 

“ …No. No. Nessun bambino. Nessun …”

 

 … E’ venuta una guerra, una di quelle loro guerre schifose. Sono partiti, tutti, uno dopo l’altro …

 

“…Nessun bambino. Nessun bambino … Io sono Kikyou … oh, i miei piccolini, i miei piccini! …”

 

…Nessuno di loro è tornato. Tutti. Tutti morti, tutti …

 

“… Nessun bambino nel mio ventre. Mai. Mai. Io …”

 

… Onorevolmente. Morti con onore. E cosa mi importa!? Ridammeli! Maledetto, perché non li hai protetti? Perché?

 

“…Non è mai successo. Io sono Kikyou … Io sono morta …” un sibilo tra i denti stretti.

 

… Sono morti onorevolmente. E così, non mi è rimasto altro da fare che seguirli, altrettanto onorevolmente …

 

No. “Io sono morta  pura!” grida, sputando verso il cielo quell’ultima parola, come se fosse la peggior bestemmia mai uscita da labbra umane.

 

Silenzio. I borbottii delle tamashii si sono zittiti. Apre gli occhi. Altre anime le galleggiano attorno. Il torpore del corpo è svanito, scacciato dalle shinidama. C’è qualcuno alle sue spalle, come stamani. E questa volta lei sa perfettamente chi è.

 

“Cercate la vostra purezza perduta, miko-dono? Non potete rifugiarvi nell’aldilà, voi che siete dei morti?”

 

La voce dell’uomo è arrochita dalla vecchiaia e da una profonda pietà.

 

Osi provare pietà per me? pensa, gli occhi della Furia sopita dentro di lei già pronti a socchiudersi per cercare nuovi modi per manifestarsi. La trattiene.

 

“Vi prego, ignorate la mia presenza. Io desidero soltanto vivere quietamente in questo villaggio.

 

Se desiderate la pace, miko-dono, per quale motivo raccogliete le anime di donne morte, e morte con il rimpianto nella mente e nel cuore? Il vostro corpo ha bisogno delle loro shinidama, non è così? E di cosa ha bisogno la vostra tamashii, invece, miko-dono?”

 

Mentre parla, il vecchio mostra quel che teneva nascosto nella larga manica e che ora ha in mano: un talismano a forma di drago; un oggetto raro e potente in grado di compiere i più poderosi fra gli esorcismi. Appena comincia a brillare i suoi shinidamachu, avvertito il pericolo, volano via svelti in tutte le direzioni, fuggendo.

Voltandosi piano, Kikyou chiede “Cosa avete intenzione di fare, bou-dono?” come se non lo avesse già capito.

 

La voce decisa del monaco si alza, mentre grida “Vi farò ritornare al luogo al quale appartenete! Ascoltatemi, miko-dono! E’ per la vostra salvezza!”

 

Il talismano si incendia di una luce gialla che subito si proietta verso di lei, avvolgendola e mutandosi nelle spire di un drago che la imprigiona strettamente, un artiglio inchiodato al collo.

 

“Non potete sfuggire a questo incantesimo! Io curerò la vostra tamashii, miko-dono!”

 

L’apparente impassibilità di Kikyou finalmente si infrange a quelle parole. “Tu … tu … cosa credi di fare? Guarire la mia tamashii? Stupido vecchio arrogante …”

 

Un grido silenzioso esplode dentro Kikyou mentre, come una spettatrice impotente, osserva la Furia divampare in ogni direzione, scardinando le sue difese, usando i suoi immensi poteri di miko per ribaltare gli effetti dell’incantesimo, stracciare il drago come se non fosse altro che una sagoma ricavata da fragile carta di riso.

 

Frammenti si proiettano ovunque, e una zampa va a conficcarsi nella gola del monaco. Gemendo, mentre dal collo schizzano i primi fiotti di sangue, cade pesantemente a terra, tutto il suo potere spirituale svanito in un solo istante.

 

Il talismano rotola tra l’erba e si muta in polvere.

 

Ciò che resta del drago svanisce come se non fosse mai esistito.

 

Urlando terrorizzato, il giovane monaco fugge, correndo più in fretta che può.

 

Kikyou si avvicina al corpo, il viso indurito. “Sciocco. Se non avessi interferito, adesso saresti ancora vivo.

 

Ma il monaco non è ancora morto. Le sfiora il sandalo, sforzando le parole attraverso la gola che si riempie lentamente di sangue. “Miko-dono … cosa state cercando? I vivi … i vivi cercano sempre nuovi momenti nella loro vita, così da darne forma e compimento. Ma i morti … come voi … il tempo è immobile, congelato, per i morti. I morti non possono convivere al fianco dei vivi, miko-dono. Perché per entrambi è miseria e disperazione. Mi dispiace … mi dispiace di non essere stato abbastanza forte da salvarvi … miko-dono. Perdonatemi …”.

 

La vita fugge via.

 

Kikyou resta immersa nei propri pensieri. Quel che della miko c’è in lei sa che le parole del monaco sono vere. Eppure

 

C’è qualcun altro. Il giovane monaco è forse tornato sui suoi passi per farsi uccidere al fianco del proprio maestro?

 

“Chi c’è?” chiede con voce dura, voltandosi di scatto in una nube di capelli.

 

La vede. La bambina è rannicchiata vicino allo stesso ciliegio dietro il quale si erano nascosti i due monaci nel pomeriggio. Trema, singhiozzando; il terrore ha reso le sue gambe così molli da impedirle di correre via.

 

Sayo.” No. Non lei. Ti prego, chiunque, ma non lei.

Si avvicina e si inginocchia. Gli occhi della bimba si dilatano ancor di più per la paura; non ha quasi più la forza per piangere. Schiaccia il corpo contro il tronco della pianta, senza riuscire a smettere di fissarla.

 

Oh, Sayo. Sei così piccola. Ancora credi che un albero possa offrirti protezione? Se volessi farti del male, ogni cosa qui attorno resterebbe a guardarci indifferente …

 

Allunga esitante una mano.

Un attimo prima che Sayo serri infine le palpebre, sperando di scomparire come per magia, Kikyou si vede infine riflessa in occhi tanto tersi quali le è capitato di incrociare solo un’altra volta.

E quel che vede la accartoccia per l’orrore.

 

Che ridicola farsa ha recitato in questi giorni!! Mascherandosi dietro quel che conosce meglio – il suo ruolo di miko – fingendo che nulla sia cambiato rispetto a più cinquanta anni addietro, ben prima che la Shikon no Tama entrasse nella sua vita.

Ma l’immagine che gli occhi di Sayo le hanno rimandato indietro non può essere fraintesa. Morta. Morta! Sente un grido di frustrazione e rabbia premerle contro le labbra, sui denti.

 

Le tamashii, la sua e quelle delle donne che si sono rifugiate dentro questo guscio vuoto, stanno levando all’unisono un urlo ribelle.

 

Sono morta. No. No. Non può essere.

Non è possibile!! Non è giusto! Tutto il dolore sopportato, tutti gli sforzi fatti, i sogni, i desideri, le speranze … tutto spazzato via in un solo istante, senza una ragione, senza una spiegazione!

E voi! Voi, vivi, voi, voi, che siate maledetti! Come osate continuare a vivere, come se nulla fosse, come se tutto quel che abbiamo sofferto non fosse mai esistito, fosse passato sulla pelle indifferente del mondo senza lasciarvi neppure un segno, una scalfittura.

E noi vi odiamo, per questo, per questo vi strapperemo il cuore, spargeremo il vostro sangue, strazieremo le vostre carni, calpesteremo le vostre carcasse! Provate quel che significa! E poi…

 

Soffocando per un dolore peggiore dell’agonia, Kikyou riesce a scacciare la tormenta di pensieri che stanno per farla a pezzi. Ritira la mano e se la appoggia al petto.

 

“Mi dispiace, Sayo. Ti ho spaventata.” Una cappa di tristezza talmente pesante da spegnere perfino l’odio le piomba addosso.

Lentamente, si alza.

Lentamente, si volta e si incammina verso i boschi.

 

Allontanati, prima di farle ancora più male. Avanti, sbrigati, infausto mostro. Non voltarti. Non …

 

Kikyou-sama.” E’ appena un sussurro bagnato di lacrime; tuttavia, sufficiente a fermarla. Si volta.

 

“Addio.”

 

Riprende il cammino.

 

Questo … questo mondo … è peggio dell’inferno … peggio di …

Non posso sopportarlo. Non ne ho la forza.

Tutto questo deve finire.

Deve finire. Deve.

E io lo farò finire …a modo mio.

 

Presto.

Presto ci incontreremo di nuovo … Inuyasha.

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Capitolo 5
*** IV ***


La notte seguente, i rami del basso albero la cullano mentre dorme

La notte seguente, i rami del basso albero la cullano mentre dorme.

Ecco una cosa che l’ha davvero stupita. I morti dormono. E sognano tantissimo. E’ da quando era bambina, che non sognava più così tanto. Sogna il passato di un’altra vita, sogna di altri mondi, sogna il futuro. Per la gran parte, sono sogni dolorosi; comunque, più sopportabili dell’incubo che la aspetta da sveglia.

 

Accanto a lei, c’è il bisbiglio di un’altra presenza. Appena la avverte, il sonno la abbandona. Apre gli occhi raddrizzando la schiena.

 

Sei riuscita ad attraversare la mia barriera, dunque? Già, è vero; tu sei me.”

 

La ragazzina la guarda perplessa. “Una barriera?” Poi la sua attenzione si sposta sugli shinidamachu che fluttuano tutt’attorno. Dice qualcosa di poco importante sul fatto che dovrebbe lasciare libere le anime delle donne morte.

Senza neppure ascoltarla, Kikyou le sfiora la fronte con le dita. Così facendo, getta su di lei un incantesimo che la paralizza e le permette, al tempo stesso, di sbirciare la sua mente.

 

La comprensione che la illumina è più accecante del sole.

 

 

Ora la ragazzina è imprigionata all’albero; gli shinidamachu attorcigliati intorno a lei impediranno a chiunque altro di vederla e sentirla.

 

Se la uccidessi adesso, potrei riavere la mia tamashii.

 

E’ un pensiero freddo, astratto. Non le è possibile.

 

Uccidere se stessa … quale ironia. Se lo facesse, la risata del Kami si trasformerebbe in un ululato beffardo.

 

La Furia che la divora non glielo permetterà mai. Perché quel che le verrebbe restituito finirebbe per annichilire l’odio che la sostiene, che la spinge ad andare avanti, la lascerebbe nuda ad affrontare un dolore tale da distruggerla.

Eppoi, la Furia vuole vivere, vuole continuare a banchettare indisturbata coi brandelli della sua tamashii.

 

Uno shinidamachu le porge un’anima. Mentre la lascia entrare dentro di sé, sussurra “Inuyasha è qui.

“Non certo per salvarti. E’ qui per vedere me. E io non permetterò alcuna interferenza.”

 

Lo sguardo della mocciosa è intimorito, ma non si lascia scoraggiare.

 

“Cos … vuoi ancora uccidere Inuyasha, Kikyou? No! E’ stato qualcun altro a spingervi l’uno contro l’altra! Siete stati ingannati!”

“Non è stato Inuyasha a ucciderti!”

 

La ragazzina ha un’aria soddisfatta. Kikyou la fissa attentamente. Sta dicendo la verità. O quella che lei crede essere la verità. Non è tanto stupita di quel che le è stato appena detto. Ciò che davvero la sorprende è che la ragazza del futuro sia davvero convinta che questo, ora, possa fare la minima differenza. Sbuffa sprezzante.

 

E credi che questo possa farmi contenta, adesso? Cosa cambia, chi sia stato a uccidermi? Se costui, chiunque sia, morisse, potrei forse tornare in vita? Credi che voglia uccidere Inuyasha per vendicarmi? Sei davvero una sciocca.

“I morti hanno un solo, irrealizzabile desiderio. Tornare in vita. E questo non è possibile. Ride piano. Quanto ha amato, un tempo. Quanto ha desiderato. Ma è nulla a confronto del bisogno che ora le brucia dentro. I vivi non capiscono, non possono capire … solo i morti conoscono il vero significato della parola desiderio.

 

La passione e la rabbia prendono a tingere la sua voce fredda.

 

“Ma un vecchio e una bambina il cui cammino ha incrociato il mio, mi hanno dato la risposta che ero stata così stupida da non vedere da me.”

“Posso prendermi il suo cuore. Il cuore di colui che non perdonerò mai, se soltanto osa dimenticarsi di me.”

“C’è una macchia di angoscia dentro di lui, per il modo in cui lasciammo, cinquanta anni fa.”

“Il tempo … non gli consentirò di lasciarmi alle spalle, come se nulla fosse accaduto, come se non fossi …” Si interrompe per un solo istante, tremando di gelida frenesia a stento trattenuta.

E finché, almeno lui … lui non riuscirà a dirmi addio, io sarò ancora viva … viva, almeno, nel suo cuore tormentato!”

 

La ragazza è confusa. Non ci si può aspettare che capisca. Così, risponde come può e come sa.

 

Ma anche adesso, Inuyasha ti pensa! Non è abbastanza? Inuyasha ti ama; non ha mai smesso! Cos’altro vuoi?!”

 

E’ concitata. Quest’ammissione le è costata. E Kikyou sa perfettamente quanto.

 

“Io e Inuyasha ci siamo separati odiandoci. L’amore di cui parli, è servito solo a rendere ancora più intenso e profondo l’odio che l’ha rimpiazzato. Vedi quanto lo odio?! Immagina quanto l’ho amato! Ma tu non hai bisogno di immaginare nulla.

“Tu, sciocca ragazzina. L’amore che si nutre di te, e ti consuma, come di me si nutre l’odio, tu non puoi capirlo. Io potrei. Io posso. Ascoltami bene, ragazzina. Se tu potessi vedere, se tu potessi comprendere quale scherzo crudele e contorto è quello di cui entrambe siamo vittime, appassiresti nella più nera disperazione. Siamo entrambe in miseria. Ma tu sei più patetica perfino di me.

 

La ragazza la guarda ammutolita. E’ forse panico inespresso quel che le toglie la voce e irrigidisce i suoi lineamenti?

 

“Guardami. Avanti! Ho cercato sempre di fare la cosa più giusta. Volevo solo una vita comune, una vita mia! E guardami adesso! Dannazione, guarda!”

 

Spalanca le braccia, i palmi rivolti verso di lei, il mento puntato in avanti.

 

Gli shinidamachu, avvertendo la sua frustrazione, le volano accanto, per confortarla come possono. Carezza la loro pelle liscia come seta. Con uno sforzo, si calma.

 

In quanto a Inuyasha, se davvero mi ama, ebbene, che ami l’odio che consuma la mia pietrificata tamashii. E io, io amerò il suo cuore smarrito e incapace di perdonarsi e di dimenticarmi.

 

La ragazza sta per ribattere.

 

Piedi nudi schiaffeggiano l’erba umida.

 

Si voltano entrambe.

 

Inuyasha.

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Capitolo 6
*** V ***


Piccola citazione da una saga fantasy pochissimo conosciuta in Italia, causa politica Mondatori (ristampata di recente ma con

Piccola citazione da una saga fantasy pochissimo conosciuta in Italia, causa politica Mondatori (ristampata di recente ma con pessima traduzione -_- ). La saga di Thomas Covenant l’Incredulo.

Vediamo se qualcuno indovina …

 

 

Naraku.

 

Un nome quanto mai adeguato per una creatura come lui. Molti lo credono uno youkai. Hanyou lo chiamano quelli che sono convinti di conoscere la sua vera natura. L’arrogante fratellastro di Inuyasha lo definirebbe “abominio”. Forse Sesshoumaru capisce davvero che lui non è propriamente uno hanyou. Ma il suo disgusto lo rende cieco come tutti gli altri.

 

Nei suoi sogni senza sonno, a volte ha viaggiato ai confini del Meidou, il regno dei morti. Questo è un privilegio di cui un semplice hanyou non può certo godere.

Ricorda ancora la risata gelida e secca di Okuninushi, sire del Meidou. Quella risata così indecifrabile gli ha spiegato molte cose.

 

La prima volta che l’udì fu quella notte. Quando la ragazzina sciolse il sigillo imposto da Kikyou. E poi, poche settimane dopo.

 

Certo, allora non sapeva. Solo in un secondo momento aveva capito. Si chiede se Inuyasha abbia capito anch’egli. Le spalle gli tremano d’ilarità alla sola idea.

 

“Donna arrogante e presuntuosa, impara i limiti della tua umana natura. Non erano queste le parole intessute nella risata del Kami, Kikyou?”

 

Un fantasma può barcollare? Può tremare? Ora lo sa. . Vede Kikyou rabbrividire come se l’avesse colpita. Le labbra arricciate in un sorriso, continua, la voce intrisa di irridente pietà.

 

“Hai combattuto così duramente, Kikyou. Per lunghi secoli, ti sei caparbiamente rifiutata di abbandonare il tuo odio, il tuo dovere … il tuo amore. E tutto questo per cosa? Quando, sfinita, hai ceduto alle lusinghe di Okuninushi, gli hai permesso di darti un’altra vita, ormai certa che le onde del tempo avessero cancellato ogni cosa …”

 

“E’ bastato cadere nell’abisso di un pozzo, e il Kami ti ha spogliata di tutto, con la stessa facilità con cui io inganno Inuyasha. La Shikon no Tama così gelosamente custodita gettata di nuovo nel mondo che volevi proteggere, fatta a pezzi, come la tua anima.”

Perché Okuninushi non poteva certo accontentarsi di così poco, dopo che per tutti quegli anni l’avevi sfidato. Hai sempre saputo da dove la strega, Urasue, aveva attinto le sue oscure conoscenze, non è vero? Naturalmente. Non sei mai stata una stupida.

Quanto è stata profonda la sua risata, quando ti ha richiamata nel mondo in quel corpo fasullo, animata da buie arti, e finalmente è riuscito a strapparti via l’amore e tutto quel per cui avevi così dolorosamente lottato, rinchiudendolo in una ragazzina che neppure ha l’idea del gioco cosmico di cui è pedina; costretta a vedere il tuo sacrificio incenerito come la tua salma … per cosa poi?”

“Ho imparato molto, Kikyou. Sì. Né Inuyasha, che forse ti ama o crede di amarti, né Onigumo che senz’altro ti bramava, ti hanno mai capita.”

“Noi siamo davvero più simili di quanto io stesso pensassi.”

“Poiché sono quelli come noi che i Kami temono, e odiano, e invidiano più di qualsiasi altra cosa in questo mondo.”

“Ma io, Kikyou, non ho alcuna intenzione di lasciarmi sconfiggere, né da loro né da nessun altro. Certamente, neppure da te.”

 

Il capo orgoglioso di Kikyou è chinato. I capelli le nascondono il viso. Che posa inconsueta, per lei! Le sue parole sono solo un sussurro.

 

E tu, quale pedina sei in questo gioco, Naraku? Okuninushi non fu l’unico a ridere, non è così? Il tuo demone interiore già allora proiettava la sua ombra su di te, molto più di quanto tu abbia mai voluto ammettere a te stesso.”

“Per quanto tu mi temessi, il brigante dentro di te non poteva permetterti di uccidermi. Troppo grandi erano la sua passione e la sua gelosia. Oh, sì. Sono certa che tu abbia sentito echeggiare nella mente anche la sua risata, mentre si abbeverava del dolore di Inuyasha.”

Perché se c’è una cosa che un brigante sicuramente sa bene, forse meglio di quanto lo possiamo sapere tu e io, è che esiste un solo modo per colpire qualcuno a cui è stato rubato tutto. Restituirgli la cosa più preziosa tra quelle che possedeva, ma restituirgliela rotta.

“E io, mio assassino, altro non ero, se non una bambola rotta.

E quanto spesso sentivi la sua voce? Mentre ossessivamente ti ripeteva – Mia o di nessun altro. Che sia, mia o di nessun altro. Pensieri che, pur non appartenendoti, finivano per darti una forma alla quale non potevi sottrarti.

“Conosco bene quelle parole, Naraku. Non sai quante volte le ho viste balenare in quell’unico occhio, mentre lo imboccavo. Ma forse sai cosa significa sentirsele bruciare addosso. Un desiderio così … fa paura, mio assassino.

“Così, anche uccidendomi hai finito per servire colui che più di tutti odi. Perché la forma che il destino mi costrinse ad assumere al mio ritorno in questo mondo, era esattamente quella che Onigumo sognava per me nei suoi sogni putridi.

“Io sono morta pura. E sono tornata sporca; guasta fino al midollo, per chiunque, tranne che per il brigante che si era nascosto dentro di te. Anche tu, in fondo, altro non sei stato, nonostante tutti i tuoi sforzi, che la pedina di un Kami e di un uomo.

“E quest uomo hai continuato a servirlo lungamente, Naraku, allo stesso modo in cui altri servivano te.”

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Capitolo 7
*** VI ***


Vi ricordate la saga di Tsubaki, vero

Vi ricordate la saga di Tsubaki, vero? Stavolta, attingo dal manga e non dall’anime. Perciò, niente sacerdotesse rosse/bianche o altri riempitivi inutili.

 

Tsubaki, la vecchia nemica di Kikyou, sollecitata da Naraku, si impossessa di Kagome, cerca di farle uccidere Inuyasha, ma viene battuta.

 

Kikyou ha una breve, ma per me significante apparizione all’interno della saga di Tsubaki, che io ho, da sempre, “letto” in questo modo.

 

Pedine.

 

Anch’io sono questa? Solo una delle tante pedine nel suo gioco? Un piccolissimo frammento di un mosaico?

 

Perché desidero di più, allora? Perché voglio sentirmi libera?

 

Ah, quanto lo odio! E lui lo sa. Non capisco; lui sa cosa c’è nel mio cuore … lui lo tiene in pugno.

 

E guardalo, seduto tranquillo davanti allo specchio di Kanna, a godersi lo spettacolo.

 

Guardalo, con quale destrezza manovra i fili delle passioni, di bisogni e desideri; mentre tesse paziente la sua tela e, come un artista, rimira soddisfatto il risultato, compiaciuto della propria abilità.

 

Ha fatto leva sull’avidità, sull’odio e sulla gelosia della kuro miko, Tsubaki. Con che facilità l’ha trasformata nella sua ennesima pedina!

 

Gli è bastato sventolarle sotto il naso l’esca della vita eterna e della vendetta contro Kikyou, che la umiliò e la sconfisse tanti anni fa.

 

Quanto possono essere persistenti i moti dell’anima umana!

 

Kagura non manca mai di stupirsene. Dopo tutto questo tempo, sembra quasi che per la miko sia più importante vendicarsi di Kikyou, annientando la sua reincarnazione, che appropriarsi della Shikon no Tama.

 

Ed ecco che il fantoccio di Naraku la provoca.

“Quella ragazza chiamata Kagome, è la reincarnazione di Kikyou, Tsubaki. Dovrai impegnarti di più, se vuoi sconfiggerla.

 

E subito, la vecchia maldestramente travestita da giovane raddoppia i suoi sforzi. Infine, la sua passione riesce là dove i suoi poteri stavano per fallire.

 

Un’altra pedina da aggiungere sulla scacchiera. Stavolta, la ragazzina del futuro. Quella Kagome offre resistenza. Attacca Inuyasha; ma, al tempo stesso, gli grida di fuggire.

 

Naraku sorride. Come sempre, mostra interesse quando la partita si fa più avvincente.

 

Tsubaki. Se Inuyasha fugge, uccidi Kagome con il tuo juso.

 

E ora anche Inuyasha è diventato involontaria pedina di questo gioco. Mentre è costretto a vedersi puntare contro per la seconda volta una freccia dalla donna amata, la sua stessa presenza diventa a sua volta un sofferto tormento per la ragazza ormai priva di controllo sul proprio corpo, ma del tutto consapevole di quanto sta accadendo e della propria impotenza.

 

Kagura rabbrividisce, disgustata; quasi si sente addosso quei lacci invisibili che Naraku sta tirando.

 

Poi, d’improvviso. Il fantoccio viene fatto a pezzi con un unico colpo. Naraku, involontariamente, sussulta per la sorpresa.

 

Riflessa nell’immagine dello specchio di Kanna: Kikyou.

 

Kagura vede Naraku irrigidirsi.

 

Ecco qualcosa che non avevi previsto, vero, Naraku?! Esulta.

 

Naraku segue attento la lotta di volontà tra le due miko.

Tsubaki sfida la sua antica nemica, e rivela a Kikyou le intenzioni di Naraku. Di nuovo, come quella volta, l’uno contro l’altra …

Kagura sorride tra sé. Tra poco, ne è certa, ci saranno due miko morte all’interno del tempio.

E invece.

 

Accostando la bocca all’orecchio di Tsubaki fin quasi a sfiorarlo con le labbra, scandendo piano ogni parola, Kikyou risponde.

Tsubaki. Non ho intenzione di interferire, qualunque cosa tu abbia intenzione di fare a Kagome. Ma se ti azzarderai ad attaccare Inuyasha … in quel momento, io ti ucciderò.

 

Senza quasi attendere risposta, Kikyou lascia bruscamente la chioma bianca di Tsubaki così duramente trattenuta fino a un momento prima, e se ne va.

 

Kagura resta gelata dalla sorpresa. In quel momento, Naraku scoppia a ridere, di una risata profonda e soddisfatta.

 

“Non capisco.” Le parole sfuggono dalle labbra di Kagura prima che possa trattenerle.

 

Quando è dell’umore giusto, a volte Naraku la mette a parte dei suoi pensieri. Questa è una di quelle volte.

 

“Ah, Kagura. Non dimenticare che cosa è Kikyou, ormai. Non lasciarti ingannare dal suo aspetto, come fanno in molti. Ciò che la anima è e resta, semplicemente, odio. Povera, fragile, perduta Kikyou … non è altro che una marionetta manovrata da un risentimento di cui non potrà mai liberarsi. E così anche lei ha finito per servirmi; come, d’altronde, fa qualsiasi altra cosa. Le lancia una significativa occhiata in tralice, che Kagura decide di ignorare.

 

Eppure, hai sentito cos’ha detto. Non vuole che Inuyasha muoia.”

 

“No. Non vuole che Inuyasha venga ucciso da mani che non siano le sue. Taci, ora. Vediamo cosa farà Inuyasha, adesso che la vita di Kagome è ostaggio della kuro miko.

 

La battaglia prosegue.

Forse è solo un’impressione di Kagura, ma le sembra che gli attacchi di Tsubaki a Inuyasha siano poco convinti. Infine, la miko scaglia la maledizione contro Kagome. In pochi istanti tutto finisce.

 

Lo shikigami dalla forma di serpente viene ribaltato contro Tsubaki.

 

Il potere di Tsubaki è dissipato.

 

La kuro miko fugge, sconfitta.

 

 

L’espressione di Naraku è imperscrutabile.

 

Kagura apre un poco il suo ventaglio, portandoselo davanti alla bocca per mascherare il volto.

 

“Quella Kagome si è rivelata molto più resistente del previsto, Naraku.

 

Naraku gira appena il viso a cercare i suoi occhi cremisi e scintillanti.

 

“Anzi. Mi sembra che questa esperienza l’abbia resa più forte e pericolosa di prima. Se mi permetti di dire la mia, Naraku, forse sarebbe stato meglio lasciare da parte certi giochetti ed ucciderla finché era possibile …”

 

“Stai zitta.”

 

“ …invece di indugiare in una vecchia pantomima. Chissà cosa starà pensando di te in questo momento quella miko morta … ”

 

“Taci!”

 

Con una voce sommessa e ossequiosa, prosegue.

“Perdonami se ti ho turbato, Naraku. Forse preferisci stare un po’ solo con i tuoi pensieri. Se hai bisogno di me, chiamami pure. Sono sempre pronta a servirti … come qualsiasi altra cosa.

 

Si gira e lascia veloce la stanza, prima che lui possa ribattere.

 

Ah, Naraku, credo che quella Kikyou sappia molto bene quanto sono persistenti i moti dell’anima umana!

 

Senza riuscire a trattenersi oltre, per la prima volta nella sua vita di schiava, ride di un riso libero come il vento.

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Capitolo 8
*** VII ***


Naraku annuisce tranquillo

Naraku annuisce tranquillo.

 

“Oh, suvvia, Kikyou. Davvero ti sei scomodata a venire da me per parlarmi di cose che ricordo perfettamente e che appartengono ormai a un passato sepolto? Così mi deludi. Ho già affrontato tutto questo. Ho lottato e ne sono emerso. Trionfante.”

E chi sei mai tu, Kikyou, per potermi parlare con tale presunzione delle indisciplinate passioni del cuore umano? Che cosa resta, quando queste si raffreddano fino a spegnersi? Ciò che rimane è solo il tedio banale di vite che si sarebbero smarrite, anche se io non fossi passato a confonderne il percorso. Di cosa mi accusi, mia nemesi? Credi davvero che dal vostro sogno di felicità non vi sareste svegliati, tu e Inuyasha, se non fosse stato per me? Quanto ti sbagli!”

“Quanto tempo sarebbe dovuto passare, prima che lui rimpiangesse quel che era stato e non sarebbe potuto mai più essere? E tu? Davvero non ti saresti sentita mai stretta, nella tua vita comune?” “Kikyou, renditene conto. Tutto ciò che esiste è fatto per imbozzacchire e putrefarsi. Ma io, e solo io, ho potuto fare per voi ciò che sarebbe stato altrimenti impossibile: io ho reso il vostro amore immortale e immutabile, perfetto nella sua mirabile fissità, esente dall’umiliazione della decadenza del tempo che sbriciola tutte le cose.

“E tu, per questo, Kikyou, dovresti solo ringraziarmi.

 

Kikyou sorride paziente, come se stesse ascoltando un brusio fastidioso.

“Naraku, vedo che la tua abilità non si è appannata, nonostante tutto. Ribatte con fare misterioso. “Ma tu sai bene, o almeno ricordi, che è proprio questo il giusto prezzo da pagare alla vita. Proprio quel prezzo che ti fa così paura. Non cercare di addossare, né a me né a Inuyasha, debolezze che sono le tue, mio assassino.”

“Certo, sarebbero venuti giorni quali quelli di cui mi parli. Ma ce ne sarebbero stati tanti altri. E noi li avremmo condivisi tutti.”

 

“Kikyou, ti prego, risparmiami queste sciocchezze. Presto o tardi, vi sareste dovuti accorgere delle bugie nelle quali vi nascondevate entrambi. Se non fosse stato per me, tu, e persino lui, vi sareste accorti della debolezza di quel che chiamavate ‘amore’. Cos’hai mai trovato nello stupido Inuyasha, Kikyou? Lo amavi? Non credo. Era pietà, la tua. Ti faceva tanta pena, quel povero, smarrito hanyou? Tanto da arrogarti il diritto di decidere quel che sarebbe stato meglio per lui? Da una donna come te, mi sarei aspettato di meglio.

 

“Davvero lo credi, Naraku? Se vuoi saperlo, le mie ragioni furono molto più semplici e umili. Lui mi ha sempre vista, Naraku. Ha sempre visto al di là di tutte le mie maschere. Non so se la ragione sia che è stato costretto a indossarne per secoli, per nascondersi dagli altri e da se stesso. So solo che, davanti al suo sguardo, sono sempre stata indifesa. Quella finzione di vita perfetta che mi costringevo a recitare davanti a chiunque, non lo ha mai ingannato. E se non mi fossi potuta specchiare nei suoi occhi, quante cose non avrei saputo di me stessa!”

“Fu grazie a lui, sai, Naraku, che per la prima volta seppi di essere … bella. Sì. Bella, e desiderabile. E che scoprii anche che non c’era niente di male, in questo, nulla di cui vergognarsi, niente da nascondere.

“Se non fosse stato per lui, forse, l’occhio di Onigumo che mi frugava giorno dopo giorno mi avrebbe convinta che essere bella fosse solo una maledizione, una disprezzabile vanità.”

Ma queste cose le sai bene anche tu, non è vero, Naraku? Perché lo odi così tanto? Perché c’è lui, nei tuoi pensieri? Perché non suo fratello Sesshoumaru? Non sarebbe un avversario più alla tua altezza?”

“Forse perché, nonostante ogni tuo nuovo corpo, al di là di tutti i tuoi travestimenti, nei suoi occhi hai sempre visto ciò che sei veramente. La tua irriducibile bruttezza, mio assassino; non sei mai riuscito a nasconderla a Inuyasha, non è vero? E i suoi occhi, Naraku. Se tu potessi, glieli strapperesti dalle orbite, o sbaglio?”

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Capitolo 9
*** VIII ***


Ed eccoci

Ed eccoci. Non poteva mancare l’episodio speciale dell’anime (147 – 148), che è passato mille volte in un sacco di fic. Qua davvero siamo a livello di ricopiatura.

Spero, tuttavia, che vi possa piacere il mio sforzo di lavorare sulla “psicologia” dei due protagonisti.

 

 

Rinfresco la memoria per quelli che ne hanno bisogno. La parte d’episodio di cui vado a raccontare comincia dopo il salvataggio di Kaede dal demone millepiedi da parte di Inuyasha, e finisce quando il medesimo regala quella specie di “rossetto” a Kikyou un paio di giorni dopo.

 

Glossario.

 

Oneesama: riverita sorella maggiore;

 

Hinezumi no Koromo: la veste di Inuyasha;

 

Kotodama no Nenju: il Kotodama no Nenju è il rosario di controllo che Inuyasha ha da sempre e che, nello speciale, è stato stabilito sia stato fabbricato da Kikyou.

 

Nenju vuol dire “rosario”.

 

Kotodama è un concetto religioso che sta più o meno per “potere della parola”. I giapponesi credevano (come molte popolazioni, del resto) che la propria lingua fosse sacra (linguaggio degli Dei, direi quasi), e in quanto tale, avesse un potere.

Infatti, nei matrimoni o in altri eventi importanti, alcune parole venivano evitate mentre altre ripetute, così che il linguaggio “modellasse” la realtà per come la si desiderava (si ripetevano, perciò, parole di buon augurio e si evitavano quelle malaugurati).

Kotodama è la ripetizione sacra della parola al fine di “concretarla” nella realtà. E ovviamente, per converso, la rinuncia a pronunciare una determinata parola, conduce all’effetto contrario.

 

 

Tira vento. Kikyou odia queste giornate ventose. Quando questo vento spettina l’erba, sibila tra i rami, fa tremolare l’acqua nelle risaie, lei si sente come una stanza chiusa e vuota da tempo.

Però, oggi.

 

Sta seduta in mezzo al prato, una gamba ripiegata, l’altra un sostegno per il braccio destro.

 

E, come sempre da un po’ di tempo a questa parte, è consapevole del fatto che lui la sta fissando, anche in questo momento.

E’ uno sguardo diffidente. Prima era bellicoso e pieno d’intenti violenti. Poco per volta, è diventato scrutatore, curioso; adesso, quasi … non lo sa bene neppure lei. Però, sa come si sente quando lui è lì vicino.

Si sente … preziosa.

 

“Inuyasha. Sei qua, non è vero? Vieni. Siediti vicino a me, per favore.”

 

Fruscio tra i cespugli. Con la sua solita aria scontrosa, si avvicina, il passo pesante, e si lascia cadere sgraziato a un paio di metri da lei.

 

Lei tiene lo sguardo incollato all’orizzonte.

“Questa è la prima volta che ti parlo da così vicino, non è vero?”

 

E allora?”

 

Kaede mi ha detto che l’hai salvata.”

 

Dunque, è per questo che lo ha chiamato. Ovvio. Subito sulla difensiva, si prepara a ripetere quel che ha già detto alla bambina.

Mica l’ho fatto per loro! Era solo perché uno youkai qualsiasi non si prendesse quel che è mio di diritto!

“Bah! E’ stato solo …”

 

Non gli permette di finire.

Comunque, volevo ringraziarti.” China con eleganza la testa.

 

E adesso?! Sembra quasi. Cosa? Umile? Ah, è proprio tutta da ridere. Fa tanto l’arrogante. Adesso è costretta a riporre le arie! E accidenti! Chissà perché, dopo tutto questo tempo che aspettavo di farle ingoiare un po’ della sua presunzione, non ci trovo nessuna soddisfazione!

 

“Non fare qualcosa che ti si addice così poco!”

 

Stanno in silenzio un po’.

 

Beh? Me ne posso anche andare, no? Ormai hai detto quel che avevi da dire. Congedami e facciamola finita.

 

“Inuyasha, io come ti sembro? Ti sembro umana?”

Che cosa vedi, quando mi guardi per tutte quelle ore, senza stancarti mai?

 

Che? Di cosa stai parlando?!” Comincia ad agitarsi; lei vede bene che si sta innervosendo. Questa strana confidenza, non la capisce, e in special modo perché viene da lei. Ma lei decide di continuare. Ci vuole una strana forma di coraggio, per gettare alle ortiche ogni cautela. Sente un peso ai polmoni, come se l’aria fosse all’improvviso diventata più difficile da respirare. Con uno sforzo, trova il fiato e prosegue.

 

“Non posso mostrare a nessuno le mie debolezze. Non posso esitare. Perché, in quel preciso momento, un qualunque youkai potrebbe approfittarne per attaccarmi e impadronirsi della Shikon no Tama.”

“Sono umana, ma non posso permettermi di agire come un essere umano.

“Tu e io siamo simili. Tu, che sei uno hanyou; umano solo per metà. E’ per questo che non sono riuscita a ucciderti.”

 

“Stai cercando delle scuse?! Falla finita; non sembri neanche tu!”

 

Subito si alza in piedi e si gira, sprezzante. Sta per andarsene. Qualcosa lo ha turbato parecchio; che cosa, non sa. Ma è infastidito, teso. Forse è una trappola. Forse …

 

Lancia un’ultima occhiata in tralice alla miko, già pentito della propria reazione.

 

Che stupido! Magari, invece, Kikyou stava cercando di dirgli qualcosa di importante. Quanto tempo è passato, dall’ultima volta che qualcuno gli ha parlato, se non per insultarlo o minacciarlo? E lui ha rovinato tutto. Proprio non riesce a controllarsi, né a fidarsi.

Di certo, adesso sarà arrabbiata. I suoi lineamenti saranno contratti. Ora lo caccerà via con qualche parola dura. E per questo non potrà prendersela con nessuno, tranne se stesso … e sa già che, nonostante questo, le risponderà in malo modo … e …

 

E il suo viso è liscio, e dolce. I suoi occhi sono caldi. E nel suo sorriso malinconico, neppure l’ombra, oh!, neppure l’ombra di un rimprovero.

 

“Come immaginavo, non sembro neppure io, non è vero?”

 

Quanto mi batte il cuore nel petto, adesso. E lo stomaco. E’ tutto un nodo! Cos’è questa? E’ paura? Paura di cosa? Io, che affronto potenti youkai, che ogni giorno purifico un gioiello antico e pieno di pericoli misteriosi.

Io, che ho accompagnato bambini in questo mondo, tirandoli fuori, urlanti e scalcianti, dalle pance delle loro madri. Io, che ho accompagnato giovani e vecchi fuori del mondo, abbattuti dalle malattie e dal tempo, a volte cercando di curarli, a volte tenendo semplicemente loro la mano, mentre morivano.

Io, che ho imparato a controllare tutte le mie emozioni, e a tenerle in ordine, come fili ben tesi sulla trama e l’ordito della mia anima.

 

Cos’è questa paura? Adesso che lui mi guarda.

 

E questa voce dentro di me?

 

Ti prego, Inuyasha, oh ti prego, ti prego, guardami! Guardami!!

 

Per favore. Inuyasha.

Guarda me. Vedi me!!

 

E mentre lei, seduta a terra, si lascia guardare, lui la guarda.

 

Kikyou si alza. Inuyasha è silenzioso.

“Inuyasha …”

 

Le manca la voce. Tante parole le frullano in testa; ma non trova null’altro da dire.

 

Cosa … ?”

 

“No. Niente.”

 

Senza che nulla cambi nella sua espressione gentile, Kikyou si allontana.

 

Inuyasha resta immobile. Che fare? Sa che è successo qualcosa di molto importante; di fondamentale. Un momento preziosissimo gli è stato regalato. E’ stato fatto entrare.

Cosa vuol dire?

Non lo sa; ma sa che è stato scelto per entrare in un luogo proibito a chiunque altro. Nella mente gli sorge l’immagine di una stanza, chiusa da tanto, tanto tempo; dalla quale passa un solo filo di luce. E se adesso non sarà capace di … di cosa?

Se non sarà capace di essere ciò che è, nonostante tutte le sue abilità di segugio e battitore, forse non riuscirà più a trovare questa pista. Sa solo che non vuole permetterlo. E non lo permetterà!

E senza neppure rendersene conto appieno, sente una forza misteriosa e sconosciuta, ma familiare allo stesso tempo. Echi di un potere e di un retaggio perduti, che aspettano solo una chiamata.

 

… Kikyou …

 

La sua bocca si apre; la sua lingua si scioglie come se ogni suo dubbio o insicurezza fosse stato bruciato in un attimo solamente.

 

“Kikyou! Domani mattina! Presentati qui, domani mattina!”

 

Kikyou ode la sua voce, ma è come se la sentisse per la prima volta. E’ talmente stupita, da girarsi con un’espressione sorpresa, quasi convinta di trovare qualcun altro al posto di Inuyasha.

 

Perché la sua voce è chiara, ferma e il suo tono, non è quello di uno sperduto hanyou che trova rifugio nelle foreste da chissà quanto tempo.

 

Il suo è il tono di un comando che non ammette repliche o ripensamenti. E’ l’eco di potere di una creatura millenaria abituata a dettare legge su molti mondi. E’ l’inflessione di generazioni e generazioni di daimyo che si aspettano che i propri ordini siano eseguiti rapidamente e senza tentennamenti.

 

Come se ci fosse … qualcosa alle sue spalle.

 

E’ solo per brevissimi attimi.

 

Incrociando la sua espressione sorpresa, Inuyasha arrossisce, distoglie lo sguardo e ritorna l’impacciato hanyou di sempre. Ma.

 

“E’ solo che ho qualcosa da darti, ecco.”

 

“Davvero? Bene. Perché anch’io voglio darti qualcosa, Inuyasha.

 

Cosa?! E’ la Shikon no Tama?!”

 

Mentre l’incanto durato quei pochi battiti di cuore si scioglie, Kikyou fatica a trattenere una risata mentre gli risponde “Ovviamente no!”.

 

 

 

La sera.

Kikyou sta maneggiando con cautela le perle del rosario, impregnandole una per una del proprio potere spirituale.

 

E’ già da qualche tempo che pensava di imporre a Inuyasha il vincolo del Kotodama no Nenju; ora si è convinta che il momento sia quello giusto. Eppure è stranamente sulle spine. Certo, in parte si sente in colpa, come se stesse approfittando della sua fiducia. Ma c’è dell’altro.

 

Percepisce, più che sentire, Kaede che si avvicina, e apre gli occhi un attimo prima che la sorellina parli.

 

“E’ un Kotodama no Nenju? Oneesama, lo stai preparando per Inuyasha, non è vero?”

 

Kikyou annuisce.

 

“Sì. Lo so, può sembrare un’azione disonesta, ma è per il suo stesso bene. Per impedirgli di fare qualcosa di stupido o di sbagliato, di cui potrebbe pentirsi.

 

Forse è un po’ sulla difensiva. Ma vagliando il proprio animo, come le è stato insegnato a fare fin da bambina, Kikyou non avverte nessuna malizia dentro di sé. Farebbe volentieri a meno di tutto questo; ed è sicura che, più tempo passerà, più remota diventerà l’eventualità che sia costretta ad usare il Kotodama no Nenju.

 

Glielo porrà al collo, e Inuyasha si arrabbierà tantissimo! Quando si accorgerà di non riuscire a toglierselo, ah!, farà una di quelle sue facce che crede tanto minacciose! E, sì, certo, le terrà il muso per un bel pezzo …

 

Kaede resta lì accanto, stupefatta. Illuminato solo dalla lieve luce di una fiammella, il volto di Kikyou sembra irradiare poco a poco una gioia trattenuta a stento.

 

“Ora. Quale potrebbe essere la parola di comando?”      

 

E, davvero, confida in se stessa a sufficienza da essere convinta di non dovere mai e poi mai fare uso del Kotodama no Nenju. Così, un pochino per volta, lui finirà per perdonarla … e così … così?

 

Dal fondo della mente, dove si era sforzata di relegarlo, un ricordo chiarissimo emerge e si impone alla sua attenzione.

 

Non dimenticare. Non innamorarti. Non permettere a uomo di amarti. Se mai dovessi incontrare un tale uomo, sappi, morirai di una morte innaturale.

 

La paura penetra nella sua anima come una lama. E’ diversa dalla paura che provava questo pomeriggio; completamente diversa. Tutto quel che è, tutto ciò che le è stato insegnato a essere, leva un gelido avvertimento. La strada che sta per imboccare è un pericolo. La miko dentro di sé la afferra alla gola. Quel che sta accadendo va impedito. Va fermato finché è ancora possibile.

 

“Ora che ci penso. Tsubaki mi ha posto sul capo una maledizione. Strano! Una miko quale sono io, che percorre un sentiero insanguinato, non dovrebbe aver paura di affrontare una morte innaturale.

 

Sorride a se stessa. Ha paura, invece. Non ne ha mai avuta tanta, neppure quando i suoi genitori sono morti e lei, senza un lamento, si è impegnata per farsi carico di tutti i propri doveri, di miko e di sorella maggiore.

Le cose si stanno muovendo troppo in fretta! Un sigillo. Le serve un sigillo. La miko che percorre il sentiero insanguinato, le sussurra la soluzione.

 

“Il Kotodama sarà …amore’.”

 

 

 

La mattina dopo, entrambi sono arrivati puntuali all’appuntamento.

Nel palmo di Inuyasha, una conchiglia.

 

“Cos’è?”

 

“Non ho alcun motivo per tenerlo. Perciò lo do a te.

 

Kikyou apre delicatamente la conchiglia.

Resta immobile a fissare la terra rossa all’interno. Il cuore comincia a batterle all’impazzata.

 

“Le sole cose che mia madre mi lasciò furono questo, e l’Hinezumi no Koromo.”

 

“Tua madre, era umana?”

 

“Beh. Sì.”

 

Un calore che nessun addestramento può trattenere le si diffonde dal petto verso le membra e tutto il corpo.

 

Mi ha … vista?

No, non è possibile! Eppure

 

La voce fredda della miko protesta. Che restituisca subito questo inutile feticcio di vanità! Immediatamente!

 

“Non posso accettare qualcosa di così prezioso, Inuyasha. Io …”

 

La voce prende a tremarle. Cos’è questa confusione, questa confusione meravigliosa che le fa quasi girare la testa?

E questi scricchiolii? Gli scricchiolii di una gabbia gelida, fatta di ghiaccio crudele …

 

“Non preoccuparti. L’Hinezumi no Koromo è più che sufficiente.

 

Oh, Inuyasha!

Cosa mi succede? Dunque, era così semplice capire? No, che stupida. Sei tu … tu, che sei un cacciatore!

 

E’ in un tale stato di grazia, che i pensieri le sfuggono, diventa incoerente, parla, ma senza neanche sapere cosa sta dicendo. Questo non è da lei, no, non è da lei, è assurdo, non ha senso, è stupido, bello, folle, magnifico!

 

“Mi dispiace così tanto, Inuyasha. Non avevo idea che ti fosse così prezioso, e l’ho perforato con le mie frecce tante di quelle volte.”

 

Quasi non si è resa conto di avergli preso tra le mani la manica.

 

Calmati!

, lo farò … tra un minuto, ecco; solo un minuto ancora.

 

“Ah! Non preoccupartene! Piuttosto, tu cosa mi hai portato?”

 

Il mondo è un guazzabuglio impazzito. D’istinto, infila la mano nella manica dell’hitoe.

 

Prende il Kotodama no Nenju tra le dita sottili. Adesso è il momento. Basterà porre il sigillo, e poi, tutto tornerà come prima, su quella strada diritta e serena che conosce così bene.

 

In fondo, non è difficile decidere.

 

Solleva la testa a cercare il viso di Inuyasha. Sorridendo imbarazzata, la voce ancora vibrante d’emozione, scaccia dalla testa la protesta muta della miko.

 

“Scusami, Inuyasha. Io … ecco, l’ho dimenticato.

 

E quasi non sente le sue stesse parole, coperte dal fragoroso rumore di una gabbia di ghiaccio finalmente fracassata.

 

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Capitolo 10
*** IX ***


Eccolo

Eccolo.

 

Per la seconda volta da quando è tornata nel mondo, eccolo.

 

La ragazza del futuro grida cercando di richiamare la sua attenzione, la sciocca. Come le ha già spiegato, lui non riuscirà né a vederla né a sentirla.

 

Anche se questa volta ha avuto più tempo per prepararsi, l’intensità dei suoi sentimenti rischia di travolgerla.

 

Odio, rabbia, rancore, biasimo, rimpianto, dolore, e ancora, odio, rabbia, rancore … ; tutte queste emozioni dentro sé, una dopo l’altra. Le lascia scorrere tra le dita come i grani di un rosario fatto per pregare un Kami che, dai propri seguaci, pretende sacrifici umani. E’ quasi stupita di riuscire a contenere tutto questo senza sgretolarsi.

 

E’ esattamente come lo ricordava. Non è cambiato. Oppure sì?

 

Il suo viso è angosciato, sofferente. Bene. E’ quello che si merita! Ma, certo, non le basta. Vuole che senta fino in fondo la disperata impotenza di rendersi conto di cosa è diventata, vuole che il senso di colpa gli spezzi irrimediabilmente il cuore. Quel cuore che le appartiene!

 

“Kikyou …” sussurra lui, facendosi avanti di pochi passi quasi con fatica, come se all’improvviso fosse diventato un vecchio essere umano, e non l’infaticabile hanyou che è in realtà.

Il viso di lei si fa duro.

“Sei tu, dunque. Sei tu che stai raccogliendo le anime delle donne morte.

 

“Questo corpo fasullo e senza shinidama, ha bisogna di essere nutrito di anime umane, Inuyasha, altrimenti non potrebbe muoversi.”

Bene, Inuyasha. Più vicino. Vieni più vicino.

Abbastanza vicino da vedermi.

Guarda.

Che cosa disgustosa e ripugnante sono diventata.

 

Sorride compiaciuta, vedendolo sussultare.

Sì. Tra pochi istanti lui la vedrà. Vedrà che cos’è ora. Un mostro guidato solo dal rimpianto; morta e fredda e piena d’odio. In uno stato talmente miserabile che neppure lei è capace di sopportare l’immagine di ciò che è diventata.

Quell’insignificante ombra di se stessa che ancora sopravvive dentro .

Quella semplice donna, poco più di una ragazza costretta in un ruolo per lei scelto da altri – quanto la odia! La odia e vorrebbe farla a pezzi, così come odia e vorrebbe fare a pezzi qualunque altra cosa.

Senti, come singhiozza disperata! Quasi impazzita, battendo i piccoli pugni impotenti contro pareti di una prigione di fuoco da cui non c’è fuga. Debole e sciocca! E’ tutta colpa sua se è in questo stato!! Ah, sì! Che gioia tenebrosa potrà assaporare, strappando la vita alla persona che le è più cara!

Se si fosse rassegnata a quanto era già stato deciso e scritto tanto tempo addietro, se avesse soffocato quegli stupidi palpiti vitali, invece di sperare chissà cosa, non sarebbe mai diventata questa!

 

Quando lui capirà che cos’è, il suo raccapriccio li seppellirà entrambi. E il senso di colpa che sboccerà nella sua anima lo renderà suo per sempre.

 

“Inuyasha. Chissà quanto mi disprezzi! Guidata soltanto dal mio odio per te, ho raccolto queste anime per restare nel mondo.

 

Adesso.

Solo poche volte Kikyou ha visto emergere da Inuyasha quell’aura di … autorità. Come già le accadde, una vita fa ormai, capisce quanto a fondo lui è capace di vederla.

Adesso.

Le lacrime, la smorfia di ripugnanza, le parole piene di ribrezzo. Avanti. Sono pronta.

 

“Dannata stupida! Tu potrai anche odiarmi! Ma non è mai passato neanche un giorno senza che io pensassi a te!”

“Non ha importanza il tuo aspetto. Non m’interessa cosa sei adesso! Io non potrò mai odiarti o disprezzarti!”

 

E’ la volta di Kikyou di sussultare. Una mano poggiata al petto, ristà alcuni attimi, quasi perplessa.

Cosa succede? Non mi vede più, dunque. Non è più capace di …

 

Vaglia attenta i suoi occhi, il suo riflesso dentro di essi. L’immagine che le viene rimandata è la stessa che c’era negli occhi di Sayo, senza alcun dubbio.

Eppure, nonostante questo, nonostante tutto …

 

Un tremore incontrollabile la scuote. Sopraffatta, si gira, lasciando che i capelli diventino un sipario dietro il quale nascondersi.

La ragazza dentro di lei sta urlando, adesso, con una violenza tale che la Furia teme quasi che lui possa sentirla. Sono qui, Inuyasha, oh, sono qui, sono io!

 

La voce esita, e non vuol proprio uscire. A fatica, riesce a ribattere, mentre si avvicina a lui.

 

“Veramente? Anche … anche se con queste mie mani, io potrei ucciderti?”

 

Gli accarezza il volto. Nulla. Occhi pieni di dolore, sì; occhi antichi. Occhi che la accettano e la accudiscono, anche adesso, così com’è.

 

Cerca le sue labbra. Lo bacia. Poi gli si lascia cadere addosso, abbracciandolo.

 

“Inuyasha. Fin dalla prima volta che ti incontrai, seppi che non sarei più stata una miko. Mi preparai a diventare solo una comune donna. E’ quel che volevo più di qualsiasi altra cosa, quando ero in vita.

 

Trema verga a verga, mentre lui risponde all’abbraccio e la stringe forte. Gli si aggrappa come se stesse per sprofondare in un abisso.

 

“Non possiamo più tornare indietro. Stiamo così, solo un altro po’.

 

Che sto facendo? Deve morire. Sono qui per questo. Adesso che è indifeso. Questa è l’occasione giusta. Avanti, spicciati. Falla finita.

 

, lo farò … tra un minuto, ecco; solo un minuto ancora.

 

La Furia si agita, inquieta. Questo atto di ribellione non era previsto; né quel timido calore che tremola debole, e che presto verrà spento dal fuoco gelido di un odio indomabile.

Gemendo, chiusa tra pareti fiammeggianti, la ragazza grida per farsi sentire, vorrebbe divincolarsi, piazzargli le mani sulle spalle e cacciarlo via.

Sente il pianto e gli avvertimenti con i quali la ragazza del futuro sta cercando, anche lei senza successo, di farsi sentire da lui.

Ride di se stessa.

 

Non ho più nulla. Stupida. Non è più il tuo ruolo, quello di salvarlo, di metterlo sull’avviso dei pericoli che corre. Il ruolo che devi recitare è un altro. E allora, finiamola in fretta con questa tragedia insensata …

 

E lui sceglie proprio questo momento per sussurrare.

 

“Non posso salvarti. Non sono in grado di fare nulla per te, tranne stare così. Ah, come vorrei che il tempo potesse fermarsi!”

 

“Lo vuoi anche tu? Che il tempo si possa fermare?”

 

E mentre lei, avida, comincia a stringerlo più forte, arriva la sua risposta.

 

“Sì. Se sono con te.”

 

E il resto è noto.

 

Il suolo si squarcia e sprofonda.

 

Le anime alzano i loro lamenti alle stelle distanti e indifferenti.

 

E loro sono vicini, sempre più vicini.

 

Ma la ragazza del futuro, quella Kagome, colei che le ha rubato tutto, alza forti grida e pianti, rivendicando quel che le appartiene, quasi strappandole via la tamashii e svegliandolo dall’incanto. Ormai, è lei che lui vede e che sente.

 

Inginocchiata, sconfitta, senza più forze e potere, i freddi e lisci shinidamachu unica compagnia, si lascia afferrare e sollevare in aria.

 

“Quella ragazza, è diventata più importante di me, non è vero?”

“Inuyasha, non dimenticare. Anche se tutto il resto era solo un inganno, i miei sentimenti mentre ti baciavo, erano reali.”

 

Inuyasha non può nulla, mentre lei vola via, se non gridare il suo nome.

 

Vorrebbe dirle che si sbaglia, che non ha capito.

 

Vorrebbe spiegarle. Dannazione, se solo ne fosse capace!

 

Che tutto quel che lui vuole è vendicarla. Che quel Naraku, non è che l’ultima di una serie infinita di creature che hanno cercato di spezzarlo.

Che se fosse per lui solo, forse lo lascerebbe persino andare. Ma per vendicare lei, lui farà quello che sa fare meglio: gli darà la caccia, senza tregua né riposo, finché l’avrà ucciso.

 

E che se poi.

 

Se poi, per avere la pace che le è negata, lei vorrà reclamare la sua vita, lui le porgerà il collo, senza un attimo di esitazione, senza un lamento, senza neppure pensare di difendersi.

E se …

 

Ma Kikyou è già svanita nella notte.

 

Un singulto stizzito alle sue spalle.

Passi leggeri picchiano indispettiti sul terreno, allontanandosi.

 

Respira a fondo.

 

Drizza le spalle.

 

Si volta.

 

 

 

 

Ne approfitto per ringraziare le mie due lettrici, ovvero quelle che si sono fatte “sentire”, per dire così dire. Davvero grazie! Mi avete fatto molto piacere.

Me91: gentilissima! Sono contento di aver reso interessante la lettura nonostante gli eventi fossero ben noti. Un po’ per volta (già dal prossimo capitolo, per esempio) intreccerò alla storia “ufficiale” anche alcune scene di mia invenzione.

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Capitolo 11
*** X ***


Ecco l’unico altro episodio riempitivo ho intenzione di usare

Ecco l’unico altro episodio riempitivo ho intenzione di usare. E’ l’episodio 87, nel quale si parla del bandito Kansuke Rasetsu.

Nel manga, è solo un bandito che Kikyou incontra e che le chiede di portare una ciocca dei suoi capelli al monte Hakurei. Anche nell’anime le cose vanno così.

Ma nell’anime, Kansuke è anche un bandito ingannato da Onigumo 50 anni prima, e che si vendica, scatenando la serie di eventi che porteranno alla nascita di Naraku. Devo ammettere che a me questa idea “extra” piace da matti.

 

Solo un breve accenno dell’episodio, comunque (per ora), all’interno del quale ho incastrato una scena “originale”.

 

Glossario

Miko-mai: è la danza delle miko. La religione shiontista tiene in grande considerazione le forme. Miko-mai è la danza che le sacerdotesse eseguono per fare piacere ai Kami.

 

 

Voltando la testa, Inuyasha getta l’ennesima occhiata in tralice a Kagome, cercando di non farsene accorgere.

Vede Miroku fissarlo e piegare le labbra come fa quando prepara una delle sue battute; ma l’espressione cupa dell’hanyou lo costringe a desistere.

Camminano lungo la strada resa deserta e silenziosa da una delle tante guerre che punteggiano quest’epoca disgraziata. Oggi, nessuno trova la forza o la voglia di rompere questo silenzio che sa di morte.

 

Da quando hanno incontrato la miko Hitomiko, lui è ancora più teso e nervoso del solito.

Non riesce a tenere lontani i neri pensieri ai quali di solito dedica le sue tante notti insonni.

Anzi tutto, l’idea che Kagome abbia dovuto affrontare un micidiale pericolo senza la sua protezione, lo opprime come se una mano invisibile gli si fosse insidiata nel petto per strizzargli alternativamente cuore e polmoni.

Inoltre, le parole di Hitomiko gli riverberano in testa e non riesce a esorcizzarle.

 

I poteri di Kagome sono stati sigillati.

 

Da chi? Come? Perché?

 

Domande inutili da porsi, visto che non è in grado di darsene risposta. Ma l’idea che i poteri di Kagome siano sigillati lo ricaccia in una terra di ricordi che per lui sono tra i più dolorosi.

 

La prima volta che Naraku gli si rivelò. Una delle tante cose che gli disse.

 

La miko che aveva il compito di custodire la Shikon no Tama decise di spogliarsi dei suoi poteri e di degradarsi fino a diventare una donna comune. Così, gli youkai attraversarono le sue ormai deboli barriere spirituali, e si imbatterono in un uomo dall’anima corrotta.

 

Per tanto tempo Inuyasha si era tormentato.

 

Perché non mi hai detto cosa ti stava succedendo, Kikyou? Perché? Dannazione! Forse, se lo avessi saputo … forse, se lo avessi capito … e se … e forse

Dannazione, basta! Basta!! BASTA!

 

Notte dopo notte, se lo era chiesto, mentre i suoi compagni dormivano. Dapprima aveva pensato: orgoglio. Che altro? Per orgoglio non glielo aveva confessato. Quale altra ragione avrebbe mai potuto avere?

 

Finché la risposta giusta si era presentata imprevista a colpirlo come uno dei micidiali pugni di Sesshoumaru.

 

Se lo avessi saputo. Quando lei mi chiese di usare la Shikon no Tama. Se avessi saputo. Lei si rendeva conto che mi sarei sentito obbligato a diventare un essere umano, per non essere da meno di lei. E Kikyou non mi avrebbe mai permesso di prendere una decisione tanto importante, per un motivo così sciocco.

 

E lei aveva taciuto. E lui non aveva capito. E così non era stato capace di vegliare su di lei … vegliare …

 

 

 

 

Giorni passati a vegliare.

 

Quando era più giovane, dopo aver abbandonato il palazzo nel quale era vissuto con la madre ormai morta, aveva speso tanti anni a vegliare.

Dapprima, nonostante già allora ben sapesse cosa gli esseri umani pensano degli hanyou, aveva cercato scioccamente di farsi accettare in un qualunque villaggio, ma presto aveva capito quale sarebbe sempre stata l’unica e sola reazione ad accoglierlo. Terrore, sprezzo, rabbia.

Bocche spalancate a urlare, occhi dilatati, capelli ritti in testa, gente che scappa.

Aveva rinunciato, ed era cominciata la sua veglia solitaria. Nascosto ai margini dei boschi, oppure tra le ombre, di notte, seguiva da lontano la vita degli esseri umani, imparando i loro nomi uditi di sfuggita, conoscendo le loro abitudini e i loro bisogni, fantasticando su come sarebbe stato abitare in mezzo a loro. Quando veniva scoperto, se ne andava, finché non trovava un altro villaggio.

Ma, anno dopo anno, un dolore astioso, sempre più intenso, lo aveva scavato dentro, finché spiare da lontano gli era diventato insopportabile come la più umiliante delle sconfitte.

Voltando le spalle agli uomini, si era rifugiato nella solitudine delle montagne e delle selve, dove lo aspettava l’odio di youkai che, almeno, gli davano la soddisfazione di offrirgli una scusa per poterli uccidere.

 

Fino a quando la miko non è entrata nella sua vita. O è lui ad essere entrato in quella di lei?

E’ ricominciata la veglia.

 

Dopo essere diventati … amici? …, non la spia più per coglierla in un momento di debolezza e prendersi la Shikon no Tama. La parola stessa … spiare … non gli sembra affatto giusta, visto che Kikyou sembra accorgersi sempre che lui è nascosto lì vicino da qualche parte.

 

E così gli è cresciuta dentro una sensazione strana, che proprio non comprende. Non riesce a togliersi dalla testa né Kikyou né le sue parole: tu e io siamo simili.

E più sorveglia le sue giornate, più le sta accanto, più quella sensazione strana cresce dentro di lui.

 

Vegliare non è più, come un tempo, una sofferenza, ma il perno su cui la sua giornata ruota e si regge. Cattura trepido ogni gesto di lei, le sue espressioni, le sue parole, come un assetato raccoglie ogni singola goccia d’acqua dalla tazza che gli è stata offerta.

 

Nei confronti dei compaesani di Kikyou prova un’insofferenza che via via assomiglia sempre più al vecchio astio di un tempo.

 

Lui ha imparato l’inflessione di tutte le sue risate, il modo in cui reclina la testa di lato quando è sorpresa, come i suoi occhi si incupiscono quando è triste o stanca.

 

Perché?! Perché le persone che le stanno accanto da una vita intera, di queste cose non si accorgono?!

 

Perché non sentono quanto è diversa, e fresca, la sua risata quando gioca coi bambini, tanto che udirla gli spedisce brividi di piacere lungo la schiena?

Perché non le vanno incontro sorridendole, invece di piegarsi quasi a metà in quelle inutili, stupide riverenze?

Perché la cercano di continuo per avere consigli e aiuto, ma nessuno le chiede mai come sta?

Lasciandola sempre sola, sola. Tenuta a distanza. Non una di loro.

 

E lei, costretta a guardarli da lontano.

 

Il disprezzo che prova per loro, a volte gli stringe la gola. Stupidi! Stupidi! Vorrebbe gridare, e prenderli per il bavero e scrollarli fino a far tintinnare tutti i denti che hanno in bocca; ma si trattiene. Si vergogna, perché sa che lei, di sicuro, non approverebbe quel che sente.

Ed è geloso, certo.

Geloso del bimbo che riceve un bacio sulla fronte come premio per aver smesso di piangere, dopo essere caduto ed essersi sbucciato le ginocchia.

Geloso del vecchio a cui lei porta le medicine di cui ha bisogno.

Geloso di tutti coloro che in un qualsiasi modo incrociano la sua strada, che sono così fortunati da poterle stare vicino, ma non lo fanno.

 

Sempre più spesso, quasi tutti i giorni ormai, Kikyou va nella foresta o sul prato sul quale sono diventati amici, e lì si incontrano. A volte parlano, a volte camminano in silenzio. Ha colto le voci sempre più insistenti sullo strano comportamento della miko; congetture di ogni genere, sussurrate a mezza bocca. Stizzito, una volta ne ha fatto cenno a Kikyou, la quale ha risposto limitandosi a stringere le spalle con indifferenza.

 

Ormai le voci sono diventate una.

 

La miko Kikyou si incontra con uno hanyou!! E per cosa fare mai? Che voglia tradire la sua gente e la sua missione? Che stia diventando una kuro miko?

 

Flette le dita al solo ricordo. Che fare? Dirglielo? E poi? Quando gli abitanti dei villaggi vicino ai quali si stabiliva, si accorgevano della sua presenza, lui se ne andava via …

 

Ecco! Ecco l’odore di Kikyou! E’ entrata nella foresta per incontrarlo. Seguendo la sua pista con facilità, pregusta il piacere che proverà nel vederla. La sola idea di non poterlo più fare … no, è insopportabile. Questa volta nessuno riuscirà a mandarlo via.

 

Perso in questi pensieri, Inuyasha si accorge che sta avvertendo un odore estraneo. Non è di nessuno degli abitanti del villaggio né di altri esseri umani che conosce. Devia dalla sua strada per andare a indagare.

 

 

 

Kansuke, dalla cima dell’arido poggiolo, tende l’arco. La schiena della miko è sotto tiro; un bersaglio perfetto. Sta seguendo un sentiero della foresta ampio e sgombro. La sua freccia non sarà ostacolata dai rami. Lui è un arciere eccezionale. Da questa distanza non può sbagliare. In fondo, non è un colpo così difficile. Si chiede pigramente per quale ragione Onigumo non abbia deciso di uccidere lui stesso la miko e prendersi il bottino. Anche un tiratore poco più che mediocre non troverebbe particolari difficoltà a fare centro.

 

Inspira. Espira. Scocca.

Prima ancora che la freccia si pianti tra le scapole della miko, sa di aver eseguito un colpo perfetto.

 

Una sagoma rossa, veloce come un fulmine, entra, come dal nulla, nel suo campo visivo. La freccia, svanita. La figura vestita di rosso corre, salta di roccia in roccia, si arrampica su per la china quasi verticale, gli balza davanti.

 

Tutto succede così in fretta che Kansuke fatica a raccapezzarsi. Il suo cavallo, spaventato, si impenna.

Kansuke può solo reagire a questi eventi imprevedibili. Goffamente, cerca di trattenere la cavalcatura spaventata dall’apparizione improvvisa. Con un’ultima sgroppata, il cavallo si libera del proprio cavaliere e fugge al galoppo.

 

Maledetto cavallo. Se riesco a riprenderlo lo ucciderò.

 

Stinge i denti, sforzandosi di ignorare il dolore. Pericolo. Il suo istinto lo mette sull’avviso. Si alza più in fretta che può, sfoderando la katana rubata a un ronin che ha ucciso. Lo stupore lo gela.

 

Uno youkai? No no. E’ uno scherzo?

 

Artigli, zanne, occhi gialli a fessura, capelli d’argento, orecchie canine. E sì, non c’è dubbio.

E una freccia trattenuta nella mano. Zampa. O qualunque cosa sia.

 

Uno youkai che protegge una miko?

 

Anche lo youkai lo sta fissando attentamente. Con furore tale che quel che promette non può essere frainteso: morte.

 

“Un umano. Un semplice umano. Perché hai cercato di uccidere Kikyou? Vuoi la Shikon no Tama, non è vero?”

 

Sconvolto, i capelli della nuca ritti in testa, Kansuke parte all’attacco, menando un fendente violento con la katana. Fosse più lucido, si renderebbe subito conto dell’inutilità del gesto. La punta della spada si spezza contro il braccio più duro dell’acciaio dello youkai e, per uno scherzo del destino, schizza a conficcarsi nel suo occhio sinistro. Lascia cadere la katana con un grido, lamentandosi e tenendosi la faccia.

 

Sono spacciato. Spacciato! Maledetto!

 

Come a fare eco ai suoi pensieri, lo youkai scopre ancora più i denti, spezzando la freccia tra le dita come fosse un bastoncino.

 

“Preparati a morire.”

 

Gli artigli già pronti a squarciargli le carni, la creatura si blocca immediatamente quando una voce femminile li raggiunge entrambi.

 

“Inuyasha! Che succede? Fermo!! Vieni qui!”

 

Con un grugnito, Inuyasha borbotta “E’ il tuo giorno fortunato. e si allontana, abbandonando il poggiolo e raggiungendo la miko.

 

Kansuke si allontana, ansimando e piagnucolando.

 

 

 

Inuyasha raggiunge Kikyou, scendendo con pochi agili balzi lungo il pendio.

 

“Non l’hai ucciso, vero, Inuyasha?”

 

Inuyasha alza le spalle con sufficienza.

 

“No.”

 

“Bene.”

 

“Bah! Non capisco perché lo hai lasciato andare via!” e, con voce incrinata “Ha cercato di assassinarti! Dannato vigliacco! Potrei ancora raggiungerlo. Rimpiangerebbe questo giorno!” Lancia occhiate furenti verso la cima della collinetta dalla quale l’arciere ha teso la sua imboscata, i pugni serrati.

 

“No! Non te lo permetto.”

 

Inuyasha sbuffa “E perché?”

 

“Sarebbe sbagliato.”

 

“Lasciarlo andare è  sbagliato!”

 

Se tu lo uccidessi, lo priveresti di tutte le sue scelte future. Gli toglieresti qualunque possibilità.”

 

“Possibilità?” perplesso, la bocca di Inuyasha si socchiude in un ghigno sarcastico, che mostra le zanne. “Sì, certo. La possibilità di riprovarci, stupida! E magari la prossima volta io non …”. Sussulta, e le lancia un’occhiata, zittendosi, con la solita paura di aver aperto la bocca troppo e troppo in fretta.

 

Ma Kikyou si limita a sorridere; anzi, ride, quasi, e gli risponde semplicemente. “Anche, certo. Perché no?”

 

Pur sollevato che non si sia arrabbiata, Inuyasha è sempre più perplesso. “Ma allora …?” dice a bassa voce.

 

Kikyou gli si avvicina, il viso sollevato verso il suo, e lo fissa con gran serietà.

 

E di cosa dovrei preoccuparmi? Non ci sei tu a proteggermi?”

 

“Sì! Sempre! Però …”

 

“Però pensi lo stesso che sarebbe stato più sicuro, se ti avessi consentito di uccidere quel bandito e non pensarci più, giusto?”

 

“Sì.”

 

Kikyou annuisce. “Hai ragione, Inuyasha. Sarebbe stato più sicuro. E’ vero. Forse avrei dovuto permettertelo. Lui sarebbe morto e noi saremmo più tranquilli.

 

Inuyasha si accorge di uno scintillio strano negli occhi di Kikyou. Sembra quasi, divertita?

 

E invece, se quel brigante tornerà alla carica, lo respingeremo, se e come potremo. E ancora. E ancora. Finché non riuscirà a ottenere quel che vuole, o finché non smetterà di tentare.”

 

Ma perché …” insiste Inuyasha. All’improvviso, gli si mozza il respiro in gola.

 

Kikyou allunga la mano come per toccarlo, e d’improvviso sembra quasi timida “Perché se io non avessi fatto così, ora non …”

 

Offeso, Inuyasha le blocca il polso e sibila “Io non sono come quello!”

 

Senza batter ciglio, e sempre sorridendo, Kikyou gli accarezza il viso, lieve, con la mano libera. “Lo so, Inuyasha. Tu sei unico.

 

Resosi conto in quel momento di cos’è successo, e che le sta trattenendo con una certa forza il polso sottile, Inuyasha avvampa e fa un mezzo salto all’indietro, lo sguardo incollato a terra. Kikyou si scosta. Il silenzio tra loro si fa più pesante. La miko si incammina verso il villaggio. Dopo un solo attimo di esitazione, lo hanyou le si affianca.

 

“Io non sono così.” Borbotta di nuovo Inuyasha, come parlando tra sé, la testa china.

 

La voce distante di Kikyou sembra scaturire dal nulla.

 

“Sai, Inuyasha. Gli uomini come quel brigante, di solito sono molto prevedibili. E sciocchi. Perché, davvero, credono che il potere che tanto desiderano sia un sinonimo di libertà.

“Forse per loro, in un certo qual modo, è davvero così. Vogliono il potere, ma non certo la responsabilità che ne consegue. Non si rendono conto di quanto è pesante il fardello che bramano. Credono sia una semplice scorciatoia per realizzare i loro desideri vacui. Non riescono a comprendere per nulla la trama del Fato che ci sovrasta.

 

Inuyasha solleva il capo, affascinato da quella voce distaccata e morbida a un tempo.

 

“Non capisco neanch’io.” esclama con sincerità.

 

Kikyou gli dà un’occhiata fuggevole, ma quasi come se lui non fosse davvero lì, per poi tornare a fissare un punto imprecisato davanti a sé.

 

“Davvero? Davvero non lo senti neppure un po’? Ma io, come posso spiegartelo?” sospira lei.

 

D’istinto, solo alcuni passi ancora, eppoi Inuyasha smette di camminare. Kikyou, come se fosse soprappensiero, percorre pochi metri e, in mezzo all’ampio sentiero, si arresta, volgendo gli occhi al cielo.

 

Solleva un braccio. Fa un passo. Una giravolta elaborata. L’altro braccio ruota all’indietro.

Il corpo flessuoso di Kikyou prende a muoversi al ritmo di una musica che solo lei può udire.

 

Un altro passo.

 

Senza quasi spostarsi dall’interno di un piccolo cerchio immaginario, con movimenti lenti, dolci e circolari, Kikyou intesse la danza della miko. Miko-mai.

 

Inuyasha resta come incantato. Sono passati anni, non saprebbe davvero dire quanti, da quando ha visto, da lontano, nascosto sulla cima di un alto acero, una danza del genere. Il rito più importante dell’annuale festività di un tempio shiontista. Ricorda ancora l’incerta emozione che aveva provato nel vedere quelle donne danzare quel loro strano ballo solenne e rituale. Quanto gli erano sembrate belle! Ma adesso, vedendo Kikyou danzare, gli manca il fiato. L’agile grazia di Kikyou è tale da fargli sembrare, a confronto, le miko del suo ricordo delle maldestre bambine.

 

“Il Fato tutto sovrasta e, tanto quanto noi ne facciamo parte, così anche lui è una parte di noi. Ogni nostra parola, ogni gesto anche il più minuto …” dice la miko con voce limpida, facendo seguire con precisione ogni movimento della danza a quello successivo, in una sequenza perfetta “… è come una cascata di note prodotte da un’arpa che non ha inizio né fine, e nella quale ognuno di noi è una semplice corda. Le note di ognuna di queste corde sono fatte per intrecciarsi in una canzone. Vi sono azioni che producono musica in armonia. Questa armonia si trasmette in molti modi misteriosi ad altre corde, le quali raccolgono la musica e la rielaborano, facendola propria e diffondendola, rimandandola indietro e sospingendola in avanti, e così via. Allo stesso modo, vi sono azioni fatte per frantumare l’armonia e la bellezza. E anche queste note discordanti diffondono vibrazioni, urtando corde sconosciute …” ora, la danza di Kikyou sembra a Inuyasha cambiata, quasi legnosa, come se la musica silente che guida i suoi movimenti fosse il suono di uno scordato strumento “… in modi altrettanto misteriosi. E a volte la musica può essere catturata, e da note stridenti possono nascere melodie di sorprendente bellezza …” Inuyasha trattiene un singulto di sorpresa, nel momento in cui la danza di Kikyou piega quelle movenze rigide, sgradevoli, di un istante prima integrandole con grande facilità in movimenti eleganti che appaiono adesso tanto più belli a confronto di quelli che li hanno preceduti. “ … e purtroppo anche il contrario accade, ma sempre…”

 

Kikyou incrocia lo sguardo di Inuyasha, e il desiderio che vi legge è tanto intenso da spezzare la sua concentrazione e il suo sereno distacco. Non c’è malizia o cupidigia, nei suoi occhi, ma solo un’ammirazione così manifesta, un bisogno così semplice e primitivo e puro, da bloccarle il passo. Si zittisce, il cuore comincia a batterle forte forte, e un rossore che non riesce a fermare le risale su per il collo candido e le colora il volto.

E’ imbarazzata. E’ felice.

 

Come mai, nonostante tutto quel che so, non sapevo di poter essere così felice?

 

Inuyasha vede Kikyou mettere a fuoco lo sguardo su di lui e interrompere la danza, poi arrossire furiosamente e abbassare un poco la testa. E il colore che le anima le guance e persino le labbra sembra riuscire in una impresa impossibile, e la rende ancora più bella e incantevole.

 

Gli occhi di Kikyou non sono più fissi in un mondo nel quale, per quanto lui si sforzi, non riesce a entrare o capire. In un momento soltanto, la miko sembra completamente scomparsa. Al suo posto, una ragazza con una mano appoggiata al seno, che sussurra in un tono non del tutto fermo.

 

“Non sono abbastanza saggia da poter capire tutti gli effetti che può avere, recidere anche una sola delle corde del Fato.

 

Quando Inuyasha si accorge che la sta mangiando con gli occhi, subito sente la familiare fitta della colpa. Ecco, l’ha messa in imbarazzo. Si sarà accorta di come la guarda, certo. Kikyou è la prima persona che lo abbia accolto in amicizia, dopo anni nei quali viene trattato come un selvaggio e un animale, e lui non è neppure capace di controllarsi e capire quale sia il suo posto. Kikyou è troppo gentile per fargli notare quanto sia sconveniente che proprio lui – un selvatico hanyou – si permetta anche solo di …

 

Forse per spezzare l’imbarazzato silenzio, forse mosso da un’intuizione profonda nata da una parte di sé di cui non è consapevole, parla senza avere neppure ben chiaro in mente cosa vuole dire.

 

Però … però, è così semplice? Cioè … se quel bandito farà del male a qualcun altro … noi, noi non saremo responsabili per averlo lasciato andare via?”

 

Inuyasha è quasi stupito di sentire parole del genere uscirgli di bocca. Kikyou respira a fondo e il colore defluisce dalle sue guance.

 

“Io non posso sapere cosa farà quell’uomo della sua vita. Non lo posso condannare per crimini che non ha ancora commesso, né per quelli che può aver commesso, ma non conosco. Ma capisco cosa vuoi dire, Inuyasha.”

 

I due ricominciano a camminare lungo il sentiero, verso il villaggio, fianco a fianco. Un piacevole senso di cameratismo rimbalza tra loro.

 

“Ogni decisione così importante, è come fare una promessa della quale non si conoscono i termini.

“L’intreccio del Fato ci unisce tutti. A volte, riesco a udirne qualche scorcio confuso, Inuyasha. Se per esempio avessi deciso di …” un tremito nella voce “… ucciderti. Io vedo la Kikyou che ha scelto di non risparmiarti. E quella Kikyou, Inuyasha. Ecco, quella Kikyou è morta.”

 

Ma se stai parlando di una persona che neppure esiste! Cosa vuol mai dire che la vedi?”

 

“Esiste, invece. Nella serie infinita dei possibili mondi. Non all’interno della musica. Ma come un eco nella musica, che io posso sentire. E io la sento piangere.

 

Con sforzo, Inuyasha tenta di seguire le parole della donna. Forse ha capito.

 

Quindi, vorresti dire che, se oggi io non fossi stato qui, tu saresti morta?” Rabbrividisce alla sola idea. “Questo vuoi dire?”

 

Le cose non sono così semplici, lineari. Se io ti avessi ucciso, Inuyasha, ora i miei poteri sarebbero forti e all’erta come lo sono sempre stati, probabilmente anche di più. Così, avrei avvertito la piccola, ottusa malvagità di quel brigante da grande distanza, e mi sarei potuta preparare ad accoglierlo. Mai sarebbe riuscito a cogliermi di sorpresa. Sarei potuta fuggire o sconfiggerlo con facilità. La mia anima sarebbe libera dai sentimenti che stanno cancellando, giorno per giorno, ciò che da sempre sono stata allevata per essere.

 

“Sì. Probabilmente, oggi sarei morta.”

“Forse ho sbagliato a chiederti di risparmiare il brigante. Non posso saperlo. So solo che non volevo tu lo uccidessi. Non so quali conseguenze questo potrà avere. E’ stata una mia scelta.

 

“Una nostra scelta.” Precisa lui.

 

“Una nostra scelta. Avevamo il potere di impedirgli di fare il male che sicuramente sceglierà di commettere nella sua vita. Perciò, adesso ne siamo un poco responsabili anche noi. Possiamo solo sperare che il Fato non ci chiederà troppo, quando gli echi delle sue azioni ci raggiungeranno.

“Decidere di trattenere il proprio potere piuttosto che usarlo, averne cura e responsabilità, è un fardello quotidiano e logorante.

 

La voce di Kikyou cala fino a diventare un mormorio che lui riesce ad udire solo grazie ai suoi sensi youkai.

 

Anche il più grande potere ha i suoi limiti ben precisi. Questo è il peso che gli uomini malvagi non avvertono. No. Non è libertà. Tutt’altro. E quindi, ne consegue che la libertà …”

 

Kikyou si zittisce e sorride uno dei suoi sorrisi malinconici.

 

Inuyasha vorrebbe invitarla a continuare, ma si trattiene.

 

La miko sembra come riscuotersi a un tratto.

 

“Inuyasha. Tu … tu non sei mai, stanco di combattere?”

 

“Eh? Ma adesso questo cosa …?”

 

Si stringe nelle spalle quasi stizzito.

 

“A volte. Sì. Non oggi, comunque.”

 

Inuyasha ripensa a quanto Kikyou gli ha detto. Per quanto possa sembrargli strano, e complicato, e poco comprensibile, ne intravede scorci di senso. Rivà agli anni passati, molti dei quali nel dolore, nell’amarezza, o nella violenza. Eppure, in un certo qual modo, se tutto ciò che ha patito lo ha preparato a questo momento; ad essere, qui ed ora, e potere

(intrecciare la nostra musica?)

… potere, beh quello-che-ha-detto-Kikyou, allora lo può sopportare. Non ha intenzione di perdonare, questo no. Però.

 

Meditabondo, la fronte corrucciata, sussurra come per conferma. “E quindi, per questo non hai voluto che uccidessi quell’uomo.

 

Ma di nuovo, lei sorride, e gli occhi le brillano di allegria come a farsi gioco della serietà dei suoi precedenti discorsi. “A dire la verità, no. Soprattutto per un’altra ragione.

 

“Che!?” Inuyasha esplode, troppo stupefatto per trovare altro da dire.

Eccola di nuovo, presente e al tempo stesso inafferrabile come un fuoco fatuo. Ogni volta che crede di averla capita, ogni volta che gli pare di averla presa, sempre lei gli sfugge tra le dita. E lui sa che sarà così, sempre. E sente per un attimo quanto è giusto che così sia.

Al di là dello spazientito sconcerto, non si è mai sentito così bene come in questo giorno. Eche assurdità! – in fondo lo deve anche a quell’assassino vigliacco che ha cercato di ucciderla.

 

Kikyou lo fissa bene in faccia, e qualcosa nell’espressione di lui la induce a scoppiare a ridere di gusto, di una risata ricca e piena d’infinite sfumature.

Le morbide orecchie di Inuyasha fremono; e comprende che lei non sta ridendo di lui – come in tanti hanno fatto in passato e faranno in futuro – ma con lui. Così, esitante, perplesso di essere capace di farlo, si unisce alla sua risata. L’allegria gli scorre elettrizzante nelle vene come del buon sakè.

 

Quando le loro risate calano d’intensità, sono quasi alla fine del sentiero. Tra poco sbucheranno dal bosco nei pressi del pozzo mangia ossa.

 

“Allora, ti vuoi spiegare!?” grida lui, facendo finta di essere ormai al di là dei limiti della sua, peraltro scarsa, pazienza.

 

Kikyou ritorna seria.

 

“Inuyasha. Voglio chiederti una cosa, ma, se non vuoi rispondermi, non sentirti obbligato a farlo.

“Tu, hai mai ucciso un essere umano?”

 

Inuyasha sussulta come se l’avessero punto. Lei sta guardando altrove.

 

“No.” Un vecchio e vivo ricordo gli torna in mente, agrodolce, ma non più doloroso “Mia madre. Quando ero ancora bambino, era la prima cosa che mi faceva ripetere quando mi svegliavo, e l’ultima prima di addormentarmi. Che non avrei mai, mai per nessuna ragione, dovuto uccidere un essere umano. Che, anche in un’epoca di guerra e violenza, non avrei mai dovuto farlo, perché non mi sarebbe stato perdonato, a causa di ciò che sono. E che se lo avessi fatto, poi non sarei riuscito a tornare sui miei passi.

“Lo avevo quasi dimenticato. Avevo quasi deciso di rompere quella promessa. …”

 

La guarda con una certa inquietudine.

 

“I ‘quasi’ non contano, Inuyasha.” Lo rassicura lei. “E neppure io, voglio che tu uccida un essere umano. Per nessuna ragione, e tanto meno per proteggermi.

 

Sono al confine del bosco. Inuyasha annuisce.

 

“Va bene.” Ma poi non può fare a meno di aggiungere. “Ma allora perché mi hai raccontato tutte quelle cose?”

 

Lei ci pensa un po’.

 

“Credo che volessi semplicemente …”

(danzare per te)

“ … condividerle con te.”

 

Riluttante, lui la saluta. “A domani, Kikyou.

 

La donna resta lì sui due piedi, poi sembra come vincere una qualche resistenza interiore.

 

“Inuyasha. Accompagnami a casa.”

 

Inuyasha è pietrificato. Quando trova la voce, non è altro che un bisbiglio.

 

“Tu. Ma. I tuoi compaesani ...”

 

“Inuyasha. Non è più un segreto che ci incontriamo. Ma anche se lo fosse.” Esita, e arrossisce come poco prima, ma senza abbassare la testa, stavolta. “Non mi hai salvato la vita, oggi? Hai il diritto di accompagnarmi a casa, tu più di chiunque altro. Certo, se lo vuoi, naturalmente …”

 

Inuyasha annuisce senza parole.

Fianco a fianco, escono dal bosco.

Fianco a fianco, sfilano accanto al pozzo mangia ossa.

E oltrepassano, per la prima volta insieme, la cerchia delle casupole che delimita il perimetro del villaggio di Kikyou.

 

 

 

Kansuke attizza la sua furia omicida. Per impedirle di spegnersi si palpa la benda che chiude per sempre l’orbita vuota del suo occhio sinistro.

 

E’ armato di tutto punto, e sta seguendo le tracce ben visibili del passaggio dei suoi uomini.

Ha sempre saputo di non poter fare molto affidamento sulla loro lealtà, ovvio; ma rendersi conto della facilità con la quale gli hanno voltato le spalle, dandolo per morto, passando agli ordini di un perfetto sconosciuto dietro la promessa di chissà quali ricchi bottini, gli brucia davvero. Più di quanto si aspettasse.

 

Tasta di nuovo la benda sull’occhio. Chissà se quella maledetta glielo ha medicato come si deve. Lui non ha particolari conoscenze mediche, perciò non può saperlo.

E’ stata una fortuna, comunque, imbattersi in quella miko itinerante, a poca distanza dall’accampamento abbandonato dai suoi uomini.

 

La donna di mezza età gli aveva esaminato la ferita in silenzio, e in silenzio se ne era presa cura. Non sembrava spaventata da lui, anzi. Lo sguardo che gli aveva rivolto, era compassionevole. Questo aveva fatto imbestialire Kansuke oltre il limite della sopportazione.

 

In soli due giorni, ho ingoiato tanta di quella pietà da queste maledette streghe, da bastarmi per tutta la vita!!

 

Quando la miko aveva finito, perciò, aveva cominciato a colpirla. Dapprima l’aveva schiaffeggiata. Ma la donna non solo aveva continuato a non mostrare nessuna paura; neppure era parsa sorpresa. Al contrario, rassegnata, quasi avesse immaginato fin da subito quale sarebbe stato il ringraziamento del bandito che aveva curato. Un velo nero aveva oscurato la vista di Kansuke; e aveva cominciato a prenderla a pugni. L’impatto delle sue nocche sulla carne indifesa l’aveva inebriato come una coppa di delizioso sakè. Il caparbio rifiuto della donna di mettersi a gridare o chiedere pietà, aveva dato ulteriore stura alla sua violenza.

Quando la miko era scivolata a terra svenuta, erano arrivati i calci, ripetuti e feroci. Il volto della donna, ormai tumefatto, gli ricordava quello appena intravisto di colei a causa della quale aveva perduto il suo occhio.

Soddisfatto, grugnendo, aveva infierito sul corpo inerte. In fondo, era in credito con il destino per la vita di una miko. Perciò

 

Se ne era andato all’inseguimento dei suoi uomini, senza controllare se la miko fosse morta o meno per le percosse. Non che avesse importanza, in ogni caso. Si era trattenuto dal darle il colpo di grazia, solo perché temeva che così facendo avrebbe spento la sua folle rabbia. E invece era necessario conservarla per la persona sulla quale avrebbe dovuto riversarla senza freno, appena l’avesse agguantata.

 

Un passo dopo l’altro, ripete il nome di quella persona come in una cantilena monotona.

Onigumo. Onigumo. Onigumo.”

 

Sto arrivando. Preparati. C’è l’inferno che ti aspetta, Onigumo.

 

 

@ Me91: e tu ti meriti, ogni volta, tutti i miei ringraziamenti ;)

 

Anche a me non piacciono le AU, soprattutto perché portano quasi sempre all’OOC. Mentre questi personaggi sono così belli che meritano di essere approfonditi e non stravolti.

Grazie per la fiducia, e spero di sorprenderti un po’ ogni volta! xD

 

 

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Capitolo 12
*** XI ***


Chiudo questa prima parte della fic con l’episodio 47 dell’anime; il famoso incontro tra Inuyasha e Kikyou sotto il Goshinboku

Chiudo questa prima parte della fic con l’episodio 47 dell’anime; il famoso incontro tra Inuyasha e Kikyou sotto il Goshinboku (rimaneggiato nella versione anime).

 

Glossario:

geisha: la geisha non era, come si pensa di solito, semplicemente una prostituta. Il vocabolo equivalente più adatto che noi possediamo probabilmente è “cortigiana” (anche se l’intrattenimento della geisha comprendeva senz’altro anche quel che state pensando …).

 

La geisha è però anche, curiosamente, la donna che può essere amata. Intendendo con amore un innamoramento sfrenato e passionale differente dal legame tra moglie e marito (nell’ottica giapponese, dell’epoca sengoku in particolare). L’amore così inteso è un sentimento incontrollabile, distruttivo e pericoloso, che fa “perdere la faccia”, inadatto ad una donna perbene, e che un uomo non dovrebbe provare per una donna perbene. Sentimento che perciò può essere riservato, al più, a una geisha. Questo genere di amori raramente si concludeva felicemente. In rari casi l’amante riusciva a raccogliere denaro a sufficienza da ricomprare il contratto delle geisha dal “proprietario” della medesima. Più spesso, gli amanti commettevano un doppio suicidio nella speranza di ritrovarsi in un’altra vita in circostanze più felici.

 

 

 

Le gambe conserte e i gomiti appoggiati al bordo del pozzo mangia ossa, Inuyasha, dopo l’ultimo litigio con Kagome e gli ennesimi rimproveri dei suoi compagni, borbotta tra sé, ammucchiando le sue ragioni come un pirata scalcinato ammucchia un tesoro di nessun valore.

 

E poi è tutta colpa di quel guastafeste di Kouga. Ma prima o poi gliela farà pagare cara.

 

Odore di youkai!?

 

I pensieri spazzati via, si alza con un movimento fluido, i muscoli tesi. Un’ombra gigantesca si proietta a terra. Sollevando la testa, vede lo youkai.

 

Un gigantesco shinidamachu?

 

Ma c’è un altro odore che gli solletica le narici. E quest’odore, non può essere scambiato con nessun altro al mondo.

 

Kikyou sbuca dal bosco, accompagnata dai fedeli shinidamachu, appoggiandosi al suo arco come fosse una stampella.

 

“Kikyou!”

 

La miko solleva lo sguardo stranamente offuscato e, con voce rotta, sussurra. “Inuyasha”. Poi cade a terra.

 

Lo stomaco di Inuyasha si appallottola nel sentirla pronunciare il suo nome e nel vederla così indifesa, smarrita come una bambina, spogliata di quel potere meraviglioso e terrificante che, da quando è tornata in vita, è per lui una minaccia lontana, ma sempre presente in un angolo dei suoi pensieri.

 

Corre verso di lei e la raggiunge in un istante, prendendola tra le braccia. Kikyou socchiude gli occhi con sforzo “Dov’è …?”.

 

Inuyasha vede sopraggiungere sia l’enorme shinidamachu che i saimyoushou, gli insetti velenosi di Naraku, e perciò subito capisce quanto sta accadendo: il suo mortale nemico sta cercando di uccidere Kikyou. La sola idea lo fa impazzire di una frenesia che tiene a freno a stento. Salta via agile, schivando l’attacco dello youkai che piomba dal cielo nel tentativo di divorarli. Corre, scarta, percorrendo per un breve tratto il sentiero nella foresta che conosce così bene; poi devia a destra, immergendosi nella vegetazione, aggira i tronchi, procedendo a zig zag per guadagnare terreno sul suo inseguitore. Quando ritiene di aver messo una distanza sufficiente tra sé e lo shinidamachu, si ferma. Con delicatezza infinita, poggia Kikyou sul tronco di Goshinboku; e, nonostante la concitazione del momento, il suo cuore sussulta quasi di dispetto: vorrebbe tenerla stretta e correre senza mai fermarsi.

 

Poi si gira, come una saetta, ad affrontare il suo ottuso, bestiale avversario. Sfodera Tessaiga e non gli serve più di un colpo per tranciarlo in due.

 

Dal corpo del mostro le anime fuggono, come pioggia che ha dimenticato l’ordine naturale delle cose e dalla terra cade verso il cielo. Gli shinidamachu di Kikyou le afferrano prima che possano disperdersi, e le portano alla loro esausta padrona.

 

 

 

Kikyou aveva capito subito il significato del cielo nero.

 

Naraku vuole la mia vita; o, almeno, quel che ne resta.

 

Questa non era stata una sorpresa. La sorpresa era stata che fosse riuscito a scovare uno shinidamachu di tali dimensioni e, usando i suoi saimyoushou, lo avesse provocato fino a turbare il suo sonno e farlo impazzire, costringendolo a scatenarsi sulla regione come un incontrollabile tornado e divorare tutte le anime che fosse riuscito a trovare.

 

Svelta, aveva raggiunto una stalla e preso il cavallo che vi era ricoverato, perdendo solo il tempo necessario a equipaggiarsi di arco e frecce. Lo shinidamachu avrebbe prestissimo sentito su di lei l’odore di tutte le anime che la sostenevano, e, nella sua fame cieca e irrazionale, si sarebbe messo alla sua ricerca come un lupo.

E, così facendo, Naraku sarebbe riuscito a sbarazzarsi di lei senza turbare l’anima di Onigumo dentro di sé.

 

Era iniziata la cavalcata mentre, come previsto, lo shinidamachu le dava la caccia.

 

Kikyou è una brava cavallerizza, ma seminare un avversario capace di volare e di percepire la sua presenza anche a distanza era impossibile.

 

Stringendo i denti, mentre il cielo attorno a lei si incupiva diventando viola e poi nero, aveva guidato il cavallo affidandosi all’istinto. Infine, aveva raggiunto la cima di una brulla altura che terminava in un dirupo. Fermando il cavallo, era smontata di sella per combattere. L’arco teso, aveva aspettato l’apparizione dello shinidamachu; ma lo youkai, prima di avvicinarsi a portata delle sue frecce, aveva spalancato le fauci risucchiandole alcune anime e privandola delle forze.

Lottando con il proprio corpo intirizzito, si era sforzata di scoccare una freccia che il mostro aveva schivato facilmente, sottraendole poi altre anime.

L’aveva attaccata e lei, impacciata e scoordinata, nel tentativo disperato di schivare l’attacco, era precipitata.

 

Cadendo, rimbalzando sugli spunzoni di roccia, aveva colpito forte il terreno. Si era rialzata, constatando ironicamente come la gabbia infernale che è il suo nuovo corpo fosse in grado di assorbire colpi che l’avrebbero uccisa o gravemente ferita.

Barcollando e inciampando, aveva ripreso la sua fuga, allontanandosi dall’altura dalla quale Kansuke, più di cinquanta anni prima, aveva tentato di ucciderla.

 

Quando aveva raggiunto il pozzo mangia ossa e aveva visto lui, la confusione e la debolezza l’avevano indotta a chiedersi se il tempo non si fosse ripiegato riportandola indietro negli anni.

La Furia era rimasta ammutolita, e lei era stata capace di chiamarlo per nome proprio come avrebbe fatto tanto tempo prima. Poi si era accasciata.

 

Mentre Inuyasha fuggiva tenendola tra le braccia, aveva benedetto la debolezza paralizzante che le impediva il movimento e la parola.

 

Per quanti sforzi abbia fatto, per quanto duramente abbia lottato, quell’odio maligno che la tormenta da quando Urasue l’ha richiamata nel mondo non si lascia scacciare. La sua tamashii è aduggiata da catene di fuoco che non si spezzano.

La battaglia che si svolge nel silenzio della sua anima le toglie le forze, e giorno dopo giorno le sembra di essere, sempre più, logora e polverosa. E anche se la Furia - una parte di lei, ormai - subisce la medesima usura, non per questo allenta la sua presa crudele.

 

Così, sì, aveva benedetto la debolezza che le permetteva di stare tra le sue braccia per qualche minuto senza che questo si trasformasse in un tormento insostenibile per entrambi.

 

Quando Inuyasha aveva ucciso il suo inseguitore, i suoi shinidamachu le avevano portato le prime anime.

 

 

Kikyou apre gli occhi e, ancora confusa, mentre lui si avvicina, chiede “Cosa ci fai qui, Inuyasha?”.

 

“Questo devo chiedertelo io! Cosa ci fai qui, Kikyou?” ribatte lui.

 

Kikyou si sforza di raccogliere le idee. “Lo youkai. Mi stava inseguendo …”

 

“E tu sei venuta qui sapendo che ti avrei salvata!” la interrompe lui, la voce impetuosa e il viso pieno di speranza.

 

E’ così vicino, adesso, che basterebbe poco per abbracciarlo, oppure ucciderlo. Le sue parole la colpiscono come uno schiaffo, mentre si rende conto che forse quel che lui ha detto è vero, e la risposta le sgorga dalle labbra “Non essere stupido, Inuyasha! Sono fuggita, ero disperata, non sapevo dove stavo andando!”.

Lui si ritrae, sussultando, deluso, mentre Kikyou si interroga su quanto ha appena detto. Non è la Furia ad aver parlato, questa volta, ma l’istinto potente a cui lei si è sempre affidata … la trama del Fato che tutto sovrasta … e che non si era mai fatto udire con tanta chiarezza da quando lei è tornata in vita.

 

Il mondo pare rallentare il proprio respiro, come se il Goshinboku su cui la sua schiena poggia, fosse diventato il mozzo sul quale la ruota dell’universo intero gira, lenta lenta.

Catturati da questa sovrannaturale atmosfera, i due restano in silenzio mentre il sole scende sotto l’orizzonte e a illuminarli resta solo la pallida lucentezza della luna e delle anime.

 

 

Inuyasha, come sempre gli accade, non ha occhi che per lei. E ci sono ragioni. Lui ricorda. Non ha certo mentito, quando le disse che non passa giorno senza che pensi a lei.

E da quando è tornata, pensare a lei significa sapere quello che era, e ciò che invece è adesso. Per lui, è un tormento che toglie il fiato.

 

E’ colpa mia. Se lei si è perduta, la colpa è solo mia. Non sono stato capace di proteggerla, e adesso …

 

Anche se adesso lei è così vicina, lui sente che è lontanissima.

 

Da quando Naraku gli si è rivelato, due sono le cacce che ha intrapreso. Una, per scovare lui e ucciderlo.

L’altra.

Deve ritrovarla! Non può accettare l’idea che Kikyou sia scomparsa, perduta per sempre. E’ qui! Davanti a lui! Deve essere da qualche parte. Tutti loro: Kagome, Sango, Miroku, e persino KaedeKaede! … credono che lui non riesca a rassegnarsi e sia solo un patetico stupido.

 

Ma il suo istinto di cacciatore, che mai gli ha mentito, gli dice che lei è semplicemente lì, nascosta da qualche parte … e lui non smetterà di cercare, fino a quando non l’avrà stanata.

E se questo dovesse costargli la vita, non ha importanza.

 

Quando gli è apparsa davanti, ha avvertito quella peculiare eccitazione che prova quando una caccia sta per concludersi.

 

 

Kikyou sente Inuyasha sussurrare. “Cinquanta anni.

 

“A cosa stai pensando?” chiede lei, per poi subito pentirsene. Parlando, avverte con chiarezza di aver spezzato quell’incanto che aveva dato loro l’illusione di aver fermato il tempo.

 

“Sono passati cinquant’anni da quel giorno, ma noi non siamo cambiati.

 

Per un istante Kikyou rabbrividisce, travolta dagli infiniti significati delle parole che Inuyasha ha appena pronunciato. C’è una speranza e una volontà caparbie in quella semplice frase.

 

Tuttavia, decide di intendere quel che lui ha detto nel modo più letterale, e gli risponde con un sorriso sprezzante. “Che parole sciocche. Io sono cambiata! Da quando, cinquanta anni fa, ti sigillai su quest albero.

 

Ancora silenzio, che lei decide di spezzare, approfittando del poco tempo che le resta, prima che la Furia si desti dal suo sonno leggero.

 

“Inuyasha. Dimmi, per quale ragione credi che Naraku ci abbia teso una trappola, inducendoci a odiarci l’un l’altra?”

 

“Per corrompere la Shikon no Tama, spingendo te, che custodivi il gioiello, a odiarmi.”

 

Questa è solo la scusa che ha raccontato a te, e forse anche a se stesso. Anche se non avesse corrotto il mio cuore, gli sarebbe bastato uccidermi e, solo toccando la Shikon no Tama, l’avrebbe immersa nella tenebra.”

“No. Fu Onigumo a costringerlo. Quel che restava della tamashii del bandito era consumata di gelosia, mi voleva per sé; e così Naraku lo combatté nell’unico modo che gli era possibile.”

 

Co … gelosia!? Per un motivo così stupido!?

 

“Sì. Stupido. E anche, molto umano.”

 

Ma allora, cosa prova per te, Naraku? Non vuoi dire che lui … ecco …”

 

“Vuoi sapere se mi ama?” ribatte lei in tono ironico, con un’espressione dura. “‘Amore’ non è la parola più adatta. Ma, sì, dentro Naraku sopravvive il sentimento che Onigumo provava per me. Per sbarazzarsene, Naraku ha cercato di uccidermi.

 

“Basta, Inuyasha.” Continua lei. “Ho recuperato a sufficienza le forze. Ora me ne vado.

Sto scappando? Perché sto scappando?

 

“Aspetta! Kikyou! Cos’hai intenzione di fare!? Vuoi uccidere Narkau? Da sola? No! E’ troppo pericoloso! Non posso permetterlo!”

 

“Inuyasha! Te l’ho già detto in passato. Io, sono una miko. E’ mio dovere … sì, il mio dovere è uccidere Naraku e rimuovere la Shikon no Tama dal mondo!”

 

Il dolore che le costa pronunciare queste odiose verità è sufficiente a risvegliare la Furia che la domina. Con un silenzioso gemito di stanchezza, Kikyou si prepara a combattere, mentre pareti fiammeggianti si levano per imprigionarla di nuovo.

 

 

Inuyasha osserva mentre lei si alza per andarsene ancora una volta. Cerca di trattenerla con le parole; pur sapendo che non sono certo la sua arma migliore. Lei gli risponde con asprezza, e dal suo volto traspare quell’odio che lo fa sentire come morto al solo vederlo. Ma non ha intenzione di recedere; non ora. Perché

(la mia preda sta fuggendo)

questa occasione potrebbe non ripresentarsi più.

 

“Non permetterò a Naraku di averti! Solo io posso proteggerti!” E intanto, avanti un passo, e poi un altro, e un altro ancora.

E lei arretra, cerca di sottrarsi, ma alle spalle ha il Goshinboku

(un buon cacciatore non lascia vie di scampo)

Un ultimo movimento, e la afferra per le spalle stringendola in un abbraccio. Per la prima volta da quando la conosce, non deve avere paura di poterle fare del male con la sua forza.

 

“Sei impazzito! Lasciami andare!”

 

Ma lui non è impazzito. In questo momento, in cui le sue molteplici nature sono saldate in una sola, fiuta una pista che lo sta conducendo all’anima e al cuore di lei, a quel luogo solitario che già una volta lui visitò.

E non esiterà, poiché lui non teme né il ghiaccio né il fuoco.

 

La sente cedere, premergli addosso e … finalmente! … ricambiare la sua stretta.

 

“Sarò io ad uccidere Naraku, Kikyou. Quindi, tu non hai più bisogno di combattere.

“Kikyou. Tu mi dicesti una volta che la mia vita è tua. Ebbene, sappi … anche la tua vita è mia!”

 

 

Mentre Inuyasha la tiene stretta con ferocia, Kikyou avverte la sua fermezza. Questa volta, non la lascerà andare fino a quando non l’avrà ritrovata. Un brivido di speranza e paura la scuote. Ma subito dopo, percepisce il pericolo.

 

La Furia esige che il sangue di lui venga versato. La sua risoluzione non è cambiata. E Kikyou sa di poter resistere ancora per poco, prima di essere sopraffatta. Stringe i denti.

Anche se gli ordinasse di fuggire, sa già bene che lui non lo farà mai.

 

 

Come già gli accadde, Inuyasha ha la sensazione di vedere una stanza. Una stanza all’interno di una casa che va a fuoco, piena di fumo soffocante; e dietro quelle fiamme

 

 

Kikyou può quasi vederlo mentre la cerca. In questo momento, se dovesse chiedergli di morire con lei, lui la seguirebbe senza ripensamenti.

 

Ma gli uomini malvagi … non riescono a comprendere la trama del Fato che tutti ci unisce …corde di uno strumento le cui note sono fatte per intrecciarsi nei modi più impensati …

 

Kikyou fissa la prigione della propria stessa anima. Lui sta per raggiungerla. Ha intenzione di liberarla, come già promise di fare una volta, cinquanta anni prima. Anche se farlo, questa volta significa …

 

e vi sono azioni fatte per frantumare l’armonia e la bellezza. E anche queste note discordanti diffondono vibrazioni, urtando corde sconosciute …

 

Risoluta quanto lui, Kikyou si leva, fronteggiando la belva mostruosa dentro di lei. Per la prima volta da quando la conosce, smette d’un tratto di combatterla.

 

Ne percepisce lo sconcerto immediato; per quale ragione smettere di lottare, proprio ora?

 

e a volte la musica può essere catturata, e da note stridenti possono nascere melodie di sorprendente bellezza …

 

“ … anche la tua vita è mia!”

 

Oh, Inuyasha! Stupido! Stupido sciocco pazzo unico mio …

 

Kikyou si sottrae quanto basta alla sua presa, da guadagnare lo spazio per poggiargli alla gola la punta del pugnale appena estratto dalla manica dell’hitoe dove un tempo era riposto il Kotodama no Nenju. La lama scintilla, attraversata dal suo potere spirituale.

 

 

Inuyasha trema per la sorpresa, dimenticando per qualche secondo di respirare. Nella mano di Kikyou è apparso non sa come un pugnale che lei gli punta contro.

Il suo viso è una maschera di gelido disprezzo, i suoi occhi sono morti come monete scintillanti. E’ sconvolto, disarmato, incapace di muoversi. Per la prima volta nella sua lunga vita, non è neppure più certo dell’infallibilità del suo istinto di predatore.

E le parole di lei lo feriscono come nessuna lama potrà mai fare.

 

“Dunque, non sei poi tanto diverso da Naraku, Inuyasha. Sbuffa. “Gli uomini sono davvero stupidi! Credono che, solo perché abbracciano una donna, questa appartenga a loro! Ora, guardando te, lo capisco davvero. Fintanto che il cuore di Onigumo vivrà dentro Naraku, avrò un’opportunità. L’opportunità di prendermi la mia vendetta e liberarmi del mio dovere.

 

 

Nascosta dietro un travestimento perfetto, Kikyou si abbandona ai vincoli delle passioni di cui è prigioniera.

Anche se il pugnale sfiora appena la pelle di lui, ugualmente si rende conto di quanto è affilato, di quanto in profondità stia tagliando.

Quando ha finito di parlare, i suoi shinidamachu si precipitano tutt’attorno a lei, avvolgendosi al suo corpo, e la sollevano in cielo.

Lui grida il suo nome, ma lei gli risponde solo nel silenzio della propria mente.

Una volta reciso, il filo rosso del destino non può più essere riannodato.

 

 

Quando gli shinidamachu la posano sul folto prato e la privano del loro sostegno, è così stanca e sconvolta da non riuscire a reggersi in piedi. Cade a faccia in giù fra l’erba, esausta e tremante, le dita affondano come artigli nel terreno morbido. Cerca come può di mettere ordine tra tutte le voci chiassose delle anime delle donne morte, di fronteggiare l’assalto rabbioso della Furia ingannata, attingendo a risorse di forza che neppure sospettava di possedere, ma è stanca … oh! tanto stanca …

 

… io sono Tsuyako

 

“Io sono Kikyou.” Risponde al sussurro dell’ennesima tamashii.

 

Lo so. Ed io sono Tsuyako. Vuoi ascoltare la mia storia, giovane miko?

 

Kikyou resta sorpresa. Nessuna tamashii le ha mai parlato in questo modo. Esita; ma, ad ogni modo, è troppo stremata per opporre resistenza. “Ti ascolto, Tsuyako.”

 

Sono nata nella nobile famiglia Takesawa, e sono stata allevata alle onorevoli strade del bushido per diventare una samurai. Ero un’abile guerriera; più di molti tra i miei fratelli. Ah! Mio padre era così fiero di me …

 

Kikyou sorride appena, poggiando sui gomiti e sforzandosi di sollevarsi “Sì. Era così orgoglioso della sua bambina speciale …”

 

Per molti anni, sono stata convinta di avere una vita benedetta dai Kami. Ma, ahime, la ricchezza non è mai stata tra queste benedizioni. Quando mio padre ci informò che avremmo dovuto cedere la casa dei nostri antenati agli avidi mercanti coi quali aveva contratto molti debiti, vidi la vita appassire nei suoi occhi.

Così, feci quel che sapevo ci si aspettava da me. Per difendere l’onore della nostra famiglia, vendetti me stessa come geisha, ben sapendo che le samurai sono, tra tutte le donne, le più preziose. Così, fu possibile saldare gran parte dei debiti.

 

Inginocchiata, Kikyou fruga nella manica fino a trovare il nastro bianco col quale legarsi i capelli; poi porta le mani alla nuca per acconciarli nel nodo così familiare.

Poiché l’onore impone il dovere.”

 

E c’era un uomo – naturalmente. Lo sapevo, amarlo così tanto non è adatto a una donna rispettabile – ma non mi è mai importato. Lui non era ricco – e io non gli avrei mai permesso di rinunciare a tutto quel che aveva pur di riscattarmi.

 

“Sbagliai? Fu mia la colpa?” e intanto stringe il nodo … forte, e ancora di più. “Chiedergli di pagare al mio posto?” La voce di Kikyou inciampa per un attimo “Eppure, non era questa la mia intenzione. Io non ho mai …”

 

Venne a cercarmi tante volte, anche se non aveva il denaro per comprarmi dal mio acquirente. Che sciocco; infine, mi chiese di commettere shinju, il doppio suicidio degli amanti. Ma io, non volevo che morisse. Volevo saperlo vivo. E così …

 

“Così facesti quel che andava fatto. Vivesti.”

 

Con un ultimo sforzo, Kikyou si rimette in piedi. E il nodo è così serrato che, se fosse ancora viva, i suoi occhi si riempirebbero di lacrime per il dolore.

Ma i suoi occhi non sono più fatti per piangere.

E perciò, se adesso si sfiora la guancia con la mano fredda, e la ritrae bagnata, si tratta, certo, solo della rugiada imprigionata tra l’erba sulla quale era sdraiata fino a un attimo prima.

 

 

 

Naraku muove lentamente e con decisione la katana, mentre la lama affilata gli squarcia la pelle e le carni della schiena. Ha visto il salvataggio di Kikyou nello specchio di Kanna, ma quando lei ed Inuyasha si sono abbracciati e un’eruzione di ronzante gelosia gli ha invaso la mente, ha allontanato tutti i servitori e le emanazioni ed ha impugnato la spada.

Inutile cuore umano …

La mascella contratta per il dolore, prosegue nella sua incisione.

No, non è il suo corpo a dolergli. Una ferita del genere non può fargli male. Anzi, nessuna ferita, grazie al suo corpo composito, può fargli male. Il dolore è di tutt’altro genere, e di gran lunga peggiore. Sente Onigumoil mai abbastanza maledetto Onigumo! abbarbicarglisi addosso con un’ostinazione cieca e folle. E per quanto a fondo la lama tagli, il risultato non cambia. Mai.

 

 

 

I suoi passi, dapprima esitanti, si fanno più decisi, mentre il prato si fa via via meno folto e viene sostituito da un terreno brullo e sassoso; quel terreno arido che segna l’imboccatura della cava alla quale non si è più avvicinata da decenni.

 

Poggia la mano alla roccia per reggersi, pervasa da una paura e un disgusto profondi, la testa abbassata, le palpebre serrate.

 

Ma presto, solleva il mento e, indomita e fiera, spalanca gli occhi e varca l’entrata.

 

 

 

Nella mano arrossata di sangue, trattiene le sue stesse carni, su cui campeggia beffarda la cicatrice a forma di ragno.

Dà un’occhiata al cadavere del servitore che ha avuto la pessima idea di presentarsi non invitato al suo cospetto e lo ha visto in questo stato. Non è tanto infastidito dal fatto di averlo dovuto uccidere; è solo uno fra tanti, perciò non è importante.

Quel che lo infastidisce davvero è di essere stato colto nel bel mezzo di un tentativo così … patetico. Il solo pensiero lo riempie di freddo odio. Solo quella donna riesce a umiliarlo così. Deve essere uccisa. Deve essere uccisa assolutamente.

 

 

 

Il suo corpo le sembra più pesante di un macigno, e coprire la distanza di quegli ultimi metri uno sforzo titanico. Infine, si inginocchia su quel che fu l’ultimo giaciglio delle spoglie mortali di Onigumo, sfiorando la terra con le dita.

 

 … paura …

 

“Dunque, anche tu hai paura, vero? Naraku.” Sussurra piano. “E la paura ti ha reso avventato e imprudente, così come accade a chiunque altro. Sorride pallida.

“Sì, Naraku, adesso ti capisco molto meglio di quanto avrei mai potuto, se ti avessi conosciuto in vita.” Rabbrividisce. “Dover vivere giorno per giorno con … questo …” continua, carezzando la terra impregnata delle passioni di Onigumo.

“Bene, dunque. A ciascuno il proprio fardello, Naraku.

 

E tu, Onigumo? Mi vuoi? Certo. Mi trovi anche più bella, non è vero, nella mia nuova forma? Molto bene.

Vincendo una ripugnanza infinita, usando l’odio della Furia, lo spirito di sacrificio della Miko, la passione della Donna, apre il suo corpo di ossa e terra a questa terra nuova.

Quando ha finito, si alza stordita. I morti, ovvio, non soffrono la nausea. Eppure vorrebbe accasciarsi e vomitare fino a svuotarsi e trasformarsi in guscio essiccato.

Trema; e si sente violata così come sono state violate alcune delle donne le cui tamashii hanno trovato rifugio presso di lei.

Ma non ha alcuna intenzione di arrendersi, né di mostrarsi debole. C’è un ultimo confronto che l’aspetta, prima che questa lunga notte abbia termine.

 

 

 

Naraku, seduto a terra, medita sugli ultimi avvenimenti.

 

Non avverte la presenza di lei fino a quando non gli appare davanti agli occhi. Trattiene a stento un’esclamazione. Che ci fa qua?

 

Kikyou lo fissa con un’espressione indecifrabile e spietata; tale da riuscirgli difficile mantenere la propria imperturbabilità.

 

“Suvvia, Naraku. Perché non ti sforzi di sembrare più contento di vedermi? Dopo tutto, sono io, e ho fatto così tanta strada per venire da te.” Sorride un’imitazione perfetta dei sorrisi sarcastici di lui.

“Naraku. Hai pensato che, uccidendomi, ti saresti sbarazzato del cuore di Onigumo che si strugge per me, non è vero?”

 

E quindi?” chiede lui, oziosamente.

 

“Ah, Naraku. Povero, sperduto hanyou. Vuoi così tanto il tuo posto fuori del mondo? Ebbene, sappilo: tu e io siamo simili.” Commenta con aria misteriosa, come se stesse facendo una battuta che solo lei può capire.

 

Naraku si trattiene con uno sforzo dal ribattere. Sa di non doverlo fare, perché lei è l’unica capace di usare le sue stesse armi; e per questo, è l’unica che lui voglia davvero morta.

 

“Solo per gettarmi addosso queste deboli provocazioni hai fatto tutta questa strada, Kikyou? Ora, non penserai certo che ti lascerò andare, vero?”

 

Un disgustoso youkai si fa avanti dalle ombre imprigionate in un angolo della stanza e la attacca. Kikyou neppure accenna a difendersi, ma appena lo youkai la sfiora, un empito di energia travolge la creatura, trasformandola in polvere.

 

Il mio youki, è stato respinto?

 

“Una tua emanazione, vero? Se leverai anche solo un dito su di me, Naraku, questo è il destino che ti attende.

 

Naraku sibila tra i denti una sola parola. “Onigumo.”

 

“Sì. Quando eri conosciuto da tutti solo come Onigumo, e giacevi impotente in quella cava, i tuoi miserabili desideri impregnarono la terra. Terra che ora fa parte del mio corpo.”

“Ricorda. Onigumo non mi vuole morta e mi proteggerà da te. Tienilo bene a mente, Naraku. Non puoi uccidermi. Non fino a quando resterai solo uno hanyou.”

 

 

Mentre Kikyou si allontana dal palazzo di Naraku, e contempla la luna tramontare, la testa piegata come in ascolto, non può fare a meno di chiedersi che cosa la aspetta.

Ha sparso in ugual misura menzogna e verità.

Nonostante le sue ali spezzate, ha volato e danzato sopra e tutt’attorno ai due hanyou che così nel profondo hanno inciso la sua vita e la sua morte. Ma neppure lei può vedere al di là di certi confini. Può solo lasciarsi guidare dalla forza misteriosa che da sempre l’accompagna, che le fa tanta paura e dalla quale una volta cercò così disperatamente di fuggire, perché lei sa quanto può essere amaro e salato il prezzo che viene chiesto di pagare, a coloro che hanno il potere di sciogliere e legare la trama del destino.

 

 

 

@Me91: sembrava di continuare a vedere l’episodio? Splendido xD 

Sì, come vedi il discorso sul Fato ha una sua ragione, e lo riprenderò. Grazie dell’interessamento … ;-) … e ciao!

 

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Capitolo 13
*** XII ***


Glossario

Glossario.

 

Kokoro: tradotto con “cuore” in senso metaforico. Attenzione, però, perché si tratta di un vocabolo molto fuorviante.

Kokoro può essere inteso infatti come il cuore e la mente, la sensazione e il pensiero e le viscere.

Ovvero anche, lo stato della mente inteso come il dominio sui fenomeni relativi al proprio “linguaggio interiore”, la propria coscienza, o ancor meglio la propria autocoscienza.

 

Anche quando, in questi capitoli, userò il termine “cuore” in italiano starò solitamente pensando al kokoro.

 

 

 

Il fantasma e il demone stanno in silenzio.

 

Naraku sa che Kikyou non può nulla contro di lui. Le sue sono parole e nient’altro.

Questo gli dà una sensazione strana.

Per un verso, si sente stranamente confortato. Lei non è più una minaccia. Non la sarà mai più.

C’è un solo punto di luce che non sarà un ostacolo ancora per molto.

Perciò è quasi piacevole, liberatorio, potersi misurare con lei, senza timore dei suoi trucchi, delle sue astuzie. Sapendo, per una volta, di non dovere tenere la guardia alzata, per essere pronto a rispondere colpo su colpo. E’ quanto di più simile a uno svago lui riesca a concepire.

 

D’altro canto, Naraku non si fida affatto di queste sensazioni. Se lei gli è apparsa – in che modo vi sia riuscita, non è importante – certo non è per aiutarlo o fargli piacere. Deve metterla alle strette e scoprire la ragione della sua presenza. Per farlo deve stare al suo gioco, sapendo che ciò non può nuocergli; ma senza imprudenti distrazioni.

Poi potrà dedicarsi di nuovo a quelli che sono i suoi veri obiettivi.

 

“Per quanto la nostra conversazione possa essere piacevole, Kikyou, ancora non capisco perché vuoi intrattenermi con ricordi del passato. Ciò che ero un tempo è stato oramai abbandonato, come la vecchia pelle di un serpente lasciata lungo i margini di un sentiero smarrito. Tu lo sai bene, mia nemesi. Te l’ho dimostrato più di una volta, non è vero? Il mio tempo è prezioso, a differenza del tuo. Non desidero sprecarlo inutilmente.

 

Kikyou scuote la testa e i capelli ondeggiano come un drappo. Naraku si chiede curioso se questi piccoli gesti impazienti abbiano per lei lo stesso significato di quando apparteneva ancora, seppur tenuemente, al mondo mortale.

 

“Naraku, non hai torto. Ma non è semplice parlare di tali portenti, neppure con te, che pure sei l’unico in grado di poterli capire.”

“Noi sappiamo, come nessuno altro può sapere, cosa vuol dire essere un mistero per se stessi. Noi, creature impensate che non hanno ragione essere udite in nessuno dei mondi possibili.

“Noi, così strettamente legati.”

“Sì. Vedo che sorridi. Cosa c’è? Perché torni serio? Non ti eri accorto che stavi sorridendo? E’ per questo? Ma non c’è nulla di male! Anche io lo sento. E’ come il dolore e la sua consolazione, assieme. Lo capisco.

“Io che ti sono madre. Tu, figlio e frutto dei sogni che mi era stato proibito di sognare.

 

Naraku non riesce a cancellare il sorriso, colto di nuovo dal piacere di una disputa che, forse, attendeva da sempre. Così, la interrompe, calcando i suoi passi.

 

“Tu che mi sei figlia. Rinata alla tua nuova vita, dopo che io ti ho liberata di quella vecchia.”

 

Kikyou annuisce e anch’ella sorride a un tempo di partecipazione e di minaccia.

 

“Io che ti sono amante. Il frutto candido che la tua anima umana ha agognato così a lungo.

 

“Tu che mi sei sorella. Poiché in nessuno dei possibili mondi, c’è spazio a sufficienza per due creature quali noi siamo, Kikyou.

 

“Sì, Naraku. Eppure, dopo tutto questo tempo, ancora tu non riesci a vedermi. Se ci riuscissi, avresti già compreso da te solo, quel che ti inquieta, che cosa ti turba.”

“Anche tu, come Inuyasha, mi hai fatto conoscere tante cose, Naraku.

“E per questo, mio assassino, io ti ringrazio.

“Per ogni stilla di dolore che mi hai costretta ad assaggiare. Per ognuna delle lacrime che mi hai impedito di versare.

“Sono qui, solo per pagare questo debito aperto.

“Dimmi. Non c’è davvero nulla che tu voglia sapere da me? Sentiti libero di chiedermi qualunque cosa. Lo so, Naraku. Per te, sapere è importante, tanto quanto lo è il respirare per le creature mortali. Avanti.” Ride appena “Non avrai paura di uno spettro impotente, no?”

 

Naraku contrae le dita, innervosito suo malgrado. I fantasmi possono fingere, ingannare, confondere?

Così sicura di sé. Per quale ragione?

 

Scaccia l’impazienza, e trova la domanda che gli pare adatta.

 

“Come riuscisti a sopravvivere, Kikyou? Quella volta. Avevo preparato tutto per te. Saresti dovuta perire allora. Tutto sarebbe dovuto finire allora. Cosa accadde?”

Cosa accadde, là sulla cima del Monte Hakurei?”

 

Il nervosismo di Naraku serpeggia più intenso, mentre la vede annuire come se avesse aspettato proprio quelle parole.

 

E tu, Naraku? Come riuscisti? Quella volta. Come fosti capace di sbarazzarti del kokoro di Onigumo?”

Cosa accadde, là …

 

 

 

 

… nelle viscere del monte Hakurei.

Trova che le radici della montagna siano un luogo adatto a lui. La tenebra è, come sempre, amica e riposante. Le grotte sono antiche di millenni. Davvero, ossa del mondo. Ossa cave come quelle degli uccelli.

Se fosse capace di leggerne i segreti, è certo che gli sussurrerebbero misteri di cui gli stessi Kami non hanno più memoria. Forse, un giorno, chissà, ne sarà capace.

 

Ma i segreti che deve leggere adesso sono ben più importanti e, per certi versi, indecifrabili. E’ stato sconfitto e costretto a una fuga precipitosa. La sua forza si è rivelata essere inferiore del previsto, e questo nonostante l’ausilio della Shikon no Tama ormai quasi completa.

 

E’ inquieto, e deve comprenderne le ragioni. A qualsiasi costo. La sua coscienza fluttua attraverso il suo corpo. Grappoli di carne, abbozzi di youkai consumati, chele, zanne, occhi, creste ossee, filamenti, antenne. Un caos nel quale non vi è nulla di umano.

 

Attaccato alle pareti dei budelli di roccia per decine e decine di metri.

 

Sparso sul fondo come rottami marci scartati dai Kami prima della creazione del mondo.

 

A penzolare come stalattiti di carne partoriti dal sogno di un folle.

 

Kagura una volta lo vide in una condizione simile. Ma, ora, probabilmente neppure lei potrebbe sostenere la vista di ciò che è senza perdere, in un istante e per sempre, la ragione.

 

Eppure, Kagura, fu da tutto questo che un tempo tu fosti partorita.

 

Occhi spalancati e senza palpebre punteggiano le porzioni disordinate di quel che è. Occhi piccoli, occhi sfaccettati d’insetto, occhi che vedono colori ignoti all’essere umano, occhi che conoscono solo il bianco e il nero, occhi fissurati, occhi ferini, occhi antichi e sapienti, occhi pieni solo di bestiale violenza …

Il suo cervello è bombardato da immagini disordinate, poiché ognuno dei suoi occhi fissa in una direzione diversa e vede ciò che lo circonda in un modo unico e differente.

L’immagine che cerca di coagularsi nella sua testa è liquida e sovrapposta; un groviglio in grado di spappolare le menti. Ma non la sua.

 

Naraku volge nello stesso momento tutti i suoi occhi su di sé.

 

Tu e io siamo simili, Naraku.

 

Così hai osato sfidarmi, Kikyou? Tu. Pallido fantasma di una vita perduta lungo sentieri ignoti. Colma di desideri disperati e dispersi. Tu mi paragoni a te? Solo questo … questa, da sola, è ragione sufficiente per ucciderti.

 

Eppure, anche se non è più ciò che era, né mai più potrà esserla, quel che resta della sacra vergine custode della Shikon no Tama è un pericolo. Forse è persino più pericolosa di quando era in vita. E lui sarebbe davvero un pazzo se non ne tenesse conto.

 

Quel che è accaduto con la kuro miko, Tsubaki, glielo ha dimostrato. Kikyou ha il potere di deviare i suoi passi. Esattamente come lui devia quelli di chiunque altro.

 

Questa debolezza su cui lei può fare leva senza fallo … Onigumo.

 

Ripugnante essere umano … sciagurato bandito che mi perseguiti … tu … tu sei simile a Kikyou! Anche tu, solo il pallido fantasma di una vita perduta. Non certo io! E adesso è il momento di dimostrarlo, una volta per tutte.

 

Il corpo di Naraku spasima, si contorce, geme, soffia come un gatto, digrigna zanne, grida e sbriciola la roccia.

 

Allontana questi stizziti pensieri infantili, adatti a un debole e indegni di lui, ma che sono la misura della rabbia impotente che lo tormenta.

 

Fu dopo la sconfitta di Tsubaki, durante un periodo di riposo simile e al tempo stesso dissimile a questo, che decise di espellere a qualunque costo Onigumo da sé.

 

Musou. Ma non era bastato. Non solo frammenti di Onigumo erano rimasti presenti dentro di lui, impedendogli di abbattere Kikyou. Come temeva, aveva scoperto che, senza l’avidità, il bisogno, l’affamata lussuria di Onigumo, il suo corpo cedeva, si sbriciolava, decomponendosi.

 

Inaccettabile.

 

Eppure, cosa resta? Che cosa può sostituire la passione di una tamashii attorcigliata come un vecchio albero malato e contorto?

 

Quale arma usare contro due nemici così formidabili?

 

Come sempre, necessità e bisogno.

 

Palpitano branchie e polmoni sospirano.

 

Che cosa cercano le anime perdute? Quale, quale la loro necessità?

Vite buttate, vite che non sono più vite, vite che sono terrorizzate sia dalla tenebra che dalla luce.

 

In un lampo Naraku ha la risposta.

 

Più di qualsiasi altra cosa, affannosamente cercano una strada da percorrere, una strada purchessia. E chiuse e prigioniere in questo feroce bisogno, possono smarrirsi per sempre.

 

Le bocche e le fauci di Naraku sorridono e masticano l’aria.

 

Servimi un’ultima volta, Kansuke Rasetsu.

 

 

 

@Me91: ahhhh, vacanze. Le voglio anch’ioooo! XD

 

Si chiude una parte della fic, se ne apre una seconda … sperando che anch’essa possa coinvolgerti. ^^ (e due capitoli arrivano adesso, hai visto? ;) ) Ciao!

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Capitolo 14
*** XIII ***


Ancora episodio 87

Ancora episodio 87.

 

Glossario.

 

Sòzu: la decorazione dei giardini giapponesi che si vede in molti anime.

Si tratta di quella canna di bambù collegata con un perno a un paletto infisso nel terreno. Un getto d'acqua riempie la parte mobile che per il peso ruota verso il basso, scaricando l'acqua accumulata all'interno. Alleggerita del peso dell'acqua, la canna ritorna alla posizione originaria, mentre l'estremità percuote una pietra producendo un suono secco.

Meioujuu: demone tartaruga come quello da cui fu estratta la corazza di Mouryoumaru.

 

 

 

Il passo di Kikyou è lento e cadenzato. Un piede davanti all’altro. Monotono e ripetitivo come il battito di un Sòzu. E può essere davvero faticoso, persino in un corpo che non avverte la stanchezza.

 

Ha capito che lottare contro quel che le è accaduto è cosa priva di senso. L’ha capito una volta per tutte quella notte, sotto il Goshinboku, quando si è sottratta all’abbraccio di Inuyasha.

 

Chi sono io? Che cosa sono?

 

Io sono Kikyou, ripete in continuazione alle tamashii delle donne dentro di lei.

Ma è una bugia addirittura ridicola.

 

Inutile combattere una battaglia che non può essere vinta. Perciò ha deciso. Che il destino faccia di lei quello che vuole.

Non si opporrà, non si lamenterà, non protesterà; non griderà più dentro di sé.

Qualunque cosa il Fato che le chiederà di fare, farà.

A qualunque cosa le verrà chiesto di rinunciare, rinuncerà.

 

Così, almeno, questo tormento avrà una fine, prima o poi.

 

Un passo.

 

Nonostante abbia deciso, a volte sente fremere il cuore che più non possiede.

Le capita ancora di svegliarsi col nome di lui sulle labbra.

Di essere tormentata da sentimenti che sono per i vivi, e che i morti non hanno ragione di provare.

 

Ma adesso ha imparato come fare. Quando le succede, non deve far altro che liberare la Furia che la abita. Il suo fuoco allontana il bisogno, il desiderio, il rimpianto. La cauterizza, la ripulisce e le permette di affrontare il giorno che la aspetta.

 

E’ una cosa buffa. Una di quelle amare ironie di cui la morte si diverte a farle dono di tanto in tanto.

 

Da quella notte, Kikyou ha imparato a usare l’odio inestricabilmente intrecciato a quanto resta della sua tamashii, allo stesso modo in cui, da viva, usava il suo addestramento di miko per svuotarsi dalle emozioni e mantenere la sua anima in uno stato di sereno distacco dal mondo e da tutto ciò che le stava attorno.

 

Ho corso così tanto e così lontano da ritrovarmi al punto da cui ero partita. Proprio come ero un tempo; solo, completamente diversa.

 

Un passo.

 

Sono passati dodici giorni da quando Naraku è svanito nel nulla. Prima, ovunque fosse, lei era in grado di percepirne la presenza. D’un tratto, il suo youki è scomparso. Eppure, Naraku non è morto. Perciò dov’è, e soprattutto, cosa starà architettando?

 

Alla scomparsa di Naraku, lei ha capito subito che cosa la aspettava. Quella stessa notte, era partita per raggiungere il palazzo nel quale il suo assassino dimorava sotto le mentite spoglie del daymio Kakewaki. Aveva trovato la reggia semidistrutta, il suolo scavato da solchi profondi che si aprivano come un ventaglio … solchi lasciati dalla spada di Inuyasha, Tessaiga.

 

Si era svolta una battaglia di grande violenza. Naraku sembrava avere subito una sconfitta ed era fuggito.

 

Mentre stava in ginocchio, esaminando le tracce, esplorando e vagliando le energie lasciate dagli youki di coloro che avevano combattuto – e, sì, c’era qualcun altro, uno youki che gli aveva ricordato quello di Inuyasha per certi aspetti ed era del tutto differente per altri – mentre immagini e suoni quasi si materializzavano ai suoi sensi, il dito ghiacciato della preveggenza le aveva sfiorato la nuca, facendola rabbrividire.

 

Non avrebbe più riposato in un villaggio, fingendosi una miko qualunque e traendo qualche ora di pace posticcia occupandosi dei malati e dei feriti, o anche solo più semplicemente facendo il bucato al fiume, spazzando il sagrato del tempio, svolgendo qualche semplice cerimonia religiosa.

 

Naraku si era mosso. Il suo destino, ora, l’avrebbe condotta a calpestare le orme in fuga del suo assassino.

 

Questo il comando che aveva udito nella musica del Fato.

 

Un altro passo.

 

Da lì, il suo proposito.

 

E sia. Lo farò. Rinuncerò. Non importa. Nulla importa, se non arrivare alla fine, una fine qualsiasi.

 

Poi. Riposerò poi.

 

I suoi shinidamachu volano ai quattro punti cardinali, ma tornano sempre senza poterle riferire nulla su Naraku.

A ogni villaggio e assembramento di capanne, si ferma quanto basta per sapere se ci sono notizie o voci su youkai apparsi all’improvviso, e indaga minuziosa, pur sapendo quasi con certezza che le sue ricerche non la porteranno a niente.

 

Oggi i suoi passi l’hanno guidata fino a una squallida palude, dalla vegetazione spoglia e dal fetore pungente.

Ha abbattuto un potente meioujuu, la cui corazza era talmente dura da respingere persino le sue frecce sacre. Nessun segno del suo assassino.

 

Un passo.

 

Sta per oltrepassare il tronco di una quercia robusta, quando un vecchio con un occhio solo e un lungo pugnale trattenuto con entrambe le mani malferme, le sbuca di fronte all’improvviso dal suo nascondiglio dietro l’albero.

 

Si ferma, fissandolo tranquilla.

Un uomo malato, le ossa deformate dall’età, la cui vita sta gocciolando via dal corpo.

 

“Gli abitanti del villaggio ti hanno dato una ricompensa molto ricca per aver distrutto lo youkai, non è vero, miko? La voglio.”

 

Kikyou sorride appena. “Una ricompensa? Nulla del genere; no.

 

“Non importa. Qualunque cosa. Tutto il denaro che hai. Dammelo subito!”

 

La voce di lei sgorga composta e distante come da una fredda sorgiva montana.

“Non ho denaro con me.”

 

L’occhio del vecchio brilla di astuzia, lucido come quello di un uccello.

 

“Non mentire. Non ci sono templi abitati qui attorno. Stai viaggiando senza bagagli. E’ impossibile che tu non abbia neppure una moneta, miko.

 

Kikyou allarga le braccia, impassibile. “Se credi che ti stia ingannando, perquisiscimi pure.

 

Il vecchio esita, mentre permette al dubbio di incrinare la sua certezza. “Non dirmi che mangi nebbia per sopravvivere!”

 

“Sì. Si potrebbe dire così.”

 

Il vecchio sussulta, schiacciandosi il palmo di una delle mani sul petto. Trema e il volto e le braccia si imperlano di sudore. China la testa, agitando l’altra mano.

 

“Ah. Vattene. Vai via.”

 

Le ginocchia gli cedono, e l’uomo si affloscia in direzione della quercia, appoggiando la schiena al tronco, appena un momento prima di cadere a terra. Si siede, respirando affannoso.

 

Kikyou fissa l’uomo con attenzione, senza accennare a muoversi.

 

“Cos’è, non ci senti?” ringhia il vecchio. “Levati di torno.

 

Che vai cercando in questi luoghi sperduti, vecchio bandito?”

 

Il vecchio si stringe nelle spalle. Sembra risoluto a non aggiungere altro, ma ombre si agitano dietro il suo sguardo.

 

“Ho più di settant’anni.” Si risolve a risponderle con voce debole, spezzata da colpi di tosse secchi e insistenti. “Davvero tanti. Troppi. Ma non posso morire, ancora. C’è qualcosa di importante che mi aspetta. ”

 

Cosa? Cosa hai intenzione di fare nelle tue condizioni?”

 

Tossendo con sempre maggiore violenza, risponde. “Trovare un luogo adatto per la mia morte.

 

Con un ultimo rantolo, perde i sensi e si accascia.

 

Kikyou sospira e una piega amara le incurva le labbra, mentre si prepara ancora una volta a occuparsi di un imprevisto fardello.

 

 

 

C’è un prato e c’è una ragazza.

 

Il prato è ancora rigoglioso nonostante l’autunno sia ormai alle porte, l’erba alta è ricca di una speciale sfumatura di verde che sembra gridare la propria salute. L’aria è profumata e pulita dopo la pioggia dei giorni scorsi. La terra è morbida e fresca.

In un giorno così, si può trarre lo stesso piacere sia correndo senza meta fino a sentire i fianchi in fiamme, sia sdraiandosi a schiacciare un pisolino su questo giaciglio così invitante.

 

La ragazza non ha intenzione di fare nessuna delle due cose. Sta invece raccogliendo alcune erbe, come fa spesso, e le sta riponendo in una cesta di vimini intrecciata.

 

Le dita affusolate attorno a uno stelo, inginocchiata, è immobile come una statua, la mente lontana, cullata dal frinire continuo, quasi ipnotico, delle cicale.

 

Inuyasha è partito da tre giorni. Le ha detto che voleva andare in un posto, senza precisare dove o perché, e che sarebbe stato di ritorno in una settimana, all’incirca.

 

Kikyou si era accorta che era in imbarazzo e non voleva dirle quel che gli era venuto in mente di fare, ma che gliel’avrebbe detto comunque, se lei avesse insistito; cosa che naturalmente non aveva fatto.

 

Solo qualche giorno.

 

Eppure in questi pochi giorni le è accaduto qualcosa di insolito.

 

E’ diventata tesa, inquieta, distratta, perfino, lei che non la è mai.

 

Non si era mai resa conto di quanto potesse essere mutevole, il tempo che scorre.

 

Nella sua vita, e in particolare da quando era diventata una miko, il tempo era sempre stato una costante uniforme; scorreva placido, ogni ora della medesima lunghezza di quella che l’aveva preceduta e di quella che l’avrebbe seguita. Come era logico e naturale.

 

Ma da quando c’è Inuyasha.

Le ore passate assieme a lui, a ridere, a camminare, a stare seduti vicini, a … imparare? … si riducono a fuggevoli minuti.

 

E ciascuno di questi giorni, è l’agonia di un’eternità.

 

Ancora quattro giorni. E se non dovesse tornare?

 

Allontana il pensiero come farebbe con una mosca molesta, e, riscuotendosi, si accorge con grande dispetto di essere rimasta incantata, forse perfino per qualche minuto, del tutto dimentica di quel che stava facendo.

 

Una ruga verticale fa capolino tra le sue sopracciglia. Stacca con un movimento deciso del polso lo stelo, si alza, il cesto trattenuto con un braccio, e rassetta svelta la piega dell’hakama, sgualcito dalla posizione inginocchiata.

 

Chiude gli occhi, levando il volto pallido e lasciando che il sole glielo accarezzi un momento.

 

Taglia diagonalmente il prato; l’erba le fruscia attorno alle gambe.

 

Raggiunge il sentiero che costeggia il fiume, impetuoso dopo le recenti piogge che hanno reso l’aria frizzante, nonostante il calore di queste ultime giornate estive. Presto la pioggia avrà la meglio del caldo, e l’autunno inizierà sul serio.

 

Finisce anche questa estate che ha visto così tante cose cambiare.

 

Cammina decisa, lo sguardo ben puntato in avanti. Un suono le sfiora l’orecchio. Forse un sibilo? Eccolo di nuovo. No, non un sibilo. Un gemito. Una specie di lamento.

Viene proprio dalla riva del fiume. A poche decine di metri di distanza, da un folto assembramento di canne di bambù alte quasi quanto lei. Posa a terra il cestino, vi si avvicina, mentre estrae il corto pugnale dalla manica dell’hitoe.

 

Di nuovo il gemito si fa sentire, più forte. E’ umano; comunque, sembra esserlo. Kikyou usa il pugnale per tranciare alcune delle canne di bambù più robuste che le intralciano il passo, si fa strada tra la vegetazione, le sue vesti troppo larghe e inadatte a questi ostacoli naturali si impigliano, si lacerano in alcuni punti, i suoi sandali fanno un rumore liquido sul terreno trasformato in acquitrino dalla vicinanza del fiume, le sue calze si impregnano d’acqua, trasmettendo al suo corpo scaldato dal sole una sensazione sgradevolmente fredda.

 

Il sipario del bambù lascia il posto a un tratto di terra spoglia molle e bagnato. Kikyou non riesce a trattenere un’esclamazione.

 

Ha assistito molti infermi nella sua giovane vita.

Le guerre si susseguono, e tanti sono i feriti e i mutilati che hanno bisogno delle sue cure.

Le malattie sono numerose, alimentate dalla fame e dalla disperazione.

 

Ma questo.

 

In tutto il Giappone, per quanto lei ne sappia, gli incendiari sono condannati alla morte.

Poiché gli incendi crescono incontrollati, mangiandosi ciecamente le case fatte di legna e paglia, e domarli non è mai semplice e costa sempre vita, in un modo o nell’altro.

Nonostante le precauzioni, gli incendi scoppiano. Le è già capitato di curare ustioni, anche gravi, di quelle che portano alla morte.

 

Ma questo.

 

Mai ha visto un uomo così consumato dal fuoco.

 

L’uomo è steso a faccia in giù. Il corpo è in parte coperto di fango fresco, in parte da stracci bruciacchiati che un tempo potevano essere dei vestiti.

 

La pelle. Ne è rimasta così poca! E il corpo è rosso. Rosso e nero. Il cranio nudo, su cui si arricciano ancora quelli che erano capelli e ora sono solo peli anneriti e contorti.

 

Kikyou avverte in gola il sapore del pranzo leggero che ha consumato. E’ costretta a chiudere gli occhi mentre attinge a ogni briciolo del suo addestramento di miko per allontanare la nausea che le appesantisce lo stomaco e le membra. Le sue viscere protestano per alcuni secondi, prima che lei riesca a ordinare loro di acquietarsi.

 

Riapre gli occhi ed è raggiunta dalla conferma di quel che già sapeva. L’uomo geme di nuovo, muove debolmente le dita nel fango.

 

Come può essere ancora vivo? Impossibile. Impossibile!!

 

Copre di corsa il breve tratto che la separa dall’uomo, si getta in ginocchio nel fango, e gli solleva con la massima delicatezza possibile la testa.

 

La palpebra priva di ciglia dell’unico occhio sopravvissuto nello sfacelo del volto dello sconosciuto, cerca a fatica di alzarsi.

 

Kikyou sente il cuore trafitto dalla pena. La faccia dell’uomo è rotta in più punti, molti denti spezzati, come se fosse stato percosso o fosse precipitato.

Ma quando la palpebra dello sconosciuto trova la forza di sollevarsi e mostrarle quel che nasconde, le sue mani quasi si allontanano di scatto come se si fosse accorta solo ora di stare maneggiando una teiera bollente.

 

Fuoco.

 

Fuoco che lo consuma. Fuori. E dentro.

 

L’uomo è solo in parte cosciente. L’occhio non la vede. E lei per questo prova sollievo, come la lepre nascosta in un cespuglio che sente allontanarsi la muta dei cani che le danno la caccia.

 

E un pensiero di estrema chiarezza la illumina.

 

Trascinalo fino al fiume. Per i talloni, prendilo per i talloni. Infilagli la testa sott’acqua. Almeno dieci minuti. E poi riconsegnalo alla corrente che l’ha portato fin qua. Nessuno lo saprà mai.

 

Orripilata, scuote la testa guardandosi attorno, come alla ricerca di colui che le ha pronunciato tali parole malvagie all’orecchio.

 

Nessuno.

 

Lei stessa.

 

Un uomo che così tenacemente si aggrappa alla vita. Un uomo in cui il fuoco di quella che sembra essere follia, ma non la è, brucia tanto intenso da tenere lontana persino la morte che avrebbe reclamato chiunque altro. Un uomo che neppure la morte vuole. E’ un uomo che fa paura. Perfino ridotto in questo stato.

 

Kikyou comprime rabbiosa le labbra in una linea sottile. Come può permettere a pensieri del genere di affiorarle alla mente, davanti a un proprio simile ridotto in uno stato di tale sofferenza? Non si è mai vergognata di se stessa tanto come in questo momento.

 

A ogni modo chiude la palpebra dell’uomo con un lieve movimento del pollice – solo per proteggergli l’occhio – prima di posare piano la testa e ispezionare con mani esperte il corpo del ferito.

 

Quel che scopre la sconvolge ancora di più.

 

Fratture.

 

Alcune costole rotte. Ma nessuna ha perforato i polmoni; altrimenti, coriaceo o no, sarebbe già morto. Le braccia e una gamba spezzate. E la schiena …

La schiena è rotta.

Ne è quasi certa. Quest uomo non camminerà mai più.

 

Si china ancora di più, annusando. All’apparenza, non c’è odore di putrefazione o di infezione.

Incredibile. Com’è possibile?

Non lo sa. Non importa.

 

Cosa fare? E’ un uomo pesante. Le condizioni delle sue ferite rendono rischioso spostarlo.

Goccioline di sudore si formano sulla fronte di Kikyou. Se le asciuga con un gesto spiccio della mano, sporcandosi il viso del fango che le appesantisce i vestiti.

 

Vorrebbe tornare al villaggio a chiedere aiuto a qualche uomo robusto, ma non se la sente di abbandonare lo sconosciuto al suo destino. Il villaggio dista più di mezz’ora di marcia.

 

La vecchia cava abbandonata.

 

Sì, adesso ricorda.

La cosa migliore è, innanzi tutto, portarlo al sicuro alla vecchia cava. Fortuna vuole che sia a non più di duecento metri in linea d’aria dal punto in cui si trovano.

 

Kikyou taglia svelta alla base le canne del bambù, così da creare un sentiero che possa portare il ferito fuori dalla macchia della vegetazione.

Poi, con qualche strattone deciso, strappa le maniche del suo hitoe, ricavandone lunghe strisce di tessuto da utilizzare, assieme al bambù, per steccare la gamba e le braccia dell’uomo.

 

Pur con tutta la cura possibile, non appena Kikyou prende a manipolare una delle braccia dello sconosciuto, questi lancia un urlo roco, perdendo del tutto i sensi. Le fratture non sono composte, ma lo sforzo necessario a riallineare i monconi delle ossa è tale che, quando ha finito le steccature, Kikyou avverte le prime fitte di stanchezza.

 

Raggiunge in fretta la cava, ne esplora la penombra alla ricerca di qualcosa di adatto, fino a quando trova una vecchia, sporca tavola di legno abbastanza grande e solida da poter reggere il corpo del ferito.

Tirando e strattonando, ignorando le schegge che le pungono i palmi delle mani, torna dall’uomo svenuto e con attenzione, provando a muoverlo il meno possibile, ne sposta il corpo adagiandolo sulla barella di fortuna.

 

Inclinando appena la tavola, cerca un percorso che non sia sconnesso.

La schiena piegata, la testa torta per vedere dove mette i piedi, i lunghi capelli, di solito così in ordine e adesso scarmigliati, a sfiorare quasi in terra, prende a camminare all’indietro, trascinandosi appresso il ferito.

 

 

Dopo avere depositato l’uomo all’interno della cava, Kikyou, nonostante le braccia che bruciavano, non si era concessa riposo, ben sapendo che la fatica le sarebbe piombata addosso, se si fosse fermata.

 

Fradicia di sudore, era tornata a passo svelto verso il villaggio e aveva intercettato Kaede che si allenava col piccolo arco al suo solito posto a poca distanza dal Goshinboku.

 

Dopo aver tranquillizzato la sorella, spaventata nel vederla ridotta in quello stato, l’aveva mandata alla capanna a procurarsi bende di lino, panni, svariate erbe medicamentose, un grosso recipiente per l’acqua e una Chihaya di ricambio avvolta in un fagotto.

 

Nonostante le insistenze di Kaede, era ripartita da sola. Non aveva alcuna intenzione di permetterle di vedere l’orrendo spettacolo del ferito.

 

Quindi aveva cominciato a prendersene cura sul serio.

 

Aveva staccato con la massima attenzione, quei pochi frammenti di tessuto che potevano essere tolti dal corpo dell’uomo senza strappare le parti di pelle sana sopravvissuta al morso del fuoco.

Nonostante la fibra straordinariamente resistente, l’uomo era sprofondato in uno stato di incoscienza per il quale avrebbe dovuto ringraziare i Kami.

 

Aveva lavato il corpo nudo dello sconosciuto. Rimosso lo strato di fango e sporcizia, era rimasta stupita dall’apparente casualità con la quale il fuoco aveva giocato con la sua vittima.

 

Alcune porzioni di pelle erano quasi intatte, mentre altre erano state del tutto divorate.

Quando gli aveva pulito la schiena, le pupille le si erano dilatate nel vedere una bruciatura ovale e frastagliata dalla quale promanavano, con la precisione dei raggi di una ruota, otto propaggini simili a zampe … come le zampe di un ragno.

 

Rifugiandosi nel distacco frutto di anni e anni di addestramento meditativo da miko, era riuscita a finire di lavarlo.

Poi aveva macinato le erbe per bloccare le infezioni e dare sollievo alle ustioni con acqua, fino a farne una poltiglia con la quale aveva cosparso il ferito. Infine lo aveva avvolto nelle bende di lino. Quando aveva finito, lo sconosciuto sembrava quasi una mummia.

 

Era corsa al fiume ancora una volta, aveva riempito il recipiente e aveva costretto l’uomo a riprendere i sensi quanto bastava da fargli bere più acqua possibile e combattere la disidratazione delle bruciature.

 

Poi si era seduta appoggiando la schiena alla parete della cava, il gomito sul ginocchio, le dita a massaggiarsi pian piano le tempie. Le energie l’avevano abbandonata d’un botto, lasciandola svuotata nel corpo e nella mente. Tremando, si era stretta addosso le vesti, mentre il freddo e l’umidità della grotta le gelavano il sudore sulla pelle.

 

 

Forse riuscirà a sopravvivere, per un po’.

Sapere di essere l’unica persona nel raggio di molte miglia, dotata di sufficienti conoscenze mediche da salvargli la vita, la riempie di una soddisfazione agra. Che razza di vita gli ha mai dato da vivere? Ma non avrebbe potuto comportarsi diversamente.

Si morde il morbido labbro inferiore. Vero?

 

Persa nei pensieri, alza la testa di scatto, colta di sorpresa, quando sente la sua voce. Una voce debole, come se il fumo dell’incendio che l’ha quasi ucciso gliel’avesse arrochita per sempre.

 

Miko.”

 

Solo una parola. E’ stupefatta che l’uomo abbia ripreso conoscenza.

L’occhio dello sconosciuto brilla nella semioscurità, fissandola.

D’istinto, incapace di pensare, Kikyou si passa le dita tra i capelli aggrovigliati.

 

E l’uomo fa una cosa stranissima, imprevista, incomprensibile. Le labbra piene di croste si schiudono, i denti spezzati e torti come radici d’albero scintillano. Sorride?

 

Kikyou si vede all’improvviso col suo sguardo.

 

Una donna sconosciuta, una giovane miko, sporca di fango da capo a piedi, le maniche dell’hitoe strappate fino alle spalle, i vestiti bagnati incollati addosso, il viso sfatto di stanchezza, gli occhi dilatati dalla sorpresa, con le dita infilate nella massa arruffata dei capelli.

 

Kikyou porta subito le mani in grembo, stizzita dal suo gesto istintivo, voltandosi verso di lui.

La mezzaluna del suo sorriso non esita un momento.

 

“Non sforzatevi di parlare. Siete gravemente ferito. Dovete riposare.”

 

“Ferito. Sì. Dove mi trovo, miko?”

 

“In una vecchia cava. Vi ho trovato in riva al fiume qualche ora fa. Vi ho …”

 

La zittisce, brusco come un colpo di spada. Per quanto fioca, la voce è pressante.

 

“Chi sa che sono qui, miko?”

 

Strana domanda.

 

“Nessuno. Non ho ancora avuto il tempo di …”

 

“Nessuno dovrà saperlo. Nessun altro. Sono stato chiaro?”

 

Perché?” ribatte lei.

 

L’uomo non ha esitazioni a rispondere.

 

Poiché sono un pericoloso brigante, e molti mi danno la caccia per vendicarsi su di me e uccidermi. Se dovesse spargersi la voce che giaccio qui, ferito e impotente, non sopravviverei più di qualche giorno. Dunque, tutto il disturbo che ti sei presa per trattenere la vita in questa carcassa di corpo, e senza che io te l’avessi chiesto, sarebbe stato inutile. Se dirai a qualcuno che mi hai trovato, allora meglio sarebbe stato se avessi deciso tu stessa di tagliarmi la gola, piuttosto che curarmi, quando mi hai trovato.

 

Kikyou rabbrividisce sentendosi per un secondo assurdamente in colpa.

 

“Ho capito. Farò come volete.”

 

L’uomo resta in silenzio, soppesandola.

 

“Avrete fame. Posso portarvi qualcosa …”

 

“No. Non ho voglia di mangiare. Piuttosto. Dimmi come ti chiami.”

 

“Il mio nome è Kikyou. E voi, come vi chiamate?”

 

Lo sconosciuto alza la testa per quanto possibile, con un grugnito che le sembra di sorpresa.

 

“Ho capito bene? Come hai detto che ti chiami?”

 

“Kikyou.”

 

“Bene. Oh bene. E io, sono Onigumo.”

 

Onigumo scivola in un sonno esausto.

 

Kikyou sospira. Anche lei è molto stanca. E preoccupata a causa del nuovo fardello che il destino le ha affidato.

 

Si accorge che le ore sono volate vie rapide, oggi. I raggi del sole passano attraverso l’entrata della cava informandola che è pomeriggio avanzato.

 

Sfiora il fagotto che protegge la sua Chihaya pulita. Tutto d’un tratto, sorride nel buio della grotta.

 

Dove hai intenzione di fuggire!? Ti ritroverò ovunque tu vada!! E’ inutile che provi a scapparmi!

Ti troverò subito! Con quella puzza di sangue youkai che hai tutt’addosso! Mi hai sentito!? Ehi!? Mi hai sentito … Kikyou?!

 

Prende tra le dita un lembo di quel che resta dell’hitoe stracciato, arricciando il naso.

 

Non smette di sorridere mentre afferra il fagotto, si alza, la fatica recede e, solo Inuyasha nella testa, abbandona la grotta e il suo cupo ospite per raggiungere la cascata.

 

 

 

 

Cammina, con il cibo e le medicine che ha preparato per il brigante.

 

L’eco dei suoi passi riempie i corridoi altrimenti deserti. Un vecchio tempio buddista abbandonato, ormai assediato da alberi e vegetazione e che presto – solo alcuni secoli – dovrà cedere le armi ai suoi silenziosi, pervicaci invasori.

 

Apre la porta. Il brigante è sdraiato a terra, su una coperta stesa sul pavimento freddo. Un piccolo involto è ripiegato a mo’ di cuscino sotto la sua testa.

 

Si inginocchia vicino a lui, facendo scivolare la polvere medicinale in una tazza d’acqua.

 

“Ecco. Bevi questo. Diminuirà il dolore.”

 

Il vecchio tiene lo sguardo fisso nel vuoto. “Perché mai aiuti una persona come me?”

 

“Non hai finito la tua storia.”

 

Il brigante piega le labbra in quello che è forse un sorriso; e beve.

 

“Trovare un posto adatto per morire. Già.”

“Negli anni della mia giovinezza, commisi ogni sorta di malvagità. Omicidi, incendi, ruberie.

Kansuke Rasetsu, l’assassino pazzo. Sì. Era un nome conosciuto e che metteva paura …”

“Allora ero convinto che sarei vissuto per poco, in ogni caso. Non mi importava, e decisi di vivere la vita come la volevo, senza preoccuparmi d’altro.”

“E invece, sono sopravvissuto molto al di là di ogni mia aspettativa, mentre, poco per volta, accanto a me, morivano tutti coloro che conoscevo. Non li chiamerò amici, poiché non li erano, così come io non lo ero per loro. Ma …”

“E’ una cosa strana. Ora che ho sono andato molto al di là degli anni che mi ero concesso, ho scoperto che lasciare andare la mia vita è molto, molto più difficile di quanto avrei mai immaginato. Adesso che ho assai meno da perdere rispetto ad allora. Ma questa è una cosa che una donna giovane come te non può capire, anche se è una miko.”

E ho paura. Paura del giudizio che sarà dato su di me.

 

Kansuke sospira.

 

Messa da parte la tazza, Kikyou rimesta tranquilla la ciotola con quel po’ di zuppa di rape che ha cucinato e gliene porge una cucchiaiata, imboccandolo.

Istintivamente, gli dà un colpetto col cucchiaio sotto il labbro inferiore, come si fa coi bambini per impedir loro che si sporchino il mento.

 

Vecchi. Bambini. Simili in tante cose. Le viene naturale, fare il possibile per proteggere quel poco di dignità che resta a questo vecchio. A qualcuno che, sì, proprio come lei, ha corso così a lungo, da ritornare al punto in cui era partita la propria vita. Uguale e differente.

Solo un bambino, gli occhi terrorizzati, sgranati a fissare un buio ignoto.

 

Un lampo di rabbia scuote all’improvviso Kansuke.

 

“Ah! Tanto tempo fa, promisi a me stesso che non avrei mai più accettato la pietà di una miko! Tieniti il tuo cibo, e vattene!”

 

Kikyou gli offre un’altra cucchiaiata della zuppa, come se non avesse udito. La sua voce è un quieto sussurro.

 

“I bambini, dall’alto della loro innocenza, e coloro che sempre sono convinti della giustezza del proprio pensiero, dal basso della loro presunzione, amano sopra ogni cosa la giustizia, poiché sanno che amministrarla è un giusto diritto e un necessario dovere.”

“I vecchi, dall’alto della loro saggezza, e coloro che macchiano le loro anime con azioni crudeli, dal basso della loro iniquità, amano sopra ogni cosa la misericordia, poiché sanno di averne grande bisogno.”

E tu, vecchio brigante, dimmi. Cosa pensi delle facili consolazioni? Negli anni della tua giovinezza, come avresti giudicato un vecchio che ti avesse parlato come fai tu ora?”

 

Kansuke ridacchia, spiazzato.

 

“Parli stranamente, per essere una miko, giovane donna. Ho sempre disprezzato i vecchi che, quando sentono la morte bussare, tremano e piangono per sfuggire al loro passato. Eppure …”

 

Esita.

 

“Adesso non so più che pensare. Oh, quanto odio questi anni che appesantiscono il mio corpo! Sono davvero uno stupido vecchio, non è vero?”

 

Le labbra di Kikyou si piegano in un sorriso appena accennato.

 

“Di tutte le cose che credevo di sapere, Kansuke Rasetsu, ben poche ne restano. Non so se sei uno stupido. So però, che è bene che un essere umano muoia senza portare nel cuore rimpianto, terrore e odio. Gli occhi di lei scintillano sarcastici. “Perciò è giusto combattere per liberarsene, finché c’è vita. Perché quando questa è perduta, Kansuke Rasetsu, tornare sui propri passi non è più possibile, per quanto lo si possa desiderare.”

“E sicuramente è molto più sciocco negarsi alla lotta, per restare fedeli a ciò che eravamo e per timore del giudizio di coloro che mai più saremo. Sì. Di questo son certa.”

 

Kansuke fissa sorpreso quegli occhi di donna così distaccati, e per un attimo gli pare di scorgervi un dolore disperato quale mai avrebbe pensato possibile, in una persona così giovane. E qualcosa di niente affatto familiare, e che assomiglia a quella che, forse, altri chiamano pietà, bussa alla sua porta.

Ma lui non ha proprio voglia di aprire.

 

Per distrarsi, butta lì un’osservazione per caso.

 

E dire che tu assomigli davvero tanto a quella miko!”

 

“A chi?”

 

A una miko che … sì, che cercai, senza riuscire, di uccidere. L’allora custode della Shikon no Tama. Si chiamava … Kikyou, se non sbaglio.”

 

“Una pura coincidenza.”

 

Ma certo! Ti parlo di cose successe più di cinquanta anni fa. Se fosse ancora viva, ormai sarebbe una vecchia! In ogni caso, morì tanto tempo fa. Almeno, questo udii raccontare. E assieme a lei, fu distrutta la Shikon no Tama.”

 

Restano in silenzio.

 

“E così, una volta cercasti di impadronirti della Shikon no Tama?”

 

“Sì! Me lo suggerì un brigante come me, chiamato Onigumo.

 

Di nuovo, Kansuke vede il distacco infrangersi negli occhi della donna. Come sassi gettati in pozze d’acqua placida.

E la pelle gli si accappona, come quando si sveglia di notte e non riesce a respirare e cerca di sollevarsi per trovare l’aria ma non ce la fa e sibila e si dice che sì è arrivata stavolta la sua ora ma maledizione ha paura e non vuole perché …

E poi i polmoni si ricordano come funzionare e – non stanotte. Anche questa notte passerà.

 

“Racconta.” Dice la miko, con un tono imperioso e pressante.

 

Così, Kansuke si lascia andare ai ricordi. Come gran parte dei vecchi, per quanto possa dimenticare le cose del giorno precedente, ricorda alla perfezione fatti e avvenimenti di anni lontani.

 

Di come Onigumo gli avesse suggerito di uccidere a tradimento la miko, tendendole un agguato solitario così che non si accorgesse dell’arrivo in massa della sua banda e non potesse fuggire con la Shikon no Tama. Di come l’hanyou lo avesse quasi ammazzato. Di come i suoi uomini lo avessero subito dimenticato per seguire Onigumo. Dell’altra miko che gli aveva curato l’occhio e che lui aveva probabilmente ucciso per rabbia.

Di come si era vendicato su Onigumo, quando era riuscito a raggiungere i suoi uomini che, da quei pusillanimi vigliacchi che erano, avevano voltato la schiena al loro nuovo capo con la stessa facilità con la quale avevano abbandonato quello vecchio.

Di come il palazzo saccheggiato bruciava. Per chi era rimasto intrappolato dal fuoco, una morte rapida. Per chi era riuscito a fuggire, con tutta probabilità una morte un po’ più lenta, per fame o per mano dei numerosi banditi presenti nella regione. Oppure divorati da qualche youkai nascosto nell’oscurità dei boschi.

 

Ma Onigumo era sopravvissuto! Come avesse fatto a trascinarsi fuori da quell’inferno, per Rasetsu era ancora un mistero. Così, lo aveva fatto gettare giù in un baratro. Per una qualche ragione, non gli andava di toccarlo. Il fatto che, pur solo in parte cosciente, invocasse il suo nome in un sussurro, lo aveva incomprensibilmente riempito di paura.

 

La donna annuisce. Rasetsu la guarda, in attesa, ma la miko resta silenziosa, finché non decide di fissarlo a sua volta. Sembra turbata? Ma perché? Da eventi del passato che risalgono a ben prima che lei nascesse.

 

“So che ti attendi da me un duro rimprovero oppure un’assoluzione, Kansuke Rasetsu. Mi dispiace. Non posso darti nessuna di queste due cose. Se lo facessi, sarei una bugiarda.

“Chiedimi qualcos’altro.”

 

La miko sorride come se volesse scusarsi, e Rasetsu scuote il capo, perplesso. Non capisce cosa lei voglia dire. Di più, non vuole capirlo. La pelle delle braccia gli si increspa in bolle di pelle d’oca.

 

C’è più luce, adesso. Trapela dalle finestrelle oscurate dai rampicanti. La notte è finita. Rasetsu rabbrividisce, mentre un freddo che non è il freddo di questa stanza vuota gli rosicchia le ossa.

 

“Mi piacerebbe uscire da qui. Non voglio … restare nel buio.

 

La donna gli infila le braccia sotto il corpo e, senza sforzo apparente, lo solleva come fosse un fanciullo.

 

Rasetsu non può fare a meno di gemere per la sorpresa. Sì, il tempo ha asciugato e rinsecchito la sua carne, assottigliato le sue ossa, gli ha portato via il peso assieme ai suoi muscoli … ma, accidenti, non è diventato così leggero da poter essere sollevato tanto facilmente, meno che mai da una donna! E solo in questo momento si chiede come abbia fatto, lei, a portarlo fino al tempio, mentre era svenuto.

 

La miko lo conduce lungo i corridoi umidi, fino a emergere dall’edificio abbandonato per vedere il sole che sta albeggiando. Rasetsu rabbrividisce di nuovo. Il corpo della donna è tanto freddo!

 

Lei appoggia la sua schiena ad uno degli abeti nel cortile del tempio, restando poi in ginocchio vicino a lui.

 

“Ho sentito voci. Voci su un luogo di purificazione, tanto sacro che anche le anime dei criminali più incalliti possono essere redente.

 

Ecco. L’ha detto. Ridicolo! Sì, è proprio ridicolo, a cercare rifugio in queste cose, dopo averle derise tutta la vita. Vergogna, imbarazzo e disprezzo di sé gli premono sul petto, gli mordono il ventre.

Chissà come lo starà giudicando questa … questa ragazza, sì, in fondo non è altro che una ragazza.

Ma poi, ricorda le parole che lei gli ha detto non più di paio d’ore prima … è molto più sciocco negarsi alla lotta per timore del giudizio di coloro che mai più saremo

La miko aspetta che lui continui.

 

“E’ un tempio. Un tempio fondato da uno houshi morto tempo fa. Si dice che sia divenuto un Buddha vivente. Houshi Hakushin. E si dice che la terra lì attorno, sia talmente sacra da purificare i peccati di chiunque vi venga sepolto.

“Ah! Chissà, forse, se avessi conosciuto una donna come te nella mia gioventù, adesso non ne avrei così bisogno.”

 

“Vuoi essere salvato.”

 

E’ un’affermazione, non una domanda.

 

“Ho viaggiato sperando di raggiungere il Monte Hakurei, la montagna dove sorge il tempio. Ma ormai la vita mi sta lasciando.

 

Quindi?”

 

Kansuke Rasetsu sfodera il pugnale con il quale l’ha minacciata solo poche ore prima, e che lei – da non credere! – gli ha lasciato al fianco. Trattenendo la sparuta coda dei propri capelli con una mano, la recide con la lama affilata.

 

“Seppelliresti … questa ciocca di capelli al Monte Hakurei? Non ho il diritto di chiederti niente, ma…”

 

La vede assentire col capo.

 

Rasetsu si sente pervaso dal sollievo. Sa che la miko manterrà fede al proprio impegno. Ha già avuto modo di sperimentare quanto seriamente queste donne ottemperino ai propri doveri.

Così, finalmente, lascia che il buio che tanto lo spaventa si faccia avanti per reclamarlo. Ci sarà questa strana miko … sì, ci sarà lei … a badare a lui …

 

“Non so neanche il tuo nome!” esclama come per un ripensamento, mentre già il mondo si scolora attorno a lui.

 

“Il mio nome? Mi chiamo Kikyou.”

 

Kansuke Rasetzu sussulta, ma non ha più le energie per ridere o per stupirsi.

 

“Ah! Che … che brutto scherzo …”

 

E sprofonda nel buio per sempre.

 

 

Kikyou resta inginocchiata accanto al cadavere di Kansuke, la testa china. Fa per prendere la ciocca di capelli.

 

Le ruote del destino sono sempre in movimento. Così sta scritto.

 

Un verso strozzato, non sa se un singhiozzo, una risata, un grido, le sfugge di bocca.

 

Cosa vuoi? Cos’altro vuoi? Anche questo? Tocca a me? Perché!? Perché deve sempre toccare … a me!?!

 

Oh, quanto vorrebbe dare tutto in pasto alle fiamme! Sì! Sarebbe la cosa più giusta! Così è cominciato! E perché non fare finire tutto allo stesso modo?

 

C’è tanta legna.

Asciutta legna secca, legna viva degli alberi, vegetazione verde e piena di linfa. Potrebbe fare una catasta. Gettarvi sopra Rasetsu e dare fuoco a tutto quanto.

 

Può quasi sentire il ruggito assordante delle fiamme nella testa. Fiamme che accarezzano le carni con il loro tocco maligno, avvizzendole fino a ridurle in cenere.

E che dopo avere spolpato la salma, anneriscono le ossa bianche, fino a consumarle e renderle fragili, friabili. E non più bianche ma nere, nere!!

 

Kikyou si piega come se le mancasse l’aria e stesse cercando di respirare - quando respirare le era ancora necessario - gemendo d’orrore, tenendosi le spalle con le mani, le braccia incrociate sul petto, le palpebre serrate.

 

E perché no? Cos’è rimasto di lei? Del suo corpo? Solo un mucchietto d’ossa sbriciolate, un cumulo di cenere e di terra sepolcrale. Non si merita, lui, la stessa sorte?

 

Il dolore dal petto si allarga fino a invaderla tutta. Le tamashii delle donne morte si protendono verso il dolore, come i rami di alberi piegati dalla siccità verso la pioggia, bramando questa sofferenza selvaggia, nutrendosene ancora una volta, ancora una … per sempre … rivedendo, rivivendo di nuovo … rimpianto, perdita, rancore … ancora … e ancora …

 

Daccene ancora!

 

Basta! Basta così.

 

Farà ciò che il Fato vuole. E’ questo che le chiede? Va bene. Ubbidirà. E non consentirà più a se stessa di ribellarsi. Non più.

 

Con gesti lenti e deliberati, Kikyou sottrae la ciocca di Kansuke Rasetsu dalla sua presa irrigidita, e la ripone tra le pieghe dell’hitoe, quasi all’altezza del posto dove una volta c’era il suo cuore.

 

Dietro il tempio. Prima, ha visto che c’erano dei vecchi attrezzi arrugginiti. E anche vanga e piccone.

Kikyou va a prendere quel che le serve per adempiere il proprio dovere.

 

 

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Capitolo 15
*** XIV ***


Glossario

Glossario.

Gempuku: nel Giappone antico, un bambino diventava adulto compiuti i sedici anni. Al sedicesimo compleanno, nobili e samurai procedevano alla cerimonia del gempuku, durante la quale, tra le altre cose, il nuovo adulto cambiava il proprio nome.

Wakizashi: spada corta usata di solito dai viaggiatori, in quanto la katana è arma riservata ai samurai.

 

 

Lo specchio di Kanna mostra a un compiaciuto Naraku l’immagine di Kikyou che prende in consegna la ciocca dei capelli di Kansuke.

 

“Dunque, è stato un bene che abbia deciso di vegliare e proteggere Rasetsu per tutti questi anni, alimentando la sua vita e permettendogli di sopravvivere fino a oggi. Credevo che fosse un mero capriccio, sdebitarmi realizzando i desideri del suo confuso cuore. Ma forse sapevo che mi sarebbe potuto tornare utile, un giorno o l’altro.

 

Una risata arcana ed echeggiante risuona lungo le volte di pietra.

 

Lo sguardo vuoto di Kanna è posato su di lui.

La sua primogenita. L’unica a poterlo vedere in tutte le sue guise senza tema di impazzire.

 

“Crudele. Malvagio. Sai che c’è chi mi definisce così, figlia mia?”

 

“Sì.” Kanna risponde meccanicamente, con la sua voce neutra e spoglia di qualsiasi inflessione.

 

“Tu pensi che sia malvagio, Kanna?”

 

“No.”

 

“Bene. Anche se sai, vero, che ti ho creata di proposito priva di bisogni, desideri e volontà. Dimmi, Kanna, rimpiangi mai qualcuna di queste cose?”

 

“No.” Il vuoto uniforme negli occhi di Kanna non conosce né lampi né mutamenti, come non ne ha mai conosciuti da quando è nata.

 

“Certo. Tu non rimpiangi nulla. Né avrebbe senso, perché è possibile rimpiangere solo ciò che si è perduto, e non quel che non si ha mai avuto.”

“Ah, figlia mia. A volte ti invidio. Sai perché ti ho creata così come sei, Kanna?”

 

“Per servire il mio scopo.” Risponde l’emanazione.

 

“Sì. Ma sai anche che tutti i tuoi fratelli e sorelle sono diversi da te. Capisci il motivo di questa differenza?”

 

Kanna annuisce; la testa oscilla come quella di un burattino il cui filo viene strattonato su e giù.

 

“Io sono la prima. Ognuno degli altri, ti serve a suo modo. Servono i tuoi scopi, mentre credono di servire i propri. Seguono la strada che hai tracciato per loro, mentre credono di seguire la loro propria strada. I loro bisogni sono bisogni che tu hai scelto per loro, affinché questi diano loro una forza che altrimenti non avrebbero. E affinché tu, padre, possa apprendere quel che ti è necessario conoscere.

“Come ad esempio, il modo per imprigionare la miko morta.

“Quando lo scopo dei miei fratelli sarà esaurito, li getterai come bambole non più utili.

“Lo stesso farai con me. Io però sono l’unica, fra tutti loro, a saperlo. E questo poiché sono l’unica a cui saperlo non serve a nulla. Io che sono senza volontà, desideri, bisogni.

 

Un artiglio fatto di robusta cartilagine e dotato di molte nocche e giunture si protende verso il volto inespressivo di Kanna, arrestandosi ad alcuni centimetri dalla sua testa.

 

Kanna resta immobile. L’artiglio trema appena, come se volesse toccarle la fronte ma non osasse farlo.

 

Sei molto intelligente, figlia mia. Hai capito anche qual è il tuo scopo?”

 

“Servo molti scopi.”

 

Il tremore dell’artiglio aumenta. La voce distorta di Naraku esita.

 

Cosa si prova, Kanna? Privi di bisogni e desideri. Cosa resta?”

 

“Nulla. Il vuoto.”

 

“Niente?”

 

“Niente che possa spaventare. Niente che possa ostacolare lo scopo per il quale si esiste. Niente. Non c’è nulla di cui avere paura, padre.

 

Ondate di furore scottano la pelle bianca come neve di Kanna; senza lasciarvi segno.

 

“Io non temo nulla, Kanna.”

 

“Certo. Nulla. Niente. Perdonatemi, padre.” Ma non c’è nella voce di Kanna, né preoccupazione al pensiero di una possibile punizione, né autentica contrizione.

 

Il silenzio si allunga. Nessun suono e movimento li disturbano. Anche il tempo pare bandito da questo luogo.

 

“Sì, c’è chi mi definisce malvagio, Kanna. C’è chi mi definisce crudele. Non è così.

“Tu mi definiresti così, Kikyou? Mia nemesi? Giacché ti ho imprigionata nei tuoi stessi incubi, e ora sono io a guidare i passi che ti porteranno da me?”

Ebbene, sappi che anch’io affronterò il mio incubo, proprio come te. E scopriremo così chi di noi due è il più forte. Perciò, quando ti distruggerò non potrai accusarmi di alcuna disonestà.”

“Preparati, Kanna.”

 

“Sì.”

 

“Tu sei il vuoto, Kanna. Ma quando io avrò sconfitto e sradicato il kokoro di Onigumo, con le sue passioni e i suoi bisogni, non sarò vuoto. No.”

“E l’arma che userò contro i due fantasmi che mi perseguitano, non è altro che l’architrave, il perno e la chiave di volta della mia intera esistenza.”

“La mia volontà.”

“Metti a fuoco lo specchio.”

 

“Sì, Naraku.” Le immagini di Kikyou svaniscono dallo specchio, sostituite dal riflesso di un corpo assurdo e inconcepibile.

 

La coscienza di Naraku si assottiglia poco a poco, abbandonandosi alle misteriose correnti della sua mente.

 

E’ come fluttuare, galleggiare, perdersi, in una oscurità talmente buia da essere ben oltre il nero.

 

A Naraku pare di volare in direzioni ignote, privo di corpo e di sostanza – solo pensiero. Non è affatto una sensazione sgradita. Anzi.

 

Dopo un tempo imprecisato – minuti o settimane, nessuno può saperlo – avverte come un urto che dalle piante dei piedi si propaga lungo le sue gambe arrampicandosi su per la schiena, fino alla nuca.

 

Gambe? Schiena? Nuca?

 

Una luce sfolgorante lo aggredisce accecandolo, per poi farsi fioca e soffusa.

 

Appena riprende il controllo della propria vista, si sforza di guardare in ogni direzione contemporaneamente.

 

Sa benissimo che quel che gli si presenta è solo una proiezione – illusoria, ma al tempo stesso assai concreta – della sua stessa mente. Ma è così, maestosa. E’ proprio come l’ha sempre immaginata.

 

E’ al centro di una enorme piazza quadrata lastricata in alabastro, delimitata da svettanti palazzi di pietra tutti uguali; privi di finestre e altri pertugi. Monolitiche costruzioni le cui cime si perdono in un cielo senza sole, né stelle né luna, pervaso da un lucore morbido che pare quello di un tramonto.

Non c’è nulla a spezzare l’uniforme precisione di questa piazza. Naraku tende l’orecchio, annusa. Nulla.

Dà un’occhiata fugace al suo corpo – nient’altro che la manifestazione della sua coscienza e volontà.

E’ nudo, in forma umana, e pulsa di luce propria.

 

Riporta l’attenzione allo spettacolo che gli si presenta, e si incammina – sgomento per quanto gli è consentito dalla sua natura – a esplorare la città.

 

Imbocca una della otto strade, tutte uguali, che escono dalla piazza.

Per un certo periodo di tempo si limita a camminare, sforzandosi di cogliere e memorizzare ogni possibile dettaglio. Gli edifici ai lati della strada, in pietra, in luccicante mica oppure in basalto, diventano progressivamente meno alti e assumono le forme più svariate – a pianta rettangolare e circolare, soprattutto; ma non mancano architetture più strane, alcune delle quali seguono geometrie ignote al mondo a cui Naraku appartiene.

 

Strade si biforcano di tanto in tanto, lastricate nei più svariati materiali, dalla scura ardesia al marmo bianco, alcune diritte e altre tutte curve e volute.

 

Naraku si riscuote dalla strana malia che lo sta cogliendo. Potrebbe aggirarsi per queste strade in eterno; e questo è un pericolo concreto. Proprio come Kikyou, corre il rischio di smarrirsi per sempre, lasciando che i sentieri della sua mente lo conducano in contrade dalle quali non c’è più ritorno. In questo non-luogo, la sua stessa curiosità può diventare la sua peggiore nemica.

 

Arresta i suoi passi. E’ circondato da case basse e scure, le cui mura sono decrepite, rovinate come la pavimentazione sconnessa. Alcuni palazzi hanno delle finestre – e sono i primi nei quali si imbatte ad avere questa caratteristica.

Con un brivido, capisce che l’istinto – o qualcosa di simile – l’ha sospinto dove serviva.

 

Chiude gli occhi. Tende l’orecchio.

 

Ticchettii lievi, appena accennati. Simili a piccole punte metalliche che battono sulla pietra.

 

Il suono si ripete. Tenendo gli occhi chiusi, Naraku si muove nella sua direzione.

 

Silenzio improvviso. Naraku solleva le palpebre e, fluido e rapido, raggiunge l’edificio più tozzo e brutto tra quelli che gli stanno accanto. Sbircia da una delle finestre e alla fine, dopo molti anni, lo vede.

 

Il Ragno è grosso; delle dimensioni di un cane di grande taglia. E brutto, perfino più di quanto ricordasse. Le zampe sono deformi, i grappoli rossi dei suoi occhi luccicano nell’oscurità, il ventre ingrossato striscia a terra, pungiglione e mandibole grondano veleno.

 

Naraku e il sembiante del kokoro di Onigumo restano a fissarsi per un eterno secondo. Poi il Ragno si volta senza un verso o un grugnito e fugge nell’oscurità dell’edificio.

 

Naraku non esita. Poggia la mano incorporea sulla parete della casa, che si fende con precisione in due, spaccandosi e permettendogli di entrare. Una fitta di dolore liquido gli sferza le tempie.

Così come modella e riforma il suo corpo, adesso sta facendo la stessa cosa alla sua mente, al suo cuore e alla sua anima. Lui, che ha il dominio dell’architettura di questa città.

Oh, ma deve stare attento, terribilmente attento. Commettere anche un solo passo falso durante questo inseguimento, potrebbe significare per lui un destino peggiore della morte.

 

Reprimendo un brivido, Naraku si getta nella tenebra dell’edificio, inseguendo il suono metallico degli artigli del Ragno.

 

Una forza ignota lo afferra e viene gettato in frammenti di ricordi d’incubo.

 

 

 

Uno dei ciocchi di legno che alimentano il fuoco da campo si spacca vomitando scintille, e lo costringe a stringere con fastidio le palpebre.

 

Prende uno degli spiedi su cui sta arrostendo la striscia di carne di cervo e affonda i denti soddisfatto, il grasso gli cola sul mento, mentre le sue narici sono piacevolmente solleticate dal lieve odore di bruciato del legno.

In pochi morsi ha finito, e il calore del cibo bollente gli incendia lo stomaco. Allunga la mano, ignorando la fitta fastidiosa che ne segue, per prendere altra carne.

 

Il vecchio dall’altra parte del falò, seduto a gambe incrociate come lui, ride, masticando assai più piano coi pochi denti che gli rimangono.

 

“Via, via! Oggi è il tuo compleanno! Puoi mangiare quanto vuoi; non c’è bisogno di affrettarsi. Il sedicesimo compleanno è importante. Viene una sola volta nella vita. Sei diventato un uomo! Perfino noi, briganti, feccia della società, teniamo in considerazione questo giorno. Certo, non siamo samurai. Non facciamo cerimonie …”

 

“I samurai cambiano il loro nome quando compiono i sedici anni, giusto, vecchio?”

 

Il vecchio si azzittisce e annuisce. “Sì. E’ così. Durante la cerimonia del gempuku.”

 

“Bene. Ci ho pensato a lungo e ho deciso di cambiare anch’io il mio nome, vecchio. Non capisco perché debbano poterlo fare solo loro.

 

Il vecchio scoppia a ridere. “Cambiarti il nome!? Tu!? Non stai sollevando troppo la testa? Avanti. Sono proprio curioso. A che nome hai mai pensato? Sentiamo!”

 

“Da oggi in avanti ho deciso che il mio nome sarà, Onigumo. Mi piace! Cosa ne pensi, vecchio?”

 

Mmm. Onigumo, eh? Ti dirò cosa ne penso, quando ti deciderai a chiamare me per nome, una buona volta. Mi sembra un accordo onesto, che ne dici? … Onigumo.”

 

Onigumo ridacchia. Lui e il vecchio si conoscono da anni. Lui sa che non è abituato a chiamare le persone per nome. Farlo non gli piace, lo trova … sbagliato.

 

Il vecchio lo aveva trovato tanto tempo prima. Anche se era poco più di un bambino – aveva nove anni – ricorda bene le circostanze.

 

Il villaggio era stato assalito da una banda molto numerosa di briganti. E lui era sopravvissuto grazie a sua madre; anche se non per le ragioni che si potrebbero immaginare, oh no.

 

Sbagliato. Così come aveva sempre avuto la sensazione che fosse sbagliato chiamare le persone per nome, così sentiva di essere in un posto sbagliato. Sbagliato in che senso, non sapeva. Ma restava in lui un disagio che lo abbandonava di rado.

Un bambino strano. Non che nel villaggio qualcuno fosse così maleducato da dirlo in faccia a sua madre, ma lui sapeva che tutti lo pensavano.

C’era qualcosa, nel suo sguardo fangoso, nel suo fare brusco, nel modo in cui sorrideva, che innervosiva chi gli stava attorno. Si era accorto che suo padre, a volte, lo fissava in un modo strano, troppo intenso. Non gli piaceva essere fissato così. Non gli piaceva affatto.

Ma poi suo padre se n’era andato, morto per una febbre che non aveva lasciato scampo. Ne era stato contento. Ora era lui l’uomo di casa, il fratello maggiore.

A soli sette anni, le sue due sorelle e suo fratello minore erano terrorizzati da lui. Non li picchiava neppure tanto spesso, ma … bastava. Già.

Sua madre lo puniva sempre con severità, quando alzava le mani su di loro, ma lui se ne era accorto. Anche lei cominciava ad avere paura. La vedeva rabbrividire alle sue occhiate, e tremare anche più forte, quando le chiedeva con aria innocente se ci fosse qualcosa che non andava. Ne rideva di nascosto.

 

La notte della venuta dei briganti, la prima cosa di cui sua madre si era preoccupata era stata trovare un rifugio per loro – per tutti loro. Ma quando, dopo averli nascosti in una stalla, aveva fatto per andarsene, i suoi fratelli avevano cominciato a piangere per la paura. Sua madre si era voltata per confortarli, e un lampo d’intesa era scoccato tra loro.

Entrambi avevano capito che stavano piangendo per paura di lui. Che non volevano essere lasciati soli con lui. Costernata, e solo a pochi passi dal completo panico, sua madre gli aveva ordinato di seguirla. Lui aveva ubbidito e aveva subito sentito i singhiozzi di suo fratello e delle sue sorelle acquietarsi.

 

Avrebbe potuto far notare a quella stupida di sua madre che non era una grande idea lasciarli nascosti in una stalla piena di paglia, vista l’abitudine dei banditi di dare fuoco ai villaggi presi d’assalto, ma poi aveva deciso di stare zitto. Chissà che faccia avrebbe fatto sua madre davanti ai corpicini carbonizzati dei suoi fratelli? Scoprirlo sarebbe stato divertente. Già.

E ci sarebbe stata qualche bocca in meno da sfamare, in famiglia.

Giacché, in ogni caso, lui era certo di poter sopravvivere.

 

I briganti erano arrivati poco dopo. Lui si era sottratto alla morbida mano di sua madre ed era scappato. Lei sembrava appannata, come se non sapesse più cosa fare, o dove si trovava. Aveva capito che, se fosse rimasto con lei, la sorte non gli avrebbe arriso.

 

Non l’aveva rivista più.

 

Si era nascosto poco fuori del villaggio, in quella vecchia tana di volpi abbandonata da tempo, che aveva scoperto quando era più piccolo e nella quale ormai entrava solo con gran fatica, spremendo e contorcendo il suo corpo magro.

 

Per tutta la notte e l’alba seguente, aveva udito le grida degli uomini e delle donne. Gente che conosceva. Gente che era andata a dormire la sera senza immaginare che ci sarebbe stata la morte ad attenderli solo poche ore dopo.

 

Quando il baccano e gli urli di agonia erano scemati fino a svanire del tutto, portati via, così gli era parso, dal rumore degli zoccoli dei cavalli che si allontanavano, era uscito dal nascondiglio e si era incamminato lungo le strade polverose.

 

Tanti edifici, tra i quali la stalla in cui i suoi fratelli si erano nascosti, erano bruciati.

 

Ecco. Lo sapevo, io! Stupida donna! Avresti dovuto capirlo da te.

 

Le strade erano piene di cianfrusaglie, suppellettili, rottami, e cadaveri. Aveva riconosciuto molte persone. Parevano così diverse, da morte. Che strano! Questa scoperta l’aveva fatto ridere.

 

Si era accorto che era bello essere lì, riempirsi le narici dell’odore del sangue che impregnava l’aria, godere del silenzio che seguiva la battaglia, essere vivo. Aveva impiegato un po’ per capire cos’era la sensazione che provava.

Nel bel mezzo del villaggio distrutto, circondato da cadaveri, per la prima volta nella sua giovane vita, aveva pensato: sono a casa.

 

 

Solo pochi giorni dopo, il vecchio lo aveva trovato. Lui era restato nei paraggi del villaggio, dove c’era un poco di cibo, e acqua in abbondanza. I morti cominciavano a puzzare terribilmente.

 

Il vecchio lo aveva visto. Lui non era fuggito. Gli aveva fatto cenno di seguirlo, e lui lo aveva fatto.

 

Con l’andare degli anni, si era convinto sempre di più che il vecchio avesse fatto parte della banda di tagliagole che aveva sterminato il villaggio. Il modo in cui a volte parlava, come gli capitava di insistere sul fatto che non bisognasse troppo farsi prendere la mano dalla bramosia e dal gusto del saccheggio. Pareva che ci fosse qualcosa che rodeva la coscienza incallita del fuorilegge. Doveva essere qualcosa di grosso, visto che il vecchio non si faceva problemi a uccidere, quando era necessario, e cioè abbastanza spesso, per la verità. E perché avrebbe mai dovuto prenderlo sotto la sua ala protettrice, altrimenti? Lui era, nel modo tutto contorto della loro vita all’insegna della violenza, la redenzione del vecchio. Già.

 

E a lui stava benissimo. A volte si convinceva di essere felice. Viveva la vita che aveva sempre voluto, fin da quando ancora non sapeva cosa voleva. Lui e il vecchio erano affezionati l’uno all’altro, in un certo senso. Non lo batteva spesso, e quasi sempre aveva le sue ragioni per farlo. E gli aveva insegnato tutti i trucchi! Come combattere, come seguire le tracce, come cacciare, come ingannare, come scappare, come raccogliere informazioni, come mischiarsi tra la folla senza essere notato. Tutti i trucchi del mestiere.

 

 

“Tieni, Onigumo. Eccoti il tuo regalo.”

 

Il vecchio gli getta un pugnale racchiuso in un fodero, facendogli fare una parabola al di sopra del falò. Onigumo lo prende al volo con una mano, mentre con l’altra trattiene lo spiedo con l’ultimo boccone di carne, per poi finire in fretta la cena.

 

Sfodera la lama, saggiandone il filo sui peli del braccio.

 

“Grazie, vecchio. Non me l’aspettavo! Ne farò buon uso.

 

Le sue parole vengono coperte da un grido violento che viene dagli alberi che circondano la piccola radura dove si sono accampati. Le spalle di Onigumo sussultano, e la lama del pugnale gli incide la pelle, lasciando sgorgare un filo sottile di sangue. Onigumo esplode in un’imprecazione, mentre l’urlo selvaggio si ripete e viene ripreso. Il vecchio scoppia a ridere, indicandolo col dito come se avesse assistito a uno scherzo particolarmente divertente.

A Onigumo sembra di vederlo sputacchiare alcuni pezzetti di carne impastati di saliva. Sibila, sfrigolando di rabbia.

 

“Maledetti babbuini. Bestie schifose, questa foresta ne è piena. Devo riuscire ad ammazzarne qualcuno, prima che finiamo di attraversarla. Già.”

 

Ma il vecchio – con grande fastidio di Oniguimo – continua a ridere e ad additarlo, per poi strozzarsi col boccone fino a diventare paonazzo, e da ultimo liberandosi la gola con un rutto vigoroso.

Pulendosi il naso gocciolante col palmo della mano, il vecchio lo apostrofa, singhiozzando per le risate.

 

Ma, Oniugumo. Perché vuoi uccidere i tuoi amici babbuini, eh? Se fossi uno houshi, direi che ti sono fratelli in spirito.Non dovresti volere far loro del male …”

 

Il labbro superiore di Onigumo si solleva, scoprendo un po’ i denti.

 

Cosa stai dicendo, vecchio pazzo?”

 

Il vecchio assume un’espressione furba, calmandosi.

 

“Hai ragione, Onigumo. Scusa, a volte dimentico che sei molto giovane; dev’essere perché non lo sembri quasi mai.

“Veramente non conosci la reputazione dei babbuini? E’ vero, sono bestie disgustose, specialmente i più grossi tra i maschi. Forse solo la iena è più odiosa. Sono bestie crudeli e avare. Non si può dire che siano intelligenti, sono solo animali in fondo, ma incredibilmente astuti, pronti ad attaccare quando sanno di poter abbattere una preda, ma a fuggire subito se si sentono in pericolo. Vili e scaltri. Dotati di tutti i vizi dell’uomo, e di nessuna delle sue virtù!”

“Insomma, ti assomigliano proprio, Onigumo!”

 

Il vecchio ridacchia ancora un po’.

 

“Ho capito. Me ne ricorderò, vecchio!”

 

“Oh, su, Onigumo! Non ti sarai offeso, adesso, vero? Stavo solo scherzando, lo sai.”

 

“Non preoccuparti, vecchio.” Lo interrompe il giovane, alzandosi in piedi. “Quel che hai detto è vero. Non sono arrabbiato. Anzi, mettiti pure a dormire. Farò io il primo turno di guardia. Sarai stanco.

 

“Ho viaggiato sul cavallo tutto il giorno. Non sono stanco. E poi, oggi è …”

 

“Sì, lo so, il mio compleanno. Fa lo stesso, vecchio. Dormi pure. Mi hai già fatto un regalo. E’ sufficiente.”

 

 

Onigumo ha atteso tre ore, l’orecchio proteso ad ascoltare il respiro regolare del vecchio, per accertarsi che fosse immerso nel sonno più profondo. Ha ascoltato. Ha atteso.

 

“Potrei mentire, vecchio. Lo sai che potrei farlo, ma noi ci conosciamo troppo bene.

 

Un’altra goccia di sangue si allunga, si tende e si stacca dalla punta del suo nuovo pugnale, cadendo al suolo senza un rumore. Il falò è spento, ma la debole luce della luna è sufficiente per scorgere la seconda, nuova bocca del vecchio – uno squarcio preciso alla gola che se ne va da un orecchio per arrivare all’altro – e la pozzanghera di sangue che la terra sta già assorbendo.

 

“Sì, potrei dirti che ho vendicato la mia gente, mia madre e i miei fratelli. Ché noi sappiamo entrambi cosa accadde quella notte. Vi lasciaste prendere la mano. E’ così che ti piaceva ripetere, vecchio.

 

Onigumo piega le ginocchia, poggiando il peso sui talloni e fissando gli occhi vitrei e aperti del cadavere, la faccia a pochi centimetri da quella del suo mentore. Gli istinti del vecchio erano più affilati di quanto pensasse, nonostante l’età. Si era quasi svegliato in tempo.

 

Ma ti risparmierò queste bugie dappoco. Tanto lo so che non ci crederesti. Avevo già deciso da tempo quale sarebbe stato il regalo per il mio sedicesimo compleanno. Non mi servi più, vecchio. Mi hai insegnato tutto quello che potevi, tutto quel che sapevi. E’ già da un po’ che non fai altro che rallentarmi. Devo spartire il bottino con te. E perché? Ormai, sono diventato più abile di te, in tutto.

 

Onigumo raccoglie la wakizashi del vecchio. D’accordo, non è una katana, ma di certo è un’ottima arma. Se la assicura alla vita. Intasca la borsa piena di monete che l’altro teneva nella giubba. Poi prende una delle gambe molli del vecchio, e comincia a strattonare lo stivale per sfilarglielo dal piede sinistro.

 

“Un paio di stivali quasi nuovi. Proprio …” un grugnito e una torsione più violenta “… belli. Sono cresciuto, vecchio. Abbiamo la stessa taglia, adesso. Ma dì, non te n’eri accorto?”

 

Onigumo si siede, si sbarazza dei suoi calzari scalcagnati, e prova gli stivali nuovi. “Belli. Già.”

 

Ai margini della radura, c’è legato il cavallo che si sono procurati di recente. E’ un gran bel cavallo. Sono stati fortunati. Beh, il vecchio forse non così tanto, si corregge mentalmente Onigumo. Il destriero si agita nervoso. Starà sentendo l’odore del sangue. Onigumo scioglie i legamenti che lo imprigionano al ramo robusto, e prende in mano le redini. Il cavallo gli si oppone, nitrendo piano e scartando. Onigumo strattona il morso con gioiosa violenza, più volte, i denti stretti per la soddisfazione, finché una spuma bianca si rapprende sul muso dell’animale e il cavallo non si lascia condurre, domato.

 

Ripassa davanti al cadavere del vecchio, per imboccare il sentiero che esce dalla radura. Ha deciso di allontanarsi. Vuole essere fuori dal bosco prima dell’alba. Era un’idea del vecchio, quella di attraversare la foresta. Lui ha altri piani. Altri posti da visitare. Altre cose da scoprire. E adesso, con una buona spada, un po’ di denaro, un cavallo e un paio di stivali quasi nuovi; con tutte queste belle cose, non c’è niente che un uomo come lui non possa prendersi. Già.

 

L’urlo dei babbuini si fa sentire di nuovo. Onigumo ride.

 

“Dicono che non ci si può reincarnare, se non si riceve un funerale appropriato, vecchio. Noi sappiamo che sono stupidaggini. Non crediamo a queste cose ridicole. Però, sei stato tu a insegnarmi a non lasciare mai nemici alle spalle. Vedi come ho imparato bene? Sono sicuro che ne saresti orgoglioso.

“Ti lascerò in pasto ai miei ‘fratelli in spirito’, vecchio. Non sia mai che tu ti debba reincarnare e decida di vendicarti di me.”

 

Prima di abbandonare per sempre la radura, Onigumo lancia un’ultima occhiata irritata al morto.

 

“Non si può addomesticare un babbuino. Un vecchio come te avrebbe dovuto impararlo tanto tempo fa.”

 

Per i successivi tredici anni, Onigumo avrebbe vissuto la vita da lui scelta.

 

 

 

Chiodi conficcati nella testa. Come chiodi piantati in testa. Naraku si sfiora il capo con le mani. Male. E’ un genere di dolore quale non ha mai provato, da quando esiste. Geme.

 

Si sforza di aprire gli occhi. E’ sdraiato a terra, supino. Tutt’attorno, macerie. Le case scure e decrepite non sono che un cumulo di macerie, ora.

Il dolore nella testa pulsa rovesciandosi in tutto il corpo.

Non riesce a ricordare. Ha inseguito Onigumo. E poi?

 

Rabbia. E’ difficile, così maledettamente difficile trattenerla. Ma è necessario.

Era sempre stato così sicuro della compiutezza della sua vittoria su Onigumo.

 

Si rovescia prono, così da poter far forza sulle braccia per sollevarsi. Lo sguardo gli cade su qualcosa che gli fa tornare una parvenza di buon umore. Dell’icore verdastro insozza le lastre di pietra, lasciando una scia che si allontana e si perde tra i sentieri scuri e i ruderi.

L’ha colpito. E’ riuscito a ferire il kokoro di Onigumo. Si alza in piedi, sforzandosi di ignorare il dolore alla testa. Fissa il cumulo di pietra che era l’edificio nel quale Onigumo si nascondeva.

Cos’è accaduto? Che cosa sta facendo? E se la decisione di combattere questa battaglia fosse avventata?

Con fermezza, scaccia i dubbi, frantumandoli come frantumerebbe ­­­­­­­­il cranio di una serpe sotto il tallone.

 

“Io. Non mi. Fermerò. Adesso.”

Una mano schiacciata sulla fronte, segue la traccia lasciata dal sangue verdastro.

 

 

 

Kanna attende. Non si è più mossa, da quando Naraku le ha ordinato di preparare il suo specchio. Attende, senza alcuna impazienza, senza che alcun bisogno o pensiero la disturbi o la distragga.

E alla fine il tuono che attende arriva.

Il mosaico insensato che è il corpo di Naraku si scuote, scrolla le fondamenta stesse della montagna, leva un grido penetrante, ossessivo, un ruggito accompagnato da una zaffata d’aria tiepida e umida che le fa danzare le vesti e i capelli bianchi.

Come gemme di un albero maligno, grumi di carne si annodano e si gonfiano sotto la pelle multicolore di Naraku, formando bozzi che esplodono subito verso l’esterno, squarciando, straziando, spruzzando fontane di sangue nero.

Le masse di carne, bianche come la polpa di funghi malati che non hanno mai conosciuto il sole, volano simili a proiettili in tutte le direzioni, sbattono contro archi di pietra, contro le pareti; vengono scaraventati tutt’intorno senza sfiorarla.

Uno dei proiettili le passa talmente vicino da poterne catturare i particolari. Assomiglia al neonato di un essere umano, braccia e gambe appena abbozzate, il cranio enorme, senza orbite oculari, la boccuccia minuscola congelata in una smorfia che potrebbe essere un urlo.

 

La pioggia di fetidi feti bianchi dura una manciata di eterni secondi. Il naso di Kanna è colpito da un odore che chiunque altro definirebbe sgradevole – oppure orrendo, o vomitevole. Lei non lo sa, poiché non capisce la differenza tra queste parole. E’ un brutto odore, certo. Nulla di più.

 

Studia con freddezza il corpo di Naraku ancora per alcuni momenti. Kanna è certa che si sia rimpicciolito un poco. Il fluido nerastro gronda dai buchi delle ferite.

 

“Comincia ora. Sussurra piatta.

 

Kanna volta le spalle a Naraku e, lenta, si allontana per proseguire la sua attesa assieme alla sorella Kagura.

 

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Capitolo 16
*** XV ***


Glossario:

Glossario:

 

Aiki: armonia. E’ un concetto giapponese che attiene sia alla filosofia, che alla religione, che alle arti marziali. Armonia tra mente, corpo e cuore, nonché armonia con le circostanze esterne, sia esse di quiete o di combattimento, ecc.

 

Kyujutsu: la via dell’arco. Molto più che la tecnica per tirare con l’arco. L’arco fu, prima della katana, l’arma che davvero contraddistingueva la casta dei samurai.

 

 

E’ in arrivo la tempesta.

 

Kikyou ne sente l’odore, nell’aria. E’ pomeriggio, tardi, e il buio è già fitto. Rabbrividisce.

E’ inquieta, e stanca, e sente che sta andando alla deriva. E va benissimo così.

 

Sì, la stanchezza è dovuta all’aura del Monte Hakurei. Il cavallo trotta sicuro su per il sentiero sassoso, per nulla spaventato dallo strapiombo alla sua sinistra, e la sta portando sempre più addentro all’area sacra che affligge – strano come sia proprio questa la parola che le viene alla mente, affligge – i luoghi nei quali Naraku ha deciso di nascondersi. E il suo corpo forgiato da oscure stregonerie, ne viene appesantito, intirizzito.

 

Sì, l’inquietudine nasce al pensiero di quel che starà facendo Suikotsu in questo preciso momento. Il mercenario morto, con l’anima divisa in due; il guaritore e l’assassino.

Il tormento che lo rende pazzo, presto giungerà alla sua apoteosi. E lei dovrà esserci, quando succederà. Lui ne ha bisogno, e lei altrettanto.

 

Perché, sì, sta andando alla deriva, consumata, sfinita. Sparisce un po’ per volta, e che sollievo ne prova!

 

Rivede nella mente, per l’ennesima volta, gli scorci dello scontro tra i mercenari venuti a prelevare Suikotsu e il gruppetto di Inuyasha.

 

Inuyasha.

 

Pensare il suo nome non fa più tanto male. Persino la Furia si sta attenuando, assieme a tutto il resto. Non ha più molto di cui sfamarsi. I pochi avanzi di ciò che lei era sono ridotti a ben misera cosa, ormai.

 

C’è un gorgo che la risucchia, che la sta portando via, divorandola. Non dovrà attendere ancora molto. Presto, la donna che un tempo era conosciuta come Kikyou non esisterà più. Resterà solo la miko custode della Shikon no Tama. Quel che le serve a finire la sua ricerca, ultimare il suo dovere lasciato in sospeso. Tutto il resto – l’odioso fardello che serve solo a farla soffrire – sarà presto polvere dimenticata, buona solo per essere calpestata dagli uomini.

 

Perciò, non era stato poi così terribile, riprendere i sensi, dopo la battaglia, con addosso gli occhi di Inuyasha e degli altri.

 

Solo, non guardarlo.

 

Non era stato poi così terribile, rivolgergli la parola, ed essere soppesata, con un misto di pietà, diffidenza, sconcerto.

 

Solo, non parlarmi.

 

Non era stato poi così terribile, rimangiarsi il suo proposito e cercare il suo volto e quegli occhi dorati che non smettevano di fissarla, pieni di paura, paura per lei.

 

Solo, non guardarmi. Non ridotta in questo stato ricorda com’ero lasciami viva. Almeno nei tuoi ricordi.

 

Non era stato poi così terribile, neppure dover affrontare la gelosia malata che divorava la ragazza del futuro, la sua reincarnazione, e vedersi riflessa in uno specchio deforme.

 

Che scherzo, che scherzo crudele e contorto, ragazza del futuro, già te lo dissi e dopo tutto questo tempo ancora non lo capisci!

Non è fatto per te; questo amore non è il tuo, è mio. Ma tu non hai la forza, la disciplina e la costanza per badarvi. Ti sta rosicchiando, ragazza del futuro. Tu non sei fatta per contenere una simile cosa. Tu non hai idea. L’amore è crudele, l’amore è duro, non è quel di cui raccontano i cantastorie e …

 

Kikyou sospira. Non riuscirà a districare la tela di follia nella quale sono tutti invischiati. Per colpa sua. Tutto pesa sulle sue spalle perché, come sempre, è tutta colpa sua. Poi, una fiammata di fierezza le fa rizzare la schiena che non si era accorta di aver piegato.

 

Stai ridendo, Kami? Stai ridendo, Okuninushi? E tu, mio assassino? Lo trovate divertente? Ve ne farò pentire! Non pensiate che sia così facile sconfiggermi! Vi farò rimangiare tutte le vostre risate!

 

Ma la nebbia grigia che si sta infittendo dentro di lei stempera presto il suo sussulto.

 

Si riscuote, consapevole di una presenza potente alla quale si sta avvicinando con rapidità. D’istinto, si lascia scivolare l’arco in mano.

 

Non c’è tempo per comprendere appieno la scena che le si presenta voltata l’ultima curva. C’è solo il tempo di agire, prima che Suikotsu affondi le sue lame micidiali nella piccola gola della bambina.

 

Kikyou sfila una delle frecce dalla faretra, e incoccandola, lascia accadere quel che sempre accade. Il tempo si ferma. Nulla più esiste, se non il presente. Non più dolore, né trepidazione, né amore né smarrimento. Nulla, mentre vive all’interno di un attimo perfetto. E risente ancora una volta le parole del suo vecchio sensei, quando lei stessa altro non era se non una bambina, anche se non una bambina come le altre.

 

 

Aiki. Ricordi che ne abbiamo parlato, Kikyou?”

 

Lei annuiva. “Sì, sensei. L’armonia.”

 

Camminavano lenti, calpestando il sentiero ben curato del giardino che racchiudeva, come un anello, il tempio di cui il suo sensei si occupava.

 

“Esatto. Aiki. L’armonia della mente e del corpo con tutte le cose. Poiché tutte le cose sono misteriosamente intrecciate a tutte le altre. Lo comprendi, Kikyou?”

 

“Sì. Tutte le cose sono unite nella musica del Fato.

 

Il capo del sensei si era girato di scatto, il collo aveva scricchiolato, e l’aveva fissata con attenzione.

 

E chi te l’ha detto, questo, bambina?”

 

Kikyou aveva scosso le piccole spalle. “Nessuno. Ma è così. L’aveva detto con la spiccia sicurezza di un bambino che ripete un fatto assodato.

 

Erano dovuti passare anni, prima che Kikyou comprendesse la ragione dello spasmo di compassione che aveva deformato i lineamenti del suo sensei.

 

Dunque, l’hai capito da te sola, vedo.”

Per un po’ il sensei aveva taciuto, tanto che Kikyou si era chiesta se fosse stata inopportuna o scortese. Stava per scusarsi, pur senza saperne il motivo, quando il silenzio era stato rotto.

 

Quando sarai in grado di fare un perfetto silenzio dentro di te, e né paura, né desideri, né gioie, né turbamenti disturberanno il tuo orecchio, sarai perfetta. L’armonia, l’Aiki, ti permetterà di articolare appieno i tuoi poteri.

 

“Ho capito, sensei.”

 

“No, non hai capito, ancora. Non passeranno molti anni prima che sia tu a insegnare a me, Kikyou. Ma adesso è presto. Se vuoi comprendere, dovrai imparare la via dell’arco. Sì, il Kyujutsu è la strada che dovrai percorrere, quella per te più congeniale. Fino a quando non padroneggerai Kyujutsu, io non ti insegnerò nulla.”

 

La bambina che Kikyou era stata aveva provato un tuffo al cuore a quelle parole, tanto da permettersi di replicare. La voce le era tremata a un passo dal pianto; sicura di venire punita per aver detto qualcosa di brutto.

 

Sensei, la … la via dell’arco? Ma io non sono stata affidata a voi per questo! Perdonatemi se ho parlato a sproposito. Non succederà più, davvero! Starò più attenta! Non volevo mancarvi di rispetto! Io …”

 

Il sensei l’aveva zittita levando un dito severo, senza abbassare lo sguardo su di lei; ma aveva anche sorriso con divertita dolcezza, e questo l’aveva acquietata.

 

“Bene. Vedo che, nonostante tutto, sei pur sempre una bambina. Questo è consolante.” Kikyou era rimasta senza parole nel sentire il vecchio sensei ridere piano. Era arrossita e si era trattenuta per un soffio dal battere i piedi per terra – sarebbe sprofondata in un abisso piuttosto che confermare a quel modo le parole del suo sensei.

 

“Non temere, bambina. Capirai presto. Nessuno, più di un maestro arciere, può sapere come tutte le cose distinte siano intrecciate pur nella loro irriducibile unicità. Perché solo chi percorre Kyujutsu può conoscere appieno

 

 

… l’istante perfetto nel quale tutto svanisce ed esiste solo

 

… la mano che ferma tende la corda dell’arco

 

… che sta fermo ad accogliere la freccia

 

… che si lascia scagliare a fendere l’aria, leggiadra e fulminea verso il bersaglio

 

… che viene colpito.

 

Ed essere, in quel solo momento, il vigore della mano che tende, la saldezza dell’arco che sta fermo, la libertà della freccia che vola, e il dolore del bersaglio ch’è colpito.

 

Armonia.

                                                   

L’esultanza del divenire una cosa sola col tutto, mentre scocca la freccia – non con le mani ma con tutto ciò che sono – neppure la morte ha potuto togliergliela.

 

La freccia sacra si fa strada nella carne della gola di Suikotsu, la punta tocca la scheggia della Shikon no Tama che solo lei e la sua reincarnazione possono vedere, il mercenario cade all’indietro senza un suono, paralizzato, mentre i suoi poteri interferiscono con quelli della sfera.

 

Il tempo ricomincia a scorrere.

 

Con fatica, come un’inferma, Kikyou scende da cavallo. L’aura sacra le impaccia i movimenti.

Ma questo non è importante. Raggiungere Suikotsu lo è.

 

Ma per farlo, deve oltrepassare la creatura.

Lo youkai bianco che le volta le spalle e non si è più mosso da quando lei ha colpito il mercenario.

Riconosce il suo youki. E’ lui ad aver combattuto contro Naraku assieme a Inuyasha. Ed è venuto fin qui per abbattere colui che ha osato sfidarlo.

 

Kikyou si chiede per quale ragione Naraku abbia deciso di farsi un così poderoso nemico. Cosa ha visto in questa creatura, ad aver catturato il suo interesse? Decide che può servirle saperlo, e punta gli occhi sullo youkai, permettendo all’Aiki di impadronirsi di lei e guidare il suo sguardo.

 

I suoi sensi sono colpiti subito da una frustata incandescente. Il potere di lui la investe in pieno. Se fosse viva, il dolore la costringerebbe con tutta probabilità a interrompere il suo esame. Ma la morte l’ha resa, in questi misteri, ancora più forte di quanto era un tempo. Così, nei brevi secondi che le servono per coprire i pochi passi che la condurranno a lasciarsi la creatura alle spalle, ha il tempo di sondarla.

 

Lo youkai è impeccabile, nella forma, nelle proporzioni e nella maestà ma è …

Monco.

Non è monco solo perché la manica sinistra della sua veste bianca penzola vuota. No. E’ …

Impeccabile, nella sua imperfezione. Che tale sia la ragione per la quale Naraku ha deciso di sfidarlo?

 

L’intensità dell’ira dello youkai è pari solo alla ferocia con la quale la trattiene.

Lei lo ha umiliato in maniera intollerabile. Ha salvato la vita di quella che è la sua protetta. E’ come se lo avesse schiaffeggiato mostrandogli un suo limite, e lo ha reso suo debitore. Lo youkai bianco vorrebbe farla a pezzi per questo, lei lo capisce subito, ma il suo onore non glielo permette.

 

Tuttavia, questa ira è superficiale. Al di sotto ce ne sono altri strati, sovrapposti; fissandolo meglio, Kikyou se ne accorge. Proprio come deve avere fatto Naraku tempo addietro, oltrepassa le barriere che lo youkai crede inviolabili.

 

Prima, una conferma; proprio come immaginava. Inuyasha gliene accennò solo una volta.

Fratelli.

Il fratellastro di Inuyasha. Ma Kikyou aveva capito già allora che toccare quel tasto sprofondava l’hanyou in un umore tanto cupo che, a confronto, il suo solito atteggiamento pareva quasi allegro.

E lo stesso deve valere anche per … Sesshoumaru, così si chiama.

Tanto dissimili quanto simili.

Il magma incandescente dell’ira dello youkai è esplosiva. La sola idea che il suo youki, puro, immacolato, poderoso, sia lo stesso che scorre nel corpo di uno hanyou; che il suo youki sia mischiato con del sangue umano, del sangue mortale, deve farlo impazzire.

 

E ancora più a fondo. Ormai il potere della vista si è impadronito del tutto di Kikyou; non può più troncare questa indagine fino a quando non giungerà alla fine, neppure se lo volesse. E non vuole, non finché non avrà visto ciò che ha spinto Naraku a scegliersi un tale, temibile nemico.

Smisurato orgoglio ferito. Perché non solo il padre ha deciso di dissipare il suo lignaggio mischiandolo con quello di una insulsa creatura mortale: ha anche lasciato il vessillo della sua eredità al frutto di questa unione blasfema.

 

Kikyou leva un sopracciglio. Più vicina alla risposta.

La spada …

L’ira e l’umiliazione dello youkai sono cresciute a dismisura fino a quando sono diventate mature, e Naraku ne ha raccolto i frutti.

 

Imprigionandolo.

 

La spada dello youkai. Kikyou ha riconosciuto l’aura della lama, anche se questa è stata sottomessa.

 

E lo youkai non capisce. Fino a quando l’ira sepolta nei confronti del padre lo spingerà a tradire in tal modo la sua discendenza, a umiliarla, a voltarle le spalle; fin quando si abbasserà a portare al fianco una spada forgiata dalle zanne di colui che disprezza con ogni fibra del suo essere, non potrà mai essere completo. Mai integro.

Impeccabile, nella sua imperfezione. Imprigionato nel suo unico bisogno.

Astuto come sempre, Naraku.

 

Ma, proprio mentre Kikyou fissa quell’unica macchia che, ora ne è certa, ha subito conquistato l’attenzione del suo assassino, spingendolo a giocare con lo youkai … capisce fino in fondo e deve trattenere con decisione una risatina. Ridere non sarebbe una decisione saggia, oh no.

 

Sì, Naraku, gelosia e rancore. Tu li conosci molto bene, non è vero? C’è colui che ti ammaestra di gelosia e rancore, ogni giorno, e ti tormenta senza posa, senza che tu neppure te ne accorga. Oh Naraku, nonostante tutta la tua astuzia e la tua saggezza, a volte sei ridicolo quasi quanto la mia reincarnazione!

 

Sorridendo segretamente tra sé, Kikyou oltrepassa Sesshoumaru senza degnarlo di una seconda occhiata.

 

 

E’ il fetore a essere intollerabile. Può sopportare tutto il resto. La presenza degli umani – morti, eppure innaturalmente vivi. L’aura spirituale che osa insidiare il suo potere, appannandolo. Forse persino il fatto che debba la vita di Rin a questa aberrazione. Ma la puzza. La puzza è intollerabile.

 

Non la puzza della morte che è abituato a distribuire. La puzza delle anime, di queste mutilate anime umane. Gli fanno rimpiangere per un secondo di essere ciò che è e ciò che è sempre stato.

 

 

 

Era accaduto alcuni giorni dopo che la bambina era stata resuscitata da Tenseiga.

 

Si chiama Rin. La bambina si chiama Rin.

 

Il pensiero era sorto con semplicità repentina, così come molti dei suoi pensieri. Come una bolla d’aria imprigionata nell’acqua, che sale veloce, inarrestabile, verso la superficie di un lago, per esplodere in un attimo e svanire subito.

 

Aveva accettato la precisazione impostagli dalla sua mente, lasciandosela scorrere addosso con indifferenza. La bambina si chiama – deve essere chiamataRin.

 

L’odore pungente dello sconcerto di Jaken. Le occhiate di sottecchi che gli lanciava. In quei giorni, era arrivato addirittura ad aprire la bocca per rivolgergli delle domande – ma poi aveva preferito rinunciare.

 

Sesshoumaru avrebbe voluto ordinargli di smettere: smettere di infastidirlo con l’odore del suo stupore, smettere di porsi domande; ma questo sarebbe stato un segno di considerazione che il servitore assegnatogli da suo padre non meritava.

 

La palude si stendeva vasta sotto il suo sguardo, a un paio di chilometri dalla cima della collina che avevano appena scalato.

 

Le lingue di terra solida si alternavano e si intrecciavano a canali d’acqua brunastra, alberi bassi e storti cedevano il passo a laghetti colmi di ninfee e giunchi. I colori sgargianti di molti fiori punteggiavano il plumbeo verde e marrone della vegetazione morta e delle sabbie mobili.

 

Jaken aveva sibilato di esasperazione. “Ora dovremo tornare indietro e cercare un passaggio più …”

 

“Andiamo.” Lo aveva interrotto Sesshoumaru, riprendendo il cammino.

 

Jaken aveva osato mormorare un Sesshoumaru-sama, ma il cucciolo umano …

 

Sesshoumaru aveva voltato il viso liscio e impassibile per sfiorarlo con la coda dell’occhio.

 

Jaken aveva serrato la bocca così in fretta da fargli udire lo schiocco del suo becco.

 

Mentre l’umidità nell’aria di quella giornata uggiosa aumentava, via via che i loro passi li avvicinavano al bordo della palude, aveva sentito crescere dentro di sé una sensazione di attesa quale lo coglieva assai di rado.

Come sempre faceva in quei frangenti, aveva lasciato che le cose si limitassero ad accadere.

 

La strada si srotolava davanti a loro, diventando via via un sentiero contorto e appena accennato. Una nebbia alta solo poche dita indugiava alla base degli alberi dalle cortecce lucide e umide. L’odore di fango, putrefazione, acqua stagnante gli aveva solleticato le nari.

 

La bambina chiamata Rin aveva rabbrividito, stringendosi un po’ nel chimono, precedendoli nel cammino di un metro o due, voltandosi a ogni suono, gli occhi sgranati.

 

Gli alberi si erano fatti più radi, e la vegetazione del sottobosco più folta e più ricca.

Cespugli di azalee, edera, e fiori, enormi, di una moltitudine di colori, gialli, violetti.

Ronzio continuo di insetti, richiami di uccelli, gridi di piccoli animali. Qualcosa che si dibatteva in un acquitrino. Un lamento strozzato subito svanito.

 

I profumi delle cose vive e morte si intrecciavano saldi quanto più i tre si addentravano nella palude senza nome.

 

Dapprima, Rin si girava ogni poco verso di lui, sorridendo titubante. Dopo un’ora di cammino, aveva smesso quasi del tutto di farlo, rapita dallo spettacolo della vegetazione lussureggiante, esplosiva, che li circondava.

 

Una grossa libellula era sbucata volando dalle ombre, le ali che frullavano pazzamente, per poi sfrecciare via.

 

Rin aveva lanciato un gridolino sorpreso e, senza attendere un momento, si era messa a correre appresso alla libellula, infilandosi tra un ontano e un cespuglio di orchidee e svanendo dalla vista.

 

Il semplice movimento del polso col quale Sesshoumaru aveva zittito Jaken una seconda volta era stato un mero movimento istintivo, mentre lasciava che i suoi sensi si dilatassero.

 

Solo nel momento in cui Rin aveva iniziato a correre, sottraendosi al suo sguardo, si era reso conto che, da quando erano entrati nella palude, aveva seguito ogni singolo gesto del cucciolo – della bambina.

 

I movimenti del capo, l’elasticità del passo, come i capelli si stessero pian piano appiccicando a causa dell’aria palustre che non poteva certo sfiorare lui; il battito del cuore che accelerava o rallentava a seconda di quel che Rin sentiva e vedeva. E, più di tutto, l’odore.

 

Nel momento in cui la bambina chiamata Rin era corsa appresso alla libellula che aveva catturato la sua attenzione, i sensi di Sesshoumaru l’avevano seguita, e un mondo nuovo gli si era schiuso.

 

Coglieva il rumore lieve dei passi di Rin, che lo informava di cosa la bambina stesse calpestando e della lunghezza della sua falcata.

L’aria mossa dai movimenti di lei creava invisibili correnti che rimbalzavano e si torcevano, sfiorando le sue vesti e la pelliccia della coda.

Non c’era alcuna paura nell’odore di Rin, ma solo curiosità e stupore …

 

e ora è in una radura. Tra i rami degli alberi che la circoscrivono, nidi di uccelli. La libellula volata via. Altri insetti. Cammina a passo svelto. Odore di erba schiacciata dai suoi piedi minuscoli. Non corre. Il terreno vibra in un certo modo, quando si inginocchia. Cosa sta fissando? L’aroma di alcuni funghi. L’odore di questi funghi, è un veleno per gli esseri umani. La conoscenza gli si presenta spontanea, senza che lui sappia da quale angolo della sua mente sia venuta, e lui la accoglie come tutto il resto di quel che gli si sta spalancando davanti. Il corpo di Rin si tende. Emana un odore, non di paura, ma di tensione e cautela. Dunque, sa che il fungo è un pericolo. Dunque, lui non ha bisogno di intervenire. Rilassa le dita eleganti che aveva contratto d’istinto. Altre misteriose correnti nel vento lo sfiorano, più lievi del tocco di ali di farfalle, mentre la bambina chiamata Rin si rialza, l’attenzione catturata da un altro mistero, e si allontana di corsa di qualche altro metro. Qualcosa si è mosso tra i cespugli al di là della radura. Un piccolo roditore che fugge; puzza di paura addosso

 

Mentre raccoglieva queste impressioni, nuovi suoni prima inuditi si erano presentati al suo orecchio, nuovi odori sconosciuti si erano fatti conoscere …

 

… ecco una goccia. Si stacca dal petalo di un fiore giallo – lo avverte dall’odore. La vibrazione della goccia che cade si propaga a sfiorare la sua pelle. Si schianta a terra. Sesshoumaru riesce quasi ad avvertire i singoli frammenti nei quali si disintegra prima di svanire.

Un rospo, a circa un centinaio di metri, fa guizzare la lunga lingua ruvida e in un attimo ingoia la libellula che era stata inseguita da Rin. Con un balzo si tuffa in acqua.

Gli animali e gli youkai che popolano la palude si sono nascosti avvertendo il pericolo della sua presenza. Lui lo sa e non se ne cura. Ma adesso non solo conosce ogni singolo nascondiglio nel quale hanno deciso di rintanarsi. Adesso, le correnti che lo accarezzano lo tengono informato di ogni loro singolo movimento, compreso quello lento del respiro che cercano di soffocare per non farsi trovare.

Adesso, lui sa, mentre prima non sapeva, che anche i colori hanno un odore. La forza intensa del rosso, la pazzia del giallo, il ciclico mutare del verde.

Non sa nulla degli esseri umani, se non che è semplice ucciderli, ma adesso conosce tutto quel che può nuocere alla bambina chiamata Rin – e come sventarlo.

 

Nello spazio di tre passi, il mondo nuovo che gli si apre davanti diventa il mondo che conosce da sempre.

Lascia che anche questo accada, secondo le parole di suo padre.

 

Sesshoumaru, tu sai che il tempo ci trascina con noi, come fa con tutte le altre creature che popolano questo mondo. E sai però che non ha potere su di noi, poiché noi esistiamo dentro e fuori del tempo.

 

Sesshoumaru lo aveva sempre saputo, così come sa da sempre tutto ciò che conosce. Il mondo nel quale lui esiste soggiace al tempo e al suo movimento. Le creature inferiori chiamano questo fenomeno, passato, presente, futuro. Parole prive di senso, per quanto lo riguardano.

 

Lui esiste all’interno di ciò che è chiamato presente, ma al tempo stesso all’interno di ognuno dei momenti conosciuti come passato. Hanno per lui la stessa qualità e il medesimo significato, sono ugualmente reali e tutti stesi davanti a lui, un’infinita teoria di istanti all’interno dei quali lui vive.

 

Sì, il tempo non ha alcun potere su di noi, Sesshoumaru, ma sappi che questo è vero solo per noi inuyoukai. Sugli altri youkai, al contrario, così come sugli esseri umani, il tempo esercita la sua potestà.

 

Sesshoumaru se ne era stupito. Era convinto che questo valesse solo per le creature mortali, che solo loro fossero assoggettate alla tirannia del tempo. Poi, aveva accettato le parole di suo padre, ricavandone ancor più la convinzione della propria ineguagliabile superiorità.

 

Sappi anche, Sesshoumaru, che esiste un luogo nel quale il tempo ha potere persino su di noi.

 

Questo aveva turbato Sesshoumaru. E poi, l’impensabile era accaduto. Suo padre era stato …

(contaminato dal tempo)

…congelato in un attimo del tempo dal quale non si sarebbe potuto sottrarre. Mai più.

 

Un ringhio dal fondo della gola.

 

E prima che questo accadesse

(a causa di questo)

… si era mischiato; aveva mischiato il suo sangue, la sua schiatta, con quello di una creatura schiava dello scorrere del tempo.

Sesshoumaru era certo che fosse questa la ragione per la quale il tempo lo aveva … infettato.

 

Poiché il tempo non ha alcun potere su di lui, ciò che non era fino a un attimo prima, è ciò che è da sempre e ciò che sarà per sempre.

 

E poiché lui esiste in ogni istante che forma la sua esistenza, da quando sua madre lo ha collocato nel mondo, conosce ciascuno degli odori dei colori che ha annusato durante tutti i secoli della sua esistenza. E ode tutti i suoni che il suo udito più affilato è stato capace di cogliere. E avverte ogni bisbiglio e respiro che mai lo abbia lambito.

 

Poiché noi, Sesshoumaru, siamo coloro che cambiano senza cambiare mai.

 

 

Nelle ore seguenti, Sesshoumaru non aveva trovato affatto strano che la bambina chiamata Rin si allontanasse sempre più spesso da lui, lasciandosi raggiungere di tanto in tanto per poi andare a esplorare ora un laghetto intravisto tra gli alberi ammantati di muschio, ora a scoprire la provenienza di un suono ignoto.

Eppure, Sesshoumaru sapeva che il comportamento della bambina era inusuale. Un cucciolo umano, in un ambiente del genere, sarebbe dovuto essere più timoroso.

Ma da dove nasceva questa sapienza? Da quando conosceva queste cose sugli esseri umani?

Da sempre. E per sempre.

Per un attimo, uno degli infiniti attimi che formano la catena della sua esistenza, aveva sperato che la bambina chiamata Rin mettesse un piede in fallo, cascasse in un pozzo di sabbie mobili, precipitasse in un fosso profondo, affogasse in una pozza d’acqua putrida. In quell’unico attimo, avrebbe permesso che succedesse. Per la prima volta si era di ritrovato incerto se lasciare venire o meno alla luce una parte di sé.

 

Ma la sensazione del ferro che lacera. Carne, muscoli e ossa – la zanna di suo padre, impugnata da Inuyasha, che gli stacca il braccio. Perduto. Non ha importanza. Vive allo stesso modo gli istanti  nei quali possiede due braccia, e quelli nei quali ne possiede uno solo. Ma non potrà tollerare di conoscerne altri …

(futuri e già passati)

… nei quali dovesse ripetersi un simile evento. Affinché questi istanti che le creature inferiori chiamano futuro non debbano mai concretarsi, la bambina è, in un qualche misterioso modo, necessaria.

E dunque, accada ciò che deve.

 

 

La bambina chiamata Rin era ora sul bordo di un pozzo nero. Liquido scuro, oleoso, surriscaldato da misteriose correnti sotterranee; frutto di cose morte decine di millenni prima, pronto a catturare le creature viventi, spogliandole del loro guscio di fragile carne e lasciando imprigionate le ossa, intatte in immutabile attesa.

 

Rin, cauta, era sporta a osservare questa inimmaginata novità, la pelle sudata per la curiosità e la soggezione non meno che per il calore, quando il liquame nero e bollente era parso scoppiare, il corpo dello youkai ivi immerso si era proiettato fuori, un gigantesco lombrico, molle, cieco, affamato, bocca sdentata ma letale. La bambina era cascata a sedere urlando, le mani schiacciate sulla faccia, schizzi bollenti a ricaderle attorno, incolume per mero caso.

 

E lui era troppo lontano. Aveva lasciato che la distanza con la bambina chiamata Rin si facesse troppo grande, e ora neppure lui sarebbe stato capace di colmarla in tempo.

Le sue gambe erano scattate, trasportandolo quasi di loro propria volontà in direzione del pozzo nero. E fasce di muscoli di cui neppure sospettava l’esistenza avevano fatto forza, scagliandolo come una folgore bianca … e l’esaltante sensazione di squarciare la stessa aria, come se questa fosse troppo lenta per scostarsi al suo passaggio, e il ringhio di frenesia e ferocia che gli aveva teso le labbra … e una cosa che aveva detto una volta a Inuyasha …

(quanto sei veloce, quando devi proteggere quella femmina umana)

 

… e non c’è tempo a sufficienza … ma questo non importa … perché il suo eterno nemico non ha né mai avrà potere, no, non su di lui, su chiunque altro forse, ma mai su di lui, mentre il suo youki si dilata e la mangrovia che sta sul tragitto che sta divorando si disintegra in una manciata di pagliuzze prima che lui anche solo la sfiori, e ora lo youkai emerso dal pozzo nero si immobilizza nello sconvolgente terrore di percepire la furia della folgore bianca che sta trapassando il cuore della palude per annientarlo.

Sesshoumaru legge nella tensione del corpo vermiforme l’intenzione di ritirarsi e fuggire da dove è venuto ma non c’è tempo. Non per una creatura che del tempo è schiava, una cosa inferiore, fatta solo per strisciare. E. Non. Per. Questo!

 

Lo youkai si sbriciola, mentre la sua mano gli trapassa le carni molli e con una torsione del braccio lo manda in frantumi.

 

I suoi piedi posati sul bordo del pozzo, vicino alla bambina che ancora grida di paura, il suo corpo tornato nella quiete dell’immobilità prima che gli ultimi brandelli dello youkai ricadano nel liquame dal quale è uscito.

 

E aveva poggiato appena le punte degli artigli sporchi di sangue alle labbra.

“Avevate ragione, padre. E’ un sapore diverso.

 

E poi.

 

“Basta così, Rin! E’ tutto a posto.”

 

La bambina chiamata Rin aveva scostato le manine dal viso, gli occhi bagnati di pianto.

Ma appena lo aveva guardato e si era resa conto che non c’era più alcun pericolo, aveva sorriso, le lacrime avevano smesso di scorrere, si era alzata da terra e gli aveva carezzato gli hakama.

 

Il primo istinto di Sesshoumaru sarebbe dovuto essere quello di por fine alla vita della bambina per avere osato una cosa del genere; sarebbe dovuto, ma non era stato. C’era solo un vago disagio, come se mancasse qualcosa.

Non si era chiesto la ragione per la quale la bambina fosse diversa dagli altri esseri umani; si era limitato a sollevare con lentezza il braccio, puntando l’indice nella direzione del pozzo.

La bambina aveva seguito con attenzione il suo movimento e quando lui aveva detto quell’unica parola “Salta. non aveva esitato.

 

Si era girata, si era rannicchiata e aveva spiccato un balzo in direzione del pozzo colmo di liquame, e solo quando la spinta si era esaurita e aveva cominciato a precipitare, Sesshoumaru l’aveva afferrata per la collottola con un pigro movimento del braccio, per posarla a terra al suo fianco.

 

Scrutando gli occhi di Rin, vi aveva letto solo una fiducia e un’adorazione cieche e assolute.

Nulla di meno di quanto gli spettasse.

E la tranquilla certezza che niente le potesse nuocere.

Come era giusto che fosse. Poiché nulla, nulla avrebbe mai più potuto toccare Rin, salvo che lui e lui solo decidesse altrimenti.

 

Non c’era stato più nessun fastidio, quando Rin gli aveva accarezzato gli hakama una seconda volta. Ora era permesso.

 

E un altro odore nuovo si era fatto scoprire, ancor più misterioso di quello dei colori. Il suo naso era stato colpito dal profumo.

Stupito, si era scoperto capace di carpire l’odore dell’anima degli esseri umani, la misteriosa sostanza di cui gli youkai sono privi.

Orgoglio e un vago timore gli si erano attorcigliati dentro, per poi scemare, poiché …

… lui conosce l’odore delle anime di tutti gli esseri umani che hanno incrociato il suo cammino, da sempre, quelli che lui ha ucciso, coloro che ha ignorato, quei pochi tanto folli da averlo sfidato; il profumo (mughetti gettati in un falò) dell’anima della donna mortale con la quale il padre si è congiunto, perfino quella del suo fratellastro.

 

E questa è la prima volta, in tutti i suoi secoli, in cui fiuta una tamashii che non conosce timore per la propria mortalità.

 

Aveva annuito in silenzio davanti a quel dovuto omaggio.

 

 

 

Ma in questo ora ciò che è lo condanna a un imprevedibile supplizio. Poiché il tanfo raccapricciante  delle anime dei due morti viventi è più di quanto persino lui possa sopportare.

 

Colui che ha quasi ucciso Rin ed è steso a terra con una freccia piantata nella gola, è simile a un albero colpito da un fulmine, spaccato in due; vivo nonostante la morte, a contorcersi di pazzia.

 

Eppure è ben poca cosa, rispetto al coro folle di anime chiuse nel corpo di terra che gli è inginocchiato accanto. Il puzzo combinato di queste anime irrancidite gli fa quasi girare la testa.

E al centro del caos: una scheggia, un brandello. Non credeva che le anime umane potessero lacerarsi, venire strappate, ma si sbagliava.

Può resistere alla puzza solo perché l’odore sta svanendo. Non sa perché, ma si rende conto che il frammento d’anima che ha dato vita alla cosa sta scomparendo, risucchiata poco a poco in una voragine che lui non comprende.

 

Vorrebbe cancellare l’onta che la creatura rappresenta per il mondo al quale lui stesso appartiene, ma non può farlo, così come non può allontanarsi. Onore e vendetta glielo impediscono.

 

I due morti stanno decidendo se continuare la loro esistenza dannata ancora un altro po’ e lui attende che l’aberrazione coi vestiti da miko scelga cosa fare di se stessa.

 

Se dovesse decidere di perire, lui stesso la farà a brandelli, vendicandosi così per l’affronto che lei gli ha inflitto salvando la vita di Rin. E ripagherà il suo debito di riconoscenza, liberandola della sua miseria.

 

Se dovesse decidere di sopravvivere, lui la lascerà andare dimenticando l’insulto e cancellando così il suo debito d’onore; e la punirà prolungando la sua vita maledetta.

Potrà tollerare di lasciarla andare via, sapendo che in tal caso la sua punizione sarà la più spietata.

 

Per lui il tempo non ha significato. Solo, spera che i due morti decidano in fretta.

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Capitolo 17
*** XVI ***


Non capisce se il volto di Suikotsu è solcato da lacrime oppure solo dalla pioggia che ha iniziato ad abbattersi su di loro

Non capisce se il volto di Suikotsu è solcato da lacrime oppure solo dalla pioggia che ha iniziato ad abbattersi su di loro.

E’ invidia, la sua? Lui può piangere. La Shikon no Tama gli ha restituito un corpo di sangue e carne, un corpo caldo. Ma chissà. Forse, così, il dolore è addirittura peggiore. Come può saperlo?

 

Lo youkai sta aspettando. Lei sa che cosa attende; c’è una parte di lei che vorrebbe alzarsi, ringraziarlo, inchinarsi e pronunciare un semplice . Ma queste sono le stupidaggini di una vita passata. Solo un modo più sciocco di tanti altri per mentire. E presto non ci sarà più il dolore, comunque.

 

Ha poggiato la testa del mercenario sulle sue ginocchia. Gli scosta la frangia di capelli bagnati dalla fronte. Ma le parole di lui fermano il suo gesto distratto.

 

“Togliete la scheggia, Kikyou-sama.”

 

Se lo aspettava, in fondo. E’ per questo che sentiva così imperiosa l’urgenza di raggiungerlo? Lei deve essere per il mercenario, ciò che lo youkai può essere per lei?

 

Sì. Sì che è invidiosa. La carezza sulla fronte di Suikotsu vacilla, pronta a trasformarsi in uno schiaffo selvaggio, e poi un altro e un altro ancora. Vorrebbe sputare sulla sua faccia indifesa.

 

Credi che sia così facile? Eh!? Vigliacco! Vigliacco!! Alzati e combatti e continua finché non ti sarai consumato! La fuga del codardo! E’ questo che scegli!?

 

“Ve ne prego. Adesso che sono tornato. Non lasciate che quello mi prenda di nuovo. Fa male. Liberatemi. Vi prego. Liberatemi.”

 

Sconfitta, la mano di Kikyou disegna un arco dalla fronte al viso dell’uomo, poggiando il palmo sulla guancia. Lì si ferma, incapace di andare oltre.

 

“Non c’è anima umana che non possa perdersi nel buio, Suikotsu-sama. Solo chi non conosce il proprio cuore può credere il contrario. Solo chi non sa …”

 

 

 

Ha scoperto così tante cose sul cuore. Così tante, e in così poco tempo.

E ha compreso anche, con gioia e dolore assieme, per quale ragione l’Aiki, l’armonia, può essere mantenuta solo nella quiete e nel silenzio dell’anima, e non nel tumulto a cui adesso non può più fare a meno.

 

Il suo cuore.

 

Trafitto, mentre fissava, piena di paura, il viso insanguinato di Kaede, ferita, mentre cercava la pulsazione della sua gola, la mano che tremava senza controllo.

(maledizione l’hai fatto tante di quelle volte!)

 

Sollevato e straziato, mentre le sue conoscenze nell’arte medica le dicevano che la sua sorellina era ancora viva, e che sarebbe rimasta cieca dal suo occhio destro, di sicuro.

 

Placido, mentre le braccia di Inuyasha la tenevano stretta, e lei poteva bearsi nel calore e nell’odore selvatico di lui, e poi.

 

Impazzito, mentre si liberava appena dal suo abbraccio, e zittiva le sue parole con la bocca, la punta della lingua a saggiare, cauta, zanne appuntite e, decisa, un palato ruvido.

 

A battere pesante, fremente d’attesa, durante la notte, prima badando alla Shikon no Tama, poi sforzandosi senza successo di dormire, rigirandosi nel futon, mentre cadeva per brevi periodi in un sonno leggero e anche più spossante della veglia.

 

E adesso. In gola. Le pulsa in gola come un tamburo, e pare che la soffochi.

 

Poggia le dita sul collo e poi, preme una mano sulla fronte come se dovesse misurarsi la febbre. Gira su se stessa, a destra, a sinistra, attorno all’albero sotto al quale lei gli ha dato appuntamento, misurando la radura coi suoi passi.

E’ così, così …

Il suo cuore fa capriole, salta, inciampa, cade, si ammacca, si rialza in un guizzo …

Tra poco, tra pochissimo! Lui arriverà, verrà, da me … per me!

Un brivido. Si carezza i capelli. Dovrebbe scioglierli? Lei lo sa, che a lui piacciono di più, sciolti. Liberarli da questa cinta di pelle bianca, da questo lurido nastro immacolato.

Li brucerò tutti! Sì, sarà la prima cosa che farò!

Ma no, non adesso. Vuole … vuole che sia lui, oggi, a disfare questo nodo. Quando la Shikon no Tama sarà scomparsa, e saranno entrambi liberi, lei piegherà un po’ la testa, e gli spiegherà come fare.

E se sarà goffo, e impacciato, se anche dovesse tirarle i capelli, e le facesse male senza volere, per poi fare quella smorfia, ah! quella smorfia adorabile, lei riderà e gli getterà le braccia al collo e non gli permetterà mai di chiederle scusa.

E sa anche come fare a zittirlo. Sì! L’ha imparato giusto ieri, eppure è stata la cosa più facile, più naturale che potesse immaginare! Niente ore e ore di piene di vuoto per impararlo. Nessuna poderosa meditazione, nessun faticoso esercizio.

 

I polpastrelli di Kikyou indagano le proprie labbra, come a cercare il ricordo del suo sapore. Arrossisce. Ma non è né la vergogna né la timidezza che la stanno facendo arrossire.

Oh, speriamo che sia goffo, speriamo!!

 

Ma per ora, non arriva. Accidenti, eppure è stato lui a raggiungerla al tempio, stanotte, e chiederle di incontrarsi all’alba, invece che a metà mattina!

E adesso che l’alba è arrivata, lui non c’è! Che si sia addormentato?

Ma come?

L’euforia le scappa in un secondo e un’ala di tristezza si stende su di lei.

Come fa a dormire tranquillo, proprio oggi? Lei non ha chiuso occhio per quasi tutta la notte. E a lui, invece, importa così poco? Non sente la gravità di quel che stanno per fare? La strada, per tanti versi ignota, che stanno per imboccare insieme? Lui … dorme?

 

Per lei, le ore della notte appena passata si sono allungate, dilatate, fino a sembrarle infinite, e ha fissato il soffitto della capanna, immobile, nel suo giaciglio, la testa piena di pensieri che non se ne volevano andare; l’attesa, che cosa opprimente, terribile, soffocante, non avrebbe mai creduto …

 

Il suo cuore balza di nuovo, mentre un altro pensiero si fa avanti prepotente, violento come uno schiaffo in pieno viso.

 

Onigumo! Mi sono dimenticata di portare da mangiare a Onigumo, ieri!

 

L’attacco del branco di youkai che sembrava non finire mai, la strenua difesa del villaggio assieme a Inuyasha, la presa di coscienza che i suoi poteri erano ridotti al lumicino; quasi del tutto perduta la sua capacità di fare armonia dentro di sé, il controllo sulle sue emozioni, sul suo cuore, tutto spazzato via. E poi, il ferimento di Kaede, la conversazione con Inuyasha, la loro decisione di … rinunciare a qualcosa, per avere qualcos’altro, ben più prezioso, in cambio. E quell’abbraccio. E quel bacio …

 

Onigumo era stato dimenticato. Fin’ora.

 

Non c’è problema. Me ne occuperò … sì, non appena …

 

L’immagine di Inuyasha che sta correndo per raggiungerla fa scomparire la tristezza, repentina quanto era apparsa, e la sostituisce di nuovo alla pregustazione del suo arrivo.

 

Tremando un po’, fruga nell’hitoe per cercare il suo regalo. La conchiglia piena di terra con la quale può rendere le sue labbra rosse, e invitanti. Dunque, perché no?

 

Apre la conchiglia. Ed eccolo di nuovo, il suo cuore: ma quanto è indisciplinato, oggi!

Non solo oggi.

Ride piano.

 

Sfiora questo sfolgorante rosso col mignolo …

 

e adesso, è sbattuta sull’erba, e l’urto forte tra la carne delicata dei suoi seni e il terreno duro le toglie il fiato. Non può neppure gemere, perché non c’è aria nei suoi polmoni.

 

Inspira. E la ferocia del dolore che dilaga dalla sua spalla destra è una staffilata; rebbi incandescenti conficcati nella spalla. Un liquido caldo le zampilla sul collo. Odore dolciastro del sangue. Grida di un grido senza forze. Cerca senza successo di voltare lo sguardo.

 

“Puoi cercare quanto vuoi di farti bella, ma questo non cambia e non potrà mai cambiare la tua vera natura. Miko.”

 

La mente di Kikyou piroetta nella confusione. Non capisce le parole che lui sta pronunciando, però riconosce la voce!

Mi sono … fatta male? Inuyasha? Che cosa …?

E’ stato tutto così veloce. Non c’è paura, ancora.

Mi sono fatta male. Come? Ma adesso è arrivato Inuyasha, e andrà tutto a posto.

 

Un piede appare vicino al suo volto: un piede nudo la cui gamba è calzata in un hakama rosso. D’istinto, stringe le dita attorno alla Shikon no Tama. Il piede si alza e, repentino, le calpesta la mano con forza, strappandole un grido che è dolore e stupore.

 

“Stupida! Non ho mai avuto l’intenzione di diventare un essere umano! Eccola, ah!, la potente custode della Shikon no Tama. Non è altro che una stupida, stupida donna! Non sarei mai riuscito a prenderla, con le mie sole forze. Ma tu sei stata così gentile da portarmela!”

 

Inuyasha si china su di lei, con un ghigno di disprezzo, e le sottrae il gioiello.

 

“Sarà bene che assorba altro sangue e odio, prima che la usi per trasformarmi in uno youkai. Credo che massacrerò tutti gli abitanti del villaggio. Già! Tanto, non c’è più nessuno che possa proteggerli.”

 

Inuyasha si allontana piano, in tutta calma, stringendo in pugno la Shikon no Tama.

 

No. Non andartene. Non lasciarmi qua.

 

Il suo cuore. Quante cose non sapeva del suo cuore, fino a pochi mesi …  giorni … momenti fa …

 

Kikyou si torce per il dolore. Non quello che viene dalla spalla, però.

 

Sente due maligni ganci di ferro piantarsi nelle due distinte metà del suo cuore, conficcarsi a fondo. Sussulta.

 

Inuyasha …

 

Inuyasha che le allunga una delle sue carezze corte, e poi rinuncia quando è a una spanna dalla sua mano, e guarda altrove.

 

Inuyasha che le calpesta la mano, fin quasi a spezzarle le dita.

 

Kikyou digrigna i denti, il dolore della ferita dimenticato, la mano sinistra premuta al seno, mentre due invisibili mani sapienti afferrano i ganci piantati nel suo cuore, tirando, con forza, senza pietà, sempre più decise, in opposte direzioni.

 

Inuyasha imbronciato, che la fissa attento, e i suoi occhi si accendono d’improvviso come due fiamme dorate, liquidi e pieni di desiderio.

 

Inuyasha che la scruta gelido, il labbro arricciato in una smorfia di disgusto, e raccoglie la Shikon no Tama.

 

No! Fa male! Troppo!

 

Inuyasha che le cinge le spalle con le braccia, e la sostiene mentre sta per cadere.

 

Inuyasha che strazia la carne indifesa della sua spalla e la lascia a terra, noncurante, come un bambino capriccioso che ha appena rotto un giocattolo di nessuna importanza.

 

Come una frattura verticale, avverte una lacerazione per tutta la lunghezza del cuore, uno strappo violento, brutale, secco.

 

Spezzarsi il cuore. E io che credevo fosse solo un modo di dire. Che stupida.

 

Rabbrividisce, affogando in un lago, in un mare di inumana sofferenza.

 

Perché … Inuyasha … non …”.

 

Le dita di Kikyou artigliano il petto, come se volessero raggiungere la radice del dolore per alleviarlo in un qualche modo.

 

Ricorda, Kikyou. Gli youkai non conoscono le emozioni come noi esseri umani. Possono simularle, così come simulano il nostro aspetto, per trarci in inganno. Non dimenticare. Gli youkai più simili agli uomini, sono i più pericolosi.

 

Il suo sensei.

 

Ma lui … è umano. Lui …

 

Perché?”

 

C’è del pianto, nella sua voce. Ma lei non piangerà. No. Non …

 

Come ha potuto essere così … crudele?

 

Perché, Inuyasha?” Un singhiozzo. La voce incrinata. “Perché non mi hai uccisa, almeno?”

 

Perché l’ha lasciata così?

 

“Almeno questo. Neppure abbastanza pietà da uccidermi? Non … potevi … uccidermi e basta? Non valgo neanche un simile riguardo?”

 

La mano sempre stretta al petto, le acque della disperazione che si chiudono su di lei, si gira appena a esaminare la ferita alla spalla.

Forse un’altra donna potrebbe ingannarsi. Non certo lei. Lo zampillio del sangue è rosso, vigoroso. Le carni rosse, nude. Un paio di centimetri in più, e vedrebbe brillare il biancore dell’osso.

Sono morta.

Non c’è speranza, con una ferita così.

Non con strumenti naturali.

Fissa il sangue che sprizza dalla ferita, piena di desiderio.

Sbrigati. Sbrigati. Più veloce.

La tenebra. Non c’è un altro posto dove fuggire. Il luogo dove tutta questa desolazione non sarà neppure un ricordo.

Avanti! Più svelto.

La frattura nel suo cuore si allarga ancora. Schiaccia la faccia nell’erba per soffocare un grido.

 

Perché? Non potevi risparmiarmi … neppure questo?

 

Forse ride. Starà ridendo di lei, facendosi beffe della sua ingenuità? E’ questa, la ragione?

 

No, Inuyasha non …

 

Schianta, sbriciola il pensiero prima di completarlo. E uno spasmo nuovo si fa sentire.

Qualcuno. Chi è che sta ringhiando? E’ lei?

 

Sterminerà il villaggio. Tutti coloro che le erano affidati. Ucciderà Kaede.

 

“No.”

 

Tutta colpa sua. E’ stata una folle, un’incosciente, un’egoista. Ha pensato solo a se stessa e alla propria felicità. E adesso degli innocenti dovranno pagarne le conseguenze; e tutto, perché ha voltato la schiena al suo dovere. Il dovere …

“Papà?” Sbatte le palpebre, confusa. Galleggia.

 

 

Suo padre. Sacerdote incaricato del tempio. Sarebbe dovuto toccare a lui di addestrarla, ma era presto stato chiaro a entrambi che lei era troppo, per lui. Così, fiero e umiliato, un giorno suo padre l’aveva affidata al suo sensei.

Aveva avuto paura, quel giorno.

Non sapevo cosa fosse la paura, allora. Adesso lo so.

Si era attaccata ai suoi pantaloni, quando lui aveva fatto per andarsene. Si era accorta subito che suo padre si era spazientito. Aveva piegato un ginocchio e, sbrigativo, aveva staccato le sue piccole dita dalla stoffa ruvida.

Ne abbiamo già parlato, Kikyou. Non farmi ripetere. Fare aspettare il tuo sensei è una mancanza di rispetto. Non vuoi mettermi in imbarazzo, vero?”

 

Lei aveva scosso la testa in silenzio.

 

“Brava. Fa’ il tuo dovere, Kikyou.”

 

 

“Una menzogna. Tutto, tutto una menzogna, tutta una recita. Mi hai mentito. Mi hai ingannata fin dall’inizio, vero?”

 

Oh sì. Lui, che era così bravo a vedere dentro di lei. Saggiare le sue debolezze. Avvertire l’odore della sua infelicità.

 

“Maledetto.” Sussurra.

 

Voleva essere sicuro che lei fosse del tutto inerme, prima di colpirla a tradimento.

 

“Maledetto.” Dice.

 

Come una bolla sottile, qualcosa scoppia dentro di lei, una fiammata nera che non avrebbe mai creduto.

 

“Maledetto!” Grida. Il suo corpo di tende. Il dolore alla spalla le annebbia la vista, le piega il corpo, invitandola a stendersi, a lasciarsi andare, e presto tutto questo sarà finito

 

Lui riderà di me, mentre uccide coloro che dovevo proteggere.

 

“No.” La fiamma nera si leva più forte, furibonda, a lambire il suo cuore.

 

Quante cose non conoscevo del mio cuore!

 

Volta di nuovo la testa per esaminare la ferita. Con l’occhio distaccato del guaritore, stavolta.

 

Morirò dissanguata. Se voglio un po’ più di tempo …è questo che voglio?

 

Oh, gira tutto. Cosa deve fare? Che cosa può fare?

 

Rompendo gli indugi, stacca la mano sinistra dal petto, infila le dita delicate nella ferita, mordendosi il labbro a sangue per non svenire, cerca il tubicino dell’arteria recisa, prova ad afferrarlo. Le scivola via, come un verme viscido e guizzante.

(avanti, avanti, lo sai come fare)

chiude l’arteria tra pollice e indice. Grida di nuovo, affondando la faccia bagnata di sudore nella manica dell’hitoe. E’ solo a un passo dal perdere i sensi, adesso. Se sviene … se sviene, passerà dall’incoscienza alla morte senza neppure accorgersene.

 

Perché? Cosa ti costava farlo bene? Non ti ho mai chiesto tanto. Oppure sì? Io …non …capisco più niente …

 

La sua mente sta per spegnersi, sottrarsi a tutto questo, convincersi che sta sognando. No niente di tutto questo è vero. Un incubo. Adesso sparirà. Il sonno si farà più profondo, e quando si sveglierà, solo allora potrà piangere … piangere nel guanciale, in silenzio, per non svegliare Kaede, e …

 

Torce la mano sinistra, e la fitta fa tornare il mondo a fuoco.

L’erba non è più tanto verde. E’ scura, impregnata di sangue. Puzza. Anche lei puzza. Il terrore le si sprigiona dai pori.

 

Ci sono tecniche, esercizi che può usare per alleviare il dolore – quello alla spalla – per impedire che il trauma e la perdita di sangue le facciano perdere i sensi.

 

Lei li conosce tutti. Lei sa usarli tutti. Alla perfezione.

 

Il suo sensei.

 

Non ho mai addestrato una bambina come te, Kikyou. Tu sei davvero una prescelta. Non c’è mai stata nessuna come te, tranne forse …

 

Inuyasha.

 

E anche tu, Kikyou, sii solo una donna. La mia donna!

 

“Maledetto!”

 

Il dolore si stempera in un battito sordo. Le vertigini svaniscono come fumo spazzato via da un vento deciso. Kikyou solleva il torso, piega un ginocchio, poggia il piede in terra, fa forza per alzarsi.

 

Farfalle dietro agli occhi. Il sole le batte sulla testa. Ma come fa a essere così caldo? A disseccarle così la pelle? Ad asciugarle tanto la bocca?

 

“Maledetto!”

 

E il dolore del suo cuore? Adesso che quello alla spalla recede, si fa sentire, così forte da impedirle di pensare.

 

Puoi cercare quanto vuoi di farti bella, ma questo non cambia e non potrà mai cambiare la tua vera natura. Miko.

 

Ecco che cosa le ha detto! Le sue parole, che prima le erano state intelligibili.

 

Immerge, con durezza e senza esitare, il suo cuore nella nera fiamma sconosciuta che le cova in petto. Il male si attenua, sostituito da qualcos’altro.

 

Un ringhio animalesco le esce dalla gola. Si alza. Labbra cineree e cuore in cenere.

 

“Hai sbagliato, Inuyasha.”

 

E’ gelata. Una bolla di gelo la tiene stretta in una morsa.

 

“Avresti dovuto uccidermi, finché potevi. Avrai modo di pentirtene. Tu non mi hai mai vista davvero nel fulgore del mio potere.

 

Le suole dei sandali slittano sull’erba pregna di sangue. Barcolla, e muove un primo passo, la mano sinistra stretta attorno alla spalla destra.

 

“Perché io sono la miko Kikyou, la prescelta alla custodia della Shikon no Tama. E non sono stata scelta per caso o per capriccio.

 

… prescelta …

 

“Hai ragione. E’ ciò che sono. Quello che siamo. Follia. Follia credere di poter cambiare.

 

… la mia donna …

 

“Maledetto.”

 

… non ho mai addestrato nessuna come te …

 

“Maledetto.”

 

Fa’ il tuo dovere, Kikyou.

 

Il mondo esplode in mille frammenti.

 

“Maledetto!!”

 

Mentre inizia il suo penoso cammino, Kikyou non sa più che cosa sta maledicendo.

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Capitolo 18
*** XVII ***


Cadono le prime gocce di pioggia

Cadono le prime gocce di pioggia.

 

I nuvoloni si sono addensati, e le prime pesanti gocce di pioggia si stanno spiccicando al suolo; ma Inuyasha non se ne accorge neppure, mentre corre al fianco di Miroku. Forse l’houshi gli ha accennato alla necessità di cercare un riparo? Non lo sa, non l’ha sentito.

 

Sente solo il cuore farsi sempre più pesante, tanto che gli pare voglia scivolare giù giù fino ad accasarsi nello stomaco, dal quale un freddo insopportabile si ramifica in tutto il corpo fino a intirizzirlo.

 

Continua a rivedere Kikyou dopo il duro combattimento con i mercenari.

 

L’aveva portata, camminando pian piano, fuori dall’aura sacra proiettata dal monte Hakurei. Nessuno li inseguiva, questa volta. Non c’era nessuno da cui proteggerla, in quel momento.

 

Il suo corpo leggero – così simile e così diverso da quello di un tempo – era un fardello tanto pesante da piegargli le braccia potenti.

Il freddo di morte che promanava da lei gelava le sue membra, aggricciando le sue carni insensibili alle bizze della temperatura.

L’odore di ossa e terra che gli colpiva con durezza le narici aveva invaso tutti i suoi sensi.

 

L’aveva trasportata lentamente, senza preoccuparsi di avere addosso gli sguardi dei suoi compagni. Non avrebbe potuto affrettarsi neppure volendolo, poiché in quei pochi minuti, aveva avvertito tutta la solennità del proprio incedere.

 

Inuyasha stava portando fra le braccia la sua perduta sposa.

 

L’aveva adagiata. Lei si era ripresa, quando i suoi shinidamachu le avevano portato le anime. Poi aveva parlato a tutti loro. Si era addirittura rivolta a Kagome. Aveva spiegato la malvagità mascherata dall’eccessiva purezza del monte Hakurei. E per tutto il tempo era stata così, quieta. Da quel momento la morsa del dolore gli aveva serrato la trachea come la corda di uno strangolatore, stringendosi poco a poco.

 

Inuyasha serra selvaggiamente i denti.

 

Mai lo avrebbe creduto possibile, eppure avrebbe preferito essere accolto dall’odio che in una forma o nell’altra lei gli ha sempre riservato dal giorno del suo ritorno, piuttosto che quel … niente … che sembra averlo sostituito.

Il viso di lei, calmo e impassibile come la sua voce. Gli occhi! Si era rifiutata di incrociare il suo sguardo, se non quando loro si stavano preparando per andarsene.

E quando lo aveva fissato, era stato come per dirgli addio.

 

Scrollando la testa per liberarsi delle goccioline di sudore, mischiate alla pioggia, che gli si stanno formando all’attaccatura dei capelli, Inuyasha ricorda quando vide una Kikyou simile a quella della sera precedente.

Quando si erano appena incontrati – o meglio, scontrati – cinquanta anni prima.

Occhi gelidi, no anzi, del tutto distaccati, occhi di una persona che ha sbarrato porte e finestre per tenere fuori l’intero mondo.

Ma ieri è stato ancora peggio. Inuyasha ha avuto come la sensazione orrenda e soffocante che quel è rimasto di Kikyou venga lentamente risucchiato, portato via in un’oscurità per lui del tutto incomprensibile, lasciando solo … cosa? … una creatura che sì, di Kikyou ha solo l’aspetto. Una copia sbiadita e sfigurata della vergine custode della Shikon no Tama.

 

Caldo e freddo frustano a ondate il corpo di Inuyasha, lasciandolo debole e preda di brividi.

 

Lui lo sa, come potrebbe dimenticare? Quel dolore impensabile, accecante, allucinante. Il dolore di essere stato tradito. Quando Naraku era ancora solo un’ombra ignota proiettata sulla sua vita.

E il sollievo, un sollievo brutale, da togliere le forze, capace di trasformare le gambe in matasse di corda e costringerlo a terra, quando aveva avuto la conferma che nulla, nulla di quel che c’era stato fra loro era stata una menzogna.

 

E lei? Cosa doveva avere provato, lei?!

 

Kikyou, oh Kikyou, cosa ho fatto, cosa ti ho fatto!?! Dannazione!!

 

Ed ecco, come a volte gli capita, le voci dentro di lui incominciano ad affastellarsi. Per prima, una simile a quella di quel bastardo arrogante di Sesshoumaru.

 

Sei un debole, inutile hanyou. Non sei stato capace di proteggere colei che ti si era affidata.

 

 

Stai zitto! Stai zitto!!

 

Ma per quanto si sforzi, ogni fibra del suo essere gli grida inflessibile questa realtà.

 

Lei stava morendo. Morendo!!! Dal suo corpo …

(oh così tiepido così profumato)

… la vita andava via col sangue, veloce veloce! Da quello squarcio, quella ferita.

(identica a quelle che lasciano i miei artigli)

Terrorizzata, disperata, quasi del tutto priva dei poteri che da sempre la proteggevano

(ma io non lo sapevo, maledizione!)

… certa di essere stata tradita.

(ma anche io … non cercare scuse ridicole, stupido hanyou)

Lui! Naraku cosa aveva fatto, a lui!?

Non avevo perduto i miei poteri, io! Non ero ferito, io! Non stavo morendo, io!!

Oh Kikyou, come ho potuto!?! Come ho potuto credere …

… credere anche solo per un secondo che tu non fossi stata altro che l’ennesima persona pronta a ridere alle spalle di uno stupido hanyou?

 

Lei, che era stata la prima, fra loro due, a lasciarlo entrare in quelle stanze dell’anima che entrambi tenevano chiuse a chiunque.

 

Lo so. Lei è sempre stata la più coraggiosa fra noi.

 

Maledetto!! Come hai osato toccarla! Come hai OSATO! Kikyou! La mia Kikyou! Sì! Mia! Mia! MIA! Io ti ammazzo, ti ammazzo, ti ammazzo!!

 

 

Sì. Dagli la caccia. Trovalo. Uccidilo. Ma ricorda, hanyou. Toccava a te. Toccava a te, quel giorno, ripagarla di fiducia con fiducia. Non a lei. E per quanto ti sforzi, per quanto tu possa fuggire, questo non lo potrai cancellare mai.

 

 

Sta zitto!! Zitto!

 

Ma la voce della sua discendenza, la voce del suo sangue youkai, quella voce così simile a quella di suo fratello e che, proprio come quella di suo fratello, non conosce esitazioni né sfumature, continua imperterrita. Non era stato capace di proteggere colei che gli si era affidata.

 

No! Lo ammazzo. Lo ammazzo! Squartalo, spezzalo, fallo strisciare …

 

Inuyasha sta sudando sempre più, e accelera il passo, ma le voci e i pensieri lo incalzano e lo raggiungono per quanto veloce vada.

 

Quanto aveva desiderato che lei ritornasse? Perfino prima di sapere che erano caduti in quella trappola malvagia? Quanto spesso? Guardando Kagome, inalando il suo profumo (uguale a quello di lei), aveva smaniato, sperato, e oh alla fine perfino pregato, lui che non l’aveva fatto mai, tutti i Kami, perché gliela restituissero. Ridatemela! Ridatemela!

E, dannazione, i Kami l’hanno esaudito!! E quel che gli è stato ridato

 

Così, la seconda voce si leva dentro di lui. E’ una voce femminile, la voce del suo sangue umano. E’ la voce di sua madre. Ma da tanto tempo, è anche identica alla voce di lei, la voce della miko, della donna morta che ama e per la quale il suo sangue brucia.

 

Attento, Inuyasha! Dobbiamo sempre stare attenti a quel che desideriamo. Sai, c’è il caso che, delle volte, i Kami decidano di esaudirci!

 

E rideva. Quando lui si aggrondava per quelle sue frasi così strane, lei rideva.

 

Eh sì, perché Kikyou rideva. Non tanto spesso, forse, ma sempre di più man mano che il cumulo dei giorni passati assieme si affastellava trasformandosi in settimane e mesi.

Rideva di una risata che era solo per lui, e lui era assurdamente pieno d’orgoglio.

Sì. Il petto gli si gonfiava d’orgoglio, perché sapeva, pur senza sapere come, che quella risata, lei non la conosceva, prima. Che era stata la sua venuta, a donargliela.

E quindi, se questo era vero, anche lui riusciva a dare? A darle … cose?

Era mai possibile? Lui era stato così inebriato, dopo decenni di solitudine, dalla sua compagnia, e così affascinato dalla sua bellezza, e da tutte le cose che lei sapeva, che aveva impiegato tempo prima di accorgersene.

Ma allora, davvero poteva credere che anche per lei fosse così? Che quella gioia ineffabile sgorgasse anche dentro di lei? E che, soprattutto, ne fosse lui la ragione? Come lei era la ragione della sua?

Stupefatto. Quando si era permesso di sperare che fosse possibile, aveva giurato che non l’avrebbe lasciata sola, mai.

 

E lei lo ringraziava, parlandogli di quelle cose misteriose che lui non aveva mai capito e odiava, ma spogliandole di quell’aria minacciosa che gliele rendeva così ostili. Ridendo la risata speciale che lui solo era autorizzato a udire.

 

Quando Kikyou indossava quella risata, Inuyasha sentiva qualsiasi distanza tra loro crollare in un solo secondo.

 

Tutta lì e tutta sua. Tutta per lui.

 

Mi hai tolto le sue risate. Tutte!! Tutte quante! Ma io ti ammazzo, ti ammazzo!

 

Nei suoi occhi, in quegli scrigni scuri, lui vedeva tutto quel che sarebbe venuto. Le carezze, e i baci che avrebbero seguito quello sul pontile. Sarebbero stati dolci, ma poi più duri e prepotenti.

Lui aveva visto i balenii delle passioni che Kikyou teneva così gelosamente disciplinate e custodite, le aveva viste apparire, come le squame bagnate di pesci o mostri marini per un attimo emersi fino alla superficie del mare, per poi svanire subito, lasciando l’osservatore nell’incertezza di aver davvero veduto oppure solo sognato.

 

E poi? Come sarebbe stato, slacciare i nodi e farle scivolare da dosso quella veste di miko? Quali tesori avrebbe scoperto? E come sarebbero state, le mani di lei? Mentre esplorava la sua pelle – una pelle umana, diversa da questa ma pur sempre la sua.

E la loro vita? Lunga? Breve? E vivere facendo parte di qualcosa? Sarebbe stato bello? O brutto e spaventoso? O solo diverso? E diventare ogni giorno di più, il custode l’uno dell’altra?

 

Quanta sofferenza potrà contenere il suo cuore, prima di sbriciolarsi? Fin troppa, di questo è sicuro.

 

Lui non è stupido. Capisce bene quel che intende Kaede, quando gli ripete paziente che quella non è più Kikyou, ma una creatura deforme fatta a sua beffarda somiglianza.

Però maledizione, possibile che tutti loro non capiscano che c’è anche Kikyou, in quella effige di ossa, terra e cenere?

 

Che sia responsabile anche di questo? Le mie preghiere … sono state esaudite?

 

Il gelo nello stomaco di Inuyasha partorisce altro dolore, simile a un cieco mostro che si nutre delle carni di colui che l’ha generato.

 

Lei è morta conoscendo l’agonia del tradimento, ma a differenza di lui, ne è prigioniera, come un’ape invischiata in una stilla di nettare.

 

Giorno dopo giorno, è condannata a svegliarsi schiava di quel dolore, senza potersene allontanare né liberare, incatenata senza speranza di fuga.

Quando Inuyasha sente tutta l’enormità del peso del suo fallimento

(patetico hanyou)

… piombargli addosso, come gli sta succedendo adesso, la testa gli gira fino a esserne stordito.

 

Oh Kikyou! Che cosa ho fatto!? Ti ho lasciata sola a morire!!! Come ho potuto essere così stupido!? Stupido, idiota, da credere alla sua menzogna invece che a te? Neppure versando tutto il mio sangue fino all’ultima goccia, potrò lavare il mio tradimento! Ma lo ammazzo, te lo giuro, lo ammazzo lo ammazzo …

 

Ieri sera la risposta alla sua domanda ha trovato una risposta.

 

Come riesce a resistere? Semplice. Non riesce, non più. Ha smesso di lottare. Sta svanendo, e fra poco neppure io riuscirò a trovare quel che di Kikyou ancora sopravvive in quel corpo corrotto.

 

Mancando un passo e brancolando, finendo quasi a terra, Inuyasha cerca di spezzare la spirale dei pensieri nei quali è finito imprigionato, ma senza riuscirci.

 

Lui non capisce e odia questi misteri, non ha mai voluto averci niente a che fare. E l’unica persona che riusciva a farglieli toccare, gli è stata tolta.

Ma i suoi sovrannaturali istinti di predatore, esaltati all’esasperazione dal vincolo unico che lo lega a Kikyou, gli dicono quel che c’è da sapere.

Inuyasha è stato quasi capace di annusare la rassegnazione che arrivava dalla miko. Come se ciò che è avanzato della sua anima si stesse arricciando, accartocciando come un foglio sottile posato troppo vicino a una fornace rovente.

 

E, orrore su orrore su orrore, Inuyasha ha anche la penosa sensazione che questo (processo?) sia in atto da tempo. Sì. Da quando? Da quella notte, quella notte sotto il Goshinboku.

 

Che cosa hai fatto, maledetta stupida? Cosa hai fatto, dannazione!?

 

E Inuyasha è pieno di paura, perché conosce Kikyou meglio di quanto tutti loro credano, e sa bene a quali estremi lei può spingere se stessa. E’ una cosa che lo ha sempre attratto, e atterrito, anche. Gli estremi a cui può spingersi quella donna forte, misteriosa e fragile.

 

Il sudore gli scorre addosso più copioso, mentre i pensieri lo assalgono sempre più violenti.

 

Vorrebbe urlare, per alleviare la pressione che sta per schiantarlo. Che sia ancora colpa sua? Aveva deciso di salvarla a qualunque costo, quella notte, eppure in un qualche modo una parte di lui aveva da subito avuto la sensazione che fosse stata lei, invece, a salvarlo (trucco depistaggio inganno).

 

Geme piano. Fallito? Ha fallito, di nuovo? Possibile che qualunque cosa cerchi di fare gli si ritorca contro in questo modo? No. No. Non ce la faccio … più.

 

Sei solo uno hanyou. Hai tradito ancora una volta chi dovevi proteggere. No, peggio, ti sei lasciato proteggere da colei che dovevi proteggere! Sei la vergogna della tua discendenza. Che Tessaiga penda al tuo fianco, è un inconcepibile oltraggio.

 

 

Basta! Stai zitto o ucciderò anche te!!

 

Assistere impotente al lento svanire di Kikyou l’ha riempito di un furore pari alla sua incapacità anche solo di pensare a cosa fare per porvi rimedio.

 

Quando, come un bagliore, gli era parso di vederla riapparire per un momento – i bambini, certo, come sempre; era successo quando si era preoccupata per la sorte degli orfani a cui aveva badato nei giorni precedenti, assieme al mercenario con l’anima divisa a metà – aveva creduto di impazzire.

 

Come in questo momento, del resto.

Inuyasha sente nel proprio sudore la puzza untuosa e rancida della follia.

 

E mentre il sangue di suo padre lo tormenta senza posa, il sangue di sua madre gli ricorda una cosa molto più semplice, banale perfino, ma più straziante.

 

Ho perduto il mio amore.

 

Tutto qui. Un altro era venuto, gliel’aveva strappata via con la stessa indifferenza con cui un contadino prende per la collottola un gattino appena nato e lo affoga in un secchio d’acqua, e lui …

 

Ho perduto il mio amore.

 

Cosa fare? Cosa?

 

Trovalo e uccidilo.

 

Inuyasha non sa se uccidere Naraku può salvare Kikyou; è, solo, l’unica cosa a cui riesce a pensare.

 

Trova lui e ammazzalo.

Poi, trova lei e salvala. In un modo o nell’altro.

Nient’altro è importante.

 

Ha gli occhi annebbiati e non è molto fermo sulle gambe, adesso.

 

In questi momenti, quando si aggira, terrorizzato e morbosamente attratto a un tempo, ai bordi di quegli abissi della sua mente che puzzano di pazzia, c’è solo una cosa gli dà respiro.

 

Il calore del corpo di Kagome addosso.

 

Sentirsela addosso, sulle spalle, fiduciosa (Kikyou no, lei non si è mai fatta trasportare sulle mie spalle); sentire l’odore del completo abbandono col quale lei mette la vita nelle sue mani, è l’unica cosa che riesce a spezzare queste spirali inarrestabili di pena e colpa, quando non riesce a impedirsi di pensare.

Lei, che gli permette di conservare la sanità mentale quel tanto che basta per continuare a correre appresso al suo destino.

 

Ma adesso. Non su di lui, ma sulla groppa di Kirara.

 

Maledetta! Tutte le volte! Tutte le volte che ho più bisogno di te, mi volti la schiena! Avevi promesso! E invece …

 

Ma la rabbia gli sbatte in faccia altri sensi di colpa, mentre si dibatte nelle sue insicurezze come Kikyou nell’agonia della sua anima squarciata.

 

Cos’è per lui, Kagome? Solo questo? Gli serve per restare aggrappato al suo equilibrio quel tanto che basta ad arrivare alla fine delle sue cacce? E lei? Forse, confusamente, lei lo capisce? Sente che, in parte, lui la sta usando?

Lui che non è più padrone della sua vita, non può più disporne.

Non sa se sopravviverà alla sua lotta contro Naraku. Ma deve. Perché solo Kikyou ha il diritto di decidere se lui debba vivere o morire.

 

E ogni volta che Kagome se ne va, lui conta le ore e i minuti persi invano, in attesa. Ogni minuto, è un minuto di dolore in più per lei. Mentre lui deve sbrigarsi, sbrigarsi, sbrigarsi, prima che sia troppo tardi per aggiustare quello che ha rotto.

 

Colpa tua, stupido hanyou. Come sempre, colpa tua.

 

 

No! Dannato! Guarda!! Questi altri che mi sono affidati! Non sono vivi? Non li sto proteggendo? Eh? Eh?

 

 

Non coprirti di ridicolo con questi balbettii insensati. Perché permetti loro di stare al tuo fianco? Per proteggerli? Sii onesto, per una volta, hanyou.

 

 

TACI!!! Basta …

 

E, al colmo di pena e terrore, Inuyasha è raggiunto dall’ultima voce, la voce rossa …

(come il mondo quando lo vedo attraverso la furia demoniaca che prende il comando del mio corpo)

 … la voce nera …

(come le tenebre dove lui si nasconde)

… la voce del suo nemico, di colui che deve uccidere.

 

Inuyasha, noi ci capiamo, non è vero? Meglio di quanto entrambi vogliamo ammettere, sì? Io ti approvo. Davvero. Usali. Usali tutti! Anch’io lo faccio. Ti servono per perseguire i tuoi intenti. I tuoi, tu li trovi lungo la strada. La tua strada. Che però è la mia strada. Mentre mi insegui. I miei, io li creo, li forgio. Sì, adoperiamo ciò che ci serve, per proseguire questa folle corsa. Tutti prede e tutti cacciatori! E come io uso te, così anche tu usi me, alla stessa maniera.

Lo so, Inuyasha, che cosa vuoi, tu. Quello che voglio anche io. Essere libero, da questo groviglio di pazzia insensata che ci lega.

Sì, lei mi insegue, come io inseguo lei. Per dare la morte, o per riceverla? Neppure lei più lo sa. Inuyasha. Io sono l’unico che può darle ciò di cui ha bisogno. Solo io posso liberarla, non è vero? Non più tu, ma io. Tu lo sai, sì che lo sai…

 

 

Nononono

 

 

…Non preoccuparti. Ci penserò io. Me ne occuperò io. Quel che tu non hai il coraggio di fare. Dammi tempo. Solo un po’ di tempo. E’ quello che vogliamo tutti e tre. Confessalo.

Che lei sparisca, che ci lasci in pace, che si tolga di mezzo. Lei lo vuole anche più di noi. Ammettilo, Inuyasha. Ammettilo. Io sono ciò di cui lei ha bisogno. Tu ti potrai disperare per un po’, e odiare me invece che te stesso, e poi sarai libero. Ma quello che tu vuoi…

 

 

NO! NO! Non toccarla!! Ti prego, non togliermela di nuovo, no ti prego, no ti prego …

 

Ma la risata morbida che gli risponde, non è di una voce che viene da dentro di lui. E’ una voce secca, che viene da fuori.

Per che cosa mi stai pregando, hanyou? Stavolta?

 

Inuyasha sente risalire fin dalle viscere un urlo di orrore che si sforza di sigillare. E’ un grido che non deve essere articolato, perché con esso potrebbe andarsene anche la sua sanità mentale.

 

Le voci lo aggrediscono da tutte le direzioni, e lui è indifeso.

 

La voce fredda, la voce femminile, la voce nera, ognuna strattonandolo in una diversa direzione, ognuna rivolgendosi a una diversa porzione del suo cuore, della sua testa, della sua anima.

 

Fate silenzio! SILENZIO! Maledetti! Io ti ammazzo ti ammazzo vi ammazzo, se non fate silenzio adesso io VI AMMAZZO TUTTI QUANTI!!!

 

Gira di scatto la testa verso Miroku, e gli chiede con una voce strozzata di cui l’amico non pare accorgersi. “Perché Kagome sta cavalcando Kirara?”

 

Senza incrociare il suo sguardo, Miroku ribatte con un’aria di superiorità. “Non capisci proprio le donne! Non vuole essere portata da te. La tensione tra te e Kikyou-sama era palpabile, la scorsa notte. Ti consiglio di lasciarla in pace per un po’ di tempo. Poi, quando si sarà calmata …”

 

Inuyasha smette subito di ascoltare Miroku. Lui non capisce? Può giurarci, che non capisce! Se dovesse stilare la lista delle cose che loro non capiscono, però

Con un unico balzo, piomba al fianco di Kirara urlando con quanto fiato ha in corpo.

 

“Kagome!!”

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Capitolo 19
*** XVIII ***


Infuria la tempesta

Infuria la tempesta.

 

La traccia del sangue che stava seguendo è svanita da un pezzo. I palazzi sono rari in questa parte della città. E solo stare in piedi richiede più fatica di quanta Naraku avrebbe mai creduto.

L’acciottolato è sdrucciolevole, inondato di pioggia. La furia sferzante del vento, la luce abbagliante e improvvisa del lampo, seguito dall’assordante e continuo scoppio del tuono, tutto congiura per gettarlo a terra, per smarrirlo, per allontanarlo. Un muro d’acqua gli si schianta addosso, riempiendogli la bocca e il naso, chicchi di grandine gli martellano la schiena.

 

Onigumo non lo vuole. Non lì.

 

La pioggia riduce la propria violenza un istante, e vede in lontananza una tromba d’aria, un dito che si protende da mastodontiche rovine a conficcarsi nelle nubi nere, come un dito che tormenta una piaga. Folate spazzano le strade, ululando. Viene sbattuto contro una parete; il braccio gli si intorpidisce per il dolore.

 

Si asciuga gli occhi. Inutile. Una mano davanti alla faccia, passo dopo passo, segue la strada che sente essere quella giusta.

 

Se solo potesse vederci.

 

Ma non riesce.

 

Perché attorno.

 

A lui è.

 

Tutto.

 

Così.

 

Nero.

 

Dentro al nero.

 

Anche se l’unico occhio che mi è rimasto è aperto.

 

Notte.

 

Notte, perché non c’è neppure quella miserevole luce che mi viene concessa durante il giorno.

 

Silenzio.

 

Nessun suono mi raggiunge. Per quanto ne so, il mondo intero potrebbe essere avvizzito fino a ridursi a questa sola caverna.

 

Caldo.

 

Mi ha steso addosso questa coperta pesante, perché le giornate si fanno più fredde ora che l’autunno è iniziato. Le ho detto e ripetuto che non soffro il freddo quanto le persone comuni. Che coloro che mi hanno conosciuto si sono sempre stupiti di vedermi indossare abiti leggeri, perfino d’inverno.

Mi ascolta.

Ma non si fida di me. Neppure per una tale banalità.

 

Me la toglierei di dosso. Se potessi. Se. Ma le mie braccia. Sono steccate. Spezzate. Non posso muoverle.

Le dita delle mani. L’unica parte del mio corpo su cui ho il controllo. Oltre alla testa. Già.

 

Maledetta donna.

 

Nonostante la sua mole, è sempre stato un uomo agile. Quasi aggraziato. Il vecchio non gli ha mai impartito un formale addestramento nell’arte del Kenjutsu. Ma il suo istinto e i suoi riflessi gli hanno sempre permesso di prevalere sui suoi avversari.

 

E adesso.

 

E’ inchiodato in questa squallida caverna, immobile, impotente.

Da quanto tempo? Quanti giorni? Quante settimane?

 

Sospeso in un limbo crepuscolare, Onigumo non ne ha idea.

 

Maledetta donna. Non lo sai, vero, quanto può essere angoscioso, sentire le ore allungarsi fino a diventare l’agonia di un’eternità!?

 

Onigumo è abituato a convivere col suo fuoco. Gli è sempre piaciuto alimentarlo, per godere con intensità e senza preoccupazioni della sua vita.

Ma adesso questo fuoco lo fa spasimare. Come se degli insetti gli camminassero addosso, solleticandogli la pelle ormai insensibile con le loro zampette.

Tutto quel che è lo sta tradendo, gli si sta rivoltando contro. Il suo corpo, le sue voglie.

 

E a tormento si aggiunge tormento. Il nome della donna, è il nome della custode della Shikon no Tama! Che beffa! Già.

La Shikon no Tama. Ne aveva sentito parlare la prima volta in una locanda fetida, una stamberga divenuta l’ultimo porto di mare di uomini e donne, naufraghi delle loro stesse vite, colate a picco dai fortunali della vita.

 

Con un ghigno di disprezzo, aveva prestato attenzione a quello strano vecchio con la bocca nascosta dietro alla bottiglia del liquore col quale si stava stordendo; spaventato all’idea di poter essere udito da orecchie indiscrete, e tuttavia consumato dal bisogno di condividere con qualcuno il suo sogno da ubriaco. Spaventato dall’oggetto della sua stessa fantasia. Spaventato dalla sua stessa paura, perfino.

Forse era un uomo forte, un tempo. Magari un guerriero. Chissà, un samurai caduto in disgrazie, perché no? Ormai, era solo un rottame sbronzo.

 

Si era informato, aveva indagato, e aveva avuto conferma di quella strana storia. Un gioiello mistico in grado di realizzare i desideri. Una miko posta a custodirlo. Uno hanyou con cui – si sussurrava – la miko si intrattenesse.

Si era fatto beffe di tutto quanto. Quel racconto, per lui, era solo una stupidaggine senza importanza.

Quel che voleva, lui era abituato a prenderselo. Già.

 

Così, quando aveva saputo che il palazzo di Kurokawa era incustodito a causa dell’ennesima guerra, aveva deciso il da farsi. Aveva ingannato Rasetsu. Aveva convinto i suoi compari a seguirlo, certo che l’hanyou avrebbe ucciso Kansuke. E invece!

 

Perché Kansuke Rasetsu non era stato ucciso?

 

Con uno sforzo, Onigumo stringe la mano a pugno, e fitte di dolore atroce gli risalgono dal polso fino alla spalla. Suda e grida. Bene.

 

Ciò di cui si è fatto beffe, adesso è lì per beffarlo. Non ha più il suo corpo. La miko gli ha assicurato che un po’ per volta potrebbe riacquistare il controllo delle braccia, se le fratture si salderanno come si deve. Ma non camminerà più. Quando la donna gli ha toccato i piedi, non ha sentito nulla.

 

E le ustioni? Le aveva chiesto. La miko era stata stranamente evasiva, ma poi gli aveva detto che il fatto che fosse sopravvissuto aveva del miracoloso. Nonostante le cure che gli prestava, le sue ferite si sarebbero potute infettare in qualunque momento.

E allora la cancrena lo avrebbe divorato.

Sì! Un gran bel dono! Già! Se solo glielo potesse restituire!

 

Maledetta donna. Cosa mi hai fatto? Ho ucciso per meno. Per molto meno.

Se potessi farti assaggiare. Stupida donna. Donna dannata. Se potessi farti capire.

Lo sai? Cosa significa!? Essere prigionieri di un corpo che ti tradisce. Di un corpo che è il tuo corpo senza esserlo più? Maledetta donna. Un corpo che non è più che una bara?

Ah se tu solo sapessi …

 

E lì, a brevissima distanza, c’è l’unica cosa che forse potrebbe guarirlo. Guarirlo, e non solo. Anche dargli un grande potere.

Ma, per quanto la Shikon no Tama sia vicina, è come se a separarlo dal talismano ci fossero tutte le terre e i mari del mondo! La miko non gli darà mai il gioiello.

 

Le labbra di Onigumo si tendono. Urla ancora.

Ogni tanto urla. Allontana il battito d’ali della follia che gli svolazza attorno. Non gli importa se qualche bestia o uomo feroce dovesse sentirlo. Non ha paura. Non ha paura di niente.

Ma non vuole rinunciare alla vita. La sua vita. L’unica cosa che ha, poiché lui non crede in nulla; in nessuna delle sciocchezze raccontate da miko, houshi e altri sacerdoti. Stupidaggini bisbigliate da vigliacchi ammucchiati tremanti accanto a un focherello, convinti che questo sia sufficiente a tenere lontane le cose nascoste nelle tenebre.

L’unica cosa che ha è se stesso. L’unica cosa che esiste è il qui e l’ora. Se fosse morto nell’incendio, oppure quando Rasetsu l’ha precipitato nell’orrido, oppure lungo la riva del fiume, tutto sarebbe finito.

Ma il suo fuoco non si vuole spegnere. E adesso che la stupida donna gli ha salvato la vita.

 

Maledetta donna.

 

Un giorno dopo l’altro.

 

Cerca la sua vendetta.

 

 

 

Grigio.

 

Dentro al grigio.

 

Pomeriggio.

 

C’è un po’ di luce fioca. L’autunno sta per cedere il passo all’inverno.

 

Almeno, questo gli ha detto la donna. La donna. La donna. La donna.

 

Il suo volto. Incubo nel sonno e sogno nella veglia.

 

Certo; non vede altri esseri umani a parte lei. Ma questo non ha molta importanza. Non gli è mai interessato avere compagnia, se non quando questo serviva i suoi scopi immediati.

E quando poi l’utilità dei suoi compagni finiva, se ne andava per la sua strada, a lasciarli vivere o morire come preferivano.

 

Di solito, non ricorda le facce. Non gli interessa ricordarle.

 

Ma il viso delicato della donna, gli si ripropone di continuo nella testa.

 

Le sue dita si inarcano; gratta con le unghie il legno su cui è sdraiato.

 

 

Ed eccola! La sua sagoma si staglia all’imboccatura della cava. Entra. Viene verso di lui. Così silenziosa, e intabarrata nella Chihaya, che quasi gli pare un fantasma.

 

Onigumo rabbrividisce.

 

Segue ogni suo movimento. Il suo sguardo la scruta.

 

La donna posa a terra il cesto e i fagotti che porta sempre con sé, quando viene lì.

 

Si inginocchia per accendere la piccola lanterna che gli ha lasciato accanto.

 

E’ così impassibile. Distante. Sembra che nulla possa raggiungerla.

La linea della bocca, la forza nei suoi lineamenti minuti, i suoi occhi fermi; tutto gli parla della volontà ferrea che esercita su di sé. Già.

 

La volontà che esercita su di sé, per costringersi a tornare, giorno dopo giorno, e prendersi cura di lui.

 

Ma lui si ricorda. Oh sì. L’immagine di quando la vide la prima volta. La conserva gelosamente. Nessuno gliela può togliere.

Colta di sorpresa. Esausta. Sporca. Quasi … spaventata.

Quei vestiti ridicoli e assurdamente larghi, appiccicati alle sue curve, come le mani di un amante, a rivelare quel ch’è nascosto. Magnifica. Perfetta.

 

Onigumo si sente bruciare; il suo fuoco cresce. E cresce. Ogni giorno.

 

Se potessi riportarla a quella volta, là dove voglio.

Ma come?

 

Ormai, non è che un bambino idiota e incapace.

 

Deve essere imboccato.

 

Deve essere medicato.

 

Deve essere rigirato.

 

Maledetta donna.

 

“Me la sono fatta addosso. Puliscimi, miko.”

 

Lo sguardo di lei non esita. Non trema. Non profferisce verbo.

 

Lo libera pian piano delle fasce che costringono il suo corpo infranto. Inzuppa d’acqua i panni puliti. Lo lava. Non mostra disgusto. Non mostra, alcuna emozione.

 

Onigumo sospira. Geme. A volte ridacchia.

Di proposito.

E le tiene l’occhio incollato addosso, cercando di cogliere la ben che minima esitazione nella sua espressione.

 

Nulla.

 

Purtroppo, non c’è molto da pulire, oggi. Di tanto in tanto, quando le sue voglie si fanno irresistibili, e i suoi sogni tormentosi di un delizioso tormento, e i suoi lombi bruciano di fuoco liquido, si sveglia in piena notte, come non gli capitava più da quand’era ragazzo, per scoprire che il suo corpo si è preoccupato di dargli un briciolo di misero sollazzo.

 

Ma, qualunque cosa ci sia da ripulire, la miko non batte mai ciglio.

 

Si chiede se la donna sappia che, la maggior parte delle volte, potrebbe trattenere le sue viscere in attesa del suo arrivo. Se solo lui lo volesse.

Forse. Forse lei lo sa.

 

Fa parte della sua vendetta. L’ha trasformato in un imbelle bambino. Che lo pulisca, dunque!

 

“Non dovresti tornare, sai, miko? Uno come me, non merita di essere curato così.”

 

Come sempre. Nulla.

 

Non parla sul serio. La provoca, sfidandola a non tornare.

A lasciarlo lì a morire. A fare sapere dove si trova, così che Rasetsu, o uno dei tantissimi altri che vogliono la sua testa, venga a finire quel che non è riuscito a fare.

 

La voce raschiante di Onigumo si fa sentire di nuovo.

 

“Uno come me. Ho commesso così tante atrocità. Mi ricordo, quella volta …”

 

E le racconta uno dei suoi innumerevoli crimini. Non mente e non omette nulla. E’ certo che, se lo facesse, lei se ne accorgerebbe. E invece, Onigumo vuole che lei gli creda e che sappia chi è.

Ma tiene per sé le sue gesta più infami. Abituala, poco per volta.

 

Nulla.

 

Onigumo ricorda bene i primi giorni. Lui le riversava addosso il suo passato. La miko lo invitava a pentirsi per quel che aveva fatto. Non ricorda bene le sue parole. Non gli importava farlo. Sciocchezze. Sciocchezze riguardanti il Fato, e altre stupidaggini.

 

Onigumo le rispondeva sempre allo stesso modo.

 

“Non mi pento di nulla e nulla rinnego di quanto ho fatto. Ho vissuto sempre e solo per il mio piacere. Già. Se non avessi fatto tutto quel che ho fatto, probabilmente adesso non sarei qui, ridotto così. Ma neppure avrei conosciuto una donna bella come te, miko. Perciò, direi che ne è valsa la pena. Sì, ne è senz’altro valsa la pena.”

 

Passati un po’ di giorni, la miko aveva capito il suo gioco e aveva rinunciato a ribattere.

Ascoltava paziente, l’espressione serena, quasi dolce, addirittura.

 

La sua sfida.

 

Così, Onigumo proseguiva coi suoi racconti, fin quando la miko non finiva di pulirlo e medicarlo.

E infine, lo zittiva nutrendolo.

 

Le aveva chiesto spesso di preparagli della carne di porco e del formaggio. Il cibo degli hinin, la casta delle non-persone.

Certo, non il cibo che si abbasserebbe a mangiare una miko o una, ah!, persona rispettabile.

Onigumo era certo che non lo avrebbe fatto mai.

Così, la prima volta che aveva sentito il sapore del maiale nella zuppa, l’aveva quasi sputata per lo stupore. Poi le aveva chiesto se lo avesse cucinato con le sue mani.

La donna non aveva risposto, scrollando solo le spalle.

 

Donna dannata.

 

Ogni giorno, Onigumo cerca di escogitare uno stratagemma diverso per oltrepassare le barriere della donna.

Non ha nient’altro con cui occupare la mente nelle lunghe ore solitarie.

 

Anche oggi ha finito di sfamarlo. Pesce, tritato con un po’ di verdure. Ben bollito, così che possa masticarlo senza troppa fatica, perfino coi suoi denti rotti.

 

Mentre la donna lava la ciotola con un po’ d’acqua, Onigumo sente ululare in lontananza.

La miko si immobilizza in ascolto.

 

Onigumo ne approfitta subito.

 

“Ah, iene. Bestie infide e vigliacche.”

 

Simula una preoccupazione che non prova. Cerca di indurre il tremito nella sua voce roca.

 

“Miko. Resta un po’ qui con me. Per favore. Solo … solo per oggi.”

 

C’è stato un lampo nello sguardo della donna? Come se si fosse accorta della sua recita? Onigumo non riesce a capirlo. Di solito, gli riesce facile dissimulare. Rasetsu è solo uno dei tanti che ha ingannato.

 

Però, questa donna …

 

La miko gli si avvicina e si inginocchia di nuovo al suo fianco.

 

L’ululato delle iene si fa sentire di nuovo.

 

Onigumo annaspa, muove impotente le dita, grugnendo.

 

“Miko. Vorresti ... prendermi la mano? Te ne prego.”

 

Nonostante l’orecchio di Onigumo gli dica che la sua recita è perfetta, come la è sempre, il lampo si ripresenta negli occhi della donna. Non gli crede. Sa che sta mentendo.

 

La donna intreccia le dita con le sue.

 

Il cuore di Onigumo accelera il battito.

 

“Grazie.” Dice soltanto.

 

Le trattiene la mano con la poca forza che gli resta, le accarezza piano il dorso, sfiorando le dita affusolate di lei coi polpastrelli; e poi le poggia il pollice calloso nel palmo, ruotando e carezzando, là dove lui sa che la pelle è più sensibile.

Onigumo sa bene come rendere lascivo perfino un tocco così innocente.

 

I lineamenti della donna restano rigidi fin quasi a rendere il volto una maschera. Ma non si sottrae alla sua presa.

 

Onigumo sorride tra sé. Oh sì; le donne orgogliose sono da sempre le sue preferite.

Quando le spezza, sono quelle le cui grida gli danno più piacere.

 

 

 

Bianco.

 

Dentro al bianco.

 

E’ nevicato, in questi giorni.

 

Mattina.

 

I raggi del sole non mi raggiungono, di mattina. Solo quando sta per tramontare, il sole riesce a sfiorarmi per qualche minuto.

 

Ma il riverbero freddo e violento del sole sulla neve bianchissima, lo raggiunge perfino qua.

Dove la luce viene spinta, quasi urlante, per diventare illusione e sogno.

 

Che strani giochi di luce! Ma sono sveglio? Sono sveglio per davvero? Oppure sto dormendo? Sembra tutto così irreale.

Ormai mi sono abituato al buio. Questo riflesso …questo biancore è accecante, insopportabile. Mi pizzica l’occhio. Lo infiamma. Mi fa piangere. Ma va bene. Non lo chiuderò. No. Continuerò a fissare la volta di questa grotta scavata dagli uomini.

Ci sono segni che non ho ancora imparato a memoria. Forse, con questa luce, potrò vedere qualcosa di diverso …sì …qualcosa di nuovo.

 

 

Qualcosa di nuovo è successo. Ieri. Dopo che la donna ha finito di sfamarlo. Invece di andarsene in silenzio, come sempre, gli si è avvicinata, si è chinata su di lui, lo ha chiamato per nome.

 

“Onigumo.”

 

Aveva trattenuto una smorfia di stupore, che pure si sarebbe persa tra le bende che gli nascondono quasi tutta la faccia.

 

“Ascolta.” Aveva continuato lei, con la sua voce quieta e cristallina come acqua fresca. Acqua che non ha il potere di spegnere o sottomettere il suo fuoco, sia ben chiaro.

 

“Un villaggio vicino ha chiesto i miei servigi per sterminare alcuni youkai. Mia sorella Kaede verrà a portarti da mangiare e a occuparsi di te. E’ giovane, ma l’ho addestrata bene.”

 

La donna si era interrotta, fissandolo diritto negli occhi.

 

“Ma se, al mio ritorno, Kaede sarà turbata, o spaventata, o sconvolta, da una qualsiasi delle cose che potrebbero venirti in mente di raccontarle; in tal caso, Onigumo, io non potrò più occuparmi di te.”

“Se, invece, saprai pazientare, tra pochi giorni sarò di ritorno. Hai capito?”

 

Onigumo aveva annuito. Oh, sì che aveva capito. Sia la minaccia, che la promessa, celate dietro quelle poche parole. E l’ammissione che per tutto quel tempo, lei aveva sempre saputo quale fosse il gioco col quale lui si intratteneva.

 

 

Onigumo ride al ricordo; risate brevi e secche come colpi di tosse.

 

Ah, lo sapevo, lo sapevo. Donna. Quanta passione … che fiamma deve esserci sotto quel ghiaccio. Sì sì, l’ho sempre saputo. L’ho capito appena ti ho vista. Donna dannata. Stupida donna. Mia carceriera.

Nessuno è mai riuscito a imprigionarmi. Ma tu ce l’hai fatta. Vero?

 

Lui non ricorda le facce. Non gli importa ricordarle. E non usa i nomi. No. Non gli piace chiamare le persone per nome, se appena può evitarlo.

 

Ma il viso della donna ormai è impresso nel cuore stesso del suo fuoco. Indelebile.

 

E poiché lui non ricorda le facce, e non usa i nomi, non gli è difficile immaginare … sognare.

Gli basta chiudere l’occhio, un solo momento, per riposarlo da questo intollerabile barbaglio.

 

E ricordare una delle tante donne del suo passato.

 

Come gridano e piangono, mentre le afferra e le schiaccia per terra.

 

Alcune cercano di mordere, quando con una mano immobilizza i loro polsi, oh così sottili, e con l’altra accarezza i loro colli.

 

Alcune gridano più forte, mentre altre restano ghiacce dal terrore, quando strappa il tessuto dei loro vestiti. Che rumore delizioso, oh sì, che pura delizia.

 

E quando usa le ginocchia per forzarle ad aprirsi per lui, e i loro corpi sudati si contorcono, sussultano e tremano. Come scalciano. Sgroppano, proprio come cavalle selvatiche.

 

Delle volte, le prende dopo aver ucciso i loro mariti, o i loro figli. Spesso, quando fa così, i loro sguardi si spengono presto. Gli oppongono appena un po’ di resistenza, ma poi lo lasciano fare. Divertente. Ma lui preferisce, quando combattono fino alla fine.

 

Ormai, i volti di tutte quelle donne sconosciute e senza nome sono diventate un unico volto.

 

Maledetta donna.

 

Che si ripresenta, di continuo, di continuo, dal pozzo della sua mente.

 

Onigumo ne ha avuto la certezza fin dalla prima volta.

 

Senza alcun dubbio. La miko è una di quelle che lotterebbe fino in fondo.

Quanto, prima di riuscire a farla gridare?

 

Molto.

 

Quanto, prima di costringerla a chiedere pietà?

 

Moltissimo.

 

Quanto, prima di riuscire a farla piangere?

 

Ancora di più.

 

Oh sì-sì-sì. Magnifica. Perfetta.

 

Forse con lei potrebbe anche non annoiarsi, dopo le prime volte.

 

E le sue lacrime.

 

Lui beve sempre le loro lacrime. Che arrivano. O prima o poi, arrivano sempre. Basta essere pazienti. E lui è paziente, quando c’è bisogno di esserlo.

 

Sì. Ne è sicuro. Le lacrime della miko sarebbero puro nettare. Pura estasi. Dolci e salate quanto mai ne ha assaggiate. Le vuole. Oh, quanto le vuole. Non ha mai voluto niente altrettanto intensamente.

 

Potrebbe perfino non esserne sazio. Già.

 

Potrebbe perfino non averne, mai abbastanza.

 

E poi sì, dopo aver bevuto tutte le sue lacrime, a modo suo sarebbe dolce. Potrebbe toglierle i vestiti stracciati. E lavarla. E medicarle i lividi. E prendersi cura di lei. Esattamente come fa lei, con lui.

 

Perché lui lo sa. Già! Lui lo sa cosa vogliono davvero. Cosa davvero desiderano, tutte le donne che ha conosciuto.

Anche se non lo ammettono, così come non lo ammette la miko.

 

Infide. Bugiarde. False. Ipocrite. Tutte. Tutte. Tutte quante. Tutte uguali!!

Sono la vostra voglia inconfessata. Io lo so quel che volete veramente. Maledette.

 

E’ sicuro che tutte custodiscono il suo ricordo. Certo, tutte quelle che non sono morte o che lui non ha ucciso.

 

Non si stancherebbe mai di bere le lacrime della miko. Non si stancherebbe mai di badare a lei, di insegnarle cose che, ne è sicuro, nessuno di quegli imbecilli le ha mai insegnato.

 

E visto che lei è forte, molto, molto forte, molto più di qualunque altra donna su cui abbia mai posato gli occhi, forse, forse lei potrebbe sopravvivere abbastanza a lungo da confessare a se stessa la verità, e cioè che è questo quel che vuole davvero. Sì.

Perché lui le insegnerebbe con tanta, tanta pazienza.

 

Onigumo si chiede se sia questo, l’amore.

 

Le sue dita si contraggono mentre, furibondo, pensa all’hanyou. Non lo ha mai visto. Non conosce il suo aspetto.

 

Maledetta donna. Ti credi tanto speciale? Tanto superiore? Tanto meglio di chiunque altro? Oh no, non ti bastava un amante qualunque. Non era sufficiente per te. Doveva essere qualcosa di diverso, qualcosa che potessi avere solo tu. Qualcosa di più forte, già, di più resistente. E cosa ti fai fare dal tuo hanyou? Eh? Come ti tocca, lui? Io saprei fare di meglio, molto di meglio.

 

E da quando in qua una miko si lascia corteggiare da uno hanyou? Da quando mai? Da una cosa che è poco più che un animale. Già. Almeno, io sono un essere umano.

 

Ipocrita. Come tutte. Come tutte.

 

Onigumo si prende la punta della lingua tra i denti spezzati, mordendosela. Sente il leggero sapore ferroso del sangue.

 

E si chiede se sia questa, la gelosia.

 

Mia carceriera.

 

E adesso, cos’è questo ricordo? La miko gli ha detto tante cose. Specialmente i primi giorni. Le ha parlato della sua inutile religione. Lui ha ascoltato tutto con attenzione; per trovare un appiglio da usare per ferirla.

 

Cosa gli ha detto? Gli ha parlato di una … tradizione? Preghiera? Come si dice?

 

Il Kotodama. La ripetizione sacra della parola.

 

Cosa ha detto?

 

Di non permettere che la sua malvagità uscisse con tale frequenza dalla sua bocca. Perché le avrebbe dato vita, in molti modi misteriosi che nessuno avrebbe potuto prevedere. Perché le parole hanno un potere. Il potere di prendere vita. Il potere del Kotodama. E gli diceva di trattenere la sua malvagità, di combatterla. Di usare meglio che poteva il tempo che gli restava in questo mondo.

 

Stupidaggini.

 

Tutte. Quante. Stupidaggini.

 

Però, ha tanto di quel tempo! Perciò, perché non provare a riempirlo, anche così? Cos’ha da perdere? Nulla. Assolutamente nulla.

 

E’ la prima volta. Perciò esita un po’.

 

“Ki … kyou.” E’ la prima volta che pronuncia il nome della donna. A lui non piace usare i nomi. Se appena può evitarlo. Però, questo nome non è troppo sgradevole da pronunciare. Riprova. Più deciso, stavolta.

 

“Kikyou.” Non suona poi così male. No. Nient’affatto.

 

“Kikyou. Kikyou. Kikyou.” Piacevole. Già. Ogni volta più … carezzevole.

 

“Kikyou. Kikyou. Kikyou. Kikyou. Kikyou.” Adesso sì. Adesso comincia a prenderci gusto. Davvero. Sorprendente!

 

“Kikyou. Kikyou. Kikyou. Kikyou. Kikyou! Kikyou! Kikyou! KIKYOU! KIKYOU! KIKYOU!!!

 

Onigumo grida e ride, ride e urla il nome di lei, come il pazzo che, infine, è diventato.

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Capitolo 20
*** XIX ***


Percorre lenta il corridoio di alberi, e la testa non smette di girarle

Percorre lenta il corridoio di alberi, e la testa non smette di girarle. E’ una così bella giornata! Il cielo è terso, il sole, oh non le è mai parso così splendente! E non la scotta, non la tormenta con la sua forza o la sua luce, perché le foglie degli alberi le fanno da riparo come mani gentili.

E i richiami degli uccelli mattutini … il suo orecchio la inganna? Eppure non le sono mai parsi così pieni di letizia. E perché il bosco è così profumato, e l’aria così fresca?

 

Come mai? Come mai, solo adesso che sa di dovere dire presto addio a tutto quanto, tutto le sembra tanto sorprendente, più vivo, più vivido?

 

Trasognata, sente il rumore dell’acqua corrente. Da dove? Ma è vero, c’è un torrente, non molto distante.

E un posto, una caletta, nascosta, piena di ombre. Lei e Inuyasha ci sono andati a mangiare una volta; sono stati lì delle ore. Non faceva caldo, ma lei si sentiva così pesante, e così matura, pronta. Era stato facile fingere che non ci fosse nessuno al mondo tranne loro due. Quel giorno, se solo lui fosse stato un po’ audace, lei gli avrebbe concesso qualsiasi cosa.

 

Si lecca le labbra. Darebbe l’anima per bere un po’ di quell’acqua.

 

La distrazione la fa inciampare in una buca del terreno. Recupera svelta l’equilibrio per non cadere, e la frustata di dolore la riporta alla realtà.

 

China il volto sudato, e poi si costringe a guardare di nuovo la spalla. Il sangue sgorga copioso nonostante tenga stretta l’arteria, la manica ne è madida. Si sforza di esaminare la ferita come se fosse quella di qualcun altro.

L’hitoe si è impastato all’orrido squarcio, trasformandosi in una palla di stracci zuppi di sangue. Cercare di togliere la stoffa … rabbrividisce alla sola idea dell’ulteriore danno che ne verrebbe. Ma perché preoccuparsene? Queste vesti saranno il suo sudario, lei lo sa bene.

E piuttosto, riuscirà a usare l’arco? Saprà trattenerlo quanto basta da tenderlo per scoccare una freccia? Non la spaventa il male fisico. E’ stata addestrata a tenerlo a bada quanto basta. Però.

Un solo colpo.

Ha un solo colpo a disposizione. Lo sforzo di tendere l’arco allargherà talmente la lacerazione …

E sarà finita.

Non deve sbagliare. Non sbaglierà. Non è mai stato tanto importante, non sbagliare.

Solo chi percorre la via del Kyujutsu può comprendere l’armonia, Kikyou.

Ride amara. Quale armonia? Che razza di armonia è? Uccidersi l’un l’altra.

Uccidere? Morire?

No! Non oggi! Questa giornata è troppo splendida! Questo non è un giorno fatto per la morte! Che diritto ha la morte di prendersi questo giorno!? E’ un giorno fatto per ridere e amare e danzare e lei non … può accettare che …

 

Sente una lacrima sfuggirle dall’angolo dell’occhio. Ha fatto di tutto per trattenerle, e questa lacrima ribelle, che sia dannata!

La sente scivolare lungo la guancia liscia e calda, una guancia che non avvizzirà mai, che non conoscerà mai l’ingiuria di coprirsi poco a poco di rughe.

E’ c’è chi ne ha paura! Cosa darebbe, lei, per avere un tale privilegio!

 

E questa maledetta lacrima prosegue il suo cammino. Non può neppure asciugarsela via! Non osa muovere il braccio destro prima del momento in cui dovrà scoccare l’ultima freccia della sua vita, né scostare la mano sinistra dalla ferita.

Scrolla la testa appesantita, ma la lacrima non vuol saperne di staccarsi. Una seconda, figlia di dolore e frustrazione, intraprende il percorso tracciato dalla prima. Stringe i denti per impedire ai suoi occhi di tradirla di nuovo. Scuote ancora la testa.

 

“No. Lascia andare! Non fare così. Assaggiala. Oh, assaggiala! Deve essere squisita.

 

Il gemito veleggia giù dalle fronde degli alberi. Kikyou rabbrividisce nonostante il freddo che già si sente addosso.

 

Cosa?”

 

“Lo so, lo so che ti fa male, oh, piccola mia, mio amore, mia gemma. Lo so, adesso lo so, l’amore fa male, l’amore è duro. Non è quel di cui raccontano i cantastorie.

 

Kikyou esita e si ferma, le pupille dilatate, a fissare i rami.

D’improvviso, tutto è diventato minaccioso. D’improvviso, niente è più bello. D’improvviso, scopre che ci sono sempre nuove scorte di paura, perfino quando queste sembravano esaurite.

 

“Chi c’è?” sussurra.

 

Ma il dolore è buono. Serve per imparare. Non è dolore, quel che prova il seme quando si frantuma e muore? Ma solo così può nascere un germoglio. Me l’hai insegnato tu, sai? Giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno, mi hai insegnato. Già. Sei stata, spietata. Lo sai? Ma io ti ho perdonata. Mio unico, unico amore.”

 

La lacrima sfiora l’angolo della sua bocca. E’ così assetata che la inghiotte senza pensarci.

 

“Così. Lascia andare. Guarda che cosa succede, piccola mia! Perché ti sei fidata dello stupido hanyou? Eppure io sono sempre stato lì. Nessuno ti ha mai attesa come ho fatto io. Nessuno ti ha mai voluta come ti voglio io. Già. L’amore fa male, l’amore è duro, duro come il diamante. Mia gemma.”

 

Kikyou china la testa, in preda alla nausea. Delirio? Sta già delirando? Ha perso più sangue di quanto credesse.

 

E adesso sono venuto a restituirti tutto quello che mi hai insegnato! Tutto quanto. Lo so che sei confusa. Sei spaventata. Forse mi odieresti, se solo sapessi. Anch’io ti ho tanto odiata, sai? Ma tu sei stata così paziente. Così paziente, a insegnarmi l’amore per il quale credevo di non essere fatto! Mia luna. Mia carceriera. Grazie.”

 

“Chi c’è?” Voleva essere un grido, è solo un gemito. Perché è tanto terrorizzata? Tanto, che al confronto quel che provava prima pare niente?

 

“Dimentica l’hanyou. Quello schifoso, stupido traditore! Fai posto nel tuo cuore, per me. Anche se ti fa tanto male, lo so. Neanch’io volevo fare posto nel mio, per te.

E quando lui sarà morto, quando l’avrai ucciso, quando sarà il suo sangue a bagnare la terra …”

“Tu guarirai. Tu lo sai come fare. E ti perdonerò anche questo. A me lo hai negato. Ma erano tutte quelle bugie. Tutte le sporche bugie che ti hanno versato nelle orecchie da quando sei nata. Ma tu le odi quanto le odio io. Vero? Vero? Io te ne libererò. Mio amore. Non ti odierò per questo, non temere. Ho fatto da me. Ho fatto tutto da me. Perché quel che voglio … quello che voglio, io me lo prendo! Sempre! Sempre!!”

 

“Non è vero. Non sei vero. Sei solo un’allucinazione, un sogno.

Altre due lacrime solcano il viso di Kikyou, ma lei non se ne accorge più.

La risata precipita su di lei come foglie marce.

 

“Quante volte l’ho creduto anch’io di te, mia piccina! Va bene così. Piangi. Ma non usare tutte le tue lacrime. Conservane alcune. Le voglio. Le voglio! Questo me lo devi! Adesso ci sono io a occuparmi di te. Non più lo stupido hanyou. Sto andando da lui. Un po’ di pazienza. Ancora solo un altro po’ di dolore. Resisti. E presto …”

“Presto, cuore mio, ci abbracceremo, nelle mie tenebre. E non lascerò più che qualcuno ti faccia male. Non lascerò più che qualcosa ti ferisca. Riposeremo insieme, nelle mie tenebre, dimenticando il mondo, dimenticando tutto! E insieme danzeremo, e rideremo.”

E io ti cullerò, e ti bacerò, e, oh! amore insieme!, noi faremo tutte le altre cose, che si fanno nelle tenebre.”

“Aspettami, mia Kikyou.”

 

Svanito.

 

Kikyou batte le palpebre per liberare gli occhi dal bruciore del pianto e del sudore.

Le era parso che fosse sceso il buio.

Ma no; la luce è sempre la stessa.

E gli uccelli si erano zittiti?

Ma no; cinguettano, proprio come prima.

 

Stava per svenire. Per questo il mondo attorno a lei era parso offuscato, come se stesse per spegnersi. Deve affrettarsi. Se non si sbriga, morirà prima di riuscire a fermare Inuyasha.

 

Arrancando, si costringe a …

 

 

 

 

… spostare le dita verso la gola di Suikotsu.

 

Ma prima che possa strappare la scheggia della Shikon no Tama dal suo collo, una lama guizzante la precede.

 

Il mercenario pazzo con la spada simile a un serpente afferra il frammento. La fissa, ma qualcosa nella sua espressione lo induce a sbarrare gli occhi bistrati per la paura. Si volta e fugge a gambe levate verso una pista che conduce alla cima del monte Hakurei.

 

Kikyou resta a guardare le carni di Suikotsu disfarsi e tornare polvere, il sorriso sereno sostituito dal ghigno vuoto del teschio luccicante.

 

Stavolta sei morto come volevi, amico mio. Questo ti basta?

 

Kikyou resta inginocchiata, perduta tra pensieri e ricordi, mentre la pioggia spazza via la polvere.

 

“Stai bene?”

 

Sussulta. Gira la testa e trova il volto della bambina, alla stessa altezza del suo. Ma per quanto si sforzi, non riesce a formulare neppure l’imitazione di un sorriso.

 

“Sì. Ti ringrazio, sto bene. E’ tutto passato. Non c’è più nulla di cui aver paura.

 

“Lo so.” Risponde la bambina e, pur inzuppata come un pulcino, le sorride, come se non avesse una sola preoccupazione al mondo. E questo è vero, in un certo senso.

 

Kikyou è travolta da un empito di tenerezza; vorrebbe allungare il braccio, e posarle la mano sulla nuca, per impartirle una benedizione, qualcosa che la possa proteggere. Ma basta solo l’accenno di un movimento del suo braccio, pressoché impercettibile all’occhio umano, e subito sente raggiungerla, a ondate, la disapprovazione dello youkai alle sue spalle.

 

No. Lo youkai non le permetterà mai di toccarla. Una creatura come lei, morta e, quel che è peggio, con una tamashii che puzza di un odore troppo simile a quello di colui che lui è venuto qua a uccidere.

 

Non le consentirà di toccare neppure uno dei capelli della sua protetta.

 

Kikyou si sente, all’improvviso, spasimare per la sorte di questa bambina. E parole quasi le si formano sulle labbra. E’ così difficile trattenerle. Perché vorrebbe dirle

 

Stai attenta, bambina! Stai tanto, tanto attenta! Io lo capisco, un pochino, sai?, come ti senti. Ti senti sicura, e cullata. Io sono stata scaldata, sai?, da un calore simile a questo. E’ bello, è caldo, come un fuoco scoppiettante nelle sere gelate d’inverno, come una coperta cucita da tua madre, tutta avvolta attorno alle spalle. Sotto la quale ti puoi rannicchiare, per credere che niente ti possa far male!

 

Ma, bambina, stai tanto, tanto attenta! Perché quel che ti sta vicino non è l’amichevole fuoco che ti scalda – anche se pure quello può morderti quando meno te l’aspetti!

Quel che ti sta vicino è il sole! E il sole non deve mai starti troppo vicino, bambina! E’ troppo, troppo caldo. Lo so. Tu credi che illumini i tuoi passi. Tu credi che stia lassù, solo per te, solo per proteggerti. E, oh, bambina! Purtroppo per te, questo è vero!! Un sole così … non ci sarà luogo per l’ombra, quando la tua pelle si coprirà di vesciche. Non ci sarà pezzuola bagnata per riposare gli occhi, quando ti bruceranno fino a lacrimare senza potersi fermare. Non ci sarà una gentile sorgiva d’acqua per bere, quando la tua gola sarà tanto riarsa dalla sete da toglierti voce e senno. E lui non saprà, lui non capirà. Quando non sarai altro che un mucchietto di cenere, lui passerà tutta l’eternità a chiedersi che cosa ti abbia uccisa. Senza capirlo mai.

 

E perciò, bambina, stai tanto, tanto attenta!

 

 

Rin.”

 

Con una singola parola, Sesshoumaru richiama Rin a sé. Non gli piace che stia troppo a lungo vicina a quella specie di miko.

 

Ha udito l’incomprensibile conversazione tra i due morti, e seguito la lenta convulsione delle loro tamashii. Le zaffate di puzzo che ne venivano l’avevano quasi costretto ad allontanarsi. Solo il suo orgoglio l’aveva trattenuto.

 

Uno dei due morti è finalmente svanito – ma purtroppo l’altro ancora lo tormenta.

 

La miko si alza in piedi, indifferente alla pioggia quanto lui, e lo squadra con calma.

 

Impudente creatura. Sesshoumaru avverte l’odore della sua scelta. La miko annuisce.

 

E’ libero di andarsene. Venire trattenuto l’ha spazientito, essere congedato così lo fa infuriare, e non può neppure sfogare la sua irritazione sull’aberrazione morta.

 

Ma non importa. La ragione per cui è qui è un’altra. Mentre si allontana, la sussurra a fior di labbra.

 

“Naraku.”

 

 

Gli occhi dorati dello youkai incrociano i suoi prima di volgersi altrove. Le sagome sua e della bambina svaniscono nell’oscurità della pioggia.

 

Kikyou lascia che l’acqua le lavi il viso e i capelli. Chissà come sarebbe stato. Se gli occhi di Inuyasha fossero stati così. Ah, allora lei non avrebbe certo esitato.

La loro battaglia sarebbe diventata materia per leggende e canti; sarebbe durata giorni.

E lei non si sarebbe lasciata battere. Perché non c’è mai stata nessuna, nessuna come lei.

 

Forse, alla fine, non avrebbero fatto altro che uccidersi l’un l’altra. Perciò, in fondo, nulla sarebbe cambiato.

 

Ma io avrei sofferto di meno.

 

E non solo io. Non ho ragione, Naraku?”

 

 

 

 

La sua risata è quella di un folle. L’ha afferrato, come un’enorme mano invisibile, e lo scuote selvaggia. Inarrestabile?

 

No. Pian piano, la sua virulenza si riduce. Le fiamme che cova si attenuano, e la risata si tinge di freddo, controllata, sicura. La sua risata. Sua, e di nessun altro.

 

Il dolore alla testa è oltre l’agonia, frantumi d’ossa a mordere la materia morbida delle sue cervella. Non gliene importa nulla. Anzi, ne esulta.

 

Solleva le braccia sopra il capo, i pugni chiusi. In mezzo alla devastazione, fissa il cielo bianco. Bianco!

 

E, come per tutte le cose, la risata

 

finisce.

 

“E’ finita la tempesta.”

 

 

Capitolo un po’ più breve, prima di affrontare l’ultima e complessa parte del monte Hakurei

 

@Mommika: grazie mille, davvero. I tuoi complimenti mi hanno inorgoglito. Di fatti l’idea con la quale ero partito era proprio ri-raccontare alcune cose … certo, devo dire che io per primo mi sono stupito davanti a certe mie “uscite”. Certo, questo è l’ “amore” con tutte le virgolette d’obbligo, di Onigumo, e altro non potrebbe essere.

[siamo almeno due sostenitori della coppia sfortunata xD ]

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Capitolo 21
*** XX ***


Come sono ordinate e diritte queste strade

Come sono ordinate e diritte queste strade!

 

Sorride, compiaciuto. Dilata le narici, cercando un odore, un odore qualsiasi. Non ne avverte alcuno. Annuisce. Prosegue il suo cammino, senza né rallentare né affrettarsi, godendo di ogni istante come se fosse il primo della sua esistenza. Si sente così pulito.

 

Ed ecco, altre macerie lasciate dalla tempesta. Al posto dei palazzi, blocchi monolitici di pietra, sparsi disordinatamente come i balocchi di un gigante. Qui, l’acciottolato è sventrato, e al di sotto lui intravede … cosa?

 

Non è oscurità, non è materia, non è luce.

 

Non è importante.

 

Naraku leva una mano, incorporea, senza neppure smettere di camminare, e la pietra sembra diventare come magma, cercandosi, chiudendo squarci, assumendo la forma che lui desidera. I blocchi rotolano con un terribile frastuono, e nuovi edifici sorgono dalla pavimentazione, aggredendolo col lacerante ruggito della roccia sulla roccia. Ma non un solo grano di polvere si agita nell’aria.

 

Il suo sorriso si allarga. Niente dolore. E’ svanito; può fare tutto questo, e molto di più, senza che neppure un flebile pulsare gli sfiori le tempie.

 

“Poco. Manca pochissimo.”

 

Le costruzioni si fanno rade, la strada si allarga sempre più. Dieci metri, venti, cinquanta. In lontananza, Naraku vede la sagoma di un solitario, gigantesco anfiteatro stagliarsi contro il cielo bianco e vuoto. Si muove in quella direzione per raggiungerlo. Più grande, sempre più grande man mano che si avvicina, fino a occupare tutto il suo campo visivo.

 

Solleva la testa, fissando la parete convessa che incombe su di lui, alta quasi cento metri. I suoi occhi scintillano liquidi. Un varco si apre. Percorre il corridoio scuro, lo sguardo fisso sul piccolo punto di luce che ne segna la fine. Emerge all’interno di una vasta arena pavimentata in ciottoli. Le gradinate si susseguono innumerevoli, una sopra l’altra. Scrolla le spalle e comincia la salita, fino ad arrivare circa a metà. Si siede, gomiti sulle ginocchia e mento poggiato al palmo della mano.

 

E le immagini prendono vita, dapprima come sagome perse tra la nebbia, per farsi sempre più concrete.

 

Prima, quello che era il palazzo di Kakewaki.

 

Poi lui stesso, il corpo deforme e gigantesco, in guisa di ragno mostruoso, mentre, la sua barriera abbassata, attende l’arrivo di Sesshoumaru.

 

Poi, Sesshoumaru stesso che, attirato dal suo odore, viene – così lui crede – per distruggerlo.

 

Gli eventi che lo hanno portato a rifugiarsi nel ventre del monte Hakurei. Li rivede ora.

 

Sesshoumaru che lo colpisce con Tokijn.

 

Frammenti del suo corpo che piovono come pioggia sporca sulla fiamma di calor bianco che è lo inuyoukai.

                  

Naraku sorride, come se dalla sua coscienza fosse svanito il ricordo dell’epilogo dello scontro, e pregusta una vittoria che non può sfuggirgli.

Un pezzetto per volta, vede se stesso aderire a quel biancore accecante, alla ricerca del punto su cui premere per frantumare il guscio di Sesshoumaru e divorarne la polpa.

 

Studia con distacco il fratellastro di Inuyasha sferrare colpo su colpo, un fendente dopo l’altro, e oh quanto gli piacerebbe scoppiargli in faccia a ridere e ridere e ridere.

Perché Sesshoumaru sa quel che sta succedendo eppure, come lui sapeva avrebbe fatto, non ferma i suoi attacchi.

 

Tutti. Tutte le creature dei cieli e della terra sono le schiave delle loro stessa natura.

 

Se Sesshoumaru non fosse confinato nella gabbia del tempo e dello spazio, quella cornice che i Kami hanno deciso debba racchiudere l’universo da loro sognato, proseguirebbe il suo attacco in eterno e oltre.

Poiché non può concepire né sconfitta né esitazione né riposo, ciò che intimamente è lo sta condannando alla sconfitta senza che lui, Naraku, debba muovere un solo dito per infliggergliela.

Quanto sarebbe piacevole spiegarglielo. Ma Sesshoumaru, purtroppo, non può apprezzare l’ironia di questo paradosso.

 

Adesso è ricoperto da capo a piedi. Per quanto tempo resisterà? Probabilmente per molto. Potrebbe perfino riuscire a liberarsi. Ma, anche in tal caso, sarà lui stesso a creare le condizioni per farsi imprigionare di nuovo. E prima o poi, esaurite le sue titaniche forze, sarà pronto per essere consumato dalla sua tenebra.

 

C’è solo una piccola, minuta inquietudine.

 

E’ bene che un tale assoluto diventi una parte di me?

 

Il sorriso di Naraku si smorza. Questo è qualcosa a cui avrebbe dovuto pensare per tempo.

 

Perché voglio che un tale assoluto diventi una parte di me?

 

Una forma confacente a quel che sono. E’ ciò a cui ho diritto.

 

Coloro che hanno una forma, sono quella medesima forma. Possono desiderare che essa sia diversa, migliore, ma sanno che sono ciò che hanno.

 

Ma colui che può determinare la forma che ha, può altresì determinare quello che è.

Non un desiderio, ma solo una realtà tra le infinite possibili.

 

Questo, il mio dono.

                                  

E dunque, è bene che un tale assoluto diventi una parte di me?

 

Posso prenderlo. Posso farlo mio. Posso essere così.

 

Ma posso addomesticarlo?

 

Non lo so. Non per certo. L’assoluto è una delle poche cose che ignoro. La mia decisione è incauta.

 

Rabbrividisce.

 

E perché proprio lui?

 

Certo, Sesshoumaru possiede uno youki di immenso potere e di purezza incontaminata. E questo soddisfa l’ambizione della perfezione attraverso una forma perfetta.

 

Non avrei mai neppure contemplato l’ipotesi di sbranarlo, se così non fosse.

 

Tuttavia, ci sono altri youkai.

 

E quindi, perché proprio lui?

 

Naraku scatta in piedi con un grido, gli occhi brucianti di furore, proprio nel momento in cui Inuyasha fa la sua apparizione tra i ricordi, squartando il suo corpo con un colpo di Tessaiga e liberando il fratellastro.

 

“No!”

 

Perché ho scelto proprio colui il cui youki è il più simile a quello di Inuyasha?

 

Il grido di rabbia di Naraku diventa più alto e forte, spazzando via le immagini come fumo. La pietra dell’arena dentro la quale si trova trema, si crepa e si sbriciola, per poi cominciare a sprofondare in un caos squassante.

 

Il corpo trasparente di Naraku resta sospeso nell’aria mentre l’anfiteatro esplode in un milione di schegge.

 

“No! Dove sei!? Dove ti sei nascosto, stavolta!?!”

 

Ora c’è solo uno spiazzo piatto e liscio. Scende pian piano, fino a toccare terra.

 

“Basta ora.”

 

Naraku si abbandona una volta per tutte, divenendo così un’unica cosa con la città della sua mente. La sua pelle è la pietra. Strade le sue vene. I suoi occhi, i pertugi scuri che si spalancano ovunque, veloci, sui muri dei palazzi.

 

Cammina, poi allunga il passo, poi corre. Dov’è? Dove?

 

Sente le zampe solleticargli la pelle, annusa il fetore del veleno del ragno, vede brillare l’unico occhio dell’Oni … dell’orco.

 

“Basta ora. L’ultima volta. Mi senti!? Questa è l’ultima VOLTA!”

 

Naraku sente dilagare dentro di sé un odio che neppure le volte del cielo possono contenere. Le sue orecchie aguzze odono sussurri e grida.

Per quanto sia umiliante, per quanto sia doloroso, deve rinunciare a tutte le difese del suo orgoglio.

 

E sia. Rinuncio.

 

E’ troppo importante arrivare alla fine dell’inseguimento.

 

Ciò che ode diventa, infine, comprensibile.

 

“Kikyou.”

 

 

 

Il puzzo pungente gli colpisce le narici d’un tratto, interrompendo la sua litania.

 

“Kikyou. Kikyou. Kikyou. Ki …”

 

Onigumo solleva la testa per quel poco che gli riesce, cercando l’origine della puzza. Annusa più volte. Un odore acido, rancido.

 

Ruota la testa, perplesso, senza riuscire a vedere nulla. E’ notte inoltrata, ma proprio non riesce a dormire. Così, come fa sempre più spesso, riempie l’attesa e la noia con il suo Kotodama.

 

Annusa di nuovo, annaspando alla cieca con le braccia. Riesce a muoverle un poco, ora che Kikyou ha rimosso le steccature. Ma la sua forza è persa – per sempre. Debole e inerme, peggio di un bimbo. Un guizzo di rabbia lo scalda di colpo, saziandolo come cibo prelibato.

 

Donna dannata.

 

Ma questa puzza. Adesso deve capire da dove viene.

Gli pare che provenga da lui, ma al tempo stesso da tutto attorno, come se essudasse dalle pareti di questa maledetta caverna, questa lercia prigione.

Che la cancrena sia finalmente arrivata a por fine al suo tormento? Scuote quanto può testa e braccia in un gesto di ribellione. No, non vuole morire, a nessun costo; non può darsi per vinto.

Vuole la donna e la Shikon no Tama. Se solo lei gli portasse il gioiello, maledetta donna, se solo gli mettesse a disposizione quel potere, potrebbe guarire e prendersi ciò che è suo.

 

“Kikyou.” Sussurra di nuovo, leccandosi il labbro e tremando, pronto a riprendere la sua inesauribile invocazione. Sente un’altra zaffata di quell’odore alieno.

 

Stringe i denti rotti, sforzandosi di calmarsi. Non sembra odore di putrefazione, non proprio. Lui ha visto più volte una ferita andare in cancrena. Sorride, al ricordo dei disgraziati a cui è capitato. Verso la fine, bruciavano di febbre, gridando e delirando, facendosela nei vestiti, ed era quasi impossibile avvicinarsi per colpa del tanfo.

L’odore che sente adesso è molto sgradevole, ma diverso.

 

E poi, Kikyou lo ha lavato e medicato proprio ieri. Ha cambiato tutte le sue fasciature, bruciando quelle vecchie fuori dalla cava. Ha passato un panno bagnato sul suo corpo, togliendo la sporcizia, e poi ha spalmato unguento sulla sua pelle, prima di avvolgerlo nelle nuove bende. Onigumo geme, gongolando nel ricordo del tocco morbido e vellutato di lei sulle poche porzioni della sua pelle ancora integre. Ridacchia, chiudendo l’occhio e immaginando quelle mani delicate e bianche come colombe farsi più decise, esplorare guidate da ben altri intenti, andare là dove lui vuole, dove lui brucia, a dargli il sollievo di cui ha bisogno.

 

“Sì! Mia luna. Mia carceriera. Kikyou. Kikyou!”

 

Tossisce, sferzato da un fiotto più forte di quella puzza acida.

 

Cosa …?” borbotta. L’odore è troppo intenso, comunque; la cancrena non può dilagare così in fretta da un giorno all’altro. E poi gli pare … ma no. Impossibile.

 

Resta in silenzio, immobile, la palpebra abbassata, trattenendo il respiro, i sensi dilatati all’esasperazione, all’erta.

 

Forse.

 

Con un ghigno, si rilassa, respirando a fondo, riempiendosi il petto dell’aria corrotta, costringendosi ad assaporarne il fetore.

 

“Kikyou.” Le mani di lei su di lei, a togliersi quelle stupide vesti da miko.

“Kikyou.” Le mani di lei su di lui, a liberarlo delle fasciature.

“Kikyou.” E lei addosso.

“Kikyou.” E lui che, guarito, può finalmente muoversi, piantarle le dita così forte nelle carni da lasciarle lividi, marchi incancellabili, come devono essere, perché lei gli appartiene.

“Kikyou.” E la puzza acida ha invaso i suoi polmoni così come tutta la caverna, oh ha invaso il mondo intero, gli soverchia la mente, gli riempie le viscere.

“Kikyou. Kikyou! Kikyou!!”

Spalanca l’occhio all’improvviso, zittendosi.

E il suo sorriso pieno di esultanza, è il sorriso di un uomo le cui preghiere sono state esaudite.

Il lucore rossastro che li circonda. E’ quello che gli permette di vedere le loro sagome. Sono tanti. Sono neri. Sono deformi. Sono insensati. Sono pazzi. Sono affamati.

Sono bellissimi.

Quante forme? Alcuni come vermi, altri come orsi, altri come scimmie, volti di bimbi vizzi come prugne secche, occhi di tutte le forme e colori, fauci, zampe, e oh! ancora, e ancora!

Quanta cupa bellezza.

Onigumo ringhia, affamato come loro.

 

Dal mucchio, se ne stacca uno, simile a un ragno sia nell’aspetto che nelle dimensioni; occhi scintillanti, il pelo grigio, duro e arruffato.

Onigumo.” Sibila la voce, spezzata ma comprensibile.

 

Cosa vi porta qui, mostri?” Onigumo non ha paura. La paura è una delle tante emozioni umane che non ricorda di avere mai provato. Ha solo fame, e rabbia. La sua incontenibile rabbia.

Youkai.

Quelle specie di bestie. Non ne ha mai incontrati fino a oggi, e adesso se ne trova davanti una torma innumerevole, che riempie tutta la cava e, non sa come ma ne è certo, brulica fuori, strisciando e insozzando il prato, avvelenando il terreno, ammorbando l’aria.

Gli youkai più vicini gli premono davanti, dietro, ai fianchi. Ce ne sono anche alcuni sospesi a galleggiare per aria, a fissarlo con una voracità che lui capisce benissimo, perché è la stessa che cova nel suo sguardo.

Ma restano tutti a una certa distanza, come se non potessero avvicinarsi più di così, come se ci fosse qualcosa a trattenerli.

L’unico youkai a violare l’invisibile confine, è quello a forma di ragno. Zampetta su di lui, striscia sulle sue gambe – lui può vederlo ma non sentirne il peso – risale lungo l’addome e si arresta proprio sul suo petto, il suo petto che si alza e si abbassa concitato.

 

“Ti abbiamo sentito, Onigumo. Ti abbiamo sentito, mentre ci chiamavi, e siamo venuti da te.

 

“Io non vi ho chiamato, mostri. Vi state sbagliando.

 

“No, non ci sbagliamo, Onigumo. Tu ci hai chiamato. Oh, l’odore delle tue voglie, Onigumo … si sente da così lontano. Su, avanti. Dicci. Cos’è che vuoi, Onigumo? Cosa vuoi da noi?”

 

Il labbro superiore di Onigumo si arriccia.

 

“Voglio? Cosa voglio? Non dovrebbe essere difficile capirlo, neppure per voi mostri. Un corpo. Un nuovo corpo per potermi muovere, e uscire da qui, e prendermi la Shikon no Tama, e soprattutto, oh, soprattutto la miko Kikyou. Deve imparare, cosa significa essere mia, mia, MIA! Sì, deve imparare, e io le insegnerò.

 

Il ragno si frega le zampe anteriori.

 

“Va bene, Onigumo. Sarà come tu vuoi. Noi ti procureremo un nuovo corpo, e ti aiuteremo a realizzare tutti i tuoi desideri. Ma in cambio. In cambio, noi vogliamo la tua tamashii. Vogliamo banchettare con la tua tamashii, Onigumo. La tua anima umana, è così speciale. Tu non lo sai, ma io ti dico che noi non credevamo ce ne fossero di simili.

 

Il sorriso di Onigumo si dilata sempre più.

 

“La mia tamashii? Esiste qualcosa del genere, dunque, mostri? E voi la vorreste? La mia anima imputridita ha un valore per voi? Se è così, prendetevela pure! Non so che farmene! E datemi in cambio un corpo, e il potere!” Scoppia a ridere, convulsamente. “Mangiate! Avanti, più vicini! Mangiate, mostri! Ma attenti, la mia anima potrebbe essere indigesta, persino per voi!”

 

Gli youkai non attendono di farselo ripetere una seconda volta. I più vicini si scagliano verso di lui, artigliandosi l’un l’altro per raggiungere il suo corpo indifeso. Il ragno demoniaco gli affonda le chele nel petto, stacca brani di carne, scavando come per farsi una tana.

 

Alcuni youkai hanno raggiunto le sue gambe paralizzate. Una specie di verme gli addenta la coscia, e strappa con un rumore liquido, simile a quello di un uomo che assapora, affamato, una succosa zampa di coniglio. Il verme solleva il muso, e Onigumo vede scintillare tra le zanne i filamenti insanguinati dei suoi stessi tendini.

 

La risata di Onigumo si trasforma in un grido così alto da ferirgli le corde vocali. Getta la testa all’indietro, il tonfo violento della sua nuca sul terreno si perde tra i grugniti bestiali degli youkai che pasteggiano.

 

Altri youkai cercano il suo corpo, uccidendo quelli che li hanno preceduti pur di raggiungerlo. Onigumo solleva la testa, e attraverso il velo del soffocante dolore, vede le sue gambe quasi spolpate, i mostri che masticano le sue ossa come cani.

 

Altri gli si gettano al petto e puntano la testa. Solleva d’istinto il braccio sinistro. La spalla di quello destro è già stata macinata da una gigantesca libellula con la testa priva di occhi e un tentacolo che le riempie tutto il muso – tentacolo che si protende a scavare da sotto la pelle, come un parassita, i muscoli del suo braccio, liquefacendoglieli.

 

Un piccolo youkai, uno di quelli che sembrano una scimmia, senza naso e orecchie, gli morde il polso, spezzandoglielo di nuovo. Onigumo fa leva come può col braccio sinistro, allontanando la scimmia che sferza l’aria con gli artigli delle zampe, a cercare il suo collo, squarciandogli invece il costato.

 

Il grido sfiatato di Onigumo si trasforma di nuovo nella sua risata pazza. Il dolore gli sembra un’entità viva, ma quasi come se fosse separata da lui, come se non gli appartenesse sul serio. Sputa un grumo di muco, saliva e sangue sul grugno dello youkai.

 

“Tutto qua!?! Tutto qua, quello che sapete fare!?! Avanti, fatevi sotto!! Non sapete fare di meglio?! Venite! Mangiate! Sono qua! Qua per voi, mostri!!”

 

I suoni delle sue ossa frantumate, dei ruscelli del suo sangue che spruzzano ovunque, lo fanno ridere più forte. L’occhio ruota nell’orbita come quello di un cavallo impazzito.

 

La sua incontenibile rabbia non sembra spegnersi, ma farsi più forte che mai, tanto da dargli la forza di sollevare il braccio e costringere la scimmia demoniaca ad allontanarsi di qualche pollice. Onigumo vede un buco nel suo petto, dal quale spunta ora solo il pungiglione del ragno. Altri due youkai lo hanno sventrato. Un mostro col muso da pesce e le zampe palmate, il becco come quello di un uccello, affonda il rostro nella sua pancia e ne estrae, con una torsione della testa, parte della matassa dei suoi intestini.

 

Eppure, per quanto assurdo sia, il dolore non aumenta, ma al contrario, si stempera ogni secondo di più, diventando meno importante.

 

Sto morendo? Per questo non mi fa male?

 

“Vi ammazzo, mostri! Vi uccido! Tutti!! Vi farò vedere io come si uccide!”

 

Il braccio sinistro crolla senza forza. Onigumo avverte denti affilati perforargli il collo. Chiude l’occhio. L’oscurità precipita su di lui.

 

Ma la morte non giunge.

 

Sente, invece, una scura energia avvampargli dentro, scuoterlo come una frustata.

 

Riapre l’occhio. Spalanca la bocca, ma un vagito e un fiotto di sangue scuro sono le uniche cose che escono. La sua gola è squarciata.

 

Ma lui non muore. L’energia nera che lo ha invaso, lo sta tenendo in vita. Il suo cuore batte ancora, anche se non c’è quasi più sangue nel suo corpo da pompare.

 

La libellula che gli sta divorando il braccio pare svanita. Vede solo le sue ali membranose e trasparenti spuntagli dalla spalla destra, come assurdi gagliardetti. I movimenti della carne aliena sotto la pelle del suo braccio lo lasciano interdetto. Poi, il suo ghigno insanguinato riprende vigore.

 

Non vi sarà così facile, mostri.

 

Costretto al silenzio, concentra tutta la sua rabbia sul braccio destro.

 

Adesso vedrete. Vi uccido. Vi uccido!

 

Uno spasmo. Un altro. Le ali sbattono un paio di volte. E infine.

 

Il braccio destro di Onigumo si piega ad afferrare le ali, strappandole vie come steli d’erba. Sente nella mente un grido di stupore.

 

Sì!

 

Oh, non avrebbe mai immaginato che il suo braccio potesse diventare così forte, così possente!

 

Afferra per la collottola lo youkai che gli sta ancora mordendo il collo, i denti che lasciano impronte nelle sue vertebre snudate, e lo allontana da sé con un solo, brusco movimento.

 

Il muso insozzato di scimmia si rattrappisce, un urlo d’odio lo assorda, mentre una pioggerella del suo stesso sangue gli picchetta la faccia.

 

Onigumo muove il pollice sotto la mascella dello youkai, trovando una pulsazione che può solo sperare essere quella vitale. Schiaccia. Ruota. Preme!

 

Il grido della creatura si mozza subito.

 

Onigumo è ormai poco più di uno scheletro. Solo il braccio destro sembra intatto.

 

Ma non importa. Non importa. Importa solo uccidere questa bestia ripugnante, vederla morta, spezzata, vinta.

 

Muori! Muori! Muorimuorimuori!

 

Con uno schiocco, il collo della scimmia si spezza, la testa ciondola in un angolo impossibile. Sì! Onigumo vorrebbe gridare la sua gioia irrefrenabile! Vorrebbe poter …

 

In un lampo, capisce cosa fare.

 

Sbatte il corpo dello youkai a terra e, facendo leva sulle asperità del suolo, strappa via la gola della scimmia demoniaca.

 

Poi se la posa sul collo squartato. Sente i sui tessuti lacerati sussultare come tentacoli, intrecciarsi a quelli dello youkai in un movimento pazzo.

 

Lo strillo che scaturisce dalla sua bocca, non è più umano, come neppure la sua voce.

 

“Tutto qua!? Dovrete fare di meglio! Molto meglio di così, mostri, se mi volete!! Venite qua! Uno alla volta, tutti assieme! Vi uccido, mostri! Non mi fate paura! Dovete essere voi, ad aver paura di me!!”

 

La sua risata è un tuono, adesso. E gli youkai interrompono il loro banchetto, e lo fissano con occhi luccicanti e insondabili.

 

Il tentacolo dell’ennesimo youkai si attorciglia attorno al suo avambraccio destro. Sempre ridendo, Onigumo afferra il tentacolo con la mano e, invece di provare a liberarsi, solleva l’intero corpo dello youkai – un’apparente massa di tentacoli violacei e carnosi – e lo sbatte a terra, alla sua sinistra. Ode un grido, la pietra che si frantuma. Colmo di selvaggia felicità, cosciente del dolore che sta infliggendo, solleva lo youkai e lo schianta alla sua destra. E poi ancora, a sinistra. E ancora. E ancora! Schegge di pietra fendono l’aria.

Il grido del mostro si fa più fievole.

 

“Muori! Muori! Muori!!”

 

Sto vincendo!

 

Onigumo esamina per un attimo il suo braccio sinistro divorato e, noncurante, lo divelte dall’articolazione della spalla. Poi, strappa uno dei tentacoli dello youkai appena ucciso, e lo poggia al moncherino.

Di nuovo, sente le carni sua e quella aliena annodarsi l’un l’altra.

 

Solleva verso la volta di pietra il braccio destro e il tentacolo sinistro in un gesto di trionfo.

 

“Arrivo!” ruggisce.

 

Gli youkai hanno perso parte della loro baldanza. Alcuni stanno ancora mangiando quel poco che resta di lui. Altri si sono immobilizzati, e alcuni sembrano volersi allontanare. Ma il muro dei loro fratelli sbarra loro la fuga.

 

“Sto arrivando, Kikyou!” muggisce Onigumo; la voce poderosa fende la roccia stessa della caverna, gocce di saliva cadono sulla paglia su cui è disteso, dandole fuoco.

 

Un’oscena parodia di gatto con un occhio solo gli sta trafiggendo la faccia, gli ha bucato la guancia con la zampetta e gli sta artigliando il palato. Con un guizzo del tentacolo, Onigumo lo imprigiona e lo allontana da sé. La creatura sibila e soffia. Onigumo conficca le dita dure attorno all’orbita del mostro, e con una torsione gli cava l’occhio, per poi gettare via lo youkai, tra le fauci spalancate dei suoi fratelli.

 

“Arrivo, Kikyou! Aspettami! Per te! Tutto per te! Mia luna! Mia carceriera!”

 

Poggia l’occhio nell’orbita vuota, e un momento dopo vede come non ha mai visto prima in vita sua.

 

Vede nella tenebra come in pieno giorno. Ma non riesce a conciliare le diverse immagini che i suoi due occhi gli mostrano. Levando un altro grido, perfora il suo occhio umano col dito, spegnendolo per sempre.

 

“Così va meglio.”

 

Si guarda in giro frenetico, alla ricerca d’altro. Una cosa che potrebbe essere una talpa sta fuggendo. Arranca. All’improvviso, sembra quasi che, nonostante gli sforzi, lo youkai venga come trascinato, risucchiato da un gorgo di cui Onigumo è diventato l’epicentro.

Incuriosito e assistito dalla sua nuova vista, Onigumo capisce che non è il solo youkai i cui sforzi di fuga sono vanificati da questa misteriosa attrazione che li trascina verso di lui.

 

“Avete visto, mostri!? Ora vedremo! Vedremo chi divorerà, e chi sarà divorato!!”

 

Un pugno che è come un maglio, Onigumo spezza la schiena della talpa e la lascia paralizzata. Poi, sghignazzando per ogni sibilo di dolore a cui la costringe, inizia a strapparle le zanne una a una, e a conficcarsele in bocca, nelle gengive nude, là dove i suoi denti sono saltati via e si sono fracassati. Sangue si mischia al sangue che già gli lercia mento e petto.

 

“Ti piacciono gli hanyou, Kikyou!?” Biascica. “Bene! Benissimo! Eccomi! Solo per te! Tutto per te!!”

 

Onigumo percuote, colpisce, morde. Decapita un grosso youkai col carapace rosso come quello di un granchio. Strappa un pezzo di corazza e, dopo aver allontanato a frustate i mostri che stanno nidificando tra i suoi intestini, se la poggia al ventre.

 

“Kikyou!”

 

Trafigge il cuore di un orco deforme con la punta delle dita, gli abbranca le gambe e gliele stacca entrambe in un unico movimento, facendosele ruotare come clave sopra la testa.

 

“Belle! Proprio belle!! Già! Non trovi anche tu? Kikyou!?

 

Brucia! Quanto brucia!!

 

Paglia e legno attorno a lui prendono fuoco. Onigumo ulula dolore e trionfo; le forme degli youkai si sciolgono e fondono al suo calore, come rozze sagome ricavate dalla cera. La pietra stessa della caverna comincia a liquefarsi, precipitando dal soffitto come lacrime incandescenti.

 

La poltiglia fusa degli youkai scorre simile all’acqua di un torrente, balzandogli contro, aderendo alle ferite che gli sono state inflitte, entrandogli in bocca, nelle orecchie, nel naso, facendolo soffocare.

 

Onigumo ignora tutto quanto e apre il proprio petto col tentacolo, per poi allargare più che può la ferita.

Vede il ragno avvinghiato attorno al suo cuore che batte come se nulla stesse accadendo. Schiaccia cuore e ragno nella sua presa, la mente una trottola di pazzia e tormento, costringendo le carni a impastarsi, incollarsi l’un l’altra fino a diventare una cosa sola.

 

Lampo.

 

Oblio.

 

Sogni.

 

 

Kikyou è a pochi metri dall’imboccatura della cava. Porta con sé il cibo e i soliti fagotti. Oggi la luce del giorno è davvero strana, ma non si sofferma a riflettere su un particolare di così poco conto. Deve spicciarsi a dar da mangiare a Onigumo. Il suo quotidiano obbligo si fa sempre più insopportabile. Più in fretta lo sbrigherà, prima potrà andarsene.

Sente però d’improvviso una puzza tremenda fuoriuscire dalla bocca della caverna. Si immobilizza, e poi inizia a camminare svelta, i cesti cadono a terra senza far rumore. Il tanfo della putredine la soffoca. Onigumo? Che sia Onigumo?

 

Entra di corsa nell’oscurità, senza accorgersi del guizzo di sollievo che le ha riempito il petto all’idea che Onigumo stia finalmente

(marcendo)

morendo.

 

Raggiunge la sagoma sdraiata; la puzza è intensa, eppure non sente il bisogno di proteggersi il naso con la manica.

 

Onigumo!”

 

L’occhio dell’uomo è spalancato e fisso, il petto immobile. Un pus giallastro sgocciola tra le bende, lungo tutto il suo corpo.

 

Onigumo!” ripete.

 

L’uomo si drizza in un attimo, gorgogliando, e le sue mani la afferrano per l’hitoe, trascinandola a terra, addosso a lui.

 

Kikyou lancia un grido di terrore; Onigumo le preme la schiena sulla pietra e si accavalla su di lei. I suoi gorgoglii diventano parole comprensibili.

 

Sei venuta, piccola mia. Oh, Kikyou, Kikyou! Sapevo che saresti venuta da me.

 

Le pianta il palmo sullo sterno, bloccandola, e prende a strattonarle le vesti con la mano libera.

 

Gridando di nuovo, artigliando l’aria con le dita, Kikyou gli colpisce per caso la faccia bendata. Le sue unghie si conficcano nella fronte senza trovare resistenza, con un rumore viscido si fanno strada fino al suo unico occhio e gli feriscono la guancia.

 

Uno spruzzo di sangue nero e pus giallo le inzacchera la mano. L’occhio di Onigumo salta via dall’orbita, restando appeso ai suoi nervi ottici come un’oscena biglia, ribalzando sullo zigomo. E Onigumo, ride, ride mentre straccia il suo hitoe, e le sue dita marce e forti le premono il seno.

 

Ya! Cuore mio, mia luna! Mia carceriera! Sì, lo sapevo! Sapevo che sei una di quelle che lotta!” La lingua nera e screpolata dell’uomo guizza tra le labbra, mentre il volto sfigurato si china su di lei.

 

Kikyou urla più forte, serrando gli occhi, nauseata.

Sì, ha capito, è un sogno, uno dei suoi incubi, tanto orribile da far impallidire gli altri al confronto. Ma quando lo capisce, lei si sveglia sempre!

 

Stavolta, invece, la consapevolezza di stare sognando non fa altro che alimentare il suo disgusto e il suo terrore.

 

I suoi poteri affievoliti sono inutili contro un simile nemico.

 

“No! Stammi lontano! Inuyasha! Aiuto! Aiutami, aiutami!!”

 

La risata dell’uomo sopra di lei si fa più forte. Artigli le feriscono i polsi stretti tra le dita di lui.

 

Riapre gli occhi, confusa, e subito ricomincia a urlare più forte che mai.

 

“No! No!! NONO!” La voce le si spezza in singhiozzi.

 

C’è Inuyasha, adesso, sopra di lei. A ridere, ridere con la voce di Onigumo, occhi rossi come braci, artigli a strapparle le vesti.

 

“Eccomi! Eccomi, sono arrivato! Kikyou! Kikyou! Mia luna! Non puoi scapparmi! Non stavolta!!”

 

 

I gemiti angosciati di Kikyou, mentre si gira e rigira nel giaciglio, imprigionata nel sonno, incapace di svegliarsi, non riescono a destare Kaede dai suoi sogni.

 

Un’ombra oscura le stelle.

 

 

Kaede sogna di allenarsi al Goshinboku, frecce scagliate una dopo l’altra, per migliorarsi sempre più e strappare un sorriso di ammirazione dalle labbra di Kikyou.

 

Tira l’ennesima freccia, e sbaglia il tiro. China la testa e sbuffa di frustrazione. Avvilita, pensa che, anche se dovesse vivere cinquant’anni, non riuscirà mai a eguagliare la sua formidabile sorella, l’irraggiungibile oneesama.

 

Posa l’arco e va a recuperare le piccole frecce. Si china tra le radici, per prenderne una andata parecchio fuori bersaglio, quando avverte un movimento sopra di sé.

 

Alza la testa di scatto per scoprire con orrore che i rami del Goshinboku si stanno piegando verso di lei, animati di vita propria. Arretra più svelta che può, ma cade a terra, il piede imprigionato tra radici che si sono all’improvviso strette alla sua gamba come viticci.

 

Paralizzata per la paura, fissa impotente i rami piegarsi con gemiti e schiocchi, a cercare ciecamente le sue braccia per smembrarla.

 

 

Inuyasha si sveglia da un incubo che non riesce a ricordare, la pelle accapponata. Rizza la schiena, e dall’alto del ramo sul quale è appollaiato viene raggiunto da uno strano vento tiepido. Annusa, perplesso, ancora mezzo addormentato. Per un attimo le sue narici sensibili sono ferite da un odore incomprensibile, mai sentito prima, che non riesce a definire.

Ma una parte di lui lo riconosce subito – e ne viene inesorabilmente attratta. Irrigidisce le gambe, quasi pronto a saltare a terra, per seguire l’odore incandescente, il richiamo al quale il suo sangue youkai pare non poter resistere.

 

Vieni. Vieni. Unisciti a noi. A me. A noi. Una cosa sola. Una sola cosa immensa.

 

Prima di potersi muovere, però, il vento cambia direzione, tanto repentino quanto è arrivato, e l’odore svanisce, dimenticato.

Inuyasha scrolla la testa, all’erta.

 

“No. Un sogno. Solo un sogno.”

 

Si accoccola di nuovo sul ramo. Si addormenta.

 

 

L’ombra nera si disperde, il sonno si fa più profondo e senza sogni, gli incubi si dissipano e vengono dimenticati.

 

 

Tsubaki è sveglia, gambe incrociate sul tatami, attende che il contenuto della teiera bolla, e si carezza di tanto in tanto il volto sfregiato, là dove Kikyou le ha rigettato contro il suo shikigami.

 

Stringe i denti, colma di frustrazione, vedendo e rivedendo il semplice gesto col quale Kikyou l’ha sconfitta, con la stessa facilità con la quale lei potrebbe buttare a terra un bambino.

 

Questa notte non riesce a dormire. L’inquietudine dentro di lei è cresciuta, cresciuta, come quando sente l’aria caricarsi di elettricità prima di un temporale. Sta preparando il the, per tenere occupata la mente, ma non riesce a pensare ad altro che alla sua nemica.

 

Kuro miko.

 

Sacerdotessa oscura. Il marchio d’infamia del tradimento impresso sul suo viso.

 

Ma non sono la sola.

 

Sorride. E tanto più nere, le sue gesta, se poste a confronto con quelle di Kikyou, la pura, impeccabile miko, così potente da vincerla persino coi suoi poteri spirituali quasi del tutto perduti.

 

Eppure era stata costretta ad attaccare Kikyou, pur sapendo il pericolo che correva. Perché

 

“La musica del Fato. Io l’ho sempre udita molto meglio di te, Kikyou. Toccava a me, la custodia della Shikon no Tama!”

 

Nella musica del Fato, Tsubaki aveva udito con chiarezza che Kikyou preparava un tradimento ben più grande di tutti quelli di cui Tsubaki si sarebbe mai potuta macchiare. Fin da quando l’aveva imprigionata nella maledizione, aveva sentito cosa sarebbe accaduto.

 

“Custodi, non padrone, Kikyou. Questo siamo. Questo dobbiamo essere.”

 

Sì. Tsubaki non aveva fatto altro che quanto era necessario, per proteggere la Shikon no Tama. Anche se, così facendo, aveva macchiato per sempre la sua anima.

 

“Tu non ne avresti mai avuto il coraggio, Kikyou. Eppure, sarò io a essere ricordata come la kuro miko.”

 

Scrolla le spalle, le pupille a fissare il fuoco che scoppietta sotto la teiera.

 

Non uno. Due. Due i custodi della Shikon no Tama. Due le anime di ciascuno dei quattro spiriti.

 

E allora, perché non sono riuscita a impadronirmi della sfera?

 

E’ questo che le fa rabbia più di tutto. Si sente come defraudata, ingannata.

 

“Ho sacrificato tutto per questo.” Sussurra, levando gli occhi a fissare il tetto sbrecciato della sua capanna. “Eppure …”

 

Tsubaki si zittisce, l’aria le sfugge dal petto. Un brusio alle orecchie, in pochi secondi sempre più forte, più violento.

 

La musica del Fato!? Cosa …?

 

L’armonia, nella musica che è sempre stata così brava a udire, si frantuma, trasformandosi in una cacofonia assordante. Tsubaki caccia un grido, portandosi d’istinto le mani alle orecchie, un terribile dolore le trapana i timpani, mentre il frastuono si fa sempre più forte - tuoni di tempesta. La musica si sdoppia, spaccata in due. Tsubaki urla, cercando disperatamente di cacciare fuori dalla testa il caos dei suoni che la stanno percuotendo.

 

La musica del Fato è impazzita! Cosa significa!?

 

Il silenzio che segue e piomba repentino, proprio quando crede di stare per diventare sorda per sempre, la lascia stordita. Ansima. Fissa con sguardo vuoto il palmo della mano destra; il filo di sangue che, sgorgato dal suo orecchio, gliel’ha imbrattato.

 

Cosa?

 

Gli occhi blu di Tsubaki sono colmi di stupore.

 

Un nuovo custode della Shikon no Tama … è stato chiamato nel mondo.

 

 

Onigumo è inginocchiato e tiene gli occhi chiusi.

 

Indossa qualcosa. Una pelliccia. Ne sente il tessuto morbido sulla pelle nuda. E’ così strano! Avverte ogni increspatura, ogni minima differenza nel drappo. Sospira di piacere, muovendo appena le spalle, per godere della carezza che il suo gesto produce.

 

Crepitio di fiamme intorno a lui. Il fuoco non lo tocca, ma non si preoccupa di questo. Questo fuoco non può nulla su di lui. Nulla!

 

E più in distanza, ma chiaramente, ode i gridi e gli schianti degli youkai che si muovono fuori dalla caverna. Come già aveva intuito, sono innumerevoli. E lo stanno attendendo. Sorride.

 

Il suo corpo è freddo, nonostante le fiamme e la pelliccia. Che strano! Ma si accorge di una cosa ben più stupefacente. Il suo petto … il suo petto è immobile! Non si alza e si abbassa più nel familiare gesto del respirare.

 

Curva le dita, pieno di negra allegria, e così facendo sfiora cenere sul terreno.

 

Apre gli occhi. Le fiamme bruciano in tutta la cava; solo, non riescono neppure a lambire la cenere bianca sulla quale è inginocchiato. Quella cenere che conserva ancora come un ricordo la sagoma del suo stesso corpo.

 

Si alza in piedi, guardandosi le mani pallide, affascinato.

 

Carezza la pelliccia, riconoscendone la fattura.

 

“Hai visto?! Hai visto, vecchio!?! Un babbuino! Sì oh sì, avevi ragione!! Guarda! Guarda dove sono arrivato!!”

 

Stringe le mani a pugno.

 

E adesso! Morte! Morte all’hanyou! E per Kikyou … oh sì-sì-sì. Per la mia Kikyou, vita. Da oggi in poi. Al mio fianco!”

 

Ride di giubilo.

 

Onigumo

 

Cosa?”

 

Il suo sguardo saetta all’intorno. L’eco di molte voci si affastella una sull’altra, rincorrendosi, confondendosi, scontrandosi e intrecciandosi.

 

Oh. Onigumo. Onigumo

 

Noi non immaginavamo.

 

Onigumo. Noi non credevamo …

 

Cosa c’è? Chi è?”

 

Le tue voglie, Onigumo. Oh Onigumo scaldaci. Scaldaci di più.

 

“Ah! Mostri! Siete voi, non è vero!? Dunque!? Vi piace!? Vi piace, la mia anima sporca?”

 

Onigumo. Sì. Sì. Sei così caldo.

 

Noi siamo freddi. Tanto, tanto freddi.

 

E non credevamo. Non immaginavamo …

 

Noi non sapevamo di essere così freddi.

 

Non finché non abbiamo conosciuto il tuo calore

 

La fornace della tua anima umana.

 

Il tuo cuore è così caldo, oh! Onigumo

 

Scaldaci. Scaldaci!

 

“Bene, dunque! Sbrighiamoci! Prima di tutto, voglio la testa dell’hanyou! Voglio la sua testa, voglio che Kikyou la veda, voglio vedere i suoi occhi quando la vedrà! Già!”

 

No. Onigumo. Aspetta.

 

Noi non possiamo. Non siamo, forti abbastanza …

 

Onigumo.

 

Cosa state dicendo, mostri!? Non osate mentirmi! Avete promesso! Morte all’hanyou; e per me, Kikyou e la Shikon no Tama! Nessuno resisterà alla potenza che mi avete dato!”

 

Onigumo. No. No.

 

Sei forte. Sei diventato forte. Ma non abbastanza. No non abbastanza.

 

L’hanyou. Non potevamo sconfiggerlo quando eravamo separati. Ed è troppo forte. Ancora.

 

La miko. E’ indebolita. Ma è troppo potente. Ancora.

 

Sono due nemici temibili. Non possiamo sfidarli apertamente.

 

“Come!? Bugiardi! Sono il più forte di tutti!”

 

No. Onigumo.

 

Siamo così vicini. Troppo vicini, perché possiamo mentirti.

 

Ascolta la verità delle nostre parole, Onigumo.

 

Non possiamo attaccarli, non come vuoi tu.

 

No. Non ancora.

 

Onigumo trema di frustrazione.

 

E dunque? Dovremmo arrenderci, forse? MAI!”

 

No, Onigumo.

 

Adesso sappiamo.

 

Adesso capiamo.

 

Grazie al tuo calore, Onigumo.

 

Tutto grazie al tuo cuore caldo, oh! il tuo caldo, caldo cuore umano!

 

Noi siamo – eravamo – così freddi.

 

Ma adesso, Onigumo.

 

Sì, la miko è saggia.

 

Sì, l’hanyou è forte.

 

Ma la furia infuocata del cuore umano.

 

Nessuno la conosce meglio di te – di noi!

 

Adesso possiamo.

 

Adesso capiamo.

 

Adesso sappiamo come imprigionarli.

 

Come sconfiggerli.

 

Sì.

 

Non conta la forza.

 

Non conta la saggezza.

 

Conta la furia rossa di cui solo i cuori umani sono capaci.

 

E che, grazie a te, ora noi conosciamo.

 

Onigumo.

 

Lascia fare …

 

… fare a noi …

 

Lascia fare a me. Onigumo.

 

Le voci si inseguono e diventano una sola all’orecchio di Onigumo. Una voce melliflua, uniforme e irridente.

 

Onigumo non ha mai dato importanza ai volti e ai nomi. Ma ora, sente che è importante avere risposta a una domanda.

 

“Chi sei? Cosa sei? Come ti chiami?”

 

Nome?

 

La voce esita, come se si sforzasse di maneggiare un concetto nuovo, imprevisto.

 

Nome? Il mio nome?

 

Io non …

 

Non lo so. Non importa. Quando sarà il momento. Al momento opportuno, lo saprò.

 

Ora, quello che importa è sconfiggere l’hanyou e la miko. No? Non è questo che vuoi?

 

“Sì.” Onigumo sibila, la sagoma di Kikyou stampata nella mente. “Sì! Sì!”

 

Allora lasciami libero. Fammi venire fuori. Sì, io posso realizzare i tuoi desideri.

 

Sì, li realizzerò, oltre ogni tua possibile, sfrenata immaginazione, Onigumo.

 

Un ventaglio di immagini si apre dietro agli occhi di Onigumo, a mostrargli per un attimo le intenzioni della voce incorporea.

Onigumo fa appena in tempo a pregustare il tormento atroce che aspetta i due innamorati, il frantumarsi di tutti i loro sogni e le loro speranze, che le immagini sono già svanite senza lasciare ricordo.

 

“Sì. Sì! Mi piace. Va bene. Va benissimo!”

 

Fammi uscire, dunque, Onigumo, e quel che hai visto sarà realtà. Avanti.

 

“Voglio parlare con Kikyou almeno una volta, prima che tutto finisca. Già!”

 

Questo sarebbe pericoloso, Onigumo. Non sarebbe saggio …

 

“Ho detto che le voglio parlare! Non contraddirmi, mostro!”

 

Un gemito che è forse di dolore echeggia in fondo alla testa di Onigumo.

 

Va bene. Come vuoi tu, Onigumo.

 

“Sarà meglio! Ricordati che sono io a comandare, mostro! Non tu!”

 

Ma certo. Io sono qui solo per servirti, Onigumo. E ora, fammi uscire.

 

La voce insiste, suadente.

 

“Vieni fuori, dunque, e consegnami Kikyou e la Shikon no Tama!”

 

Onigumo si sente piroettare, come se un gigante l’avesse afferrato per le spalle, sollevato e gettato via di peso.

 

Il momento successivo, si trova in una specie di limbo, di biancore sconfinato. Non avverte più alcuna sensazione provenire dal suo corpo.

Ora, è lui a essere nulla più che una voce incorporea.

 

Andiamo, mostro. Kikyou mi aspetta.

 

“Ai tuoi ordini, Onigumo.” Gli risponde la creatura, la voce colma di pungente sarcasmo.

 

Onigumo si chiede se non ha forse commesso un errore. Ma lui è abituato ad agire, a prendersi quello che vuole senza preoccuparsi mai delle conseguenze. Accantona i dubbi con un moto di stizza.

 

La creatura senza nome spegne le fiamme lì attorno con un pigro movimento della mano, esce dalle ombre uterine della cava, e sorride soddisfatto alla vista degli youkai che lo aspettano.

 

“Ascoltatemi. Ubbiditemi. Coloro tra voi che mi compiaceranno, un giorno potranno avere l’onore di diventare parte di me.

 

Gli sguardi in risposta degli youkai, sono pieni in ugual misura di paura e di bisogno …

 

 

 

Agghiacciato, esce dal ricordo, annaspando, senza fiato, frenetico come un uomo che affoga emerge dal mare che sta per togliergli il soffio vitale dal petto e sostituirlo con un sepolcro d’acqua salata.

 

 

Case e palazzi che bruciano.

Mercanti, contadini, samurai, daimyo e Kami si prostrano nella polvere, ai suoi piedi.

Ricchezze scorrono tra le sue dita.

Le teste dei suoi nemici rotolano nel fuoco, e lui ride, ride, e beve acqua e sangue. Dà e prende per capriccio, e tutti coloro che hanno osato sfidarlo gemono nella speranza di non essere mai nati.

 

E la notte. Quando la notte morbida stende il suo velo per nascondere, senza successo, i frutti abominevoli dei suoi piaceri, lei lo attende.

 

La sua regina nera. Più morbida della notte, lo accoglie alla sua dimora con un sorriso lascivo, gli prende la testa e se la schiaccia al seno, rinfrescando la sua faccia bollente e irsuta. E fa della sua pelle bianca come avorio il suo giaciglio, e gli sussurra all’orecchio, il respiro dolce sulla guancia, e ride, a sua volta piena di voglia, ascoltando rapita le sue oscenità, mentre lui disegna con le dita luride sulla tela del suo corpo candido 

 

 

Tutte le gole e le bocche di Naraku ululano il suo feroce dolore. Altre masse di carne simili a feti bianchicci esplodono dal suo corpo, violenti come colpi di catapulta. Liquidi di molti colori spruzzano nell’aria.

 

 

E affinché questo accada, io esigo che tu raccolga per me, quello che mi spetta!

Regni saranno miei, e coloro che vi abitano, e io ne farò ciò che più mi aggrada.

Poiché il caso che ci fa ballare tutti come le sue pazze marionette, assegna forza e debolezze, senza misurare il valore di coloro a cui lascia i suoi doni. Così, l’eredità di un potere immenso e incontenibile, può essere affidata a chi non la merita, a uno sciocco hanyou che non ne è consapevole e non se ne cura. E a colui che saprebbe farne buon uso, vengono invece lasciate le sole briciole; e se tenta di sollevarsi al di fuori del pozzo scuro nel quale è stato gettato, ne viene ricacciato al grido di ‘usurpatore’.

 

 

E tu hai lasciato che questo ti entrasse dentro, Kikyou!? Ma allora, chi è il vero mostro tra noi due!?!”

 

Il corpo di Naraku muta la sua forma di continuo, mobile come l’acqua. Sente Onigumo pungerlo e fuggire, guizzare via rapido, scappare altrove.

 

Si immerge di nuovo dentro se stesso. Più facile, molto più facile, stavolta. E riprende l’inseguimento per l’ultima volta.

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Capitolo 22
*** XXI ***


Ma allora, che cos’è un uomo probo

Ma allora, che cos’è un uomo probo?

 

Ho sempre rispettato le leggi degli uomini e dei Kami. Nessuno potrà trovare macchia su di me; negli occhi altrui, ho sempre visto la fiducia di avere da me parole di giustizia ed equità.

 

E questo è un uomo probo. Io sono un uomo probo.

 

 

Ma allora, che cos’è un uomo giusto?

 

Mai ho permesso che alcuno si umiliasse di fronte a me, o mi concedesse privilegi a causa di ciò che sono, e mai ho lasciato che la voce del forte vincesse quella del debole in ragione della sua forza; negli occhi altrui, ho sempre visto la riconoscenza per il rispetto e la fermezza di cui sono capace.

 

E questo è un uomo giusto. Io sono un uomo giusto.

 

 

Ma allora, che cos’è un uomo retto?

 

Secondo quanto mi è stato insegnato, ho elargito pietà in ugual misura al giusto e al bandito, al di sopra della legge degli uomini e dei Kami, ben sapendo che siamo tutti povere creature in attesa della morte; negli occhi altrui, ho sempre visto l’umile riconoscimento della mia virtù.

 

E questo è un uomo retto. Io sono un uomo retto.

 

 

E anche se il mio sensei soleva ripetere che grande è la differenza tra ben sapere e davvero credere, e che io ben sapevo, ma tutt’ora non credevo; e anche se il mio sensei spesso ripeteva, che prima di imparare a servire, è più importante imparare a essere serviti, io mai compresi cosa volesse dire.

Negli occhi altrui, ho sempre visto quanto bastava.

 

Un uomo buono. Io sono un uomo buono.

 

 

E quando la siccità venne, e dopo di essa la carestia, e dopo di essa la fame, e dopo di essa le piaghe, e dopo di esse la paura; quando vidi volti diventare più sottili, e mani farsi gialle e fragili come pergamena, e spalle piegarsi, e seni svuotarsi; quando al fuoco seguì razzia e sangue e dolore, seppi cosa doveva essere fatto per allontanare la malvagità che stava soffocando la mia casa e le terre tutt’attorno.

 

E mentre cominciavo il mio digiuno, e gli uomini ancora abbastanza robusti e vigorosi scavavano con le zappe e i picconi il terreno sassoso per preparare la fossa che avrebbe dovuto accogliermi, negli occhi altrui vidi la venerazione che ci si aspetta sia accordata a un uomo santo.

 

Questo è un uomo santo. Io sono un uomo santo.

 

 

Ancora ben ricordo quella mattina; il sole appannato da nuvole sottili, come la pupilla di un vecchio dalla cataratta. I profumi della primavera non arrivati, anche se da tanto li attendevamo; i boccioli non ancora sbocciati, e il freddo, quel freddo pungente così fuori luogo nei primi giorni di maggio.

 

Ricordo la macchia gialla della piccola campanella, posata come un ranuncolo su un cuscino bianco.

 

Ricordo la fanciulla che, la testa china a terra, i capelli a ombreggiarle il viso, con mani tremanti me la porse in un sussurro che quasi non riuscii a udire.

 

“Tutto è pronto, houshi Hakushin.”

 

Ricordo la sensazione della corda attorno al mio polso, e il primo tlink che accompagnò il mio passo e che avrebbe scandito da quel momento il tempo tra me e la morte, mentre mi sporgevo sul bordo della fossa scavata dagli uomini che ero risoluto a salvare.

 

Ricordo il coperchio di cedro pesante e spesso calare sopra la mia testa a sigillarmi, e l’unico sottilissimo filo di luce che a volte passava da quella lunga canna di bambù che lo trapassava, per permettermi di respirare fino a quando non fosse giunta la fine.

 

E ricordo il tonfo di ciascuno dei sassi e dei macigni che gli uomini accatastarono sopra la botola di cedro, fino a farne un tumulo.

 

 

A occhi chiusi, a gambe incrociate, a mani giunte, un rosario, il mio nenju preferito, tra le dita, il respiro controllato, mi immersi nella meditazione.

 

Diventa albero.

 

Non temere il buio, né la fame. Sei una quercia, una quercia secolare; i tuoi rami sono protèsi ad abbracciare il sole, e non ti serve cibo. Le tue radici ti sostengono e ti nutrono. Non conosci altro, e non hai bisogno d’altro.

 

E per quanto la fame potesse assediarmi, non poteva però toccarmi.

 

Ma anche un albero ha bisogno d’acqua.

 

 

Diventa pietra.

 

Non temere sete, né dolore. Sei un macigno, un quarzo millenario; i tuoi bordi sono stati consumati dalle intemperie e dai passi di uomini e bestie, ma niente può toccare il cuore di ciò che sei. Non conosci altro, e non hai bisogno d’altro.

 

E per quanto la sete potesse aggredirmi, non poteva però lambirmi.

 

Ma anche una pietra sarà polverizzata dal tempo.

 

 

Diventa vuoto.

 

Non temere nulla. Sei il vuoto tra le stelle, che nessuno conosce e mai ha percorso; i tuoi confini sono noti ai soli Kami. Sei immutato, fin dall’inizio dei tempi, e sei immutabile, fino alla fine dei tempi. Non conosci altro, e non hai bisogno d’altro.

 

 

Il vuoto non conosce il passare del tempo, e perciò io non so quanto tempo passò. Udivo preghiere e mormorii arrivare e andare, da sopra la mia testa, da un mondo che non mi apparteneva e mai più mi sarebbe appartenuto.

 

Di tanto in tanto, il tlink della campanella legata al mio polso, mi ricordava che ero ancora lungi dall’illuminazione che avrebbe fatto di me, un Buddha vivente.

 

 

Ma non disperavo certo per questo. Solo un poco di attesa, e tutto sarebbe stato, come doveva essere.

Il guscio del mio corpo si sarebbe rotto, come un seme, e il germoglio che ne sarebbe nato avrebbe salvato la mia terra.

 

C’era stato un momento, nel nulla senza colore, in cui fui certo che questo stesse per accadere. Mi preparai, pronto, tremante e fiero.

 

E fu allora che desiderai poter vedere occhi altrui.

 

Qualcosa mi sfiorò da dietro. Volgendo lo sguardo, scorsi un piccolo punticino di luce, e lo seguii.

 

Poi la luce svanì, e il nulla fu spezzato, seppure niente vedessi o udissi.

 

 

Fu come una brezza che mi sfiorava le guance, solleticando la mia pelle. Sorrisi, all’inizio; chissà da quanto nessun vento mi toccava più.

Ma quella strana carezza si faceva più insistente, costante, invadente, fino a diventare un prurito, così fastidioso!

Sollevai la mano per massaggiarmi il viso.

 

Tlink!

 

Ma la mia mano riuscì a coprire solo poco più di una metà del percorso che andava colmato. Poi, si immobilizzò, incapace di andare oltre.

 

Aggrottai la fronte. Da dove veniva quella brezza? Poi capii. Non c’era mai stata alcuna brezza.

 

Fin dalla mia giovinezza, mi ero rasato ogni giorno con cura il volto e il cranio, come si confaceva a un uomo del mio stato. E avevo così dimenticato quanto insistente e spiacevole può essere il prurito continuo nato da una barba trascurata e incolta.

 

Tlink.

 

Di nuovo, ordinai alla mia mano di grattare le mie guance, e di nuovo la mia mano cercò di ubbidirmi invano.

 

Tlink.

 

E più la mia mano mi disubbidiva, più il suono della campanella si faceva udibile, e così mi parve, irridente, più il prurito del mio viso si faceva insopportabile, alimentato dai miei sforzi per tacitarlo.

 

Tlink.

 

 

Poi, venne l’odore.

 

Avevo imposto ai miei visceri di svuotarsi, prima di essere tumulato; per due giorni non avevo toccato cibo e per un giorno acqua, affinché non venissi tradito dalle debolezze del mio corpo mortale.

 

Da dove veniva, dunque, quell’odore stantìo e asciutto, così pesante, così forte, quell’odore di sporcizia, di fiori che appassiscono, di frutti caduti e dimenticati in terra, di sudore di una bestia così a lungo inseguita dai cacciatori da cadere a terra sfinita senza più preoccuparsi di quale sarà la sua sorte?

 

Da dove veniva? Da me? No, certo che no. Sorrisi, facendomi beffa di me stesso.

 

Alla sua morte, la salma del mio sensei profumava, di petali, petali di rose e di ciliegio.

 

Questo odore, invece.

 

Questo non è l’odore di un uomo santo.

 

 

Poi, sollevai le palpebre. E spalancai la bocca, tentando di gemere senza riuscirvi.

 

Tlink.

 

Come riuscivo a vedere così bene al buio? Ancora adesso non lo so; solo le creature delle tenebre, vedono dentro tenebre tanto fitte.

 

Il mio braccio sollevato senza scopo, la campanella che pendeva dal mio polso, come se fosse stata legata al ramo di un albero morto e rinsecchito.

 

Ma era il mio braccio, quello? No, certo che no. Quella pelle tirata e rugosa su ossa secche e fragili. Non poteva certo appartenere a me.

 

Questo braccio.

 

No, questo non è il braccio di un uomo buono.

 

 

Si mossero le mie labbra? Ha importanza?

 

Abbassai lo sguardo sul mio corpo, pietosamente nascosto dai paramenti. La gambe però. Cos’erano quei bastoni nodosi la cui sagoma si intravedeva sotto gli hakama? Le mie gambe?

 

E come potevano esserle, se non le sentivo più?

 

 

E di nuovo ordinai alla mia mano di toccare il mio volto, ma vidi solo quel braccio mummificato che, perciò sì!, doveva essere il mio, sussultare invano.

 

Tlink.

 

Ma perché? Perché questo?

 

E qualcosa si agitò dentro me. Combattei contro quell’immobilità stregata, raccogliendo ogni brandello di forza, ignorando il dolore che man mano me ne veniva, che sembrava accorrere da ogni angolo della fossa per gettarmisi addosso, perché niente era diventato più importante che costringere entrambe le mie mani a raggiungere il mio viso.

 

Tlink. Tlink. Tlinktlink!

 

Una spanna dopo l’altra, un pollice dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, infine i miei palmi toccarono le mie guance barbute.

 

NO!

 

Cosa!? Cos’è?? Cos’è questo!?

 

Zigomi quasi a bucare la pelle, e occhi così infossati nelle orbite da sparire, e denti che ballano dentro gengive inesistenti

 

No! Ma che cos’è questo? Cos’è?

 

E’ morte, questa?

 

“Io … muoio?”

 

E fui sicuro di aver parlato. Ma non riconobbi la voce. Perché quella voce smarrita …

 

Questa voce.

 

Questa non è la voce di un uomo retto.

 

Fu come la crepa in un terrapieno che trattiene acque gelate, dalla quale filtra un rivolo che tutto finirà per squarciare in pochi istanti.

 

“No ferma aspetta no, non è così, non deve essere così, aspetta, cosa?”

Ma io … io ho sempre saputo. Io ho sempre accettato quello che sarebbe stato.

 

Ma il mio sensei mi ripeteva che grande è la differenza tra ben sapere e davvero credere, e che io ben sapevo, ma tutt’ora non credevo.

 

Tlink.

 

“No.”

 

E’ questo il buio? Aspetta, io …

 

“No. No. Io non sapevo. Non sapevo nulla!”

 

Come riuscii a muovermi, non ricordo. So che mi ritrovai sui gomiti, e anche se il mio corpo era come se più non fosse, ricordo il dolore quando sbattei sul terreno.

 

“No. Vi prego, no. Ascoltate. Io non lo credevo, io non sapevo …”

 

Tlink. Tlink. Tlink. Tlink.

 

Strisciai per un poco, fin sotto alla canna del bambù, e mi parve di udire i mormorii delle preghiere.

 

“No. Ascoltate. Fuori. Fuori! Tiratemi fuori di qui!”

 

Lo credetti un grido, ma non so neppure se fu un sussurro. E cosa c’era, oltre alla paura? Che cos’altro c’era?

 

“Fate silenzio. Zitti. State zitti! Maledetti state zitti come fate a sentirmi se non ve ne state zitti!”

 

Ma se esci da qui, moriranno tutti, e morirà la terra, e morirai, comunque, anche tu. E tu lo sai, e perciò, accetta il tuo destino come hai sempre fatto, e sarai …

 

“Non me ne importa! Lo so! Non me ne importa nulla! Oh, sensei, perché non me lo avete detto!? Adesso sì, adesso credo!”

 

Ma adesso è troppo tardi. E troppo presto, anche.

 

“Fuori! Voglio uscire! Fatemi … uscire … da qui!”

 

Ma parla così? No.

 

Non parla così, un uomo giusto.

 

“Vi prego. Ascoltatemi. Non lasciatemi qui da solo. Vi scongiuro … non abbandonatemi …”

 

Passò altro tempo. Quanto? E per quanto sussurrai alla bocca della canna di bambù?

 

Quel mucchietto di ossa, tendini e pelle che una volta era il mio corpo, appallottolato sul fondo sconnesso della fossa, si piegò e si torse poco a poco, nutrendosi di se stesso e diventando albero, e poi pietra, e poi vuoto.

 

Tlink. Tlink.

 

Non c’erano lacrime, né voce, per gettare fuori l’orrore dal petto. Fino a quando non fui più in grado di muovere né mani né altro.

 

tlink

 

Io? Muoio?

 

NonoNO no NO nono nn

 

Non. Non doveva essere così.

 

No, non è così che muore un uomo probo.

 

Ma dunque, perché le voci di preghiera si trasformarono in voci festose e piene di speranza e venerazione e tripudio? E perché i profumi della primavera arrivavano fin dentro la mia fossa, come se la malvagità che aveva colpito la mia casa se ne fosse andata?

 

E perché l’odore di quella malvagità, ora era tutta attorno a me?

 

Ma allora?

 

Cos’è accaduto?

 

Che cosa?

 

Non capisco.

 

Ma?

 

 

Ma allora, che cos’è un uomo probo?

 

Ho sempre rispettato le leggi degli uomini e dei Kami. Nessuno potrà trovare macchia su di me; negli occhi altrui, ho sempre visto la fiducia di avere da me parole di giustizia ed equità.

 

E questo è un uomo probo. Io sono un uomo probo …

 

 

 

E quando la tenebra venne a spezzare la spirale eterna nella quale Hakushin si era smarrito, questi all’inizio non capì cosa stesse accadendo.

 

Dopo decenni, poté sollevare le palpebre per scoprire che non si trovava più, come credeva, nella sua fossa, ma in una teca di ciliegio laccato.

Scoperchiata.

 

E sopra la sua testa c’era il soffitto elegante di un tempio – bello, piccolo e accogliente.

 

E il cadavere di un uomo …

(sacerdote incaricato del tempio)

… e youkai tutti accalcati sulla soglia dell’entrata, a sbavare, a chiocciare, a gridare, a grattare le zampe sul terreno, pieni di fame ma trattenuti da …

 

… dalla tenebra, una tenebra sopra di lui. Ma che tenebra è? Che tenebra è mai questa?

 

Hakushin ritrova la sua voce.

 

“Come osi disturbare il mio sonno, youkai?”

 

“Non sono uno youkai, houshi Hakushin. Non lo vedete da voi?” risponde la tenebra.

 

“Sì. Lo vedo. Non so come tu abbia fatto a oltrepassare le mie sacre barriere, hanyou, e a versare sangue innocente al mio cospetto. Non so come tu abbia fatto a portare qui i tuoi schiavi. Ma so che siete giunti fin qui, solo per perire.

 

L’hanyou non sembra intimorito, anche se sa che Hakushin può distruggerlo in un battito di ciglia.

 

Di cosa state parlando, houshi Hakushin? Io vi ho solo udito. Siete stato voi, a permettermi di raggiungervi. E di quale sangue parlate? Di quello di quest uomo? Del vostro crudele carceriere? Innocente? Ma che cos’è, un uomo innocente?”

 

Le parole di risposta muoiono sulla bocca di Hakushin.

 

E in quel momento la tenebra si apre al suo cospetto.

 

Che cosa …?”

 

Hakushin sussulta, sconvolto, come se un sole accecante gli stesse sferzando gli occhi.

 

No non è possibile! Questa tenebra!

 

“Io …”

 

La voce lo interrompe subito.

 

“Sssh. Sssh. Zitto, non hai bisogno di parlare, lo so, io so tutto quel che vorresti dire, non preoccuparti, ricordo ogni cosa, capisco, tra noi non servono parole.”

 

Oh! Questa tenebra sa. Questa tenebra capisce! Questa tenebra, crede!!

 

“Com’è possibile? Come?”

 

“Come? Vuoi sapere forse di come il mio antico corpo è morto, proprio come un seme, e del germoglio che ne è nato? Questo vuoi sapere?”

 

“Sì!”

 

Sì, com’è possibile? Quale mistero è mai questo? Ma è così, questa tenebra si sta svelando ai suoi occhi, come non ha mai fatto con niente e con nessuno prima d’ora, e lo sta facendo per lui, solo per lui!

 

Questa tenebra conosce l’orrore! Questa tenebra è stata resa prigioniera, proprio come lui, incatenata in un limbo informe, e lasciata lì ad avvizzire piano piano …

 

fuori tiratemi fuori!

 

… e quanto ha desiderato potersi liberare, inascoltata, ignorata e

 

no vi prego non abbandonatemi

 

… in un tempo immemorabile, là dove il tempo non ha più senso, in un abisso di pazzia. OH!

 

Hakushin trema, ed è come se vedesse tra una folla ignota il volto di un amico da lungo perduto. Ecco! Ecco qualcuno che capisce! Ecco qualcuno che ha sofferto proprio come lui! Ecco qualcuno che ha conosciuto ogni spasimo, ogni gemito, ogni battito, che ha atteso invano, che ha gridato, fremuto

 

Oppure delle ombre che mi accompagnano? Questo vuoi sapere?”

 

“Sì.”

 

E questa tenebra ha lottato.

 

Non si è lasciata sconfiggere, non si è fatta sommergere, no, no, questa tenebra ha combattuto! Con le unghie e con i denti, con una forza che nessuno avrebbe immaginato mai e

 

Arrivo! Arrivo! Mia carceriera!

 

Questa tenebra è riuscita, là dove lui ha fallito, là dove lui è caduto!

 

Questa tenebra … questa è una tenebra illuminata.

 

“Oppure delle ombre che accompagnano te, di come tu non le abbia scacciate, oh no, ma solo spostate, dentro di te, proprio come me? Questo vuoi sapere?”

 

Hakushin rabbrividisce.

 

Riverente, solleva le mani che adesso ha le forze per muovere, le solleva per toccare la tenebra, per dirle che anche lui capisce, che ha esperimentato tutto questo.

 

Una mano gli sfiora la nuca, accarezzandolo con un tocco gentile e lieve.

 

Una coscia diventa un guanciale sul quale potersi riposare.

 

“Come? Come hai fatto?”

 

E attende in ascolto, come quando attendeva gli insegnamenti del suo sensei.

 

Qual è la risposta alle mie domande? Come sei riuscito?

 

E la tenebra gli svela la sua luce.

 

“Odiali. Odiali tutti.”

 

Hakushin esce dalle tenebre per entrare nella tenebra.

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Capitolo 23
*** XXII ***


L’inquietudine di Kikyou si addensa, vedendo i primi lampi scoccare dalle maestose pendici del monte Hakurei

L’inquietudine di Kikyou si addensa, vedendo i primi lampi scoccare dalle maestose pendici del monte Hakurei.

 

Ha smesso di piovere. Solo poche nubi sono rimaste, sospinte via da un vento deciso. Può vedere ampi scorci di cielo; le stelle disegnano le costellazioni che le sono tanto familiari.

 

Eppure dal monte Hakurei arrivano tuoni, e lampi. Non dalle nuvole che ne avvolgono la cima come un copricapo. No, proprio dalla montagna.

 

Esamina il fenomeno con attenzione, e vede la barriera sacra attorno alla montagna, creparsi come il guscio di un uovo.

 

Qualcosa.

 

E qualcosa, un proiettile azzurrino, scaturire con un alto sibilo, e volare nel cielo notturno, e poi piegarsi in una parabola, piombare verso il suolo, là, giusto dietro quelle rocce. Lungo questo sentiero. Non tanto lontano. No. Può arrivarci facilmente. Appena oltre questi alberi. Basta scostare questi cespugli di mirto. Eccolo! Lei sa cos’è.

 

Lì, seduto a terra, nella posa richiesta per la meditazione, c’è colui che mantiene eretta la sacra, inviolabile barriera del monte Hakurei.

 

Si avvicina. Chissà cosa l’ha costretto a uscire dal suo rifugio?

 

Ecco, i più preziosi paramenti da houshi, viola e oro. A coprire un corpo essiccato e fragile come quello di un uccellino. Capelli sottili come fili di seta. Stopposi. Guance scavate. Mani attraverso le cui carni può quasi vedere.

E una campanella legata a un polso.

 

Quando è a due metri da lui, si immobilizza. La barriera che lo protegge, identica a quella della montagna, le impedisce di toccarlo.

 

Kikyou guarda meglio, poi sussulta, e con un sospiro che sembra venire dalle radici stesse del suo essere, china il viso.

 

Tu e io siamo simili, Naraku.

 

Questa la sfida che ha lanciato al suo assassino. E qui c’è la sua spietata, beffarda risposta. Kikyou trema, sopraffatta alla vista dell’avversario che Naraku ha deciso di porle davanti.

 

Tu e io, simili? Dimmi che cosa vedi, dunque, mia nemesi.

 

Kikyou rialza la testa che sembra esserle diventata così pesante. E fissa gli occhi nello specchio dove vede riflesso al tempo stesso …

 

Naraku. Se stessa. Ma, più di tutto, più di chiunque altro …

 

La sua voce è sussurro sottile e disperato. E privo di lacrime.

 

“Onigumo. Oh, Onigumo, che cosa ti ho fatto? Come sono potuta essere così cieca? Sì, tu sei un mostro. Non sei mai stato altro, ma io. Io sono stata una pazza. Una pazza arrogante.”

“Ora lo capisco. Adesso lo accetto. Va bene. Odiami pure, Onigumo. Odiami amandomi, se lo vuoi.”

 

Stringe i pugni, raccogliendo tutte le forze che può. Non sa come, ma ritrova la voce.

 

“Houshi! Houshi Hakushin!”

 

Riverito monaco.

 

“Ascoltatemi, vi prego!”

 

La mummia solleva le palpebre svelando i suoi occhi gialli.

 

 

 

 

Riverita sorella maggiore.

 

“Oneesama? Non mi piace quell’Onigumo. Ha uno strano modo di parlare, di chiedermi della Shikon no Tama. E ha detto delle strane cose anche su di te. Non mi piace, ecco!”

 

Inverno. Kaede sgambetta, schivando le pozzanghere di neve disciolta lungo il sentiero di terra battuta, facendo il possibile per non lasciare che il fango le intrappoli i piedi, e al tempo stesso fissa la schiena dritta come un fuso di Kikyou, della sua riverita sorella maggiore, il movimento delle spalle mentre cammina piano, precisa ed elegante come sempre.

Kaede ne è certa; ci sono regine, o persino principesse delle fiabe, che percorrono corridoi sfarzosi dentro palazzi che lei non riesce neppure a immaginare, vestite degli abiti più sontuosi che i mastri artigiani sanno confezionare, che, mai, potranno neppure sognarsi di camminare con la regalità con cui cammina Kikyou.

 

Una fiammata di affetto si arriccia nel petto di Kaede e, come sempre, amore e riverenza fanno a pugni dentro di lei. Kikyou. Bella. Forte. Orgogliosa. Mai una volta l’ha vista vacillare, o tremare. Darebbe tutto per essere come lei, e preferirebbe morire piuttosto che deluderla.

 

Kaede lo sa, che quasi tutti i fratelli minori ammirano, o venerano perfino, quelli maggiori. Ma, beh, sa anche che ben pochi fratelli – o sorelle – minori hanno una sorella come Kikyou.

 

“Che cosa ti ha detto Onigumo, Kaede?”

 

Il passo di Kikyou non ha esitato. Ma la sua schiena non si è forse irrigidita? E la sua voce?

 

Kikyou è sempre così composta, e tanto spesso, distante. Quindi, Kaede ha imparato ad avvertire ogni impercettibile cambiamento nella sua posa o nella sua espressione.

 

Un sopracciglio alzato, è un brusco rimprovero.

 

Il lento incurvarsi delle sue labbra, il più bel premio a cui lei possa aspirare.

 

I suoi occhi quando si velano per guardare a cose che le sono nascoste, la tristezza che Kaede non capisce e vorrebbe tanto alleviare.

 

Un’increspatura quando parla, un turbamento o una preoccupazione.

 

Tranne quando.

 

Anche se tutto questo sembra cambiato, da un po’ di tempo a questa parte. Da quando è venuto l’hanyou. Perché, se lui è vicino, ma anche solo se sua sorella parla (pensa) di lui, ecco che la sua voce si tinge tutta d’un tratto di vita, e perde la sua pura e cristallina uniformità, per riempirsi quasi di note e di tante sfumature. E il suo viso si anima, i suoi occhi diventano caldi e … presenti, sì, non sa come dirlo meglio di così.

 

Kaede ne era stata tanto sorpresa. Confusa. Cosa stava succedendo alla sua magnifica sorella? C’erano volte in cui stentava a riconoscerne la voce.

E, seppur doveva la vita all’hanyou, ne era stata indispettita. Che cosa capitava? Dov’era finita sua sorella!? Come si permetteva, quello, di arrivare nessuno sapeva da dove, e di … di … cosa? …

(portarle via oneesama)

… di fare quello che stava facendo, insomma, qualunque cosa fosse!!

 

Finché un giorno, mentre stava aiutando Kikyou a preparare da mangiare – lei stava lavando gli azuki, i dolci fagioli rossi dai quali si ricava quella deliziosa marmellata – oneesama aveva fatto un’espressione buffa e. Le spalle le erano tremate, e aveva cominciato a ridacchiare.

 

E quando Kaede l’aveva guardata come se fosse ammattita, si era accorta che Kikyou cercava di riprendere il controllo senza riuscirci, mettendosi una mano davanti alla bocca, ma ridendo un po’ più forte, e le aveva detto “No, Kaede, non è nulla. Mi è solo venuta in mente una cosa che ha detto Inuyasha a proposito dei fagioli, ecco tutto.” Aveva ricominciato lavarli, continuando a ridere.

 

E Kaede aveva pensato che, in fondo, non doveva essere così sbagliato. Quello che stava succedendo. Qualunque cosa fosse. Perché quando Kikyou aveva riso, le era sembrata tanto bella.

Da quel giorno, Inuyasha aveva cominciato a esserle simpatico.

 

Tutto questo non significa che oneesama non sia ancora l’impenetrabile sorella di sempre, per gran parte del tempo. Perciò, la sfumatura con la quale le ha chiesto di Onigumo, indica che si tratta di una domanda importante. Kaede si sforza quindi di rispondere meglio che può.

 

“Mi ha chiesto se è vero che la Shikon no Tama diventa tanto più potente nell’oscurità, quanto più viene sfamata dalle debolezze e dalle paure umane. Io gli ho detto che nulla di tutto questo può succedere, finché ci sei tu a custodirla. Poi …” e Kaede non riesce reprimere un tono scandalizzato e offeso “si è permesso di chiedermi se sei sempre così, come ha detto? … sempre così fredda e distaccata, e che gli sarebbe tanto piaciuto trovare il modo di vederti più … più turbata.” Onigumo non aveva detto turbata, ma Kaede si vergogna troppo a ripetere ad alta voce l’espressione usata dal brigante.

 

“Ah, ha detto così, dunque? E cos’altro ha detto?”

 

“Nient’altro. Perché?”

 

A Kaede sembra che questo sia già fin troppo. Ma si accorge che la tensione è svanita dal corpo di Kikyou.

 

“Significa che questa volta ha deciso di darmi retta. Mi ha creduta. Ha capito che se mi avesse sfidata anche su questo …”

 

Oneesama si zittisce, e poi riprende, con un tono più udibile e freddo.

 

“Devi perdonarlo, Kaede. Onigumo non uscirà mai più da quella caverna. Le sue parole, sono solo una maschera per nascondere la sua disperazione. Noi dobbiamo pazientare e sperare che capisca quanto la sua vita è stata sbagliata fin’ora, così che se ne possa pentire.”

 

Kaede si mordicchia l’interno della guancia, poco convinta, e poi decide di tirare fuori la domanda che le ronza in testa già da un po’.

 

“Ma perché non possiamo parlare di Onigumo almeno con Inuyasha, oneesama?”

 

La schiena di Kikyou si irrigidisce di nuovo.

 

Perché non possiamo parlarne con Inuyasha?

 

“Perché …”

 

Già, perché non possiamo parlarne con Inuyasha?

 

Kikyou stringe i denti. Lei lo sa. Lo sa bene, il perché. Ma come farlo capire a Kaede?

 

Perché, Kaede, Inuyasha sa vedere.

 

Sì. Lui può essere tradito, e può essere ingannato. Ma non i suoi occhi. Quelli, mai.

 

Se Inuyasha posasse il suo sguardo su Onigumo, se ascoltasse le sue parole per non più di un minuto, lui lo vedrebbe subito. Lo vedrebbe per quello che è.

 

E capirebbe cosa vuole. Saprebbe immediatamente quel che Onigumo vuole da me.

 

Kikyou trema involontariamente per l’orrore.

 

E pretenderebbe che lo abbandonassi al suo destino. Che lo lasciassi da qualche parte. A morire. Sì, a morire.

Perché Onigumo non mi ha mentito. Chiunque lo abbia ridotto così; un odio così violento da spingere a vendicarsi con tale brutalità, non si lascia spegnere né fermare.

 

Ma io ho promesso che avrei mantenuto il suo segreto.

 

Avanti. Dì tutta la verità. Non sei mai stata molto brava a mentire a te stessa.

 

Kikyou deglutisce come per liberarsi la gola da un nodo.

 

Perché … perché io voglio che Inuyasha mi convinca, mi costringa. Che insista, gridi e mi ordini di dimenticarmene, di abbandonarlo, di sbarazzarmi di quel … di quel …

 

Perché Onigumo …io …io …non ho mai conosciuto qualcuno così! Non credevo che potesse esistere davvero un uomo così …e … e …

Mi fa schifo!! Mi fa schifo e lo odio, lo odio!! Odio come mi guarda, odio come mi parla, odio tutto quello che dice, odio come si lecca le labbra quando lo lavo …

E di come si fa beffe di tutto quel che per me è importante, e sacro.

E della vita, degli uomini e delle donne che ha derubato e ucciso, dei sorrisi che ha spento, delle crudeltà di cui è orgoglioso, come un uomo santo potrebbe essere orgoglioso delle sue buone opere.

E come riesce a sporcare tutto quello che gli dico! E io non voglio, no, non voglio che Inuyasha lo veda, non voglio che ci parli, non voglio che cerchi di sporcarlo, come cerca di sporcare me!

Io lo posso proteggere. Lo voglio proteggere! Da quell’uomo malvagio. Non lascerò che Inuyasha faccia qualche stupidaggine.

 

Ma perché non muore!? Chiunque altro … come fa a restare in vita!? E con quale ferocia ci si attacca!

Ma perché non è morto quel giorno!! Ah, se solo non lo avessi sentito, se avessi preso un’altra strada, se fossi andata da un’altra parte!

 

Sei un mostro! Tu sei peggio di qualunque youkai abbia mai combattuto. Almeno loro seguono la loro natura, per quanto possa essere violenta e bestiale.

 

Gli occhi di Kikyou si riempiono di lacrime.

 

“Oneesama? Cosa c’è? Perché non possiamo parlarne almeno a Inuyasha?”

 

Si passa la mano sugli occhi, furente con se stessa, e si sfrega il naso col dorso.

 

Sono io il mostro. Che razza di persona sono? Non credevo di essere così. Qualunque cosa Onigumo abbia fatto, ormai è condannato a restare in quella grotta oscura per il resto della sua breve vita, senza il conforto di nessuno, a parte il mio. Non pensavo di essere tanto debole.

Ma come faccio a spiegare queste cose a una bambina che non ha neppure compiuto dieci anni?

 

Tossisce; ma la voce le trema un poco lo stesso.

 

“Kaede. Io. Ecco. Conoscendolo, sarebbe geloso.”

 

“Geloso!?” sbotta la sorella.

E il suo è il tono diffidente che usano i bambini quando si convincono che gli adulti li stiano prendendo in giro.

 

 

Da quella notte, erano cominciati gli incubi.

 

Nell’incubo, lei si affaccia all’imboccatura che ospita Onigumo. Lì si ferma. Non vuole andare oltre. Ha paura.

 

C’è una luce soffusa, che non è né quella del giorno né quella dell’imbrunire. E’ un lucore pallido che sta dentro la cava.

 

Vorrebbe girarsi e andarsene via. Vorrebbe buttare in terra le medicine che porta per lui, ruotare su se stessa e scappare più svelta che può. Ma come accade spesso nei sogni, non riesce. Una forza invisibile la tiene inchiodata sui due piedi, e, più cerca di fuggire, più la forza misteriosa la imprigiona, sospingendola dentro la caverna.

 

Kikyou scuote la testa, le cosce le tremano. I suoi piedi non si muovono, ma si sta ugualmente avvicinando all’uomo fasciato come una mummia che la aspetta.

 

Il suo respiro raschiante le gela la pelle. Socchiude l’occhio, che sembra rosseggiare nel buio.

 

L’occhio! L’occhio dell’Oni! Dell’orco! No! No, mamma! Mammina, ho paura, voglio andarmene, no NO!

 

Dà un’occhiata sotto di sé ma non vede né sente il proprio corpo. Eppure ha la sensazione di essersi rimpicciolita, come se fosse ridiventata bambina.

 

Paura. Paura. Ma non può scappare.

 

Fa’ il tuo dovere, Kikyou.

 

E’ davanti a Onigumo, adesso. Il suo occhio spalancato la fissa, sembra trapassarla. Prova la sensazione di protendere le sue mani invisibili verso di lui.

 

A quel punto, Onigumo drizza la schiena. Guarito. Le fasciature che lo stringevano sono svanite, e lei ha davanti un uomo robusto, vigoroso; mani grandi e callose, un petto robusto come un barile, collo taurino, capelli lunghi e crespi, ma la faccia!

 

Non c’è faccia! Né orecchie, né occhi né naso. Bocca. Solo la bocca. Che si spalanca. Sdentata come quella di un neonato. Urlante. E furente e vittoriosa e. Piena. Di. Voglia.

 

Onigumo le pianta le manone sulle spalle e se la attira addosso.

“Mia piccina.” Sospira, e dopo averla quasi assordata, lei lo ode appena.

 

Poi lei ha di nuovo un corpo, il suo corpo di giovane donna. E l’incubo inizia per davvero.

 

 

Quando spalanca gli occhi svegliandosi d’un botto, deve mordersi le nocche delle dita per non gridare a pieni polmoni e richiamare mezzo villaggio.

 

Si appallottola in posizione fetale, ficcando la testa tutta sotto le coperte, il cuore che le batte come un tamburo.

 

Un incubo. Un incubo.

 

Sì, appena ha capito che stava sognando è riuscita a svegliarsi. Ha le gambe molli per il sollievo. D’istinto, ricorre subito ad alcune delle tecniche spirituali che conosce per allontanare il panico e riprendere il controllo di sé.

 

L’ultima cosa che ricorda dell’incubo è Onigumo che la attira a sé. Poi.

 

Un rumore strano. Cos’è? Appena si rende conto che sono i suoi denti che battono, Kikyou serra la mascella, battendo un pugno sul futon.

 

Il materiale. Il materiale di cui sono fatti i sogni.

 

Sorride con amarezza.

 

Le è successo, alcune volte, di udire ragazze del villaggio ridacchiare e bisbigliare, le voci un impasto di curiosità, desiderio, sfida e paura.

Una volta, si era fermata sull’angolo della capanna al di là del quale le udiva. Non per origliare, no. Solo perché sapeva cosa sarebbe accaduto, se avesse svoltato quell’angolo. Le ragazze si sarebbero azzittite tutte. Qualcuna sarebbe arrossita, di sicuro. Recuperata in fretta la compostezza, avrebbero chinato la testa alla sua comparsa, e poi l’avrebbero fissata, insistenti, con lo sguardo vitreo simile a quello degli uccelli. Civette, forse. O corvi. Non le sarebbe stato difficile leggere il messaggio contenuto in quegli sguardi.

 

Vattene via. Va’ via. Liberaci della tua presenza ingombrante, e lasciaci tornare alle nostre chiacchiere, miko-sama.

 

Aveva scosso le spalle e si era allontanata senza fare il minimo rumore.

Di quel grande mistero del quale le ragazze sussurravano a occhi spalancati, divertendosi a cercare di mettersi paura l’un l’altra, lei sapeva molto più di loro.

 

Aveva già avuto modo di vedere uomini nudi – pur trattandosi di bambini o vecchi, per lo più, e tutti, comunque, malati o feriti. Inoltre, la sua istruzione le dava molte più conoscenze di quelle sciocchine.

 

Kikyou si rigira nel futon.

 

Solo questa notte, però, può capire la paura che aveva sentito in quelle risate. Aumentata mille volte.

 

Deglutisce, e si gira di nuovo, inquieta.

 

Quel poco che non sapeva del grande mistero che uomini e donne condividono fin dall’inizio dei tempi, è stato proprio Onigumo a svelarglielo, prima, con le reazioni e le secrezioni del suo corpo. Ma per quanto la cosa la imbarazzasse – non gli avrebbe mai permesso di capirlo, però – a questo lei era stata preparata fin da subito.

 

Scuote la testa, e stavolta non riesce a trattenere un singhiozzo.

 

Anche se avrei tanto voluto che fosse stato con Inuyasha …

 

Spalancando tanto d’occhi, Kikyou scaccia il pensiero e si gira di nuovo, appallottolando le coperte e arrossendo.

 

Ma la cosa peggiore, quella più orrenda, che proprio non riesce a sopportare, è quello che le racconta, e il suo sguardo addosso mentre lo fa.

 

Quanto più i giorni passano, tanto più Onigumo le racconta degli atti scellerati coi quali ha costellato la sua vita. Dapprima piccole cose, ma che ben presto sono diventate sempre più terrificanti.

 

Sempre, dice di volerlo fare per sgravare la sua coscienza, perché il ricordo di ciò che ha fatto gli è intollerabile.

 

“Bugiardo.” Sussurra Kikyou da sotto le coperte, sicura che Kaede non la possa sentire. Si volta di nuovo sul fianco.

 

Onigumo non fa alcuno sforzo per nasconderle il fatto che il suo presunto pentimento è solo una scusa per costringerla ad ascoltare.

 

La sua sfida.

 

Ma quello che le dice. Quella è solo verità. E quando le descrive, con la sua voce arrochita e piena di nostalgia, che cosa ha fatto, che cosa faceva alle donne sulle quali riusciva a mettere le mani, e quando la fissa con quell’occhio privo di sopracciglia, che quasi pare nudo …

 

Con un calcio, Kikyou allontana le coperte, gli avambracci incrociati sotto il seno, a soffregarsi la pelle accapponata.

 

No. Basta. Non c’è niente di cui aver paura. Non ho nulla da temere. Non ha la forza neppure per torcere un capello a un bambino.

 

Kikyou sorride di un sorriso storto. Già. Come piace ripetere a lui. Già.

 

Però, lei gli aveva lasciato le steccature alle braccia, vero?

 

Per l’ennesima volta, si rigira su se stessa, i capelli lunghissimi ridotti a un groviglio.

 

Le fratture alle braccia di Onigumo si erano già saldate da un po’, anche se lui non poteva saperlo, perché i suoi muscoli si erano talmente indeboliti a causa dell’immobilità, che quasi non avrebbe notato la differenza. Proprio così. Ma lei gli aveva lasciato imprigionati gli arti. E sì.

 

Ma è perché altrimenti Kaede …

 

“Bugiarda. Tu, stavolta.”

 

Non aveva senso. Quello che stava facendo era, in ogni caso, una crudeltà. Ma il giorno in cui si era decisa a rimuovere le stecche dalle braccia di Onigumo, le mani avevano iniziato a tremarle tanto forte da non riuscire a far nulla, neanche tenere in mano ciotola e cucchiaio. E …

 

Non era mai stata tanto spaventata in vita sua. Mai!

Anche se sapeva che Onigumo era debole come un bimbo.

 

Basta. Basta.

 

Ma com’era possibile!? Come poteva, un uomo ridotto così, perseverare a quel modo, sguazzare nel compiacimento di una tale malvagità, come un porco nel fango.

Uno di quei luridi, schifosi, puzzolenti, ripugnanti maiali la cui carne gli piace tanto? Come!?

 

Basta.

 

No, basta, non può lasciare che Onigumo la sconvolga così.

 

“Ci riuscirò. Ci riuscirò sicuramente.”

 

Prima o poi, un giorno o l’altro, sarebbe riuscita a scorgere un solo barlume, quell’unico luccichio di autentico pentimento; e su quello sarebbe riuscita a fare leva, con paziente fermezza. Avrebbe salvato l’anima del brigante. Sì.

 

“Sicuramente. Ci riuscirò.”

 

Kikyou ascolta il suo cuore acquietarsi del tutto. Le palpebre le si appesantiscono.

 

“Dormire. Meglio dormire un po’. Domani. Mi aspetta una giornata faticosa. E gli toglierò quelle maledette stecche! Costi quel che costi.”

 

E così cade nel sonno, dentro chissà quali sogni.

 

 

 

“Dunque? Prima uno houshi accompagnato da una taijiya, e adesso una miko? State dando anche voi la caccia a Naraku, miko-dono?”

 

Kikyou muove appena la testa.

 

“Perciò, è la verità. Avete deciso di proteggere Naraku con i vostri poteri, houshi Hakushin.”

 

La mummia che un tempo è stato Hakushin, annuisce.

 

“Sì. Chissà quanto siete stupita, non è vero, miko-dono? Che un venerabile come me protegga una creatura come Naraku?”

“Quando ero vivo, decisi di salvare la mia terra da un’antica malvagità, facendo di me stesso un Buddha vivente. Che povero sciocco! Quando la morte giunse a prendermi, capii quanto è grande la differenza tra ben sapere, e davvero credere. Troppo tardi, però. E troppo presto. Morii odiando coloro che mi avevano seppellito, l’oscurità che affliggeva la mia terra rifluì dentro me, e fui perduto. Fino a quando colui che chiamate Naraku non è venuto a salvare la mia anima. Ora ripagherò il mio debito. Non ho bisogno di sapere altro.”

 

L’espressione di Kikyou è impassibile.

 

“Oscurità? Non è quanto vedo io adesso, houshi Hakushin. No, nient’affatto.”

 

L’inflessione della mummia si tinge di sarcasmo.

 

“Davvero? Pensate anche voi di potere salvare la mia anima, miko-dono?”

 

Kikyou fatica a trattenere una smorfia.

 

“No!”

 

La mummia la fissa.

 

“C’è stato un tempo nel quale sono stata così sciocca da credere di poter salvare anime umane.” Sospira. “E ormai non posso più fare ammenda di quella mia presunzione. Però sto pagando. Non avrei mai immaginato quanto!”

“No, houshi Hakushin. Vorrei solo poter toccare la vostra tamashii, la vostra anima, così come ha fatto Naraku prima di me. Ve ne prego. Permettetemelo.”

 

“Voi volete solo dissipare la barriera che protegge il monte Hakurei.”

 

“Non è questa la ragione, houshi Hakushin.”

“Io lo so cosa significa. Essere perfetti. So quanto fa male. Lo ricordo, dal tempo nel quale ero viva.”

 

“Dunque avevo ragione. Anche voi, come me, siete dei morti, miko-dono.”

 

Kikyou annuisce e ripete.

 

“So cosa significa. Essere così accecati da quello stupido, stupido orgoglio!” Stringe le mani a pugno, incapace di trattenere il dolore.

“E credere di essere sempre, forti abbastanza da affrontare qualsiasi prova! Di poter pagare qualunque prezzo il Fato deciderà di chiederci! Oh, houshi Hakushin!”

“Ma a volte, i Kami decidono di prendere sul serio la nostra arroganza. Quanto può essere terribile quel prezzo! Tanto più di quel che saremmo mai riusciti a immaginare, persino nei nostri incubi più orribili! Allora, scopriamo di non essere forti quanto credevamo. Ma pur di negarlo, preferiamo fuggire nelle tenebre, in un’oscurità nella quale non poter più vedere neppure noi stessi.”

“Vi prego, houshi Hakushin. Vi prego, permettetemi di toccarvi.”

 

“Perché dovrei?” ribatte la mummia con durezza.

 

“In cambio, vi lascerò toccare la mia anima.”

 

Hakushin è colpito suo malgrado. Non avverte menzogna nella voce della miko morta, così come non l’ha avvertita in quella dell’hanyou. In entrambi i casi, ha solo la sensazione che quel che non gli viene detto sia molto più di quanto è stato svelato.

 

“Una miko morta? E perché no, in fondo? Non sono stato tratto dalle tenebre da uno hanyou? Fate pure ciò che volete.”

 

La barriera che protegge Hakushin svanisce.

Kikyou copre i due passi che la separano dallo houshi, si inginocchia e lo abbraccia stretta.

 

Hakushin si irrigidisce. Di nuovo!

 

Questa luce …

 

“Come immaginavo. Io non riesco a vedere alcuna tenebra dentro di voi, houshi Hakushin. Non trovo alcun odio. Vi state sbagliando. Siete stato ingannato.”

 

“No, io …”

 

Hakushin smarrisce le parole sulle labbra, poggiando il fragile capo nell’incavo della spalla di lei. Questa luce. Come può essere così gelida e spietata, e al tempo stesso così piena di sofferenza?

 

“Non sbaglio. Ascoltatemi. Ascoltate! Lui è un bugiardo! E’ un bugiardo!”

 

“No. Non è così, mi ha salvato, se avesse mentito lo avrei capito. Neppure quell’hanyou ha un potere tale da potermi mentire.”

 

Eppure Hakushin sente suo malgrado il dubbio insinuarsi dentro di lui. Come? La testa della miko si scuote in un segno di diniego contro la sua guancia. Le sue mani fredde si stringono più forte sulle sue spalle esili.

 

“Sì, invece. E’ abile, glielo riconosco. Sa nascondere le sue menzogne dentro le verità che noi stessi desideriamo, o temiamo, così che divenga impossibile distinguere il vero dal falso. Ma è un bugiardo! Non conosce altro che la menzogna! E’ stato bugiardo fin dal primo momento della sua venuta nel mondo. E colui col quale è più abile a mentire, è se stesso.”

 

Hakushin freme.

 

“Guardate voi stesso. Dentro di voi, e dentro me.”

 

La luce si apre ai suoi occhi, senza tenere nulla per sé, come già aveva fatto la tenebra.

 

Oh!

 

E se la tenebra illuminata lo aveva accecato, ora Hakushin è tanto più accecato dalla luce.

 

Questa luce oscura!

 

“No. Miko-dono. Non fatelo. Non per me!”

 

Ma la luce non esita, svelandogli l’agonia dell’odio nel quale è imprigionata; un supplizio che scioglie d’orrore perfino le ossa di un morto.

 

“Oh! Miko-dono!”

 

“Non c’è nulla di tutto questo dentro di voi, houshi Hakushin. Niente! C’è solo la vostra tristezza.”

“Non siete morto così. Non siete morto come sono morta io. Siete stato forte. Non temete.”

 

“Possibile? Ma io …”

 

“Avete salvato coloro che dovevate proteggere. La malvagità che avete combattuto non vi ha corrotto. Siete stato bravo. Siete stato bravissimo! Nessuno può esigere nulla di più. No. Nessuno.”

“E se avete avuto paura; sappiate che non c’è niente di male in questo! Significa solo che siete umano. Non avete odiato! Questa è la sua menzogna. Guardate dentro me. Io sono morta odiando!”

 

Hakushin cerca di distogliere lo sguardo dall’anima torturata della miko, ma non riesce.

 

Vede una giovane donna percorrere un corridoio d’alberi, una mano premuta sulla spalla squarciata per trattenere un po’ più a lungo la vita. La vede scoccare una freccia. Sigillare uno hanyou. Morire. Essere bruciata su una pira.

 

Dopo un’eternità che rende il tempo un inganno – decenni? Secoli? Istanti? Quanto? Quanto? – sente una voce stridula dall’età che la chiama.

 

Ritorna. Ritorna!

 

No! Lasciatemi stare. No non voglio no no mi fa male! No, perché? Che cosa ho fatto per meritare …?

 

L’hanyou sigillato e di nuovo libero.

 

Ti scongiuro! Non. Non farlo, non farlo, non resisterò se lo fai non farlo, taci TACI!

Non chiamare il mio nome!

 

Kikyou.

 

E la voce di una strega youkai.

 

“Quella che un tempo era una fanciulla così pura, adesso è solo un mostro pieno d’odio e di mera malizia. Ah!”

 

 

Hakushin capisce.

 

Il destino della tenebra illuminata che lo ha liberato dalle sue tenebre, e quello della luce oscura che, ora, lo sta liberando dalla tenebra, è di scontrarsi nel più feroce duello, sulla cima del monte Hakurei. Si stanno scagliando come folgori l’uno tra le braccia dell’altra. Come amanti. Come assassini.

 

E quando ciò accadrà, lui non vorrà esserci. Così, scopre che anche un morto può avere paura.

 

“Miko-dono. Ho capito. Eppure, adesso non posso lasciarvi qui. Non posso abbandonarvi!”

 

Hakushin sente il capo della miko scuotersi di nuovo.

 

“No. Non c’è più nessuno che dobbiate salvare, houshi Hakushin. Ora potete riposare. Sì. Dormite un po’. Ve lo siete guadagnato. Per me, è troppo presto. E troppo tardi, anche.”

 

La testa di Hakushin crolla all’indietro, le mani di lei ancora premute sulla schiena. Sì, non è una brutta idea. Dormire. Chiudere gli occhi un pochino. Ma prima, però.

 

“Addio, miko-dono. Una cosa. Una, almeno! Ricordate. E’ qualcosa che ripeteva il mio sensei, e finalmente. Finalmente l’ho compresa.”

“Il mio sensei soleva ripetere, che prima di imparare a servire, è più importante imparare a essere serviti.”

“Spero vi possa aiutare nel vostro viaggio. Miko-dono.”

 

La mummia perde sempre più consistenza tra le mani di Kikyou, fino a svanire in pochi istanti. Kikyou sospira, e fruga tra le pieghe del suo hitoe, alla ricerca della ciocca di capelli di Kansuke Rasetsu.

 

“Un po’ di pietà? Basta questo?”

 

La coda di capelli in mano, resta in silenzio mentre la barriera attorno al monte Hakurei impallidisce, fino a svanire, e un grido si alza sempre più possente.

 

Mostri il tuo vero volto, non è vero, Naraku?

 

La rigogliosa salute dei boschi abbarbicati ai pendii del monte Hakurei defluisce via, svelta come il colore dalle guance di un morto.

Il verde diventa marrone, e poi nero, mentre torme infinite di youkai erompono dalla montagna, ronzanti e furibondi e liberi.

 

Kikyou si rialza.

 

“Ma nessuna pietà per te, mio assassino. Né tu la vorresti, e io non ti insulterò, accordandotela.”

 

 

 

Naraku continua la sua corsa, ansante, sentendo ancora il tocco delle zampette di Onigumo, vedendolo mentre fugge.

Gli chiude strade che erano aperte fino a un attimo prima, crea false piste e labirinti coi quali confonderlo, lo costringe a girare a vuoto.

 

 

 

“Né tanto meno per me, Naraku. Tutta la pietà di questo mondo, non può cambiare ciò che siamo. Ora.”

 

 

 

Come allora.

 

Lo chiude nell’angolo di un vicolo sporco.

 

“Ti vedo, Onigumo. Sei proprio lo stesso.”

 

 

 

Kikyou stringe più che può i capelli del brigante morto nella mano. “Perché è questo il mio destino.”

 

 

 

“Perché questa è la mia scelta!”

 

 

 

“Sola.”

 

 

 

“Solo.”

“Mi sbarazzerò una volta per tutte sia di te che della miko.”

 

Il kokoro di Onigumo si è rimpicciolito fino a ridursi delle dimensioni dell’insetto di cui ha la forma. Il piccolo corpo è pieno di ferite, una zampa è rotta, la peluria è ricoperta di icore verdastro. Onigumo sibila e sputa, arricciandosi come una palla.

 

“Mai domo, vedo. Molto bene.”

 

Naraku fa un altro passo.

 

Il ragno si getta in avanti zoppicando, fingendo di muovere in una direzione e poi scartando all’improvviso.

 

Naraku attende fino a quando è possibile. Poi si china rapido come una serpe, e imprigiona il ragno nel pugno.

 

Onigumo cerca di mordere, di conficcargli il pungiglione nel palmo, ma l’aculeo si spezza sulla sua mano dura come pietra, schizzando goccioline trasparenti di veleno.

 

“No! Non puoi! Non puoi scacciarmi! Io sono il pungolo dei tuoi passi!”

 

Serra le dita.

 

“Non più.”

 

“Io sono la soddisfazione nella tua risata!”

 

Altre zampe si rompono con uno schiocco. Un gemito di dolore e rabbia.

 

“Non per molto.”

 

“Io godo per te dei tuoi trionfi!”

 

Il pollice preme sull’addome peloso.

 

“Non ne ho bisogno.”

 

“Io do vigore all’ambizione che ti sostiene! Non sei nulla, senza di me!”

 

Stringe. Di più.

 

“Io sono ciò che decido di essere.”

 

“Io sono il mastice che stabilisce la forma che sei!!”

 

Di più!

 

“Onigumo. Neppure l’inferno vuole un’anima come la tua.”

 

La carcassa stritolata del ragno cade a terra.

 

 

 

“Puoi andartene anche tu, Kansuke Rasetsu. Ora posso lasciarti andare, senza più essere una bugiarda.”

 

Kikyou apre il pugno vuoto e per un secondo sorride soddisfatta. Poi, riprende il suo solitario cammino verso la cima del monte Hakurei.

 

 

 

Alza le mani all’altezza del viso, e sospira. Sul dorso delle mani, due tagli come due ferite si spalancano, svelando due globi cremisi.

 

Occhi.

 

Il suo volto è, ancora, quello del figlio del daimyo.

 

La forma che ho stabilito.

 

La sagoma umana del suo corpo è sfigurata da code e creste d’ossa.

 

Bene.

 

Attorno a lui, brandelli e rimasugli di youkai.

 

Sotto di lui, in una vasta infossatura, i feti che imprigionano la sua anima umana.

 

I grumi di carne sospirano, come scossi da un vento invisibile. Lo stanno chiamando. Si sporge nella loro direzione e parla piano.

 

“Ricordati, Onigumo. Tutte le creature dei cieli e della terra sono le schiave della loro stessa natura.”

“Ma io, non ho natura.”

 

Naraku gira sui tacchi senza un’esitazione, ignorando i sussurri provenienti dalla fossa. D’un tratto, avverte una scossa. Un’altra. Una cascata di polvere cade dalla volta del cunicolo che sta percorrendo. Una scheggia di roccia lo colpisce senza lasciare traccia.

 

La barriera del monte Hakurei è stata dissolta.

 

E c’è sola una creatura, sotto i cieli vuoti, che può avere spezzato le catene di fiamma con le quali aveva imprigionato quel ridicolo idiota di Hakushin.

Giacché lui ha forgiato quelle catene a derisione di quelle che imprigionano lei.

 

“Hai fatto tutta questa strada, solo per venire da me, Kikyou?”

 

Il sorriso di Naraku sboccia sulle sue labbra come i petali di un loto velenoso.

 

“Ne sono lusingato.”

 

Naraku accelera il passo.

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Capitolo 24
*** XXIII ***


Devo scusarmi per il grande ritardo nell’aggiornamento – bhe, anche se dubito che ci sia qualcuno in attesa di aggiornamenti, non era mia intenzione lasciare il racconto in sospeso tanto a lungo e in questo punto in particolare, ma problemi di natura inf

Devo scusarmi per il grande ritardo nell’aggiornamento – bhe, anche se dubito che ci sia qualcuno in attesa di aggiornamenti, non era mia intenzione lasciare il racconto in sospeso tanto a lungo e in questo punto in particolare, ma problemi di natura informatica mi hanno rallentato oltremisura. Non mi dilungo oltre e, già che ci sono, auguro a tutti quanti uno splendido 2010.

Ciao!

 

 

Tira vento.

E, oggi come un tempo, Kikyou odia queste giornate ventose. Oggi che, più di allora, si sente come una stanza chiusa, anche se non più vuota.

 

L’intensità del vento vieppiù si accresce. Scosse violente, che squassano l’intera montagna, minacciano di farle perdere l’equilibrio. Cammina cauta, fissando le punte più alte dell’Hakurei.

 

Il monte Hakurei sta morendo. Un mostro si è annidato nelle sue viscere, facendolo a pezzi, divorandolo da dentro, squartandolo.

 

Perché? Qual è lo scopo di Naraku? Quale ragione lo muove?

 

Le punte gemelle dell’Hakurei si piegano col muggito di un titano, si staccano e precipitano per un centinaio di metri, schiantandosi a terra e levando nubi di polvere così fitte che la soffocherebbero, se fosse viva.

Le scosse diventano tanto intense da costringerla a fermarsi. Il suolo si separa, deturpato da ferite micidiali, intere sezioni di roccia sprofondano, spalancando orridi a pochi metri da lei; nel cui fondo sciaguatta, in forma di fiume velenoso, lo shouki, il miasma di Naraku.

 

Dal varco sulla cima della montagna, erompe una meteora, un globo rosso sangue colmo di oscura potenza. Si scaglia contro di lei.

 

L’arco in mano, i vestiti e i capelli scompigliati, assume la posa richiesta per il Kyujutsu, punta del piede destro in avanti, sinistro spostato di lato.

 

Eccolo.

 

La rossa meteora si arresta in un istante, passando da quella velocità spaventosa all’immobilità, quando è ad alcuni metri da lei.

 

Kikyou non batte ciglio, mentre l’energia crepitante si acquieta, si riduce, schiudendosi a svelare colui che si nasconde al suo interno.

 

“Kikyou. E’ passato del tempo dall’ultima volta.”

 

Naraku tiene lo sguardo fisso negli occhi della sua nemesi.

Sì.

Così come la scalata al monte Hakurei ha reso più potente lui, allo stesso modo ha indebolito lei; e, quel che è meglio, Kikyou non se ne è accorta del tutto. Le prove alle quali l’ha costretta l’hanno privata di gran parte della sua forza, senza che lei se ne rendesse conto.

Ottimo.

 

“Cosa significa tutto questo, Naraku? Cosa stai architettando?”

 

Kikyou soppesa il suo assassino, il suo corpo piagato dalle strutture ossee che erompono quasi a casaccio, e dalle bizzarre appendici di cui adesso è munito.

 

“Come? Non lo vedi da te, Kikyou? Mi sono procurato un nuovo corpo. Migliore. Sapevi già che Inuyasha mi ha sconfitto, no? Ora non gli sarà più così facile.”

 

In risposta, Kikyou sfila una freccia dalla faretra e tende l’arco in direzione di Naraku.

 

“Non sono cieca; non hai fatto tutto questo per procurarti un nuovo corpo. Avanti. Se sei venuto a cercarmi è per una ragione. Vero?”

 

“Ah, lo hai capito! Astuta come sempre, mia nemesi. Sì, già lo so. Mi mancherai.”

 

Un passo per volta.

Naraku lascia scorrere dentro di sé il suo potere. E’ importante. E’ troppo importante. Non basta ucciderla. Deve spezzarla. Lei è caparbia, come quel lercio brigante. Caparbia e potente. Non deve scordarlo. Va stritolata, prima. Come ha fatto con lui. I due fantasmi che lo perseguitano.

 

“Una volta reciso, il filo rosso del destino non può più essere riannodato.”

“Le ruote del destino sono sempre in movimento.”

“Così sta scritto.”

“O sbaglio, mia nemesi?”

 

Una prima smorfia di sconcerto attraversa il viso di Kikyou per sparire subito.

 

“Trovare lungo la tua strada Kansuke Rasetsu non è stato certo il frutto del tuo prezioso Fato, Kikyou. Conoscevo il desiderio di Rasetsu di trovare un luogo adatto alla sua morte. Ho prolungato la sua vita fino a farlo tanto stremato da non consentirgli di pensare ad altro.”

“Mi è bastato spargere la voce e fare credere che il terreno consacrato del monte Hakurei fosse in grado di purificare dai peccati chi vi è sepolto. Sapevo che questa menzogna avrebbe attirato Rasetsu come la fiamma attira la falena. Povero Kansuke! Fino all’ultimo, si è lasciato ingannare così facilmente!”

“Sapevo pure che tu, Kikyou, ti saresti fatta accecare come sempre dalla tua sciocca fiducia nel Fato.”

“Invece, è stata opera mia. Sono stato io, e io solo a guidarti fin qua.”

 

Leva il braccio, e una delle punte ossee si allunga assumendo la forma di una lama.

 

“Mi hai sottovalutato, mia nemesi. Non hai tenuto conto di una cosa.”

 

D’un tratto, la punta ossea prende vita, proiettandosi come una lancia, e in un sol colpo spezza l’arco di Kikyou e le trafigge la spalla.

 

L’arco in tensione schizza via in due tronconi, e Kikyou cade in ginocchio sbigottita.

 

La spalla! Naraku l’ha colpita allo stesso punto. Ma non c’è sangue, stavolta. Le labbra della ferita non svelano carne esposta. Solo un involucro di terra, incrinato, dal quale fuoriesce la debole luminosità di alcune tamashii.

 

Come ha fatto!? Kikyou fa per alzarsi, ma l’espressione di Naraku la paralizza, colpendola con la violenza di una mazza. E’ impenetrabile, ma quasi. Quasi le pare pietosa.

 

No! Un bugiardo. Ricordalo! Nessuna pietà, né per lui né per te!

 

Ma è così difficile resistere! Perché lui capisce cose che nessun altro può capire. Lo vede nelle sue iridi rosse. E non può abbassare lo sguardo. Quel segno di debolezza, le sarebbe fatale.

 

“Il kokoro.” Sussurra “Non c’è altra spiegazione. Non avresti potuto violare la terra in cui giacque Onigumo, altrimenti. Ti sei liberato dal kokoro di Onigumo!”

 

“Liberato. Sì, hai ragione, Kikyou.”

“Sulla cima di questa montagna sacra, dove i nostri antenati venivano a sacrificare ai Kami, realizzerò entrambi i nostri desideri. Libererò anche te. Mi sono preparato per questo. E’ stato doloroso, e spossante, ma ce l’ho fatta.”

“E’ arrivato il momento di riposarti. Non dirmi che non sei stanca di tutto questo, Kikyou. Lo so che è così. Sei esausta. Lo vedo bene. Sei stata richiamata nel mondo contro la tua volontà. Ognuno dei tuoi giorni è una tortura che neppure io avrei saputo congegnare, né posso immaginare appieno. Devi assistere al lento disfacimento di ciò che sei stata, senza poter far nulla per impedirlo. E l’unico a saperlo, è il tuo peggiore nemico. Non dirmi che puoi sopportarlo, anche per un solo minuto di più! Deve finire! Qui e ora, Kikyou!”

 

No. Non così. Non ascoltarlo.

 

La sua voce piatta ma stranamente comprensiva le entra dentro come dall’incrinatura del colpo che le ha inflitto.

 

Ma davvero il Fato vuole questo? Tutta la fatica, tutto il dolore per arrivare fin qua, solo per essere uccisa di nuovo da Naraku, e in questo modo?

 

“Che tu sia maledetto, Naraku.”

 

Lo sguardo di Naraku rosseggia.

 

“Chi dovrebbe maledirmi, Kikyou? Tu? O il Fato? Ho sconfitto Onigumo! Dopo tutti questi anni. Solo tu sai cosa questo significa, sia per me che per te.”

“Ormai, il mio potere è tale da poter piegare anche il Fato alla mia volontà! Nulla può più trattenermi. Ci sono solo io, sotto i cieli vuoti, che può salvarti. Lascia che accada, mia nemesi. Così deve essere. Così è giusto. Non permettere che il Fato giochi ancora con te.”

 

Le labbra di Kikyou tremano, le spalle incurvate. Quanto è stanca. Pesante. Esausta! Le sue parole. Così insidiose. Così allettanti. Lui capisce! Quanto vorrebbe, essere liberata da tutto quanto!

 

Come Suikotsu. Come Hakushin. Come …

 

Bugiardo! Bugiardo!! Conosce solo la menzogna! Non te lo scordare! Non scordarlo!

 

Kikyou sbatte le palpebre, senza capire da quale parte, dentro di sé, venga il grido. Scuote la testa, come se dovesse liberarsi dal sonno.

 

“No.” Dice semplicemente.

 

Naraku la guarda, divertito. “No? No, davvero? Non è quello che ho letto sulla tua faccia, Kikyou.”

 

“Tu non capisci, Naraku. Proprio non lo capisci. Credi che il tuo potere si estenda addirittura sullo stesso Fato? Sei davvero patetico.”

 

Il viso sorridente di Naraku viene turbato da un’increspatura.

 

“La terra del monte Hakurei non può purificare coloro che vi vengono sepolti, dici? Eppure, le anime di tutti coloro che mi hanno accompagnata fin qua sono salve. E tu mi parli di menzogne, mio assassino? Ebbene, ascoltami. Non esiste nessuna delle tue menzogne, che io non possa piegare in verità!”

 

Kikyou rialza la testa, gli occhi le si induriscono. Sposta un piede a terra, poggiando il peso su di esso, tesa.

 

“Ma tu questo non puoi comprenderlo, perché non è vero! Non è vero che mi capisci! Bugiardo! Come sempre, l’unico che riesci a ingannare, sei tu stesso, Naraku.”

“Inuyasha. Lui sì, capirebbe subito. Mentre tu. Tu, povero, smarrito, debole hanyou, non puoi! E questo perché Onigumo; lui non mi ha mai vista, e non mi ha mai vista danzare! No, per lui io non ho mai danzato la danza delle miko.”

 

Naraku sposta il peso del corpo all’indietro senza volerlo. Come? Non aveva più un briciolo di energia fino a un attimo fa, la disperazione la stava consumando, e adesso!

Nonostante la sua anima sia in pezzi, Naraku sente ancora una volta il suo potere raccogliersi attorno a lei.

 

“Quali vaneggiamenti sono mai questi, Kikyou? Le tue parole non hanno alcun senso! Hai finito per perdere persino la ragione, mia nemesi? Che delusione!”

 

Naraku scorge il sorriso gelido fare capolino di nuovo sulla bocca di lei.

 

“Oh, Naraku. E’ tanto importante distruggermi? Tanto, da ridurti a nulla più che un guscio vuoto? Stolto. Quanto più lotti per sfuggirgli, tanto più non fai che diventare, il mero strumento di un Fato oscuro.”

 

La calma di Naraku si infrange. Come riesce a sfidarlo, nonostante tutto!? Ma perché!? Perché non cede, perché non si frantuma!? Questo incubo. Questo incubo deve finire. DEVE!

 

“Parole! Le tue sono solo parole! Tutto questo finirà, e finirà oggi!”

 

Il volto di Naraku si deforma per l’odio, e il sorriso di Kikyou si fa, assurdo!, dolce e indifeso come quello di una bambina.

 

“Adesso sì che ti riconosco, mio assassino.”

“Fa’ il tuo dovere, Naraku.”

 

Una bolla d’odio scoppia dentro Naraku, sconvolgendolo con la sua virulenza. Come? Eppure è certo che non ci sia più alcuna traccia di Onigumo dentro di lui.

Ma non è Onigumo! E’ il suo odio! E’ nato dentro di lui, e non ha a che fare col suo cuore umano! Eppure non si era accorto della sua esistenza, fin’ora!

 

“Muori, Kikyou.”

 

La lancia d’ossa non basta. Le sue dita si trasformano in un nugolo di lame. Le scaglia, mentre si allungano, accompagnate dalla ferocia del suo odio! Non ha mai provato niente del genere, neppure per Onigumo. Non ha mai neppure saputo di poter provare qualcosa del genere! Le dita (artigli) la colpiscono alla spalla con tutta la violenza di cui è capace, sollevandola da terra. Riesce solo a intravedere la sua faccia. Non l’ha mai vista così, ma non gliene importa più nulla. Purché scompaia! Che sparisca. Per sempre!!

 

 

Kikyou vede la sua fine arrivare sul viso di Naraku e sulle punta delle sue dita. Trafitta, viene sbalzata da terra. Un bruciore, un dolore quasi, la fa sussultare. Strano. Non si aspettava di provare dolore.

Veleggia sul baratro nel quale lui l’ha scaraventata. Come una foglia morta. Il simulacro del suo corpo è spaccato.

Cadere. Lasciarsi andare. Sconfitta? Ma importa?

Però c’è un brusio. C’è questo strano brusio, lo stesso che l’ha svegliata dalla malia di Naraku, e che non vuole lasciarla riposare. E’ come se il rumore la volesse costringere a ricordare. Che cosa?

 

Le sue labbra si muovono appena.

 

“Inuyasha.”

 

Inuyasha che le allunga una delle sue carezze corte, e poi rinuncia quando è a una spanna dalla sua mano, e guarda altrove.

E lei che posa la mano sul suo palmo.

 

“Non lasciarmi affrontare tutto questo!”

 

Inuyasha imbronciato, che la fissa attento, e i suoi occhi si accendono d’improvviso come due fiamme dorate, liquidi e pieni di desiderio.

E lei che canta, e danza per lui nell’intrico dei segreti che sa sciogliere e legare.

 

“Non di nuovo.”

 

Inuyasha che le cinge le spalle con le braccia, e la sostiene mentre sta per cadere.

E lei che gli si avvinghia contro, il corpo schiacciato sul suo, e tutto è tiepido e pauroso e quieto, rannicchiata nel suo calore.

 

“Non da sola!”

 

Una fiamma bianca erompe dalla sua ferita.

 

E tutto precipita e sale verso la sua fatidica fine.

 

 

La mano di Naraku ritorna al suo aspetto consueto. Si avvicina al bordo del baratro; passi lenti, trasognati.

 

Si sporge. Andata. E andato è pure l’odio che per un secondo l’ha sconvolto. Rinchiuso dentro di lei, e buttato nel fiume dello shouki, per svanire nel nulla.

 

Finito.

 

Sono libero?

 

Libero. Libero! Sì, libero!, da tutto! Leggero! Pulito! Finalmente!

 

Dimentica in fretta il trionfo.

Il suo sorriso, è il sorriso perfetto di un Buddha vivente serenamente morto d’inedia.

 

“Tutto questo, tutta questa fatica, e solo per uccidere una femmina, Naraku?”

 

Lui. Non avrebbe potuto chiedere di meglio. Lui, fra tutti quanti.

 

Prima di voltarsi, piega le sue labbra nel suo solito ghigno beffardo. Non che lui possa capire. No, l’unica che potrebbe capire, è stata appena consumata nel veleno. L’unica.

Ciò che prova non è nostalgia, ovvio!

 

No, Sesshoumaru-sama. Quel che ho realizzato, la vetta che ho raggiunto, il dolore che ho sconfitto, la libertà che mi sono conquistato. Tu non sei nato per comprendere nessuna di queste cose.

 

Voltandosi, vede che non è accompagnato dalla bambina umana che ha deciso di accogliere con sé. Non ha voluto portarla troppo vicina al pericolo.

 

E forse, ormai, anche se potessi comprenderle, non sapresti più neppure apprezzarle.

 

“Sesshoumaru! Non mi aspettavo di essere onorato dalla tua presenza. Sei sicuro che dedicarmi tale attenzione non sia indegno di uno youkai della tua levatura?”

 

 

Sesshoumaru non ascolta quasi le parole di Naraku, le narici dilatate dallo stupore. Cos’è accaduto?

                               

L’anima umana nascosta all’interno di Naraku non ha più alcun odore. Aveva una puzza oleosa, nauseabonda, che stentava a sopportare; un impasto di putrefatta vitalità, di rabbioso tripudio, e di tutti quegli olezzi umani che gli sono insopportabili. Svanito. Non c’è più nulla. Non gli è mai accaduto, in tutti i secoli della sua esistenza, di imbattersi in un’anima umana del tutto priva d’odore.

 

Chiedendosi cosa possa significare, sfodera Tokijin.

 

 

“Avanti, Sesshoumaru. Colpiscimi! Finisci quel che è rimasto in sospeso tra di noi!”

 

Sesshoumaru sferra un colpo dall’alto verso il basso, scagliando una saetta contro di lui. Naraku resta immobile, senza fare alcuno sforzo per difendersi. Il suo nuovo corpo viene tagliato in due. Non può certo essere ucciso per così poco. Si lascia trafiggere altre due volte, prima di levare una barriera per arrestare il gelido assalto di Sesshoumaru.

 

Resta in contemplazione dello youkai bianco. Nulla. Niente più desiderio, niente più bisogno. Il suo animo è una tazza vuota.

 

Ti prenderò, quando vorrò. Come vorrò. Se vorrò. Di certo non oggi. Oggi è il giorno per un’altra vittoria. L’unica che importi davvero.

 

Anche l’altro sta arrivando. Ne ode alla distanza i passi concitati in una corsa disperata. Lo sente nel modo più profondo in cui si sentono i nemici mortali.

Potrebbe restare qua, al sicuro, e ridere e farsi beffe delle sue grida, della sua rabbia, del suo dolore. Sì, potrebbe farlo. Ma capisce di non averne alcuna voglia.

 

Non ha più ragione per restare.

 

Leva la testa verso le stelle fredde.

 

E tutto sale e precipita verso la sua fatidica fine.

 

 

 

Dimena scompostamente le braccia; ansima, il petto dolente, la vista appannata. Più svelto! Deve sbrigarsi, sbrigarsi, sbrigarsi! Non sa neppure più da quanto tempo questo pensiero – sbrigarsi – lo ossessiona; ma mai le sue ossa e il suo cuore glielo avevano gridato con tanta foga!

 

Corri, corri, corri! Gli bruciano le gambe, oltrepassa rocce e rovi che sono solo macchie confuse – il bordo di un dirupo; deve raggiungere il bordo di un dirupo, ma perché?

 

Respira ad ampie boccate, e si rende conto che non vuole più sbrigarsi. Ci sono le due metà di un arco spezzato che lo aspettano alla fine della sua corsa, e quando lo avrà raggiunto non potrà più fingere di non sapere verso cosa sta correndo con tutte le sue forze.

 

Non riesce a rallentare, però. Ecco, intravede una sagoma, che sa essere quella del suo fratellastro. Ecco, sente la puzza dello shouki di Naraku. No, no, non vuole arrivare, non vuole vedere, non può sopportarlo ancora.

 

C’è solo una via di fuga!

 

Si sveglia.

 

Schiaccia la mano sul petto e ne ricava un po’ di conforto, come se davvero il peso che gli preme addosso ne fosse alleviato, e il suo cuore impazzito s’acquieta.

Silenzioso e agile, Inuyasha si allontana dai compagni addormentati. Loro sì, dormono bene. L’odore salubre del loro sonno (quello di lei in particolare) lo tranquillizza.


E’ lui che dorme peggio del solito; e non che di solito dorma bene! Da quella notte sulla cima dell’Hakurei. Inuyasha non ricorda i suoi sogni, né mai ha voluto farlo. Che cosa inutile, i sogni! Accadono cose strane, nel sonno. E’ un regno di pericoli dal quale non ha mai saputo bene come difendersi. Non li si può colpire, né evitare, né ferire. Ma loro sanno sempre come raggiungere e colpire e ferire te.

Rabbrividisce, pensando a quei cinquanta lunghi anni del suo sigillo. No, non si ricorda. Non vuole ricordare!

 

Cammina per qualche altro metro. Ma i sogni non gli hanno lasciato tregua, ultimamente. Crederla perduta. Lasciata sola a morire, di nuovo! Di nuovo! Bere al fiume gli era diventato insopportabile, perché era costretto a guardare la sua faccia riflessa nell’acqua. Avrebbe voluto assalire quella faccia, farla a pezzi con gli artigli.

Arrivava l’ora di dormire, e lui sperava almeno di poter fermare la spirale del tormento e dei pensieri neri che lo martellavano sino a esaurirlo. Ma nel sonno c’era lei, lei, lei, di continuo! Si svegliava, una, due, innumerevoli volte. E possibile che in tutto quel dolore ci fosse anche l’ombra del sollievo?

 

Sono libero? Libero, finalmente?

 

No! Mai! Ridatemela! Ridatemela!!

 

E tu, maledetto. Ti ammazzo, ti ammazzo, ti ammazzo!

 

Aveva creduto che i sogni sarebbero finiti, quell’altra notte. Quella in cui Kagome lo aveva rassicurato sul fatto che Naraku aveva fallito. Che Kikyou era salva. Che lei era riuscita a guarirla.

 

Come? Com’è possibile? E lei sta bene? Come sta? Cosa le è accaduto!? Cosa ti ha detto? E come parlava? Ti sembrava che stesse soffrendo!? Dimmi. Dimmelo! Dimmelo!!

 

A Kagome non poteva chiedere niente, perché l’unica risposta che otteneva erano i suoi sguardi colmi di biasimo.

 

Aveva però ricordato cosa fosse sul serio, il sollievo. Tanto più grande e forte, da spazzare via le ombre, da fargli girare la testa, da farlo barcollare come un ubriaco.

 

Perché il suo cuore lo prende in giro in questo modo? Perché i sogni continuano a perseguitarlo? Chiude gli occhi per la frustrazione, senza trovare risposte.

 

Attento, Inuyasha! Dobbiamo sempre stare attenti a quel che desideriamo. Sai, c’è il caso che, delle volte, i Kami decidano di esaudirci!

 

Inuyasha spalanca le palpebre; l’immagine di Kikyou che ride e danza sull’erba, sparisce dalla sua testa.

 

Due bambine circondate da un alone di luce lo stanno fissando, come se attendessero da un pezzo che prestasse loro attenzione.

 

Queste bambine? Sono?

 

L’olfatto di Inuyasha gli dà la risposta di cui ha bisogno, prima che parlino. Shikigami. Tratti alla vita dal potere di una miko. Con il suo odore. Il suo odore!

 

“La nostra padrona ti aspetta. Ha bisogno di parlarti. Seguici.”

 

No, si sbagliava un’altra volta, dunque!

 

Questo vuole dire, sollievo. Questo! Davanti a nessun nemico ha mai tremato, ma i suoi muscoli ora sono impazziti. Ha le ginocchia deboli. Sudore gli scorre addosso.

 

Lei lo sta cercando. Lo sta cercando! Apre la bocca, ma la richiude subito di scatto, perché capisce che un grido sta per scoppiargli nel petto.

Gridare tanto da sentire la gola lacerarsi! Lei mi vuole!? Mi sta chiamando!? Vuole che io vada da lei? Ha. Bisogno. Di me?

 

E’ la prima volta da quando è tornata nel mondo, che lei lo convoca in questo modo. Pianta le zanne nel labbro, leccando il sapore del suo sangue.

 

“Sbrigatevi. Portatemi dalla vostra padrona. Più svelte che potete.”

 

Le due bambine si voltano, spiccano il volo attorniate da quella luce pallida. Il corpo di Inuyasha si tende e scatta.

 

Fissa la luna piena mentre corre e balza di ramo in ramo, al di sopra delle fronde dei più alti tra gli alberi della foresta. Veloce. Più veloce! Perché non si sbrigano!? Credono forse che non sia in grado di tener dietro al loro volo!? In fretta!

 

E guai.

 

Guai a chi oserà intralciare la sua corsa, stanotte.

 

 

 

La luna è piena, stanotte.

 

E lei è molto debole, tanto da dover poggiare tutto il suo peso sul tronco della quercia, ma è ancora … non può dire di essere viva, ma è ancora qui.

 

Gli shinidamachu volano lenti attorno a lei. Afferrano di tanto in tanto una delle molte anime di donna che rischiarano la notte come lucciole e gliele porgono affinché la sua forza ne venga ripristinata. Il suo corpo fittizio non è mai stato tanto debole. E’ stupita che gli shinidamachu abbiano trovato un tale numero di anime. E di continuo si allontanano! Per poi tornare in pochi minuti, con altre tamashii tenute tra le zampe. La radura è quasi illuminata a giorno, ma di una luce fredda. Morta. E’ come da bambina immaginava dovesse essere un bosco stregato.

 

E io sono la strega.

 

Accogliere tante tamashii, in così poco tempo, la sta sfinendo. Il loro parlottio non si zittisce mai; lei non capisce bene cosa dicano. Più che parole, sono visioni quelle che si alternano nella sua mente, confondendola fino a stordirla.

Kikyou preme la mano sul ginocchio, e si sforza di discernere i frammenti dei suoi ricordi da quelli delle donne morte, di allontanare la nebbia dalla memoria ma, per l’ennesima volta, fallisce.

E’ come se si fosse svegliata da un sonno profondo, quando la sua reincarnazione l’ha guarita; ciò che è accaduto prima, dopo essere precipitata nello shouki, resta per gran parte un groviglio.

Tocca appena la spalla, trattenendo una smorfia. Guarita, ma non del tutto. Dolore. Il dolore delle ferite; si era scordata di come fosse.

Ricorda bene, invece, cosa si erano dette, lei e la sua reincarnazione.

 

Scuote la testa.

 

“Ah, ragazza del futuro. Non capisci. Ma come posso pretendere che tu capisca questi misteri? Neanche io avevo capito, così tante cose!”

 

Non ti ringrazierò, perché sei stata tu a scegliere di guarirmi. E’ stata una tua scelta, e perciò, io non ti ringrazierò.

 

Che faccia aveva fatto la ragazza venuta dal futuro! Sarebbe stata comica, se non avesse visto un pezzetto di se stessa, guardandola. Una se stessa del tutto diversa, eppure …

 

Tiene gli occhi fissi sulla luna piena.

 

“Vedi, Onigumo? Imparo. Sto imparando. Che sciocca sono stata! Eppure persino tu me l’avevi detto! Vi sono doni per i quali non si può, non si deve rendere grazie! Sono troppo amari da ricevere! Troppo dolorosi! Capisco. Ma com’è dura questa lezione! Non so per quanto ancora potrò sopportarla.”

 

Si copre la faccia con le mani, la mascella serrata.

 

“Mi dispiace tanto, Onigumo. Mi dispiace, ma non mi sentirò in colpa per questo! Tu sei un mostro! Proprio come l’abominio che è il figlio dei nostri desideri. E io vi distruggerò entrambi. Te lo giuro, Onigumo. Te lo giuro!”

 

E lui, invece? Starà arrivando in questo momento? Gli deve parlare. Deve spiegargli quale trappola Naraku sta tessendo per impadronirsi del frammento della Shikon no Tama nascosto nell’aldilà. Deve …

 

“Bugiarda. Ma non morirà mai? Maledetto, stupido orgoglio!”

 

Vuoi rivedere il suo viso.

 

Una cosa ovvia persino per la ragazza venuta dal futuro!

 

“Sono una debole. Una vigliacca. Un’ipocrita. Una bugiarda. Una …”

 

“Smettila immediatamente.”

 

Stacca le mani dalla faccia.

 

Lo sguardo dorato di lui è … arrabbiato. No, non proprio. Anche, ma soprattutto. E’ pieno di quella forza antica e inumana che gli ha visto solo poche, pochissime volte. Non ha alzato la voce, ma al suo ordine non si può disubbidire.

Con un balzo del suo intuito sovrannaturale, Kikyou capisce una cosa che le era sempre sfuggita. A nessuno lui ha mai svelato questa forza. Nessun altro ha mai visto i suoi occhi così, ha udito quell’inflessione di comando. Lui odia tutto questo, vorrebbe solo dimenticarsene. Ma per lei.

Per lei sola. Per lei tutto. Ora come allora, sempre.

 

“Kikyou.”

 

Mentre sussurra il suo nome e lei si ricompone, ombre offuscano i sui occhi, lasciandola con l’Inuyasha che lei conosce bene.

 

 

Inuyasha si avvicina di qualche passo.

 

Scruta ogni piano e linea del suo viso delicato e pallido, come la mano si stringe tremando alla gola. Gli sembra così fragile!, come se toccandola potesse romperla.

Però è sopravvissuta! Naraku non è riuscito a batterla! Un altro le chiederebbe come c’è riuscita, ma a lui non interessa. C’è solo una cosa che vuole fare e sapere.

 

Si inginocchia accanto a lei. Il suo volto non è gelido e duro come le altre volte; anche se certo, sarà per la fatica della lotta che ha dovuto ingaggiare per resistere allo shouki di Naraku.

 

Le posa le mani sulle spalle senza esitazioni, e non si preoccupa di sentirla sussultare.

 

“Come stai, Kikyou?”

 

Kikyou è costretta a chinare la testa prima di rispondere. Il modo in cui la guarda è troppo da sopportare.

 

“Bene. Sto bene.”

 

Nessuna pietà. Nessuna pietà per lei. C’è ben altro! C’è quel che lei vuole e non può più concedersi di volere. Sapeva che era sbagliato chiamarlo. Ma è così stanca che non riesce a controllarsi.

 

“Inuyasha, devi stare attento. Ti sarai accorto che Naraku ha dissolto la barriera che proteggeva il nido degli uccelli infernali. Non lo ha fatto per caso, ma perché gli youkai hanno raccolto abbastanza sangue umano da spalancare il varco verso l’aldilà. Vi sta aspettando. Vuole che voi lo troviate.”

 

“Perché?”

 

“Ha bisogno degli occhi di Kagome. Gli unici, ora che mi crede morta per sempre, capaci di vedere l’ultimo frammento della Shikon no Tama e trovarlo. Quando lo inseguirai, come so che farai, dovrai lasciarla in un posto sicuro. Non portarla con te! E’ troppo pericoloso, ed è quel che lui vuole.”

 

Kikyou sente la veste rossa di Inuyasha frusciare mentre lui sposta il suo peso da un ginocchio all’altro, turbato.

 

“Ma anche noi abbiamo bisogno che Kagome trovi l’ultimo frammento, Kikyou!”

 

Kikyou leva il capo, affrontando il viso di Inuyasha a poche spanne dal suo come se fosse il suo più irriducibile nemico.

 

“Verrò io al suo posto. Lo coglierò di sorpresa. Lui non si aspetta …”

 

La faccia di Inuyasha si pietrifica come se avesse appena udito un’irripetibile oscenità.

 

“No! Non ti lascerò correre un simile rischio! Finché Naraku ti crede morta sei al sicuro. E poi sei troppo debole; non pensare che non me ne sia accorto!”

 

Le pupille verticali di Inuyasha lanciano fiammate di autentico furore; chissà per quale strana ragione, vederlo così infuriato la fa quasi felice.

 

Perché non se ne accorga, sposta il volto di lato e indurisce la voce.

 

“Quindi, vorresti dire che non posso esserti di alcuna utilità, ormai?”

 

La voce di Inuyasha si incrina, non per il dolore ma per la rabbia che stenta a trattenere. Di nuovo Kikyou ode l’eco di quel potere sconfinato. Di quel terribile fardello. Quel fardello terribile che lei capisce bene e dal quale avrebbe voluto liberare entrambi, tanti anni prima.

 

“Ti ho detto di smetterla. Tu non hai idea di cosa ho provato quando ho creduto di averti persa! Non mi puoi chiedere di riportarti faccia a faccia con Naraku. Tu non hai il diritto di chiedermi una cosa simile, Kikyou! Mi hai capito!? Io non lo farò! Per quel che mi riguarda, tutte queste miglia non sono una distanza sufficiente tra te e lui. E non azzardarti a suggerirmi mai più una cosa del genere! Sono stato chiaro?”

 

Il suo tono è duro e tagliente.

 

Lei annuisce, ripetendosi che è troppo stanca.

 

Con un cenno della testa, chiama Asuka, una dei suoi Shikigami, la quale si avvicina tenendo tra le braccia la faretra.

Estrae una freccia e la porge a Inuyasha.

 

“Va bene. Tieni, allora. Portala a Kagome. Se usata al momento giusto, potrà esservi d’aiuto.”

 

L’espressione di Inuyasha riflette tutto il suo sbalordimento all’idea che lei abbia ceduto. Prende tra le dita la freccia e i lineamenti gli si accartocciano in un’involontaria smorfia di disgusto.

 

Kikyou fa un sorriso agro.

 

“Quella freccia è impregnata della terra in cui Onigumo morì e rinacque.” risponde all’inespressa domanda di lui.

 

“Le passioni di Onigumo sono potenti e terribili. E’ una delle pochissime cose di cui lui ha ancora paura.” Kikyou rabbrividisce, rannicchiandosi e stringendosi le ginocchia con le braccia. “Fidati, so di cosa parlo. Riuscirà a disperdere la sua barriera. E lo farà, poiché Onigumo odia lui più di quanto odi te e me.”

 

Appoggia il mento alle ginocchia unite, lo sguardo lontano, come parlando a se stessa.

 

“Io sola posso adoperare quella terra. Sì, solo da me Onigumo si lascia toccare.” Rabbrividisce di nuovo, e Inuyasha si accorge che è ripugnanza quel che la fa tremare.

“Non c’è più altro luogo nel quale Onigumo attenda, ormai.” Poi, inclina le testa, seguendo il filo dei suoi pensieri, un sorrisetto gelido sulla bocca. “No, mi sbaglio. Dev’esserci per forza un altro posto, per lo meno. Lui deve avere nascosto il kokoro da qualche parte. Non può averlo distrutto. Solo la Shikon no Tama può distruggerlo. Per questo la cerca così disperatamente. Povero, smarrito hanyou. Non è finita tra noi due, Naraku.”

 

Inuyasha la vede persa in quei misteri incomprensibili nei quali lei e Naraku si trovano così a loro agio e che a lui sono del tutto oscuri. Per di più, si accorge di come i suoi lineamenti si stiano irrigidendo in quell’espressione fredda e spietata che lo fa spasimare dallo strazio, mentre ricorda com’era splendida da viva, forte e dolce e fiera e limpida.

                                               

Inuyasha capisce che la morte è preferibile alla tortura di vederla di continuo riapparire e scomparire a questo modo. E’ orrendo quanto essere costretti a guardare la donna che si ama affogare, e non poter fare nulla per impedirlo.

 

Non sa che cosa si agita dentro di lui. Come può saperlo? Lui odia, con tutto se stesso, questi maledetti misteri. Perciò, farà l’unica cosa in cui è bravo. Una volta di più, le darà la caccia.

 

Posa per terra la freccia che lei gli ha dato, sfregandosi la mano sugli hakama, come per togliersi qualcosa di sozzo dalle dita. Poi si sporge, mentre lo sguardo di lei è ancora perso nel vuoto e, proprio come farebbe se stesse annegando, le passa il braccio attorno alle spalle e se la stringe al petto.

 

Subito la sente irrigidirsi. La zittisce prima che possa parlare.

 

“Stanotte il mio posto è qui. Non dire nulla. Non mi convincerai ad andarmene. Mi puoi ammazzare, ma non puoi mandarmi via.”

 

“Non essere stupido, Inuyasha! Potrei davvero ucciderti!” Ma la sua voce non è ferma. “Non puoi fidarti di me. Non lasciarti ingannare dal mio aspetto! Io …”

 

“Non dirlo!”

 

Kikyou sente la voce mancare nell’impatto violento del suo comando, ma non si lascia zittire.

 

“Io non sono più Kikyou! Non sono più niente, io! Niente! Niente!!”

 

L’ha detto, finalmente! Confessarlo a voce alta, dopo tutto questo tempo, la lascia debole e tremante. Niente! Cos’è rimasto di lei!? Niente! Ecco, l’ha ammesso! Dannazione! Forse lo ucciderebbe sul momento, se potesse, ma è così debole da non riuscire a muoversi.

 

Inuyasha scrolla la testa. “Stavolta sei tu che ti sbagli, Kikyou. Comunque a me non importa nulla. Io resto.”

 

Si accomoda a terra, senza lasciarla andare, e poi appoggia entrambe le loro schiene al tronco della quercia.

Kikyou gli resiste per poco; poi posa la testa sulla sua spalla, tenendo le palpebre ben strette.

 

Passano minuti e diventano ore. Gli shinidamachu le offrono una tamashii dopo l’altra. Inuyasha assiste impotente ai suoi sussulti e alle sue smorfie; non può far altro che tenersela stretta, mentre lei lotta una lotta che lui non capisce.

 

Il furore di vederla così lo soverchia; dovrebbe esserci lui, al suo posto! Ha fallito, l’ha tradita, e non gli è neppure consentito di pagare il prezzo del proprio fallimento!

 

Per averla toccata. Per averla spezzata. Per averla sporcata.

Io ti farò strisciare. Voglio i miei artigli a scavarti il petto, a cercarti il cuore. Anche tu ne hai uno, fidati. Non importa quanto bene tu possa nasconderlo. Fracasserò le tue ossa, verserò il tuo sangue, e vivrai abbastanza a lungo, sì abbastanza da guardarmi mentre ti faccio in pezzi.

Tu l’hai toccata …

(sacrilegio un sacrilegio)

… e io te ne farò pentire…

 

Inuyasha sente dentro di sé levarsi l’urlo del sangue di suo padre e della sua discendenza. Per una volta, non si sforza di zittirlo, per quanto male gli faccia. Sarebbe un insulto alla sofferenza di lei.

 

E d’improvviso un odore nuovo gli giunge da Kikyou. Annusa con più attenzione. Non capisce. Di che odore si tratta? Così intenso da coprire quello di terra e ossa che la pervade. Un odore quale non ne ha mai sentito di simili. Anzi, tanti odori. Che lottano e si scontrano e si intrecciano e …

 

Tamashii.

 

Che succede?

 

Ma anche da se stesso! Sì, un odore nuovo anche su di sé. Cosa vuol dire?

 

Che gli importa!? Pur di raggiungerla. A qualsiasi prezzo.

 

Resisti. Mia. Mia …

 

Mia amata.

 

Gli odori sconosciuti su di lei e su di sé si avvincono. Inuyasha caccia gli artigli nel palmo della mano libera.

 

Male! Che male terribile! Questo!? Questo lei deve affrontare ogni giorno!?! La vista annebbiata, Inuyasha scuote la testa.

 

Resisti. Kikyou. Mia amata!

 

Non sa quanto tempo restano immobili. Infine, lei si stacca da lui. Non può impedirglielo; è troppo frastornato.

 

Kikyou si scosta di poco. Le tamashii non l’avevano mai assaltata con la violenza che le hanno riservato questa notte.

In qualche modo è passata, però. Qualcosa di lei è ancora intatto. Ora ha un gran bisogno di dormire. La testa le ciondola per la fatica.

 

Ma gli incubi! Da quando Naraku l’ha sconfitta sull’Hakurei, le sue notti sono popolate da incubi.

Il suo sonno, per quanto fosse accompagnato da sogni dolorosi, era comunque una oasi nella quale abbandonare per un po’ il tormento che l’affligge. Anche questo ha perduto. Come si addormenta, vede e rivede la smorfia di odio e vittoria del suo assassino, i tentacoli affilati che la trafiggono, la caduta nel veleno soffocante.

 

Ma la stanchezza è più forte della paura. Il sonno si fa avanti a reclamarla. Non può resistergli.

“Inuyasha. Vorresti … vorresti vegliare il mio sonno, stanotte?” Un bisbiglio la voce.

 

Non risponde; ma una mano la carezza i capelli guidandola a poggiare la testa sulla sua gamba.

 

“Inuyasha. Quando sentirai nel mio odore che sto per svegliarmi …” La sua coscienza si sta già dissolvendo, ma deve dirglielo. “Quando te ne accorgerai, vattene. Torna dai tuoi amici. Non lasciare che ti veda, domani.”

 

Si aspetta qualcuna delle sue solite obiezioni, e lei non ha più voce; il torpore l’ha già paralizzata.

 

“Come vuoi tu, Kikyou.” Gli sente dire soltanto.

 

 

Il sogno è diverso.

Non il monte, ma la caverna. Lei sta di nuovo camminando verso la scura entrata della cava dove Onigumo la attende.

Sa che sta sognando, ma al tempo stesso è come se non lo sapesse.

Sa che dovrebbe scappare; è talmente terrorizzata che scoppierebbe a piangere, ma sa di non poterlo fare.

Non può piangere

(non più)

e non ricorda bene il perché.

Ha qualcosa a che fare col freddo che, assieme alla paura, la fa rabbrividire? Col dolore che la scuote a ogni passo? Con l’angoscia di sentirsi mancare il fiato, mentre cerca invano di strappare una boccata d’aria alla sua gola chiusa?

 

Cosa le succede? Ma è un sogno, non deve avere senso! Vero? Sta sognando. Vero? O no? Perché? Perché questa paura? Perché è sicura che c’è una cosa enorme da ricordare, che potrebbe spiegare il freddo, il dolore, l’angoscia, la perdita …

 

No! Non ricorda, e non vuole ricordare!

 

Che cosa strana, i sogni!

 

Non li si può colpire, né evitare, né ferire. Ma loro sanno sempre come raggiungere e colpire e ferire te.

 

Lo sguardo di Kikyou sfreccia a destra e sinistra. Le è parso di aver udito la voce di Inuyasha. Ma è costretta a proseguire il suo cammino, senza poter distogliere gli occhi dalla caverna.

 

Dista solo una ventina di metri. Dall’imboccatura emerge una sagoma.

 

E’ una creatura che un tempo poteva essere umana. Tutta avvolta in bende sporche di pus e sangue, sfatte e disordinate, che si possa vedere la nera carne sottostante. Piena di piaghe e tagli che si aprono e chiudono come bocche dalle quali cola una bava rossastra di cui le fasciature sono zuppe. Un braccio piegato in angoli impossibili, la mano che ciondola come il gambo spezzato di fiore mostruoso; l’altro braccio più simile a un tentacolo guizzante, le gambe storte ma robuste; una più corta dell’altra, il ventre prominente, simile a quello di un cadavere lasciato a marcire e gonfio dei gas della putrefazione.

La testa cieca la cerca. Il tentacolo punta verso di lei. Stenta a riconoscerne la voce quando parla, perché di continuo muta. E’ Onigumo nelle sue voglie? Naraku nella sua fredda durezza? Il Kami del meidou, Okuninushi, che le sibila all’orecchio quello che lei non vuole ricordare?

 

“Kikyou. Eccoti. Mia luna. Mia carceriera.”

“Quanto sei bella, amore! Bella come la morte! Lasciami toccare la tua pelle. Non aver paura, non tremerai alle mie carezze. Nessuna carezza può farti più tremare! Non te lo ricordi?”

 

“No.” Geme lei. Non sa se sta rispondendo alla domanda o se sta negando la creatura che ha di fronte.

 

La cosa ride. La risata sembra un mucchio di sassi che scricchiolano l’uno contro l’altro.

“Maledetta donna. Lasciami sentire il tuo respiro schifoso nella bocca. Il tuo fiato di ghiaccio. Nessuno può più sopportarlo, solo io. Ci sono solo io per te, mia carceriera. Non lo sai il perché?”

 

“No. Mi dispiace, no, io …” La creatura si sta avvicinando, i pochi denti a sbattere gli uni contro gli altri, piena di frenetica allegria. Kikyou non capisce se è più spaventata nel vederlo avvicinare o nel sentirlo parlare.

 

“Mia regina. Sei magnifica. Sì, lo sapevo, appena ti ho vista l’ho saputo; sei forte, tanto da resistere. Abbastanza da diventare perfetta. Perfetta per me. Quello che ho sempre voluto. Quel che mi è sempre mancato.”

 

Kikyou scuote la testa, senza più voce.

 

“Non osare!” L’urlo della creatura si leva sempre più. “Tu non hai idea! Quel che ho fatto per te! Quello che ho dovuto sopportare! Stupida donna! Donna dannata! Lo sai!? Cosa significa!? Vedersi tradire da tutto ciò che si è!? Prigionieri di un corpo che è una bara!? Oh sì! Sì! Sì! Adesso lo sai! Non osare dimenticarlo! Neppure per un istante! Ciò che lui mi promise è diventato realtà. I miei desideri; lui li ha realizzati, oltre ogni mia più sfrenata immaginazione! Né tu né lui mi toglierete quel che mi sono conquistato! Mai. Mai!! Mia regina. Mia carceriera!”

 

Il mostro si scaglia verso di lei. Kikyou arretra, perde l’equilibrio e cade in terra. Il suo volto non ha altri connotati che la bocca. Le bende allentate che in parte glielo nascondono sono impregnate del nero pus che gronda dalle verruche che costellano i suoi lineamenti come tanti piccoli vulcani in eruzione.

 

Vicino. Di più! Tre metri. Due. Uno.

 

Un ruggito.

 

Il mostro si immobilizza, e fa appena in tempo a sollevare la testa che un corpo grande e peloso lo colpisce al petto con la forza di un ariete, sbattendolo in terra.

 

La creatura rotola, ribalzando a casaccio come una bambola di pezza, e Kikyou si trova davanti al nuovo venuto.

 

Il pelo d’argento del cane è immacolato, i muscoli potenti guizzano sotto la pelliccia. E’ grosso come un pony, un ringhio basso gli esce dalla bocca piena di zanne, le zampe artigliate bucano il terreno. Il testone allungato si gira verso di lei.

Ci sono due strisce azzurre, una per parte, lungo il muso, e gli occhi sono rossi come il magma e pieni di rabbia. Kikyou porta le mani alla bocca, singhiozzando mentre riconosce la forma di quelle orecchie morbide.

Il cane punta il naso verso di lei e annusa. Si avvicina e lei si accorge che, man mano che si riempie le narici col suo odore, il rosso acceso degli occhi si appanna, scolorisce, sostituito da una luce dorata.

Kikyou allunga timida la mano, poggiandola sul naso nero e vibrante, poi affonda le dita nella pelliccia del muso e vi appoggia la guancia. Com’è vellutata! Che strano! Che bella sensazione che le dà! Godere della morbidezza di questo pelo candido – come se fosse un privilegio perduto per sempre e misteriosamente ritrovato. Il cane si fa silenzioso, e le si sfrega contro con un basso uggiolìo.

Non ha più paura. Sparita! Come se non fosse mai esistita. Adesso non vorrebbe svegliarsi più. Sorride, circondando con le braccia il collo enorme del segugio bianco e lasciandosi cullare. E’ tornata una bimba ancora una volta, e stavolta è … libera.

 

Che cosa strana, i sogni!

 

Il cane si stacca bruscamente da lei, ruotando la testa a sinistra. Kikyou guarda a sua volta, rabbrividendo.

 

Il mostro caracolla verso di loro – non c’è altro modo per descrivere il suo passo zoppicante eppure rapidissimo.

 

“Arrivo! Mia carceriera! Eccomi!!” E ride.

 

Il ringhio riprende vita nel petto del cane, il corpo muscoloso si irrigidisce.

 

Il mostro si arresta, azzittendosi, e per un secondo a Kikyou pare sorpreso. Lei ne capisce subito la ragione.

 

I laghi di furia dorata che sono gli occhi del cane, stanno gridando una parola sola.

 

Usurpatore.

 

Poi il cane balza di nuovo, ma stavolta il mostro è pronto a riceverlo. Cadono assieme in un groviglio di arti e zampe.

 

Il cane spalanca le fauci e le affonda nel petto del mostro. Il mostro attorciglia il tentacolo attorno al collo del cane per soffocarlo. Rotolano uno sull’altro, percuotendosi senza pausa.

 

E nella risata del mostro c’è l’esultante pazzia di una brama inestinguibile, che non si lascia né domare né smorzare né sottomettere; e nel latrare rabbioso e indignato del segugio, la forza infinita di una creatura eterna che non conosce il significato del tempo.

 

Il mostro solleva a forza la testa del cane, ridendo nonostante la gola squarciata. Il pelo d’argento è inzaccherato di icore nero.

 

“Dovrai fare meglio di così, hanyou! Sì, molto meglio di così per fermarmi! Già!”

 

Ma il ruggito del cane bianco è più forte persino della risata. Allungando la testa, il segugio strappa via con un morso il tentacolo che sta cercando invano di strozzarlo.

 

La testa cieca si volta verso di lei, mentre il cane fa a brandelli il suo nemico.

 

“Mia carceriera! La prossima volta! La prossima volta non ci sarà nessuno a proteggerti! Non dimenticartelo! Sei, e resti, MIA!”

 

Le immagini si fanno liquide e sbiadite. Kikyou prova la sensazione vertiginosa di cascare nel buio più profondo; un buio che non fa paura, però, un oblio riposante al quale è bello abbandonarsi. E’ come se un palmo indurito le si fosse posato con tenerezza sulla guancia.

 

Chiude gli occhi.

 

Sorride.

 

E dorme di un sonno senza sogni.

 

 

Quando si sveglia, lui se ne è già andato. Le ha ubbidito.

L’erba è schiacciata, là dove lui è rimasto seduto durante la notte. Vi fa scorrere sopra il palmo, ma non può avvertire alcun calore. Trema tutta, si contorce, inarca la schiena, nel tentativo inutile di sfuggire alla disperazione.

Si afferra i capelli nei pugni, inizia a strattonarli, e la frustrazione non fa altro che aumentare. Nessun dolore. Nessun dolore!

“Inuyasha! Oh, Inuyasha, che io sia maledetta! Se una volta. Se una volta soltanto, fossi stata capace di dirtelo! Di dirti che, sì!, anche io avevo paura! Che mi sentivo smarrita; se ti avessi detto, una volta soltanto, una sola dannazione!, di vegliare il mio sonno, di … ho dovuto attraversare tutti i miei inferni per capirlo! E per cosa!? Eh!? Ditemelo! E’ tardi! Tardi per tutto! Per tutto! Ho buttato tutto quello che avrei potuto avere, per sempre! Che io sia maledetta! Me lo merito! Maledetta! Maledetta!!”

 

Kikyou si piega su se stessa, in preda al tormento, e – di sicuro è la sua immaginazione – ode in lontananza la risata roca di Onigumo. Apre la bocca per scagliare altre maledizioni.

 

Smettila immediatamente.

 

Un singulto di sorpresa la zittisce. Solleva la testa di qualche pollice sperando contro ogni speranza che lui sia tornato sui suoi passi, che le parli, che la accarezzi con la mano di cui lei può sentire solo il peso, ma non il tocco, che la baci sopportando il puzzo della morte che la impregna, che …

 

Ti ho detto di smetterla.

 

“Cosa? Chi è!?” Saetta lo sguardo all’intorno.

La voce non viene da fuori. E’ nella sua testa.

 

Questo è solo un modo come un altro per credere alle sue menzogne. Perciò, smettila.

 

“Io ti ho già sentita. Sulla cima dell’Hakurei! Sì, eri tu!”

 

E non era nemmeno la prima volta, quella, giovane miko.

 

Kikyou ha la sensazione di cogliere delle immagini guizzanti, macchie, come quando un tempo fissava troppo a lungo il sole.

 

Abbassa le palpebre.

 

Vede …

 

Vede una vecchia sdraiata su un giaciglio, in una stanza povera e poco illuminata. Da una finestrella si scorgono appena le stelle. Attorno a lei, in ginocchio, donne giovani e meno giovani. Una ragazza le tiene la mano sottile, mentre l’alzarsi e l’abbassarsi del suo petto si fa via via più lento.

 

Tu …

 

Vede una donna inginocchiata a un tavolino basso. Un vestito ricco e sfarzoso, la complicata acconciatura retta da spilloni d’argento, il volto coperto da un trucco pesante, le labbra rosse, lo sguardo rivolto verso il basso, versa con eleganza del the all’interno di delicate tazzine di porcellana.

Posa la teiera su un panno. Ruota un bastoncino di bambù nella prima tazzina e la fa scivolare sospingendola con entrambe le mani verso un uomo robusto e più basso di lei. L’uomo porta la tazza alle labbra sporgenti, rimirando la donna, soddisfatto e cupido.

 

Tu sei …

 

Vede una ragazza. E’ all’aperto, nel cortile brullo antistante un palazzo non molto grande. Indossa un’armatura leggera e impugna con fermezza un bokken, i capelli castani sciolti sulle spalle, gli occhi nocciola …

come i miei!

… scintillanti, le guance brune accese per lo sforzo, mentre ribatte colpo su colpo gli attacchi e i fendenti di un giovane uomo …

(fratello)

… vestito e armato come lei.

L’uomo sposta il peso in avanti e mena un fendente verso il basso. La donna leva il bokken sopra la testa, reggendolo orizzontalmente davanti a sé, con entrambe le mani, per l’elsa e lungo l’asta, parando il colpo. Butta il peso in avanti, lasciando che la sua arma scivoli per tutta la lunghezza del bokken dell’avversario, colpendolo con violenza alle mani, strappandogli un grido e disarmandolo.

Un unico movimento aggraziato, e ruota su se stessa, scivolando dietro all’uomo sbilanciato, e con un colpo deciso dietro le ginocchia lo sbatte in terra facendogli fare una mezza capriola.

E poi ride, eccitata e felice.

 

Kikyou riapre gli occhi, allibita.

 

“Tsuyako! Tsuyako? Ma come …? Come posso riconoscerti?”

 

Davvero? Sei una miko e non lo sai?

 

“Non …”

 

Kikyou chiude di nuovo le palpebre. L’immagine della geisha che un tempo era stata una samurai riappare.

Una giovane donna dalla carnagione scura che indossa un’armatura e impugna in una mano, con fare incurante, una katana.

 

“Cosa significa? Cosa succede? E perché? Perché non avverto rimpianto dentro di te?”

 

Gli occhi nocciola di Tsuyako brillano, il suo sorriso scintilla come la lama della sua spada.

 

Non c’è mai stato rimpianto in me, giovane miko.

 

“Ma, allora … ?”

 

Quando la morte venne a portarmi via, e la mia tamashii abbandonò le mie amiche e sorelle, gheishe come me, udii il tuo dolore portato dal vento, e decisi di farmi catturare da uno dei tuoi shinidamachu per venire da te. Già allora sapevo che avrei avuto un’altra occasione per combattere. Sappilo. Io non ho mai smesso di essere una samurai.

 

Kikyou china la testa.

 

“Io. No, stavolta non capisco.”

 

Nella sua mente, Kikyou vede l’anima della samurai porgerle la mano libera.

 

Non capisci? Non importa. Colui che ami lo sa bene, molto meglio di te. Certe volte, capire non è tanto importante. Certe volte capire, è proprio inutile!

Ma la notte appena passata tu ci hai fatto un dono grande; anzi, da molto tempo lo stai facendo, senza neppure accorgertene.

 

La bocca di Kikyou si muove senza emettere suono. Come sagome nella nebbia, delle figure appaiono alle spalle della samurai dal sorriso duro e la pelle scura.

 

E’ tempo. E’ tempo che sia tu a lasciarci combattere per te, giovane miko.

 

“No. Non … non posso … permetterlo.”

 

Sì, invece. Tu lo sai. E’ una questione d’onore, giovane miko.

 

“Ma che cosa …?”

 

Alzati. Prima che il sole sorga. Alzati. Forza! Alzati, Kikyou!

 

Kikyou sorride suo malgrado.

 

“E’ la prima volta. E’ la prima volta che una di voi mi chiama per nome.”

 

E un suono giunge alle sue orecchie.

 

 

E’ come.

Come quando si scioglie la neve.

 

Non è uno sgocciolio, come possono credere coloro che non conoscono la neve, oh no.

 

E’ come se da dieci, cento, mille direzioni diverse, uno scroscio, un ruscellare gentile e deciso arrivasse alle orecchie, come se dieci, cento, mille rivoli distinti si protendessero per dare vita a un unico suono che cattura in una promessa di musica.

 

Anche quest anno. La neve si scioglie. L’inverno finisce.

 

Kikyou ricorda. Quel rumore speciale, di una sola nota fatta di infinite note assieme, uguali, ma ciascuna differente, la raggiungeva quando era ancora sdraiata sul futon, sotto le coperte. Prima ancora che i suoi occhi si aprissero, prima ancora che fosse del tutto sveglia, veniva rapita da quell’annuncio.

E, per quante preoccupazioni avesse nella testa, per quanto potesse essere pesante la giornata che l’attendeva, ogni anno quel suono la faceva sorridere contenta e le faceva battere un po’ più forte il cuore.

 

Come la musica del Fato, ma più dolce, più discreta, e per nulla spaventosa, né temibile nelle sue ultraterrene, ineludibili pretese.

 

E l’anno, quell’unico anno in cui c’era stato Inuyasha, quando era arrivato il primo giorno nel quale si scioglie la neve, lei si era svegliata da una notte nella quale, oh no, Onigumo non l’aveva tormentata nei suoi orribili incubi.

 

Quest anno diverso da tutti gli altri. Quest anno c’è anche lui, con me. E mi starà accanto, ad ascoltare la neve sciogliersi. Quest anno. Quest anno non sarò sola!

 

E i brividi che l’avevano percorsa pensandoci, e gli angoli degli occhi che pizzicavano; ma lei, stupida, si era morsa il labbro e aveva ricacciato le lacrime. Perché lei era quella forte, lei era quella su cui gli altri dovevano sempre poter contare; mentre lei, no, lei non doveva aver bisogno di nessuno, mai, lei doveva essere quella capace di stare sempre in piedi senza aiuto; e allora, indietro queste lacrime inutili.

 

Però che bello! Si scioglie la neve …

 

 

Una fitta al ventre la scuote, caccia un lamento, mentre le voci delle donne morte si levano dentro di lei.

 

Resisti! Resisti e alzati! Svelta!

 

Un’altra fitta, più dolorosa della precedente. Kikyou stringe i denti, le gambe tremanti, e si afferra alla cieca alla quercia alle sue spalle.

 

Le sagome confuse dietro a Tsuyako prendono a delinearsi.

 

Contadine e serve dalle mani callose, viaggiatrici coi vestiti impolverati, mogli, samurai, figlie di daymio, miko come lei, provenienti da ogni tempo; giovani, vecchie dalla schiena piegata, deboli e forti, e di più, e ancora!

 

“Cosa volete? Come siete arrivate fin qui?”

 

Ti aspettavamo da molto; in questo luogo siamo giaciute in attesa di te.

 

“Io sono … ”

 

Ricordo; quanto odiavo la sguattera che mi portava da bere, mentre il vaiolo mi consumava. Sarei stata felice, se si fosse ammalata anche lei …

 

“ … la dimora …?”

 

Sì, dovetti abbandonare l’uomo che amavo, promessa a un altro …

 

“Io …”

 

Lo so, i miei figli sono morti per niente, sulla punta delle lance, rifiutando la resa per difendere un onore senza importanza.

 

“Io sono la dimora dei morti.”

 

…ma …

 

…quando morii lei pianse per me! Quella ragazza di cui quasi ignoravo il nome …

 

Kikyou punta i talloni a terra, artigliando la quercia per sollevarsi sfidando il dolore.

 

… una sera ci dicemmo addio; e nel mio grembo crebbe un figlio col suo volto …

 

Poggia la guancia sulla corteccia ruvida, gemendo.

 

... ma quando fummo una cosa sola, una sola cosa insieme …

 

Sbarra gli occhi; alle voci si aggiungono altre voci chiare; nulla più che sussurri. Sussurri che neppure la potenza di un uragano saprebbe vincere.

 

Questo. Nessuno!

 

“No, non è possibile, non ha senso, non ha ragione di succedere.”

 

Nessuno potrà togliercelo!

 

“Fu così che andò!?”

 

Nessuno, mai!

 

“Onigumo! Fu questo che accadde!?”

 

Una voce pacata al suo orecchio destro.

 

Fu proprio questo.

 

“Oh, Naraku! Ora ti vedo! Ora ho capito!!”

 

Una voce ridente al suo orecchio sinistro.

 

Solo, completamente diverso.

 

“Naraku! Che stolti! Due sciocchi, non siamo altro!”

 

Le donne la stanno fissando serie e mute, unite in schiera.

 

“Che terribile errore! Che terribile errore hai commesso, Naraku!”

 

Ansima, affannata, una mano aggrappata a un ramo basso, l’altra schiacciata al grembo pieno di dolore.

 

Ghiaccio. Rotto.

 

“E te ne accorgerai presto, mio assassino …”

 

Stai pronta …

 

… prima che sorga il sole …

 

Kikyou.

 

Sii coraggiosa.

 

… Kikyou …

 

E’ da quest’alba.

 

Da quest’alba, ci saremo noi a recitare per te, il suo Kotodama.

 

Kikyou. Kikyou. Kikyou.

 

Neve. Sciolta.

 

Le catene di fiamma che straziano la sua anima si tendono, la Furia si leva, fiacca, pulsante, per restarle attaccata, nello sforzo di spezzare i sigilli, di respingere questo incomprensibile, insensato fenomeno.

 

Il dolore impallidisce pian piano e recede, e a esso si sovrappone un’estasi dolce e violenta.

 

“Sarebbe stato così?”

 

La notte in cui Inuyasha avrebbe ucciso una volta per sempre la vergine custode della Shikon no Tama? Lasciando al suo posto semplicemente … me?

 

“Questo dolore insignificante? Questa gioia immensa?”

 

Kikyou si dà una spinta, barcollando un paio di passi e restando in piedi senza alcun sostegno, come da sempre è abituata a fare.

 

I lacci di fuoco che incatenano la sua tamashii si spezzano, uno dopo l’altro; per quanto si sforzi, la Furia perde la presa, perde la sua crudele coesione.

 

“La mia anima! Ho capito, Onigumo! Ora so come fu!”

 

Posa lo sguardo sull’alba.

 

Chi sei? Chi sei tu?

 

“Io …”

 

La voce della samurai.

 

Puoi dirlo, Kikyou.

 

Avanti. Dillo!

 

“Io sono Kikyou! Sono Kikyou! Mi senti!? Mi senti, Kami!? Okuninushi! Ascoltami! Dov’è la tua risata adesso!? Io sono Kikyou! Io sono Kikyou!!”

 

Leva i pugni all’altezza del volto, e i suoi occhi sfolgorano pieni di sfida.

 

La risata che le sembra ora quella di Naraku, ora quella di Onigumo, ora quella del Kami; la risata che ha sentito ogni attimo, da quando è ritornata nel mondo, si spezza colma di timore e sconcerto, per poi ridursi; e si riduce fino a svanire.

 

Si posa il palmo sulla guancia. La sua pelle è morta, come prima. Non avverte il suo stesso tocco.

 

Non è cambiato niente.

E’ cambiato tutto.

 

Scoppia a ridere.

La risata di un morto riempie la bocca del sapore del fiele.

 

Ma questa non è la risata di un morto.

 

“Sono tornata! Sono libera!”

 

L’immagine delle donne che hanno trovato rifugio dentro di lei; una a una, con un gesto della testa, si congedano, ritirandosi alla sua vista, e lei può sentirle prendere posto, e sussurrare incessanti il Kotodama che è diventato il suo nome.

 

“Sono tornata, Naraku! Combatteremo ad armi pari! Tu non hai mai conosciuta nel mio vero potere! Non c’è più solo la custode della Shikon no Tama. C’è Kikyou! C’è Kikyou che ti sfida! Sappilo, e trema!”

“Naraku. E come farai? Come farai, ora che ti sei strappato dal petto la più potente e terribile tra tutte le tue armi?”

“E ce ne sono altre. Armi che potrò svelare dalle tenebre dentro le quali attendono, e portarle alla luce per usartele contro. Che terribile errore hai commesso, Naraku!”

 

Le donne sono scomparse, tutte a eccezione della samurai.

 

Kikyou fruga nella manica alla ricerca del nastro per acconciarsi i capelli, sorridendo.

 

“Ti ricordi quando ci siamo incontrate la prima volta, Tsuyako?”

 

Le mani scivolano sulla nuca, catturando le sue chiome.

 

Dunque hai deciso, Kikyou.

 

Stringe il nodo con maestria.

 

Nessuno dei due hanyou dovrà saperlo.

 

“Lo so. Inuyasha potrebbe morirne. Naraku troverebbe il modo di approfittarne. Non lo saprà nessuno.”

 

Perciò, ti accontenti di questo.

 

Kikyou si scosta alcune ciocche dalla fronte, e il suo sorriso non esita.

 

“Il mio è tempo rubato, nient’altro. Ho lottato per avere questa notte. Con le unghie e con i denti! Onigumo non sarebbe riuscito a fare meglio. L’ho strappata ai Kami, al mio assassino, al Fato stesso. E’ mia. No, è nostra. E’ venuta e andata e nessuno potrà togliercela, mai, in nessun modo.”

 

Tsuyako annuisce.

 

“La mia prima, e unica, notte di nozze.” Ride di nuovo, senza tristezza. “Non è stata come l’avevo sognata, ma è stata bella! Non avrei saputo desiderare di meglio. Non ce ne saranno altre.”

 

Esita, e l’occhio della sua preveggenza si spalanca dentro di lei con chiarezza perfetta.

 

“Sì, la prossima volta che giacerò tra le sue braccia, sarà anche l’ultima per sempre. Va bene. Ho già avuto … tantissimo.”

 

“E non ti ho ancora ringraziata per avermi salvata, Tsuyako!”

 

L’espressione della samurai si fa spazientita.

 

Non ti ho salvata. Ti ho solo ricordato chi è lui e chi sei tu, visto che lo stavi dimenticando. Tu sei la miko Kikyou, sei stata forgiata per sopportare tutto, proprio come la mia katana, e sei potente! Molto più di lui, ancora. Solo con l’inganno avrebbe potuto sconfiggerti, proprio come fece cinquanta anni fa. E tu hai quasi creduto per la seconda volta alle sue bugie. Strano che ci sia chi ti definisce saggia!

 

Kikyou scuote la testa, mentre Tsuyako svanisce per unirsi alle altre anime di donna.

 

“Non mi riferivo a quello, vecchia samurai.”

 

Sta ritta in fronte alla sua prima alba; alla luce, dorata come le pupille di lui.

 

“Mio guardiano.” Mormora. “Grazie.”

 

“Hakushin.”

 

Poiché prima di imparare a servire, è più importante imparare a essere serviti.

 

“Grazie.”

 

“Suikotsu. Kansuke Rasetsu.”

 

Intreccia le dita al petto.

 

“Grazie!”

 

“Mio assassino.”

 

… ho udito che esiste un monte dove anche le anime dei peccatori più incalliti possono essere redente …

 

“Grazie.”

 

Un passo.

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Capitolo 25
*** XXIV ***


Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor

Ah, anche se non credo che interessi a qualcuno, ho deciso di pubblicare uno strano intermezzo, che occuperà un certo numero di capitoli e potrebbe essere anche letto come storia a se stante; e dovrebbe aiutarmi a tirare certi fili e chiarire determinati punti futuri ... se mai riuscirò ad arrivarci, cosa di cui dubito, a dire il vero    :P

Per la cronaca, in definitiva ho scritto una specie di prequel! Visto che van tanto di moda, ultimamente!!

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Glossario:

 

hinin: la casta delle non persone;

heimin: casta delle “persone comuni”. Un samurai ha il diritto di uccidere un heimin che si comporta rudemente, come un heimin ha il diritto di uccidere un hinin che si comporti allo stesso modo;

giri: dovere; ma il dovere nostrano sta al giri giapponese come arco e frecce stanno a un bazooka ;)

futakuchi-onna: un tipo di youkai (vedrete);

kashin: lo spirito nato da un fiore;

weize: vocabolo cinese; è una delle due più pregevoli qualità di peonia esistenti e significa “regina dei fiori”.

 

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“La più potente e terribile tra tutte le mie armi.”

 

Naraku annuisce al fantasma.

 

“Come hai ragione, Kikyou. Sai, mia nemesi, credo che sia per questo che mi manchi. Mi hai sempre insegnato più di chiunque altro. Sia nella sconfitta che nella vittoria, mi hai permesso di conoscermi in un modo che altrimenti non avrei saputo. Guidata dalla tua sete di vendetta, ogni tuo sforzo di battermi mi hai reso più forte, costringendomi a imparare quel che sono e quel che posso essere.”

 

Kikyou gli risponde con una beffarda riverenza.

 

“Mi fai un onore che non merito, Naraku. Entrambi in lotta alla ricerca di un equilibrio impossibile nella nostra natura storta, ci siamo scambiati lezioni preziose.”

“Ma dimmi, come capisti quel che ti stava accadendo?”

 

“Fu soprattutto grazie alla mia secondogenita. E tu, Kikyou? Poiché anche tu ti ritrovasti indifesa, per una guarigione divenuta sventura.”

 

“Nessuna guarigione può essere sventura, Naraku: ma questa è una di quelle cose che non ti è dato di comprendere.”

“A ogni modo, fu il mio sensei. Fu lui a dirmi, decenni fa, che infiniti sono gli equilibri possibili e tante le strade per smarrirli e per ripristinarli. Tu l’hai capito da solo, vedo, Naraku, e di questo puoi farti vanto.”

 

Tocca a Naraku piegarsi in un piccolo inchino.

 

“Vorrei prendermene l’intero merito, ma purtroppo non posso. Perché in una cosa ti sei sempre ingannata, Kikyou.”

 

“E in cosa mai, Naraku?”

 

“Una cosa che non potevi sapere. Giacché, non solo Inuyasha.”

“Non solo Inuyasha, ma anche Onigumo, una volta ti vide danzare …”

 

 

 

 

Ripiega con cura in quattro parti la lettera in carta di riso che ha appena finito di leggere, il volto impassibile e lo sguardo fisso nel vuoto.

 

La luce del mattino rischiara la spoglia celletta che, da quando aveva sei anni, è il luogo dove riposa e si ritira per scrivere, cucire o leggere. Guarda senza vederli i rami dei limoni che fanno capolino dalle finestrelle poste alla sua destra. Giallo del sole e giallo dei frutti, mescolato al verde delle foglie.

 

E’ inginocchiata, la sua postura elegante non si è scomposta, gli alluci sono restati incrociati l’uno sull’altro, com’è adeguato. Le sue mani erano ferme mentre piegava la lettera, e sono ferme tutt’ora. Le scruta per scorgere un tremito. Nulla. Bene.

 

Respira a fondo. L’aria primaverile, già tiepida, le riempie i polmoni coi suoi profumi.

Alla destra del tavolino c’è il suo bauletto. Poco più piccolo di un forziere, in legno, dove tiene riposte alcune delle poche, semplici cose che possiede: un pettine di cedro dai denti fitti col quale mettere in ordine i lunghi capelli, l’involto di pelle di daino che protegge lo specchio col telaio d’argento donatole da sua madre – unico oggetto, tra quanti possiede, di un certo valore – i pennelli, puliti e ordinatamente riposti, da intingere nell’inchiostro per tracciare i kanji per gli esercizi di scrittura, alcuni rotoli di carta bianchi, il pugnale riposto nel fodero di cuoio, la punta di una freccia.

 

Prende un plico di lettere trattenute da uno spago, accanto ai pennelli, e lo poggia sul tavolo. Scioglie il nodo. Le missive che ha ricevuto dal suo villaggio durante questi anni non sono poi molte: i suoi genitori le hanno scritto tre volte l’anno da quando abita al tempio di sensei Nobunaga. Le lettere più vecchie sono ingiallite dagli anni passati e tutte sono ripiegate in quattro parti, proprio come quella che il messaggero le ha consegnato stamattina presto, appena due ore dopo il sorgere del sole.

Sarebbe voluto arrivare prima, ha detto e ridetto, ma il tramonto lo aveva colto prima che riuscisse a coprire gli ultimi chilometri che lo separavano dal tempio e si era dovuto accampare. La legge non permetteva a nessuno di viaggiare la notte. Confidava che lo comprendesse, e scusasse la sua vergognosa lentezza.

 

Kikyou calcola che, per avere raggiunto in poco più di venti giorni il tempio, deve avere sfiancato parecchi cavalli, oltre ad arrivare allo stremo delle sue proprie forze.

 

Fa scorrere le vecchie lettere col pollice, soprappensiero, assaporando il contatto con la carta e il lieve fruscio. C’è un anno di sei anni prima, in cui le erano stati recapitati quattro messaggi, e non i soliti tre. Sua madre le comunicava che era nata sua sorella: una bambina a cui era stato dato il nome di Kaede.

 

Adesso ha l’età che avevo io quando venni portata qui. La stessa età.

 

Nonostante non avesse il permesso di fare né di ricevere visite presso i suoi consanguinei fino a conclusione dell’addestramento, il sensei le aveva eccezionalmente concesso di andare a trovarla. L’aveva vista una volta sola, ma ricorda ancora molto bene quella minuscola bimbetta di neppure un anno. Non sa perché, ma crede che, se la rivedesse, saprebbe riconoscerla anche oggi.

 

Dispone con cura l’ultima lettera sopra tutte le altre, le lega assieme e le mette via. Prende il pettine e lo specchio.

Esamina con occhio critico il suo volto riflesso. Ha compiuto da poco quattordici anni; ma i suoi lineamenti stanno già perdendo alcune delle caratteristiche della prima giovinezza per svelarle quale sarà il suo viso tra pochi anni. Sa che i pochi visitatori del tempio la scambiano spesso per una ragazza più grandicella, e pensa che sia giusto così. Il mese scorso, un pellegrino di passaggio, parlandole, ha creduto che fosse già entrata nell’età adulta, anche se mancano ancora quasi due anni. Non può nascondersi che il malinteso l’ha lusingata.

 

Passa il pettine tra i capelli neri come l’ala dei corvi. Non c’è tremito sulla sua bocca, non un guizzo sulla guancia che sta già dimenticando le rotondità infantili, nessuna ombra nei suoi occhi nocciola.

 

Un’ora intera se ne va così.

 

D’improvviso si interrompe. Le sue chiome non sono mai state tanto lisce! Si sfiora cauta la testa, saggiando il dolore che si diffonde dalla radice dei suoi capelli.

 

Messo via specchio e pettine si alza; le sue giovani ginocchia non emettono il minimo scricchiolio. Indossa lentamente le semplici vesti bianche da apprendista stese accanto al suo giaciglio. Non la tenuta di una miko: com’è giusto, poiché lei non è una miko. Non ancora.

Calza i sandali preparandosi a uscire. Ripensandoci, torna al suo bauletto e vi fruga dentro di nuovo, prendendo la punta della freccia, una conchiglia liscia e delicata e sbrecciata su un lato, un sassolino bianco e screziato d’oro, una treccia di capelli di quand’era piccola.

Poche, piccole cose che da bambina le erano sembrate meravigliose e degne di essere conservate. La punta della freccia è una delle prime che era stata capace di mandare a bersaglio, quando sensei Nobunaga l’aveva instradata a Kyujutsu, la via dell’arco. Aveva imparato presto che l’esercizio nell’arco era ben più di una semplice arte marziale. Come il sensei le aveva assicurato, era stato il primo passo per apprendere Aiki, l’armonia e il silenzio dell’anima nel quale padroneggiare i suoi poteri spirituali.

Come per qualsiasi altra cosa, vi si è dedicata con tutta se stessa. Le sue braccia sono diventate forti come o più di quelle di un maschio della sua stessa età.

 

Si rigira la punta della freccia tra le dita, meditabonda. Con un gesto secco, la scaglia dalla finestra. La sente perdersi tra le fronde dei rami. Sasso e conchiglia seguono la compagna degli anni passati. Il guscio della conchiglia era leggero, ma è riuscita a imprimere abbastanza vigore nel lancio da gettarla fuori assieme al resto. Rimane la vecchia ciocca di capelli. Sta per buttarla per terra, ma cambia idea e la ripone in una delle tasche nascoste della sua ampia manica.

Poi prende il suo arco – un arco fatto per una persona adulta, ormai – e la faretra, e se ne va.

Scende le scale di legno e attraversa il corridoio per uscire. Questo edificio è quello in cui alloggiano lei e le altre due apprendiste, nonché sensei Nobunaga.

Al primo piano dormono le allieve. A piano terra, oltre agli alloggi del sensei, c’è la cucina, il refettorio e i bagni. Le apprendiste si occupano di cucinare, pulire e svolgere qualsiasi altra mansione sia loro richiesta. Non si sentono rumori, poiché al momento non c’è nessuno.

 

D’estate, se ha bisogno di parlare col sensei, sa che è facile trovarlo intento alla cura del giardino. Che stia dissodando un pezzetto di terra, poti un cespuglio, innaffi un fiore, raccolga foglie cadute, cerchi la migliore disposizione per una pietra, Kikyou sa che quel che sta facendo in realtà è creare un’armonia nella quale ogni cosa sia legata a tutte le altre, di modo da dare al giardino un senso e compimento che sarebbe turbato rimuovendo o spostando anche uno solo degli elementi che lo compongono.

 

Mentre percorre il sentiero di rocce, all’ombra degli alberi di limone, per raggiungere il ponticello, ricorda con piacere quando il sensei le aveva ordinato di comporre la statua dell’airone che si è appena lasciata alle spalle. Non era stato semplice collocare le pietre che quasi fanno della statua un mosaico tridimensionale. Aveva scoperto che ogni pietra era già pronta a trovare il suo posto accanto alle altre per dare vita alla forma che le era stato comandato di svelare. Era lei l’ostacolo. Era lei a non riuscire a capire in che modo i sassi volevano che lei li disponesse.

Col passar del tempo, si era resa conto che, come per Kyujutsu, solo mettendosi attenta in ascolto della musica del Fato, avrebbe potuto svolgere il compito che il sensei le aveva assegnato. Non l’aveva deluso, ovviamente.

 

Mentre ode i tonfi attutiti dei suoi passi sul ponticello, scruta l’acqua chiara sottostante, dove un ponte di legno rivoltato all’ingiù è percorso in fretta da una giovane ragazza dalla carnagione pallida e un arco tenuto in pugno, che a sua volta la fissa.

 

Dopo quella volta, sensei Nobunaga l’aveva invitata spesso a lavorare assieme a lui, e così facendo le aveva insegnato non solo a udire la musica, ma a cantare all’interno di essa; prima da sola, poi intrecciando le sue canzoni con quelle di lui.

E il controllo sui suoi poteri era andato vieppiù crescendo.

 

Oggi però il sensei non si sta occupando del giardino.

 

Il sentiero si apre in uno spiazzo d’erba ben curata, circondato da cipressi, sul quale si affaccia il primo dei tre torii – i portali d’accesso – che conducono al tempio shinto nascosto all’interno di bassi muri in legno.

 

Sensei Nobunaga e Natsume sono uno di fronte all’altra. Lui è ben dritto, muscoloso nonostante l’età, avvolto in una stretta veste viola. Lei è inginocchiata, mani in grembo, a fissarlo a pochi metri di distanza, arco e faretra rispettivamente poggiati alla sua destra e alla sua sinistra.

 

La sua irruzione non passa inosservata. A nessuno è permesso disturbare la prova alla quale Natsume sta per sottoporsi: quella che, se superata con successo, le permetterà di diventare una miko.

 

Il sensei e Natsume voltano il capo a fissarla: lui senza cambiare espressione, lei con un sussulto mentre l’intensa concentrazione nella quale si era immersa viene bruscamente spezzata.

 

Kikyou rimane paralizzata per una manciata di secondi; cosa fare, ora? Apre la bocca senza avere idea di che cosa dirà.

 

“Torna nelle tue stanze, Natsume.”

 

La giovane butta la testa all’indietro come se le avessero rifilato uno schiaffo. Kikyou sente lo stomaco stringersi e deve sforzarsi per impedire al rossore di accenderle il volto. Stringe l’arco con tutte le forze, fino a sbiancarsi le nocche, per darsi coraggio.

 

“Questo è quanto stavo per dire a te, Kikyou. Torna nelle tue stanze. Discuteremo più tardi della tua punizione.”

 

La voce del sensei è pacata e per nulla sorpresa. Mentre sente sciogliersi la tensione, Kikyou procede decisa verso Natsume, ignorandolo.

La giovane allieva la fissa a occhi sbarrati, come se fosse impazzita; le labbra le tremano. Un angolo della mente di Kikyou fa in tempo a prendere nota di questi dettagli e disapprovarli, prima di essere assalita da un profondo senso di colpa.

Natsume è stata un po’ la sua tutrice: quando lei era arrivata al tempio, aveva undici anni, cinque più di Kikyou, e l’aveva aiutata ad ambientarsi in quel posto nuovo. Neppure il passar del tempo e la lenta presa di coscienza, da parte di entrambe, che Kikyou le fosse di molto superiore, aveva incrinato il loro legame.

 

Ma questa volta non perdonerà.

 

Perché oggi la diciannovenne Natsume è stata chiamata a superare le prove che faranno di lei una miko.

 

Kikyou la arpiona con lo sguardo.

 

“Torna nelle tue stanze, Natsume. A te toccherà l’anno venturo.”

 

La bocca di Natsume si muove senza emettere suono e il sensei parla di nuovo, la voce piatta come prima.

 

“Hai oltrepassato il limite, Kikyou. Vattene immediatamente.”

 

Natsume, tutt’ora in ginocchio, guarda Kikyou stupefatta.

La giovane volge le spalle al loro sensei, il corpo teso, senza degnarlo di un’occhiata e di una risposta, come se fosse un estraneo privo d’importanza. L’attenzione di Kikyou è tutta su di lei. Natsume cerca di ricordarla quando era appena giunta fin lì, sperduta e spaventata, ma si accorge di non esserne capace. Riesce solo a vedere la ragazzina dagli occhi fermi e lucidi, percepire l’elementare, terrificante volontà che vuole costringerla ad andarsene. Il potere è tutto raccolto attorno a lei, come le spire di un pitone.

 

La bambina. La bambina non c’è più.

 

“Kikyou …” Non riesce ad aggiungere altro, il cuore pieno di sconcerto e paura.

 

“Torna nelle tue stanze.” Le ripete per la terza volta, con una punta di inflessibile dolcezza. “Prenderò io il tuo posto.”

 

“Kikyou. Domani stesso lascerai le tue stanze e abbandonerai il tempio.”

 

E’ solo quando Natsume vede Kikyou annuire appena, come unico segno a dimostrazione di aver udito il terribile comando di sensei Nobunaga, che terrore e pena si gonfiano dentro di lei come il cavallone di una nera onda di piena.

 

Cos’è successo? La bambina!? Perché la bambina non c’è più?

 

Qualcosa dentro di lei si tende e si spezza. Non può sopportare la vista di quegli occhi scuri un attimo di più. Sussurra senza accorgersene un “Mi dispiace.”, afferra alla cieca le sue armi, si alza e fugge via.

 

Kikyou osserva la corsa precipitosa di Natsume e si decide quindi a voltarsi in fronte al suo sensei.

 

Getta arco e faretra a terra, si inginocchia, e poi fa una cosa che non aveva mai fatto prima d’oggi: poggia i palmi davanti a sé e si prostra fino a toccare il suolo con la fronte e a sfiorarlo col naso.

 

“Vi chiedo perdono, sensei. Il mio comportamento è inqualificabile.”

 

“Lo è, infatti. E’ imperdonabile.”

 

“Imperdonabile. Avete ragione. Come mi avete ordinato, lascerò per sempre questi luoghi che sono stati la mia casa per tanti anni. In un modo o nell’altro, da domani non sarò più la vostra allieva.”

“Ma oggi che ancora la sono, sensei, oso chiedervi di lasciarmi affrontare le prove per diventare una miko.”

 

Kikyou resta immobile e tesa, gli occhi serrati, l’odore della terra asciutta nel naso, erba tra i capelli, un sassolino aguzzo conficcato nel ginocchio sinistro.

 

“Inaudito. Dovrei cacciarti oggi stesso.”

 

Kikyou sente le auree dei loro poteri sbattere come due burrasche. Pur restando prostrata, si risolve a sollevare la faccia verso quella del sensei e a cercare il suo sguardo.

Gli occhi di lui sono impassibili quanto la sua voce, ma le rughe che gli solcano il volto sono tanto profonde da darle l’illusione che abbia indossato una maschera. Si sforza di rendere la voce piatta come la sua.

 

“Intendete dire che il mio addestramento non è completo, sensei?”

 

Nobunaga deve compiere uno sforzo per proibirsi di contrarre la mascella. Non ha mai veduto Kikyou umiliarsi in questo modo: eppure, nonostante gli sia prostrata innanzi, non c’è nulla, in lei, che dia la sensazione di una vera sottomissione. Anche se ha le spalle incassate e il suo mento quasi poggia al suolo, l’espressione è liscia e seria; gli parla come se non fosse in difetto e se ne stesse dritta davanti a lui, e negli occhi nocciola c’è la durezza dell’acciaio con cui è fatta la sua anima. Riluce come la lama di una katana che il samurai libera appena dal fodero per costringere un insolente heimin a chinare il capo.

E’ piegata ai suoi piedi, eppure lo sta sfidando con ogni fibra del suo essere.

 

Nobunaga lascia che l’ammirazione che prova per lei e il dispetto per l’affronto che sta subendo convivano dentro di lui, mantenendo così inalterata l’armonia del suo spirito.

 

“Non hai raggiunto l’età per sostenere la prova, Kikyou.”

 

Ciò che dice è vero. Le apprendiste vengono chiamate a diventare miko tra i diciassette e venti, ventun’anni. Mai nessuna prima di averne compiuti sedici. Ma si rende conto di aver commesso un passo falso un istante dopo aver parlato.

 

“Lo so, sensei Nobunaga, ma io non vi ho chiesto questo. Non è completo il mio addestramento? Non ho forse imparato tutto quel che avevate da insegnarmi?”

 

L’espressione di Nobunaga non cambia.

 

“Molte sono le cose che devi ancora imparare, Kikyou, e il solo fatto che tu me lo chieda lo dimostra. Sì, sei la migliore allieva che abbia mai avuto, e già adesso hai appreso alla perfezione ogni tecnica, esercizio e pratica per adoperare i tuoi poteri immensi. Eppure, se fosse dipeso da me, avresti dovuto attendere almeno altri sei anni la venuta della tua prova. Ci sono nemici dai quali non sarai in grado di difenderti, e che ormai non avrò il tempo di insegnarti ad affrontare come dovresti. Oggi c’è solo il tuo fallimento.”

 

L’espressione di Kikyou si fa fosca; Nobunaga sa che non può capire. Gli pare che il suo corpo prostrato abbozzi un movimento, ma si irrigidisce in tempo.

 

“So che non potrete perdonare il mio comportamento, sensei: ma io non posso attendere né un giorno, né un anno, né sei. Sono pronta per affrontare qualsiasi youkai e qualunque maleficio. Mettetemi alla prova.”

“Vi prego. Siate il mio sensei; solo per oggi ancora.”

 

“Non c’è più niente che possa fare per te, Kikyou.”

 

Poi Nobunaga vede Kikyou sorridere di un sorriso lieve e misterioso, e sente un impercettibile brivido alla base della spina dorsale.

 

“Lo dite davvero, sensei? Lasciate che vi chieda una cosa soltanto, dunque, e poi non vi importunerò più.”

“Per quale ragione non avete dato inizio alla prova di Natsume? Cosa stavate aspettando?”

 

Nobunaga corruga la fronte. E’ più impudente di quanto potesse immaginare. E, forse, persino più abile.

 

“Cosa vuoi dire?” Ma lui lo sa benissimo.

 

“La prova di Natsume sarebbe dovuta cominciare almeno un’ora fa. Lo so, perché ho passato quell’ora in attesa di una decisione che, nel mio cuore, era già presa. E dunque, sensei? L’avete udito anche voi, non ho forse ragione? La prova che avete preparato oggi … non c’era Natsume nei vostri pensieri quando la stavate preparando, vero? La mia impertinenza ha già superato ogni limite, lo so. Perciò, non stupitevi se mi permetto di ricordarvi che siete stato voi stesso a insegnarmi a riconoscere la menzogna nelle parole altrui. Dunque, siate ben attento a come mi risponderete!”

 

Nobunaga resta interdetto per un momento, fissando la giovane ragazza chinata a terra e il suo minuscolo sorriso malizioso e fiero.

Ha commesso un errore a sottovalutarla. Il freddo provato poc’anzi alla base della spina dorsale si fa risentire con più forza. La preveggenza e l’intuito di Kikyou sono spaventevoli nella loro vastità. Ma che cosa deve provare, questa ragazzina, a essere custode di un potere tanto immenso?

E lui? Sarà stato capace, in questi anni, di insegnarle abbastanza bene?

E’ lui che l’ha addestrata, è lui responsabile di ciò che sta diventando. Adesso sì che capisce quell’impasto di orgoglio, timore, umiliazione e rabbia nel quale il padre di Kikyou si dibatteva, quando gliela affidò.

 

Neppure un’ombra gli ha attraversato il viso a lasciare trapelare i suoi pensieri, ne è certo. Ma la sua esitazione è già una risposta sufficiente. Vede il sorriso di lei accentuarsi, negli occhi un lampo. Le volta la schiena per nasconderle il suo riluttante rispetto.

 

“Preparati per la tua prova, Kikyou.”

 

La sente rialzarsi in piedi così in fretta da fargli intendere che non si aspettava altra risposta se non quella; e l’eco del suo potere erompe come un tuono.

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Capitolo 26
*** XXV ***


Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor

La cucitura del maledetto stivale sta cedendo.

 

Ha la testa abbassata a fissarlo, mentre cammina e a ogni passo solleva nuvolette di polvere, perciò la sua smorfia si perde tra le ombre del suo viso. Proprio in questo villaggio squallido e dimenticato dai Kami dovevano cedergli le cuciture dello stivale? Non c’è neppure un artigiano a cui chiedere di aggiustarlo – e lui non ha né voglia né tempo di occuparsene.

Già.

 

Questo è un villaggio di hinin, d’altronde. La casta delle non-persone. Non ci si può aspettare che sia molto meglio di com’è. Né lui è infastidito nel mischiarsi coi fuori casta, anche se è pronto ad ammazzare chiunque lo scambi per uno di loro.

Gli piacciono gli hinin. Li si può uccidere liberamente, e questo è … divertente.

 

“Dai, Onigumo. Lasciami portare il bottino! Chi ha detto che debba tenerlo tu per tutto il tempo?”

 

Onigumo alza la testa e fissa il ciccione col suo sguardo spento e torbido.

 

“Prenditelo, se vuoi.”

 

Il ciccione è l’unico dei tre più grosso di lui, ed è probabilmente anche più forte. E’ pure un combattente abile e spietato, Onigumo ne è stato testimone. Eppure, appena lui lo fissa, si scosta tanto in fretta da far ballonzolare il suo rivoltante doppio mento.

 

Prima che il ciccione possa rispondergli, l’ubriacone si mette in mezzo.

No, non è ubriaco in questo momento; anzi, l’ha visto solo una volta sopraffatto dai fumi dell’alcool. Ma il saké gli piace davvero molto! Capillari rossi gli attraversano di già il naso e le guance, anche se ha un anno in meno di lui. Quando il suo corpo non riuscirà più a sopportare tutto quel che si caccia in gola ogni giorno, si squaglierà come uno di quegli stupidi pupazzi di neve che i marmocchi si divertono a fare quando nevica.

Onigumo sorride di piacere all’idea. Sempre che sopravviva fino a quel giorno, s’intende.

 

“Su, Noriki, non c’è bisogno di litigare tra noi, giusto? Tanto tra pochi giorni ci separeremo e ognuno andrà per la propria strada. Giusto, Onigumo?”

 

“Giusto. Hai parlato bene.” Ribatte Onigumo, il sorriso ancora stampato sulla bocca. Il ciccione si chiama Noriki. L’ubriacone, invece, è Kasetsu. Aggrotta la fronte. Col passar degli anni, gli è sempre più difficile ricordare i nomi della gente, anche di coloro coi quali ha a che fare, come questi tre imbecilli che lo hanno aiutato a derubare il mercante di seta. Il mercante di seta aveva fatto proprio dei buoni affari, come gli avevano riferito i suoi contatti. La prova sta dentro il sacchettino di pelle pieno di monete che gli preme sulla gamba, da dentro la saccoccia. E ci sono addirittura delle monete d’oro! E due perle! Due!

 

L’ubriacone annuisce soddisfatto, credendo forse che il sorriso di Onigumo sia il risultato delle sue parole.

 

“Potremmo anche spartire il bottino stasera stessa. Prima ci separiamo, prima i nostri inseguitori avranno un maggior numero di piste da seguire. La nostra fuga diventerà più facile.”

 

Gambestorte non è furbo come crede di essere, questo Onigumo lo sapeva già. Trattiene un sospiro infastidito prima di rispondere.

 

“La città di Ishimatsu è a due giorni di marcia ed è il posto migliore dove far perdere le nostre tracce. Se ci dividessimo adesso, ci dirigeremmo comunque tutti là. Cioè, a meno che tu non decida di scappare in campo aperto, dove i segni del tuo passaggio saranno molto più facili da seguire.”

 

Non aggiunge ‘idiota’ ma il timbro della sua voce è più che sufficiente a lasciarlo intendere.

La faccia brutta come la malaria di gambestorte si contorce in una smorfia; ma non riesce a sostenere il suo sguardo per molto.

 

“Ah, va bene. Come ti pare.”

 

Onigumo scrolla le spalle massicce. E’ avvezzo all’effetto che fa sugli altri. Anche se il ciccione è più forte di lui, l’ubriacone più furbo – fin quando il suo cervello non finirà spappolato dal suo vizio – e gambestorte è più brutale quando si abbandona alla violenza, lo accettano tutti e tre come il loro capo.

E non perché è stato lui a concepire l’astuzia che ha permesso loro di derubare il mercante di seta: Onigumo è il primo a riconoscere di essere stato assistito da una buona dose di fortuna, come spesso gli capita.

E’ che questi tre idioti hanno paura di lui, come chiunque altro lo abbia conosciuto, e questo senza che Onigumo abbia fatto niente di speciale per ispirargliela – non ancora, almeno.

 

“Se vogliamo separarci prima, non dobbiamo far altro che attraversare il bosco, invece di costeggiarne il bordo. Risparmieremo più di un giorno di viaggio, non avremo testimoni del nostro passaggio e le nostre tracce si perderanno facilmente.”

 

“Ma Onigumo. Li hai sentiti anche tu! Dicono che il bosco sia infestato da terribili youkai! Nessuno osa entrarvi, e chi ha tentato non ne esce, tranne i pochi fortunati che hanno abbandonato solo la ragione, e non anche la vita, tra gli alberi! Gli unici insediamenti sorti vicino a questa foresta maledetta, infatti, sono quelli degli hinin! Sì, a parte quel tempio shinto e le sue misteriose miko. Che a me fanno paura quasi come gli youkai, però! Chi può sapere di cosa siano capaci quelle streghe?”

 

Onigumo alza la voce, infastidito dal tono stridulo dell’ubriacone.

 

“Stupidaggini. Youkai! Bha! Leggende, sciocche leggende per ingannare i creduloni! Le miko entrano nel bosco, giusto? Se ci riescono quelle stupide donne, possiamo farlo anche noi!”

 

Prima che qualcuno dei suoi compagni possa ribattere, Onigumo viene interrotto da una risata stridula da vecchia alla sua sinistra.

 

“Potresti scoprire di non essere forte quanto una delle stupide donne che tanto disprezzi, straniero.” La voce cigolante, quasi artritica, immobilizza Onigumo. Gli altri tre si scambiano occhiate timorose.

 

Onigumo gira rigidamente la testa. Rannicchiata nella polvere, la schiena ingobbita poggiata alla parete in legno di una capanna, il corpo sottile coperto di stracci, c’è una vecchia dai capelli sparuti.

Onigumo le si avvicina, il passo pesante.

 

“Che cos’hai detto, vecchia?” le chiede.

 

“Mi hai sentito, straniero.” Ribatte la vecchia, levando la testa verso la voce di lui. Onigumo vede i pochi denti ballerini occhieggiare nel suo sorriso raggrinzito, e le pupille oscurate dalle cataratte. La vecchia è cieca. Un umore biancastro le cola lento dagli occhi.

“Quelle donne potrebbero stupirti. Oh sì!”

 

Onigumo si rannicchia per portare la testa alla stessa altezza di quella della vecchia.

 

“Quelle donne sono uguali a tutte le altre; buone per una cosa sola. E quando poi diventano dei rottami come te, vecchia cieca, non sono più buone a nulla.”

 

La faccia avvizzita della vecchia si raggrinzisce ulteriormente, ma Onigumo si accorge che non è né arrabbiata né spaventata: questo stuzzica la sua pigra curiosità.

 

“Ah! Parole coraggiose da dire a una vecchia cieca, vero, straniero? Ma chissà se saresti altrettanto coraggioso davanti alle creature che infestano i boschi qui attorno. Io li ho visti, sai, straniero? Sì, li vidi molte e molte volte, spiriti della notte e del giorno, di tenebra e pazzia e bellezza e nobiltà senza pari, davanti ai quali tu sei meno della polvere che mi si incolla agli stracci che indosso.”

 

“Io non ho paura di niente e di nessuno, vecchia cieca.”

 

La vecchia prosegue senza dar mostra di averlo udito.

 

“Mi ricordo di luci rosse, e di ombre che sparivano non appena ne scorgevo il movimento, e di festoni di muschio che erano ben altro, e di una nebbia che strisciava come viva – e affamata. Vidi tante cose; fin quando i miei occhi decisero di precedermi nella morte e non vidi più nulla.”

 “Tutti mi chiamano pazza e mi stanno lontani. Scommetto che lo trovi divertente! Una vecchia che persino gli hinin evitano! Scommetto che hai un sorriso in faccia e sorridi all’idea che io non possa vederlo. Ho indovinato?”

 

Il sorriso di Onigumo si spegne. “Attenta a quel che dici, vecchia.”

 

La vecchia sghignazza. “Oh sì, attenta devo essere! Perché altrimenti, cosa potresti farmi, coraggioso straniero, che la vita non mi abbia già fatto prima di te? Ho udito e visto, cose che tu non udrai né vedrai nella tua vita intera!” La vecchia ride ancora, forte, e un impalpabile velo di saliva sfiora la guancia di Onigumo. La mano del bandito scatta veloce ad afferrare con le dita dure il braccio secco della vecchia.

Onigumo sente una scossa propagarglisi dalla mano su per il braccio e in tutto il corpo, fino a raggrinzirgli i lombi. Ringhia, stringendo di più la presa sul braccio della vecchia, in una reazione istintiva. Dalla bocca spalancata della vecchia cola un filo di bava; gli occhi ciechi ruotano nelle orbite. Un artiglio rachitico ghermisce la mano di Onigumo che le stringe il braccio.

 

“Cosa stai facendo, vecchia?”

 

“Mi sbagliavo! Oh, mi sbagliavo!” La voce della vecchia sembra al tempo stesso, più forte e più lontana, fredda e colma di timore. “Non c’è paura in te, no. Ma neppure coraggio! Cos’è che vai cercando? Eh? Cos’è che vai cercando?”

 

Il peso nel ventre di Onigumo aumenta. E’ come se avesse mangiato pietre per colazione. E’ come se avesse addentato limoni acerbi. E’ come se un furetto gli stesse rosicchiando l’inguine.

 

“Cosa stai facendo, vecchia pazza? Smettila subito … o …”

 

La voce gli viene meno. Onigumo cerca di allentare la presa, ma senza riuscirci.

 

“Cos’è che vai cercando senza posa, morto dentro? Cos’è che vai cercando? Il tuo coraggio? La tua paura? La fame che non riesci a soddisfare? La forma del fuoco da cui ti lasci divorare? E’ questo che cerchi, morto dentro? E’ questo? Cos’altro può essere?” La vecchia chiude le palpebre; una smorfia come se le si fosse parato innanzi uno spettacolo ributtante. “No! No, non voglio vedere! No, Kami, non fatemi vedere, vi prego no, è troppo non lo sopporto vattene vattene! Vattene nel tuo inferno vattene nella tua morte! Non ho niente a che fare con te morto dentro vattene vattene!”

 

Onigumo impallidisce mentre la voce della vecchia cresce sempre più d’intensità fino a diventare un urlo stridulo.

Non riesce a muoversi.

Uno dei suoi compagni potrebbe colpirlo alle spalle e prendergli il bottino, come farebbe lui, senza neppure starci a pensare, se le loro posizioni fossero invertite.

Sa che gli hinin stanno formando un capannello, attratti dalle grida della vecchia.

Eppure niente di tutto ciò lo preoccupa. Riesce a pensare a una cosa soltanto.

 

“Smettila di chiamarmi così.” Spinge a fatica le parole attraverso i denti digrignati. “Smettila subito di chiamarmi così, vecchia pazza, o rimpiangerai di non essere nata morta.”

 

“Vattene! E’ la tua sposa che cerchi, dunque!? E allora vattene! Vattene nella foresta del tuo inferno, dalle fuoco col tuo fuoco! Vattene dalla tua sposa, morto dentro!”

 

Usando ogni grammo della sua volontà Onigumo solleva la mano libera. La voce della vecchia è un sibilo.

 

“La tua morta sposa attende il tuo cuore morto affinché possiate darvi l’un l’altra morte e vita.”

 

Si prende il polso e se lo torce, costringendosi a liberare il braccio della vecchia. Con un grugnito di rabbia si rimette in piedi, gira su se stesso, allontanandosi, beccheggiando come un marinaio sul ponte di una nave in balia delle intemperie. Sente la vecchia singhiozzare e ridere.

 

I pochi hinin che si sono fermati a seguire lo spettacolo si allontanano alla svelta, la testa bassa. Cinque bambini, lerci ma con la faccia raggiante di meraviglia, fuggono lanciando alte grida di paura non appena vedono la sua smorfia. Un sesto resta immobile, forse più lento o più coraggioso degli altri. Onigumo barcolla verso di lui col braccio levato, la testa ronzante e piena solo dell’immagine del suo pugno che fracassa la bocca del marmocchio. L’ubriacone gli blocca l’avambraccio, mentre il bambino scappa via.

 

“Cosa vuoi fare, Onigumo? Cosa succede!? Sei impazzito?”

 

Onigumo gli rivolge il suo sguardo smorto e l’ubriacone trema suo malgrado.

 

“Lasciami. Va bene. Tutto a posto, lasciami.”

 

“D’accordo. Però dimmi cosa …”

 

Onigumo lo allontana e torna sui suoi passi, verso la vecchia. Si sente già quasi del tutto se stesso, anche se non è abituato a provare ... turbamento, deve essere quella la parola.

La vecchia è piombata nel silenzio, il mento poggiato al petto, tremante. Onigumo sorride, si china di nuovo su di lei e le afferra la mandibola, costringendola a sollevare il volto. La vecchia piagnucola, cercando debolmente di sottrarsi.

 

“Non ridi più, vecchia pazza? Io non ho paura di nulla. E non sono quel che dici.”

 

“Come ti pare! Lasciami e vattene! Fai quel che vuoi! Io …”

 

Onigumo si bea nello spettacolo della paura che adesso tormenta la vecchia. Il suo ghigno si allarga quando un’idea nuova gli passa per la testa.

 

“Tu eri una miko, vero, vecchia pazza?” annuisce tra sé “Già, ecco come fai a sapere tante cose. Sì, una miko, una oh! persona così nobile e rispettata. Mi piacerebbe sapere come hai fatto a ridurti così, vecchia pazza, oggi che neppure gli hinin ti rivolgono la parola e i pidocchi fanno nido fra i tuoi capelli. Già, sono sicuro che ascoltare la tua storia sarebbe divertente. Un vero peccato non averne il tempo.”

 

Il fragile corpo della vecchia si scuote, un’unica lacrima solca la sua guancia rugosa: Onigumo capisce di averla ferita e se ne compiace.

 

“Ah! Lasciami! Vattene! Ti diverte così tanto tormentare una vecchia, morto dentro? Credi che ci sia coraggio in quel che fai? Se sei tanto forte, perché non …”

 

Le parole della vecchia vengono interrotte come da un colpo di scure, la nuca sbatte contro la parete della capanna quando la testa viene proiettata all’indietro, spinta via dallo schiaffo col quale Onigumo la colpisce.

 

“Ti avevo detto di non chiamarmi più in quel modo, vecchia pazza.”

 

La vecchia scivola in uno stato di semincoscienza. Onigumo si rialza in piedi, allontanandosi, senza pensare a nulla.

 

Il ciccione, l’ubriacone e gambestorte gli si accodano, mantenendo una certa distanza, sconcertati. Onigumo vede con la coda dell’occhio gambestorte fare un segno per allontanare la mala sorte. Lascia che i suoi piedi lo accompagnino dove vogliono. Fissa la cucitura dello stivale che sta cedendo. Si tocca la sacoccia col denaro. Spiriti? Sciocchezze! Youkai? Ah! Eppure …

(morto dentro)

Onigumo rialza la testa. La strada polverosa finisce, là dove finiscono le capanne. Le capanne più squallide di questo squallido paesello di hinin. Persino tra i senza casta ci sono differenze, dunque? Persino quando si viene gettati in un fosso pieno di fango, già, si può sempre scavare.

 

Queste sono le case più vicine al bosco di salici. Da qua il terreno declina ripido per una cinquantina di metri tappezzati di erba scura. Nessuno coltiva niente in questa striscia di terra.

I tronchi degli alberi sono vestiti di muschio, le fronde dei salici gli ricordano capelli di donna che cadono disordinati per nascondere un volto tumefatto. Sì, è estate, eppure c’è freddo. Onigumo avverte sulla pelle sudata il freddo che si protende verso di lui. Chissà se quel freddo può avere la meglio sul suo fuoco?

 

Il suo ghigno riprende vigore. Si tocca di nuovo la tasca colle monete.

 

“Avanti, Onigumo. Beviamo un goccetto e dimentichiamoci di quella vecchia! E poi andiamocene da questo villaggio.” L’ubriacone. E’ capace di pensare solo a bere, già.

 

“No. Ce ne andiamo subito.” Senza voltarsi, fa un piccolo balzo e abbandona la strada. Passi rapidi. Evita d’istinto le buche nascoste tra l’erba alta.

 

“Ehi, Onigumo! Cosa stai facendo!? Sei impazzito!?” Patetico ciccione, corrimi dietro se ci riesci.

 

Piccola corsa.

Il freddo aumenta alla pari del suo ghigno. La cucitura dello stivale gli cede un altro po’. Se dovesse rompersi adesso cadrebbe in malo modo. E cosa gli farebbero i suoi compagni se dovessero raggiungerlo? Sì, pericoloso. Ma a lui non importa. Non gli importa niente, come non gli è mai importato niente. Di. Niente. Sposta il peso del corpo e accelera l’andatura, correndo e saltando a destra e a sinistra come una scimmia idrofoba.

 

“Fermo! Onigumo, fermati subito!”

 

Sente che gambestorte ha abbandonato la strada, ma non lo sta inseguendo con molta convinzione.

 

E adesso Onigumo vola, salta un piccolo fossato pieno d’acqua torbida. Le ombre nel bosco dei salici sono fitte. Appena raggiunge i primi alberi, si ferma col fiato corto e si gira poggiando una mano su un tronco scivoloso.

I tre idioti sono a più di quaranta metri.

 

“Ho deciso che prenderemo una scorciatoia!” Ansima e i polmoni gli si riempiono d’aria fredda. “E’ la soluzione migliore. Su, venite! Non avrete paura?”

 

Gambestorte sfodera la wakizashi. “Se torni indietro subito, potremmo decidere di non ucciderti, Onigumo.”

 

“Non credo che tu capisca, dato che sei tanto stupido quanto brutto, ma non importa. Avanti, sbrighiamoci. Oh, se non ve la sentite, potete prendere la strada più lunga, ma non so se i nostri cammini si incroceranno di nuovo in questa vita.”

 

I tre lo fissano a bocca aperta.

 

“Onigumo, non puoi dire sul serio …”

 

Con un inchino beffardo, Onigumo si incammina nel folto della vegetazione.

 

 

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Approfitto di questo piccolo spazio per ringraziare due nuove lettrici:

 

@Angorian: non preoccuparti, anch'io mi sono scoraggiato per la lunghezza!! Non era affatto previsto che questo racconto diventasse così lungo XD  A maggior ragione, sono contento che tu l'abbia apprezzato - e abbia apprezzato il fascino malefico di Naraku :P

@Crisan: ogni tanto passa anche qualche vecchietto per questi lidi! XD Ma l'importante è essere giovani dentro! (sì, sì, certo ...). Bene, spero proprio di avere soddisfatto almeno un po' le tue aspettative; fatti sentire, se ti va - eh, adesso sono un po' curioso, devo ammettere.

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Capitolo 27
*** XXVI ***


Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor

Ci sono solo salici tutt’attorno; alcuni tanto vecchi da meritarsi senza timor di smentita l’appellativo di antichi.

Il freddo innaturale del bosco penetra attraverso i vestiti, i passi sul sentiero sono attutiti, il silenzio pesante: nessun rumore di uccelli o selvaggina, come se gli alberi fossero così forti nella loro lussureggiante presenza da bandire qualsiasi altra forma di vita, finanche l’erba e i fiori.

 

“Parlami della musica, Kikyou.”

 

Il corso dei pensieri di Kikyou devia con naturalezza, ricordando le passate conversazioni con il suo sensei.

 

“La musica del Fato esiste a prescindere da tutti noi, eppure al tempo stesso ciascuno di noi è parte di essa e agisce al suo interno. Noi siamo nella musica, e l’intreccio delle nostre azioni, è melodia.”

“Vi sono coloro che hanno il potere di udire la musica. Costoro sono chiamati dagli uomini veggenti, profeti o streghe. Poi vi sono coloro che hanno il potere non solo di udire la musica, ma di cantare all’interno di essa. E io sono una di loro.”

 

“Lasciami ascoltare il tuo potere, dunque, Kikyou.”

 

Kikyou annuisce. La ragione per la quale la foresta è un luogo speciale è che la musica del Fato si ode molto bene, in note intessute da rami e radici, tronchi e foglie. Come lacrime verdi stillano nell’aria umida.

Si lascia catturare dai suoni ultraterreni, vi si abbandona e la sua voce si leva adattandosi morbida e sommessa alla sinfonia misteriosa che li circonda.

 

I salici hanno voci e si protendono per farsi udire, per raccontarle di eventi ai quali i più vecchi di loro assistettero quando erano solo piccoli semi, e l’avvisano di stare attenta, di stare in guardia dai predatori che si aggirano in mezzo a loro.

 

Senza interrompere il canto, Kikyou parla di nuovo.

 

“Ma ogni azione e pensiero malvagio è una nota stridula che piaga la musica e la storce, e quando queste note stridenti si fanno forti a sufficienza il tessuto stesso del mondo si lacera, sfigurato in sì tanti modi diversi, che neppure il più saggio tra i saggi può prevedere.”

 

Sensei Nobunaga la interrompe.

 

“Uno dei salici qui intorno è malato, Kikyou. Dimmi qual è.”

 

Kikyou si lascia condurre dalla melodia. Intorno a lei la musica scorre solenne e pacata e lei si limita a lasciarsela sgorgare dalle labbra; ma c’è un tratto nel quale la sua voce incespica. In quel passaggio, la musica non le parla di salute e crescita e vigore, ma di agonia e marciume. Kikyou si fa scudo con la disciplina della mente che le è stata insegnata per tenere lontano da sé il dolore, e osserva con distacco il suo stesso braccio sollevarsi a indicare un albero apparentemente uguale a tutti gli altri.

 

“Quello.”

 

“Brava. Prosegui.”

 

“Ogni disgrazia, malattia, maleficio e crudeltà riverbera nella musica del Fato. In quest’epoca sciagurata di sangue e dolore, la rabbia, l’odio, la disperazione e il rimpianto danno linfa a sempre nuove discordanze. E quando queste divengono intollerabili, ecco che una nuova sventura guasta la terra.”

 

“Ora parlami degli youkai, Kikyou.”

 

“Gli youkai si nutrono della musica del Fato in un modo che noi non possiamo comprendere. Passioni, desideri, paure, cupidigie, speranze infrante; da queste cose e da molte altre nascono e si fortificano gli youkai, coloro il cui nome significa visione che seduce. Poiché suscitare nel cuore degli uomini desideri infocati è ciò di cui hanno bisogno per sostenersi e proliferare, ed essi sono simili agli ardori dai quali prendono vita.”

 

“E quali sono i più pericolosi tra gli youkai, Kikyou?”

 

“I più pericolosi tra gli youkai sono quelli che più assomigliano agli esseri umani, poiché non nella zanna o nel braccio o nell’artiglio risiede la loro arma più temibile, ma nella loro maestria di suscitare brama grande a sufficienza da potersi chiamare follia.”

 

“Ora parlami del tuo potere, Kikyou.”

 

“Il mio potere, come il potere di qualsiasi altra miko, è di riportare l’armonia nella musica del Fato. Silenzio dell’anima e disciplina dello spirito e forma impeccabile di pensiero, parola e gesto.”

 

Nobunaga la interrompe di nuovo.

 

“Ci sono numerosi youkai che ci stanno osservando, Kikyou.”

 

“Sì, li sento.”

 

“Chiamali verso di noi.”

 

Kikyou si tende in ascolto: youkai di violenza e spargimento di sangue, collera e fratricidio. Canta verso di loro un duro canto di battaglia, cozzare d’acciaio e grida e tamburi e corni, lacrime e pioggia e fango che risucchia i piedi, e di tutte le altre cose che sono per loro irresistibili quanto l’oro per il mercante.

 

Urli striduli li sferzano, facendo stormire i rami dei salici e precipitando verso di loro da ogni direzione.

 

“Preparati.”

 

Kikyou impugna l’arco e incocca una freccia senza smettere di camminare. Dalle ombre scaturiscono corpi vermiformi, teste galleggianti circondate da criniere di capelli bianchi, folletti saltellanti, dalle zampe uncinate e denti come aghi.

 

E’ la prima volta che vede una quantità di youkai tanto spaventosi: ma solo per un momento permette al suo spirito di tremare, poiché non può concedersi più tempo. Poi scaglia aggraziata la freccia e mentre lo fa, immagina la musica non com’è in quel momento, ma come dovrebbe essere. Aiki.

 

Il dardo veleggia contro gli youkai e la punta si incendia di luce candida, passando attraverso le creature e cancellandoli come se non fossero mai esistiti.

 

Kikyou reprime l’esultanza che potrebbe distrarla e prepara una seconda freccia, mentre altri youkai sbucano da dietro i tronchi degli alberi, strisciando e svolazzando e camminando e rotolando com’è consono alla loro forma.

 

Una seconda freccia, e poi una terza, e le moltitudini delle creature vengono abbattute, ma non per questo esitano, e anzi si scagliano contro di loro quasi come se bramassero di essere annientati, e sconfitta e vittoria fossero per loro la medesima cosa e solo la battaglia avesse importanza.

 

Uno youkai simile a una palla carnosa e costellata di aculei, più svelto o fortunato degli altri, sopravvive alle sue frecce e, ribalzando, piroetta nella direzione di sensei Nobunaga, che resta immobile come se nulla stesse accadendo.

Kikyou respinge la fitta della paura e d’istinto, allo stesso modo di una donna che leva una mano a scacciare una mosca che le ronza d’improvviso sotto il naso, intreccia una barriera sacra attorno al suo sensei. Un istante dopo lo youkai si schianta contro l’invisibile ostacolo, con tale violenza da fracassarsi gran parte dei pungiglioni, e cade a terra in una pozza di icore giallastro.

 

Ancora due frecce e degli youkai non v’è più traccia.

 

Nobunaga sorride appena.

 

“Vedo che hai imparato molto bene come usare le tue barriere, Kikyou.”

 

“Ma, sensei! Perché non vi siete difeso? Se non fossi stata abbastanza veloce …” Le si dilatano le pupille e le gambe si fanno molli. Poggia l’estremità dell’arco a terra per sorreggersi, la tensione della sua prima vera battaglia si attenua, facendole girare la testa.

 

“Finché resteremo nel bosco, la mia vita sarà nelle tue mani, Kikyou. E ora ricomponiti! Una miko non si lascia turbare da pochi deboli youkai.”

 

Nobunaga riprende il cammino. Kikyou si affretta a seguirlo.

 

 

 

Onigumo scosta un drappeggio di muschio che sta per carezzargli la faccia, senza rallentare il passo. Deve sbrigarsi, perché l’avidità ha convinto i suoi compagni che, in fondo, gli youkai non esistono, o che, se pure esistono, non sono pericolosi come dicono le leggende. Già, altrimenti non si capisce per quale ragione avrebbero deciso di inseguirlo dentro la foresta dei salici: e deve spicciarsi, perché se riusciranno a raggiungerlo, lui sarà un uomo morto. In tre contro uno, non ha speranze di spuntarla.

Onigumo fa spallucce: la morte fa parte degli incerti del suo mestiere.

 

Alza la testa per orientarsi col sole. I rami dei salici non sono così fitti da bandire la luce, eppure gli pare che il buio, semplicemente, si rifiuti di lasciarsi disperdere, stendendosi come un mantello sulla foresta. Uno strano fenomeno, che sembra nebbia senza esserla. Anche se ha viaggiato parecchio, Onigumo non ricorda di essersi mai imbattuto in niente di simile.

 

Ma non ci fa troppo caso, perché il ricordo della vecchia pazza gli brucia nella mente come acido.

Cos’è che vai cercando? Cos’è che vai cercando, morto dentro?

“No. Non sono quello che dici, vecchia.”

Ma cos’è che cerchi? Dicci cosa vuoi, sì, diccelo e noi ti esaudiremo. Cosa? Cosa?

“Io non.”

Ricchezze? Potere? Battaglie? Cosa?

Bisbigli nelle tenebre del bosco gli solleticano l’orecchio, simili dapprima al bisbiglio della vecchia pazza.

Dimmi solo cosa, morto dentro.

Dicci cosa.

Immagini d’oro e argento e sete e broccati; palazzi e cavalli e armi e gioielli e gemme.

Onigumo sorride: non è per questo che si trova qui adesso? Per non dover dividere un bottino coi suoi compagni di malaffare?

 

“Onigumo! Torna indietro! Non fare il pazzo, siamo in pericolo, torna indietro e ci metteremo d’accordo in qualche modo!”

 

“Credete che sia idiota quanto voi, vero? Già.”

Sussurra.

E’ abituato a parlare da solo. Dato che nessun altra persona gli è mai sembrata vera, vera fino in fondo, ha sviluppato negli anni sempre più l’abitudine a parlar da solo.

 

Di nuovo visioni di sconfinate ricchezze gli baluginano davanti agli occhi: ah! Potrebbe fare molte cose con tutto quel denaro. Sarebbe bello. Eppure, non …

Il tuo fuoco non ha volto, morto dentro.

Cos’è che vuoi davvero?

Tra i bisbigli si insinua un gemito differente. Le visioni spariscono, si sciolgono e scoloriscono come un sogno.

 

“Guardate! Avete visto!? Come, dove!?! Ma là, proprio là!! Per tutti i Kami, come fate a non vedere! Che Onigumo se ne vada all’inferno! Guardate che roba!!”

 

E’ l’ubriacone, forse? Sì, Onigumo è certo che sia la sua voce. L’ubriacone grida, e poi, rami che si spezzano sotto passi concitati, e rumori di lotta e il gemito diventa poco a poco uno stridio agghiacciante.

 

Onigumo scrolla la testa per schiarirsi le idee, senza capire per quale ragione la pelle della schiena gli si è accapponata; dalla memoria i ricordi di ciò che ha visto svaniscono come trucioli consumati dalle fiamme di un camino.

 

“Non sono quel che dici, vecchia pazza. Mi sono sempre preso tutto quel che desideravo. Sempre, già. E quindi. Non sono. Quel che hai detto.”

 

Onigumo si lecca le labbra secche, e prosegue più in fretta, senza udire risposta alcuna, né fuori né dentro di sé.

 

 

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@marrion: grazie per l'apprezzamento! :)

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Capitolo 28
*** XXVII ***


Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor

“Parlami del tuo addestramento, Kikyou.”

 

Lungo le tappe del loro cammino, Kikyou ha abbattuto youkai, ha visto auree sovrannaturali, levato invisibili barriere, aperto scorci sul futuro e sul passato, adoperando il suo potere con la delicatezza di un musico che carezza le corde della sua arpa.

Mentre faceva tutto questo e molto di più, Nobunaga l’ha interrogata in continuazione e lei gli ha risposto, senza smettere di cantare per un solo momento.

 

“Il mio potere è dentro di me fin da quando nacqui. Ciò che ho imparato venendo da voi, sensei, è la disciplina e le vie per adoperarlo.”

 

“Noi siamo custodi. Questo lo sai, vero, Kikyou?”

 

“Sì, sensei. Io sono la custode del mio potere: nel vuoto dell’anima e nell’equilibrio dei quattro spiriti mi è dato di riportare ordine nella musica. Tale è il prezzo che pagano coloro che percorrono sia il mondo degli uomini che quello degli youkai: di non appartenere ad alcuno di essi. Affinché coloro che mi saranno affidati possano essere custoditi dalle minacce del mondo spettrale, mi è chiesto di essere fra di loro, ma non una di loro. Umana solo per metà.”

 

“Sei sicura di essere pronta?”

 

“Sì, sensei. Adempierò ai miei doveri.”

 

“E credi che una tale rinuncia sia giusta?”

 

Kikyou lo guarda stupita e riflette sulla domanda qualche minuto.

 

“Né giusto, né sbagliato.” Dice infine. “E’ così e basta. E’ come deve essere. Mi sono stati affidati poteri quali nessuna miko ha mai posseduto, tranne forse una: voi stesso me l’avete detto. Rifiutarmi di servirmene – no, di servirli – sarebbe un disonore, un’indegna vergogna.”

 

“Ti sembra una risposta sufficiente, Kikyou?”

 

 “Sì.”

 

“E se scoprissi di desiderare qualcosa di diverso? Se non fossi felice?”

 

Kikyou solleva un sopracciglio.

 

“Non mi avete mai chiesto nulla del genere fin’oggi, sensei. Qual è la ragione di queste domande oziose?”

 

“Non ti ho mai posto domande del genere, Kikyou, perché non sapevo, fino a stamani, che sarei stato il tuo sensei per un giorno ancora.” Sospira. “In così poco tempo, non ti posso insegnare quel che avresti bisogno di sapere. E adesso rispondi.”

 

Il giovane viso di Kikyou diventa pensieroso.

 

“Cos’è mai la felicità, sensei? Non è forse un’illusione, un breve palpito che presto svanisce lasciandoci nient’altro che il ricordo del suo sapore nella bocca? Chi nasce contadino muore contadino. Chi nasce samurai muore samurai, anche qualora venga disonorato. Chi nasce daimyo è destinato a diventarlo, o a perire nel tentativo. Desiderare ciò che non possiamo essere ci distrae da ciò che siamo e ci ruba la felicità che vorremmo. Perché per me dovrebbe essere diverso? Sono nata per essere una miko, e diventerò ciò che sono nata per essere. Mi sono stati fatti tanti e tanti doni. Se pretendessi altro sarei un’ingrata e una sciocca. No, non mi lascerò ingannare da futili illusioni.”

 

Nobunaga si lascia andare a uno dei suoi rari sorrisi, inseguendo un ricordo immerso nelle nebbie degli anni.

 

“Vedo che, nonostante tutto quel che sai, sei pur sempre una ragazzina. Questo è consolante.”

 

Kikyou si fa turbata. “Non capisco cosa vogliate dire, sensei. Perché volete insinuarmi questi dubbi? Ho detto qualcosa di sbagliato? Non è forse necessario che i quattro spiriti della mia anima restino in perpetuo equilibrio, per articolare i miei poteri?”

 

“Sì.”

 

“E per farlo non è forse necessaria la disciplina che mi avete insegnato in tutti questi anni?”

 

“Sì.”

 

“E se i Kami mi hanno dato un potere quale solo io posseggo, non è forse mio preciso dovere, il mio giri, consacrarmi a esso senza esitazione alcuna?”

 

“Così pare.”

 

“Dunque, per quale ragione interrogarmi su quel che potrebbe essere o accadere? Sono, perdonatemi se oso, domande sciocche e non ho ragione di pormele. Il contadino sa di doversi alzare ogni mattino e coltivare la terra che gli è stata data, cercando di strapparne il frutto che potrà per sfamare la sua famiglia. Ha motivo di chiedersi altro? E il samurai che scende in battaglia per dare la vita per il proprio daimyo? Può forse lasciare che la sua mente sogni come sarebbe stato essere un mercante? Mai lo farebbe, e terribile insulto al suo onore sarebbe porgli una domanda di tal fatta.”

 

“Hai ragione, Kikyou.”

 

Kikyou guarda Nobunaga con franchezza.

 

“Perché mi state insultando, sensei? E’ una punizione per la mia condotta di stamane?”

 

Nobunaga scuote la testa senza rispondere e si infila in un piccolo passaggio tra i salici che devia dal sentiero che hanno percorso per tutte le ore precedenti.

 

“Ti ricordi di Setsume, moglie di Kagenaru?”

 

Kikyou non si lascia sconcertare dal cambiamento improvviso di conversazione.

 

“Sì. E’ morta lo scorso inverno. E’ sempre stata cagionevole di salute; o almeno così ho sentito dire.”

 

“Hai anche sentito le voci che sono circolate, quando mi sono offerto di occuparmi della sua sepoltura al posto di suo marito?”

 

Kikyou annuisce, lanciando occhiate tutt’attorno. E’ strano che vi siano meno youkai nascosti ai bordi di questo sentiero.

 

“Sì, sensei. La vostra offerta è stata davvero inusuale.”

 

“Non ti ho mai chiesto cosa ne pensassi, Kikyou. Molti non hanno nascosto la loro disapprovazione alla mia richiesta di occuparmi della salma e di rifiutarmi di svelare persino a Kagenaru il luogo di sepoltura. So per certo che anche Natsume è tra costoro. Tu hai trovato le mie pretese disdicevoli?”

 

L’esitazione di Kikyou è molto breve.

 

“No, sensei. Voi avete solo fatto una richiesta a Kagenaru. Toccava a lui, saputo i termini dell’accordo che proponevate, in qualità di marito di Setsume, rifiutarvi quanto gli chiedavate. Ma Kagenaru è sempre stato un uomo avaro e gretto. Pur di non spendere il denaro che avrebbe richiesto una degna sepoltura, e in cambio di poche monete, ha accettato la vostra offerta. E’ lui a dover essere riprovato, non certo voi.”

 

“Un uomo avaro e gretto. Sì, Kagenaru lo è sempre stato. Devi sapere, Kikyou, che Setsume non era cagionevole di salute. Lui la prese in moglie perché sapeva che, fin da ragazza, si rifiutava di mangiare più dello stretto necessario. Per questo era sempre debole e smunta, non a causa di qualche malattia. Nessuno, neppure io, è mai riuscito a convincerla ad abbandonare questa incomprensibile abitudine, che anzi andò via via peggiorando, se mai possibile, durante gli anni del suo matrimonio.”

 

I due continuano il cammino, in silenzio salvo il canto sommesso di Kikyou. Quanto più si addentrano lungo questo nuovo sentiero, tanto più lei sente le auree degli youkai allontanarsi, ma al tempo stesso una diversa minaccia stagliarsi più avanti.

 

“Consegnami il tuo arco e la faretra, Kikyou.”

 

Lei ubbidisce senza profferir parola.

 

Pochi altri metri e una piccola radura si apre davanti a loro. E’ spoglia e brulla. Alcuni dei salici che ne segnano il perimetro sono malati, privi di foglie, i rami perfino più piegati di quanto dovrebbero essere.

Kikyou ne conta quattro – no cinque, anzi, sei! – morti da poco, il midollo rinsecchito, risucchiato via come se dei parassiti l’avessero divorato.

 

Al centro esatto della radura, un piccolo tumulo senza segni.

 

“Fatti avanti, Kikyou.”

 

Fa alcuni passi, strizzando gli occhi. La misteriosa oscurità del bosco è più densa al di sopra del tumulo. Cerca di vedere meglio che può, ma all’improvviso il buio si dissipa a rivelare la sagoma di una donna inginocchiata.

 

“Setsume.” bisbiglia, riconoscendola.

 

Nello stesso momento, sente che il suo canto viene inghiottito, come se nel centro della radura vi fosse un gorgo di silenzio impenetrabile dove la musica cessa di colpo.

 

La donna la scruta con attenzione: sembra stupita. Il suo volto è affilato e bianco, gli occhi piatti; indossa un kimono elegante, verde come le foglie dei salici, a nascondere le membra sottili. I capelli scuri e lunghi come i suoi.

 

“Kikyou? Sei Kikyou? Sei venuta a trovarmi, piccola Kikyou? Non sai quanto mi faccia piacere!”

 

Setsume si alza in piedi, le labbra stirate in un sorriso esangue.

 

“Sono tanto sola. Oh, tanto! Vieni. Vienimi vicina.”

 

Il canto di Kikyou si spegne: musica e potere avvizziscono appena sfiorano la donna emaciata che scivola lieve verso di lei.

Caracolla come una marionetta, il sorriso e lo sguardo fissi. Una lingua bianca come il gesso guizza svelta a leccarsi le labbra, per poi schioccare rumorosamente contro il palato.

 

“E, Kikyou … non mi hai portato qualcosa da mangiare, per caso?”

 

L’avidità nello sguardo di Setsume è evidente. Kikyou resta immobile, morbosamente affascinata dalle fattezze della donna conosciuta in vita, dal lento ondeggiare dei suoi capelli, dalla voce ispessita da una voglia repressa a stento.

 

“Lontana.” La bocca di Kikyou si muove appena. “Stai lontana da me.”

 

“Sì che hai qualcosa, Kikyou. Su, avanti, vieni. Lo sento nel tuo odore; c’è qualcosa di delizioso e salato dentro di te. Dammelo!!”

 

Setsume si scaglia in avanti, mettendosi all’improvviso a correre, i capelli ritti in aria come tentacoli, la voce rauca e che d’un tratto scaturisce da dietro la testa.

 

Il suo collo ruota su se stesso, disarticolato, con un molle plop!, e a Kikyou si svela una bocca aperta sulla nuca, senza labbra e spalancata, le ciocche di capelli che vi galleggiano attorno, i denti piccoli e appuntiti.

 

Trova la forza per levare un grido. “Stai lontana da me, Futakuchi-onna!” prima che Setsume le sia addosso.

 

Troppo vicino e troppo tardi, leva una difesa, ma i capelli vivi le si annodano ai polsi sottili e alla vita, pungendola come il filo tagliente di tanti fogli di carta. Il suo potere bianco le erompe dai palmi, ma svanisce in un silenzio sordo. L’innaturale bocca di Setsume ride.

                                           

“Sì! Sì, ti prego! Ho fame, tanta fame!”

 

Ancora e ancora, il sacro potere di Kikyou colpisce per svanire, mentre la bocca di Setsume si avvicina pian piano alla sua spalla. Cedendo a un primo brivido di paura, Kikyou gira la testa d’istinto a cercare Nobunaga, e lo vede assistere impassibile allo scontro, le braccia conserte sul petto.

 

Strattona, le braccia immobilizzate, chiude gli occhi davanti a quella bocca ridente, chiama a raccolta altro potere, compie uno sforzo sovrumano per divincolarsi, il bianco esplode attorno a lei, assordandola; i capelli che la imprigionano fremono, per un istante allentano i nodi.

Ma prima che lei possa sfuggire si rinserrano.

 

“Che delizie mi hai portato. Grazie, Kikyou, oh grazie! Per favore. Ancora un po’.”

 

La paura si fa panico quando sente i denti affondarle nella spalla e non può far altro che gemere. Gli sforzi per scappare si fanno più frenetici e impacciati e le forze le vengono meno.

Setsume singhiozza e geme con la bocca libera.

Il gemito ha il potere di penetrare la coltre del terrore che ha imprigionato Kikyou. Di nuovo, rovescia il suo potere spirituale sulla Futakuchi-onna. I denti minuti serrati sulla sua spalla si stringono di più e Setsume geme di nuovo con l’altra bocca, per poi cacciare un urlo forte e abbandonarsi a piccoli singhiozzi.

 

E’ nel momento in cui capisce cosa il suo sensei si aspetta da lei, che il panico scivola via da Kikyou. Attingendo a coraggio e disciplina, si rilassa, piega quanto può le braccia attorno al corpo dello youkai e si zittisce. Affonda sempre più nel silenzio di Setsume, come in un lago ghiacciato, cade e cade finché non raggiunge il fondo assordante del vuoto attorno a lei, in un’assenza di suoni che le tappa le orecchie.

 

Fame.

 

E’ fame fame fame. Semplice, elementare, prepotente. Lo stomaco raggrinzito, la bocca piena di saliva, la lingua schiacciata sul palato. Vuoto e fame. Fame dappertutto.

 

Di nuovo, Kikyou leva il suo canto di potere e lo lascia uscire da sé, e chiama al suo posto il vuoto della fame che la schiaccia, le preme addosso e la invade.

 

I tentacoli, i capelli che la imprigionano si indeboliscono. Abbraccia stretta Setsume, che con una bocca succhia e l’altra piange, le carezza le tempie, le bacia uno zigomo ossuto, eppoi poggia la fredda guancia sulla sua guancia tiepida.

 

“Mangia.”

 

Le forze l’abbandonano e c’è fame sempre più, che soffia in gola, morde e si attorciglia, che pulsa nelle vene e le toglie colore dal volto e forza dalle membra.

 

Il corpo di Setsume le crolla addosso e il guscio di gelido silenzio si rompe: è un uovo, liscio, perfetto e saporito; la musica entra nella frattura del silenzio, dissipandolo.

 

C’è il sussurro di un grazie e il nulla. Kikyou crolla in ginocchio, sola con la sua fame.

Le dita a stringere lo stomaco, batte i denti: è vuoto e bisogno e odore di sudore e spezie e caldo di zuppa che scivola giù nella gola, e c’è qualcosa di caldo nella gola, caldo, non buono, acido, soffoca, lei affoga, affoga e in un singhiozzo si piega in avanti e la bocca e il naso sono pieni e puzza e conati, rovescia fuori in un verso un bolo tiepido e la puzza è orribile come una ferita; tossisce, geme. Aspetta, impotente, un altro moto della marea che l’ha presa, e ancora sputa e vomita e piange e trema. Ha freddo, fa così freddo nella terra c’è buio e freddo e niente. Niente dentro. Niente attorno.

Vomita filamenti di bava e aria. Ancora. Finisce.

 

Kikyou resta inginocchiata a riprendere fiato. Ogni tanto sputa e soffia. E’ bianca, gelata e vuota, e il ricordo della fame è forte abbastanza da essere fame esso stesso. Pian piano si acquieta, le mani smettono di tremare.

Vuota. Questo l’aspetta? Vuota? Così? Sì? Questo, sì certo. Ma se il suo sensei crede che basti a farla recedere, significa che non la conosce abbastanza.

Guarda con distacco la pozza del vomito vicino a lei. Disciplina. Si alza. Barcolla. Si gira. Il sensei non si è mosso.

 

“Rivuoi il tuo arco, Kikyou?”

 

Lei annuisce.

 

Nobunaga le porge l’arma, poi si allontana per la strada che hanno seguito.

 

“Adesso è libera?” un gemito arrochito.

 

“Sì. Sei stata brava, Kikyou.”

 

 

 

Porta il palmo pieno d’acqua alla bocca e beve. E’ dolce.

 

Non ha le idee molto chiare su come sia arrivato fin lì o quanto tempo sia passato da quando è entrato nel bosco dei salici, ma fermarsi a bere gli è parsa una buona idea. La testa ronza e gli sembra piena di bambagia. Deve essere colpa dei sussurri che lo tormentano e che non capisce. Crede che sia meglio non capirli. Deve aver camminato piuttosto a lungo. Glielo dice non solo la sete, ma anche le gambe che gli bruciano e la cucitura dello stivale quasi del tutto rotta.

Si passa la mano sulla faccia, ritraendola appiccicaticcia di sudore e resina. Fa una smorfia, immerge le mani nella polla e si butta l’acqua sulla faccia e sul collo, la testa china, per poi bere ancora. Forse ce n’è uno che lo sta ancora inseguendo. Il ciccione. E’ grosso. E’ sicuro di avere sentito il suo passo, pesante, pochi minuti fa. Gambestorte, invece. Gambestorte rideva. Quanto è passato? Mezz’ora? Un’ora?

Onigumo lo aveva già sentito ridere così una volta.

Era stato quando si era accanito su un ragazzetto che avevano catturato, due mesi prima. Da poco si era unito ai tre per formare la loro temporanea banda.

Gli altri due si erano allontanati subito, per non assistere. Non avevano voglia di rovinarsi la digestione, avevano detto. Onigumo era rimasto a guardare, mentre gambestorte tagliava le guance del loro prigioniero col coltello, e rideva alle sue urla. Tagli verticali, lungo la linea degli zigomi.

Poi, gli aveva preso un orecchio. Gliel’aveva staccato un poco alla volta. Era restato un buco rosso che sembrava entrargli dritto nella testa. Poi era passato alle palpebre e sì, era imbrattato di sangue fino ai gomiti e in faccia, e il ragazzo ululava e piangeva e sussultava come pazzo nonostante fosse ben legato e chiamava la morte, e dopo un po’ gli occhi di Onigumo si erano riempiti di lacrime di noia mentre sbadigliava da slogarsi la mascella, e si era ritrovato a chiedersi cosa ci trovassero mai, l’uno di così divertente, e gli altri due così disgustoso, in quella pagliacciata.

Appena formulato, quel pensiero l’aveva riempito della sua vecchia compagna, la rabbia. Era stato preso dalla voglia di alzarsi, spaccare la testa di gambestorte con un sasso e tagliare la gola del ragazzo e poi andare dagli altri due e …

 

Le risa da demente di gambestorte sono le stesse che ha udito poco fa. Impossibile sbagliarsi.

 

Onigumo rutta dopo aver bevuto troppo in fretta e si sfrega la guancia.

Niente. Lo sapeva. Non c’è nulla in questo bosco. Tutte menzogne. Vuote menzogne e allucinazioni per confondere i deboli. Già!

Sospira, più stanco di quanto dovrebbe essere, si rimette in piedi, piega il collo finché le vertebre non scricchiolano in risposta.

 

Non c’è proprio niente che tu voglia, morto dentro?

 

Ancora la voce della vecchia. La rabbia trabocca dentro di lui, snuda i denti, mette la mano sull’elsa della wakizashi, girando la testa nella direzione dalla quale è venuto. Avrebbe dovuto uccidere la vecchia prima di entrare nel bosco. Maledetta vecchia pazza. Ecco cosa vorrebbe. Forse, se facesse alla vecchia quel che gambestorte fece al ragazzo. Forse.

 

Non c’è il bisogno nei tuoi desideri, morto dentro. Non c’è mai stato.

 

“Non sono quel che dici! Vecchia dannata, avanti, dove sono le luci! E le ombre!? Ah! Lo sapevo! Bugie buone per i vigliacchi!”

 

Onigumo alza i pugni al cielo e sbraita, sputa e scalcia. I bisbigli che gli sembra di sentire diventano più sommessi e spariscono. La faccia rossa, gli occhi strabuzzati, fa un passo nella direzione da cui è venuto, già immagina come sarà cacciare la sua lama nello stomaco della vecchia e lasciarla lì, ma senza ucciderla. Troppo facile, sarebbe troppo facile.

 

“Onigumo!? Onigumo, sei tu!? Parla! Oh ti prego, tieniti il denaro, quello che ti pare! Basta che mi tiri fuori da qua, per amor dei Kami, Onigumo, fatti trovare e portami fuori di qua!”

E c’è di nuovo il passo pesante del ciccione. Sta venendo verso di lui. Onigumo esita, la fronte corrugata. Un trucco. Potrebbe tendere un’imboscata e ammazzare il ciccione? Ma come può essere sicuro che non lo stiano inseguendo ancora tutti e tre? Meglio scappare. Si è fatto tradire dall’immaginazione, mettendosi a gridare al vento. Strano, lui non sogna mai, tanto meno a occhi aperti. I deliri della vecchia pazza lo hanno impressionato più di quanto pensasse.

 

Sghignazzando di se stesso, riprende la sua strada e scappa.

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Capitolo 29
*** XXVIII ***


Quale fan sfegatato di Kikyo, sottoscrivo in pieno quanto detto da Rosalia e Diana, anche se devo aggiungere che i due innamor

Kikyou cammina con la testa abbassata, in silenzio e senza guardare niente in particolare. Tutte le volte che si accorge di voler sputare per alleviare il saporaccio che ha in bocca, si trattiene e, invece, deglutisce. Non vuole lasciarsi vedere da Nobunaga mentre sputa.

Non ha bisogno di cantare per usare il suo potere: potrebbe farlo, ma la gola inaridita le toglie la voglia di provarci. I pochi youkai che cercano di attaccarli finiscono spazzati via dalle sue frecce.

Ha freddo, le pulsa la testa e c’è una parte di lei che vorrebbe rannicchiarsi per terra e mettersi a dormire. Come può venirle voglia di dormire in una situazione simile?

 

Quasi non si accorge che sono entrati in una nuova radura. Si irrigidisce e solleva il capo di scatto, ancora fresco il ricordo di quel che ha dovuto sopportare neppure un’ora prima. Mette a fuoco lo sguardo, e la bocca le si schiude in una perfetta O di sorpresa.

 

A differenza del resto del bosco, in questa radura cresce un’erba folta e corta, tagliata con cura. Pietre bianche e lisce ne delimitano il confine e disegnano al suo interno linee e curve. Un sozu alimentato da una piccola fonte fa udire il suo tonfo monotono su una roccia. A Kikyou sembra che, per qualche misterioso prodigio, un frammento del giardino di sensei Nobunaga sia stato trasportato in mezzo alla foresta.

Al centro esatto dello spiazzo leva orgogliosa il capo un’unica peonia sbocciata.

Il fiore pare a Kikyou splendido da non sembrare vero, coi suoi innumerevoli petali violetti a dargli la forma di una piramide, traslucido come una statua di giada. Spicca come una goccia di sangue su un manto verde.

Kikyou ride e batte le mani contenta, incapace di trattenersi a quella vista stupefacente.

 

“Sensei! Siete stato voi! Ma come avete fatto!? E quando?”

 

Sorridente, scruta il viso di Nobunaga, ma l’aria grave di lui raffredda il suo entusiasmo.

 

“Sono stato qua diverse volte. E’ stato un lavoro lungo e difficile, preparare il teatro per l’ultima prova. E sì, Kikyou, avevi ragione. E’ per te. E’ sempre stato per te.”

 

Kikyou drizza le spalle. Nobunaga la invita a seguirlo con un cenno della mano e si avvicina al cuore del giardino, poi si inginocchia a pochi metri dalla peonia.

 

“Ricorda. Finché siamo nel bosco, la mia vita è nelle tue mani.”

 

Chiude gli occhi.

 

Sgocciolano i minuti, lenti come olio. Un’aura di grande potere si addensa. Non può impedirsi di fare una passo indietro, quando una donna alta e bellissima si materializza, apparendo silenziosa da uno squarcio nell’aria. Altera quanto una regina, non la degna di uno sguardo. Il viso squisito e impassibile si ammorbidisce quando posa gli occhi sull’uomo inginocchiato davanti a lei.

 

“Mio amato.” Dice.

 

 

 

Lei si ricorda di tutta la sua vita.

Ricorda quando, assieme alle sue sorelle, l’uomo l’aveva messa nella sacchetta. Erano tutte una addosso all’altra, e ridevano e sussurravano i loro ruvidi sussurri soffregandosi pelle a pelle. Il viaggio era stato breve e poi la mano gigantesca dell’uomo le aveva sepolte, sole, nella terra umida. Del buio non ha mai avuto paura. Il buio e la terra sono accoglienti, l’hanno sempre cullata con braccia morbide. Non ha mai capito perché gli esseri umani ne hanno paura, e in fondo non le è mai importato capirlo. Era passato del tempo, e aveva imparato a riconoscere il passo dell’uomo. La venuta dell’uomo spesso coincideva con la dolce acqua. A volte la terra che la teneva sepolta veniva rimestata, quando arrivava l’uomo col suo passo rumoroso, e poteva capitare che la luce la toccasse qualche istante. Neanche l’uomo l’aveva mai spaventata. L’uomo si prendeva cura di lei, le parlava e a volte cantava, e nella sua voce c’era una dolcezza che le faceva venire voglia di uscire dalla morbida terra. Quando l’uomo parlava, ma non a lei, non c’era mai quella dolcezza nella sua voce.

Lei non sapeva come uscire dalla terra, però. Finché (era passato altro tempo), un dolore strano l’aveva afferrata in una morsa, continuo e più forte. Ma c’era la voce dell’uomo, così lei non aveva avuto paura, neppure quella volta, neppure quando la sua pelle si era crepata fino a rompersi. Neppure quando il dolore l’aveva spezzata e aveva creduto d’esser morta, aveva avuto paura. C’era l’uomo là fuori da qualche parte che la aspettava.

Aveva imparato con stupore la forma del suo nuovo corpo. I suoi piedi, piccolini ma intrepidi, avevano assaggiato la terra che le dava la vita. Aveva levato la testa, spingendo un pochino per volta, cocciuta; avrebbe sempre amato la terra che l’aveva protetta, ma adesso voleva conoscere la luce solo poche volte intravista. E anche l’uomo che parlava e cantava e portava, assieme al suo passo rumoroso, l’acqua che la dissetava.

Era stata svelta. Era stata forte. E vedere la luce era stato bello come aveva immaginato. Aveva teso verdi dita minute verso la faccia gialla e aveva riso di gioia perché era bello essere viva ed essere giovane e stare sotto la burbera faccia gialla.

Quando poi l’uomo era venuto le aveva sorriso e le aveva detto che era stata brava e che era fiero di lei e l’aveva accarezza con la punta di un dito e la sua carezza era stata così lieve e così tenera che si era scossa tutta. Qualunque cosa! Qualunque cosa avrebbe fatto e dato, per ricevere altre carezze e altre lodi.

Era passato altro tempo, stagioni fredde nelle quali si addormentava e tornava all’abbraccio materno della morbida terra, e stagioni calde nella quali era sveglia e vispa, e l’uomo veniva sempre, e lei cresceva e diventava robusta e alta. Aveva steso le braccia come una donna che si sveglia, tante braccia che crescevano in numero e lunghezza, e aveva imparato a spalancare i palmi verdi alla burbera faccia gialla che amava quanto la morbida terra, persino quando la baciava tutto il giorno, nella stagione in cui stava a lungo in cielo, e alla fine della giornata le sue braccia erano stanche e piegate. Ma sapeva che i baci della burbera faccia gialla erano i soli baci che conosceva e che faccia gialla non sapeva amare in nessun altro modo. Eppoi c’era l’uomo che le portava acqua e parole gentili, canzoni e carezze leggere, alla fine di quelle giornate, e lei si sentiva scoppiare, di vita e di qualcos’altro.

C’erano le sue sorelle vicino a lei. Non tutte, perché alcune non erano state capaci di uscire dal letto della morbida terra, e si erano assopite poco a poco finché le loro voci non erano sparite del tutto in un sonno senza più risveglio.

Le sorelle che non si erano addormentate per sempre le facevano compagnia, e a volte fra loro ciarlavano; specie quando il vento giocava a rincorrersi da sé solo tra le loro braccia e di tanto in tanto rifilava loro uno spintone che le faceva gridare di eccitazione e spavento.

Ma le sue sorelle parlavano fra di loro più che con lei, perché lei era la preferita dell’uomo. Tutte lo sapevano ed erano gelose. Lei era stata la prima a uscire dalla terra, lei era più alta di loro, più forte di loro, e a lei l’uomo dedicava più attenzione e più affetto che a tutte loro.

Era passato altro tempo ancora: sette volte le quattro stagioni, e lei aveva capito che qualcosa di nuovo le stava capitando. Sulla sua testa la cosa nuova e misteriosa si stava ingrossando e appesantendo. Lei non se ne era preoccupata, era forte abbastanza da sopportare molte volte quel peso. Anzi, era euforica e agitata perché sapeva che la cosa nuova e misteriosa era il compimento, la ragione ultima della sua stessa vita; e le nuove e più amorevoli cure dell’uomo avevano alimentato la sua certezza.

La prima volta nella sua vita in cui aveva conosciuto la paura era stato il giorno in cui l’uomo aveva scavato la morbida terra attorno a lei e aveva messo in una sacca la terra assieme ai suoi piedi, che nel passare delle stagioni si erano fatti robusti e lunghi, e l’aveva portata via dalle sue sorelle e dal posto verde che era stato il suo mondo. Non capiva perché l’uomo aveva voluto portarla via dalla sua casa e aveva combattuto la paura con la fiducia che nutriva per l’uomo che l’aveva accudita da sempre.

L’uomo era entrato in un bosco buio e pieno solo di alberi. Gli alberi non erano cattivi, non proprio, ma erano forti e vecchi e mal sopportavano qualsiasi presenza salvo la loro. Tenevano fuori persino burbera faccia gialla, accontentandosi di lasciargli scaldare solo le loro più alte fronde. La sua paura sarebbe diventata terrore, se l’uomo non avesse cominciato a cantare (senza aprire la bocca, però) costringendo gli alberi e le altre cose nel buio a lasciarli passare.

Erano arrivati in uno spiazzo che assomigliava al posto verde che era stato il suo mondo. Un anello di pietre lo circondava, e nel disegno di quelle pietre c’era l’impronta dell’uomo, così come nella terra dove lei affondava i piedi c’era la sua impronta. Il buio del bosco non poteva oltrepassare le pietre e burbera faccia gialla l’aveva baciata non appena erano entrati nello spiazzo. Lei aveva subito alzato la testa che non si era accorta di aver chinato. Non era mai stata tanto contenta dei baci della burbera faccia gialla.

L’uomo l’aveva liberata dalla sacca, e aveva messo i suoi piedi e la terra in un buco al centro dello spiazzo. Per tutto il resto del giorno si era preso cura di lei, aveva posto vicino ai suoi piedi altra terra, ricca e scura, le aveva dato da bere, l’aveva accarezzata, le aveva detto di essere coraggiosa, le aveva detto che era bella, e lei si era scordata la paura, gioendo di tutte le sue attenzioni.

Quando se n’era andato, non aveva sofferto la solitudine, anche se non c’era nessuna delle sue sorelle. C’erano altre cose. C’erano cose che non aveva mai conosciuto, cose di cui lei non sapeva il nome e che erano capaci di parlare con lei e di ascoltarla. Le cose le parlavano e parlandole le insegnavano. I nomi, per esempio. Che tutto aveva un nome. Burbera faccia gialla si chiamava sole (ma per lei sarebbe stata sempre burbera faccia gialla). Gli alberi erano salici. Il posto verde in cui era cresciuta, e pure quello dove l’uomo l’aveva portata, si chiamava giardino. E, no, non sapevano come si chiamasse l’uomo. E lei? Lei non aveva un nome? Le cose avevano riso e le avevano detto che sì, certo che aveva un nome!

Lei si chiamava weize, che significa ‘regina dei fiori’, ed era una peonia.

Una volta abituatasi alla sua nuova casa, Weize era stata molto felice del cambiamento, perché dove stava ora poteva imparare tantissime cose che altrimenti non avrebbe mai saputo. E poi c’era la cosa nuova e misteriosa (a volte se n’era quasi dimenticata, persa nel turbine di cambiamenti che aveva catturato la sua vita) che cresceva e … e cosa?

Le voci del bosco avevano chiamato la cosa nuova e misteriosa ‘gemma’ e Weize aveva pensato che non potesse esserci un nome più giusto, e le avevano detto che presto sarebbe sbocciata.

Così era stato. Dopo una notte insonne di travaglio e fatica e gioia era fiorita. Voleva fiorire e nient’altro: tutta la sua vita precedente era stata la preparazione di quell’unico evento. E voleva fiorire in quella mattina perché sapeva che l’uomo sarebbe venuto e voleva ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lei nell’unico modo che conosceva.

Aveva udito il suo passo familiare. Aveva steso i suoi mille petali viola e non aveva avuto alcun timore nella perfetta certezza della sua bellezza.

E l’uomo era arrivato e quando l’aveva vista erano stati perduti entrambi. Si era inginocchiato, le aveva sorriso, aveva cantato e il suo canto era poesia e la sua poesia non era da meno della bellezza di lei e lei sapeva cos’era quel che rendeva bello il suo canto.

Era stato come sbocciare di nuovo. C’erano occhi da aprire per vederlo come non aveva mai fatto. Poteva guardarlo dall’alto perché gli occhi si aprivano in un viso, e sotto il viso un corpo simile a quello dell’uomo eppure dissimile: candido e tiepido; occhi verdi, capelli di fuoco e bocca rossa; membra sottili, dolcezza nei fianchi e morbidezza del seno. Avrebbe avuto tempo, dopo, di prendere confidenza col suo nuovo corpo: e non era certo quella la prima volta che le succedeva qualcosa del genere. La sua felicità era per una cosa soltanto: avere una bocca per poter parlare, e, dopo tutti quegli anni, chiederglielo.

“Qual è il vostro nome, mio amato?”

L’uomo era restato in ginocchio.

“Mi chiamo Nobunaga. E tu conosci il tuo nome, Kashin?”

Aveva sorriso.

“Io so di chiamarmi Weize e so che vi amo, Nobunaga. E voi mi amate, mio amato?”

L’uomo aveva chinato la testa come per una sconfitta.

“Ti amo, mia amata.”

E Weize gli aveva carezzato il volto rugoso e gliel’aveva sollevato, poi l’aveva fatto alzare, gli aveva preso le rugose mani, che da sempre conosceva, le aveva guidate su di sé e gli aveva chiuso la bocca con la sua bocca nuova.

 

Ognuno dei suoi giorni era ricco come un anno della sua vita precedente. Aveva imparato cos’era e cos’erano le cose che le avevano parlato prima della sua ultima fioritura. Youkai. E lei era una regina. Regina tra i fiori e regina tra gli youkai, superiore in bellezza e superiore in potere, poiché quel che le aveva dato vita era quanto di più forte, esclusivo e spaventoso youkai e umani potessero conoscere e condividere.

Fin nei più remoti angoli del bosco poteva spingere il suo sguardo, e dai più remoti angoli del bosco venivano per renderle omaggio, prostrarsi ai suoi piedi e baciare la terra nella quale affondava le radici – sì, conosceva ora tutti i nomi e tutta la propria vita, fin da quando era stata un seme.

E il suo amato Nobunaga andava tutti i giorni da lei e le cantava poemi ispirati dal suo amore, e lei ascoltava e imparava e gli parlava dei segreti degli youkai. Poi venivano altri segreti da conoscere assieme, ed estasi che le ricordava un po’ – ma molto più grande e forte – i baci della burbera faccia gialla.

 

Sarebbe dovuto essere tutto perfetto e non capiva da dove veniva l’ansia crescente che non smetteva di tormentarla.

Proprio su questo si stava interrogando la mattina in cui aveva visto il suo amato entrare nel bosco accompagnato dalla ragazza pallida. Ne era stata sbalordita e non solo. Un pungolo bruciante, aveva sentito, e si era chiesta se era quello che provavano le sue sorelle quando Nobunaga dedicava a lei la maggior parte delle sue attenzioni.

Col cuore in gola, aveva assistito impotente gli youkai cercare di uccidere il suo amato, traendone furore e spavento: il suo potere era inutile, poiché confinato dal cerchio di pietre della radura. Non le era mai capitato di preoccuparsi dell’incolumità di Nobunaga, perché lui sapeva proteggersi facilmente da tutti i pericoli che abitavano il bosco dei salici. Ma quella mattina era diversa. Il suo amato non si difendeva, aveva messo la sua vita nelle mani della sciocca ragazzina pallida. Se gli fosse successo qualcosa, gli youkai e la ragazzina avrebbero assaggiato la violenza della sua vendetta: pietre o non pietre, avrebbe trovato il modo di raggiungerli e di farla pagare a tutti quanti.

Ma la ragazzina pallida sapeva combattere abbastanza bene, doveva dargliene atto. Weize aveva capito che il suo amato stava venendo da lei, seppur seguendo un percorso lungo e tortuoso. E perché si era fatto accompagnare dalla ragazza? L’ansia era cresciuta a dismisura dentro di lei. Poco prima che arrivassero si era nascosta, ma quando Nobunaga le si era avvicinato e si era inginocchiato non aveva potuto resistere.

In tutta la sua inumana bellezza gli era apparsa, perché la gioia di potergli solo rivolgere la parola le era avvinghiata dentro, come le sue radici erano avvinghiate al terreno.

E “Mio amato.” Aveva detto.

 

 

Lo sconcerto di Kikyou la lascia paralizzata e incapace di pensare. Lo spirito della peonia ha preso vita diventando Kashin. Non ha mai neppure immaginato che potesse esistere una tale bellezza. Deve imporsi di non inginocchiarsi vicino al suo sensei per la riverenza che le ispira. Poi il senso del saluto con il quale il Kashin si è rivolta a Nobunaga si fa strada nella sua mente. ‘Mio amato’? Un velo di sudore sulla schiena la fa rabbrividire. Negli occhi della youkai brucia un violento fuoco verde che le fa accapponare la pelle talmente è intenso.

“Perché non mi rispondete, mio amato? Che cos’avete? Siete forse arrabbiato con la vostra Weize?”

Nobunaga resta immobile, il respiro cadenzato, le palpebre abbassate.

Weize per un attimo pare perplessa, poi si rizza in tutta la sua statura, e le si rivolge con un tono tanto sprezzante quanto era tenero quello che ha usato per parlare a Nobunaga.

“Ho dimenticato l’educazione e me ne scuso.” Comincia, senza dare la benché minima impressione di scusarsi di alcunché. “Hai protetto il mio amato e devo ringraziarti per questo, ragazza pallida. Ora, dimmi. Sai per quale ragione mi sta ignorando? Il mio sguardo vi ha seguiti per tutto il tempo e sono certa che non sia stato ferito. Dunque, perché non mi parla? Ti prego di rispondermi.”

L’imperioso portamento e la regalità di Weize fa tremare le labbra di Kikyou alla ricerca di una risposta che non possiede.

Scrolla la testa e parla mossa da un’ispirazione improvvisa.

 

“Io ti conosco. Ti ho già vista. Nel giardino di sensei Nobunaga. Sì. Ho innaffiato le piante di peonia che lui seminò nell’anno in cui giunsi al tempio. Tutte. Ma non tu. Mi disse … lui mi disse di innaffiare … di innaffiare tutte voi. Tranne te.”

 

Lo sguardo di Weize sembra passarle attraverso.

 

“Non hai risposto alla mia domanda, ragazza pallida.”

 

“Mi chiamo Kikyou.”

 

Un sopracciglio alzato.

 

“Porti il nome di un fiore. Ubbidiscimi, dunque. Dei fiori, come di questo bosco, io sono la regina.”

 

Kikyou deve lottare contro lo sconcerto che non si lascia allontanare e anche tenere a bada la paura, perché il potere del Kashin è tangibile e indispettirla potrebbe rivelarsi pericoloso.

 

“Perché sensei Nobunaga ti ha portata qui? Quale ragione …?”

 

“Che importanza ha? Perché il mio amato mi sta ignorando? Rispondi!”

 

Occhi scuri incrociano occhi verdi. Kikyou si piega in una riverenza.

 

“Permettetemi di scoprirlo, mia regina.”

 

Il Kashin la scruta piena di sospetto, poi annuisce secca.

 

Kikyou leva il suo canto, lasciandolo rimbalzare tra Weize e Nobunaga, la voce incerta, l’orecchio teso, alla ricerca di quel che il suo sensei vuole farle capire.

Le pupille le si dilatano per il panico quando tocca le radici del Kashin. Radici affondate fin nel profondo nella tamashii del suo sensei.

 

“Sono stata portata qui per ucciderti, Kashin.”

 

 

 

Una voce di ragazza, tremante ma bella, carezza il suo orecchio e svanisce.

 

“Cosa?” Onigumo inclina il capo in ascolto.

 

 

 

Weize si mette a ridere di una risata colma di disprezzo.

 

“Mio piccolo fiore, è molto sciocco da parte tua covare simili pensieri e, soprattutto, condividerli con me a voce alta.”

 

Torce la mano affusolata che un attimo prima era posata lieve sulla sua bocca e Kikyou viene scaraventata a terra in un battito di ciglia.

 

“Provaci, ragazzina.”

 

Kikyou torna in piedi con una torsione. La sua avversaria ha un sorrisetto divertito e attende a braccia conserte.

 

“Non te ne sei accorta, Kashin?” dice, invece di attaccare. Ingaggiare battaglia col Kashin potrebbe esserle fatale.

 

“Di cosa mi sarei dovuta accorgere, piccolo fiore?” Divertita. Ma forse la luce verde dei suoi occhi ha tremolato?

 

“Lo stai consumando. Non dirmi che non ti sei resa conto che lo stai consu …”

 

Kikyou si ritrova sbattuta a terra sulla schiena, senza fiato, le costole le scricchiolano. La barriera sacra che ha provato a levare per proteggersi è finita sbriciolata in un istante.

 

“Non so di che parli, piccolo fiore.”

 

Kikyou solleva il collo, sbattendo le palpebre per scacciare i puntini luminosi che ballano nel suo sguardo. Si rialza in piedi, usando l’arco per fare leva. Sfila una freccia dalla faretra e la lascia partire con tutta la sua velocità e la sua letale perizia. La freccia si incendia di luce bianca, ma si blocca a mezz’aria per spezzarsi con uno schiocco secco.

 

“Ti ho vista combattere, piccolo fiore. Sì, sei abile. Ma non abbastanza, credimi.”

 

“Sensei Nobunaga ha affidato a me la sua vita fino al termine della mia prova. Non dirmi che non sapevi quello che …”

 

Weize le balza contro, buttandola a terra per la terza volta. Il volto bellissimo e contorto dalla furia è a pochi pollici dal suo, i polsi imprigionati in una morsa. Kikyou invoca tutto il suo potere e le basta appena per impedire al Kashin di fracassarle le braccia.

 

“E’ malia, mia regina. Non amore. E lo sta uccidendo.”

 

“Bugiarda!” ringhia. “Noi ci amiamo! Non me lo porterai via! Sarò io a uccidere te!”

 

Kikyou riprende il suo canto interrotto.

 

 

 

Non si è mosso. Nulla si è mosso. Aspetta, il respiro lento, i peli delle braccia ritti per la tensione. Non se l’è immaginato. Aspetta.

Poi sorride.

Il canto di ragazza è ricominciato.

 

 

 

Weize trattiene al suolo con violenza la ragazza pallida. Se non stesse usando il suo potere per proteggersi, l’avrebbe già uccisa. Ma non importa. E’ una questione di tempo. Non sarà in grado di resistere ancora per molto e neppure lotta per sfuggirle.

Il piccolo fiore non potrà sopravvivere a lungo; e questo perché, come tutti i fiori …

Weize si irrigidisce, il pensiero spontaneo nato nella sua mente la trafigge come se fosse la punta della freccia che ha spezzato poco fa.

Il piccolo fiore, ragazza pallida, Kikyou, torce la bocca nella smorfia di un sorriso, parlandole attraverso il suo canto.

“Lo hai capito, vedo, Kashin. Lo sai, no? Quanto vive un fiore, intendo.”

Weize si ritrae con un urlo di angoscia, cadendo sui gomiti e pedalando coi talloni per allontanarsi da Kikyou.

“No! Ragazza malvagia! No, no! Malvagia e bugiarda!”

Gli occhi scuri e gelidi della ragazza la imprigionano.

 

“Lo hai sempre saputo, Kashin. Lo hai sempre saputo, ma hai preferito ignorarlo. Lo chiami amore?” La ragazza malvagia ride con un disprezzo non dissimile a quello che lei le ha riservato poco prima. “Se fosse amore ti saresti fermata.”

 

Weize si ricompone, chiudendosi al dolore per non mostrarlo alla ragazza malvagia che la vuole uccidere.

Non tremerà e non avrà paura. Non ha mai avuto paura con il suo amato accanto e se dovrà morire oggi non lo farà tradendo quello che è sempre stata.

Si rizza in piedi, gettandosi i capelli all’indietro.

“Ti sbagli, Kikyou. Puoi crederlo se vuoi, ma sbagli. L’amore non è fatto per lasciare andare chi si ama.”

 

La ragazza malvagia si rialza anch’essa.

“Dagli il nome che preferisci, Kashin, ma lo stai uccidendo. Quel che c’è fra voi non è permesso, né tra la mia gente, né tra la vostra. Tu lo sai il perché. Per quanto lui sia forte, il suo bisogno lo sta distruggendo. Per quanto tu sia forte, il tempo della fioritura è già finito. Con tutto il tuo potere, non potrai tenere a bada la morte ancora per molto.”

 

Weize trema, ferita dalle parole gelide della ragazza.

 

“Sei crudele. Io l’ho amato da sempre. Non posso fare altro, perché quello che sono non si può cambiare. Cosa faresti tu al mio posto, piccolo fiore?”

 

Kikyou non le risponde, immobile.

 

Weize alza la faccia verso la burbera faccia gialla e sorride. No, non c’è ragione di avere paura davanti a questa ragazza.

 

“Hai ragione, piccolo fiore.” Annuisce, come se Kikyou le avesse risposto, il volto baciato di continuo dalla burbera faccia gialla. “Io sono quella che sono e non posso essere diversa, proprio come te.”

Incrocia di nuovo i suoi occhi in quelli scuri della ragazza.

“Io sono stata fatta per amare, anche se tu credi che non ne sia capace. E tu, che invece sei umana, sei stata fatta per il vuoto. Perciò, anche se oggi tu mi ucciderai, io piangerò per te, piccolo fiore.”

 

La ragazza non riesce a nasconderle il suo stupore. Weize sorride mesta e si inginocchia vicina al suo amato, accarezzandogli il braccio.

“Davvero il mio amore vi sta uccidendo, mio amato? Mi dispiace. Perdonatemi! Non è mai stata mia intenzione farvi del male. Se devo morire per voi, morirò. Sarò coraggiosa. Voi mi avete sempre detto quanto io sia …” La gola stretta, non riesce a andare oltre. Stringe il braccio che sta accarezzando, si avvicina alla bocca del suo amore per baciarlo un’ultima volta. “Non potete dirmi addio, almeno, mio amato? Non vi chiederò niente di più. Solo quest’unica cosa.”

Freme, piena della speranza di sentire la sua voce. Sfiora le sue labbra con le labbra.

Nulla.

 

Si alza un’ultima volta, le spalle dritte di fierezza, e annuisce.

 

“Ho capito.”

“Fai quel che devi, piccolo fiore.”

 

 

 

Cammina a passo svelto nella direzione del canto. Vuole sbrigarsi, vuole trovare la proprietaria di quella voce prima che si azzittisca. Vuole vedere. Vuole ascoltare.

Vuole.

 

 

 

Ora che il Kashin le ha dato il permesso e se ne sta diritta di fronte a lei, vicina al suo sensei inginocchiato, e la fissa con occhi verdi e lucidi, Kikyou esita. E’ così bella e così … così …

Scrolla la testa. No: è solo la malia del Kashin, nient’altro. Deve stare attenta a non farsene irretire come ha fatto Nobunaga. Ma adesso, come farà?

 

Il Kashin le sorride per la prima volta da quando si sono incontrate e il suo sorriso ha il potere di trasformarle il viso in qualcosa di ancora più bello, luminoso e impavido.

 

“Non sai come fare, piccolo fiore? Se mi uccidi ucciderai anche lui, giusto?”

 

Kikyou annuisce, troppo sorpresa per rispondere.

 

“Il mio amore ha fatto radici dentro il mio amato. C’è solo una cosa da fare, dunque. E se lui ti ha portata qui, vuol dire che è convinto che tu ne sia capace.”

 

Kikyou si piega per la seconda volta in una deferente riverenza: ma questa volta non c’è inganno nel suo gesto.

 

“Siete davvero coraggiosa, mia regina. Ora capisco perché sensei Nobunaga vi ama.”

 

Kikyou si abbandona alla musica, lasciandosene catturare, e intreccia il suo canto con la danza.

Miko-mai.

 

 

 

C’è una radura e quando Onigumo scosta i rami di un salice la scena che gli si presenta non ha alcun senso, e lui si chiede se per caso non è impazzito come l’ubriacone gli ha detto che sono impazziti i pochi sopravvissuti usciti dal bosco.

Cosa ci fa qua un giardino? Un giardino piccolo, ma completo in ogni suo aspetto, compreso uno di quegli odiosi sozu che con il loro tonfo continuo gli han sempre allegato i denti.

E poi c’è  un vecchio prete con il naso schiacciato che se ne sta in ginocchio a occhi chiusi.

E c’è, e questo è interessante, una ragazzina dai folti capelli neri, vestita di bianco, che gli gira la schiena. E’ lei la cantante la cui voce l’ha attirato sin qua. Ulteriore stranezza, sembra che la ragazza stia parlando mentre canta (e come ci riesce?), rivolgendosi a un invisibile interlocutore. Onigumo strizza gli occhi in due fessure: no, non c’è nessun altro. Che succede?

Ma la silenziosa domanda viene subito dimentica, perché in quel momento la ragazzina solleva un braccio al cielo e, piegandosi nella movenza più aggraziata che Onigumo ricordi di aver mai visto in vita sua, comincia a danzare.

 

 

 

E’ come se le radici del Kashin fossero abbarbicate alla musica del Fato. La voce di Kikyou e i suoi passi disegnano un intrico nella terra in cui Weize è piantata, risalendo fino a toccare la tamashii di Nobunaga. Il tumulto combinato delle passioni del suo sensei e del Kashin la colpiscono con tale violenza da farla urlare e perdere l’equilibrio. Si sente un pescatore che affronta la più violenta tempesta su una fragile barchetta.

 

 

 

La ragazza fa qualche passo di danza, ma cade a terra con un grido. Scuote la testa e sembra che rialzarsi in piedi le costi fatica. Apre e chiude le mani a pugno.

Poi leva di nuovo il canto e lo splendore della sua danza gli strappa un rantolo rauco dalla gola.

 

 

 

Kikyou afferra la prima radice del Kashin, sciogliendone il viluppo attorcigliato attorno all’anima del suo sensei. Dolore come lame le si conficca nei polpacci, più intenso a ognuno dei suoi passi di danza.

 

 

 

La ragazza sta ballando intorno al vecchio inginocchiato, ma Onigumo ha occhi solo per lei. Non ha mai veduto niente di altrettanto meraviglioso. Se solo riuscisse a guardarla in viso. Se solo …

Appena sotto al canto, il sommesso brusio si fa risentire.

 

 

 

Per ciascuna delle radici che riesce a strappare, il dolore si fa più straziante, tormentandole il cuore come non avrebbe mai creduto. Lacrime le scorrono lungo le guance e tutta la forza del suo addestramento è ridotta a niente. Sposta lo sguardo da Nobunaga a Weize. Molti dei petali della peonia si sono arricciati, perdendo il loro vigoroso violetto per diventare di uno spento color marrone.

Ma il Kashin non sembra spaventata. La sua bellezza è intatta e quando si accorge che la sta fissando, le sorride per incoraggiarla.

Kikyou avverte qualcosa rivoltarsi dentro di sé. Scuote la testa, pur senza smettere di ballare e cantare.

“No, non ci riesco, non posso. Non credevo che ...”

Il Kashin le muove incontro e solo allora Kikyou si accorge che numerosi squarci si aprono sulle sue caviglie e sui piedi. Lascia dietro di sé impronte sanguinolente sull’erba mentre le si avvicina per sorreggerla, prendendole un gomito.

“Stai facendo bene, piccolo fiore. Non fermarti adesso.”

E poi Weize le mozza il fiato per l’incredulità quando, con voce soave e sicura, affianca al suo canto uno dei canti di potere di sensei Nobunaga.

 

 

 

La ragazza incespica, ma ritrova l’equilibrio in qualche modo. Però ha rallentato i suoi movimenti. Se dovesse girarsi verso l’albero dietro il quale è nascosto, se i suoi capelli si scostassero al momento giusto, allora forse potrebbe …

Il brusio nelle sue orecchie aumenta di qualche ottava. Onigumo irrigidisce di scatto le spalle, le narici dilatate come un animale, il suo sopraffino istinto di sopravvivenza all’erta come non mai. Dimentica la ragazza per una manciata di secondi, dardeggiando l’oscurità alle sue spalle. Il gelo del bosco gli serra lo stomaco.

 

 

 

Sostenuta dal canto del Kashin, Kikyou sente nuovo vigore scorrere dentro sé e riesce a recidere le ultime radici.

Weize le sorride mentre il suo corpo impallidisce.

 

“Mi dispiace! Mia regina! Weize! Mi dispiace, oh mi dispiace tanto!”

 

 

 

Il suo nuovo corpo sta scomparendo e, anche se lei sa che non ce ne saranno altri, non è spaventata. Nei pochi giorni della sua fioritura ha conosciuto il compimento della sua vita. Cosa può chiedere di meglio, un fiore?

La sua voce si affievolisce, incapace di proseguire il canto d’amore che il suo amato cantò per lei la mattina in cui la vide sbocciata. Le guance del piccolo fiore sono solcate di lacrime, poiché si è presa carico del dolore di tutti loro. Le sorride. Vorrebbe dirle che non la odia, che le è grata per avere salvato il suo amato. Schiude la bocca, ma proprio in quel momento un gelo nuovo la ferisce. C’è qualcosa nascosto dietro a un salice. Qualcosa di morto e che, come tutte le cose morte, era fin’ora riuscito a sfuggire alla sua vista, ma che adesso sta prendendo vita.

L’immagine che si presenta alla sua mente è quella di un bruco: uno di quei grassi, bianchi bruchi ciechi, ottusi e sempre affamati, tutti zampe e denti, uno di quei mostri che Nobunaga teneva lontano dal giardino in cui ha trascorso la sua infanzia. Oh sì, certo, quei bruchi a volte diventavano delle bellissime farfalle. Ma non questo: ciò che è destino debba nascere da questo bruco è nero e informe, mostruoso oltre ogni immaginazione, ed è un pericolo. E c’è un fiore in particolare, che questo bruco vorrà divorare a qualsiasi costo.

Weize prova a sollevare il braccio, ma si accorge di essere caduta in ginocchio senza accorgersene. Kikyou sta ruotando su se stessa negli ultimi passi di danza, il canto sta raggiungendo l’apice.

 

“Attenta, piccolo fiore!” la sua voce è inudibile. “Nessun fiore è destinato a vivere a lungo. Stai attenta! Attenta all’Oni!”

 

 

 

La danza e il canto della ragazza sono di una tale, struggente bellezza, da lasciarlo paralizzato. Cos’è questo nodo nel fondo della gola? E adesso la ragazza sta per voltarsi proprio di fronte a lui. Vedrà il suo viso. Eppure il gelo è più fitto che mai, gli entra nelle ossa, il brusio nelle orecchie cresce e cresce, diventa un ronzio, gli trapana il cranio, quasi sembra che ci siano parole e lui non deve udirle, altrimenti …

La gola strozzata, Onigumo geme un rauco “No!” e si schiaccia le mani sulla faccia un momento prima che la ragazza si volti del tutto.

Guarda. Guarda la tua morta sposa, morto dentro. Guardala e datevi l’un l’altra l’unico amore che vi meritate.

 

Le mani schiacciate in faccia come un bambino, Onigumo divarica un po’ le dita.

 

 

 

Kikyou intravede soltanto il Kashin, tra le lacrime che le velano gli occhi, crollare in ginocchio, sorridente alla morte. Poco prima di svanire per sempre, ritornando alla terra che le ha dato la vita, la sua espressione cambia e muove le labbra come per dirle qualcosa.

 

Attenta, piccolo fiore. Nessun fiore è destinato a vivere a lungo.

 

Non capisce se aggiunge altro. Il corpo pieno di ferite si accascia e Kikyou assapora, indifesa, la sua morte.

 

 

 

Le sue dita si divaricano, contro la sua stessa volontà, il bisogno di sbirciare è irresistibile, vedere i lineamenti della ragazzina vestita di bianco, chissà chi è, chissà com’è fatta, chissà …

Con un ringhio, Onigumo si torce, scostando la testa come se avesse ricevuto un pugno, cade a quattro zampe e gattona, goffo, allontanandosi dal giardino e dalla ragazza che sta ballando.

 

Guarda, Onigumo. Guarda. Morto dentro, guarda.

 

“Ah-ah, no, non va bene, no non oggi, ci sarà già un’altra volta oggi no, no, no …”

 

Borbotta le sue smozzicate negazioni senza avvedersene e scappa quasi strisciando dal più grave pericolo che abbia mai conosciuto.

 

 

 

Nobunaga solleva le palpebre e si poggia il palmo sul petto, dove pulsa un vuoto doloroso e desolante.

Kikyou è inginocchiata e sta piangendo in silenzio accanto alla peonia annerita e morta fino alle radici. Nelle mani a coppa regge la corolla, tutta grigia e marrone e consumata. La culla piano e lui la sente mormorare tra le lacrime.

Si avvicina e coglie qualche parola tra i singhiozzi.

“Mia regina perdonatemi, mi spiace, non volevo! Oh, guardate cosa vi ho fatto, io …”

Le posa la mano sulla spalla, ma Kikyou se la scrolla via con un grido, travolgendolo con un’occhiata piena di rabbia.

“Non mi toccare!”

E poi si rannicchia come se dovesse proteggere il fiore morto che tiene tra le mani.

Nobunaga afferra la spalla sottile della ragazza con più decisione. Stavolta lei non si sottrae, limitandosi a piegarsi di più su se stessa.

“Kikyou.” Mormora, si china su di lei, le scosta i capelli e le asciuga le lacrime dalle guance con il pollice.

Weize è la sola che saprebbe riconoscere tutta la dolcezza del suo gesto.

“Kikyou.” Insiste. “In piedi. Avanti. Alzati.”

Scrolla la testa, muta; poi posa la corolla avvizzita accanto allo stelo morto e annuisce.

 

 

 

Onigumo ha corso carponi, ignorando i palmi sbucciati, e malfermo sulle gambe ha ritrovato l’equilibrio, senza smettere di correre neppure per un attimo. Ha i capelli ritti, ansima e corre come se tutte le sue vittime lo stessero inseguendo: deve uscire da questo bosco prima che il vociare nelle sue orecchie diventi intelligibile. Altrimenti …

 

 

 

Lacrime asciugate, capo orgoglioso levato, sguardo perso a scrutare lontano.

 

“Hai superato tutte le prove alle quali ti ho sottoposto, miko Kikyou. Da questo momento in avanti tu sei una miko, la più giovane che abbia mai addestrato. Dimmi: conosci ora il nome dei tuoi più temibili nemici?”

 

“Sì, sensei Nobunaga.” Voce composta, fredda quanto lo sguardo.

 

“Sono forse gli youkai, miko Kikyou?”

 

“No, sensei.”

 

“Sono il dolore, la perdita, la paura?”

 

“No, sensei.”

 

 

 

Ci sono parole nelle sue orecchie: Onigumo si sforza di non ascoltare e corre, salta per schivare radici che vogliono fargli lo sgambetto, ignora rami che gli frustano la faccia ed ecco che forse c’è una luce là in fondo; in mezzo a quei tronchi finisce la tenebra stregata del bosco dei salici …

 

Non vuoi vedere? Non vuoi sapere? Sì che lo vuoi. Chiedici pure, non avere paura, chiedici il suo nome, noi che conosciamo il nome di tutte le cose e possiamo insegnarlo a chi ci compiace. Devi solo chiedere: chiedi il suo nome.

 

 

 

“Dimmi i loro nomi, dunque.”

 

“I nomi dei miei nemici più temibili, sensei, sono amore …”

 

 

 

“No, oggi no no non oggi …”

 

Ma c’è una parte di lui che vuole chiedere, che vuol sapere, ed è così strano! Lui, per cui i nomi non hanno mai significato niente.

 

Il suo nome, Onigumo. Il suo nome è …

K …

 

 

 

“ … e desiderio. Perché non c’è barriera che li possa fermare, addestramento per tenerli lontani, disciplina che li possa governare, equilibrio che non possano frantumare, e nella breccia lasciata dalla devastazione del loro passaggio, qualunque cosa può entrare: cupidigia, gelosia, pena, tristezza, paura, speranza, abbandono, gioia, bisogno e tutte le altre cose di cui gli youkai si sfamano. E a me non sarà concesso di conoscere …”

 

Lo sguardo di Kikyou è angosciato ma fermo.

 

“… nessuna di queste cose.”

 

 

 

Urla a squarciagola per nascondere al suo orecchio le voci invisibili e con un ultimo salto delle gambe robuste si slancia attraverso i due salici. La luce improvvisa lo acceca e non c’è più terra sotto i piedi, perché un declivio improvviso e imprevisto segna la fine del maledetto bosco. Onigumo cade urlando e mentre cade il suo urlo si trasforma in risata. Sbatte la testa e vede le stelle e ride, rotola su se stesso, incapace di frenare la sua caduta e ride, sa che potrebbe spezzarsi il collo e ride, mentre si rovescia di nuovo su se stesso, le gambe per aria e le braccia davanti alla faccia e ride, e di nuovo ricade, la caviglia sbatte contro qualcosa di duro, un sasso, la cucitura del suo stivale cede del tutto e gli vola via e ride, tira indietro la lingua appena in tempo, prima che l’ennesima botta gli faccia serrare i denti come una morsa col rischio magari di mozzargliene via un pezzetto e oh! l’idea è troppo esilarante per non farlo ridere e ridere!

Sbatte sul fondo del breve pendio, ricadendo seduto a gambe larghe, illeso, le ossa scosse da capo a piedi: la violenza della caduta tutta scaricata sui testicoli gli mozza la risata in gola.

Sbianca, a un passo dallo svenire, il dolore è una palla di piombo nel ventre, la bocca aperta e i tendini del collo tirati in un urlo silenzioso, la mano sullo scroto e si accascia piangente, sbuffa per riprendere fiato, ritrovandosi quasi a masticare l’erba, oh dolore! Ma, solo pochi minuti, e tra gli sbuffi si infila suo malgrado un cigolio sottile. Un po’ alla volta, Onigumo si rimette a ridere.

 

 

 

Percorrono una strada più breve per riguadagnare l’uscita del bosco e lo fanno in silenzio, immersi ciascuno nei propri pensieri.

Fuori alla luce, a raggiungere lo spiazzo dal quale si sono incamminati la mattina, oltrepassato uno dopo l’altro i tre torii, i rossi cancelli di accesso al santuario shinto, a entrare nel recinto di pannelli di legno che chiude il perimetro della radura sacra, accostandosi alla fonte: Nobunaga per primo e poi lei.

Kikyou si lava le mani, prima la sinistra, poi la destra, poi assieme, sfregandosele con forza fino ad arrossarle; si china, trattenendo i capelli perché non le ricadano in faccia, e procede all’abluzione rituale: l’acqua le ripulisce la bocca degli ultimi rimasugli dell’orribile sapore del vomito.

Entrambi purificati, raggiungono la campana del tempio. Nobunaga la invita con un cenno: Kikyou afferra la corda ricavando un rintocco sonoro, china il capo due volte e batte le mani; di nuovo suona la campana e si prepara ad allontanarsi, ma si trattiene, sapendo che manca ancora qualcosa. Fruga all’interno della manica, prendendo la ciocca di capelli che aveva deciso di conservare – le sembra sia passata una vita e non poche ore! – e la posa accanto alla scatola delle offerte. Ripreso il cammino, sono infine in vista del tempio vero e proprio, il Jinja: Nobunaga si lascia alle spalle le statue in pietra dei koma-inu, i cani leone preposti a proteggerne l’entrata dagli spiriti maligni, e le fa strada nell’unica stanza immersa in penombra.

Kikyou resta attonita per un po’, scrutando con cura il proprio riflesso nello specchio sacro che riposa all’interno del tempio. L’immagine è diversa da stamane – lei è diversa. La gravità e il distacco nel suo volto e nello sguardo, la postura diritta e solitaria: sì, il suo addestramento è davvero completo. Reprime un brivido, lascia che gli insegnamenti appresi in tutti gli anni passati allontanino quel che prova

(struggimento?)

e allenta i nodi della sua bianca veste da apprendista.

 

 

 

Quattro i tentativi prima di riuscire ad alzarsi da terra. Per tre volte si è accasciato, l’inguine pulsante a spedirgli nella pancia e nelle vene sofferenza di ogni colore. E tutte le volte, senza preoccuparsi di peggiorare il suo tormento, si è messo a ridacchiare, piangendo ma ridendo; perdendo i sensi alcuni minuti e belando la sua risatina ancor prima di aver ripreso conoscenza.

 

I suoi passi sono una tortura, il sudore gli finisce negli occhi in grossi goccioloni, ma seguita a scoppiare a ridere e ride come non gli pare d’aver mai riso, neppure da bambino. Le sue sorelle e suo fratello: loro ridevano a quel modo, a volte, ma avevano imparato presto a nascondersi da lui quando lo facevano, perché avevano scoperto a loro spese che ridere così se lui era a portata d’orecchio scatenava una degli incontrollabili scoppi di rabbia che di tanto in tanto lo coglievano.

Eppure adesso che assaggia la stessa risata, non può fare a meno di pensare che sia piacevole.

Prosegue per più di due ore, il sole inclinato nel tardo pomeriggio, il martellio nell’inguine ormai sopportabile, e la sua allegria non si è spenta. Lo coglie alla sprovvista di tanto in tanto e quando succede Onigumo solleva la testa al cielo ridendo, le braccia ciondoloni nella sua andatura dinoccolata ma agile.

“Visto? Non sono quel che hai detto, vecchia pazza.”

E continua così, parlando da solo, sbuffando, imprecando quando un sassolino o un ramoscello gli pungono la pianta del piede indifesa, ma traendo divertimento persino da questi piccoli incidenti che, in un altro giorno, lo avrebbero fatto imbestialire.

Si sta avvicinando alla città di Ishimatsu: di questo passo la raggiungerà prima di sera! Ride anche di questo e girando la testa vede un solitario contadino con un cappello di paglia a tesa larga, attardatosi nei campi vicino alla strada che sta seguendo, fargli un saluto sorridendo alla sua immotivata allegria.

Onigumo gli risponde con un ampio gesto del braccio, ghignando e sventolando le dita in un gesto quasi lezioso. Il contadino si leva il cappello e fa un piccolo inchino. La mano destra di Onigumo scivola dietro la sua schiena.

 

 

 

Gli hakama sono rossi, mentre l’hitoe da miko è bianco ma di una fattura diversa da quello che indossava poc’anzi. Kikyou aggiusta le pieghe delle sue nuove vesti e si lascia scorrere tra le dita il liscio nastro bianco col quale tra poco si annoderà i capelli.

 

 

 

Senza smettere di agitare il braccio sinistro, Onigumo sfila dalla cintura il pugnale e lo lascia volare a piantarsi nel petto del contadino sconosciuto che piomba fra il grano fitto senza neppure un grido.

 

 

 

“Benvenuta a voi, miko Kikyou.”

 

Kikyou volta la schiena alla miko imprigionata nello specchio.

 

“Bentrovato a voi, houshi Nobunaga.”

 

 

 

La faccia del contadino ha conservato il sorriso col quale gli ha dato il benvenuto e forse non si è neppure accorto di essere morto. Ci sono di sicuro molti modi peggiori per crepare, già.

Il ghigno di Onigumo si dilata.

“Begli stivali.” Sibila, e ride.

 

 

 

Sono una volta di più nella radura dalla quale tutto è cominciato. Nobunaga guarda la giovane ragazza e deve serrare le palpebre perché davanti allo sguardo gli è danzata l’immagine fantasma di Weize.

Perciò, incapace di trattenersi, tradisce se stesso.

“Non andartene domani, Kikyou.”

 

Kikyou non aggrotta neppure la fronte.

 

“Sensei, da domani non sarò più una vostra allieva, quindi non ho ragione di restare. Come voi stesso avete predetto, lascerò le mie stanze e il tempio per non tornare.”

 

“Potresti rimanere comunque, come miko. Hai ancora molte cose da imparare: infiniti sono gli equilibri possibili e tante le strade per smarrirli e per ripristinarli. Tu sei troppo giovane per conoscere queste cose … e …”

 

Nobunaga abbassa la testa, umiliato, quando si accorge di stare balbettando, e il viso di Kikyou si illumina di un sorriso che la restituisce alla sua vera età.

 

“Non abbiate paura per me, sensei. Sarete orgoglioso della vostra allieva, vedrete.”

 

“Ma io già lo sono, Kikyou.”

 

Torna seria per aggiungere.

 

“Vi chiedo un ultimo favore: assegnatemi come miko al mio villaggio natio.”

 

“C’è già una miko nel tuo villaggio, Kikyou.”

 

“Non più. E’ morta di tifo più di un mese fa.”

 

“Capisco. Sarà come desideri, dunque. C’è altro?”

 

“In quanto miko, rivendico il diritto di scegliermi un’allieva a cui insegnare quel che so.”

 

Nobunaga annuisce in silenzio.

 

“L’anno passato mia madre mi scrisse che mia sorella Kaede stava dimostrando anch’ella un considerevole talento nelle arti delle miko. Designo lei a essere mia allieva e la addestrerò al nostro villaggio.”

 

“Se non sbaglio tua sorella ha compiuto da poco i sei anni, vero?”

 

Tocca a Kikyou annuire e Nobunaga continua con dolcezza.

 

“E’ stato poi tanto terribile crescere qua, Kikyou?”

 

La ragazza sgrana gli occhi, imbarazzata.

 

“E i tuoi genitori? Quando è stato?”

 

“Mia madre fra i primi.” Ribatte capendo subito il senso della domanda. “Mio padre mi ha scritto di averla seppellita lui stesso. Lui ha resistito più a lungo. Ventun giorni fa. Il messaggero è partito con la sua missiva subito dopo.”

 

“Mentre Kaede …”

 

“Lei non si è ammalata, grazie ai Kami.”

 

“Potreste restare entrambe …” riprova lui.

 

“Vi ringrazio, sensei, ma preferisco occuparmene io.”

 

“Come vuoi: ma stai attenta perché, vedi?, non sei ancora tornata a casa, ma tua sorella ti sta già insegnando ad amarla.”

 

Kikyou ha un’aria sorpresa.

 

“Insegnando? Sarà lei la mia allieva, sensei: io insegnerò a lei. Io a lei, non lei a me.”

 

Il silenzio attonito che segue la sua ultima dichiarazione viene rotto quando entrambi si mettono a ridere, spazzando via l’oppressione lasciata della giornata.

 

“Ho detto davvero una cosa del genere? Oh, sensei, sono più provata di quanto credessi!”

 

 

 

Il giorno successivo, salutata per l’ultima volta la sua allieva prediletta, Nobunaga sarebbe restato a badare al giardino fino a sera, contemplandone la bellezza perfetta eppure spoglia, tastandosi di tanto in tanto il petto per saggiare le cicatrici rimaste dentro di sé e leggendo il proprio destino nell’intreccio delle radici e dei fiori. Avrebbe sospirato passandosi la mano tremolante da vecchio sul viso e sapendo che avrebbe dovuto restituire alla terra la sua vita quello stesso inverno. Forse chissà, così avrebbe rincontrato il suo amore.

 

 

 

Masashiro è in ritardo, perciò cammina alla svelta. Il sole è quasi tramontato e lui deve rientrare in città prima che faccia buio, altrimenti quei bastardi lo terranno fuori dai cancelli fino all’indomani. Distratto da questo pensiero nella testa, la manata lo colpisce tra le scapole cogliendolo del tutto di sorpresa, buttandolo in avanti e mancando poco dal farlo cadere rovinosamente in terra. Il dolore e la sorpresa lo fanno gridare e gira su se stesso, la mano sull’elsa del coltello, pronto a ridisegnare in modo fantasioso i connotati dell’uomo che si è permesso di giocargli un tiro del genere.

Le dita contratte si rilassano non appena riconosce nella luce morente il suo misterioso aggressore. Deglutisce e qualsiasi problema potrebbe avere con le guardie alle porte di Ishimatsu finisce all’ultimo posto nella lista delle sue preoccupazioni.

 

“Proprio una giornata benedetta dalla fortuna, già. Dunque, cosa aspetti? Non si salutano gli amici?”

 

“Onigumo …” Masashiro annaspa alla ricerca di qualcosa di poco impegnativo da aggiungere: non può farci niente, Onigumo gli mette sempre addosso i brividi. E dannazione, ma è possibile che le loro strade dovessero incrociarsi in questo modo? “ … non ti aspettavo prima di un paio di giorni, almeno.”

 

Onigumo gli sorride, mettendo in mostra i suoi grossi denti. Ha un’aria strana: Masashiro non capisce cosa sia, però sa che gli fa più paura del solito.

 

“Ho preso una scorciatoia. Sì, davvero un giorno molto fortunato: incontrarci proprio qua ne è un degno coronamento. Chi l’avrebbe mai detto, eh?” e gli rifila un’altra pacca sulla spalla.

 

Onigumo non è mai così espansivo, euforico. E i suoi occhi, che di solito sono sempre cupi, spenti, da ricordargli pozze di sabbie mobili, gli brillano di una luce strana. La paura di Masashiro diventa terrore quando capisce che in questo momento Onigumo potrebbe ucciderlo senza ragione, per il solo gusto di festeggiare a modo suo la sua oscura allegria.

 

“I compagni di cui mi avevi parlato? Sono rimasti più indietro, lungo la strada?”

 

Onigumo esplode in una risata che è un grido, come avesse sentito la battuta più spassosa della sua vita. Le ginocchia di Masashiro tremano e sfiora senza volere l’elsa del coltello.

 

“Sì, l’hai detto! Erano un bagaglio inutile e li ho lasciati indietro lungo la strada, sìsì.”

“Ma cosa fai con quel coltello, eh?”

 

Fa un sorriso sciocco e apre le mani vuote. “Nulla. Piuttosto, vogliamo andare? Immagino che vorrai riposare in una bella locanda in città, vero? Avanti, ho già in mente un alloggio adatto. Ti piacerà!”

 

Onigumo scrolla la testa su e giù, invitandolo con la mano a procedere, e Masashiro si avvia, rilassandosi appena. L’ha scampata bella, ne è sicuro: c’è qualcosa addosso a Onigumo, stasera, come un’ombra, un riflesso, che trasforma i suoi intestini in acqua; ma se starà attento …

Ricordandosi uno dei passatempi preferiti di Onigumo, aggiunge.

“E ci sono delle ragazze davvero graziose, tra l’altro, pronte a farci compagnia per un prezzo ragionevole. Se il colpo che avevi in mente è andato bene come credo, non avrai difficoltà a comprarti una nottata piacevole. Immagino che dopo un viaggio faticoso un po’ di svago sia quello che …”

 

La grossa mano di Onigumo gli serra una spalla costringendolo a ruotare su se stesso. Con un gridolino di cui fa in tempo a vergognarsi, Masashiro chiude gli occhi, sicuro che sia arrivata la sua ora. Onigumo gli stringe l’altra spalla con la mano libera. Masashiro schiude le palpebre, trovandosi a scrutare lo sguardo smorto e cupo dell’altro. Ma non sono solo i pazzi a cambiare umore da un momento all’altro in questo modo? Sì: però Onigumo non gli ha mai dato l’impressione di essere pazzo. Quasi lo preferirebbe.

 

“Non ho mai pagato per possedere una donna.”

 

“Ce-certo, Onigumo, scusami non intendevo dire …”

 

Gli stringe le spalle con più forza.

 

“Né mai avrò bisogno di farlo.”

 

E poi Masashiro vede l’esatto momento in cui la vita sembra ritornare una volta ancora in quegli spenti occhi marrone, illuminandoglieli. Onigumo gira la testa a sinistra, come attratto da un richiamo.

 

“Forse.”

 

Gli lascia le spalle, gli aggancia un braccio al collo e lo trascina a grandi passi verso la città.

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