Oblio

di bibersell
(/viewuser.php?uid=487039)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non andare ***
Capitolo 2: *** Il gioco è iniziato ***
Capitolo 3: *** Qui non si scherza ***
Capitolo 4: *** Sotto controllo ***
Capitolo 5: *** Un passo indietro ***
Capitolo 6: *** Ti sei fatta male? ***
Capitolo 7: *** Non deve cambiare niente ***
Capitolo 8: *** Cheikh ***
Capitolo 9: *** Anche le maschere di cera cadono ***
Capitolo 10: *** Il racconto del ragazzo coi dread ***
Capitolo 11: *** Non ti temo ***
Capitolo 12: *** Sorprese inaspettate ***
Capitolo 13: *** Alta velocità ***
Capitolo 14: *** Primi inizi ***
Capitolo 15: *** Confidenze alcoliche ***
Capitolo 16: *** Gita al lago -Parte I- ***
Capitolo 17: *** Gita al lago -Parte II- ***
Capitolo 18: *** 99 passi indietro ***
Capitolo 19: *** Sogno o son desto? ***
Capitolo 20: *** Zona pacifica ***
Capitolo 21: *** Il prezzo del patto ***
Capitolo 22: *** Giorno Zero ***
Capitolo 23: *** Tutta la verità ***
Capitolo 24: *** Brillanti celesti ***
Capitolo 25: *** Avviso ***
Capitolo 26: *** Home Sweet Home ***
Capitolo 27: *** Now is too late ***
Capitolo 28: *** Tutta la verità ***
Capitolo 29: *** Farewell ***
Capitolo 30: *** Dire addio ***
Capitolo 31: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Non andare ***



Banner fatto da me con PhotoshopCC, spero vi piaccia
 

I
Non andare


 
Il rombo del motore invase prepotente il mio irrequieto sonno portandomi alla realtà. Il rumore meccanico della marmitta mal funzionante aumentava a mano che i miei sensi si risvegliavano. Il primo fu l'olfatto.
La tanfa di tabacco e taco fritti inondarono le mie narici dandomi la nausea e procurandomi un forte mal di testa. Annusando meglio riuscii a sentire anche la puzza di plastica scadente che mi ricordava l'odore prodominante nei negozietti cinesi in cui Jenny, la mia migliore amica, era solita comprare.
Provai a muovere le braccia prima ancora di aprire gli occhi e capire dove mi trovassi. Con sorpresa constatai di non potermi muovere. Ero come bloccata. Qualcosa o meglio qualcuno mi aveva legato i polsi talmente stretti che riuscivo quasi a sentire la corda perforarmi la pelle lasciandomi segni permanenti. Provai a muovere d'istinto le gambe ma anche quelle erano legate.
Un vento caldo mi accarezzava la pelle del volto facendomi sudare e rendendola appiccicosa e sporca. L'aria era troppo afosa e madida di quegli schifosi odori da friggitoria scadente.
Prima di aprire gli occhi e di rendere quelle squallide sensazioni reali testai le condizioni del mio palato con la lingua.
Secca.
Avevo la bocca secca come immaginavo. Era talmente priva di fluidi che sentivo le grinze del palato sotto la lingua. Provai a richiamare della saliva ma sembrava che il mio corpo in quel momento né fosse privo. Quando aprii gli occhi la prima cosa che vidi furono le goccioline di pioggia sul vetro dell'auto. Grandi gocce che si infrangevano incessantemente contro quel vetro producendo un forte rumore che prima non avevo sentito. I tergicristalli si muovevano velocemente sul parabrezza per spazzare via quell'acqua che cadeva scrosciante.
Le luci dei fanali dell'auto davanti venivano da me percepite solo come macchie indistinte di colore. Sembrava che la pioggia, una volta infranta sul parabrezza, acquisisse una tonalità che andava dal giallo al rosso. Cercai di scorgere qualche cartello stradale per capire la mia posizione ma quel temporale non permetteva di vedere ad un palmo dal naso. Abbassai lo sguardo e, nonostante il buio dell'abitacolo e le scarse luminarie stradali, riuscii a vedere delle bottigliette di plastica e vecchie ed unte buste di cartone di diversi fast food.
Notai anche che le mie gambe erano state effettivamente legate e constatai con gioia che indossavo ancora il vestito che avevo messo quella sera per andare alla festa.
La festa.
Quel pensiero mi riportò alla mente il ricordo di diverse ore prima.


Ero a casa, papà era seduto sul divano mentre esaminava per la centesima volta lo stesso video dal computer portatile mentre mia madre era in cucina e tagliava delle zucchine convinta che un timballo di verdura potesse rendere la nostra una famiglia normale.
Quella sera a casa di Constantine c'era una festa per pochi e io volevo andarci. Lo desideravo ardentemente. Del resto avevo solo diciott'anni ed era normale per me desiderare di andare ad una festa.
Ero scesa in cucina per chiedere il permesso ai miei genitori sapendo che non sarebbe stato facile ottenerlo. A meno che André e Anthony non fossero venuti con me e avessero sorvegliato l'abitazione di Constantine. Come sempre mia madre mi disse che avrei dovuto chiedere a mio padre, era lui a dovermi dare il permesso non lei.
Così ero andata in soggiorno armata di pazienza e occhi da cucciolo.
«Papi, stasera Constantine, il ragazzo del corso di letteratura, da una festa a casa sua e a me piacerebbe tanto andarci».
Ero stata calma e la voce era fiera e sicura. Del resto non poteva dirmi di no dopo che l'avevo chiamato papi.
«Abby, lo sai che non puoi. Nessuno di noi può uscire in questo momento così delicato per le indagini. Non senza scorta». Rispose mio padre levandosi gli occhiali da vista e distogliendo lo sguardo dal computer.
Mio padre, capo di magistratura nonché giudice di pace di Washington, era un corpulento uomo di mezz'età che conservava ancora il suo fascino. I capelli brizzolati e un po' lunghi ai lati gli donavano un'aria affascinante facendolo sembrare un uomo saggio e pieno di risorse. Gli occhi chiari davano tranquillità e stabilità a chiunque gli si parasse davanti.
Harrison Jensen era un padre affettuoso ed un marito premuroso. Dedito al lavoro e con uno spiccato senso di giustizia fin da i primi anni della sua vita.
«Ma papà André e Anthony verrebbero con me e poi lo conosci Constantine, lo sai che è un bravo ragazzo. Cosa vuoi che mi succeda?» ribadii iniziando a perdere la calma iniziale.
«Ne abbiamo già parlato diverse volte Abby, lo sai che non mi piace ripetermi»
«Ma con quei due bestioni al mio fianco sarei al sicuro»
«Lo saresti ancora di più in casa. André e Anthony sono troppo giovani e non saprebbero difenderti adeguatamente in caso di bisogno. Lo sai che ti sono stati affidati loro proprio per non dare nell'occhio» ed era vero. Quei due, i miei carcerieri, o come li chiamava mio padre "le due sentinelle che avrebbero tenuto d'occhio la sua bambina" erano stati da poco arruolati e avevano a malapena venticinque anni. Erano loro che mi accompagnavano a scuola e ci rimanevano fino alla fine delle lezioni, mi accompagnavano al centro commerciale con le mie amiche e tra poco avrebbero iniziato a seguirmi anche in bagno.
«E allora perché mi stanno alle costole se in momento di bisogno non riuscirebbero a proteggermi?» chiesi incredula e arrabbiata con mio padre e quella stupida vita che ero costretta a vivere a causa del suo lavoro. «Non è il momento adatto per parlarne. Adesso sali in camera e dormici su. Domani ne riparleremo». Il discorso era concluso, almeno per quella sera.
Se fossi stata un minimo razionale e avessi usato la testa avrei capito le ragioni di mio padre. Avrei riflettuto sul fatto che la mia vita era fatta solo da scuola, casa e sporadiche uscite con le mie amiche sempre nei centri commerciali. Quelli erano posti affollati in cui non sarebbe successo nulla di male. Mai nessuno avrebbe fatto qualcosa di avventato con tutti quei testimoni; ma in quel momento non volevo essere razionale, ma solo avventate e seguire l'istinto della mia giovane età. Istinto che mi avrebbe portato sulla strada sbagliata.
Salii di corsa in camera con l'unico intento di indossare il vestito più bello che avessi nell'armadio. Sarei andata a quella festa anche senza lo stupido consenso dei miei. Era una cosa che facevano tutti i ragazzi, no?
Uscire di nascosto, intendo. Perché non avrei potuto farlo anch'io?


Quella tanfa era insopportabile. Aprire il finestrino era fuori discussione, sarebbe entrata l'acqua e mi avrebbe bagnato anche se il desiderio di respirare aria pulita era davvero forte.
«Acqua» fu l'unica cosa che riuscii a dire senza avere la sensazione che mi stessero per esplodere le corde vocali. Avevo la gola talmente secca che il solo pronunciare quelle semplici lettere mi procurò un profondo dolore. Il suono uscì attutito, come se avessi una palla di pelo bloccata lungo l'esofago che non permetteva alla mia voce di uscire limpida.
«Che cazzo hai detto?» Una voce rude e graffiante risuonò per la prima volta nell'abitacolo facendo affiorare un altro ricordo di quella sera tanto sbagliata.
Mi voltai nel tentativo di scorgere il suo volto, ma come mi aspettavo non riuscivo a vederne i lineamenti. Quella notte era priva di luna e avevamo abbandonato la superstrada immettendoci in una stradina secondaria senza luminarie. All'interno dell'abitacolo le luci erano spente e a stento riuscivo a scorgere le mie mani, figurarsi i lineamenti del mio carnefice, del ragazzo che stava guidando quel catorcio. Ma a me non serviva guardarlo per conoscerne il volto. Conoscevo già ogni sua fattezza. Diverse ore prima lo avevo studiato minuziosamente.


Con quel vestito lungo e rosa mi sentivo a disagio. Le altre ragazze indossavano pantaloncini cortissimi o vestitini inguinali mentre io indossavo un lunghissimo vestito di chiffon di un rosa pallido che sfiorava il pavimento. Ai piedi invece di tacchi vertiginosi portavo dei comodi sandali alla schiava e tra le mani invece che in bicchiere di vodka ne avevo uno di coca cola.
Forse avevo fatto una cretinata ad uscire di casa di nascosto per andare a quel party al quale non mi stavo nemmeno divertendo. I miei pensieri tornavano costantemente a mio padre e alle guardie che avevo abilmente aggirato. Il senso di colpa mi stava dilaniando. Avevo deciso di andarmene, di chiamare André per farmi venire a prendere. Abbandonai il bicchiere di carta sulla credenza e mi avvicinai alla porta senza salutare nessuno, ma la mia ritirata fu impedita dalla vista di un ragazzo. Il ragazzo più attraente che avessi mai visto. L'unica parola che mi veniva in mente per descriverlo era tenebroso. Tutto in lui trasudava pericolo. Era avvolto da un alone di mistero e il suo abbigliamento total black non aiutava. Jeans neri, anfibi mal allacciati e camicia nera aderente e con le maniche risvoltate. Due avambracci possenti e muscolosi uscivano da quella camicia che lasciava intravedere la fine di un tatuaggio che avrei voluto vedere interamente.
Alzai lo sguardo per ammirarne il volto. La pelle del viso era pallida e candida e risultava ancora più chiara a contrasto con le lunghe ciocche nere che gli incorniciavano il volto. Le labbra erano grosse e rosse e un cerchietto di metallo spuntava dal labbro inferiore rendendo quella bocca ancora più desiderabile e tentatrice. La cosa migliore, tuttavia, erano i suoi occhi, due pozze chiare che illuminavano il suo volto. Il bagliore di quello sguardo era visibile anche a quella distanza e non osavo immaginare come mi sarei potuta sentire sotto quello sguardo tanto magnetico che gli donava l'aria di un angelo vendicatore.



«Ho sete. H-ho bisogno di bere» sussurrai nella speranza che mi sentisse.
Il bruciore alla gola aumentava ad ogni parola così come il dolore alla testa. In quel momento l'unica cosa che volevo era un goccio d'acqua e un'aspirina.
Mi girai lentamente verso di lui sbattendo diverse volte le palpebre per far abituare i miei occhio al buio. La sua mano si mosse verso la sua sinistra e si accesa una tenue luce che mi permise di vedergli il viso. Teneva la testa bassa, una mano fissa sul volante e l'altra sotto al sedile intento ad afferrare qualcosa. Estrasse una bottiglina d'acqua che mi porse e che ovviamente non potei afferrare.
«Ho le mani legate» gli riferii in tono scocciato. Bramavo anche una sola goccia di quell'acqua. Lui svitò il tappo con i denti e portò con una mano la bottiglietta alle mie labbra mentre con l'altra teneva stretto il volante. Mi allungai col collo prendendo tra le labbra il collo della bottiglia e tirando la testa indietro facendogli capire che doveva alzare la bottiglia. E lui capì al volo alzando il braccio e inondandomi la gola di acqua fresca. Riuscivo a sentire la mie corde vocali esultare dalla gioia.
La foga era talmente tanta che tirai la bottiglia sempre più a me con l'unico risultato di far uscire tutta l'acqua e di bagnarmi la parte superiore del vestito. Bevvi un'altra sorsata e poi tirai il collo indietro facendogli capire di non volerne più. Lui ripose la bottiglietta d'acqua sul cruscotto.
«Che succede?» chiesi stordita ma con più lucidità rispetto a qualche minuto prima. La mia voce uscì più forte, ma risultava sempre tremolante e piena di paura. E fu proprio mentre pronunciavo quelle parole e mi godevo la sensazione di un palato fresco ed umido che l'ultimo ricordo più o meno lucido di quella serata mi invase trascinandomi in quella realtà che mi sembrava così lontana.


«Un altro, grazie» ordinai a Constantine che stava seduto al mio fianco e mi guardava con dissenso.
Dopo aver visto quel giovane tanto bello avevo provato ad avvicinarmi ma mi aveva snobbata alla grande avvicinandosi a quelle ragazze che portavano l'appellativo di troiette della scuola; e quelle erano davvero delle stronze che non ci pensavano due volte prima di levarsi i vestiti.
Mi sentivo davvero da schifo, quella non era la mia serata e avrei fatto meglio a tornarmene a casa. Però quando Constantine si era avvicinato e mi aveva allungato un bicchiere di vodka al melone non avevo saputo far altro che tracannarlo.
Un bicchiere tira l'altro ed ecco come ero finita ubriacata fracida ripiegata sul bancone della cucina di casa del mio amico a ridere da sola per qualcosa che esisteva solo nella mia testa e con un bicchiere di plastica che era stato riempito e successivamente svuotato troppe volte.
«Credo sia meglio che vai a casa Abbs» la voce del mio amico arrivò amplificata alle mie orecchie facendo aumentare il mio dolore alla testa.
«Ehi, non urlare» dissi ridacchiando con voce frivola e bassa come se stessi spettegolando con la mia compagna di banco di nascosto dal professore.
«Ma come ti sei ridotta, Abby?» domandò lui retoricamente. Dovevo fare proprio schifo. Ho sempre detestato le persone che si attaccavano alla bottiglia e se ne staccavano soltanto quando questa era finita. Lo trovavo da vili e da codardi e io non lo ero. Ero la figlia del giudice Jensen e dovevo essere sempre coraggiosa ed impeccabile. Quel pensiero mi fece montare il sangue al cervello. Volevo dell'altro alcol, esigevo attaccarmi a quella bottiglia che avevo sempre giudicato.
«Se non vuoi darmi da bere vorrà dire che mi verserò un bicchierino da sola» affermai alzandomi dallo sgabello e barcollando instabile sulle mie gambe.
«Per te la festa finisce qui. Ti accompagno a casa» Constantine arpionò i miei fianchi facendomi riprendere l'equilibrio che mi serviva per con cadere a terra.
«Lasciami!» urlai cercando di essere convincente ma non riuscendoci; avrei prima dovuto smettere di ridere per sembrare almeno un briciolo autoritaria.
«Se ti lascio cadi» disse e io risi come se fosse la cosa più divertente che avessi mai sentito. Lui mi trascinò all'ingresso afferrando le chiavi dell'auto dalla ciotola sul tavolo all'ingresso.
Io non volevo andarmene e tantomeno mi sarei fatta accompagnare da lui a casa. Mio padre avrebbe visto l'auto. «No» mi ribellai liberandomi dalla sua presa. «Vado da sola a casa»
«Non sei in grado di camminare Abbs, come pretendi di arri
varci a casa?» chiese retoricamente. «Chiamerò André» risposi semplicemente. Il solo pronunciare quel nome mi fece ritornare alla realtà. Lui, come tutti in quella casa, sapevano chi fossi e perché mi portavo sempre dietro quei due scagnozzi.
«Allora chiamalo» Merda. Non avrei potuto chiamare né André né Anthony altrimenti si sarebbero accorti della mia scappatella. Dovevo trovare un modo per aggirare Constantine e tornare a piedi a casa. O almeno avrei cercato di arrivarci. Ci pensò il destino a crearmi un perfetto escamotage. In quel momento credevo fosse stata una gran botta di fortuna ma in realtà era stata una disgrazia per me.
Un rumore provenne da dentro la casa e un ragazzo chiamò Constantine per farlo rientrare.
«Torno subito, tu chiama André» mi disse prima di voltarsi ed entrare in casa. Annui semplicemente muovendomi sul posto.
In quel momento squillò il quel momento. Era André. Quando si parla del diavolo ecco che spuntano le corna.. Accettai la telefonata ridacchiando e portandomi il cellullare all'orecchio quando qualcuno me lo
strappò di mano. «Questo lo prendo io»


Quella era l’ultima cosa che ricordavo. Il ragazzo attraente e tenebroso mi aveva sfilato il cellulare di mano e da quel momento in poi era buio totale. Non ricordavo più nulla. Il cerchio alla testa, la voglia di vomitare e quel senso di vuoto mnemonico mi davano ai nervi facendo montare la mia ansia.
Quando avevo aperto gli occhi pochi minuti prima ero troppo stordita per mettere bene a fuoco la situazione e capire bene dove mi trovassi ma soprattutto con chi. Alle elementari la maestra mi rimproverava sempre di essere tardiva e di prestare troppa poca attenzione ai dettagli. Aveva proprio ragione. Mi sentivo così stordita, dolorante e desiderosa di un po’ d’acqua che non ci avevo visto più.
«Chi cazzo sei? Che ci faccio in questa macchina e dove stiamo andando?» Non ricevetti alcun tipo di risposta da parte del ragazzo che aveva schiacciato maggiormente il piede sull’acceleratore.
«Mi spieghi che sta succedendo?» l’ansia presente nella mia voce era palpabile mentre l’aria dell’abitacolo si tendeva maggiormente.
«Zitta!» fu l’unica boriosa risposta che ricevetti. Un unico ringhio che mi invase facendomi venire i brividi e rompendo gli argini che impedivano alle mie lacrime di uscire. Tuttavia non versai una lacrima, non avrei mai potuto davanti a lui, non avevo intensione di mostrarmi debole.
«Farò silenzio solo dopo che avrai risposto alle mie domande». Ero sempre stata stupida, altezzosa ed impulsiva. Tutto quello che non sarei dovuta essere, non in quel momento almeno.
«Ho detto di tacere!» ringhiò voltandosi nella mia direzione e cacciando dalla tasca anteriore dei pantaloni una pistola che mi puntò contro. Ad una domanda però potevo rispondermi da sola: perché mi trovassi lì.
A causa di mio padre. Del suo lavoro.

 
 

Note

Salve giovani lettrici, non mi dilungo troppo a causa dell'ora tarda. 
Come sempre spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto o che vi abbia come minimo incuriosito e sollecitato la vostra attenzione.
É la prima volta che provo a scrivere qualcosa del genere. Adoro leggere storie d'azione e con trame intricate ma purtroppo non si trovano facilmente. Così mi sono detta:"Perchè non la scrivo io?". O almeno ci sto provando. Spero davvero che questo progetto vada a buon fine e che piaccia a qualcuno.
In questo capitolo si alternano scena del presento con ricordi della protagonista femminile. Credo che farò un uso abbondante di diversi pov con alternanze sia temporali che si punti di vista. Credo ci aranno quelli di Abby, Storm e del giudice Jensen. 
Lasciatemi dei commenti, sarei felicissima di sapere i vostri pareri.
Come sempre se avete consigli o critiche sono sempre ben accette.
Baci
-B

Capitolo revisionato il 12/10/2015

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il gioco è iniziato ***



Banner fatto da me con PhotoshopCC, spero vi piaccia
 
 
II
Il gioco è iniziato

 


Harrison's poit of view
 
Respirare. Dovevo solo respirare e non permettere alla paura e al panico di prendere il sopravvento. Erano le tre del mattino e avevo mobilitato l’intera squadra di polizia e contattato ogni autorità da me conosciuta.
Quattro ore prima ero salito in camera di Abigail per parlarle. Ero dispiaciuto ma lei doveva comprendere la situazione. Da padre desideravo dare alla mia unica figlia il mondo intero e non precluderle la normalità.
Abby era cresciuta con gli uomini della polizia che giravano per casa. All’inizio la riteneva una cosa figa ma poi era arrivata ad odiare quegli uomini che non le permettevano di vivere liberamente.
Quando ero entrato nella camera di Abby senza nemmeno bussare e avevo trovato il suo letto fatto, vuoto e freddo qualcosa in me era scattato. Forse la disperazione o la pazzia. Mi ero mosso prima ancora che il mio cervello riuscisse a collegare gli eventi. Ero corso giù per le scale agitato e col cuore in gola urlando il nome di mia moglie. Avevo chiamato i due poliziotti che avrebbero dovuto sorvegliare mia figlia e gli avevo messi al corrente della situazione.
Ero andato con loro a casa di quel Constantine. Abby era stata sicuramente a quella festa ma mi chiedevo come non avessero fatto le pattuglie a non vederla uscire di casa. Il loro dovere ero quello di sorvegliare la mia famiglia.

Quando arrivammo a casa del ragazzo la festa era ancora in corso e speravo che mia figlia si trovasse ancora lì. Quando entrammo e non trovammo Abbs la disperazione si impossessò di me. La follia prese il sopravvento non permettendomi di pensare lucidamente. I due giovani poliziotti che erano con me chiesero agli invitati di quella festa se avessero visto Abby Jensen ma la mia mentre non era abbastanza lucida. Si era fermata al momento in cui avevo recepito che mia figlia non era in casa.

**
«Magistrato il telefono di sua figlia risulta ancora irraggiungibile, le pattuglie stanno rifacendo il giro della città e Anthony sta controllando di nuovo i video della statale ma non ha trovato ancora nulla» la voce di John Rider, capo del dipartimento di polizia di Washington mi riportò alla realtà.
«Continuate a cercare. Aggiungete un’altra pattuglia e contattate le reti televisive affinché diffondano una foto di mia figlia e mettete una ricompensa di cinquemila dollari per chiunque risulta essere d'aiuto» ringhiai. Da ore non facevo altro che impartire ordini. Dovevo ritrovarla.
«Signore sa che non possiamo, non prima che siano trascorse ventiquattro ore. Fino ad allora non si può parlare di scomparsa.»
Secondo lui, io che ero l’uomo che personificava la legge, non conoscevo quella stupida regola?
«Lo so Rider, ma non mi interessa. Mia figlia è scomparsa e non voglio vedere spuntare il sole senza sapere dov’è. Ora mettiti a lavoro e trovala» Ringhiai categorico. Lui tornò alla sua posizione smanettando vicino al computer.
«Voglio una lista con tutti i nomi dei presenti alla festa di stasera e voglio interrogarli personalmente»
Il soggiorno di casa mia era diventato una caserma di polizia piena di uomini in borghese e in divisa. Uscii dalla stanza e salii le scale per andare in camera di Abby dove sapevo di trovarci mia moglie.



Storm’s point of view

Feci girare la chiave tre volte nella toppa e diedi una spallata alla porta per farla aprire.
Puntare la pistola contro quel giovanotto e convincerlo a prendere una stanza in quello scadente motel era stato un gioco da ragazzi. Trovare quel motel era stato più difficile. Ormai non facevano più molti alberghi in quel modo che era così funzionale per me.
All’ingresso c’era solo la reception alla quale registrarsi, pagare e prendere la chiave. Per accedere alle stanze si doveva aggirare il locale e andare nella parte posteriore nella quale le stanze erano disposte a semicerchio. Era bastato minacciare il primo giovane trovato per strada e il gioco era fatto. La prenotazione era a suo nome e io potevo riposarmi tranquillamente.
Non che qualcuno sapesse che Abigail Jensen, la figlia non ancora data per scomparsa del famoso giudice, fosse con me; ma la prudenza non era mai troppa. Meglio non rischiare.
Un altro vantaggio di quegli schifosi motel era che non c’erano aree videosorvegliare.
«Entra» ordinai spingendo la canna della pistola contro la nuca della ragazza. La sentii gemere di dolore. Doveva fare male avere una pistola puntata proprio al cervello.
Un unico colpo e la su testa sarebbe saltata, non le conveniva fare passi falsi.
La ragazza entrò nella stanza e io richiusi a porta alle nostre spalle chiudendola a chiave e mettendo il catenaccio. «Queste è meglio che le tengo io» dissi infilandomi le chiavi in tasca.
La ragazza si guardò attorno con un cipiglio di disgusto evidente sul volto.
«Devo andare in bagno» la voce era uscita tremolante nonostante si sforzasse di essere coraggiosa e di non avere paura. Non aveva versato nemmeno una lacrime e non aveva starnazzato come mi sarei invece aspettato. La guardai in viso pronto a risponderle male quando lei parlò di nuovo. «Devi slegarmi le mani» Le gambe le avevo liberate prima di scendere dalla macchina per permetterle di camminare ma i polsi li avevo lasciti legati.
«Io non prendo ordini da nessuno tantomeno da una ragazzina» risposi riferendomi all’uso della parola devo nella sua frase. Mi avvicinai a lei cacciando il taglierino dallo stivale destro e tranciando la corda che le legava i polsi.
«Muoviti» le indicai il bagno «Se ci metti più di due minuti giuro che entro e non azzardarti a chiudere a chiave» dissi voltandomi di spalle e posando pistola e taglierino sul mobiletto accanto al letto.
Aprii la sacca che mi ero caricato in spalla e cercai tra le varie mazzette di dollari il cellulare prepagato che avevo comprato qualche giorno prima. Quando lo afferrai un ghigno malvagio si dipinse sul mio volto.
Finalmente avrei potuto attuare il mio piano per liberarlo. Per lui avevo fatto cose scellerate e imperdonabili, ma ero arrivato fino a quel punto e non mi sarei certo fermato adesso. Non potevo permettermi passi falsi, non adesso che avevo la liberazione di Jack tra le mani. Dovevo tenermi quella ragazza più stretta possibile, lei era la mia merce di scambio.
Il rumore della porta mi fece alzare di colpo la testa.
Era uscita dal bagno e su quel suo viso da bambola era dipinta un’espressione di puro terrore che mi fece gongolare. Appena l’avevo vista avevo pensato immediatamente che assomigliasse ad una bambola di porcellana. Aveva la pelle del viso talmente pallida e candida da sembrare finta. Il viso ovale a forma di cuore contribuiva solo a darle un’aria dolce ed innocente. Gli occhi marroni con taglio a mandorla, tuttavia, la facevano sembrare furba anche se avevano quel bagliore altezzoso che non gli abbandonava mai. Nemmeno in quella circostanza.
I capelli biondi cadevano in lunghe ciocche mosse e scompigliate lungo il viso e terminavano all’altezza delle costole. Il suo bel vestito rosa da riccona era strappato in alcuni punti e leggermente sporco ai bordi. Sembrava una morta resuscitata dall’oltretomba.
Non avevo mai sopportato le ragazze come lei. Ero un amante dei colori mediterranei e delle donne indipendenti che si lasciavano usare per una notte. Del resto lei mi serviva per scopi ben più importanti.
«Pronta a parlare con paparino?»


Harrison’s point of view

Lo squillo del telefono di casa aveva fatto scattare tutti sull’attenti.
Al cenno di Rider, pronto con le cuffie sulle orecchie e portatile sulle gambe, avevo sollevato la cornetta e accettato la telefonata.
«Chi parla?» dissi in tono autoritario.
«Giudice Jensen, che piacere parlare con lei» la voce di un ragazzo risuonò piena di sé dall’altra parte della cornetta. Quella era la voce del mio nemico, di colui che sarebbe morto se avesse toccato mia figlia con un solo dito.
«Chi parla?» ripetei cercando di perdere tempo in modo che la mia squadra potesse rintracciare la chiamata.
Lanciai un occhiata a Rider che stava digitando furentemente i tasti del computer.
«Il mio nome non è importante, ti basta sapere che tua figlia è qui con me e che per adesso sta bene» il ragazzo rise e il sangue mi montò al cervello.
«Brutto bastardo, dove siete?» ringhiai furioso. 
«Non è questa la domanda giusta. Chiediti piuttosto cosa saresti disposto a dare in cambio della vita di tua figlia»
«Cosa vuoi?»
«Tra sette giorni al confine tra Bellingham e Vancouver. Sei di mattina. La vita di Abby in cambio a quella di Jack Tyrell»

Un appuntamento era l’unica cosa che ero riuscito a ricavare da quella telefonata prima che cadesse la linea.
«Siete riusciti a rintracciarlo?» chiesi a Rider che si ero tolto in quel momento le cuffie.
«No, avrà utilizzato un cellulare prepagato. Sono più difficili da rintracciare e la chiamata è durata troppo poco.» rispose l'uomo alzandosi dal divano.
Merda!
«Non hanno potuto fare molta strada e sappiamo dove sono diretti. Metteremo posti di blocco a ogni casello e controlleremo tutte le macchine. La troveremo» disse André venendomi in contro e porgendomi un bicchiere d’acqua che afferrai immediatamente.
«Mobilitate immediatamente tutte le vetture a disposizione e mobilitatele su ogni strada che porta a Vancouver»
Avrei fatto di tutto pur di ritrovare mia figlia. «E fate delle ricerche su questo Jack Tyrell, voglio sapere tutto su di lui. Magari riusciremo anche a risalire all’identità del rapitore.»



 

Note
Capitolo corto e privo del punto di vista della protagonista ma funzionale alla storia. 
Credo che con questo capitolo sia tutto più chiaro. Tecnicamente ho aggiornato due volte nello stesso giorno dato che il primo capitolo è stato pubblicato ieri sera sul tardi o alle prime ore di questa mattina, dipende dai punti di vista.
Ad ogni modo spero che la storia vi piaccia e che mi lasciate qualche parere.
Non so cos'altro dirvi, quindi vi saluto.
-B

Capitolo revisionato il 12/10/2015

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Qui non si scherza ***



Banner fatto da me con PhotoshopCC, spero vi piaccia



III
Qui non si scherza

 


Abigail’s point of view

Avvertivo lo schienale del letto in ferro freddo dietro la schiena. Ogni volta che provavo a sistemarmi per trovare la giusta posizione la testiera sbatteva contro la parete riproducendo un tonfo che si disperdeva nella stanza.
Il cuscino era duro e riuscivo a percepire i noduli delle piume al suo interno.
Dopo aver parlato al telefono con mio padre, lui mi aveva legato le caviglie con dell’altra corda e aveva fatto lo stesso con i polsi legandoli agli estremi della testata del letto.
Avevo cercato di sollevarmi e di portarmi le ginocchia al petto alla ricerca di una posizione comoda. La testiera del letto sbatté di nuovo contro il muro dopo il mio ennesimo spostamento.
«Che cazzo hai da muoverti tanto?» la voce del mio carceriere digrignò quelle parole gettandomele addosso come se fossero feccia e io la persona degna di meritarle.
Non gli risposi nemmeno tornando a puntare lo sguardo alla televisione accesa. Lui aveva il telecomando e continuava a cambiare canale passando da un telegiornale all’altro.
Quello era il suo modo di tenere la situazione sotto controllo. In ancora nessun notiziario si parlava della mia scomparsa e tantomeno accennavano ad un pazzo e furioso ragazzo ventenne che se ne andava in giro a rapire ragazzine.
Mi stupiva che mio padre non avesse contattato la televisione per diffondere una mia foto. Quello si che sarebbe stato un bel problema. In giro mi avrebbero riconosciuta tutti e di certo non potevamo rimanere barricati in una camera d’albergo.
Possibile che mio padre non ci avesse pensato? Impossibile.
Era un giudice d’eccellenza che faceva bene il suo lavoro ed ero convinta che avrebbe utilizzato ogni sua conoscenza pur di ritrovarmi. Ero certa che entro pochi giorni sarei tornata a casa. Probabilmente mio padre non aveva avvertito le reti televisive per non creare troppo trambusto visto che aveva la situazione sotto controllo.
Nei momenti di buio totale la speranza è l’unica cosa a cui aggrapparsi e io mi ci stavo aggrappando con tutte le mie forze.
La mia speranza e la causa del mio rapimento portavano lo stesso nome. Risiedevano nella stessa persona: Harrison Jensen.

Risentire la sua voce al telefono era stato come un tuffo al cuore. La voce di mio padre era carica d’ansia e agitazione e l’unica cosa che avrei voluto urlargli da quel telefono era mi dispiace. Ma mi era stato impedito dalla sua mano che mi aveva tappato la bocca. Avevo sentito l’intera conversazione ma mi era stato permesso di intromettermi.
Il ragazzo aveva parlato di uno scambio. Intendeva usarmi come un oggetto da sfruttare a proprio piacimento pur di raggiungere i propri scopi.
Aveva fatto un nome. Jack Tyrell.
Mi chiedevo chi fosse. Non avevo mai sentito quel nome prima d’ora, né lo avevo letto sui giornali né mio padre ne aveva mai parlato. Probabilmente era conosciuto con il suo soprannome, come i mafiosi. Mi chiedevo che tipo di legame ci fosse tra i due.
Che fosse il padre? Il fratello? Il fidanzato? Nulla vietava ai criminali di dichiararsi omosessuali.
Che questo Jack avesse un conto in sospeso con il ragazzo e volesse essere proprio quest’ultimo ad ucciderlo invece di vederlo marcire in galera?
Perché in galera doveva stare, altrimenti non avrebbero potuto fare lo scambio. Tuttavia quest’ipotesi mi risultava poco probabile. Nessuno, nemmeno il criminale più folle, rischierebbe così tanto per vendetta, per uccidere qualcuno condannato a morte certa.
Quella nelle carceri non era vita. Somigliava più ad un’attesa del giudizio universale. Una punizione inflitta dall’uomo che era solo il preludio di quello che ti aspettava dopo la morte.

«Perché proprio io? Perché non qualcun altro?» diedi voce ad uno dei miei tanti pensieri voltandomi verso l’altro letto che era occupato dal ragazzo che da quel giorno in poi avrebbe rappresentato la mia paura più grande.
In futuro, perché avrei avuto un futuro, quando avrei pensato alla parola paura mi sarebbe venuto in mente il suo viso. Ancora meglio se una sua foto fosse stata attaccata ad una tomba che portava il suo nome. Nome che non conoscevo.
«Qual è il tuo nome?» posi il secondo quesito non avendo ricevuto risposta al primo. Forse a una domanda più semplice avrebbe risposto.
«Taci puttana». Quel suo ringhio mi perforò l’anima ferendomi profondamente. Le sue parole erano troppo piene d’odio, cariche di un risentimento da me incompreso.
«Cosa vuoi da me?» cercai di sollevarmi facendo sbattere di nuovo quella dannata testiera. Ad ogni movimento che facevo i polsi stridevano contro le corde graffiandomi la pelle.
«Ucciderti se non la smetti di parlare» ringhiò alzandosi dal letto e prendendo a camminare avanti e indietro per la stanza. La pistola era ancora posata sul comodino. Come lo era anche il taglierino, non sapevo se aveva altre armi con se ma speravo vivamente di no. «Non lo farai. Senza di me non avviene lo scambio» soffiai con maggior sicurezza ma la mia voce uscì comunque tremolante e bassa. Ero convinta delle mie parole. Se non mi aveva uccisa fino ad allora, non l’avrebbe più fatto. Non adesso che gli servivo viva.
«Non ci giurerei» la sua camminata si arrestò proprio davanti al mio letto puntando i suo occhi azzurri su di me. Erano ghiaccio puro che sapevano riflettere solo odio, repulsione e terrore.
«Se io muoio, l’accordo salta» lo fissai a mia volta sicura di me alzando il mento puntando i miei piccoli occhi nei suoi. Lo stavo sfidando e non ne potevo ricavare nulla di buono.
Impulsiva. Ero sempre stata impulsiva fino all’inverosimile e quel suo atteggiamento relativamente docile mi dava solo adito ad alzare la testa.
In quelle poche ore, oltre a ringhiarmi contro e mostrare la pistola, non aveva fatto nulla. Quelle erano mosse che servivano ad impressionare i più deboli e mostrarsi duri con loro.
Ma io non lo ero. Non ero mai stata fragile.
«Non se loro non lo sanno» in un passo arrivò alla testata del letto e in un battito di ciglia posò il suo ginocchio destro sul materasso sovrastandomi completamente. Con il suo viso a pochi centimetri di distanza dal mio i suoi occhi sembravano ancora più chiari.
Mi ero sbagliata la sera prima alla festa. I suoi occhi non erano blu. Bensì trasparenti. Sembrava fossero fatti di tanti veli sovrapposti. Veli che nascondevano ogni emozione ed emanando solo freddezza. Tutto in lui era freddo.
Ci avrei scommesso un occhio della testa che anche le sue mani fossero ghiacciate. Come quelle dei vampiri.
«Non ti conviene sfidarmi ragazzina» soffiò sul mio viso inondandomi d’aria calda e puzzolente di fumo. Non tossii soltanto perché l’ansia e la tensione del momento non me lo permettevano. Se c’era una cosa che non sopportavo ero l’odore del fumo.
«Altrimenti che fai? Mi uccidi?» dovevo essere davvero rincoglionita. Mi era andato di volta il cervello o cosa? Dovevo controllarmi e non lasciarmi andare a quelle provocazioni.
Adoravo stuzzicare la gente e portarla all’esasperazione ma non potevo certo farlo con lui. Non se rischiavo la vita.
Il suo sguardo si fece di fuoco e in un attimo mi fu addosso con le sue mani alla gola e entrambe le gambe divaricate ai lati del mio bacino. Quel tocco fu improvviso e la sorpresa mi portò a spalancare gli occhi. Occhi che poco dopo si socchiusero a causa della forza che stava imprimendo sul mio collo. Le sue dita si erano strette attorno alla mia pelle magra e stringevano sempre di più imprimendo maggiore forza. Le labbra si schiusero lasciando sfuggire un gemito di dolore del mio controllo.
«Non azzardarti mai più a sfidarmi» ringhiò a denti stretti e serrando la mascella. Le braccia erano tese e i muscoli in tensione per lo sforzo fisico.
Mi mancava l’aria. I polmoni bruciavano e urlavano il bisogno di incanalare aria. Il cervello non riusciva a connettere e a mettere a fuoco. Non riusciva a registrare le sue parole.
«Non mettere più in discussione quello che ti dico» ringhiò stringendo ancora di più la presa e la mia paura aumentò.
Dio, mi stava uccidendo.
Se non avesse mollato la presa entro pochi secondi sarei soffocata.
«Guardami mentre parlo» urlò nuovamente e mi sforzai a sollevare le palpebre e alzare lo sguardo in modo da guardarlo in faccia. Vedevo tutto annebbiato e dalle mie labbra non la smettevano di uscire lamenti e suoni ovattati.
«Hai capito?»
Mi sembrò che avesse allentato leggermente la prese ma restava comunque forte sul mio collo troppo dolorante. Annuii debolmente e ebbi paura con lui non avesse notato quel leggere cenno.
Mi fissò per altri minuti e poi si allontanò di colpo da me scendendo dal letto. Anelai immediatamente l’aria intorno a me portandomi le mani alla gola nel tentativo di calmare quel respiro frenetico e quel battito incontrollabile.
Quello era un pazzo e andava rinchiuso. Mi ero sbagliata a credere che facesse il duro per spaventarmi.
Quel tipo era pericoloso e avrei dovuto imparare a tenere a freno la mia boccaccia. Controllò i nodi che mi tenevano legata al letto e una volta constatato che ero ben legata si allontanò da me avvicinandosi alla porta.
«E comunque..» fece una pausa poggiando una mano sul pomello mentre con l’altra levava il lucchetto «il mio nome è Storm»
Mai nome fu più azzeccato. Lui era una tempesta che aspettava solo il momento propizio per liberarsi e sfogare la sua ira.

Quel giorno avevo sbagliato a fare i conti su parecchie cose.
Avevo sbagliato a definire quel tipo un angelo, anche se vendicatore pur sempre un angelo rimaneva.
Avevo sbagliato a lasciarmi travolgere dalla sua immancabile bellezza che mi aveva condannata a morte facendomi restare a quella festa.
Avevo sbagliato a considerarlo uno sciocco che non sapeva nemmeno come usare la pistola. E, per ultimo, avevo sbagliato a credere che tutto in lui fosse freddo. Le sue mani bruciavano come poche cose sapevano ardere.



Harrison's point of view 

Il sole era sorto da diverse ore e non avevo ancora avuto notizie di mia figlia. 
Continuavo ad impartire ordini su ordini, ma non servivano a nulla. Non ci stavano portando da nessuna parte.
Tra poco sarei uscito di casa e avrei richiesto un permesso per interrogare tutti gli invitati alla festa. Il primo ad essere interrogato sarebbe stato quel Constantine. Poi sarebbe toccato ai suoi compagni e ai vicini. Avrei spostato mari e monti ma dovevo ritrovare mia figlia. 
Avevo pensato e ripensato non so quante volte alla conversazione avuta con il rapitore e non ero riuscito a cavarci un bel nulla. Quel nome, Jack Tyrell, non mi diceva nulla. I poliziotti stavano cercando nei datebase alla ricerca di informazioni utili.
John Rider aveva copiato la traccia della voce del rapitore e confrontarla con quelle registrate negli archivi elettronici, ma non aveva trovato nulla. A quanto sembrava quel tipo non aveva precedenti, ma la conferma l'avremmo avuta sola una volta scoperto il suo volto o il suo nome.
Mi ero ritirato nella stanza degli ospiti una decina di minuti fa. Rose, mia moglie, non faceva che piangere e pregare Dio che la sua dolce bambina fosse sana e salva. Non ce la facevo a vederla in quello stato e a sentirla piangere. Le indagini non stavano conducendo a nulla e io mi ero solo voluto rintanare in una stanza al buio lontano da occhi indiscreti. Lì avrei potuto pensare con più lucidità.
Un rumore, una bussata, mi riscosse facendomi aprire gli occhi e alzare dal letto.
Aprii la porta scalzo e con la camicia leggermente sbottonata convinto che dall'altra parte ci fosse mia moglie. Mi sbagliavo.
Era stato Stephan, un poliziotto giovane ma intelligente, a bussare.
«Ci sono novità, giudice. Anthony ha trovato qualcosa» 


 
Note
Mi sembra di essere ripetitiva -e forse lo sono davvero- ma mi dispiace davvero per la lunghezza del capitolo. Lo so che rispetto al primo è molto più corto però adesso ho avuto meno tempo per scriverlo e in tutta onestà ho preferito aggiornare stasera che aspettare domani per continuarlo. Che poi tecnicamente è già domani, ma lasciamo stare.
Spero che abbiate apprezzato e che questa storiella continui a piacervi. 
Se tra di voi c'è qualche lettrice che segue anche le altre mie storie voglio dirle di non preoccuparsi perchè le sto continuando. Prima o poi aggiornerò.
Mi farebbe davvero un immenso piacere leggere qualche vostro parere. Mi invoglierebbe alla scrittura. So che la storia è ancora agli inizi ma mi piacerebbe lo stesso conoscere la vostra opinione.
Passando alla storia...in questo capitolo escono-almeno in parte- i caratteri dei nostri due protagonisti. Entrambi sono molto tosti e soprattutto orgogliosi. Curiosi di sapere come andrà a finire? Avete un'idea di quello che accadrà tra una settimana, ossia quando è previsto lo scambio?
Fatemi sapere ;)
Notte 
-B

 
Capitolo revisionato il 12/10/2015

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Sotto controllo ***


 
IV
Sotto controllo


 
Storm's point of view

L'impertinenza di quella ragazzina era infinita. Non aveva né paura né mi temeva e questo mi faceva ribollire il sangue nelle vene. Però su una cosa aveva ragione. Io non potevo ucciderla, almeno non adesso che mi serviva viva.
Quella stronza, tuttavia, mi stava dando troppi fastidi. Avrei dovuto tenerla a bada.
Non sapevo nemmeno io come avevo fatto a controllarmi prima, per poco non la uccidevo con le mie stesse mani. Mi ero fermato solo quando avevo sentito il battito del suo cuore debole e lento sotto i miei palmi. Non le avrei permesso di morire, doveva aspettare per passare a miglior vita.
Nonostante fosse fastidiosa, impertinente, sfacciata e fin troppo coraggiosa per i miei gusti rappresentava la carta di libertà di Jack. Glielo dovevo, nonostante tutto. Nonostante tutto il male che aveva fatto deturpando intere famiglie e spacciando come se non ci fosse un domani.
Ma non era stato per la droga o per i numerosi furtarelli che era stato condannato a quel triste destino.
Io non potevo permetterglielo. Non potevo vederlo fare quella fine. La sola immagine di lui legato a quella sedia inerme mi devastava.
Non posso permettere che accada. Lo devo salvare. Lo devo a lui e a Lizzie.


Ero uscito dalla camera d'albergo e mi ero diretto allo Shop Store del Motel per comprare provviste per il viaggio. Ci saremmo rimessi immediatamente in cammino. Dovevamo raggiungere Bellingham il prima possibile e non sarebbe stato facile contando che avranno sparpagliato posti di blocco per tutta la città.
Dovevo percorrere stradine secondarie e avrei cambiato auto se fosse stato necessario.
Il negozio era piccolino ma vendeva di tutto. Cibo, vestiti, scarpe, musica e anche i telefonini prepagati.
Ero lo Shop Store adatto per prepararsi ad una fuga.
Mi ero sbarazzato del cellullare della ragazza mentre il mio non l'avevo portato con me. Quello prepagato che avevo usato per parlare col giudice Jensen l'avrei buttato il prima possibile. Dovevo acquistarne un altro per chiamare nuovamente il giudice. Presi anche delle magliette e un pantaloncino. Abigail Jensen non poteva mica andarsene in giro con quel suo vestitino rosa. Avrebbe dato troppo nell'occhio.
Con due buste piene caricate in braccio mi diressi alla stanza d’albergo. Aprii la porta con un calcio e lanciai gli acquisti sul letto. Richiusi la porta a chiave e misi il lucchetto.
Mi avvicinai al letto di Abigail, mi accovacciai sulle sue gambe e le slegai le caviglie. Non potei evitare di notare un sussulto da parte della ragazza. Allora non le ero proprio indifferente. Devi avere paura, stronza.
Le slegai anche i polsi e mi allontanai immediatamente da lei non vedendola mentre si accarezzava quelle braccia ferite e quelle giunture piene di lividi. Non mi interessava. Doveva rimanere viva mica illesa.
«Alzati» ordinai scavando nelle buste e afferrando i vistiti che avevo appena comprato. «Mettiti questi» le lanciai i panni addosso.
La ragazza si alzò e si diresse in bagno con i vestiti puliti stretti al petto. Quando sentii la porta chiudersi tirai un sospiro di sollievo e mi sfilai la camicia che indossavo ancora dalla sera prima.
Il sole era sorto da ore e già batteva alto nel cielo. Accesi la televisione per vedere l’ora e sentire i notiziari.
Erano le sette del mattino.
Tardi.
Dovevamo muoverci, non potevamo permetterci di perdere tempo.
Battei una manata contro la porta del bagno. «Muoviti» sbraitai ringhiando con quel tono di voce duro e severo. Detestavo urlare. Da bambino avevo sentito fin troppe urla e il mio unico desiderio era quello di trovare un po’ di pace e serenità. A distanza di anni quella pace non l’avevo ancora trovata. Mi ero ripromesso che io non avrei mai urlato, non contro una donna almeno, e che il mio tono di voce sarebbe sempre stato pacato. Beh, le promesse fatte a cinque anni non valevano più di tanto.
Indossai la maglietta che avevo comprato per me. Nera e con il logo della Casa Bianca. La classica maglietta da turisti. Chiavi dell’auto in mano. Soldi nella sacca e il necessario per la sopravvivenza nelle buste. Ero pronto per partire.
La porta del bagno si aprì ed Abigail uscì.



Abigail’s point of view

Quella non ero io. La persona che vedevo riflessa nello specchio non ero io. I capelli erano troppo sporchi e disordinati per essere i miei. Io non avevo mai avuto occhiai mentre la ragazza che vedevo riflessa nello specchio ne aveva due profonde sotto gli occhi.
Le labbra sembravano l’unica cosa che mi appartenesse. Erano sempre le stesse sottili labbra rosate.
Nei miei diciotto anni di vita non avevo mai avuto un livido. Non avevo mai sbattuto la testa o ero andata a finire contro uno spigolo. Sapevo come erano fatti e che facevano male se si toccavano ma non ne avevo mai avuto uno.
In quel momento, chiusa in quello squallido e deleterio bagno, potevo dire che facevano male. Solo sfiorare quei segni viola leggermente rotondi mi provocava un forte dolore.
Le pelle in alcuni punti del polso era recisa e anche solo passarla sotto l’acqua corrente mi faceva male.
Mi sfilai il vestito e indossai immediatamente quel pantaloncino grigio di una tuta e la magliettina bianca col logo della Casa Bianca in blu.
Mi guardai attorno prima di uscire. Quella piccola stanzetta era priva di finestre e condotti dell’aria. Essere chiusi lì dentro ero come essere murati vivi, la sensazione era la stessa: soffocante.


Harrison’s point of view

«La notizia è stata diffusa. In rete non si parla d’altro e alcuni canali televisivi ne stanno parlando proprio in questo momento» mi comunicò Anthony seduto al tavolo da pranzo.
«Accendi la tv. Voglio vedere» dissi scostando una sedia dal tavolo e sedendomi sopra.
Portai una mano tra i capelli scompigliandoli e tirando leggermente le punte. Anthony fece come gli era stato ordinato e appena sentii l’inconfondibile voce di una giovane reporter alzai lo sguardo concentrandomi soltanto su di lei e le sue parole.
«Un’ importante notizia ci è giunta da poco in studio. A quanto pare la figlia del celebre magistrato Jensen è scomparsa la scorsa notte. La ragazza pare essere andata ad una festa dalla quale non è mai tornata. Una ricompensa di cinquemila dollari verrà data a chiunque riuscirà a trovarla. In sovraimpressione scorre il numero del capo delle indagine. Si prega di chiamare se si hanno notizie utili al ritrovamento della ragazza»
La giornalista non aveva fatto cenno allo scambio come avevo richiesto. Quella parte non doveva essere di pubblico dominio. Quella informazione era meglio tenersela per noi soprattutto da quando Anthony aveva trovato il fascicolo di Jack Tyrell.
Era detenuto nella prigione di Boise, nell’Idaho. Si trovava nella città in cui era nato.
Era stato giustiziato il 23 Aprile e condannato a morte. Tra nove giorni sarebbe stato incatenato alla sedia elettrica e ucciso pubblicamente nello stato di Washington. Queste erano le informazioni che erano scritte nel fascicolo che portava il nome di Jack Tyrell
Quel ventitré aprile, che ormai sembrava così lontano, ero stato stesso io a condannarlo a morte certa.
E ora quel ragazzo avrebbe tolto la vita a mia figlia se non avessi rispettato gli accordi.
Il caso di Jack Tyrell non mi era particolarmente noto. Di casi come quello i tribunali statunitensi ne sono pieni. In America la legge parla chiaro e per chi uccide con aggravanti deve pagare con la pena di morte. Sedia elettrica, impiccagione, fucilata o decapitazione poco importa.
Si parla di aggravanti quanto avviene un omicidio multiplo, come nel caso di Jack Tyrell o quando si uccide durante un altro crimine*.
Jack Tyrell ha ucciso una donna e due uomini la sera del due Gennaio di quello stesso anno e l’omicidio era stato ripreso dalle telecamere della statale. Quando Tyrell ha premuto il grilletto aveva messo piede a Spokane, Washington, facendo passare il crimine nelle mani del nostro dipartimento giudiziale e non in quello dell’Idaho.

Il rapitore era un pazzo se credeva che avrei lasciato libero un criminale del genere. In altre circostanze non avrei mai lasciato a piede libero un criminale di tale portata. Ma si stava parlando di mia figlia, non potevo correre rischi, non quando c’era lei di mezzo. Dovevo trovare un modo. Sapevo che c’era. Quello che mi serviva era soluzione un modo per far collidere la parte paterna con il senso del dovere.
Dovevo escogitare un piano e con le forze dell’ordine dalla mia parte non potevo fallire.



Abigail’s point of view

Storm era davanti alla porta con ancora il telecomando in mano e la televisione accesa.
«Vali così poco per il paparino? Solo cinquemila dollari?» disse sadicamente spegnendo la televisione e lanciando il telecomando sul letto.
«Mi delude questo giudice. Credevo fosse più in gamba» sbuffò scrollandosi le spalle. Sembrava stesse parlando della perdita della sua squadra di rugby preferita. Anzi, per quella sarebbe stato più colpito.
Quello che invece lasciava basita me era che alla tv non avessero parlato del riscatto. Che mio padre volesse rifiutare? No, lui non farebbe mai una cosa del genere, non tirerebbe la corda fino a farla spezzare. Non se in ballo c’è la mia vita. Il panico mi assalì.
E se avesse rifiutato? E se invece sarebbe stato Storm a giocare sporco? Se mi avesse veramente uccise fregandosene dell’accordo? Avevo già avuto una chiara dimostrazione di quanto fosse violento e della sua incapacità di controllarsi. Senza rendermene conto iniziai a tremare.
Ero terrorizzata dall’idea che potesse farmi del male.
«Dobbiamo andarcene subito» disse Storm con la sua solita voce carica di potere eppure mi sembrava meno autoritaria, più umana.
Si avvicinò a me e legò il mio polso al suo con una corda lunga. Tra i nodi che ci legavano i polsi c’erano minimo tre metri di corda.
«Per sicurezza» disse accennando alla corda e contro ogni aspettativa, mi strizzò l’occhio.
Dovetti fare un’espressione di puro stupore visto che lui rise. Però la sua non era una risata limpida e contagiosa che ti invoglia ad unirti a lui. No, quella era una risata maligna, derisoria che metteva i brividi e ti faceva sentire inadeguato fin dentro il profondo.



Harrison’s point of view

Interrogare tutti i ragazzi presenti alla festa non era servito a nulla, ne avevo ricavato un pugno di mosche. Era stato totalmente inutile.
Sembrava che nessuno avesse un ricordo lucido di quella sera. Alcuni si ricordavano della presenza di Abby, ma sembrava che nessuno ci avesse parlato eccetto Constantine che era stato al suo fianco tutta la serata.
Il ragazzo aveva sostenuto che Abby avesse parlato solo con lui e che non si era staccato un attimo da lui visto che mia figlia aveva alzato troppo il gomito.
Mi aveva detto che stava per accompagnarla a casa quando in casa sua si era sentito un rumore e lui era rientrato per controllare. Quando era riuscito Abby non c’era più.

«Fate entrare pure l’ultima ragazza» ordinai dal microfono. Quella stanza per gli interrogatori era completamente grigia e spoglia. C’erano telecamere ovunque, un tavolo e due sedie. Una occupata da me e l’altra dall’interrogando.
Non era stato facile convincere la questura a darmi il permesso per svolgere io stesso l’interrogatorio, ma alla fine avevo attenuto quello che volevo. Perché io ottengo sempre quello che voglio e riavrò anche mia figlia.
Una ragazza dai lunghi capelli castani entrò sedendosi di fronte a me. Sul viso aveva stampata un’espressione di puro terrore e spavento. Era tesa come una corda di violino, ma mi guardò lo stesso in pieno volto mentre parlò.
«Giudice le giuro che non centro nulla. Sua figlia io nemmeno la conoscevo. Tutti questi interrogatori mi stanno spaventando» disse poggiando le braccia sul tavolo e sporgendosi in avanti.
«Signorina si calmi. Qui nessuno la sta accusando. Deve capire che questi sono normali interrogatori» dissi cercando di tranquillizzare quella ragazza. Faceva quasi tenerezza.
«Come si chiama signorina?» chiesi sorridendole cercando di calmarla.
«Anna» disse semplicemente «Anna Miller»
«Bene, Anna, puoi dirmi cosa hai fatto alla festa a casa di Constantine l’altra sera?» dissi calandomi nei panni dell’investigatore.
«Quando sono arrivata la festa era già iniziata, ho incontrato un paio di conoscenti e ci ho scambiato qualche parola. Ho ballato. Bevuto» disse guardandosi le mani come se si vergognasse delle sue stesse parole. «Insomma giudice, ho fatto quello che fanno i ragazzi. C’ho provato con un ragazzo e sono stata appresso a lui tutta la sera»
«Ti ha riaccompagnato lui a casa? Qualcuno può testimoniare quello che mi stai raccontando?» Era la milionesima volta che sentivo quelle parole. Sembrava che nessuno avesse né visto né sentito nulla.
«Macchè, quello stronzo prima mi ha sbattuta per bene e poi se n’è andato. Non l’ho più visto» raccontò la ragazza esausta. Probabilmente era stanca di raccontare sempre le stesse cose.
«Può dirmi il nome di questo ragazzo?» chiesi. Avrei voluto confrontarmi con lui. Se era alla festa allora dovevo averlo sentito quella mattina. Lei era l’ultima della lista.
«Non ne ho la più pallida idea. Quando gliel’ho chiesto mi ha risposto dicendo» fece una pausa facendo le virgolette con le mani «Che senso sapere il mio nome. È solo uno stupido appellativo e una perdita di tempo mentre potremmo fare altro» citò alla perfezione, quasi come se quelle parole le fossero state impresse a fuoco. «E comunque non l’ho mai visto a scuola. Era più grande, aveva sui vent’anni» disse infine rilassando la schiena contro la sedia.
Interessante.
Tutti i ragazzi che avevo interrogato quel giorno frequentavano la stessa scuola di Abby e Constantine mi aveva assicurato di aver invitato solo persone che conosceva e della scuola.
Quello era davvero strano. Molto strano.
«Anna, potresti gentilmente descrivermi questo ragazzo» chiesi. Una lampadina si era accesa nella mia mente. Finalmente avevo un indizio. Una pista da seguire.
«Alto, muscoloso, capelli neri e occhi tremendamente chiari. Quasi trasparenti.» soffiò come se stesse leggendo la lista della spesa.
Improvvisamente saltò sulla sedia. «Oh, aspetti un attimo» disse sorridendo come se si fosse ricordata qualcosa di estremamente importante.
«Mi dica pure» la incalzai.
«La mia amica dovrebbe avere una sua foto»


*Le informazione sono state prese da Wikipedia e altri siti sui quali ho fatto le mie ricerche


Note
Zazazannn…e adesso come la mettiamo? Curiose di sapere cosa succederà? Credevate che il piano di Storm fosse perfetto e che filasse tutto liscio?
Ammetto che l’inizio di questo capitolo sia un po’ noiosetto però il finale..si rifà.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che vi abbia invogliato ancora di più.
In questo capitolo succedono un sacco di cose. Entra un nuovo personaggio, anche se non fisicamente, ed è Lizzie.
Si scopre cosa ha mai fatto questo Jack e qual è il suo destino.
Le reti televisive sono state informate e, a quanto pare, questa Anna fa fare un passo in avanti alle indagini.
Se volete sapere cosa succederà vi basta solo continuare a seguire la storia e lasciarmi un commentino.
Mi fareste davvero felicissima.
Ci tengo a ringraziare le due lettrici che hanno lasciato una recensione, sono meravigliose. Le vostre parole mi hanno colmato il cuore di gioia. Ci tengo a ringraziare anche quelle lettrici silenziose che seguono la storia e che l’hanno messa tra i preferiti.
La storia è solo all’inizio ma sono molto contenta della piega che sta prendendo. Se vi piace, perché non fare un passa parola e farla crescere?
Come sempre vi do un caloroso abbraccio
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Un passo indietro ***


V
Un passo indietro



Abigail’s point of view

La radio era accesa e una stazione regionale passava delle noiose canzoni country.
Non ero mai stata una gran fan del genere, mi annoiava sentire quel sound. Preferivo di gran lunga la musica pop. «Questa musica fa schifo»
Storm diede voce ai miei pensieri. Staccò una mano dal volante e spense la radio. Cacciò dalla tasca dei pantaloni un vecchio iPod con gli auricolari inseriti. Staccò le cuffiette e le gettò indietro andando a finire sui sedili posteriori.
Si allungò col busto fino a sfiorarmi le gambe col torace per poi allungare il braccio e aprire il cruscotto per cacciare una cassetta.
Quando la sua maglietta sfiorò la pelle delle mie gambe nude non potei evitare di sussultare e di rannicchiarmi su me stessa.
«Tranquilla bambolina, non voglio farti nulla» disse guardandomi dal basso e rendendosi conto del mio stato emotivo.
I suoi capelli sfioravano le mie gambe solleticandole ma poco mi importava. Ogni cosa importava poco quando avevo i suoi occhi di quel colore tanto inusuale puntati contro. Erano disarmanti.
Mi sentivo con le spalle al muro e incapace di muovermi. Ero come bloccata, ma non fisicamente. Avevo ancora i polsi legati tra di loro mentre le gambe erano libere. Storm aveva abbassato la sicura chiudendo il mio sportello a chiave. Fisicamente ero realmente bloccata, ma in quel momento mi sentivo bloccata dentro, non avevo la forza di reagire né di staccare gli occhi dai suoi.
Il rumore di un clacson ci ridestò da quello stato di trance e lui riprese subito il controllo dell’auto.
Inserì la cassetta, collegata all’iPod, nello stereo. Le note di Laugh, I nearly died si diffusero all’interno della vettura.
I primi accordi di batteria seguiti dal suono delle corde del basso pizzicate bastarono a farmi venire la pelle d’oca.
I Rolling Stones, come non amarli. Abbandonai la testa contro il sediolino lasciandomi cullare da quel ritmo rilassante ma forte allo stesso tempo.
Quella era la canzone adatta a quel viaggio, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era davvero ridere. E lo feci. Mi abbandonai al suono di una risata isterica meritandomi l’occhiata di incomprensione da parte di Storm. Doveva pensare che stessi perdendo la testa, ma del resto chi sarebbe rimasto ragionevole in una situazione del genere.

Il viaggio continuò così. Le canzoni continuavano a susseguirsi, io continuavo a guardare fuori dal finestrino contando gli alberi che vedevo mentre lui guidava imperterrito aumentando sempre di più la velocità.
Alle due di pomeriggio l’automobile si fermò nel parcheggio di un McDonald’s.
Storm tirò il freno a mano rivolgendomi un’occhiata.
«Spero che l’hamburger sia di tuo gradimento» disse con il solito ghigno stampato sul volto. Aprì lo sportello e scese dall’auto. «Non ti azzardare a scendere» ordinò.
Come se avessi potuto. Tutti gli sportelli erano stati chiusi a chiave, i finestrini non si abbassavano se l’auto non era in movimento.
I vetri erano oscurati, quindi nessuno mi avrebbe visto dall’esterno, nussuno mi avrebbe riconosciuto e urlare sarebbe stato completamente inutile. Senza contare che i miei movimenti erano limitati considerando che avevo le mani legate.
Storm richiuse il suo sportello e lo vidi venire dalla mia parte. Aprì la portiera e si gettò immediatamente addosso a me. «Non ci pensare. Di qua non si passa» sussurrò al mio orecchio dopo che mi ero mossa pronta a scendere dall’auto.
Sentii le sue braccia avvolgermi per poi allungarsi dietro al sediolino.
Con il suo corpo spalmato addosso non avevo modo né di pensare né di capire cosa stesse succedendo. Avvertii le sue braccia muoversi attorno al mio busto.
«Per sicurezza» soffiò nuovamente nel mio orecchio spostandomi i capelli con il respiro e legandomi al sediolino. «Così non scappi» mi fece l’occhiolino e uscì chiudendo lo sportello a chiave.
Bastardo. Stronzo. Sporco ricattatore. Non riuscivo a muovermi. Quella corda era talmente stretta che non riuscivo nemmeno a respirare.
Quella sensazione di costrizione e impotenza mi fecero salire le lacrime agli occhi. Da quella maledetta sera non avevo versato nemmeno una lacrima. Non l’avevo fatto quando avevo risentito la voce di mio padre e nemmeno quando Storm aveva tentato di uccidermi strozzandomi. Non mi sarei mostrata debole davanti a lui. Ma lì, in quell’auto maleodorante ero sola e gli argini dei miei occhi si ruppero squassando il mio corpo con numerosi spasmi.
Ad ogni singhiozzo la corda tirava di più provocandomi dolore allo sterno. Mi sarabbero usciti dei lividi anche lì, già potevo sentire la corda che segava la pelle sotto quella sottile maglietta.

Quando Storm aprì lo sportello con in mano due cartoni pieni di cibo da asporto stavo ancora piangendo. Appena si sedette al posto del guidatore bloccai i miei singhiozzi. D’istinto provai a portarmi le braccia al viso per proteggermi dalla sua vista. La corda impedì il mio movimento a seguito del quale sentii la pelle bruciare. Mi ero mossa bruscamente ricavandone solo dolore e graffi.
Un gemito di dolore uscì dalle mie labbra attirando l’attenzione di Storm che si voltò verso di me. In quel momento qualcosa di indefinito scattò in me facendomi alzare il volto e puntare gli occhi nei suoi con fierezza. Per un solo attimo vidi la sua mascella indurirsi, gli occhi si dilatarono e le labbra si schiusero.
Per un solo attimo sul suo viso si dipinse lo stupore. Ma durò un solo attimo. Un solo e infinito attimo.
Quando si riprese poggiò le buste di cartone sui sedili posteriori e poi mi slegò. Questa volta lasciò liberi anche i miei polsi. Si mosse con calma e quella che sembrava delicatezza tenendo lo sguardo fisso su di me. Non provai nemmeno a scappare, sapevo che era inutile e che ad un mio falso movimento mi avrebbe legato di nuovo.
Slegandomi i polsi mi aveva voluto dare fiducia e non mi sarei di certo giocata la carta della mia libertà.
Avevo già fin troppi lividi e tagli.
Mi poggiò il sacchetto del McDonald’s sulle gambe senza dire una parola. Inserì le chiavi nel quadrò e ripartì.
Appena aprii il sacchetto e vidi una lattina di coca cola, una porzione di patatine e un panino col pollo il mio stomaco cominciò a brontolare.
«Serviti pure» Storm parlò con un boccone in bocca. Con una mano guidava e con l’altra mangiava.
Affondai i denti in quel panino con furia e rabbia immaginando che invece del pollo stessi addentando il braccio di Storm.


Harrison’s point of view

Avevo riconvocato Constantine per interrogarlo nuovamente. Dopo le notizie che avevo ricavato della signorina Miller dovevo accertarmi che alla festa ci fossero veramente solo i ragazzi della scuola.
«Giudice, glielo riconfermo. Alla festa c’erano solo i ragazzi che frequentano la nostra scuola. Erano tutti miei conoscenti. Ho aperto sempre io la porta e sono sicuro che nessuno si è imbucato» disse il ragazzo.
Quello era davvero curioso visto che quella Anna Miller sosteneva di aver passato la serata con un ragazzo più che ventenne.
«Ragazzo, voglio parlarti con onestà. Io ti credo ma prima una signorina mi ha raccontato di aver trascorso la serata con uno che non ha mai visto a scuola ed non aveva di certo la vostra età» spiegai con calma.
«Non so cosa dirle. Quello che sapevo ve l’ho detto» rispose il ragazzo.
«Va bene. Vada pure» dissi indicandogli la porta con la mano. Lui si alzò ed uscì. Da quell'interrogatorio non ci avrei ricavano nulla.
Tornai a studiare la foto che stavo osservando prima che Constantine entrasse.
Era sfuocata e presa da troppo lontano. Il ragazzo era stato preso di profilo. Stava fissando qualcosa. O qualcuno.
Il suo volto non si vedeva bene. Era coperto da lunghi capelli scuri e c’era troppa gente vicino a lui.
Quella foto non serviva a nulla. Era inutile.
L'avrei mandata a John per farla inserire nei database ma ero sicuro che non ne sarebbe uscito nulla.
Da quella foto ne potevamo solo trarre la certezze che quel giovanotto era presente alla festa ma il suo nome non c’era nella lista. Sembrava scomparso nel nulla. Come Abby.


Abigail’s poin of view

Il sole batteva forte impedendomi di guardare davanti a me. Non capivo come facesse Storm a guidare con la luce che gli arrivava dritta in faccia.
«Come sei silenziosa. Hai perso tutta la spavalderia?» chiese il ragazzo continuando a guidare guardando dritto davanti a sé.
«E cosa dovrei dire?» chiesi retoricamente «Alle mie domande non rispondi. È inutile parlare con te»
«Non posso rispondere alle tue domande» chiarì lui guardandomi con la coda dell’occhio.
«Fa lo stesso» sbuffai portandomi la mano alla fronte e poggiando il gomito alla portiera.
«Okay» sospirò «Facciamo un patto» disse lasciando il volante e passandosi le mani sui pantaloni.
«Un patto?» chiesi avendo paura di aver capito male. Quel tipo era schizzato forte. Che qualcuno lo aiuti.
«Si» affermò lui schiacciando il piede sull’acceleratore. La strada era deserta. «Una domanda al giorno. Io risponderò con onestà»
Era troppo bello per essere vero. La cosa mi puzzava. «Cosa vuoi in cambio?» chiesi. Nessuno fa niente per bontà d’animo e lui non sarebbe stato di certo quello che avrebbe reso quella lezione di vita falsa.
«Ora un bel niente. Ma a tempo debito passerò a riscuotere» rispose senza nemmeno guardarmi in faccia.
Prendere o lasciare.
Lasciare era la cosa più giusta da fare. Non potevo mica accettare senza sapere cosa voleva in cambio. Tuttavia ero tentata dal dirgli di si. Una domanda al giorno. La tentazione era forte. Tanto cosa avevo da perdere? La vita me la ero giocata già tempo fa.
Annuii semplicemente sussurrando un “Va bene”.
Pensai a tutte le probabili domande che avrei potuto fargli, ma solo ad una volevo sapere veramente la risposta.
«Chi è Jack Tyrell?» chiesi voltandomi completamente nella sua direzione e dandogli tutta la mia attenzione.
Lui si voltò e mi guardò in faccia. Sembrava quasi non volesse rispondere ma glielo impedii subito.
«Hai detto che avresti risposto a qualunque domanda»
Lui mi lanciò un’occhiata di rimprovero per poi tornare a guardare la strada. «Non ho detto così, ma va bene» soffiò al nulla.
Il sole continuava a battere in quel viale alberato dimenticato da Dio.
«Jack è mio fratello»

 
Note
Questo capitolo è confusionario, non si capisce nulla ed è contortissimo. Mi dispiace ma non sono riuscita a tirare fuori nulla di meglio. Prometto che il prossimo sarà molto più carino. Parola di Scout!
Ad ogni modo, ecco svelata la misteriosa identità di Jack.
Okay, non è tanto grandiosa come cosa visto che lo si poteva capire dai cognomi. Rimane il fatto che la nostra Abby non sapeva niente.
E per quanto riguarda la foto? Credevate servisse a qualcosa? E secondo voi adesso come procederanno le indagini? Il giudice avrà intuito qualcosa? Aspetto con ansia le vostre idee, pareri, opinioni, recensioni e si…anche critiche.

Volevo chiedere un piacere.
Tra di voi c’è qualcuno che se la sente di scrivere l’introduzione alla storia? Quella che ho scritto io non mi convince molto, se la vostra è migliore non vedo perché non metterla.
Ovviamente saresti citati stesso nell’introduzione. Beh fatemi sapere.
Ci tengo a ringraziare le ragazze che hanno recensito il precedente capitolo e tutte quelle lettrici silenziose che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate. 
Piano piano state aumentando e io sono contentissima. Spero che anche questo capitolo sia piaciuto anche se è un pò noiosetto. 
Io non vedo l'ora di scrivere una certa parte. Ma prima ci devo arrivare..
Ad ogni modo, RECENSITE, RECENSITE, RECENSITE
Nel capitolo cito una canzone dei Rolling Stones, sentitela perchè è davvero qualcosa di meraviglioso.
Ore mi dileguo, il film mi attende.
Salutoni
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Ti sei fatta male? ***


 
VI
Ti sei fatta male?
 


Abigail's point of view

La notte stava calando su Colville.
Non ero mai stata in quella zona del paese e non mi ero persa nulla. Stradoni enormi costeggiati da pini altissimi e qualche fast food che spuntava ogni tanto. Classico paesino sperduto basato su un prototipo che non avevo mai amato. Mi piaceva stare in mezzo alla gente, vedere i marciapiedi brulicare di persone che escono dai numerosissimi negozi che si susseguono uno dopo l'altro. Insomma, ero un'amante della vita cittadina e quel nulla che mi circondava mi metteva tristezza e anche una certa ansia.
Una bambina col padre stava a bordo strada, l'uomo guardava a destra e a sinistra per osservare le macchine. Distavano una settantina di metri da noi. Il padre afferrò la mano della figlia e fecero per attraversare. In strada c'eravamo solo noi. Storm accelerò e costrinse e due e fermarsi nel bel mezzo della corsia per non essere investiti dall'auto.
Storm decelerò e vidi la freccia del contachilometri cadere in picchiata verso sinistra.
«Potevi anche evitare di tentare di buttarli sotto. Non ti basta attentare alla mia vita?» chiesi voltandomi verso di lui.
Da quando avevamo stipulato quella specie di patto non avevamo più parlato. Adesso mi sentivo più sicura. Grazie a quel coraggio in più e alla spavalderia che non mi mancava dalla nascita pronunciai quelle parole.
Lui mi rivolse un occhiata omicida. «Ti preferivo quando stavi zitta» sputò e, come tutte le volte che mi rivolgeva la parola, mi sentii la feccia delle fecce. Era come se la mia sola vista lo ripugnasse eppure non mi ero mai reputata una brutta ragazza. Ma non era una questione di aspetto esteriore, questo lo sapevo, c'era dell'altro sotto. Ma cosa?
«Cosa centro io in tutto questo?» chiesi. Sapevo che voleva scambiare la mia vita con quella del fratello, ma ancora molte cose mi erano oscure.
«Già hai consumato la domanda di oggi. Già l'hai dimenticato bambolina?» disse col solito tono dispregiativo.
No, non l'avevo dimenticato.
«Non chiamarmi così» parlai cercando di sembrare il più ferma e decisa possibile.
«Così come, bambolina?» soffiò e io strinsi i pugni. «Che c'è? Ti da fastidio bambolina?» ripeté di nuovo quella parola con ancora più sarcasmo.
«Si, mi da fastidio. Mi fa sentire piccola» affermai decisa drizzando la schiena e sedendomi ancora più composta. «E io non lo sono» affermai.
«Se ti da fastidio, allora ti chiamerò sempre così» rispose perfido tornando composto e concentrandosi sulla strada. Accelerò ancora di più. La macchina rispose subito al comando sfrecciando per quella strada deserta. Correva con i fari spenti e il buio che calava sempre di più. Non riuscivo a vedere ad un palmo dal naso e mi chiedevo come facesse Storm a vederci qualcosa. Speravo solo che non ci saremmo schiantati.
«Merda!» digrignò tra i denti e fece immediatamente inversione per poi girare in un viale. Accelerò ancora di più e portò l'auto quasi al limite.
«C-che succede?» chiesi con un filo di voce mentre il panico mi assaliva lentamente. Storm non si degnò nemmeno di rispondermi ma il suono delle sirene della polizia bastarono come risposta. La polizia. Papà.
Finalmente era arrivato qualcuno a salvarmi.


Harrison's point of view

«Signore, è stata avvistata un'auto che correva ad alta velocità per le strade di Colville. A cento metri dalla vettura della polizia l'auto ha fatto inversione. Ho dato ordine di seguirli. Una seconda pattuglia è rimasta sul posto» La voce di Rider risuonò nel salotto.
«Hai fatto bene. Tienimi aggiornato» dissi al capo della polizia. La situazione era in stallo. Non sapevamo dove mettere le mani, speravo solo che questi posti di blocco ci avrebbero portati a qualcosa nonostante ne dubitassi altamente.
«Va bene. Mi metto in contatto con gli agenti nella volante» continua l’agente ma ormai non bado più alle sue parole e mi perdo nei miei pensieri. Non so cosa fare. Il secondo giorno, dalla scomparsa di mia figlia, era quasi al termine e la fatidica data si avvicinava, mancavano poco più di centoventi ore e tutto si sarebbe concluso. Nel bene o nel male.
Da magistrato non potevo permettere che un detenuto, e soprattutto di quella portata, girasse a piede libero per l’America, era mio dovere proteggere i cittadini americani a costo della mia stessa vita. Ma quella di mia figlia? Non sapevo a quanto ero disposto pur di riavere la mia bambina con me, di nuovo tra le mie braccia.
La polizia non aveva nemmeno preso in considerazione l’eventualità di effettuare lo scambio e se non ci fosse stata di mezzo Abby non ci avrei pensato due volte a rifiutare io stesso. La giurisdizione americana puniva severamente chiunque complottasse contro la stessa legge. L’idea di accettare lo scambio non doveva nemmeno passarmi per la testa eppure non sapevo cos’altro fare se non assecondare il piano pazzo di quel rapitore. Dovevamo trovarli prima dello scadere di quei cinque giorni.
Se gli avessimo trovati avrei tagliato la testa a quel bastardo che si era permesso di rapire mia figlia.


Abigail’s point of view

Il sollievo si era impossessato di me. Ero felice. Finalmente ci avevano trovati. Mi avevano trovata.
La macchina sterzò bruscamente sballottandomi contro lo sportello.
«Cazzo, cazzo» continuava ad imprecare e a guidare come un pazzo. Aveva appena rotto l’aiuola di una casetta residenziale per poi voltare in un viale buio e stretto e percorrerlo a tutta velocità. La polizia ci stava alle calcagna, lo sapevo anche se non riuscivo a vedere bene la figura della vettura bianca e blu riuscivo a sentivo le sirene. Più il suono diventava forte, più Storm si innervosiva e più io godevo.
Un sorriso era spuntato sulle mie labbra. Ero talmente emozionata e tramortita da quel sentimento talmente potente che avevo dimenticato di riflettere. Quello era il mio momento per agire.
Mi gettai addosso a lui con tutta la forza che avevo e lo scaraventai contro lo sportello. Un gemito di dolore sfuggì dalle sue labbra e in un gesto repentino afferrai lo sterzo e lo girai prima e destra e poi a sinistra facendo stridere l’auto contro le pareti di quel viale stretto.
«Levati, puttana» urlò il ragazzo spintonandomi con forza. Sbattei violentemente contro la portiera che era stata accuratamente chiusa a chiave da Storm diverse ore prima. In un lampo mi gettai sulle chiavi inserite nel quadro. Se le avessi levate la macchina si sarebbe formata immediatamente e avrei dato quei pochi secondi di vantaggio alla polizia per raggiungerci.
Il suono delle sirene si fece ancora più forte, mi voltai per lanciare uno sguardo alle mie spalle e riuscii a scorgere in lontananza la sagoma di una vettura.
«Sei in trappola, stronzo» urlai gettandomi sulle chiavi ma trovai ad attendermi un pugno serrato e lui non ci pensò due secondi prima di sferrarmelo sotto il mento. Un urlo di puro dolore unito al sangue uscì dalle mie labbra.
Il piede di Strom schiacciò l’acceleratore e la macchina fece un balzo in avanti e poi voltò a sinistra con una brusca sterzata. Storm aveva la mascella contratta e ogni muscolo del suo corpo era teso. Continuava ad imprecare e schiacciare maggiormente il piede destro sull’acceleratore come se la macchina potesse andare più veloce del suo limite massimo. Voltò nuovamente fregandosene del semaforo rosso e fui spostata in avanti cadendo dal sediolino dopo una brusca sterzata.
Mi rialzai e andai a sbattere con la testa contro il cruscotto, e, nonostante il dolore, mi gettai nuovamente su di lui facendo sbandare l’auto.
«Porca troia!» ringhiò con un tono di voce che non sembrava nemmeno il suo e poco dopo di tirò un altro pugno in pieno viso. Questo era più forte del primo e il dolore mi fece vedere le stelle. Mi accasciai contro il sedile e mi portai le mani alla guancia. Gli occhi si riempirono di lacrime ma non potevo arrendermi, non adesso che avevo l’opportunità di scappare. Portai d’istinto la mano alla maniglia dello sportello ma, come già sapevo, non successe nulla. Lo sportello era stato chiuso dall’esterno.
Mi gettai con tutte le forze che avevo, ed erano davvero poche, contro il finestrino nel vano tentativo di romperlo.
Una mano grossa mi spinse bruscamente contro il sediolino e sbattei la testa sul vetro nell’opporre resistenza.
«Se non ti fermi ti ammazzo» urlò Storm cacciando la pistola dalla tasca dei pantaloni. Sapevo che non scherzava. Non lui. Mi avrebbe ucciso davvero ma non mi importava. Dovevo correre il rischio.
Mi mossi di nuovo ma l’improvvisa e brusca frenata mi fece sbattere la testa di nuovo contro il cruscotto dell’auto. Se non ero ancora svenuta dal dolore era solo grazie all’adrenalina.
Storm cambiò marcia mettendo la retromarcia e correndo a più non posso verso la vettura della polizia. Quando ce la ritrovammo dietro di noi lui fece un testacoda* che sballottolò entrambi all’interno dell’auto. Ci ritrovammo muso a muso con l’auto della polizia, tuttavia non riuscivo a vedere chiaramente i volti dei due poliziotti; la luce dei fari me lo impediva.
Storm abbassò il finestrino e si sporse con busto al di fuori dell’auto puntando la pistola alle gomme dell’auto della polizia e con due colpi perfetti fece fuori gli pneumatici anteriori.
Velocemente ritornò all’interno dell’auto e bruciò un paio di metri di strada con la retromarcia per poi voltare ad un incrocio e ritornare dritto sulla strada. Non si sentiva più il rumore delle sirene ma solo quelle delle gomme dell’auto che stridevano sull’asfalto.


Harrison’s point of view

«Merda!» sibilai sferrando un pugno contro il muro. «Mandate subito l’altra pattuglia sul posto. Dovete seguirli, non lasciateli scappare. Non possono essere andati lontani» urlai fuori di me. Non potevo crederci che erano stati tanto vicini a mia figlia.
Quell’uomo, quello che aveva rapito mia figlia, era davvero un pezzo di merda e uno schizzato di gran classe per aver fatto quello che ci avevano appena comunicato i due agenti di pattuglia che erano partiti all’inseguimento.
Mi avevano assicurato di aver visto la ragazza in faccia e di averla riconosciuta. Era lei. Era Abby. E gli era sfuggita dalle mani.
«Trasferite immediatamente quei due agenti. Voglio interrogarli di persona» sbraitai fuori di me.
Uno dei tanti poliziotti presenti mi rispose che l’avrebbe fatto subito.
«Concentrate tutte le forze di polizia a Colville, non devono scappare»


Abigail’s point of view

Dopo avermi legato nuovamente braccia, gambe, avermi tappato la bocca con del nastro isolante e aver parcheggiato l’auto in un vicoletto e averla cercata di coprire alla meglio mi aveva caricato sulle sue spalle e aveva iniziato a correre con me in braccio.
I nodi delle corde gli aveva tirati così tanto che non potevo nemmeno tentare di muovermi. La faccia mi doleva in modo assurdo e mi girava la testa. Poco dopo mi lasciò e per poco non caddi a terra.
«Ora ti slego le gambe, non tentare ti scappare o ti uccido» pronunciò in tono minaccioso e io annuii. Ero troppo stanca anche solo per tentare di fuggire. Storm si chinò e con il coltello che aveva estratto dai pantaloni tagliò la corda che teneva legate le mie gambe.
«Devi salire su quel muro e scavalcarlo» disse guardandomi negli occhi e io provai a lamentarmi.
Mi voltai e vidi che alle nostre spalle c’era un muro altro almeno due metri. Non ce l’avrei mai fatta a scavalcarlo. Volevo dirglielo ma il nastro isolante mi impediva di parlare.
Il tocco delle sue mani mi ridestò dai miei pensieri. Mi voltai di scatto infuriata. Mi aveva appena toccato il sedere. «Muoviti. Io ti do lo slancio» ghignò scorbutico come al solito con la sua voce grossa e rauca. Non feci in tempo nemmeno ad annuire che mi sentii lanciare e se non fosse stato per i miei riflessi pronti mi sarei schiantata contro la parete. Allungai le mani e, nonostante fossero legate, cercai di aggrapparmi alla meglio al muro facendo forza anche sulle gambe. Quando riuscii a sedermi in cima al muro tirai un sospiro di sollievo e chiusi un attimo gli occhi. Quando gli riaprii Storm era seduto al mio fianco e si mosse in un attimo. Alzò il braccio e lo portò dietro alla mia schiena. Una leggera spinta e caddi al suolo con un tonfo portandomi le mani alla faccia per cercare di proteggermi. Almeno per quello che potevo. Colpii il suolo con la testa e quella botta tanto forte mi mise completamente fuori gioco.
E caddi nel buio come ero caduta dal muro. In un attimo.


*testacoda: non so se tutte sappiate cosa sia, ma se non lo sapete basta che cercate su YouTube e vi usciranno tantissimi video

 

Note
Perdonatemi per il mio ritardo di ben undici giorni. Chiedo scusa. 
Tra la vacanza e le letture dei libri che non avevo in programma non ho trovato nemmeno un momento per dedicarmi alla scrittura di questo capitolo. Tuttavia oggi mi sono messa con la testa e col pensiero e ho buttato giù qualcosa. E quello che n'è uscito è il disastro qui sopra. 
Il capitolo era stato pensato molto più lungo, ma è da parecchio passata e mezzanotte e non mi sembrava il caso di continuare a scrivere. Se lo avessi fatto avrei aggiornato tra chissà quanti giorni, quindi ho preferito pubblicare adesso.
Spero ugualmente che il capitolo vi sia piaciuto e che la scena di inseguimento sia riuscita bene. Fatemi sapere e non lasciatemi col dubbio.
Scusate per gli errori che ci saranno sicuramente nel capitolo ma non ho avuto modo di rileggerlo. 
Beh, come sempre lascio il solito annuncio. Se qualcuno ha in mente un banner o un trailer per questa storia, sarei ben felice che me lo faceste sapere. Io sono negate con queste cose.
Non vi rubo altro tempo. 
Un bacio e un saluto caloroso a tutte le lettrici di questa storia, alle ragazze che hanno recensito e inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Grazie ancora.

Buonanotte,
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Non deve cambiare niente ***



 
VII
Non deve cambiare niente



Abigail's point of view

Quando riaprii gli occhi il bagliore della luna fu la prima cosa che vidi. Quel piccolo spicchio bianco incastrato tra due nuvole scure illuminava la notte creando ombre suggestive su qualsiasi oggetto si posassero i suoi raggi abbaglianti.
La testa mi girava e doleva fortemente.
Mi portai immediatamente una mano dietro la nuca per tastarne le condizione e verificare se ero ferita. Sembrava tutto in ordine. Mi tastai le braccia e vidi che erano piane di graffi.
Le mie braccia. Erano slegate.
Probabilmente era stato Storm a liberarle in un gesto di misera pietà. Al pensiero di quel ragazzo voltai la testa per guardarmi intorno e cercarlo.
Ero stesa in quello che sembrava un giardino di una scuola. L’erba bagnata e umida per la notte mi stava infreddolendo tutta. Nonostante fossimo a fine Maggio sentivo freddo circondata da quegli alberi nel pieno della notte.
Mi chiesi che ore fossero. Sarà passata mezzanotte, ipotizzai. 
Mi sollevai sedendomi a gambe incrociate e notai che il ragazzo, che era anche la causa di tutte le mie disgrazie, era seduto a pochi passi da me su una panchina. Aveva un braccio piegato e la mano all’orecchio. Sembrava stesse parlando a telefono.
Con chi? Fu il mio primo pensiero. Guardava nella direzione apposta alla mia e mi chiesi se fossi riuscita a scappare via senza che se ne rendesse conto.
Senza pensarci un secondo di più feci forza sulle braccia e mi sollevai, ma appena provai a mettermi eretta persi l’equilibrio producendo un gran rumore che contribuì solo a catturare l’attenzione di Storm. Lui si voltò verso di me e mi lanciò uno sguardo di fuoco che voleva dire solo una cosa: provaci di nuovo e ti ammazzo.
Mi lasciai cadere sul prato esausta. Sollevai le ginocchia divaricando leggermente le gambe, chiusi gli occhi e poggiai le mani sul viso.
Ah, che bella sensazione poter muovere i propri arti senza impedimenti. Non avevo mai riflettuto su quando fosse bello potersi muovere in totale libertà. Sentii dei passi venire verso di me, ma non mi presi nemmeno la briga di aprire gli occhi tanto sapevo già chi era.
«Fa presto» gli sentii dire con la sua solita voce rude e graffiante, tuttavia il tono non era lo stesso che utilizzava per rivolgersi a me. Era più morbido. Quasi confidenziale, amichevole.
«Va bene, per allora sarà all’ingresso» disse per poi chiudere la telefonata e cacciarsi il cellulare in tasca.
«Cosa volevi fare?» mi chiese, ma il suo timbro vocale era cambiato di nuovo per ritornare a quello con cui era solito rivolgersi a me.
«Una passeggiata?» risposi ironicamente storcendo le labbra dando un’espressione buffa alla mia faccia.
Lui, dal canto suo, sollevò le sopracciglia per poi voltare il volto nell’altra direzione. Quando tornò a guardarmi il suo viso era tornato normale.
«Divertente» disse facendo quasi un cenno di sorriso. Appunto, quasi.
Rimasi imbambolata a guardarlo, era il mio turno di sollevare le sopracciglia in un’espressione corrucciata.
«Non provarci mai più, chiaro?» minacciò guardandomi serio e muovendosi sul posto.
«A fare cosa? A camminare?» ribadii più spavalda che mai sollevandomi sui gomiti.
«Vedi di fare poco la spiritosa o quelle belle gambine che ti ritrovi te le spezzo» e detto questo si chinò su di me appoggiando le mani sulle mie ginocchia e ritrovandomi il suo bel viso ad un palmo dal mio.
La luna sembrava fosse poggiata sulla sua testa in una specie di aureola. Divertente.
Un sorriso spuntò sulle mie labbra. Era proprio buffo che proprio lui avesse una cosa destinata solo agli angeli, agli esseri più puri. Storm somigliava più ad un angelo caduto che ad un essere celestiale; gli mancavano solo le ali nere.
Lui mi guardò stranito e strinse maggiormente le mie ginocchia provocandomi un brivido. Di dolore? Di piacere? No, impossibile. Sarà per il freddo.
Lo guardai dritto nei suoi occhi blu che, alla luce lunare, sembravano due pozze scure infinite piene di dolore e sofferenza. Storm mi fisso intensamente con uno sguardo carico di sfida che io ricambiai immediatamente.
Senza staccare il contatto fece scorrere le sue mani di qualche centimetro al di sopra delle mie ginocchia salendo rapidamente verso le mie cosce in una ruvida carezza. Schiusi leggermente le labbra avvertendo le sue dita fredde sulla parte più sensibile del mio corpo.
Mantenni il contatto visivo e non proferii parola e lui continuò a salire fermandosi solo una volta incontrato l’orlo dei pantaloncini di felpa.
Il suo sguardo si fece ancora più intenso e mi disarmò completamente. Senza sapere bene il motivo allargai maggiormente le gambe permettendogli di sistemarsi meglio in mezzo alle mie cosce divaricate. Mi dolevano le braccia che se ne stavano ancora piegate a reggere tutto il peso del mio corpo, ma in quel momento poco importava.
Storm distolse per pochi secondi gli occhi dai miei per posare il suo sguardo penetrante sulle mie labbra. Quando ritornò a guardarmi negli occhi fece un mezzo sorrisetto e gli spuntò una fossetta sulla guancia destra.
Desiderai di posarci sopra le mie labbra e mordere quel pezzo di pelle infossato nella guancia.
Un dito si infilò al di sotto dei miei pantaloncini massaggiandomi leggermente la pelle facendomi desiderare di più. Ma non lo fece. Continuò a massaggiarmi la coscia imprimendo sempre più forza e spostandosi sempre di più verso l’interno. Quando introdusse tutte e cinque le dita al di sotto della stoffa riempendosi la mano della mia gamba mi sfuggì un gemito dalle labbra che fece aumentare il sorriso di Storm. Era un sorriso di vittoria quello che torreggiava sul suo viso.
Il rumore di un clacson ci ridestò. Sul viso del ragazzo passò un' ombra di fastidio e si rabbuiò immediatamente.
Si staccò da me con un gesto fulmineo, mi afferrò le mani e mi issò.
Ero troppo scossa da quello che era appena successo e non riuscii ad oppormi alla sua forza. Una volta in piedi non sentivo più la testa girarmi ma ero confusa. Molto confusa.
Che cazzo era appena successo?
Che qualcuno mi aiuti. Avevo forse perso la testa, stavo diventando matta? Come era possibile che avessi appena permesso al ragazzo che mi aveva rapita dalla mia vita e che intendeva utilizzarmi come un oggetto toccarmi in modo così intimo?
«Muoviti!» ghignò Storm avviandosi e camminando a passo di marcia davanti a me.
Potevo tentare di scappare, ma ormai avevo capito che non ci sarei riuscita. Lui se ne sarebbe accorto.
Rassegnata e sconvolta lo seguii a testa bassa.



Storm’s point of view

Dio, quella ragazza mi avrebbe fatto ammattire. Non riuscivo a capacitarmi di quello che era appena successo, eppure non ero ubriaco. Ero ben consapevole di quello che stava succedendo mentre le toccavo le gambe. Era tutta colpa di quella stronzetta e delle sue gambe tentatrici. Me le ero viste belle, sode ed esposte sotto al naso che non ero riuscito a contenere la voglia di toccarle e tastare la loro morbidezza. E lo erano davvero.
La sua pelle calda sembrava gelatina che si modellava sotto le mie dita. Come la creta. Per non parlare delle sue labbra piene e dischiuse. E quel gemito mi aveva fatto perdere ancora di più la testa. Se non fosse stato per quel dannato -no, santo- clacson chissà quando ci saremmo fermati. Se ci fossi fermati.
Cavolo, le avevo solo toccato la gamba e mi ero già eccitato come un ragazzino. Prima me la toglievo dalla testa e meglio era. Per tutti e due.
Svoltai l’angolo e vidi il camion della spazzatura che ci aspettava e bordo strada. Cheikh era sempre stato un buon amico.



Abigail’s point of view

Un camion della spazzatura era l’ultima cosa che mi aspettavo di vedere. Ma la cosa che mi lasciava ancora più basita era la vista di quel ragazzo così strambo che stava salutando Storm con la solita stretta di mano da street boy.
Sembravano conoscersi bene ed essere in confidenza. Osservai meglio il ragazzo che era di qualche centimetro più basso di Storm ma molto più grosso di lui. Aveva un paio di spalle ed una massa muscolare che, nonostante la camicia di lino bianco, si potevano facilmente immaginare.
La carnagione era più scura rispetto a quella dell’altro ragazzo, ma quello che colpiva erano il groviglio di dread che aveva in testa. Erano chiari, di un biondo cenere, e raccolti sulla nuca con un fermaglio. Avvicinandomi notai che ai lati aveva la testa rasata.
Lui e Storm si strinsero la mano e il suo volto si illuminò con un sorriso enorme. Aveva dei denti bianchissimi che sembravano quasi luccicare.
Visto al fianco di Storm, il rapitore sembrava ancora più tenebroso e spaventoso del solito. Erano l’opposto eppure sembrava esserci una particolare sintonia tra di loro.
«Sempre il solito maleducato» esordì il ragazzo coi dread rivolgendosi a me con un tono di voce gentile. «Che fai, Loran, non mi presenti questa bella ragazza?» continuò lui.
Loran? Che fosse il nome di battesimo di Storm?
«Come se non sapessi già tutto sul suo conto» ribadì l’altro sbuffando leggermente.
«Vero» acconsentì sorridendo e muovendosi verso di me. «Io sono Cheikh. Piacere di conoscerti, Abby» disse porgendomi la mano che io strinsi titubante guardando Storm. Quest’ultimo sembrava rilassato e spensierato standosene appoggiato a quel furgono che non emanava un buon odore.
«Sarà meglio andare. La polizia ci starà dando la caccia» disse Storm scostandosi dalla vettura.
«Come vuoi» rispose Cheikh. Non sembrava disturbato dal fatto che non gli avessi nemmeno risposto. Prima di salire al posto di guida aprì le porte posteriori diffondendo nell’aria una tanfa insopportabile.
«A voi due tocca il posto di lusso» disse sarcastico per poi sparire. Poco dopo sentimmo il rumore nel motore.
«Dai, sali» parlò Storm rivolgendomi la parola senza guardarmi direttamente in faccia. Fece per salire ma io gli afferrai il braccio bloccando ogni suo movimento sul colpo.
«Perché prima ti ha chiamato Loran? È il tuo nome di battesimo?» chiesi alzando il volto per guardarlo dritto in faccia. Lui abbassò la faccia a sua volta.
«Credevi davvero mi chiamassi Storm?» rise di gusto salendo sul camion mischiando il suo profumo a quella tanfa tremenda.


 

Note
Alloooora, cosa ne dite di questo capitolo?
Non credo proprio che qualcuno di voi si aspettasse questa svolta. Leggendo pensavate che si sarebbero baciati? Che Abby lo respingesse?
E del nuovo personaggio invece che ve ne pare? A me piace un sacco, già lo adoro.
Non preoccupatevi, non è come Storm, o meglio Loran.
Come sempre spero che il capitolo vi sia piaciuto nonostante sia molto breve. Era nelle mie intenzioni farlo più lungo ma alla fine ho cambiato idea.
Questo capitolo è privo del punto di vista di Harrison ed è anche molto più tranquillo rispetto al precedente.
Come sempre, ringrazio le ragazze che leggono questo delirio e mi emozionano con le loro bellissime recensioni.
Un saluto va anche alle lettrici silenziose che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
Vi lascio il solito annuncio aperto a chi se la sentisse di fare il banner o il trailer della storia visto che io sono negata.
Per qualsiasi cosa contattatemi pure tramite messaggi.
E mi raccomando, RECENSITE RECENSITE RECENSITE.
Un bacione fortissimo e alla prossima
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Cheikh ***


VIII

Cheikh



Abigail’s point of view

Cheikh continuava a canticchiare una canzone africana di cui non capivo nemmeno una parola.
Storm se ne stava appollaiato nell’angolo di quel puzzolente camion come se nulla lo perturbasse, come se non si sentisse quella tanfa insopportabile. Con le braccia chiuse attorno alle gambe piegate e gli occhi chiusi sembrava la persona più tranquilla di questo mondo che dormiva nel suo lettino. Ma lui non stava dormendo. E non aveva nemmeno abbassato la guardia. Uno come lui non lo faceva mai, questo lo avevo imparato a mie spese.
Io ero rimasta in piedi rifiutando di sedermi per terra in quel veicolo tutto sporco. Era buio ma con la luce che entrava dai fori nella portiera si riuscivano ad intravedere delle macchie d’olio.
«Dovresti sederti». La voce di Loran –mi faceva un certo effetto pensare a lui con quel nome- risuonò.
Mi voltai verso di lui e vidi che aveva ancora gli occhi chiusi.
«Non ci tengo, grazie» risposi poggiandomi con la schiena alla parete di ferro cercando di mantenermi come meglio potevo. Sarebbe andata meglio se alla guida ci fosse stato qualcuno che la patente se l’era veramente meritata.
«Quando cadi non urlare. Mi fa male la testa» mormorò il ragazzo portandosi una mano alla testa e massaggiandosi le tempie.
Quanti giorni erano che non mi facevo una bella dormita? Da quella maledetta sera della festa a casa di Constantine Storm non aveva smesso un attimo di guidare non l’avevo visto nemmeno una volta chiudere gli occhi.
Una brusca sterzata mi fece perdere l’equilibrio e cadere a terra.
«Ahi!» mi lasciai sfuggire un lamento quando il mio sedere toccò terra seguito da un sonoro tonfo. Non alzai nemmeno la testa per vedere l’espressione di Storm che Cheikh fece una brusca frenata che sballottolò a destra e a sinistra anche il corpo di Storm.
«Scusate ragazzi, colpa mia» sentii la voce gioviale di Cheikh provenire dalla parte anteriore del camion. «Posto di blocco a cento metri. Non fiatate» proseguì lui con la solita calma nella voce. Calma che era sparita in Storm che si era seduto dritto e con la schiena tesa come una corda di violino.
Lì dentro era buio e non riuscivo a capire dove ci trovassimo e se avevamo già superato la volante della polizia. L’aria era talmente tesa che si poteva tagliare con la lama di un coltello.
Aprii la bocca per rilasciare un urlo. Magari mi avrebbero sentito. Forse avrebbero fatto fermare quel camion della spazzatura totalmente insospettabile per perquisirlo o per chiedere i documenti a Cheikh. Ma non accadde nulla di tutto questo. In me che non si dica mi ritrovai la bocca tappata dalla mano di Storm e la testa contro il suo petto mentre con l’altra mano mi teneva bloccata la testa in quella posizione.
«Non ti azzardare, bambolina» soffiò sul mio orecchio e una scarica di brividi mi percosse. Cavolo ero terrorizzata.
Non volevo sentire altro dolore, per quella sera avevo già preso abbastanza pugni e cadute. «Non ti permetterò di rovinare tutto, chiaro?» continuò lui sussurrandomi quelle minacce all’orecchio con tale naturalezze che sembrava mi stesse rassicurando.
Annuii non potendo fare altro nella speranza che lui mi lasciasse libera. Ma non lo fece, almeno non finchè Cheikh ci dicesse di aver superato la volante.
Il resto del tragitto fu abbastanza tranquillo.


**
Prima che il camion si fermasse avevo sentito il tipico rumore che fanno gli pneumatici quando schiacciano i sassolini. Poco dopo Cheikh venne ad aprire lo sportello posteriore del camion e Storm saltò giù come una molla. Il ragazzo coi dread mi porse la mano e io l’accettai riluttante atterrando con le ginocchia piegate e le gambe doloranti per l’ulteriore sforzo.
«Qui sarete al sicuro. Nessuno vi troverà» disse Cheikh sorridendoci in modo rassicurante, come se quella fosse la nostra maggiore preoccupazione. Forse lo era per Storm, ma non di certo per me.
Io pregavo ogni secondo che mio padre o la polizia mi trovasse riportandomi a casa.
Mi guardai attorno e nonostante la notte e la strada priva di luminarie riuscii a scorgere una casa enorme dai colori chiari. Dal grosso portone strombato e totalmente in legno massello dotato di due grandi maniglioni in ferro battuto si poteva intuire il lusso di quell’abitazione. Contai le finestre che si susseguivano una sopra l’altra e notai che la struttura era a cinque piani. Dire che quella era una villa era poco. Era più simile ad una regia.
«Entriamo» continuò il ragazzo dando una pacca sul braccio di Storm e superando un lungo fiale con lunghe falcate dirigendosi verso la maestosa porta della casa.
«Muoviti»
Questa volta fu Storm a parlare vedendo che non mi muovevo. Mossi lentamente i miei piedi in piccoli passi. Con calma percorsi quel lungo viale ciottolato che divideva in due quel prato fresco di rasatura. Davanti alla porta c’erano due grandi leoni imponenti che emanavano potere e incutevano paura allo stesso tempo.
«Di chi è questa casa?» chiesi senza pensarci non sapendo nemmeno io a chi dei due ragazzi mi stessi riferendo. Non credevo che quella grande e bellissima villa fosse di proprietà di uno dei due.
«Di un certo Signor Traynor» blaterò Cheikh muovendo la mano davanti al suo viso. «O almeno credo si chiami così. Poco importa il suo nome» sorrise tranquillamente.
«Non capisco» mi lasciai sfuggire. Mi sentivo stordita, stanca e non avevo voglia di altri misteri.
«E infatti tu non devi farlo» Storm era sempre così rude nei miei confronti e quella volta non fu certo da meno, ma il suo amico sembrava molto più gentile e ben disposto a scambiare quattro chiacchiere.
«Dai Loran» intervenne Cheikh «È giusto che lei sappia»
Io annui vittoriosa mentre Storm sospirava sconfitto.
«Il signore e la signora Traynor sono in vacanza in qualche isola paradisiaca da ricconi e a me dispiaceva tanto lasciare la casa vuota. Non era un peccato, Loran?» chiese retoricamente e l’amico non gli rispose nemmeno.
Mi stava dicendo che si erano introdotti furtivamente in quell’abitazione mentre i proprietari erano fuori città?
«Ma una casa del genere dovrà pur avere degli allarmi o delle telecamere» ribattei sconcertata ma il motivo per cui lo fossi non lo sapevo. Del resto mi trovavo in compagnia di due criminali, cosa potevo mai aspettarmi?
«Oh, questa è l’ultima cosa di cui ti devi preoccupare bambolina. Cheikh è il genio dei computer» disse Storm accomodandosi sul divano e poggiando i piedi sul tavolino davanti a sé.
«Vero, nessun sistema operativo è al sicuro con me nei paraggi» si atteggiò accomodandosi anche lui sul divano. Io rimasi in piedi rifiutandomi di sedermi su quella poltrona che era di un’altra persona.
«Non fare la schizzinosa» disse Storm rompendo il silenzio «Fa finta di essere a casa di una di quelle tue amiche ricche e spocchiose» continuò lui e mi stupii delle sue parole. Che mi si leggesse in faccia quello che stessi pensando?
«Le mie amiche non sono spocchiose» ribattei.
«E non lo saresti nemmeno tu, vero bambolina?» controbatté lui.
«Smettetela voi due» si intromise Cheikh ponendo fine a quel dibattito. «Abby va sopra e riposati. Sei stanca come tutti noi. Credo che un po’ di riposo non faccia male a nessuno»
Riluttante e senza dire un’altra parola salii le scale e andai al piano di sopra.
Aprii la prima porta che incontrai lungo il corridoio e sperai che non fosse la camera da letto dei coniugi Traynor. Fortunatamente non lo era, o almeno credevo. Le pareti erano di un giallo pallido e rilassante. Un grande letto era posizionato al centro della stanza con numerosi cuscini fiorati posizionati sopra. Un tappeto verde con tulipani gialli era poggiato ai piedi del letto e un piccolo armadio a quattro ante era addossato alla parete. Sembrava una tranquilla e lussuosa stanza per gli ospiti.
Lentamente entrai nella stanza. Mi muovevo di soppiatto come se qualcuno mi potesse scoprire da un momento all’altro. Mi sentivo a disagio a camminare tra quelle mura. Stavo -stavamo- violando la privacy di sconosciuti. Non era bello quello che stavamo facendo. Era un reato. Quei due ragazzi non solo erano dei criminali ma anche degli arroganti irrispettosi.
Appena mi sedetti su quel letto morbido crollai irrimediabilmente in un sonno profondo senza precedenti. Quella fu una notte asettica e priva di sogni.
Quando mi svegliai il sole batteva alto nel cielo e lo stomaco brontolava. Stavo morendo di fame.



Harrison’s point of view

Guardavo quel dettagliato resoconto dell’accaduto con occhi sgranati e incapaci di comprendere anche una singola parola scritta su quel foglio.
I due poliziotti che avevano inseguito con la volante mia figlia avevano fatto rapporto e mi avevano descritto nei minimi particolare i due ragazzi: Abby e quel giovanotto dai capelli scuri.
Lineamenti decisi, capelli e occhi scuri, non molto grosso. Alquanto affascinante.
Quella era stata la descrizione del poliziotto che non era alla guida e la sua ultima affermazione mi aveva infastidito. La cosa che più mi aveva colpito, tuttavia, era che quella descrizione assomigliava tanto a quella di Anna, la signorina che era presente alla festa di Constantine.
«André, devi indagare sulla vita privata di Jack Tyrell. Devo sapere se ha fratelli, se è sposato. Voglio conoscere tutto su di lui. Cercate foto o video» ordinai al giovanotto che se ne stava seduto al tavolo in soggiorno poco distante da me. Lui si mise immediatamente a lavoro.
«Il ragazzo della festa, quello che sembra essere sparito nel nulla, è coinvolto nel rapimento» dissi poggiando una mano con rabbia sulla foto sfuocata che avevano scattato Anna e la sua amica. «Deve esserlo» vociferai a denti stretti.



Abigail’s point of view

Quando aprii gli occhi il sole già batteva alto nel cielo. I rumori della grande metropoli erano ben lontani dalle mie orecchie. Mi aspettai di sentire il cinguettare degli uccellini, ma forse era già troppo tardi per poterli sentire.
Mi alzai subito dal letto gettando i piedi a terra e infilando le scarpette la ginnastica che la sera prima mi ero sfilata. Non ero mai stata una di quelle persone che amava poltrire nel letto, una volta che mi ero svegliata tanto vale mettere il naso fuori dal letto.
Con leggerezza e spensieratezza e soprattutto ben riposata scesi le scale dirigendomi in cucina e solo quando vidi la schiena nuda di un ragazzo muscoloso e con lunghi dread che gli ricadevano sulle spalle mi resi conto che quella non era casa mia. Che in cucina non c’era mia madre. Che né André né Anthony stavano girando per casa alla ricerca di mio padre. In un attimo i miei muscoli si tesero e il mio sguardo si fece attento.
«Sto preparando le uova» disse Cheikh senza voltarsi e restando rilassato davanti ai fornelli. «Ne vuoi un po’?»
Era gentile. Niente in lui faceva intendere che era un criminale e un mago dell’informatica. A vedersi sembrava uno studente un po’ strambo di un’accademia d’arte. Era gentile e dai modi affabili.
Senza che potessi controllarlo il mio stomaco brontolò.
«Lo prendo per un si» disse lui voltandosi e rivolgendomi un sorriso smagliante.
Le mie labbra si tesero in una specie di sorriso anche se avevo l’impressione che somigliasse più ad un ghigno. Poco dopo prese due piatti e li riempì di uova e bacon. Sul bancone c’era anche una brocca con del succo che sembrava d’ananas. Mi riempii il bicchiere di quel liquido giallo. Cheikh si sedette di fronte a me e mi porse il piatto. Mangiai subito una forchettata di uova e mi sentii subito meglio. Erano davvero squisite.
«Non sono un granché in cucina, le uova sono l’unica cosa che mi riescono bene» Cheikh parlò con la bocca piena di uovo sputacchiando un po’ e quel gesto mi fece sorridere.
Se la situazione fosse stata diversa avrei potuto anche considerarlo un simpaticone. E anche un gran chiacchierone.
«Sono davvero buone» dissi sorridendo a mia volta e decidendo di approfittare della sua gentilezza e porgli una serie di domande a cui Storm non avrebbe mai risposto.
«Allora, come vi conoscete tu e lui?» dissi non avendo nemmeno il coraggio di chiamarlo per nome. Mi sentivo un po’ come quelle studentesse di Hogwarts che avevano paura di pronunciare il nome di Voldemort. L’avevo sempre trovata una cosa stupida eppure era la stessa cosa che stavo facendo io in quel momento.
«Con Loran, intendi?» chiese e non sembrava affatto infastidito dalla domanda.
Annuii.
«Siamo cresciuti nello stesso quartiere. Abbiamo fatto le stesse scuole» disse continuando a mangiare. «Sono sicuro che anche tu sarai cresciuta con qualche tua vicina»
«No, non ho mai legato non le figlie dei vicini» dissi in tono atono. Lui mi guardò con fare incredulo e io feci spallucce. «Dove siete cresciuti?» chiesi vogliosa di venire a conoscenza di informazioni, non che potessi fare granché ma almeno soddisfacevo la mia curiosità.
«Pendleton, nell’Idaho» disse per poi bere l’intero bicchiere di succo in un’unica sorsata.
Non ero mai stata in quello stato. In realtà non ero mai uscita dallo stato di Washington.
«E del fratello, invece, cosa mi dici?» chiesi alzandomi e poggiando il piatto nel lavello.
«Scusami, ma non sono scemo» disse Cheikh alzandosi a sua volta. «Non ti dirò nulla su Jack» Non sembrava arrabbiato o corrucciato, aveva semplicemente rifiutato di rispondere alla mia domanda.
Se avessi chiesto una cosa del genere a Storm mi sarei già ritrovata contro il muro con le sue mani alla gola.
«Partitina a carte?» chiese e io accettai immediatamente.


**
Quel ragazzo era un asso con le carte. Temevo che stesse barando ma non riuscivo a scorgere nessun movimento sospetto. Se nella truffa era bravo come con le carte allora capivo perché non l’avessero mai preso.
«Sicura di non voler giocare a Strip Poker?» chiese sorridendo in modo furbetto.
«No grazie» rifiutai «con la fortuna che mi ritrovo finirei in mutante nel giro di un paio di mani»
Lui rise e quel suono allegrò risuonò nella sala contagiandomi. Erano giorni che non ridevo così e mi stupivo di me stessa nel rendermi conto di quello che stavo facendo e delle circostanze in cui mi trovavo, ma era così facile essere allegri e spensierati con Cheikh nella stanza. Non riuscivi a rimanere col muso lungo.
«Cerchi di fare colpo coi trucchetti che ti ho insegnato?» ci pensò la voce dura e fredda di Storm a riportarmi alla realtà facendomi perdere il sorriso.
«Ehi, ben svegliato amico» esordì Cheikh più felice che mai. «Giusto in tempo per il pranzo»
In quel momento mi resi conto di due cose che prima non avevo notato. Primo, erano le due del pomeriggio e il mio stomaco stava prendendo a brontolare nuovamente. Secondo, presi coscienza dell’aspetto di Storm solo in quel momento. Indossava i jeans scuri del giorno prima slacciati sul davanti e la maglietta stropicciata gli lasciò scoperto un lembo di pelle mente era intento a stiracchiarsi. Tuttavia la cosa che mi stupì di più fu il suo viso con le guance segnate dal cuscino e gli occhi semi aperti che viaggiavano ancora nel mondo dei sogni. Le labbra erano secche e leggermente dischiuse in un’espressione di pura tenerezza.
Si portò la mano alla bocca e si lasciò andare ad un enorme sbadiglio e un gemito di sollievo. Sembrava più rilassato. Quella dormita aveva fatto bene a tutti e due.
«Novita?» chiese sedendosi sul divano e allungando le gambe sul tavolino.
«Nessuna» rispose Cheikh facendosi serio in un attimo «Tutto sotto controllo»
Loran annui semplicemente per poi sbadigliare di nuovo. Mi andai a sedere sulla poltrona, proprio di fronte a lui, sentendomi di peso a stare impalata sulla porta del soggiorno.
Storm alzò lo sguardo e mi penetrò con gli occhi facendomi sentire giudicata sotto la sua scrupolosa osservazione. Ogni volta che mi guardava in quel modo mi sentivo fuori posto e sporca nell’anima, come se avessi qualcosa da nascondere. Mi rannicchia in me stessa senza nemmeno rendermene conto.
«Allora, Abby» pronunciò il mio nome con sarcasmo e un ghigno gli comparse sulle labbra mentre gli occhi si assottigliarono a due fessure più simile a quelle di un gatto che a quelle di un umano. 
«Pronta a parlare col paparino?»

 
Note
Perdonatemi per l'immenso ritardo. Sono stata travolta dalla lettura di un libro che mi ha completamente risucchiata tra le pagine e le mille parole. Questo romanzo mi ha sconvolta a tal punto che una volta aver girato l’ultima pagina mi sono sentita svuotata da ogni tipo di emozione.
Ci ho messo un po’ a riprendermi ma eccomi qui con questo capitolo che non è niente di che, ma spero lo stesso che abbiate apprezzato.
Esultate con me perché abbiamo sconfitto con me la maledizione del sette (non ho mai portato le storie originali oltre i sette capitoli). Dico abbiamo perché con il vostro supporto sono riuscita a trovare la giusta motivazione per continuare a scrivere questa storia.
Ci tengo a ringraziare quelle dolcissime ragazze che puntualmente mi lasciano una recensione che come sempre sono felicissima di leggere. Mi piace stabilire un contatto con tutti voi.
Ringrazio anche le lettrici silenziose che leggono i capitoli e aggiungono questo delirio tra i preferiti/seguiti/ricordate. Grazie di cuore. Tornando alla storia, cosa ve ne pare di questo capitolo? Voglio sapere le vostre impressioni su Cheikh. Ve lo aspettavate così? Non ve lo aspettavate così? Voglio sapere le vostre sensazione e i vostri pareri su come crediate che la storia evolverà.
Come sempre lascio il solito annuncio aperto a chiunque se la sente di fare banner o trailer per la storia.
Se voleva parlare con me vi basta lasciarmi un messaggio e io vi risponderò molto volentieri.
Un bacione e alla prossima
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Anche le maschere di cera cadono ***


IX
Anche le maschere di cera cadono



Storm’s point of view

«Hai isolato la casa?» chiesi a Cheikh muovendomi frenetico sul posto.
Avevo il terrore che potessero rintracciarci. Non mi sentivo sicuro a essere restato a Colville, la polizia aveva già circondato il paese con posti di blocco e arrivare a Bellingham sarebbe stata un’impresa. Se avessero rintracciato anche quella telefonata per noi sarebbe stata la fine.
«Si, Loran» mi rassicurò lui. Lo detestavo quando mi chiamava con il mio vero nome, ma a lui sembrava non importare. Mi aveva sempre chiamato così e non avrebbe mai fatto diversamente.
«Non preoccuparti. Non ti farei correre rischi inutili» continuò e scorsi nella sua voce l’affetto che provava per me. Cheikh era da sempre mio amico. Eravamo cresciuti insieme ed era con lui che avevo condiviso l’emozione della mia prima cotta. Con lui avevo fatto il primo furto e Jack aveva insegnato a tutte e due ad usare le armi. Quelle vere e non giocattolo. Era una parte fondamentale, era come un fratello. Gli volevo bene anche se non glielo mai detto apertamente. Non è virile permettere alle emozioni di sovrastarti. Non era da me. Non perdevo mai il controllo, ero sempre concentrato sul piano e distruggevo ogni ostacolo mi si parasse davanti. Ero come la tempesta, un uragano per porta via tutto e lascia solo devastazione.
«Quando vuoi». La voce del mio amico mi ridestò. Mi passai una mano sugli occhi strofinandoli, come se quel gesto potesse portar via i miei pensieri più privati.
Afferrai il telefono prepagato e me lo rigirai tra le mani. «Okay» dissi con un tono di voce così bassa che dubitai mi avessero sentito.
Composi il numero e mi portai il cellulare all’orecchio. Dopo sei squilli risposero.
«Pronto?» la voce tremolante del giudice Jensen risuonò nelle mie orecchie.
«Giudice, che piacere risentirla» esultai con falso perbenismo.
«Tu!» ringhiò la voce dall’altro lato e riuscii ad immaginare quel vecchio uomo nella sua bella casa che stringeva con furia il telefono.
«Felice di risentirmi?» vociferai fintamente allegro. «Sono già passati due giorni dalla nostra ultima conversazione e volevo ricordarle che ne manco solo cinque alla scadenza del nostro patto»
Non ricevetti risposta e così proseguii. «Sa cosa accadrà a sua figlia se non libererete Jack Tyrell, vero?»
«Bastardo!» urlò furente l’uomo «Voglio parlare con mia figlia»
Lanciai un’occhiata a Cheikh e ricevetti il suo okay. Eravamo ancora coperti, nessuno aveva invaso il campo di protezione. Non avevo ancora ben chiaro come avesse fatto il ragazzo ad isolare la zona rendendola irreperibile e contrastando agni softwar cercasse di hackerare il nostro sistema.
Misi il vivavoce e avvicinai il telefono al viso di Abby. Non ebbi nemmeno il tempo di aprire bocca che la ragazza subito urlò «Papà, sono qui, nella casa dei signori..» ma non ebbe il tempo di finire la frase che subito le mollai uno schiaffo facendola cadere di schiena sul divano.
Tolsi il vivavoce e mi portai il dispositivo all’orecchio. «Vostra figlia è davvero una gran chiacchierona, sapete? Credo proprio che verrà punita per questo» parlai in apparenza calmo ma dal mio corpo teso e dalle mani strette in due pugni ferrei si capiva che non lo ero affatto.
«Se rivuole avere sua figlia tutta intera le conviene presentarsi mercoledì con Jack al proprio fianco»



Abigail’s point of view

Storm posò il telefono sul tavolino e mi rivolse un’occhiata di fuoco.
«Tu» disse puntandomi un dito contro «Va immediatamente di sopra» Il corpo gli tremava dalla rabbia, sembrava un pazzo che non vedeva l’ora di liberare la sua furia e io non volevo essere la sua valvola di sfogo.
«No» risposi spavaldamente contando sulla presenza di Cheikh. Finché ci fosse stato lui i danni sarebbero stati limitati. O almeno così credevo.
«Che cazzo hai detto?» disse muovendosi sul posto e serrando maggiormente i pugni.
«Ho detto che io non vado da nessuna parte con te» ribadii alzandomi dal divano e piazzandomi davanti a lui.
Non svegliare il cane che dorme, mi ripeteva sempre mia madre, ma Storm era ben sveglio, gli stavo semplicemente rendendo la caccia più entusiasmante.
«Smettetela» disse Cheikh comodamente seduto sulla poltrona «Ti conviene calmanti Loran»
«Col cazzo che mi calmo» sbraitò lui rivolgendosi all’amico «Ha tentato di rivelare al padre dove siamo»
«Ma non l’ha fatto, giusto?» l'altro cercò di essere ragionevole. Mi meravigliava la sua estrema calma e quello strambo tentativo di difendermi. In fondo a lui cosa importava di me?
«Solo perché l’ho fermata, Cheikh» disse Storm in tono avvio «Finché non imparerà a comportarsi, pagherà le conseguenze dei sui errori»
Nel sentire quella frase il mio corpo venne percorso da numerosi spasmi. Che voleva farmi?
Cheikh gli lanciò un’occhiata di rimprovero che Storm fece finta di non vedere.
In un attimo afferrò il mio bracciò e mi tirò su per le scale.
«Ma..» quella debole avversione uscì dalle mie labbra schiuse dalla paura.
«Non fare stronzate, Storm» lo ammonì l’amico restando calmo. Era la prima volta che lo chiamava con quello stupido soprannome e parve rendersene conto anche Loran. La sua schiena si tese e il suo braccio fu colto da uno spasmo, ma non si fermò. Continuò a divorare quegli scalini e in un attimo fummo al piano di sopra lontani da Cheikh e da quello che poteva rappresentare per me una forma di protezione. Era distante dall’unica persona che avrebbe potuto proteggermi in quella casa. Ero nella merda.


Storm spalancò la prima porta del quinto piano e ci ritrovammo in una stanza non molto grande con il tetto dogato in legno scuro e dello stesso colore del parquet. Quella stanza era priva di letti e di mobili d’arredo tipici di una camera da letto. C’era una scrivania posta sotto il finestrone, l’unica finestra della stanza che permetteva alla luce solare di entrare e illuminare l’ambiente. Alle pareti erano appesi diversi quadri dai colori vivaci che ritraevano per lo più volti di donna. Alcuni erano incompleti ed erano stati appoggiati al muro senza essere appesi.
In un angolo semi nascosto era stipato un cavalletto da disegno e plichi di tele nuove e pronte all’usura. Le tempere ad olio erano riposte in una grande cesta di paglia e un centinaio di pennelli sporchi erano riposti in un grande bicchiere poggiato a terra.
Quello studio d’arte trasudava tranquillità e nell’aria si respiravano i sentimenti più variopinti. Tra quelle quattro mura erano state impregnate da amore, passione, rabbia, calma, frustrazione. Creatività.
Quella stanza, al momento in stato di totale pace e quiete, non sembrava proprio lo scenario adatto alla furia di Storm. «Mi spieghi che cavolo ti è saltato in mente?» chiese lui rompendo il silenzio e parandosi davanti a me. Nei suoi occhi leggevo ancora la rabbia ma sembrava essersi leggermente calmato. Che la magia di quella stanza avesse sortito il suo effetto anche su una persona dal cuore di ghiaccio come Storm?
Si diceva che gli occhi erano lo specchio dell’anima e i suoi erano dello stesso colore dei listelli di ghiaccio. Erano di quell’azzurro che metteva angoscia e faceva pensare ai rigidi inverni dell’Alaska e non alla mare dei tropici.
«Cosa facevo secondo te?» risposi con una punta di acidità «Credi davvero che non avrei tentato di rivelare a mio padre la nostra posizione? Credi che me ne sarei stata buona e tranquilla ad aspettare che tu mi scambi come una carta da gioco?»
Non rispose.
I suoi occhi riflessero consapevolezza. Lui era consapevole, sapeva che se fosse stato nei miei panni avrebbe fatto lo stesso. Tutti lo avrebbero fatto.
«Non avresti dovuto dirgli niente lo stesso. Ora mi toccherà insegnarti le muone maniere» disse con tono fintamente dispiaciuto. Come se non godesse dal vedermi soffrire.
«Fidati, qui l’unico maleducato sei tu» affermai sicura di me portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio per tenere le mani occupate. Detestavo profondamente qui momenti di panico in cui non sapevo dove mettere le mani, quei momenti in cui sembravano semplicemente di troppo.
«Che cosa hai detto?» chiese corrucciando le sopracciglia. Sembrava davvero che non avesse capito le mie parole eppure avevo parlato a voce alta.
«Ho detto che qui l’unico maleducato sei tu» ripetei sbuffando stufa di quella situazione.
«Ho capito quello che hai detto» rispose passandosi una mano tra i capelli «E solo che..» riprese per poi fermarsi nuovamente «Questa è davvero l’unica cosa che ti viene in mente?» Scoppio in una risata quasi isterica che sembrava finta. Non era una di quelle risate spontanee e tranquille che trasmettevano serenità. No, quella era una risate nervosa con la quale Storm stava rilasciando tutta l’ansia accumulata in quei gironi.
Io rimasi immobile con un’espressione di sconcerto stampata in faccia.
Mi allontanai da lui e mi avvicinai a uno dei quadri. Raffigurava il volto di una bambina con una margherita tra i capelli. Il volto era stato interamente dipinto col rosa. I capelli, gli occhi, la bocca, il leggero accenno alle bretelle di un vestitino, tutto era rosa. Di un rosa carico che risaltava all’occhio. Solo la margherita era gialla.
I colori erano molto allegri, ma l’espressione di quella bambina era triste. La bocca era piegata all’ingiù, gli occhi erano pieni di una rabbia furente mal celata dalla tristezza e sul naso il colore era più forte come se fosse arrossato dalla troppe lacrime versate.
Quel dipinto era semplicemente meraviglioso, qualcosa di semplicemente perfetto. Riusciva a comunicare delle emozione, a rievocare ricordi e storie ormai dimenticare. Ti toccava l’anima come nessun’altro ci sarebbe riuscito. Spostai l’occhio sull’angolo sinistro del quadro e vidi che in basso c’era una scritta. Apparenze.
Oh, si. Quello era il nome perfetto per quel quadro. Quanti tiri mancini tiravano le apparenze? Quante volte ci fingiamo altre persone solo per salvare le apparenze? Tante.
Il mondo in cui vivevamo, la società in cui vivevamo, erano fatte di apparenze. Le apparenze erano la cosa più simile alla falsità d’animo che esistesse.
Un sospiro sulla mia spalla scoperta mi ridestò facendomi voltare lentamente alla mia destra. Dietro di me la presenza di Storm incombeva su tutto il mio corpo. Lui aveva lo sguardo puntato sul quadro e per la prima volta riuscii a vederlo. Vederlo veramente. Senza apparenze e inutili maschere.
Se ne stava lì con le spalle leggermente ricurve come se il peso morale che si portava sempre dietro lo avesse piegato definitivamente al proprio volere. Le labbra era chiuse e totalmente inespressive, ma gli occhi brillavano di una luce nuova. Sembravano essersi accessi e persi in una valle di ricordi felici fatti di gioia e spensieratezza.
Era totalmente immobile, eppure si muoveva. Con la mente si stava spostando da una dimensione all’altra cedendo il passo all’onestà e svelandosi all’intero universo. Tutti i veli che avevano coperto quegli occhi rendendoli inespressivi lo stavano abbandonando minuto dopo minuto.
Improvvisamente abbassò lo sguardò su di me chinando istintivamente il viso verso il mio che era totalmente allungato verso il suo. Diversi centimetri separavano i nostri corpi fisicamente ma gli sguardi si erano allacciati e avevano iniziato a danzare insieme in un universo parallelo. Storm mi stava permettendo di entrargli nella mente e di vivere con lui quei momenti d’estasi.
Ci fissammo per diversi minuti che sembrarono durare un’eternità. Improvvisamente qui veli che aveva perso e si era lasciato dietro lo avvolsero in un attimo cambiando drasticamente la sua espressione. Gli occhi di ghiaccio ritornarono di nuovo tali perdendo il fuoco che fino a pochi secondi prima gli aveva arsi.
Lentamente si chinò su di me annullando la distanza tra i nostri visi ma mantenendo quella tra i nostri corpi. I miei occhi guardavano ovunque saltando da una parte all’altra mentre lui si chinava facendo combaciare i nostri volti per poi spostarsi sul lato destro.
Portò le sue labbra già schiuse sulla mia guancia e le sentii morbide a contatto con la mie pelle ma si mossero indelicatamente.
«La prossima volta non te la caverai così facilmente» Respirò sulla mia pelle che bruciava sotto il suo fiato. Senza staccarsi da me risalì la guancia con le labbra dischiuse avvertendole leggermene umide.
Arrivato all’orecchio si fermò ed impresse maggiormente le labbra.
«Riprovaci e ti uccido» sussurrò e in attimo si staccò da me facendomi sbattere contro la parete e dubitare di quello che fosse successo. Quando alzai gli occhi la porta era chiusa e l’unica presenza cardiaca in quella stanza proveniva da me.



 
Note
Scrivere questo capitolo è stata una vera impresa. In assoluto il capitolo più difficile. All’inizio non mi uscivano le parole e avevo pensato il capitolo in modo assolutamente differente. Non ci sarebbe dovuta essere nessuna stanza d’arte, nessun quadro e soprattutto nessun momento normale tra i due. Avevo pensato a questo come capitolo violento e poi mi è uscita questa roba. Ad ogni modo non ho voluto cancellarlo, se è uscito così è perché doveva venire così e basta. Probabilmente qualcuno sarà contento di vedere un lato umano di Storm, qualcun’alto no. Ad ogni modo voglio lasciarvi con l’immagine del quadro ben impressa. Quel dipinto rappresenta i nostri due personaggi e ci tengo molto.
E pensare che sono passati solo due giorni di racconto e questi due ne hanno viste di tutti i colori e ne vedranno ancora.
Bando alla ciance, spero che il delirio qui sopra non vi faccia venire da vomitare e spero che il prossimo capitolo sia più carino.
Come sempre ci tengo a ringraziare le ragazze che mi seguono e che sono così gentili da lasciarmi un parere ad ogni capitolo rinnovando in me la voglia di mandare avanti questa storia.
Quindi su su RECENSITE.
Ringrazio ugualmente tutte le lettrici silenziose che inseriscono la storia tra le seguite/preferite/ricordate. Aumentate sempre di più. Grazie ragazze (o almeno credo di avere un pubblico di solo donne) Mi sembra inutile lasciare sempre il solito annuncio.
Un bacione e buon primo luglio e tutte
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il racconto del ragazzo coi dread ***



X
Il racconto del ragazzo coi dread


Abigail’s point of view

Diversi minuti dopo mi scostai dalla parete e uscii anch’io da quella stanza incantata che sembrava averci ipnotizzato mettendo a nudo le nostre anime senza che ce ne rendessimo conto. Durante quei pochi minuti ci eravamo esposti l’uno all’altro. Non mi ero mai sentita così fragile, così nuda. Ma la cosa che mi aveva lasciata sconvolta era stato il comportamento di Storm. In quegli occhi avevo visto, per pochi attimi, tutto quello che avrei voluto vedere in un ragazzo e non avrei mai immaginato di trovarlo in lui. C’era vulnerabilità, affetto, senso di responsabilità ed un’immensa tristezza che mi aveva devastata. Non avrei mai detto che dietro quegli abiti scuri e quell’aria severa si potessero celare dei sentimenti. Ero caduta anch’io nella trappola delle apparenze lasciandomi trascinare da quel gioco perverso senza permettermi di surclassare quella scorza ermetica che lo avvolgeva.
Mi avviai al secondo piano ed entrai in quella che era stata la mia stanza durante la notte precedente. Sfilai le scarpe e mi arrampicai sul letto sedendomi al centro del materasso e portandomi le gambe al petto. Mi mossi lentamente avanti e indietro come a volermi cullare e canticchiai sotto voce la canzoncina che mia madre mi ripeteva da piccolina.

Tu Josephine sulla macchina vieni con me più su, vola via con me. Bilanciati come un uccello su una trave.

Ho sempre adorato quella canzone. Da quando avevo visto Titanic per la prima volta a cinque anni quella era diventata la mia canzone preferita. Ripetevo sempre il ritornello. Aveva un effetto calmante. Mi tranquillizzava.

Nell'aria si va! Dove? Si va! Su, su, un po' più alto.
Oh! Guarda! La luna è in fiamme.
Vieni Josephine nella mia macchina volante.
Salendo, salendo, Goodbye.


Un debole battito di mano contro la parete bloccò il mio canto. La maniglia si abbassò e Cheikh con un pacco di piselli in mano entrò nella camera chiudendosi la porta alle spalle.
«Come stai?» mi chiese accennando un sorriso. Alzai le spalle come a voler dire che nemmeno io lo sapevo. E non lo sapevo davvero.
«Ti fa mele da qualche parte?» chiese venendomi incontro e sedendosi sul bordo del letto. Alzò la mano destra che stringeva un pacco di piselli.
«No..» dissi con voce bassa. Mi sentivo ancora più confusa di prima. Quei due, Cheikh e Storm, erano davvero una gran bella accoppiata. Due enigmi totalmente diversi, ma pur sempre due enigmi. «Dei piselli surgelati?» chiesi sollevando le sopracciglia.
«Sono per i lividi» rispose lui «Anche se non sono molto freddi»
«Lividi?» chiesi confusa. Credeva che Storm mi avesse picchiata? Beh, certo che lo pensava, prima di entrare in quella stanza lo pensavo anch’io. «Non mi ha fatto niente» chiarii in fretta prima che dei malintesi potessero nascere e lievitare fino all’inverosimile.
«Loran non è poi così cattivo, ha solo problemi di autocontrollo» disse per poi fermarsi di botto. Alzò la testa e mi guardò dritto negli occhi. «Come hai detto scusa?»
«Non mi ha fatto niente» ripetei guardandolo a mia volta. Sembrava più confuso di me.
«Ah, no?» posò la busta dei surgelati sul comodino e si sedette comodamente sul letto.
«No» affermai sicura di me. «Sono più stupita di te. No che mi dispiaccia sia chiaro» sorrisi cercando di sdrammatizzare.
«E’ sempre stato un ragazzino iroso, fin da piccolo» si passò una mano tra i numerosissimi dread. «Alle elementari faceva a botte con tutti. Se non ci fossi stato io a proteggergli le spalle non so quante volte sarebbe finito nei casini» Ascoltai le sue parole provando ad immaginare Storm da piccolo ma proprio non ci riuscivo. Per me era impossibile accostare all’immagine di un bambino a quella della rabbia, dell’ira e della tracotanza.
«Voi due siete così diversi» dissi toccandomi una ciocca di capelli e arricciandola col dito. Cheikh era sempre stato gentile con me e nulla di lui avrebbe fatto pensare che svolgeva atti criminali. Era così diverso da Storm. Bastava guardare in faccia quest’ultimo per capire che era coinvolto in qualcosa di losco, che era un tipo pericoloso da cui dover stare alla larga.
«In che senso?» chiese Cheikh.
«Siete due criminali eppure tu non sei uno stronzo» mi lasciai sfuggire quella frase e ebbi paura che si potesse arrabbiare, invece lui rise.
«Cosa ti fa pensare che anch’io sia un criminale?» domandò voltandosi completamente verso di me e poggiando i piedi con tutte le scarpe sul piumone.
«Non lo sei?» chiesi insicura delle mie stesse parole come se quella non fosse la giusta domanda da fare.
«Ogni tanto faccio qualche partita truccata a Las Vegas per infilarmi in tasca soldi facili. Se questo per te è essere un criminale, allora si, lo sono» mi sorrise guardandomi intensamente negli occhi. Le mie labbra si aprirono in una perfetta O mentre la mia mente si era persa nel mondo della confusione.
«Ma tutte quelle chiacchiere sul mago dei computer? E la tua amicizia con Storm..» non continuai la frase sicura che il resto fosse ovvio. Se sei suo amico allora sei un criminale anche tu.
«Lavoro in un negozio di informatica e faccio lavoretti a nero come hacker» mi sorrise «A differenza di Loran ho deciso di utilizzare il mio talento per qualcosa di..» si fermò qualche secondo per poi proseguire. «..legale»
Ero rimasta in silenzio ad ascoltarlo, ma anche adesso che aveva finito di parlare dalle mie labbra non usciva alcun suono.
«Da ragazzini abbiamo fatto qualche furtarello insieme. Da piccoli rubavamo la frutta al mercato. Quando dovevamo fare un regalo alla ragazza che ci piaceva non compravamo nulla, lo rubavamo» raccontò e dal luccichio nei suoi occhi capii che stava ricordando ogni momento di cui aveva parlato. «Poi ci abbiamo preso la mano e abbiamo iniziato con le rapine. Si trattava sempre di bar, edicole, negozietti di poco conto. Una sera però ci hanno beccato. Il proprietario del negozio è riuscito a chiamare la polizia prima ancora che noi riuscissimo ad aprire la cassa» si fermò bloccato in quel mare di ricordi. Avevo in cuore in gola e l’ansia mi pompava nelle vene. Volevo sapere cosa era successo quella sera.
«Quella notte la passammo in carcere. É stata l’esperienza peggiore della mia vita, la gente che stava lì dentro non era come noi, non aveva commesso piccoli furti. Quelli erano criminali veri. Promisi a me stesso che quando sarei uscito avrei messo fine a quella storia e avrei ripreso a studiare. Ma Loran non la pensava come me. Quando il giorno dopo uscimmo dalla galera mi rimisi a studiare e frequentai dei corsi serali di informatica, mentre lui continuava a fare la vita di sempre»
«Quanti anni avevate?» chiesi flebilmente col timore di rompere quell’atmosfera che si era creata.
«Quindici. Avevamo quindici anni» rispose alla mia domanda. Fisicamente Cheikh era qui ma la sua mente era da un’altra parte persa nei meandri del passato.
«Cavoli, io a quell’età giocavo ancora con le bambole» la mia uscita sarcastica sortì l’effetto desiderato. Cheikh sorrise di nuovo con quella sua aria allegra.
«Però siete ancora in contatto» continuai.
«Non ci siamo mai persi di vista» disse «Abby, io so perché Loran sta facendo tutto questo. Non posso dire che sia il mezzo giusto ma non poteva restare con le mani in mano»
«Lo so che sta facendo questo casino solo per salvare il fratello. Ne sono ben consapevole» risposi con una punta di acidità nella voce.
«No, non è solo per Jack» rispose Cheikh guardandomi con occhi indagatori cercando di scavarmi nell’anima.
«Cosa vuoi dire?» chiesi e per l’ennesima volta da quella mattina mi sentii confusa. Che stava succedendo veramente? «Non posso dirti niente» rispose «Se vorrà sarà Loran a dirtelo, non io»
Si alzò dal letto e si avvicinò alla porta. «Nel forno c’è della pasta. Fa schifo ma è sempre meglio di niente»
Uscì dalla stanza lasciando il vuoto dentro di me.



Senza fermarmi un attimo a pensare uscii dalla stanza correndo a piedi scalzi e aprendo tutte le stanze del corridoio. Niente. Non c’era.
Salii al piano di sopra, ma non lo trovai nemmeno lì. Non mi sforzai nemmeno a cercarlo al quarto piano, qualcosa mi diceva che Storm se ne stava rintanato in mansarda come un segugio in attesa del momento adatto per entrare in azione. Mi fermai d’avanti all’ultima porta del quinto piano convinta di trovare lì il ragazzo.
Con calma abbassai la maniglia ed aprii la porta. Quando trovai la stanza vuota fui colta dalla delusione.
Cavoli, dove si era andato a ficcare quel rapitore del cavolo?
Mi sedetti sul letto lasciandomi sfuggire un respiro pesante. Mi legai i capelli con un codino nero che avevo al polso e che portavo sempre con me, non l’avevo tolto nemmeno per andare alla festa di Constantine.
Quel pensiero mi riportò a casa. Chissà come stavano. Forse Constantine aveva consolato Jenny, la mia migliore amica. Mi domandai come si sentisse mia madre. Non riuscivo nemmeno ad immaginare lo strazio e il dolore che poteva provare una madre alla quale era stata rapita la figlia.
E mio padre. Mi chiesi a che punto fessero le indagini e se fossero mai iniziate. Se avesse intenzione di accettare lo scambio e se..
«Che ci fai qui?» tuonò la voce di Storm.
Se ne stava sulla soglia di quella stanza appoggiato col fianco allo stipite della porta. Aveva i capelli bagnati e portava solo un asciugamano stretto in vita. Era appena uscito dalla doccia e alcune goccioline d’acqua colavano dai ciuffi neri ribelli bagnandogli il petto. Aveva la carnagione molto chiara e sembrava che non vedesse il sole da parecchi mesi, del resto in quella parte dell’America il clima non era il massimo.
Il petto non era particolarmente ampio e i fianchi erano stretti con le ossa del bacino particolarmente pronunciate in una sorta di V che era seminascosta dal telo da bagno. I muscoli sul basso ventre erano abbastanza evidenti anche se si notava che il suo fisico magro non era frutto di ore trascorse in palestra.
«Io..» balbettai non sapendo bene cosa rispondere. Non sapevo nemmeno io cosa volevo, ero partita in quinta uscendo come una furia dalla mia stanza alla ricerca di Storm senza ben sapere cosa dirgli.
«Tu?» chiese entrando nella stanza e dirigendosi all’armadio. Aprì le ante e numerose magliette, ripiegate e riposte sulle mensole, erano ben visibile dalla mia postazione. «Non ho mica tutto il giorno»
«Beh..» iniziai ma mi bloccai quando vidi che afferrò un paio di bermuda di un verde militare. Aveva mica intenzione di indossare i vestiti di un estraneo?
«Ti hanno mangiato la lingua, bambolina?» chiese voltandosi verso di me e infilandosi una maglietta azzurra che faceva risaltare il colore dei suoi occhi.
«Sono qui per la domanda» dissi sicura di me.
«La domanda?» rispose sollevando le sopracciglia in un’espressione confusa.
«Si, abbiamo fatto un patto. Te lo ricordi, vero?» gli spiegai alzandomi dal letto e prendendo una ciocca dei miei capelli tra le dita.
«Si, certo che me lo ricordo» affermò stizzito. «Fai la tua domanda del cavolo e poi sparisci»
Ero tentata dal chiedergli spiegazioni. Volevo sapere cosa c’era dietro quel suo folle piano ma sapevo che si sarebbe limitato a dirmi che lo faceva per suo fratello. Si sarebbe limitato a dirmi solo quella parte della verità e io mi sarei giocata una domanda inutilmente.
«Hai mai ucciso qualcuno?» chiesi a bruciapelo facendo un passo verso di lui quando lui barcollò perdendo leggermente l’equilibrio.
I suoi occhi erano il ritratto dello stupore e non facevano altro che saettare da una parte all’altra della stanza. Stava temporeggiando. Non avrebbe voluto rispondere ma quello stupido patto lo vincolava all’onesta.
«Allora, si o no?» lo incalzai «É facile»
Il suono della mia voce sembrò riportare a galla il duro e freddo Storm che per cinque secondi lo aveva abbandonato. Riacquistò la calma e con aria strafottente si avvicinò a me fino a ridurre la distanza tra i nostri volti a pochi centimetri. «Si» soffiò sul mio viso e riuscii quasi a vedere una nuvola di condensa. «Più di una volta».

 

Note
Ed è così che si conclude quest’ultimo mio delirio. Spero che sia piaciuto. Sono stata velocissima con l'aggiornamente e ne sono felice. Credo lo siate anche voi, forse non tutte ma qualcuna si. Sono stata spinta dalle vostre bellissime recensioni che mi stanno dando molto supporto e voglia di continuare questa storia che si è letteralmente impossessata di me. Vorrei sapere com’è possibile che ogni capitolo non va mai a finire come avevo pensato. Lo scorso doveva essere violento e invece mi è uscita quella cosa che non so nemmeno io se sia o no romantica. Questo doveva essere divertente e doveva avere il punto di vista di Storm ma come avete visto non c’è nulla di tutto questo. La storia e la fantasia si sono impossessate di me atterrando l’autocontrollo. Spero lo stesso che il capitolo sia piaciuto. Ditemi cosa ne pensate che sono curiosa di conoscere i vostri pareri. Sono sempre felicissima di leggere le vostre recensioni che mi riempiono il cuore.
Vi ringrazio di cuore per il supporto che mi state dando, per me è una grande soddisfazione essere arrivata al decimo capitolo di questa storia. Non me lo sarei mai aspettato. Grazie di cuore.
Ovviamente i ringraziamenti vanno anche alle lettrici silenziose che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
Un bacione a tutte.
Ho l’impressione che queste note siano lunghissime.
Avviso importante!
Non so se domani riuscirò a scrivere un altro capitolo e molto probabilmente sabato non potrò aggiornare. Mi sa che ci si vede domenica, quindi se non avete mie notizie sappiate che non mi sono dimenticata di voi ma sono semplicemente impossibilitata. Ovviamente voi controllate sempre se ho aggiornato, non si può mai sapere. I miei piani sono alquanto variabili.
Finalmente ho cambiato qualcosa nell’introduzione della storia sparando che così sia un po’ più carina (non che sia cambiato molto, eh)
Adesso scappo e faccio l’html a questo capitolo, fatemi sapere cosa ne pensate, mi raccomando.
Baci

-B

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Non ti temo ***



XI
Non ti temo



Abigail's pint of view


«Si» soffiò sul mio viso e riuscii quasi a vedere una nuvola di condensa. «Più di una volta»

«Cosa?» le parole mi uscirono di bocca senza il mio volere. Fu una reazione spontanea ed istintiva alle sue parole.
Non mi aspettavo di certo che quel ragazzo fosse un santo o che non avesse mai fatto del male a qualcuno ma sentirmi dire stesso da lui che aveva ucciso delle persone mi aveva spiazzato. Quelle parole mi avevano privato di ogni facoltà mentale offuscando la mia mente e rendendomi un essere privo di pensiero.
«Che c’è, non mi credi?» domandò spavaldo gonfiando il petto e pronunciando quelle parole con fierezza. Come face a vantarsi di una cosa del genere?
Fece un passo verso di me tentando di avvicinarsi ma io arretrai portandomi le mani tra i capelli.
«Non fai più la spavalda, ora?» parlò di nuovo continuando ad avanzare. «Hai paura?»
Arretrai ancora di più il quella stanza enorme. Le gambe si muovevano da sole, il mio corpo sapeva quello che doveva fare anche se la mia mente era stata messa fuori gioco nel momento in cui Storm aveva parlato.
«Io..» balbettai incurante della mia voce tremula. Gli occhi saettavano da una parte all’altra della stanza mentre continuavo ad arretrare in cerca di una via di fuga. Lui continuava ad avanzare con gli occhi puntati sulla mia testa china. «Lo detesto» disse querulo abbassando la voce.
Alzai lo sguardo su di lui non capendo bene a cosa si stesse riferendo. Quella giornata sembrava non giungere mai al termine e non vedevo l’ora di porre fine a tutta quella storia capendoci qualcosa. Più cercavo di trovare delle risposte alle mie domande e più punti interrogativi trovavo.
«Odio quando non porti a termine le frasi, Abby» parlò chinando il capo portandosi alla mia altezza. Ero terrorizzata da quella vicinanza. Non lo volevo a stretto contatto col mio corpo, non volevo sentire il suo respiro mischiarsi col mio e soprattutto non volevo inalare il suo dolce profumo.
Dolce? Ma cosa cavolo pensavo?
La ragione e l’attrazione sono come il diavolo e l’acqua Santa, ricordatelo sempre Abigail.
Mia nonna lo ripeteva sempre e si sa che le nonne hanno sempre ragione.
Non potevo di certo negare la bellezza e il fascino di Storm ma, dopo quella rivelazione, ogni volta che lo guardavo vedevo un mostro con la faccia di Storm e una pistola serrata nella mano. Vedevo Storm pieno di sangue che non era il suo. Vedevo l’assassino che era in lui.
Arretrai ancora di più e senza rendermene conto andai a sbattere contro la parete producendo un sonoro tonfo. Quello era il rumore della mia libertà che andava in frantumi. Ero in trappola.
«Tu hai paura di me» la voce del ragazzo uscì forte e sicura dalle sue labbra e questa volta non era una domanda.
«No» provai a negare scuotendo la testa ma alle mie stesse orecchie suonava come una bugiarda.
«Bugiarda» pronunciò abbassando sempre di più il tono di voce e avvicinandosi ancora a me fino a far quasi sfiorare i nostri petti.
Percepivo il suo addome gonfiarsi e sgonfiarsi sempre con maggior frequenza. «Impegnati. Puoi fare di meglio»
«No, non ho paura di te» risposi recuperando le ultime briciole di coraggio che mi erano rimaste e gettandogliele addosso con quelle parole pronunciate a voce alta e chiara. «Non puoi uccidermi»
«Torniamo di nuovo sull’argomento, bambolina?» disse sarcastico chinando il volto verso destra e i suoi capelli sfiorarono il muro alle mie spalle. «Non mi sembra che l’ultima volta sia finita bene. Non per te almeno»
Per un attimo mi mancò l’aria e istintivamente cercai di portarmi le mani al collo, ma Storm me lo impedì bloccandomi le mani con le sue. I suoi palmi si erano stretti in una presa ferrea attorno ai miei polsi. Se avesse continuato a stringere così forte mi sarebbero usciti dei lividi ma a lui non importava.
Il ricordo di quella sera in quello squallido Motel e delle sue mani attorno al mio collo mi destabilizzò. Per un attimo ebbi paura, avevo il terrore che una cosa del genere potesse capitare nuovamente, ma non dovevo farmi vedere impaurita. Non dovevo perché era quello che Storm voleva.
«Non lo faresti di nuovo» alzai il viso di scatto e una ciocca di capelli sfuggi dalla coda cadendomi sulla faccia.
«Ne sei proprio convinta?» chiese guardandomi da sotto le lunghe ciglia nere mentre stringeva maggiormente la presa sui miei polsi. Stava stringendo così forte che per un attimo credetti che il sangue avesse smesso di circolare ma impedii a me stessa di mostrare qualsiasi emozione cercando di rimanere impassibile.
«Si» dissi stringendo i denti in una borsa ferrea «Ne sono sicura»
Storm si avvicinò ancora di più accostando il suo viso al mio e fissandomi negli occhi. Iniziò a scrutarmi come se stesse cercando qualcosa che cercava da tempo. Restò immobile per un tempo che mi parve lunghissimo ma cercai di rimanere imperturbabile mentre dentro stavo morendo di paura. All'improvviso mi lasciò i polsi e si spostò di lato appoggiandosi con un fianco alla parete.
«Vai via» disse puntando gli occhi sul pavimento, ma io rimasi ferma come se fossi bloccata da una forza maggiore. «Vattene» urlò quasi quell’imperativo e il suo tono di voce alto mi fece rabbrividire.
Mi staccai dalla parete e quasi correndo uscii dalla stanza.




Storm’s point of view

Mi portai una mano ai capelli tirando le punte fino a sentire un lieve dolore alla nuca.
Cavolo, quella ragazza si rivelava una vera sorpresa. Ero convinto che non durasse nemmeno un giorno e invece si era dimostrata più forte di quel che pensavo.
Era una tipa tenace che mi aveva dato più volte del filo da torcere. Se solo pensavo all’inseguimento dei poliziotti mi saliva il sangue al cervello, quella sera avevo fatto uno sforzo immenso per richiamare in me tutta la calma che possedevo e risolvere al meglio la situazione.
Oggi mi aveva fatto quella domanda che mi aveva spiazzato. Ero rimasto scioccato dalle sue parole e davanti al suo coraggio e ostinatezza non ho potuto che non dirle la verità.
Ero stato sincero sperando che questo avesse potuto spaventarla e invece non aveva mostrato alcun segno di terrore. Anzi, era stata ancora più sfrontata e aveva continuato a sfidarmi. Abigail avrebbe dovuto ringraziare i Santi che aveva in paradiso perché solo una miracolo l’ha salvata dalla mia rabbia.
Mi scostai dalla parete e mi finii di vestire. Infilai un paio di pantaloni corti e scesi al piano terra incontrando Cheikh in soggiorno.
Il ragazzo se ne stava seduto sul pavimento davanti alla televisione e col joystick in mano.
«Giochiamo?» chiese indicando lo schermo che rifletteva un campo da calcio. «Per ricordare i vecchi tempi»
Annuii sedendomi a terra incrociando le gambe. Cheikh mi porse l’altro joystick e dopo aver selezionato il mio giocatore iniziammo la partita.
«Allora?» chiese il mio amico continuando a guardare lo schermo «Come va?»
«Come va cosa?» chiesi rubando la palla al mio avversario.
«Tutto» rispose muovendo i tasti del joystick «La ragazza è sveglia»
«Si, lo è» feci goal e sorrisi sornione. Ero sempre stato bravo coi videogiochi e Cheikh non riusciva quasi mai a battermi. «Riesco a tenerla a bada. Non preoccuparti»
«Su questo non ci sono dubbi, quelli che mi preoccupano sono i tuoi metodi» ribadì posando il joystick sulle sue gambe mentre sullo schermo veniva riprodotto il replay del mio goal.
«Non la ucciderò, Cheikh. Lo sai» dissi lanciandogli un’occhiata «E lo sa pure lei» continuai a voce bassa.
«Lo sai che capisco il motivo per cui stai facendo tutto questo, ma c’erano altri modi» disse continuando a giocare. «Ti avrei aiutato e lo sai»
«Con Jack giustiziato e sotto terra me l’avrebbero portata via» continuavo a muovere le dita sul joystick ma ormai la mia mente non stava più prestando attenzione a quella partita. «Non l’avrebbero lasciata con me e io non posso permetterlo. Non lei. Non di nuovo»
«Adesso dov’è?» mi chiese Cheikh facendosi sempre più serio.
«A casa» risposi duramente ripensando a quel posto che chiamavo casa «É con persone fidate»
«Rute ti sembra una persona fidata?» chiese voltandosi verso di me mentre il mio giocatore tirava a segno un altro goal. «Come fai a sapere che sta con Rute?» chiesi incredulo. Nessuno sapeva dove fosse.
«Andiamo Loran, a chi avresti mai potuto lasciarla?» domandò retoricamente «Rute è l’unica persona di cui ti fidi dopo di me» continuò rivolgendomi un’occhiata severa.
Non gli risposi e continuai a giocare.
«Sono anni che non la vedo» il ragazzo coi dread parlò nuovamente. «Com’è adesso?»
«Più bella che mai» risposi istintivamente sentendo i miei occhi illuminarsi. «La mia Lizzie si fa sempre più bella»




Harrison’s point of view

Niente, non avevano trovato niente. Mi convincevo sempre di più dell’idea che quel ragazzo misterioso della festa fosse il rapitore ma non sapevano come trovarlo.
Le ricerche su Jack Tyrell non avevano portato a nulla e non era evinto nessun legame tra lui e il rapitore. Anthony stava ancora cercando ma non riponevo molte speranze in quel lavoro.
Avevamo registravo la voce del rapitore dalle telefonate ma non era uscito nulla. Era stata falsata e riuscire a risalire all’originale era quasi impossibile.
Non sapevo cosa fare, quali ordini dare. Non riuscivo a pensare logicamente. La presenza di mia figlia in quel complotto mi rendeva un inetto.
Avevo un’unica e sola possibilità. Arrivati a quel punto potevo fare una sola cosa, chiedere aiuto a una sola persona.
«Rider» chiamai a gran voce. «Contatta l’FBI. Abbiamo bisogno di loro»

 
 
Note
Salve a tutte mie giovani lettrici. Se lo scorso capitolo è stato difficile da scrivere, almeno la parte iniziale, questo è stato un parto dall’inizio alla fine. Non credo ne sia uscito nulla di buono ma spero di rifarmi col prossimo.
Storm ha abbassato un po’ il tiro e credo che fosse anche ora. Pensare che stiamo già all’undicesimo capitolo e il rapporto tra i due è ancora a questo livello mi mette ansia. Mi auguro di essere in grado di sviluppare al meglio ogni tipo di emozione e magari di emozionarvi anche quando arriverà il momento.
Come sempre voglio sapere cosa ne pensate e cosa credevate che facesse Storm e quale fosse la sua reazione.
Vi è piaciuto il dialogo tra i due amici? Di chi pensiate stiano parlando (nel senso che ruolo ha questa Lizzie)? Come si lega al resto della storia? Su, ditemi la vostra opinione, voglio sapere chi indovina o chi arriva più vicino alla risposta giusta.
Io spero che tutte le vostre supposizioni siano sbagliate altrimenti si perderebbe l’effetto sorpresa.
È tornata di nuovo Lizzie, ve la ricordavate? Della serie chi non muore si rivede.
Mi sono domandata per buoni venti minuti se continuare il capitolo o se lasciarlo così corto, ma alla fine ho optato per lasciarlo così. Perdonatemi ma preferisco in questo modo, in compenso aggiornerò prima e non passeranno tre giorni (che comunque sono buoni come tempo per l’aggiornamento).
Ringrazio tutte le lettrici che pazientemente mi sopportano e seguono questa storia dall’inizio, mi sembra quasi impossibile essere arrivata a questo punto. È una vera gioia per me.
Un grazie va sicuramente alle ragazze che seguono e recensiscono questa storia supportandomi e dandomi sempre un motivo per continuare a scrivere Oblio.
I ringraziamenti vanno anche a tutte le ragazze che hanno inserito la storia tra le seguite/ricordate/preferite.
Fatti i ringraziamenti di rito che vi meritate tutte dalla prima all’ultima, vi lascio.
Un bacione e buona giornata a tutte
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Sorprese inaspettate ***


 
XII
Sorprese inaspettate 

 
Abigail’s point of view 

Il buio era calato già da un po’. La luna era alta nel cielo e illuminava il giardino di quella casa creando ombre suggestive sul prato. Ero entrata in quella villa solo un giorno prima e mi sembrava fosse trascorsa un’eternità. Se solo pensavo che quella mattina avevo sentito la voce di mio padre mi risultava impossibile crederci, mi sembrava passata un’intera vita. Rilasciai cadere la tenda che stavo mantenendo e la poca luce lunare, che fino a poco prima illuminava la stanza, scomparse. La stanza era piombata nell’ombra.
Mi allontanai dalla finestra e a tentoni mi avvicinai alla porta. La camera era praticamente vuota se si escludeva il letto e l’armadio quindi non andai a sbattere contro nulla. Aprii la porta e scesi le scale dirigendomi in cucina.
Il soggiorno era illuminato da una flebile luce, ma non ci badai superando in fretta quella stanza. Arrivata in cucina aprii il forno e vidi il piatto di pasta che Cheikh mi aveva conservato e che a detta sua aveva davvero un saporaccio.
Il ragazzo doveva avere ragione perché non aveva affatto una bella faccia quel piatto di pasta asciutto.
Lo gettai direttamente nella pattumiera.
Mi toccava prepararmi qualcosa. Aprii il frigo e con gioia vidi che era pieno. C’erano le uova, il latte, diverse bibite alcoliche e delle gassose. Carne congelata e qualche frutto di stagione. Vedendo le uova mi venne la bizzarra voglia di preparare una torta e l’idea mi fece ridere. Io, la figlia di un giudice che era stata rapita e che non aveva mai fatto un dolce in vita sua, voleva fare una torta. Risi mentre afferravo il cartone del latte e me ne versavo un poco in un bicchiere. Mentre lo sorseggiavo ancora in piedi pensai che però una bella fetta di dolce al cioccolato non ci stava per niente male. Quando ero triste chiamavo sempre Jenny, la mia migliore amica, per andare a comprare una bella torta al cacao fatta dalla pasticceria al centro.
In quel momento ero davvero giù di morale e il cioccolato mi avrebbe aiutato, anche se non avevo mai preparato una torta in vita mia. Del resto quanto poteva essere difficile? Un po’ di uova, della farina e il gioco era fatto.
Senza nemmeno accorgermene iniziai ad aprire tutti i cassetti alla ricerca del cacao, della farina e dello lievito. In un cassetto trovai anche un quadernino. Lo aprii e vidi che delle ricette erano state segnate a mano da una calligrafia longilinea ed elegante. Sfogliai con prudenza e delicatezza le pagine di quel quaderno sentendomi un sfacciata maleducata. Ero a disagio a muovermi in quella cucina ma mi sentivo allo stesso modo anche nelle altre stanze.
Non sapevo per quanto saremmo rimasti lì, tanto valeva tenersi impegnati in qualche modo.
Quando trovai la ricetta del dolce al cioccolato saltellai e gridacchiai.
In un recipiente ruppi le uova e cercai di non far cadere il guscio, ma qualche pezzettino cadde insieme al tuorlo e lo tolsi con la forchetta. Aggiunsi la farina, lo zucchero e il latte e mischiai il tutto con un cucchiaio. Continuai a girare per buoni dieci minuti stancandomi le braccia per poi aggiungere un filo d’olio nell’impasto che stava venendo senza grumi. Alla fini versai nel recipiente una bustina di lievito e mentre l’impasto riposava imburrai una terrina.
Prima di versare l’impasto nel ruoto aggiunsi il cacao al preparato. Misi tutta la busta di cacao nonostante la ricetta portasse solo i ¾ della confezione. Abbondai sentendomi particolarmente bisognosa di cioccolata. Infornai e misi il timer. Non mi restava che aspettare.
Nell’attesa lavai gli utensili sporchi e misi in ordine la cucina. Venti minuti dopo mi trovavo di nuovo con le mani in mano e una strana sensazione addosso. Mi ero abituata quasi subito a quella stanza della casa e dovevo ammettere che mi era piaciuto preparare una torta. Già mi immaginavo tra dieci anni in una cosa come quella a preparare la cena a mio marito o a cucinare i dolcetti per il compleanno dei miei bambini.
Il suono di una risata mi ridestò dai miei pensieri catturando la mia attenzione. La luce in soggiorno era ancora accesa e, avvicinandomi alla sala, capii che proveniva del televisore acceso. Restai in piedi sulla porta osservando la testa che spuntava dalla spalliera del divano. Sapevo che quello seduto a pochi metri da me non fosse Cheikh, lui aveva quei dread che erano riconoscibili anche da un metro di distanza, e in quella casa non viveva nessun altro eccetto Storm.
Mossi le gambe in una sequenza di passi fino a raggiungere il divano e sedermi sopra.
Il ragazzo si voltò per guardarmi ma non disse nulla e io feci lo stesso. Stava vedendo una commedia rosa. Non avevo mai amato particolarmente quei film trovandoli alquanto stupidi. La fine era sempre così scontata anche se, in fondo, un po' mi piaceva vedere i film romantici.
Tutte le ragazze desideravano avere al proprio fianco un uomo che le amasse più della loro stessa vita. E lo desideravo anch’io, mi chiedevo solo quando lo avrei incontrato e che aspetto avesse colui che avrebbe rubato il mio cuore facendolo suo per sempre.
«A cosa pensi?» nel silenzio della stanza proruppe la voce di Loran che risuonò con un profondo eco.
«Perché lo chiedi?» gli chiesi a mia volta voltandomi verso di lui. Avevo ancora i piedi nudi e indossavo quel pantaloncino di felpa che mi aveva dato lui giorni prima.
Portai i piedi sul divano piegando le gambe. Passai una mano lungo i miei polpacci e li sentii appiccicaticci. Quanto tempo era che non mi facevo una doccia? Erano quasi quattro giorni.
«Avevi un’espressione assorta e beata» rispose semplicemente voltandosi a guardare lo schermo.
I protagonisti del film, due ragazzi giovani, si stavano baciando mentre cercavano dispogliarsi a vicenda. Quelle scene mi avevano sempre messo in imbarazzo e non potei evitare di arrossire.
Sorrisi debolmente scuotendo la testa. «Niente di importante. Solo pensieri stupidi di una bambolina» gli lanciai un'occhiata mentre pronunciavo l’ultima parola ma non colsi segni di cambiamento nella sua espressione.
«Io direi che sei tu a non volermi dire a cosa stavi pensando» rispose rivolgendomi la stessa occhiata che avevo riservato per lui poco prima.
«Anche se fosse, non potresti darmi tutti i torti» asserii sicura di avere ragione.
«Touché» dichiarò prontamente muovendo due dita nell’aria in un movimento circolare.
Mi concentrai sul film che incurante continuava a scorrere minuto dopo minuto mentre il mio dolce cuoceva nel forno.
La pellicola si riprodusse senza interruzioni finché Storm decise di dire la sua su una scena del film.
La protagonista del film stava cacciando di casa il suo innamorato gridandogli di andarsene e di non farsi vedere mai più ma dalla sua faccia si capiva che lo amava e che voleva solo stare con lui. Desiderava semplicemente sentirsi amata dal ragazzo a cui inconsciamente aveva donato tutta se stessa.
«Perché lo fate voi ragazze?» chiese Storm voltandosi a guardarmi.
«Cosa faremmo di preciso?» risposi a mia volta con una domanda non capendo bene a cosa si riferisse.
«Dite l’opposto di quello che pensate» disse guardandomi per poi distogliere lo sguardo e puntandolo sullo schermo. «Dite di no quando vorreste dire di si. Dite di voler restare sole mentre è chiaro che è l’ultima cosa che desiderate». Quella era in assoluto l’ultima cosa che mi aspettassi di sentir dire da Storm. Era uno scherzo forse? Se era così non era affatto divertente.
«E voi perché lo fate?» chiesi a mia volta utilizzando le sue stesse parole.
«Cosa?» le sue sopracciglia si alzarono in un’espressione di pura incomprensione.
«Perché vi nascondete dietro una maschera di cera?» Mi ero completamente voltata verso di lui piegando una gamba e nascondendola sotto il sedere mentre l’altra dondolava sul bordo del divano.
La sua espressione si fece ancora più corrucciata e io mi prodigai in numerose spiegazioni. «Fate tanto i gradassi nascondendovi dietro quell’idea assurda di virilità con la quale sembrate nascere. In pubblico siete insensibili come statue di marmo mentre in privato vi trasformate in teneri orsacchiotti» terminai quel piccolo discorso con una punta di sarcasmo che fece comparire un sorriso sulle mie labbra.
Storm mi guardò con occhi inespressivi per diversi minuti e con le labbra serrate in un mutismo forzato. Le immagini del film continuavano a scorrere mentre le loro battute facevano da sottofondo quando all’improvviso un trillo proruppe nella stanza.
«Il timer!». Saltai giù dal divano correndo in cucina lasciandomi alle spalle uno Storm ancora più stupito e meravigliato di prima.
«Il timer?» gli sentii dire dal soggiorno mentre io stavo già nell’altra stanza «Ma hai acceso il forno?»
Durante la corsa furiosa per raggiungere la cucina ero andata a sbattere col piede contro la porta facendomi male. Un gemito di dolore mi sfuggì dalle labbra. Mia madre lo diceva sempre di non camminare scalza per casa.
Zoppicando mi avvicinai al forno, lo spensi e poi aprii lo sportellino e un dolce odore inondò la cucina.
«Hai acceso il forno» affermò Storm alle mie spalle. Mi voltai e lo vidi sulla porta con una strana espressione di smarrimento dipinta sul volto.
«Esatto» risposi mentre cercavo nei cassetti una presina per estrarre il ruoto dal forno senza bruciarmi. La trovai nel secondo cassetto, sotto a quello delle posate.
«Perché hai fatto una cosa del genere?» chiese guardandomi come se fossi uno strano mostro con la testa verde e lunghi tentacoli.
«Conosci un altro modo per cucinare una torta?» gli risposi mentre mi chinavo per cacciare il ruoto dal forno.
«Hai fatto una torta?» chiese e non fece nulla per nascondere l’incredulità presente nella sua voce.
«Si Storm, ho fatto un dolce» risposi sbuffando stanca di quella manfrina che stava portando avanti «Gentilmente, la smetti adesso? Mi sembri un bambino». 
Il ragazzo sembrò risentito delle mie parole ma non ci badai molto. Mi adoperai a tagliare il dolce a cubetti e lo riposi in un piatto dopo averlo cosparso di uno strato di zucchero a velo.
«Tutto questo è assurdo» Storm interruppe il silenzio. «Lo sai, vero?»
Afferrai un cubetto di dolce e me lo cacciai in bocca.
«Si, forse lo è» risposi dandogli le spalle uscendo dalla cucina per poi salire al piano di sopra con diversi pezzi di dolce tra le mani.
Non era molto soffice e sapeva troppo di cacao, ma come primo tentativo andava bene.

Salii in camera che era quasi mezzanotte e, dopo essermi fatta una lunghissima doccia rilassante e aver indossato a malincuore gli stessi vestiti sporchi di prima, mi ero coricata addormentandomi quasi subito.
Mi abbandonai ad un sogno tormentato pieno di sangue, cadaveri e di Storm che sparava senza guardare nemmeno in faccia la sua vittima.


**
A svegliarmi fu un rumore fortissimo. All’inizio credetti di averlo sognato e considerai l’idea di ritornare a dormire. Lanciai un’occhiata alla finestra e vidi che il cielo era ancora scuro ma il sole stava sorgendo lentamente e ben presto avrebbe illuminato quel cielo buio dando inizio ad una nuova giornata.
Un altro rumore ancora più forte del precedente risuonò in tutta la casa. Stavo per alzarmi dal letto quando la porta della camera si spalancò mostrando la figura di Cheikh che trafelata se ne stava sulla porta. Alcune goccioline di sudore gli scorrevano lungo il viso e aveva la frante imperlata.
«Dobbiamo andarcene» disse in tono allarmato e scorsi una nota di panico nella sua voce.
«Cosa?» dissi incredula «Cosa sta succedendo?»
«Qualcuno sta tentando di entrare nella villa e non possiamo farci trovare qui» rispose entrando nella stanza, prese le mie scarpe e me le porse. «Metti queste e andiamocene»
«Ma tu come fai a sapere che qualcuno vuole entrare in casa?» chiesi cercando di capire cosa stesse succedendo. Nemmeno un minuto fa ero sdraiata nel letto con la mente sgombra e finalmente un po’ di tranquillità si era insinuata in me, e invece adesso mi ritrovavo nella stessa stanza con Cheikh che sembrava particolarmente agitato.
Feci per avvicinarmi all’armadio per prendere una felpa, fuori doveva tirare parecchio vento dato l’impetuoso ondeggiare degli alberi, ma il ragazzo mi blocco. «Dobbiamo andarcene subito. Non abbiamo tempo da perdere».
Mi afferrò il braccio e delicatamente mi trascinò giù per le scale.
«Ma..» balbettai guardandomi intorno e trovando il piano terra di quella casa totalmente vuoto. Nessuno se ne stava steso sul divano coi piedi sul tavolino. «Storm dov’è?»
La prima a sorprendersi di quella frase fui io, non riuscivo a credere che avevo pronunciato proprio quella frase. Io che mi domandavo dove fosse il mio carnefice era proprio comico, ma Cheikh non sembrava essere dello stesso avviso.
«In macchina, ci sta aspettando in garage» ripose uscendo dalla porta di casa e dirigendosi verso un piccolo capanno che non avevo notato la sera in cui eravamo arrivati. «Lui ti spiegherà tutto»
Risi di quella frase. Storm non era il tipo che dava spiegazioni, se volevo sapere qualcosa avrei dovuto estorcergliele pregando che uno dei suoi attacchi d’ira non venisse a fargli visita.

 
Note
Allora mie giovani lettrici cosa ne pensate di questo nuovo capitolo? Ho deciso di inserire qualche momento fluff e di far rilassare un po' i personaggi di questa storia che ne hanno viste davvero di cotte di crude fin dal primo capitolo. Il finale rimette la storia sulla carreggiata dell'azione, non ce la facevo proprio a restare su una scia tranquilla ancora. Perdonatemi ma questa storia è stata pensata piena di colpi di scena e spero che ci stia riuscendo. 
La parte più bella e sicuramente più difficile da scrivere si sta avvicinando. Io mi sento un pò emozionata. Come ho ripetuto moltissime volte non ero mai arrivata a questo punto con nessuna delle mie storie e questo lo devo solo a voi. Grazie per tutto il supporto che mi date tutti i giorni. Ogniuna di voi è importante per questa storia. Vi ringrazio tutte, chi recensisce, chi segue la storia e chi la legge semplicemente.
Grazie.

E adesso passiamo ad una notizia nuova.
Allora raggazzuole, ho scritto una One Shot dedicata tutta al nostro Storm. Ho pensato che sarebbe stato carino scrivere dei racconti in cui viene spiegata l'infanzia di questo personaggio molto importante e di cui sono letteralmente innamorata. Per me è stato inevitabile innamorarmi di lui. Lo siete anche voi? 
Nelle note della OS pubblica spiego tutto e mi farebbe molto piacere se passase. Se il progetto vi piace continuerò a pubblicare questi racconti altrimenti credo sia inutile. Fatemi sapere in tante. 
Come sempre io aspetto con trepidazione ogni vostra opinione.
Vi lascio in allegato il link della One Shot:
 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3181884&i=1
Non so cosa altro dirvi.
Un bacio e fatevi sentire, su
-B

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Alta velocità ***



Banner fatto interamente da me con Photoshop CC, spero vi piaccia.


XIII
Alta velocità




Abigail’s point of view

Quando entrai nel capanno notai immediatamente le dimensioni ridotte di quell’angusto luogo. Due teli bianchi nascondevano quelle che sembravano un’auto ed una motocicletta mentre una seconda vettura era già scoperta e il motore rombava prepotentemente.
Storm era alla guida del crossover di grande stazza e con la carrozzeria di un bianco lucente.
«Sali» Cheikh era stato autoritario ma non per questo meno gentile.
«E tu?» chiesi voltandomi e toccandogli un braccio. «Non vieni con noi?»
«No, questa non è la mia causa. È la sua» rispose lanciando un’occhiata all’auto in cui c’era Storm che ci guardava impaziente. Sembrava nervoso.
Cheikh si allontanò da me avvicinandosi all’auto ancora coperta dal telo per poi toglierlo sollevando un gran polverone. Mi aspettavo di vedere un’altra auto imponente e costosa, invece il lenzuolo nascondeva una vecchia Fiat 500 piena di graffi e bisognosa di una verniciata.
«Non fare quella faccia» disse Cheikh sorridendomi affabile «Questa è la mia bambina e mi scarrozza ovunque voglia» Sorrisi a quella sua affermazione e mi avvicinai all’auto bianca mentre Storm mi urlava di muovermi.
Aprii la portiera e un’ondata di aria fredda mi colpì. Storm aveva acceso l’aria condizionata azionandola al massimo. Prima di richiudermi la portiera alle spalle salutai Cheikh con la mano studiando ogni dettaglio del suo viso illuminato da un sorriso di dimensioni enormi.
Ero sicura che sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto lui e quei dread lunghi ricadergli lungo le spalle.
«Non è un addio, Abby» mi rabbonì il ragazzo nemmeno sapesse leggermi la mente «Ci rivedremo presto»
Cheikh salì a bordo della sua sgangherata Fiat mentre io richiudevo la portiera dell’auto, Storm non aspettò nemmeno la chiusura dello sportello che subito uscì sgommando da quel capanno e da quella casa che per quasi due giorni ci aveva accolti.

«Mi spieghi che cosa è successo?» chiesi portandomi le mani alle braccia e strofinandole sulla pelle in cerca di calore.
In quella macchina si moriva dal freddo e mi chiedevo come facesse Storm a stare solo con la maglietta a maniche corte. «Io non ti devo proprio nessuna spiegazione» rispose lui acidamente senza staccare lo sguardo dalla strada che si stagliava desolata davanti a noi.
Il sole stava sorgendo lentamente dando il buongiorno ai cittadini di quel paese ancora vuoto alle prime luci dell’alba. «Lo sapevo» farfugliai sfregando le gambe l’una contro l’altra alla disperata ricerca di calore «Cheikh si sbagliava a credere che mi avresti detto la verità»
Lui mi lanciò un’occhiata di disapprovazione che mi raggelò sul posto.
«Puoi spegnere l’aria fredda? Sembra di stare in Siberia» sbraitai furiosa. Storm ignorò deliberatamente la mia ultima frase continuando a guidare imperterrito.
«Che vuoi sapere?» chiesi un paio di muniti dopo.
«Tutto» risposi rapidamente guadagnandomi un altro sguardo di rimprovero da parte del ragazzo alla guida. «E va bene. Credo che sapere chi voleva entrare in casa sia un ottimo modo per iniziare»
«Non lo sappiamo»
Le sue parole mi stupirono «Cosa?»
«Non è una cosa difficile da capire, Abby. Non so chi abbia tentato di entrare in casa» ripeté lui cambiando marcia e aumentando la velocità.
L’auto scivolava come acqua sull’asfalto. Anche se mi costava ammetterlo Storm era davvero bravo alla guida, nonostante corresse la sua guida rimaneva comunque talmente leggera da sembrare che l’auto volasse. Qualche mese prima avevo provato a mettermi alla guida ma erano state più le volte che ero riuscita a far ingolfare il motore e spegnere l’auto che quelle in cui avevo percorso qualche metro. Ero totalmente negata alla guida e mi sarebbe piaciuto saper guidare.
«Ma allora come fate a sapere che qualcuno ha tentato di entrare in casa?» chiesi voltandomi verso di lui.
«Quante domande fai» sbuffò scocciato ma rispose ugualmente «Cheikh aveva piazzato delle telecamere che controllava dal suo computer e istallato un allarme che suonasse qualora qualcuno avesse tentato di varcare il cancello»
«Stamattina non è suonato nessuno allarme» riflettei a voce alta.
«No, infatti» acconsentì «Cheikh ha visto una donna e un ragazzo dalle telecamere percorrere il viale d’accesso alla villa. Lui pensa che fosse lì per la manutenzione della casa, non potevamo restare.»
«Una donna e un ragazzo? Non la polizia?»
«No. Credevi davvero che la polizia ci avesse trovato?» rise della mia ingenua speranza «Rassegnati perché non lo faranno mai»
«Tra quattro giorni sarò di nuovo a casa» dissi senza un apparente motivo.
«Se andrà tutto secondo i miei piani, tra quattro giorni sarai a casa» asserì Storm confermando «Forse»
Il sorriso sulle sue labbra non faceva presagire nulla di buono.
«Con andrà tutto bene intendi Jack che viene liberato e che voi due scappate tranquillamente? Credi davvero che non vi daranno la caccia?» parlai ad alta voce e avvertendo un bruciore alla gola.
Lui vi voltò passando una mano sui sedili posteriori e afferrando il vestito che indossavo alla festa di Constantine.
«Mi fai davvero così stupido? Ho pensato a tutto» disse porgendomi l’abito rosa che afferrai immediatamente e usai per coprirmi le gambe.
«Potrebbero uccidervi subito dopo aver effettuato lo scambio» lo contraddissi cercando di farlo vacillare. Il suo piano non poteva essere perfetto, pretendevo fosse fallace. Doveva pur avere un punto debole, anche i congegni di Bonnie e Clyde gli avevano.
«Correrò il rischio» rispose fermandosi al semaforo che era appena diventato rosso.
Quel ragazzo mi stupiva sempre di più, non aveva proprio il senso del pericolo.
«Cosa ha fatto tuo fratello per andare in galere e meritarsi la condanna a morte?» chiesi curiosa aggiustandomi il vestito sulle gambe e cercando di coprirmi come meglio potevo.
L’aria fredda era ancora accesa ed era talmente alta che mi stava venendo mal di testa ma non dissi nulla a riguardo. «Sicura di voler utilizzare così la tua domanda di oggi?» chiese Storm guardandomi birichino poggiando il gomito sinistro alla portiera e poggiando la testa sulla sua mano. Sembrava che quel gesto bastasse a sorreggere il peso dei suoi pensieri.
«In realtà credevo che me l’abbonassi» scherzai sapendo che non l’avrebbe mai fatto. Erano passati pochissimi giorni da quando avevo visto per la prima volta quel ragazzo ma erano successe così tante cose che avevo imparato a conoscerlo e mi stupivo quando riuscivo a prevedere le sue reazioni.
«Non faccio sconti a nessuno» rispose difatti dando ragione ai miei pensieri di poco prima.
Parlò guardandomi da sotto le lunghe ciglia e posando una mano sul cambio mettendo la prima. «Nemmeno alle bamboline come te»
«Mi devi ancora dire il prezzo da pagare per questo patto» ricordai. Temevo che mi chiedesse qualcosa di strano o doloroso, ma il gioco valeva assolutamente la candela.
Senza quel patto non avrei mai saputo tante cose e forse sarebbe stato meglio visto che l’immagine di lui che uccideva mi aveva tormentato per l'intera notte.
«Ogni cosa a tempo debito» rispose emblematico come suo solito lasciandomi sul filo del rasoio. Mi chiesi quando sarebbe arrivato questo tempo debito e se sarei stata in grado di fare quello che mi avrebbe richiesto.
«Allora la domanda di oggi?» chiese impaziente tamburellando con le dita sul cambio manuale.
«Cosa ha fatto veramente Jack?».
Avevo deciso che quella sarebbe stata la mia domanda del giorno, ero troppo curiosa di sapere quale atrocità avesse compiuto per meritarsi un così triste destino.
«Ha ucciso una donna e due ragazzi» disse cambiando nuovamente marcia mentre il semaforo da rosso diventava verde. «La donna era sua moglie» Storm sgommò allontanandosi alla massina velocità e producendo un forte stridore di pneumatici che attutirono il rumore delle sue parole che caddero come macigni tra di noi.



Harrison’s point of view

«Rimuovete tutti i posti di blocco, non dovete più dargli la caccia»
Gli ordini impartiti dal capo dell’FBI, il tenente Hoffman, risuonarono nella stanza lasciando tutti spiazzati.
Quella mattina era arrivato alle prime luci dell’alba pretendendo di sapere tutta la storia e di venire a conoscenza dei progressi fatti. Gli avevo raccontato io stesso nei minimi dettagli tutto quello che era accaduto mostrandogli foto e i fascicoli che avevamo trovato. Gli avevo anche fatto ascoltare le registrazioni degli interrogatori.
Il tenente, vedendo le facce sconvolte che lo circondavano, continuò dicendo: «Abbiamo solo quattro giorni per perfezione nei minimi dettagli un piano che ci permetta di salvare la ragazza, far restare Jack Tyrell in carcere e prendere il rapitore»
«Cosa ha in mente tenente Hoffman?» chiesi direttamente all'uomo che stava prendendo in mano le redine delle indagini.
«Non lo so ancora, ma quel ragazzo intente giocare sporco» ripose «E lo faremo anche noi»




Abigail’s point of view

«Cosa? Perché ha fatto una cosa del genere?» chiesi stupefatta e non riuscendo a contenere il mio stupore in nessun modo.
«Mi dispiace» disse Storm con falso perbenismo sollevando le spalle «Hai già consumato la domanda di oggi»
«Questo non è uno scherzo, Loran» sbuffai ormai stufa del suo atteggiamento portandomi le mani ai capelli.
Non mi ero resa conto di averlo chiamato col suo nome di battesimo ma a lui quel dettaglio non era di certo sfuggito. «Non chiamarmi mai più in quel modo» inchiodò improvvisamente, balzai in avanti e per poco non finii con la faccia nel parabrezza.
«E allora tu rispondimi, dannazione» sbraitai.
L’agitazione tra noi due era salita alle stelle in un attimo. La macchina era ancora ferma in mezzo alla strada desolata. «Non alzare la voce. Non ti permettere troppe confidenze» digrignò i denti mentre cercava di mantenere la calma.
«Ah, tu puoi e io no?» dissi in tono da saputella poggiandomi una mano sul fianco. Se non fossi seduta in una macchina avrei acquisito sicuramente una posizione da smorfiosa gettando tutto il peso del mio corpo su una sola gambe. «Se ogni tanto ti degnassi di rispondermi o di spiegarmi le cose non saremmo a questo punto»
«Quale punto, scusa?» ribatté lui
«Al punto in cui io voglio delle spiegazioni e tu ti rifiuti di darmele».
Ero letteralmente furiosa e non sapevo esattamente quale fosse il motivo, probabilmente stavo solo sfogando le emozioni che avevo provato in quei giorni di reclusione.
«Io non sono dovuto a darti proprio nessuna spiegazione» si voltò e riprese a guidare partendo alla massima velocità. Eravamo in una stradina di città eppure lui correva come se fosse su una statale. Sfiorava i 140 Km/h. Il vestito che faceva da coperta mi cadde dalle gambe ma non persi tempo a riprenderlo, ero talmente furiosa che ci pensava la mia rabbia ad alimentare calore e riscaldarmi.
«Dimenticavo che da te non si sa nulla nemmeno sotto tortura» farfugliai irosa.
«Esatto, quindi smettila di fare domande a cui comunque non risponderò» decelerò leggermente accendendo la radio. «Per ora» bisbigliai tra me e me non totalmente convinta delle mie stesse parole.


 
Note
Lo so, sono stata perfida ad interrompere il Pov di Abby con quello del padre, ma era una questione di suspance. Spero che la cosa vi abbia messo un po’ di ansia.
Sono stata davvero repentina con l'aggiornamente e spero che nessuno abbia dimenticato di leggere il capitolo precedente. Vi ricordo che ho pubblicato la OS dedicata a Storm e ben presto ne arriverà un'altra più carina della precedente e molto più interessante.
Allooora, cosa ve ne pare di questo tredicesimo capitolo? Vi aspettavate un po’ più di movimento? Qualcosa di completamente diverso? Ormai lo sapete che ci tengo particolarmente a sapere le vostre opinioni in merito alla storia. Se avete consigli, critiche, annotazioni o chiarimenti siete liberissime di chiedere. Sono sempre disponibile basta solo che mi mandiate un messaggio e io vi risponderò.
Questo capitolo è stato scritto con The ballad of Mona Lisa dei Panic At The Disco in sottofondo consigliatami da Foolish___.
Adoro questa canzone e vi consiglio di ascoltarla.
Bene detto questo ho una nuova notizia da darvi. Grazie a tutto il vostro supporto e i vostri commenti positivissimi sono piena di idea e ho pensato di creare una pagina Facebook dedicata a questa storia in cui potrete confrontare i vostri paperi da lettrici e seguire in diretta gli aggiornamenti ed eventuali spoiler. Non se a qualcuno piace l’idea e se mi seguireste in quest’ennesima avventura.
Beh fatemi sapere tutto con un commentino e non siate timide, non vi mangio mica. Non poterei far altro che apprezzare i vostri pareri ed essere felice che vi siate fermate per lasciarmi una recensione.
E adesso passiamo ai ringraziamenti. Come sempre ci tengo a ringraziare le ragazze che leggono seguono e recensiscono la storia. Mi siete di grande sostegno. E adesso sbizzarritevi con le recensioni!
Bacioni e buona giornata a tutti

-B

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Primi inizi ***



Banner fatto da me con Photoshop CC


XIV
Primi inizi



Abigail's point of view

In macchina era caduto il silenzio giá da un paio d'ore. Non la sopportavo quell'atmosfera tesa che si poteva facilmente tagliare con la lama di un coltello anche poco affilato. Perfino i nostri respiri si sentivano. Quello di Storm era frequente e pesante mentre io cercavo di trattenermi. Anche il suono dei miei sospiri sembrava di troppo in quell'abitacolo.
Il sole era ormai alto nel cielo e in strada si vedevano i primi passanti. Per lo piú erano persone anziane che entravano nei panifici o dal giornalaio.
Inutile dirlo, l'aria fredda era ancora accesa e la mia pelle era tempestata di piccoli brividi che mi scuotevano. Il vestito era posato sulle mie ginocchia ma era troppo sottile per procurarmi calore.
Mi lasciai sfuggire un lamento di pura frustrazione mentre mi stringevo in una specie di abbraccio per riscaldarmi.
«Non lo sopporto più questo freddo. Per piacere spegni questa cosa» parlai indicando la manopola per spegnere il termoventilatore.
«Perché dovrei?» rispose continuando a guardare davanti a sé «Io sto bene»
«Ovvio che stai bene. Il tuo cuore di ghiaccio deve sentirsi a casa in questa macchina che somiglia sempre di piú all'Antartide» ribattei notando che la mia innata dote di sarcasmo non mi aveva affatto abbandonata. Storm mi lanciò un'occhiataccia ma non disse niente. Strano, mi aspettavo come minimo una partaccia seguita da una minaccia di morte. «Non sei affatto educato» continuai mettendo il broncio e sentendomi una bambinetta di cinque anni che per Natale non riceverà il regalo che aveva chiesto.
A quel punto Storm rise di me lanciandomi occhiate derisorie. «Questo é il massimo che riesci a fare?» disse tra una risata e l'altra. «Sei proprio una bambolina»
«So fare di meglio ma questa dannata aria fredda mi sta congelando il cervello» mi lamentai. Il mal di testa stava diventando sempre più forte e sapevo che mi sarebbe passato solo con un analgesico. A meno che Storm non ne avesse uno con sé e non fosse mosso a compassione mi sarei tenuta il dolore.
«Se questo ti farà stare zitta allora credo che la terrò sempre accesa» rispose perfidamente con l'unico intento di farmi un dispetto.
Fregandomene della sua presenza avvicinai la mano alla manopola dell'aria e chiusi il getto. Storm mi ammonì con un occhiataccia. «Mi farai morire di caldo. Ti rendi conto che é il mese di Giugno, vero?»
«Lo so in che mese siamo ma non fa tutto questo caldo. Puoi benissimo aprire i finestrini» risposi abbassando il mio a avvertendo immediatamente l'aria calda entrare nella macchina e mischiarsi a quel gelo artificiale. Quando il vento mi scompigliò i capelli mi rilassai abbandonandomi ad un sospiro di puro piacere.
«Contenta?» chiese Storm canzonatorio aumentando ancora di piú la velocità e voltando in un vicolo.
«Molto» risposi sorridendo beffarda. Qualche capello mi si infilò in bocca mentre l'afa regnava intorno a noi.


Mezz'ora dopo Storm grondava di sudore e cercava di asciugarsi il viso con la maglia che portava i segni di sudore sotto le braccia.
«Cavolo» imprecai non riuscendo a contenere un sorriso «Non scherzavi quando dicevi che saresti morto dal caldo»
«Ti sembro il tipo che scherza?» ringhiò nella mia direzione.
«Qualcuno ha mangiato pane e acidità stamattina» ribattei non riuscendo ad essere dispiaciuta per lui che sembrava soffrire il caldo.
Lentamente la macchina rallentò e il ragazzo la portò ad una velocità normale. Improvvisamente afferrò i lembi della sua maglia blu ormai fradicia e se la tolse restando a petto nudo.
«Che fai?» dissi imbarazzata sentendo le mie guance surriscaldarsi.
«Mi spoglio. Non è ovvio?» gettò la maglia dietro senza badare a dove fosse finita e continuò a guidare afferrando nuovamente lo sterzo con entrambe le mani.
«Si questo lo vedo. Ma perché?» chiesi con gli occhi sbarrati.
«Ho caldo, Abby» chiarì in tono avvio-e infatti lo era-. Il mio cervello stava partendo completamente per la tangente. Un'altra giornata con Storm e le mie capacità intellettive sarebbero state danneggiate permanentemente
«Smettila di parlare e prendimi un asciugamano. Sta sul sediolino di dietro»
Scettica mi voltai. Poggiai le ginocchia piegate sul sediolino mentre col busto mi sporsi vedendo quello che c'era nel retro dell'auto che prima non avevo notato. Qualcuno mi aveva distratta monopolizzando la mia attenzione a tal punto da non rendermi conto che Storm, prima di lasciare la casa, aveva fatto una bella scorta. C'erano asciugamani, vestiti puliti, bicchieri di carta con tutto il resto del corredo usa e getta, bibite, qualche busta di patatine e il mio dolce. Quel soffice rettangolino al cioccolato era stato avvolto con cura in del cellophane e poggiato in un ruoto.
Afferrai l'asciugamano e mi voltai raggiante.
«Hai preso il dolce» affermai porgendogli il tessuto spugnoso che prontamente afferrò. «Hai salvato il mio primo dolce» continuai sorridendo.
Sembrava sciocco essere felice per una cosa del genere ma lo ero. Era l'unica cosa bella che mi era succesa in quei giorni, l'unica carineria che Storm riservava nei miei confronti.
«E si sentiva. Fa schifo» sputò acidamente passandosi l'asciugamano sul torace. Aveva la pelle chiarissima e sembrava luccicare come fili d'argento. Guardare la sua pelle sotto la luce solare era come guardare la luna: emanavano lo stesso bagliore argenteo. In quel momento capii esattamente perché alcuni americani usassero la parola Mooning per indicare una particolare pelle chiara.
Distolsi lo sguardo dal suo corpo cercando la giusta risposta da dargli. «Vuol dire che l'hai assaggiata» gli puntai il dito contro con fare incriminatorio.
«Si e l'ho anche sputata. Faceva veramente pena» disse passando ad asciugarsi il viso. «Hai messo troppo cacao»
«E tu saresti l'esperto di cucina, giusto?» dissi sporgendomi di lato.
«No che non sono un esperto ma so riconoscere una cosa buona da una cattiva» poggiò l'asciugamano sulle gambe mentre schiacciava il piede sull'acceleratore per riacquistare la velocità di poco prima. «La tua torna non era affatto buona».
Mi risentii delle sue parole e, offesa, mi sistemai rigidamente sul sediolino puntando gli occhi fuori dal finestrino.
«Se ti fa così schifo non mangiarla allora».
Detto quello chiusi gli occhi sentendo il volume dello stereo alzarsi e l'auto accelerare sempre di più.
Nel giro di pochi minuti mi addormentai senza nemmeno accorgermene. Avevo completamente perso il controllo di me stessa.


Mi svegliai di soprassalto. Avevo fatto un brutto sogno, però non ricordavo cosa succedeva. C'era mio padre, la polizia, Storm e anche Cheikh ma non riuscivo proprio a ricordare come potevano essere legati tra loro. Lentamente aprii gli occhi e mi drizzai con la schiena.
Eravamo in macchina e davanti a noi si stagliava una lunghissima strada alberata e totalmente desolata. Si sentiva soltanto lo stridore degli pneumatici. La radio era spenta e dai finestrini abbassati entrava una dolcissima aria calda. Storm aveva indossato una maglietta rossa e sembrava stesse meglio di prima nonostante i capelli fossero sudaticci. «Dove siamo?» chiesi con la voce rauca e piú bassa del solito. Mentre parlavo avvertii un dolore alla gola. Perfetto, altre al mal di testa ora anche la gola infiammata dovevo avere. Tutto merito dell'aria condizionata.
«Su una statale secondaria» disse e mi meravigliai di non essere stata mandata a quel paese in malo modo. Annuii lanciando un'occhiata all'orologio digitale dell'auto. Era quasi mezzogiorno. Caspita avevo dormito un sacco. Lo stomaco prese a brontolare e istintivamente mi voltai per prendere il mio dolce. Poggiai il ruoto sulle ginocchia e cautamente scartai la torna imballaggio di cellophane. Ne spezzai un pezzo e me lo cacciai in bocca. Era un po' secco e sapeva troppo di cacao ma non era male. Ne presi un altro pezzo e masticando accesi la radio.
Il radiofonico stava parlando e mi lasciai sfuggire uno sbuffo; odiavo quando parlavano. Cambiai stazione ma le atre si sentivano disturbate così tornai su quella di prima.
«Siete in macchina? State affrontando un lungo viaggio e non sapete cosa fare? Se la vostra risposta é si allora questo è il gioco che fa per voi. Fate delle domande al vostro compagno che dovrà rispondere velocemente ma non dire necessariamente la verità. Mandate un messaggio e scopriamo quanto siete bugiardi». La voce del radiofonico risuonò nell'abitacolo ad alto volume per poi cedere il passo al nuovo tormentone estivo.
«Che idiozia» disse Storm tamburellando con le dira sullo sterzo.
«Sembra divertente» difesi il radiofonico guardando fuori dal finestrino mentre il vento mi scompigliava i capelli.
«No che non lo é. Sembra uno di quegli stupidi giochetti che si fanno alle feste da ubriachi» parlò continuando a guardare di fronte a sé.
«Sempre il solito antipatico scorbutico» lo insultai.
«Non é vero» cercò di difendersi.
«Oh si, invece. Sei un guastafeste» ribattei.
«No» rispose semplicemente.
«Dimostramelo» lo stuzzicai trovando quella situazione divertente ed eccitante.
«E va bene. Inizia con le domande» demorse «Ad una condizione»
«Quale?» domandai .
«Tu fai una domanda a me e io ne faccio una a te» propose.
Mi sembrava un patto alquanto ragionevole. «Okay» dissi «Inizio io».
Volevo iniziare io quello strambo gioco ma non sapevo davvero da dove cominciare. Avrei potuto chiedergli qualcosa di lui, di Jack, del piano ma mi avrebbe mentito e lo avrei solo fatto innervosire. Quel giorno sembrava abbastanza tranquillo nonostante il brusco risveglio di poco prima e non mi andava proprio di farlo innervosire.
«Uhm..vediamo» parlottai cercando di trovare una domanda che non entrasse in terreno minato.
«Ho trovato» sorrisi sollevando una mano. «Quanti anni hai?».
Immaginavo fosse sulla ventina ma non lo sapevo con esattezza.
«Che razza di domanda é?» domandò rivolgendomi una strana occhiata.
«Una normalissima» mi difesi «Non fare storie e rispondi»
«Se proprio vuoi» sospirò per poi accontentarmi e rispondere alla domanda «Ventitré»
«Ora tocca a te» risposi.
«Quale é stata la prima cosa che hai pensato quando mi hai visto?»
Ripensai alla festa. Ricordai che avrei voluto andarmene e stavo per farlo ma la vista di quel ragazzo, di Storm, mi aveva completamente paralizzato. Era stupendo.
«Che facevi paura» mentii.
1-0 per lui.
«Chi é la persona che ami di piú?» domandai.
Lu sembrò rifletterci un attimo poi rispose. «Me stesso».
Wow, quello si che era pure egocentrismo. Mi lanciò un'occhiata e poi fece la sua domanda. «Sei ancora vergine?» domando scettico sollevando le sopracciglia.
«Cosa? Ma che domanda é?» mi agitai sul posto ma il suo sguardo parlava chiaro. Esigeva una risposta. Hai voluto giocare e adesso gioca, questo era questo quello che dicevano i suoi occhi.
«No» mentii nuovamente.
Lui sembrò quasi sorpreso della mia risposta ma si riprese quasi subito.
«Vuoi fare un altro giro di domande?» chiese con in sorriso furbetto stampato in faccia.
«N-no» balbettai. «Quante bugie hai detto?»
«Una» disse poggiando il gomito fuori dal finestrino abbassato e poggiando la testa sulla mano.
«Io due» soffiai sicura che nonostante la mia voce bossa lui mi avesse sentito lo stesso.
 
Note
Salve mie care lettrici, scusatemi per il ritardo e per il capitolo breve ma so già come farmi perdonare. Il quindicesimo capitolo è già pronto e ho intenzione di mandare uno spoiler del prossimo capitolo a tutte le lettrici che lasceranno una recensione a questo capitolo. Nel caso voleste recensire ma non ricevere lo spoiler basta che me lo diciate. Sarei felice di vedere nuove facce tra le recensioni, anche una piccolissima frase mi farebbe felicissima. 
Spero ad ogni modo che questo capitolo diverso dal solito e un po' più frizzante vi abbia fatto sorridere. So bene che questo capitolo é di passaggio e credo che lo siano anche i prossimi. Non penso che avverranno scene di particolare azione per i prossimi tre o quattro capitoli. Mi concentrerò sulla parte Romance della storia. Spero che gradirete. E poi per quello che ho in mente di far passare a Storm e Abby a conclusione dei restanti quattro giorni ad entrambi servono un po' di coccole.
Come sempre spero di non deludervi e di non annoiarvi mai. Ci tengo a ringraziare tutte le ragazze che pazientemente recensiscono ogni capitolo di questa storia, in particolar modo ringrazio: Only You_ Foolish___ Clarissaj e Rose6. Vi adoro, davvero. Ogni volta aspetto con trepidazione i vostri pareri e spero anche di vedere volti nuovi a recensire la storia.
Un grazie va anche alle lettrici silenziose che inseriscono la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Un bacio a tutte. Per me é veramente importante sapere che apprezzate il mio lavoro. Come sempre vi ricordo la OS su Storm e sotto vi metto il link della pagina Facebook. Finalmente sono riuscita a fare il mio primo banner, spero che non faccia troppo schifo. Spero vi piaccia anche se sono ancora in erba.
Adesso vi saluto e voglio leggere tanti vostri pareri e consigli.
Un bacio
-B


Qui la pagina Facebook dove potrete seguire ogni oggiornamento della storia.
https://www.facebook.com/pages/Obelisco/582937765181384

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Confidenze alcoliche ***



Banner fatto da me con Photoshop CC

XV
Confidenze alcoliche
 


Abigail's point of view
 
Il sapore della sconfitta mi stava logorando l'anima. In macchina era sceso di nuovo un silenzio imbarazzante che rendeva l'atmosfera sempre più tesa, però questa volta non avevo intenzione di fare nulla per cambiare le cose. Mi accoccolai sul sedile mangiucchiando silenziosamente il mio dolce al cioccolato mentre Storm guidava e sgranocchiava delle patatine facendo rumore.
Crick crock.
Era l'unica cosa che si sentiva. L'unico suono a tenerci compagnia dopo che lui aveva spento la radio.
Diversi muniti di puro silenzio dopo suonò il cellulare di Storm. Lui lo cacciò dalla tasca dei jeans e si portò il telefono all'orecchio senza permettermi di leggere il nome sullo schermo.
«Dimmi» rispose in tono atono. Non potei sentire la risposta dell'interlocutore ma capii che non doveva aver dato una cattiva notizia al ragazzo al mio fianco che si limitò ad annuire.
«Va bene» disse semplicemente «D'accordo ti tengo informato»
Dopo un altro assenso con la testa fece per posare il telefono ma si fermò.
«Cheikh» pronunciò facendomi venire un colpo al cuore «Vai a trovarle. Se le serve qualcosa, qualsiasi cosa, provvedi» Dalla sua espressione tesa e concentrata si capiva quanto quell'argomento fosse importante per lui. Aveva parlato di andare a trovarle. Si riferiva a delle persone a cui evidentemente teneva molto e mi chiesi per chi potesse provare dell'affetto e, soprattutto, se lui riuscisse a provare amore per un altro essere umano.
Ero tentata dal chiedergli di chi stesse parlando ma mi trattenni restando nel mio mutismo.
«Okay. Tienimi aggiornato» agganciò rimettendosi il cellulare in tasca e tornando a guidare con entrambe le mani.
Ormai il sole batteva alto nel cielo surriscaldando quella città. Mi passai una mano tra i capelli e li tirai su legandoli con un fermaglio.
«Era Cheikh?» chiesi senza riuscire a stare zitta. Sia maledetta la mia boccaccia e la mia dannata curiosità.
«Che domanda stupida» sbuffò cambiando marcia per poi abbassare il pedale dell'acceleratore «Ho detto il suo nome, è ovvio che fosse lui»
Non risposi in malo modo a quella sua frase sapendo che non ne valesse la pena.
«Dov'è adesso?» domandai senza nemmeno voltarmi nella sua direzione.
«A casa».
Come suo solito non si prolungò con ulteriori informazioni e io continuai con le mie domande.
«Nell' Idaho?»
Lui sembrò colpito e gli occhi presero a brillargli di stupore ma qualche secondo dopo ritornò normale. «Te l'ha detto Cheikh?» domando arricciando le labbra in una smorfia. «Mannaggia a quella boccaccia che si ritrova»
«Si, me l’ha detto lui» risposi «E non c'è nulla di male»
Lui rise fintamente muovendo le dita sullo sterzo.
«Oh certo» disse sarcasticamente.
Abbandonai la testa contro il sedile lasciandomi andare ad un lungo sospiro.
«Dove stiamo andando?» chiesi non aspettandomi una risposta.
«Bellingham» disse contro ogni mio prognostico.
Quel nome mi fece accapponare la pelle. La mia mente fu riportata a quella camera d'albergo, a quella prima sera. La stessa sera in cui Storm aveva tentato di strangolarmi e aveva chiamato mio padre.
Deglutii visibilmente. «Il luogo dello scambio?» la voce mi uscì bassa e flebile.
«Proprio quello» rispose sorridendo sornione. «La data si avvicina»
Quattro giorni. Mancavano solo quattro giorni. Sarei dovuta essere felice, saltare dalla gioia perché quel giorno avrebbe rappresentato la fine della mia prigionia. Eppure non potevo non sentire quel magone che avevo allo stomaco, quell'ansia e quel terrore che aumentavano col passare delle ore. Per i prossimi quattro giorni sapevo cosa aspettarmi, cosa sarebbe successo e con chi sarei stata. Ormai Storm non mi faceva paura e stavo imparando a gestirlo, ma non avevo la più pallida idea di quello che sarebbe accaduto allo scadere di novantasei ore.
Mi chiedevo se sarei uscita viva da quello scambio, se Storm ne fosse uscito vivo e quale ragione lo spingesse a fare tanto. Avevo così tante domande e pochissime risposte. Se ci fosse stato ancora Cheikh con noi l'avrei chiesto a lui anche se dubitavo che mi avesse risposto.
Restammo in silenzio, entrambi persi nei propri pensieri.


**
Erano le sei di quell'afoso pomeriggio e la tensione si faceva sentire sempre più forte. Eravamo tutti e due esausti e affamati. Non ce la facevamo più a restare in quella macchina calda e impregnata della puzza di sudore. Avevamo finito quasi tutte le buste di patatine e mi ero bevuta due bottigliette d'acqua che adesso volevano essere cacciate dal mio corpo. Dovevo assolutamente andare in bagno.
«Fermati» dissi accavallando le gambe per trattenere i miei bisogni fisiologici.
«Perché?» chiese Storm voltandosi per guardarmi.
«Devo andare in bagno» cercai di essere il più discreta possibile ma certi argomenti proprio non lo permettevano.
«Ne vedi forse uno in giro?» ribatté lui.
«Spiritoso» sibilai «Quanto dista l'aria di servizio?» mi informai speranzosa. Proprio non mi andava di farla in mezzo alle piante.
«Qui non ci sono» rispose lui difatti annullando ogni mia minima speranza.
«Io devo fare pipì» dissi non avendo il coraggio di guardarlo in volto «Fammi scendere»
Con mio stupore decelerò e inchiodò nel bel mezzo della strada desolata. Aprii lo sportello e scesi immediatamente respirando quell'aria afosa.
Sentii un altro sportello chiudersi e vidi Storm venirmi incontro.
«Scegli» disse allargando le braccia «Dove vuoi farla?»
Quelle parole pronunciate da lui sembrarono disgustose, volgari e di cattivo gusto. Senza nemmeno degnarlo di una risposta mi addentrai nella foresta, tra quegli alberi che ci circondavano.
I piedi schiacciavo le foglie ormai secce e riproducevano un piacevole suono quando incontravano la suola delle mie scarpe. In lontananza vidi un albero dal tronco abbastanza grosso da nascondermi e mi avvicinai. Quando lo raggiunsi sentii il rumore di foglie schiacciate provenire da dietro si me.
«Che fai?» domandai furiosa a Storm portandomi entrambe le mani sui fianchi.
«Credevi che ti lasciassi da sola?» rispose con un'altra domanda.
«Non puoi restare qui. Devo fare pipì» gli spiegai come se non fosse già abbastanza ovvio. Mi stava mettendo in imbarazzo e il nervoso non faceva che aumentare.
«Non preoccuparti bambolina, non hai nulla che io non abbia già visto» ribatté con quella gran faccia tosta che si ritrovava.
«Storm!» lo rimproverai con uno sguardo di fuoco. «Vattene via»
Lui alzò le mani come per dichiararsi innocente. «Mi metto lì» concedette indicando un albero distante che sperai gli togliesse la visuale. Si incamminò e quando arrivò all'albero da lui indicato si voltò a guardarmi.
«Voltati» gli urlai per farmi sentire.
«Quanto sei pesante, Jensen» si lamentò ma si girò lo stesso.
Velocemente mi abbassai i pantaloni e mi liberai di quel peso. Qualche minuto dopo ero di nuovo in ordine e mi diressi sul ciglio della strada intravedendo il crossover bianco e sentendo Storm camminare dietro di me. Salimmo in macchina senza dire una parola.
Quando gli sportelli furono richiusi, il motore acceso e lo stereo in funzione Storm parlò. «Bel culetto»
«Bastardo» dissi furiosa dandogli un leggero buffetto sull'avambraccio. «Hai guardato»
Mi resi conto troppo tardi di quello che avevo fatto e me ne pentii immediatamente.
Complimenti Abby, sei proprio brava a metterti nei casi e a farlo incavolare.
Contro ogni mia aspettativa lui rise rimanendo tranquillo. «Sono un uomo. Noi maschietti abbiamo la vista a raggi X per certe cose». Strizzò l'occhio nella mia direzione ed affondò in piede sull'acceleratore sgommando e producendo un forte stridore di pneumatici.


**
La sera era calata e anche quel quarto giorno era giunto al termine. La luna era piena in quel cielo gremito di stelle. La strada era sprovvista di luminarie e i fari della macchina erano spenti e quella scarsa- o meglio nulla- luce artificiale permetteva alle stelle di essere visibile nel loro massimo splendore.
La temperatura si era abbassata e un leggero venticello rinfrescava quella landa desolata.
Le dieci erano rintoccate diversi minuti prima e Storm aveva sbadigliato già una ventina di volte. Era visibilmente stanco e gli occhi si erano arrossati per lo sforzo. La schiena era rigida come un fuso e sembrava pronto a scattare sull’attenti. «Dovresti riposare» dissi scostando una ciocca di capelli sfuggita dal codino per guardarlo meglio.
Lui si voltò per guardarmi con quei suoi occhi impassibili e chiarissimi.
«Bellingham è parecchio distante e ci restano pochi giorni per raggiungerla. Non posso fermarmi» rispose in tono tranquillo senza aggredirmi o farmi sentire indesiderata. Era talmente stanco che non aveva nemmeno la forza di trattarmi male.
Sorrisi per l’amarezza della situazione. Doveva stancarsi per trattarmi un po’ meglio. «Una breve sosta non cambierà molto»
Non sapevo perché gli stessi dicendo quelle cose né sapevo perché mi stessi preoccupando per il suo sonno. Le parole uscivano semplicemente dalla mia bocca in modo spontaneo come il corso naturale di un fiume. Se c’era una cosa che avevo imparato da quell’esperienza era di non sopravvalutare il futuro, era troppo fragile per poterci costruire qualcosa di solido. Molto meglio vivere il presente senza restrizioni e troppe domande.
Storm non mi rispose e continuò a guidare, ma quando mezz’ora dopo avvistammo un’aria di servizio lungo la strada lui si fermò spegnendo l’auto a bordo strada.
Scese e passò tutta la roba che c’era sui sediolini posteriori nel cofano per poi tornare con in mano una birra. Si risedette al posto del guidatore ed abbassò il sedile fino a farlo cozzare con quegli posteriori. Feci lo stesso col mio credendo che di lì a pochi minuti ci si sarebbe steso sopra e addormentato profondamente, ma contro ogni mia previsione scese nuovamente dall’auto e si sedette sul cofano spalmano la schiena contro il parabrezza.



Storm’s point of view

Mi sedetti sul cofano del crossover sentendolo bollente sotto il sedere. Ero tentato di alzarmi e tornare in macchina, ma ero stufo di stare su quel sediolino richiuso in quel quadrato di spazio. Era tutto il giorno che guidavo e avevo davvero bisogno di una pausa.
E di un bel Big Mac.
Appena tutta quella storia fosse giunta al termine mi sarei gustato un bel panino in un altro continente con Lizzie al mio fianco. Ancora non sapevo come dirlo a Jack e come affrontare l’argomento ma speravo che lui capisse. Le probabilità che ciò accadesse erano alquanto ridotte ma la speranza era l’ultima cosa che mi rimaneva.
Stappai la birra con un paio di botte sul cofano e dopo aver gettato il più lontano possibile il tappo mi portai la bottiglia alle labbra godendomi la sensazione di quel gustoso liquido inumidirmi il gola e scendere dritto nel mio stomaco vuoto. Era calda ma mi accontentai. Era pur sempre meglio di niente.
Mentre bevevo anche una seconda sorsata sentii lo sportello dell’auto aprirsi e poi richiudersi. Non mi voltai nemmeno a vedere Abby pararsi di fianco a me e arrampicarsi sul cofano di quel crossover troppo alto per lei.
Nascosi un sorriso divertito con una terza sorsata. Mi ero già scolato mezza bottiglia in nemmeno cinque minuti, e se non mi fossi dato una calmata sarei finito ubriaco in un niente avendo lo stomaco vuoto.
Portai una mano dietro la testa osservando quel cielo stellato sopra di noi e sentendo in sottofondo il suono della natura che ci circondava: il fruscio degli alberi mossi dal vento, in canto di qualche uccellino e il corso di una cascata.
Socchiusi gli occhi godendomi quei pochi attimi di pace.
Quando gli riaprii la prima cosa che vidi fu la maglia nera di Abby che se ne stava seduta sul cofano a gambe incrociate e spalle ricurve mentre si toccava le punte dei lunghi capelli biondi.
Dovevo ammettere, almeno a me stesso, che quella ragazza mi aveva riservato tantissime sorprese e non sapevo se quella cosa mi piacesse o meno. Era talmente impertinente da farmi innervosire fino a perdere il controllo come non mi era mai successo. Però era anche molto buffa e così ingenua da farmi desiderare di spazzare via quella bontà e quella dolcezza degna di una bambolina.
Restai a fissarle la schiena svuotando la mente di qualsiasi pensiero osservando solo quella ragazzina fissare le lucenti stelle.

Una forte folata di vento ci colpì gonfiando i capelli di Abby che prontamente se li scostò da viso. Poco dopo scese dell’auto.
«Il vento è troppo forte» disse accarezzandosi le braccia puntellate da numerosi brividi. «Entro in macchina»
Annuii e mi portai una birra alle labbra finendola in una sola sorsata. Pochi minuti dopo mi alzai anch’io gettando la bottiglia di vetro lontano per poi sentire il rumore il vetri frantumati interrompere la quiete di quel luogo.
Salii in macchina inserendo le chiavi nel quadro e notando i numeretti luminosi che segnavano l’ora. Erano le undici e cinquantanove. Un minuto e il quarto giorno sarebbe definitivamente giunto al termine. Anche Abby notò l’ora e sospirando si abbandonò al sediolino chiudendo gli occhi.
Proprio quando stavo per togliere le chiavi dal quadro scattò la mezzanotte.
«Domenica» dissi a voce bassissima. «É appena arrivata la domenica» Tolsi le chiavi e le infilai della tasca posteriore dei mie pantaloni e mi stesi mettendomi su un fianco rivolto col viso verso Abby che aveva ancora gli occhi aperti. «Mancano ufficialmente tre giorno allo scambio» rispose guardandomi da sotto le ciglia chiudendo leggermente le palpebre.
«E tu hai ufficialmente una nuova domanda da farmi» parlai chiudendo gli occhi e cambiando posizione mettendomi steso di schiena.
«Posso farla anche adesso?». Il suono della voce di Abby mi arrivò attutito, come se avesse parlato con qualcosa davanti alla bocca.
«Se ne hai già una, si» sospirai arricciando le labbra e preparandomi alla sua prossima domanda che come al solito mi avrebbe scombussolato.
«Ho tantissime domande da farti» rispose.
«Ma me ne puoi fare solo una al giorno» chiarii «Spara»
«Prima, quando hai parlato al telefono con Cheikh hai detto di andare a trovarle» parlò. Mi ricordavo perfettamente a quale parte della telefonata si riferisse. «Di chi parlavi?»
Ed eccola sganciata la bomba che non mi avrebbe fatto fare sogni tranquilli. Pensavo a loro due in ogni momento, erano costantemente nei miei pensieri, eppure rivelare i loro nomi ad Abby mi faceva contorcere le budella.
«A due donne» iniziai non essendo esatto nella definizione delle mie ragazze «Parlavo di Rute e..» mi fermai per prendere fiato «Lizzie».
Gettai via quella parola rimanendo con la bocca secca e piena di amarezza che il solo pronunciare quel nome sapeva darmi.


 

Note
Salve ragazze, sono stata di parola, ecco qui l'aggiornamento del giorno. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che questi momenti di botta e risposta tra i due non vi abbiano stancato. Come avevo già anticipato in precedenza questi capitoli saranno quasi, se non del tutto, privi di azione e corse contro la polizia. Spero non vi annoino. Appena supereremo questo momento di stallo ci scontreremo con la parte più movimentata della storia e da lì in poi sarà tutto un susseguirsi di momenti caotici e l'azione non mancherà di certo. 
Come sempre spero di non avervi deluso e ringrazio di cuore tutte le ragazze che perdono il loro prezioso tempo per lasciarmi una recensione e permettermi di conoscere il loro parere su Oblio.
Un grazie va anche a le lettrici silenzione che aumentano sempre di più e inseriscono questo delirio tra i preferiti/seguiti/ricordate.
Non mi dilungo molto con le note perchè devo uscire, ma spero di trovare tante recensioni e anche visini nuovi.
Un bacione e alla prossima
-B

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Gita al lago -Parte I- ***



Banner fatto da me con Photoshop CC, spero vi piaccia


XVI
Gita al lago

Parte I
 



Abigail’s point of view

Le sue parole continuavano e rimbombarmi in testa. Il respiro di Storm si era calmato diventando meno frequente, non percepivo nemmeno i suoi movimenti e immaginai che si fosse addormentato.
Avevo provato anch'io a chiudere gli occhi e contare in mente pregando che il sonno mi colpisse ma niente.

Settantatré, settantaquattro, settantacinque.

Mi aveva detto i loro nomi. Due nomi femminili. Rute e Lizzie.
Mi domandai quale donna potesse essere così importante per lui da mostrarsi così preoccupato per loro e di chiedere addirittura a Cheikh di andarle a trovare. Se avevo capito almeno un po’-e lo avevo fatto- com’era Storm sapevo che lui non avrebbe chiesto aiuto a nessuno. Nemmeno a un caro amico come Cheikh.
Chissa chi erano quelle due donne. Forse la madre e la sorella o due amiche care. Oppure la zia o la cugina.
Un pensiero fulmineo si insinuò nella mia mente e mi raggelò sul posto. Poteva essere la moglie e la figlia.
Certo, mi risultava difficile immaginarlo padre e con un bebè in mano ma nulla escludeva quell’opportunità. Perfino un cuore di ghiaccio come il suo non poteva nulla davanti alla consapevolezza di essere padre.
Dio, che casino.

Centouno, centodue, centotré.

Quelle due donne potevano essere coinvolte nel rapimento. Cheikh mi aveva confessato che Storm non lo stava facendo solo per il fratello, quindi dietro ci doveva essere un’altra spiegazione.
Storm nascondeva un segreto che doveva essere tremendo.
Se solo ripensavo a quella confessione che mi aveva fatto mi raggelavo sul posto. Non potevo credere che Jack avesse ucciso la moglie. La proprio moglie. Nell’omicidio erano coinvolti anche altri due uomini. Mi chiedevo chi fossero e se erano imparentati con Storm e suo fratello.
Dovevo trovare il modo di far parlare Loran, dovevo sapere cos’era successo veramente. Non potevo più restare all’oscuro.

Centoventi, centoventuno, centoventitré.

All’improvviso mi addormentai sognando un ragazzo con l’aspetto di Storm ma che sapevo non poteva essere lui. Aveva gli occhi troppo limpidi e trasparenti per essere lui. E sorrideva. Sorrideva alla bambina appena nata che cullava tra le sue braccia.



**
Quanto mi svegliai il sole brillava alto nel cielo surriscaldando la città, ma in macchina aleggiava una leggera un'aria fresca. Lanciai un’occhiata al termoventilatore e vidi che era spento anche se doveva averlo tenuto acceso fino a poco prima perché si stava troppo freschi in quella macchina.
Guardai l’ora e notai che erano da poco passate le dieci. Avevo dormito più di nove ore.
Lanciai un’occhiata a Storm che se ne stava tutto concentrato a guidare ma notai che era molto più rilassato rispetto alla sera prima.
«Buongiorno» biascicai insicura. Non sapevo se era la cosa giusta da dire ma del resto non me la sentivo di restare a bocca chiusa.
Lui mi lanciò un’occhiata stranita e poi tornò nuovamente con gli occhi sulla strada.
«Si, come hai detto tu» fece un gesto di non curanza con la mano libera.
«E questo sarebbe il tuo modo di salutare una ragazza appena sveglia?» domandai sollevando il sediolino che era ancora reclinato per la notte.
«No» disse «É il mio modo di salutare te appena sveglia» calcò maggiormente sulla parola te accompagnando la voce con un’occhiata fugace.
«Oh» lasciai sfuggirmi dalle labbra. «Sai che potrei anche offendermi?»
«E sai che a me non importa per niente?» si voltò sorridendo come se mi avesse appena rivelato il segreto più bollente dell'intera città.
«Come siamo acidi di prima mattina» farfugliai incrociando le braccia. «Hai bisogno di una bella sfogata»
Lui svoltò a destra salendo su un cavalcavia. Ci stavamo allontanando sempre di più dalla boscaglia e in lontananza riuscivo perfino a vedere qualche edificio.
«Oh si, hai proprio ragione» disse e colsi un bagliore malizioso nei suoi occhi. «In questo momento vorrei che qui ci fosse la mia Rute e non..» ruotò il volto per guardarmi con sdegno. «..tu»
«Si, continua pure con i complimenti» risposi sarcasticamente avvertendo le mie guance gonfiarsi per la rabbia.
Lui scosse la testa sorridendo debolmente.
Non parlammo più per il resto del viaggio.

Eravamo arrivati in una piccola cittadina il cui nome di era precluso conoscere. Pochissimi abitanti camminavano per strada ma tutti lanciavano languide occhiate alla nostra macchina.
Mi domandai se anche quella fosse dei signori Traynor.
Storm parcheggiò l’auto in un vicoletto nascosto e scese dalla macchina dicendo che andava a comprare qualcosa da mangiare.
«Prendimi una tavoletta di cioccolato» urlai istintivamente ma lui era già dall’altra parte del marciapiede.
Aveva chiuso la macchina a chiave e non provai nemmeno a tentare di scappare, era come se mi fossi rassegnata e arresa al mio destino.
Allungai la gambe sul cruscotto sentendo le mie ginocchia scricchiolare. Finalmente un po’ di movimento. Alzai le braccia sopra la testa nel tentativo di sgranchirmi e quando la mia schiena si stirò un gemito di sollievo mi uscì dalle labbra.
Smanettai con dei CD che avevo trovato nella tasca dello sportello e ne trovai uno dei The Civil Wars che mi saltò subito all’occhio. In un attimo lo infilai nello stereo e selezionai la traccia numero nove. Poison and Wine.
Adoravo quella canzone. La trovavo particolarmente rilassante. Iniziai a muovere la testa e i piedi a tempo della musica canticchiando qualche parola. Le note di quella canzone mi avevano letteralmente rapita. Ero così immersa in quella canzone che a stento sentii lo sportello aprirsi e Storm sedersi al mio fianco.
Mi lanciò una tavoletta incartata di viola in grembo.
«Abbassa le gambe» disse guardandomi astioso.
«No, così sto più comoda» risposi osservando meglio la tavoletta. «L’hai presa fondente. A me piace a latte»
«Cosa hai detto?» ringhiò e sembro che gli volessero uscire gli occhi dalle orbite.
«Che me l’hai presa fond-»
«Non quello cretina» mi interruppe allungandosi verso di me e levandomi di peso le gambe dal cruscotto.
«Questo non è il soggiorno di casa tua. Non puoi tenere le scarpe sporche sul cruscotto» mi rimproverò.
Era davvero arrabbiato per una cosa del genere? Che stupidaggine.
«É solo una macchina, Storm» risposi acidamente scostando le sue mani dalle mie gambe.
«Questa è la mia macchina e non la devi sporcare» ribadì accendendo il motore e partendo sgommando.
«Non è la tua macchina. È dei Traynor» precisai scoccandogli un occhiata.
«Inutili dettagli. Adesso è mia e non mettere mai più i piedi là sopra» indico la zona davanti a me.
«Altrimenti che fai? Mi uccidi?» sorrisi ammiccando nella sua direzione.
«Divertente» rispose «E cos'è questa lagna?»
«Non è una lagna, sono i Civil Wars» dissi e con la mano gli impedii di togliere in CD.
«Ribadisco. Chi sono questi piagnucoloni?» demorse e portò entrambe le mani sullo sterzo.
«Cultura musicale zero, a quanto vedo» alzai il volume.
«Cultura musicale zero» mi fece il verso allargando le labbra in una smorfia schifata.
Scoppiai in una risata isterica che superò di gran lunga il volume dello stereo e che mi fece guadagnare un’occhiataccia da Storm. Mi piagai su me stessa non riuscendo a contenere l’attacco di ridarella.
«Smettila» mi ammonì serio.
«Che muso lungo» mi lamentai cercando di tornare seria. «E prima dicevo sul serio» continuai scartando la mia cioccolata.
«Su cosa?» domandò lui.
«A me piace a latte, non fondente» tagliai un cubetto piccolo e me lo cacciai in bocca sentendo immediatamente l’aroma del cacao sciogliersi lungo la gola.
«E io che ne potevo mai sapere?» domandò retoricamente «Ho preso quella che mi piaceva di più»
«E ti pareva che ti piacesse la cioccolata extra fondente» dissi notando che non aveva nemmeno la minima percentuale di zucchero. «Anche se ci avrei scommesso la vita che non fossi un tipo da cioccolata»
«E come sarebbero i tipi non da cioccolata» dissi facendolo sembrare uno scioglilingua.
«Come te» risposi prendendo un altro pezzo di cioccolata «Brutti e cattivi»
«Io non sono brutto» ribadì difendendosi e portandosi una mano al petto. «É questo che pensi di me?»
«Oh, si» risposi con la bocca piena.
«Bugiarda» si girò per guardarmi in volto.
«Non sto mentendo»
«Guarda che ti sta crescendo il naso» alzò un dito e indicò il mio viso da pochi centimetri di distanza.
Per un attimo temetti che volesse toccarmi.
Come una cretina mi portai pure le mani alla faccia tastando le dimensioni del mio naso a patatina e naturalmente lui rise di me.
«Ridi pure tu» lo ammonii ma questo non lo fermò di certo.

Il viaggiò continuò con lui che sorseggiava una birra mentre io avevo completamente monopolizzato lo stereo con non poche lamentele da parte di Storm sui miei gusti in fatto di musica.
Ci eravamo di nuovo allontanati dalla città immettendoci su una stradina di campagna. Ai lati dell’asfalto c’erano solo immense distese di prati e fiori gialli a perdita d’occhio.
Ogni tanto qualche tratto di terreno era occupato da vigneti o frutteti di piccole dimensioni.
Erano da poco scoccate le due del pomeriggio ed era da già diverse ore che il mio stomaco brontolava per la fama.
Ad un certo punto Storm si fermò nel bel mezzo del nulla intimandomi di scendere. Lo feci e mi avvicinai a lui che stava prendendo le buste con cui era uscito prima dal negozio.
«Che stai facendo?» gli chiesi ma lui non si preoccupò nemmeno di rispondermi. Si caricò in braccio le buste e chiuse la macchina.
Attraversò la strada asfaltata deserta e scavalcò il recinto che costeggiava la strada principale.
«Vieni» mi incitò lui e io lo imitai.
Il sole batteva sulle mie braccia scoperte surriscaldandomi la pelle. Mi rifeci meglio la coda tirandomi i capelli all’indietro. Quel giorno faceva più caldo del solito e desideravo soltanto che una nuvola piena d’acqua sostasse su quella cittadina.
«Dove stai andando?» urali alle spalle di Strom che mi precedeva di diversi metri.
«Seguimi» disse senza voltarsi e continuando a camminare a grosse falcate mentre io lo seguivo più lentamente.
Cinque minuti dopo si fermò nel bel mezzo del nulla e si sedette per terra incrociando le gambe.
«Che ci facciamo qui?» domandai sedendomi a mai volta per terra avvertendo i fili d’erba pizzicarmi la pelle nuda. «Mangiamo» rispose svuotando le buste e mostrandomi in contenuto.
C’erano due panini vuoti, del formaggio e diversi affettati sottovuoto. Ovviamente non mancava la birra per lui e una bottiglietta d’acqua per me. Ne presi subito un sorso dissetandomi e sentendomi meglio all'istante.
Lo osservai attentamente mentre preparava i panini con la massima concentrazione. La fronte gli si era corrucciata creando delle graziose rughette di espressione bagnate dalle goccioline di sudore.
Aveva i capelli bagnati e sudaticci che si erano leggermente arricciati per colpa dell’afa. Con la punta della lingua si umettava le labbra ma anche quello era un gesto che faceva quando era concentrato. A volte lo faceva anche mentre guidava senza rendersene conto.
«Tieni» disse porgendomi il panino e quando lo afferrai le nostre mani si sfiorarono e per una frazione di secondo sentii il respiro mancarmi a causa di un sussulto.
Mi portai il panino alle labbra e lo divorai con appetito. Non era male ma la fame me lo faceva apprezzare di più.
In silenzio mangiammo con la sola compagnia del suono dei nostri denti che masticavano e macinavano quel panino ripieno.
Bevvi dalla mia bottiglina d’acqua ma quando vidi Storm tracannare la sua birra sui colta dalla una pazza voglia di ingurgitare a mia volta quel liquido giallognolo.
«Posso..» iniziai timorosa non sapendo bene come continuare. In me c’era sempre quella costante preoccupazione di farlo arrabbiare. Non volevo proprio rovinare il momento, sembrava così rilassato. «Posso averne un po’?» continuai indicando la birra stretta tra le dita di Storm.
Lui sembrò stranito da quella mia richiesta e rimase interdetto per qualche secondo ma poco dopo si riprese indicandomi la busta di carta.
«Vedi nella busta. Dovrebbe essercene un’altra»
Mi allungai col busto e cercai la bottiglia a tentoni con le mani. Quanto avvertii il freddo vetro sotto il palmo estrassi immediatamente la bottiglia contenendo a stento un urletto di soddisfazione.
Esclusa la festa di Constantine, non avevo mai fatto uso di bevande alcoliche e non avevo mai bevuto una birra.
Mi rimisi seduta compostamente con le gambe incrociate e la birra tra le mani.
Tutto il mio entusiasmo scomparve quando capii di non sapere come aprirla.
«Hai un apribottiglia?» chiesi guardandolo da sotto le mie lunghe ciglia chiare. Erano talmente bionde che a stento si vedevano senza un buono strato mi mascara.
Lui sorrise leggermente e mi resi conto che quel giorno me ne stava regalando parecchi e rischiavo di abituarmi alla vista dei suoi denti bianchi e perfetti.
«Dai qua» rispose allungando le braccia e io gli porsi la bibita.
Con un coltello fece leva sul tappo per poi portarsi il collo della bottiglia al ginocchio facendo saltare definitivamente il tappo.
Me la porse. «Ecco fatto»
«Grazie» sorrisi timidamente portandomi immediatamente la birra alle labbra nel tentativo di nascondermi.
La prima cosa a cui pensai fu quanto fosse amara e come facesse Storm a far scendere quel liquido lungo la gola senza fare facce strane. Ne presi un’altra sorsate e un'altra ancora. Alla quarta andò meglio, mi stavo abituando a quel sapore un po’ troppo amaro per i miei gusti.
Mi guardai attorno notando quella distesa di verde immensa. Tra qualche filo d’erba spuntava una margherita o un piccolo fiore giallo baciato dai caldi raggi di sole.
Quel luogo era la raffigurazione fisica della tranquillità e non avrai mai voluto abbandonare quell’enorme prateria. In lontananza non si sentiva nemmeno un rumore, chiusi gli occhi e mi distesi portandomi un braccio sugli occhi mentre l’altra mano era impegnata a mantenere la birra.
Un tempo infinito dopo sentii una gamba toccare la mia, aprii gli occhi e trovai quelli azzurri e penetranti di Storm fissarmi intensamente.
«Vieni con me» disse catturando l’attenzione di ogni particella del mio corpo con quella sua voce profonda.
«Dove?» sbiascicai avvertendo la mia voce uscire strozzata.
«Seguimi» affermò autoritario e senza più dire una parola si voltò e io non potei far altro che andare con lui.


 
Note
Questo capitolo l’ho pubblicato stasera solo per Only you_ che mi ha inviato un messaggio e mi ha fatto piacere leggerlo. Quindi questo capitolo è tutto per te, spero ti sia piaciuto.
Il continuo arriverà presto e sarà molto più fluff di questo. Come avevo preannunciato le scene d’azione saranno carenti e punterò molto di più sul divertimento e qualche momento di dolcezza. E pur sempre una romantica, no?
Correte a dirmi la vostra su questo capitoletto passivo e non abbiate paura di darmi qualche consiglio. Sono aperta a tutto. Critiche, consigli, complimenti, domande di chiarimenti. Ormai sapete che per qualsiasi cosa basta mandarmi un messaggio privato e cercherò di rispondervi quanto prima.
Non mi dilungherò molto con inutile chiacchiere ma ci tengo ugualmente a ringraziare le ragazze che seguono la storia e che tutte le volte sono così gentili da lasciarmi una recensione. Vi adoro, basta.
Adesso scappo e buona notte a tutte
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Gita al lago -Parte II- ***


Banner fatto da me con PhotoshopCC


XVII
Gita al lago

Parte II



Abigail’s point of view

Dopo una camminata di dieci minuti in cui Storm mi superava di diversi metri e si districava tra le erbacce con enorme agilità, io lo seguivo a ruota arrancando tra i cespugli e malmenandomi le braccia nel tentativo di scacciare gli insetti. Non ero una gran fan dei morsi di zanzare e sentivo già la pelle delle gambe gonfiarsi e prudermi in diversi punti. Avevo tentato già diverse volte a chiedergli dove fossimo diretti ma non mi aveva risposto nemmeno una volta.
Avevamo lasciato tutta la nostra roba dove avevamo mangiato e sperai che saremmo passati a riprenderla, non mi andava proprio di lasciare cartacce in quel posto che sembrava una riserva naturale.
Camminavo a testa china cercando di evitare buche nel terreno e di non finire col piede su qualche pianta spinosa. Quando rialzai il volto Storm era letteralmente scomparso. Non vedevo più né la sua testa né le sue spalle. Sembrava essersi volatilizzato.
«Storm?» parlai e avvertii una nota ansiosa nella mia voce. A rispondermi ci fu il lontano canticchiare degli uccellini. «Dove sei?» alzai la voce nel tentativo di farmi sentire nel caso si fosse allontanato di parecchio.
«Sono qui» mi arrivò alle orecchie la sua voce bassa e vagamente annoiata.
Sbuffai domandandomi qui dove fosse. Detestavo quando le persone rispondevano in quel modo, come quando chiedevo a mia madre dove fossero le mie cuffie e le mi rispondeva “Lì, su quel mobile in quella stanza”. Più preciso no, eh? «Dov-» ma non riuscii a terminare la frase che ruzzolai a terra. Non avevo guardato dove mettevo e piedi e non avevo notato la discesa sulla quale stavo strisciando graffiandomi le gambe e sentendo un dolore atroce al sedere quando andai a finire su un masso e ricaddi dall’altra parte della pietra.
Quando la mia discesa si arrestò mi ritrovai seduta nella fanghiglia circondata da pozzanghere nelle quali galleggiava qualche ape morta. Alzai lo sguardo e davanti a me vidi un piccolo laghetto circolare circondato quasi totalmente dai cespugli eccetto per una piccola parte che faceva da sentiero e che portava al lago. La parte in cui mi trovavo io che era piena di buche e terreno umidiccio.
Le foglie di un salice si disperdevano in quell’acqua verdognola baciata dai raggi del sole. Tra i cespugli individuai la testa di Storm. Stava di spalle e lo osservai togliersi la maglietta per poi passarsi una mano tra i capelli e scompigliargli più di quando non lo fossero già. Quando si voltò non impiegò molto ad individuarmi e non fece nulla per nascondere la sua espressione divertita.
«Ho dimenticato di dirti della discesa» Storm fece un sorrisetto diabolico che mi ricordò quello di un bambino che fa un dispetto al proprio fratello minore. «Credevo la vedessi»
Sapevamo entrambi che stava mentendo e si era dimenticato di proposito di avvertirmi.
Poggiai i palmi a terra e feci forza sulle braccia per alzarmi. Non persi nemmeno il mio tempo a rispondergli e tantomeno lo considerai minimamente. Mi incamminai dalla parte opposta alla sua addentrandomi nuovamente tra i cespugli. Questi ero più bassi e sembravano curati rispetto a quelli del sentiero.
Alzai lo sguardo e vidi Storm con la testa china e le mani alle cintura che cercavano di slacciarla. Quando si levò anche i pantaloni e rimase solo coi boxer sgranai gli occhi a disagio e li coprii immediatamente con le mani gettandomi tra i cespugli e stendendomi completamente.
Non avevo mai visto un ragazzo nudo o seminudo e il pensiero che Storm se ne stesse solo in intimo dall’altra parte del lago mi metteva in agitazione.
Perché l’avevo seguito laggiù?
Mi portai il braccio destro sugli occhi che erano ancora serrati dietro le palpebre mentre la mano sinistra se ne stava appollaiata sulla mia pancia e le dita sembravano impegnate nel riprodurre una melodia apparentemente a me sconosciuta.
In riva al lago faceva ancora più caldo e desiderai avere un costume da bagno con me e un tubo di protezione solare, me ne sarei stata a prendere il sole in tutta tranquillità. Quella situazione era assurda e le cose diventavano sempre più surreali minuto dopo minuto.
Sentii uno spostamento d’acqua e diversi minuti dopo il suono di uno splash tipico di quando ci si tuffa. Storm era entrato in acqua.
Mi domandai se fosse completamente nudo o se si fosse buttato coi boxer. Il pensiero del suo corpo bagnato e seminudo mi fece arrossire e surriscaldare le guance. Distolsi la mente da quel pensiero cercando di distrarmi e pensare a qualcosa di noioso. La scuola. Avrei pensato e quello, ma subito mi vennero in mente i miei compagni, la mia quotidianità, Constantine e Jenny. La malinconia mi assalì e cercai di scacciarla ma non fui tanto fortunata da riuscirci. Il pensiero di casa si attanagliò allo stomaco e mi contorse le budella finché non sentii il bisogno di boccheggiare.
Aprii la bocca per inalare aria ma quello che mi colpì il volto non era vento bensì gocce d’acqua.
Tolsi il braccio dalla fronte ed aprii un occhio trovandomi il busto di Storm chino sul mio viso. Se ne sta al mio fianco completamente zuppo dalla testa ai piedi -e coi boxer addosso- e l’acqua gli grondava dei capelli bagnando anche i miei. Qualche schizzo cadde anche sulla mia maglia bianca che però era di un cotone troppo doppio per risultare trasparente. «Che fai?» dissi rotolando su un fianco nell’intento di evitare di bagnarmi ma lui fece un passo avanti impedendomi di risolvere la situazione.
«Vattene. Mi stai bagnando» dissi con voce stridula rotolando sull’erba.
«Se venissi a farti il bagno saresti già bagnata e il problema non si creerebbe» rispose risolutivo frizionando i capelli e bagnandomi completamente la maglia.
«Storm!» lo rimproverai urlandogli contro. Lui non badò a me e continuò a fare i fatti suoi che comprendevano bagnarmi dalla testa ai piedi.
Mi alzai in piedi e mi allontanai di qualche metro mentre lui si stendeva a terra divaricando le gambe e portando le braccia sotto la testa. Chiuse gli occhi e qualche ricciolo nero gli ricadde sul viso sfiorandogli le guance.
Mi sedetti sull’erba avvertendo il sole battermi sulla testa.

Venti minuti dopo grondavo e una gocciolina di sudore mi cadde dalla fronte precipitando sul labbro inferiore. Era salata. Storm non si era mosso di un millimetro e temetti si fosse addormentato. Con il sole così forte e la carnagione chiara che si trovava si sarebbe svegliato completamente abbrustolito e io non avrei fatto proprio niente per evitare che accadesse. Mi alzai camminando tra i cespugli ed evitando di calpestare qualcosa di spiacevole mi diressi dall’altra parte del lago fermandomi solo quando individuai gli abiti di Storm.
Velocemente mi tolsi la maglia e restando in reggiseno e pantaloncini, senza pensarci ulteriormente, mi avvicinai al lago bagnandomi i piedi.
L’acqua era fredda ma piacevole. Rimasi per qualche minuto a riva e giocherellai con l’acqua allargando e restringendo le dita dei piedi nel tentativo di conservare l’acqua fra le dita per poi rilasciarla.
Sentii uno sguardo puntato addosso che bruciava più di mille soli sulla mia pelle rendendola rovente fino a farla bruciare. Quando alzai gli occhi feci fatica ad incontrare le pozze azzurre di Storm che se ne stava a qualche metro d’altezza seduto su una roccia che prima non avevo notato.
E io che credevo stesse dormendo.
Senza sbalordirmi e restando totalmente impassibile entrai in acqua avvertendo il freddo circondarmi e immobilizzarmi per pochi secondi gli arti. Presi a nuotare e lentamente mi riscaldai avvertendo con tutto il corpo il sollievo dell’acqua fresca e vedendo i raggi di sole riflettere sulla superficie del lago e illuminarmi la pelle.
Mi distesi sull’acqua galleggiando come mi aveva insegnato mio padre quando ero piccola.
A stella, Abby. ‘Fa la stella.
Allargai braccia e gambe livellandomi perfettamente col lago e avvertendo l’acqua sfiorarmi l’orecchio e bagnarmi i capelli all’attaccature della nuca. Mi lasciai cullare dal silenzio rilassante e dal morbido fruscio di foglie che si sentiva ogni qualvolta il vento soffiava.
Un tonfo seguito da degli schizzi che mi colpirono in pieno viso e mi costrinsero a chiudere gli occhi e perdere la mia posizione di equilibrio ruppero quella tranquillità. Mi misi ritta sfiorando appena il fondo dell’acqua con le dita dei piedi. A diversi metri da me vidi i capelli scuri di Storm riemergere dalla superficie e scuotendoli cercando di liberarsi delle gocce d’acqua.
Riportai lo sguardo allo scoglio sul quale l’avevo visto poco prima e osservai la distanza che lo separava dall’lago e quanto poco profonda fosse l’acqua arrivando alla conclusione che Storm era un vero pazzo. Aveva rischiato di farsi seriamente male ma dal sorriso birichino che aveva stampato sul volto direi che stava benissimo.
«Alla fine hai ceduto alla calura» disse indicando l’acqua a torno a sé e prendendo a nuotare allargando semplicemente le braccia in perfetto stile rana e avvicinandosi involontariamente sempre di più a me.
Quando fummo a pochi metri di distanza sentii il peso della nudità dei nostri corpi gravarmi addosso. Non potei evitare alle mie guance di arrossire ma per mascherare il rossore mi abbassai immergendo il viso fino al naso prendendo a fare piccole bollicine con la bocca che salivano a galla spargendosi in ogni dove.
Mi resi conto che in quella posizione i miei occhi erano puntati sulla vita di Storm, dove gli addominali terminavano in una graziosa v ai quali lati la pelle creava dei piccoli solchi che sembravano invitarmi a metterci le dita in mezzo e tastare la morbidezza della pelle in contrasto con la solidità dei muscoli.
Il mio viso si imporporò ancora di più e sentii il bisogno di bagnarlo con la fredda acqua del lago. Mi immersi totalmente nell’acqua otturandomi il naso con la mano e risalendo poco dopo.
Mi ritrovai il viso di Storm a pochi centimetri di distanza col busto completamente immerso nell’acqua. Anche lui, come me, doveva avere le gambe piegate per stare totalmente immerso.
«Ancora la mano sul naso piccola Abigail?» chiese soffiando quelle parole con le labbra semi immerse che fecero spostare l’acqua nella mia direzione. I miei occhi saettavano dai suoi alle sue labbra trovandole dannatamente attraenti.
In testa avevo una confusione della quale non riuscivo a mettermi a capo e l’unica cosa che mi sembrava possibile fare era quella di lasciarmi trascinare dalle emozioni.
E in quel momento mi sentivo attratta dal corpo di Storm. Non riuscivo a credere che io, proprio io che avevo tutte le ragioni più valide di questo mondo per odiare Storm, invece ne fossi attratta. Corpo indegno. Mente ingiusta.
«Mi..» tentennai rendendomi conto solo in quel momento di quello che aveva detto «Mi hai chiamato Abigail» Il mio cuore perse un battito nel ripetere il mio nome usato per intero. Mai nessuno mi chiamava così, fatta esclusione per mio padre quando lo facevo arrabbiare .
«É il tuo nome, no?» disse soffiando sull’acqua come poco prima. Trovavo quel gesto dannatamente sexy e non andava affatto bene. Per niente.
Che cavolo mi prendeva?
«Si, ma non mi chiami mai così» ribadii non badando alle mie parole, la mia mente era piena dell’immagine delle sue labbra rosse e bagnate che soffiavano su quell’acqua che tutto d’un tratto si era fatta bollente.
«Devo dedurne che preferisci quando ti chiamo bambolina?» E le sue labbra fecero di nuovo quella magia fino a sembrare che le sue parole danzassero fino alle mie orecchie.
«No, mi fa sentire un giocattolo» ammisi in un sospiro afflitto. Ogni volta che mi chiamava così mi faceva sentire una bambola di pezza da usare e poi regalare a qualcun altro dopo averla usata fino allo sfinimento.
«E c’è un modo in cui preferiresti ti chiamassi?» sussurrò sensualmente avvicinandosi maggiormente e allargando le sue braccia che invasero il mio spazio personale ma non mi toccarono.
«Abby» farfugliai avvertendo il buon senso abbandonarmi. «Solo Abby»
«Okay solo Abby» stese le sue labbra in un sorriso e il sole baciò la sua dentatura perfetta. In un attimo si avvicinò troppo, talmente tanto che riuscivo a sentire il calore del suo corpo e qualcosa che fino a quel momento non avevo mai avvertito. Il suo profumo. Era qualcosa di pungente che ti faceva venir voglia di grattarti il naso e che al contempo creava dipendenza. Era anni luce dal sembrare dolce e fruttato. Non aveva un fragranza ben definita ma era decisamente virile. Odorava di maschio e di sole. Aveva quel profumo che una volta sentito ti schiavizzava per l’eternità.
Le sue braccia in un attimo furono intorno ai miei fianchi e avvertire le sue mani a contatto coi miei fianchi nudi mi fece sussultare e credetti di annaspare ma lui mi sorresse stendendo le labbra in un sorrisetto sghembo che mi fece perdere un battito. Era così vicino che temetti potesse sentire il battito frenetico del mio cuore.
Il suo corpo scivolò nell’acqua e sentii le sue gambe forti e muscolose sfiorare le mie. Avvertii i peli delle sue gambe solleticarmi le cosce e un leggero risolino sfuggì dalle mie labbra rompendo il silenzio ma fortificando maggiormente quella strana bolla che ci circondava.
Come ipnotizzata allungai una mano fino a sfiorare coi polpastrelli il suo petto liscio e privo di peluria. La pelle era bollente e appena lo sfiorai sentii un formicolio alle dita che volevano perlustrare e tastare ogni parte del suo rigido petto. Facemmo entrambi un passo l’uno verso l’altro sentendo altri parti del mio corpo entrare in contatto col suo mentre la nostra bolla si fortificava sempre di più. Mi chiesi fin dove ci avrebbe condotto quella storia.
La sua mano lasciò il mio fianco e prima che potessi lamentarne la mancanza mi accarezzò il ventre scuotendo il mio corpo in piccoli brividi. Per me trattenere il gemito fu inevitabile.
«Loran..»
E in un attimo la bolla esplose catapultandoci violentemente alla realtà. Bruscamente Storm si allontanò da me ponendo una distanza enorme tra noi che fino a pochi minuti fa mi sembrava impensabile.
Di colpo si issò dall’acqua puntandomi i suoi occhi di ghiaccio e più freddi della pietra dritti nei miei che conservavano il calore dell'attimo appena passato.
«Non chiamarmi mai più in quel modo».
Si voltò ed uscì dall’acqua col corpo grondante. Il sole continuava a battere su di noi ma sembrava quasi un ospite indesiderato. Mi sembrava che si fosse appena scatenato un temporale dando inizio ad una burrasca ma se alzavo gli occhi al cielo non vedevo altro che il caldo sole estivo.
Confusa uscii anch’io dall’acqua e senza dire una parola indossai la maglia e le scarpe mentre il mio corpo era ancora bagnato ottenendo solo il risultato di bagnare i miei vestiti.
Storm fece lo stesso e senza aspettarmi o dirmi una parola si incamminò lungo il sentiero ripercorrendo la stessa strada che avevamo fatto prima.
Recuperò le cose che avevamo usato per il pranzo e sempre nel mutismo più totale si avviò alla macchina. Quando salimmo sull'auto e mi sedetti avvertii il pantaloncino bagnato premermi maggiormente contro la pelle. Speravo che col caldo e il finestrino abbassato che avrebbe fatto entrate il vento afoso si sarebbe asciugato in fratta e non mi avrebbe procurato il raffreddore.
La fiammella della speranza fu spezzata da Storm che prontamente accese l’aria fredda azionandola al massimo. Pronunciando il suo vero nome avevo fatto cento passi indietro ed ero sicura che me li avrebbe fatti scontare uno ad uno.


 

Note
Allora mie lettrici che ne pensate di questo capitolo? Credevate che i due si bacassero? E invece no, è ancora presto. Ma non demordete, prima o poi arriverà, spero.
Come sempre ci tengo a sapere ogni vostro minimo pensiero riguardo al delirio qui sopra e mi farebbe piacere leggere i vostri commenti tra le recensioni. Se avete trovato qualcosa affrettato o incoerente siete liberissime di dirlo. Come sempre sono aperta al confronto e spero di sentirvi in tante. Sono davvero contenta di come stanno procedendo le cose e non riesco a credere di star pubblicando il diciassettesimo capitolo. DICIASSETTE! Se sono riuscita ad arrivare fino a qui è solo grazie a voi.
I ringraziamenti vanno a tutti. Alle lettrici che visualizzano e leggono, a quelle che inseriscono la storia tra le seguite, preferite, ricordare e a tutte le ragazze tanto gentili da lasciare una recensione.
Spero di non avervi deluso e di non deludervi col prossimo capitolo.
Notte e buona domenica
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 99 passi indietro ***



Banner fatto da me con PhotoshpCC

XVIII
99 passi indietro



Storm’s point of view

L’aria fredda aleggiava nella macchina rendendo quell’abitacolo di ghiaccio. Sentivo i brividi crescere sulla mia pelle umida ed infreddolita. Percepivo il corpo di Abby al mio fianco scosso da tremolii, i vestiti erano ancora bagnati e cercava di riscaldarsi da sola. Si era rannicchiata sul sedile stringendosi in un abbraccio ma non era servito a molto e a me non importava. Che sentisse freddo e che se ne stesse tutta bagnata.
Erano da poco passate le tre del pomeriggio e il sole era alto nel cielo in una delle giornate più calde di tutta l’estate. Accelerai ancora di più superando i 150 km/h. La strada era deserta e gli alberi che ci circondavano gli vedevo sfuocati a causa dell'alta velocità.
La macchina sfrecciava con leggerezza e i cavalli del crossover sostenevano la velocità dell’auto facilmente permettendomi di abbassare maggiormente il piede sull’acceleratore.
Adoravo correre, percepire le cose passarmi di fianco e non avere il tempo per metterle a fuoco. Il rombo del motore era il mio suono preferito ma sfortunatamente quella macchina di ultima generazione era insonorizzata e non mi permetteva di sentire il dolce ruggito di quella meraviglia.

Dovevo rimanere concentrato sulla strada e non pensare a quello che era successo al lago perché se solo ricordavo quel momento mi veniva voglia di fermare la macchina nel bel mezzo della strada e urlare ad Abby le cose peggiori di cui ero capace per poi baciarla fino a non farle più percepire il terreno sotto i piedi. Ma non era possibile, non doveva assolutamente succedere.
Dovevo, invece, rimanere concentrato sulla missione e non perdere di vista l’obbiettivo. Mancavano poco più di due giorni e non potevo mandare tutto a puttane.
Concentrazione e sangue freddo.
Avevo curato il piano nei minimi particolari. Il giudice Jensen avrebbe accettato lo scambio fregandosene della legge e pensando al bene della propria figlia. Doveva accettare e se non fosse stato così già sapevo cosa fare, non mi sarebbe restato altro che ucciderla.
Non potevo permettermi di portarla con me e poi era il prezzo da pagare. Il giudice l’avrebbe pagata cara se non avesse lasciato Jack libero. Un Jack morto significava una Lizzie lontana da me e non potevo permetterlo. Se Lizzie mi fosse stata portata via Abby sarebbe morta. Una vita per una vita. Era così che funzionava.
Premetti il piede sul pedale fino a sfiorare i 185 km/h.

Se solo pensavo al corpo di Abigail bagnato e completamente immerso nell’acqua il mio fisico e i miei istinti si risvegliavano. Me l’ero trovata davanti con solo i pantaloncini e il desiderio di toccarla si era impossessato di me ipnotizzandomi e catapultandomi in una bolla pericolosa. Se Abby non avesse pronunciato il mio nome risvegliandomi da quello stato di trance riportandomi ad un tempo fatto di ricordi dolorosi, di Rute e di una piccola Lizzie che mi correva incontro urlando quel nome a quest’ora probabilmente staremmo ancora al lago e il sapore delle sue labbra non mi sarebbe stato sconosciuto.
Non doveva accadere mai più una cosa del genere. Non potevo permette a quella ragazza di stravolgere la mia mente. Non dovevo perdere la concentrazione.

La sentii lamentarsi e voltandomi vidi che aveva gli occhi chiusi e si agitava. Si era addormentata cadendo in un sonno irrequieto. I lunghi capelli biondi le cadevano scompigliati sulle spalle e alcune ciocche le nascondevano quel viso tondo da bambola.
La maglia e i pantaloncini che indossava erano totalmente bagnati e l’aria fredda che aleggiava nell’abitacolo doveva farle sentire ancora più freddo. Si mosse nel sonno portandosi le mani alla pancia lamentandosi. Istintivamente spensi l’aria condizionata e aprii i finestrini avvertendo immediatamente l’afa entrare.
In pochi minuti l’aria all’interno dell’abitacolo si era riscaldata e i brividi erano scomparsi dalla pelle di Abby anche se lei continuava a lamentarsi nel sonno. Sperai solo che non si ammalasse, quello non era certo il momento più adatto e con me non avevo nemmeno un antipiretico. Era meglio che si cambiasse i vestiti mettendosi qualcosa di asciutto.
Ma che cavolo andavo a pensare? Mi dovevo riprendere, Storm riprenditi.
Non dovevo preoccuparmi per lei, se si sarebbe ammalata erano fatti suoi. Questo era l’atteggiamento giusto. Menefreghismo. Da quando in qua mi importava di una donna che non fosse Rute?
Una piccola parte del mio cervello mi suggerì che di lei, di Rute, non mi ero mai preoccupato veramente per il semplice fatto che non mi importava, lei non contava nulla.
Però Abby era diversa, quando pensavo a lei mi sentivo strano e le emozioni che mi faceva provare non erano quelle che sentivo quando ero in compagnia di Rute.
Scacciai quei pensieri dalla mia testa e mi concentrai solo sulla strada davanti a me e sul vento che scompigliava i miei capelli quando la lancetta toccò i 200 km/h.




Harrison’s point of view

Era tutto pronto. Il piano era stato curato nei minimi dettagli, ogni cosa era al suo posto eppure il senso di irrequietezza non mi abbandonava. Una strana morsa mi stringeva lo stomaco togliendomi il respiro.
Mi portai una mano al collo allargando il nodo della cravatta e sbottonando i primi bottoni della camicia. Boccheggiai nel tentativo di riprendere il controllo ma non c’era nulla da fare. Avevo troppa paura che qualcosa andasse storto. Avevo paura di non rivedere mai più Abby, la mia bambina. Senza di lei né io né mia moglie saremmo riusciti a vivere ma al contempo non potevo nemmeno tradire la mia patria, il mio stato.
Quando mi avevano nominato giudice di pace avevo fatto un giuramento e adesso non potevo venir meno alla mia parola. L’onore che viva in me lo impediva.
Non mi restava che sperare nel piano e nella stoltezza del rapitore.
«Jensen» il tenente Hoffman mi chiamò a rapporto. Mi schiarii la voce e mi avvicinai a quell’uomo imponente che se ne stava in divisa nel soggiorno di casa.
«Mi dica» parlai sentendo la voce uscirmi debole e tremolante.
«Stasera tornerò alla base operativa e informerò i miei migliori uomini del piano» disse il tenente. Quelle cose già le sapevo, mi stava solo ripetendo cose a me già note. «Ci vedremo mercoledì a Bellingham come previsto. Ci dirigeremo insieme alla squadra speciale al confine».
Il tenente mi diede una leggera pacca affettuosa sulla spalla «Si riposi e stia tranquillo. Riavrà sua figlia e Tyrell sconterà la sua condanna con la morte».



Abigail’s point of view

Quando mi svegliai il sole era basso e nascosto dietro le nuvole che oscuravano il cielo.
Diedi un’occhiata all’ora e vidi che erano le sei del pomeriggio. Mi ero addormentata circa tre ore fa senza nemmeno accorgermene e al mio risveglio trovai ad accogliermi un forte mal di testa. Mi portai istintivamente una mano alla fronte e mi scostai i capelli sudaticci dal volto legandoli in una coda mentre mi raschiavo la gola secca che bruciava.
La macchina era in movimento e nonostante i finestrini fossero abbassati per far entrare l’aria calda io sentivo freddo. Mi portai le braccia intorno alle gambe, piegate sul sediolino, nel tentativo di riscaldarmi.
Storm continuava a guidare imperterrito e mi chiesi come riuscisse a resiste visto che dormiva poco o niente. Sotto gli occhi aveva leggere occhiaie ma non erano particolarmente pronunciate.
«Quanto manca per arrivare a Bellingham?» chiesi informandomi. Anche pronunciare quella semplice frase mi aveva procurato un bruciore alla base della gola che mi costrinse ad abbassare il tono della voce a fine frase.
Il ragazzo continuò a guidare e non mi degnò nemmeno di un’occhiata.
«Domani, a quest’ora, saremo lì» rispose semplicemente indicando con la testa l'orologio che io non presi nemmeno in considerazione.
Provai a sollevarmi ma un capogiro mi colse alla sprovvista costringendomi a rimettermi seduta. Mi portai nuovamente la mano alla fronte e la sentii bruciare sotto la pelle.
Sbuffando querulamente abbassai leggermente la leva del sediolino stendendomi e allungando le gambe.
«Che c’è?»
Per la prima volta dopo l’incidente del lago -quello era il nome con cui mentalmente mi riferivo all’accaduto- mi guardò in volto puntando i suoi occhi nei miei.
«Niente» mentii piegandomi su me stessa alla ricerca di calore. Sentivo davvero freddo e la cosa mi preoccupava visto che eravamo in estate e quel giorno faceva particolarmente caldo.
«Non è vero» ribadì lui non demordendo.
«Non mi sento bene» cedetti con un sonoro sbuffo. Sollevai leggermente la testa per guardarlo in viso.
Aveva i capelli scompigliati e leggermente mossi sulle punte ma la cosa che colpì la mia attenzione furono le sue labbra. Si stava mordendo il labbro inferiore stringendo fra i denti i cerchietto di metallo. L’espressione era corrucciata e sembrava indeciso, come se non sapesse come comportarsi.
«Hai gli occhi lucidi» disse distogliendo lo sguardo dal mio volto.
Incuriosita dalle sue parole mi sollevai leggermente e girai lo specchietto nella mia direzione.
Aveva ragione. Avevo gli occhi lucidi e le guance rosse. Il viso era particolarmente pallido e non sembrava affatto avessi una bella cera. Cacciai la lingua notando il suo colorito giallognolo e beccandomi una strana occhiata da Storm.
«Non sto affatto bene» sospirai e mi rigettai sul sediolino socchiudendo gli occhi sentendomi priva di forze e particolarmente spossata.
«Cosa ti fa male?» chiese cambiando marcia e decelerando.
Mi stupii di quella sua domanda totalmente inaspettata che era stata pronunciata quasi in tono preoccupato.
«La testa. Mi gira e mi duole» risposi portandomi una mano alle tempie. «Mi brucia la gola ma so già di chi sia il merito» continuai indicando il termoventilatore «E la fronte è calda. Credo proprio di avere i decimi» conclusi il mio elenco tossendo e sentendo ancora più dolore alla gola.
Era strano come lo stato del corpo potesse mutare tanto velocemente. Quella mattina stavo bene e adesso, invece, non mi sentivo nemmeno un briciolo di forza scorrermi nelle vene.
Storm allungò la mano fino a sfiorarmi le tempie ma io mi scortai immediatamente sussultando.
«Non voglio farti niente bambolina» questa volta, l’ultima parola, non la disse in tono dispregiativo, sembrava solo un nomignolo affettuoso.
Io mi rilassai annuendo leggermente. Lui avvicinò nuovamente la mano toccandomi la fronte e scostandola poco dopo. «Mi sa proprio che ti è salita la temperatura» confermò quello che già pensavo ma mi stupì il fatto che lui sapesse sentire la febbre con il semplice tocco della mano. Quella sembrava un cosa da donna o da genitore premuroso, non di certo da Storm.
«Dietro ci sono dei vestiti asciutti. Devi cambiarti» continuò indicando i sedili posteriori con la mano mentre l’altra stringeva lo sterzo.
«Non ci penso nemmeno» rifiutai storcendo le labbra in una smorfia di disgusto. «Non con te in macchina»
Storm mi rivolse una strana occhiata e poi rispose mentre il piede premeva in pedale del freno e l’auto diminuiva la sua corsa.
«Punto primo» disse alzando l’indice «non hai nulla che non abbia già visto e questa cosa mi sembra di avertela già detta» Si, lo aveva fatto e il solo accenno a quando avevo fatto pipì nei boschi mi fece arrossire dalla vergogna.
«Due» continuò alzando il medio «Ti ho già visto il sedere e senza maglietta». Il mio rossore aumentò ancora di più e fui tentata dal colpirlo sul braccio.
«Terzo» alzò il pollice «Se non ti levi i vestiti bagnati da dosso non guarirai mai»
L’ultimo punto non faceva una piega ma il fatto che si stesse preoccupando per me mi innervosiva.
«Che ti frega di come sto? Potrei anche morire di fame e a te non importerebbe più di tanto»
«É qui che ti sbagli» rispose voltandosi verso di me «Per questi ultimi giorni dovrai stare bene perché tu sei la mia merce di scambio. Dopo potrai anche suicidarti e a me non me ne fregherebbe nulla» mi guardò negli occhi mentre pronunciava quelle tremende parole e vidi le sue irridi ghiacciarsi sempre di più fino a diventare totalmente inespressive. «E adesso va dietro e cambiati». 
Senza dire una parola mi voltai e mi arrampicai sui sedili posteriori trovando subito una maglietta grigia che doveva essere di Storm e un paio di pantaloni della tuta nera più piccoli che sembravano essere della mia taglia.
Abbassandomi il più possibile sui sediolini fino ad accovacciarmi a terra mi sfilai velocemente i miei pantaloncini per indossare quelli lunghi. Per sfilarmi la maglia non sapevo come coprirmi. Mi vergognavo anche se era stupido provare del pudore con una persona come Loran nella macchina. A lui non importava nulla di me e di certo non mi avrebbe degnata minimamente di un sguardo. Mi sentivo frustrata e arrabbiata con me stessa.
Quel giorno il mio umore cambiava repentinamente e diedi la colpa alla febbre. Doveva essere quella la ragione del mio malessere.
Mi girai dando la schiera a Storm e mi sfilai la mia maglietta bianca umida per indossare quella grigia e lunga. Mi voltai e mi risedetti di nuovo al mio posto chiudendo gli occhi nel tentativo di dormire ma il sonno non sembrava voler ritornare.
Quando Storm chiamò il mio nome toccandomi una spalla feci finta di dormire calibrando il mio respiro leggero in un sonno rilassato e senza incubi.

 
 
Note
Salve lettrici, come state? Il caldo sta sfinendo anche voi immagino.
Allora inizio subito col dirvi che un’altra idea malsana mi ha colpito e a breve -quando avrò portato a termine questa storia, si spera- inizierò a scrivere questo nuovo delirio che avrà come protagonisti un manicomio ed un militare dal passato oscuro. Spero che qualcuno mi seguirà anche in quest’altra avventura e spero che vi piacerà almeno quanto Oblio.
Passando a Storm, il bel rapitore…cosa ne pensate della sua situazione mentale. Io direi che questa Rute sia un bel sassolino nella scarpa. Secondo voi che ruolo ha? Moglie? Fidanzata? Sorella? Figlia? Nonna? Amica? Amante? Cugina? O qualsiasi altra cosa, insomma ditemi un po’ che voglio sapere secondo voi la piega che prende questa storia.
Voglio scusarmi con voi perché nello scorso capitolo ho fatto un errore madornale. Nel primo capitolo ho detto che Storm aveva dei tatuaggi che Abby riusciva ad intravedere dalla manica della camicia e che portava un cerchietto al labbro inferiore ma questi due elementi non sono stati citati nello scorso capitolo quando finalmente vediamo uno Storm svestito. Quindi chiedo scusa per la mia sbadataggine e nei prossimi capitoli starò più attenta ma mi sembrava giusto avvertirvi.
Tornando al capitolo, cosa ne pensate diquesta Abby malata? Ve lo aspettavate?
Mi dispiace che il capitolo sia corto ma ho trovato difficoltà nel scriverlo e so che ne è uscito un disastro. Spero di superare anche il prossimo capitolo per arrivare finalmente alla parte interessante.
Non vedo l’ora di scrivere quello che succederò il giorno dello scambio.
Ragazze sto trovando difficoltà nello scrivere questi ultimi capitoli e mi piacerebbe ricevere il vostro supporto e i vostri pareri. Lo so che ci siete quindi fatevi vedere, su!!
Come sempre ringrazio le ragazze che si fermano a recensire, chi legge la storia e chi la inserisce tra i preferiti/seguite/ ricordate.
Un bacio a tutte e spero di trovare faccini nuovi tra le recensioni.
Buona notte a tutte e al prossimo capitolo che spero sia più entusiasmante.
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Sogno o son desto? ***



Banner fatto da me con PhotoshopCC


XIX
Sogno o son desto?

 


Abigail's point of view

Il terreno ai miei piedi era totalmente incenerito ed ero circondata da una landa dei colori del grigio e del nero. Non riuscivo a muovermi, le mie gambe non ubbidivano ai miei comandi e i miei occhi erano paralizzati dalla vista di tutti quei cadaveri.
Il corpo morto di mio padre giaceva a terra privo di vita insieme a quelli di altri agenti della polizia. Tra le centinaia di carcasse riuscii a trovare anche quelle di André ed Anthony.
Un urlo disperato uscì dalle mie labbra, in un attimo tutte le forze mi abbandonarono e caddi a terra come corpo morto cade. Piansi sul petto immobile di mio padre che dal quel giorno non si sarebbe più mosso. Non avrebbe più fatto su e giù ritmicamente con il suo respiro.
Urla strazianti dilaniarono il mio animo disperato. Quelle terre sterili erano teatro del mio dolore e avrebbero portato i segni delle mie lacrime per sempre.
Il rumore di un sasso scagliato al suolo catturò la mia attenzione. Alzai la testa e sbattei le palpebre velocemente per eliminare i residui di lacrime da quegli occhi che vedevano sfuocato.
In lontananza notai un uomo di spalle. Indossava abiti neri e sembrava ricurvo su se stesso. Un piccolo oggetto pendeva dalla sua mano destra sembrando il prolungamento del braccio stesso ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Lentamente mi sollevai mettendomi in piedi e camminando sulle mie ginocchia malferme. Mi avvicinai di un poco, solo il necessario per rendermi conto che l’oggetto che stringeva l’uomo era una pistola.
Il mio cuore perse diversi battiti e nel terrore arrancai cercando di avvicinarmi sempre di più all’individuo ma quando capii di chi si trattava il mio passo si arrestò.
«Storm?» farfugliai a voce talmente bassa che era quasi impossibile che lui riuscisse a sentirmi, ma stranamente si voltò e quello che vidi mi lasciò senza parole. Aveva lo sguardo vacuo, come se qualcuno si fosse impossessato del suo corpo. Il viso, la bocca, i capelli, tutto era suo eppure non era lui. Quello non era lo stesso ragazzo sfacciato che avevo conosciuto pochi giorni prima.
«Storm?» ripetei a voce alta per permettere al ragazzo di sentirmi. Mi guardò negli occhi ma nelle sue iridi lessi soltanto desolazione e un mare di tristezza.
La maglia nera che indossava era macchiata di sangue in alcuni punti, i capelli erano bagnati e il volto cereo come non mai macchiato di rosso scuro sulle guance.
«Che ti è successo?» chiesi preoccupata avvicinandomi «Cosa hai fatto?»
Lui continuò a guardarmi con quegli occhi che non erano i suoi, sembravano di un robot senza vita.
«Mi dispiace» sussurrò continuando a guardarmi mentre alzava la mano armata e si portava la pistola alle labbra. Non ebbi nemmeno il tempo di chiedergli di cosa stesse parlando che un sonoro sparo riempì l’aria. Il corpo di Storm venne spinto dal colpo all’indietro e in attimo cadde a terra privo di vita.
Si era sparato in bocca. Si era suicidato.


Mi svegliai di soprassalto con la bocca aperta alla disperata ricerca d’aria. Quell’incubo mi aveva spaventata a morte e solo ripensarci mi faceva accapponare la pelle. Boccheggiai portandomi una mano al cuore cercando di regolare il battito. Dalla fronte mi colavano goccioline d’acqua e avevo la schiena imperlata di sudore. Nonostante fossi accaldata il mio corpo era scosso da brividi di freddo. Gettai un occhiata fuori dal finestrino aperto e vidi che la notte era calata su quella stradina di montagna lontana dal nulla.
La luna era alta e dava in benvenuto a quella nuova notte di metà giugno. Mi persi nel pensare che la luna salutava e portava a conclusione un giorno e ne dava subito inizio ad uno nuovo. Non era il sole a portare una nuova giornata, come si era solito pensare, bensì la luna.
Quei pensieri strani mi ricordarono della febbre e istintivamente mi portai una mano alla fronte sentendola bruciare come non mai.
«L’acqua» dissi a bassa voce sentendo le mie parole uscire rauche e quasi soffocate. Mi schiarii la gola girandomi verso Storm che tranquillamente guidava e sembrava non risentire la mancanza di sonno.
«Dov’è l’acqua?» chiesi nuovamente a voce più alta guadagnandomi l’attenzione del ragazzo al mio fianco. Lui si voltò per poi porgermi una bottiglietta di plastica. Bevvi un sorso lasciandomi andare ad un sospiro di sollievo.
«Come ti senti?» domandò scrutandomi attentamente.
«Non molto bene» risposi abbandonandomi sul sediolino «Credo mi sia salita la febbre»
Lui annuì semplicemente tornando a guidare.
«Guiderai tutta la notte?» domandai curiosa guardandolo da sotto le ciglia.
«Si» confermò i miei sospetti «Al confine c’è un ritrovo per camperisti. Lì sapranno aiutarti»
«Quindi guiderai tutta la notte per arrivare prima al confine» continuai io traendo l’unica conclusione possibile: era preoccupato per la mia salute e stava sacrificando il suo sonno per me.
Lui non disse nulla continuando a guidare a spingere quell’auto altre ogni limite di velocità.
«Il tuo silenzio non fa altro che confermare la mia teoria» dissi ridacchiando sotto i baffi.
Quando avevo la febbre perdevo ogni inibizione e parlavo a ruota libera. In pratica l’elevata temperatura non faceva altro che accentuare alcuni lati del mio carattere.
«Quale teoria?» chiese voltandosi e corrucciando le sopracciglia.
«La mia teoria sostiene che sei preoccupato per me» risposi parlando velocemente e incespicando qualche parola. «Cosa?» chiese sbalordito delle mie parole «La febbre deve essere davvero alta perché stai delirando» scosse la testa e i suoi capelli assecondarono il movimento con l’unico risultato di scompigliarsi ancora di più.
Mi chiesi se si pettinasse mai o quel semplice gesto fosse poco virile per uno come Storm.
«Forse hai ragione» mi lasciai sfuggire una risatina e lanciai un’occhiata all’orologio digitale. Le lucette rosse segnavano le tre e ventisette.
«Ehi» esordii indicando l’ora come se fosse la cosa più insolita di questo mondo. «É passata mezzanotte. É lunedì»
«Lo so bambolina» mi guardò strizzando l’occhio e stendendo le labbra in un sorriso sghembo. L’anellino d’acciaio luccicò sotto la luce lunare e io mi persi nell’osservare quel piercing delizioso.
«Vuol dire che ti devo fare una domanda» parlai a voce alta sbattendo le mani.
Ogni volta che avevo quell’opportunità mi sentivo particolarmente euforica e con il potere tra le mani. Avrei potuto fargli qualsiasi tipo di domanda e lui avrebbe risposto con sincerità. Peccato che non ero al massimo delle mie forze e non riuscivo a pensare a Jack, allo scambio, a lui che aveva ucciso più di una persona. In quel momento l’unica cosa che mi frullava per la testa era solo una e sapevo che se gli avessi chiesto quello avrei sprecato la mia penultima domanda, ma poco importava. Dovevo saziare la mia curiosità e solo lui poteva mettere fine a tutte quelle domande.
«Non devi» disse lui ripetendo il verbo da me usato precedentemente «Ma se proprio vuoi» continuò allargando le braccia e facendo spallucce.
«Ovvio che voglio» farfugliai sollevandomi e mettendomi seduta composta. «Non hai nemmeno idea di quante domande io voglia farti. Sei un tale mistero»
«Ma davvero?» chiese ironico sorridendo leggermente e continuando a guidare.
«Si, lo sei» risposi accompagnando le mie parole con un movimento della mano. «Prima o poi scoprirò tutti i tuoi segreti»
«Se questo è il tuo piano mi sento in dovere di dirti che è quasi scaduto il tempo. Ti rimangono solo due giorni» mi rimbeccò in tono scherzoso. Vederlo sotto questo aspetto mi risultava totalmente strano, non sembrava nemmeno la stessa persona di pochi giorni fa.
«Allora inizio subito con la domanda di oggi» risposi scherzosamente sfregando le mani l’una contro l’altra come se dovessi mettermi al lavoro.
«Sentiamo» disse accompagnando le parole con un gesto della mano.
Presi un gran respiro chiedendomi che quella domanda che mi frullava in testa non fosse troppo stupida o troppo personale. Mi domandai se avrebbe riso di me e cosa avrebbe pensato, ma non potevo continuare a stare con lui per altri due giorni senza sapere la verità a riguardo.
Inghiotti della salivai e strinsi la maglia tra le mani chiuse in due pugni serrati.
«Okay..» presi tempo. Via il dente via il dolore no? «Rute è tua moglie?»
Storm tossì e deglutì contemporaneamente e temetti che gli fosse andata di traverso la saliva.
In un attimo si fece tutto rosso a partire dalla base del collo fino ad arrivare alle punte dei capelli.
«Cosa?» dilatò gli occhi che sembravano volessero uscire fuori dal bulbo e spalancò la bocca in un’espressione che definire stupita era un eufemismo.
«Si, insomma..» balbettai muovendo le mani irrequiete. «Sei sposato con Rute?»
«Ho capito quello che hai detto» disse dopo aver rilasciato un sospiro. «Ma come ti è passata per la mente una cosa del genere?»
«Allora..si o no?» incalzai. Non mi aveva ancora risposto e io ero curiosa di sapere le cose come stavano tra loro due. Una volta che avevo fatto la domanda pretendevo anche una risposta.
«No» disse a voce alta scuotendo la testa come se fosse la cosa più ovvia del mondo «Tu credevi veramente che fossi sposato? Oh Gesù bambino» imprecò facendomi sentire una povera ingenua che avesse chiesto se la domenica si andava a scuola. «E scommetto che pensavi che Lizzie fosse mia figlia» rise sguaiatamente di quella possibilità.
«Beh si» dissi sbuffando. Ero stufa della sua impertinenza «Se proprio lo vuoi sapere si, credevo che Lizzie fosse tua figlia» mi pulii la maglia in un gesto stizzito.
«E adesso perché ti arrabbi?» chiese scioccato lanciandomi un’occhiata.
«Io non sono arrabbiata» ribadii abbassando la leva del sediolino per spingerlo più indietro per abbassarlo. Mi ero stufata di quella conversazione.
«Si che lo sei» rispose tranquillamente sollevando le spalle e quel gesto mi diede enormemente fastidio per non so quale motiovo specifico.
«No» urlai sentendo la gola bruciarmi.
«Si» ribadì lui.
«Buonanotte Storm» conclusi quel battibecco nervosa e rannicchiandomi sul sediolino sperando di riuscire a riaddormentarmi nonostante stessi fumando di rabbia.


La nottata e metà del mattino seguente trascorse con Storm che continuava a guidare aumentando sempre di più la velocità e chiedendomi come mi sentissi ogni volta che riacquistavo conoscenza dopo un sogno tormentato.
La febbre mi faceva fare gli incubi e tutti terminavano con la morte di mio padre e Storm con una pistola in mano. Dovevo parlare non sonno perché a metà mattinata Storm mi chiese cosa stessi sognando.
«Che ti importa?» risposi malamente prestandogli poca attenzione e continuando a bere cercando di alleviare il bruciore alla gola.
«Sai com’è..» iniziò andando sul vago e toccandosi il mento con l’indice «Non fai altro che ripetere il mio nome ed ero curioso di sapere cosa sognassi» terminò con una sonora scrollata di spalle e non potei evitare di dilatare gli occhi. Pronunciavo il suo nome? Gesù santissimo aiutami tu. Non solo dovevo stare male e delirare per la febbre adesso mi toccava anche parlare nel sonno.
«Niente di speciale» lo liquidai rapidamente arricchendo le mie parole con un gesto di non curanza.
Ma visto che la sfortuna non vien mai da sola..
«Nessun sogno erotico?» continuò lui «Nemmeno noi due nudi in una camera da letto?» sollevò le sopracciglia e socchiuse gli occhi in una espressione che doveva essere sexy ma di seducente non aveva nulla. Per poco non gli risi in faccia.
«No, la mia mente non concepisce certe immagini» ribattei onestamente. Non avevo mai fatto certi pensieri, anzi non avevo mai pensato ad un ragazzo in determinati modi, figurarsi un uomo e una donna impegnati in certe attività «Sei tu quello con la mente perversa»
«Sarà» mi concedette sbadigliando e cedendo ai primi segni di stanchezza «ma resto sempre il più attraente»
«Non so quanto tu possa esserlo con in mano una pistola mentre uccidi mio padre» mi lasciai scappare di bocca la verità pentendomene immediatamente e sperando che lui non cogliesse la veridicità delle mie parole e prendendole per scherzose.
«Oh piccola, dici così solo perché non mi hai mai visto armato» continuò cercando di fare la faccia più seducente di cui era capace ma l’unica cosa che suscitò in me fu il riso.
«É questo quello che stavi sognando?» riprese qualche minuto dopo bloccando la mia risata e facendomi tornare immediatamente seria.
«Questo casa?» domandai sperando di aver capito male e che lui non si stesse riferendo veramente alla frase di prima. «La morte di tuo padre per mano mia. É questo che hai sognato?» le sue parole confermarono la mia paura e non potei evitare di emettere un rantolo di stupore «Oh..»
Lui aspettò che rispondessi ma, capendo che da parte mia non c'era l'intenzione, ci pensò lui ad incalzare il discorso. «Allora?»
«Allora che?» chiesi in tono falsamente stupito e leggermente alterato.
«Hai sognato questo?»
Ah, sia maledetto Storm e le sue dannate domande!
«Che ti frega?» sbottai voltandomi verso di lui e ruotando il corpo sul sediolino. «Tanto era solo un sogno»
«Calmati e non ti permettere di alzare la voce con me» si voltò puntandomi il dito contro con fare accusatorio. Io gli tolsi il dito con una manata non gradendo affatto quel gesto.
«Con te si ritorna sempre sulle stesse cose, vero?»
«Finchè non imparerai a comportarti nel modo adatto, si, torneremo sempre sulle stesse cose» ribatté lui portando entrambe le mani sul volante e mantenendo lo sguardo fisso su di me.
«Quando parlo con te mi sembra sempre di rivivere un déjà-vu» mi lamentai sbuffando e lasciandomi cadere sul sediolino come se fossi un corpo morto.
«E allora sta zitta» sbraitò in tono duro. Era la stessa voce che usava i primi giorni e quelle poche parole bastarono a farmi accapponare la pelle.
«Non ti sopporto» gli dissi voltandomi dall’altra parte per non vederlo e sperai che quando mi fossi girata di nuovo non me lo sarei trovata davanti «Non ci voglio parlare con te»
«Nemmeno io». Concluse il secondo battibecco della giornata accendendo la radio e sparando la musica a tutto volume.
I bambini dell’asilo erano più maturi di noi.
Non mi ero mai definita una persona saggia e paziente, ma quando si trattava di Storm perdevo letteralmente le staffe. Quel ragazzo era in grado di mandarmi in fumo il cervello con una sola occhiata.
Non parlammo più per l’intera giornata e l’unico rumore che aleggiava nel bianco crossover era la radio accompagnata dal dolce sottofondo dei brontolii dei nostri stomaci.
 
Note
Surprise!
Questo è uno speciale, due capitolo in una sola giornata è il mio regalo per questo afoso martedì di noia.
Buona notizia, finalmente abbiamo (si parlo in prima persona plurale perché a me piace coinvolge tutti voi in ogni cosa che faccio) superato questa parte della storia che io ho detestato profondamente.
Ahimè credo di aver perso un po’ di smalto e spero di recuperarlo il prima possibile visto che siamo arrivati alla parte di tutte le parti. Dal prossimo capitolo in poi avrà inizio il vero Oblio.
Tra due capitoli, se non uno, ritornerà l’azione e tenetevi pronte per tutte le rivelazione e inseguimenti a gogo. Finalmente ben presto il mistero di Rute verrà svelato così come quello di Lizzie seguito dal vero motivo del rapimento e il folle piano di Harrison. Ma, e bene si c’è un ma, dopo aver scoperto tutte questo bellissime cose la storia non sarà affatto giunta al termine, quindi allacciatevi le cinture e armatevi di pazienza.
Spero di riuscire a descrivere al meglio questa parte della storia che nella mia testa è davvero ben definita. Adesso la smetto con tutti i discorsi al futuro e spero vivamente vi sia piaciuto e come sempre vi invito a lasciare una recensione qui sotto e ditemi senza paura i vostri pareri, la carne umana non mi piace (anzi non mi piace nemmeno quella animale e non mangio pesce) quindi commentate senza timori.
Come sempre ci tento a ringrazia tutte le ragazze che seguono, leggono e recensiscono questa storia. Non me ne vogliate ma io devo per forza di cosa nominare le tre ragazze che mi seguono capitolo dopo capitolo e mi lasciano sempre recensioni stupende. Attendo sempre con ansia i vostri pareri e mi sembra giusto ringraziarvi pubblicamente (?)
Quindi un saluto speciale va ad Only you_ clarissaj e Foolish___
Un bacione a tutte e buona serata.
Vostra
Xx B

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Zona pacifica ***



Banner fatto da me con PhotoshopCC


XX

Zona pacifica




Abigail's point of view

Nel pomeriggio, col sole ancora alto che illuminava le montagne di un bagliore giallognolo rendendo l’atmosfera rilassata, Storm fermò la macchina in un immenso spiazzale deserto.
La strada non era asfaltata e, invece del cemento, c'era una sabbiolina rossa che aleggiava nell’aria insieme al vento. In lontananza scorsi qualche folto e vecchio pino coi cespugli appuntiti. Uno stano senso di pace aleggiava nell’aria e quell’umore contagiò anche me che mi sentivo che in una specie di limbo. Ero cosciente di quello che mi circondava e degli eventi ma mi sentivo distaccata da essi, come se non li stessi veramente vivendo in prima persona.
Mi domandai cosa ci facessimo in quella zona dimenticata da Dio. Storm aveva parlato di un raduno per camperisti ma non vedevo nemmeno una roulotte nei paraggi e sperai che quello non fosse il confine di cui parlava. Ma dubitai fortemente di quell’ultima possibilità visto che se fosse stato così saremmo rimasti isolati dal mondo per due giorni. «Scendi» disse Storm aprendo lo sportello.
Io feci lo stesso e quando poggiai i piedi a terra avvertii un forte vento caldo sfiorarmi ogni centimetro di pelle sollevando le punte dei miei capelli. La polvere mi penetrò nei polmoni soffocandoli e impedendomi di respirare adeguatamente. Il mio petto fu scosso da una feroce tosse che non face altro che aumentare il bruciore alla gola.
Non mi sentivo affatto bene e temevo che in quelle ultime ore la mia temperatura si fosse alzata di parecchi gradi.
Con la coda dell’occhio vidi Storm prendere delle buste e riempirle con i panni che aveva in macchina e le poche bibite rimaste. Tra le tante cose notai anche il mio vestito che un tempo era di un delizioso rosa pallido. A vederlo adesso tutto stracciato e sporco non sembrava nemmeno lo stesso abito di chiffon.
«Tieni» allungò il braccio porgendomi l’abito mentre continuava ad imbustare la sua roba. «Ti servirà a proteggerti dal vento» aggiunse.
Lo afferrai e lo strinsi al petto come se fosse una reliquia del passato e probabilmente lo era, simboleggia la persona che ero stata prima di conoscere Storm.
«Dove andiamo?» chiesi a bassa voce sentendo a mano a mano le forze abbandonarmi.
«Lo vedrai» rimase sul vago prendendo le ultime cose per poi richiudersi lo sportello alle proprie spalle ed imbracciare le buste. «Seguimi»
Si voltò ed iniziò a camminare in mezzo al nulla. Sembrava che stesse percorrendo una precisa strada che era visibile solo a lui visto che secondo quel che vedevano i miei occhi ci trovavamo in mezzo al nulla.
«E la macchina?» chiesi seguendolo a piccoli passi e subito si insinuò un baratro di distanza tra noi due. I ritmi dei nostri passi non andavano proprio d’accordo, erano totalmente diversi.
«Non m’importa. Che se la prendano pure» rispose scrollando le spalle. Quel movimento travolse l’intera schiena facendola vibrare in seducenti onde. «Tanto non è mia»
Senza dire nient’altro lo seguii a piccoli passi e, diverse volte, Storm non mancò di ricordarmi quanto fossi lenta. Ovviamente non dimenticò di usare i toni duri e le parole sgradevoli, ma non ero in forma per imbastire un battibecco con lui, così eviati di rispondere.
Se stamattina lamentavo di stare male, beh non era niente in confronto a come mi sentivo in quel momento. Non risposi a nessuna provocazione di Storm e quello gli dovette far capire il mio stato fisico e mentale visto che dopo un po’ smise di tormentarmi.
Lungo la strada il nostro cammino fu intralciato da massi di diverse misure. Qualcuno era talmente grande e la strada si era ristretta a tal punto da costringerci a scavalcare quelle macerie. Il ragazzo non sembrava affatto disturbato da questo dettaglio diversamente da me che faticavo anche a camminare.
Quando il sole stava iniziando a cadere a picco alle spalle delle montagne che solitarie si stagliavano davanti a noi giungemmo alla cavità concava di una grotta.
«Che cavolo?» mi lasciai sfuggire quella frase seguita da un gemito di pura sorpresa. Non capivo più niente e il mio stato di debolezza fisica non aiutava affatto. Cosa c’entrava quella grotta con i camperisti, con lo scambio e con Jack? «Aspettami qui» disse Storm alzando un dito segnandomi che ci avrebbe messo poco.
Approfittai della sua momentanea assenza per appoggiarmi alla roccia della caverna e tirai un sospiro profondo. Chiusi gli occhi e rilassai i muscoli della schiena facendo peso sulle gambe per sorreggermi.
Avevo la pelle appiccicosa e sudaticcia, i capelli erano sporchi e li sentivo oleosi quando ci passavo le dita in mezzo e gli occhi si erano arrossati per i granelli di sabbia che volavano nell’aria. E per concludere in bellezza in mio corpo era scosso da tremiti di freddo nonostante fossi cosciente del caldo estivo.
Mi persi nei miei pensieri mentre la paura aumentava. Il fatto che mi fosse salita la febbre proprio in quella situazione mi metteva ansia. Se tutto andava bene secondo i piani della mente contorta di Storm tra due giorni sarei stata a casa ma il pensiero di passare anche solo un altro secondo in quelle condizioni senza un piatto cucinato, senza medicine e coperte per stare al caldo mi disarmava.
Un rombo forte che mi ricordò il rumore dell’accensione del motore di un'auto ormai vecchia mi riportò alla realtà costringendomi ad aprire gli occhi.
Storm in sella ad un Quad Honda uscì dalla grotta sollevando una nuvola di polvere rossa. Tossii coprendomi il volto con le mani.
«Ma che cavolo sta succedendo?» domandai sconcertata quando Storm sgommò portandosi al mio fianco e restando per una frazione di secondo stabile solo sulle due ruote laterali.
«Sali» disse porgendomi il casco e ignorando totalmente la mia domanda. Il suo volto era coperto dal casco gemello a quello che mi stava porgendo e dalla visiera alzata scorsi i suoi occhi azzurri luccicare di eccitazione.
Certo, ad un pazzo come lui come non poteva emozionare una folle corse sul quattroruote.
Ma ad una ragazza di città come me abituata al lusso quell’idea non piaceva proprio. Cavoli, non ero mai andata neanche in moto.
«Preferirei di no» risposi scuotendo la testa.
Storm tenne il braccio teso con in mano il casco puntato sul mio petto. «E sentiamo» iniziò «come intendi arrivare al campo di roulotte se non ce la fai nemmeno a reggerti in piedi?»
Solo in un'occasione riuscivo a detestare Storm ancora di più: quando aveva ragione, come in quel momento.
Cambiai argomentazione sapendo che su quel punto aveva mano facile.
«Dove l’hai preso?» chiesi indicando il mezzo «Hai rubato anche questo?»
«No, questo è mio» ribadì.
«E perché era in una..grotta?» domandai sentendomi stupida solo a porre una domanda del genere. «Non dirmi che quello è il tuo garage» proseguii ironicamente.
«Anche da febbricitante non rinunci al sarcasmo» rispose ed ero pronta a scommettere che da sotto il casco stesse ghignando «L’ho portata qui il mese scorso»
«É perché mai avresti fatto una cosa del genere?» anche se mi scoppiava la testa ero curiosa di risolvere almeno quel mistero.
«Ce l’ho portata in previsione di questo momento» parlò muovendo la mano che impugnava il casco «Il mio piano è stato studiato nei minimi particolari»
Non seppi come rispondere e rimasi in silenzio.
«Sali» ripeté la stessa frase di prima «O hai altre domande?»
Svilita afferrai il casco e feci per salire dietro di lui ma lui mi bloccò afferrandomi un braccio. Stranamente non strinse la presa per farmi male, ma appoggiò semplicemente la mano sul mio avambraccio.
«Davanti» disse facendosi indietro e indicandomi il posto da lui occupato fino a pochi secondi prima.
Senza fare ulteriori domande mi infilai il casco che fortunatamente chiusi senza intoppi e salii in sella al Quad.
Le braccia di Storm sfiorarono le mie per raggiungere gli estremi del manubrio nero e restarono a stretto contatto con la mia pelle per tutto il tragitto.
Le sue braccia calde e il suo petto massiccio che gravava sulla mia schiena mi riscaldarono tenendomi al calduccio e lontana da quel freddo che mi stava gelando le ossa.
Quando partì il quattroruote saltò con un balzo in avanti e io mi sentii catapultata da una parte all’altra e capii perché Storm mi avesse fatta sedere avanti: dietro sarei caduta appena aveva messo in moto.
Le sue braccia mi protessero evitando scombussolamenti inutili.
A bordo del Quad vidi il sole scomparire totalmente e il cielo tingersi di una tonalità sempre più scusa fino a diventare di un blu intenso, quando riuscii a scorgere da lontano qualche camper ormai era già sera. Con il crossover non saremmo mai potuti arrivare fin lì, la strada era troppo dissestata e con tutti quei massi avremmo sicuramente forato e senza il Quad avremo dovuto proseguire a piedi e ci avremmo messo un’eternità.
Storm aveva davvero pianificato tutto non lasciandosi sfuggire nulla e sperai che anche il momento dello scambio andasse come sperava. Non sapevo perché volesse salvare il fratello assassino da morte certa e, in tutta onestà, non mi importava. Volevo solo tornare a casa.

Storm fermò il quattroruote all’inizio di un vialetto i cui contorni erano stati fatti da delle piccole piantine di cactus in vaso. Cinque vasi a destra e rispettivi a sinistra creavano quel vialetto nel del mezzo del nulla. Più avanti erano parcheggiati una decina di roulotte bianche che distanziavano una trentina di metri l’una dall’altra. Tutt’intorno ai camper altre piante grasse formavano un cerchio irregolare. Chiunque abitasse lì doveva avere il pollice verde e una gran passione per quei vegetali.
Storm mi affiancò e insieme percorremmo il breve viale. Io mi guardai attorno credendo di essere capitata in una dimensione parallela. Non riuscivo ancora a capire cosa ci facessero quelle persone nel bel mezzo del nulla. Tra una roulotte e l’altra erano legati dei fili ai quali erano stesi dei panni. A qualche metro da noi erano stati posti dei tronchi in modo da formare un enorme cerchio. Sembrava uno di quelli che si facevano al campo scuola la sera con un falò acceso al centro ma lì non c’era traccia di fuoco.
«Sono un gruppo di Figli dei Fiori. Vivono qui tutto l’anno» mi disse Storm all’orecchio abbassandosi fino a far sfiorare i suoi capelli sulla mia guancia.
Prima che potessi rispondere la porta di un camper vicino a noi si aprì e un uomo sulla trentina tarchiato e dal lunghissimi capelli biondi ne uscì.
«Ti aspettavamo in mattinata» disse e la sua voce risuonò melodiosa senza la minima nota di nervosismo.
«Ho avuto dei contrattempi» rispose Storm duramente e il suono della sua voce risuonò in contrasto con quella del giovane uomo.
Mi persi ad osservare i suoi lunghi capelli biondi che gli sfioravano la spalla e incorniciavano quel viso spigoloso. Gli occhi erano piccoli e tagliati a mandorla e brillavano di un colore scuro simile a quello della cioccolata fondente.
La carnagione era talmente chiara che a stento si riusciva a distinguere la differenza tra la sua pelle e la camicia bianca che indossava.
«Gareth chi è alla porta?» proruppe una voce femminile e una donna ben presto raggiunse l’uomo. Appena ci vide un sorriso spuntò sul suo volto e corse immediatamente verso Storm gettandogli le braccia al collo.
«Che bel giovane che sei diventato» strillò di gioia abbracciandolo affettuosamente ma lui rimase immobile con le braccia tese e le mani nelle tasche posteriori dei jeans scuri.
Poco dopo la donna dai lunghi capelli ricci e neri come la pece, che non facevano altro che svolazzare, si stacco da Storm e in quell’esatto momento sentii un peso in meno sul cuore, come se la vicinanza di quella donna mi avesse innervosito. «Su, entrate» disse allegra guardando verso di me e sorridendomi. Io cercai di ricambiare flebilmente ma quello che mi spuntò sulle labbra fu più un ghigno che un sorriso.
La donna sembrò non farci caso ed entrò nella roulette invitandoci a fare lo stesso.
Storm la seguì a ruota ma prima che potesse salire i gradini del camper io lo bloccai.
«Come mai vi conoscete?» domandai nervosa sputando quelle parole con stizza ad un millimetro di distanza dal suo volto.
«Che t’importa?» rispose cercando di liberarsi della mia presa e riuscendoci ma io mi posizionai davanti a lui bloccando il suo corpo contro la roulotte.
«Rispondimi Storm» dissi abbassando il tono della voce ad ammorbidendo i miei gesti.
Lui sospirò ma cedette «Sono un gruppo di Hippie in continuo spostamento, qualche anno fa sono venuti nulla mia città e mi hanno preso in simpatia»
«Quella donna sembrava conoscerti molto bene» continuai rimanendo immobile in quella posizione, coi nostri petti che si sfioravano ad ogni respiro.
«Sofia saluta tutti in quel modo. É fatta così. Fa parte del modo di essere degli Hippie» si giustificò guardandomi negli occhi.
«L’uomo alla porta non la pensava allo stesso modo» risposi ripensando a Gareth, così lo aveva chiamato la donna, e a come lo aveva salutato. La sua voce era stata morbida ma il saluto era rimasto comunque freddo, soprattutto in confronto a quello di Sofia.
«Ce l’ha con me perché mi sono fatto sua sorella» disse come se fosse la cosa più normale di questo mondo.
Quella frase mi cadde addosso come una secchiata d’acqua e non seppi nemmeno perché ci fossi rimasta tanto male.
Mi allontanai di scatto dal corpo di Storm muovendomi all’indietro. Un capogiro mi colse inaspettato e in un attimo, in cui mi resi conto della mia pelle bollente e dei miei muscoli deboli, tutte le forze mi abbandonarono definitivamente e caddi all’indietro. Ad attendermi, però, non ci fu il polveroso terreno ma due forti braccia.


Quando ripresi conoscenza vidi il volto di Sofia teso in un’espressione concentrata. Non si era accorta nemmeno che avevo aperto gli occhi. Sbattei le palpebre tornando a vederci bene e notai che la donna mi stava cambiando le bende sulla fronte intinse d’acqua fredda.
Sentivo la pelle del petto tirarmi eppure sembrava che il bruciore alla gola fosse sparito. Mi portai una mano tra i seni e toccai una sostanza pastosa che profumava di menta.
«Ben svegliata» mi salutò raggiante la donna sedendosi sul letto, lo stesso letto in cui ero stesa io. «Come ti senti?»
Mi raschiai la voce prima di rispondere «Meglio. La gola non mi fa più male»
La donna annuii fiera. «Ti ho spalmato una pasta di erbe curative sul petto. Fanno effetto velocemente»
«Grazie» balbettai incerta sbattendo le palpebre.
«Non devi ringraziarmi bambina» rispose alzandosi dal letto e prendendo un bicchiere d’acqua.
«Bevi» disse e aprì l’altra mano stretta a pugno e mostrandomi una pillola abbastanza grande «Ti aiuterà a far scendere la febbre»
«Cos’è?» domandai timorosa che si trattasse di qualche altro intruglio d’erbe.
«Semplice tachipirina» rispose la donna tranquillizzandomi.
La inghiottii subito meravigliandomi di quanto l’effetto di quella pasta ad erbe naturali fosse stato repentino.
«Riposati cara». Sofia mi poggiò una mano sulla fronte e quel gesto mi sembrò talmente materno che quasi mi commossi. La mancanza di casa era fortissima.
«Vorrei chiederle delle cose» parlai nonostante il suo rabbonimento. «..su Storm» continuai.
«Me le chiederai domani cara. Adesso riposati» disse in tono talmente dolce e musicale che le sue parole, alle mie orecchie, risuonarono come una ninna nanna.


 

Note
Allora ragazze, cosa ne pensate di questo capitolo? Vai aspettavate che i due finissero in un campo di Hippie?
Il giorno dello scambio si avvicina. Nel prossimo capitolo mancherà solo un giorno e sarà l’ultimo di tranquillità per i nostri bei protagonisti.
Come sempre ci tengo a sapere ogni vostro pensiero, emozione, parere. Tutto ciò che vi passa per la testa. Su questo capitolo non so cos’altro dirvi e spero che vi sia piaciuto, almeno un pochino. Se vi ha tenute compagnia per pochi minuti riuscendo a rubarvi qualche emozione sono contenta, non potrei augurarmi nulla di meglio.
Ci tengo a ringraziare ognuna di voi, da chi recensisce a sci legge semplicemente. Sappiate che io sono abbastanza contenta di come stanno andando le cose con questa storia.
Spero di vedere visetti nuovi tra i recensori e nulla, un bacio e al prossimo delirio che sono sicura vi piacerà e ricompenserà questi ultimi capitoli a mio parere bruttini.
Notte alla prossima, si spera
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Il prezzo del patto ***



Banner fatto da me con PhotoshopCC


XXI
Il prezzo del patto




Abigail's point of view

Quando mi svegliai sentii il suono di una chitarra e una melodiosa voce femminile riempirmi le orecchie. Aprii gli occhi e vidi la luce solare filtrare attraverso la tendina rosa sopra la testiera del letto. Delicatamente la spostai osservando il cielo e notando che doveva essere tardi. Forse le undici di mattina.  
La piccola finestrina affacciava sul retro della roulotte e l’unica cosa riuscii a vedere furono panni stesi e altri piagati su delle sedie di plastica.
Mi sollevai dal letto poggiando i piedi nudi sulla moquette della roulotte e un leggero capogiro mi costrinse a sollevarmi lentamente e ad appoggiarmi alla parete. Il camper sembrava vuoto e di Sofia non c’era traccia. Sentivo numerose voci provenire dall’esterno e pensai che si trovassero tutti fuori. In quelle roulotte non c’era molto spazio e stare all’esterno era l’unica soluzione per riuscire a convivere pacificamente.
Mi avvicinai a piccoli passi alla porta della roulotte e con qualche difficoltà l’aprii. Una ventina di persone si erano radunate attorno ai tronchi che avevo visto la sera prima. Un ragazzo dai lunghi capelli chiari suonava la chitarra col capo chino e al suo fianco una ragazzina dal viso spigoloso cantava quella deliziosa melodia che avevo sentito appena sveglia. Aveva una voce dolcissima e il suo viso era altrettanto bello. Ripensai alle sirene dell’Odissea e pensai che quella ragazza era proprio come loro: un’incantatrice.
Altri ragazzi della loro stessa età e dei bambini molto più piccoli erano seduti al loro fianco e li guardavano estasiati. Qualcuno teneva il tempo con la gamba o le mani. Più in là delle donne erano impegnate a stendere il bucato e alcuni uomini parlottavano tra loro seduti ad un tavolo. Sembrava di essere in uno di quei campus per ragazzi. Uno di quei centri di ritrovo che a me non erano mai piaciuti.
In lontananza, sotto le foglie di un albero, individuai Storm che solitario se ne stava seduto al fresco. Non mi aveva visto, aveva lo sguardo basso e le foglie gli facevano strane ombre sul viso rendendo il suo aspetto misteriosamente affascinante. Distolsi lo sguardo e notai che ad un tavolo in legno con due panche ai lati era seduta Sofia insieme ad una ragazza dai capelli rossi ed entrambe mi stavano fissando.
Scesi i tre scalini e istintivamente di avvicinai a loro.
«Come ti senti stamattina, cara?» chiese sorridendo flebilmente Sofia guardandomi ed ispezionandomi minuziosamente. Addosso avevo ancora gli stessi abiti sporchi e non sapevo proprio in che condizione fosse il mio viso. Dovevo sembrare una barbona in mezzo a tutte quelle ragazze che sembravano angeli del paradiso. Se l’hippie donava bellezza allora diventavo anch’io una Figlia dei Fiori.
«Meglio. Credo che la febbre sia scesa» dissi sentendo la mia voce arrocchita dal sonno.
La donna mi prese le mani sotto l’occhio osservatore della ragazza seduta al suo fianco e mi toccò le guance. «Credo anch’io» annuì confermando la mia supposizione «Però ti conviene prendere un’altra pillola»
Io annuii semplicemente riconoscente a quella donna che premurosamente mi stava curando.
«Mary potresti andare a prendere una fetta di dolce per la nostra ospite?» disse Sofia rivolgendosi alla giovane ragazza che mal volentieri si alzò con un ghigno. Aveva dei lunghissimi capelli rossi che le cadevano in morbide onde sulla schiena. La carnagione chiara, quasi diafana, faceva risaltare due occhioni verdi che le invidiavo. Avevo sempre desiderato avere gli occhi chiari. La lunga gonna bianca ricamata le cadeva morbida sui fianchi mettendo in evidenza quelle curva da donna che avrebbero fatto impazzire qualsiasi uomo. Anche il seno era visibilmente abbondante nonostante indossasse una maglia accollata e leggermente larga. Era molto alta e sembrava proprio una modella. Al suo confronto mi sentii sciatta e inadeguata a quel posto.
«É sua figlia?» chiesi tornando a guardare Sofia «É molto bella» mi lasciai scappare quel complimento. Non ero mai stata restia nell’ammettere che una donna era bella o aveva un bel corpo ma in quel caso mi dava particolarmente fastidio che quella ragazza lo fosse così tanto.
«No» rispose la donna sorridendomi con un’espressione beata sul viso «Mary è la sorella di Gareth, mio marito»
Temetti che la mascella si fosse spalancata tanto da toccare il terreno sabbiosa. Quella era la stessa ragazza con cui Storm aveva confessato di essere stato.
«Ah..» rilasciai un sospiro pesante «Quindi Mary è la ex fidanzata di Storm» continuai guardando il tavolo e trovandoci sopra una mollica di pane con la quale iniziai a giocherellare.
«Non direi che fossero fidanzati» replicò la donna «Noi siamo Hippie non suore, Abby» la donna mi strizzò l’occhio facendomi intendere che anche loro potevano avere relazioni da una notte se volevano. Quella cosa non mi tranquillizzava affatto, anzi. Il fatto che quella ragazza fosse stata con Storm non mi piaceva e mi faceva storcere il naso. In poche parole mi dava fastidio per una ragione a me sconosciuta.
Dopo poco Mary arrivò porgendomi un piatto di plastica con un fetta di dolce secco e un bicchiere d’acqua.
«Grazie» risposi a bassa voce per gentilezza e buona educazione ma lei si limitò ad un ghigno. A quanto pareva non tutti i Figli dei Fiori erano gentili.
Questa volta Mary non si risedette con noi ma puntò all’albero dove Storm era ancora seduto e camminando sensualmente e ondeggiando i fianchi gli si avvicinò.
Distolsi lo sguardo tornando a fissare il mio dolce. Non avevo voglia di mangiare ma lo feci lo stesso.
«Sofia..» iniziai cautamente dopo avere mangiato quasi tutta la fetta di torta «avrei delle domande da farti»
Lei annuì senza parlare e io iniziai a parlare con un po’ di timore. «Storm mi ha detto che vi siete incontrati diversi anni fa nell’Idaho e che lo avete preso in simpatia» mi limitai a ripetere le parole che lui mi aveva detto la sera prima per avere conferma che fossero vere.
«Si, credo che siano passati cinque da quando siamo stati ad Orofino» rispose la donna e io scoprii il paese natale di Storm. Orofino.
«Noi siamo un gruppo di camperisti che amano spostarsi. Trascorriamo un anno in ogni città che possa ospitare dei camper e poi ce ne andiamo» spiegò la donna e io ricordai che quelle erano le stesse cose che mi aveva detto Storm. Almeno non mi aveva mentito.
«Come lo avete conosciuto?» chiesi curiosa.
«Ha picchiano Jaxon» disse Sofia indicando il ragazzo biondo che stava suonando la chitarra alle mie spalle. «Storm non era in sé e stava gironzolando intorno alle nostre roulotte. Jax gli disse di andarsene e lui gli diede un pugno»
Dovevo avere dipinta sul viso una faccia epica e curiosa perché la donna scoppiò a ridere.
«Non era niente di grave, Jax non si è fatto poi tanto male» mi tranquillizzò lei. «Da quel giorno capitava spesso che di sera o in piena notte Storm si trovasse da noi e qualche volta l’abbiamo ospitato anche per dormire»
Ripensai a come avevo visto Loran stamattina e non sembrava uno che fosse di casa, il corpo era teso e se ne stava tutto solo sotto la pianta come se non conoscesse nessuno.
«Voi sapete delle sue..attività?» chiesi non sapendo bene come definirle. Non mi sembrava il caso di chiederle direttamente se sapessi che era un criminale e aveva ucciso vite umane.
La donna sorrise nuovamente e mi sembrò poco adeguato alla situazione. «Non ci vuole un genio per capire che quel ragazzo con ha la fedina penale apposto, ma con noi si è sempre comportato bene. Non ci siamo mai interessati a quello che faceva e lui non ci ha mai coinvolto»
La donna mi guardò e poi riprese «Quando il mese scorso è venuto e ci ha detto che avrebbe avuto bisogno di stare da noi per qualche giorno, non abbiamo potuto rifiutare. Cercava solo un posto dove stare» disse la donna e le sue parole mi fecero pensare al detto: lontano dagli occhi lontano da cuore. Finché lui si sarebbe comportato bene con loro poteva usufruire del loro aiuto. Mi chiesi se si sarebbero comportati allo steso modo anche se avessero saputo che era un assassino e che mi aveva rapito che scambiarmi con suo fratello.
«Quindi lei non sa perché io sto con lui?» domandai.
«No, non lo sappiamo e non lo vogliamo sapere» rispose lei «Tu sei completamente diversa da lui e da noi, appartieni ad un altro mondo e ho subito capito che c’era qualcosa di losco in mezzo, ma non voglio sapere nulla. Altrimenti sarei costretta a dirlo alle autorità e non voglio mettere quel ragazzo nei guai»
Avevo perfettamente capito come stesse la situazione. Loro non volevano vedere e finché nessuno toccava le loro cose tutto andava per il verso giusto.
«Noi siamo un gruppo di girovaghi e non siamo ben visti dalla gente. Avere dei problemi con la polizia è l’ultima cosa che vogliamo»
Ascoltai poco di quella sua ultima frase. Il mio sguardo era corso all’albero sotto al quale Mary era accovacciata al fianco di Storm e gli accarezzava il petto facendo scorrere l’indice lungo il suo torace fino ad arrivare alla cintola dei pantaloni. Lui non sembrava prestarle molte attenzioni ma non si sarebbe nemmeno detto dispiaciuto di quella mano su di lui. Continuai a guardarli con uno sguardo di disgusto ad uno smorfia al posto di un sorriso.
La mano di Mary continuò imperterrita la sua discesa fino ad arrivare alla coscia tesa di lui. A quel punto mi alzai dal tavolo guardando Sofia negli occhi.
«Dove posso trovare la tachipirina?» domandai e lei rispose senza sorridermi questa volta.
«Entriamo nel camper, cara. Te la prendo io». Si alzò anche lei venendo verso di me e poggiandomi una mano sulla schiena.
Prima di salire sulla roulette e richiudermi la porta alle spalle guardai di nuovo verso Storm e la scena era uguale a quella di prima eccetto che questa volta la mano di Mary stava risalendo e Storm guardava verso di me con un sorrisetto compiaciuto appena abbozzato sulle labbra. Io lo guardai di rimando storcendo le labbra e mostrandogli il dito medio. Prima che potessi vedere la sua reazione richiusi la porta alle mie spalle.

Mi voltai e la pillola era già pronta nella mano di Sofia, la afferrai e la inghiottii con l’aiuto di un bicchiere d’acqua. «Grazie» le sorrisi riconoscente.
«Smettila di ringraziarmi» il sorriso spuntò di nuovo sul suo tenero viso. Quel giorno portava i lunghi capelli ricci domati in una coda. «Se vuoi farti una doccia ti presto qualche vestito pulito»
«Oh, si. Avrei davvero bisogno di lavarmi» risposi sentendomi estasiata solo al pensiero di un lungo bagno caldo.
«Vieni con me» disse camminando per la roulotte e io la seguii fino ad un piccolo mobiletto. Mi porse una scatola con la figura di un reggiseno disegnata sopra.
«Questo è dell’intimo nuovo che tengo sempre per le emergenze» mi spiegò mettendomi in mano un’altra scatolina un po’ più piccola. Mi porse anche una gonna a fondo verde chiaro con delle decorazioni floreali azzurre e una canotta bianca. Prese anche degli asciugamani puliti e mi disse di seguirla fuori.
Quando uscimmo dalla roulotte non rivolsi nemmeno un’occhiata all’albero, a quell’albero.
La donna mi condusse alle spalle delle roulotte fino ad un separé fatto di canne di bamboo che creavo un effetto vedo non vedo.
«Dietro c’è la doccia e a terra ci sono i vari flaconi di sapone» disse Sofia spiegandomi tutto, anche dove poggiare i panni.
«Non preoccuparti, non verrà nessuno a disturbarti» disse leggendo il turbamento sul mio viso.
Io speravo in una doccia tranquilla e rilassante e invece mi toccavano le canne di bamboo.
Mi lasciò sola e riluttante mi svestii. Velocemente mi gettai sotto l’acqua fredda e non potei evitare di cacciare un urletto. Ovvio, non c’era gas, né una caldaia.
Domani sarà tutto finito, pensai mentre mi lavavo. Quello era il mio ultimo giorno con Storm e lo avevo visto poco e niente. La vita senza di lui sarebbe stata molto meglio.
Il pensiero che solo una settimana prima mi trovavo nel letto della mia cameretta ignare che quell’estata la mia vita sarebbe cambiata drasticamente mi spaventava. Chissà se al mio ritorno sarebbe cambiato il modo di relazionarmi agli altri e alla mia vita passata, ormai ero cambiata e non si poteva più tornare indietro.
Nel mio cuore sapevo che domani sarei tornata a casa, mio padre mi amava e non avrebbe mai rischiato quando in ballo c’era la mia vita. Io sapevo che era così perché lo conoscevo ma dovevo rimanere razionale e capire che se avesse lasciato a piede libero un criminale sarebbe stato accusato e la legge, che lui rappresentava, gli si sarebbe rivoltata contro. Però lui era mio padre e io ero sua figlia. Era sangue del mio sangue e non mi avrebbe mai fatto del male.

Quando il getto dell’acqua fredda si fece insopportabile avevo già lavato i capelli e prontamente mi coprii con un asciugamano e uscii dal separé.
«Non si saluta più quando ci si sveglia?»
Che mi venga un colpo. Storm era appoggiato al camper con un piede appoggiato alla parete della roulotte e l’altro ben saldo a terra. Aveva le braccia incrociate al petto, la maglia stropicciata e i capelli erano più scompigliati del solito. Le mani di Mary dovevano averci giocato parecchio per ridurli in quel modo. Quel pensiero mi fece venire la nausea e lo guardai con disgusto.
«Non vedo perché avrei dovuto farlo» gli lanciai un’occhiata mentre il suo sguardo correva verso il basso fino ad arrivare alle mi cosce scoperte. Cavolo, quell’asciugamano non copriva proprio niente. «E poi eri in dolce compagnia»
Quelle parole gli fecero alzare immediatamente lo sguardo e, forse per l’astio della mia voce o per il sarcasmo della mia frase, sul suo viso comparve un sorriso furbetto.
«Gelosa?» domandò staccandosi dalla parete e venendo verso di me.
«Per niente» mi tirai indietro andando a sbattere conto il separé in bamboo e i miai occhi caddero sui vestiti puliti ripiegati su una sedia in plastica. «Mi devo vestire» dissi ma lui continuava ad avanzare.
«Visto che questo è l’ultimo giorno potremmo essere un po’ più sinceri» disse alludendo al fatto che gli avessi mentito e fossi gelosa. Beh, non lo ero, mi dava solo fastidio.
«Non vedo perché dovrei essere sincera con te. Tu non lo sei mai stato con me» risposi allungandomi a prendere le scatole dell’intimo e i vestiti puliti. Sarei andata nella roulotte a vestirmi.
«Se permetti..» dissi facendo per andarmene sfilandogli accanto e trattenendo il respiro quando il suo profumo mi arrivò forte alle narici. Lui mi bloccò un bracciò tirandomi a se e facendo scontrare i nostri petti. Mi guardò negli occhi e l’azzurro dei suoi mi destabilizzò facendomi perdere l’equilibrio ma la sua stretta era ben salda e non mi mossi di un millimetro. Il suo respiro si mischiò al mio. Entrambi avevamo le labbra schiuse e respiravamo con la bocca mentre i nostri petti si scontravano ad ogni sospiro affannoso.
Lui chinò il volto fino a toccarmi l’orecchio con le labbra. «Bugiarda»
Le sue labbra percorsero il mio collo sfiorando lentamente la pelle mentre i suoi polmoni si riempivano dell’odore della mia pelle. Arrivò fino alla spalla nuda e lì le sue labbra si sostarono e rimasero immobili senza scoccare nessun bacio o schiudersi. Restarono semplicemente immobili sulla mia pelle. Io tesi il collo incoraggiando i suoi movimenti e le sue labbra iniziarono la risalita mentre le sue mani erano poggiate sui miei fianchi.
«Seve aiuto?» la voce di Sofia ci riportò alla realtà e io cercai di allontanarmi dal corpo di Storm ma lui mi trattenne restando immobile.
«Lasciala perdere. Se ne andrà» parlò e le sue labbra si mossero sinuose sul mio collo. Un rantolo mi scappò dalle labbra. Oh che dolce sensazione.
Sofia non era ancora visibile, il separé ci nascondeva da occhi indiscreti.
«Strom» dissi in tono ammonitorio ma lui riprese la sua tortura facendomi dimenticare la ragione del mio dissenso. Questa volta però non si limitò soltanto a passarmi le labbra sul collo ma le schiuse mordicchiano delicatamente il mio collo.
«Abby, sei qui?» Sofia parlò di nuovo e i miei occhi si dilatarono. Non potevamo continuare. Che cavolo stavamo facendo? Quello non era normale. E non lo era nemmeno il fatto che mi piacesse tanto.
Mi sottrassi dalla sua stretta e uscii allo scoperto.
«Sono qui» dissi coprendomi il viso coi capelli ancora bagnati. Tossii per coprire la mia voce arrocchita.
Sofia mi lanciò un’occhiata e poi si voltò senza dire nulla. Che gran bella figura che avevo fatto.
Corsi dentro la roulotte e velocemente mi vestii. Quando uscii mi andai a sedere su una panchina fatta di legno esposta al sole pensano che quel posto fosse ottimo per far asciugare i miei capelli.
Una decina di minuti e un paio di sguardi torvi e divertiti dopo, Mary mi avvicinò parandosi davanti a me.
«É pronto il pranzo» disse e io annuii. Fece per allontanarsi ma a metà strada si voltò. «Ah..» disse come se avesse dimenticato di dirmi qualcosa «hai il collo chiazzato» continuò e le mie guance si imporporarono all’istante «..e non è difficile supporre di chi sia il merito»
Volevo seppellirmi dalla vergogna.


Il pranzo fu abbastanza tranquillo. L’inizio era stato imbarazzante soprattutto perché sfoggiavo un bellissimo collo chiazzato di rosso e con evidenti segni di morsi che cercai di coprire coi capelli. Per pranzo avevano uniti i tavoli e ci eravamo seduti tutti. Eravamo un cinquantina di persone e ne conoscevo solo una decina. Avevo scambiato qualche parola con Jaxon che era davvero molto gentile. Avevo scoperto che la ragazza che cantava con lui era sua sorella gemella, Sarah, e condividevano la passione per la musica fin da piccoli.
Mary mi aveva guardata storto per tutto il pranzo e si era seduto al fianco di Storm. Io mi ero messa vicino a Jax e la sorella mentre loro, Mary e Storm, si trovavano un paio di sedie dopo quella di Sofia che stava di fronte a me.
Mary era visibilmente presa da Storm e faceva di tutto per ricevere le sue attenzioni. Mary aveva solo una mano sul tavolo, mentre l’altra era nascosta sotto la tovaglia e ogni tanto vedevo Storm agitarsi sul posto e riportarle la mano sul tavolo. Non volevo nemmeno sapere quello che stava succedendo sotto al tavolo tra quei due.
Dopo pranzo mi alzai per aiutare Sofia e le altre donne a togliere la tavola e mettere a posto ma Sofia declinò il mio aiuto dicendomi di andare con Jax e Sarah e di divertirmi.
Non avevo proprio la testa per divertirmi e a mano a mano che passavano le ore la mia ansia cresceva. Non sapevo bene a cosa fosse dovuta, sapevo solo che mi sentivo irrequieta e doveva esserlo anche Storm visto che non so quanti giri si era fatto attorno al perimetro delle roulotte.
Per il resto del pomeriggio non pensai a quello che era accaduto tra me e Storm e trovai la compagnia dei due gemelli molto piacevole. A calar del sole i gemelli rientrarono nel loro camper e io rimasi da sola seduta su quel tronco con indosso il gonnellone che mi aveva dato Sofia quella mattina.
Constatare che il cielo diventava sembre più scuro faceva scendere le nubi anche sul mio cuore. Mi sembrava tutto così surreale, come se quell’ultimo giorno fosse stato normale e quello che sarebbe avvenuto domani fosse una cosa sbagliata. Sospirai sconfitta e mi alzai stirandomi la gonna con le mani e notando che il cielo si era scurito e le prime stelle iniziavano a spuntare come puntini luminosi.
Da lontano vidi Storm con una coperta e un cellulare in mano che lentamente si avvicinava a passo di marcia. Quando arrivò davanti a me mi sorrise spavaldo e io rimasi imbambolata a guardarlo non sapendo bene cosa fare. Lui si avvicinò ancora di più e allungò un braccio per scostarmi i capelli dalle spalle che avevo lasciato sciolti.
La serata era calda e stavo momento di caldo con i capelli che mi ricadevano lungo le spalle e mi ricoprivano il collo, ma era necessario per nascondere i segni.
«Legali» disse lui a voce bassa e melliflua. Sembrava più morbida e accomodante del solito e così lo accontentai.
Feci tre giri col codino e poi mi misi in posa sorridendo
«Va bene così?»
Lui annui scuotendo la testa e i capelli si mossero da una parte all’altra.
«Mi piace vedere il mio lavoro» disse e passò un pollice su tutta la lunghezza del mio collo.
«Ma smettila» mi allontanai da lui con il sorriso sulle labbra sentendo la tensione scivolare via.
Dopo un paio di minuti di silenzio lui mi guardò fisso negli occhi e allungò la mano. «Vieni».
Io la afferrai sentendomi scombussolata da quel suo cambiamento repentino ma ormai avevo capito che con Storm non c’erano abitudini o comportamenti normali da tenere. Stare con lui significava adattarsi ai suoi cambiamenti di umore e io volevo farlo, volevo adattarmi.
Presi la sua mano e lasciai che mi trasportasse attraverso il campo. Superammo il recinto che segnava la fine della zona per camperisti e ci inoltrammo nella radura deserta mentre il cielo oscurava sempre di più.
Nel ben mezzo del nulla Strom si fermò ai piedi di un masso abbastanza grande e stese la coperta.
«Cosa ci facciamo qui?» chiesi mentre lui si sedeva a gambe incrociate sul plaid rosso a quadroni.
«Al campo c’era troppa gente. Qui si sta più tranquilli» disse stendendosi e portandosi le mani sotto la nuca.
«Perché mi ci hai portato?» domandai non capendo. Non era la prima volta che nel corso di quella giornata si appartava per stare da solo ma non mi aveva mai detto di seguirlo.
«Se non vuoi starci puoi anche andartene» rispose e una parvenza del solito Storm ritornò. Mi chiedevo quando l’avrebbe fatto e in quel momento desiderai che se ne andasse di nuovo.
Mi sedetti al suo fianco ma non mi stesi. Poggiai la schiena alla roccia e tenni le gambe stese sulla coperta. Restammo un po’ in compagnia dei nostri respiri e dei rumori della natura poi Storm si sollevò e si mise nella mia stessa posizione. «Domani mattina partiremo presto. Arriveremo al confine col Quad» parlò rivolgendo il suo sguardo al cielo e io pensai che la prima immagine che mio padre avrebbe visto di me dopo una settimana era quella di sua figlia avvinghiata al suo rapitore a bordo di un quattroruote. Trovavo la cosa esilarante. Risi amaramente scuotendo la testa.
«Ho paura di scoprire che questo sia solo un sogno» dissi. La mia frase era uscita dalle mie labbra come una riflessione personale e non per comunicargli quei miei sentimenti.
«Ho paura che questa sia la mia ultima sera» la voce di Storm mi rimbombò nelle orecchie e nel momento in cui disse quelle parole seppi che quella frase mi avrebbe tormentata per giorni interi.
Abbassai lo sguardo e vidi che i suoi occhi erano puntati nei miei e mi fissavano intensamente. Erano di un azzurro chiarissimo e brillavano di vita sotto le stelle che quella notte sembravano incentrate su di noi.
Lentamente lui si mosse voltandosi completamente verso di me e io feci lo stesso sentendo il rumore dei nostri vestiti frusciare sulla coperta. Mantenemmo il contatto visivo e io mio sentivo completamente annegare nel suo sguardo che, solo per quella sera, aveva abbassato ogni barriera.
Mi accarezzò la guancia con una mano e sentii il suo palmo aderire perfettamente al mio viso che prese tra le sue mani come se fosse una cosa preziosissima. Lentamente si avvicinò ancora di più a me riducendo la distanza tra le nostre bocche e facendomi capire quello che sarebbe avvenuto di lì a pochi minuti, ma io non mi tirai indietro. Lo volevo, lo desideravo quel bacio.
Piano accostò le mie labbra alle sue aspettando una mia risposta o un mio gesto mai io non dissi nulla. Rimasi completamente immobile non sapendo cosa fare. Non avevo mai baciato un ragazzo e mi vergognavo da morire. I miei occhi si riempirono di lacrime e sentii un nodo alla gola. Volevo staccarmi da lui e scappare il più lontano possibile. Mi stavo completamente rendendo ridicola.
Gli presi le mani e lentamente le levai dal mio viso e mi allontanai di qualche centimetro. Lui aprì gli occhi e mi tirò di nuovo vicino a sé poggiando la sua fronte sulla mia guardandomi intensamente. Lo guardai a mia volta con gli occhi lucidi e mi sentii persa nel suo sguardo. Non sapevo a cosa aggrapparmi.
Con le fronti ancora unite lui si avvicinò nuovamente poggiando le labbra sulle mie e le sentii muoversi lentamente mentre parlava.
«Apri la bocca, Abby» il suo fiato caldo soffiò sulla mia faccia riscaldandomi e un brivido mi percorse lungo la schiena. «Io..» cominciai ma non avevo il coraggio di terminare quella frase. Sconfitta lo guardai negli occhi e in quell’azzurro trovai la mia forza «Non ho mai baciato nessuno» dissi piena di vergogna abbassando lo sguardo.
Ero pronta ad andarmene ma lui no, voleva che restassi e mi strinse forte a sé.
«Oh piccola. Schiudi le tue labbra» sussurrò nuovamente sulla mia bocca e io non potei far altro che aprire le mie labbra staccandole l’una dall’altra. «Ti prego» sussurrò ancora e io trovai il coraggio di aprirle ancora di più mentre lo guardavo dritto negli occhi.
Storm racchiuse il mio labbro inferiore tra le sue che erano calde e morbide. Delicatamente lo mordicchio e io mi sentii in paradiso. Gli lasciai libere le mani che subito corsero al mio viso e io gli allacciai le braccia dietro al collo attirandolo di più verso la mia bocca. Lo sentii ridere e fu la sensazione più bella del mondo. Ancora più del bacio.
In un attimo la tensione si era volatilizzata lasciando solo il piacere di quel momento.
Riacquistando un po’ di forza e coraggio ricambia il bacio a mia volta sentendo una strana sensazione allo stomaco quando la mia lingua entrò a contatto con la sua. Un gemito strozzato uscì dalla gola di Storm facendomi intendere che aveva apprezzato il mio gesto.
Continuammo a baciarci per un tempo indefinito fino a quando i nostri polmoni non chiesero pietà e ci allontanammo l’uno dall’altro.
Strom portò le mani ai miei fianchi e facendo forza mi sollevò e mi fece sedere sulle sue lunghe gambe distese. Guardarlo in viso dopo quello che era successo mi imbarazzava così nascosi il volto nell’incavo del suo collo e inalai il suo odore fino a sentire i miei polmoni piedi di lui. Di Storm.
«Mi devi ancora dire il prezzo da pagare per il patto» sussurrai sulla sua pelle.
Lui non rispose subito, sembrava quasi se ne fosse dimenticato. Mi tirai indietro e lo guardai negli occhi sentendomi arrossire.
«Promettimi che domani farai la brava» disse accarezzandomi un fianco da sotto la maglia. Mi aveva sollevato la canotta e ci aveva infilato la mano senza che me ne accorgessi.
Annuii abbassando lo sguardo e rattristandomi al pensiero della giornata che ci attendeva.
Lui portò la mani sotto il mio mento e mi sollevò il volto. «Prometti» ordinò dolcemente.
«Va bene. Promesso» cedetti. Del resto era quello il patto no? «Non ti sembra un po’ poco come riscatto? Tu mi hai detto tutte quelle cose eh..» Storm mi zittì con un dito sulle labbra e io mi bloccai di colpo.
«Baciami» disse guardandomi negli occhi e chinandosi verso di me.
«Ci siamo appena baciati» ribadii arrossendo ancora di più. Cavolo quanto era imbarazzante.
«Questo è il prezzo da pagare per le domande» rispose abbassando lo sguardo sulle mie labbra. «Perciò baciami»
«Si, ma..» iniziai giocherellando con un filo tirato della sua maglia.
«Bambolina?» disse usando un tono interrogativo che mi fece alzare di scatto la testa mentre le mie labbra erano aperte e pronunciavano «Che c’è?»
Appena alzai la testa trovai le sua bocca ad attendermi e in attimo fu sulla mia.
Per quella sera non ci furono più parole, ma solo baci e carezze. Solo Abby e Storm.


 
 
Note
Allora ragazze parto dicendo che questo capitolo era stato pensato con il POV di Storm alla fine come conclusione, ma il capitolo è già di 5.000 parole, quasi il triplo del capitolo standard, e non me la sentivo di aggiungere altro. Quindi il pov Storm slitta al prossimo capitolo che pubblicherò lunedì sul tardi se non addirittura martedì. Per motivi familiari non posso aggiornare prima ed è per questo che questo capitolo è più lungo, mooolto più lungo, degli altri.
La seconda ragione è che questo capitolo è stato pensato così, ma non era in programma che uscisse così lungo. Mi dispiace se a qualcuno dia fastidio ma, onestamente, non credo che una cosa del genere possa accadere.
Passando alla storia non so davvero da dove iniziare. Da Sofia e la sua chiacchierata? Da quella brava ragazza -ironico- di Mary, dai gemellini o dal quasi bacio di Storm ed Abby dopo la doccia. Oppure iniziamo proprio dalla fine? Ditelo che lo attendevate tutte questo momento. Io ho iniziato a fangirlare mentre scrivevo.
Ad ogni modo spero vivamente che il capitolo vi sia piaciuto e per questo momento speciale tra Storm ed Abby voglio tante recensioni. Se non lo volete fare per me fatelo per Loran, tanto lo so che lo amate alla follia.
Detto questo ci tengo immensamente a ringraziare tutte voi, diventate sempre di più e vi ringrazio di cuore.
Un bacione e fatemi sapere cosa ne pensate di questo
delirio.
Bacioni
-B

P.s. vi lascio la fato di un cantante, appena l'ho visto ho pensato a Storm, io lo immaggino su questo genere. Ovviamente voi siete liberissime di immaginarlo come volete, ed è  per questo che non sono solita dare precisi prestavolto ma vi voglio lo stesso lasciare questo foto.


Vi lascio anche una foto a colori

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Giorno Zero ***



Banner fatto da me con PhotoshopCC



XXII
Giorno Zero




Storm’s point of view

Abby era entrata nel camper dieci minuti fa e le avevo detto che l’avrei seguita a breve, dovevo prima fare una telefonata ma questo lei non lo sapeva. Ero rimasto lì fuori, seduto sul tronco di un albero a rigirarmi il telefono tra le mani alla ricerca del coraggio necessario per digitare i tasti eppure il cuore mi batteva troppo forte nel petto per poter far nulla. Riuscivo a stento a comprendere quello che era successo poco prima figurarsi a parlare col giudice Jensen.
Avevo fatto un casino, quello che era successo con Abby non sarebbe dovuto accadere. Quel bacio, quel dannato bacio, aveva incasinato ogni cosa. L’unica cosa che mi rimaneva da fare era sperare che domani ogni cosa andasse come previsto e che il magistrato non avesse fatto nessun giochetto, altrimenti non volevo nemmeno pensare all’alternativa. Il solo pensiero di dover fare del male a quella ragazza tanto fastidiosa mi faceva contorcere le budella e quel sentimento non mi piaceva affatto. Essere dipendente dalle emozioni e da una ragazzina non mi piaceva.
Dovevo portare a termine il piano per il bene di Lizzie. Dovevo pensare solo a lei. Era l’unica donna che amavo veramente e non avrei mai permesso a nessuno di farle passare quello che avevo vissuto io sulla mia pelle. Era troppo pura per fare quella fine. Per la prima volta in vita mia ebbi paura. Paura di perdere tutto e di non poter rimediare ai miei errori. Paura di perdere Abby e non rivederla mai più. Quella ragazza si era insinuata nella mia testa fino a farmi impazzire e perdere di vista il mio obiettivo principale. Dovevo mantenere la concentrazione e proseguire come da calendario.
Velocemente digitai il numero che orami conoscevo a memoria e attesi. In mano stringevo un telefono prepagato e la telefonata non sarebbe durata più di pochi secondi ma anche se mi avessero rintracciato non mi importava. Avrebbero impiegato troppo tempo per arrivare in quella zona con le normali vetture della polizia e poi dovevano aspettarsi che ci trovassimo in una zona vicina al confine.
Tre squilli dopo il giudice rispose.
«Pronto» quella fu l’unica cosa che disse e la sua voce grossa e autoritaria risuonò nelle mie orecchie.
Chiusi gli occhi e mi concentrai per parlare nel modo più severo possibile. «Tra sette ore al confine ovest, la zona dei canyon. Non faccia trucchetti altrimenti sua figlia la rivede al funerale» riattaccai rilasciando un forte rispiro.
Quella telefonata mi era costata cara, dire quelle parole non era stato facile e non lo era nemmeno sopportare quel peso che mi portavo nel petto. Mi passai una mano tra i capelli e tirai le punte rilasciando un urlo di frustrazione. Prima quella storia sarebbe finita, meglio era per tutti. Mi alzai e caricai il colpo, alzai il braccio destro ruotando il busto e scagliai il più lontano possibile quel cellulare che sperai non mi servisse più. Sentii un tonfo quando l’apparecchio elettronico atterrò a diversi metri di distanza.
Il respiro era pesante e irregolare, cercai di calmarlo insieme alla mia furia. Quando mi sentivo molto più stabile e tranquillo entrai nella roulette stendendomi nel sacco a pelo preparato da Sofia.
Abby si era già addormentata e invidiai il suo sonno sereno per tutta la notte durante la quale non chiusi occhi. La mia mente non faceva altro che pensare e immaginare possibili scenari per il giorno dopo mentre la lingua scorreva sulle labbra che conservavano ancora il sapore di quelle della bambolina impertinente che giorno dopo giorno si era fatta strada nella mia mente e in qualcos’altro.



Abigail’s point of view

A svegliarmi quella fatidica mattina fu l’immancabile imprecazione di Storm.
«Cazzo Abby, svegliati» digrignò svegliando anche Sofia e suo marito Gareth che dormivano nella roulotte con noi. Mi alzai di scatto mettendomi seduta sul letto con ancora gli occhi chiusi
«Smettila di urlare, sono sveglia» dissi sbadigliando e dando tutta l’impressione di essere ancora nel mondo dei sogni. «Muoviti» rispose Storm e mi sentii i suoi occhi addosso. Lentamente aprii i miei e me lo ritrovai di fronte che mi squadrava severamente con le labbra piegate in una smorfia.
«Ti do cinque minuti» continuò mostrandomi il palmo aperto e non potei evitare al mio cuore di frantumarsi sotto le sue urla severe. Non sapevo nemmeno io cosa aspettarmi dopo la scorsa notte, però almeno un minimo di riguardo.
Non risposi, abbassai la testa e svogliatamente mi alzai dal letto senza nemmeno stiracchiarmi.
Addosso avevo ancora i vestiti di ieri e di quei cinque minuti non sapevo nemmeno che farmene.
«Ti aspetto fuori» dissi prima di uscire e sbattere la porta sotto gli occhi indagatori dei due coniugi che ci avevano ospitato.
«Nervosetto» sentii pronunciare da Gareth. Non ci badai e lentamente mi diressi al piccolo bagno attiguo e mi sciacquai il volto e districai i capelli con le dita sistemandoli in una cosa alta sulla nuca. Poggiai le mani sul piccolo e angusto lavabo e puntai gli occhi dritti nei miei riflessi nello specchio. Chiare occhiai spuntavano sotto gli occhi facendo sembrare il mio volto smagrito e stanco. Gli occhi non vedevano l’ombra di un po’ di trucco da molti giorni e senza la matita sembravano più grandi e per nulla definiti. Le labbra erano sempre le stesse ma io le sentivo diverse. Quei due pezzi di carne leggermente più rossi del resto erano stati baciati per la prima volta. Mi passai due dita sul labbro inferiore tastandolo e cercando chissà cosa e non trovandoci ovviamente nulla.
Il ricordo delle labbra di Storm sulle mie mi sembrava così lontano e irraggiungibile. Il suo comportamento di stamattina era una chiara dichiarazione di quando poco importante fosse per lui quel bacio eppure sapeva quanto significativo fosse stato per me. Quel pensiero mi sorprese e rilasciai un sussulto. Per me era importante. Avevo conservato il mio primo bacio per qualcuno di importante a alla fine lo avevo donato a Storm, a un emerito stronzo.

 


**
L’aria fresca di prima mattina mi accarezzava il volto avvolgendolo nella calura di quel giorno di fine giugno. Il sole spuntava da una nuvola illuminando debolmente quel fatidico giorno. I miei occhi corsero immediatamente all’albero che ormai nella mia mente era diventato di proprietà di Storm, ma lui non c’era. Guardai anche le panche fatte coi tronchi ma erano vuote. Sembrava che non lì non ci fosse e temetti che mi avesse abbandonata come i bambini fanno con gli oggetti che non li divertono più. Se ne disfano, semplicemente li gettano via.
«É lì». La voce di Gareth spezzò ogni mia supposizione indicandomi con la mano la zona oltre la recensione fatta di cactus. Segui con lo sguardo il suo braccio e trovai Loran appoggiato al Quad che due sere prima ci aveva portato in quel campo e mi parve passata un’eternità da quella notte.
Lui non stava guardando nella mia direzione, era impegnato in una conversazione intensa con Mary. La sola vista dei suoi lunghi capelli rossi e luminosi mi diede il voltastomaco.
Stizzita e più nervosa di prima mi voltai trovando alle mie spalle Sofia ancora in pigiama con le braccia distese e pronte ad avvolgermi in un abbraccio. Io ricambiai la stretta e fui felice di sentire le sue dolci parole.
«Abbi cura di te, piccolina» mi accarezzò i capelli e mi stupì l’affetto che quella donna provava per me nonostante mi conoscesse da solo un giorno. Lei era stata così premurosa e gentile nei miei confronti che non potei evitare mi provare una stretta al cuore. Era decisamente facile amare una persona gentile che permetteva di essere amata. Non era possibile fare lo stesso discorso con chi non voleva essere amato. Inevitabilmente pensai a Storm ma schiacciai quel pensiero dalla mia testa.
«Tutto sommato è un bravo ragazzo» disse la donna quando si allontanò da me e stavo quasi per chiederle a chi si riferisse ma poi capii. Parlava di Loran.
«Non credo, Sofia» replicai indurendo il tono della voce.
«L’apparenza inganna, dolcezza» nel sentire quelle parole ebbi in sussulto e ricordai il quadro nella casa dei signori Traynor.
Le apparenza, che grande fregatura.
Sorrisi debolmente alla donna e salutai anche Gareth con una stretta di mano. Quell’uomo era molto più formale della moglie e sembrava non vedermi molto di buon occhio. Sorrisi ai due coniugi per l’ultima volta e lentamente mi allontanai da loro.
Ero quasi arrivata alla fine della recensione fatta con le piante di cactus quando una voce maschile mi chiamò per nome. Prima di voltarmi notai che anche Storm l’aveva sentito e aveva distolto gli occhi dal petto di Mary. Mi convincevo sempre di più di quanto fosse un bastardo.
Gli diedi le spalle e non ebbi nemmeno il tempo di rendermi conto delle braccia di Jaxon inrotno alla mia vita che mi sollevò e mi face girare su me stessa.
Sorrisi e tra una risata di stupore e un’altra di sorpresa gli dissi di mettermi giù. Lui mi accontentò e poi mi stampò un bacio sulla guancia e io arrossii immediatamente.
«Buon fortuna, raggio di sole» sorrise arruffandomi i capelli e quel gesto affettuoso mi ricordò il fratello che non avevo mai avuto. Il giorno prima aveva preso a chiamarmi raggio di sole dicendo che i miei capelli erano chiari come una giornata illuminata dal sole e avevo un sorriso bellissimo come i raggi solari.
Mi feci piccola piccola rifugiandomi nelle mie spalle e le mie guance si imporporarono ancora di più.
«Grazie Jax. Salutami Sarah» risposi sorridendo e guardandolo in viso. «Spero di rincontrarti un giorno».
Lo salutai con la mano e mi voltai con quella promessa tra le labbra. E sparai vivamente di rivederlo.

Lentamente mi avvicinai al Quad cercando di non guardare la mano di Strom che stringeva il fianco di Mary e non vedere le mani di lei persi nella zazzera che lui aveva in testa. Poco dopo Storm se la scrollò di dosso e lei si levò di torno dopo avergli accarezzato languidamente il petto e avergli sussurrato qualcosa al suo orecchio.
Lui non replicò e la sua espressione non mutò mentre la mia passò dallo schifo al disgusto nel giro di un secondo. Quando mi avvicinai e salii sul Quad dietro di lui sentii la rabbia montarmi in corpo. Infilai con stizza il casco che lui mi passò e senza dire una parla partì sfrecciando alla massima velocità nell’aria e facendo sobbalzare il mio corpo in avanti e inevitabilmente dovetti stringermi a lui.
Il mio petto era sulla sua schiera e le mie gambe erano schiacciate contro le sue cosce eppure non potevamo essere più distanti in quel momento.
La velocità aumentava sempre di più e il vento tagliava sempre più violentemente la mia pelle dandomi la stessa sensazione di cento coltelli infilzati nella carne.
Sentivo il cuore farmi male e il respiro mancarmi. Storm quella mattina mi aveva ferita più di quando avesse fatto i primi giorni, più di quando aveva tentato di soffocarmi e di quando mi aveva schiaffeggiato in macchina durante l’inseguimento con la polizia.
Improvvisamente il Quad si fermò e il mio corpo si spostò ancora più in avanti e il mio casco andò a sbattere conto il suo. «Scendi» ordinò Storm girando la chiave nel quadro e spegnendo il motore.
«Cosa?» urlai ma il suono della mia voce uscì attutito dalla visiera del casco. Mi tirai indietro e sollevai la visiera. «Non dire idiozie e parti. Voglio andare da mio padre»
Il solo pensiero di rivedere mio padre mi faceva battere il cuore.
«Ho detto di scendere» urlò categorico sfilandosi il casco e gettandolo in malo modo sul manubrio.
«E io ti ho detto di ripartire» asserii troppo nervosa e arrabbiata con lui per potermi controllare.
«Abby, scendi prima di farmi arrabbiare ancora di più» replicò autoritario e questa volta lo accontentai. «Allora siamo in due» dissi scendendo del quattroruote e levandomi a mia volta il casco con poi gettarglielo addosso. Lui sgranò gli occhi ma non disse nulla. Lo sistemò sull’altro lato del manubrio e si voltò verso di me rimanendo seduto sul Quad.
«Cosa vuoi?» continuai allargando le braccia per poi farle ricadere pesantemente lungo i fianchi.
«Non la sopportavo quell’aria pesante» disse scompigliandosi i capelli con le mani «Dobbiamo parlare prima che tutta questa storia finisca»
«Non sai che consolazione sapere che questa è l’ultima volta che ti vedo» replicai e colsi del risentimento nei suoi occhi. «Possiamo parlare?» disse in tono più basso e delicato di prima. Sembrava essersi calmato e con la mani mi afferrò per la vita trascinandomi davanti a lui.
«Levami le mani di dosso» schiaffeggiai la sua mano agitandomi nella sua presa ferrea.
«Abby..» mi ammonì in un tono che sembrava quasi dolce ma non lo era. Lo sembrava solo perché era molto più delicato rispetto a quello che usava di solito ma i suoi modi erano ben lontani dall’essere dolci.
«Abby cosa, Storm?» mi dibattei ancora di più ma entrambe le sue mani mi tenevano ferma davanti a lui. «Cosa vuoi da me?» domandai guardandolo negli occhi. 
«Non mi devi dire proprio niente, non sono cretina. Il messaggio è arrivato forte e chiaro» continuai rimanendo immobile tra le sue braccia tanto era inutile agitarsi. «L’ho capito che non ti frega niente di quello che è successo ieri sera. La tua bava per Mary di stamattina ha reso chiaro il concetto. E adesso lasciami» conclusi sentendomi umiliata più che mai nel ripensare a quello che era successo nemmeno venti minuti fa tra Mary e Storm. Lui era evidentemente attratto da lei e la ragazza aveva palesato i suoi sentimenti fin dall’inizio.
«E questo quello che pensi?» disse lui cercando il mio sguardo ma la mia testa era china e non avevo nessuna intenzione di guardarlo. Non risposi lasciando che il silenzio parlasse al mio posto.
«Sei davvero una stupida se pensi che una come Mary possa interessarmi».
A quelle parole sollevai la testa e lo guardai come a dire “A me sembra proprio il tuo tipo, invece”.
«Okay, stare con lei è stato molto divertente. É davvero intraprendente ed instancabile..»
«Non mi interessa» lo interruppi non volendo sapere altro della loro breve relazione, sempre se di quello si potesse parlare, la mia immaginazione bastava ed avanzava.
«Gelosa?» disse spingendomi ancora più vicino a lui.
«No» risposi serrando le labbra e acquisendo l’espressione più seria di cui fossi capace.
«A me sembra proprio di si» mi spinse tra le sue gambe e mi imprigionò tra di esse mentre le sue mani iniziarono a vagare sulla mia schiena.
«Storm, no. Lasciami» mi dibattei cercando di sottrarmi dalla sua stretta. Lui non mi prese nemmeno in considerazione e in un attimo mi ritrovai le sue labbra sulle mie ma mi scostai immediatamente tirando indietro la testa.
«Non ho intenzione di farmi usare da te. Quello di ieri sera è stato solo uno sbaglio» dissi e nei suoi occhi lessi una scia di dolore che scomparse immediatamente.
«Ci useremo a vicenda» rispose tentando di avvicinarsi nuovamente ma io lo bloccai portando le mani sul suo petto. «Che stai dicendo?»
«Guarda che ti ho vista stamattina con Jaxon» disse e un ghigno di repulsione gli comparse sul viso. «É chiaro come il sole che vorresti essere ripassata per bene da quell’hippie da strapazzo» concluse in tono sprezzante e quell’allusione mi ferì in un modo che mi sconvolse.
«Storm, levati» ordinai in tono risoluto sentendomi offesa da quella sua uscita. Lui non rispose e tenne salda la presa su di me.
«Arriveremo tardi» dissi cambiando argomento e desiderando solo di allontanarmi il più possibile da lui.
«Gli ospiti d’onore si fanno aspettare» sorrise leggermente a quella sua frase che io non trovai affatto spiritosa. Con uno sbuffo lui mi lasciò andare e immediatamente mi tirai indietro e mi passai le dita tra i capelli legati scombinando la coda. Feci il giro del quattroruote per prendere il casco ma ad un certo punto una mano calda mi afferrò prepotentemente l’avambraccio e mi voltò con forza. Non riuscii nemmeno ad imprecare che mi ritrovai i denti di Storm affondare nel mio labbro inferiore e la sua bocca reclamare la mia con prepotenza.
Mi dibattei nel tentativo di allontanarlo ma ben presto mi sciolsi in un brivido rinunciando ad ogni forma di rigidità e quando prese ad esplorarmi accuratamente la bocca istintivamente portai le mie mani tra i suoi capelli ricambiando a mia volta.
Quando Storm si staccò da me per riprendere fiato, lo tirai verso di me premendo le mie mani contro la sua testa e lui ridacchiando fu ben felice di riprendere da dove aveva lasciato. Mi godetti quel momento pensando soltanto che quello sarebbe stato il nostro ultimo bacio, la prima e l’ultima volta che avrei passato le mie piccole mani tra i suoi capelli morbidi e ben presto i miei polmoni non sarebbero stati pieni del suo profumo.
I suoi gesti si fecero più frettolosi e quasi disperati. In un attimo sentii ricadere su di noi il velo della passione accompagnata dalla rabbia che entrambi sfogammo. Il fastidio che avevamo provato stamattina vedendoci uno con Mary e l’altro con Jax furono liberati dalle nostre mani e dalle labbra che avide si divoravano. Non sapevo nemmeno io come eravamo giunti a quel punto ma sapevo che in quel momento stavo dannatamente bene. Il fiato ci mancò contemporaneamente e, fronte conto fronte, aspirammo avidamente l’aria fresca che ci circondava.
«Ti sei davvero pentita di ieri sera?» il respiro caldo e irregolare di Storm mi colpì il volto e arrossii al ricordo della sera prima e di poco fa.
Presa dal momento e non tanto sicura di fare la scelta giusta risposi con sincerità
«No»
Un sorriso spuntò sulle labbra di Storm che mi presa per mano e mi trascinò dietro di lui passandomi il casco. Ci rimettemmo nella stessa posizione di poco prima ma questa volta, invece della rabbia che ci teneva distanti, tra noi aleggiava un velo di tristezza dovuta alla consapevolezza.
Quello era l’ultimo giorno, l’ultima volta.

 


**
Quando Storm spense definitivamente il motore del Quad il tempo si fermò. La scena che mi ritrovai davanti agli occhi era degna di un film della Warner Bros.
Il deserto che ci circondava era interamente fatto da sabbiolina rossa che aleggiava nell’aria come granelli di polvere. Quel territorio pieno di canyon era sicuramente inadatto alle vetture della polizia che si stagliavano in cinque file la dieci auto dalla parte opposta alla nostra. Sul fianco di ogni auto c’era un agente di polizia in divisa e col giubbotto antiproiettile allacciato sul petto.
Capivo perché Storm aveva scelto quel luogo e perché aveva utilizzato il Quad per raggiungerlo. Era un passo davanti a loro.
Il ronzio delle eliche di un elicottero torreggiavano in quel silenzio tombale.
I miei occhi erano fissi sulla parte opposta e stavo osservando il furgone blu della polizia che si usava per spostare i detenuti da un carcere all’altro. Lì dentro doveva esserci Jack e con la coda dell’occhio vidi che Storm guardare dalla mia stessa parte.
Davanti alle auto c’era mio padre anche lui con indosso in giubbotto antiproiettile e appena io e Storm scendemmo dal quattroruote i poliziotti si armarono e mio padre diedi ordine di non sparare.
Le braccia di Storm mi avvolsero in una stretta salda e prepotente.
«Che le danze abbiano inizio» disse ma dubitai che mio padre lo avesse sentito. Lui non aveva parlato a bassa voce ma la distanza era troppa affinché le sue parole arrivassero all’orecchio di mio padre.
Storm mi strattonò affinché mi muovessi insieme a lui che si stava incamminando verso mio padre. A metà strada sentii qualcosa premermi contro il fianco, abbassai gli occhi e vidi la canna di una pistola. Col terrore negli occhi guardai Storm e incrociai i suoi occhi freddi e severi. Erano così diversi da prima che ardevano di passione durante il nostro bacio. Dopo quello che era successo tutta quella situazione era ancora più surreale.
«Mi dispiace, ma fa parte del gioco» Storm mi sussurrò piano quelle parole all’orecchio e avvertii la stessa premura che avevo sentito la notte prima.
Mi rilassai leggermente assecondando i suoi movimenti ma sentendomi ad ogni modo intimorita da quella pistola puntata sul mio fianco. Mio padre si diresse verso di noi con le mani libere e la pistola ancora nel suo foderino. Appena fu abbastanza vicino da poterlo vedere bene in viso i miei occhi si riempirono di lacrime. Mio padre mi era mancato tantissimo e desideravo più di ogni altra cosa gettarmi tra le sue braccia. Feci per allungare le mani ma Storm mi blocco. «Non ti muovere» ringhiò lui tornando ad essere il criminale senza sentimenti che era sempre stato fino a pochi giorni prima.
«E lo stesso vale per te» disse indicando mio padre e guardandolo con occhi furenti.
Mio padre rimase fermo a circa dieci metri di distanza. Le auto della polizia distavano molto di più e noi tre ci trovavamo nel mezzo di quel deserto.
«Bambina mia..» disse mio padre guardando verso di me e scrutandomi per vedere in che condizioni fossi. Quando vide che ero tutta intera sembrò tranquillizzarsi.
«Dov’è Jack?» chiese Storm mettendo fine a quello scambio di sguardi tra me e mio padre e facendo gelare a tutti il sangue nelle vene. Il cuore mi batteva all’impazzata e ancora non riuscivo a credere di trovarmi veramente in quella situazione.
«É qui» disse mio padre ma colsi una nota di nervosismo in lui. Quando era nervoso la vena che aveva sulla fronte pulsava e in quel momento non era mai stava più evidente di così.
«Voglio vederlo» rispose Storm e io capii che la trattativa stava iniziando. La presa di lui sui miei fianchi aumentò e sussultai visibilmente. Se ne accorse anche mio padre.
«Lascia andare Abby e noi ti daremo ciò che vuoi» ribatté mio padre fissando il ragazzo al mio fianco dritto negli occhi. «Non sei tu che detti le regole, giudice» quell’ultima parola la gettò via sputandola come se fosse la feccia delle fecce. «Fa’ venire Abby dalla mia parte e noi lasceremo libero Tyrell» ripeté mio padre senza smuoversi di un millimetro. Storm si innervosì e riuscivo quasi a sentire le rotelle del suo cervello girare e pensare.
«Fatemi vedere Jack» replicò Storm risolutivo in tono che non ammetteva repliche.
Mio padre sembrò pensarci un attimo ma quando capì di non avere altre alternative diede l’ordine. «Fatelo uscire».
Vidi degli uomini della polizia aprire lo sportello del furgone e un uomo incappucciato di nero ne uscì scortato da tre agenti in divisa. Mio padre sembrava nervoso, come se avesse il timore che qualcosa andasse storto mentre Storm storceva in naso come se sentisse puzza di bruciato.
«Voglio vederlo in volto» disse ma non accadde nulla. Nessuno si mosse e l’uomo incappucciato rimase fermo come una statua e non tentò nemmeno di dibattersi.
«Ditemi dove cazzo è Jack Tyrell» sbraitò Storm furioso agitando la pistola sul mio corpo e ad ogni gesto il terrore sembrava paralizzarmi sempre di più. A pochi passi da me avevo mio padre ma la salvezza non era mai sembrata più lontana.
«É appena sceso dal furgone» replicò mio padre guardando la pistola puntata su di me mentre la vena pulsava sempre più forte.
«Stai offendendo la mia intelligenza se credi davvero che io ci caschi» ribatté Storm «Quello non è Jack Tyrell»
Quelle parole caddero su di me come macigni mentre le prime lacrime iniziavano a colarmi lungo le guance. Guardai mio padre e il peso del tradimento mi colpì talmente forte che le gambe mi cedettero. Storm mi strinse ancora più forte e trovai quella stretta quasi rassicurante.
«Non è qui» la voce spezzata di mio padre risuonò come un eco nelle mie orecchie e continuò a farlo per non so quanto tempo.
Mio padre aveva rinunciato a me. Non aveva rispettato il patto, anzi aveva tentato di aggirarlo credendo che Storm ci cascasse ma doveva aspettarselo che non ci sarebbe cascato.
«Lascia andare mia figlia e noi lasceremo te in pace» disse mio padre in tono combattivo cercando di giocarsi l’ultima carta.
«Gli accordi non erano questi. La vita di Abby in cambio di quella di Jack altrimenti la testa di tua figlia salta» la mano di Storm si spostò dal mio fianco alla mia testa e sentii la canna della pistola premermi dietro la nuca.
«No» urlò mio padre correndo verso di me ma era già troppo tardi.
Il suono del colpo andato a segno riempì le mie orecchie e le mie palpebre si chiusero per riflesso. Storm aveva rispettato la sua parola, mio padre no, aveva preferito il suo lavoro alla mia vita.



 

Note
Allora giovani lettrici, vi aspettavate una cosa del genere? Su, ditemi un po’ cosa pensate di questo finale. Ma non preoccupatevi, la storia non finisce certo qui. Vi lascio con le mie solite domandine.
Cosa ne pensate dello Storm’s Pov? E quel secondo bacio velo aspettavate? E secondo voi Abby è davvero morta per mano di Storm o è successo qualcos’altro. Credo che d’ora in poi i capitoli saranno un po’ più lunghetti del solito e spero non dispiaccia a nessuno. Come sempre vi invito a lasciarmi una recensione. Mi sarebbe davvero piacere leggere i vostri pareri che invogliano. Su su, andate a recensire che io sono curiosa di sapere i vostri pareri.
Non mi dilungo anche perché non saprei cos’altro dirvi se non GRAZIE.
Un bacio a tutte e alla prossima
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Tutta la verità ***


 

Banner fatto da me con PhotoshopCC



XXIII
Tutta la verità


 


Abigail's point of view

«No» urlò mio padre correndo verso di me ma era già troppo tardi. Il suono del colpo andato a segno riempì le mie orecchie e le mie palpebre si chiusero per riflesso. Storm aveva rispettato la sua parola, mio padre no, aveva preferito il suo lavoro alla mia vita.


L’urlo si protrasse in un gemito di dolore seguito da un sonoro tonfo. Spalancai gli occhi per la sorpresa e vidi una pozza di sangue nella quale giaceva mio padre. Storm aveva deviato il colpo ruotando la canna e il proiettile si era andato a conficcare nella gamba di mio padre.
Lui urlò di dolore e il mio primo istinto fu quello di andargli incontro e inginocchiarmi al suo fianco. Volevo chiedergli perché aveva fatto una cosa del genere, come aveva potuto mettere qualcosa davanti all’amore che provava per me? «Perché?» sussurrai ma quel suono non fu udibile nemmeno alle mie orecchie.
Mi resi conto di essermi accasciata a terra solo quando Storm mi prese tra le braccia e mi portò via.
«Lasciami!» urlai e mi dibattei ma lui continuava la sua corsa verso il Quad mentre in quella riserva di canyon si scatenava il panico. I poliziotti iniziarono a sparare ma qualcuno diede ordine di non fare fuoco, c’era il rischio di colpire me.
Vidi una decina di agenti intorno a mio padre mentre gli altri salirono sulle loro volanti e partivano al nostro inseguimento, ma distavano troppo e il terreno era troppo frastagliato affinché ci raggiungessero in tempo. Le ruote delle vetture della polizia non erano fatte per quel terreno e non avrebbero mai retto l’alta velocità.
«Si riprenderà» disse Storm mentre mi caricava sul Quad e da lontano vidi mio padre alzarsi aiutato da due agenti. Anche a quella distanza percepivo le sue labbra muoversi in ordini severi e sentivo i suoi occhi su di me.
Storm girò la chiave nel quadro e il mezzo partì immediatamente come un fulmine e insieme sfrecciamo il più possibile lontano da quella riserva.
Una volta allievatasi la preoccupazione per la salute di mio padre un senso di tradimento mi invase sporcandomi l’anima. Non avevo mai dubitato di mio padre, sapevo che la liberazione di un criminale avrebbe avuto serie conseguenze ma pensavo che il suo amore fosse superiore. Il mio lo era. Avrei dato tutto quello che possedevo pur di salvare la mia famiglia e le persone che amavo. Mi chiesi se anche Storm avesse fatto lo stesso ragionamento e fosse stato tanto disperato da arrivare a rapire una ragazza pur di salvare le persone amate.
Un brusca sterzata mi fece perdere l’equilibrio e caddi su un lato rimanendo aggrappata al quattroruote solo con la gamba. A fatica mi raddrizzai facendo forza con le braccia appoggiandomi alla schiena di Storm. Dopo essermi messa composta voltai la testa per vedere cosa stesse succedendo alle mie spalle e vidi che una trentina di volanti ci stavano inseguendo e mi domandai se da quel momento fossi diventata anch’io una fuggiasca. Volendo avrei potuto scappare ma il fatto era proprio quello. Io volevo stare con Storm, il tradimento di mio padre mi aveva ferita talmente tanto che quel desiderio si era solo rafforzato.
Quel pensiero mi invase come un fiume in piena e mi sentii destabilizzata. Mi strinsi più forte al corpo di Storm nel tentativo di rendere più salda la mia presa ed evitare al mio corpo di sollevarsi ogni volta che incappavamo in una fossa. Storm non parlò finché non riuscimmo a seminare la polizia e ci volle davvero molto tempo. Noi eravamo in vantaggio di diversi metri ma qualche volante, guidate da poliziotti più spericolati, era riuscita ad avvicinarsi diverse volta ma Storm le sbatteva fuori strada con potenti fiancate, brusche sterzate e improvvise frenate che erano in grado di riprodurre un incedente degno di un autoscontro. Più volte trattenni il fiato dubitando che ne saremmo usciti illesi e i problemi iniziarono a nascere quando i poliziotti cacciarono le armi e iniziarono a puntare alle ruote dal Quad. Quelle quattro gomme erano enormi e ci voleva più di un proiettile per metterle fuori gioco e colpirle non era facile. Ci voleva buona mira e un po’ di fortuna visto che Storm aveva preso a fare lo slalom per evitare i proiettili.
Quando rimasero solo poche vetture percepii un'ondata di sollievo colpirmi. Ce l'avevamo quasi fatta. Poi vidi un proiettile sfiorare lo pneumatico e temetti che lo avesse colpito. La gomma sembrava ancora intatta e tirai un sospiro di gioia.
Eravamo usciti da quella zona sabbiosa e ci stavamo dirigendo su quella che sembrava una statale. Tre volanti ci stavano ancora alle calcagna e mi stupii di non vedere nessun elicottero volare sulle nostre teste. L’unico che avevo visto quando eravamo arrivati probabilmente era stato usato per portare mio padre all’ospedale. Tutto il casino che era successo era solo colpa sua e del suo stupido bluff.
Storm si immise sulla statale che era semi deserta. Sull’asfalto non avevamo alcun tipo di vantaggio anzi il Quad sembrò dimuire di velocità.
«Cosa facciamo?» chiesi stringendomi al suo petto e serrando la presa. Non avevo paura di cadere ma temevo per quello che sarebbe potuto succedere.
«Dobbiamo cercare di superare il confine. Lì non hanno più giurisdizione, non hanno potere» disse e la sua voce mi arrivò attutita dal suono del vento.
«Va’ più veloce» replicai guardandomi alle spalle e vedendo che le tre macchine bianche con la sirena accesa si stavano avvicinando sempre di più. Strom superò un paio di macchine civili e un camion. Il sole si era alzato in cielo e non riuscivo a vedere d’avanti a me a causa dei raggi di luce.
«Più veloce di così non posso andare» ribatté e il panico mi montò nel cuore. Da lontano riuscii ad intravedere in cartello che segnava la fine degli Stati Uniti. Un’auto della polizia ci affiancò e un gridolino mi scappò dalle labbra, ma Storm non si lasciò sorprendere e sterzò bruscamente nel tentativo di mettere fuori gioco l’auto che girò su se stessa per poi uscire fuori strada.
Una seconda vetture della polizia si parò davanti a noi sfruttando il rallentamento causato dalla prima macchina e la terza si piazzò alla nostra destra. Ci volevano braccare ma Storm sterzò a sinistra superando l’auto di fronte a noi per poi scontrarsi contro la fiancata. Lo sportello si piegò sotto il pero del Quad e si fermò in mezzo alla strada creando una fila di auto civili alle nostre spalle. Tirai un sospiro di sollievo dimenticandomi completamente della terza auto. Ormai eravamo arrivati al confine, mancavano solo pochissimi metri.
La terza volante si accostò al quattroruote e la mia gamba destra strusciò contro la lamiera dell’auto. Rilasciai un secondo urlo, questa volta di dolore. La pelle mi bruciava da matti. Provai a ritirare la gamba ma l’auto era talmente vicina che l'arto era rimasto incastrato. Storm se ne accorse e abbassò il braccio destro e mi toccò la gamba provando a sfilarla mentre con l’altra guidava il quattroruote e provava ad allontanarsi dalla macchina. Quando il poliziotto alla guida si allontanò di qualche metro lui si voltò per lanciarmi un occhiata e non vide il braccio teso del poliziotto che spuntava dal finestrino con in pugno una pistola.
Sparò colpendo il braccio di Storm proprio quando il Quad superò la linea divisoria dei due stati. La macchina si fermò mentre il quattroruote continuava la sua corsa.
Il mezzo sbandò e Storm perse la presa sul manubrio. Il braccio sinistro tremava e la maglia era piena di sangue all’altezza dell’avambraccio.
«Storm..». Il suo nome scivolò via dalle mie labbra in quella che non sapevo nemmeno io cosa fosse. Forse era un lamento, o un modo per avvertirlo. Oppure era stupore o preoccupazione.
Lui accostò a bordo strada e sollevò la manica della shirt. Non avevo mai visto una ferita da arma da fuoco se non in televisione e non sapevo cosa aspettarmi. Il braccio sembrava intatto anche se del sangue scuro usciva copioso da un piccolo forellino. Storm emise un gemito sofferente e immediatamente scesi dal Quad. Gli presi il braccio tra le mani e lo strinsi credendo di alleviare il suo dolore ma lui ritirò il braccio.
«Ma sei matta?» mi inveì «Mi fai male»
«Scusa credevo di aiutarti» mi giustificai risentendomi delle mie stesse azioni.
«Dobbiamo raggiungere un mio amico, lui ci aiuterà a mettere in atto il piano B» disse Storm stringendo i denti cercando di nascondere il dolore. Con la faccia bianca iniziò a tastarsi il braccio e premette con due dita all’estremità del foro dal quale uscì ancora più sangue. «Ma io non posso guidare» continuò lanciandomi un’occhiata.
«Non ci pensare. Non ho nemmeno mai preso la patente» alzai le mani davanti al volto come a volermi difendere dall’idea che sapevo fosse nata nella sua mente.
«E invece si, devi farlo» mi guardò con quei suoi occhioni azzurri velati dal dolore e le mie labbra si serrarono impedendomi di parlare. Inghiottii sentendomi in difficoltà. «Non so come fare» protestai flebilmente.
«È facile. Ti guiderò io» ribatté e io non potei far altro che annuire.
«Come va il braccio?» dissi lanciando un’occhiata alla ferita.
«Il proiettile mi ha sfiorato e non ha perforato l'intero braccio, ma se mi stai chiedendo se mi fa male allora la risposta è si. Il braccio si sta intorpidendo e sento un formicolio alle dita» parlò d’un fiato ed ogni sua parola non faceva altro che aumentare la mia angoscia.
«Non possiamo rimanere qui» disse prima che io salissi sul quattroruote.
Mi sedetti davanti a lui e mi sentii più impacciata che mai. Le mie braccia erano esile e non trasmettevano fiducia, non come facevano quelle possenti di Storm. Strinsi il manubrio cercando di attirare in me ogni cellula di coraggio che mi era rimasta.
Il Quad era elettrico, quindi non dovetti far altro che metterlo in moto e girare la manopola che mi indicò Storm. All’inizio sbandai diverse volte e facevo frenate improvvise ma una mezz’oretta dopo le cose migliorarono. Storm mi indicò la strada, percorremmo tutta la stradale per poi immetterci in una piccola stradina di campagna. A mano a mano che proseguivamo le case erano meno frequenti fino ed estinguersi completamente. Percepivo la testa di Storm appoggiata alla mia schiena tesa e ogni tanto lo sentivo lamentarsi.
Il viso diventava sempre più cianotico, stava perdendo troppo sangue, la maglia ne era piena e dalla ferita sembrava uscirne sempre di più. Ero preoccupata. Ero in ansia per lui e per mio padre. Davanti agli occhi mi passò come un flash il sogno che avevo fatto qualche sera prima e sperai che non si avverasse.
Dieci minuti dopo Storm mi fece segno di fermarmi davanti ad una piccola casa che spuntava nel bel mezzo del nulla. Fermai il quattroruote proprio davanti gli scalini d’ingresso e aiutai Storm a scendere dal mezzo e a salire gli scalini. Era visibilmente debole e non rifiutò nemmeno il mio aiuto.
Bussai alla porta con cento domande nella mante ma curandomi bene dall’esporle. Storm era l’unico che aveva tutte le risposte ma quello non era il momento adatto per fare domande.
Una ragazza bassina con lunghe trecce castane ci aprì la porta. Appena vide Storm il suo sorriso si spense ed emise un lamento. «Oh, no»
Storm tossicchiò. «Cassy, devo parlare con Rick. Lui deve aiutarci» disse mentre la moretta bassina si portava al suo fianco e mi aiutava a portarlo dentro.
Lo stendemmo sul divano e in quel momento un uomo sui venticinque anni varcò la porta del salotto. Era molto altro, muscoloso e aveva il giusto numero di tatuaggi per incutere timore. Cassy, così Storm aveva chiamato la ragazza, mi fece sedere sulla sedia e mi chiese cosa fosse accaduto. Io le raccontai dell’inseguimento e del poliziotto che aveva sparato a Storm e mentre io parlavo il ragazzo, che sospettai fosse Rick, aveva preso ad analizzare la ferita.
«Non è grave ma servono dei punti» esordì un paio di minuti dopo. «Cassy prendi degli antidolorifici, ago e filo. Rimettiamo in sesto questo giovanotto» continuò guardando Storm con un certo affetto. Dovevano essere amici e mi chiesi come facessero a conoscersi. Quelle erano le terze persone amiche di Storm che conoscevano e sembravano tutti volergli bene. Inutile dire che Cheikh stravedeva per lui e la cosa sembrava reciproca, poi il gruppo di hippie e adesso quei due giovani gli erano corsi in aiuto senza volere spiegazioni.
Stesero Storm sul tavolo da cucina e gli ricucirono il braccio, il rimasi in soggiorno, non avevo il coraggio di vedere cosa stesse accadendo nella stanza accanto. Sentii un paio di urla soffocate e poi niente più. Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai a pregare che si riprendesse in fretta. Che tutti e due, lui e mio padre, si rimettessero in sesto.

Non vidi Storm fino al pomeriggio. Lo avevamo portato nella camera da letto di Cassy e Rick e lui si era addormentato immediatamente. Per ricucirgli il braccio gli avevano torlo la maglietta e probabilmente lo avevano anche lavato visto che non aveva tracce di sangue addosso.
Quella mattina avevo sonnecchiato anch’io ma il mio riposo non fu per nulla rilassato e tonificante. Verso le quattro del pomeriggio mi diressi verso la camera in cui c’era Storm e lentamente aprii la porta. Lui era sveglio e sembrava impegnato in una fitta discussione con Rick ma entrambi si bloccarono nel momento in cui entrai.
«Credo che sia meglio se vi lascio soli» disse Rick uscendo dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle.
Storm si era sollevato e teneva la schiena appoggiata alla spalliera del letto. Era a petto nudo con le lenzuola bianche arrotolate fino ai fianchi. Tutto l’avambraccio era stato fasciato con delle bende e coperto dalla garza.
Mi sedetti sul lato opposto del letto matrimoniale guardando direttamente il suo braccio ed evitanto i suoi occhi.
«Come ti senti?» chiesi titubante.
«Bene» rispose atono ma dopo una mia occhiataccia riprese. «Starò bene» il resto di quella frase non mi piaceva. Significava che in quel momento non lo era e l’apprensione aumentava a dismisura. Mi costrinsi ad alzarmi per distrarmi e presi a camminare avanti e indietro.
«Non credi che dovremmo parlare?» domandai portandomi le braccia al petto.
«A proposito di cosa?» rispose a sua volta con una domanda posta in tono scettico.
«Non saprei..» iniziai portandomi l’indice al mento e accarezzandolo in una tipica posa pensierosa. «forse di quello che è successo oggi?» continua con una domanda retorica.
«Sai benissimo cos’è successo» rispose lui sistemandosi meglio sui cuscini.
«No, Storm non lo so cos’è successo oggi» iniziai dando sfogo alla rabbia che mi ero tenuta dentro fin dall’inizio. «Non so perché tu ci tieni tanto a liberare tuo fratello e non so perché siamo qua e chi sono questi due» parlai indicando la stanza intorno a noi. La mia voce si era alzata di un’ottava e temetti che Cassy e Rick mi avessero sentita.
«Fanno parte del piano B» disse lui sorridendo in modo sghembo.
«Ed ecco un’altra cosa che non so» continuai stufa di quella situazione. «Voglio delle risposte Storm» mi piegai poggiando le mani sul letto e guardandolo fisso negli occhi.
«Vuoi fare un altro patto?» domandò sorridendomi in modo furbo che mi diede ai nervi.
«Non sto scherzando» replicai.
Lui sollevò gli occhi al cielo per poi indicare una sedia accostata allo scrittoio. «Siediti»
«Preferirei restare in piedi» dissi e presi a camminare.
«Se vuoi delle risposte, siediti» continuò senza demordere e mi trovai costretta a fare come voleva. Portai la sedia vicino al letto e mi sedetti.
«Da dove vuoi cominciare?» chiese voltando la testa per guardarmi.
«Dimmi del piano di riserva» parlai automaticamente senza riflettere più di tanto.
«Voglio liberare Jack, tra tre giorni verrà condannato» si fermò a causa di un colpo di tosse e poi riprese. «È stato condannato a morte. Gli tocca la sedia elettrica e io non posso permettere che questo accada»
«Perché Storm? È questo quello che non riesco a capire» mi passai le dita tra i capelli in un chiaro segno di frustrazione. Lui non rispose e distolse lo sguardo. Non sapevo cosa fare, volevo delle risposte ma lui non sembrava intenzionato ad accontentarmi. Mi portai la guancia alle ginocchia e sbuffai sonoramente. Poi mi alzai e mi andai a sedere sul letto vicino a lui.
«Perché?» ripetei in tono più calmo, quasi dolce.
Lui scosse la testa come a voler impedire a se stesso di rivelare la verità.
«Perché lui è mio fratello» disse velocemente e io temetti di non aver capito bene.
«Non ti credo. Ha ucciso sua moglie Storm, non è una brava persona»
A quella frase i suoi occhi si incendiarono. «Tu non sai un cazzo di niente. Jack avrà anche ucciso sua moglie ma aveva i suoi motivi» mi ringhiò in faccia più infuriato che mai.
«E quali sarebbero queste buone ragioni per togliere la vita ad un essere umano?» domandai in tono teatrale e sembrava che stesse per rivelarmi il grande mistero della vita.
I suoi occhi erano saette in grado di fulminare con una sola occhiata. «Per proteggere Lizzie» disse guardandomi negli occhi e al suono di quel nome persi un battito.
Lizzie e Rute, le due donne di cui Storm si preoccupava tanto. «Lizzie è l’ottima ragione»
«Chi è Lizzie, Storm?» sentivo che su quella domanda gravava un peso enorme, la sua risposta avrebbe cambiato tutto definitivamente. Lui mi puntò i suoi occhi nei miei e la loro ferocia mi fece perdere l’equilibrio. Temetti che non mi rispondesse ma anche quella volta mi stupì.
«Lizze è sua figlia» disse lentamente assicurandosi che comprendessi ogni singola parola. «È mia nipote»
Non so quanti battiti perse il mio cuore, ma erano parecchi. Rimasi ammutolita per diversi secondi continuando ad aprire e chiudere la bocca senza riuscire a dire nulla.
«È una b-bambina» balbettai poco cosciente delle mie parole. «Jack ha ucciso la madre di sua figlia». Trassi quella conclusione che Storm confermò con un cenno del capo.
Era orribile, come aveva potuto privare sua figlia di una madre?
«È un mostro. Come ha potuto?» domandai furiosa. Se avessi avuto suo fratello davanti a me avrei provveduto personalmente ad ucciderlo.
«No, non lo è» Storm difese Jack senza ritegno.
«Come?» chiesi non essendo sicura di aver sentito bene e augurandomi di aver capito male.
«Tu non sai cos’è successo quella sera» ribadì lui voltando la testa e perdendosi in un mare di ricordi e dolore.
«Dimmelo allora» lo incitai.
«No» fu categorico e nonostante dovessi ingoiare un osso bello grosso lo feci sapendo quanto quella chiacchierata gli stesse costando cara.
«Chi è Rute?» chiesi dopo diversi minuti di silenzio.
«È la cognata di Jack, la sorella di Penny. Ora è lei che si occupa di Liz» rispose lui senza nemmeno guardarmi negli occhi. Conficcò i pugni nei cuscini e fece per alzarsi ma le braccia non lo sostennero.
«Devi riposarti» dissi mentre lo spintonavo sul letto ancora incredula da quella rivelazione. Le mie parole potevano sembrare dolci ma il mio tono non lo era affatto. Ero troppo sconvolta per poter essere dolce nei suoi confronti.
Rute e la moglie di Jack erano sorelle. Come poteva Rute rimanere in contatto con Storm che tentava di liberare l’assassino di sua sorella?
Mi domandai cosa fosse veramente successo la notte in cui Jack aveva ucciso la sua coniuge. Il gomitolo di misteri era ancora fitto ma qualche nodo stava iniziando a sciogliersi. Mi avvicinai al comodino e presi un bicchiere d’acqua che diedi a Storm. Lui non ringraziò nemmeno ma buttò giù il liquido immediatamente.
«Adesso cosa hai intenzione di fare?» domandai posando il bicchiere sul comodino. Il rumore del vetro contro il legno risuonò in quella stanza silenziosa e l’eco sembrava riprodursi all’infinito. E infinito fu il tempo che impiegò Storm a rispondere.
«Andiamo nell’Idaho. Torniamo a casa, Abby»


Note
Allora cosa ve ne pare di questo capitolo? Spero che non lo troviate un’immensa cavolata.
Mi sono impegnata e ho cercato di far coincidere ogni pezzo della storia. Il puzzle non è ancora completo ma lo sarà ben presto. Come sempre ci tengo a sapere ogni vostro parere ed emozione. Qualcuno aveva individuato l’identità di Lizzie, ma spero che avrete trovato questo capitolo comunque rivelatore.
Adesso non vi resta altro che recensire. Su su, voglio sentirvi in parecchi che qui sembra che state diminuendo.
In questi ultimi giorni di luglio cercherò di aggiornare sempre (altri due giorni rimangono) visto che nel mese di agosto non so quanto spesso potrò aggiornare.
Spero di non avervi deluso e alla prossima.
Bacioni
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Brillanti celesti ***



Banner fatto da me con PhotoshopCC



XXIV
Brillanti celesti



Abigail's point of view

La sera Storm uscì dalla camera e venne in salotto tenendosi il braccio stretto con l'altra mano. Sembra lo stesso ragazzo di sempre ma il suo volto era affaticato anche se lui cercava di tenere un ghigno stampato sul volto come se nessun proiettile lo avesse colpito quella mattina.
Io ero rimasta per il resto del pomeriggio nel soggiorno. Cassy aveva cercato di mettermi a mio agio anche se non ci era riuscita. Lei era davvero una ragazza simpatica e alla mano. Sembrava la migliore amica ideale: gentile e sempre a disposizione. Rick, il fidanzato, non era fatto della stessa pasta. Era freddo e mi guardava con occhi critici, sembrava quasi di rivedere Storm i primi giorni. Quando il ragazzo che aveva condiviso con me tutti i giorni di quella settimana entrò nella stanza mi sentii sollevata e un po' più rilassata. Avevo avvertito la stessa sensazione di quando tornavo a casa dopo scuola: sicurezza.
Il mio cuore prese a mettere più forte nel momento in cui presi coscienza che i miei sentimenti per Storm erano totalmente cambiati, non lo detestavo e quando vedevo il suo viso non mi veniva da vomitare per il terrore. Una parte di me lo odiava profondamente ma era quell'odio che sfociava nel desiderio di picchiarlo pesantemente e poi baciare ogni singola ferita. Mi passai la lingua sulle labbra nella ricerca disperata del suo sapore ma le sentii solo screpolate e appiccicose.
Storm si avvicinò al divano e si sedette al fianco di Rick. Io e Cassy eravamo il cucina ma dalla finestra a muro che dava sul salotto riuscivo a vedere e sentire ogni cosa. Anche Cassy notò l'ingresso di Storm e mi si avvicinò asciugandosi le mani con un canovaccio.
«Andiamo di là» disse con la sua tenera voce e mosse la testa in direzione dei due ragazzi.
«Forse vogliono parlare da soli» provai a ribattere sperando di convincerla a restare in cucina. A restare nascoste in cucina.
Lei scosse le capo. «No, hanno già parlato prima da soli. Andiamo» mi incoraggiò accarezzandomi la schiena e spingendomi verso il soggiorno.
Non avevo ancora digerito tutte le notizie che avevo appreso e mi sembrava di avere le idee ancora più incasinate di prima. Se ieri desideravo ardentemente sapere chi fosse Lizzie e la vera ragione per cui Storm aveva messo in scena tutto quel teatrino, adesso volevo sapere quello che era successo la fatidica notte, quella in cui Jack aveva ucciso Penny, sua moglie nonché la madre di Lizzie. Ma sapevo che quel giorno, come quello dopo, non avrei ricevuto informazione. Storm non mi avrebbe detto più nulla e io non ci avrei provato. Sarebbe arrivato il momento giusto anche per quello. Adesso premeva sapere il piano di Storm e le sue folli intenzioni.
Andiamo nell'Idaho. Torniamo a casa, Abby.
Quella frase continuava ad aleggiarmi nella testa e il mio sesto senso mi diceva che a breve avrei trovato una spiegazione a quella frase. Non sapevo se temere o attendere con trepidazione quella conversazione che a breve sarebbe avvenuta.


Quando io e Cassy varcammo la soglia del salotto quattro paia di occhi si untarono sulle nostre figure. Cassy si accomodò al fianco di Rick mentre io mi sedetti su l’unica poltrona presente nella sala. Piegai le ginocchia portandomi le gambe al petto e notai che le mani di Cassy e Rick si erano intrecciate. Desiderai avere anch’io al mio fianco una persona che mi amasse e fosse pronta ad affrontare l’intera situazione insieme.
«Cosa succede?» domandò Cassy interrompendo quel silenzio imbarazzante che era calato su di noi.
Rick guardò la ragazza negli occhi e la sua espressione si addolci come il suo tono di voce «Storm ci ha chiesto una mano per liberare suo fratello»
Loran tossicchiò leggermente per attirare l’attenzione su di sé e quando la ottenne cominciò a parlare. «Ho bisogno di tutto l’aiuto possibile per mettere in atto questo piano. Ad Orofino ho degli amici che potrebbero aiutarmi ma mi serve anche il vostro aiuto» parlò guardando i due ragazzi e dandomi le spalle.
Io mi sentivo di troppo in quella conversazione, non c’entravo nulla e non capivo di cosa stessero parlando.
«Cosa dovremmo fare?» chiese Cassy e Rick la guardò male intervenendo prima che Storm potesse rispondere.
«Gli ho detto che non vogliamo averci nulla a che fare»
«Io voglio sapere cosa ha in mente» ribatté la ragazza duramente e mi sembrava quasi impossibile che da un corpicino così piccolo potesse uscire tanta severità.
«Voglio sabotare il piano della polizia. Tra tre giorni Jack sarà solo un ricordo e non posso permetterlo» cominciò fermandosi solo per studiare le nostre espressioni. «In queste ore ho pensato a come mettere in atto il piano e sono arrivato alla conclusione che mi servono parecchi piloti»
Nessuno parlò per diversi minuti. Rick sembrava contrariato, come se non volesse saperne nulla di quella storia ma la ragazza non sembrava del suo stesso parere. Io, dal canto mio, restai in silenzio e in attesa di chiarimenti.
«Come intendi procedere?» domandò Cassy incrociando le mani sotto il mento.
«Come prima cosa devo arrivare nell’Idaho entro le prime luci solari e devo rimettermi in contatto con gli altri» disse e a quel punto non potei evitare di aprire bocca.
«Gli altri?» il cipiglio di confusione era ben evidente sul mio volto. Aspettai che mi rispondesse Storm ma quello che si protrasse in spiegazioni fu Rick contro ogni mia previsione.
«Io e Cassy siamo cresciuti ad Orofino» cominciò e io mi concentrai sulle sue parole consapevole di star per scoprire un altro pezzo del puzzle che mi avrebbe aiutato a sciogliere i nodi di quella matassa di misteri. «Durante una delle nostre corse innocenti da ragazzini abbiamo conosciuto Storm. Col tempo abbiamo messo su il nostro gruppetto. Ci procuravamo denaro sporco con cose illegali»
«È stato divertente finché è durato» commentò Cassy.
«Cos’è successo?» domandai curiosa.
«Abbiamo avuto casini con la polizia ma questa è un’altra storia. Noi abbiamo smesso di fare corse e ognuno ha preso la sua strada» disse Rick indicando Storm con la testa. Qualcuno aveva smesso con le cose illegali mentre altri no. «Tornando al discorso precedente» cominciò Storm interrompendo quella conversazione che mi aveva dato un breve scorcio sulla sua vita «non vi sto chiedendo di fare una corsa o di occuparci delle vecchie faccende, ma di aiutarmi a liberare un criminale».
Il silenzio cadde nella stanza sprofondando in ognuno di noi. «Come vorresti fare?» domandò Cassy e sembrava sempre più interessata al piano.
«Jack è nella galera di Bose, nell’Idaho, e sabato mattina verrà trasferito nello stato di Washington per la condanna. Voglio intercettare la macchina e liberare mio fratello» spiegò Storm mettendo noi tre a conoscenza di quel suo piano che mi ricordava quei film d’azione che facevano in tv. E non andavano mai a finire bene. Non si poteva pretendere di avvicinarsi tanto alla polizia e cavarsela senza danni. Era impensabile ed era un piano ancora più folle dello scambio.
«Ci sto» esordì Cassy stupendo sia me che Rick.
«Cosa?» disse lui.
«Ci sto. Vado con lui e lo aiuto» continuò la ragazza.
«No, tu non vai da nessuna parte» ribatté il fidanzato.
«Pensateci e parlatene fra voi» Storm interruppe quella che era l’inizio di una discussione e tenendosi il braccio si alzò dal divano. «Ora devo trovare il modo più veloce per lasciare Vancouver»
«Per quello possiamo aiutarti noi» disse Cassy alzandosi anche lei dal divano e, dopo aver preso il cellulare dalla tasca dei pantaloni, si avvicinò alla finestra. Dopo una serie di minuti che mi sembrarono infiniti Cassy prese a parlare al telefono.
«Ralph, ho bisogno che prepari uno dei tuoi elicotteri» disse semplicemente e dopo aver sentito la sua risposta lo salutò ad attaccò.
«Chi è Ralph?» domandò Storm e per la prima volta sembrava non capire cosa stesse succedendo.
«Ralph è un amico fidato e..» cominciò Rick guardando la sua ragazza «..discreto»
«Esatto» confermò lei «E vi porterà il prima possibile nell’Idaho»
«E quando sarebbe il prima possibile?» domandò Storm.
«Anche tra un paio d’ore» rispose sorridente.


Erano le dieci di sera quando Cassy e Rick lasciarono me e Storm sulla pista di atterraggio per elicotteri. I due avevano promesso che avrebbero pensato a cosa fare. Cassy era ben agguerrita e ben sicura di poter convincere il suo fidanzato. Lentamente stavo assimilando tutte le informazioni e il piano di Storm stava prendendo forma nella mia testa. Solo una cosa in tutta quella storia non mi era ancora chiara: che ruolo avevo io? Ormai non servivo più, lo scambio non era stato fatto. Storm poteva benissimo uccidermi o abbandonarmi in uno di quei campi desolati ma non aveva fatto né l’uno né l’altro.
Storm mi toccò un braccio ridestandomi dai miei pensieri. Di fronte a noi c’era un uomo sulla quarantina con una gran brutta faccia. Sembrava il cattivo delle storie con tanto bi barba lunga.
«Devi essere Ralph» esordì Storm con la mano ancora sul mio braccio. Non sapevo perché la tenesse ancora lì ma io non avevo intenzione di ribellarmi. Mi faceva sentire al sicuro e protetta. La sua stretta aveva lo stesso effetto di un abbraccio. «Si» asserì l’uomo. «Se salite partiamo subito»
Sembrava un uomo di poche parole a cui non piacevano i chiacchieroni. Quando Ralph salì sull’elicottero al posto del pilota, Strom fece per salire a sua volta ma io lo bloccai.
«Storm?» lo chiamai con foce insicura dando un tono interrogativo al suo nome.
«Cosa c’è?» non era stato sgarbato ma il suo tono era frettoloso. Fremeva di salire e volare via il prima possibile.
Presi un grande respiro e lo rilasciai svuotando i miei polmoni e gettando fuori le mie parole «Che ci faccio io qui? Perché devo venire con te?» lo guardai negli occhi e lui fece lo stesso restando in silenzio. «Non ha senso e lo sai anche tu»
Lui rimase immobile, sentii le sue irridi azzurre sciogliersi nelle mie e una bolla magica ci avvolse come era già successo al lago. Lentamente le sue mani si avvicinarono al mio volto che prese tra le mani. Credetti che stesse per baciarmi ma non lo fece. Mi guardò come a voler trasmettermi tutte le sue emozioni e mi sentii destabilizzata dalle forti sensazioni. Mi sentivo persa nel mare più bello senza sostegni. Ero immersa in acque magnifiche ma rimanevo sempre sola e senza appoggi.
«Io ti voglio con me» disse piano insinuando i suoi occhi sempre più a fondo dopo ogni parola. Rimasi in silenzio stordita dalle troppe emozioni e incapace di proferire parole. Lui si staccò da me distruggendo la nostra bolla, mi prese per mano e insieme salimmo sull’elicottero che ci avrebbe portato nell’Idaho.
Non sapevo quello che ci avrebbe riservato il futuro. Non sapevo come stava mio padre e cosa avrebbe fatto. Probabilmente la polizia avrebbe provato a rintracciarci e temetti per Storm, non volevo gli accadesse nulla. I miei sentimenti per lui erano totalmente cambiati e la potenza di quelli nuovi era talmente tanto forte che mi spaventava. In una settimana, in soli sette giorni, il ragazzo che in quel momento mi stava stringendo la mano senza intrecciare le dita aveva rivoluzionato la mia vita ma non sapevo nemmeno io se in bene o in male. Sapevo solo che al suo fianco mi sentivo al sicuro, forse in un modo contorto e anormale ma mi sentivo protetta con non lo ero mai stata circondata dalle forze dell’ordine. Non avevo idea di dove ci avrebbero condotto quei sentimenti ma poco importava se avevo Storm al mio fianco.
Mi sedetti sul piccolo seggiolino e con la massima attenzione Storm chiuse la mia cintura di sicurezza e si accertò che fosse ben allacciata. Si sedette al mio fianco e fece lo stesso con la sua cintura di sicurezza.
Quando sentimmo il motore rombare sotto di noi io cercai di nuovo la sua mano che trovai quasi subito e senza indugio intrecciai le dita con le sue travolta dall’ondata dei miei nuovi sentimenti per lui. Storm si voltò e mi guardò con una strana espressione in volto. Timorosa tentai di sciogliere la presa sulla sua mano ma lui strinse le mie dita e io sorrisisi debolmente.
Il suo volto rimase imperscrutabile ma i suoi occhi non avevano mai brillato tanto. Accostò il suo volto al mio orecchio e dolcemente di sussurrò: «Pronta?»
Annuii sicura e in quel momento l’elicottero decollò lasciando la terra ferma. Una strana sensazione di vuoto si propagò all’interno del mio stomaco ma non seppi se fosse per il decollo o per il bacio che Storm mi scoccò all’angolo della bocca. Le sue labbra fecero formicolare le mie dal desiderio di toccare completamente le sue ma quella mia voglia non fu soddisfatta. Non quella sera.



 

Note
Allora ragazze probabilmente questo è uno dei capitoli più corti che io abbia mai scritto e pubblicato. Spero che lo apprezzerete ugualmente. Purtroppo non ho tempo per scrivere altro e onestamente questo capitolo mi piaceva che finisse così. Credo che questo finale sia di speranza e segni l’inizio di una svolta per la storia tra Storm ed Abby.
Le loro avventure non sono affatto giunte a termine. Mancano ancorano una decina di capitoli se non di più. Ci sono ancora tantissime cose da risolvere e i sentimenti dei nostri protagonisti devono ancora svilupparsi. Per così dire sono solo sbocciati, ora devono fiorire. Ahimè devo dirvi che probabilmente non avrò l’opportunità di aggiornare per tutto il mese di Agosto e al pensiero mi piange in cuore. Continuerò a scrivere la storia sul mio PC e prometto che al mio ritorno settembrino i capitoli saranno lunghi e pieni di emozioni. Spero di ritrovarvi tutte qui, aumentate e non diminuite.
Mi farebbe molto piacere trovare diverse recensioni per questo capitolo che segna la pausa della storia. Ripeto: non è sicurissimo che non riesca ad aggiornare, c’è una probabilità del 5% su 100 che io ci riesca. Lo so, è scarsa ma è pur sempre qualcosa, no?
Lettori e lettrici io vi ringrazio per tutte le visualizzazioni, per le centotredici recensioni. Sono davvero contenta di dove è arrivata la storia e per questo devo ringraziare solo voi. Siete voi che leggerete, recensite ed inserite la storia tra le seguite/preferite/ricordate.
Un grazie dal profondo del cuore e spero che la storia di Storm ed Abby abbia conquistato un posticino dentro di voi come lo ha fatto con me.
Un bacione grande quanto l’America e ci vediamo a Settembre.
Buone vacanze a tutte voi e al prossimo delirio.

Bibersell

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Avviso ***


Salve mie care lettrici, pensavate che avessi aggiornato, vero? E invece no, ma non preoccupatevi perché manca poco. Tra poco ritornerò a casa e avrò a mia disposizione il PC e la linea Wi-Fi e potrò finalmente pubblicare il venticinquesimo capitolo che spero vivamente vi piaccia. Vi scrivo perché mi mancate tantissimo e volevo dirvi che il capitolo é pronto. Visto che non é possibile contattare ognuna di voi ho pensato di scrivere qua. Spero non dispiaccia a nessuno. Ormai mancano meno di quattro/cinque giorni prima che abbiate il vostro capitolo. Avrei voluto scrivervi ieri ma é stato il mio compleanno e non ho avuto proprio la testa. Vi saluto e vi lascio in bacione. Come sempre mi farebbe molto piacere sentire il vostro supporto e affetto. Baci -La vostra B

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Home Sweet Home ***


XXV
Home Sweet Home



 
Abigail's point of view

Quando l’elicottero atterrò senza problemi sulla pista dello stato dell’Idaho era ancora notte fonda. Nonostante l’adrenalina e l’euforia che mi scorrevano nelle vene mi sentivo molto stanca e gli sbadigli si presentano sempre più frequentemente. Appena misi piede nel nuovo stato una ventata d’aria afosa mi spettinò i capelli e mi seccò la gola. In me si fece vivo il desiderio di una bella limonata americana. Quel pensiero mi riportò indietro di anni, a quando la vendevo con Jen a un dollaro nel giardino di casa mia. Mi mancava tantissimo la mia migliore amica e smaniavo del desiderio di raccontarle ogni cosa. Avrei voluto stare per ore a telefono con lei per dirle di Storm e confidarle i miei sentimenti per lui che sembravano cambiare ogni giorno e trasformarsi in qualcosa di nuovo e sempre più forte.
Jen era sempre stata un’amante dei libri che parlavano di storie d’amore impossibili e probabilmente sarebbe rimasta affascinata da Storm vedendolo come uno di quei personaggi scorbutici e astiosi che a lei piacevano tanto.
A pochi passi da me Storm parlava a telefono. Sembrava più rilassato e sul suo viso aleggiava un leggero sorriso. Non un ghigno o una risata derisoria, un semplice sorriso sereno e vagamente felice.
«Va bene. Ci vediamo alla stazione» disse e riattaccò. Si voltò a guardarmi e senza che gli chiedessi nulla rispose alla domanda che mi frullava nella mente. «Era Cheikh. Sarà qui tra poco».
Quelle semplici parole mi fecero battere il cuore. Non credevo che avrei mai rivisto l’amico di Storm che in pochi giorni era riuscito a scavare un posto nel mio cuore ed era diventato anche un mio amico.
Il ragazzo al mio fianco mi prese per mano dicendomi di seguirlo. Insieme ci avviammo verso quella che sembrava una stazione in disuso. Non c’erano casellanti né pendolari che attendevano il treno. Vecchi fogli con gli orari degli arrivi erano attaccati alle pareti completamente scritte. Mi avvicinai e vidi che erano datate Agosto 2002. Quella stazione era veramente abbandonata.
Un brivido mi corse lungo la schiena. Era buio ed io e Storm eravamo totalmente soli in un posto che faceva accapponare la pelle. Mi aggrappai al suo braccio sentendomi minuscola al suo confronto.
Storm era magro e molto alto. I muscoli erano poco sviluppati e il ricordo del suo addome scolpito mi faceva ancora tremare le gambe. Lo fissai intensamente studiando ogni dettaglio del suo volto e notai con rammarico che aveva due grosse e profonde occhiaie. Gli occhi erano arrossati per il vento e le ore di sonno arretrate. E, ad essere sincera, aveva bisogno di una bella doccia che portasse via lo sporco dai suoi capelli. In quei giorni ci aveva passato talmente spesso le dita in mezzo che si potevano distinguere i cinque solchi lasciati da ogni dito. Istintivamente mi alzai sulle punte e passai le dita tra i suoi capelli scombinandoglieli e arruffandoglieli. Le sue sopracciglia scattarono immediatamente in alto e il suo corpo si irrigidì in un attimo. Avevo fatto qualcosa di sbagliato?
«Scusa..ma volevo soltanto..» le mie parole già traballanti di per sé furono totalmente bloccate da lui che si allontanò bruscamente da me facendomi traballare sul posto.
La luce di due fari abbaglianti mi ferì gli occhi. Mi portai le mani davanti al viso per difendermi da quella luce accecante. La macchina si fermò proprio davanti a noi e immediatamente riconobbi la vecchia Dodge di Storm, la macchina su cui avevamo viaggiato i primi giorni, quella che lui aveva abbandonato prima di entrare abusivamente nella casa dei signori Troynor.
I fari si abbassarono e lo sportello del guidatore si spalancò con un cigolio e un mare di dreadlocks chiari fecero capolino.
«Il cambio manuale di questa bellezza è duro come la pietra, fratello» esordì Cheikh appoggiandosi allo sportello cigolante. Il mio cuore scoppiò di gioia alla sua vista.
Non mi resi nemmeno conto del rumore dei miei sandaletti di cuoio che battevano la ghiaia, delle braccia che scattavano in alto e degli occhi che si riempivano di lacrime. Sentivo solo un calore pieno d’affatto avvolgermi. Stare tra le braccia di Cheikh era come tornare a casa dopo una lunga corsa. Era una scialuppa di salvataggio nel bel mezzo di una tempesta. Nemmeno a farlo a posta, lui mi salvava sempre della furia di Storm, la mia tempesta a portata di mano.
Non so quanto tempo dopo Cheikh sciolse l’abbraccio e io tornai coi piedi per terra. La mia faccia gli arrivava al petto e dovetti alzare gli occhi per parlargli.
«Come stai?» dissi allegra. Di certo non si poteva dire che non fossi felice di rivederlo.
«Non posso lamentarmi» mi sorrise accarezzandomi una guancia. Non ho mai avuto un fratello o una sorella e quel gesto così tenero e fraterno mi fece sciogliere il cuore. «Ma non posso dire lo stesso di te. Sembri tornata dall’oltretomba.»
Mi squadrò mentre mi muoveva la testa a destra e a sinistra ma sembrò non trovare nulla di interessante. Annuì tra sé mentre si allontanava da me di qualche passo e si avvicina a Strom che se ne stava alle mie spalle con una strana espressione corrucciata sul volto. La leggerezza che gli avevo letto in viso solo pochi minuti fa dopo l’atterraggio sembrava non esserci mai stata a giudicare dal suo muso lungo. Scambiò una veloce stretta di mano con Cheikh e si diedero qualche pacca sulla spalla. Quando casualmente Cheikh toccò il braccio ferito dell’amico, Strom sibilò un leggero lamento.
«A Lizzie verrà un infarto quando ti vedrà. Lo sai che non sopporta nemmeno che ti si rompano i capillari del naso» disse Cheikh mentre io mi avvicinavo per seguire meglio la conversazione. «Che ti è successo, amico?» proseguì.
Storm fece un sorriso sghembo che non prometteva nulla di buono. «Saliamo in macchina. Ti racconto tutto mentre andiamo a casa». Quelle parole, uscite dalla bocca di Storm, sembravano stridere. Facevano tanto ragazzo normale con un tetto sulla testa, una famiglia dalla quale tornare e un letto caldo ad attenderlo.
Casa. Ormai io non ne avevo più una e mi sentivo un’orfana lasciata alla deriva. Mio padre mi aveva tradito. Aveva tradito la mia fiducia e spezzato quel legame che mi ancorava a lui e ci permetteva di superare qualsiasi ostilità. Aveva spezzato quella corda invisibile che tutti chiamano amore. Lui, la persona che avrebbe dovuto difendermi aveva preferito in suo lavoro a me.
Mi risalirono le lacrime agli occhi ma buttai giù il magone e seguii i due ragazzi in macchina. Salii sui sedili posteriori e immediatamente l’odore di birra a taco mi invase portandomi con la mente a quella sera di una settimana prima che ormai sembrava così lontana. Storm si sedette sul posto del passeggero visto che non era in grado di guidare e Cheikh al volante. Loran prese a raccontargli quello che era accaduto dal momento in cui ci eravamo separati. Gli disse del campo Hippie in cui ci eravamo fermati evitando di dirgli della mie febbre ma tenendoci a sottolineare di aver rivisto Mary. Chiekh aveva capito immediatamente di chi stesse parlando e i loro commenti su quanto fosse stata generosa Madre Natura con la giovane Hippie mi infastidirono non poco. Temetti perfino che Storm gli dicesse del bacio che c’era stato la sera prima del fatidico giorno dello scambio e che commentasse con “una slinguazzata mediocre”, ma non disse nulla di tutto questo. Gli raccontò quello che era successo il giorno prima, del bluff della polizia e di come le volanti della polizia ci avevano accerchiato fino ad arrivare allo sparo.
Storm gli disse anche di Cassy e Rick e Chiekh ci tenne a chiedergli come stavano. Si capiva da come ne parlavano che erano amici da parecchio tempo e che gli era dispiaciuto quando si erano dovuti separare. Ero sempre più curiosa di sapere tutto quello che era capitato a Storm prima che lo incontrassi e conoscere i suoi vecchi amici sembrava un ottimo modo per farlo. Loro erano come una finestra sul suo passato. Volevo sapere tutto di lui e quel desiderio mi spaventava.
Smisi di ascoltare Storm raccontare quello che avevo vissuto solo poche ore prima e mi abbandonai sul sedile scrutando l’orizzonte. Era notte, ma il cielo andava schiarendosi sempre di più diventando a mano a mano di una tonalità di blu più chiara. Quella sera la luna era talmente sottile che sembrava una scheggia luminosa nel cielo. Le strade erano strette e sporche. Sembrava di essere in una periferica cittadina più che in una città. Ad ogni incrocio c’era un gruppetto di donne in abiti succinti piegate sul finestrino di un auto. Le prostitute erano ad ogni angolo e la cosa che mi faceva rabbrividire non erano quelle donne ma gli uomini che si fermavano e allungavano mazzette.
Le strade erano sporche e i muri quasi tutti scritti. Più ci addentravamo nei vicoli e più la situazione peggiorava. Distolsi lo sguardo decidendo di riposarmi e risparmiare le energie per quello che sarebbe avvenuto da lì a poco. Stavamo andando a casa di Storm, qualunque cosa volesse dire. Avrei incontrato Lizzie e Rute? E Storm come mi avrebbe presentato. Come suo ostaggio?
Le pulsazioni nelle vene aumentarono e il sangue prese a pompare più veloce.
Dovetti addormentarmi perché quando aprii gli occhi la macchina era ferma e Cheikh mi scuoteva un braccio per richiamare la mia attenzione.
«Ben svegliata» disse sorridendomi dolcemente.
«Dove siamo?» sbiascicai con la voce impastata dal sonno. Sentivo le palpebre ancora più pesanti di prima e il sonno sembrava solo essere aumentato.
«A casa» rispose. Casa. Io non avevo più una casa e sentire quella parola così dolce detta con tanta normalità mi commosse. Lentamente scesi dalla macchina e vidi una fila di case tutte uguali. Sembravano essere a due piani coi mattoncini rossi scoloriti e i cornicioni sgretolati, alcuni più di altri. Fuori ad ogni casetta c’era un piccolo giardinetto separato da quello dell’altra casa da una squallida rete arrugginita. Storm stava fuori la porta di una di quelle case. Era quella col giardino vuoto e l’erba incolta. Dalla parete mancavano alcuni mattoncini rossi mentre altri erano ammuffiti.
Io e Cheikh ci incamminammo nella sua direzione e salimmo i tre consueti gradini che separavano la casa del giardino. Quando affiancammo Storm lui bussò in campanello ma nessuno venne ad aprirci.
«Le avevi avvertite?» chiese Storm a Cheikh e lui annuì con decisione.
«Certo. Le avevo detto anche che saremmo arrivati tardi» confermò.
Storm bussò nuovamente e questa volta una donna giovane venne ad aprirci. Era alta e magra come un chiodo. La magrezza delle sue gambe avvolte in semplici jeans aderenti mi sconvolse. Indossava una maglietta grigia consunta dal tempo e i capelli castani erano legati in una coda. Il viso era affilato e dai lineamenti regolari. Occhi grandi e scuri, naso aggraziato e bocca fine, le unghie erano mangiucchiate e con residui di smalto nero. Aveva l’aspetto di una giovane mamma single alle prese con una bambina piccola e terribile.
«Strom» disse con un filo di voce sottile che sembrava perfetta per lei. I suoi occhi si illuminarono nel vedere il ragazzo al mio fianco. «Come va, Rute?» a parlare fu Cheikh.
Gettai un’occhiata a Storm e vidi che era rimasto senza parole. Le labbra erano leggermente socchiuse e nei suoi occhi era dipinto lo stupore.
«Sei dimagrita..» fu l’unica cosa che disse.
«Beh, nostra nipote mi fa fare parecchio movimento. Non me la ricordavo così» rispose Rute.
Finalmente la conoscevo, vedevo la ragazza che era tanto importante per Storm. Rute finì di parlare e una vocina stridula e potente mi devastò i timpani squarciando quella cheta notte.
«Zioooooo!». Da dietro le gambe di Rute spuntò una tenera bambina di poco più quattro anni con lunghissimi ricci neri e occhi chiarissimi. Era la fotocopia di Storm. Aveva i suoi stessi colori ma i lineamenti della bimba, che immaginai fosse Lizzie, erano più dolci.
Storm si chinò aprendo le braccia e accogliendola sul suo petto. «Piccolina».
Lizzie si tuffò immediatamente addosso allo zio e lui prese ad accarezzarle i capelli. Vedendola da più vicino notai che i suoi capelli non erano neri come quelli di Loran ma leggermente più chiari e anche gli occhi erano diversi. Quelli di lui erano quasi trasparenti mentre quelli della bimba erano di una particolare tonalità di azzurro con pagliuzze verdi.
«Zio, papà come sta? È con te, vero?» disse Lizzie in perfetto inglese. Non ne sapevo nulla di bambini ma non credevo che sapessero parlare così bene già a quell’età.
«No, piccolina. Papà non è qui ma sta bene. Tra poco tornerà a casa». Non avevo mai sentito la voce di Storm assumere quella tonalità così dolce, non sembrava neppure lui.
Il viso di Lizzie si rattristò e sporse il labbro inferiore all’infuori. «Ma mi aveva promesso che saremmo andati in vacanza, solo io e lui e avremmo vissuto sulla spiaggia» si lamentò la piccola. «Se papà non torna mi ci porti tu al mare, zio?» continuò la piccola sorridendo teneramente mostrando dei bianchissimi denti di latte.
Mi faceva uno strano effetto sentir chiamare Storm zio ma lui sembrava essercisi abituato.
«Non succederà. Ti ci porterà tuo padre in vacanza, piccoletta» rispose lui arruffandole i capelli e restando in ginocchio con Lizzie tra le proprie gambe e le braccia cicciottelle della bambina strette al suo collo.
Lizzie sembrò soddisfatta della risposta ma poco dopo si rabbuiò e si avvicinò all’orecchio dello zio, ma la sua voce era talmente squillante che quello che disse fu udibile a tutti. «Me lo dici se papà diventa un angelo come la mamma, zio Loran?»
Quelle parole zittirono tutti. L’aria si fece densa e il tempo parve essersi fermato. Mi resi conto di star trattenendo il fiato solo quando Storm tornò a parlare. «Non ci pensare adesso. Hai visto, abbiamo ospiti»
La bambina si allontanò da lui mentre Storm si rimetteva in piedi. Lizzie alzò lo sguardò e salutò Cheikh con un gesto della mano paffutella. «Ciao amico dello zio».
Poi guardò me e i suoi occhi si illuminarono. «Hai i capelli di Barbie» disse e si voltò verso lo zio. «Mi hai comprato una Barbie enoooooorme» disse saltellando per tutto il soggiorno facendo scoppiare tutti a ridere.
Finalmente quell’aria densa e pesante era stata spezzata e ora sembrava solo un lontano ricordo.
«Non è una barbie, Liz» intervenne Rute.
«Ma si zia» rispose la bambina avvicinandosi a me. «È bionda, magra e bassa come le bambole. È proprio una bambolina». Quell’ultima frase mi fece ridere e mi voltai immediatamente verso Storm. Tale zio, tale nipote. Anche lui diceva che somigliavo ad una bambola.
«Come ti chiami?» disse Liz puntandomi un dito sulla gamba.
«Abby» risposi e la mia voce suonò quasi robotica. Era la prima cosa che dicevo qualcosa da quando avevo messo piede in quella casa. «Vuoi vedere la mia casa della bambole, Abby?» mi chiese la bambina allargando le braccia esprimendo il muto desiderio di essere presa in braccio. Desiderio che fu esaudito da Rute che se la caricò sul braccio. «Adesso devi andare a dormire».
«Ma io voglio giocare con la bambola che mi ha portato zio Loran» piagnucolò la bimba.
«Domani, Liz. Adesso devi dormire». Con la bambina tra le braccia, Rute salì le scale e sparì nel corridoio.
Un silenzio imbarazzante cadde nella sala. Cheikh si gettò sul divano lasciandosi andare ad un lungo sbadiglio che fu seguito a capolino dal mio.
«Che giornata» si lamentò Cheikh.
«Non dirlo a me» rispose Storm che si sedette sulla poltrona mentre io rimasi in piedi in imbarazzo.
Loran si passò le dita tra i capelli e li tirò leggermente. «Mi serve un caffè»
«No, amico. Ti serve una dormita. E una nuova fasciatura» rispose Cheikh gettando la testa all’indietro.
«Non posso dormire. Domani pomeriggio, di mio fratello resterà solo il ricordo e io non posso permettermi di dormire» ribadì Storm. «In queste condizioni non saresti in grado di fare niente. Tu pensa a riposarti e io contatto i nostri» Cheikh rialzò la testa e puntò i suoi occhi in quelli di Storm.
«Non ce la farai a chiamarli tutti da solo» ribadì l’altro.
«Mi farò aiutare da Rute» Cheikh non demordeva.
«Cheikh ha ragione, Storm» mi intromisi avanzando a lunghe falcate nella sala. «Dovresti riposare e pulire la ferita. Non guarirà da sola» lo ammonii.
Lui sembrò titubante e pronto a dissentire ma l’ingresso di Rute lo bloccò. «Si è addormentata subito» disse riferendosi alla dolce nipotina. «Gli sei mancato molto, Storm».
Storm annuì e gli occhi si odombrarono di dolore. Rute sembrava provare molto affetto per lui che era il fratello dell’assassino di sua sorella. Cosa era successo veramente quella sera? Come aveva potuto Jack fare del male a sua moglie e privare sua figlia di una madre?
«La mia stanza è libera?» chiese Storm interrompendo il flusso dei miei pensieri e riportandomi a quella realtà fatta di misteri ed incomprensioni.
«Certo» rispose semplicemente la ragazza.
Storm asserì e si avvicinò alla rampa di scale, ma prima di salire vagò con lo sguardo per tutta la sala riservando un’occhiata di gratitudine all’amico e d'affetto alla ragazza. I suoi occhi si posarono anche su di me ma non riuscii a decifrarli, mi parve dedicare maggiore attenzione alla mia intera figura. Lentamente si voltò per poi sparire al piano superiore.
Mi schiarii la gola in quel silenzio imbarazzante. «Salgo anch’io» dissi istintivamente senza pensarci una seconda volta. «Magari ha bisogno di aiuto con la fasciatura o non sa da dove iniziare e dove trovare le cose..» iniziai a balbettare delle assurde giustificazioni. «Ci vediamo domani mattina Abbs» mi salutò Cheikh.
Rute non disse nulla rimanendo impassibile seduta sul divano. Salutai educatamente e salii al piano di sopra con un unico pensiero in testa: questa è casa sua, certo che Storm sa dove trovare le cose.

**
Il piano di sopra era pressoché uguale a quello inferiore: piccolo e arredato in malo modo. Le pareti erano ricoperte da una carta da parati scollata in parecchi punti e dal colore indefinito. Un velo di polvere aleggiava sul battiscopa e negli angoli più ostili della casa. Ai lati del corridoio c’erano diverse porte. Quella alla mia destra era aperta ed era visibile una lavandino con uno specchio sovrastante che rifletteva una vasca da bagno in porcellana bianca. Quella a sinistra era chiusa ma c’erano diversi disegni appesi alla porta. Quella doveva essere la stanza di Lizzie. La porta successiva era socchiusa. Battei le nocche contro il legno temendo che quella fosse la stanza di Storm e non volevo spaventarlo. Nessuno mi rispose e lentamente abbassai la maniglia.
La stanza era vuota e buia. Puzzava di chiuso e il letto matrimoniale in legno scuro sembrava molto antico. Quella sembrava più una reliquia che una camera da letto.
Richiusi la porta alle mie spalle e notai che da sotto l’ultimo porta sulla destra usciva un fascio di luce. Mi avvicinai alla porta e bussai. Anche questa volta nessuno mi rispose ed io entrai già sapendo che avrei trovato Storm. Spalancai la porta e la richiusi alle mie spalle col capo chino. L’odore che aleggiava in quella stanza confermava ogni mio presentimento. Il fatto che riuscissi a riconoscere il suo odore, l’odore di Storm, mi spaventava non poco. Menta peperita. Dolce e pungente allo stesso tempo.
Alzai lo sguardo e desiderai non averlo fatto.
Il ragazzo se ne stava di spalle leggermente ricurvo su se stesso e cercava di sfilarsi la maglia dalle braccia. La schiena chiara era nuda e i jeans gli ricadevano bassi sui fianchi. Tossicchiai per richiamare la sua attenzione ma lui continuò imperturbato. Mi avvicinai a lui e lo aiutai a sfilarsi la maglia facendo attenzione a toccargli il meno possibile la ferita.
Una volta disfattosi dalla maglia la getto per terra. I capelli si erano arruffati ancora di più e le labbra erano leggermente piegate all’ingiù donandogli un’espressione imbronciata tipica dei bambini.
«Devo cambiarmi la medicazione» disse semplicemente ma io capii che con quella frase mi stava chiedendo aiuto. Voleva che mi occupassi io della sua ferita.
Senza dire una parola avvolsi la mia mano attorno al suo braccio e lo guidai verso il bagno che avevo intravisto salendo.
Lui chiuse la porta e si andò a sedere sulla cesta per il bucato.
«Dove trovo l’ovatta e l’acqua ossigenata?» chiesi muovendo le mani freneticamente.
«Nello stipetto» disse indicandomi con l’indice un mobiletto bianco.
All’interno c’erano delle bende, garza e tutto il necessario per rimettere in sesto il suo braccio. Presi tutto l’occorrente e lo posizionai sui bordi del lavandino.
«Forse dovrei prima lavarmi» disse e si alzò.
Lo guardai passarsi la saponetta su tutto il petto e sciacquarsi con l’acqua fresca mentre la mia gola si seccava di più ad ogni suo muscolo che si tendeva.
Quando ebbe finito gli passai l’asciugamano ma lui non lo afferrò. «Fai tu» sibilò e titubante lo accontentai.
Passai l’asciugamano su ogni angolo di pelle bagnato e feci attenzione a non urtare le bende che tra poco sarebbero sparite. Quella garza attorno al braccio gli donava un fascino da veterano che lo rendeva irresistibile. Quando passai la mano avvolta dall’asciugamano sul suo stomaco mi tremarono le gambe e lui smise di respirare.
Quello era il contatto più intimo che avevamo mai avuto. Finii diligentemente il mio lavoro e lui torno ad aprire l’acqua della fontana per poi poggiare la testa nel lavandino.
Quando ebbe finito di lavarsi i capelli li frizionò con l’asciugamano per poi risedersi. Senza dire una parola mi avvicinai e gli torsi le bende. Con un batuffolo d’ovatta e del disinfettante gli pulii la ferita senza che Storm battesse ciglio. Mi sentivo i suoi occhi azzurri addosso e le mie mani tremanti tradivano la mia emozione.
Strofinai accuratamente cercando di fargli meno male possibile. Quando ebbi finito gli fasciai il braccio con della garza e poi coprii il tutto con delle bende nuove.
La ferita era brutta, ma c’era di peggio. In poche settimane sarebbe stato come nuovo, probabilmente con una cicatrice in più. Improvvisamente Storm mi afferrò per la vita con il braccio sano e mi trascinò sulle sue gambe facendo peso per farmici sedere sopra. Il cuore mi batteva a mille e dalle mani mi caddero i batuffoli di ovatta ancora intatti.
Lui chinò il viso e con la punta del naso mi accarezzò il collo. «Adesso è il tuo turno di lavarti» bisbiglio ma capii ben poco di quelle parole, ero distratta dal suo respiro caldo a stretto contatto con la mia pelle. «E il mio di asciugarti» proseguì.
A quelle parole un brivido mi corse lungo la schiena ed inclinai la testa verso la sua.
«Non possiamo» risposi ma non ero sicura che avesse capito le mie parole dette con quella voce che non sembrava nemmeno la mia. «Perché?» continuò per niente demoralizzato da quel mio misero tentativo di dissuasione. Prese a baciare la pelle del collo fino alla spalla che morse leggermente. Ormai la mia pelle era un unico brivido in balia di lui e la lucidità mi aveva abbandonata da parecchio. «Sarebbe imbarazzante spogliarmi e ..oh» mi fermai cercando di respirare e parlare senza balbettare. «rimanere nuda.. davanti a te» continuai terminando la frase con un leggero lamento.
«Non lo sarebbe» ribatté iniziando la risalita e soffermandosi sul lobo dell’orecchio riservando a quel pezzo di carne maggiore attenzione e dedizione.
«È una cosa così intima e poi non me la sento» biascicai capendo poco delle mie stesse parole. Ormai il filo che collegava mente e bocca si era spezzato e non avevo la piena coscienza delle mie parole.
«Non te la senti di fare cosa?» chiese continuando la sua personale tortura al mio orecchio. Sembrava lucido e completamente nel pieno delle sue facoltà.
«Di condividere il mio corpo con te» dissi d’un fiato lasciandomi andare ad un gemito rumoroso. Non capivo più nulla e lui sembra ben consapevole di avermi in propria balia.
«Se al mio posto ci fosse stato Cheikh non ci avresti pensato due volte» parlò in modo mellifluo ma quella frase fu in grado di spezzare l’incantesimo.
Di scatto mi scostai come bruciata. «Che cosa?»
«Non fare l’ingenua. Hai capito cosa ho detto» ribatté guardandomi negli occhi nei quali non c’era traccia di risentimento.
«Staresti insinuando qualcosa, Storm?» gettai via quelle parole lentamente contando fino a dieci prima di inspirare e rilasciare aria nei polmoni.
«Stasera sembravi molto felice di rivederlo» ghignò a denti stretti e nei suoi occhi rivissi gli attimi di poco prima, quando Cheikh era venuto a prenderci alla stazione abbandonata.
Un leggero sorriso affiorò sulle mie labbra. «Saresti mica geloso?» lo burlai scherzosamente ma lui non parve capire l’antifona.
«Per essere geloso di qualcuno bisogna tenerci a quella persona e tu non conti nulla per me».
Freddo. Era stato lapidario e nel tono non c’era rimorso e pentimento per quelle sue stesse parole.
Con la sua stessa freddezza ma con l’espressione profondamente delusa mi alzai e uscii dal bagno. Invece di ritornare in camera per riposare mi diressi al piano di sotto dove Cheikh e Rute stavano lavorando.
«Ehi Abbs» mi salutò Cheikh parlando a bassa voce mentre Rute era a telefono «Se vuoi puoi dormire nella vecchia camera di Jack» «Non disturbarti, me ne sto andando» risposi avvicinandomi al divano e afferrando la sacca con i pochi effetti personali che mi erano rimasti.
«Cosa?» Gli occhi di Cheikh si dilatarono e la mascella si spalancò tanto che quasi toccò terra. «E dove hai intenzione di andare?»
«A casa» dissi e per la prima volta sentii il bisogno fisico della mamma e dei suoi caldi abbracci. «La mia vera casa».
Corsi alla porta e la sbattei alle mie spalle, ma ormai era troppo tardi perché i miei occhi avevano intravisto Storm scendere le scale ancora senza maglietta e coi capelli bagnati.
Chiusi la porta ma la voce di Cheikh risuonò alle mie spalle. «Che hai combinato stavolta, amico?»
 
Note 
Storm è un cazzone.
Okay, queste note iniziano con quello che deve essere il pensiero un po’ di tutte.
Ad ogni modo, cosa ne pensate di questo capitolo? Inizio col darvi un caloroso bentornato e spero che qualche anima pia ci sia ancora a seguire questo delirio che, tuttavia, spero non vi annoi mai. Come promesso sono tornata ed, ehi, è ancora Agosto.
Questo capitolo è effettivamente più lungo dei precedenti e succedono un bel po’ di cosa. Spero che sia riuscita a farmi perdonare per questo mio periodo di assenza.
Allora, come prima cosa abbiamo il ritorno di Cheikh. Molte di voi lo aspettavano ed eccolo tornato il nostro beniamino e a proposito..quante di voi shippano Cheikh ed Abby? Dai, lo so che ci siete, non siate timide.
E poi in questo capitolo ci sono Rute e Lizzie. Ve le aspettavate diverse? E credevate in questo lato dolce dello zio Loran?
E poi la parte finale come l’avete trovata? Insomma fatemi sapere cosa ve ne pare, le vostre sensazioni a caldo e se vi aspettavate qualcosa di più o di diverso.
Come sempre ci tengo a ringraziare tutte le ragazze che in questo periodo di pausa hanno letto la storia da lettrici silenziose, l’hanno messa tra le preferite, seguite, ricordare e quelle che sono state così gentili da
lasciare una recensione. Spero di sentirvi in numerose.
Questo capitolo è privo di banner per il semplice motivo che ho notato che non era visibile. Voglio risolvere il problema e poi lo postero in ogni capitolo. 
E adesso una cosa importantissima. Vi lascio qui sotto un brese estratto del prossimo capitolo. Voglio essere buona per la lunga attesa. Spero di ricevere più pareri possibili. 



SPOILER!

«Me ne vado» dissi sentendo le lacrime riprendere a colarmi lungo le guance. «Addio».
L’unico pezzo di cuore ancora intatto si spezzò definitivamente in quel momento. Spesso mi ero chiesta quanti colpi potesse reggere il mio cuore e in quel momento ebbi la risposta. Poteva reggere un rapimento, il distacco dalla famiglia, la lontananza, la mancanza di normalità, ma non reggeva il tradimento.



Un bacione e alla prossima
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Now is too late ***


 
XXVI
Now is too late.


 

Abigail's point of view
 
La rabbia che ribolliva nelle mie vene surriscaldava il mio corpo portandolo ad una temperatura così elevata che sentivo le goccioline di sudore colarmi lungo la schiena. La serata era afosa e sentivo la pelle appiccicosa. Avevo davvero bisogno di una doccia. Risi amaramente.
Come aveva potuto Storm insinuare una cosa del genere? Come poteva solo immaginare che avrei condiviso una cosa così intima con Cheikh. Certo, ero molto affezionata al suo amico e non si poteva certo negare il suo fascino controverso e diverso, ma quando ero con lui non mi sentivo come con Storm. Il mio cuore non impazziva prendendo a battere più velocemente o a saltare addirittura i battiti. Il sangue non pompava alla velocità della luce e i miei muscoli non si irrigidivano per poi sciogliersi appena si avvicinava.
Che cavolo, era stato il primo ragazzo che avevo baciato seriamente e adesso mi aveva anche spezzato il cuore.
I miei sentimenti per lui erano fortissimi e avevo il terrore di etichettarli con la parola amore per il semplice fatto che non volevo ammettere nemmeno a me stressa di starmi innamorando di Storm.

Per essere geloso di qualcuno bisogna tenerci a quella persona e tu non conti nulla per me.

Il mio respiro fu interrotto da un potente singhiozzo. La diga che conteneva le mie lacrime si era rotta e ormai il mio pianto era diventato incontenibile. Iniziai a correre lungo il marciapiede che costeggiava le case mentre dai miei occhi sgorgavano grossi lacrimoni.
Una lacrima cadde a terra e la voce di Storm mi risuonò nelle orecchie. Tu non conti nulla per me. Un’altra lacrima toccò l’asfalto e il mio cuore andò in pezzi con essa. Non contavo nulla per il ragazzo di cui mi stavo innamorando, il ragazzo più sbagliato e il ragazzo che non avrei mai potuto presentare ai miei come mio fidanzato. Quando anche la terza lacrima capitolò a terra l’immagine di mio padre che mi abbandonava preferendo la giustizia a sua figlia procurò un taglio ancora più profondo al mio cuore.
Altre lacrime sgorgarono i l’immagine di mio padre si confuse con quella di mia madre. Ripensai a Constantine e a Jen. Mi mancavano come l’aria. Mi mancava la mia vita. Sentivo la mancanza perfino delle presenza soffocante di Anthony e André.
Dovevo andarmene da lì, tornare a casa, lasciare l’Idaho per sempre. Dovevo andarmene per il mio bene, per dimenticare quel ragazzo che aveva marchiato a fuoco il suo nome sul mio cuore. Lo dovevo dimenticare prima che fosse troppo tordi. Se non fosse già troppo tardi.
«Abby» la voce di Strom interruppe i miei pensieri e automaticamente i miei piedi scattarono in avanti in una corsa frenetica. Non volevo vederlo, non volevo sentire la sua voce mai più.
«Abbs, aspetta» la sua voce ruppe il silenzio di quella notte. Anche gli dei parvero soffrire per me e Zeus scagliò la sua ira su di noi squarciando il cielo con un fulmine. Continuai a correre senza prendere nemmeno in considerazione l’idea di rivolgergli la parola. Non sapevo dove stavo andando ma non mi importava. L’unica cosa rilevante in quel momento era scappare.
«Bambolina, fermati».
Nell’udire quelle parole la rabbia che montava dentro di me crebbe e mi investì. La mia corsa si arrestò di scatto e mi voltai col viso in fiamme e bagnato dalle lacrime.
Storm era a qualche metro da me ancora senza maglia e coi capelli bagnati. In volto aveva un’espressione sconvolta che non gli avevo mai visto. Gli occhi erano dilatati e le guance rosse risaltavano sul pallore della sua pelle.
«È questo quello che sono sempre stata per te? Una bambolina da usare e poi gettare? Un gioco, una perdita di tempo?» urlai furiosa sentendo la gola bruciarmi. Un altro tuono squarciò il cielo scuro mentre i miei occhi si fissavano in quelli di Storm. Lui provò ad avvicinarsi ma io arretrai di scatto.
«Stammi lontano» dissi e questa volta parlai con un tono di voce più basso. «Mi hai già fatto troppo male».
Lui rimase immobile senza parlare. Non sapeva cosa dire e leggevo la paura nel suo sguardo ma non saprei dire di cosa avesse paura di preciso. Sicuramente non di perdermi visto che non gli importava nulla di me. Al ricordo di quelle sue parole mi raggelai sul posto nonostante il clima afoso.
«Me ne vado» dissi sentendo le lacrime riprendere a colarmi lungo le guance. «Addio».
L’unico pezzo di cuore ancora intatto si spezzò definitivamente in quel momento. Spesso mi ero chiesta quanti colpi potesse reggere il mio cuore e in quel momento ebbi la risposta. Poteva reggere un rapimento, il distacco dalla famiglia, la lontananza, la mancanza di normalità, ma non reggeva il tradimento. Al posto del mio cuore, adesso, avevo una voragine. Un buco nero vuoto e senza fine. Concedetti ai miei occhi un ultimo sguardo a quel ragazzo che era stato in grado di farmi battere il cuore come mai nessuno ci era riuscito. I capelli bagnati gli cadevano lisci lungo il volto paonazzo. Il petto gli si gonfiava e sgonfiava ad una velocità inaudita. Lentamente sollevai lo sguardo e lo fissai apertamente. I suoi occhi non erano mai stati così chiari. E sconvolti. Non lo avevo mai visto in quello stato e il pensiero che lo avessi ridotto io così mi spezzava in due. Mi lasciai travolgere da quella voragine di tristezza che ci circondava e mi abbandonai alla desolazione.
Mi voltai e singhiozzando me ne andai. Un altro tuono squarciò il cielo e il mio passo si arrestò.
«Come ti avrei fatto soffrire?» la voce di Storm mi arrivò da più vicino di quello che mi aspettassi. Si era avvicinato, mi era corso dietro e ora la nostra distanza era davvero minima. Lo sentivo dietro di me. Sentivo il suo calore propagarsi, abbandonare il suo corpo per trovare rifugio nel mio. Avvertivo il suo profumo travolgente annebbiarmi i pensieri. Rimasi immobile con lui alle mie spalle che mi sovrastava.
«Come?» chiesi non ricordando bene cosa avesse detto. Urgeva allontanarmi da lui, ma tra poco ci saremmo allontanati per sempre e sentivo il bisogno di assorbire un altro pezzo di lui per farlo mio per sempre.
«Hai detto che ti ho già fatto soffrire troppo» iniziò e sentii il suo respiro caldo avvolgermi e farmi perdere la testa. «cosa ho fatto?» chiese ma non fui in grado di rispondergli subito.
Era troppo vicino, dovevo prendere le distanze. Mi allontanai per poi voltarmi e guardarlo negli occhi. Una gocciolina d’acqua cadde dal cielo e gli bagnò la punta del naso. Fui tentata dal poggiarci sopra il mio indice ma mi fermai in tempo.
Ripensai a tutti i momenti che avevamo vissuto in quella settimana, ripensai a quando mi aveva quasi strangolato la prima sera in quella squallida stanza d’albergo, a quando mi aveva malmenata in macchina mentre la polizia ci seguiva. A quanto mi aveva ferito verbalmente chiamandomi bambolina o ammettendo di aver ucciso più persone. Allora non mi importava di lui e quelle parole mi mettevano più paura che altro e per quanto riguarda il dolore fisico quello non era di certo il peggiore. Quel tipo di dolore guarisce leccandosi le ferite, le ferite che non guariscono facilmente sono quelle del cuore.
Ferisce più la parola che la spada.
«Lascia stare» farfugliai capendo che quella conversazione era inutile, che non sarebbe cambiato nulla e che se avessi aperto il mio cuore lui l’avrebbe calpestato. Feci per voltarmi ma lui mi bloccò. Storm afferrò il mio braccio voltandomi verso di lui. Un’altra goccia cadde dal cielo seguita a sua volta da un’alta e un’altra ancora.
«Parlami» mi soffiò lui sul viso.
«A cosa servirebbe? Cosa t’importa? Io non conto nulla per te» le ultime parole mi morirono il gola e temetti che mi chiedesse di ripetere, ma era troppo vicino e troppo attento per non sentire. La sua espressione si rabbuiò ancora di più e si allontanò leggermente da me ma la sua mano stringeva ancora il mio braccio.
«Mi dispiace, okay?» disse in tono basso e rauco. La voce era così fragile che non sembrava nemmeno la sua. «Mi dispiace per quello che ti ho detto ma..» cominciò ma non continuò. Sciolse la presa e si passo le mani tra i capelli. «Non è facile dirti quello che penso o che provo perché non lo so nemmeno io. Ho una gran confusione in testa e non ci capisco più niente» si tirò le punte dei capelli ed emise un sospiro frustrato. «So solo che quanto ti sei buttata tra le braccia di Cheikh alla stazione non ho capito più niente e avrei voluto spaccare la faccia al mio migliore amico e non mi piaceva nemmeno come mi sono sentito quanto hai abbracciato Jaxon».
Non capii all’istante a chi si riferisse ma poi ricordai il campo Hippie e il fratello di Sarah.
«E cosa dovrei dire io allora?» ribattei sentendo la rabbia tornare a ribollirmi nelle vene. «Tu e Mary vi spogliavate praticamente con gli occhi» urlai e feci una pausa prima di continuare. «Lei è tutta forme e curve mentre io sono solo..io».
Abbassai gli occhi e mi scrutai. Credevo che Storm avesse seguito il mio sguardo e invece mi afferrò por i fianchi e mi portò vicino a lui facendo combaciare quasi completamente i nostri corpi.
In quel momento le goccioline d’acqua si fecero più intense trasformandosi in vera pioggia. Storm puntò i suoi occhi nei miei e l’intensità del suo sguardo mi travolse. A fare compagnia alla tristezza c’era la dolcezza e un velo di speranza.
«Tu sei perfetta così come sei» sussurrò lentamente in tono basso, talmente basso che temetti di averlo immaginato. Il contatto visivo continuò per non so quanto tempo finché non fu interrotto da lui che spostò gli occhi sulle mie labbra. Capivo dal suo sguardo languido che voleva baciarmi e le mie labbra fremettero dal desiderio di assaporare quelle di Storm, ma non potevo permettere che accadesse nonostante lo desiderassi.
«Devo andarmene» dissi lentamente ricevendo tutta la sua attenzione.
«No, non devi» ribadì. Avevamo avuto la stessa conversazione poche ore prima ma questa volta il finale sarebbe stato diverso.
«Voglio tornare a casa» dissi e questa volta lui non poté dire nulla. «Non mi succederà niente e dirò a mio padre che mi hai lasciato andare». Lui mi guardava ma non diceva nulla. «Non gli dirò nulla di te. Né il tuo nome né che Jack è tuo fratello».
«Non mi interessa quello che dirai a tuo padre» si stava agitando e i suoi occhi si stavano riempiendo nuovamente di paura. «Non voglio che tu te ne vada».
«Voglio andarmene. Questo non è il mio posto, è il tuo. Questa è la tua battaglia non la mia» le lacrime cominciarono a colare nuovamente e la pioggia aumentava sempre di più.
Storm mi strinse forte al suo petto. La mia maglia bagnata aderiva perfettamente al mio corpo mentre Storm era a petto nudo. Quando mi strinse forte i miei seni gli sfiorarono il petto e quel contatto così intimo mi fece rabbrividire. Era come se anch’io fossi senza maglia e il mio cuore prese a battere all’impazzata. Poggiai le mani sul suo petto e sentii il suo cuore battere quasi più veloce del mio. «Non lo vuoi veramente» ribatté poggiando la sua fronte sulla mia e i suoi capelli bagnati mi accarezzarono il volto facendomi il solletico.
«Lo voglio» ribadii tra le lacrime.
«Ti prego, resta» mi strinse ancora più forte e un gemito di dolore mi sfuggi dalle labbra.
«Addio».
Dovevo andarmene, lo sapevo, ma non avevo il coraggio di allontanarmi da lui.
«No, resta un altro giorno» mi strinse ancora più forte come se temesse di perdermi da un momento all’altro.
«Non posso tornare in quella casa, Storm» dissi con sincerità. Non ce la facevo. Mi ricordava troppo la mia famiglia e quella bambina era troppo simile a Storm, non potevo guardarla negli occhi sapendo che la vita di suo padre dipendeva dal mio.
«Va a casa di Cheikh» disse chiudendo gli occhi. I miei restarono aperti e osservai le sue lunghe ciglia nere così vicine al mio viso da potermi quasi sfiorare la guancia. Da una ciglia cadde una goccia d’acqua che finì sui nostri petti uniti.
«Ti ci accompagnerà lui. Io resterò qui a sistemare le cose per domani. Ti raggiungerò appena potrò» disse e quelle parole mi spezzarono ulteriormente il cuore. Stava solo rimandando l’inevitabile. Sapevo che non ne avremmo cavato nulla di buono ma non riuscivo a dirgli di no.
Lentamente annuii e lui si staccò da me. Mi prese il volto tra le mani e credetti che stesse per baciarmi. Ma non lo fece. Mi guardò solo negli occhi e poi si allontanò. Io rimasi ad osservare la sua schiena rientrare in casa mentre il mio corpo piangeva così distante dal suo.




Storm’s point of view

Il sole era sorto ormai da diverse ore e le lancette del vecchio orologio a muro segnavano le dieci del mattino. Liz dormiva ancora e Rute mezz’ora fa era uscita di casa per andare prendere tre caffè lunghi e un cornetto per la bambina. Nessuno dei tre aveva chiuso occhio ed ero grato sia a lei che a Cheikh per l’aiuto che mi stavano dando. Sapevo che tutto quello che facevano era per il bene di Liz e non per me.
Eravamo rimasti svegli tutta la notte e avevamo chiamato membro dopo membro della banda. Ad ognuno di loro avevamo raccontato l’intera storia. Tutti conoscevano mio fratello Jack, alcuni sapevano che era stato preso dalla polizia, pochi erano a conoscenza di quello che aveva fatto ma nessuno sapeva che era stato condannato a morte. Avevo spiegato il mio piano, avevo sottolineato ogni rischio. Ci servivano molte auto per depistare la polizia e per accerchiare e mettere fuori gioco tutte le volanti nel momento in cui avrei tentato di far uscire Jack dal camion della polizia.
Alcuni, quelli più fedeli, avevano accettato subito asserendo che gli amici non si tradivano nel momento del bisogno e sostenendo che sia io che mio fratello gli avevamo sempre aiutati. Ma non tutti erano dello stesso parere. Diversi, fin troppo, si erano tirati indietro dicendo che se la polizia gli avesse presi questa volta sarebbe stato per sempre. Era troppo rischioso.
Altri erano usciti definitivamente dal giro e si erano mostrati sinceramente dispiaciuti. Altriancora, invece, ci erano dentro fino al collo e avevano creato un altro “gruppo” il quale avrebbe partecipato.
Alle dieci di mattina potevo contare ottantacinque presenze sicure e sperai con tutte le mie forze che il piano andasse a buon fine. Mi sentivo sotto stress e con un pessimo umore in corpo. Ma quelle strane sensazioni mai provate prime che mi stringevano lo stomaco in una morsa ferrea non erano per mio fratello. Quei pensieri che mi frullavano per la testa erano tutti dedicati ad una ragazza. Ad Abby. E non mi piaceva per niente.
Da quando ero diventato una mammoletta che pensa ad una ragazza in un momento così delicato?
La verità era che non riuscivo a pensare altro che a lei. Volevo stare nel suo raggio visivo e respirare la stessa area. Il mio corpo fremeva dal bisogno di stringerla a me e rompere ogni barriera che sapevo in lei fossero ancora intatte e farle scoprire cose di cui aveva solo sentito parlare. Ma ogni volta che ero insieme ad Abbs e vedevo nel suo sguardo l’inesperienza mi bloccavo capendo che i miei desideri nei suoi confronti erano sbagliati. In sua presenza la ragione spariva e la mia bocca diventava autonoma avendo come risultato un disastro totale.
Il fatto che avessi così tanta voglia di vederla mi sconvolgeva lasciandomi di sasso. Non potevo permettere che accadesse una cosa del genere e, in fondo, sapevo che quella di andarsene era la cosa giusta da fare. Se fosse restata con me avrei soltanto contaminato e sporcato quel dolce faccino che meritava solo cose belle e un ragazzo che fosse alla sua altezza.
In tutta la mia vita non ero mai stato altruista ma quella volta lo sarei stato, ma non prima di essere egoista per l’ultima volta. Dovevo andare da lei e godere della sua presenza per l’ultima volta prima di lasciarla andare definitivamente. Per sempre.

«Amico, devo andare» dissi semplicemente a voce alta a Cheikh che se ne stava steso sul divano ad occhi chiusi.
«Vai da lei» rispose. Con Cheikh non c’era bisogno di inutili parole. Lui era lì e ci sarebbe sempre stato. Mi conosceva meglio di me ed ero stato davvero fortunato a trovare un amico come lui in grado di capirmi veramente.
Ero stato uno stupido a pensare che tra lui ed Abbs ci potesse essere qualcosa altre a sincero affetto e un tenero rapporto di amicizia che non avrebbe avuto modo di evolversi. O forse si.
Lui aveva un vero lavoro, un diploma, nessuna bambina a carico e casini da risolvere. Lui era un perfetto ragazzo da poter presentare ai propri genitori. Forse al giudice Jensen sarebbe venuto un infarto alla vista di tutti quei dread.
Senza riflettere ulteriormente presi le chiavi della macchina ed uscii di casa. Sulle scale mi scontrai con Rute che teneva stretto al petto una busta coi cornetti e un cartone coi tre caffè. Ne estrassi uno non volendo rinunciare a della caffeina gratis. Quando si era stanchi morti come me in quel momento, quella brodaglia scura e una manna dal cielo.
«Vai da lei?» chiese Rute irrigidendosi e fermandosi sullo scalino sotto al mio. La soprastavo di parecchi centimenti e lei dovette alzare la testa per guardarmi dritto negli occhi.
Io annuii solamente non riuscendo a dire altro.
«È una ragazzina, Storm» disse duramente e quel suo tono mi infastidì. «Noi siamo la tua famiglia, ricordatelo».
Salì gli altri due gradini per poi sparire dietro la porta. Rimasi interdetto e ferito. Rute non mi aveva mai parlato in quel modo e sapeva quanto contassero lei e Lizz per me. Diamine, avevo fatto tutto quello solo per il bene di mia nipote.
Scesi le scale e arrivai alla macchina infilandomi nella mia vecchia utilitaria. L’odore di alcol e frittura mi fece sentire a casa e mi crogiolai rincuorandomi in quel calore.
Se le parole che avevo detto a Abby in bagno l’avevano ferita solo la metà di quello che avevano fatto quelle di Rute, ero stato proprio uno stronzo.


Guidai sotto il sole cocente dei primi giorni di Giugno col finestrino completamente abbassato elemosinando dell’aria fresca. Impiegai una decina di minuti per arrivare a casa di Cheikh che abitava solo ad un paio isolati dal mio quartiere. La sua casa in origine era stata strutturata nello stesso modo della mia, ma la sua palazzina era più nuova e tenuta molto meglio rispetto alla mia.
Il giardino era curato e una panchina di legno era stata posta nel bel mezzo del prato davanti al piccolo tavolino in plastica. In veranda c’era un vecchio dondolo che non avevo mai visto usare da Cheikh. Conoscevo a memoria anche l’interno della casa e sapevo che era arredata con mobili rustici e scuri. La cucina era piccola e angusta, ma molto luminosa e profumava sempre di cibo buono e non ammuffito e nel lavello non c’erano piatti sporchi accumulati da settimane.
Rimasi quasi un’ora in macchina fermo a pochi metri da casa di Cheikh. Accesi una sigaretta sentendo i miei muscoli rilassarsi all’istante. Mi concentrai nel fare perfetti anelli di fumo per non pensare a tutto quello che stava succedendo. Mi concedetti il lusso di spegnere la mente e vagare nell’oblio. Nella desolazione a cui tutti veniamo abbandonati almeno una volta.
Fumai più di una sigaretta col risultato di puzzare peggio di una ciminiera ma mi sentivo molto più rilassato di prima. Il caffè era ormai finito da tempo e gettai il cartone per terra. Quella macchina era una pattumiera, un bicchiere in più non avrebbe fatto la differenza. Aprii lo sportello con un calcio e scesi dalla macchina con ancora la sigaretta tra le dita e il pacchetto nella tasca posteriore dei jeans. Sotto il solo afoso di metà mattinata mi diressi all’ingresso della casa del mio migliore amico.
Portai la sigaretta alle labbra e tirai l’ultima boccata prima di gettare il mozzicone a terra e calpestare la cenere con la punta dello stivale slacciato. A passo deciso attraversai la strada e salii i pochi gradini che mi separavano dalla porta.
Alzai il braccio per bussare, ma le mie dita non riuscirono a toccare il campanello che la porta si aprì mostrando una Abby con le punte dei capelli bagnati, una vecchia maglietta di Cheikh che le arrivava a metà coscia e i piedi nudi.
«Perché hai aspettato un’ora in macchina prima di scendere?»



*Il titolo di questo e del precedente capitolo sono stati stritti in inglese perchè sono stati pensati in quella lingua.

Note 
E anche in 26° capitolo è stato pubblicato. Cosa ne pensate? Come sempre voglio sapere ogni vostro parere riguardo ad ogni cosa. E soprattutto cosa pensate che succeda.
Il prossimo capitolo è molto importante e soprattutto molte carte verranno svelate. Spero che la verità piaccia a tutti e non deluda. Come forse avrete capito la storia sta volgendo al termine e penso che in sei o sette capitoli dovremmo arrivare all’epilogo.
Se penso a quando ho pubblicato il primo capitolo mi viene una strana morsa allo stomaco. Questa storia mi ha accompagnato, insieme a voi, in questi mesi e mi dispiace pensare che stia volgendo al termine. E se ripenso a tutto quello che è successo nel racconto mi sembra impossibile che siano solo sette giorni. Che casino.
Ad ogni modo voglio ringraziare tutte le lettrici così carine da lasciare una recensione, da inserire la storia tra le seguite, preferite, ricordate, preferite e che leggono con costanza capitolo dopo capitolo di questo delirio.
Non mi dilungo in inutili chiacchiere. Vi lascio con questa frase detta da Abby che spero vi abbia lasciati, come si soliti dire, appesi.
Baci e alla
prossima
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Tutta la verità ***


XXVII
Tutta la verità




Abigail's point of view

Storm varcò la soglia di casa a testa bassa senza dire una parola. Richiusi la porta e il rumore da essa prodotto risuonò in tutta la stanza sottolineando il silenzio che incombeva su di noi. L’aria era carica di tensione ed emozioni che nessuno dei due voleva affrontare.
Le parole che ci eravamo detti qualche ora prima aleggiavano su di noi come presenze invisibili che artigliavano i nostri cuori. Dovevo andarmene e nulla di quello che avrebbe detto mi avrebbe fatto cambiare idea. Lo sapevo. E lo sapeva pure lui.
«Non puoi andartene» disse Storm ed ero sicura che i suoi pensieri stessero seguendo lo stesso corso dei miei. «Non posso lasciarti andare senza averci almeno provato».
Mi mossi irrequieta sul posto e istintivamente provai ad infilare la mani nelle tasche dei pantaloni ma indossavo solo una vecchia maglia che Cheikh mi aveva prestato. Incrociai le braccia al petto per tenerle impegnate.
«Le cose non cambieranno, Storm» intervenni «Voglio tornare a casa, alla normalità, e non puoi impedirmelo».
«Lo dici solo perché ti ho ferita» si mosse verso di me. «Mi dispiace per quello che ti ho detto, non lo penso veramente».
Alzai una mano per bloccarlo dov’era e sembrò funzionare. «Ciò non toglie che l’hai detto, io non conto nulla per te» mi bloccai temendo di scoppiare a piangere da un momento all’altro. «Mi hai ferita»
«L’ho detto senza pensarci. Sono stato uno stronzo ma in quel momento riuscivo solo a vedere te e Cheikh insieme» tentò di avvicinarsi nuovamente ma io mi scostai avvicinandomi al divano.
«Questa è un’assurdità» ribadii «La tua gelosia è un’assurdità. Non stiamo insieme, Storm». Mi ferii da sola nel pronunciare quella frase.
«Non puoi volertene andare per una frase sbagliata detta da uno che non è nemmeno il tuo ragazzo». Rimase immobile dov’era.
«Non staremo insieme ma tu per me conti qualcosa» gridai sentendo la stabilità abbandonarmi. Lui sembrò colpito dalle mie parole e si avvicinò. Non mi mossi e gli permisi di venirmi incontro. La mia schiena toccò la spalliera del divano e Storm si fermò a qualche centimetro da me.
«Allora non andartene» disse abbassando di un’ottava il tono di voce. Con una mano mi toccò il viso. Era più grande del mio volto e le dita lunghe si insinuarono sotto i capelli sciolti e ancora umidi mentre il pollice massaggiava la carne tenera della guancia. Rimasi ipnotizzata dei suoi gesti e da quegli occhi magnetici puntati nei miei.
«Ti ricordi quando a casa dei Traynor tu mi chiedesti perché noi uomini lo facciamo?»
Non capii subito il senso della sua frase sentendomi stordita e col cervello annebbiato. Mi concentrai sulle sue ultime parole e su qui primi giorni che avevamo passato insieme. Mi ricordai di quella sera in cui preparai il mio primo dolce e in cui ebbi la prima vera conversazione con Storm. Lui mi chiese perché noi donne dicevamo e facevano l’opposto di quello che pensavamo e volevamo.
«Mi chiedesti perché noi uomini ci comportiamo in modo diverso quando siamo in pubblico da quando invece siamo nel primavo» continuò e io annuii facendogli capire che ricordavo.
Il suo pollice continuava ad accarezzarmi la guancia e quel movimento regolare mi tranquillizzava portandomi in un mondo di mezzo. «Abs..» cominciò per poi bloccarsi subito dopo «Lo facciamo perché..» sembrava che il proseguimento di quella frase fosse estremamente importante per il nostro rapporto ed era chiaro che facesse difficoltà ad esprimersi.
«Ecco io..noi» tentennò e compresi di star trattenendo il fiato solo quando riprese a parlare. «Siamo una razza debole». Mi bloccai non sapendo come ribadire. I nostri corpi erano rigidi e carichi di tensione ma la mano di Storm continuava a muoversi e quella era l’unica cosa che mi permetteva di non perdere completamente la testa.
«Cerchiamo di difenderci dietro una corazza di arroganza perché se non lo facessimo rimarremmo subito feriti» continuò a voce sempre più bassa. Parlava al plurale ma era chiaro che stesse parlando di sé. Per la prima volta stava aprendo uno spiraglio ma toccava a me decidere se voler o non spalancare quella porta.
Non potevo. Il senso di colpa mi attanagliò lo stomaco.
«Cerchiamo l’approvazione negli altri perché non siamo abbastanza sicuri, ci nascondiamo dietro una maschere perché con altri occhi è tutto più facile».
Il suo corpo si afflosciò e la sua fronte si scontrò con la mia. Lentamente la sua mano scivolò giù fino a tornare lungo il suo fianco. L’unico punto di contatto erano le nostre fronti. Il suo respiro caldo mi riscaldava il volto mentre la mia guancia fremeva per quel leggero contatto durato troppo voco. Chiusi gli occhi non riuscendo a reggere l’intensità dei suoi nei miei. La tensione si trasformò gradualmente in desiderio che aumentava lentamente come una fiammella. I nostri respiri si facevano sempre più pesanti ed affannati.
Avevo il suo corpo così vicino che fremeva dal desiderio di potermi toccare e la mia mente non faceva altro che pensare che tutto quello mi avrebbe solo fatta soffrire ancora di più. Il giorno dopo sarei tornata a casa. Non potevo restare, era insensato. Io e lui non eravamo niente e non avevamo nessun legame. Prima o poi ci saremmo dovuti separare e per me era arrivato il momento di scomparire. Avrei solo creato intoppi nel suo piano per liberare il fratello e salvare la sua famiglia.
«Non andartene» disse con un tono di voce così basso e rauco che non parse nemmeno il suo.
«Storm..» farfugliai non sapendo bene dove il cervello mi avrebbe portata.
«Ti prego».
Quella supplica mi fece più male del previsto. Non potevo accontentarlo. Non potevo.
«Non..» Non riuscii a portare a termine la mia frase che mi trovai le labbra di lui sulle mie. Labbra contro labbra. Era un contatto innocente eppure mi sentivo così sporca. Non mi sembrava giusto rubare un momento del genere sapendo che me ne sarei andata comunque. Qualsiasi cosa avesse fatto o detto me ne sarei andata il giorno dopo.
Mosse le sue labbra morbide sulle mie senza cercare di approfondire il contatto o di forzarmi. Un braccio mi circondò il fianco mentre l’altro si tuffo tra i miei capelli. Le mie mani si mossero istintivamente e tastarono il suo petto da sopra ma maglia che sembrava fin troppo doppia.
Storm tirò le punte dei miei capelli con forza e gemetti sulla sua bocca mentre la mia testa scattava all’indietro. Lui approfittò della leggera apertura delle mie lebbra e prese quello inferiore tra le sue e lo morse leggermente coi denti. Mugugnai per la sorpresa: non mi aveva mai morso. Istintivamente lo afferrai per le spalle e lo spinsi ancora più vicino a me e in un attimo il nostro bacio si fece intenso e molto più profondo.
Nella furia del momento la sua lingua cozzò contro i miei denti e risi leggermente ma quello che venne dopo era ben lontano dall’essere ilare. Non ci eravamo mai baciati così intensamente e non avevo mai avvertito tutto questo desiderio verso il suo corpo. Sentivo la sua maglia sottile di troppo e morivo dalla voglia di passere le mani sul suo petto per fargli tenere carezze. La mano che riposava tra i miei capelli lentamente scese in una morbida carezza languida lungo il mio collo, toccò il lato esterno del seno destro fino ad arrivare al fianco. Ci stavamo spingendo fin troppo oltre e non potevo permettere che accadesse.
Provai debolmente a staccarmi da lui, ma Storm, intuendo i miei movimenti, mi strinse ancora più forte a sé. La sua lingua riprese a giocare con la mia e per un attimo mi lasciai trascinai da quei suoi dolci movimenti ma poi mi ridestai da quello stato di meravigliosa ipnosi e a malincuore mi staccai.
«Non possiamo» dissi col fiato lungo. Presi lunghe boccate d’aria e cercai di calmare il respiro. Mi portai una mano al petto e mi allontanai da lui sfuggendo dalla sua presa.
«Non puoi volertene ancora andare. Non dopo questo» allargò le braccia indicando me e lui e ricordandomi quello che era appena successo. Certo, come se potessi dimenticarlo.
«Io e te insieme..» si passò le dita tra i capelli scompigliandoli e fui gelosa delle sue stesse mani. «Quello che è appena successo è stato fantastico e se solo..» si bloccò non sapendo cosa dire. «Dio, quanto ti desidero Abbs»
«Storm, per favore» lo supplicai ma non sapevo nemmeno io per cosa lo stessi facendo. Il solo pensiero di essere soli in quella casa e con me con indosso una semplice maglia mi mandava in fumo il cervello. Dovevo calmarmi e riflettere. Ragionare e poi fare la cosa giusta.
«Non puoi andartene convinta che io sia un pazzo che vuole liberare un criminale per capriccio. Devi sapere la verità» disse e quelle sue parole mi spiazzarono.
«Non lo penso. Non di te» risposi e fui tentata di accarezzargli una guancia ma mi trattenni.
«Nemmeno Jack è cattivo. Devi sapere. Voglio dirti tutto».



**

Storm mi prese la mano nella sua e mi trascinò sul divano facendomi sedere vicino a lui. Dopo aver preso un gran respiro cominciò a parlare e per la prima volta ebbi paura di quello che stesse per dirmi. Non credevo di essere pronta per la verità.
«Io e mio fratello siamo cresciuti da soli» cominciò. «Nostro padre non l’abbiamo mai conosciuto e la donna che ci ha messo al mondo è morta di overdose quando ero ancora piccolo. Jack mi ha cresciuto come meglio ha potuto. Per un ragazzo non è facile trovarsi sulle spalle il peso di un bambino soprattutto se si ha la testa calda di Jack» rise amaramente e quel sorriso mi strinse il cuore mentre provavo ad immaginarmi uno Storm bambino lasciato solo a se stesso.
«Non è stato un tutore eccezionale. Spesso il frigo era vuoto e rimanevamo al buio cinque mesi si e uno no». Capii dal suo sguardo che si stava perdendo nei ricordi di quelle giornate ormai così lontane. «Ma mi voleva bene. Io e mio fratello siamo sempre stati molto legati nonostante i nostri caratteri scontrosi. Non passavamo ore a raccontarci i fatti nostri ma c’eravamo quando contava».
Mi fissò e capii che adesso avrebbe cominciato a raccontarmi la vera storia.
«Panny faceva la spogliarellista in un locale e per arrotondare lavorava anche come ragazza del dopo sera» mi fece l’occhiolino per farmi intuire di che dopo sera stesse parlando.
«Io e mio fratello non eravamo i tipi da andare a puttane ma lui si era preso una fottuta cotta per Penny. Tutte le sere andava nel suo locale solo per vederla ballare, finché un giorno non la seguì in una delle stanze del locale. Lui le disse che l’avrebbe portata con sé, non l’avrebbe lasciata a lavorare in quel locale».
Storm parlava con calma, non sembrava molto coinvolto dalla storia mentre io ne rimanevo sempre più affascinata. Quella sembrava la trama di un film d’amore.
«Così è iniziata la loro storia. Penny è venuta a stare da noi e sembrava tutto perfetto, mio fratello era felice come non lo era mai stato, finché Penny non se ne andò». Storm prese a giocherellare con le dita della mia mano per distrarsi. «Disse che gli mancava la sua vecchia vita. Non poteva vivere senza l’adrenalina data dallo spogliarsi davanti ad altre persone. Così se ne andò ma due settimane dopo tornò e disse di essere incinta. Il figlio era di Jack e lui sembrava al settimo cielo ma Pen non la pensava allo stesso modo. Diceva che quella gravidanza l’avrebbe resa inguardabile e non sarebbe più potuta tornare ad esibirsi e lei non viveva senza il suo palco». «Jack la convinse a tenere il bambino e Pen rimase a vivere con noi. Jack, da quando aveva saputo di essere diventato padre, smise di fumare le canne e si trovò un vero lavoro. Chiuse con tutte le attività illegali, si ripulì e spinse Pen a fare lo stesso. Lei lo fece e i nove mesi passarono, ben o male, tranquilli ma tutto andò a rotoli quando nacque la bambina».
La voce di Storm si incrinò leggermente ma continuò il suo racconto. «La chiamarono Lizzie e Jack fece il test del DNA per confermare che fosse sua figlia. Lo era ma non disse a Pen del test. Mio fratello sembrava vivere a un metro da terra e chiesa perfino a Penny di sposarlo. Lei accettò. In quel periodo conobbi anche sua sorella, Rute. Anche lei lavorava come spogliarellista ma a differenza della sorella non prendeva parte al dopo sera. Rute si ripulì insieme alla sorella e a Jack. Sembrava che Lizzie avesse portato il sole nella nostra famiglia. Per lei le cose potevano essere diverse. Non era nata in una famiglia ricca o pulita ma aveva una mamma e un papà che le volevano bene e due zii che stravedevano per lei».
«Jack comprò una cameretta tutta rosa. Era al settimo cielo. Lo eravamo tutti, forse eravamo talmente accecati dalla nostra gioia che non ci rendemmo conto che Pen stava male. Iniziò a drogarsi e frequentare brutti giri. Una sera tornò a casa strafatta. Lei e Jack litigarono pesantemente. Pen diceva che quella bambina gli aveva rovinato la vita, che Jack non avrebbe mai dovuto portarla via da quel locale, che loro erano stati la sua disgrazia. Jack la mandò in una clinica di recupero per gli AA, alcolisti anonimi. Ci stette un anno. Quando uscì Lizzie aveva due anni. I primi mesi andarono bene ma poi Pen ricadde di nuovo nel baratro e questa volta fu peggio di prima. Jack era innamorato di lei ma amava più sua figlia e per il bene di Liz disse a Pen di andarsene. Per mesi interi lei non si fece più viva. Quasi un anno dopo ritornò per vedere sua figlia. Jack non voleva ma alla fine acconsentì perché era un suo diritto. Pen riprese a vedere Liz ma ogni volta era sempre più fatta ed era sempre in compagnia di un uomo diverso. Una sera in cui Pen stava facendo visita alla bambina Jack vide un buco sul braccio di sua moglie. Litigarono ma scoprì che si faceva di eroina. A quel puntò le negò di vedere la bambina. Pen non la prese bene. Disse che se la sarebbe riprese, che quella era sua viglia. Mesi dopo arrivarono le carte del divorzio e quelle per l’affidamento di Liz. Jack buttò tutto nella spazzatura».
Quando Storm smise di parlare l’unico rumore che si sentì fu un mio singhiozzo. Non mi ero resa conto di star piangendo.
«Mi dispiace tanto..» farfugliai asciugandomi le lacrime con un lembo della maglia.
Storm mi guardò ma riprese a raccontare. «Erano i primi di Gennaio, faceva molto freddo e la caldaia era rotta. Jack era a lavoro e io ero uscito per cercare qualche idraulico che potesse aiutarci nonostante quelli fossero giorni di festa. Quando tornai a casa trovai Rute stesa per terra in una pozza di sangue. Urlai il nome di Lizzie ma dalle scale non scese nessuno. Aiutai Rute e riprendersi e le chiesi cosa fosse successo. Lei mi disse che stava guardando la TV con Liz quando avevano bussato alla porta. Era Pen in compagnia di due uomini che lei non aveva mai visto prima. La sorella gli aveva chiesto di darle Lizzie, che era la madre e avrebbe portato sua figlia a fare una gita. Erano tutti e tre strafatti. Rute gli negò il permesso di entrare e uno dei due uomini abbatté la porta mentre l’altro si occupò di Rute. La riempì di pugni e alla fine la sedò. Rute perse conoscenza nel momento in cui Jack varcò la porta». Storm si fermò e fece una pausa di alcuni minuti ma poi riprese.
«Dopo scoprimmo che i due uomini e Pen erano riusciti a scappare con la bambina. Jack partì al loro inseguimento non potendo permettersi di perdere sua figlia e di lasciarla nelle mani di quella donna che non aveva più il controllo di sé. Il resto lo conosci, Abs» disse e sentire il mio nome in quel racconto mi fece uno strano effetto.
«Jack ha ucciso Pen e gli altri due per disperazione. Gli ha inseguiti tutti la notte finché la loro macchina non si è fermata e lui ha ucciso tutti. E io voglio salvare mio fratello dallo stesso destino. Lizzie non si merita di soffrire, lei deve avere una famiglia che la ama. Lei non crescerà come me e mio fratello».
Appena finì di parlare mi gettai su di lui in un abbraccio che non sapevo se servisse più a me o a lui. Le lacrime non smettevano di sgorgare dai miei occhi mentre stringevo il corpo di Storm cercando sollievo e tentando di darglielo a lui. Provai a ricucire una ferita con non era mai stata chiusa.


*Riferimenti al capitolo dodici

 


Note
Salve ragazze vi dico subito che non ho tempo e non sono nemmeno riuscita a rileggere il capitolo quindi avrà più arrori del solito, ma fremevo troppo. Volevo pubblicare il capitolo perchè sono troppo curiosa del vostro parere. 
Non posso dilungarmi in chiacchiere e ringraziamenti che come sempre vanno a tutte. Vi dico solo che stasera o domani rivedrò il capitolo.
Scappo.
Baci
-B

Sono finalmente riuscita a rivedere il capitolo e spero che non mi sia scappato qualche altro errore. Ho scelto di lasciare le note perchè mi sembrava corretto nei confronti delle ragazze che avevano letto il capitolo precedentemente.
Volevo aggiungere che la mia testolina bacata sta pensando di scrivere una long.fic su Jack e Pen, quante di voi ci sarebbero? Vi piace l'idea? 
All'inizio l'idea erano nata come una serie di One Shot ma una long credo sia molto più adatta.
Spero che non troviate il racconto di Storm un'assurdità e che capiate le sue ragioni, 
Al prossimo delirio
-B

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Farewell ***




Vi invito a sentire questa canzone che a mio pare rappresente le emozioni provate da Storm ed Abby in questo e nei precedenti capitoli



"Un grazie dal profondo del mio cuore.
Grazie a chi segue questa storia capitolo dopo capitolo.
Gazie per tutte le meravigliose recensioni che leggo sempre col sorriso sulle labbra.
Grazie per il supporto e il sostegno che mi date. È solo grazie a voi se la storia è arrivata a questo punto.
Grazie a tutte. Questo capitolo lo dedico a voi."





XXVIII
Farewell

 
 Capitolo interamente a reating rosso. Il contenuto del capitolo non è di fondamentale rilevanza per il proseguo della storia. Spero che non disturbi nessuno. Le scene non sono particolarmente esplicite.




Abigail’s point of view


Il corpo di Storm era immobile tra le mie braccia che lo avvolgevano in una stretta protettiva. Poggiai la testa sulla sua spalla e lascia ricadere i capelli ancora umidi sulla sua schiena. Lentamente le sue braccia riacquistarono vita e mi avvolsero delicate senza esercitare alcuna pressione.
Piansi sulla sua spalla bagnandogli la maglia di calde lacrime mentre lo stringevo a me cercando di dargli conforto e farmi forza. Ero rimasta shoccata dal suo racconto e non avrei mai immaginato una storia del genere. Non capivo come Pen avesse potuto abbandonare sua figlia quando era ancora così piccola. Un bambino in età così giovane è sempre una sorpresa che porta con sé conseguenze non sempre positive, ma ciò non giustificava il comportamento assurdo e irresponsabile assunto da Pen. Quello che aveva fatto Jack non era assolutamente giustificabile, bensì comprensibile. La mente umana, se portata ai limiti della sopportazione, è imprevedibile.
Quella famiglia, la famiglia di Storm era stata devastata dal troppo amore e l’unica a farne le spese era una bambina innocente e ignare di tutto.
Automaticamente poggiai le mie labbra sulla spalla di Storm lasciandoci un bacio tenero e salato per poi staccarmi da lui. Lo guardai apertamente coi miei occhi rossi dal pianto e il viso stravolto dalle forti emozioni. Ero tutto troppo e stava succedendo tutto troppo velocemente. La ferita di Storm, la sua gelosia, la ricomparsa improvvisa di Cheikh, le numerose litigate e i baci fin troppo passionali, la mia partenza e ora tutta la verità. Era troppo da assimilare in pochi giorni. Da quel famoso sabato sera era successo tutto troppo velocemente e senza che me ne rendessi conto mi ero trovata impelagata in una faccenda più grande di me.
Storm ricambiò il mio sguardo e i suoi occhi chiari dello stesso colore dell’acqua ghiacciata si fissarono nei miei ed erano così magnetici che mi impedirono di sfuggirgli. Con il braccio destro, che era ancora attorno ai miei fianchi, esercitò una leggera pressione e mi sollevò portandomi a sedere a cavalcioni sulle sue gambe. Seduta in quel modo su di lui e con indosso solo una magliettina mi sentivo a disagio. Mi portai le mani ai bordi lisi della maglia cercando di allungarla il più possibile sotto lo sguardo attento di Storm che sembrava perdersi nemmeno il mio minimo gesto. Abbassai leggermente la testa per permettere ai miei capelli di ricadermi sul viso quel minimo per nascondere un leggero rossore. Un braccio di Storm si mosse avvicinandosi al mio viso e una sua mano superò quella barriera di capelli e mi accarezzò delicatamente entrambe le guance eliminando i residui di lacrime.
«Non piangere..» sussurrò a voce bassissima che sembrava quasi rotta. Sollevai di poco la testa, il giusto per accertarmi che non stesse piangendo. Non lo stava facendo. Il viso era travolto dalla stanchezza e da un senso di dolore che si era insidiato così a fondo che aveva modificato anche i lineamenti del suo volto. Avrei voluto cancellare ogni forma di tristezza dalla sua vita e sostituirla con felicità e amore. Avrei voluto riempirlo di baci e ricucire tutte le sue ferite fino a farle sparire. Continuò ad accarezzarmi il volto e ad asciugarmi le guance finché del mio pianto non ne fu soltanto un lontano ricordo e quelle attenzione da affettuose diventarono qualcosa di più.
Lentamente, in una carezza quasi esasperante, la sua mano appollaiata sul mio fianco scese lungo la coscia fino al ginocchio per poi risalire seguendo lo stesso percorso. Sentire la sua pelle a diretto contatto con la mia mi fece rabbrividire e perdere la testa come non era mai successo. Non ero totalmente inesperta in quel campo nonostante non fossi mai arrivata in quarta basa con nessun ragazzo. Forse se i miei ex avrebbero saputo toccarmi come Storm procurandomi gli stessi brividi probabilmente ci saremmo arrivati.
In uno slancio di pura follia lo baciai e quel mio gesto lo colse alla sprovvista. Non si aspettava certo la mia iniziativa ma recuperò quasi subito ricambiando a sua volta. Decisi di continuare su quell’onda di follia e spensi totalmente il cervello per non pensare che quella era il nostro ultimo giorno assieme. Non volevo rattristarmi e piangere nuovamente, quello che dovevo fare era godermi quelle ultime ore insieme a Storm e tornare a casa senza risentimenti.
Una mano di Storm continuava ad accarezzarmi la parte superiore della gamba mentre l’altra si era tuffata tra i miei capelli dedicandosi a lenti ed estenuanti massaggi concentrici. Le mie, invece, avevano scelto da sole la loro meta infilandosi direttamente sotto la sua maglia.
«Non ti facevo così intraprendente» disse lui interrompendo il bacio e passando al mio collo senza perdere nemmeno un secondo.
«E io non facevo te così lento» sorrisi deliziandomi della sensazione del suo respiro sulla pelle nuda del mio collo.
«Lento? Ma sentila..» ribadì mordendomi leggermente la spalla coperta della manica della maglia.
«Ahia» mi lamentai scherzosamente non avendo affatto sentito dolore. Lui continuò a baciarmi il collo con labbra umide che mi facevano impazzire sempre di più. L’altra mano scese in una carezza lungo il mio busto per poi infilarsi sotto la maglia e dedicarsi al mio ventre caldo. La situazione si stava surriscaldando e la temperatura sembrava salire sempre di più.
«Credo che questa maglietta sia di troppo». Mi risultava difficile credere che quelle parole fossero uscite proprio dalla mia bocca. Quella frase era più adatta a Storm e non a me. La sua vicinanza mi aveva davvero plagiata fino a quel punto? «Chi sei tu e cosa ne hai fatto della mia Abbs?» disse Storm e quelle parole bloccarono ogni mio gesto facendomi diventare di pietra tra le sue braccia.
«Cosa hai detto?» Le mie mani rimasero immobile sui suoi fianchi e con i lembi della sua maglia stetti tra le dita.
«Che questo comportamento non è assolutamente da te» ripeté in parole diverse la stessa frase di prima.
«Non questo» risposi. «L’altra..cosa» continuai titubante. Sbaglio o aveva detto “la mia Abbs”? Lui mi guardò e nei suoi occhi lessi consapevolezza mischiata a terrore. Aveva capito a cosa mi stessi riferendo ma aveva paura di ripeterlo e di sbagliare.
«Abby» sussurrò ma non ebbe il tempo di continuare che le mie labbra furono sulle sue per suggellare quel momento che sarebbe stato per sempre solo nostro e di nessun altro. Mi avvicinai ancora di più a lui e lo strinsi a me dimenticandomi totalmente della sua maglietta. Non ci furono più parole ma solo il rumore dei nostri baci molto più passionali e voraci. Improvvisamente Storm si alzò in piedi portandomi con sé e io gli allacciai le gambe in vita temendo di cadere.
La maglia si era sollevata lasciandomi scoperto il sedere e avvertivo chiaramente le mani di Storm sotto le mie natiche. «Che fai?» lo ammonii muovendomi e sfregando involontariamente la mia intimità contro la sua. Un rumore rauco e soffocato uscì dalla sua gola.
«Uno di questi giorni mi ucciderai. Non ti rendi nemmeno conto di quanto sai essere provocante» disse salendo le scale cecando di non far cadere entrambi.
«Tu dici?» risposi muovendomi di nuovo ma questa volta con consapevolezza. Sapevo di starlo tentando troppo ma non credevo che si sarebbe addirittura fermato e mi avrebbe sbattuto contro il muro per poi baciarmi con voracità. Questa volta le sue mani non si limitarono ad accarezzarmi le cosce ma risalirono. Una si fermò quasi subito sulle mi natiche mentre l’altra continuò la sua salita fino alla mia pancia per poi salire su fino allo stomaco.
«Non credi di essere caduto nel solito cliché?» interruppi il bacio e parlai ancora ansante. «Sbattere una ragazza al muro non è proprio originale». 
«Io amo il trash» rispose continuando la sua risalita fino al mio seno. Quando le sue dita lo sfiorarono entrambi trattenemmo il respiro.
«Bambolina, questa sì che è una novità» ghignò lui baciandomi la clavicola mentre le sue mani si muovevano sotto l’unico indumento che indossavo. «Non ti facevo una tipa che non indossa il reggiseno».
Quando Storm era arrivato avevo appena finito di farmi una doccia rilassante per levarmi di dosso lo stress di quei giorni. Avevo deciso mi mettere solo la maglia per stare più comoda ma non ero riuscita ad infilarmi anche i pantaloni perché era arrivato lui.
Senza preavviso, come del resto era sempre solito fare, riprese a salire le scale con me avvinghiata ai suoi fianchi. Arrivati in cima percorse il corridoio per poi fermarsi davanti alla porta di una camera. Quando l’aprì la prima cosa che vidi fu il letto matrimoniale rigorosamente rifatto. La luce dei tiepidi raggi solari pomeridiani riscaldava la stanza facendo luccicare tutto di giallo, rosso, rosa e viola. La tenda era aperta e dall’enorme vetrata si poteva ammirare il tramontare di quell’afoso pomeriggio.
Storm mi poggiò con delicatezza sul letto. Mi persi nell’ammirare i meravigliosi colori del tramonto e l’austerità e dolcezza che conferivano a quella stanza. Il rumore di un click mi riscosse e riportai i miei occhi sul ragazzo che da alcuni giorni occupava ogni mio pensiero. Lo vidi poggiare un telecomando sul comodino mentre una ventata di aria fresca mi colpiva facendomi gemere di piacere. Aveva acceso l’aria condizionata. Storm era veramente fissato e risi al ricordo dei nostri litigi in auto proprio sulla ventilazione.
Si sfilò la maglia e la ripose sulla sedia vicino allo scrittoio. Lo vidi incamminarsi verso di me e alla vista del suo petto nudo e dei suoi numerosi tatuaggi il mio cuore perse diversi battiti. Distolsi lo sguardo a disagio e lo puntai oltre la finestra. Lui seguì i miei occhi e dovette interpretare il mio improvviso rossore come vergogna. Si avvicinò alla vetrata e fece per chiudere le pesanti tende e far ricadere la stanza del buio totale, ma lo bloccai. «No, lascia aperto..» dissi a voce talmente bassa che temetti non mi avesse sentito. «Mi piace vedere fuori..» mi giustificai.
Fece come richiesto e lasciò le tende aperte. L’unico rumore udibile era quello delle sue scarpe che battevano ritmicamente sul pavimento mentre veniva verso di me.
«C’è il tramonto..è romantico» dissi per rompere quel silenzio snervante. L’atmosfera era carica di aspettative ed entrambi eravamo fin troppo consapevoli di quello che sarebbe accaduto da lì a pochi minuti. I nostri corpi non erano bruciati dalla stessa passione di pochi minuti prima ma erano carichi di elettricità e di tensione. Piena di domande senza risposte e parole non dette per paura. Eravamo fin troppo consapevoli che quella poteva essere la nostra ultima notte e volevamo usarla nel migliore dei modi stando insieme.
«Oh, Abbs, se così tenera che mi viene voglia di divorarti» disse quando fu davanti a me e poggiò un ginocchio sul letto. Il cuore mi batteva velocissimo nel petto e il respiro non era per niente regolare. Vedevo il petto di Storm muoversi ritmicamente e la vena del collo gli pulsava più del solito. Anche lui era nervoso. Quel pensiero mi tranquillizzò leggermente. Almeno non avrei fatto la figura dell’incapace paurosa alle prima armi. Storm accostò il suo viso al mio e mi preparai all’ennesimo bacio da togliere il fiato, bacio che non arrivò. Morse leggermente il mio labbro inferiore per poi sfiorare teneramente il mio mento con le sue labbra. Scese dal letto e si sfilò le scarpe e le calze. Le ripose in un angolo per poi ritornare sul letto nel quale io ero seduto al centro.
«Rilassati..» mi sussurrò all’orecchio in un tono dolce che mi sorprese. Non l’avevo mai sentito parlarmi in quel modo, nemmeno a Lizzy riservava quel tono. Mi lasciai trascinare da lui e dalla sua voce e mi stesi sul letto con il suo corpo sopra il mio.
«Tranquilla..io sono qui» sussurrò allo stesso orecchio e quel tono e quelle parole mi fecero impazzire ed esplodere il cuore. Il suo corpo mi sovrastava ma non era ancora entrato a contatto con il mio. Lui si sorreggeva sulle braccia per non pesarmi mentre prendeva a baciarmi il lobo dell’orecchio. Mi aspettavo che scendesse a baciare il collo come aveva fatto molte volte quel pomeriggio ma mi stupì risalendo lungo la tempia.
«Non sono così prevedibile, bambolina». Quella frase mi fece sorridere e sentii la tensione stemperarsi. Lasciò una scia di baci umidi lungo il perimetro nel mio volto. Quando baciò nuovamente il mio mento credevo che fosse risalito a dedicarsi alle mie labbra ma anche quella volta mi stupì. Chiusi gli occhi lasciandomi andare alla tenerezza di quei baci che mi stavano facendo sciogliere sempre di più e ringraziai di essere stesa su un letto visto che non ero sicura che le mie gambe avrebbero retto tanta dolcezza di cui non credevo Storm fosse provvisto. Ma quella sera ebbe l’opportunità di stupirmi e lo fece su tutti i fronti.
Mi baciò entrambe le palpebre socchiuse per poi passare al naso che baciò per tutta la lunghezza. «Non sai da quanto tempo desideravo farlo» disse e le mie palpebre si sollevarono per guardarlo negli occhi ma i suoi erano troppo concentrati a fissare le mie labbra. Sollevai la testa per andargli incontro e le nostre labbra si incontrarono a metà strada. Quel bacio lento e tenero servì ad entrambi per sciogliere la tensione e accendere la prima fiammella di quell’esplosione che sarebbe avvenuta a breve.
Lo schiocco dei nostri baci era l’unico rumore udibile ed era anche il più bello che avessi mai sentito. Se fosse stato possibile l’avrei volentieri registrato e poi impostato come suoneria. Le braccia di Storm presero ad accarezzare le mie.
«Sei congelata» disse sulle mie labbra e ci misi buoni minuti per comprendere il senso di quella frase. L’aria condizionata era stata impostata troppo bassa e la mia pelle si era immediatamente raffreddata. «Andiamo sotto le coperte» continuò allungando il braccio verso i cuscini.
«No» lo bloccai. «È la camera di Cheikh». Lui annuì capendo al volo. Non volevo che facessimo l’amore tra le lenzuola di un altro. Avrei voluto che quel letto fosse il nostro, ma così non era.
«Allora permettimi di riscaldarti» ammiccò maliziosamente e solo quello sguardo bastò a smuovermi qualcosa dentro. Con tutta la calma del mondo prese a baciare ogni centimetro delle mie braccia e io mi sentii impazzire già dopo pochi minuti. Il desiderio e la passione crescevano sempre di più e il non poterlo toccare e baciare a mia volta mi faceva perdere la testa, la mia unica consolazione erano i suoi capelli che torturai fino a renderli irriconoscibili.
Sorrisi quando baciò la pianta dei miei piedi, gemetti quando risalì lungo il mio polpaccio ed impazzii quando fu col viso così vicino al centro del mio piacere ma lo evitò. Il sole era orami un ricordo quando finalmente Storm tornò a concentrarsi sulle mie labbra e io morsi le sue con forza per prendermi una piccola rivincita. Presi coraggio ed iniziai a trafficare con i suoi jeans con l’intento di toglierglieli. Era la prima volta che sbottonavo i pantaloni di qualcun altro e mi sentii leggermente in imbarazzo ma il pensiero di essere con Storm mi tranquillizzò all’istante. Quando me lo ritrovai davanti solo in boxer il mio cuore perse diversi battiti e senza riflettere capovolsi la situazione. Lo colsi di sorpresa e riuscii a farlo stendere sul letto.
«Adesso ti ricambio il favore» dissi iniziando a baciare il pomo d’Adamo come avevo desiderato fare fin troppe volte in quei giorni. Lo sentii deglutire sotto le mie labbra e quel gesto mi diede il coraggio di osare. Baciai ogni singolo tatuaggio sul suo petto e mi soffermai maggiormente sul suo ombelico. Solo quando mi sentii soddisfatta mi allontanai da quella zona per scendere più in basso, sempre più in basso. Quando lo sentii deglutire e gemere mi bloccai staccandomi rapidamente da lui. «No, no signorino» lo ripresi da vera smorfiosa. Lo avrei fatto impazzire come lui aveva fatto con me.
«Sei tremenda» mi riprese afferrandomi per i fianchi e ribaltando la situazione. Mi baciò e le nostre lingue litigarono per il predominio. Ormai l’atmosfera si era alleggerita e al posto dell’ansia ora c’era solo pura passione. Le sue mani scesero ad afferrare la mia maglia ma si bloccarono un attimo prima di sfilarla. Storm mi guardò da sotto le fitte ciglia e osservai intensamente quegli occhi languidi e pieni di desiderio. Al mio cenno d’assenso mi sfilò la maglia e fui subito tentata dal coprirmi con le braccia i seni nudi ma mi trattenni. Storm mi osserva incantato e sembrava essere rimasto senza parole. «Sei bellissima» sussurrò un attimo prima di baciarmi per poi tuffarsi nel mio petto per baciare quella parte di corpo che prima non aveva potuto venerare. I toni si fecero sempre più bollenti e le carezze ancora più ardite finché non rimanemmo completamente nudi e pronti ad unire i nostri corpi fino a diventare una singola cosa.
«Storm..» lo bloccai un attimo prima di compiere il passo più importante della mia vita. La mia voce era carica di un emozione che non avrei saputo definire ma sapevo che quella era la cosa giusta da fare. Sentivo il bisogno fisico di unirmi a lui che ormai era diventato il centro di ogni mio pensiero.
«Lo so, piccola» disse con voce tremante e ansante. «La prima volta farà male anche se cercherò di essere il più cauto possibile».
Aveva ragione. Fece un male tremendo e riuscii a stento a trattenere un urlo. Morsi la sua spalla sudata talmente forte che temetti di avergli lasciato il segno dei miei denti. Dopo andò leggermente meglio. La soglia tra piacere e dolore era talmente sottile che oscillare tra l’una e l’altra era facilissimo.
Quella notte i nostri corpi si amarono come le parole non avrebbero mai fatto. Le nostre anime si unirono in una danza dolce e cadenzata e il legame che istaurarono era talmente solido e profondo che separarle al mattino avrebbe fatto un male cane.

 
Note
Rileggendo il capitolo posso dire che in fin dei conti non è niente..è la prima volta che scrivo qualcosa di più..ehm..rosso? Onestamente non so proprio come mi sia uscito perciò fatemi sapere tutto. Emozioni, sensazioni, previsioni per il prossimo capitolo, critiche, insomma ditemi un pò quello che vi pare. Vi sono mancata in queste settimane?
A me tantissimo ma onestamente non ho prorpio avuto la testa per scrivere. Un po' per mancanza di voglia ma mi sono fatta forza perchè non voglio abbandonare voi e i miei personaggi. Non adesso che manca così poco alla fine. 
Poi è iniziata la scuola e tra uscite alla sesta ora, modulo zero e compiti non sono proprio riuscita a far nulla. Giustamente direte: "la scuola è appena iniziata già sei piena?" E bene si, e credo anche di essere indietro con alcune cose (Filosofia..per esempio). Va bene, ciancio alle bande e bando alle ciance, cosa ne pensate di questo capitolo?

Credo che ulteriotri ringraziamenti sino unitili, quindi bacioni e buana serata
-B

P.S. Questa è la terza volta che faccio l'html di questo capitolo e credo che sia venuto un po' male e pieno di errori. Rivedrò il capitolo in questi giorni.

CAPITOLO RIVISIONATO IL 21/09

 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Dire addio ***



Banner fatto da me con photoshopCC, spero vi piaccia.


Consiglio l'ascolto di questa canzone che trovo stupenda nonchè inerente al capitolo





XXIX
Dire addio




Storm's point of view
 


Abbs,
ti scrivo per..onestamente non so di preciso perché lo sto facendo.
Il fatto che io sia talmente vigliacco da non svegliarti e parlare guardandoti negli occhi è ormai un dato di fatto. Il mio orgoglio, o almeno quel poco che conservo ancora, mi sta dilaniando a tal punto a confondermi. Pensiero e azione si stanno confondendo fino a rendermi incapace di fare qualcosa di sensato.
Non ho mai scritto una lettera in vita mia. Non ho mai scritto nulla, in realtà. Quei pochi temi scolastici che raramente facevo li portavo a termine svogliatamente e senza preoccuparmi di seguire un criterio logico tra mente e mano.
Tu, invece, hai tutta l'aria della prima della classe. Di quella che non saltava un compito nemmeno con la polmonite. Sono così tante le differenze tra di noi che non basterebbero i numeri per contarle.
Vedi?
Sto divagando senza una via da seguire. É questo quello che faccio io. Quello che sono. Io arranco tra una marea e l'altra alla disperata ricerca di una sponda senza mai riuscire a seguire una strada maestra. Nella vita ho sempre fatto scelte sbagliate che non solo hanno avuto conseguenze negative su di me, ma anche sugli altri. Forse l'unica cosa giusta che c'è in me è proprio il mio nome. Come una tempesta porto solo devastazione e dolore. Nato per distruggere.
Se ognuno di noi nasce con un compito e una missione da portare a termine allora questa è la mia.
Distruggere.
Tutto quello che tocco si rovina. La mia famiglia, Jack, Pen, Cheikh che ho coinvolto il questo casino. Te.
Ma se è vero che alla devastazione si può imporre un raggio d'azione voglio che tu non sia compresa. Sto provando ad aggiustare la vita di Jack sperando che lui abbia più fortuna di me insieme a sua figlia.
Se la nostra storia è già scritta allora la mia non prevede l'amore. Un'anima nera come la mia non merita un sentimento così puro.
Io non merito te.
Ti rovinerei e non lo posso permettere. Per una volta voglio fare la cosa giusta per una persona che non sono io. Chiamalo altruismo, chiamala gentilezza o col nome che più preferisci, le cose non cambieranno.
Quando ti sveglierai io sarò a chilometri di distanza da te, chilometri che diventeranno miglia e che renderanno la distanza tra me e te infinita.
Questa è la cosa giusta.
Forse se continuo a ripeterlo mi convincerò visto che al momento l'unica cosa che vorrei fare è riempirti di baci fino a farti svegliare e fare l'amore con te fino a perdere la cognizione del tempo e dello spazio.
Ma non posso.
Non posso perché tu mi hai reso una persona migliore, hai risvegliato in me il desiderio di fare del mio meglio e dare il meglio di me. C'è una parolina che meriti ti venga detta e vorresti che fosse la mia voce a pronunciarla, ma non posso.
Non posso perché altrimenti non potrei mai andarmene e tu non riusciresti a dimenticarlo.
Perciò..mi sanguina il cuore nel fare questo ma devo.
Addio.
Conserva solo il meglio di queste settimane e sappi che io farò lo stesso.
Forse ci rincontreremo in un'altra vita ma per adesso la nostra avventura termina qui.

Addio bambolina.



-Loran
 



Piegai il foglio con mani tremanti e lo poggiai sul lato vuoto del letto ancora caldo. Silenziosamente mi allontanai dal letto e mi infilai i jeans e allacciai gli stivali.
Sarei dovuto uscire dalla stanza senza voltarmi indietro ma non ce la facevo. Dovevo salutarla per l'ultima volta prima di lasciarla andare via per sempre. Lentamente mi avvicinai al suo lato del letto e mi accasciai sul suo corpo riempiendo i miei polmoni del suo delizioso profumo. Era così dolce e tenera che veniva voglia di mangiarsela.
Non resistetti alla tentazione di scostarle i capelli leggermente sudati del volto e baciarle le guance ancora arrossate dalla sera prima. Dovetti farmi forza e impedire alla mia mente di pensare alla notte che avevamo appena trascorso. Era troppo masochistico perfino per me.
Mi sollevai rimettendomi dritto e pronto a scappare quando una sua mano paffuta avvolse il mio polso rendendo la pelle bollente nel punto toccato.
«Storm..» biascicò con voce assonnata voltandosi dall'altro lato. Le presi il volto tra le mani e portai la mia fronte sulla sua.
«Dormi» le sussurrai dolcemente sperando che ricadesse tra le braccia di Morfeo.
Ad occhi chiusi si sporse verso di me poggiando le labbra sulle mie. «Non voglio dormire» sussurrò a occhi ancora chiusi e con voce impastata dal sonno.
«E invece devi. Sei stanca» la rabbonii cercando di farle cambiare idea. La baciai sperando di farla tacere. Poggiai le mie labbra sulle sue e la sentii mugugnare di piacere.
Arditamente schiusi le mie labbra e passai la lingua sulle sue tracciandone il contorno. La sua bocca si stese in un sorriso sulla mia e quel gesto così dolce mi fece perdere il controllo. Salii sul letto con le ginocchia divaricate ai lati del suo corpo ed Abby mi circondò il collo con le braccia attirandomi a sé. Il bacio divenne sempre più profondo. Lei mi attirò ancora più vicino mentre alzava il bacino venendomi incontro. Mi staccai dalla sua bocca per scendere a baciarle il mento per poi arrivare fino al collo. La mentre si stava offuscando sempre di più, l'istinto primordiale stava avendo la meglio e il corpo mi ordinava di soddisfare il mio desiderio che era lo stesso di Abby.
Lei indossava solo la maglietta e quando le mie mani la sollevarono vidi con sorpresa che non aveva nulla sotto. Persi il controllo dispensando e riservando carezze e attenzione soltanto a quella ragazza che in pochissimo tempo era diventato il centro di tutto.
I polmoni si riempirono del suo odore e del profumo della nostra passione bruciante. Le orecchie si deliziavano dei suoi gemiti. Gli occhi non riuscivano a smettere di ammirare tanta bellezza registrandone ogni fattezza. Il mio cuore si svuotava carezza dopo carezza mentre donava ad Abby quel poco di amore che era rimasto in me.
Nel momento in cui le stavo per sfilare la maglia i miei occhi si posarono sulla lettera e tutta la magia e l'ardente eccitazione si spense immediatamente. Mi bloccai respirando affannosamente sulla sua spalla per poi abbassare del tutto la maglia consunta.
«Che succede?» chiese ansante Abby sollevandosi sui gomiti.
Rotolai al suo fianco coprendo col mio corpo il pezzo di carta. «Devi dormire» risposi cercando di riprendere fiato. «E poi non è una buona idea farlo di nuovo. Fino a poche ore fa eri ancora vergine». Le spiegai sperando di non ferirla.
Lei annuì girandosi dall'altra parte. Poco dopo sentii il suo respiro regolarizzarsi fino a diventare del tutto normale. Solo quando fui del tutto sicuro che stesse dormendo mi alzai e uscii il più velocemente possibile dalla camera senza guardarmi indietro.

Era ancora notte fonda quando lasciai l'appartamento del mio migliore amico per i filarmi in macchina e raggiungere la mia casa dopo aver lasciato per sempre l'unica cosa giusta che mi era capitata nella vita.


**
Il piano era stato pensato in ogni minimo dettaglio. Eravamo pronti ad agire. Ogni cosa era stata organizzata alla perfezione e di questo dovevo rendere grazie a Cheick e Rute che mi erano stati a fianco.
Il sole era già alto in cielo e più di trenta macchine erano pronte all’azione e non vedevano l’ora di fare il culo alla polizia. Tutti avevano perso qualcuno o avevano conti in sospeso con la polizia. Ogni criminali che si rispetti non si sarebbe mai fatto scappare l’opportunità di mettersi contro i federali e di far saltare i loro piani, ma non mi aspettavo di certo che un numero così alto decidesse di schierarsi dalla nostra parte.
Quella mattina Rick mi aveva chiamato dicendo che lui e Cassy non avrebbero preso parte all’imboscata. Non potevo dargli torto. Nel profondo del mio cuore ero geloso della loro felicità e della stabilità che erano riusciti ad ottenere e, ad essere onesti, se fossi stato al loro posto, non ero del tutto convinto che mi sarei comportato in modo diverso. Li capivo e l’unica cosa che ero riusciti a dirgli era stato augurargli il meglio per il futuro e di tenersi il più lontano possibile del passato che portava solo guai.
Mi sentivo un vero ipocrita visto che solo pochi giorni prima ero stato proprio io a cercarli e chiedere loro aiuto consapevole di stare per tirarli a fondo con me.
In pochi giorni il mio modo di pensare era cambiato del tutto e questo era merito di Abby. Era solo grazie o per colpa sue se in quel momento a stento riuscivo a riconoscere i miei pensieri. Le mani mi prudevano e il corpo mi tradiva. Il desiderio di trovarmi altrove era talmente forte che nemmeno una sana corsa in auto, il brivido dell’adrenalina e l’odore di tabacco riuscivano a farmi smettere di pensare a la mia bambolina impertinente.
Lo squillo del cellulare mi ridestò dai pensieri.
Era Cheikh. Quello era il segnale. Era il momento di entrare in azione.




Narratore esterno

Una multitudine di macchine dai diversi colori sgargianti diedero gas in sincrono partendo all’inseguimento di un furgone blu scortato da sette volanti della polizia. Una decina di macchine superarano nettamente le altre e si posizionarono in prima fila superando la prima volante per poi farla uscire fuori strada in pochi secondi e con semplici mosse rese vincenti dell’effetto sorpresa.
In un attimo si scatenò il putiferio e dall’alto si vedevano solo un’accozzaglia di colori forti e metallizzati. Le macchine dei federali furono costrette a prendere le distanze del grosso Van blu per difendersi dagli attacchi feroci delle macchine imboscate.
Un Crossover bianco metallizzato col motore modificato e non del tutto a norma approfittò della situazione per accostarsi al Van e agganciarsi ad esso nella parte posteriore. Una testa scura spuntò dal lato del guidatore e lanciò, come se fosse un lazzo, una corda d’acciaio che terminava in un uncino.
Al terzo tentativo Storm riuscì ad agganciare la catena alla maniglia posteriore del furgone della polizia mentre l’altra estremità della catena era legata ben salda sotto il sedile del Crossover.
Il ragazzo frenò bruscamente arrestando completamente l’auto per poi inserire la retromarcia e partire a tutto gas. Gli pneumatici stridettero sull’asfalto consumandosi e formando un nuvolone di polveri bianche. Il furgone tentava di accelerare e proseguire in avanti mentre il piede di Storm schiacciava con maggior forza il pedale del freno mentre Cheikh, a bordo dell’altra macchina, si sgolava urlando all’amico di lasciare la presa sul furgone.
Storm aveva chiesto agli altri di occuparsi delle macchine della polizia mentre lui avrebbe pensato a liberare il fratello. Nessuno sapeva come avrebbe fatto, nemmeno il suo amico più fidato. La corda troppo corta ma abbastanza resistente da non cedere vibrava con troppa forza e il suo moto oscillatorio troppo veloce faceva pensare che non sarebbe durata a lungo ma la portiera del furgone cedette prima della catena e venne scardinata per poi ruzzolare a terra in direzione dell'auto di Storm.
Il crossover bianco balzò all’indietro cercando di allontanarsi il più velocemente possibile. L’auto modificata di Cheikh accostò sul retro del furgone mentre le altre macchine, delle quali piloti si erano già sbarazzati delle volanti a strisce bianche e blu, circondarono il Van impedendo al guidatore di proseguire oltre.
Il detenuto, che aveva visto ogni cosa, si abbandonò ad un salto degno dei migliori atleti e balzò a terra con le mani ancora ammanettate. Rapidamente salì nei posti anteriori della vecchia berlina mentre il ragazzo coi dread sorrideva al suo vecchio amico.
La somiglianza tra Jack e suo fretello era tanta che i due potevano facilmente passare per gemelli.

«Ben ritrovato, amico» sorrise bonariamente guardando il detenuto in tuta arancione dallo specchietto mentre un gran fragore di vetri rotti e pneumatici stridenti riempiva le loro orecchie.
Il furgone dal quale era appena saltato fuori Jack fu mandato fuori strada e una massa di macchine si dispersero in pochi secondi senza preoccuparsi di chi si lasciavano dietro.


Il pilota dell’elicottero delle forze armate rimase sbalordito dalla scena che gli si presentava sotto i suoi occhi. Le auto della polizia erano quasi tutte capovolte oltre il bordo della strada. Diversi agenti erano riversati a terra in un bagno di sangue. Due macchine civili stridevano in quello scenario poliziesco. Un Crossover bianco era capovolto su un fianco con la parte anteriore fumante mentre una vecchia berlina rossa correva verso quello che ormai era un cumulo di ferraglia bianca.


The end.


 


Note conclusive.
Salve mi care e appassionate lettrici, era un po’ che non ci sentivamo. Mi scuso per il ritardo ma come sapete la scuola è iniziata e porta via molto tempo. E ovviamente non dimentichiamoci della vita privata che ogni tanto va curata.
Quindi ciancio alle bande e bando alle ciance concentriamoci su questo capitolo che già vedo le vostre facce sconvolte.
Credo che per l’inizio del capitolo non servano spiegazioni. Nello scorso capitolo vi ho lasciato con a domanda: secondo voi Abby se ne va o no? E la giusta risposta era: è Storm che la lascia.
Spero che nella lettera abbiate trovato tutte le sue motivazione. Questa era nata come una storia d’amore impossibile e tale doveva rimanere. Come sempre per ogni chiarimento potete contattarmi o lasciarmi una recensione in cui spiegate tutte le vostre perplessità. La parte finale è un po’ più incasinate.
Non preoccupatevi ci sarà un epilogo in cui spiegherò per bene ogni personaggio che fine fa..o che morte fa.
Quindi la storia si conclude qua.
Non so se tra di voi c’è qualcuno che mi conosce come autrice e sa che non sono una tipa da happy ending soprattutto se poco razionale.
Ci tengo a ringraziare di cuore tutte e dico tutte, dalla prima all’ultima, ragazza o ragazzo (non so se ci siete anche voi!!) che ha seguito questa storia. Spero che l’abbiate apprezzata e soprattutto che vi abbia emozionato e trasmesso qualcosa. Non ho la pretesa di pensare che quest’ultima sia una lezione di vita, mi accontenterei anche di avervi fatto passere due minuti di spensieratezza.
Un bacio enorme a tutti e spero che continuerete a seguirmi e a leggere le mie storie.
In testa ne ho ben tre nuove e spero di riuscire a portarle tutte a termine come ho fatto che Oblio. È la prima storia a cui metto un punto conclusivo e non ho ancora ben capito come mi sento.
Consiglio l’ascolto della canzone sopra.
E non demordete, presto arriverà l’epilogo. Quindi non perdere le speranze.
Grazie di cuore

-Bibersell

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Epilogo ***


 

Banner fatto da me con PhotoshopCC, spero vi piaccia

Consiglio l'ascolto di questa canzone che è davvero stupenda.

 

Voglio ringraziare tutte le lettrici che mi hanno supportata fin dall'inizio, hanno creduto in questa storia e mi hanno spronata a scrivere quando volevo abbandonarne la stesura.
Se oggi posso mettere una fine ad Oblio è solo grazie a voi.
Questo capitolo conclusivo è tutto per voi.





Epilogo


 
Abigail's poit of view

Nove mesi dopo.


Tornare a casa era stato un vero incubo. Rivedere i miei genitori, i miei amici, la mia casa e riprendere le vecchie abitudini era stato un trauma.
Da quando mi ero svegliata da sola nella camera di Cheikh e avevo letto quella lettera avevo smesso di respirare. Il mio cervello sembrava non capire cosa fosse successo e si rifiutava di ammettere che Storm mi aveva abbandonata. Proprio lui mi aveva lasciata nella disperazione totale dopo tutto quello che avevamo condiviso. Aveva avuto il coraggio di andarsene dopo che avevamo fatto sesso.
Se era vero che il dolore si divideva in cinque stadi allora voleva dire che quello che provavo io non lo era. La delusione provata in un primo momento si era immediatamente trasformata in una rabbia cieca che non mi aveva ancora abbandonato. Anzi, aumentava ogni volta che rileggevo la lettera e pensavo a lui. Praticamente era una linea retta che andava a salire ogni minuto.
Quel giorno stesso ero tornata a casa. Rivedere mio padre era stato duro. Non gli ho rivolto la parola per mesi ma alla fine avevo capito che rimaneva pur sempre mio padre. Era comunque l'uomo che da piccola mi dondolava sull'altalena e mi rimboccava le coperte alla sera. Mia madre mi aveva supportata standomi accanto anche quando le urlavo di lasciarmi in pace. Con pazienza e amore mi consolava. Voleva che le raccontassi cos'era successo e sosteneva che solo parlandone sarei potuta uscirne.
Pensavano che avessi subito un trauma fisico o che avessi visto che terribili. Non sapevano che ed essere ferito era il mio cuore e non la mia mente. Quella era solo la conseguenza di un amore impossibile, non corrisposto, finito ancora peggio di come era iniziato.
Dopo tre settimane di silenzio da parte mia, mia madre si era arresa e mi aveva convinta ad andare da un psicologo. Sapevo che era inutile, che i problemi di cuore non si curavano così ma acconsentii per il bene che le volevo. Quella donna mi amava e vedevo il dolore che le procurava la mia sofferenza. E se potevo fare qualcosa per farla stare meglio allora l'avrei fatta.
Alla fine andare da uno specialista risultò fruttifero. Il dottore non mi fu di grande se non nessuno aiuto, ma il ragazzo che conobbi in sala d'attesa lo fu eccome. Si chiamava Connor e accompagnava la sorella minore dall'analista da quando i loro genitori si erano separati quasi un anno prima. Parlavamo del più e del meno ed erano passate settimane prima che mi chiedesse di uscire. Prima di accettare ci tenni a precisare che non sarebbe stato un appuntamento ma solo un'uscita tra amici.
Uscire con lui mi aveva fatto bene e grazie a Connor avevo riscoperto il piacere e la serenità che solo una buona uscita tra amici poteva dare. Lui era riuscito a darmi pochi attimi di spensieratezza durante i quali la mia mente non aveva Storm come pensiero fisso. Dopo quell'uscita avevo chiamato Jenny che in quei masi avevo totalmente ignorato. In un primo momento mi rimproverò per non averla considerata da quando ero tornata ma l'arrabbiatura le passò in breve tempo.
Jen fu l'unica a cui raccontai di Storm. Capì quasi subito che il mio turbamento non era dovuto a una questione mentale. Le parlai di lui e, come avevo presupposto in quelle due settimane passate con Storm, lei già lo adorava e quando le dissi che mi aveva abbandonato con una lettera Jen aveva sostenuto che quello era il tipico comportamento da Heathcliff e che come tale era pazzo di me solo che era troppo stupido, vigliacco e orgoglioso per ammetterlo e aveva scelto la strada più facile.
Quell'analisi così "letteraria" mi fece sorridere per la prima volta dopo mesi. Grazie a Jen avevo iniziato a prendere la faccenda con sarcasmo. Jen mi raccontò di come lei e Constantine si erano avvicinati in quelle settimane e di come lui le era stato vicino e di come si stavano innamorando.
A Natale si misero ufficialmente insieme e fui felice per loro ma non potei non provare un minimo di invidia. La loro storia era nata e sbocciata consuetamente. Si erano conosciuti ed erano usciti insieme per parecchio tempo e avevano cercato di capire se potevano funzionare come coppia. Avevano costruito qualcosa di sano e duraturo mentre quello che avevo avuto io con Storm in quelle settimane era stata solo passione selvaggia consumata in poche ore.
Diverse volte avevamo fatto delle uscite a quattro con Connor ed era stata proprio in una di quelle sere che avevo capito di essere ancora innamorata di Storm.
Eravamo in una discoteca ed entrambi, io e Connor, eravamo allegri e brilli. Stavamo ballando molto vicino e ridevamo senza motivo come due ebeti. Ad un certo punto Connor mi aveva baciata senza preavviso ed era stato in quel momento che l'avevo capito. Per quanto potessi far finta di non sognarlo tutte le notti e di non pensarlo di giorno non potevo negare di essere ancora presa da lui. Mi era entrato nel cuore e non se ne sarebbe andato facilmente nonostante tutto il dolore che mi aveva provocato. Ero arrabbiata con lui, volevo delle spiegazioni ma ero ancora perdutamente e profondamente innamorata di Storm. E la cosa più divertente era che lui non l'avrebbe nemmeno saputo. Probabilmente se ne stava su un'isola caraibica a spassarsela con una brasiliana. Quel pensiero mi fece raggelare e ricambiai il bacio di Connor.
Il sapore era diverso. I brividi inesistenti. Il modo di accarezzare le mie labbra era sbagliato. Il mio corpo non bruciava a contatto con quello di Connor. Semplicemente Connor non era Storm.
Mi allontanai da lui e abbandonai la discoteca in lacrime con la consapevolezza di dover ricominciare una nuova vita.


Dopo le feste di Natale mi trasferii nel mio nuovo appartamento a Chicago. Avevo deciso di cambiare completamente aria trasferendomi a distanza di ore di macchina dai miei. Ci sentivamo ogni giorno e andavo a trovarli tutti i fine settimana. Agli inizi di gennaio mi ero iscritta a lettere moderne e avevo iniziato il nuovo semestre in una magnifica università che mi piaceva molto.
Avevo conosciuto gente nuova e mi ero fatta il mio gruppo di studio. Jen e Constantine erano rimasti a Washington e avevano cominciato lì giurisprudenza fiduciosi di poter poi conseguire un master con mio padre.
Il mio nuovo appartamento era al centro di Chicago in un vecchio palazzo che pullulava la neolaureati. Era passato un mese da quando mi ero trasferita e nove mesi da quando avevo scoperto che se anche il tuo cuore viniva spezzato in due la vita intorno va avanti e l'unico modo per non farsi sopraffare è rimboccarsi le maniche e ricominciare da zero.

Il freddo di Febbraio a Chicago lacerava la pelle. Rabbrividii sotto i miei due maglioni e il piumino. Percorsi i pochi isolati che mi separavano dal mio condominio il più velocemente possibile.
Camminavo a testa bassa consolandomi al pensiero che tra poco mi sarei riscaldata nel mio appartamento. Uscita dall'università mi ero fermata in una tavola calda per riscaldarmi ed avvantaggiarmi. A casa mi aspettavano altri scatoloni da aprire e sistemare. Nonostante mi fossi trasferita un mese prima non ero riuscita a portare tutte le mie cose nel nuovo appartamento e i miei genitori me le stavano inviando a piccole dosi.
Affrettai il passo in quella serata gelida. Erano solo le sette del pomeriggio e il cielo già era buio pesto. Le ombre della notte già erano scesa su quella fredda Chicago.
Arrivata al cancello del palazzo cercai le chiavi nella borsa con mani viola e quasi paralizzate dalla bassa temperatura. Avevo dimenticato mi mettere i guanti quella mattina e il risultato era impiegare cinque minuti buoni per afferrare il mazzo delle chiavi.
Aprii il cancello e salii di corsa i tre piani di scale. Arrivata fuori alla porta una fitta mi colpì il basso ventre. Fu così forte che mi appoggiai allo stipite della porta. Girava una brutta influenza in quel periodo e temetti per la mia salute. Non potevo ammalarmi proprio in quel momento, non quando avevo il primo esame a breve.
Aprii la porta di casa per poi richiudermela alle spalle. L'appartamento era buio, solo la debole luce del lampione stradale filtrava tra le pesanti tende. Poggiai le chiavi sul tavolino e accesi la lampada da soggiorno. Una flebile luce calda illuminò l'ingresso quel poco che bastava per permettermi di posare la borsa sulla credenza e accasciarmi per lasciare una carezza sul dorso di Mercoledì, la mia bellissima gatta.
Quando avevo deciso di prendere un gatto avevo da poco finito di leggere Robinson Crusoe e, come lui aveva chiamato il suo amico Venerdì perché trovato in quel giorno, allora io avrei fatto lo stesso con la mia gattina.
Mercoledì si stiracchiò sotto le mie carezze e miagolò di piacere.
«Siamo in vena di coccole, oggi» dissi alzandomi e dirigendomi in camera da letto. Al buio attraversai il corridoio e mi spogliai lasciando i vestiti per terra. Quando arrivai in camera ero solo in jeans e reggiseno. Presi in braccio Mercoledì e la coccolai mentre lei si accoccolava sul mio petto.
«Alla mia gattina piace stare sul mio seno, vero?» dissi. Ormai avevo instaurato un vero rapporto di amicizia con lei. All'inizio mi sentivo un po' fuori di testa a parlare con un animale ma poi avevo capito che non c'era nulla di male, anzi lei mi capiva meglio di altre persone.
Mercoledì continuava a pretendere attenzioni da me e io continuavo a coccolarla ma non sembrava mai soddisfatta. Quando mi morse un seno gemetti dal dolore.
«Cattiva Mercoledì. Non si fa» la rabbonii facendola scendere. Lei prese a trotterellare su se stessa ma io la ignorai. Mi levai i jeans ancora sulla porta della camera e rimasi solo in intimo. Da quando vivevo da sola avevo preso l'abitudine di girare per casa nei modi più strani non curandomi di essere nuda o meno.
Quello era uno dei tanti vantaggi del vivere da sola. Quello e poter tenere la porta del bagno aperta. Mi affrettai ad indossare il pantalone del pigiama. Era rosa, di pile e con dei graziosissimi orsacchiotti disegnati. Presi una semplice magliettina a mezze maniche bianca, quella magliettina bianca. Quella che aveva comprato Storm la prima sera e mi aveva fatto indossare al posto del mio vestitino rosa. L'avevo lavata e adesso la usavo come pigiama. Avevo cercato di sbarazzarmene ma non ci ero riuscita. Di lui non avevo nulla, se non i ricordi. Quella maglietta era l'unica cosa tangibile che testimoniava che quelle due settimane erano accadute veramente e non erano solo un lunghissimo sogno.
Mercoledì continuava ad agitarsi e io non capivo il perché. «Ma come siamo iperattive oggi» le dissi superandola e dirigendomi in soggiorno. Dal corridoio vidi la luce accesa al centro della sala. Quando ero entrata avevo acceso la lampada sulla credenza, non avevo premuto l'interruttore. Mi agitai. Che Mercoledì avesse percepito prima di me la presenza estranea?
Strinsi le mani a pugno intorno alla mia ciabatta e a piccoli passi mi diressi in soggiorno. Lo sapevo che una pantofola non avrebbe potuto fare granché ma era sempre meglio di nulla.
Girai il corridoio e per poco non caddi a terra. Retrocessi fino a finire contro il muro.
Non poteva essere vero. Quello seduto sulla poltrona non era lui.
«Una volta gli spogliarelli li concedevi solo a me» 
Quello che aveva appena parlato non poteva essere Storm.



Dopo il “fatidico” giorno sulla testa di Storm e Jack posavano due grosse taglie e la società gli aveva etichettati come ricercati. Le loro foto segnaletiche avevano fatto il giro dei telegiornali per settimane. Io, in cuor mio, non sapevo cosa sperare. Da una parte volevo che li trovassero, che trovassero Storm e che finalmente lo potessi guardare in faccia con i miei occhi pieni di rabbia e chiedergli come avesse potuto lasciarmi solo in casa di Cheikh.
D’altra parte, ogni sera pregavo affinché non lo trovassero. Il solo pensiero di saperlo in una cella mi faceva impazzire. Dopo mesi le ricerche si erano fatte meno insistenti e io mi ero rassegnata al fatto che non l’avrei mai più rivisto.
Per questo era impossibile che lui, proprio lui, fosse davanti a me. Non quando poteva rischiare di essere arrestato. Era venuto proprio nello stato di Washington, dove la magistratura di mio padre era potere assoluto. Solo un pazzo avrebbe fatto una cosa del genere.
«C-che ci fai qui?» balbettai con un filo di voce. Mi appoggiai completamente alla parete. Le mie gambe erano fuori uso, non avrebbero mai retto tutto il peso del mio corpo.
Lo vidi alzarsi dalla poltrona e venirmi incontro. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era il suo aspetto. Era più bello che mai. I lineamenti della mascella sembravano ancora più netti e marcati con quel filo di barba che gli donava un aria trasandata. Brillava di un fascino nuovo.
I suoi occhi sembravano essersi fatti ancora più chiari e severi e la laro sfumatura di sofferenza si era fatta ancora più fitta. Indossata una magliettina leggera azzurra consunta dai troppi lavaggi e lisa in diversi punti che faceva risaltare i suoi due zaffiri.
Mi guardai in giro alla ricerca di una giacca ma non vidi nulla e mi chiesi come avesse fatto a non andare in ipotermia con solo quella semplice maglia. Quel pensiero mi riportò alla mente le numerose discussioni fatte ormai quasi un anno fa nella sua macchina. Storm soffriva davvero il caldo.
Face qualche passo nella mia direzione ma poi si bloccò al centro del soggiorno. «Sei cambiata» disse semplicemente.
Avevo dimenticato quanto le sue improvvise uscite potessero spiazzarmi.
«Beh anche tu» replicai con un pizzico di risentimento. Lui sorrise leggermente ma senza mostrare i denti e si passò una mano lungo la mascella.
«Ho scoperto che al mattino si risparmia parecchio tempo» disse riferendosi alla lunghezza dei peli sul suo volto. «Hai tagliato i capelli» continuò facendo un passo verso di me e alzando il braccio come a volerli toccare ma tra di noi c’erano come minimo tre metri.
«Ho scoperto che impiego meno tempo per asciugarli» risposi alla sua stessa maniera. Avevo deciso di tagliarli il mese scorso, dopo essermi trasferita. Volevo dare un taglio netto alla mia vita e avevo deciso di cominciare proprio dal mio aspetto. Una bella spuntata di capelli. Adesso li portavo corti, arrivavano sotto la mascella.
Quando mi ero guardata alla specchio la prima volta avevo pensato: “ecco adesso somiglio veramente ad una bambolina”. Gli occhi mi si erano riempiti di lacrime e appena ero uscita dal negozio mi ero lasciata andare ad un pianto che sembrava infinito.
Ma i capelli non erano l’unica cosa che avevo cambiato. Avevo detto addio alle lentine a contatto ed avevo acquistato una montatura nera e rotonda che mi faceva sembrare una studentessa modello. Avevo anche pensato di tingermi i capelli rinunciando al mio biondo naturale.
«Ti stanno bene gli occhiali». Storm parlò di nuovo e la sua voce mi ridestò dai miei futile pensieri.
«Storm..» dissi staccandomi dalla parete «perché sei qui?» chiesi in tono calmo. Dentro avevo così tanta rabbia che credevo che appena lo avessi rivisto gli sarei saltata addosso e gli avrei staccato la testa a morsi. E invece no, ero calma. Almeno in apparenza.
«Mi trovavo da queste parti e mi sono detto: perché non salutare una vecchia amica? Ed eccomi qua. Come stai, Abigail?» disse col sorriso sulle labbra e in tutta serenità.
Come si diceva? Le ultime parole favose, giusto?
In un attimo mi staccai dalla parete e con un balzo felino degno di Mercoledì gli fui addosso. Lo slanciò su talmente potente che lui perse l’equilibrio e cadde a terra rotolandosi sul tappeto. Gli fui subito sopra e la mia mano partì in uno schiaffo che tanto avevo sognato di dargli.
Dopo mi sentii molto meglio ma gliene diedi anche un altro sull’altra guancia. «Tu mi hai lasciata da sola. Non puoi neanche immaginare cosa ho provato quando mi sono risvegliata da sola in un letto che non era il mio. In una casa che non era la mia e, dannazione, in un paese che nemmeno conoscevo!» mi sfogai ancora sopra di lui.
Il suo sguardo si fece serio e l’aria intorno a noi si riempì di sofferenza e parole non dette. «Sono stato un bastardo, okay? E mi merito tutti gli schiaffi di questo mondo ma non fare l’errore di pensare che io non sia stato male» ribadì sollevandosi sui gomiti e portando il suo viso a pochi centimetri di distanza dal mio.
«Certo, come no» dissi sarcasticamente. «Spassarsela tutte le sere con una ragazzetta diversa deve essere davvero stancante». Risi amaramente staccandomi da lui e mettendomi in piedi.
Lui, sconvolto, rimase steso sul tappeto. «Cosa?» sbalordito si rimise in piedi ma si tenne a distanza da me. Stare vicini non ci faceva bene, rendeva le nostre menti irrazionali e quello non era proprio il momento adatto per scegliere di mettere fuori gioco il cervello.
«Tu pensi che in questi mesi me la sia spassata? Pensi davvero che avrei potuto farti una cosa del genere dopo quello che abbiamo passato?» si stava arrabbiando e non concepivo che lo fosse. Io era l’unica tra i due che aveva diritto ad essere arrabbiata.
«Fino a prova contraria sei stato tu ad andarne nel bel mezzo della notte» replicai fermamente passandomi le mani tra i capelli.
«Si, e lo rifarei altre cento volte se servisse a tenerti al sicuro» urlò muovendosi sul posto.
Quella sua ammissione mi lasciò leggermente interdetta e restammo in silenzio per diversi minuti.
«Al sicuro da chi, Storm? Da mio padre? Dalla polizia?» chiesi spostandomi verso la finestra. Mi serviva una ventata d’aria fresca. L’aria si stava facendo troppo soffocante.
«Da me. Volevo tenerti lontano da me, Abbs» disse abbassando il tono di voce.
A quelle parole mi voltai a guardarlo. Quella storia l’avevo già sentita. «E allora perché sei qui?» dissi sentendo le lacrime e un passo dalla sgorgare. «Non capisci che così mi fai solo più male? Io ero innamorata di te e quella mattina di hai spezzato il cuore. Sono stata male e adesso sto cercando di rimettere insieme i cocci, di rifarmi una vita. E tu non sei compreso nei miei progetti». Una lacrima scese lungo la mia guancia e gli occhi di Storm ne seguirono il percorso. «Vattene e non tornare mai più».
Mi voltai e lasciai che le lacrime sgorgassero. Rivederlo aveva riaperto una ferita la cui cucitura era stata fatta da un dottore inesperto e con mani poco salde.
Delle braccia, le sue braccia, mi abbracciarono da dietro e, impotente, mi lasciai toccare e consolare. Lentamente mi voltai e piansi sul suo petto quelle che speravo fossero le mie ultime lacrime.
«Vattene» biascicai a bassa voce con la testa sprofondata ancora del suo petto e le braccia allacciate al suo collo che lo stringevano a me. «Ti prego, vattene e non tornare mai più».
Lo imploravo di andarsene mentre il mio corpo non faceva altro che stringerlo a me. Tra le lacrime sollevai il volto e avvicinai le mie labbra alle sue in un gesto di pura follia. Fu un bacio lento e doloroso. Sembrava non finire mai. Le mie mani gli sfioravano la barba che non era ispida come sembrava, ma anzi era morbida e piacevole al tatto. Scoprii che mi piaceva e non avrei voluto che se la tagliasse mai più.
Gli toccai i capelli e glieli scombinai supplicandolo di non pettinarsi mai più. Doveva portare i segni del mio passaggio. Le sue mani sembravano toccare ogni parte del mio corpo, erano ovunque e io volevo che lo fossero. Più le mie labbra lo pregavano di andarsene tra un bacio e l’altro più le sue carezze si facevano ardite e io lo stringevo con maggior forza a me. Mi stavo facendo del male da sola, stavo infilzando il coltello nel mio cuore e con ogni bacio lo gettavo sempre più in profondità.
Quando cademmo per terra e ci rotolammo sul tappeto, ripresi un minimo di autocontrollo e mi bloccai allontanandolo da me. Non potevamo, dopo separarsi sarebbe stato ancora più difficile.
«Vattene» disse e questa volta mi allontanai da lui. Ingoiai le lacrime e mi ricomposi sedendomi sul divano e cercando di imporre la massima distanza tra di noi. «E non tornare mai più».
Chiusi gli occhi e mi girai aspettando di sentire il rumore della porta chiudersi e con esso porre fine definitivamente a quella storia. Sentii i suoi passi muoversi per la stanza e poi il rumore della porta che si apriva. Con il fiato sospeso aspettai di sentire il rumore di chiusura e quando lo sentii il mio cuore andò definitivamente in pezzi. Scoppiai in mille singhiozzi che nemmeno Connor, Jen e Constantine avrebbero potuto fermare.
Era finita sul serio e, questa volta, ero stata io a mettere il punto. Mi alzai sconvolta dal divano e vidi Storm ancora vicino alla porta. Non se n’era andato.
Mi bloccai. Lui venne verso di me, mi prese il volto tra le mani e mi baciò le labbra sussurrando su di esse. «Non potevano andarmene. Non di nuovo. Non senza averti detto quello che dovevo già confessarti nove mesi fa».
«Ti amo. Ti amo come non ho mai fatto e sei la cosa più bella che mi sia mai capitata» mi guardò negli occhi e li vidi lucidi e pieni d’amore. «Mi sono innamorato di te nel momento in cui ti ho vista a quella festa col tuo vestitino rosa. Eri così impertinente e non avevi paura. Non di me. All’inizio di ho odiato. Ti odiavo perché non ti potevo avere, perché non saresti mai stata mia. Avrei dato di tutto pur di essere come te, degno di te quando. Invece sono solo quello che ti ha usata per riavere il fratello. Il cattivo della storia. Ti ho amato per tutto il tempo, solo che non me ne rendevo conto. L’ho capito solo quando ti ho persa. Uscire da quella casa sapendo che non ti avrei più rivista è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto e quando ho rischiato di perdere la vita salvando quella di mio fratello ho capito di aver sbagliato tutto. Avevo fatto di nuovo la scelta sbagliata. Ho rischiato mi perdere la vita e in quell’istate mi sono pentito di non essere rimasto in quel letto con te. Mi sono arrabbiato con me stesso e con mio fratello». Fece una pausa durante la quale l’unica cosa udibile erano solo i miei singhiozzi.
«Ma questo non importa adesso, abbiamo tempo per parlare. Io voglio te. Ti volevo nove mesi fa, ti voglio oggi e ti vorrò anche tra dieci anni. Ti amo e il mio amore è per sempre».
Lo baciai con voracità. Lui mi prese in braccio e prese a camminare per casa e ci fermammo solo quando la mia schiena sbatté contro l’anta del frigorifero. Ridacchiai sulle sue labbra.
«Vieni via con me» mi disse e io rimasi paralizzata. Mi gelai sul porto e lui se ne rese conto. I suoi occhi si rabbuiarono ma continuò lo stesso. «Viene con me in Svizzera. Lì saremo al sicuro e potremo vivere insieme»
Lo guardai negli occhi non sapendo cosa rispondergli. Voleva che mi rimettessi in gioco. Di nuovo. E questa volta lo avremmo fatto insieme. Avrei avuto lui, che era tutto quello che avevo desiderato in quei mesi ma avrei dovuto rinunciare per sempre ai miei genitori, ai miei amici, all’università.
«Dovrei rinunciare a tutto..» dissi a voce alta senza rendermene nemmeno conto.
«Hai tempo per pensarci, amore mio» disse accarezzandomi i capelli e quelle parole mi fecero battere il cuore.
«Domani l’aereo parte all’una. Fino a mezzogiorno ti aspetterò al bar dell’università. Se non ti vedrò avrò la tua risposta» disse guadandomi negli occhi. «Io ti amerò per sempre, indifferentemente dalla tua decisione».
Mi fece scendere e le mie gambe toccarono il pavimento.
Mi baciò la punta del naso. «Arrivederci, bambolina» disse e questa volta uscì definitivamente da quella che era stata casa mia negli ultimi due mesi.
Storm aveva ragione. Comunque sarebbero andate le cose il nostro amore non sarebbe cambiato. Quello non era un addio, era solo un arrivederci.





 

Note
Adesso la storia è definitivamente conclusa.
Il capitolo è più lungo del solito e spero che mi sia fatta perdonare per il capitolo di ieri. Anche questo finale è molto aperto. Ho voluto lasciare una porta aperta. Sta a voi immaginare cosa succederà. Ci tengo a precisare che non ci sarà un sequel e che la storia è definitivamente finita.
Ringrazio di cuore tutti e spero di iniziare una nuova avventura con tutti voi. A breve inizierò la revisione di questa storia e ne comincerò anche altre che spero vi rubino il cuore come hanno fatto Abby e Storm.
Come sempre fatemi sapere cosa ne pensate di questo finale. Vi è piaciuto? Dopo l’ultimo capitolo vi aspettavate un epilogo diverso? Cosa importantissima: Storm non è morto, credo che questa renda felici un po’ tutti.
Un bacio e un abbraccio grandi quanto l’amore di Storm per Abby (e vi assicuro che l'ama davvero tanto).

A presto,
-R

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3148393